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e cultura scientifico-tecnologica
Indicazioni emergenti da uno studio-ricerca del CNOS
Michele Pellerey
Nel 1.982 il CNOS ha realizzato per conto del Ministero del Lavoro
uno studio-ricerca denominato « La terziarizzazione del secondario e le sue
ricadute sulla cultura matematica, scientifica e tecnologica dei curricoli di
formazione tecnico-professionale ». Vengono qui riassunte le principali indi-
cazioni che emergono da tale lavoro sìa sul versante dell'analisi della situa-
zione, che su quello della proposta innovativa.
Il problema studiato
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poi, in quelli ottanta, a un'urgente domanda di nuova industrializzazione;
e, infine, alla necessità del consolidamento di un diverso sistema industriale
per quelli novanta.
Un esempio classico è dato dall'industria dell'acciaio. Negli anni ses-
santa essa costituì un punto di forza dello sviluppo industriale italiano, oggi,
invece, sta divenendo sempre più appannaggio di altri paesi industrialmente
emergenti come Turchia, Egitto, Taiwan, Korea del Sud. Di fronte a una
concorrenza spietata in questo settore e alla caduta di domanda di acciaio,
occorre passare, se si vuole rimanere agganciati alle nazioni maggiormente
industrializzate, da un'industria di trasformazione a basso valore aggiunto,
che esige una del pari debole e limitata diffusione di competenze professio-
nali, a un'industria avanzata, che fornisce un alto valore aggiunto, ma che,
proprio per questo, implica elevate competenze professionali. Ciò, evidente-
mente, comporta capitali, know how e, soprattutto dal nostro punto di vista,
flessibilità di adattamento dei processi formativi di base e capacità di ripro-
fessionalizzazione degli operatori ai varii livelli.
In questo scenario, le proposte di trasformazione sia dei processi for-
mativi propri della scuola secondaria superiore, sia di quelli del sistema
regionale di formazione professionale sembrano sottovalutare il gap formi-
dabile esistente tra contenuti formativi attualmente presenti nella scuola
tecnico-professionale e contenuti richiesti da questa nuova professionalità.
La richiesta che la nuova industrializzazione segnata dall'influsso del terzia-
rio avanzato pone ai sistemi formativi statale, regionale e privato, implica
in primo ìuogo, a nostro avviso, un profondo ripensamento della cultura
tecnico-scientifica di base. Più specificatamente sì esige un'attenta ricogni-
zione e trasformazione, quando non introduzione ex novo, di discipline come
matematica, fisica, chimica, tecnologìa generale, informatica e telematica.
Comprendere e saper intervenire in modo consapevole ed efficace nell'attua-
le, e soprattutto nel futuro, sistema produttivo e gestionale industriale ri-
chiede una base conoscitiva che va ben al di là di semplici aggiornamenti
contenutistici. È una vera e propria nuova razionalità da promuovere; nuove
capacità intellettuali che da una parte si basano su nuovi concetti, principi
e procedimenti, ma dall'altra anche su nuove modalità di pensiero e di solu-
zione dei problemi. Esplorare, almeno a un primo livello di definizione
questo mondo, per tanti versi poco considerato, è l'obiettivo generale di
questo studio.
Ci si trova evidentemente a un punto di intersezione abbastanza com-
plesso e delicato dì influssi e sollecitazioni che provengono da vari e talora
contrapposti versanti: quello della ricerca scientifica, quello della innova-
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zione tecnologica e industriale, quello del sistema formativo, quello della
cultura di appartenenza. Generalmente le proposte di cambiamento nei pro-
grammi scolastici sono venute o da associazioni scientifiche come l'Unione
Matematica Italiana, o la società di Fisica Italiana, oppure da gruppi di ri-
cerca interni alla scuola. Raramente, a nostra conoscenza, si è cercato di
cogliere in modo più sistemico le istanze provenienti dai versanti sopra
ricordati. Ed è proprio per portate un contributo in giusta direzione, che è
stato prima proposto, poi, sviluppato, questo progetto.
Lo scenario di riferimento
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di riferimenti interpretativi. I cambiamenti interni al settore industriale
sono stati spesso denominati di terziarizzazione, in quanto si sviluppano sul
modello proprio dei servizi, in qualche caso degli stessi lavori di ufficio. A
questa terziarizzazione è stato anche dato l'aggettivo di « avanzata », nel
senso che essa utilizza principi e tecnologie propri dell'informatica e della
telematica. Ma le cose nella realtà dei differenti contesti produttivi sono
assai articolate. Sembra infatti che l'incidenza dell'automazione assuma carat-
teri assai modesti e superficiali in alcune tecnologie, ad esempio quelle del
settore auto, mentre si manifesti incisiva e penetrante in altri, come quello
delle telecomunicazioni e in particolare della telefonia. I robots nel primo
caso, cioè, sostituiscono gli operai nelle lavorazioni, ma non rivoluzionano
la concezione di base del processo produttivo, mentre nel secondo caso è
la stessa progettazione che segue nuovi concetti e principi e innesta nuove
conoscenze scientifiche e tecnologiche, trasformando dal profondo il proces-
so implicato. La terziarizzazione del secondario non risulta così omogenea né
qualitativamente, né quantitativamente.
Esemplare è, d'altra parte, un dato previsionale recentemente prospet-
tato '. Per l'Italia degli anni 90 si prevede un terminale per occupato nel set-
tore impiegatizio, e un tecnico dell'informatica ogni 20 utenti passivi.
