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Giacomo Leopardi nasce nel 1798 a Recanati, un villaggio molto piccolo nelle Marche, che fa parte
dello Stato Pontificio. Lo Stato Pontificio nel 1798 è molto povero sia dal punto di vista economico
che dal punto di vista culturale. In questo periodo non troviamo più il Papa a Roma perché questo
viene mandato via da Napoleone e Roma diventa una delle Repubbliche sorelle. Successivamente
Napoleone si proclama imperatore e lo Stato Pontificio si trova sotto il dominio francese. Quindi in
questo contesto lo Stato Pontificio sta attraversando un periodo di grande crisi e decadenza. La
famiglia di Leopardi è aristocratica, in quanto il padre è il Conte Monaldo e la madre è Adelaide
Antici. Nonostante questo, la sua famiglia si trova in condizioni economiche molto precarie. Il
padre si occupa della sua immensa biblioteca, che è molto ricca di testi e di libri in qualsiasi lingua,
come ebraico, aramaico, greco, latino, inglese e francese. Tra questi testi troviamo sia opere di
autori antichi ma anche quelli di autori parigini contemporanei, come Voltaire e Rousseau. Il padre
di Giacomo è un uomo molto colto ma la sua cultura è accademica, cioè non moderna ma molto
nozionistica. La madre invece si dedicava interamente al patrimonio famigliare e non da nessun
cenno di confidenza o affetto ai suoi dieci figli. Quindi Leopardi vive in un ambiente bigotto e
conservatore. Il giovane Giacomo ha stretti rapporti solamente con due fratelli: Paolina e Carlo.
Infatti, proprio Leopardi dedica a Paolina una canzone. Inoltre, Leopardi dedica ai tuoi fratelli
alcune lettere. Leopardi scrive lettere anche indirizzate a Pietro Giordani e a grandi letterati come
Monti e Vieusseux.
Giacomo è inizialmente istruito da precettori ecclesiastici, ma presto continua i suoi studi da solo,
chiudendosi nella biblioteca paterna. Questi anni che vanno dal 1809 al 1816, sono gli “anni
dell’Erudizione” (in questo caso il termine “erudizione” viene utilizzato in senso negativo perché
tutte le nozioni dello scrittore rimangono fuori di lui), in cui lui conduce uno “studio matto e
disperatissimo”. Questa espressione viene utilizzata dallo stesso Leopardi nell’opera “Zibaldone”,
che è una sorta di diario ma in realtà raccoglie le riflessioni, spesso filosofiche e poetiche, che lo
scrittore fa durante l’arco di tutta la sua vita. Giacomo inizia a scrivere l’opera nel 1817 e la
termina nel 1832. Lo “Zibaldone” inizialmente viene criticato da Benedetto Croce che lo considera
non importante in quanto è un diario scritto in prosa. Successivamente viene riscoperto dalla
critica letteraria verso la fine del 1900. Con il titolo lo scrittore si riferisce ad un piatto al cui interno
ci sono più elementi e con questo vuole indicare che l’opera è un diario ma al suo interno troviamo
anche riflessioni di vario genere. Leopardi definisce il suo studio “studio matto e disperatissimo”
perché è stato eccessivo ma l’espressione fa trasparire un dolore nei confronti della vita, causato
in particolare dalla solitudine famigliare e dalle pessime condizioni fisiche. Infatti, lui studia così
tanto che ogni tanto sente che il più bel periodo della sua vita sta passando ma non può fare a
meno di studiare perché è la sua unica consolazione. In questi anni lui impara il greco, il latino e
l’ebraico. Durante questo periodo scrive varie opere: “Storia dell’astronomia” e “Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi”, in cui esamina gli errori degli antichi ed afferma che gli uomini si
affidano all’immaginazione e ai miti che sono falsi. Leopardi sa che credere nei miti è sbagliato ma
allo stesso tempo è affascinato da questa credenza perché questi uomini sono capaci di utilizzare
l’immaginazione. Inoltre, lui traduce vari testi, come le “Odi” di Orazio, il primo libro dell’”Odissea”
e il secondo libro dell’”Eneide”. Da questo quadro dei suoi primi anni di studio emerge una cultura
arcaica ed antica, ma anche illuministica. In particolare, l’Arcadia è un movimento che si sviluppa a
Roma verso la fine del 1600 e l’inizio del 1700. Essa si contrappone all’irrazionalità e all’irregolarità
del Barocco. I temi principali sono temi bucolici e idillici. I poeti scrivono poesie estremamente
semplici e irreali. Leopardi si avvicina molto alle idee illuministiche, come per esempio
l’esaltazione della ragione come unico strumento per conoscere la realtà. Però lui utilizza la
ragione per arrivare al male di vivere, all’angoscia, al dolore e non i sentimenti come facevano i
romantici. Sul piano politico, Leopardi mostra un orientamento reazionario, come dimostra
nell’orazione “Agli italiani per la liberazione del Piceno”, nella quale esalta il vecchio dispotismo
illuminato e vuole distogliere gli italiani dall’ideologia patriottica.
