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DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA (prof Chiara Amalfitano)

26-2-18

[I FREQUENTANTI FANNO SOLO LA PARTE ISTITUZIONALE]

La Comunità Economica Europea costituita nel 57 e poi trasformata in Unione Europea nel 92; viene istituita
anche la cittadinanza dell’Unione, quindi i cittadini hanno una serie di diritti come quello circolazione, cioè il
diritto di spostarsi liberamente negli altri stati membri. Un giudice olandese ha sollevato una questione davanti
la Corte di Giustizia dell’UE con sede a Lussemburgo: che ne è dei cittadini britannici che si trovano al di fuori
della Gran Bretagna? perderebbero la cittadinanza dell’UE?
Cos’è l’UNIONE EUROPEA? È un’organizzazione internazionale, più precisamente sovranazionale, perché è vero
che è un soggetto di diritto internazionale, ma ha una personalità giuridica DERIVATA, cioè esiste solo nella
misura in cui ci siano più stato che decidono di creare quell’organizzazione con determinate
funzioni/competenze per raggiungere terminati obiettivi (derivata da quella degli stati), diversamente da quella
dello stato singolo che è un a personalità giuridica ORIGINARIA. È una organizzazione internazionale particolare,
per questo si parla di “sovranazionale”; l’internazionalismo ormai è superato, ma abbiamo anche un fenomeno
di federalismo incompiuto, perché dal punto di vista dall’organizzazione e meccanismo decisionale e di
competenza è molto più simile ad uno stato che non ad una organizzazione internazionale. L’integrazione è
molto più forte quindi per alcuni atti non è neppure necessario un meccanismo di adattamento. L’integrazione
tra ordinamento sovranazionale e quello interno è molto più forte rispetto ad altre organizzazioni. Nel 1963 la
Corte di Giustizia ha adottato una famosissima pronuncia che è la sentenza della causa 2662 (26 esima causa
introdotta nel 62) del 63, con cui ci dice che la Comunità Economica Europea è una organizzazione internazionale
di nuovo genere. Così facendo sottolinea la specificità rispetto qualunque altra organizzazione internazionale
creata fino a quel momento. Una delle caratteristiche fondamentali è dovuta al fatto che i SOGGETTI di questa
organizzazione di “nuovo genere” non sono soltanto le istituzioni dell’organizzazione (che servono per esercitare
le loro funzioni) e gli Stati, ma sono soggetti anche gli INDIVIDUI. Quindi c’è una incidenza diretta per le
istituzioni dell’UE, quindi possono adottare degli atti che incidono direttamente sugli individui, senza che ci sia
l’intermediazione dello Stato, quindi il Regolamento può imporre degli obblighi o diritti direttamente senza
passare per i singoli stati. Organizzazione che si fa per piccoli passi; c’era chi nel 1941 pensava in grande, alla
creazione di una Europa federale, cioè di un grande Stato federale, gli Stati Uniti d’Europa (come il modello USA).
C’è chi dice che il modello federale europeo è una sorta di processo costituente permanente ma che forse non si
concluderà mai, anche se nel corso degli anni abbiamo avuto una progressiva estensione delle competenze
dell’UE, ma anche territoriale, infatti sono entrati molti stati. Quindi originariamente la Comunità Economica
Europea era formata da 6 stati (Italia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Francia) con lo scopo di cercare di
gestire i giacimenti di carbone e acciaio in modo pacifico, quindi la finalità era molto ridotta, poi fatto il primo
piccolo passo (nel 1950 Schumann, ministro degli esteri francese, disse che l’Unione non si farà in una volta sola
ma a piccoli passi) si crea una organizzazione è più grande, con la libera circolazione di persone, merci, servizi e
capitali, che erano gli obiettivi dell’organizzazione del 1957. Si parla di persone attive, ossia lavoratori autonomi
o subordinati. Ad oggi le competenze dell’UE sono molto più estese. L’UE ormai si occupa di qualsiasi cosa. Vi
sono delle competenze che sono rimaste agli stati singoli, per esempio le modalità di acquisto o di perdita della
cittadinanza (è lo stato che decide in presenza di quali condizioni si perde o acquisisce la cittadinanza dello
stato), ma anche questa competenza deve comunque essere esercitata nel rispetto dei diritti fondamentali
fissati dal diritto dell’UE, quindi non si possono pregiudicare le regole fissate dal diritto dell’UE (lo dice la Corte di
Giustizia). Esempio: nel 1989 un signore inglese in vacanza a Parigi veniva aggredito all’uscita della metro, e
l’autore del reato restava ignoto, e la legislazione francese dell’epoca prevedeva che l’indennizzo della vittima
era a carico dello Stato nel caso in cui l’autore fosse ignoto, ma l’indennizzo era solo a favore dei cittadini
francesi. Il signore inglese allora solleva la causa per discriminazione sulla base della nazionalità davanti la Corte
di Giustizia. Perché nel definire le norme di diritto penale non si può violare una norma di diritto dell’UE sul
principio di non discrezionalità sulla nazionalità.
Il legislatore dell’Unione è il PARLAMENTO E CONSIGLIO EUROPEO. Originariamente era il Consiglio dei ministri
dell’unione, ma progressivamente si sono ampliate le competenze del Parlamento europeo, che rappresenta i
cittadini, e il Consiglio europeo che rappresenta gli stati.
Il diritto dell’Unione ormai si occupa di qualsiasi cosa. È vero che noi abbiamo atti vincolanti ma anche norme di
“soft law” con cui l’UE dà dei consigli agli stati, senza essere vincolanti, però c’è una indicazione ad intervenire.
L’Unione si occupa di grandi questioni di principio ma anche di dettaglio, come l’etichettatura di prodotti, come
quelli alimentari (cosa deve essere iscritto sull’etichetta, per rendere evidente la provenienza). Si occupa anche
di quello che è stato definito il “diritto all’oblio”: con la sentenza del 2014 dove la Corte di Giustizia obbliga a
rimuovere dai risultati che compaiono sul motore di ricerca quelle notizie nella misura in cui non ha più una
rilevanza di tipo pubblico, per tutelare la privacy del soggetto interessato.
Quindi il diritto dell’UE interviene in molti ambiti. Il diritto dell’UE più che materia è un FONTE.

27-2-18
28 maggio primo appello
Si parla di una “autentica mutazione genetica” per quanto riguarda questa organizzazione.
Trattato di Lisbona è un trattato modificativo
Nel 1957 c’è l’istituzione della comunità economica europea, e prima lo Stato francese richiede la creazione di
un corpo militare comune tra gli stati (allora 6) ma non entrerà mai in vigore. Quel trattato del 57 ancora esiste
ma ha un altro nome, cioè Trattato di Roma. Si vuole creare un mercato comune dove possano circolare
liberamente i 4 servizi produttivi, perché si vogliono evitare le discriminazioni sulla nazionalità, e quindi la regola
è che questi 4 fattori produttivi devono poter circolare liberamente nel territorio europeo. Un qualunque
prodotto che entra dall’estero all’interno dello stato membro dovrà pagare una tariffa doganale, che è la stessa
negli stati membri, e il prodotto così immesso può circolare all’interno degli altri stati membri senza ulteriori
tariffe, e creare anche una economia in cui la concorrenza fosse libera. Anche gli stati non possono intervenire
nell’economia in modo da evitare la concorrenza, quindi lo stato non può intervenire nell’economia per favorire
una impresa. Quindi dal 57 le competenze della comunità sono funzionali al conseguimento di questi 2 obiettivi.
Abbiamo 3 istituzioni politiche: il Consiglio, la Commissione e il Parlamento europeo (prima si chiamava
Assemblea parlamentare) e aveva prima un ruolo molto limitato, solo consultiva, quindi il ruolo di legislatore era
dato quasi tutto al Consiglio, e il parlamento che rappresenta i cittadini aveva una funzione essenzialmente
consultiva. La Commissione e il Consiglio, nella CEE erano ruoli invertiti all’interno della CECA: la Commissione ha
una funzione di iniziativa legislativa e il Consiglio esecutiva, mentre nella CECA i ruoli erano invertiti. Nel 1965
viene poi stipulato un Trattato sulla funzione degli esecutivi, quindi non abbiamo più queste funzioni incrociate,
ma hanno lo stesso tipo di funzioni.
Si affiancano, a queste 3 istituzioni, anche un organo giurisdizionale, che è la Corte di Giustizia delle CEE.
Una modifica fondamentale cui si assiste prima di arrivare al primo trattato che modifica i trattati istitutivi, che è
l’Atto Unico Europeo, è una decisione del 1970, la decisione sulle risorse proprie, con cui l’organizzazione
individua le entrate del suo bilancio, e tra queste entrate proprie va menzionata la tariffa doganale comune (la
tariffa di prima, che si applica alle merci provenienti dai paesi terzi) e anche una percentuale dell’iva che noi
paghiamo va versata al bilancio dell’unione, e una aliquota calcolata per ogni stato membro, che varia a
seconda delle capacità finanziaria dei diversi stati membri. Nel bilancio dell’unione va versata anche tutte le
ammende che la commissione commina alle imprese in tema di concorrenza, quindi se una impresa viola delle
norme, la Commissione può comminare delle ammende, cioè sanzioni pecuniarie alle imprese, che fanno
aumentare le entrate dell’UE. Altra grande voce di bilancio come entrata dell’UE che proviene dagli stati sono le
sentenze di condanna pecuniaria che l’unione (la corte di giustizia) commina agli stati membri, quando violano le
norme dell’UE. C’è una procedura di infrazione, e se persisto nell’inadempimento posso essere condannato al
pagamento di una sanzione pecuniaria, nella speranza di porre fine all’inadempimento.
Nel 1976 viene adottata una decisione con cui si stabilisce che il parlamento europeo sarà eletto a suffragio
universale e diretto per far sì che effettivamente rappresenti i cittadini degli stati membri.
Il Parlamento europeo sta in carica per 5 anni.
Il primo trattato davvero modificativo è l’Atto Unico Europeo, che modifica il trattato istitutivo della comunità
economica europea. Apporta diverse modifiche: estende in parte le competenze dell’UE in nuovi settori, amplia
ad es. l’ambiente, quindi può intervenire nello sviluppo economico, rafforza l’intervento del Parlamento nel
processo decisionale, quindi anche funzione decisionale e non solo consultiva, e si decide di affiancare alla Corte
di giustizia un altro organo giurisdizionale, per 2 ragioni: la prima è quella di cercare a far fronte al forte carico di
lavoro della Corte che è in continuo aumento, anche perché erano entrati molti stati membri a far parte dell’UE,
la seconda è quella che si ritiene utile che le persone fisiche e giuridiche (i singoli destinatari) abbiano diritto ad
un doppio grado di giudizio. Questo nuovo organo, che entra dal 1989, ha dunque la competenza di decidere in
primo grado, e la Corte di giustizia invece è organo di secondo grado.
Nel 1992 viene istituita l’Unione Europea, con il Trattato di Maastricht (si chiama anche Trattato sull’Unione
Europea), che crea questa nuova entità, e porta anche delle modifiche al trattato del 1957 (trattato istitutivo
della CEE) estendendo ancora le competenze della comunità e cambia il nome della CEE, e si parlerà quindi di
Comunità Europea, e non di Comunità Economica Europea, perché non ha più una finalità solo economica. Alla
Comunità Europea si affianca l’Unione Europea.
Altra cosa fondamentale che fa il trattato di Maastricht è istituire la cittadinanza dell’UE che è aggiuntiva a quella
degli stati membri. L’Unione Europea creata nel 92 è una entità priva di personalità giuridica che utilizzando le
stesse istituzioni che già operano in questa organizzazione, decide (gli stati decidono) di attribuire alla Unione,
cioè alle istituzioni che già esistono, anche delle nuove competenze, che vengono attribuite sulla base di regole
diverse. Si affiancano altri 2 settori: uno dove gli stati attribuiscono la competenza nella politica estera di
sicurezza comune (PESC), sulla base di poteri diversi dai meccanismi (anche decisionali) previsti dalla CE (sono
intergovernativi); quindi le istituzioni sono le stesse, ma gli atti sono diversi, agiscono in modo diverso, sulla base
di meccanismi diversi; il secondo pilastro è la GAI, che ha competenza di cooperazione giudiziaria.
 3 pilastri: CE, PESC, GAI l’UE comprende questi 3 pilastri
Siamo nel 1992, le istituzioni sono le stesse, con questi 3 pilastri, e prima di arrivare nel 2007 (quadro attuale),
abbiamo ancora 3 passaggi, perché nel 1997 col trattato di Amsterdam, e nel 2001 il Trattato di Nizza.
Il trattato di Amsterdam è di revisione, che mi modifica il trattato del 57 e del 92, ma lascia intatti i due sistemi
paralleli, e con questo trattato le competenze della GAI sulla cooperazione giudiziaria vanno a finire nella CE; alla
CE dunque viene attribuita la competenza di intervenire nella cooperazione giudiziaria civile. Invece la
competenza di cooperazione di polizia rimane alla GAI.
Altro passaggio fondamentale è il trattato di Nizza ma non interviene in questa struttura a pilastri, non cambia
cioè le loro competenze, all’inizio del 2001 viene elaborata la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che viene
proclamata a Nizza nel dicembre del 2000, elaborata con un meccanismo particolare. La Carta, elaborata e
proclamata nel 2000, non ha ancora carattere giuridico vincolante, che lo acquisisce solo con trattato di Lisbona,
nel dicembre del 2009. Sulla base degli accordi che avevano preso gli stati nella conferenza intergovernativa che
ha portato al trattato di Nizza, si voleva una semplificazione dell’organizzazione e del ruolo delle istituzioni, e
quindi si era prospettata l’idea di rielaborare tutto questo sistema sostituendolo con un unico trattato. quindi
succede che viene creato da un apposito gruppo di studiosi, tra cui i rappresentanti degli stati membri, e si va ad
elaborare il Trattato Costituzionale, o trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Nel 2004 viene firmato
questo trattato unico, diviso in 4 parti, dove nella prima parte ci sarebbero state le disposizioni di principio, e
viene inserita la Carta dei diritti fondamentali, poi una parte sulle competenze dell’unione (tutte le regole che
stanno nel pilastro comunitario) e poi abbiamo una quarta parte dove abbiamo le norme sulla revisione. Questo
trattato non entra mai in vigore, perché è necessaria la ratifica di tutti gli stati, e in Francia e Olanda abbiamo 2
referendum in cui i cittadini vengono chiamati ad esprimersi sull’opportunità di ratificare questo trattato unico e
hanno votato no. Nel luglio del 2007 in una nuova conferenza intergovernativa si sono apportate delle modifiche
ai trattati esistenti. In due mesi si sono apportate modifiche essenziali che si volevano introdurre con il trattato
costituzionale. Una di queste modifiche è che il trattato di Lisbona abolisce la distinzione in pilastri. Quindi
formalmente vengono abolite le distinzioni in pilastri, quindi le istituzioni agiscono sulla base del modello
comunitario originario (non ho una distinzione tra primo e terzo pilastro, e tutto il terzo rientra nel primo, quindi
il vecchio GAI diventa Spazio di libertà di sicurezza e giustizia) ma in realtà il sistema PESC resta un sistema
diverso. Quindi gli atti adottati dalla PESC sono diversi, e nella sostanza resta un pilastro a sé stante.
Il fatto che questa differenza continui ad esistere noi lo riscontriamo anche visivamente, perché le norme sulla
PESC continuano a stare nel Trattato sull’Unione Europea. Decide in più che l’UE sostituisce la Comunità
Europea, quindi dal 2007 (in cui è stato firmato) (nel 2009 è entrato in vigore) non abbiamo più la Comunità
Europea, ma solo l’Unione Europea. Quindi il trattato di Lisbona cambia anche il nome del trattato istitutivo della
comunità europea, e lo chiama Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Quindi dal 2009 la comunità
europea non esiste più ma usiamo comunque il termine COMUNITARIO per far riferimento all’Unione Europea. e
non EUROCOMUNITARIO (o UNIONALE). Quindi l’Unione Europea sostituisce la Comunità. Le norme di principio
e relative al sistema PESC le troviamo tutte sul Trattato sull’Unione, e le norme di dettaglio le troviamo nel
Trattato sul funzionamento dell’Unione. Il trattato di Lisbona viene firmato nel dicembre del 2007. Vi è una
modifica relativa al numero dei commissari, che prima erano uno per stato membro, ma nell’ottica di
semplificazione sostenuta a Nizza si era deciso di ridurre il numero dei commissari, e si era deciso a rotazione tra
i diversi stati. Ma ora continuano ad essere uno per stato membro, quindi abbiamo una corrispondenza tra il
numero dei commissari e degli stati membri.
Altre modifiche fondamentali che ha apportato il Trattato di Lisbona (trattato di revisione): ha rafforzato il ruolo
del Consiglio europeo, che viene elevato a rango di istituzione (art 13), soprattutto per quanto riguarda
l’impugnabilità dei suoi atti (prima non era possibile l’impugnazione). Si rafforza poi il ruolo dei parlamenti
nazionali, anche sulla fase di formazione e attuazione delle norme; si rafforza il ruolo del Parlamento Europeo
(colegislatore affianco al Consiglio); si introduce una norma di “democrazia partecipativa” e si prevede che un
milione di cittadini dell’UE possano esercitare una sorta di potere di iniziativa legislativa; si attribuisce poi il
carattere vincolante alla Carta, e altra modifica fondamentale è la previsione esplicita della possibilità di
recedere. Queste già le ritroviamo nel trattato Costituzionale, quindi di fatto il lavoro c’era già. Ma posso
recedere ma una volta che perdo la qualifica di stato membro nulla mi impedisce di rientrare nell’UE, ma lo devo
fare seguendo le regole sul processo di adesione (art 49).

28-2-18
Il Trattato di Lisbona, dal momento in cui è entrato in vigore (dal 1 dicembre del 2009), ha attribuito all’UE
personalità giuridica (soggetto di diritto internazionale, al pari della Comunità Europea). Questa indicazione la
troviamo nell’art 47 sul Trattato sull’Unione. L’Unione sostituisce e succede alla Comunità Europea, e questa
indicazione la troviamo in apertura al Trattato sull’Unione (art 1), ma anche nell’art 1 del Trattato sul
Funzionamento dell’UE (TFUE). L’Unione Europea si fonda su questi due trattati.
L’UE ha una personalità giuridica derivata rispetto quella degli stati e limitata al conseguimento degli obiettivi
fissati dai trattati, obiettivi che troviamo all’art 3 del Trattato sull’UE. Comma 1 art 1 parla di “obiettivi comuni”
tra gli stati. L’art 1 comma 2 parla anche di Unione sempre più stressa tra i popoli, già affermata da Schumann
nel 1950 e dal Manifesto di Ventotene. Troviamo anche il principio di buona amministrazione e di trasparenza
nell’art 41 della Carta dei diritti fondamentali. c’è un principio anche di sussidiarietà che regola il principio di
ridistribuzione delle competenze tra gli stati.
I Trattati sono accompagnati da una serie di allegati che sono i PROTOCOLLI che vanno a specificare o integrare
le previsioni dei trattati stessi. Il Trattato stabilisce il principio, mentre la sua applicazione è normata dai
protocolli. Le norme dei protocolli hanno valore primario al pari dei Trattati. Il protocollo numero 2 parla del
principio di sussidiarietà, mentre il Protocollo numero 3 contiene lo Statuto della Corte di Giustizia.
Gli stati attribuiscono le competenze, quindi l’Unione si fonda sul principio di attribuzione di competenze, e ciò lo
ritroviamo nell’art 1 del Trattato sull’Unione. Tutte le competenze non trasferite all’Unione rimangono agli stati,
avendo personalità giuridica autonoma e originaria. L’art 352 consente in una certa misura di intervenire anche
se non ho una competenza espressamente attribuita. L’art 3 (contiene l’elenco degli obiettivi che può perseguire
l’Unione nell’esercizio delle competenze attribuite), il paragrafo 6 dice la stessa cosa che dice l’articolo di
apertura. L’art 4 dice che qualsiasi competenza non attribuita all’unione appartiene agli stati. L’art 5 dice che la
delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul PRINCIPIO DI ATTRIBUZIONE (principio cardine) e ci dice
anche COME devono essere esercitate questa competenze, e a che titolo. Abbiamo 3 diverse categorie di
competenze.
I principi che regolano l’esercizio della competenza sono il principio di SUSSIDIARIETA’ E DI PROPORZIONALITA’.
L’art 13 è più specificata l’attività attribuita alle singole istituzioni; così come l’Unione può esercitare le
competenze, anche le singole istituzioni possono esercitare solo ed esclusivamente le competenze che sono loro
attribuite. Se la competenza attribuita alla Commissione non è da lei esercitata ma da un’altra istituzione, questo
atto sarà illegittimo, perché non eseguito nel rispetto di attribuzioni di competenze delle singole istituzioni
 VIZIO DELL’INCOMPETENZA, che può essere assoluta (violo il principio di attribuzione in termini assoluti, la
competenza non spetta all’UE) ma anche relativa (contesto la competenza dell’Unione, ma solo la competenza
della singola istituzione; quella competenza spetta ad un’altra istituzione).
L’elenco degli obiettivi dell’UE lo troviamo nell’art 3 del Trattato sull’Unione. L’art 2 ci dice quali sono i valori su
cui si fonda l’Unione, e il rispetto dei valori previsti da questa disposizioni è un requisito indispensabile per poter
aderire all’Unione (es. uguaglianza e rispetto dei diritti umani) ma sono anche valori che vanno rispettati dagli
stati che già ne fanno parte. Esistono degli strumenti per sanzionare lo stato che viola questi valori. Se uno stato
non rispetta questi valori, non esiste anche uno strumento in base al quale si può espellere uno stato dall’UE se
non rispetta questi valori. Il processo di integrazione è un processo irreversibile rispetto l’estensione materiale e
territoriale, ma si può censurare lo stato che non rispetta i valori, ma l’espulsione non è ammissibile. È possibile
un recesso. Per quanto riguarda gli obiettivi, l’art 3 menziona tra gli obiettivi l’instaurazione e sviluppo del
mercato interno e realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, con libertà di liberazione per le
persone. Le materie ricomprese in questo spazio di libertà-sicurezza-giustizia sono quelle che originariamente
stavano nel terzo pilastro, quindi visti, asilo, immigrazione, cooperazione di polizia e giudiziaria in materia
penale. anche questo obiettivo è complementare all’instaurazione del mercato interno, perché devo assicurare
che questa circolazione sia sicura. L’obiettivo dello spazio libertà lo troviamo come PRIMO OBIETTIVO ancora
prima del mercato interno.
Per perseguire tutti questi obiettivi, dobbiamo prima analizzare i primi 2 articoli del TFUE.
Esistono 3 diversi tipi di competenza che posso attribuire all’UE, ed è il Trattato di Lisbona che realizza una vera
sistematizzazione delle competenze, perché nel sistema originario non avevamo delle norme che ci dicevano
quali competenze avesse l’UE. Ora invece agli art 2,3,4,5,6 che sono le norme dedicate a specificare in quali
materie l’UE ha competenza e a quali titolo questa competenza può essere esercitata. Nell’art 4, sulle
competenze concorrenti, troviamo un elenco meramente esemplificativo.
Tre tipologie di competenze, anche se nei sistemi originari formalmente erano 2:
1. Competenze attribuite a titolo ESCLUSIVO
2. Competenze attribuite a titolo CONCORRENTE
3. Con il Trattato di Lisbona si aggiungono le competenze PARALLELE, in cui ricomprendiamo le competenze
 di SOSTEGNO alle politiche statali
 COORDINAMENTO
 e COMPLETAMENTO delle politiche statali, che troviamo all’art 6 del TFUE
Per quanto riguarda le competenze ESCLUSIVE le troviamo elencate nell’art 3 ed è una elencazione tassativa di
tipo esaustivo. Su queste materia potrà legiferare SOLO L’UNIONE.
L’art 48 sul Trattato sull’Unione dice che come le competenze possono essere estese, così possono essere anche
ridotte PRINCIPIO DI REVERSIBILITA’ DELLE COMPETENZE per quanto riguarda le attribuzioni quindi gli stati
possono togliere la competenza all’UE e riprendersela, è però necessario una revisione dei Trattati per farlo.
La regola è però che la regola io l’ho attribuita in via esclusiva all’Unione, quindi è lei che legifera in queste
materie, e gli stati (art 2 par 2) possono intervenire autonomamente solo se sono autorizzate dall’UE o per dare
attuazione all’atto dell’Unione: sono le uniche due possibilità di intervenire per gli stati laddove si parla di
competenze attribuite a titolo esclusivo. Competenze: tutte la materia sulla concorrenza, la conservazione delle
risorse biologiche del mare, politica commerciale comune e politica monetaria per gli stati la cui moneta sia
l’euro.
Ma l’elencazione non è omogene: la prima parte fa un elenco di materie, la seconda parte individua una
competenza esclusiva dell’UE ma non in relazione ad una materia, ma in relazione ad una modalità di esercizio
della competenza, cioè esempio: l’UE ha una competenza esclusiva (quindi si sostituisce agli stati membri)
quando conclude un accordo internazionale (regola generale); questo accordo internazionale deve essere
sostanzialmente funzionale ad assicurare che l’UE sul piano esterno, cioè nelle relazioni internazionali, preveda
una disciplina uniforme che valga per tuti gli stati membri, per garantire che quella disciplina esterna sia
conforme alla disciplina che vige sul piano interno (all’UE). Se uno stato deve concludere con degli stati terzi
(esempio Marocco) un accordo sulla stessa materia lo fa l’UE. Se faccio un accordo di concorrenza con gli Stati
Uniti, l’accordo lo stipula l’Unione, che pio vale per tutti gli stati membri. Il problema si pone però (PROBLEMA DI
PARALLELISMO TRA LE COMPETENZE INTERNE ED ESTERNE) quando la competenza è CONCORRENTE, esempio
nel mercato interno: se l’Unione ha una competenza interna concorrente, se in quella determinata materia
decide di utilizzare la sua competenza sul piano esterno, la sua competenza diventa esclusiva. La competenza
concorrente è ripartita tra stati e Unione. L’art 2 sulla competenza concorrente dice al comma 2 che quando i
trattati attribuiscono all’UE una competenza concorrente l’UE e gli stati possono creare degli accordi vincolanti
su un determinato settore. L’esercizio delle competenze degli stati avviene nella misura in cui l’UE non ha
esercitato la propria, quindi lo stato è legittimato ad intervenire solo fino a che non interviene l’unione: se l’UE è
già intervenuta, la competenza statale non può che ritrarsi. Quindi gli stati possono intervenire a meno che l’UE
adotto una disciplina comune (quindi interviene). Se l’UE esercita la sua competenza e adotta un attimo
legittimo, e quindi la sua competenza si esercita in quel determinato settore, allora viene meno la competenza
dello stato in quella materia, e gli atti interno eventualmente già adottati devono essere riformati in modo da
renderli conformi a ciò che è stato detto dall’UE. Gli stati esercitano di nuovo la competenza nel momento in cui
l’UE ha deciso di cessare l’esercizio della sua competenza. Il Protocollo 25 allegato al trattato, sull’esercizio della
competenza concorrente, ci dice che con riferimento all’art 2 comma 2, quando l’UE agisce in un determinato
settore (quindi diviene competenza esclusiva) il campo di applicazione di questo esercizio di competenza, quindi
l’intervento dell’unione, copre esclusivamente gli elementi disciplinati dall’atto (solo quelle materie
espressamente indicate nell’atto). Esempio direttiva sul diritto alla traduzione degli atti e ad un interprete nel
procedimento penale: è una competenza concorrente, e l’UE adotta una direttiva. La direttiva però ad esempio
non ci dice nulla su quali sono i rimedi processuali se il diritto non viene garantito, allora quella non disciplina
resta nella competenza dello stato. Per tutti gli aspetti non disciplinati dall’atto resta a titolo concorrente la
possibilità per gli stati di intervenire.
Lo stato riacquisisce temporaneamente la competenza a titolo concorrente se l’UE decide di cessare la sua
competenza. Per far perdere efficacia giuridica ad un atto legislativo lo faccio con l’abrogazione dell’atto, e a quel
unto si espande anche la competenza dello stato sempre per quanto riguardo la competenza concorrente sul
piano interno.
La competenza esclusiva a concludere accordi internazionali.
Quando l’UE esercita la competenza sul piano esterno, quindi conclude un accordo internazionale, quella
competenza diventa esclusiva, ma tale conclusione deve essere prevista in un atto legislativo dell’UE oppure è
necessaria per esercitare le competenze sul piano interno oppure quando la conclusione dell’accordo
internazionale può incidere su norme comuni o modificarne la portata. Ad esempio io potrei adottare una
decisione quadro sul mandato di arresto europeo, che sostituisce l’estradizione, quindi adotto una disciplina che
si applica solo nei rapporti tra gli stati membri, competenza concorrente, e ad un certo punto interviene l’UE e si
ritrae la competenza degli stati. io decido che voglio stipulare un accordo di estradizione con uno stato terzo, ad
esempio il Giappone: chi stipula quell’accordo su quella materia che è oggetto di una competenza concorrente
su cui è intervenuto già il legislatore dell’UE? È l’UE, perché quell’accordo potrebbe impattare sul funzionamento
della disciplina interna.
Se l’Unione cessa la competenza attraverso l’abrogazione dell’atto, gli stati riacquisiscono la competenza, ma se
l’UE esercita la competenza, gli stati di conseguenza perdono la competenza su quella stessa materia.
La competenza esterna esclusiva io potrei averla anche rispetto ad una materia di competenza concorrente dove
non ci sia ancora stato l’intervento dell’UE, quindi dove sono ancora gli stati che hanno la competenza su quella
materia perché l’UE non ha ancora legiferato. Se l’UE ha deciso di esercitare la competenza, ma non ha ancora
concluso l’atto, lo stato potrebbe avere ancora competenza sul piano interno.
La competenza esclusiva è tassativa. Devo vedere se c’è una competenza esclusiva dell’UE a stipulare
quell’accordo o se l’accordo riguarda degli aspetti che non sono attribuite all’UE. Possono però intervenire alla
stipulazione anche gli stati membri, quindi abbiamo un ACCORDO MISTO, perché partecipa sia l’UE per la
materia di sua competenza, sia gli stati membri per quelle materie che non rientrano nella materia dell’UE.
Questa disposizione però non la troviamo nei Trattati.
Per quanto riguarda le materie di competenza concorrente, le ritroviamo nell’art 4 del TFUE, ma questa
competenza è generale e residuale, perché l’UE a competenza concorrente quando i trattati gli attribuiscono una
competenza che non rientra nella competenza esclusiva o parallela. Ci dice i principali settori (quindi elenco non
esaustivo). Residuale perché tutto quello che non è esclusivo o parallelo rimane d competenza concorrente.
Si ritiene di competenza concorrente, anche se non tutti concordano con questa lettura, anche la materia di
politica estera e di sicurezza comune.
Le competenze PARALLELE le ritroviamo all’art 6 del TFUE (industria, cultura, turismo, cooperazione
amministrativa…). La dottrina che utilizza questo termine di “parallele”. Quindi potrei parlare di competenze di
sostegno, coordinamento o completamento. Quindi intervengo per coadiuvare la politica statale in queste
materie, e in queste materie non si potrebbe intervenire adottando norme di armonizzazione (secondo la regola
generale).
Queste norme vanno lette in concomitanza con le disposizioni del Titolo V della parte III, cioè dell’elenco delle
politiche dell’UE.
La reversibilità della competenza, che è di due tipi:
- dell’esercizio della competenza (la competenza attribuita a titolo concorrente, l’UE la esercita e la possibilità
dello stato di intervenire si ritrae, ma ritorna nel momento in cui l’UE cessa di esercitarla)
- nell’attribuzione della competenza (le modifiche che apportiamo ai trattati possono accrescere o ridurre le
competenze attribuite)
Il Trattato ha però una durata illimitata, quindi da un punto di vista territoriale sempbra irreversibile (art 53 del
Trattato sull’Unione.

6-3-18
Si attribuiscono alle istituzioni dell’UE delle competenze che esercitano al di fuori del quadro governativo
istituzionale. Strumenti di diritto internazionale, elaborati al di fuori del trattato, che attribuiscono alcune
competenze alle istituzioni dell’Unione, come la Corte di Giustizia, con l’obbligo di non pregiudicare mai le
competenze e le regole e i principi sanciti nei trattati (sull’Unione e sul funzionamento). Quindi esercitano le
competenze al di fuori delle regole dell’Unione, ma devono rispettare comunque i principi sanciti dai trattati
dell’Unione e dalla Carta dei diritti fondamentali.
 PRINCIPIO DI ATTRIBUZIONE DELLE COMPETENZE PRINCIPIO CARDINE
 E poi abbiamo altri due principi che ci dicono COME le competenze attribuite devono essere esercitato, che
sono il PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’ E DI SUSSIDIARIETA’.
TFU: art 352: norma che sta in fondo al trattato; secondo alcuni è una norma legata alle competenze e all’ambito
in cui l’Unione può intervenire, e come può intervenire, allora ci si chiede perché non stia all’inizio del trattato:
questo perché si tratta di una norma di chiusura del sistema, norma di chiusura perché è una disposizione che
consente di ovviare a quelle che sono le rigidità legate al principio di attribuzione. Quindi la regola è quella di un
sistema rigido (l’Unione può intervenire solo se le è attribuita una competenza) e per ovviare alla rigidità di
questo principio si inserisce questa clausola, la c.d. CLAUSOLA DI FLESSIBILITA’. Il Consiglio può ovviare alla
rigidità del principio di attribuzione, perché ammette un intervento normativo, quindi la possibilità di legiferare,
anche nella misura in cui non vi sia una norma specifica che attribuisce un potere diretto alle istituzioni ad
intervenire
 deroga regola rigida per cui l’istituzione interviene esclusivamente se c’è un potere espressamente attribuito
da una norma. Si conferisce al legislatore (CONSIGLIO E PARLAMENTO) di adottare degli atti vincolanti, MA
QUANDO? L’intervento del legislatore è indispensabile, dice la norma, PER RAGGIUNGER EUNO DEGLI OBIETTIVI
FISSATI DAI TRATTATI. Quindi se l’azione è necessaria e indispensabile per realizzare un obiettivo fissato di
trattati (art 3 del trattato sull’Unione), il legislatore interviene legiferando; può legiferare a certe condizioni;
deve dimostrare però che l’intervento è FUNZIONALE a quel determinato obiettivo.
La direttiva 2004/80 è stata adottata sulla base di questa disposizione (vecchio art 308), sulla base della clausola
di flessibilità, perché nei trattati non abbiamo una clausola che ci permette di intervenire in questa materia. Ma il
collegamento che si trova con gli obiettivi fissati nel trattato qual è? Perché la creazione di un meccanismo di
collegamento tra due stati può essere funzionale al raggiungimento degli obiettivi fissati dai trattati? Cosa si
vuole non disincentivare? La libertà di circolazione delle persone-merci-servizi e capitali (obiettivo originario
della Comunità Europea). La libertà di circolazione sarebbe disincentivata se per ottenere un risarcimento sono
costretto a ritornare nello stato in cui è stato commesso il reato. Quindi per facilitare la libertà di circolazione
(obiettivo dei trattati) non ho il potere specifico ma si può disporre a questa disposizione (art 352). Questa
disposizione oggi prevede, diversamente dal regime pre-Lisbona, un intervento congiunto di Consiglio e
Parlamento, ma dato che sto derogando alla regola sul principio di attribuzione, la regola fondamentale per cui
io posso ricorrere a questa clausola di flessibilità è che IL CONSIGLIO VOTI ALL’UNANIMITA’, quindi tutti gli Stati
devono essere concordi ad adottare questo atto, laddove sia la Commissione ad individuare questo
collegamento tra l’obiettivo che voglio perseguire e la materia in cui sto intervenendo (per la quale non avrei
competenza). È necessaria L’APPROVAZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO. Il Parlamento può intervenire tramite
“approvazione”.
Consultazione ≠ approvazione  cambia la VINCOLATIVITA’: io sono obbligato a chiedere il parere del
Parlamento, ma il suo parere non è vincolante per la decisione. Ma in caso di approvazione, la presa di posizione
del Parlamento VINCOLA il consiglio quindi è attribuito il DIRITTO DI VETO AL PARLAMENTO EUROPEO
QUANDO SI PARLA DI APPROVAZIONE IL PARLAMENTO DEVE ESSERE D’ACCORDO CON IL CONSIGLIO, che
deve votare all’unanimità.
Unanimità e approvazione del Parlamento; se il parlamento non approva, l’atto non può essere adottato.
Diversamente dal sistema pre-Lisbona, dove si chiedeva solo la consultazione del parlamento.
Abbiamo altri limiti per ricorrere a questa clausola di flessibilità, che troviamo in parte nello stesso art 352, e in
parte sono chiariti nelle dichiarazioni 41 e 42 allegate ai trattati. Non si può ricorrere alla clausola di flessibilità
PER INTERVENIRE NEL SETTORE DI POLITICA ESTERA E SICUREZZA COMUNE (PESC), la ritroviamo al paragrafo 4
dell’art 352.
Per quanto riguarda gli obiettivi che posso invocare per utilizzare la clausola: non tutti gli obiettivi che troviamo
all’art 3 possono essere invocati come motivi utili per utilizzare questa clausola: questo ce lo dice la
dichiarazione 41: solo obiettivi cui l’art 3 paragrafo 2-3-5. Quindi è vero che c’è una formulazione generale nel
352 ma viene limitata dalla dichiarazione 41.
Altra indicazione fondamentale nella dichiarazione 42 è il fatto che questa disposizione non può comunque
essere utilizzata, quindi non posso ricorrere alla clausola di flessibilità, se ciò condurrebbe a una modifica dei
trattati che sfugge alla procedura di revisione prevista dai trattati stessi e in particolare prevista dall’art 48.
Quindi ho dei limiti:
- Procedurali
- riguardo gli obiettivi
- e non posso mai ricorrere a questa clausola per apportare in modo surrettizio una modifica ai trattati.
Nel 1993 la Commissione vuole fare in modo che anche la Comunità aderisca alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo, e che sia direttamente responsabile in caso dei diritti da essa sanciti. Si arriva
ad un accordo, e si interpella la Corte di Giustizia per fare in modo che questo accordo sia compatibile con i
trattati. La finalità di questa funzione riconosciuta alla Corte è quella di vagliare che l’accordo sia compatibile con
i trattati (accordo di compatibilità), prima che l’accordo si concluda ed entri in vigore. C’è una norma di questo
tipo (dove da una parte c’è l’Unione che conclude un accordo con uno Stato e dall’altra la Corte deve vedere se
questo è compatibile con i trattati) serve per evitare che si sia un atto interno che sia incompatibile con ciò che
stia sopra, quindi per evitare una norma incostituzionale, ma c’è anche un controllo ex post, perché la Corte di
Giustizia potrebbe dire che l’accordo è incompatibile e quindi escluderlo dal sistema. Ma il problema è il dover
ANNULARE UN ACCORDO, perché l’Unione SI È VINCOLATA SUL PIANO ESTERNO! Quindi per evitare di far
concludere un accordo che rischia di essere illegittimo sul piano esterno ma poi è comunque vincolato sul piano
esterno; è un accordo che devo seguire sul piano esterno ma non è legittimo sul piano interno!
La Commissione ricorre allora alla clausola di flessibilità, e la Corte di Giustizia però dice che non va bene perché
non c’è un obiettivo specifico collegato, e quindi ciò che la Commissione vorrebbe fare è di modificare le
competenze attribuite dai trattati, passando però per un meccanismo diverso dalla revisione dei trattati, perché
si sta attribuendo il potere di intervenire nella materia della tutela dei diritti fondamentali, utilizzando una
norma che però non può essere utilizzata in questo ambito, con la conseguenza che io di fatto vado a modificare
il trattato, cioè vado ad attribuire all’unione sul piano internazionale in un’altra materia, che è quella dei diritti
fondamentali. io ciò posso farlo ma non usando l’art 352, ma utilizzando il procedimento di revisione dei trattati!
Quindi rispetto quell’accordo nel 96 la Corte si è pronunciata spiegando perché l’art 352 non è idoneo per quel
caso e quindi blocca il processo di adesione della Comunità alla Carta dei diritti fondamentali. l’unico modo per
riconoscere all’Unione di stipulare un accordo internazionale è compiere una REVISIONE DEI TRATTATI in modo
tale da attribuire espressamente all’Unione la possibilità di stipulare quell’accordo. A fronte di un parere
negativo della Corte di Giustizia, di solito si modifica il progetto di accordo per renderlo compatibile a ciò che ha
detto la Corte, ma qui invece si modifica direttamente il Trattato (fonte sovraordinata) e non l’accordo. La
modifica la troviamo nell’art 6 par 2 del TUE.
Qualunque tipo di atto che si voglia adottare ricorrendo alla clausola di flessibilità deve essere COMUNICATO AI
PARLAMENTI NAZIONALI sulla base del ruolo che è riconosciuto ad essi, protocollo numero 2 sul principio di
sussidiarietà. quindi anche i parlamenti nazionali possono intervenire e dire la loro sulla legittima formazione
dell’atto, sulla possibilità o meno di usare quella clausola per ovviare alla rigidità del principio di attribuzione.
C’è chi ha assimilato quella clausola di flessibilità alla TEORIA DEI POTERI IMPLICITI, elaborata negli stati uniti, per
cui rispetto l’esercizio di un potere espressamente attribuito io desumo la possibilità di esercitare un potere che
è direttamente correlato al potere espresso.
TEORIA DEL PARALLELISMO DELLE COMPETENZE: la Comunità a certe condizioni acquisisce la competenza sul
piano esterno. Questa può considerarsi una espressione della teoria dei poteri impliciti.