Oggi gli impiegati sono circa 5 milioni. Significa quindi che entro una
decina di anni potranno esservi in Italia almeno 4, 5 milioni di utenti pas-
sivi dell'informatica, e circa 250.000 professionisti.
Se questa previsione è vera i problemi della formazione sono davvero
imponenti:
1) dove si addestrano i 4, 5 milioni di utenti passivi? È vero che il
loro costo di addestramento è sempre molto ridotto?
2) dove sì addestrano i 250.000 professionisti dell'informatica?
1
M. RICCIARDI sul n. 19 (1983) di Economia, istruzione e formazione professionale dedi-
cato a «Nuove tecnologie, organizzazione del lavoro, professionalità emergenti».
2
Cfr. ad es.: A. RUPERTI, ibidem.
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vero che il sistema formativo e scolastico è altamente vischioso e resistente
al cambio. Esigenze immediate e di medio periodo poste dalle trasforma-
zioni in corso non potranno così essere soddisfatte che in tempi lunghi.
Come ha reagito o reagisce a questa realtà la scuola e la formazione pro-
fessionale?
I dati raccolti e che riguardano nel complesso il sistema scolastico e
formativo italiano, indicano una preferenza ancora assai accentuata di atten-
zione al settore industriale a scapito dì quello terziario. Una parte dello
spazio lasciato libero è occupato da iniziative formative a carattere comple-
tamente privato. D'altro canto le timide innovazioni intraprese concernono
soprattutto il settore dei servizi. Scarsa considerazione è stata rivolta alle
esigenze della terziarizzazione avanzata del settore industriale. Si prospetta
quindi un compito assai vasto e complesso di riconversione dei processi
formativi. Purtroppo i tempi non solo stringono, ma per molti versi sono
già superati. Se questo è un dato già assai pesante e fonte di preoccupazioni,
ancor più allarmante appare il ritardo raggiunto per quanto riguarda i con-
tenuti stessi dell'apprendimento, L'analisi, infatti, delle trasformazioni tec-
nologiche e organizzative in rapido corso di attuazione evidenzia un vasto
ambito di conoscenze e di abilità operative che ormai entrano a far parte della
domanda di professionalità, come componenti essenziali. Noi ci limitiamo,
come già accennato, al settore produttivo meccanico e grafico, ma è facile
riscontrare analoghi caratteri di nuova domanda di formazione in altri am-
biti produttivi e occupazionali.
Quali le ricadute sull'insegnamento delle materie scientifiche, della ma-
tematica e della tecnologia? Non sembri questo un indebito allontanarsi dal-
le esigenze immediate della professionalità.
Uno dei caratteri fondamentali della tecnologia moderna è, infatti, la
sua stretta connessione con la scienza. Senza entrare nei dettagli di un'analisi
attenta di queste due realtà, occorre però ricordare che, sebbene esista tra
esse una differenza di natura (la prima ha come obiettivo il progresso della
conoscenza, la seconda la trasformazione della realtà data), tuttavia le loro
interazioni sono assai strette. Ambedue procedono per operazioni (vere e
proprie trasformazioni), dipendono da schemi formali, le loro operazioni sono
ancora tematizzabili (cioè possono formare oggetto di studio ulteriore), sono
generalizzabili e interdipendenti. La scienza d'altronde avanza per l'apporto
tecnologico a lei necessario e la tecnologìa per le nuove informazioni e cono-
scenze che la scienza le mette a disposizione e che essa inserisce nei sistemi
materiali e sociali. La scienza e la tecnologia, d'altra parte, non si occupano
solo di fatti e fenomeni e sistemi materiali, ma anche sociali, economici e
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culturali. Le basi scientifiche della tecnologia sono assai più ampie di quelle
tradizionalmente supposte; esse si estendono non solo alle scienze formali
(logica, matematica e, oggi, informatica e telematica) e sperimentali (come
fisica e chimica), ma anche alle nuove scienze, quelle appunto che studiano
i sistemi sociali, culturali, economici, ecc.
Così le basi della nuova organizzazione del lavoro si possono trovare
in approfondimenti scientifici di tipo matematico (teoria dei grafi) e infor-
matico (teoria dei sistemi e degli algoritmi).
L'impressione che si ricava dall'analisi dei programmi e dalle proposte
di innovazione avanzate è che l'impostazione dell'insegnamento della mate-
matica, della fisica e della chimica e delle altre scienze sia poco coerente
con questa stretta connessione e interdipendenza tra scienza e tecnologia.
Anche nella configurazione delle guide curricolari relative alle fasce di pro-
fessionalità le varie discipline scientifiche sembrano essere un trasferimento,
spesso materiale, di programmi e metodi tradizionalmente presenti nei corsi
degli Istituti Professionali e Tecnici. Questi d'altra parte si presentano sta-
tici e superati, anche da un punto di vista scientifico.
La ricerca, oltre alla documentazione raccolta per quanto concerne i
programmi attualmente in vigore, e quelli proposti in vista di prossime rifor-
me o innovazioni, ha voluto controllare la situazione da almeno due altri
punti di vista: quello dei libri di testo e quello delle attese o delle esigenze
degli insegnanti.
Per il primo punto di vista è stata svolta un'accurata analisi dei con-
tenuti attualmente sviluppati nei libri di testo più diffusi e del peso loro
dato nella trattazione. È stata anche inclusa, per un confronto critico, una
comparazione riassuntiva dei syllabus inglesi attualmente in vigore per un
livello di scolarità paragonabile a quello di fine biennio di scuola secondaria
superiore o fine corsi di formazione professionale. È stata data una parti-
colare enfasi all'analisi dei contenuti di matematica per alcune ragioni impor-
tanti. In primo luogo questa materia appare sempre più cruciale negli svi-
luppi di un'autentica acquisizione di conoscenze e capacità in campo sia
scientifico, sia informativo. In secondo luogo, perché da rilevazioni sempre
più accurate appare che l'acquisizione di concetti, principi e procedimenti
matematici sia in Italia assai debole, limitata e chiusa alle applicazioni.