A partire dal 1815-1816 inizia la conversione che Leopardi stesso definisce “dall’erudizione al
bello”. Il termine “Bello” sta ad indicare che adesso le nozioni apprese dallo scrittore vengono
accolte dentro di lui. In questo periodo Leopardi si entusiasma per i grandi poeti, come Omero,
Virgilio, Dante, e inizia a leggere gli autori moderni, come Madame de Steal, Rousseau, Alfieri,
Foscolo e Goethe. Fondamentale è l’amicizia di Giacomo con Pietro Giordani e in particolare il loro
scambio epistolare, che lo aiuta ad entrare in contatto con la cultura contemporanea. Questa
apertura al mondo esterno, gli rende ancora più sofferente la vita a Recanati. Infatti, nel 1819
Leopardi tenta una fuga dalla casa paterna ma viene scoperto da uno zio.
Successivamente Giacomo ha la possibilità di lasciare Recanati nel 1822 e si reca a Roma, che gli
appare però molto vuota e meschina. Nel 1823 torna a Recanati e si dedica alla scrittura delle
“Operette morali”. Nel 1825 l’editore milanese Stella gli offre un lavoro fisso e così Leopardi va a
Milano e a Bologna. Poi nel 1827 va a Firenze, dove entra in contatto con Gian Pietro Vieusseux e
con il suo gruppo di intellettuali che fa capo alla rivista “Antologia”. Successivamente tra la fine del
1827 e il 1828, Giacomo vive a Pisa, dove trova pace ai suoi mali e scrive “A Silvia”. Dopo, a causa
delle pessime condizioni economiche e di salute, lo scrittore è costretto a tornare a Recanati, dove
rimane per un anno e mezzo. Nell’aprile del 1830 Leopardi accetta una generosa offerta dagli
amici fiorentini e riesce così a lasciare Recanati. A Firenze si innamora di Fanny Tozzetti e la
delusione nata da questo amore non corrisposto, dà origine ad un nuovo ciclo di canti, chiamato
“ciclo di Aspasia”. In questo periodo stringe una grande amicizia con Antonio Ranieri, con cui nel
1833 si trasferisce a Torre del Greco, vicino Napoli, dove entra in polemica con l’ambiente
culturale dominato da tendenze idealistiche, avverse al suo materialismo ateo. Infine, lui muore a
Napoli nel 1837.
Per comprendere bene le opere di Leopardi, bisogna esaminare alcune teorie di fondo che
Leopardi esprime nell’opera “Zibaldone”. In particolare, la “poetica del vago e dell’indefinito”
viene considerata la chiave di lettura delle sue opere. Leopardi afferma che nella realtà il piacere
infinito è irraggiungibile e non può aver fine con piacere finiti e temporanei; per questo motivo
l’uomo può ideare momenti infiniti attraverso l’immaginazione. L’immaginazione è stimolata da
tutto ciò che è vago ed indefinito, lontano, ignoto. Questo bisogno di infinito viene spiegato da
Leopardi nell’opera “Zibaldone”, nella parte chiamata “teoria del piacere”. Leopardi spiega che
questo bisogno nasce dal continuo desiderio dell'uomo della felicità, che rappresenta il Piacere.
Questo piacere è illimitato sia per tempo, perché è eterno, che per estensione, perché non ha
confini.