PRINCIPIO DI SUSSIDIERIETA’: ART 5 TUE


Lo ritroviamo a partire dal trattato di Maastricht. Il paragrafo 3 ci dice che questo principio regola l’esercizio
delle competenze attribuite non a titolo esclusivo. Si parla di RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE, ma queste
sono già state ripartite, a titolo esclusivo, concorrente o parallelo, e qui il trattato ci dice invece che per
esercitare la competenza che non è di competenza esclusiva, l’Unione deve dimostrare che l’intervento dell’UE è
preferibile all’intervento degli Stati membri, quindi che rispetta il principio di sussidiarietà. Tendenzialmente è
sempre l’organo legislativo più vicino al diretto destinatario della norma che dovrebbe intervenire, quindi se io
mi allontano dal livello più vicino (locale, regionale ecc.) l’UE deve dimostrare che sta rispettando questo
principio.
Questo principio di sussidiarietà un criterio che regola l’esercizio di competenze già ripartite (PRINCIPIO
REGOLATORE). È UN PRINCIPIO CHE MI DICE CHE L’Unione PUO’ EFFETTIVAMENT EINTERVENIRE.
L’Unione può legittimamente esercitare la competenza concorrente solo se e in quanto gli obiettivi che sta
perseguendo non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri né a livello locale né
regionale, ma…. in base alla portata o agli effetti dell’azione/intervento.
Deve motivare in modo dettagliato la congruità del suo intervento a questo principio.
Rispetto alla valutazione che fa la Commissione, vagliata dal legislatore.
La verifica della legittimità dell’intervento dell’Unione è fatta dal Consiglio, quindi dagli Stati che devono valutare
l’atto, e poi dal Parlamento. Un controllo sul fatto che sia rispettato il principio di sussidiarietà.
Con Lisbona si dice che anche i Parlamenti nazionali, che hanno competenza ad intervenire, devono poter dire la
loro rispetto al fatto che qualunque proposta di atto (e qui però il protocollo 2 aggiunge una specificazione:
qualunque proposta di ATTO LEGISLATIVO) sia conforme al principio.
Per poter essere adottati, gli atti devono poter essere trasmessi ai parlamenti nazionali e questi devono poter
svolgere l’attività che sia prevista loro dal protocollo 2. C’è un controllo della Corte di Giustizia, ma non si
sostituisce al legislatore.
Il protocollo ci dice come devono essere coinvolti i parlamenti nazionali, perché è a loro che viene sottratta la
competenza: i parlamenti nazionali hanno il DIRITTO DI TRASMETTERE AI PARLAMENTI NAZIONALI LA PROPOSTA
DI ATTO LEGISLATIVO con tutta la relazione illustrativa che contiene la motivazione sul rispetto del principio di
sussidiarietà, e il progetto deve essere accompagnato da una scheda che contenga elementi circostanziati che ci
permettono di valutare la congruità dei loro motivi. I parlamenti hanno il tempo di 8 settimane per scrivere un
parere rispetto al fatto che quell’atto sta rispettando il principio di sussidiarietà oppure no. Si dice che ogni
parlamento nazionale dispone di 2 voti. A seconda del numero di pareri che ricevo, sono tenuta a comportarmi
in un certo modo. L’art 7 del protocollo ci dice che se i pareri motivati corrispondono/rappresentano almeno 1/3
dei voti complessivi (56), quindi se almeno 19 sono i pareri contrari o i pareri dei singoli parlamenti nazionali, che
hanno fatto rilevare che c’è un problema perché non rispetta il principio, il soggetto proponente è tenuto a
riesaminare l’atto. Quindi se abbiamo un numero superiore uguale a 19, la Commissione è chiamata a
riesaminare l’atto; la soglia dei voti si abbassa e diventa 14 voti contrari, quando siamo nella materia dello spazio
di libertà, sicurezza e giustizia (vecchia GAI), perché il soggetto sia obbligato a riesaminare l’atto.
La Procura europea è un organo dell’Unione che ha il compito di svolgere le indagini, in sostituzione ai
procuratori nazionali, rispetto ai reati lesivi degli interessi dell’Unione.
La regola generale è che a prescindere la numero di pareri favorevoli o non, si lascia al Parlamento europeo e
Consiglio la possibilità di non adottare l’atto perché si ritiene contrario al principio di sussidiarietà.
Sulla GIUSTIZIABILITA’ DELL’ATTO art 5 TFUE.
L’art 8 del protocollo chiarisce che il rispetto di questo principio è giustiziabile quindi se l’atto viene adottato in
violazione del principio, è previsto un controllo ex post della Corte di Giustizia, che valuta il rispetto delle
condizioni sostanziali e procedurali. La novità del protocollo è il fatto di introdurre un controllo affidato ai
parlamenti nazionali, i quali se hanno un dubbio sulla compatibilità al principio (e quindi ritengono che l’atto non
sia conforme al principio di sussidiarietà), hanno diritto a che il suo governo presenti un ricorso per
annullamento. Se il governo viene sollecitato dal suo parlamento per annullare l’atto, il governo è obbligato a
presentare ricorso. Questa norma IMPONE un obbligo ai governi nazionali di presentare ricorso su richiesta dei
parlamenti nazionali. Non è necessario che il Parlamento abbia espresso un potere negativo nella fase di
controllo preventivo, ma può anche non dare alcun tipo di osservazione e “svegliarsi tardi” e ritenere che
quell’atto stia violando il principio di sussidiarietà. La novità è che il parlamento può chiedere il ricorso dell’atto
anche se NON HANNO PRESENTATO PARERE precedentemente, prima invece poteva presentare ricorso solo se
prima aveva esposto un parere negativo. Si è deciso di cambiare ciò perché (quindi non c’è più un collegamento
diretto tra controllo preventivo e controllo successivo) il rischio sarebbe stato che il parlamento per legittimarsi
tenderà sempre ad esprimere un parere. (???bho)

Lezione del 7-3-18 appunti Valeria


Art. 5 par. 3 Quando opera il principio di sussidiarietà? In tutti i casi in cui non si tratta di competenza esclusiva.
Regola possibilità di agire: in che termini, come e quando UE può agire.

Art. 5 par. 4 Principio di proporzionalità


Esso deve essere rispettato sempre a prescindere dal tipo di competenze che va ad esercitare. Quindi anche se
sta esercitando una competenza che le è attribuita a titolo esclusivo. In cosa consiste? Il principio di sussidiarietà
regola la possibilità di intervenire, ci dice in che termini, come e quando l’Unione può agire. Il principio di
proporzionalità invece ci dà informazioni sull’intensità dell’azione e non sulla sua possibilità. L’intervento UE, a
prescinde dalla materia in cui interviene, deve essere proporzionato rispetto alle finalità perseguite.
Proporzionato: sia per quanto riguarda la forma dell’atto che io utilizzo per disciplinare una determinata materia,
sia per quanto riguarda il contenuto dell’atto, l’UE deve limitarsi a quanto necessario per il conseguimento degli
obiettivi fissati nei trattati. È quindi una proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito, ma l’intervento non
deve andare oltre a quanto necessario.
Quindi ci vuole l’idoneità dell’intervento (deve essere necessario) ma, sulla base di un bilanciamento interessi
che possono venire in rilievo, l’intervento non deve invadere le competenze degli Stati. A parità di azione e di
intervento si deve sempre intervenire nel modo che garantisca la maggior libertà di scelta.
• Forma: tipo di atto che scelgo. Se potessi indirizzare attività Stati anche solo attraverso un atto di soft-
law (perchè magari è sufficiente per esempio in caso di competenze parallele) UE adotta dichiarazione e non un
atto vincolante, per non invadere eccessivamente sfera di azione che resta agli Stati.
• Contenuto: valutazione altamente politica. Nei casi in cui si porta davanti alla Corte di giustizia
contestando violazione principio di sussidiarietà di solito si contesta anche violazione del principio di
proporzionalità. La Corte in questi casi mette in luce che la valutazione sul rispetto del principio di
proporzionalità comporta valutazioni politiche sociali culturali. Solo quando l’atto è manifestatamente inadatto
(inidoneo) lo annulla per violazione del principio di proporzionalità.

Questo principio è un principio trasversale che si trova in altri ambiti applicativi. Sicuramente è il principio che
regola l’intensità dell’azione ma ad esempio si trova riferimento a questo principio spesso anche rispetto
all’attività degli Stati chiamati a dare attuazione al diritto UE.
Esempio rispetto del principio nell’attuazione diritto UE: norme riguardanti libera circolazione delle persone, dei
servizi, delle merci e anche dei capitali. La regola è che nel mercato comune devono essere garantite queste
quattro libertà di circolazione ma già nel Trattato si trovano ipotesi in cui è possibile limitare la libertà di
circolazione. Se si prendono, per esempio, le disposizioni sulla libertà di circolazione delle persone si trovano dei
limiti a questa libertà: sicurezza pubblica, ordine pubblico, sanità pubblica. Quando lo Stato utilizza uno di questi
limiti per limitare l’ingresso nel suo territorio di un cittadino di un altro Stato membro, o per allontanarlo dal suo
territorio, l’invocazione del motivo deve essere necessaria e non andare oltre quello che è finalizzato al
raggiungimento del risultato. Quindi se si può adottare un provvedimento meno lesivo per la libertà di
circolazione di questo soggetto, (ad esempio si tratta di persona che non ha commesso reato), si deve ricorrere a
quel provvedimento. Perchè se non si rispetta questo principio e viene dimostrato che è possibile ricorrere a vie
meno invasive quel provvedimento potrebbe rivelasi non proporzionale.
La proporzionalità quindi rileva anche rispetto alle misure che lo Stato può adottare nell’applicazione del diritto
dell’Unione.

Troviamo questo principio spesso (sempre quando gli Stati applicano il diritto UE) anche in un altro caso.
Quando l’Unione individua un comportamento che deve esser oggetto di censura, ad esempio nella politica
ambientale, non prevede direttamente la sanzione che deve essere comminata al soggetto che viola l’obbligo,
ma pone semplicemente un obbligo (Es: comportarsi in un certo modo per non inquinare) e lascia agli Stati
l’obbligo di fissare la sanzione che deve essere comminata ai soggetti che no tengono il comportamento
imposto. Quella sanzione, come ha ribadito la Corte di Giustizia, viene scelta dallo Stato e deve essere dissuasiva,
efficace, e proporzionale. Deve essere proporzionata rispetto all’azione che si contesta.

Altro caso in cui si trova un richiamo codificato a questo principio è l’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali
dell’uomo. I principali articoli della Carta contengono tutta una serie di diritti che devono essere rispettati sia
dall’UE sia dagli Stati membri quando applicano il diritto dell’Unione. Infine ci sono 4 norme di chiusura, norme
trasversali che danno una serie di indicazioni su come garantire l’applicazione dei diritti sanciti dalla Carta.
Art. 52 Par 1 “Nel rispetto del principio di proporzionalità possono esser apportate limitazioni solo laddove siano
necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di
proteggere i diritti e le libertà altrui”. Legittima, in determinate circostanze al rispetto di certe condizioni, l
limitazione dei diritti o delle libertà previste dalla Carta. Tra queste condizioni si richiama il principio di
proporzionalità che si basa sul bilanciamento degli interessi che vengono in gioco.

[Leggere relazione sull’applicazione della sussidiarietà e proporzionalità dell’azione.]

ISTITUZIONI
Principio dell’equilibrio interistituzionale: rapporti tra le diverse istituzioni, ciascuna delle quali agisce nei limiti
delle competenze che le sono attribuite dai trattati. Non si possono esercitare competenze attribuite ad altre
istituzioni, nell’esercizio delle competenze attribuite non si può ledere la competenza delle altre istituzioni. La
violazione dell’attribuzione delle competenze è censurabile.

Il quadro istituzionale attuale è molto diverso da come si presentava originariamente. Il Parlamento europeo
aveva una funzione consultiva molto limitata, e tutte le decisioni sostanzialmente venivano prese da Consiglio e
dalla Commissione.
Il quadro con Lisbona cambia perchè aumentano anche le istituzioni: sono elencate dall’art. 13 par. 1.
Questa norma ci ricorda che il quadro istituzionale è unico → le istituzioni sono quelle che troviamo in questa
disposizione, che esercitano le competenze loro attribuite. In base ad un accordo internazionale all’Unione sono
riconosciute anche competenze diverse da quelle attribuitegli dai Trattati, ad esempio nel settore del “fronte alla
crisi finanziaria”.
Il quadro istituzionale è sempre stato unico, fin dal 1992 con l’istituzione dell’Unione c’era una norma che
stabiliva che il quadro era unico.

Perchè quadro istituzionale cambia con Lisbona? Perchè ora si trova espressamente menzionato il Consiglio
europeo che è diverso dal Consiglio (dei ministri dell’Unione). Il Consiglio europeo era già menzionato a partire
da Maastricht ma acquisisce qualifica di istituzione solo con il Trattato di Lisbona.

Istituzioni ex art. 13 par. 1:


1. Consiglio europeo
2. Parlamento
3. Commissione europea
4. Consiglio
5. Corte di giustizia (organo giurisdizionale dell’UE)
6. Banca centrale europea
7. Corte dei Conti
Ciascuna di queste istituzioni agiscono nei limiti delle competenze che le sono attribuite dai Trattati secondo le
procedure per essi previste.

Art. 13 par. 2 “Le istituzioni attuano tra loro una leale cooperazione” → esplicitazione delle modalità attraverso
cui realizzare l’equilibrio istituzionale. Si tratta di esercitare le competenze attribuite senza andare a lederla sfera
di competenza delle altre Istituzioni, e collaborare con esse in modo tale da facilitare l’obiettivo prefissato.
Si tratta di un principio generale che si ritrova già codificato in una norma di apertura dell’TUE, art. 4 par. 3 TUE.
Principio di leale cooperazione è sempre esistito nell’ambito dell’ordinamento comunitario e si è sempre definito
come una “cooperazione imposta agli stati membri nei confronti dell’UE per assicurare la corretta applicazione
del diritto UE. Questo principio nasce come un obbligo di cooperazione degli Stati verso l’Unione per assicurare
l’attuazione efficace delle politiche UE. Senza l’intervento degli Stati (che sono un por la lunga manus delle
istituzioni UE) il diritto UE non sarebbe efficace, solo attraverso il loro intervento si può assicurare effettività del
diritto dell’Unione. Per assicurare questa effettività si impone agli Stati un obbligo di leale collaborazione, che poi
si esplicita in una serie di obblighi che si impongono agli Stati rispetto alle istituzioni.
Art. 4 par. 3 “In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono
reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati”.

Il principio di leale collaborazione è quadirezionale:


1. Obbligo per gli Stati di cooperare con UE. Come si applica questo principio in questa prima direzione?
Trattato impone 3 obblighi nei confronti degli Stati per garantire il rispetto di questo principio di leale
collaborazione. Ex art. 4 par. 3, 2° 3° comma.
• Fare: “Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare, atta ad assicurare
l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni”.
• Assistenza: “Gli Stati membri facilitano all'Unione l'adempimento dei suoi compiti”
• Astensione: “si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli
obiettivi dell’Unione". In questa forma il principio di leale collaborazione comporta un obbligo che si è già
incontrato quando si è parlato del caso del signor Cowan. Qui la sentenza della Corte impone un obbligo allo
Stato di astensione dall’applicazione di una norma in una materia che però era di competenza esclusiva dello
Stato. La sua decisione si fonda sul principio di non discriminazione. Anche in questo caso (competenza
esclusiva) lo Stato non può adottare misure che possono pregiudicare l’obiettivo fissato dai Trattati. Questa è
una chiara esplicitazione della giurisprudenza del principio di leale collaborazione imposto agli Stati nei confronti
dell’Unione.

2. Obbligo delle istituzioni di assistere gli Stati per assicurare applicazione efficace del diritto dell’Unione.
Ipotesi più classica ascendente la troviamo quando si interviene nel settore della concorrenza perchè c’è una
concorrenza esclusiva riconosciuta alla Commissione di adottare atti, essa è tenuta a rispettare il principio
fornendo tutte informazioni necessarie al giudice per verificare ciò che deve verificare e garantire effettività del
diritto UE.

3. Opera nel rapporto tra gli Stati. In che modo? Se uno Stato viola un obbligo che in base al diritto UE ha
nei confronti dell’altro Stato il diritto UE vieta il ricorso alla rappresaglia. Se uno Stato subisce un illecito perchè
ad esempio un altro Stato membro ha violato un regolamento lo Stato leso non può reagire nei confronti della
Francia agendo allo stesso modo: si violerebbe una norma e anche il principio di leale collaborazione.

4. Opera anche nei rapporti tra le istituzioni come si ricava dall’art. 13 par. 2 : “Le istituzioni attuano tra
loro una leale coo¬perazione”. Art. 266 TFUE esplicita (o declina) il principio di leale collaborazione che opera
nel rapporto tra le istituzioni e implica l’obbligo di attenersi alla sentenza.

Art. 13 menziona anche due organismi Comitato economico sociale e Comitato delle regioni, hanno una
funzione sostanzialmente consultiva.

Anche se mancano riferimenti espressi nell’art. 13 ci sono altre disposizioni dei trattati che menzionano organi e
organismi differenziandoli quindi dalle istituzioni indicate dall’art. 13. Oggi l’attività amministrativa dell’Unione,
che un tempo era sostanzialmente concentrata nelle mani della Commissione, è stata delegata ad un numero
elevato di organismi che spesso prendono anche il nome di agenzie.
Qual è la differenza fondamentale tra organi e istituzioni? Perchè Trattato punta tanto su questa distinzione?
Un tempo si diceva che non era istituzione tutto ciò che veniva creato dalle stesse istituzioni. Oggi questa
distinzione non vale più: ad esempio la composizione della Corte è nominata dal Consiglio, eppure essa è
indicata come istituzione.
Una differenza si può trovare nell’autonomia finanziaria riconosciuta solo alle istituzioni. Secondo altri la
differenza sta nel regime linguistico, ma anche questo non è più vero nella prassi: mentre le istituzioni
dovrebbero utilizzare tutte le lingue ufficiali, le diverse agenzie o organi potrebbero avvalersi di un numero
minore di lingua.
Una differenza (fondamentale per la prof e non richiamata dal testo) riguarda l’impugnabilità degli atti: è diverso
il regime di impugnabilità degli atti. Mentre posso impugnare gli atti vincolanti delle Istituzioni, ci sono limiti
rispetto all’ impugnabilità degli organi/organismi: non tutti sono impugnabili, o sono impugnabili solo rispetto
alle condizioni previste nei loro trattati istitutivi.

ISTITUZIONI POLITICHE → Parlamento, Commissione, Consiglio e Consiglio europeo.

PARLAMENTO EUROPEO ART. 14

Le caratteristiche sulla composizione, le funzioni e le procedure si trovano in una norma di riferimento del TUE e
in norme di dettaglio nel TFUE.

Il Parlamento sta in carica 5 anni.


Già nel sistema originario il Parlamento e la Corte di giustizia erano le istituzioni uniche per tutte le 3 comunità.
Mentre il Consiglio e la Commissione erano due istituzioni per EURATOM e CEE fino al 1965. Il parlamento invece
è sempre stato unico per tutte le 3 istituzioni, nel sistema originario si parlava di Assemblea parlamentare.

Una delle differenze fondamentali tra il sistema originario e quello delineato da Lisbona è da ricercarsi
innanzitutto nelle funzioni esercitate e nel deficit democratico che è stato tanto criticato correlativamente al
crescere delle competenze attribuite all’Unione.

Funzioni e deficit democratico


P.E. nasce con funzioni essenzialmente di tipo consultivo, con il passare degli anni e l’estensione delle
competenze UE si assiste ad una critica sempre più forte circa il deficit democratico che caratterizza
l’organizzazione. Si continua a cedere competenze all’Unione ma di fatto è il Consiglio che decide tutto: si sente
la necessità di un organo rappresentativo dei cittadini che partecipa all’esercizio della funzione legislativa.

Nel corso degli anni alla funzione consultiva si sono affiancate altre funzioni e competenze sempre più ampie,
ma il Parlamento aveva sempre posizione sbilanciata rispetto a quello del vero legislatore (Consiglio). Con
Lisbona, almeno quando si tratta di legislatura ordinaria, i due soggetti possono considerarsi co-legislatori a
pieno titolo. Infatti la prima cosa che ci dice l’art. 14 è: “Esercita, congiuntamente al consiglio, la funzione
legislativa e la funzione di bilancio”. La prima cosa che ci viene detta quindi non riguarda la sua composizione ma
le sue funzioni principali: funzione legislativa e di bilancio.

Anche nel sistema pre-Lisbona si era voluto coinvolgere il Parlamento nel processo decisionale attraverso il
controllo sul principio di sussidiarietà ma non solo. L’art. 12 infatti elenca quello che è il ruolo dei parlamenti
nazionali all’interno del sistema. Quindi riconosce formalmente un ruolo specifico ai parlamenti nazionali, e
questo se si vuole può essere uno dei modi in cui è stato fronteggiato il deficit democratico: vengono aumentate
le competenze dell’Unione ma per assicurare il corretto esercizio di queste competenze attribuitegli vengono
coinvolti i parlamenti nazionali nel processo decisionale e per esempio anche nel caso di adesione.
Un tentativo ulteriore di eliminare il deficit democratico l’abbiamo anche attraverso l’inserimento dell’art. 10
TUE: “Il funzionamento dell'Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa”. Il parlamento europeo
rappresenta i cittadini degli Stati membri dal momento che è composto ex. art. 14 par. 2 dai rappresentanti dei
cittadini dell’Unione. Nel sistema pre-Lisbona era rappresentata dai “popoli” degli Stati membri. Qui per
rapportare il collegamento tra la cittadinanza dell’Unione e la rappresentanza a livello di Parlamento si dice che
“rappresenta i cittadini degli Stati membri”.
Democrazia rappresentativa → Unione si fonda su questo principio ex art. 10 par. 1, ed è ribadito dall’art. 14.

Il trattato di Lisbona, sempre per fronteggiare il deficit democratico inserisce anche una previsione in cui parla di
democrazia partecipativa. Ammette cioè, sulla base di quanto previsto dall’art. 11 par. 4 TUE: “Cittadini
dell'Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati
membri (fissato a 7), possono prendere l'iniziativa d'invitare la Commissione euro¬pea, nell'ambito delle sue
attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono
necessario un atto giuridico dell'Unione ai fini dell'attuazione dei trattati”. La Commissione (soggetto che ha
portare di iniziativa legislativa) non ha l’obbligo di portare avanti l’iniziativa legislativa, ma deve valutarla e
indicare le ragioni che portano a declinare la richiesta (in caso ovviamente di declino). Normalmente la
Commissione declina le richieste sostenendo che esse fuoriescano dall’ambito di applicazione dell’unione: i
cittadini chiedono all’Unione di intervenire dove essa non ha la competenza di intervenire.

Elezione del Parlamento


Il Parlamento europeo per quanto riguarda l’elettorato passivo è composto da rappresentanti dei cittadini degli
Stati membri, ma l’elettorato attivo dove posso esercitarlo per eleggere Parlamento europeo? In quale Stato
posso esercitare il diritto di elettorato attivo? Nel mio Stato di cittadinanza ma anche in un altro stato membro
purché si abbia la residenza abituale in quell’ordinamento. Quindi se si soggiorna legalmente in uno Stato
membro diverso da quello di cui si ha la cittadinanza, si può votare anche il quello Stato.

I membri sono eletti a suffragio universale diretto ex art. 14 par. 3: “I membri del Parlamento europeo sono eletti
a suffragio universale diretto, libero e segreto, per un mandato di cinque anni”.
Suffragio universale diretto è stato introdotto nel ’76, ma prima da chi era designata la composizione del
Parlamento europeo? Erano designati dai Parlamenti nazionali quindi si trattava di una rappresentanza
indiretta.

Si è sempre cercato di individuare regole comuni di votazione e adottare normativa che fissasse regole valide per
tutti gli Stati membri per stabilire come doveva svolgersi questa elezione a suffragio universale diretto. Le norme
dedicate al P.E. per quanto riguarda il funzionamento sono contenute negli art. 223 e ss. TFUE.
Art. 223 par. 1: “Il Parlamento europeo elabora un progetto volto a stabilire le disposizioni necessarie per
permettere l’elezione dei suoi membri a suffragio universale diretto, secondo una procedura uniforme in tutti gli
Stati membri o secondo principi comuni a tutti gli Stati membri”. Questa disposizione però non ha trovato
attuazione: non ci sono state normative per istituire una disciplina comune.
Ogni paese è libero di definire la propria disciplina, nel nostro ordinamento la legge che disciplina l’elezione del
P.E. è la l. 18/1979 adottata in vista delle prime elezioni del Parlamento europeo a suffragio universale diretto.
C’è un’indicazione comune che deve essere rispettata per cui deve esserci uno svolgimento contemporaneo
delle elezioni i tutti gli Stati membri, la regola generale è che le elezioni, fissata la data, debbano svolgersi tra il
giovedì e la domenica.

Parlamento europeo sta in carica per 5 anni. Il presidente attuale è Tajani.


Art. 14 par. 2 comma 1 “Il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell’unione. Il loro
numero non può essere superiore a 750, più il presidente. La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo
regressivamente pro proporzionale, con una soglia minima di sei membri per Stato membro. A nessuno Stato
membro sono assegnati più di novantasei seggi”.
Dà informazioni circa la composizione del parlamento europeo fissa numero massimo di parlamentari 750 più il
Presidente eletto dai parlamentari che sta in carica 2 anni e mezzo. Se il Presidente della Commissione è
espressione di uno dei due partiti (socialista o popolare), si tende a scegliere come Presidente del P.E. un
esponente del partito politico opposto per garantire un bilanciamento tra i partiti che hanno ottenuto il maggior
numero di voti.
Ad esempio quando è stato nominato come Presidente della Commissione attuale Junker esponente del partito
popolare, si è scelto Schulz come Presidente del Parlamento europeo in quanto esponente del partito socialista.

Principio di proporzionalità regressiva: Più lo Stato ha un’elevata densità demografica più ha diritto ad un
numero elevato di rappresentanti in seno al Parlamento europeo.
La distribuzione dei seggi avviene attraverso una decisione del Consiglio europeo che adotta all’unanimità ex art.
14 par. 2, 2° comma: “Il Consiglio europeo adotta all'unanimità, su iniziativa del Parlamento europeo e con
l'approvazione di quest'ultimo, una decisione che stabilisce la composizione del Parlamento europeo, nel
rispetto dei principi di cui al primo comma.” Quindi massimo 96, minimo 6.
La decisione che il Consiglio europeo ha adottato in vista delle elezioni 2014 è una decisione del 28 Giugno 2013
che stabilisce la composizione del Parlamento in vista delle elezioni. Qual è il problema? Il 1° luglio la Croazia
entra come stato membro. Alla regola generale fissata con questa decisione del 2013 (che faceva riferimento al
numero di 751) si deroga con l’entrata della Croazia, ma solo per il periodo che va dal 2013 alle elezioni del 2014.
La regola generale è di 751 parlamentari, quando entra la Croazia e fino alle nuove elezioni, per garantire la
rappresentanza del nuovo Stato membro, si aumenta provvisoriamente (1 luglio 2013-elezioni maggio 2014) il
numero dei parlamentari per concedere seggi anche a stato entrante.
Si propone poi di tornare alla regola prevista di 751.
Richiamando le regole richiamate dall’art.14 la decisione dice: “il rapporto tra la popolazione e il numero dei
seggi varia in funzione della rispettiva popolazione. In modo che ciascun deputato al Parlamento europeo di uno
Stato membro più popolato rappresenti più cittadini di ciascun deputato di uno Stato membro meno popolato”.
Più uno Stato membro è popolato più ha diritto ad numero elevato di rappresentanti in seno al P.E. Il criterio di
base è quindi la densità demografica.
Ma in che senso è regressiva? Il parlamentare lituano rappresenterà un numero di cittadini inferiore rispetto a
quello che rappresenterà lo stesso parlamentare tedesco, perchè il parlamentare tedesco rappresenta un
numero di cittadini più altro. Ha diritto a più seggi ma ne rappresenta anche di più, è in questo che consista la
regressività.
Problema del Regno Unito, cosa succede ai 73 seggi che spettano al P.E.?
Secondo alcuni devono essere ripartiti, sempre nel rispetto del principio di proporzionalità regressiva, tra gli Stati
che restano. Secondo un’altra fazione è stata proposta un’altra soluzione, consistente nell’eliminazione di quel
numero di seggi (questa potrebbe essere la scelta più ragionevole a livello soprattutto di costi). Secondo altri
(posizione intermedia) bisognerebbe congelare nelle prossime elezioni questi 73 seggi (riducendo
provvisoriamente il numero di parlamentari) in vista di un eventuale ingresso nell’Unione di altri Stati. Un’altra
posizione, sostenuto fortemente dalla Francia, è quella di creare una circoscrizione elettorale transnazionale.
12-3-18 appunti Valeria
Competenza regressiva che può portare all’uscita del Regno Unito dal Parlamento.
I trattati fissano il numero di 750 parlamentari + il presidente (quindi 751 membri), al Regno Unito sono stati
attribuiti 73 seggi con una ripartizione che si è realizzata prima delle elezioni del 2014. C’era l’indicazione di
ritornare sulla ripartizione del numero dei parlamentari tenendo in considerazione la possibilità che entrassero
nuovi Stati tra il 2014 e il 2019, ma si verifica il fenomeno opposto. Uscendo il Regno Unito, abbiamo 73
parlamentari in più e il tema che si pone è cosa fare di questi membri in più.
C’era l’idea di ridistribuirli tra i restanti 27 Stati membri, c’era anche l’idea abolirli in un’ottica di riduzione di
costi per cui uscito lo Stato si riduce anche di conseguenza il numero dei parlamentari oppure c’era anche l’idea
di creare un partito transnazionale, partito unico con la possibilità che a prescindere dallo Stato di cittadinanza si
avesse la possibilità di votare soggetti che si presentano all’interno di questa lista unica.
Le Indicazione relative al Parlamento le troviamo direttamente nei trattati, in particolare nelle disposizioni
contenute nel TFUE. L’art 14, ultimo par, TUE dice che Il Parlamento europeo elegge tra i suoi membri il
presidente e l'ufficio di presidenza.
L’ufficio di presidente sta in carica 2 anni e mezzo e il mandato è rinnovabile.
Il Parlamento si dota di un regolamento interno, che detta le regole sull’organizzazione e sul funzionamento
interno, ma alcune norme le troviamo già nel TFUE.
ART 229 TFUE ci dice quando si riunisce il Parlamento, il Parlamento ha 3 diverse sedi:
-          Tutte le sessioni plenarie (cioè quando il Parlamento si riunisce in tutta la sua interezza) si fanno a
STRASBURGO.
-          Il Parlamento funziona attraverso una serie di commissioni parlamentari che sono composte da un
numero variabile di parlamentari competenti sulle diverse materie su cui poi l’Unione ha competenza.
Abbiamo gruppi di parlamenti che sono divisi all’interno di queste commissioni permanenti che
istruiscono l’attività che viene poi passata alla votazione del Parlamento nella sua interezza. Se ho
dunque un dossier relativo alla materia della concorrenza, ci sarà la commissione parlamentare
competente per materia che costituisce il fascicolo (fa risoluzioni sul tema o presenta emendamenti da
apportare al testo presentato dalla Commissione) e una volta presentato il testo alla commissione
permanente viene sottoposto all’approvazione del Parlamento nella sua interezza. Queste commissioni
permanenti, competenti rispetto alle diverse materie su cui ha competenza l’Ue, si riuniscono di regola a
BRUXELLES.
-          Sede amministrativa del Parlamento europeo è invece a LUSSEMBURGO.
La tripartizione delle sedi è dovuta al fatto che si era voluto, con l’istituzione della comunità economica europea,
garantire che almeno ben 3 stati (Francia, Belgio e Lussemburgo) avessero una sede dell’allora assemblea
parlamentare. Anche con l’episodio di EMA e l’agenzia del farmaco si cerca di dare ai diversi stati membri sedi
delle istituzioni e delle diverse agenzie, in modo tale che ci sia un certo numero di agenzie o almeno un’agenzia
per ogni Stato membro, in modo tale da distribuire l’attività di questi organi esecutivi o decentrati nei diversi
stati membri. Lo stesso accadeva rispetto alle istituzioni: la Corte sta a Lussemburgo, il Consiglio si riunisce così
come la commissione a Bruxelles. Per quanto si discute da decenni sul riunire la sede in un unico Stato, per il
Parlamento abbiamo 3 diverse sedi.
Le riunioni plenari si hanno almeno una volta al mese.
Art 231 TFUE ci dice come vota il Parlamento: maggioranza dei suffragi espressi con un numero legale di base,
evidentemente un quorum legato alle deliberazioni per cui ci deve essere un quorum minimo (maggioranza
semplice), a meno che non ci siano delle regole specifiche contenute nei trattati che ci dicano una regola diversa.
Una delle ipotesi in cui il trattato pone una regola diversa è quella in cui il Parlamento sia chiamato a votare
una mozione di censura rispetto all’operato della Commissione (art 234 TFUE).
La censura della Commissione nell’ambito di un’attività del controllo del Parlamento rispetto alla Commissione
porta alle dimissioni collettive di tutta la Commissione.
 
COMPETENZE
Art 14 TUE è la norma di riferimento.
-          FUNZIONE LEGISLATIVA: al termine del processo che ha portato ad uno pieno riconoscimento della
democraticità all’interno dell’ordinamento si riconosce al Parlamento europeo il potere di esercitare
insieme al Consiglio il potere legislativo. Gli atti sono adottati dal colegislatore: parlamento e consiglio,
anche se esistono due diversi tipi di procedure legislative: procedura legislativa ordinaria (che vede il
Consiglio e il Parlamento in una condizione perfettamente paritetica) e procedura
legislativa speciale (Parlamento e il Consiglio giocano un ruolo diverso, a seconda dei casi, per cui non
sono perfettamente equiparabili le posizioni delle due istituzioni). Intervengono entrami nell’adozione
dell’atto, che sia un atto qualificabile come atto legislativo.
-          FUNZIONE DI BILANCIO (riferirsi al libro di testo)
 
FUNZIONE LEGISLATIVA
Per quanto riguarda la funzione normativa il Parlamento ha acquisito nel corso degli anni un potere pieno pari a
quello del Consiglio, perché nel sistema originario dei trattati il Parlamento si vedeva riconosciuto soltanto un
RUOLO CONSULTIVO. Il parere che si chiedeva al Parlamento era sì obbligatorio ma non vincolante, con spesso la
possibilità che il Parlamento venisse estromesso dalla possibilità di esprimere il parere: più volte è accaduto che
il Consiglio adottasse l’atto senza chiedere il parere del Parlamento o comunque non rivalutando l’atto alla luce
del parere espresso dal Parlamento, disattendendo la funzione consultiva che il trattato riconosce al Parlamento
e incorrendo l’altro nella lesione dell’equilibrio istituzionale e nella violazione del principio di leale cooperazione
sancito nell’art 4, par 3 TUE e declinato rispetto alle istituzioni e al rapporto tra le istituzioni nell’art 13, 2 TUE.
Abbiamo diverse pronunce della Corte di giustizia che censurano l’operato del Consiglio proprio per violazione di
questo principio e così anche dell’alterazione dell’equilibrio istituzionale.
Nel sistema originario la lesione di questo tipo di prerogative del Parlamento erano davvero confinate a margine
del sistema, in quanto non potevano essere fatte valere dal Parlamento in prima persona, per cui il Parlamento
che si vedesse lese le sue prerogative non poteva agire direttamente contro il Consiglio per chiedere
l’annullamento dell’atto che era stato adottato in violazione delle sue prerogative. Il soggetto che era
competente a garantire la legalità dell’ordinamento e quindi a garantire che anche le prerogative del Parlamento
non fossero lese era la COMMISSIONE. Dunque nel sistema originario era la Commissione che su richiesta del
Parlamento avrebbe dovuto impugnare l’atto del Consiglio per esercitare un’azione di annullamento di quell’atto
che era stata adottato senza chiedere l’intervento consultivo del Parlamento europeo.
Ad un certo punto la Corte di giustizia ha modificato la propria impostazione e ha fatto una vera e propria
interpretazione creativa (funzione creativa della Corte di giustizia, definita come fabbrica di diritto dell’Ue),
sostenendo che in una Comunità di diritto non è sensato, anche se il trattato non lo prevede espressamente, che
il Parlamento non si possa tutelare in situazioni di questo tipo direttamente o autonomamente. Per tale ragione,
a partire dagli anni ’70 ha riconosciuto al Parlamento espressamente la possibilità di agire in giudizio per far
valere la lesione delle sue prerogative e la giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha modificato di fatto i
trattati, è stata codificata all’interno del trattato (in particolare con il trattato di Maastricht abbiamo il
riconoscimento espresso del ruolo attivo del Parlamento, anche a testimonianza del rafforzamento del ruolo del
Parlamento, al fine di riconoscere un rispetto maggiore del principio democratico e nell’ottica anche
dell’estensione delle competenze del Parlamento, organo che rappresenta i cittadini e partecipa sempre più a
pieno titolo nell’esercizio della funzione legislativa.
 