Per il secondo punto di vista è stato predisposto, sulla base delle ana-
lisi precedenti, un dettagliato questionario articolato secondo discipline sco-
lastiche e secondo ordini di scuola (Istituti Tecnici e Centri di Formazione
Professionale). Questo questionario è stato validato in base a un limitato
tray-out. Esso è però ora disponibile per un'indagine sistematica ulteriore.
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Non era d'altra parte pensabile giungere a livelli più avanzati di indagine
dato il tempo e le risorse disponibili.
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sistematica e completa degli interi processi di produzione, e di lavorazione
e dei sistemi di gestione e di organizzazione del lavoro. Esemplare è la situa-
zione della tecnologia grafica.
La domanda di formazione nel campo informatico è semmpre più insi-
stente e condizionante, ma la capacità di inserimento di concetti, princìpi,
procedimenti di questo tipo informatico nei processi di insegnamento è lenta,
faticosa, in molti casi praticamente inesistente. Occorre una vera e propria
riconversione del personale docente, ma da una parte questo personale pre-
senta resistenza elevata ad accettare questa nuova scienza, dall'altro mancano
riferimenti sistematici e produttivi ai quali affidare la riconversione. Nei casi
più vivaci, poi, sembra che ci si attesti più su una trattazione informatica
come insieme di tecnologie che come un quadro di conoscenze e metodologie
necessarie per affrontare e risolvere problemi. Ciò porta a distorsioni nel-
l'immagine stessa dell'informatica, ma soprattutto non favorisce lo sviluppo
di quelle capacità, appunto, che sono richieste dalle trasformazioni tecnolo-
giche in corso.
Questo ci porta immediatamente alla questione dell'insegnamento della
matematica. Sono presenti ancora contenuti del tutto superati, come l'intro-
duzione delle tabelle trigonometriche e logaritmiche; dominano impostazioni
logkiste e sintetiche, di fronte alla richiesta esplicita di capacità rappresen-
tative analitiche e di soluzione di problemi. Geometria analitica, teoria delle
funzioni e delle loro rappresentazioni, trasformazioni geometriche sono tra-
scurate, spesso spostate a collocazioni indebite, talora inesistenti. Permane
un'immagine della matematica chiusa nella sua torre d'avorio, tutta attenta
a preziosismi terminologici e a pulizia di scrittura. Non si accetta una mate-
matica come strumento intellettuale di somma potenza per rappresentare e
risolvere i problemi posti dalle applicazioni scientifiche e tecnologiche.
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e propria costruzione di modelli, grafici, simbolici e fisici, che utilizza da
una parte concetti, principi e procedimenti propri delle varie scienze, del-
l'informatica e della matematica, e dall'altra rispetta le esigenze del proble-
ma da affrontare e risolvere.
La seconda sta nella capacità di argomentare a partire da queste rap-
presentazioni, per comprendere, modificare e migliorare il processo model-
lato, sapendo controllare i risvolti operativi e concreti di tali discussioni e
modificazioni nel modello.
La terza sta nel saper interagire con processi tecnologici o sistemi so-
ciali per vìa indiretta, cioè attraverso la loro rappresentazione e traduzione
in sistemi di segni adeguati.
Tutto questo significa stimolazione e costruzione di processi cognitivi
specifici, che risultino poi altamente disponibili nel corso di tutta l'attività
intellettuale e pratica.
Questi cenni sommari segnalano immediatamente gli sviluppi possibili
per rendere la ricerca più completa e atta al trasferimento di nuove informa-
zioni al sistema formativo concreto. Ciò può essere fatto almeno in due
direzioni. La prima riguarda una più attenta e sistematica verifica delle
attese e dei giudizi dei docenti nei riguardi dell'insegnamento della propria
disciplina e, parallelamente, delle attese e dei giudizi di altri docenti dì altre
discipline e utilizzatori pratici, nei riguardi della stessa disciplina. La secon-
da concerne un'attenta rilettura dei contenuti delle varie discipline, in parti-
colare matematica, fisica, chimica, informatica e tecnologia, per elaborare un
impianto culturale di base, come fondamento di ogni professionalità emer-
gente. Sì tratta di identificare una rete concettuale sufficientemente com-
pleta e significativa, un insieme di capacità intellettuali e pratiche ad essa
connesse e un quadro di atteggiamenti che ne condizionano e sostengono la
validità ed efficacia.
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Formazione
al ruolo professionale
e cultura matematico-scientifica
Michele PeUerey
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emerge proprio dalla condensazione di un insieme di attese circa la possi-
bilità-capacità di rispondere, da parte di un individuo, alle esigenze di un
sistema sociale dotato di queste caratteristiche.