All’interno dell’opera “Zibaldone” Leopardi passa in rassegna tutti gli aspetti della realtà che
stimolano maggiormente l’immaginazione. Tra i luoghi troviamo: la notte e i paesaggi notturni
accarezzati dalla luce della luna, in cui la nostra immaginazione è più libera; e il cielo stellato.
Leopardi ci dice che un cielo stellato stimola maggiormente l’immaginazione rispetto ad un cielo
senza stelle. Questo perché l’immaginazione dell’infinito viene resa più forte non da un paesaggio
privo di elementi collocati tra il poeta e l’infinito, ma da paesaggi formati da tantissimi elementi,
come alberi, vigneti e torri, perché questi elementi, che sembrano togliere spazio e limitare
l’infinito, in realtà stimolano l’immaginazione. Quindi l’infinito non potrebbe esistere senza limiti.
Questa viene chiamata da Leopardi “teoria della visione” in quanto attraverso la visione di
qualcosa di finito l’uomo immagina cose infinite. Contemporaneamente si viene a costituire anche
una “teoria del suono”, con cui Leopardi ci elenca tutti i suoni che stimolano l’immaginazione,
come per esempio un canto che piano piano va a svanire, il muggire degli animali che echeggia per
le valli o lo stormire del vento tra le fronde degli alberi. Un esempio di questo ne abbiamo proprio
nella poesia l’”Infinito”.
Leopardi inoltre afferma che questi luoghi e suoni sono suggestivi perché rievocano in noi delle
sensazioni che ci hanno affascinati da fanciulli. Le emozioni suscitate da questa esperienza
prendono il nome di “rimembranza”. Anche se dopo molto anni, l’uomo è ancora capace di
rimembrare queste esperienze e rivivere così le emozioni provate, non potrà rivivere totalmente
l’esperienza dell’infinito attraverso queste. Come Leopardi afferma nello “Zibaldone”, la
“rimembranza” può avvenire grazie ad oggetti reali ma anche grazie alla poesia, all’arte e alla
musica. Per esempio, spesso una poesia risulta piacevole solo perché rievoca l’immagine e le
sensazioni prodotte da altre poesie. Leopardi afferma che i maestri della poesia vaga e indefinita
sono gli antichi perché, vivendo più vicino alla natura, sono capaci di immaginare come fanciulli.
Questa loro tendenza è evidente nei continui ricorsi ad immagini vaghe ed indefinite. I moderni
invece hanno perduto questa capacità di immaginare a causa della ragione e per questo motivo
sono destinati a soffrire. In questo contesto si può parlare di pessimismo storico in cui la natura è
vista come benigna in quanto consente all'uomo di immaginare. Secondo Leopardi gli uomini più
felici sono gli antichi in quanto, essendo più vicini alla natura, sono capaci di immaginare. Invece gli
uomini moderni, che col passare del tempo ci sono allontanati dalla natura, non sono più in grado
di immaginare e quindi sono infelici.
Dal pessimismo storico si passa poi al pessimismo cosmico, in cui Leopardi capisce che la colpa
dell'infelicità dell'uomo non è l'uomo stesso ma è la natura. Infatti, la natura non pensa al bene dei
singoli individui ma solo alla conservazione della specie. Da questo deriva che tutti gli uomini sono
necessariamente infelici, anche gli antichi, e questa infelicità è eterna ed immutabile. Quindi in
questo contesto, la natura è vista come malvagia. Proprio per questa sua concezione, Leopardi
inizia ad avere un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato, rassegnato e si inizia ad
interessare allo stoicismo. Lo stoicismo è la corrente filosofica greca secondo cui l'uomo deve
raggiungere l'atarassia cioè il distacco dagli avvenimenti della vita per non provare emozioni come
il dolore.
Dopo il pessimismo cosmico, leopardi assumerà un atteggiamento titanico, iniziando a supporre la
possibilità della vita sociale e del progresso, in particolare nella “Ginestra”.
Tra il 1818 e il 1823, Leopardi scrive una serie di componimenti poetici: dieci canzoni, che pubblica
in un opuscolo a Bologna, e una raccolta che prende il nome di “Versi”, che comprende due elegie,
un’epistola in versi e sei componimenti riuniti sotto il titolo di “Idilli”. Inizialmente questi Idilli
vengono pubblicati su un giornale intitolato “Nuovo Raccoglitore”. Successivamente nel 1831, a
Firenze, raccoglie le canzoni e i testi dei “Versi” in un’opera intitolata “Canti”. Leopardi ha voluto
dare il nome “Canti” alla sua raccolta perché per lui la poesia rappresenta il canto della sua anima.