La funzione legislativa si trova disciplinata anche nella parte dei trattati che è dedicata agli atti (art 289 e
seguenti TFUE).
 
L’art 225 TFUE riconosce al Parlamento europeo la funzione che viene definita come funzione di pre iniziativa
legislativa. L’istituzione che detiene il potere di iniziativa legislativa è la Commissione, con l’eccezione dei casi in
cui sia lo stesso trattato a prevedere che soggetti diversi dalla Commissione possano esercitare questo potere
(BCE, Corte di giustizia nelle materie di sua competenza, in certe materie anche un certo numero di Stati
membri).
Si riconosce al Parlamento europeo anche il potere di pre iniziativa legislativa: a  maggioranza dei membri che lo
compongono, il Parlamento può chiedere alla Commissione di presentare adeguate proposte sulle questioni per
le quali reputa necessaria l'elaborazione di un atto dell'Unione ai fini dell'attuazione dei trattati. Se la
Commissione non presenta una proposta, essa ne comunica le motivazioni al Parlamento europeo.
Il discorso è analogo a quanto introdotto con il trattato di Lisbona, che riconosce il potere di chiedere alla
Commissione la possibilità di presentare una proposta di legge ad almeno 1 milione di cittadini (art 11 TUE, come
espressione di democrazia partecipativa e non più solo democrazia rappresentativa).
La richiesta che formulo attraverso il Comitato che raccoglie almeno un milione di firme dei cittadini che
appartengono a Stati diversi o che viene formulata dal Parlamento europeo è una richiesta che deve rientrare
nelle materie su cui l’Unione ha competenza. È una proposta per adottare un atto per realizzare uno degli
obiettivi che sono fissati dal trattato.
In realtà attraverso questo tipo di attività, il Parlamento magari non nell’immediatezza ma a furia di presentare
risoluzioni che chiedono alla Commissione di intervenire sull’uno piuttosto che sull’altro settore riesce a volte a
convincere la Commissione effettivamente a fare una proposta normativa in quella determinata materia che è
stata indicata dal Parlamento.
Con quest’attività però, cioè attraverso la presentazione di risoluzioni (atti non giuridicamente vincolati, atti
atipici perché non sono espressamente menzionati dal trattato ma sono atti che sono venuti a crearsi nella
prassi), spesso il Parlamento è riuscito ad estendere e quindi far sì che poi avesse una estensione delle
competenze dell’Unione rispetto a certe materie.L’esempio più eclatante è una risoluzione del 1984, in cui
Parlamento europeo invita gli Stati attraverso il Consiglio o gli Stati avrebbero potuto elaborare delle
convenzioni a margine del sistema comunitario (come era successo nel 1968 per la convenzione di Bruxelles sulla
competenza in materia di riconoscimento delle decisioni in materia civile e commerciale) ad intervenire e
regolamentare l’operatività del principio del ne bis in idem nel rapporto tra gli Stati membri, cioè far sì che
questo principio che è comune agli Stati civili e che vieta un secondo procedimento rispetto agli stessi fatti in
relazione ai quali il soggetto sia stato già giudicato fosse riconosciuto e operativo non soltanto all’interno del
territorio nazionale.
Nel 1984 il Parlamento invita gli Stati ad elaborare degli strumenti idonei a far sì che anche se la competenza
fosse stata di altri Stati dell’Ue le decisioni fossero comunque coperte dal principio del ne bis in idem. Dunque se
sono giudicato per un certo fatto in Italia non è che se mi sposto in Francia posso essere giudicato di nuovo per
lo stesso fatto dal giudice francese.
Il parlamento quindi chiede agli Stati di intervenire per regolamentare l’operatività di questo principio non
soltanto più all’interno del territorio nazionale ma anche nel rapporto tra Stati.
Nel 1984 non abbiamo alcun tipo di competenza della comunità rispetto alla materia della cooperazione
giudiziaria penale (si attribuisce un minimo di competenza giudiziaria penale alle istituzioni soltanto nel 1992,
con il trattato di Maastricht). Eppure il Parlamento ci prova, individua dei settori ed invita gli Stati a comportarsi
in un certo modo.
Abbiamo l’introduzione di questo principio nei rapporti fra gli Stati membri con una Convenzione che è
precedente rispetto al trattato di Maastricht, perché norme sulla operatività del principio del ne bis in idem sul
rapporto fra Stati si trovano nella Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen (1990), che è una
convenzione elaborata al di fuori del sistema comunitario ma fra gli Stati comunitari (analoga alla Convenzione di
Bruxelles del 1968). La Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen è quella convenzione che assicura
anche la libertà di circolazione delle persone nel territorio degli Stati membri, è stata elaborata dagli Stati
membri ma al di fuori del contesto europeo ed è stata poi integrata nel trattato con il trattato di Amsterdam
(Schengen quindi diventa diritto comunitario a partire dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam). Nel 1990
però gli Stati rispondendo all’invito del parlamento europeo decidono di regolamentare l’operatività di questo
principio nei loro reciproci rapporti.
 
LA COMMISSIONE COME SI DEVE COMPORTARE RISPETTO ALLA PROPOSTA DEL PARLAMENTO e quindi rispetto
all’esercizio di questo potere di pre - iniziativa legislativa? Ha un obbligo di presentare l’iniziativa legislativa
quando il Parlamento formula questa richiesta? No, perché la Commissione detiene, al di là dei casi in cui il
trattato riconosce il potere di iniziativa legislativa ad altri soggetti, un’iniziativa pressoché esclusiva, ma
soprattutto ha un’ampia discrezionalità sulla possibilità di esercitare o meno l’iniziativa legislativa.
Questo vuol dire che a fronte della richiesta del Parlamento (così come a fronte della richiesta di 1 milione di
cittadini come previsto dal regolamento 182/2011 che è il regolamento attuativo della previsione dell’art 11
TUE), la Commissione non ha l’obbligo di presentare l’iniziativa legislativa. Se il Parlamento fa la richiesta e la
Commissione non esercita l’iniziativa legislativa il Parlamento non può agire in carenza contro la Commissione,
cioè non può fare un’azione contro la Commissione per dire che non ha agito e quindi chiede che sia censurata
perché non ha agito in quanto la Commissione non ha alcun obbligo.
Questo trova conferma all’art 265 TFUE afferma che è possibile fare un’azione in carenza laddove si voglia
censurare l’inerzia dell’istituzione che aveva l’obbligo di agire ed è rimasta inerte, violando un obbligo di azione.
Rispetto all’iniziativa legislativa la Commissione si attiva su discrezionalità, tuttavia la Commissione deve (art
225 TFUE) comunicare al richiedente (quindi al Parlamento europeo e così ai cittadini) le motivazioni per cui
decide di non procedere (per es. non c’è la competenza, non sarebbe rispettato il principio di sussidiarietà). Se il
Parlamento presenta la richiesta e la Commissione, trascorso un certo lasso temporale, non indica al Parlamento
quelle che sono le motivazioni che la spingono a non esercitare l’iniziativa allora sta violando un obbligo (resta
inerte rispetto ad un obbligo) e allora possibile esercitare l’azione in carenza.
L’inerzia è illegittima perché c’è un obbligo previsto dal trattato circa la comunicazione delle motivazioni che
portano la Commissione a non esercitare l’iniziativa legislativa.
 
-          FUNZIONE DI CONTROLLO: Esercita funzione di controllo politico e consultive alle condizioni
stabilite dai trattati (art 14 TUE).
Le modalità attraverso cui il Parlamento esercita le funzioni di controllo sono molteplici.
Questa funzione di controllo riconosciuta al Parlamento si è ampliata nel corso degli anni, nel senso che nel
sistema originario il Parlamento controllava l’operato della Commissione che alla fine dell’anno doveva
presentare una relazione annuale sul suo operato al Parlamento europeo.
Poteva intervenire attraverso delle vere e proprie INTERROGAZIONI PARLAMENTARI, che possono essere scritte
o orali, e possono essere rivolte non soltanto ai membri della Commissione ma anche agli altri membri delle
istituzioni.
Abbiamo poi lo strumento della MOZIONE DI CENSURA attraverso cui il Parlamento può votare contro l’operato
della Commissione e imporre le dimissioni collettiva alla Commissione stessa (art 234 TFUE e art 17 TUE).
La funzione di controllo si estende nel corso degli anni perché il Parlamento esercita un controllo sull’operato
delle altre istituzioni: Consiglio e Consiglio europeo che sono tenuti a presentare delle relazioni annuali
sull’attività che svolgono, lo stesso fa la Corte dei conti.
Ci sono poi altri due strumenti con cui il Parlamento può esercitare una funzione di controllo:
1.       Controllo che il Parlamento delega ad un altro soggetto: MEDIATORE EUROPEO, disciplinato dall’art
228 TFUE. Il parlamento esercita una funzione di controllo anche sul mediatore, che è nominato dal
Parlamento, ma il mediatore europeo a sua volta svolge un’attività di controllo rispetto all’operato delle
istituzioni, organi e organismi. È un soggetto che esercita funzioni di controllo e di garanzia della legalità
dell’attività dell’Unione anche rispetto all’attività e operato del Parlamento stesso. Dunque è vero che il
Parlamento nomina il mediatore, ma il mediatore controlla anche l’attività del Parlamento in quanto
soggetto indipendente.
2.       Possibilità di rivolgere delle PETIZIONI al Parlamento europeo. Questa attività è riconosciuta
innanzitutto ai cittadini degli Stati membri (è uno dei diritti annoverati tra i diritti dati dalla cittadinanza
dell’Unione). Normalmente attraverso la petizione si denuncia un certo fatto, chiedendo che il
Parlamento esprima una posizione su quella determinata questione, la petizione può essere rivolta al
Parlamento non solo dai cittadini ma anche da tutti quei soggetti che abbiamo la residenza (persona
fisica) o la sede legale (persona giuridica) in uno degli Stati membri (art 227 TFUE). Attraverso la
petizione si chiede un intervento del Parlamento europeo su determinate circostanze: anche rispetto al
caso di EMA è stata rivolta una petizione al Parlamento europeo evidenziando come fosse stato violato il
principio rispetto alla designazione della sede e quindi le regole di buona amministrazione e di
trasparenza (si è investita la corte di giustizia e il tribunale con ricorso sia da parte del pool di Milano
quanto del governo), perché potesse prendere una posizione specifica rispetto a questa situazione. C’è
chi ritiene alla designazione della nuova sede, c’è chi sostiene che siano state violate le prerogative del
parlamento europeo, perché la scelta non si capisce se è stata presa dal Consiglio (tesi di Milano), in
realtà formalmente l’atto è stato preso dai rappresentanti degli stati membri a margine del consiglio e
quindi la difesa del consiglio è che l’atto non è stato adottato dal consiglio e quindi l’atto non è
impugnabile, per cui il ricorso non può esserci.
Si sostiene che questo atto non avrebbe dovuto essere adottato né dal Consiglio in quanto tale né dagli
Stati a margine del Consiglio, ma in realtà avrebbe dovuto essere una decisione presa dal consiglio e dal
parlamento europeo, per cui la petizione è in realtà funzionale al fatto che il Parlamento faccia valere le
proprie tesi.
3.       La petizione potrebbe spingere il Parlamento europeo a istituire delle COMMISSIONI TEMPORANEA
DI INCHIESTA (altra modalità di esercizio di controllo). La commissione parlamentare, in questo caso
temporanea, di inchiesta, viene regolata sempre come espressione di una funzione di controllo del
Parlamento all’art 226 del TFUE. È una commissione che può essere istituita ah hoc, su richiesta di un
certo numero di parlamentari, ha una finalità precisa e una funzione temporalmente limitata.
Il compito è quello di esaminare le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione
del diritto dell’Unione, salvo quando i fatti di cui trattasi siano pendenti dinanzi ad una giurisdizione e
fino all'espletamento della procedura giudiziaria. Per es. con riferimento alla questione di EMA dalla
petizione avere anche la commissione di inchiesta perché i fatti sono già oggetto di un procedimento
giudiziale. Nulla esclude però che, nella misura in cui la petizione riguardi una questione in cui c’è già un
procedimento giurisdizionale pendente il Parlamento decida di fare un approfondimento sulla questione
oggetto della petizione attraverso l’istituzione di una commissione temporanea di inchiesta.
L’art 228 TFUE sancisce la differenza fondamentale tra l’attività della commissione d’inchiesta e l’attività del
mediatore. La commissione d’inchiesta viene incaricata, secondo l’art 226 TFUE, di esaminare le denunce di
infrazione o di cattiva amministrazione nell'applicazione del diritto dell'Unione. Secondo l’art 228 TFUE invece, il
mediatore è abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell'Unione o di qualsiasi persona fisica o
giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro (chi può fare petizioni al parlamento europeo
ha anche la possibilità di rivolgersi al mediatore: i legittimati attivi sono gli stessi sia per la petizione sia per il
ricordo al mediatore), e riguardanti casi di cattiva amministrazione nell'azione delle istituzioni  (istituzioni in
generale e quindi anche del parlamento europeo),  degli organi o degli organismi dell'Unione, salvo la Corte di
giustizia dell'Unione europea nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. Le ipotesi di cattiva amministrazione
non può riguardare l’esercizio della funzione giurisdizionale, per cui si può presentare una denuncia rispetto al
fatto che la Corte di giustizia ha gestito male la gara di appalto per es. per farsi rifare gli ascensori all’interno
delle strutte della corte di giustizia di Lussemburgo, ma non è possibile contestare tramite il ricorso al mediatore
che la Corte di giustizia ha sbagliato motivazione nell’adottare una certa sentenza, consentendo al mediatore di
valutare l’attività giurisdizionale della Corte di giustizia. L’attività della Corte come attività di tipo amministrativo
può incorrere nell’attività di cattiva amministrazione ma non si può contestare la non correttezza nell’esercizio
dell’attività giurisdizionale. La norma ci dice denunce di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni,
organi o organismi dell’Unione, purché non ci sia già un procedimento giurisdizionale pendente davanti al
giudice dell’Unione o davanti ad un giudice degli Stati membri.
Qual è la differenza dei confini entro cui si possono muovere le commissioni di inchiesta e i confini in cui si
muove il mediatore? Per il mediatore il riferimento è “cattiva amministrazione imputabile alle istituzioni, agli
organi o organismi dell’Unione; per le Commissioni di inchiesta si fa riferimento a “infrazioni o cattiva
amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Ue”.
La Commissione, senza dubbio, si muove in un ambito più ampio: cosa può esaminare una Commissione
d’inchiesta che invece il mediatore non può esaminare? Innanzitutto abbiamo una differenza fondamentale che
è evidente sulla basse di una lettura arbitrale dell’art 228 TFUE in combinato con l’art 226 TFUE rispetto ai
soggetti la cui attività può essere oggetto di valutazione da parte del mediatore o della Commissione d’inchiesta.
L’art 228 TFUE parla di cattiva amministrazione imputabile alle istituzioni, organi e organismi, per l’attività che
non può essere oggetto di valutazione da parte del mediatore è l’attività degli Stati, l’attività del mediatore si
concentra sulle ipotesi di attività di cattiva amministrazione da parte di organi, istituzioni e organismi.
Una denuncia di cattiva amministrazione del mediatore è stata presentata da Eurojust (agenzia dell’Ue che
coordina l’attività finanziaria degli organi giudiziari degli Stati membri) che aveva fatto una serie di concorsi e
ammetteva dei rimborsi spese sino ad una certa somma, ma questa somma era molto più elevata per i candidati
che si presentavano al concorso ed erano cittadini degli stati membri rispetto ai soggetti che si presentavano e
che venivano da Stati terzi. cattiva amministrazione da parte dell’organismo. Il soggetto dello Stato terzo che si
vedeva rimborsato una somma inferiore rispetto a quella rimborsata ai cittadini europei ha enunciato la cattiva
amministrazione nella gestione del concorso da parte dell’organismo.
In un caso di questo tipo, il mediatore fa un esame nel merito della denuncia presentata dal soggetto
interessato, trasmette la relazione sulla denuncia al soggetto a cui si contesta la cattiva amministrazione con lo
scopo di eliminare l’ipotesi di cattiva amministrazione (non sempre suscettibile di controllo in sede
giurisdizionale) senza avere necessariamente un contenzioso allo scopo di un controllo politico: garantire la
trasparenza dell’attività delle istituzioni, l’attuazione del principio di buona amministrazione (principio generale
del diritto dell’Ue, sancito anche all’art 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue).
Nel 90 % dei casi di denuncia presentate al mediatore l’ipotesi di cattiva amministrazione viene meno, anche se
le prese di posizioni del mediatore (relazioni) non sono vincolanti e quindi non sono atti impugnabili. Anche se
non sono vincolanti, normalmente tendono a far sì che le ipotesi di cattiva amministrazione sia effettivamente
rimossa.
Molti casi di cattiva amministrazione riguarda l’assenza di trasparenza dell’attività delle istituzioni e in particolare
rispetto alla nomina dei giudici della Corte di giustizia e del Tribunale (nominati da governi degli Stati membri,
non dal Consiglio) la nomina dei giudici non è un atto giustiziabile in quanto è una scelta degli Stati e questa
resta. Si contestava l’attività di un Comitato di saggi (art 255 TFUE) che ha il compito di valutare l’adeguatezza
dei soggetti che gli Stati propongono come giudici alla Corte di giustizia o al Tribunale. Con il trattato di Lisbona
dunque si inserisce questo meccanismo di controllo sulla competenza dei giudici e sull’adeguatezza ad esercitare
le funzioni per cui saranno chiamati a sedere all’interno della Corte di giustizia. Si è contestato tramite denuncia
al mediatore l’assenza di trasparenza dell’attività del comitato; con un invito al comitato l‘attività del mediatore
è riuscita in questo intento a rendere pubblici i verbali delle riunioni del Comitato con le valutazioni di
adeguatezza dei diversi candidati nell’interesse della buona amministrazione e della trasparenza.
In ogni caso gli atti del mediatore non sono vincolanti, benché poi si riesca in un alto numero di casi ad eliminare
l’ipotesi di cattiva amministrazione, e l’atto del mediatore non è impugnabile.
La Corte di giustizia ad un certo punto ha riconosciuto che l’attività del mediatore può essere sindacabile con
l’azione di responsabilità extracontrattuale dell’Unione. Dunque l’ipotesi di cattiva gestione della procedura da
parte del mediatore che arreca un danno ad un determinato soggetto può essere censurata con un’azione di
responsabilità contro l’attività del mediatore →il suo atto non è annullabile, ma quanto meno se subisco un
pregiudizio posso chiedere il risarcimento del danno nei confronti dell’Unione per l’attività del mediatore.
 
Differenza dell’attività del mediatore rispetto alla Commissione d’inchiesta: ipotesi di cattiva amministrazione
nell’applicazione del diritto dell’Unione.
Sicuramente l’ipotesi di cattiva amministrazione è un’infrazione imputabile agli Stati, per cui potrebbero
riguardare anche l’attività degli Stati e non solo quella degli organi e istituzioni.
La differenza è poi che qui la cattiva amministrazione si ha nell’applicazione del diritto dell’Ue: la commissione di
inchiesta può valutare anche l’applicazione corretta o meno del diritto dell’Unione e quindi vagliare anche
l’attività normativa tanto delle istituzioni quanto degli Stati, mentre l’attività del mediatore si concentra sul
profilo amministrativo- esecutivo. Non si può attraverso l’attività del mediatore contestare l’illegittimità del
processo decisionale o l’illegittimità di un atto (questo si può fare attraverso la tutela giurisdizionale e quindi
ricorrendo al giudice).
L’attività del mediatore è dunque più ristretta rispetto a quella della Commissione d’inchiesta sia per quanto
riguarda i soggetti che possono essere controllati sia per quanto riguarda l’oggetto del controllo: cattiva
amministrazione VS cattiva applicazione della norma ma in sede anche normativa.
Spesso è successo che all’esito dell’attività di inchiesta che avesse ad oggetto l’attività degli Stati la Commissione
abbia deciso di avviare una procedura d’infrazione, per cui attraverso l’operato della commissione d’inchiesta è
stato messo in luce che un certo Stato aveva una normativa tale da violare il diritto dell’Ue e la Commissione ha
avviato la procedura d’infrazione, agendo in sede giurisdizionale per contestare un certo fatto.
 
ALTRI POTERI che il trattato attribuisce al Parlamento oltre a quelli espressamente riconosciuti dall’art 14, tra cui
“Il Parlamento europeo elegge il presidente della Commissione”.
Il Parlamento interviene, secondo il trattato di Lisbona, anche nella nomina di uno dei 7 soggetti che formano il
Comitato dei saggi, che è incaricato di valutare l’adeguatezza e le competenze del candidato come giudice alla
Corte di giustizia (art 255 TFUE).
Il Parlamento ha poi un ruolo rafforzato nel:
-          Procedimento di revisione dei trattati (art 48 TUE)
-          Procedimento di adesione, nella richiesta di adesione all’Ue da parte di nuovi Stati membri
-          Procedimento di conclusione degli accordi internazionali: normalmente il Parlamento è stato al più
soltanto consultato (si prevedeva un intervento in sede di stipulazione dell’accordo con richiesta di
parere obbligatorio ma non vincolante), mentre nel corso del tempo con il trattato di Lisbona si
riconosce al Parlamento il potere di approvazione dell’accordo (= si riconosce al Parlamento un potere di
veto, per es. approvazione dell’Ue alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo).
 
Art 14, par 1 TUE. Il Parlamento europeo elegge il presidente della Commissione e nomina la Commissione nel
suo complesso.
La Commissione non è sempre stata l’istituzione unica, con il trattato sulla fusione degli esecutivi (1965) le
istituzioni che sono state fuse sono il Consiglio e la Commissione.
Il meccanismo di nomina della Commissione è un procedimento complesso.
Come viene nominata la Commissione? Come si è contestata la presa di posizione della stessa Commissione e
del Parlamento nel tentativo di predeterminare quello che potrebbe diventare il presidente della Commissione,
andando così a forzare la lettera dell’art 17, par 7 TUE (norma che disciplina la modalità di nomina della
Commissione). (Differenza tra paragrafo e comma? Il paragrafo è quando l’art è già numerato, mentre il comma
è quando non abbiamo una numerazione).
La norma ci dice che c’è una stretta correlazione tra l’individuazione del presidente della Commissione e poi il
presidente designato, eletto dal Parlamento europeo, individua tutti gli altri componenti della Commissione (2
fasi).
Il presidente della Commissione viene proposto dal Consiglio europeo (soggetto che ha ottenuto un
riconoscimento di funzione con il trattato di Lisbona), a maggioranza qualificata. Dunque il Consiglio europeo
propone un candidato alla carica di presidente della Commissione, perché poi la designazione fatta dal Consiglio
europeo (a metà fra Stati di governo e Stati membri) è sottoposta a votazione del Parlamento europeo, che
elegge il presidente della Commissione, posto che il soggetto proposto dal Consiglio europeo vada bene al
Parlamento europeo. L’elezione avviene a maggioranza dei membri che lo compongono, se non si ottiene la
maggioranza entro un mese dalla data della mancata elezione il Consiglio europeo deve designare un altro
soggetto candidato alla presidenza.
Come fa il Consiglio europeo ad individuare il soggetto che può essere candidato alla presidenza e quindi
sottoposto alla elezione del Parlamento europeo? La norma (art 17, par 7) dice.. tenuto conto delle elezioni del
Parlamento europeo, dopo aver effettuato le consultazioni appropriate.
Abbiamo quindi le elezioni, si fanno le consultazioni appropriate e i membri del Consiglio europeo cercheranno
di individuare un candidato alla presidenza della nuova Commissione, cioè della Commissione che si va a
insediare dopo le elezioni del Parlamento → Stretta correlazione che si ha tra la legislatura e il mandato della
Commissione, perché entrambi sono disciplinati subito dopo le elezioni del Parlamento e tenendo conto delle
relazioni si propone al Parlamento europeo un candidato alla presidenza della Commissione. Nell’ottica del
principio della legale cooperazione, tenendo conto che il Parlamento europeo deve approvare ed eleggere a
maggioranza dei suoi componenti (metà + 1 dei componenti), il candidato deve avere comunque un certo tipo di
consenso.
Sulla base di una risoluzione (luglio/2013) che ha adottato il Parlamento (non è atto vincolante, ma può
influenzare il comportamento dei partiti nel momento in cui presentano i propri candidati al Parlamento
europeo), il Parlamento ha evidenziato come fosse utile nel tentativo di avvicinare i parlamentari ai cittadini
dell’Unione (quindi a fronte del riscontrato disinteresse generale dei cittadini dell’Ue rispetto all’attività del
Parlamento) e nel tentativo di fare in modo che la campagna elettorale delle elezioni del Parlamento europeo sia
meglio legata ai problemi nazionali (nel senso che il parlamento europeo avverte come poi anche quando si
fanno le elezioni del parlamento europeo nei diversi Stati membri tutti pongono sul piatto della bilancia quelli
che sono i problemi nazionali) si invitano tutti i partiti che partecipano alle elezioni e che esprimono dei propri
candidati ad indicare quello che potrebbe diventare il presidente della Commissione europea nel momento in
cui il partito prendesse il maggior numero di voti.Quindi ciascun partito presenta giù un proprio candidato alla
presidenza della Commissione per rendere edotto l’elettore, che nel momento in cui sta dando il voto
all’elettore sta indirettamente votando quello che potrebbe diventare il presidente della Commissione. Così
facendo so già chi poi andrà a la Commissione.
Questa politica (cd. Spitzenkandidat) seguita per la nomina della Commissione attualmente in corso è oggi
oggetto di ampie discussioni, per cui si chiede se sia o meno opportuno seguire questa politica per la nomina
della prossima Commissione (elezioni 2019), che starà in carica dal 2019 al 2024.
Si dice che si forza la lettera, perché se il partito popolare prendesse 300 seggi dovrei dare la presidenza per
forza di cose al soggetto che è stato già indicato dal partito, per cui si sta forzando la lettera del trattato.
Forse anche per queste ragioni si vuole cercare di cambiare questa politica e gli stessi Stati membri si sono
mostrati sfavorevoli a ripetere questo tipo di procedura. Sicuramente per le elezioni di Junker del 2014 sono
state seguite le indicazioni della risoluzione, in quanto Junker era espressione del partito popolare che ha preso
la maggioranza dei voti. Dunque tenendo conto delle elezioni e del fatto che quello era il partito che avesse
preso la maggioranza dei voti, Junker viene eletto presidente della Commissione mentre la presidenza del
Parlamento europeo viene data a Schulz.
 
13-3-18
PROCEDURA DI NOMINA DELLA COMMISSIONE EUROPEA
È una procedura interamente comunitaria
art 17 par 7
Il presidente della commissione è designato dal consiglio europeo e sottoposto all’elezione del parlamento
europeo, ma è necessaria una maggioranza. Se l’elezione è positiva, abbiamo il presidente eletto, il cui compito è
quello di individuare la lista dei candidati commissari; questa lista la fa con il Consiglio, che insieme al presidente
deve individuare tutti gli altri soggetti che andranno a comporre la commissione; Art 17 par 3: i membri della
commissione sono scelti in base alla competenza generale e impegno europeo… La commissione ha il compito di
assicurare imparzialità è indipendenza e rappresenta gli interessi generali dell’Unione, mentre il parlamento
rappresenta i cittadini e i loro interessi. Un profilo di indipendenza c’è tra la nomina stessa della commissione e il
consiglio europeo e anche il parlamento. I membri della commissione non possono accettare nessuna
indicazione da organi che perseguono interessi personali (governi, istituzioni…).
Art 245 TFUE ribadisce il concetto espresso dall’art 17: gli stati membri rispettano l’indipendenza della
commissione: c’è una specificazione del principio di leale cooperazione. Una volta nominati, non possono
esercitare alcuna attività professionale; devono rispettare gli obblighi derivanti dalla loro carica anche dopo il
loro mandato. Il problema si pone per tutti i soggetti che collaborano con i membri della commissione.
Se violo questi obblighi, al presidente della commissione potrebbe essere richiesto di dare le dimissioni o
potrebbe esserci un intervento della Corte di Giustizia.
Definite le caratteristiche che devono rispettare i soggetti, la scelta è fatta dal presidente eletto e dal consiglio. Il
consiglio, composto dia rappresentanti degli stati membri, si riunisce con il presidente, e la regola è quella per
cui ogni rappresentante dello stato propone un proprio candidato (sono cittadini). Numero di commissari è pari
al numero degli stati membri. Di comune accordo, sulla base delle candidature scelte dagli stati, si sceglie quale
portafoglio dare ai diversi candidati commissari, e si decide chi deve andare a fare cosa (ripartizione dei
portafogli: si ripartiscono le funzioni e competenze). Il primo candidato che scelgo all’interno della commissione
è un soggetto che si chiama (art 18 TUE) ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA
POLITICA DI SICUREZZA. Questo soggetto è di diritto uno dei vicepresidenti della commissione (par 4 art 18), ma
ha una funzione anche all’interno del Consiglio, e ha la funzione di assicurare la coerenza delle azioni dell’UE
esternamente (ora è Federica Mogherini).
Il presidente e l’alto rappresentante e gli altri membri della commissione sono soggetti ad un voto di
approvazione del Parlamento europeo, che approva la composizione integrale della Commissione. Ogni
candidato commissario è sottoposto ad audizioni parlamentari, che fanno delle vere interrogazioni del
candidato. Una volta che tutti sono approvati, andiamo al voto di approvazione del parlamento, che è collettivo.
La palla ora torna al Consiglio Europeo. La commissione è formalmente nominata dal Consiglio europeo che
delibera a maggioranza qualificata.
La commissione sta in carica 5 anni, ma si possono verificare episodi di decesso dei commissari o dimissioni di un
commissario, che possono essere volontarie, anche su richiesta del presidente della commissione. Quest’ultimo
ha una posizione sovraordinata rispetto ai singoli commissari. Si può chiedere ad un commissario di dimettersi
nel momento in cui viola gli obblighi detti primi. La violazione commessa dal singolo commissario potrebbe dare
avvio da una procedura di censura da parte del parlamento e qualora viene approvata, si potrebbe portare a far
dimettere tutta la commissione dato che è stata approvata nella sua collegialità dal parlamento stesso. La
mozione di censura può essere richiesta anche se nasce da una violazione commessa da un solo commissario, la
commissione cade di blocco. Se il presidente chiede al commissario di dimettersi, lui deve dimettersi.
Se cade la commissione (dimissione collettiva), si nomina una nuova commissione, che però resta in carica fino a
quando non scade la prima commissione, per il tempo residuo (art 234).
Possono esserci casi in cui abbiamo un posto vacante, in caso di dimissioni o morte di un commissario, (art 246)
il membro da sostituire viene nominato dal consiglio di comune accordo con il presidente. Quindi non devo
riaprire tutta la procedura.
C’è un problema rispetto al caso in cui venisse votata la mozione di censura, che porta alle dimissioni della
commissione, che ne è della figura dell’alto rappresentante? continua a svolgere le funzioni all’interno del
consiglio anche se si è dimesso? Non implicano automaticamente la perdita del ruolo che ha nel consiglio.
Per le dimissioni d’ufficio, è difficile che si arrivi ad una sentenza della corte che accerta la violazione del
commissario, e quindi se il presidente lo chiede, il commissario deve dare le dimissioni. C’è stato un caso Cresson
deciso nel 2006, dove il commissario era ormai cessato dalle funzioni ma gli si contestava l’attribuzione di
incarichi a soggetti che poso c’entravano con il suo mandato. La Corte ha pronunciato la decadenza della
pensione e dai privilegi sostitutivi.
LA COMPOSIZIONE
Art 17 par 4: numero commissari. Non sempre c’è stata la corrispondenza tra stati e membri, ma con l’ingressi di
nuovi stati membri del 2004 avevamo 20 commissari, quindi più degli stati. ma ora la regola è di un commissario
per stato membro, ma con l’aumento degli stati si è ritenuto che fosse eccessivamente complesso il meccanismo
della commissione, per rendere meno gravoso il suo funzionamento, con il trattato di Nizza si + proposto di
ridurre il numero dei commissari. Dal 1° novembre 2014 la commissione non sarebbe stata più composta da 1
soggetto per stato membro, ma da un numero più ridotto, quindi non ci sarebbe stata più la corrispondenza tra
numero di stati e numero di commissari. Il numero de commissari è di 2/3 del numero di stati membri, a
rotazione. Questo sistema non è mai stato attuato, perché una delle motivazioni per cui si era bloccato il trattato
di ratifica del trattato di Lisbona, in Irlanda la popolazione si era espressa in senso contrario, e una delle
concessioni fatta alla Irlanda per ottenere una ratifica fu quelle di concederle il suo commissario.
Il presidente della commissione ha un ruolo fondamentale anche nel consiglio europeo, perché vi siede
all’interno, e contribuisce a definire l’attività normativa dell’UE. Una delle altre proposte sul tavolo, su cui si
discute da anni, è quella di chiedersi se non unire in un’unica figura la commissione e consiglio europeo.
La commissione ha l’iniziativa legislativa, ma ci sono dei casi (art 76 TFUE) ove l’iniziativa legislativa è
riconosciuta ancora agli stati membri, nelle materie relative alla cooperazione di polizia (terzo pilastro). Anche se
in realtà non sono più gli stati singolarmente ad avere il potere, ma almeno ¼ degli stati membri. Tutte l’attività
della commissione è regolata sulla base del PRINCIPIO DI COLLEGIALITA’. La violazione di questo principio rende
l’atto inesistente (che non è un vizio dell’atto in realtà), che può essere censurato in qualsiasi momento.
I rapporti con gli stati terzi e organizzazioni internazionali sono gestiti dalla commissione, che ha la
rappresentanza esterna, e interviene negli accordi internazionali ma su delega del consiglio. Altro potere della
commissione è il POTERE DI CONTROLLO, che esercita sia nei confronti delle istituzioni (organi e organismi) sia
nei confronti dei singoli (nella materia della concorrenza ad esempio). Ha un potere di controllo anche rispetto
l’attività degli stati (vigila sull’applicazione dei trattati e del diritto dell’unione sotto il controllo della corte di
giustizia). La commissione è chiamata “Guardiana dei Trattati”, sempre a tutela dell’Unione, della legalità
comunitaria. Rispetto agli Stati la modalità attraverso cui la commissione agisce per chiedere di censurare i
comportamenti degli stati è la PROCEDURA DI INFRAZIONE (ART 258-260). La commissione ha anche un POTERE
DI ESECUZIONE del diritto dell’Unione. Può adottare atti di esecuzione, potere che esercita sotto l controllo del
consiglio. Può adottare anche atti delegati. Ha quindi una funzione normativa.