Viene superata, così, Ja visione assai riduttiva propria di un'imposta-
zione basata sul concetto di mansione. Nella piccola industria e nell'artigia-
nato, però, soprattutto in alcuni settori, non è stato tanto un principio di
organizzazione tayloristica del lavoro, principio più funzionale, d'altronde, a
un'industria di serie, che ha determinato nel passato l'emergenza di mansioni
parcellizzate e gerarchicamente strutturate, quanto una lenta evoluzione par-
tita dalla figura dell'artigiano e quindi da una professionalità di mestiere,
radicata in una elevata capacità individuale di intervento tecnico-operativo
sull'oggetto e sulle modalità di una sua trasformazione. Nei Centri di for-
mazione si può spesso constatare quanto sia presente ancora un'impostazione
di formazione professionale di mestiere, più che di ruolo. L'assunzione di
questa prospettiva viene giustificata con l'avvallo di molti datori di lavoro
e dì operatori di aziende locali sia artigiane che piccolo-industriali, con la
constatazione che questa, appunto, è anche nel futuro la caratteristica della
professionalità artigiana. Occorre quindi, proprio per la delicatezza del pro-
blema, approfondire un poco la questione.
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di partire dall'elaborazione di un progetto, che prefigur" non solo il prodotto
finale, ma anche il processo di produzione e il controllo/regolazione del pro-
cesso stesso. È la logica del progetto che sottende tutte le fasi e i procedi-
menti che verranno messi in opera, logica, però, da assumere in senso flessi-
bile, perché occorrerà saper valutare continuamente i risultati parziali otte-
nuti nelle varie fasi per adattare le azioni e le scelte alle esigenze che man
mano emergeranno. Per questo si distinguono generalmente 3 momenti o
livelli: quello del design (o del progetto), quello dell'implementation (o della
realizzazione) e quello dell'evaluation, detta anche quality control, (valuta-
zione/regolazione o controllo di qualità). In sintesi:
Controllo
Al livello del design vanno poste anche altre due fasi: una precedente,
dell'analisi; e una susseguente, dello sviluppo. La prima garantisce un'ade-
guata base informativa circa le reali esigenze progettuali, l'altra la prefigu-
razione di concreti procedimenti attuativi del progetto. In molti casi è pro-
babile che la fase di analisi debba tener conto di un rapporto dialettico ri-
volto sia verso l'interno, e che tiene conto delle possibilità e delle limita-
zioni del sistema sociale produttivo, sia verso l'esterno, e che interagisce
con la committenza. Quanto alla fase di sviluppo, essa implica una program-
mazione nei tempi e nelle forme dei vari momenti del processo di produ-
zione. Questa fase deve tener conto anche dei modi di organizzazione con-
creta del lavoro, di una definizione abbastanza precisa dei caratteri, che l'og-
getto in lavorazione dovrà avere in uscita/entrata dai diversi momenti lavo-
rativi, più che di norme/divisioni operative di lavoro. Questo perché la ten-
denza in atto porta a una suddivisione in unità produttive gestionali per
funzioni o cicli di lavorazione. All'interno di ogni unità produttiva e gestio-
nale si manifesta una certa flessibilizzazione e rotazione dei lavoratori. Questo
è vero a tutti i livelli di grandezza, sia artigianale, sia di piccola, media o
grande impresa.
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oggetto (finito o semilavorato), che soddisfi alle caratteristiche del progetto
e dello sviluppo predisposti all'interno di una unità operativa e gestionale.
Alla base di questa assunzione di responsabilità sta una capacità di diagnosi
continua e corretta del processo e del prodotto in lavorazione per prevenire
e riportare i parametri del processo e del funzionamento degli impianti e
quelli del prodotto a norma. Ciò a sua volta implica capacità e atteggiamenti
adeguati nella prefigurazione del processo e del prodotto, in un'azione-con-
trollo-adattamento efficiente ed efficace.
Come già accennato, invece, un concetto di tecnologia tradizionale im-
plica una professionalità di mestiere, intesa, certo, in senso ampio e profon-
do, come quello proprio di una tradizione artigiana che in Italia ha una
lunghissima storia. In questa fase di transizione verso una tecnologia mo-
derna, occorrerà porre attenzione a tale trasformazione per accoglierla in
maniera adeguata nel processo formativo. D'altra parte è facile cogliere un
compito di simulazione e dì analogia che deve assumere il Centro di forma-
zione professionale: accettare cioè nella sua stessa organizzazione formativa
e gestionale i principi fondamentali di una tecnologia moderna e di un de-
centramento organizzativo del processo per unità operative-gestionali e per
momenti lavorativi unitari, che prefigurano parametri prestabili, sia per il
prodotto che per il processo, tenuto conto delle risorse interne e delle
richieste esterne e di un continuo controllo/regolazione del processo for-
mativo.
Abbiamo già ricordato come per ruolo professionale si intenda spesso
il complesso di attese, che un sistema sociale e/o produttivo complesso ha
nei riguardi di chi si deve assumere il compito di organizzare e controllare
un segmento della sua realtà; e come altri, contrapponendo l'idea di man-
sione (o di insieme di mansioni elementari affidabili a un individuo) a quella
di ruolo professionale, abbiano definito quest'ultimo come: « ciò che cia-
scuno fa nelle sue relazioni con gli altri, visto nel contesto del suo signifi-
cato funzionale per il sistema sociale ». Da questa definizione appare già un
elemento centrale: il cogliere l'attività lavorativa nel contesto più generale
del sistema produttivo e in riferimento al sistema di relazioni sia istituzio-
nali che interpersonali in esso presente. Tuttavia un ruolo professionale per
essere inteso in senso pieno deve includere tre componenti fondamentali.
a) Il compito, o i compiti lavorativi affidabili a un soggetto, visti in
relazione alla totalità dei compiti lavorativi presenti nel sistema produttivo.
Ciò implica da parte del lavoratore la capacità dì comprendere il sistema e
cogliere se stesso come una sua componente essenziale, discriminandone la
specificità (funzioni professionali).