Nel 1835 viene pubblicata una seconda edizione dell’opera a Napoli e, nel 1845, una terza edizione
a Firenze. Le canzoni civili e patriottiche sono in tutto dieci tra cui: “All’Italia”, “Sopra il
monumento di Dante”, “Ad Angelo Mai”, “Nelle nozze della sorella Paolina”, “A un vincitore nel
pallone”, “Alla Primavera”, “l'Inno ai Patriarchi”, “Alla sua donna”. Per queste canzoni Leopardi
riprende la forma della canzone petrarchesca, formata da cinque stanze, più una finale chiamata
commiato o congedo, ognuna di tredici versi 6+1+6. I primi sei versi prendono il nome di “fronte”
e si dividono in 3 (detti primo piede) +3 (detti secondo piede). Il settimo verso viene detto “verso
chiave” ed ha la funzione di ricollegarsi dal punto di vista delle rime e del ritmo ai versi precedente
e successivi. Gli ultimi sei versi prendono il nome di “sirma” o “sirima” e si dividono in 3 (detti
prima volta) +3 (detti seconda volta). L’ultima stanza viene chiamata in questo modo perché in
questa il poeta affida alla canzone il compito di “volare” e di recarsi presso la donna amata per
rivelarle il suo amore. In generale i versi che troviamo nelle canzoni petrarchesche sono
endecasillabi o settenari (11+7+7+11+7+7). A differenza di Petrarca che parlava di locus amenus, in
queste canzoni Leopardi tratta argomenti riguardanti problemi dell’Italia. Quindi sono impersonali,
a eccezione di due: “Il Bruto minore” e “L’ultimo canto di Saffo”. Nella prima canzone, Bruto si
suicida per affermare la propria libertà morale. Infatti Bruto si suicida di fronte alla decisione di
Antonio e Ottaviano di eliminare la Res publica. Nella seconda canzone, Saffo è una poetessa greca
della fine del 600 a.C., che vive nell’isola di Lesbo ed è capo del Tiaso che è l’istituzione per istruire
le fanciulle alla vita matrimoniale. Lei è una delle prime poetesse della poesia greca e scrive “Gli
Epitalami” in cui parla dell’amore e l’affetto per queste ragazze. Questa cosa però non poteva
esser accettata dalla letteratura e quindi lo stesso Leopardi pensa che Saffo si sia innamorato di un
ragazzo, Faone, che però la rifiuta. Le poesie di Saffo suscitarono molto interesse nella letteratura
latina perché i poeti latini, si ritrovarono nelle parole, nei sentimenti e nel modo in cui Saffo
descrive la natura come specchio della propria anima. Leopardi si identifica nelle poesie di Saffo,
che rappresenta il suo alter ego, perché entrambi hanno un animo nobile e delicato ma un corpo
infelice in quanto non bello. Infatti Leopardi avverte la malvagità della natura, che non permette
agli uomini virtuosi di animo, come Saffo e lo stesso Leopardi, di raggiungere la felicità. Inoltre,
Leopardi sceglie Saffo perché è un personaggio dell’antica Grecia e quindi può far riferimento agli
dei a cui attribuisce la colpa dell’infelicità dell’uomo (periodo intermedio tra pessimismo storico e
pessimismo cosmico). “Il Bruto minore” e “L’ultimo canto di Saffo” rappresentano le uniche opere
in cui Leopardi pone la soluzione dell’infelicità dell’uomo nel suicidio.