14-3-18
Il Consiglio Europeo acquisisce la qualifica di istituzione con il Trattato di Lisbona. Gli atti del consiglio dopo
Lisbona sono suscettibili di impugnazione, prima no. Il Trattato di Maastricht codifica una prassi, sviluppatasi
all’inizio del 60: dal 61, con lo scopo di affrontare i problemi di integrazione europea, si riunivano i capi di stato
di governo degli stati membri; quindi si inizia a sviluppare nel 1961 questa prassi c.d. “dei vertici”  riunione dei
capi di stato di governo per discutere di riunioni politiche. Questa prassi si formalizza nel 1974, anno in cui
abbiamo 3 riunioni all’anno di questi vertici, e la funzione del vertice è quella indicata oggi nell’art 15 TUE,
perché la funzione essenziale del Consiglio Europeo, e quindi dei capi di stato, è quella di DARE ALL’UNIONE GLI
IMPULSI NECESSARI AL SUO SVILUPPO…. Quindi le grandi direttrici su cui si muove la politica dell’UE viene
definita dal Consiglio Europeo. È una istituzione che ha un carattere intergovernativo, sia per la funzione che
svolge, sia per la composizione, e si manifesta anche per quanto riguarda le modalità di votazione del Consiglio,
in cui abbiamo il metodo del c.d. “consensus” (già visto in diritto internazionale): la votazione viene presa
attraverso questo metodo, cioè se nessuno si oppone, la deliberazione viene presa, ad unanimità. Quando il
Consiglio delibera in questo modo, partecipano alla votazione/decisione, per definire l’orientamento generale
dell’UE, tutti i componenti del Consiglio, che oggi non sono più i capi di stato degli stati membri, ma anche il
Presidente della Commissione e il Presidente del Consiglio Europeo. Con Lisbona si decide di individuare una
figura a capo del Consiglio, nel tentativo di dare maggiore continuità al funzionamento dell’Unione nel suo
complesso, un soggetto diverso dagli altri, i capi hanno un loro presidente che ha una serie di funzioni definite
nel Trattato, e il Presidente del Consiglio Europeo è eletto dai capi di stato di governo, che si riuniscono in seno
al Consiglio Europeo. Il Presidente sta in carica per un periodo di 2 anni e mezzo, durata uguale a quella del
Parlamento Europeo. Si decide a maggioranza qualificata, quindi non c’è il consensus. Il Consiglio europeo è
quindi composto dal suo Presidente, dai capi di stato e di governo e dal Parlamento della Commissione. Sul
Consiglio abbiamo solo 2 norme di dettaglio sul TFUE, art 235 e 236, relativo alle modalità di voto, e quindi la
maggior parte delle indicazioni le troviamo poi tutte sul TUE, e fissa anche le regola sulla riunione (almeno 2
volte a semestre). Ai lavori del Consiglio partecipa (ce lo dice l’art 15 par 2) anche l’Alto rappresentante (art 18
TUE), partecipa ma non vota, non prende parte formalmente alle deliberazioni; quindi partecipa ai lavori del
Consiglio per garantire la piena coerenza della sua attività rispetto l’attività del Consiglio per quanto riguarda la
rappresentanza esterna. Il sistema PESC ha sue caratteristiche particolari da quelle del modello comunitario, e la
Commissione e Parlamento hanno ruolo marginale in quella materia/pilastro, mentre ruolo c’entrale lo hanno gli
stati che si esprimono attraverso il Consiglio europeo. Quindi per assicurare la coerenza della PESC si consente
all’alto rappresentante di partecipare alle riunioni. Il Consiglio può farsi assistere da un Ministro, che sarà quello
competenze oggetto della materia di discussione, ma non hanno nemmeno loro potere di voto.
Tra le diverse funzioni, il Consiglio europeo:
- partecipa attivamente alla nomina della Commissione
- nomina formalmente la Commissione dopo l’approvazione del Parlamento europeo
- nomina e revoca l’Alto rappresentante
- la ripartizione del numero di parlamentari tra i diversi stati membri
- ha la competenza a modificare il numero dei commissari, la composizione della Commissione passa da una
scelta del Consiglio europeo
- interviene anche sulla determinazione delle composizioni del CONSIGLIO (diverso dal consiglio europeo), e
gli spetta anche la definizione della rotazione della presidenza del consiglio
- ha anche ruolo importante sul processo di revisione dei trattati, ha la possibilità di andare a modificare i
trattati secondo un meccanismo semplificato e diverso da quello codificato dall’art 48.
- Dove si crea un problema per l’adozione di un particolare atto, è possibile che il processo decisionale si
blocchi e della questione sia investito il Consiglio europeo. È possibile quindi che il Consiglio sblocchi la
situazione di stallo che caratteristica il processo decisionale in quella determinata fase; è possibile che si
riesca a raggiungere un compromesso, ma è anche possibile che non si riesca, e in questo caso quel processo
decisionale potrà continuare, e quindi quell’atto potrà essere adottato, anche senza gli stati che hanno
sollevato i problemi, quindi quell’atto non vincola tutti gli stati membri ma sono quelli che sono d’accordo. In
questo caso, in cui abbiamo un atto che vincola un numero più ridotto di stati, siamo di fronte al
meccanismo della c.d. COOPERAZIONE RAFFORZATA, art 20 TFUE, cioè un meccanismo di integrazione
differenziata, perché non tutti gli stati procedono alla stessa velocità. La Procura europea, che svolge attività
investigativa per reprimere gli illeciti lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, è un organismo che è stato
creato con questo meccanismo, perché gli stati non riuscivano a mettersi d’accordo (procedura del
“cartellino giallo”), e quindi gli stati hanno poi deciso tramite il Consiglio di procedere attraverso il
meccanismo della cooperazione rafforzata. Con l’idea che comunque in qualsiasi momento l’integrazione
può avvenire, gli stati possono comunque sempre aderire, perché non si vuole bloccare il processo di
integrazione.
Quindi il Consiglio svolge una funzione fondamentale per far avanzare il processo di integrazione.
- Svolge anche una funzione fondamentale rispetto l’art 7 TUE, disposizione che consente di sanzionare quegli
stati che si rendono responsabili di una violazione grave dei valori su cui si fonda l’Unione, valori elencati
all’art 2 del TUE (l’art 3 elenca invece gli obiettivi).
La FUNZIONE DEL PRESIDENTE del Consiglio europeo è invece quella di assicurare la preparazione e continuità
dei lavori del Consiglio Europeo.
L’atto con cui il Consiglio europeo decide è detto CONCLUSIONE, e non è un atto impugnabile, ma se contesto
una certa scelta normativa che si fonda sulle conclusioni, posso impugnare l’atto. Oggi però gli atti produttivi di
effetti giuridici, quindi le decisioni attraverso cui il Consiglio modifica il Trattato, quelli sono atti impugnabili,
perché ce lo dice espressamente il Trattato.
Il Consiglio europeo, escluso tassativamente dal Trattato, NON ESERCITA FUNZIONI LEGISLATIVE; quindi il
legislatore è esclusivamente il CONSIGLIO E PARLAMENTO.
Il CONSIGLIO invece è una istituzione politica; nel sistema originario avevamo però 2 istituzioni diverse, il
Consiglio nel sistema CEE e nel sistema EURATOM, ma poi è diventato unico. Ha funzioni di bilancio e legislativa.
Il potere di adottare atti completamente svincolanti è un suo potere, a cui si è affiancato il Parlamento europeo
che ha ruolo equivalente. Gli spetta l’approvazione del bilancio e può esercitare una funzione di tipo esecutivo; è
vero che spetta in linea generale alla Commissione, controllata da organi degli Stati, ma in determinate ipotesi è
esercitata direttamente dal Consiglio.
Composizione del consiglio, art 16 par 2: è composto da un rappresentante per ciascuno stato membro.
Abbiamo però atti che non sono né nel Consiglio europeo né imputabili al Consiglio, quindi ci sono casi in cui le
decisioni vengono presi dagli Stati, cioè la nomina dei giudici e degli avvocati generali, nominati di comune
accordo dai governi degli stati membri. Quella è una decisione intergovernativa rimessa agli stati, e non è un atto
impugnabile.
Il problema del trasferimento della sede di EMA da Londra ad Amsterdam che si pone rispetto al ricorso del
governo italiano e del Comune di Milano contro questa decisione, è collegato al fatto che la deliberazione
formalmente dal Consiglio, ma a margine di una riunione del Consiglio da parte dei rappresentanti degli stati,
quindi è una decisione degli Stati a margine del Consiglio. I due ricorsi sono stati riuniti davanti alla Corte di
Giustizia, che dovrà risolvere il problema della ricevibilità del ricorso, e ci dirà se si tratta di un atto del Consiglio,
e quindi impugnabile, o degli Stati, e quindi non impugnabile. Se annullasse l’atto, semplicemente si
annullerebbe quella decisione, e si avrebbe una nuova procedura per l’individuazione di una sede idonea.
Abbiamo dunque un rappresentante per stato a livello ministeriale e può esercitare diritto di voto. Il
meccanismo di votazione è la regola della maggioranza qualificata, a meno che il trattato non decida
diversamente.
Composizione del consiglio: è variabile, nel senso che il soggetto abilitato a rappresentare lo stato, è un soggetto
che andrà alle riunioni sulla base dell’oggetto discusso in quella determinata riunione del Consiglio; a seconda
del tema trattato va il ministro competente per materia, quindi se si tratta di agricoltura, andrà il ministro
dell’agricoltura.
La presidenza del Consiglio affari esteri è data sempre e in modo permanente all’Alto rappresentante. La
composizione affari generali e la formazione affari esteri sono le uniche previste dal trattato; le altre formazioni
le stabilisce il Consiglio Europeo.
Alla riunione affari generali può andare il Ministro degli esteri o il Ministro di politica europea.
Prima del Consiglio dei ministri si ha un preconsiglio, dove si riuniscono i capi di tutti gli uffici, dove si discutono
le questioni rimaste ancora aperte.
Il COREPER gestisce i dossier dal punto di vista giuridico, e coordina i lavori, e sua deliberazione.
Quindi la composizione è variabile, a seconda dell’oggetto da discutere, e le deliberazioni sono prese sulla base
di una attività preparatoria fatta dal CORIPER che assicura la continuità e coerenza dei lavori del Consiglio.
Chi presiede la riunione e la coordina? Il meccanismo di presidenza è A ROTAZIONE, quindi il Consiglio europeo
decide la presidenza della formazione del Consiglio. Si crea un elenco di stati che a rotazione vanno a presiedere
il Consiglio; per esempio l’Italia ha gestito la presidenza del Consiglio per 6 mesi, perché la rotazione dura 6 mesi,
nel secondo semestre del 2014. Quindi ogni 6 mesi cambia la presidenza del Consiglio dell’Unione, e quindi il
rappresentante dello stato di turno presiederà le riunioni del Consiglio. Ma io come stato singolo ho una
presidenza semestrale e faccio un programma dicendo gli obiettivi che vorrei raggiungere, però per assicurare la
continuità nella funzione legislativa del consiglio, ogni Stato che ha la presidenza è associato ad altri 2 stati,
quindi si parla di TRIO DI PRESIDENZE. Quindi ogni stato ha una presidenza semestrale ed è abbinato ad altri 2
stati, con i quali è chiamato a definire un proprio programma di lavoro. Il Regno Unito avrebbe dovuto avere la
presidenza di un semestre del 2017, ma dopo il referendum ha rinunciato alla presidenza, e quindi il calendario
delle rotazioni è stato riformulato, e oggi abbiamo una decisione del 2016 (prima della notifica di recesso) con
una rotazione che va fino al 2030. In questo semestre la presidenza dell’Unione ce l’ha la Bulgaria.
MAGGIORANZE
Ora abbiamo un nuovo sistema di rotazione; prima era più complicato perché il voto era PONDERATO (a un
criterio di tipo geografico e politico), quindi gli stati avevano un peso diverso, e alcuni avevano quindi un numero
maggiore di voti. Grandi stati pesavano di più dei piccoli stati. Ma con il Trattato di Lisbona si vuole modificare
questo sistema di voto, e dal 1° aprile del 2017 si è passato ad un meccanismo in cui tutti gli Stati hanno diritto
ad un voto. Quindi grandi stati valgono come piccoli stati, art 4 par 2 TUE: l’Unione rispetta l’uguaglianza deli
stati membri. Tutti gli stati pesano uguali. La regola è quella della maggioranza qualificata, salvo diversa
previsione di legge, e si calcola così: par 4 art 16:
- il 55% dei membri del consiglio (quindi degli stati)
- con un minimo di 15 stati
- e questi voti devono rappresentare almeno il 65% della popolazione dell’Unione questo perché si cerca di
soddisfare il principio di democraticità (clausola demografica).

19-3-18
Ancora Consiglio Europeo: prende le proprie deliberazioni sulla base del meccanismo del CONSENSUS (di tipo
intergovernativi). Le sue deliberazioni sono prese con maggioranza qualificata (par 3 art 16). Questa
maggioranza qualificata si calcola quando la proposta di formazione di atto normativo proviene dalla
Commissione, altrimenti il Consiglio deve deliberare con una maggioranza pari al 72%, quindi di alza la soglia (art
238 TFUE).
L’astensione di uno Stato, nel momento di una votazione, non osta all’adozione delle deliberazioni del Consiglio
quando è richiesta l’unanimità. Come regola ultima quella per cui, in quanto rappresentante del mio Stato, posso
essere delegato, e ogni rappresentante può ricevere una sola delega.
Riguardo la Commissione, si è cercato di, pur restando fedele al principio della collegialità, trovare dei
meccanismi per cui gli atti possano essere adottati anche da singoli commissari, e si sono individuati 2
meccanismo per consentire a singoli commissari di adottare l’atto:
- tutta la commissione delega il commissario ad adottare quel certo tipo di atto
- il soggetto commissario competente per una certa materia invia il testo della proposta ai colleghi dando un
certo lasso temporale entro cui i commissari possono opporsi alla formazione di quell’atto con quello
specifico contenuto; se nessuno si oppone vale il principio del silenzio-assenso, e quindi l’atto si considera
adottato.
Art 243 TFUE: funzione del Consiglio: fissa gli stipendi dei membri della commissione, dell’alto rappresentante
ecc.
Art 241 TFUE, sempre funzione del Consiglio: è una norma corrispondente alla previsione che troviamo nell’art
225 TFUE per quanto riguarda le funzioni del Parlamento europeo; al Consiglio si riconosce un potere di
preiniziativa legislativa, quindi può formulare delle raccomandazioni alla Commissione su materie su cui l’Unione
abbia la propria competenza. La Commissione non ha l’obbligo di portare avanti la richiesta del Consiglio, perché
ha potere di iniziativa con massima discrezionalità; unico obbligo della Commissione è quello di motivare il
rifiuto nel caso in cui non decida di portare avanti la proposta, e su questa violazione c’è la possibilità di agire in
carenza. La decisione della Commissione che motiva il rifiuto è impugnabile attraverso ricorso per annullamento,
se non mi ritengo soddisfatto delle motivazioni date.
PROCEDIMENTO DI REVISIONE DEI TRATTATI
La norma di riferimento è l’art 48 TUE; in parte già lo abbiamo richiamato in diverse occasioni, quando abbiamo
parlato del principio di attribuzione e clausola di flessibilità, perché questa disposizione (par 2 in particolare)
contiene una novità rispetto al sistema pre Lisbona, perché codifica la possibilità di ricorrere al procedimento di
revisione dei trattati. Prima del Trattato di Lisbona si riteneva che il processo di integrazione europea fosse
irreversibile, infatti la Corte di Giustizia parlava di “recessione definitiva di competenza della sovranità”, dove le
competenze possono essere solo accresciute e non anche ridotte. Al par 2 abbiamo invece la clausola che ci
ricorda come la revisione può essere bidirezionale, cioè finalizzata anche alla diminuzione delle competenze
dell’UE.
Quindi il Trattato sancisce la riversibilità delle competenze attribuite e dell’esercizio della competenza (questo
per le competenze concorrenti). Parlando di riduzione delle competenze, ci si può continuare a chiedere se
esistano dei principi (super principi e super valori) di diritto UE che non sono modificabili, neppure attraverso un
procedimento di revisione ordinaria? Di fatto l’art 48 ci permette di modificare tutte le disposizioni dei trattati,
allegati e protocolli. La Carta dei diritti fondamentali (ha carattere giuridico vincolante) è stata elaborata
seguendo un meccanismo particolare della Convenzione, ma non è allegata ai Trattati, né inserita nel testo dei
trattati. Se voglio modificare la Carta quale tipo di procedimento di revisione seguo? Quello dell’art 48, che
ricorda quel meccanismo della Convenzione, o dello stesso strumento con cui la Carta è stata elaborata? Bisogna
comunque passare da una revisione dei trattati.
Ritornando alla domanda di prima, possiamo ritenere che vi siano dei valori supremi, come il rispetto dei valori
all’art 2 TUE, ma la risposta non è univoca. Ma se gli Stati attraverso una conferenza intergovernativa, decidono
di modificare questi diritti su cui si fonda l’UE, e decidono di modificarli e tutti ratificano, evidentemente la
modifica si è avuta. C’è che diceva che si sarebbero dovute creare 2 europe, per cui pur usando le stesse
istituzioni, si sarebbe venuto a creare una organizzazione diversa, sia quella che restava a velocità normale sia
quella più avanzata; questa idea però non è stata seguita, perché gli stati di nuovo ingresso si sono opposti a
questa idea della c.d. doppia velocità perché non volevano restare indietro.
Il procedimento di REVISIONE ORDINARIA: esistono 2 diverse modalità secondo cui posso modificare il trattato:
- c’è un procedimento più completo che comprende 4 diverse fasi
- e un procedimento di revisione semplificate in cui una di queste 4 fasi può essere omessa, quindi abbiamo
solo 3 fasi, che si avevano nel sistema originario, perché la quarta fase che assicura una maggiore
democraticità è stata introdotta con il Trattato di Lisbona.
Abbiamo la fase comunitaria, internazionale e nazionale e, a queste 3 fasi oggi si aggiunge una quarta fase che
prevede l’intervento di una Convenzione, e consente che i rappresentanti degli stati membri dicano la loro sulle
modifiche.
Le 4 fasi, che sono la regola del sistema post Lisbona:
1- FASE COMUNITARIA: chi ha la possibilità di richiedere la revisione: il potere si riconosce a:
 ai governi degli stati membri, quindi ogni stato può richiedere che venga apportata una modifica ai
trattati
 la commissione
 il parlamento europeo.
Devo già sapere il progetto che voglio portare al Consiglio. Il progetto viene trasmesso dal Consiglio al Consiglio
Europeo che notifica questi progetti ai parlamenti nazionali. Il Consiglio europeo, con la consultazione della
Commissione e il Parlamento, qualora adotta una decisione favorevole al riesame delle modifiche proposte (con
maggioranza semplice), viene convocata una Convenzione
2- FASE DELLA CONVENZIONE: cioè quell’organismo in cui siedono: i rappresentanti dei parlamenti nazionali,
dei capi di stati dei governi degli stati, del parlamento europeo e i rappresentanti della Commissione. Se le
modifiche concernono il settore monetario devo prima chiedere parere alla BCE. Nel caso in cui ritenga
possibile e opportuna procedere alla notifica, la convenzione adotta per consenso una raccomandazione che
è volta alla conferenza intergovernativa.
3- Così si apre la FASE INTERNAZIONALE: qui abbiamo i plenipotenziari rappresentanti degli stati che danno la
parola ultima sul testo. La raccomandazione della convenzione non è vincolante. La conferenza è convocata
dal Presidente del Consiglio, e una volta che la conferenza intergovernativa approva il testo delle modifiche,
perché il Trattato di revisione possa entrare in vigore (par 4 art 48) è necessaria la fase nazionale.
4- FASE NAZIONALE: il Trattato deve essere ratificato da tutti gli Stati membri. Il par 5, introdotto con il Trattato
di Lisbona ci dice che se dopo 2 anni dal momento in cui il trattato viene firmato, i 4/5 degli stati membri
hanno ratificato il trattato e uno o più stati membri abbia riscontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, a
chi viene rimessa la questione per cercare di risolvere sul piano politico l’impasse e quindi trovare un
compromesso affinché gli stati che non hanno ratificato vadano a ratificare? Il Consiglio europeo ha questo
compito di trovare un compromesso.
È possibile però che la Convenzione non sia convocata (par 3), perché il Consiglio europeo può decidere con
l’approvazione del Paramento europeo e a maggioranza semplificata di non convocare la convenzione. Se però il
Parlamento non approva la scelta del Consiglio, si deve per forza convocare la convenzione. La non convocazione
può avvenire quando l’entità delle modifiche non giustifichi l’intervento della convenzione.
Abbiamo 2 diverse forme di revisione semplificata e poi la revisione autonoma/delegata.
REVISIONE SEMPLIFICATA:
L’oggetto della revisione è definito dal trattato, cioè le disposizioni della parte III sul TFUE, dedicato alle politiche
e azioni interne dell’UE. Se io voglio modificare solo disposizioni inserite in questa parte III, posso usare la
procedura di revisione semplificata, quindi si salta la fase internazionale. Decide il Consiglio europeo, che può
ricevere una richiesta dallo stato membro, parlamento o commissione, che possono sottoporre al consiglio
europeo questo progetto di modifica, e il consiglio europeo può adottare una decisione all’UNANIMITA’, quindi
accordo di tutti gli stati, che va a modificare alcune disposizioni della parte III del TFUE, ed è richiesta la
consultazione della commissione e della BCE se riguarda il settore monetario. Una modifica di questo tipo noi
l’abbiamo avuta per istituire il meccanismo europeo di stabilità, dove abbiamo dovuto inserire una disposizione
nel trattato che consentisse di fare questo; abbiamo una decisione del consiglio europeo del 2011 che modifica
l’art 133 e autorizza la creazione di questo meccanismo europeo.
Il comma 3 del par 6 aggiunge che la decisione presa dal Consiglio europeo per modificare le disposizioni della
parte III, non può estendere le competenze attribuite all’UE nei trattati. Quindi non posso ricorrere alla
procedura semplificata per estendere le competenze. Ma posso ridurle? Se faccio una interpretazione letterale
si, però bisogna tener conto che l’elenco delle competenze sta nella prima parte del trattato, da modificare solo
attraverso la revisione ordinaria. Un altro quesito è: io sto estendendo la competenza dell’UE se là dove il
trattato riconosceva il potere di intervenire attraverso l’adozione di una direttiva, lo faccio attraverso
regolamenti? si potrebbe dire di sì, ma non si hanno delle risposte certe.
Tornando all’ultima ipotesi di revisione semplificata prevista all’art 48: attraverso la revisione semplificata il
Consiglio europeo, che delibera ad unanimità, con approvazione del parlamento europeo, cosa può fare? Questo
tipo di revisione può produrre effetti senza che sia necessario neppure l’approvazione degli stati membri. Che
cosa può modificare il consiglio europeo? Può ritenere necessario che una decisione/delibera deve essere presa
ad unanimità, sia un caso in cui si debba procedere a maggioranza qualificata; oppure potrei voler fare in modo
che là dove il trattato mi dice che una decisione/atto deve essere adottato con la procedura legislativa speciale,
voglio adottarli con una procedura legislativa ordinaria. Questo tipo di revisione semplificata (CLAUSOLA
PASSERELLA), posso farlo con delibera del consiglio e approvazione del parlamento europeo. Ma prima che il
consiglio europeo si possa esprimere e adottare la decisione, succede che il consiglio europeo deve trasmettere
la sua volontà/proposta modifica ai parlamenti nazionali, che deve esprimersi PRIMA che il consiglio europeo
deliberi. Possono quindi formulare un parere negativo e se anche uno solo dei parlamenti nazionali si oppone, la
delibera adottata non è capace di produrre effetti, quindi il consiglio pasa la palla ai parlamenti nazionali. Quindi
in fase di formazione della delibera abbiamo la fase internazionale.
Ci sono casi in cui sarebbe preferibile che dalla procedura semplificata si passasse a quella ordinaria, soprattutto
in materia penale.
REVISIONE AUTONOMA E DELEGATA
Ci sono dei casi in cui è possibile procedere alla modifica del trattato sulla base di regole diverse da quelle
dell’art 48 viste finora; uno di questi casi lo abbiamo già visto: c’è una norma del trattato che delega al consiglio
europeo la possibilità di modificare una disposizione del trattato stesso, per reagire alla presa di posizione degli
irlandesi che non volevano modificare il Trattato di Lisbona: quella relativa al numero dei commissari (art 17 par
5): il numero die commissari può essere modificato dal consiglio europeo con una deliberazione presa ad
unanimità.
Sempre una revisione delegata noi la troviamo all’art 252 del TFUE, dove la delega è data al consiglio, che
delibera sempre all’unanimità, per aumentare il numero degli avvocati generali, che è fissato dallo stesso art:
sono 8, ma il consiglio può aumentarli, infatti oggi è stato portato a 11.
Ancora una revisione delegata la troviamo agli art 82 par 2 e art 83: ci sono degli ambiti di intervento delle
istituzioni; se volete modificare questo elenco potete farlo attraverso una decisione del consiglio, con
approvazione del Parlamento, e non è indispensabile l’intervento degli stati (quindi la fase nazionale).
Ci sono poi disposizioni del trattato in cui il trattato conferisce il potere di modificare il trattato al consiglio
europeo o consiglio, ma l’intervento comunitario non è sufficiente, ma è necessaria anche l’approvazione degli
stati membri, es art 25 TFUE: il consiglio all’unanimità (comma 2) può adottare disposizioni volti a completare
l’art 20, previa approvazione degli stati membri.
Art 223 TFUE (dedicato al parlamento europeo): riconosce al consiglio la possibilità di integrare questa
disposizione, e anche qui la scelta del consiglio, per poter produrre effetti, richiede una approvazione da parte
degli stati membri.

20-3-18
Programma: diritto istituzionale compresa la cittadinanza; non il diritto della concorrenza ma se c’entra lei lo
chiede, o principio del mutuo riconoscimento. Si portano gli argomenti portati a lezione con integrazione del
libro. Gli appunti danno qualcosa di più del libro.

ADESIONE, RECESSO E MECCANISMO DI CENSURA ART 7 TUE


Il meccanismo di censura è relativo, come gli articoli 49 e 50 alla partecipazione di soggetti/Stati all’ordinamento
dell’UE. L’art 49 disciplina l’ADESIONE, cioè l’ingresso di uno stato terzo nell’organizzazione sovranazionale.
L’art 50 è inserito nel TUE con il Trattato di Lisbona e disciplina il RECESSO, cioè la possibilità per lo stato di uscire
dall’UE.
ADESIONE
Siamo partiti da 6 ma poi nel 1972 sono entrate Regno Unito, Irlanda e Danimarca, nell’81 la Grecia e nell’86
Spagna e Portogallo, nel 95 Austria. Poi ingresso di nuovi 10 stati. Il meccanismo della COOPERAIZONE
RAFFORZATA è introdotto per equilibrare l’ingresso di questi nuovi stati; crea una Europa a più velocità però.
Abbiamo poi l’ingresso della Bulgaria e Romania nel 2007, e ultimo allargamento nel 2013 con l’ingresso della
Croazia. Oggi, fino al marzo dell’anno prossimo, dovremmo restare 28. Attualmente abbiamo 5 paesi candidati
all’adesione, sulla base di un processo solo in parte disciplinato dall’art 49, e questi stati sono l’Albania,
Macedonia, Montenegro e Turchia, quest’ultimo candidato da tantissimi anni, dal 63 (ci sono dei requisiti per
aderirvi dati dall’art 49), per problemi di tipo politico e di rispetto dei valori su cui si fonda l’UE. Tra i paesi
candidati ad un certo punto si è candidato l’Islanda, che aveva fatto domanda di adesione nel 2009, poi ha
rinunciato all’adesione, cioè la domanda di adesione è stata ritirata, per scelte interne di governo, nel 2015. Poi
potenziali candidati, strategie di pre adesione, sono la Bosnia e il Cossovo, con tutti i problemi legati al fatto che
quest’ultimo non tutti lo conoscono come stato.
La norma, come formulata con alcune modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, indica 2 PRESUPPOSTI E
CONDIZIONI affinché lo stato possa porre la richiesta di adesione: una CONDIZIONE DI TIPO GEOGRAFICO E UNA
SOSTANZIALE (IN SENSO LATO) DI TIPO POLITICO:
- Condizione GEOGRAFICA: deve trattarsi di uno stato europeo, ma quali sono i confini dell’Europa? La Turchia
può considerarsi europea, il Marocco invece no, la sua richiesta è stata infatti rigettata.
- Condizione POLITICA: deve rispettare i valori su cui si fonda l’UE, quindi deve essere uno stato che già nel
momento in cui fa domanda di adesione condivide i valori dell’UE, e si impegna a promuoverli (questo
introdotto con il Trattato di Lisbona).
 Presupposti indispensabili per poter fare la domanda di adesione (art 49): ogni stato europeo che rispetta
questi valori può richiedere di diventare membro dell’UE.
La domanda è trasmessa al Consiglio dell’UE, e deve essere trasmessa sia al Parlamento europeo, sia ai
parlamenti nazionali; il parlamento nazionale non ha però voce in capitolo direttamente, ma se è
adeguatamente e tempestivamente informato potrà poi discutere dell’opportunità di questa possibile adesione.
La domanda è trasmessa al Consiglio che decide ad unanimità (tutti gli stati membri devono essere d’accordo,
altrimenti lo stato richiedente non può entrare), e approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a
maggioranza dei membri che lo compongono (almeno la metà + 1 dei parlamentari).
Nel momento in cui si formula la domanda e il consiglio vaglia la domanda fa una richiesta alla commissione e
demanda a lei il compito di verificare la situazione interna dello stato che fa richiesta. La Commissione deve
attuare una strategia di adesione e il suo compito è quello di assicurare che nel momento in cui lo stato entra il
suo ordinamento sia in linea con tutti gli obblighi che discendono dall’appartenenza all’UE, è indispensabile che
lo stato garantisca di rispettare, e lo può fare progressivamente. Tutte le materie in cui l’UE ha competenza sono
divise in capitoli, il compito della commissione è quello di verificare che rispetto ai singoli compiti lo stato si sia
uniformato agli obblighi che discendono dall’ordinamento dell’unione; la commissione deve verificare ogni tot
tempo che rispetto ai singoli capitoli lo stato si sia uniformato pienamente agli obblighi che discendono
dall’ordinamento dell’UE. Lo stato entra a parità di condizione di tutti gli altri stati membri. Spesso succede che
chiudo un capitolo di adesione ma restano aperti altri, e mentre cerco di modificare la normativa del mio
ordinamento, non riesco a restare al passo dell’ordinamento che ho già chiuso, che quindi si riapre, quindi non è
così immediato il processo di adesione, questo dipende dalla situazione effettiva dello stato che richiede
l’adesione.
Nel fare questo tipo di valutazioni la Commissione è la prima chiamata a verificare che lo stato rispetti quelli che
oggi, con Lisbona, sono espressamente menzionati nel trattato all'art 49, cioè i criteri di ammissibilità a diventare
stato membro dell'unione che in realtà si sono sempre conosciuti come criteri di Copenaghen, sono 3 criteri di
adesione che erano stati delineati per la prima volta in modo completo dal Consiglio europeo che si tenne a
Copenaghen nel '93. questo non vuol dire che sino a quella data e rispetto agli allargamenti precedenti non si
tenesse conto nella prassi di determinati criteri che poi vengono espressi, esplicitati formalmente nel Consiglio
europeo di Copenaghen e oggi il trattato ci parla di criteri di ammissibilità fissati dal Consiglio europeo.
Perché non si parla espressamente di criteri di Copenaghen se sono stati fissati nel Consiglio europeo di
Copenaghen? Perché potrebbero essere modificati, integrati o irrigiditi nel corso del tempo, rispetto agli stessi
criteri di Copenaghen già nel 1995 con il Consiglio europeo di Madrid si erano integrati i primi 3 criteri di
ammissibilità, quindi si fa riferimento genericamente a criteri di ammissibilità.
Oggi il Trattato cui parla di criteri di ammissibilità fissati dal Consiglio europeo.
I criteri di ammissibilità sono:
- Criterio POLITICO: richiede che lo stato candidato sia caratterizzato da istituzioni stabili che garantiscano la
democrazia, il rispetto delle minoranze e la loro tutela.
- Criterio ECONOMICO: lo stato deve essere caratterizzato da una economia di mercato affidabile, che ha la
capacità di fa fronte alle forze di mercato, capace di integrarsi nel mercato comune e di rispettare e
applicare le regole sul diritto della concorrenza dettate dal diritto dell’UE
- Criterio GIURIDICO o dell’“ACQUIS EUROPEO”: è un criterio mutevole, che varia a seconda del momento in
cui fotografo l’ordinamento dell’UE, cioè quando decido quali sono i capitoli di adesioni e gli obblighi
giuridici a cui lo stato candidato deve adeguarsi. È l’insieme dei principi e norme giuridiche vincolanti poste
dl diritto dell’UE che vigono in un determinato momento storico.
La Commissione cestisce la procedura di adesione, e una volta che lo stato si allinea e dimostra di aver recepito
nell’ordinamento tutto l’aquis europeo, è pronto per aderire. A questo punto si esprimerà il Parlamento
europeo, e viene stipulato il c.d. TRATTATO DI ADESIONE, che fissa (art 49 co 2) le condizioni per l’ammissione e
gli adattamenti e modifiche necessarie ai trattati su cui è fondata l’UE. Quindi il trattato di adesione è una norma
di diritto primario che ha lo stesso valore dei trattati istitutivi, ed è un trattato che può apportare delle modifiche
al trattato esistente. Una ipotesi in cui il Consiglio europeo ha la possibilità di modificare e integrare le
disposizioni del trattato, per l’ingresso di un nuovo stato, (modifica di tipo istituzionale) è la modifica della
composizione del Parlamento europeo, perché il nuovo stato deve avere un certo numero di parlamentari. Se
con l’ingresso di nuovi stati volessi aumentare la soglia, non posso che modificare l’art 14, quindi è necessario
procedere ad una revisione del trattato. Ci sono poi altre disposizioni del trattato che devono essere modificate
con l’entrata di un nuovo stato membro: le disposizioni finali del TUE:
- l’art 52, che elenca tutti gli stati che sono stati membri dell’UE
- l’art 55, che ci dice quali sono le lingue ufficiali dell’UE. Ma se entra uno stato la cui lingua ufficiale è già
inserito, allora questo articolo non va modificato (in totale sono 24 lingue). L’inglese, con l’uscita
dell’Inghilterra, potrebbe scomparire dalle lingue ufficiali dell’UE. La Corte lavora in francese, usata come
lingua di lavoro. Il problema è che la maggior parte delle istituzioni parla in inglese.
Al di là delle lingue ufficiali, ci sono poi certi stati che garantiscono, come la Scozia o in Catalogna, di poter
far sì che gli atti dell’UE siano tradotti anche nell’idioma diverso della lingua ufficiale ma a spese dello stato
membro.
Le condizioni di ammissione spesso introducono delle CLAUSOLE DI DEROGA TEMPORANEE, cioè rispetto ad
alcune materie si introducono deroga temporanee, per esempio alla dogana ancora alle frontiere bisogna
mostrare la carta d’identità anche se lo stato ha aderito all’UE. Quindi rispetto a certi ambiti è necessario
garantire una integrazione progressiva, necessarie anche per l’UE per far sì che l’entrata di un nuovo stato sia
ben recepita dall’UE.
Il trattato di revisione entra in vigore SOLO SE RATIFICANO TUTTI GLI STATI MEMBRI DELL’UE.
RECESSO (ART 50)
Fino al Trattato di Lisbona, non c’era una norma espressa nei trattati che disciplinasse questo istituto, e questo
era giustificato, o si spiegava, alla luce del fatto che abbiamo l’art 53 che dice che il trattato è concluso per una
durata illimitata (quindi dà la possibilità di uscita implicitamente), e anche in considerazione del fatto che nel
preambolo dei trattati, in particolare il TUE, c’è un riferimento al fatto che gli stati membri attraverso il trattato
sono decisi a portare avanti il processo di “creazione” di una unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa: è
uno di quei valori che il Regno Unito ha estremamente combattuto, il quale ha sempre beneficiato di un regime
particolare; contestava il fatto che l’Unione fosse sempre più stretta, e quando ci si è accorti che il referendum
avrebbe potuto portare all’uscita del Regno Unito dall’UE, si negoziarono condizioni specifiche che avrebbero
permesso al Regno Unito di ottenere deroghe ancora maggiori; ciononostante, è uscita dall’Europa.
Il trattato ammette anche un RECESSO UNILATERALE, voluta dal Regno Unito nella negoziazione del trattato
costituzionale. Fino a quel momento, fino al Trattato di Lisbona, ci si chiedeva se fosse possibile il recesso
dall’UE, in assenza di disposizioni che diano la possibilità di recedere, e la risposta era che anche in assenza di
regole si possono invocare le norme di diritto internazionale codificate nella Convenzione di Vienna, che
ammettono una possibilità di recedere da un trattato nel caso di cambiamento delle circostanze che avevano
modificato l’adesione. Al di là di questa ipotesi, la Convenzione di Vienna ci dice all’art 54 che il recesso è
possibile sono se c’è il consenso di tutte le parti contraenti, oppure l’art 56 ci dice che se il trattato non dice nulla
sulla rinuncia, anche qui la possibilità di recedere deve desumersi dalla volontà delle parti contraenti. La volontà
del Regno Unito fu quello di prevedere una norma che disciplinasse il recesso e che questo fosse unilaterale. Con
l’art 50 si cerca comunque di negoziare un accordo e di trovare il consenso delle parti per disciplinare l’uscita e le
future relazioni, ma nel caso in cui non si trova un accordo è possibile che uno stato esca comunque perché ha
manifestato la propria volontà di uscire. Non si può parlare di recesso se ci fosse l’indipendenza della Catalogna
o della Scozia (che nel 2016 fece un referendum per ottenere l’indipendenza dal Regno Unito, ma ebbe esito
negativo), ma è semplicemente una nuova delimitazione del territorio dello stato. Ci sarebbe però comunque
una procedura di adesione se la Scozia si staccasse dal Regno Unito e volesse entrare nell’Unione.
Art 50: la norma riconosce a qualunque stato la possibilità di recedere. Comma 1: ogni stato membro può
decidere di recedere all’Unione conformemente alle loro norme costituzionali interne. Da questo punto di vista
si è posto un problema di diritto interno nel Regno Unito, perché dopo il referendum si è posto il grande tema
del valore del referendum, che non è vincolante. Al referendum non hanno potuto partecipare i cittadini che
risiedessero da più di 15 anni al di fuori del Regno Unito, tutti soggetti che avrebbero voluto restare nel regno
Unito. Circa 800 mila britannici che vivono in altri stati europei che perdono la cittadinanza europea e tutti i
relativi diritti senza aver potuto esprimere il loro voto. Uno degli aspetti essenziali del negoziato è proprio come
tutelare i cittadini britannici che vivono in un altro stato dell’UE, e come tutelare i cittadini del Regno Unito:
quale garanzie garantire ai cittadini britannici dopo l’uscita effettiva dall’UE? (30 marzo 2019). Il referendum non
è vincolante, ma bisogna interpellare il Parlamento per il recesso.
L’art 50 fissa poi al par 2 una serie di condizioni PROCEDURALI (accordo tra stato che vuole recedere e Unione),
e lo stato membro che decide di recedere NOTIFICA tale decisione al Consiglio europeo (29 marzo 2017 per il
Regno Unito); al par 3: dice che i trattati cessano di essere applicati a decorrere dalla data di entrata in vigore
dell’accordo di recesso, o in mancanza di tale accordo 2 anni dopo della notifica al par 2, a meno che il Consiglio
europeo, di intesa con lo stato interessato (che recede), decida di PROROGARE tale termine. Ma la norma dice
che il Consiglio europeo delibera ad unanimità, quindi se uno stato non è favorevole alla proroga rispetto alla
posizione dello stato che recede, che in sede di negoziato pretende di avere troppo, allora può bloccarla.
Notifica del recesso: il Consiglio europeo formula degli orientamenti, cioè dà raccomandazioni, linee guida
attraverso cui procedere per fissare l’accordo di recesso. L’Unione attraverso i suoi negoziatori negozia e
conclude con lo stato recedente un ACCORDO volto a definire le modalità del recesso tenendo conto del quadro
delle future relazioni con l’UE (di tipo commerciale). Quindi il Consiglio fissa le regole generali per la
negoziazione e l’Unione formula le modalità di recesso.
Il Consiglio europeo aveva fissato 3 punti chiave su cui trovare l’accordo:
- dobbiamo cercare un accordo di massima di come tutelare i cittadini britannici (come detto prima) (dato che
i diritti relativi alla cittadinanza europea vengono meno!)
- quali erano gli oneri finanziari che il regno Unito avrebbe dovuto retribuire all’Unione
- questione relativa all’Irlanda del Nord, che fa parte del Regno Unito ma è nel territorio dell’Irlanda; un tema
è sulla circolazione dei cittadini tra Irlanda del Nord e Irlanda, e i cittadini dell’Irlanda del Nord dovrebbero
poter acquisire la cittadinanza irlandese. Il problema è di confini (non ho un confine doganale tra le due
parti; merci e prodotti circolano liberamente): non posso per ragioni costituzionali britanniche svincolarmi
all’accordo (garantire libertà di circolazione del territorio irlandese).

21-3-18
La domanda è: può esercitare la Corte di Giustizia questa competenza consultiva?