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b) Le relazioni sia interpersonali che istituzionali che il soggetto deve
essere in grado di sviluppare e gestire per portare a termine in modo valido
e fecondo i suoi compiti lavorativi (relazioni professionali).
e) Il sistema di significati che il soggetto lavorativo deve essere in grado
di dominare e attribuire alla sua attività, alle persone con cui entra in rap-
porto, al sistema produttivo e sociale di cui fa parte, còlto nella comples-
sità della situazione storica, sociale e territoriale (senso e motivazioni pro-
fessionali).
È utile aggiungere che tutto questo va posseduto in maniera cosciente,
e ciò è evidentemente incluso nelle esigenze sopra delineate, e flessibile, in
quanto dinamicamente aperto all'adattamento progressivo, alle trasformazioni
sociali e tecnologiche.
Un processo di formazione professionale al ruolo assume quindi il signi-
ficato di progressivo passaggio da una situazione di orientamento e di aper-
tura fondamentale verso la professionalità a un'assunzione degli attributi, che
congiunti in modo valido e fecondo, permettono l'acquisizione e l'esplica-
zione di un ruolo professionale vero e proprio. Questi attribuiti vengono
denominati competenze professionali.
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di gruppo, di un rapporto a monte e a valle della fase-sottofase con altre
unità operatìve-gestionalì, di capacità di controllo-regolazione-manutenzione
ordinaria. Quanto all'insegnamento della tecnologia, viene dato un modello
discendente progressivo, che parte da una visione generale e dinamica a una
più particolare e specifica, relative alle operazioni incluse nell'attività della
propria specializzazione. Tuttavia occorre precisare che non si tratta di una
progressione temporale, prima l'una e poi l'altra, bensì di una continua inte-
razione tra comprensione e controllo del processo generale e attività produt-
tiva, gestionale e di controlio-regolazione della fase in cui si esplica la pro-
pria professionalità di ruolo.
Uno dei caratteri fondamentali della tecnologia moderna, lo abbiamo
già accennato, è la sua stretta connessione con la scienza. Senza entrare nei
dettagli di un'analisi di queste due realtà, occorre però dire che sebbene
esista tra esse una differenza di natura (la scienza ha come obiettivo il pro-
gresso della conoscenza, la tecnologia, la trasformazione della realtà data),
tuttavia le loro interazioni sono assai strette. Ambedue procedono per ope-
razioni (vere e proprie trasformazioni), dipendono da schemi formali, le loro
operazioni sono ancora tematizzabili (cioè possono formare oggetto di studio
ulteriore), sono generalizzabili e interdipendenti. La scienza d'altronde avan-
za per l'apporto tecnologico a lei necessario e la tecnologia per le nuove
informazioni e conoscenze che la scienza le mette a disposizione e che essa
inserisce nei sistemi materiali e sociali. E questo è l'ultimo elemento che
vorremmo sottolineare. La scienza e la tecnologia non si occupano solo dì
fatti e fenomeni e sistemi materiali, ma anche sociali, economici e culturali.
Le basi scientifiche della tecnologìa sono assai più ampie di quelle tradizio-
nalmente supposte; esse si estendono non solo alle scienze formali (logica,
matematica e, oggi, informatica e telematica) e sperimentali (come fìsica e
chimica), ma anche alle nuove scienze, quelle appunto che studiano i sistemi
sociali, culturali, economici, ecc. Se la formazione è al ruolo, e il ruolo si
definisce a partire dal sistema sociale produttivo in oggetto, è essenziale al-
lora l'apporto di conoscenze relative ai sistemi sociali produttivi, e quin-
di ai sistemi sociali, economici, culturali che ne fanno da sfondo e con-
testo.
Nei Centri di formazione professionale, tuttavia, si ha l'impressione
che l'impostazione dell'insegnamento della matematica, della fisica e della
chimica, ma anche quella della cultura generale, sia poco coerente rispetto
a questa stretta connessione e interdipendenza tra scienza e tecnologia. Le
varie discipline sembrano più essere un trasferimento, spesso materiale, ni
programmi e metodi, tradizionalmente presenti nei corsi degli Istituti Pro-
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fessionali e Tecnici, e oggi del tutto superati nel loro valore culturale e
formativo.
Finora nel discorso non si è tenuto conto, se non implicitamente, del-
l'impatto che l'informatizzazione della società, dei sistemi di produzione, di
gestione e di organizzazione del lavoro ha sulle competenze professionali e
di conseguenza sul ruolo professionale. Basti qui accennare all'influsso, che
il concetto di informatica distribuita, sta avendo sulla strutturazione delle
aziende, Si tratta della costituzione di una rete interconnessa di unità auto-
nome periferiche, che vengono coordinate e gestite da un riferimento cen-
trale, oppure che trovano nel rapporto reciproco una dinamica integrazione.