Nelle canzoni “All’Italia” e “Sopra il monumento di Dante” lui polemizza contro la corruzione
morale e civile dell’Italia, che ha perso le antiche virtù. Nelle canzoni “Per le nozze della sorella
Paolina” e “Al vincitore nel gioco del pallone” lui riflette sull’importanza dell’educazione dei figli. In
particolare, nella seconda canzone Leopardi afferma che lo sport è molto importante perché
permette alle persone di confrontarsi con le sue capacità e affrontare meglio la vita. Leopardi
scrive anche la canzone intitolata “Ad Angelo Mai” nel 1820. In questa canzone troviamo la
contrapposizione tra antichi e moderni. Infatti, Angelo Mai è un cardinale che ha scoperto un testo
di Cicerone, da cui Leopardi trae spunto per scrivere la biografia di alcuni poeti, tra cui Ariosto e
Tasso. Ariosto viene definito “poeta dell’immaginazione”; mentre Tasso viene definito un “poeta
moderno” perché ha il coraggio di scrivere poesie partendo dal tema dell’infelicità dell’uomo e
non si lascia ingannare dall’immaginazione. Nella canzone “Nelle nozze della sorella Paolina”,
scritta in occasione del matrimonio della sorella, Leopardi le augura di avere dei figli che amino la
gloria classica, intesa come magnanimità e cortesia. Infatti, lui afferma che è meglio avere figli
infelici ma forti di virtù, che figli felici ma deboli.
Mentre scrive queste canzoni, lui scrive anche gli “Idilli”. Gli “Idilli” sono dette “poesie dell’io”, in
cui Leopardi trae spunto su qualcosa che appartiene alla sua quotidianità per riflettere sul senso
della sua vita. Il termine “Idilli” viene da “idillio”, che deriva dal greco e significa “piccolo quadro
paesaggistico”. Gli idilli sono delle poesie che vengono scritte durante il periodo ellenistico
(intorno al 300 a.C), principalmente da Teocrito che ideava componimenti ambientati in un mondo
pastorale idealizzato o bucolico. Inizialmente il termine “idillio” non indicava la poesia pastorale
ma solamente la brevità dei testi; ma poiché Teocrito divenne famoso per le sue poesie pastorali, il
termine acquistò il significato di una poesia incentrata su una natura serena, pastorale e bucolica.
Il modello teocriteo è stato poi ripreso nella letteratura latina da Virgilio con l’opera “Bucoliche”,
che è un insieme di dieci componimenti di ambientazione pastorale. Leopardi non utilizza gli idilli
per descrivere paesaggi sereni ma per esprimere i propri sentimenti. La differenza sta nel fatto che
gli idilli ellenistici sono molto banali e superficiali, mentre Leopardi alla fine arriva a parlare di sé
stesso. Queste poesie sono quindi poesie soggettive. I critici letterari dividono comunemente gli
“Idilli” in “Piccoli Idilli” e “Grandi Idilli”. Con il primo termine si intendono le poesie che Leopardi
scrive intorno al 1819 come “Infinito” e “Alla luna”; mentre col secondo termine si intendono
quelle poesie che Leopardi scrive intorno 1827-28, come per esempio “Il passero solitario”, “Il
sabato del villaggio”, “La quiete dopo la tempesta”, “A Silvia” e “Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia”. In realtà Leopardi chiama queste ultime poesie col nome di “poesie pisano-
recanatesi”, perché vengono scritte quando il letterato si trovava a Pisa e poi è costretto a tornare
a Recanati.
Nei “Piccoli Idilli” troviamo uno stile delicato, musicale e dolce e la natura viene presentata
positivamente e viene vista come un’amica e l’unica cosa che può confortare Leopardi. Altra
caratteristica dei “Piccoli Idilli” è che questi sono componimenti brevi rispetto alle canzoni civili e
patriottiche, scritti in endecasillabi sciolti con un linguaggio originale e poco solenne.
Nell’”Infinito” Leopardi parla dell’idea di infinito creato dall’immaginazione attraverso sensazioni
uditive e visive. Nella poesia “Alla luna” Leopardi riprende il tema della ricordanza che trasfigura il
reale e lo abbellisce anche se la realtà è triste ed angosciosa. Nell’opera “La sera del dì di festa”
Leopardi parte da un paesaggio notturno lunare ma poi parla dell'infelicità e dell’esclusione della
vita del poeta. Infine, parla del tempo, che cancella ogni traccia dell’azione umana. Nella “La vita
solitaria”, Leopardi raggiunge un momento negativo come nell’”Infinito”. Ne “Il sogno” Leopardi
parla con una fanciulla morta, affrontando i temi della giovinezza e delle illusioni.