Il par 3 art 50 dà una indicazione temporale di quando i trattati dell’UE cessano di essere applicabili per lo stato
che ha deciso di recedere, e la regola è che i trattati cessano di essere applicabili al decorrere dalla data di
entrata in vigore dell’accordo di recesso, o in mancanza di accordo 2 anni dopo la notifica, salvo che il Consiglio
europeo all’unanimità non proroghi questo termine di 2 anni, sulla base delle esigenze che si riscontrano. L’art
50 par 5 dice che se lo stato che ha receduto chiede di aderirvi nuovamente, si applica la procedura prevista
dall’art 49, quindi si rifà la procedura di adesione. Alla luce di tutte queste indicazioni contenute nell’art 50, è
possibile la revoca della notifica? La revoca per alcuni è possibile, e viene sostenuta sulla base del principio di
integrazione europea, e facendo riferimento all’art 53 (durata illimitata dei trattati), per assicurare l’unione tra i
popoli. C’è chi ci dice che la notifica potrebbe essere revocabile ma solo se c’è approvazione unanime del
Consiglio europeo. Per alcuni invece la revoca non può essere unilaterale ma debba esserci l’accordo di tutti gli
altri stati membri. la tesi della non revocabilità è soprattutto data sulla base del principio di leale cooperazione, e
dal fatto che l’art 50 richiama l’art 49, quindi è necessario una nuova procedura di adesione.
Posso uscire dall’euro senza uscire dall’UE?
L’art 7 è oggetto di interesse perché trattando dell’adesione e recesso, sorge la domanda: uno stato deve
rispettare e promuovere i valori per entrare nell’UE, allora deve continuare a rispettarli per tuto il tempo in cui
rimarrà all’interno dell’unione, ma cosa fare nel caso in cui ci sia effettivamente una violazione? Come può
reagire l’Unione Europea? Questo si collega al recesso, perché recedere dall’UE è iniziativa lasciata allo stato
membro che per motivi propri decide di non voler più fare parte dell’unione quindi notifica la sua volontà di
recesso. Se uno stato continuasse a violare i principi, non ci sarebbero modi per farlo uscire necessariamente
dall’UE, quindi il tema dell’art 7, contiene disposizioni per reagire a questo problema.
Il problema non si è posto neanche all’origine della comunità europea, ma ci si è approcciati solo negli anni 90,
dove c’è stata una forte spinta all’allargamento dell’unione, e l’ipotesi che uno stato chiedesse di entrare nell’UE
e poi non rispettasse i valori si era prospettato per gli stati dell’Est, che avevano tradizioni politiche molto
diverse, prassi e legislazioni molto lontane; quindi il dubbio è stato che allargarsi così tanto avrebbe portato un
problema per i valori, allora con il trattato di Amsterdam, 1999, è stata introdotta una PRIMA DISPOSIZIONE
all’art 7 par 2 TUE, in caso di violazione dei valori, che permetteva al Consiglio nella formazione di capi di stati e
di governo con voto all’unanimità (ciascuno stato aveva diritto di veto) poteva riconoscere la violazione grave di
uno dei principi stabiliti dall’art allora 6 TUE, che oggi si trovano nell’art 2 col trattato di Lisbona. La proposta
poteva essere fatta da uno stato membro, e doveva essere acquisito il parere del Parlamento europeo; erano
previste anche SANZIONI a cui il Consiglio poteva ricorrere anche senza unanimità se le violazioni erano gravi.
Si era prospettato che nel governo dell’Austria entrassero dei ministri e si formasse un partito di estrema destra
in contrasto con i valori dell’UE. Ma era stata incaricata una commissione che aveva detto che non c’erano grossi
problemi se facevano parte del governo questi ministri, ma la disciplina del vecchio art 6 è troppo incisiva, allora
questo comitato ha proposto di introdurre una sorta di procedura che permetta allo stato membro che quella
situazione se mantenuta può dar luogo a una violazione; allora viene introdotto l’art 7 par 1, cioè una
PROCEDURA PREVENTIVA che permette alla Commissione, al parlamento europeo o a uno stato membro di
ammettere al consiglio di dichiarare che esiste il rischio della violazione di uno dei valori fondamentali, mentre
nel 7 par 2 odierno di parla già di violazione. In questo caso il Consiglio vota a 4/5 dei voti, non unanimità, quindi
non riserva a nessuno il potere di veto.
Il Trattato di Lisbona ci ha dato una versione dell’art 7, e al par 1 c’è la procedura di PREALLARME dei 4/5
introdotta da Nizza, e prevede anche che prima di arrivare a votare sull’esistenza del rischio si possano rivolgere
allo stato membro in questione delle RACCOMANDAZIONI; poi c’è il par 3 introdotto da Amsterdam ed è l’ipotesi
della VIOLAZIONE GIA’ AVVENUTA, e poi la competenza a DICHIARARE LA VIOLAZIONE è diventata del Consiglio
europeo, e non più Consiglio, e viene mantenuta l’unanimità . Il par 3 prevede che nel caso di VIOLAZIONE GIA’
DICHIARATA il Consiglio, votando a maggioranza qualificata possa disporre delle forme di SANZIONE; le sanzioni
possono avere il carattere più vario, ma NON PUO’ MAI ESSERE L’ESPULSIONE; le sanzioni possono essere la
sospensione del diritto di voto o delle misure di carattere economico, quindi lo stato membro perde il diritto ad
avere dei finanziamenti da parte delle istituzioni.
Il par 4 prevede che queste situazioni siano sempre sottoposte ad un controllo continuo, perché se vengono
meno le situazioni che danno ruolo a violazioni, bisogna cambiare i provvedimenti che si assumono.
Si tratta di procedure di carattere politico, anche se si parla di sanzioni, infatti la Corte di Giustizia dell’UE su
queste procedure ha una competenza limitata, ristretta solo agli aspetti di carattere procedurale, quindi
competenza limitata soltanto alla forma, e può dire per esempio che è stata utilizzata una modalità di voto
diversa da quella prescritta, altrimenti non può fare nulla.
Il fatto che sia a carattere politico l’ha sottolineato il presidente della commissione europea, che ha detto che
l’art 7 costituisce una “opzione nucleare”, e anche a fronte di questa considerazione alcuni paesi membri tra cui
la Germania e Olanda hanno espresso l’esigenza di trovare dei sistemi e strumenti di lavoro che all’interno
dell’UE permettessero di arrivare all’art 7 in caso di violazioni gravi. La Commissione si è interrogata di trovare
uno strumento che permettesse ancora di più di anticipare le forme di intervento dell’UE e nel 2014 ha
elaborato una Comunicazione n 158 del 2014 dell’11 marzo, con la quale si introduce un “nuovo quadro” a
tutela dello stato di diritto, che è un valore fondante dell’UE e ricomprende buona parte di tutti i valori scanditi
dall’art 2. La Commissione per evitare di ricorrere all’art 7 vuole creare uno strumento nuovo per prevenire
l’ipotesi che nei singoli stati membri potessero rientrare, se mantenuti nel corso del tempo, un ambito di
intervento dell’artt 7; quindi questo strumento non sostituisce l’art 7, la procedura di inflazione, ma si pone in
una prospettiva di integrazione e anticipazione dell’art 7. Lo scopo è verificare se ci sono ipotesi che minacciano
lo stato di diritto, e se ci sono bisogna trattarle prima che diventano rischio (par 1) e violazione (par 2).
Questo strumento ha 2 caratteristiche:
- È uno strumento dialogico, di corresponsabilità tra Commissione e stato membro. La commissione se ritiene
che ci sia una minaccia dice allo stato cosa deve fare per risolvere il problema. Quindi evitare ogni forma di
censura di carattere ufficiale in modo tale che l’art 7 molto esplosivo possa effettivamente verificarsi, quindi
per evitare un ordine politico.
- La Commissione, dato che gestisce da sola questo strumento, se decide di intervenire per delle minacce, lo
fa alle stesse condizioni per tutti gli stati membri, quindi si vuole garantire imparzialità e terziarietà tra
situazioni eguali tra tutti gli stati.
Come lavora la Commissione quando ritiene che ci sia una minaccia grave circa lo stato di diritto? deve acquisire
innanzitutto delle INFORMAZIONI. Vi sono ipotesi di denuncia che possono arrivare al Parlamento, oppure alcuni
lavori di agenzia dell’UE, ad esempio agenzie a tutela dei diritti dell’uomo che può ricevere delle doglianze e
trasmetterle alla commissione; abbiamo organi del consiglio d’Europa che possono avere questo compito, ad
esempio la Commissione di Venezia che nel Consiglio d’Europa controlla se ci sono delle difficoltà è da parere e
supporto agli stati membri che si trovino in condizioni di questo tipo. Quindi le informazioni possono arrivare da
varie fonti. La prima fase del quadro che deriva dalla 158, bisogna capire prima se c’è la minaccia, poi dialogo
con lo stato, e infine acqusiire informazioni, perché la prima fase si conclude cn una decisione per capire se c’è o
meno una minaccia. Se c’è una minaccia e situazione di allarme, allora c’è l’INVIO DI UN PARERE MOTIVATO, atto
informale, quindi non pubblicato ma resta solo tra stato membro e Commissione, in cui viene detto cosa non
funziona e si segnala come evitare che la situazione si protragga. Ora SECONDA FASE sempre caratterizzata dal
dialogo tra stato e commissione, ma si fa più formale, e caratterizzata da INVIO DI RACCOMANDAZIONI, con
carattere formale, quindi le troviamo pubblicate sul sito della Commissione, in tutte le lingue ufficiali, in cui la
Commissione mette in luce per punti cosa lo stato membro ha fatto o meno per trovarsi in una posizione di
allarme, e indica cosa può fare affinché la situazione possa essere fermata. All’esito di questa fase c’è un ultimo
step, detto di SOMMA FINALE: verificato cosa lo stato ha fatto, bisogna capire se c’è o meno una situazione che
può legittimare l’apertura della procedura dell’art 7. Se nella fase di somma finale la situazione critica permane
allora la commissione avvia l’art 7, e quindi presenta una proposta motivata al consiglio affinché voti per la
procedura par 1 art 7. Quindi non si nasconde l’art 7, ma ci espone una fase preliminare.
A questo punto, bisogna capire cos’è LO STATO DI DIRITTO e come la commissione l’ha intesa, la quale allega alla
comunicazione 158 la sua definizione: lo stato di diritto si articola in 6 sub principi:
- Principio di legalità: nel senso che data una legge fondamentale, tutti i provvedimenti normativi devono
essere assunti nel rispetto delle regole del gioco, quindi rispettando le procedure formalmente sancite
- Principio di certezza del diritto
- Legalità in termini amministrativi: il potere amministrativo esecutivo deve essere esercitato dalla legge e non
arbitrariamente
- Tutela giurisdizionale effettiva
- Separazione dei poteri
- Uguaglianza dei singoli: a situazioni analoghe, analogo trattamento.
Quindi secondo la Commissione questi 6 sono gli elementi da mantenersi sempre in uno stato membro affinché
lo stato di diritto sia correttamente osservato.
QUESTIONE POLACCA
La Polonia: questione molto recente; inizia a metà del 2015, quando c’è un avvicendamento politico a seguito di
elezioni. Ci sono state 2 elezioni presidenziali per eleggere il Capo di stato. Un avvicendamento nella
maggioranza parlamentare, è subentrato il partito di Duda. Il Parlamento uscente (SEJM) ha dovuto affrontare
un problema, cioè la scadenza di 5 giudici della corte costituzionale allora in essere, perché 3 avrebbero concluso
il mandato entro la legislatura di quel parlamento, 2 invece nelle more, cioè in un periodo di intervento tra
scioglimento delle camere e la creazione della mora, e sapendo che le elezioni non erano andate bene per quella
maggioranza allora i parlamentari nominano 5 giudici. Duda però ha rifiutato a questi giudici neo eletti di
prestare giuramenti, e il parlamento insediatosi ha adottato una legge secondo cui il mandato dei giudici inizia
dal momento del giuramento, quindi non possono entrare in carica, e il nuovo parlamento voleva il diritto di
nomina dei giudici. È stata allora adita la corte costituzionale polacca, che dice che i 3 giudici scaduti devono
essere quelli eletti in precedenza, e gli altri 2 no, e dichiara incostituzionale le norme del nuovo parlamento del
giuramento.
Dal novembre 2015 ad ora, il parlamento polacco e governo hanno adottato una serie di leggi sull’esercizio della
giurisdizione che sono folli, cioè il principio della separazione dei poteri sono chiave nello stato di diritto, ma la
Polonia è come se non le interessasse. In tutto ciò, se viene messo in dubbio l’indipendenza della magistratura e
separazione dei poteri, si è accesa una spia di allarme, e dal 23 dicembre 2015 la Commissione per mezzo di una
lettera aveva iniziato ad acquisire informazioni: ci sono state delle visite in Polonia da parte dei membri della
commissione, e per la polonia le sue leggi non violano nessun diritto. Viene poi inviato un parere motivato con
tutte le incompatibilità. È seguita una prima raccomandazione nel 17 luglio 2016, per togliere quei
provvedimento normativi che non funzionavano, poi una seconda raccomandazione e una terza il 27 luglio, e il
20 dicembre 2017 la commissione ha inviato una quarta raccomandazione contemporanea alla proposta
motivata, quindi ha chiuso la procedura dicendo che la posizione in Polonia è irrimediabile con questo strumento
e bisogna iniziare la procedura dell’art 7. La commissione per la prima volta in assoluto ha detto che è necessario
arrivare all’art 7 e a dire che in Polonia c’è già quasi la violazione di un diritto fondamentale che è lo stato di
diritto.
Alcuni provvedimenti normativi adottati in Polonia:
- Il ministro di grazia e giustizia nomina e revoca tutti i magistrati con funzioni direttiva nei tribunali delle corti.
- Si abbassa l’età pensionabile dei magistrati
- Forma dei c.d. giudici e assistenti (nuovo metodo di recluta dei giudici)
- Ciò che da noi è il CSM, viene nominato interamente dal Parlamento
- Ipotesi di appello straordinario: da noi le sentenze prima o poi diventano definitive e si crea un giudicato; ma
qui in realtà si dice che deve essere previsto un meccanismo di appello straordinario per tutte le sentenze
rese negli ultimi 20 anni in Polonia, per tutte le vicende che si sono susseguite.
Quindi c’è una certa preoccupazione, espressa dalla Corte Costituzionale polacca, che ha richiesto aiuto a tutte le
magistrature europee.
SITUAZIONE UNGHERESE
Uno degli obiettivi della commissione era garantire un intervento in condizione paritaria tra tutti gli stati.
Ha avuto delle vicende simili a quelle polacche. Orbàn (capo di governo ungherese) ha rifatto la Costituzione,
riscritta in modo non molto condivisibile, è intervenuto sul potere giurisdizionale e ha costituzionalizzato molte
materie normative, e ci sono state delle misure simili a quelle polacche, come abbassare l’età pensionabile dei
magistrati (per poter ristrutturare l’intero ordinamento giudiziario, così levo di torno tutti quei magistrati vecchi
e si rinnovano). Di fronte a tutto ciò, l’Unione ha fatto poco. Ci sono state in tutto 3 procedure di infrazione. Il
mese scorso c’è stata la visita a sorpresa di un parlamentare europeo in Ungheria per tastare il terreno. L’8 aprile
ci saranno le elezioni in Ungheria. Quindi la visita del parlamentare serve proprio a capire se ci sono i margini per
avviare la procedura dell’art 7. L’Unione non interviene ancora perché ci sono le elezioni e potrebbe inficiare il
voto.
Il problema dell’art 7 è: presuppone delle procedure di carattere politico e in caso di violazione prevede
unanimità, quindi abbiamo ipotesi di veto, e se si voterà una constatazione a carico della Polonia, l’Ungheria farà
opposizione/veto, e nessuno può così essere dichiarato in violazione; di conseguenza non si potranno dare delle
sanzioni nemmeno economiche! Dall’Unione però si recede facoltativamente, quindi se la Polonia andasse
avanti così, ci sarà almeno uno stato membro in cui i giudici saranno scelti dal Presidente della Repubblica e le
sentenze non saranno più certe.
Quindi la domanda è: è ammissibile che nell’UE di oggi ci siano delle situazioni del genere? Il problema è di
valori, se si permette alla Polonia di rimanere nell’UE calpestando i valori fondamentali, allora perché devono
seguirli gli altri stati membri? dato che non c’è una modalità di espulsione!

26-3-18
Utilizzata la procedura di infrazione contro l’Ungheria
Polonia e Ungheria si sosterrebbero comunque a vicenda
È possibile recedere dall’euro senza recedere dall’UE? (recedere solo dalla politica monetaria, restando però
vincolato all’UE) No, non si può! Se recedo dall’euro devo recedere anche dall’UE. Nel momento in cui io sapessi
che tra un mese, a seguito di referendum, si passasse alla lira, in una economia globalizzata, succederebbe che lo
Stato dovrebbe anche adottare una legge che vieta l’esportazione dei capitali, che ora possono circolare
liberamente, perché altrimenti lo Stato fallirebbe, perché la lira non vale niente allora io sposterei tutto il mio
capitale in euro (che vale di più) in un altro Stato!
FONTI DI DIRITTO DELL’UE
Al vertice della piramide, il DIRITTO PRIMARIO DELL’UE sono I TRATTATI, a cui sono assimilati (fonti equiparate) i
PROTOCOLLI e ALLEGATI (hanno lo stesso valore giuridico dei trattati, e vanno modificati con le stesse regole
dell’art 48) (art 51 TUE), e abbiamo anche la CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI. Ma come faccio a modificare
questa fonte? Perché la Carta, che è norma primaria, non è allegata ai Trattati e nemmeno parte integrante. C’è
solo un richiamo all’art 6 TUE che attribuisce valore giuridico vincolante alla Carta, quindi la ritiene fonte
primaria, ma non è allegata ai Trattati. Per esigenza di assicurare certezza e visibilità ai principi e diritti
fondamentali, questi vengono messi in un catalogo, cioè la Carta. Ma dove sta la certezza giuridica se non è
allegato ai Trattati? Nelle ultime versioni, i Trattati e la Carta sono pubblicati nella stessa Gazzetta ufficiale.
Riproclamata la Carta a Strasburgo. Ma come si fa a modificare la Carta, elaborata attraverso la Convenzione
(procedura particolare), che ha una composizione diversa da quella prevista dall’art 48? Uso il 48? Devo usare lo
stesso meccanismo che ho impiegato per arrivare alla stesura della Carta? La risposta non c’è. (QUESTI SONO
TRATTATI E FONTI EQUIPARATE)
Si può riconoscere valore primario ad una fonte non scritta, rappresentata dai PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO,
menzionati dall’art 6 TUE par 3 relativo ai diritti fondamentali, ma il sistema ne conosce tantissimi altri, come il
principio di leale cooperazione, art 5 par 3. Altri hanno natura giurisprudenziale e non sono stati codificati.
Poi c’è il tema del fatto che possano esistere die principi non solo di natura primaria, ma di valore
SOVRACOSTITUZIONALI, immodificabili anche attraverso la procedura dell’art 48.
Quindi tra le FONTI PRIMARIE abbiamo: TRATTATI, ALLEGATI, PROTOCOLLI, CARTA E PRINCIPI GENERALI DI
DIRITTO (per parte della dottrina)
Nelle FONTI SUB PRIMARIE, oltre i principi generali di diritto (secondo parte della dottrina):
Lo strumento che io uso per vincolarmi alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo è un
ACCORDO DI ADESIONE internazionale alla CEDU. Questo Accordo, ma come qualunque accordo che l’UE stipula
(art 2 par 3) è una fonte che ha un valore SUBPRIMARIO, quindi deve concordare con le fonti superiori. Lo
strumento che uso per assicurare che l’Accordo sia compatibile con le fonti primarie, prima che l’accordo entri in
vigore, è chiedere alla Corte di Giustizia un parere (funzione consultiva) sulla base dell’art 218 par 22, che ci dice
che uno stato membro, il parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono chiedere un parere della
Corte sull’accordo in fase di elaborazione (parere sul progetto di accordo). La Corte si pronuncia su questa
compatibilità, e potrebbe esserci una valutazione anche negativa, quindi incompatibile, come era accaduto nel
1994, dove la Corte adottò il parere 2/94, per aderire alla CEDU. Quindi in questo caso si deve o modificare il
progetto di accordo o procedere alla revisione del trattato. Solitamente si segue la prima strada, anche se ne 94
si era seguite la seconda. Quindi devo rispettare i diritti fondamentali quando esercito le mie competenze.
Formalmente gli accordi hanno tutti rango sub primario, e una conferma l’abbiamo anche nel 218 par 11. Per
quanto riguarda la Convenzione europea, per lei c’è un problema nella sostanza sul valore di questa
convenzione, perché è vero che entrerebbe come fonte sub primaria, perché ce lo dice anche il 218 par 11, però
noi avremmo un organismo esterno, cioè una corte esterna (di Strasburgo) che valuta la legittimità del
comportamento delle istituzioni dell’UE con la Convenzione, e se violano la Convenzione potrebbero essere
censurate dalla Corte di Strasburgo, quindi nella sostanza le norme della Convenzione a cui io vado a vincolarmi
avrebbero un valore sovra costituzionale (se l’UE aderisse alla CEDU). È vero che nella forma il valore è sub
primario, ma io se la violo posso essere censurato, quindi in sostanza sembra avere valore sovra costituzionale.
Ma se io faccio entrare la Convenzione europea attraverso il principio generale, gli attribuisco un valore dei
principi generali, quindi potrei dire che la CEDU ha valore primario. Questa adesione però non si è ancora
realizzata.
Secondo alcuni tra le fonti sub primarie vanno anche inserite le DECISIONI DEL CONSIGLIO EUROPEO CHE
RIVESTONO UNA PORTATA GENERALE, o che hanno una natura istituzionale. Atti tipici comunitari, art 288,
modificato col Trattato di Lisbona. La decisione che ci indica la rotazione delle presidenze: questa decisione deve
rispettare il consiglio perché altrimenti l’atto è invalido. Quindi una decisione di questo tipo non è equivalente a
quelle che hanno portata generale, ma sono atti con portata molto diversa.
Poi abbiamo le DECISIONI CHE INTEGRANO IL TRATTATO
FONTI DI DIRITTO DERIVATO (subordinati agli atti primari e sub primari)
Art 288: altre 2 fonti: RACCOMANDAZIONI E PARERI: non sono vincolanti (atti giuridici non vincolanti), ma sono
atti comunque tipici. Sono le fonti comunitarie, diritto derivato di matrice comunitaria. Potrebbero essere
adottati con una procedura legislativa, ma anche senza. Ma un regolamento non legislativo può derogare a un
regolamento legislativo?
Altre fonti di diritto derivato, che possono essere adottate attraverso regole diverse dal TFUE, sono quelle
relative alla POLITICA ESTERA DI SICUREZZA COMUNE. Art 25 TUE e poi altre disposizioni che individuano atti di
diritto derivato che vengono elaborati dall’UE per disciplinare la materia della politica estera e di sicurezza
comune. Atti tipici del sistema PESC, e non del 288.
Altre fonti di diritto derivato, come atti che possono essere adottati dalle istituzioni, sono GLI ATTI DEL VECCHIO
TERZO PILASTRO: se intervengo nelle materie del vecchio terzo pilastro, ora intervengo con gli ATTI
COMUNITARI. Perché appunto non ci sono più le norme del terzo pilastro, ma dopo Lisbona quegli atti non
hanno perso efficacia! Quindi gli atti del terzo pilastro continuano a produrre effetti giuridici fino a che non
saranno modificati o abrogati.
Abbiamo poi gli ATTI ATIPICI, che sono diversi dagli atti tipici dei diversi sistemi, e spesso si sono creati attraverso
la prassi delle istituzioni.
ATTI NON VINCOLANTI
Sono atti tipici perché menzionati nell’art 288. L’art si chiude dicendo che gli le raccomandazioni e pareri non
sono vincolanti. Nel vecchio art si diceva che le raccomandazioni sono degli atti che possono essere rivolti alle
istituzioni o agli stati membri che contengono regole di comportamento cui i destinatari sono invitati a
conformarsi, ma senza poi poter reagire al fatto che lo stato non si è conformato, perché non è vincolante. Di
solito vengono adottate come forma di manifestazione della volontà della istituzione. C’è un invito a vincolarsi
ma non sono vincolanti possono essere adottate dal Consiglio, dalla Commissione, e dalla BCE nei casi previsti
dal trattato. Nel sistema precedente potevano essere adottate anche da Parlamento europeo, e si prevedeva
che dovessero essere dotate di motivazione gli atti vincolanti. Ma oggi si prevede più in generale per gli atti
giuridici, quindi anche le raccomandazioni devono essere motivate (art 296). Lo stesso vale per il parere, che è
un atto che non esprime la volontà ma un pensiero, quindi l’istituzione manifesta il proprio pensiero rispetto ad
un atto che bisogna adottare.
In quanto non vincolanti, non sono suscettibili di controllo giurisdizionale, quanto meno attraverso il ricorso per
annullamento (art 263). Quindi non possono essere impugnati. Ma possono essere oggetto di interpretazione
conforme al diritto dell’UE.

27-3-18
PREVISIONI DEL TFUE CHE SI OCCUPANO DELLA STIPULAZIONE DEGLI ACCORDI DA PARTE DELL’UE
Questo già lo abbiamo visto con il principio di attribuzione delle competenze, perché la competenza a stipulare
accordi internazionali spetta di principio all’UE, che ha competenza a rapportarsi con gli stati terzi. La
giurisprudenza della Corte di Giustizia ha elaborato pronunce con cui ha assicurato il principio del parallelismo
delle competenze, ora codificato all’art 3 par 2, ma è in parte diverso dall’art 216 (si occupa di definire come si
stipulano gli accordi internazionali e quando l’UE può farlo), ma entrambe riproducono la giurisprudenza della
Corte di Giustizia. Il principio del parallelismo sulle competenze è un principio in base al quale l’Unione
acquisisce competenza sul piano esterno esclusiva, quindi può concludere accordi internazionali, e per la stessa
materia ha competenza interna concorrente (?? Da riguardare). C’è un collegamento tra intervento interno ed
esterno. Quindi si configura come esclusiva la competenza dell’Unione sul piano delle relazioni internazionali. La
giurisprudenza della Corte di Giustizia è davvero tanta, ci sono tanti pareri, e vi sono dei casi non disciplinati dal
trattato che riguardano i c.d. “ACCORDI MISTI”, cioè accordo che copre sia materie che rientrano nella
competenza dell’UE, sia materie che restano ancora nella competenza degli stati, e quindi non sono configurabili
come materie di tipo concorrente. Quindi vi sono degli aspetti relativi ad esempio alla prestazione dei servizi che
non rientrano nella competenza dell’UE, quindi al tavolo negoziale ci andrà sia il rappresentante dell’UE sia un
rappresentante per stato membro. L’UE seguirà le regole fissate nel trattato e gli stati seguiranno le loro regole.
Anche rispetto a questi accordi noi troviamo la giurisprudenza della Corte di Giustizia che dice che la competenza
a interpretare questi accordi è esclusiva della Corte di Giustizia, quindi se io ho un problema interpretativo su
qualunque aspetto dell’accordo (anche se rientra nella competenza degli stati) la Corte si è auto attribuita
questo potere esclusivo di interpretare tutte le clausole dell’accordo misto, questo per assicurare l’uniformità
interpretativa e applicativa delle disposizioni in tutti gli stati membri, per assicurare dunque la coerenza
dell’applicazione dell’accordo, ed evitare contrasti sull’applicazione. In più la Corte ha sancito che nel dare
applicazione all’accordo misto, gli stati sono tenuti al rispetto del principio di leale cooperazione, anche per le
materie di loro competenza.
Il principio di parallelismo delle competenze lo troviamo codificato, ed è espressione della teoria dei poteri
impliciti, che secondo alcuni sembra essere codificata anche nella clausola di flessibilità. La prima norma di
riferimento, che è nella parte III del TFUE è l’art 216, che ci dice che tutte le volte in cui c’è un atto legislativo, un
trattato, che mi attribuisce la competenza a stipulare un trattato, ovviamente lo faccio. E l’art 217 riconosce
all’UE espressamente il potere di concludere accordi con uno o più paesi terzi. Un’altra disposizione che
attribuisce all’UE di concludere accordi internazionali è l’art 207, per quanto riguarda la materia politica
commerciale comune. O 291 in materia di tutela dell’ambiente. L’art 216 par 2 dice che gli accordi conclusi
dall’UE vincolano le istituzioni dell’UE e gli stati membri: questo vuol dire che nel momento in cui si conclude il
processo di stipulazione internazionale, poi vincola l’unione, vincola automaticamente tuti gli stati membri,
senza di regola che sia necessario un intervento di trasposizione da parte del legislatore. Questo non succede
per gli accordi internazionali conclusi dall’UE, in cui l’UE ha una competenza esclusiva (è una violazione del
diritto dell’UE altrimenti). In questo caso dunque l’accordo internazionale è assimilabile al regolamento, come
atto tipico del diritto derivato, che è direttamente applicabile.
PROCEDURA DI CONCLUSIONE DEGLI ACCORDI INTERNAZIONALI
Art 218: regola la stipulazione degli accordi internazionale da parte dell’UE anche quando si interviene nel
settore di politica estera e sicurezza comune. È la Commissione che gestisce la procedura, e quindi tutta la fase di
negoziazione spetta alla Commissione, sulla base delle direttive del Consiglio, ma quando siamo in materia di
politica estera questa attività spetta all’Alto rappresentante, art 218 par 3. Il Consiglio autorizza l’avvio dei
negoziati e dà le direttive, cioè le linee guida con cui la Commissione o l’Alto rappresentante dovrà gestire il
negoziato (par 2). La Commissione fa la richiesta al Consiglio per avere l’autorizzazione all’avvio dei negoziati,
attraverso la raccomandazione (atto tipico).
Nell’art 50 troviamo il corrispondente delle direttive: il Consiglio europeo formula degli orientamenti per
determinare l’accordo di recesso, che sono corrispondenti alle direttive che il Consiglio adotta per definire gli
elementi del negoziato.
Il Consiglio dà avvio al negoziato, poi valuta l’idoneità di tutte le disposizioni del Trattato a rispettare le
competenze dell’UE, e infine firma e conclude l’accordo.
Nel 218 troviamo anche una serie di previsioni in relazione al ruolo del Parlamento europeo. Il trattato distingue
2 ipotesi:
1. Ipotesi in cui è necessaria l’approvazione del Parlamento europeo (anche nell’art 50 per quanto riguarda
il recesso del Regno Unito), che è necessaria per l’accordo di adesione dell’UE alla CEDU. Quindi il
Parlamento ha un vero e proprio diritto di veto, che può impedire che il Consiglio firmi e concludi
l’accordo.
2. Ipotesi in cui è richiesta la mera consultazione del Parlamento europeo (atto tipico non vincolante)
Il Trattato prevede espressamente che l’accordo di adesione debba essere ratificato da tutti gli stati membri;
quindi è necessaria sia l’approvazione del parlamento sia la ratifica di tutti gli stati membri, i quali sono anche
membro del Consiglio d’Europa. La dottrina si interroga sul fatto che l’accordo sia misto o no.
PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO
Altra categoria di fonti primari (per alcuni) che sono i PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO, in particolare i DIRITTI
FONDAMENTALI DELL’INDIVIDUO, quindi analizzare come l’UE è arrivata (è stato un percorso graduale) a
tutelare questi diritti fondamentali in quanto principi generali, sulla base di ciò che troviamo sancito nell’art 6
par 3 (con il Trattato di Lisbona, prima era art 6 par 2, ora il par 2 è diventata la disposizione relativa
all’adesione). Ci dice che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali questa disposizione del trattato (art 6
par 3) è l’unica che fa riferimento alla categoria di principi generali di diritti, ed è fonte non scritta, perché è
fonte di elaborazione giurisprudenziale. I diritti fanno parte del diritto dell’Unione quindi sono fonte del diritto
dell’Unione, ma lo sono in quanto principi generali. Questa previsione sta lì dal trattato di Maastricht, che
inserisce nel trattato sull’Unione questa previsione, cioè che l’UE garantisce i diritti fondamentali in quanto
principi generali di diritto. Questa formulazione di questa disposizione codifica/riproduce dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia, e a partire dalla fine degli anni 60 ha modificato il proprio orientamento
giurisprudenziale iniziando a tutelare i diritti fondamentali dell’individuo. Spesso la Corte era stata chiamata a
pronunciarsi rispetto ad un bilanciamento tra libertà di circolazione delle merci e la tutela di un certo diritto
fondamentale, e il bilanciamento era a favore della libertà di circolazione, perché prima unico fine era la tutela
prevalentemente economica. Ma questo non piaceva agli stati, non va bene questo tipo di bilanciamento
(nemmeno alla nostra Corte Costituzionale andava bene), perché tra tutela di attività economia e tutela di diritto
fondamentale dovrebbe prevalere il secondo, con la conseguenza che, se la Corte di Giustizia impone questo
bilanciamento che non va bene, non si applica il diritto dell’UE/comunitario come interpretato dalla Corte di
Giustizia. Ma il rischio è che il diritto dell’UE salti e non trovi più applicazione nel momento in cui una Corte
nazionale non sia d’accordo con esso. Quindi di fatto le Corti Costituzionali degli stati membri introducono un
limite all’applicazione del diritto dell’UE per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali, allora la Corte di
Giustizia capisce che deve iniziare a tutelare essa stessa i diritti fondamentali, e quindi di fare un bilanciamento
non sempre a favore della libertà economica, ma di tenere conto di questi diritti fondamentali, tutelandoli come
principi generali. Quindi abbiamo un bilanciamento tra due fonti (principi fondamentali da una parte e norma
dei trattati dall’altra), che viene effettuato come bilanciamento a favore del principio fondamentale. Infatti, nel
92 viene meno l’aggettivo “economica” (non è più comunità economica europea). Quindi la Corte di Giustizia
prende qualcosa che sta fuori dall’ordinamento comunitario e lo ingloba nel sistema, e lo fa entrare in quanto
principio generale (e fonte non scritta di diritto giurisprudenziale), e questo “in quanto principio generale” ha un
significato che la Corte di Giustizia vuole dare: nel momento in cui lo elabora, tiene conto delle specificità
dell’ordinamento in cui il principio generale va inserito; lo ingloba specificandolo e tenendo conto di tutte le
altre caratteristiche dell’ordinamento, quindi non è detto che ciò che dice l’Italia su una determinata materia
corrisponda esattamente a ciò che dice il diritto dell’UE. Quindi prendo un diritto dall’esterno, lo faccio diventare
principio generale, e questo vuol dire che quel principio si può piegare alle esigenze del diritto dell’UE che però
non sono identiche a quelle dell’ordinamento da cui prendo spunto.
La Corte di Giustizia dice che i diritti fondamentali in quanto principi generali possono essere desunti (quindi la
loro fonte di ispirazione è):
- dai Trattai internazionali a cui gli stati membri abbiano cooperato o aderito
- oppure dalle Tradizioni Costituzionali Comuni agli stati membri
 questo prima, perché fino al 74 non tutti gli stati membri della comunità erano anche stati membri della
CEDU, ma quando anche la Francia aderisce a questa Convenzione si può richiamare la fonte speciale di
riferimento che è la Convenzione europea; la maggior parte della giurisprudenza sull’evoluzione dei principi
generali l’abbiamo con riferimento alla CEDU.
 Ora la fonte di ispirazione è la CEDU.
Spesso la Corte di giustizia ha avuto una c.d. COMPETENZA STRISCIANTE, cioè ha esteso le competenze
dell’Unione. La Corte si è sempre ritenuta libera nel definire cos’è una tradizione costituzionale comune, anche
se non c’è davvero un minimo comune denominatore.
Nel 1992 gli Stati decidono di codificare dunque la giurisprudenza della Corte facendo riferimento solo ai trattati
internazionali e Tradizioni; si discuteva sulla passibilità di aderire alla CEDU, e quindi quando si avvia la
negoziazione per aderire nel 1993, ci si chiede se quell’accordo di adesione sarebbe compatibile o meno con i
Trattati, quindi si chiede un parere alla Corte di Giustizia, sulla base del 218, e la Corte dà parere negativo sulla
possibilità di aderire, giustificato sulla base del fatto che non c’è competenza dell’UE a stipulare quell’accordo,
ma nella sostanza l’idea era che l’UE sia perfettamente in grado di tutelare da sola i diritti fondamentali senza
che sia necessario ricorrere all’adesione (parere del 1996, con cui la Corte risponde al parere 2/94). Nel 2000 si
sviluppa l’altra idea anch’essa inserita nel progetto Spinelli (che prevede la possibilità di far aderire l’UE alla
CEDU e di dotarla di un proprio catalogo di diritti fondamentali) secondo cui sarebbe opportuno che la
giurisprudenza venga trasportata in un atto scritto che elenchi i diritti fondamentali, e viene nominata una
apposita Convenzione (con i rappresentanti della commissione consiglio parlamenti nazionali e organizzazioni
intergovernative) che elabora questo strumento che assume il nome di Carta dei diritti fondamentali dell’UE,
proclamata solennemente a Nizza (si parla anche di “Carta di Nizza”), dai presidenti delle 3 istituzioni politiche:
Parlamento europeo, Consiglio, Commissione. Siamo nel dicembre del 2000, e con il Trattato di Lisbona
acquisisce carattere giuridico vincolante. A Strasburgo si fanno delle modifiche/adattamenti, e le troviamo all’art
6. Fino al 2009 non è vincolante, abbiamo questo strumento di soft law. in questi 9 anni in cui la Carta
formalmente non è vincolante però non può considerarsi un mero strumento di soft law, ma se guardiamo la
normativa prodotta dal gennaio 2001, nel 90% dei casi abbiamo un riferimento nel preambolo degli atti adottati
alla Carta, che non è strumento giuridico vincolante, ma le istituzioni che adottano gli atti in qualche modo si
sentono vincolate a quello che hanno proclamato. Quindi nei “Considerando” la Carta è spessissimo richiamata.
Ma la Carta riproduce essenzialmente i principi generali, quindi dal 2000 abbiamo un passaggio dal non richiamo
ai principi generali nel “Considerando”, a un richiamo, anche se non è ancora vincolante.
La prima pronuncia della Corte di Giustizia in cui troviamo richiamata la Carta è quella dell’estate del 2006.