La tendenza al decentramento e al coordinamento dinamico porterà a una
diminuzione del numero degli operatori presenti in ciascuna azienda, che sarà
economicamente e giuridicamente autonoma, e di conseguenza a una loro
perdita di potere contrattuale e sindacale. Questa frammentazione in aziende
di consistenza più ridotta è resa possibile dalla rete di interconnessione for-
nita dalla telematica. Questo sommario panorama sottolinea alcune esigenze
nuove poste al sistema di qualificazione professionale. In particolare occorre
qui ricordare quello che diverrà sempre più un obiettivo formativo di estre-
ma importanza, obiettivo alla base di ogni possibile ulteriore processo edu-
cativo. L'uso delle macchine automatizzate a controllo digitale porterà inevi-
tabilmente a frapporre tra attrezzature e uomo il momento rappresentativo
del processo di trasformazione degli oggetti, siano essi pezzi propri di un
ciclo di produzione meccanica o grafica. Non si interagisce direttamente con
le macchine, controllandole e regolandole in modo continuo, bensì con un
sistema regolativo formalizzato e dotato di un suo linguaggio. Si predispone
un programma esecutivo, lo si verifica, e quindi lo si introduce nel processo
produttivo realizzato dalla macchina. Occorre cioè impostare un processo
seguendo la logica propria dell'automa esecutivo e interagendo secondo il
linguaggio formalizzato che tale automa è in grado di comprendere. Si comu-
nica mediante istruzioni formalizzate, sempre più complesse, istruzioni che
devono essere interconnesse in un procedimento efficiente ed efficace. Il
punto focale della competenza, direi di buona parte delle competenze pro-
fessionali, sta proprio nella capacità di rappresentare il processo di trasfor-
mazione, che dovrà fare la macchina, nel modificarlo fino a renderlo ottimale
e nel tradurlo in un linguaggio formalizzato.
Questa competenza non può essere sviluppata solo da un docente o da
una disciplina dì studio. È l'insieme del processo formativo che deve essere
attento e sensibile a questa esigenza. Dalla matematica, alla tecnologia, alla
stessa cultura generale.
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2. Quale formazione matematica
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Una seconda impostazione esaspera quella precedente, aggiungendo l'esi-
genza di una rappresentazione simbolica formale dì tutto quanto entra a far
parte dell'impianto assiomatico-deduttivo. È la tesi formalista. Nella sua
forma più chiara essa priva di qualsiasi significato i vari sìmboli matematici
e i vari enunciati vengono ridotti a pure formule,, quale a + b = b + a. For-
mule vuote, non appoggiagli né all'intuizione, né alla costruzione. In questo
modo matematici come D . Hilbert credevano di salvare la matematica da
alcune sue difficoltà interne e darle coerenza come sistema formale, cioè
come insieme di formule, catene di segni, e di regole di manipolazione,
considerato indipendentemente da ogni significato potesse essere loro attri-
buito. La matematica in questo modo è un linguaggio formalizzato, i cui
aspetti grammaticali e sintattici ne costituiscono l'ossatura.
Il progetto di Hilbert è naufragato insieme alla tesi logicista. Ma re-
stano tante negative conseguenze anche sul piano didattico. Tra queste la
soverchia attenzione data alla manipolazione corretta di formule senza signi-
ficato per l'allievo e la puntigliosa esigenza di definizioni precise, stereoti-
pate, espresse spesso in modo inutilmente astratto.
Contro queste due impostazioni sta l'affermazione che ciò che imporca
della matematica non è la formula, l'espressione astratta, bensì la sostanza
dei suoi concetti, il significato dei suoi principi, il senso e ii perché dei suoi
procedimenti, La formalizzazione delle definizioni e delle affermazioni può
essere utile, talvolta è necessaria; ma non può sovrapporsi alla costruzione
dei concetti, dei principi e dei procedimenti in modo chiaro, pregnante, ricco
di ricadute sulla realtà esterna ed interna dell'uomo. D'altra parte lo stesso
linguaggio naturale è più ricco, complesso e fecondo di un qualsiasi linguag-
gio formalizzato, anche se quest'ultimo è più controllato e controllabile.
Esso è certamente indispensabile per discutere, verificare e comunicare le
varie conquiste matematiche e le loro formulazioni astratte, Ma credere di
ridurre la ricchezza, complessità e varietà del pensiero matematico alla sua
sola componente esprimibile in modo logico-formale è privarlo della sua parre
più preziosa e creativa.
La matematica va vista così come una costruzione ricca di significato,
lenta e progressiva, che parte da alcune intuizioni fondamentali: quella del
numero naturale o del discreto e quella dello spazio o del continuo. Nessuna
di queste due intuizioni può essere eliminata. I matematici prima di Pita-
gora tentarono di costruire la matematica basandosi solo sull'intuizione del
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discreto o del numero naturale; ma nella scuola pitagorica ci si scontrò con
un ostacolo insuperabile: come descrivere lo spazio e gli oggetti geometrici
mediante Ì numeri naturali. La scoperta dell'incommensurabile, cioè dell'esi-
stenza di grandezze geometriche, che non hanno un sottomultiplo comune
per quanto piccolo, portò al prevalere dell'intuizione del continuo. Così la
matematica greca seguente cercò di risolvere anche le questioni aritmetiche
mediante la geometria; l'intuizione spaziale sembrava ormai un più serio
fondamento per ogni sviluppo successivo. Di questa tendenza fa fede l'opera
di Euclide. Einstein in un suo ultimo scritto del 4 aprile 1955 parla ancora
di « antico contrasto continuità contro discontinuità ».
Oggi si accetta sempre più, anche in matematica, il principio di com-
plementarità di Bohr, principio per cui il continuo e il discreto sono visti
come due differenti aspetti di un unico e medesimo mondo fisico, entrambi
concorrenti a formare il punto di vista della teoria fìsica. A seconda cioè del
tipo di problemi che si affrontano in matematica, ci si impegna a impostare
il discorso sulla base dell'esistenza del continuo geometrico, o a considerare
l'esistenza e la computabilità nel senso del discreto numerico.