I “Grandi Idilli” non seguono più lo schema delle canzoni petrarchesche perché sono canzoni
libere. Infatti, queste hanno strofe libere di diversa lunghezza, senza uno schema fisso e composte
di endecasillabi e settenari liberamente rimati. Inoltre, in queste canzoni cambia la concezione che
Leopardi ha della natura. Tutte le canzoni pisano-recanatesi hanno una caratteristica: sono
formate dalla contrapposizione tra la prima parte, in cui Leopardi descrive l’umanità che è gioiosa
e speranzosa verso il futuro, e la seconda parte, dove troviamo l’accusa di Leopardi nei confronti
della natura matrigna.
Le “Operette morali” sono dei dialoghi ironici e comici, scritti in prosa. Leopardi chiama questi
dialoghi “Operette” perché si ispira allo scrittore greco Luciano II secolo d.C., che anche lui aveva
scritto dei dialoghi in prosa con un linguaggio molto famigliare. Le “Operette morali” sono state
scritte maggiormente intorno al 1822, quando Leopardi torna da Roma, ad eccezione del “Dialogo
tra Plotino e Porfirio”, che viene scritta nel 1827. L’obiettivo di Leopardi è quello di condannare le
credenze popolari. I protagonisti di questi dialoghi sono personaggi inusuali e a volta anche
fantastici o personaggi storici. I temi principali sono: l’impossibilità del piacere, il dolore, la noia, i
mali dell’umanità. Nel “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”, troviamo
l’attesa dell’anno che verrà e speriamo che sarà migliore ma questa è solamente un’illusione. In
questo brano Leopardi incita l'uomo a non credere che l'anno prossimo sarà meglio di quello
passato.
Dopo il 1830 compone il “Ciclo di Aspasia”, che è composto da cinque poesie incentrate sull’amore
che Leopardi prova nei confronti di Funny Targioni Tozzetti, che è una donna aristocratica. Però i
suoi sentimenti non sono corrisposti. “Aspasia” era la compagna di Pericle, statista ateniese sotto
cui Atene raggiunge la sua massima espressione. Aspasia era una donna di falici costumi ma anche
molto intelligente e questo è il motivo per cui Leopardi attribuisce questo soprannome a Funny.
Queste poesie sono anti-idilli in quanto hanno delle caratteristiche opposte dal punto di vista
stilistico e del contenuto rispetto agli idilli e alle canzoni pisano-recanatesi. Infatti in queste poesie
mancano completamente la musicalità del verso. Questo perché la delusione amorosa ha fatto
perdere a Leopardi anche l’ultima speranza di raggiungere la felicità.
Nel 1835, quando Leopardi si trova a Torre del Greco insieme all’amico Ranieri, lo scrittore inizia
ad avere una particolare ostilità per le correnti ideologiche del tempo. In questo periodo tra gli
intellettuali si era diffusa la moda del progressismo, cioè essere aperti al progresso, e dello
spiritualismo, che indica la ricerca dell’uomo di qualcosa che va oltre la sua ragione. Leopardi
condanna entrambe queste due mode perché afferma che il progresso è solamente un inganno
dell’uomo perché la società non può progredire oltre la natura matrigna. Inoltre in questo periodo
Leopardi critica il fallimento dei moti del 1820-21. In particolare lui critica la speranza che l’uomo
ha avuto di eliminare la presenza straniera perché questa speranza è stata solamente un’illusione
e il bene non è possibile. In seguito, in particolare nella “Ginestra” Leopardi non nega più la
possibilità di un progetto sociale.
Per quanto riguarda la disputa tra romanticismo e classicismo, Leopardi si schiera dalla parte dei
classicisti e scrive due opere: “Lettera ai compilatori della biblioteca italiana” (1816) e “Discorso di
un italiano intorno alla poesia romantica” (1818). Nonostante lui si schieri con i classicisti, Leopardi
critica il classicismo accademico, il principio di imitazione, e l'eccessivo utilizzo della mitologia
classica così come hanno fatto i romantici. Nonostante ciò, critica i romantici per l'esaltazione
dell'orrido e della violenza e l'aderenza al vero che esclude l'immaginazione. Quindi Leopardi
sostiene il classicismo però lo interpreta con uno spirito romantico. Per quanto riguarda il
romanticismo, Leopardi rifiuta il romanticismo italiano e si avvicina a quello europeo, accettando
temi quali: l'esaltazione della soggettività, il titanismo, l’esaltazione dei sentimenti,
l'immaginazione ed il dolore.