28-3-18
La Corte di Giustizia è riuscita a trasformare il “controlimite” da un fattore di disintegrazione del sistema a un
fattore di integrazione e innalzamento del diritto di tutela dei diritti fondamentali anche all’interno
dell’ordinamento dell’UE.
Siamo arrivati alla proclamazione della Carta, avvenuta da parte dei 3 presidenti delle 3 istituzioni politiche.
La Carta viene riadattata a Strasburgo in vista della sua acquisizione di carattere giuridico vincolante, però la
struttura della Carta resta invariato, così anche un documento che viene collegato alla carta: a margine della
Carta, formata da 54 articoli divisi in 7 titoli, fanno parte le SPIEGAZIONI alla Carta, come strumento giuridico
non vincolante ma che ci fornisce indicazioni di come interpretare la Carta che è strumento vincolante. Quindi è
importante per gli interpreti e giudici nazionali per capire come applicare i principi della Carta e capire le sue
disposizioni. Le più interessanti sono le SPIEGAZIONI ALLE NORME TRASVERSALI DELLA CARTA; abbiamo 7 titoli
dedicati a: dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia (divisi “ratione materiae”), e nel 7
abbiamo una disciplina trasversale che valgono per qualsiasi disposizione della Carta. La prima cosa che dice il
titolo 7 è l’ambito applicativo della Carta, ripetendo un concetto dell’art 6 del TUE, ossia il fatto che le
disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’UE. Resta ferma l’idea che l’UE non ha
una competenza generale a legiferare sui diritti fondamentali; però se sto legiferando direttive su una
determinata materia, devo rispettare le norme della Carta su quella determinata materia. La Carta vincola le
istituzioni, organi e organismi dell’UE e gli stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’UE. Si
riproduce la giurisprudenza della Corte di Giustizia che dice che i principi valgono nell’attuazione del diritto
dell’UE, quindi devo vedere per prima cosa se c’è un diritto dell’UE applicabile: se non c’è il diritto dell’UE non
posso richiamare i principi generali e quindi nemmeno le disposizioni della Carta. La Corte di Giustizia ha cercato
di ampliare l’applicazione del diritto dell’UE perché ci sono numerose sentenze in cui la Corte sembra dirci che
anche se la legislazione nazionale non è conforme ad alcune disposizioni della Carta, quella legislazione non
poteva considerarsi come attuazione diretta di atti del diritto dell’UE, ma la Corte dice che comunque lo scopo di
quella legislazione nazionale è lo stesso scopo che persegue la direttiva, quindi si può pensare che quella
legislazione sia coperta dal diritto dell’UE, e quindi è nell’ambito del diritto dell’UE, quindi posso usare la Carta
come parametro di costituzionalità. Altre pronunce come la pronuncia Siracusa ha meglio specificato cosa vuol
dire “applicazione o attuazione del diritto dell’Unione”. Un giudice era stato chiamato a decidere quali tipi di
danni potevano essere riconosciuti ad un tizio per un allagamento in casa a causa di un danno al piano di sopra,
e aveva avuto dunque dei costi di ristrutturazione e aveva dovuto alloggiare in albergo; gli vengono risarciti i
danni diretti sia morali, e il riconoscimento del danno morale venne attribuito sulla base dell’art 17 della Carta.
Ma norme di questo tipo non sono ammissibili, non si può fare applicazione della Carta in questo modo, ma
prima devo verificare cdi essere nell’ambito di applicazione dell’Unione e solo dopo posso usare la Carta come
parametro di validità.
La Carta contiene, lo dicono anche le disposizioni trasversali, sia indicazioni di libertà (diritti legati alla libertà di
circolazioni e cittadinanza dell’UE) sia indicazioni di principi e di diritti. Una delle norme che è stata più volte
oggetto di interpretazione della Corte sono le previsioni nell’art 52: par 1 e par 3:
- Il par 1 codifica la giurisprudenza della Corte sui principi generali, e anche la possibilità di derogare ai principi
previsti nella Carta: possono essere limitati solo se sono rispettati determinate condizioni, la limitazione può
essere prevista dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di questi diritti e libertà. Come faccio a capire
che la limitazione sia ammissibile? Faccio la valutazione nel rispetto del principio di proporzionalità, e le
limitazioni devono essere NECESSARIE e rispondano a FINALITA’ DI INTERESSE GENERALE riconosciute
dall’UE o devono DIFENDERE UN DIRITTO o una libertà altrui.
- Il par 3 ci dà delle indicazioni su quello che deve essere l’atteggiamento dell’interprete nel momento in cui
applica e interpreta una disposizione della Carta che ha un corrispondente in una disposizione della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). I principi sappiamo che possono partire dai trattati a cui
gli stati membri hanno aderito, e usando come fonte la Convenzione, a cui ancora non si è aderito. Contiene
una CLAUSOLA DI OMOGENEITA’ che assicura di fatto che il livello minimo di protezione assicurato nel
sistema CEDU debba essere assicurato anche quando applico e interpreto la Carta, quindi la CEDU definisce
un minimo standard di tutela a cui la Corte di Giustizia ma anche i giudici nazionali sono tenuti a fare
riferimento quando applicano le disposizioni della Carta. Questa indicazione, questa clausola non preclude
che il diritto dell’UE conceda una protezione più estesa di quella garantita in ambito CEDU. C’è chi ha letto
questa disposizione come un avanzamento rispetto il sistema pregresso, perché il principio generale prende
spunto dalla CEDU per poi piegare il diritto alle caratteristiche dell’ordinamento dell’UE; quindi dato che quel
diritto è un principio generale, nessuno mi vincola a rispettare lo stesso standard di tutela che esiste nel
sistema da cui prendo spunto. Infatti, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, sui diritti corrispondenti, per
salvaguardare delle specificità del suo ordinamento e l’effettività del diritto dell’UE utilizza delle
interpretazioni non del tutto corrispondendo a quelle della CEDU. Lo stesso par 3 dice che tutta questa
operazione non deve comunque pregiudicare l’autonomia del diritto dell’UE e della Corte di Giustizia
dell’UE.
Quindi abbiamo queste 2 diposizioni vincolanti che ci dicono che dobbiamo utilizzare le spiegazioni per
interpretare la carta, anche l’art 6 sul TUE. Quel riferimento all’autonomia del diritto dell’UE è un richiamo
all’autonomia di quando la Corte utilizzava solo i principi generali.
Quale sia il rapporto tra la Carta e la CEDU lo specifica questa disposizione, e poi abbiamo l’art 52 par 4 che ci
dice come rilevano le TRADIZIONI COSTITUZIONALI COMUNI nella Carta: se rilevo che un certo diritto era stato
elaborato alla luce delle tradizioni (per esempio l’irretroattività della norma penale sfavorevole) devo
interpretare questi diritti si interpretano in armonia con queste tradizioni.
Altra norma trasversale è l’art 53 della Carta (caso Melloni).
Art 6 par 2: parla di quale sarà il valore della Convenzione una volta che andrà a buon fine l’accordo, e la
Convenzione continua ad essere richiamata dal par 3, che continua a dire che i diritti garantiti dalla CEDU fanno
parte dell’UE in quanto principi generali, quindi continua ad esserci coordinamento tra principio generale e
CEDU. C’è chi, quando si era previsto l’inserimento della Carta all’interno del trattato, aveva suggerito di
eliminare questa disposizione, dicendo che ormai la Carta codifica i principi generali e quini tutto l’esistente sta
nella Carta e non c’è bisogno di far continuamente riferimento ai principi generali, quindi questa norma è
superflua, svilendo il ruolo del principio generale. C’era anche chi diceva che la Corte di Giustizia può continuare
a fare quello che ha sempre fatto, sulla base del ruolo che gli viene attribuito dall’art 19. Alla fine si è mantenuto
il riferimento ai principi generali. Ma che funzione ha oggi il principio generale all’interno dell’ordinamento, dove
i diritti fondamentali sono già previsti sulla Carta? Perché si è mantenuto il riferimento a questa categoria di
fonti, cioè ai principi generali, che non sono codificati? Perché quella norma sta lì? Quando posso ricorrere a
quella disposizione?
1) Perché la Corte ha sempre elaborato nel tempo nuovi principi, quindi serve per colmare le lacune; l’attività
creativa della Corte è molto più rapida della revisione della Carta, quindi sancisce un principio, sulla base del
potere che gli è riconosciuto dall’art 6 par 3 e va a colmare le lacune, crea un principio generale che sarà un
nuovo parametro di validità. Poi ci potrà essere una revisione della Carta. La CEDU viene integrata senza
necessariamente cambiare la Carta, e faccio entrare nell’ordinamento questi principi in quanto principi
generali, quindi servono perché sono INTEGRATIVI DEL SISTEMA. Infatti alcune ipotesi potrebbero non
essere coperte da ciò che è scritto.
2) In più, il principio generale continua ad applicarsi a tutte quelle ipotesi non previste dalla Carta, tutto quello
che è fuori dalla Carta, che ha un ambito di applicazione anche temporale: tutto ciò che si è creati prima del
2009 non può essere valutato dalla Carta, dato che la carta è entrata in vigore nel 2009.
3) C’è poi una disposizione della Carta, l’art 41, che è dedicato al diritto della buona amministrazione: questa
norma è declinata solo rispetto le istituzioni, organi e organismi, non anche rispetto agli stati. La Corte di
Giustizia ha ribadito che questa norma si applica solo alle istituzioni e non agli stati, perché non ci sono
problemi dato che c’è un corrispondente principio generale, quindi non ho lacune.
4) Altra ipotesi, il Protocollo 30 legato ai trattati: relativo alla posizione della Colonia e del Regno Unito in
relazione alla Carta fondamentale: dice come sono tenuti a rispettare la Carta. È sempre stato inteso come
una sorta di deroga concessa a questi due ordinamenti quanto a tutela dei diritti consegnati alla carta, ma in
realtà è usato per soddisfare esigenze di politica interna, perché non volevano attribuire più diritti di quelli
garantiti dal Regno Unito. La Polonia invece aveva paura che le disposizioni della Carta non assicurassero un
buon livello di tutela, e quindi hanno ottenuto questo protocollo che sembra dirci che questi 2 ordinamenti
hanno delle deroghe in applicazione della Carta. C’è una sentenza del 2001 della Corte di Giustizia con cui si
è pronunciata sul Protocollo, dicendo che non è una disposizione derogatoria alla Carta, e dicendo che in
realtà ci dice in altre parole ciò che ci dice il Trattato.
È vero che c’è solo l’art 6 TUE che menziona queste categoria di fonti non scritte, ma in realtà c’è un’altra
disposizione nel trattato, l’art 340 TFUE, che al comma 2 parla di responsabilità extracontrattuale dell’Unione:
l’UE deve risarcire i danni, causati dalle sue istituzioni, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli
stati membri. è un riferimento a un principio generale diverso da quello codificato nell’art 6 par 3 TUE.
Siamo dunque arrivati a elaborare altri principi generali diversi da quelli dei diritti fondamentali.
Ogni ordinamento, sia nazionale sia dell’UE, ha dei propri principi generali, quindi norme fondamentali elastiche
e generali e non scritte. Ci sono 2 modi fondamentali attraverso cui la Corte di Giustizia ha elaborato i principi
generali e altri principi diversi da quelli codificati dalla Carta:
- Prendere i principi dagli ordinamenti degli stati membri
- Partendo dall’analisi di un certo settore di diritto derivato, ritenere che tute le norme di quel determinato
settore siano accomunate da un certo principio, e quindi generalizzo un principio generale comune a un
determinato settore
La Corte di Giustizia ha elaborato questi principi generali per esigenza di colmare le lacune del sistema, per
assicurare l’effettività del diritto dell’UE o la tutela giurisdizionale, e per assicurare un più corretto
funzionamento dell’ordinamento. Tra i principi generali di diritto abbiamo il principio di sussidiarietà e di
proporzionalità. I principi generali sono parametri di legittimità e interpretativo (la loro funzione è questa).
Sono riconosciuti come principi generali per esempio il principio della certezza del diritto, o il principio del
legittimo affidamento (soggetti che avevano fatto affidamento al fatto che esistesse una determinata normativa);
tutta una serie desunti dalle tradizioni costituzionali o dagli ordinamenti nazionali; un principio generale del
diritto dell’UE e il principio di uguaglianza e di non discriminazione, che nell’UE si è sempre declinato come
principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, quindi non posso discriminare ad esempio un
soggetto o una merce che viene da un altro stato membro. Sulla Base di una giurisprudenza consolidata della
Corte di Giustizia, il trattato vieta solo le discriminazioni dirette, cioè fondata solo sulla nazionalità, ma possiamo
riconoscere (in quanto principio generale) anche il divieto di discriminazione indiretta: per esempio c’è un bando
per essere assunti come infermieri in un ospedale pubblico e il bando prevede che possano partecipare al
concorso solo soggetti che hanno ottenuto la laurea in Italia: è compatibile con il diritto dell’Unione? Non è una
discriminazione diretta, perché il diritto dell’UE ci impedirebbe di dire che possono partecipare solo soggetti che
sono nati in Italia, ma qua dice “chi si è laureato in Italia”. Non è una discriminazione fondata direttamente sula
nazionalità, però è una discriminazione comunque, perché discrimina di fatto i soggetti di altri stati membri
come se la discriminazione fosse fondata sulla nazionalità. Di conseguenza questo bando non è compatibile con
il diritto dell’UE. Ci sono anche le discriminazioni alla rovescia, che però non è coperta dal diritto dell’UE: sono
tutte quelle ipotesi in cui, attraverso una legislazione, io favorisco i cittadini o merci degli altri stati membri
rispetto a quelli nazionali. Come faccio a eliminare quella discriminazione? Non è una situazione coperta dal
diritto dell’UE, perché io sto applicando correttamente il diritto dell’UE, ma questa discriminazione può essere
eliminata cercando di fare in modo che il giudice italiano davanti a cui mi trovo sollevi una questione di
illegittimità costituzionale perché c’è una violazione dell’art 3 della Costituzione.
Abbiamo poi principi generali propri del sistema comunitario: il principio di leale cooperazione e dell’effetto
diretto (principio di reazione giurisprudenziale) e il principio dell’effetto utile nell’interpretazione e applicazione
delle norme (che deve essere funzionale al raggiungimento dello scopo) e il principio della responsabilità dello
stato per violazione del diritto dell’UE, sancito nel 1991, e il principio (che è diventato trasversale) del mutuo
riconoscimento.

4-4-18
PRINCIPIO DEL MUTUO RICONOSCIMENTO, o del reciproco riconoscimento. Sancito per la prima volta in un caso
del 79 dalla Corte di Giustizia, chiamato caso della “Casisse de decision” (un liquore). In questa causa succede
che questo liquore veniva commercializzato in Francia e poi esportato in Germania ma questa si oppone alla
messa in circolazione di questo prodotto, sostenendo che sulla base della legislazione tedesca tutto ciò che è
qualificato come liquore deve avere una certa gradazione alcolica, che doveva superare i 20 gradi, ma il Casisse
aveva una gradazione inferiore di 15 gradi, e quindi non avrebbe potuto circolare nel territorio tedesco. Ne
nasce una controversia, perché secondo il produttore c’è una violazione del principio della libera circolazione
delle merci, e il giudice decide di interrogare sul punto la Corte di Giustizia che dà ragione al produttore, per il
fatto che su quel punto non si aveva avuto ancora una normativa armonizzata, e se un prodotto è legalmente
prodotto in un determinato stato membro, allora gli altri stati membri devono ammettere che quel prodotto,
legalmente messo in commercio in un determinato stato, possa circolare liberamente nel loro territorio
membro. Ma c’è un limite, cioè le ESIGENZE IMPERATIVA, cioè una circostanza essenziale legata alle specificità
dell’ordinamento nazionale. Quindi la Corte afferma il principio del mutuo riconoscimento, con questo limite
delle esigenze imperative, che sviluppa molto nel principio della libera circolazione delle merci, ma lo applica
anche al settore della libertà di stabilimento. Il principio del mutuo riconoscimento lo troviamo declinato anche
nell’ambito relativo alla circolazione delle decisioni in materia civile e commerciale e nel settore della
cooperazione giudiziaria civile e penale. Se questo principio opera sulla base dell’insegnamento della Corte di
Giustizia anche in assenza di armonizzazione (quindi opera a prescindere da questa), è anche vero che ci sono
stati molti interventi del legislatore europeo che ha adottato atti che assicurassero sia l’armonizzazione sia il
reciproco riconoscimento. Più armonizzo le legislazioni, più è facile che ciò che si produce all’interno di quel
determinato ordinamento sarà più simile a quello che si produce in un altro ordinamento, perché se le norme
sono armonizzate/comuni, ciò che viene realizzato per esempio in Italia è più simile a ciò che viene realizzato in
un altro stato membro.
Abbiamo anche il concetto della FIDUCIA RECIPROCA, considerato come un super valore su cui si fonda l’Unione.
Questo principio è diventato motore di funzionamento del processo di integrazione europea. Indica l’operare dei
diversi ordinamenti nazionali, quindi ad esempio l’Italia ha fiducia nel funzionare degli altri stati membri, sulla
base di quale presupposto? Perché si può sostenere che il processo di integrazione si fonda sul principio della
fiducia reciproca? Qual è una norma del trattato che tutti sono tenuti a rispettare, anche se le legislazioni
nazionali degli altri stati membri sono diverse? C’è una norma che potrebbe essere una risposta all’enunciazione
di questo principio? Se prendiamo il Parere 2/2013 della Corte di Giustizia (quando l’UE stipula un accordo
internazionale, durante l’iter negoziale, l’art 218 par 11 investe la Corte di Giustizia della richiesta di parere, di
verificare la compatibilità dell’accordo con i trattati), in quel parere c’è un ragionamento sulla fiducia reciproca, e
che è idoneo a giustificare che non sia indispensabile l’adesione dell’UE alla CEDU. Partiamo dal presupposto che
non c’è una perfetta coincidenza di principi e di valori tra i diversi stati, ma abbiamo anche dei principi comuni o
equivalenti, e c’è una disposizione che ci dice che è giusto che si abbia questo principio che in qualche modo
definisce quelli che sono i rapporti reciproci tra gli stati e consente un’evoluzione pacifica del processo di
integrazione. C’è una presunzione di rispetto degli altri valori, altrimenti uno stato non sarebbe entrato
nell’Unione. Questa norma è l’art 2 del Trattato, che dice quali sono i valori su cui si fonda l’unione e ci dice che i
valori dell’UE sono comuni a quelli degli stati membri, in quanto membro dell’Unione.

ATTI DI DIRITTO DERIVATO


Art 288 TFUE; sono atti tipici di diritto comunitario. Questa disposizione distingue tra:
 ATTI NON VINCOLANTI: pareri e raccomandazioni
 ATTI VINCOLANTI: sono 3: regolamenti, direttive e decisioni
REGOLAMENTI
Ha 3 requisiti fissati dal 288:
 diretta applicabilità: è direttamente applicabile
 portata generale e astratta: si rivolge a una categoria indeterminata di soggetti; non c’è una
preindividuazione dei soggetti a cui mi rivolgo. Si applica indistintamente a tutti gli stati membri. Vincola tutti
gli stati membri. Ha portata a 360 gradi. Rivolto a qualsiasi soggetti che si trovi in uno qualunque degli stati
membri. Sono rari quei regolamenti che hanno portata territoriale circoscritta
 è obbligatorio in tutti i suoi elementi : quindi qualunque disposizione inserita nel regolamento vincola
immediatamente tutti i soggetti a cui il regolamento è destinato.
Questo fa sì che sia assimilato alla legge degli ordinamenti nazionali, e che va a sostituirsi alle legislazioni interne,
quindi alla normativa legislativa o amministrativa nazionale, per la materia coperta dal regolamento. Quindi nel
momento in cui il regolamento entra in vigore all’interno dell’UE, automaticamente entra in vigore e produce
effetti nel territorio di tutti gli stati membri andando a sostituirsi completamente alla legislazione nazionale
corrispondente. Può produrre effetti senza che sia necessario un intervento del legislatore nazionale, quindi la
sostituzione è automatica. Si applica automaticamente il regolamento e non la legislazione nazionale, senza che
venga esplicitato dal legislatore. L’intervento del legislatore nazionale è vietato, perché il legislatore deve
applicare il regolamento, anche se è contrastante alla legislazione interna, e quest’ultima verrà disapplicata.
Prevalenza del regolamento rispetto la normativa nazionale, quindi disapplico la legge nazionale se entra in
vigore il regolamento, ma IL LEGISLATORE NON PUO’ CAMBIARE IL CONTENUTO DEL REGOLAMENTO, perché il
regolamento prevale sulla legislazione interna contrastante, anche se successiva, e di conseguenza questa va
disapplicata. È vietato dunque un intervento del legislatore che trasponga il regolamento. Anzi, anche se il
legislatore nazionale copiasse e incollasse in una legge interna il contenuto del regolamento sarebbe in
violazione con il diritto dell’UE! Non può essere riprodotto in un testo interno nazionale il testo del regolamento,
questo perché riprodurre/trasporre la norma del regolamento in una norma interna rischia di nascondere la
natura comunitaria dell’atto, gli effetti di quell’atto, e se gli do la veste dell’atto interno rischio di pregiudicare la
competenza interpretativa esclusiva della Corte di Giustizia. Tutto questo non vuol dire che ci siano dei
regolamenti che, pur essendo obbligatori in tutti i loro elementi, non siano completi: per poter produrre tutti i
loro effetti hanno bisogno di una attuazione ed esecuzione, quindi è necessario l’intervento di un altro soggetto
(dell’UE o di uno stato membro) che è chiamato a dare ESECUZIONE al regolamento. Quindi abbiamo anche
regolamenti che possono richiedere un intervento di completamento da parte della Commissione o dal
legislatore nazionale. Per esempio, il regolamento sanzionatorio, che indica una violazione e obbliga gli stati a
prevedere una sanzione rispetto quel tipo di violazione, ma questa sanzione non è indicata dal legislatore
europeo, quindi la sanzione è decisa dal legislatore nazionale.
Di regola il regolamento è direttamente applicabile, e idoneo a produrre EFFETTI DIRETTI. Diretta applicabilità ed
effetto diretto sono due concetti distinti.
DIRETTIVE
non vincola per tutti i suoi elementi ma solo per il risultato da raggiungere. Non sono direttamente applicabili,
perché affinché possano produrre effetti è sempre necessario l’intervento del legislatore nazionale, e se non ci
fosse non potrebbe produrre effetti sul piano interno, e acquisisce così valore giuridico. “La direttiva vincola lo
stato membro cui è rivolta (vincola solo uno o più stati, ma ha comunque portata generale), per quanto riguarda
il risultato da raggiungere, salvo restando la competenza degli organi nazionali per la forma e i mezzi (con cui
raggiungere quel risultato)”. Quindi la disposizione ci sta dicendo che, diversamente dal regolamento, la
direttiva:
 non è direttamente applicabile
 è indispensabile l’intervento dell’organo nazionale affinché la direttiva possa produrre i suoi effetti negli
stati membri
 non è obbligatoria in tutti i suoi elementi, ma è obbligatoria solo per quanto riguarda il risultato. Vincola
solo il risultato ma i mezzi attraverso i quali raggiungerlo sono decisi dal legislatore nazionale.
Pur non direttamente applicabile, in alcuni casi può produrre effetto diretto, fermo restano l’obbligo del
legislatore nazionale di trasporla, perché finché non la trapone quella norma non può produrre i suoi effetti
propri, e soprattutto lo stato è inadempiente, e rischia di incorrere in una procedura di infrazione. Quindi il
legislatore deve rispettare il termine introdotto dalla direttiva. Mentre il regolamento serve per UNIFORMARE le
legislazioni degli stati membri, la direttiva vuole ARMONIZZARLE, dettare regole comuni. L’art 83 in materia di
ravvicinamento delle legislazioni penali, il costituente ha scelto come strumento la direttiva. In alcuni casi il
trattato, come nell’ art 109 TFUE, ci dice che deve essere adottata una direttiva. Devo fare quello che mi sta
dicendo il trattato. Ma in alcuni caso il trattato non indica la forma dell’atto che devo adottare, es art 82 par 1 (o
art 325), si può adottare sia un regolamento sia una direttiva, la scelta è lasciata al legislatore nazionale, a
seconda del caso concreto, ma la scelta dell’atto è anche regolato dal principio di proporzionalità, sancito nell’art
5 par 4 TUE. Questo principio lo troviamo richiamato anche all’art 296: quando i trattati non prevedono il tipo di
atto da adottare (il trattato dice solo “adotta le misure”) le istituzioni decidono in base al principio di
proporzionalità.
La direttiva contiene una serie di disposizioni e linee guida su cui poi il legislatore nazionale dovrà muoversi per
conseguire il risultato dettato dalla direttiva, e abbiamo 2 TERMINI:
- termine di entrata in vigore della direttiva
- il termine di scadenza della direttiva, cioè termine entro cui la direttiva deve essere trasposta negli stati
Se ho già una legislazione interna difforme dalla direttiva, il legislatore dovrà adattarsi alla direttiva ma anche
abrogare ciò che non è conforme nell’ordinamento interno. Quindi lo stato interviene (o meglio, dovrebbe
intervenire) entro il termine fissato dalla direttiva, che è un termine variabile, ma normalmente è di 2 anni, ma
cambia a seconda della portata della direttiva, quindi potrebbe essere più ridotto o maggiore (per esempio in
ambito penale, se si interviene in un settore nuovo).
Una volta che il legislatore traspone entro il termine (declinando il principio di leale cooperazione) lo stato ha
anche l’obbligo di comunicare alla Commissione le misure di trasposizione di quella direttiva. La Commissione
come prima valutazione verifica se il documento c’è alla scadenza del termine, ma se non c’è avvia la procedura
di infrazione, in ipotesi di mancata trasposizione o cattiva trasposizione. La Commissione dovrà quindi prima
vedere la direttiva e poi verificare se la trasposizione è conforme alle indicazioni della direttiva. Questo
soprattutto per le direttive più sensibili, che possono creare più problemi in sede di trasposizioni; quindi in fase
di trasposizione viene consultato il funzionario della Commissione che si occupa di quella trasposizione di quella
direttiva. Il funzionario dovrà vedere come le disposizioni più sensibili di quella direttiva si sarebbero dovute
trasporre, e se non si cambia il testo della trasposizione si incorre in sanzioni.
Le norme della direttiva di regola possono avere in determinati casi produrre EFFETTO DIRETTO, per esempio nel
caso in cui la norma sia chiama, precisa e incondizionata. Quindi se una singola disposizione delle direttiva è
sufficientemente dettagliata e quindi da potersi considerare obbligatoria, e può di fatto essere idonea a produrre
effetti nell’ordinamento senza che sia necessario l’intervento del legislatore, allora siamo in presenza, secondo la
Corte di Giustizia, di una norma il cui effetto diretto può essere invocato in giudizio; questo perché la norma mi
riconosce un diritto in modo chiaro, quindi perché la norma è chiara, precisa e incondizionata, a prescindere di
fatto dall’intervento del legislatore, CHE E’ COMUNQUE NECESSARIO. Quindi se lo stato è inadempiente, perché
scaduto il termine, se la norma riconosce un diritto in modo chiaro e preciso, si può invocare quel diritto in
giudizio, per vedersi riconosciuto quel diritto, dunque l’individuo può invocare l’effetto diretto di quella norma.
La direttiva ha un termine di trasposizione. Facciamo che ci siano 2 anni tra l’entrata in vigore e la scadenza della
direttiva, ma quali sono gli obblighi dello stato già a partire dal momento in cui la direttiva entra in vigore, e fino
al momento in cui la direttiva scade? Quindi cosa succede quando la direttiva entra in vigore e quali sono gli
obblighi dello stato?

9-4-18
Abbiamo 2 termini: termine entrato in vigore e termine per l’attuazione
Nell’asso temporale tra i due termini, cosa succede? Ci sono già degli obblighi per lo Stato nel momento in cui la
direttiva entra in vigore? Dal momento in cui lo Stato firma il trattato al momento in cui entra in vigore, lo Stato
ha l’obbligo di non porre in essere condotte che possano vanificare lo scopo del trattato, quindi ha un obbligo DI
BUONA FEDE (art 18 e 24 Convenzione di Vienna sui diritti dei trattati) che si esplicita nel divieto di adottare
misure che possano pregiudicare il raggiungimento dello scopo del Trattato, che nell’ordinamento dell’UE si
declina in DOVERE DI LEALE COOPERAZIONE, quindi astenersi da ogni tipo di misura che potrebbe impedire
l’effettivo proseguimento dello scopo del trattato. Quindi se mesi prima del momento di trasposizione del
trattato lo Stato pone in essere una direttiva che possa impedire il raggiungimento dello scopo del trattato nel
momento in cui entrerà in vigore, questo comportamento è in violazione del diritto dell’UE, quindi suscettibile di
una procedura di inflazione. Quest’obbligo è stato declinato anche rispetto all’operato dei giudici.
Quindi abbiamo un OBBLIGO DI ASTENSIONE di adottare misure che possano pregiudicare il raggiungimento
dello scopo. Una volta scaduto il termine, c’è L’OBBLIGO DI COMUNICARE LE MISURE DI TRASPOSIZIONE della
direttiva, anche quando l’ordinamento è già conforme alla direttiva. L’art 260 par 4 TFUE dice che si può avviare
una procedura di infrazione contro gli Stati nella misura in cui gli stati non comunichino alla Commissione le
misure adottare per trasporre le direttive. Nonostante questa disposizione, la Commissione normalmente avvia
questa procedura se non c’è proprio la trasposizione. Ci può essere una sanzione pecuniaria da parte della Corte
di Giustizia, ma se semplicemente non si è comunicata la misura ma la trasposizione c’è stata, semplicemente si
può inviare successivamente la misura, senza che venga applicata la procedura di infrazione.
Resta comunque fermo l’obbligo di comunicare l’avvenuta trasposizione della direttiva. La Corte di Giustizia ci
dice che se c’è una normativa interna non conforme alla direttiva, ma comunque tutta la giurisprudenza
nazionale applica correttamente le disposizioni della direttiva (quindi il diritto dell’UE), questo non è sufficiente
se non c’è una normativa certa di corretta trasposizione della normativa europea, quindi anche in questo caso
avremo una procedura di infrazione contro quello Stato. Non mi interessa solo che il giudice applichi
correttamente la direttiva, ma è necessario che la direttiva sia trasposta in modo corretto nell’ordinamento
nazionale.

DECISIONE
Atto tipico vincolante del diritto dell’UE
È codificata in una norma poi modificata nel Trattato di Lisbona. Si contrappone ai regolamenti perché è un atto
a portata individuale, ma come i regolamenti è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Prima la Commissione la
utilizzava per applicarla a delle fattispecie singole e individuali. Però nella prassi il legislatore adottava delle
decisioni anche a portata generale, quindi rivolte ad una pluralità indeterminata di soggetti, come avrebbe
potuto fare attraverso il regolamento. In questa situazione si va a modificare il 288, che dice che la decisione, se
designa i destinatari, è obbligatoria solo nei confronti di questi. Quindi di dice essenzialmente che ci sono
decisioni a carattere generale che hanno effetto nei confronti dei soggetti identificati. Ma viene impiegata
sempre più frequentemente dal Consiglio Europeo in una serie di casi previsti dal trattato in cui la decisione ha
una portata istituzionale, come le decisioni sulla formazione del Consiglio, o decisioni sul numero die
parlamentari o commissari (art 14 e 17) che sono sempre decisioni del Consiglio Europeo. Per quanto riguarda la
diretta applicabilità o meno di questi atti, nel silenzio del trattato, la risposta si desume dalla portata della
decisione, quindi analizzo la portata e decido se questa necessita di norme attuative o se posso considerarla
direttamente applicabile negli stati membri. Per quanto riguarda l’EFFETTO DIRETTO vale la regola per la
direttiva. Possono avere efficacia diretta ma non sono direttamente applicabili.
L’efficacia diretta delle norme comunitarie è l’idoneità della norma, in ragione delle sue caratteristiche a
esplicare la propria efficacia nell’ordinamento nazionale anche in assenza di una norma di trasposizione, proprio
in ragione delle caratteristiche della norma (chiara precisa e incondizionata, quindi non lascia nessun margine di
discrezionalità allo Stato); quindi attribuisce un diritto in modo così incondizionato tale da non essere necessaria
la trasposizione.
Le non me che hanno efficacia diretta sono idonee ad essere invocabili davanti al giudice o all’amministrazione
affinché mi possa riconoscere quel diritto specifico contenuto in quella disposizione. Quindi quel diritto mi viene
comunque riconosciuto.
Ma quando siamo in presenza di una norma chiara precisa e incondizionata che sia contenuta all’interno di una
direttiva, il discorso è più delimitato, nel senso che le regole per individuare le caratteristiche della disposizione
sono uguali (quindi deve trattarsi di una norma chiara precisa e incondizionata) ma per quanto riguarda la
direttiva, SOLO A PARTIRE DA UN CERTO MOMENTO IO POSSO INVOCARE L’EFFETTO DIRETTO DI UNA
DIRETTIVA. Ma a partire da quale momento posso invocare quella norma in giudizio e chiedere al giudice di
riconoscermi quel diritto previsto dalla direttiva? Dal MOMENTO IN CUI SCADE IL TERMINE PREVISTO PER LA
TRASPOSIZIONE, e non posso farlo prima, perché solo da quel momento posso verificare se lo Stato ha trasposto
o meno, e se c’è la trasposizione io non ho bisogno di invocare l’effetto diretto.
Quindi invoco l’effetto diretto per reagire all’inadempimento del legislatore, che non ha trasposto la direttiva.
C’è una norma sul vecchio trattato, abrogata con il Trattato di Lisbona, che escludeva l’effetto diretto delle
decisioni quadro.
Quando siamo in presenza di una direttiva, l’efficacia diretta della norma è invocabile SOLO CONTRO LO STATO,
e non contro il privato. Quindi se la mia controparte è lo Stato posso invocare l’effetto diretto della disposizione
contenuta nella direttiva, perché la direttiva vincolo solo lo stato (art 288) quindi ha UNA EFFICACIA DIRETTA
SOLO VERTICALE (nei rapporti verticali, singolo-stato) e non può essere invocata per i rapporti di tipo orizzontale
(quando le parti sono entrambi soggetti privati, non riconducibili allo Stato) questo perché la direttiva non
vincola il privato, ma solo lo Stato, quindi non può ricadere sul singolo un inadempimento dello Stato. Però
questo implica che c’è una discriminazione nei confronti dei privati, perché non possono invocare l’effetto
diretto nei confronti del privato, perché la Corte di Giustizia dice che non puoi ottenere il riconoscimento di
quella direttiva attraverso il privato. Ma come si fa a tutelare il privato che non può ottenere il riconoscimento
del diritto della direttiva non trasposta? La soluzione è che si può avviare una AZIONE DI RESPONSABILITA’
CONTRO LO STATO per violazione del diritto dell’Unione, per ottenere il risarcimento/indennizzo. La Corte di
Giustizia ci dice che se la norma non ha efficacia diretta o se l’effetto diretto c’è ma non posso invocarla nei
rapporti di una controparte privata, al soggetto pregiudicato dall’inadempimento dello stato, la parte privata
può reagire contro lo Stato, e richiedergli il risarcimento del danno. C’è quindi una AZIONE DI RESPONSABILITA’
CONTRO LO STATO PER CATTIVA O MANCATA TRASPOSIZIONE DELLA DIRETTIVA.
La norma chiara precisa e incondizionata inserita nella direttiva sarà invocabile solo nei contro dello Stato, ma
nella sentenza Freen la Corte dice che i principi generali hanno efficacia diretta anche nei rapporti orizzontali.
L’efficacia diretta è verticale e anche UNITALERALE, cioè il singolo può invocare unilateralmente l’effetto diretto
della norma contro lo Stato, ma non può accadere il contrario, lo Stato non può invocare un inadempimento a
suo favore. Lo Stato non può utilizzare l’inadempimento contro il singolo, sentenza Ratti, società che produce
vernici.
Abbiamo un altro caso famosissimo in cui la Corte di Giustizia ribadisce che in assenza di trasposizione, quindi di
un intervento del legislatore, le norme contenute in una direttiva che impongano degli obblighi in capo ai singoli
non possano essere invocati contro i singoli. Quindi se c’è un obbligo, soprattutto penale, prevista nella direttiva
a capo di un singolo (quindi ad esempio reprimere certi comportamenti, sanzioni per certi tipi di reati).
La Corte di Giustizia sancisce anche l’esistenza della retroattività nella norma penale più favorevole, e dice che se
anche io ritenessi che le norme successive non rispettano il principio della proporzionalità ed effettività e che
quindi erano migliori le norme precedenti, io dovrei disapplicare la norma interna contraria, ma cosa mi
resterebbe? Prendo le disposizioni previgenti, quindi mi resta solo la direttiva, che devo trasporre. Ma attraverso
la direttiva solo io non posso imporre un obbligo al singolo senza la trasposizione interna! Quindi abbiamo il
principio della retroattività della norma penale più favorevole.
La giurisprudenza consolidata è quella per cui una direttiva in assenza di norme di trasposizione non può imporre
obblighi in capo ai singoli, nemmeno con l’effetto diretto.
I principi generali con efficacia diretta (cioè a cui la Corte ha riconosciuto efficacia diretta) hanno efficacia diretta
sia orizzontale che verticale.
Il vecchio protocollo 30 sulla sussidiarietà (ora protocollo 2), si faceva espresso riferimento alle direttive
dettagliate. Il problema si potrebbe porre non tanto se il trattato dice che sono adottabili misure (in generale),
ma il problema è invece se il trattato fa riferimento esplicito alla direttiva, che dovrebbe essere una direttiva
quadro e non dettagliata.
L’effetto diretto verticale e unilaterale (solo dal singolo verso lo Stato) rischia di far sorgere discriminazioni.
I meccanismi attraverso cui si può superare questa discriminazione sono 3:
1) Consentire al singolo di avviare una procedura di responsabilità contro lo Stato (già visto prima)
2) Cercare di ampliare il più possibile la nozione di Stato. È evidente che più amplio questa nozione, più
saranno le ipotesi in cui il privato può invocare l’effetto diretto.
3) Obbligo di interpretazione conforme (ma è un obbligo generale): i giudici sono tenuti ad interpretare ed
applicarle norme dell’ordinamento in modo tale da assicurare l’effetto utile della direttiva (del diritto
dell’UE), quindi in modo conforme allo scopo che la direttiva si pone. Abbiamo una sentenza del 1991, detta
sentenza Marleasing, in cui c’è però un limite all’interpretazione conforme, che vale per tutti i giudici (se
l’interpretazione conforme non è possibile, ci sarà l’abrogazione della norma interna contrastante). Nel
sancire questo obbligo di interpretazione conforme la Corte ha dunque inserito dei paletti, dicendo che
questo obbligo non può comunque condurre ad una interpretazione contra legem. E dice anche che il limite
all’interpretazione conforme è dato dal principio dell’irretroattività, per quanto riguarda il processo penale,
e il principio del giusto processo, poi sancito in una sentenza del 2005, detta sentenza Pupino. Altra cosa è
l’interpretazione praeter legem, che sembrerebbe ammissibile secondo la giurisprudenza della Corte di
Giustizia, e la conferma la troviamo nella sentenza Pupino, in cui sancire l’obbligo di interpretazione
conforme anche rispetto le norme del terzo pilastro. Questo principio è una esplicitazione del principio di
leale cooperazione. Ma in quel caso si arriva ad una interpretazione praeter legem. L’obbligo di
interpretazione conforme di una norma interna rispetto a una direttiva vincola il giudice a partire da quale
momento? Dal momento in cui scade l’obbligo di trasposizione. Ci sono stati dei tentativi di anticipare
questo momento, cioè da quando l’atto entra in vigore. C’è una sentenza del 2006, detta A DELLER, C2012
04, in cui la corte doveva rispondere: da quando parte l’obbligo di interpretazione conforme rispetto la
direttiva? Dal momento in cui scade il termine della trasposizione, ma la Corte individua anche un obbligo
che decorre già dal momento in cui la direttiva entra in vigore, e il giudice in questo caso ha l’obbligo di
buona fede e di astenersi dall’interpretare difformemente, come il legislatore deve astenersi dall’adottare
direttive che impediscano il raggiungimento dello scopo della direttiva. Vi sono dei casi in cui
l’interpretazione conforme viene fatta prima della scadenza del termine, ma in alcuni di questi casi nascono
dei problemi nei confronti dello Stato.

11-4-28
Ancora atti di diritto derivato
MODALITÀ ATTRAVERSO CUI QUESTI ATTI POSSONO ESSERE ADOTTATI
Art 296 TFUE: che tipo di atto adottare quando il trattato non mi dice qual è l’atto per regolamentare e
disciplinare un certo settore. Quindi è il legislatore a scegliere, è lasciata a lui discrezionalità. Come faccio a
scegliere il tipo di atto se il trattato non mi dice nulla? Quale criterio e principio impiego? Il PRINCIPIO DI
PROPORZIONALITA’. Usare l’atto meno invasivo e che sia idoneo al raggiungimento del risultato ma non vada
oltre quanto necessario.
Non è che ad un certo tipo di atto corrisponde una certa procedura per adottarla. Non si deve necessariamente
seguire una certa procedura. Non è come nel nostro ordinamento, dove per la legge si segue un certo
procedimento legislativo ecc. nel diritto dell’UE questo non accade, quindi bisogna vedere volta per volta la
norma di riferimento sulla competenza normativa cosa ci dice sul tipo di atto e se ci parla di misure, e poi la base
giuridica (la norma) regola anche la procedura che va proseguita per l’adozione di quell’atto. La procedura può
essere:
- Legislativa: che può essere ordinaria o speciale, e allora siamo di fronte ad un atto c.d. LEGISLATIVO perché
adottato con una procedura legislativa, che è la vecchia procedura di CODECISIONE (quella ordinaria) perché
con Lisbona si cambia nome della procedura e si impiega l’aggettivo legislativo perché si riproducono
modifiche introdotte nel trattato costituzionale, che distingueva gli atti legislativi da quelli regolamentari.
Con Lisbona si è mantenuto il riferimento alla procedura legislativa che porta all’adozione di un atto
legislativo, ma con l’eccezione che nei trattati noi non troviamo un riferimento agli atti regolamentari.
- Tutto quello che non segue la procedura legislativa e quindi non è adottato con questa procedura, che è
disciplinata all’art 294, è un atto NON LEGISLATIVO.
Le norme dopo l’art 288, che ci elenca gli atti di diritto derivato, abbiamo il 289 che definisce quali tipi di
procedura legislativa ci sono, e poi l’art 290 e 291 che prevedono 2 tipologie di atti non legislativi, cioè non
adottati con la procedura legislativa. C’è rapporto gerarchico tra atto legislativo e atto delegato (290) e atto di
esecuzione (291).
In realtà rientrano nella categoria di atti non legislativi, altri atti adottati né con la procedura legislativa ordinaria
né speciale, ma non sono nemmeno atti delegati né di esecuzione. Infatti, abbiamo altri atti non legislativi, non
abbiamo solo quello delegato e di esecuzione. Infatti, abbiamo diverse disposizioni che attribuiscono al Consiglio
il potere di adottare un atto ma non fanno riferimento che quell’atto debba essere adottato con la procedura
legislativa, quindi viene adottato informando il Parlamento, e sono atti non legislativi.
È possibile che un regolamento modifichi o deroghi ad una direttiva e viceversa? E se io ho scelto di disciplinare
una materia con un certo tipo di atto, posso cambiarlo? Si, la prassi mostra che c’è reciproca derogabilità. Posso
passare da direttiva a regolamento e viceversa. Abbiamo anche ipotesi di tipo diverso, cioè di regolamenti (per
esempio quello del 68 sula libera circolazione dei lavoratori subordinati) poi sostituito da una direttiva.
Bisogna guarda la base giuridica, cioè la norma, per capire che procedimento utilizzare per adottare un atto. Ma
io potrei adottare atti che vanno a toccare più materie e più competenze dell’UE, e quindi sono tenuto ad
adottare l’atto sulla base di basi giuridiche diverse. Potrei avere bisogno di due basi giuridiche diverse. Ci sono
stati diversi direttive adottate con la procedura legislativa con cui si disciplinava con lo stesso atto il legislatore
prevedeva sia la sanzione per i reati sia la tutela delle vittime. Il problema si pone nel momento in cui io ho due
basi giuridiche diverse che mi danno indicazione su due tipi di procedure diverse con cui adottare l’atto, quindi
una mi fa riferimento alla procedura legislativa ordinaria e l’altra a quella speciale. La Corte di Giustizia dice che
innanzitutto si deve andare a vedere se davvero sono necessarie le 2 basi giuridiche, e che non ci sia una che
prevale sull’altra; poi, se bisogna seguire necessariamente le due basi giuridiche, allora bisogna seguire quella
procedura che assicura IL MAGGIORE COINVOLGIMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO.
Ci sono dei casi in cui ci sono procedure tra loro non conciliabili, ad esempio io devo adottare un regolamento in
materia di congelamento di certi beni di soggetti si ritenga siano pericolosi, quindi abbiano commesso illeciti e si
vuole stabilire quindi il congelamento dei loro beni, in quel caso si interviene attraverso un regolamento e poi
misure di attuazione che possono essere misure PESC. Qui la procedura è diversa quindi adotterò due atti diversi,
perché procedure non sono conciliabili.

PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA E SPECIALE


Sono descritte nell’art 289 in modo sintetico, poi quella ordinaria la troviamo nell’art 294. Sia nell’ipotesi in cui
parliamo di proc. leg. ordinaria che speciale, vediamo coinvolti il Consiglio e il Parlamento europeo, che adottano
l’atto. L’art 289 dice che nel caso di pro.leg. ordinaria abbiamo una ADZIONE CONGIUNTA da parte del
Parlamento e Consiglio. Nel caso invece di pro.leg. speciale CI PUÒ ESSERE la partecipazione del Parlamento o
del Consiglio, quindi individua uno dei due in posizione predominante rispetto quella dell’altro. Nella maggior
parte dei casi è il Consiglio a deliberare, con la partecipazione del Parlamento. Solo in 3 casi abbiamo il contrario,
cioè dove il Parlamento delibera con la partecipazione del Consiglio:
- art 223 par 2 in tema di statuto e condizioni generali per esercizio delle funzioni del Parlamento: il
Parlamento delibera di sua iniziativa con approvazione del Consiglio
- art 226 sulle condizioni d’inchiesta
- art 228 ultimo paragrafo sullo statuto e esercizio delle funzioni del mediatore: deciso dal Parlamento e si
richiede approvazione (quindi partecipazione) del Consiglio
Come già detto abbiamo anche ipotesi in cui è il Consiglio che delibera con la partecipazione del Parlamento, la
cui partecipazione può essere:
- approvazione
- consultazione
la differenza è che il parere del Parlamento sia vincolante o meno. Il parere del Parlamento è vincolante quindi
ha potere di veto. Il Consiglio se non segue il Parlamento, incontrerà il suo veto. Diverso è il caso in cui si
prevede la mera consultazione, quindi il parere non è vincolante ma obbligatorio, quindi il Parlamento deve
essere consultato, altrimenti viola il principio di leale cooperazione se non chiede il parere del Parlamento
laddove il trattato lo prevede. Se il Consiglio modifica esattamente l’atto dopo le indicazioni ricevute dal
Parlamento può dare approvazione, altrimenti se non seguo esattamente le indicazioni del Parlamento, devo
richiedere nuovamente al Parlamento.
PROCEDURA ORDINARIA
Art 294: riconosce un ruolo paritetico al Consiglio e al Parlamento europeo, e prevede la possibilità che si
abbiano 3 diverse letture in Parlamento e Consiglio prima di arrivare alla formazione di un atto legislativo.
Abbiamo una lettura in Parlamento, che approva e poi passa al Consiglio che in prima lettura nella maggior parte
dei casi lo approva. Ma non è escluso che il Consiglio voglia un contenuto diverso da quello approvato dal
parlamento quindi indica emendamenti e dovrà necessariamente passare la palla al Parlamento, quindi ci sarà
una seconda lettura. Se anche all’esito della seconda lettura non troviamo un accordo, il trattato dice che della
questione è investito il Comitato di Conciliazione, nel quale siedono tutti i membri del Consiglio e altrettanti
membri del Parlamento europeo, e anche die rappresentanti della Commissione possono partecipare. Devono
trovare un accordo sul testo dell’atto che si deve adottare, e la Commissione può partecipare per favorire il
ravvicinamento tra la posizione del parlamento e del Consiglio. Se si trova un accordo ed esce dunque un
progetto comune, allora l’atto va in terza lettura davanti al Parlamento e al Consiglio; è difficilissimo che il
Consiglio voti contro quell’atto, perché alla formazione di quell’atto hanno partecipato i suoi esponenti! Nella
maggior parte dei casi però l’atto viene normalmente adottato all’esito della prima lettura (nel 75% dei casi).
Questo è un risultato che riusciamo ad ottenere anche in considerazione del fatto che nella prassi si è venuta a
sviluppare una particolare procedura per consentire l’adozione dell’atto attraverso la proc. leg. ordinaria, ed è la
PRASSI DEI C.D. TRILOGHI, è una riunione informale tra rappresentanti delle 3 istituzioni, per formare accordo su
una serie di emendamenti del Parlamento e Consiglio. Tempo medio in cui viene adottato un atto legislativo è di
2 anni. Uno dei problemi che si è posto, soprattutto a fronte dell’emergenza relativa all’immigrazione, era quello
di non avere una procedura di urgenza, che consentisse di adottare un atto in tempi rapidi. Si sta cercando di
studiare un modo per adottare un atto legislativo in tempi più rapidi.
Si è sempre contestato che queste riunioni informali non fossero trasparenti, quindi che l’esito non fosse
accessibile al pubblico. Quindi un problema di illegittimità perché i singoli interessati sono completamente
esclusi dalla possibilità di conoscere l’esito di queste riunioni. C’è stata una recente sentenza del Tribunale del 22
marzo 2018, causa 540 (o 9)/2015 in cui un tizio fa richiesta di accesso ai documenti dei triloghi e il Parlamento
nega l’accesso per una serie di documenti. Allora questo signore impugna la decisione del Parlamento che gli dà
solo parzialmente questi documenti, e dato che il parlamento non motiva il rigetto (la non divulgazione), il
Tribunale annulla la decisione del Parlamento.
Sentenza della causa c409 13: si discuteva sul potere della Commissione di ritirare la proposta. La Commissione
fa una proposta legislativa, quindi per l’adozione di un atto legislativo, che avrebbe dovuto stabilire come fornire
assistenza finanziaria ai paesi terzi. Il Parlamento e il Consiglio stravolgono la proposta della Commissione, e
quindi la sua proposta originaria, che segue l’interesse generale dell’UE, viene stravolta e quindi ritira la
proposta. Decisione di ritiro della proposta che il Consiglio impugna, e il Parlamento non interviene, e la Corte di
Giustizia (che risolve controversie tra istituzioni) dice che il potere di avanzare la proposta implica anche il potere
di ritirarla. In più dice che non c’è un limite entro cui io posso ritirare la proposta, ma finché non è adottato l’atto
la Commissione può ritirare la proposta, ma il ritiro della proposta deve essere una estrema ratio. Prima deve
cercare di far ragionare il Parlamento e Consiglio e trovare un accordo. Solo dopo che non si è trovato un
accordo può ritirare la proposta.
ATTI NON LEGISLATIVI
Noi abbiamo gli ATTI DELEGATI E ATTI DI ESECUZIONE, art 290 e 291 TFUE. Il criterio in base al quale adottare
l’uno o l’altor atto è di tipo politico, nel senso che nel sistema pre Lisbona c’era una norma che diceva che il
consiglio aveva il potere di delegare l’esecuzione del diritto dell’UE alla commissione e normalmente il consiglio
utilizzava questa base giuridica per delegare la commissione all’adozione di atti attuativi, di esecuzione. Ma oggi
abbiamo due tipologie di atti non legislativi, almeno in parte subordinati agli atti legislativi.
ATTI DELEGATI: sono atti non legislativi adottati dalla Commissione su delega del legislatore. Quindi abbiamo il
Consiglio e Parlamento che necessariamente congiuntamente (perché si deve adottare l’atto legislativo)
delegano alla Commissione “il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o
modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo”. Quindi è un atto subordinato perché non
posso modificare elementi essenziali dell’atto legislativo, ma invece posso integrare elementi non essenziali
dell’atto legislativo. Per quanto riguarda l’aspetto essenziale dell’atto legislativo, si fa riferimento agli elementi
non modificabili; una sentenza del 5 settembre 2012 in cui la Corte di Giustizia dice che tutti quegli aspetti che
sono espressione di una scelta strettamente politica non possono essere delegati, e sembrerebbe dire che anche
tutte le questioni legate alla tutela dei diritti fondamentali e alla determinazione di sanzioni penali e ancora tutte
le questioni legate ai rapporti con gli stati terzi sembra essere un qualcosa di essenziale che non può essere
delegato alla Commissione. Ma non si tratta di una elencazione esaustiva di elemento essenziale.
L’atto lo riconosciamo come delegato perché viene etichettato come atto delegato (par 3). La delega può essere
REVOCATA dal Parlamento e Consiglio che però in questo caso agiscono DISGIUNTAMENTE.
Sicuramente, visto che anche l’atto legislativo sarà normalmente proposto dalla Commissione, la Commissione
può far sì che Consiglio e Parlamento adottino un atto che contiene la delega perché quando la Commissione è
delegata ha una discrezionalità molto più ampia di quando interviene in attuazione di un atto legislativo. Quindi
il suo potere discrezionale è maggiore se la Commissione esercita il potere di delega di quanto non sia il potere
di quando deve adottare atti di esecuzione, questo perché il potere di esecuzione ex 291 deve essere adottato in
rispetto delle procedure fissate nel Regolamento 182/2001 (chiamato REGOLAMENTO COMITOLOGIA, perché fa
riferimento ai rappresentanti degli Stati) che di fatto sono 2 procedure attraverso cui i rappresentanti degli stati
quindi del Consiglio controllano l’attività della Commissione.
È possibile che siano necessarie CONDIZIONI UNIFORMI DI ATTUAZIONE e quindi lasciare l’esecuzione allo Stato
non garantisce l’uniformità, quindi in questo caso l’esecuzione spetta alla Commissione o in casi particolari
previsti dal trattato spetta al Consiglio.
La norma dice “quando sono necessarie condizioni uniformi di esecuzione”: ma queste possono essere
assicurate con un qualunque tipo di atto di diritto derivato, sia regolamenti, sia direttive sia decisioni? Sì, infatti,
anche se sembra strano, abbiamo anche direttive di esecuzione.
Art 263
Art 297: regole sulla pubblicazione degli atti, sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE. regole diverse per la pubblicazione
degli atti legislativi e quelli non legislativi. Le direttive e decisioni possono essere semplicemente notificate al
destinatario se sono non legislative, infatti gli atti non legislativi non tutti devono necessariamente pubblicati ma
alcuni devono essere solo notificati. L’atto entra in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. La
PUBBLICAZIONE è CONDIZIONE DI APPLICABILITA’.
16-4-18
COOPERAZIONE RAFFORZATA
Art 20 TUE e 326 TFUE
Questo istituto viene previsto (codificato) nei trattati con il Trattato di Amsterdam, e viene estesa al secondo
pilastro (politica estera) con il Trattato di Nizza. Ad un certo punto c’è stata l’esigenza di disciplinare questo
istituto nei trattati.
Cooperazione rafforzata: uno stato prosegue nel processo di integrazione, quindi mi vincola ad adottare un certo
tipo di atto in una determinata materia, e non tutti gli stati voglio vincolarsi a quel determinato atto, e c’è
dunque la possibilità di far in modo che gli stati che sono d’accordo proseguano nel processo di integrazione, e si
vincolino comunque al contenuto di quell’atto e quindi lo adottino, mentre gli stati che stanno fuori devono
comunque poter essere ammessi in un momento successivo. Quindi attraverso questo strumento si assicura la
flessibilità del processo di integrazione, ma non tutti gli stati vanno avanti allo stesso modo e nello stesso
momento.
Perché si introduce proprio con il Trattato di Amsterdam? Perché ad un certo punto si ritiene indispensabile
conciliare diverse esigenze? Per 2 fattori:
- L’ALLARGAMENTO DELL’UE è uno dei fattori che rendono indispensabile questo meccanismo, perché avendo
un numero ampio di stati è quasi impossibile arrivare ad un accordo
- L’ESTENSIONE DELLE COMPETENZE DELL’UE (MATERIALE)
Abbiamo una sorta di integrazione differenziata positiva, nel senso che la cooperazione rafforzata è una forma di
integrazione differenziata perché non tutti gli stati procedono allo stesso modo; ci sono alcuni stati più vincolati;
è una sorta di Europa “a più velocità”. In positivo perché l’idea è quella di procedere, cioè di andare avanti; c’è
qualcuno che sta più avanti e qualcuno che sta più indietro.
Dunque, anche la cooperazione rafforzata realizza una forma di integrazione differenziata, ma quest’ultima è un
fenomeno più ampio della cooperazione rafforzata, la quale è finalizzata ad adottare un atto di diritto derivato.
(Gli stati che sarebbero rimasti indietro erano spesso gli stati dell’UE orientale, che si sono rifiutati di procedere
in questo senso perché si sentivano stati di “serie B” e dunque con l’istituzionalizzazione di questa Europa a due
velocità non è stata presa in considerazione questa loro idea).
Ma i trattati conoscono altre forme di integrazione differenziata:
- Forme di OPT-OUT che conoscono alcuni stati membri (Danimarca, Regno Unito, Irlanda); altra forma di opt-
out riguarda alcuni Stati (Polonia e Gran Bretagna) rispetto la Carta dei diritti fondamentali
- C’è una disciplina fissata da norme di diritto primario che vincola solo alcuni Stati: SCHENGEN: esisteva già
prima del Trattato di Amsterdam; ci sono stati come il Regno Unito che non sono vincolati all’accordo di
Schengen.
- L’UNIONE MONETARIA (L’EURO): abbiamo solo 19 Stati che aderiscono all’euro (moneta unica); alcuni non
aderiscono perché non possono farlo, perché non hanno le carte in regola per poterlo adottare, altri invece
hanno chiesto espressamente di non aderire, come l’Inghilterra.
Per quanto riguarda il trattato e la cooperazione rafforzata come la disciplina oggi il Trattato, all’art 20 e 326 e
seg, noi troviamo l’elenco dei requisiti da rispettare affinché si possa procedere alla cooperazione rafforzata: ill
primo requisito è che deve trattarsi di una materia che non è di competenza esclusiva dell’Unione, altrimenti
non si può procedere al meccanismo della cooperazione rafforzata. Il primo paragrafo dell’art 20 indica le
FINALITA’: non deve confliggere con gli obiettivi previsti all’art 3 TUE, che vanno anche promossi, quindi deve
essere teso a rafforzare il sistema di integrazione. Anche attraverso la cooperazione rafforzata non deve essere
pregiudicato tutto quello che a livello di fonti e principi è consolidato in un determinato momento storico (c.d.
ACQUIS comunitario). Non troviamo più riferimento all’acquis comunitario nemmeno nell’art 3 (cioè mantenere
e sviluppare l’acquis comunitaria) ma si dice semplicemente che si deve rafforzare il meccanismo di integrazione.
Il fatto che non troviamo più specificata l’acquis, per alcuni è stato letto come rigurgito di sovranità, ma c’è
anche chi ha letto questa modifica come una modifica che non va ad incidere nella sostanza nel processo di
integrazione; quindi è implicito che il processo di integrazione non può pregiudicare l’acquis.
La cooperazione rafforzata è una cooperazione APERTA, quindi gli atti possono essere applicati su richiesta
specifica e sulla base di una procedura disciplinata all’art 331 TFUE. L’art 20 TUE stabilisce che il ricorso a questa
cooperazione rafforzata deve essere una decisione presa come ESTREMA RATIO da legislatore.
Altri presupposti e circostanze/requisiti che devono essere rispettati li troviamo indicati all’art 326 e 327, che ci
dice che non possono costituire un ostacolo per gli scambi tra gli stati membri e concorrenza. Inoltre, attraverso
la cooperazione non posso pregiudicare la posizione degli Stati che stanno fuori, quindi non posso porre degli
oneri a questi. Gli Stati membri che non partecipano alla cooperazione rafforzata possono però decidere di
aderirvi in un qualsiasi momento, quindi non sono vincolati fino a quando non richiedono di parteciparvi e vi
ottengono autorizzazione. Così si prevede anche che una volta che il Consiglio autorizza, con la approvazione del
Parlamento e sentita la Commissione Europea, il ricorso alla cooperazione rafforzata, autorizza un numero di
stati membri, che sono in numero inferiore alla totalità (almeno 9), a procedere con questo meccanismo, e
questi stati poi deliberano seguendo le procedure. Gli altri stati possono partecipare alle riunioni del Consiglio
ma non hanno diritto di voto.
L’atto adottato con la cooperazione rafforzata vincola solo gli stati che hanno deciso di procedere con la
procedura rafforzata.
Qual è la competenza della Corte di Giustizia sull’atto che viene adottato in cooperazione rafforzata? Possono gli
Stati che non sono partecipanti impugnare l’atto non adottato? Sì.
Non abbiamo una risposta invece dalla Corte, ma un giudice di uno Stato non partecipante, può fare rinvio
pregiudiziale sull’atto adottato con la partecipazione rafforzata? No, non può farlo.
La procura europea è stata istituita ricorrendo al meccanismo della cooperazione rafforzata ma con regole
semplificate, perché nell’art 86 8dedicato alla procura) c’è una norma specifica in cui si dice che nell’ambito della
negoziazione per adottare il regolamento è possibile che ci troviamo in una situazione di stallo e quindi i 9 stati
membri chiedano che della questione sia investito il Consiglio europeo, che cerca di trovare un compromesso, se
non ci riesce entro 4 mesi, almeno 9 stati possono chiedere di adottare l’atto attraverso la cooperazione
rafforzata, in questo caso l’autorizzazione si dà per data implicitamente.
Gli atti adottati con il meccanismo della cooperazione rafforzata noi abbiamo:
- La procura europea, che è l’ultimo di questi atti
- Regolamento del 2010 sulla legge applicabile al divorzio e alla separazione personale tra coniugi
- Regolamento del 2016 sul regime patrimoniale tra i coniugi
- Nel 2011- 2012 è stato istituito un meccanismo di tutela brevettuale con il meccanismo della coop. raff.
- Ancora in itinere, c’è una proposta di istituire attraverso il meccanismo di coop. raff. una direttiva sulle
transazioni finanziarie nei rapporti tra stati membri.
Nel sistema PESC ci sono 2 norme:
- Art 31 TUE, che codifica l’astensione costruttiva, che nel sistema PESC lo stato che si astiene può non essere
vincolato a quell’atto specifico
- Art 42 TUE, che prevede una ipotesi di cooperazione strutturata permanente: è una forma di cooperazione
rafforzata per quanto riguarda interventi nel settore della difesa, ed è strutturata per raggiungere
determinate finalità ma deve avere determinate capacità, ed è REVERSIBILE, cioè lo stato ad un certo punto
può non soddisfare più determinati criteri, ma può anche decidere autonomamente di recedere da quella
cooperazione.

ATTI ATIPICI
Gli atti tipici sono quelli previsti dall’art 288 TFUE; in via generale, è atipico tutto ciò che è atto di diritto derivato
cioè adottato dalle istituzioni sulla base di norme/regole altre non riconducibile all’art 288.
È comunque vero che potremmo distinguere 3 diverse categorie/tipologie di atti atipici:
1. Atti atipici RELATIVI: il trattato difetta di rigore terminologico, e il trattato stesso tradisce la tipicità degli atti,
e troviamo atti non menzionati nel 288; ad esempio:
 l’atto con cui si approva il bilancio europeo: è un atto atipico relativo perché non è previsto nel 288
ma è sempre previsto nel trattato.
 Anche gli accordi interistituzionali, che nascono dalla prassi istituzionale
2. Atti atipici NELLA SOSTANZA: sono gli atti che hanno lo stesso nomen iuris degli atti del 288, ma si
differenziano per il loro contenuto, e quindi abbiamo ad esempio i regolamenti interni delle istituzioni, che
adotta un proprio regolamento interno ma in quanto interno ha caratteristiche e contenuti diversi dal
regolamento previsto dal 288 TFUE. Non producono effetti giuridici verso l’esterno, dunque non sono
suscettibili di essere contestati, ma in realtà la giurisprudenza della Corte di Giustizia dice che l’istituzione si
dà comunque regole di funzionamento interno, quindi si crea delle aspettative nei confronti dei terzi, e se un
atto è adottato in violazione della regola, l’atto è inesistente, e significa che non soggiace ai termini di
impugnabilità del 263. Quindi non è detto che un regolamento interno non è idoneo a produrre effetti
giuridici nella sfera giuridica di terzi. Pensiamo anche al procedimento di conclusione di un accordo
istituzionale (218): il consiglio adotta delle direttive per stabilire linee guida in base alle quali procedere alla
stipulazione.
Tra gli atti che prima erano atipici nella sostanza, ma ora si riconducono al 288 abbiamo le DECISIONI non
individuali, ma decisioni che adottava ad esempio il Consiglio (es decisione istitutiva del Tribunale di primo
grado), e queste decisioni erano qualificate c.d. sui generis. Ora queste decisioni possono essere ricondotte al
288.
3. Atti atipici veri e propri, ATIPICITA’ ASSOLUTA: sono tutti quegli atti che si sono venuti a sviluppare nella
prassi delle istituzioni, e nascono come atti di soft law. Le istituzioni adottano degli atti non vincolanti per
evitare che venisse considerato violato il principio di sussidiarietà, e il parlamento e il consiglio nella prassi
adottano risoluzioni, orientamenti che possono orientare il processo decisionale e l’intervento dell’UE.
Anche gli accordi interistituzionali nascono come atti atipici nella sostanza, anche la Carta o le dichiarazioni
comuni (adottata dalle 3 istituzioni). Il più tipico degli atti atipici assoluti sono LE COMUNICAZIONI DELLA
COMMISSIONE: noi possiamo distinguere 3 diversi tipi di comunicazione (anche questi sono formalmente
non vincolanti):
 INTERPRETATIVE: vengono adottate dopo le sentenze della corte di giustizia particolarmente
rilevanti
 INFORMATIVE: quando parleremo di procedura di infrazione, perché in alcuni casi si fa concludere
con una condanna pecuniaria dello stato perché è inadempiente, e la proposta del quantum lo fa la
Commissione sulla base di parametri predefiniti in una comunicazione informativa
 DECISORIE: soprattutto nel settore del diritto della concorrenza dove definisce regole
comportamentali, anche rispetto i giudici nazionali. Sono idonee a produrre effetti giuridici
vincolanti.

23-4-18
SENTENZA TARICCO
Il “peccato originario” della Corte di giustizia è stato quello di individuare questa disposizione (art 325) come la
base alla luce della quale risolvere tuta la questione. La normativa interna sul regime di prescrizione è
compatibile o meno con il 325? Consente di assicurare ciò che dice il primo paragrafo di questo articolo?
Devo disporre un regime di punibilità che sia equivalente, quindi se il regime di prescrizione è più rigoroso, io
devo applicare un regime più rigoroso per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
Quindi il problema è il ricorso al 325 invece che alla direttiva perché la Corte di Giustizia aveva l’obiettivo di
assicurare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
2 punti della sentenza (53 e 55) in cui, dopo che la corte ci dice che la normativa non sembra compatibile con il
325, e quindi si dovrebbe disapplicare, dice: ovvio che spetta al giudice nazionale verificare che la disapplicazione
che ti sto indicando di fare sia una che non viola il principio di legalità (art 49 della Carta), se verifica che il
regime prescrizionale è più rigoroso e diverso rispetto quello che vale per la frode IVA.
Poi passa ad analizzare l’art 49 alla luce dell’interpretazione della Corte di Strasburgo dell’art 7, e la Corte di
Giustizia si allinea sulla impostazione che aveva seguito la Corte in cui ci dice che l’art 7 EDU, come il 49 della
Carta coprono i reati e le sanzioni, ma non portano una modifica della prescrizione.
(la prescrizione ha natura processuale)
Secondo la Corte di Giustizia di fatto però fa già lei la verifica, e non il giudice nazionale, dicendo che la
violazione non c’è. Ma la Corte ci dice che se comunque il giudice rileva che il regime non assicura una sanzione
persuasiva, allora disapplica. Ma al giudice nazionale dice che deve disapplicare per violazione del 325 se verifica
che la normativa interna impedisce di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi
di frode grave. Questo è un altro grado problema, perché dà un grande compito di valutazione al giudice
nazionale: cosa significa “frode grade”? qual è il numero considerevole da tenere in considerazione?
La regola Taricco è compatibile o meno con il nostro ordinamento?
Il giudice avrebbe potuto dire che si allinea a quello che dice la Corte, ma non ha gli strumento per farlo, quindi
non disapplica mai. A fronte di questa pronuncia ci sono stato orientamenti diversi, tra cui una sentenza della
Cassazione che ha disapplicato la normativa interna contrastante sulla prescrizione. In altri casi si è detto che a
prescrizione è maturata quindi bisogna dichiararla, in altri casi si è stabilito che non siamo di fronte ad un
numero compatibile di casi gravi. Ci sono state però anche Corti che hanno tenuto questa regola Tarico e con
essa dei problemi di legittimità, che violasse disposizioni della Costituzione.
Se una norma dell’Unione è confliggente con una norma interna rilevante (controlimite) è possibile disapplicare
la norma dell’Unione? No, solleviamo una questione di legittimità costituzionale, che si pronuncia sul
controlimite, ed entra in scena la Corte Costituzionale, che quindi deve dichiarare l’illegittimità costituzionale
(per eliminare la regola Tarico), ma di cosa? L’ordine di esecuzione contenuto nella legge che ha dato esecuzione
al Trattato di Lisbona. La Corte Costituzionale però invece di applicare direttamente questo controlimite, ha
deciso di interrogare nuovamente la Corte di Giustizia, quindi ha fatto un nuovo rinvio pregiudiziale.

Subito dopo la sentenza Taricco, si scatena un effetto abbastanza prorompente, per cui sull’interpretazione resa
da questa sentenza, la giurisprudenza prende strade contrastanti, e una viene invocata dalla Corte d’appello di
Milano e dalla Corte di Cassazione, che poco prima aveva disapplicato una sentenza e poi in un caso diverso
rinvia alla Corte Costituzionale. Si cerca questo rinvio perché si ravvisa un chiaro contrasto con l’art 25 co 2 Cost,
dove è consacrato il principio di legalità. La premessa è che il 325 TFUE ha effetto diretto, secondo la Corte di
Giustizia dell’UE, ed è quindi invocabile in giudizio. La Corte Costituzionale parte su una posizione
accondiscendente, cioè non nega che la corte ha dato efficacia diretta al 325, perché non spetta a lei negarlo o
confermarlo, e non nega nemmeno il fatto che la presenza di una norma europea ad effetto diretto possa
permettere la disapplicazione automatica da parte del giudice nazionale di una qualsiasi norma dell’ordinamento
italiano. Il problema è che la Costituzione pone una questione più complessa: con l’art 11 permette una
ingerenza dell’ordinamento europeo nell’ordinamento italiano, ma dall’altra parte c’è una serie di principi e
diritti fondamentali e inviolabili della persona, che non possono essere toccati nemmeno dall’Unione Europea. A
questo punto la Corte affronta la NATURA DELL’UISTITUTO DLELA PRESCRIZIONE, per capire se applicare o no i
controlimiti. Cerca alleati in Europea, nel senso che la corte Costituzionale dite che sa che nell’UE ci sono Stati
membri, come il Belgio, che ritengono che la prescrizione sia un istituto processuale, quindi non deve essere
coperto dal principio di legalità in senso stretto, ma l’Italia (come la Spagna) ha una tradizione molto stretta,
tanto che la considera un principio sostanziale, quindi coperto dal principio di legalità. Quindi si chiede alla Corte
di Giustizia di tenere in considerazione questo diverso livello di tutela che l’Italia assegna al principio della
prescrizione, e al principio di legalità, facendo riferimento anche ad un altro fattore: non c’è alcuna esigenza di
uniformità a livello europeo: l’UE non ha emanato nessun atto in cui impone agli stati di considerare la
prescrizione in un certo modo, quindi ogni stato può applicare a questo principio la natura che preferisce. Infine,
la Corte Costituzionale va a confrontare il caso che sta esaminando (Taricco) con un caso precedente, cioè il caso
Melloni, in cui si era giunti alla disapplicazione di una norma nazionale (spagnola) a favore di quella europea, ma
lì c’era il rischio di compromettere il primato dell’UE e la sua effettività immediata, perché lì si trattava di un
istituto che non si sarebbe attivato se si sarebbe applicata la norma europea! Invece nel caso che sta
analizzando, la norma italiana non si pone in diretto contrasto con la Normativa europea, non c’è conflitto
diretto ma un controlimite che la corte Costituzionale vede come qualcosa di esterno, quindi non un pregiudizio
al primato e l’effettività del diritto dell’UE.
Primo passo: la prescrizione in Italia è sostanziale, quindi coperta dal principio di legalità in senso stretto,
sostanziale nel senso che influisce sulla punibilità.
Secondo passo: verifichiamo se la prescrizione con regola Taricco è compatibile con il principio di legalità della
Costituzione italiana, e lo si fa in 3 mosse, il principio di legalità si compone di 3 sotto principi:
- Prevedibilità: si vede che non c’è, perché l’imputato non sa a prescindere se nel suo caso applicherà gli art
160 e 161 del codice italiano, o applica l’art 325 TFUE. Quindi non è libera nelle proprie scelte, quindi si
applica una RIFORMA IN PEIUS imprevedibile e in materia penale.
- Riserva di legge: prevede che sia il legislatore a stabilire a priore e in modo preciso gli elementi della
prevedibilità, ma qui è il giudice a decidere senza far riferimento alla norma, perché nel momento in applica
o disapplica decide qual è il regime da applicare
- Determinatezza: cosa si intende per frode grave o per numero considerevole? Non c’è una base giuridica
determinata, non si sa bene cosa significano questi concetti, e quindi la determinatezza esclude la legalità
della previsione.
Qui la Corte Costituzionale dice che questi requisiti di legalità non ci sono, quindi se l’interpretazione della Corte
di Giustizia Europea rimane questa, la Corte Costituzionale è costretta ad applicar ei controlimiti e quindi non
applicare i principi europei. La Corte di Giustizia cerca di proporre allora una interpretazione conforme (della
regola Taricco) alla Costituzione italiana, basandosi sul paragrafo 55 della Sentenza Taricco, in cui si dice che il
giudice nazionale pone una RISERVA DI VERIFICA sul caso che sta analizzando per capire se è costituzionale o no.
la Corte di Giustizia intendeva dire che il giudice nazionale rileva il problema, e fatto questo rinvia la questione
alla Corte Costituzionale, che è l’organo deputato a fare questo confronto. Ma questo non va molto bene alla
Corte di Giustizia, secondo cui il diritto dell’UE deve essere sempre prevalente sul diritto interno. A questo punto
la Corte Costituzionale rinvia ancora la questione alla Corte di Giustizia per capire quale interpretazione dare alla
regola Taricco, come applicarla ed entro quali limiti.

SENTENZA TARICCO BIS


Quindi arriva la Corte di Giustizia di nuovo, che applica la pregiudiziale accelerata.
Ci sono 15 giudici, quindi ciò ci fa intendere che la questione è abbastanza rilevante.
La Corte decide di discostarsi dal caso Melloni, e ha dunque un contenuto diverso.
Innanzitutto, la Corte di Giustizia comprende il rilievo costituzionale sollevato dalla Corte Costituzionale, e nel
dispositivo c’è un accoglimento dell’impostazione della Consulta. Si sottolinea il dialogo tra Corte Costituzionale
e di Giustizia (da giudice a giudice).
La Corte di Giustizia dice che nella prima sentenza non era stata messa a conoscenza delle specificità
dell’ordinamento italiano. La Corte Costituzionale è stata criticata per non aver azionato subito i controlimiti e il
rinvio, ma in realtà è stata una scelta positiva.
Ribadisce la sentenza Taricco 1, e infatti interpreta nuovamente il 325 TFUE.
Non bastano i giudici italiani ad intervenire, ma è necessario anche l’intervento del legislatore. inoltre, il fatto
che il legislatore nazionale proroghi il termine di prescrizione non lede il principio di legalità. A questo punto
interviene una importante distinzione rispetto la sentenza Taricco: si aggiunge che con la direttiva dell’UE e
l’Italia ora il regime della prescrizione rientra nell’ambito di applicazione dell’UE, perché la materia in esame
rientra nelle materie concorrenti. L’applicazione non deve compromettere il livello di tutela previsto dal diritto
dell’UE.
anche in chiave sovranazionale il principio di legalità ha grande rilevanza, e viene scisso nei suoi 3 caratteri detti
prima, e questo principio appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, quindi non si delimita
la questione al solo Stato italiano.
Un punto fondamentale in cui la Corte amplia la rotta: mentre nella prima sentenza (Taricco 1) la conclusione era
stata a favore del 325, qui invece dice che c’è il principio di legalità art 49 Carta, ma l’obbligo di garantire
l’efficacia delle risorse dell’UE non può quindi contrastare con tale principio: quindi prima dovevo assicurare le
finanze dell’UE, qui invece cambia rotta, e quindi ci sono 2 valori in gioco di diritto dell’UE: la tutela delle finanze
e principio di legalità (325 e art 49), e il principio fondamentale diventa il principio di legalità che non può cedere
di fronte la tutela delle finanze.
Al par 58 c’è il PRINCIPIO DI TOLLERANZA COSTITUZIONALE.
Conseguenza:
conclusione: si conferma la sentenza Taricco ameno che con confligga con il principio di legalità