E qui sono necessarie due considerazioni particolari: l'una riguarda lo
sviluppo attuale della matematica sotto la spinta dell'informatica; l'altra il
posto ove collocare la teoria degli insiemi, e più in generale la logica, sìa
essa più o meno formalizzata. Uno degli effetti che lo sviluppo vistoso del-
l'informatica può avere sulla matematica sta nel sottolineare, e forse esaspe-
rare, i suoi aspetti algoritmici. Buona parte dei. concetti matematici, infatti,
può essere definita in termini di procedimenti mentali, traducibili e rappre-
sentabili in successioni ordinate e finite di operazioni. È questa una nuova
spinta alla valorizzazione dell'intuizione del discreto. Questa, se accompa-
gnata alla svalutazione operata negli anni cinquanta e sessanta dell'intuizione
geometrica dello spazio, nel favorire un approccio algebrico, potrebbe squi-
librare in modo non indifferente non solo l'impianto della matematica, ma
soprattutto quello del suo insegnamento. Occorre allora insistere sull'im-
portanza dì dare un adeguato spazio alla geometria e all'intuizione spaziale.
Quanto all'insiemistica, e in genere alla formalizzazione dell'analisi del
pensiero matematico dal punto di vista logico, la visione complementarista
sopra ricordata, pone la teoria degli insiemi e tutta la logica come scienza
normativa, che regola, cioè, l'uso del linguaggio matematico e fornisce un
efficace controllo critico alla costruzione ed elaborazione delle conoscenze
matematiche. Logica e insiemistica, così, non sono più fondamento della
matematica, ma strumento di analisi del discorso matematico e guida al suo
progressivo sviluppo verso livelli di astrazione più elevati.
44
Una matematica per l'uomo e il lavoratore
45
scienza e tecnologia; strumento di questo rapporto è la comune base di rap-
presentazione e di elaborazione matematica. L'informatica, nata da una lenta
evoluzione di idee logiche e matematiche, rappresenta oggi il più elevato e
compiuto progetto di interscambio a livello conoscitivo e operativo tra cre-
scita del sapere matematico-scientifico e sviluppi tecnologici. D'altra parte
va ricordato come gran parte della conoscenza scientifica si riassuma nella
costruzione, controllo e applicazione di modelli matematici di fenomeni e
situazioni naturalistici, sociali o economici.
46
non era tanto distante dalle tendenze ecologico-osservazioniste rilevabili in
molte scuole.
K. Popper, per convincerci, ci invita a un esperimento. « Il mio espe-
rimento consiste nel chiedervi di osservare qui e ora. Spero che tutti stiate
cooperando, ed osserviate! Ma temo che qualcuno di voi, invece di osser-
vare, provi il forte impulso a chiedermi: " che cosa vuoi che osservi? " ».
Lo stesso C. Darwin si domandava: « Come è strano che nessuno veda che
ogni osservazione non può essere prò o contro qualche teoria... ».
Ma se non si parte dall'osservazione, cioè dal mondo fisico, da dove
inizia il processo conoscitivo? Ecco allora la proposta di K. Popper. Occorre
distinguere fra tre mondi diversi:
a) il mondo 1: quello degli oggetti e dei fenomeni risici (il mondo
reale);
b) il mondo 2: quello del pensiero e della coscienza di ciascuno (il
mondo della cultura come patrimonio personale);
e) il mondo 3 : quello della conoscenza che è stata codificata e viene
trasmessa per mezzo di documenti (il mondo della cultura codificata).
Nella prospettiva di Popper il pensiero scientifico parte dal mondo 3,
cioè dalle teorie scientifiche, che esistono nella cultura codificata e che ven-
gono messe in discussione, che entrano in crisi per qualche fatto nuovo.
La scienza è costituita da un complesso di teorie che hanno il compito di
spiegare fatti e fenomeni noti e di prevedere fatti e fenomeni non ancora
noti. Queste teorie, o alcuni dei loro pezzi, possono entrare in crisi, se non
riescono a spiegare alcuni fatti e fenomeni nuovi e se alcune delle loro pre-
visioni risultano errate. Nasce così un problema scientifico. La molla del
procedimento scientifico quindi non è l'osservazione, ma il problema.
« Potete (...) ottenere qualche risultato di rilievo scientifico, se dite:
" queste sono le teorie sostenute oggi da alcuni scienziati. Esse pretendono
che determinati eventi siano osservabili in determinate condizioni. Vediamo
se è proprio così. In altre parole, solo se scegliete le osservazioni da com-
piere tenendo presenti i problemi scientifici, e la situazione generale della
scienza, sarete forse in grado di dare un contributo a quest'ultima. E l'in-
segnante, il quale suggerisse al giovane scienziato desideroso di fare sco-
perte: " vai in giro e osserva ", darebbe un cattivo consiglio; mentre lo gui-
derebbe correttamente se gli dicesse: " cerca di imparare quali sono i temi
dibattuti oggi dalla scienza e di scoprire dove insorgano delle difficoltà e
interessati delle divergenze di opinione. Sono questi i problemi che devi
affrontare " » (K. Popper).
La conclusione a cui sembriamo sollecitati è questa: la teoria precede
47
l'osservazione; le osservazioni e gli esperimenti sono realizzati, per control-
lare o far luce su una teoria determinata e perciò vanno tenute in conto
solo le osservazioni che sono pertinenti a quello scopo; queste osservazioni
possono confermare o rendere falsa la teoria (o un suo pezzo); una osserva-
zione che contraddice a una teoria genera un problema, mette in crisi la
teoria, costringe a ripensare. Il conflitto è tra mondo 3 e mondo 1.