LETTERA A PIETRO GIORDANO (“SONO COSI’ STORDITO DAL NIENTE CHE MI CIRCONDA”)
In questa lettera rivolta all’amico Pietro Giordano, Leopardi afferma che è così afflitto dalla noia e
dal nulla che non sa neanche come ha la forza di scrivere la lettera. Lui non ha la forza di
desiderare neanche più la morte perché assomiglia troppo alla sua vita a Recanati. Neanche gli
studi gli possono dare sollievo perché ha un problema agli occhi che gli impedisce di leggere.
L’INFINITO (1819)
RIASSUNTO
A Leopardi furono sempre cari il colle solitario e la siepe che impediscono la vista dell'orizzonte.
Ma se si siede e guarda, lui può immaginare grandi silenzi e pace dove il suo cuore per poco non si
spaventa. Non appena sente il vento tra gli alberi, lui confronta l’infinito silenzio a questo suono
ed inizia a pensare all' eterno, al passato, al presente. Così il suo pensiero si perde in questa
immensità e questo smarrimento è piacevole.
ANALISI DEL TESTO
Nella poesia troviamo la massima espressione della “teoria del piacere” e “del vago e indefinito”.
Leopardi sostiene che l'uomo vuole ottenere un piacere infinito ma questo lo può fare solo
attraverso l'immaginazione che deriva da particolari sensazioni visive ed uditive vaghe ed
indefinite. Più la poesia si articola in due momenti:
1. nel primo momento immaginazione scaturisce da una sensazione visiva, cioè l'impossibilità
di vedere oltre la siepe.
2. nel secondo momento l'immaginazione scaturisce da una sensazione uditiva, cioè il vento
tra le piante.
I due momenti della poesia occupano esattamente 7 versi e mezzo ciascuno. Il passaggio da un
momento all'altro avviene nel verso 8 in cui è presente una grande pausa. La pausa serve a
distinguere i due momenti ma sottolinea anche la continuità fra di essi e questo viene ottenuto
attraverso la sinalefe.
L’infinito che Leopardi immagina non deve essere concepito come una dimensione
sovrannaturale. Infatti, l’infinito di cui parla Leopardi è un infinito soggettivo che esiste solo
nell'immaginazione dell'uomo e che deriva da sensazioni fisiche (influenza sensista).
A SILVIA (1828)
RIASSUNTO
La poesia “A Silvia” fa parte delle canzoni pisano-recanatesi. Il titolo ci potrebbe far pensare che la
canzone fosse dedicata ad una donna di nome Silvia, di cui Leopardi era innamorato. In realtà
Silvia era Teresa Fattorini, che era la figlia del cocchiere di famiglia. La famiglia del cocchiere, come
tutte le famiglie che prestavano servizio, viveva in un posto vicino alla reggia di Leopardi. Quando
Leopardi si trovava nella biblioteca, talvolta per riposarsi apriva la finestra e di fronte a lui c’era la
casa del cocchiere e vedeva Teresa che tesseva e cantava. Questo per Leopardi diventa il simbolo
dell’essere umano perché rappresenta quando noi ci illudiamo e ci lasciamo trascinare
dall’immaginazione. Silvia simboleggia la giovinezza, cioè quel periodo della vita in cui l’uomo
pensa, sogna e progetta il futuro. Nei primi trentacinque versi della poesia, Leopardi dice che
l’uomo ha tanta speranza nel futuro. Questi versi sono dedicati all’immaginazione, ai sogni e ad
una vita felice. Invece nella seconda parte, definita parte filosofica, dal verso trentasei in poi,
Leopardi accusa la natura di ingannare l’uomo perché non restituisce poi quello che aveva
promesso all’uomo. Quindi l’uomo viene ingannato dalla natura, che per questo motivo viene
considerata una natura matrigna. In questi versi, Silvia muore a causa della tubercolosi poco prima
che i suoi sogni si possano realizzare. La morte di Silvia rappresenta l’inganno, cioè la morte delle
nostre illusioni e dei nostri sogni. A questo punto l’uomo si rende conto che si è solo ingannato.