2-5-18
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UE e della struttura che ha l’istituzione giudiziaria dell’UE.
Nasce unica nel 1988, che assume la qualifica di tribunale con Lisbona, e diventa tribunale di primo grado.
Si pronuncia sui MOTIVI DI DIRITTO.
Art 19 TUE: dice da cosa è composta la Corte di Giustizia dell’UE, e ci da indicazioni su quali sono i requisiti
essenziali che devono avere le personalità che vanno a ricoprire la carica di giudice. ci dà anche la definizione del
ruolo della Corte. Prima era l’art 169 poi diventa art 220 del trattato CEE, oggi art 19 TUE, e ci dice il compito: la
Corte assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati. La Corte di Giustizia svolge
una funzione di tipo MONOFILATTICO, anche in considerazione del fatto che molte competenze sono state
trasferite al tribunale. Però anche rispetto al tribunale specializzato e alle sue decisioni era prevista e
riconosciuto comunque un compito nomofilattico alla Corte di Giustizia: rispetto alle decisioni adottate in primo
grado dal Tribunale specializzato della questione pubblica era previsto anche il possibile intervento della Corte di
Giustizia, perché l’art 256 par 2 TFUE, che si occupa delle impugnazioni delle sentenze del Tribunale, dice che
sulle decisioni emesse dal Tribunale in sede di impugnazione, in casi eccezionali, in caso di pregiudizio della
coerenza del diritto dell’UE, la Corte di Giustizia poteva essere investita del riesame. L’art 19 dice che “assicura il
rispetto del diritto”, quindi è qualcosa di più ampio. Quindi nella sentenza Taricco avrebbe dovuto applicare
correttamente l’art 4 par 2 TUE. Ma già sulla base dell’art 19 la Corte di Giustizia è tenuta a garantire il rispetto
del diritto, in cui rientra anche la specificità e identità nazionale degli stati.
Altra disposizione dell’art 19 è quella che non c’era nel sistema pre Lisbona, che assicura che il sistema di tutela
giurisdizionale prefigurato dai Trattati sia pieno ed effettivo, che troviamo anche nell’art 47 della Carta.
Ci troviamo di fronte ad un meccanismo di tutela giurisdizionale NON CONTENZIOSO, o INDIRETTO, e si rinvia
alla Corte di Giustizia che ci fornisce l’interpretazione della norma controversa. Questo meccanismo può
funzionare però solo attraverso la cooperazione dei giudici nazionali, che consentono l’attuazione effettiva del
diritto dell’Unione, attraverso il rinvio pregiudiziale, e devono poi stabilire tutti i meccanismi di tutela che
assicurino una tutela giurisdizionale effettiva, e tra questi c’è qual meccanismo che censura lo Stato in caso di
violazione del diritto dell’UE. Questo paragrafo dell’art 19 si tratta di una specificazione del principio di leale
cooperazione. Se il meccanismo del rinvio pregiudiziale non funziona, allora non c’è una corretta applicazione di
questo principio. Anche le sentenze più rilevanti del processo di integrazione sono tute pronunce che
scaturiscono dal rinvio pregiudiziale. C’è stato un capovolgimento anche del regolamento di procedura della
Corte di Giustizia, se prendiamo quello del 2012, troviamo un cambiamento rispetto alla struttura che ha avuto
prima: prima era tutto incentrato sui ricorsi diretto, oggi il regolamento di procedura è stato ristrutturato, e
abbiamo norme generali e poi il primo procedimento che troviamo disciplinato è il rinvio pregiudiziale.
L’art 19 par 3 elenca in modo sintetico le competenze della Corte di Giustizia dell’UE: è competente sui ricorsi
promossi da uno Stato membro (ma anche gli stati terzi possono proporre ricorsi davanti la Corte di Giustizia, ma
a condizioni diverse), da una istituzione o d auna persona fisica o giuridica (RICORSI DIRETTI o CONTENZIOSI) e
poi i rinvii pregiudiziali (RICORSI INDIRETTI O NON CONTENZIOSI), che possono essere INTERPRETATIVI o DI
VALIDITA’ (cioè atti di diritto derivato).
La norma dice poi “anche negli altri casi previsti dai trattati” che non rientrano espressamente nella lettera A,
che sono ad esempio il contenzioso in tema di funzione pubblica e funzione di tipo consultivo (art 218 par 11)
(quindi la Corte di Giustizia deve prendere posizione per una questione non giurisdizionale in senso proprio).
Per quanto riguarda il RIPARTO DI COMPETENZE: c’è una ripartizione all’art 19 che è quella classica, tra RICORSO
DIRETTO/CONTENZIOSO E INDIRETTO /NON CONTENZIOSO. Anche una distinzione tra:
1. ipotesi in cui la Corte deve valutare la legittimità di atti o comportamenti delle istituzioni dell’Unione: qui
valuto l’inerzia o omissioni delle istituzioni, quindi rientrano:
 il ricorso per annullamento
 il ricorso in carenza (art 265)
 l’azione di responsabilità extracontrattuale (268)
 i ricorsi in tema di funzione pubblica (270)
tutti ricorsi DIRETTI
 Per quanto riguarda il rinvio pregiudiziale, non contenzioso, abbiamo quello di validità, che deve
valutare la legittimità o meno di un atto dell’UE.
2. ipotesi in cui la Corte valuta la legittimità dell’attività o il comportamento degli stati; qui abbiamo invece
altri meccanismi di tutela: la procedura di infrazione (258), normalmente avviata dalla Commissione, ma
il 259 lo permette anche agli Stati.
Sia la competenza della procedura di infrazione che pregiudiziale rientrano ancora oggi di competenza esclusiva
della Corte di Giustizia. Quindi lo stato membro se presenta ricorso in Corte, lo presenta davanti la Corte di
Giustizia, lo stesso succede per il rinvio pregiudiziale. Se guardiamo i trattai però ci dicono alcune cose rispetto
alla competenza pregiudiziale della Corte: il principio è che la procedura di infrazione e pregiudiziale sono di
competenza esclusiva della Corte, mentre le altre competenze sono ripartite tra Corte di Giustizia e Tribunale.
L’art 256, norma che definisce il riparto di competenze tra la Corte e Tribunale per quanto riguarda i ricorsi
diretti esclusa l’infrazione, prevede il TRASFERIMENTO DELLA COMPETENZA PREGUDIZIALE AL TRIBUNALE. Senza
dover modificar ei trattai, ma semplicemente modificando lo statuto, io posso individuare delle materie
specifiche rispetto a cui prevedere che il rinvio pregiudiziale è di competenza del Tribunale e non della Corte. Si è
discusso su quali fossero le materie da attribuire alla competenza pregiudiziale del Tribunale: c’è chi diceva che
tutte le questioni di concorrenza su cui già il Tribunale si pronuncia nei ricorsi diretti potrebbero essere affidate
anche alla competenza pregiudiziale del Tribunale. Una delle ragioni fondamentali per cui questa disposizione
non ha mai trovato applicazione è quella che non si sono mai trovate delle materie. Con la riforma del 2015 si
era previsto che entro la fine del 2017 la Corte di Giustizia facesse una valutazione per utilizzare il 256 par 3. A
dicembre 2017 soddisfacendo questa indicazione presente nel Regolamento del 2015, la Corte ha presentato
una relazione in cui ha spiegato che secondo lei gli Stati non sono ancora maturi per applicare questo articolo, e
quindi è opportuno che la competenza pregiudiziale rimanga di competenza della Corte di Giustizia. Nella misura
in cui si trasferisse la competenza pregiudiziale al Tribunale, il 253 par 3 prevede lo stesso meccanismo del
riesame che abbiamo visto rispetto al TFP.
La Corte d Giustizia ha presentato al legislatore di quest’anno una diversa proposta sulla procedura di infrazione,
che secondo il 258 spetta alla Corte di Giustizia, e si prevede che in diverse ipotesi la competenza in primo grado
spetta al Tribunale. Tutte le procedure instaurate ai sensi del 258 e 259 siano di competenza in primo grado del
Tribunale.
Cosa succede per le altre competenze, diversi dalla procedura di infrazione? È disciplinato dal 256 TFUE in
combinato disposto con l’art 51 dello statuto. Riconosce al Tribunale una competenza generale, ma ci sono dei
casi in cui la competenza in primo ed unico grado spetta ancora alla Corte.
Il problema del riparto di competenza: si ricorre alla Corte o al Tribunale a seconda dei tipi di ricorrenti: per i
ricorsi proposti dai PRIVATI/SINGOLI la competenza di primo grado spetta sempre al Tribunale, così come per i
ricorsi previsti sempre da queste disposizioni ma proposti da una ISTITUZIONE la competenza di primo grado è
della Corte di Giustizia. Il problema si pone quando il ricorrente è uno STATO MEMBRO, perché gli stati terzi
sono persone giuridiche, ai sensi del diritto dell’UE. la regola generale è quella per cui lo Stato ricorre davanti al
Tribunale, sono però di competenza della Corte i ricorsi per annullamento e i ricorsi in carenza quando l’oggetto
del ricorso è un atto o una astensione di pronunciarsi del Parlamento o del Consiglio: quindi tutti gli atti
legislativi, se impugnati da uno stato, sono impugnati davanti la Corte, così come anche gli atti in materia di
autorizzazione alla cooperazione rafforzata. Qualunque atto della Commissione da impugnare è un atto che va
impugnato davanti al Tribunale.
Deroga alla regola generale: a meno che si tratti di 3 specifiche tipologie di atti:
- decisioni adottate dal consiglio sulla base dell’art 108 par 2 TFUE
- atti adottati dal Consiglio in tema di misure di difesa commerciale (207)
- atti che il Consiglio adotta ai sensi del 291 (il Consiglio ha competenza di adottare atti di esecuzione)
 in relazione a queste 3 tipologie di atti, la competenza di primo grado è del Tribunale
RICORSO PER ANNULLAMENTO
ART 263 TFUE: è una delle norme modificate col Trattato di Lisbona, ha subito più modifiche nel corso degli anni,
dovuto anche alla funzione creativa della Corte di Giustizia. Le disposizioni sulla posizione del parlamento
rispetto il ricorso per annullamento, sia come legittimato passivo che attivo, si devono all’intervento creativo
della Corte.
Quali sono i legittimati passivi e gli atti che possono essere suscettibili di impugnazione. Il ricorso per
annullamento possiamo proporlo rispetto ad atti che hanno certe caratteristiche ed emanati da determinati
soggetti, e con il Trattato di Lisbona anche tuti gli atti che si adottano nel sistema del vecchio terzo Pilastro
possono essere suscettibili del ricorso per annullamento, mentre prima subiva una serie di limitazioni e
restrizioni. Il Trattato di Lisbona estende in parte la competenza della Corte a pronunciarsi su ricorsi per
annullamento (e non solo) ma nel settore della politica estera e di sicurezza comune. una delle previsioni che
viene in rilievo è l’art 24 TUE, che disciplina il settore della politica estera, e ci dice che la Corte non è
competente ad intervenire rispetto alla materia in questione, fatte salve 2 ECCEZIONI:
- la competenza a controllare il rispetto dell’art 40 TUE: è una disposizione modificata con Lisbona che dice
che l’attuazione della politica estera lascia impregiudicato il funzionamento del sistema comunitario, e ci
dice anche che l’attuazione delle politiche dell’UE lascia impregiudicata l’applicazione delle competenze
delle istituzioni del settore PESC, quindi non posso adottare un atto PESC laddove devo intervenire con un
atto comunitario; quindi la Corte può intervenire anche attraverso ricorso per annullamento se ritiene che si
è nell’ambito di tutela dell’ambiente ma l’UE è intervenuta sulla base delle disposizioni PESC, ma si
sarebbero dovute adottare le disposizioni comunitarie.
- la legittimità delle decisioni secondo quanto previsto dal 275 TFUE: dice che la Corte non è competente per
le questioni di politica estera, ma è competente a pronunciarsi sui ricorsi proposti alle condizioni del 263. La
Corte di Giustizia ha dunque competenza a controllare la legittimità delle decisioni. quindi le decisioni che
comportano misure restrittive possono essere impugnate. C’è una sentenza dello scorso anno (28 marzo
2017), in cui la Corte di Giustizia interpreta questa disposizione ammettendo di poter essere investita di un
tema legato alla legittimità delle decisioni che comportano misure restrittive anche sulla base di un rinvio
pregiudiziale di validità. La Corte assicura una tutela giurisdizionale effettiva.
Quindi tra le regole generali che caratterizzano il vecchio terzo pilastro vige anche la regola generale secondo cui
la Corte non può esercitare la competenza fatte salve queste due ipotesi.
LEGITTIMATI PASSIVI: chi può essere citato in giudizio di fronte al Tribunale o Corte: chi sono gli autori dell’atto
oggetto di impugnazione: la Corte esercita un controllo di legittimità sugli atti legislativi, del consiglio, della
commissione, della BCE che non siano raccomandazioni o pareri (ma possono essere oggetto di un rinvio
interpretativo), del Parlamento e Consiglio Europeo destinato a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi
Sentenza LEVER: la Corte di Giustizia ammette che per assicurare la tutela giurisdizionale anche questa
tipologia di atti può essere suscettibile di ricorso, poi codificata col Trattato di Maastricht. La stessa formulazione
la troviamo oggi per il Consiglio europeo, che acquisisce la qualifica di istituzione solo con il Trattato di Lisbona, e
lo troviamo nel 263; prima erano irricevibili dalla Corte di Giustizia.
La Corte di Giustizia dice che anche un atto atipico è riconosciuto come atto impugnabile, quindi ammissibile il
ricorso per annullamento.
Il sistema pre Lisbona faceva riferimento all’atto adottato congiuntamente dal Parlamento e Consiglio, oggi dice
invece “atti legislativi” in generale, quindi sembrano ampliarsi gli atti impugnabili.
Non sono impugnabili gli atti del mediatore
Gli atti degli organi con funzione consultiva (art 13 TUE) vale la regola nuova: possono essere impugnati se i loro
atti producono effetti giuridici nei confronti di terzi.
Gli atti della Corte dei Conti non sembrano essere suscettibili di ricorso per annullamento.
Ricorso EMA: uno dei problemi dipende dal soggetto che ha adottato l’atto.

7-5-18
Atti impugnabili ex art 263:
- GLI ATTI LEGISLATIVI, adottati dal Consiglio (ha potere decisionale maggiore) e Parlamento (mero potere di
consultazione e approvazione) (294: è un atto adottato con la procedura legislativa) (NON dalla
Commissione, che propone semplicemente)
- atti che intendono produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi: l’atto per essere impugnabile può essere
meramente intenzionato a produrre effetti giuridici nei confronti die terzi o debba produrli? La
giurisprudenza è ancora divisa; atti atipici che a prescindere dal nomen juris possono essere impugnati
qualora in concreto produttivi di effetti giuridici nei confronti dei terzi

L’atto con il quale è stato deciso che la sede delle due agenzie londinesi sarebbe stata spostata da Londra ad
Amsterdam e a Parigi, è un atto impugnabile? No, perché adottata a margine del Consiglio
Sono pendenti 2 ricorsi: uno instaurati dal comune di Milano e dallo Stato italiano. Legittimati attivi a impugnar
egli atti sono gli stati membri, mentre gli enti locali (province, comuni, regioni…) sono legittimati attivi, ma non ai
sensi del 263 co 2 (che riguarda cioè ricorrenti previlegiati), ma ai sensi del co 4, ovvero rientrano tra le persone
fisiche e giuridiche.
I RICORRENTI PRIVILEGIATI non devono dimostrare la sussistenza di un interesse qualificato ad agire in giudizio:
gli stati membri, la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio sono tutti ricorrenti privilegiati, e
quindi possono agire in veste di difensori dell’ordinamento; possono impugnare qualsiasi atto, che sia
ovviamente impugnabile senza dimostrare che l’atto in questione sia produttivo di effetti giuridici o che rechi un
danno al ricorrente stesso, perché questi sono ritenuti ENTI COSTITUTIVI DEL SISTEMA dall’UE, e pertanto sono
soggetti che possono portare le loro istanze anche a livello giudiziario, quindi non hanno alcun filtro nella
ricevibilità delle proprie azioni.
I RICORRENTI NON PRIVILEGIATI: ad es. il comune di Milano, è un soggetto con personalità giuridica, e per poter
impugnare un atto deve essere destinatario dell’atto o dimostrare che l’atto impugnato lo riguardo direttamente
ed individualmente.
C’è una differenza tra stati membri e enti locali: es il caso FRATELLI COSTANZA, siamo nel 90, e bisognava
costruire il terzo anello di San Siro, appalto del comune di Milano per la costruzione, tema dell’effetto diretto
della direttiva in materia di appalti, contestazione tra appaltatore e sub appaltatore, mancato effetto diretto
delle direttive e rapporto orizzontale. Ma l’ente locale essendo parte integrante della struttura statale, è tenuto
a dare effetto diretto alle direttive, poiché la nozione di stato, si deve estendere anche agli enti locali. Quindi noi
abbiamo un ente locale, che anche se non può attuare una direttiva (serve il Parlamento) è comunque tenuta a
dare effetto diretto alle direttive. Questa giurisprudenza non parla con quella che esclude gli enti locali dalla
nozione di stato membro ai sensi del 263, quindi l’ente locale è tenuto ad applicare le direttive anche se il
proprio stato non le ha trasposte, ma l’ente locale non è comunque ente privilegiato per impugnare atti dell’UE.
Qui c’è un evidente contrasto/discrasia.
La dicotomia tra stati membri e persone fisiche giuridiche rileva anche per definire i fori, perché il riparto di
competenze tra Corte di Giustizia e Tribunale prevede che le persone fisiche giuridiche debbano impugnare gli
atti dell’UE davanti al Tribunale, mentre gli stati membri vanno direttamente davanti la Corte. Quindi alle
persone fisiche giuridiche è garantito un doppio grado di giudizio, mentre all’autorità centrale è tolto un grado di
giudizio.
(In realtà però con Corte di Giustizia tecnicamente si intende il tutto, quindi Corte e Tribunale).
Il ricorso EMA (tema ricollocamento EMA) è stato poi riunito davanti la Corte di Giustizia, perché le cause
connesse per oggetto e richieste possano essere riunite innanzi la Corte di Giustizia, è una facoltà non obbligo;
per ragioni di economia processuale.
Quindi il ricorso il comune di Milano è stato riassorbito davanti la Corte di Giustizia.
Quindi in questo ricorso EMA è importante la questione degli atti impugnabile.
Essendo una decisione adottata a margine del consiglio, si potrebbe sostenere che si tratti di un atto non
impugnabile.
La decisione è stata confermata a margine del Consiglio, e quindi astrattamente presa dagli Stati membri, ma è
avvenuta per immediato sorteggio. Perché al terzo round c’era uno stato di parità, 13-13. In ragione di questa
parità, la decisione è avvenuta per sorteggio, ma in casi di parità la decisione doveva essere presa dalla
presidenza di turno del consiglio tramite sorteggio, quindi nel caso di specie la decisione è stata presa dagli
organi interni del consiglio, che è stata presa dalla presidenza, e non dagli stati membri. quindi sulla natura
impugnabile della decisione, la sentenza sarà estremamente interessante, perché non è stato questo l’unico
caso in cui vi è ambiguità circa il soggetto titolare del potere decisionale e quindi sull’impugnabilità del caso
stesso. C’è stato un altro caso in materia di immigrazione: CAUSA N.F. L’accordo è stato impugnato da un
soggetto contro il Consiglio europeo, che lamentava la violazione die propri diritti fondamentali, ma l’accordo
UE-Turchia è un atto impugnabile? Il Tribunale ritiene che in realtà non sia un accordo ma che sia un comunicato
stampa degli stati membri, che assumevano impegni l’uno con l’altro. Quindi in realtà non era un accordo
adottato dal Consiglio, ma un accordo informale, quindi giudicato atto non impugnabile.
 Ricevibilità azione annullamento

LEGITTIMATI ATTIVI:
1. RICORRENTI PRIVILEGIATI
2. RICORRENTI NON PRIVILEGIATI: le persone fisiche e giuridiche, all’interno dei quali vanno ricompresi
anche gli enti locali.
3. Abbiamo una categoria in mezzo, dei SEMI PRIVILEGIATI: sono la BCE, la Corte di Conti e il Comitato delle
Regioni; non hanno il privilegio concreto garantito agli enti costitutivi del sistema, ma sono portatori
della possibilità di impugnare qualsiasi atto senza dimostrare alcun privilegi, ma unicamente qualora
detto atto leda le proprie prerogative. Soggetti che hanno un mandato specifico e quindi possono agire
qualora l’atto adottato leda le prerogative di queste istituzioni stesse. La categoria è chiusa a questi
soggetti, ma si potrebbe estendere ad altri? Per esempio, alcune agenzie dell’UE, soggetti altamente
tecnici che rispondono alla categoria giuridica delle agenzia (es. l’agenzia del farmaco), che in taluni casi
non sono dissimili dalla BCE, come l’autorità bancaria europea; quindi hanno prerogative tecniche che
potrebbero essere lesi, quindi anche loro dovrebbero essere soggetti semi privilegiati, ma si dovrebbe
modificare i Trattati.
MOTIVI DI RICORSO (per sindacare l’illegittimità di un atto):
- INCOMPETENZA:
 RELATIVA: l’UE è in astratto competente, ma non è competente l’istituzione che ha adottato l’atto.
 ASSOLUTA: l’UE non ha questa competenza: non ha ricevuto dagli stati membri una competenza per
adottare l’atto di cui si contesta la legittimità, violazione del principio di attribuzione
- SVIAMENTO DEL POTERE: l’UE avrebbe il potere ma l’atto è impugnato perché il potere è stato esercitato
per finalità diverse rispetto a quelle per cui era stato attribuito
- VIOLAZIONE DELLE FORME SOSTANZIALI: l’atto in questione non rispetta talune regole formali così
importanti da inficiare il merito dell’atto, ad esempio l’assenza di firma.
- VIOLAZIONE DI TUTTE LE REGOLE DI DIRITTO DI CUI LA CORTE DI GIUSTIZIA PUO’ CONTROLLARE
L’ATTUAZIONE: permette di annullare gli atti dell’UE non sono quando viola i trattati, ma anche per
VIOLAZIONI DI DIRITTO, quindi la Corte di Giustizia può pescare le regole dell’ordinamento dell’UE non solo
all’interno del perimetro di quanto codificato dal trattai ma anche altrove. Quindi assicura il RISPETTO DE
DIRITTO, non del diritto dell’UE, e quindi di tutte le regole che possono costituire diritto. è una CLAUSOLA DI
APERTURA DEL SISTEMA.
Art 278 TFUE: prevede che possa essere chiesta la sospensione degli effetti dell’atto oggetto di impugnazione, a
fronte di una specifica richiesta instaurata con atto ad hoc.
RICORRENTI NON PRIVILEGIATI
È la categoria più complessa; rientrano quei soggetti che possono presentare ricorso per annullamento solo in
presenza di condizioni più stringenti rispetto quelli privilegiati. Il trattato fa riferimento all’art 264 comma 4, alle
persone fisiche e giuridiche. Questa disposizione è stata oggetto di modifica con Lisbona, che va a codificare ciò
che era già previsto. Il problema si pone per le persone giuridiche, e la Corte di Giustizia ha elaborato una
nozione autonoma, è quindi una nozione comunitaria, ed “è ogni soggetto che ha l’autonomia necessaria per
agire come ente responsabile nei rapporto giuridici”. È nozione più ampia rispetto quella degli Stati membri. Le
persone giuridiche possono essere anche soggetti che si trovano in Stati terzi. Nella nozione di persona giuridica
rientrano anche gli Stati Terzi, e quindi potrà presentare ricorso per annullamento solo rispetto agli atti previsti
da questo comma dell’art 263. Lo Stato membro è invece soggetto privilegiato; gli enti territoriali dello Stato
possono presentare ricorso attraverso lo Stato, oppure si riconosce agli enti territoriali di presentare ricorso
autonomamente perché si ritiene che rientrano nella nozione di persona giuridica. La norma individua 3
tipologie di atti impugnabili, e a seconda degli atti devo dimostrare determinate condizioni:
- Atti adottati nei suoi confronti (nei confronti di un soggetto)
- Atti che la riguardano direttamente e individualmente: nel sistema pre-Lisbona si faceva riferimento a quelle
decisioni che la riguardavano individualmente. Ma cosa significa INTERESSE INDIVIDUALE?
- Atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano nessuna misura di esecuzione.
CONDIZIONI PER IMPUGNARE:
 A prescindere dal tipo di atto che vado ad impugnare, io devo sempre DIMOSTRARE L’INTERESSE AD AGIRE,
in quando ricorrente non privilegiato, ovvero che l’annullamento dell’atto produca un beneficio alla mia
situazione giuridica.
 L’interesse ad agire deve essere EFFETTIVO, e non meramente ipotetico, E DEVE ESISTERE SIA NEL
MOMENTO IN CUI IO PROPONGO IL RICORSO PER ANNULLAMENTO, SIA NEL MOMENTO IN CUI IL GIUDICE
DECIDE.
Caso EMILIO DE CAPITANI: IN QUESTO RICORSO PER ANNULLAMENTO deciso nel 22 marzo 2018 (quando
parlavamo di TRILOGHI). Questo signore propone un ricorso contro la decisione del Parlamento che non gli
consentiva di accedere alle informazioni relative ad una serie di triloghi. Nel ricorso per annullamento, le
informazioni che aveva richiesto di poter accedere sono state rese pubbliche sul sito del Parlamento, quindi si
sarebbe potuto sostenere che l’interesse ad agire era venuto meno, perché le informazioni sono state
pubblicate. Ma in realtà il Tribunale sull’interesse ad agire ritiene che persista, sostenendo che lo stesso tipo di
illegittimità avrebbe potuto riprodursi in futuro, quindi quello che il Tribunale vuole fare è poter statuire nel
merito per dare delle indicazioni di principio. Quindi per poter risolvere la questione nel merito, il Tribunale dice
che l’interesse ad agire persiste, per poter statuire sulla questione di principio.
 Una volta che dimostro interesse ad agire, devo dimostrare anche, a seconda dell’atto che impugno, LA
SUSSISTENZA DELL’INTERESSE DIRETTO E INDIVIDUALE. Quindi si vuole evitare che qualsiasi tipo di atto
possa essere oggetto di impugnazione, ma si vuole anche evitare che ricorrendo ad un regolamento il
legislatore incida negativamente sulla posizione giuridica di un singolo; cerco di reagire ad un uso distorto
degli atti del legislatore. È più difficile dimostrare la sussistenza nell’interesse individuale. Per quanto
riguarda il “diretto”, un atto riguarda direttamente un soggetto, cioè incide direttamente nella sfera giuridica
di un soggetto senza che sia necessaria una intermediazione del legislatore affinché quell’atto possa
produrre effetti giuridici nella sfera giuridica del singolo. Quindi produce effetti senza lasciare nessun potere
discrezionale. Per quanto riguarda “individuale”, vuol dire che in base alle qualità personali del soggetto che
ricorre, questo soggetto si può distinguere dalla generalità dei destinatari dell’atto, e in virtù di queste
qualità può essere assimilato in tutto e per tutto al destinatario formale dell’atto. Uno dei casi più famosi in
cui si è ritenuto che il soggetto fosse individualmente riguardato dall’atto è il caso CODORNIU (?) in cui c’era
un atto del legislatore dell’UE.
Ci sono delle ipotesi in cui la Corte ritiene che non sia soddisfatto interesse diretto e individuale, e l’unico modo
che ho di impugnare un atto dell’UE pregiudizievole sia quello di violare una norma interna e a quel punto
impugnare il provvedimento negativo dell’UE nell’ambito di quel ricorso. Per evitare situazioni di questo tipo, si
è cercato di sollecitare la Corte di Giustizia ad ampliare le maglio della ricorribilità. La Corte decide di non
ampliare, ma demanda agli Stati, che con Lisbona hanno inserito la terza tipologia di atti, ma è una nozione che
ha posto problemi interpretativi. Cosa sono gli ATTI REGOLAMENTARI? I REGOLAMENTI. Quindi tutti i
regolamenti, e dunque tutti gli atti a portata generale, possono essere oggetto di impugnazione. L’altra lettura si
fondava sulla stesura del trattato costituzionale (365). Lì si distinguevano gli atti legislativi e gli atti
regolamentari; la Corte fa una lettura sistematica e storica del trattato (da dove deriva quella norma e perché si
trova lì), e dice che dobbiamo leggere questa nozione alla luce di quello che diceva il trattato costituzionale, e
quindi sono atti regolamentari tutti gli atti a portata generale che non siano adottati con una procedura
legislativa, quindi devono essere atti non legislativi, a portata generale, e che mi riguardino direttamente.

14-5-18
LA CITTADINANZA EUROPEA
La cittadinanza in generale è uno status di appartenenza ad un determinato ordinamento, riguarda soltanto le
persone fisiche, e questo status attribuisce diritti (la pienezza di diritti civili e politici) e doveri nei confronti dello
stato di cui ha la cittadinanza. Per quanto riguarda l’UE, la cittadinanza assume dei connotati in parte diversi: la
cittadinanza europea non è nata con l’inizio del processo di integrazione europea, ma è stata istituita con il
Trattato di Maastricht; quindi prima i diritti del cittadino dovevano essere ricavati da altre disposizioni, si faceva
riferimento ai lavoratori, infatti l’UE era incentrata nell’ambito economico, e quindi la libertà di circolazione era
uno dei diritti significativi riconosciuti ai lavoratori. C’è distinzione tra libertà di stabilimento e libertà di
prestazione di servizi, a seconda che l’attività sia esercitata stabilmente, oppure in via soltanto temporanea. Pian
piano i diritti riconosciuti ai cittadini degli stati membri che esercitassero una attività economica sono stati
ampliati, e gradualmente l’importanza dell’aspetto economico è diminuita, attraverso vari tipi di pronunce della
Corte. Si è ampliato il novero dei soggetti che potessero circolare. Questa evoluzione non è stata portava avanti
dalla sola Corte di Giustizia, ma anche dalle istituzioni, in particolare il passaggio più significativo si è avuto nel
1990, con l’emanazione di 3 DIRETTIVE, che erano circoscritte come campo di applicazione soggettivo, la prima ai
pensionati, la seconda agli studenti e la terza tutti i soggetti che non potevano trarre diritti da altre disposizioni
del diritto dei trattati. Era significativo che si sganciasse l‘attribuzione di questi diritti dal possesso della qualifica
di lavoratore, subordinato o autonomo. Questo è stato facilitato dal fatto che l’Atto Unico Europeo avesse dato
una definizione di mercato comune più ampia, non più legato ai fattori della produzione (i lavoratori erano
considerati fattori della produzione). In questo processo graduale di estensione dell’ambito di applicazione dei
diritti riconosciuti ai lavoratori/persone, un passaggio decisivo è costituito dall’istituzione della Cittadinanza
dell’Unione, con il Trattato di Maastricht che prevedeva una previsione secondo cui è istituita una cittadinanza
dell’UE, ma il Trattato pone delle limitazioni a questa cittadinanza: inizialmente molti degli osservatori avevano
notato come in sostanza questa cittadinanza non innovasse in alcun modo lo status dei cittadini degli stati
membri, nel senso che i diritti erano quelli classici riconosciuti precedentemente; in realtà non è così, ma grazie
all’interpretazione della Corte di Giustizia questo status ha acquisito un significato più ampio rispetto a quello
precedentemente attribuito dalle norme già in vigore dal diritto comunitario e ha assunto una rilevanza
autonoma rispetto la cittadinanza nazionale. Innanzitutto, non si parla mai di STRANIERI rispetto i cittadini di un
altro stato membro, perché questo termine è riservato ai cittadini di Stati Terzi. Questo non ha un valore solo
simbolico, ma è uno degli obiettivi del processo di integrazione europea, che è quello di realizzare una
integrazione tra i cittadini dei diversi stati membri; l’idea è quella di ridurre la portata pratica delle frontiere
interne tra i diversi stati membri, per agevolare il più possibile l’integrazione e circolazione dei cittadini
all’interno degli altri stati membri. i riferimenti normativi della cittadinanza dell’UE si trovano nell’art 9 del TUE, e
negli art 20 e seg. del TFUE. per avere la cittadinanza dell’UE occorre avere a cittadinanza di uno stato membro,
e la cittadinanza dell’UE si aggiunge alla cittadinanza nazionale, e non la sostituisce. Quindi REQUISITO per avere
la cittadinanza dell’Unione è avere la cittadinanza di almeno uno stato membro; non è dunque necessario che si
svolgano procedimenti amministrativi, ma se ho la cittadinanza nazionale, la cittadinanza europea si acquisisce
automaticamente. Non esiste da sola, ma n quanto complemento di una cittadinanza nazionale di uno degli stati
membri, e non la sostituisce: questo è importante perché è competenza degli stati membri in merito
all’attribuzione e la revoca: l’UE non ha la competenza per determinare i requisiti o situazioni in presenza dei
quali viene riconosciuta a un soggetto la cittadinanza dell’unione, ma questi requisiti vengono determinati dagli
stati membri. gli stati membri hanno attribuito all’UE l’istituzione della cittadinanza dell’UE ma non le hanno
dato la competenza per stabilire attribuzione e revoca. Questa è la regola generale: attribuzione e revoca sono
regolate sulla base del diritto nazionale. Ma la Corte di Giustizia aveva chiarito che questa competenza nazionale
sui criteri di attribuzione della cittadinanza, o comunque le decisioni con cui uno stato membro attribuisce diritti
di circolazione derivanti dal possesso della cittadinanza, queste competenze devono essere esercitate
conformemente al diritto comunitario, quindi senza pregiudicare tutte le regole e diritti che discendono dal
diritto dell’unione: questo è stato affermato dalla Corte sin dalla Sentenza Micheletti, che riguardava un
odontoiatra che aveva la cittadinanza sia argentina che italiana. Abbiamo poi la Sentenza Rottmann, del 2010,
che riguardava il caso di un cittadino austriaco che si era recato in Germania e aveva chiesto di poter diventare
cittadino tedesco; la legislazione austriaca però (del suo stato membro d’origine) prevedeva che l’assunzione di
altra cittadinanza, ciò avrebbe comportato la perdita automatica della cittadinanza austriaca, quindi non
ammetteva il possesso di due cittadinanze contemporaneamente. Ma il signore, aveva omesso di aver riportato
delle condanne penali, e l’averlo omesso portava la revoca della cittadinanza tedesca. Ma si sarebbe cosi
ritrovato nella condizione di apolidia, cioè sarebbe stato privo di cittadinanza. Anche in questo caso è stata adita
la Corte di Giustizia su rinvio pregiudiziale perché ci si è chiesti se era legittima non tanto la revoca della
cittadinanza nazionale, che è di competenza dello stato nazionale, ma nel caso di specie veniva privato anche
della cittadinanza europea. Qui la risposta era che è vero che viene meno la cittadinanza europea, ma dato che
segue le vicende della cittadinanza nazionale, allora si poteva dire che la perdita della cittadinanza europea era
conseguenza del riparto di competenze in materia. La Corte di Giustizia ha invece cercato di estendere l’ambito
di applicazione del diritto dell’unione, affermando che è vero che gli stati membri hanno competenza esclusiva in
questo ambito, ma che questa competenza deve essere comunque esercitata nel rispetto dei diritti dell’Unione,
questo in considerazione dell’importanza che il diritto primario dell’unione attribuisce a questo status di
cittadino europeo. All’ordinamento tedesco è stato così imposto di lasciare un certo tempo al signor Rottman
per poter riacquistare la cittadinanza austriaca, e all’ordinamento austriaco è stato imposto di valutare la
situazione soggettiva del signore per verificare se quella revoca, che secondo l’ordinamento era legittima, nella
fattispecie comportasse una conseguenza sproporzionata.
Lo status del cittadino dell’unione è lo status fondamentale dei cittadini degli stati membri è stata dichiarata
nella sentenza de 2001 e in altre successive, e in più la Corte dice che questo status consente a chi tra i cittadini
degli st6ai membri si trovi nella medesima situazione di ottenere indipendentemente dalla cittadinanza e fatte
salve le espressioni previste a tale riguardo, il medesimo trattamento giuridico. Quindi la cittadinanza dell’unione
non è fondamentale sono in astratto, ma anche sul piano concreto: a questa cittadinanza europea da una parte
sono ricollegati diritti specifici, e dall’altra si ricollega anche il diritto a che, chi si trova nella medesima
situazione, riceve il medesimo trattamento giuridico. Questo diritto di non discriminazione è attribuito soltanto
ai cittadini dell’unione, ed è declinata come non discriminazione sulla base della nazionalità. Anche questo è un
diritto nato prima dell’istituzione della cittadinanza europea, la quale lo rende ora un diritto assoluto. Il divieto di
discriminazione ha una dimensione anche positiva, che è quello del principio della parità di trattamento, c.d.
nazionale. Altro aspetto importante è che questo principio tutela sia dalle discriminazione dirette, quindi
espressamente ricondotte alla nazionalità, sia quelle indirette, cioè quelle forme di discriminazione che pur
essendo ancorate a criteri diversi dalla nazionalità, in realtà in concreto determinano indirettamente una
discriminazione sulla base della nazionalità: ad esempio la lingua, o più in generale un criterio di residenza o
domicilio, ad esempio l’Italia che ricollega il riconoscimento di un certo diritto alla residenza italiana svantaggia i
soggetti che non risiedono in Italia. Non riguarda le SITUAZIONI PURAMENTE INTERNE, cioè dove non c’è un
minimo elemento di estraneità (in materia di appalti, se è totalmente italiana per attività da svolgere nel
territorio italiano, sarà comunque necessario rispettar ei diritti derivanti dal diritto dell’UE).
Sentenza Zambrano: permette ai genitori di un minore cittadino dell’unione d vedersi attribuito il diritto
dell’unione, perché il fatto che se a quel minore venisse tolta la possibilità di stare con il proprio genitore,
sarebbe costretto a lasciare il territorio dell’unione. Alla cittadinanza sono ricollegati anche dei doveri, ma per
quanto riguarda quella europea è impossibile individuare dei doveri imposti al cittadino dell’unione per il fatto di
essere cittadino dell’unione. L’art 20 par 2 infatti dice che i cittadini dell’unione godono dei diritti e sono soggetti
ai doveri previsti dai trattati, poi c’è una elencazione dei diritti, ma non dei doveri! E anche il dovere generico di
rispettare il diritto dell’unione non sembra riconducibile alla cittadinanza europea, per il fatto che questa ha
caratteristiche diverse rispetto la cittadinanza nazionale.
Il progressivo distacco dalla nozione di lavoratori e operatori economici, ma anche riconoscimento di altri diritti,
come circolazione e soggiorno.
Soggetti nei confronti dei quali vengono invocati i diritti della cittadinanza europea: sono invocati nei confronti
degli stati membri, in particolare nei confronti degli stati membri diversi da quello del soggetto che invoca il
diritto.
DIRITTI ATTRIBUITI DALLA CITTADINANZA EUROPEA, ART 21 PAR 2:
1) Lettera A: diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri: la circolazione
consiste nel poter fare ingresso in un altro stato membro senza gli le siano imposti dei requisiti o condizioni,
ma anche di potervi uscire. Il diritto di circolazione è esteso a tutti i cittadini, senza condizioni, l’unica
condizione è il possesso di un documento di identità. Il solo fatto di recarsi non è utile se non accompagnato
dalla possibilità di trattenersi in quello stato e quindi di soggiornare nello stato membro ospitante. Vi sono
delle limitazioni previste dai trattati, ma sono eccezioni, da interpretare restrittivamente, e in conformità al
principio di proporzionalità. Anche condizioni previste dal diritto derivato: direttiva 2004/38 che riguarda il
diritto del cittadini dell’unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare nel territorio degli stati membri
liberamente, ma pone anche condizioni ben precisi che il cittadino deve avere per beneficiare di questo
diritto: il soggetto è cittadino e suoi familiari (di stati terzi), ma i diritti dei familiari sono DERIVATI quindi
mantengono il diritto fino a quando il familiare (che ha la cittadinanza) gode di questi diritti. questo vale per
il coniuge, i discendenti diretti minori di 21 anni, gli ascendenti diretti a carico o il partner con cui si abbia
una unione registrata riconosciuta dallo stato membro ospitante. Questo per favorire e non ostacolare la
circolazione. Le CONDIZIONI in concreto poste dalla direttiva: distinguere dal punto di vista temporale, sulla
base della durata del soggiorno:
- fino 3 mesi: non sono previste condizioni particolari, quindi è possibile in questi 3 mesi cercare lavorio
- da 3 mesi a 5 anni: la direttiva all’art 7 prevede condizioni e requisiti, riassunti nel possesso di 2 requisiti
fondamentali:
 disporre di una assicurazione malattia (che copra le spese sanitarie principali)
 possesso di risorse economiche sufficienti per evitare di divenire un onere per lo stato membro
ospitante; questo perché gli stati membri nel consentire questo diritto hanno voluto però limitare il
suo esercizio al fatto che i cittadini che circolano non divengano un onere eccessivo.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia dice che si va a vedere se il soggetto si sia integrato nello stato
membro ospitante.
- oltre 5 anni: si acquisisce automaticamente un diritto di soggiorno permanente. Avrò dunque lo stesso
trattamento dei diritti nazionali e si dovrà dimostrare la permanenza continuativa.

2) Lettera B: diritto di voto e eleggibilità alle elezioni comunali ed europee


3) Diritto alla protezione diplomatica e consolare per quanto riguarda il territorio di un paese terzo nel quale lo
stato membro di cui si ha la cittadinanza non sia rappresentato. Il cittadino avrà diritto da ottenere la
protezione vincolare di un altro stato terzo che sia rappresentato nello stato terzo.
4) Lettera D: diritto di presentare petizioni al parlamento europeo, di ricorrere al mediatore europeo e il diritto
di rivolgersi alle istituzioni in una delle lingue ufficiali previste dai trattati e di ricevere una risposta nella
stessa lingua.

CASO LUNES
c’era una signora di originalità spagnola che si era spostata nel Regno Unito negli anni 90, là si era stabilita e
lavora lì, aveva ottenuto diritto di soggiorno permanente trascorsi i 5 anni, e poi aveva anche ottenuto la
cittadinanza britannica. Quindi questa signora oggi ha una doppia cittadinanza, spagnola e inglese, perché
l’ordinamento britannico non impone di rinunciare alla cittadinanza di origine. Questa cittadina spagnola e del
Regno unito conosce Lunes, un cittadino algerino, lo sposa e poi chiede che in virtù della direttiva 2004/88 che
venga riconosciuto al suo coniuge il diritto di soggiorno nel Regno Unito. Ma lei non avrebbe avuto il diritto di far
attribuire questo diritto, ai sensi del diritto inglese. Ma lei essendo diventata cittadina inglese, non può invocare
il diritto dell’Unione. Ma lei come cittadina europea e spagnola vuole far valere il diritto derivato di soggiorno
per il suo familiare. Ma è sicuro che si applica la direttiva 2004/88? Perché all’art 3 si dice che trova applicazione
ai cittadini degli stati membri nello stato di cui essi non possiedono la cittadinanza. Nel caso di specie la signora
invoca la direttiva nei confronti di uno stato di cui lei aveva la cittadinanza, e quindi la Corte di Giustizia dice che
la direttiva effettivamente non si applica. Ma ciò non esclude che possa applicarsi il trattati, in particolare l’art
21, che disciplina il diritto di circolazione e soggiorno. E qui la corte sviluppa un ragionamento secondo cui la
disciplina non poteva essere invocata in sui sfavore il fatto che avesse acquisito la cittadinanza, e quindi sarebbe
pregiudicato l’effetto utile dell’art 21 se non può beneficiare dei suoi diritti derivanti dalla cittadinanza europea.
Quindi con questa sentenza è stata fatto valere l’effetto dell’art 21.

Ci sarà un accordo di recesso tra Regno Unito e UE e in mancanza di questo accordo, allo scadere dei 2 anni dalla
notifica, lo stato che recede cessa di essere membro dell’unione (art 50). Quindi tutti i diritti dei cittadini
verrebbero meno.

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