ANALISI DEL TESTO
La poesia non è incentrata sulla storia d'amore tra Silvia e Leopardi ma queste due figure sono
legate dalla stessa condizione: essi sono inclusi da giovani ma poi hanno scoperto di essersi solo
illusi. Contrariamente alla tradizione petrarchesca, Silvia non è descritta con molti particolari fisici.
Allo stesso modo anche il mondo esterno non viene descritto minuziosamente. Questo è un chiaro
riferimento alla poetica del vago e dell'indefinito di Leopardi.
La poesia si apre con il canto di Silvia che è un ricordo dell'infanzia di Leopardi. Questo fatto reale
viene però filtrato sulla serie di piani:
filtro fisico Infatti il mondo esterno viene percepito dalla finestra. In particolare la
finestra è un confine simbolico tra il mondo interiore ed il mondo esteriore, tra
l'immaginare ed il reale.
filtro dell’immaginazione Il canto di Silvia spinge Leopardi ad immaginare perché è una
sensazione vaga e indefinita.
filtro della memoria Il canto di Silvia in realtà è un ricordo del passato.
filtro letterario Il canto di Silvia fa riferimento al canto di Circe che viene udito dei troiani
(libro VII Eneide)
filtro filosofico il ricordo del canto di Silvia non può essere portato direttamente in
quanto, nel frattempo, Leopardi ha preso consapevolezza del vero. Infatti, nonostante la
poesia si chiude con l'immagine della tomba, il poeta rievoca per l'intero compimento
immagini felici e vitali.
Per quanto riguarda la struttura formale, il lessico è indefinito, i periodi sono brevi, la metrica è
caratterizzata da un’alternanza di settenari ed endecasillabi senza uno schema fisso.
LA GINESTRA (1836)
Ne “La Ginestra” Leopardi vuole trasmettere il messaggio che di fronte alla natura matrigna
l’uomo non deve chiudersi nel suo individualismo ma deve condividere il proprio dolore ed essere
compassionevole e solidali. In questo possiamo riconoscere il titanismo perché la lotta degli
uomini, che si devono unire, è una lotta titanica contro la natura matrigna. Ne “La Ginestra”
inizialmente Leopardi afferma che nel deserto, che simboleggia il Vesuvio (che da una parte è un
terreno fecondo che permette all’uomo di coltivare, ma dall’altra parte potrebbe eruttare da un
momento all’altro distruggendo tutto) cresce solamente la ginestra, in quanto è l’unico fiore che è
in grado di vivere in quel luogo. In particolare, Leopardi della ginestra esalta alcuni aspetti, tra cui il
profumo, che consola le sofferenze dell’uomo e invoglia l’uomo ad andare avanti, l’umiltà e la
semplicità. La forza dell’uomo e anche della ginestra è l’unione. Successivamente Leopardi critica
la sua società ed il suo secolo, che definisce superbi e sciocchi perché gli uomini pensano che ci sia
una risposta alla vita e che si possa vincere la natura matrigna. Infatti, la natura vede l'uomo come
una formica: così come la formica viene distrutta dalla mela che cade dall'albero, Il Vesuvio
distrugge Pompei ed Ercolano. Leopardi a questo contrappone la vera natura nobile, che consiste
nel prendere coscienza che la natura matrigna esiste ed è la causa delle sofferenze dell’uomo. Di
fronte a questo Leopardi afferma la solidarietà, che il poeta chiama “social catena”. Lui vuole
creare una nuova società, equa, solidale il cui obiettivo non è quello di raggiungere la felicità ma è
quello di confrontare gli altri uomini non aggiungendo altre infelicità. Alla fine, Leopardi si rivolge
alla ginestra, e quindi all’uomo, affermando che ci saranno dei momenti in cui dovranno abbassare
la testa di fronte alle difficoltà della vita ma gli dice che non si dovranno mai piegare di fronte a
qualcuno che li vuole opprimere. Però dice all’uomo anche che non dovrà alzare troppo la testa e
quindi cercare un’entità divina nel cielo che ha causato tutto questo. Infine, conclude che la
saggezza dell’uomo è aver preso coscienza della sua fragilità.