Il secondo punto, precedentemente ricordato, su cui si fonda una impo-
stazione osservativo-induzionista è questo: l'osservazione costituisce una so-
lida base da cui derivare la conoscenza scientifica. Si può sostenere ciò? E
possibile cioè trovare delle leggi o dei principi di natura scientifica, a par-
tire dall'osservazione? La prima questione che si pone è: quante osserva-
zioni sono necessarie perché si abbia il diritto di affermare che un qualche
principio o una qualche legge vale sempre? Ma per quanto grande sia Li
numero delle osservazioni concordi e differenziato l'insieme delle circostanze
di queste osservazioni, non è possibile ottenere mai una vera certezza. Con-
ferme a una ipotesi derivante da osservazioni ripetute se ne possono trovare
sempre, ma da questo a trarre delle conclusioni definitive ce ne passa.
B. Russel ha fornito una pungente caricatura di questo modo di procedere.
È l'aneddoto del tacchino induttivista.
Fin dal primo giorno questo tacchino constatò che nell'allevamento,
dove era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 di mattina. Da buon
induttivista, però, non volle trarre nessuna conclusione. Attese finché non
ebbe collezionato un gran numero di osservazioni intorno al fatto che veniva
nutrito alle 9 dì mattina ed eseguì queste osservazioni in una vasta gamma
di circostanze, di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi,
sia che piovesse sia che splendesse il sole. Ogni giorno arricchiva il suo
elenco di una nuova proposizione osservativa. Finalmente, la sua coscienza
induttivista fu soddisfatta e concluse: « Mi danno sempre il cibo alle nove
di mattina ». Ma purtroppo questa conclusione si rivelò incontestabilmente
falsa la vigilia di Natale, quando invece di essere nutrito venne sgozzato.
Ma allora come procedere? Come raggiungere una certezza? K. Popper
non ha esitazioni: il tribunale della realtà è inappellabile, solo se condanna
una teoria o un suo frammento. La falsificazione di una conclusione invalida
le premesse. Se l'esperienza contraddice le ipotesi, queste debbono cadere.
Occorre rimettersi in marcia.
Ma, è stato obiettato, anche le falsificazioni possono essere poco atten-
dibili. È bene dare fiducia a una sola osservazione contraria? O ce ne vo-
gliono di più? E quante allora? Non è forse vero che ai tempi di Galileo
la teoria tolemaica aveva più prove di quante non ne avesse quella coper-
48
nicana? E Galileo stesso quante volte si è imbattuto in prove contrarie alla
sua teoria del moto: avrebbe dovuto abbandonarla? Probabilmente né le
verifiche, né le falsificazioni da sole bastano a spiegare la scienza e il suo
progresso. Che cosa garantisce allora la conquista scientifica? Che cosa è il
metodo scientifico?
Non è utile, né necessario sviluppare oltre il discorso. La conclusione
che sembra possibile avanzare è questa: non è possibile descrivere in ma-
niera compiuta, né prescrivere in maniera assoluta un metodo scientifico.
Non esiste il tanto sbandierato metodo scientìfico, L'unica cosa che si può
affermare è che esistono alcuni principi, che permettono di giudicare se un
metodo è più o meno scientifico. Essi offrono alcune garanzie irrinunciabili.
49
4
Diventano cioè di pubblico dominio e possono essere sottoposte a controllo
critico da parte di tutti. Esse potranno essere accettate, o rifiutate. La loro
validità viene esposta alla severa analisi della contraddizione. Il principio
può essere esteso fino ad affermare che la scienza è un bene di tutti, una
proprietà comune. Tutti e tre i principi concorrono a qualificare come scien-
tifica una conoscenza. Da solo ciascuno di essi è insufficiente. Tuttavia essi
possono trovarsi applicati a livelli più o meno esigenti ed elevati. Il pen-
siero scientifico, la conoscenza scientifica si possiede a diversi livelli, ci sono
sfumature, gradi differenti. Questo vale per la scienza nel suo sviluppo sto-
rico, questo vale per ciascun uomo, che si avvicina alla scienza. Dall'infanzia
all'età adulta si passa attraverso varie immagini del mondo, di sé e della
società, ciascuna a un suo grado di rilevanza, consistenza e pubblicità.
Tra il modo di procedere degli scienziati e il modo di procedere degli
insegnanti e degli allievi nel processo formativo esistono analogie e diffe-
renze, anche notevoli. La cosa sarà più chiara utilizzando i tre mondi di cui
parla K. Popper e che prima abbiamo ricordato.
Lo scienziato parte dal mondo delle teorie scientifiche, dalla conoscenza
scientifica già codificata e consolidata. Anzi parte dai problemi che questa
conoscenza scientifica porta in sé, cioè da un dato di crisi interno alle teorie
o fra teorie e fatti e fenomeni. Crisi all'interno del mondo 3 o tra mondo 3
e mondo 1, il mondo della realtà fisica esterna.
Il problema viene poi messo in luce e circoscritto nella sua portata e
nel suo significato. Attraverso un attento confronto, con il contributo già
dato sia storicamente che sociologicamente, il pensiero tenta vie nuove, si
apre a nuovi orizzonti, ipotizza nuovi principi esplicativi. Si tratta di un
dialogo interiore tra mondo 3 e mondo 2, quello della coscienza e del pen-
siero soggettivo.
Si cerca quindi nella realtà fìsica esterna un responso alle proprie con-
getture. L'interazione è tra mondo 2 e mondo 1. Il tribunale della realtà
può dare conferme o falsificazioni. Conferme e falsificazioni più o meno
incisive e ricche di risonanza.
50
Di qui nasce lo stato problematico, che con l'aiuto dell'insegnante deve
essere ben delineato e identificato. Va distinto cioè chiaramente qual è l'ori-
gine del problema e in quali condizioni potremo affermare di averlo supe-
rato, almeno a un livello di plausibilità accettabile.
Il momento successivo è quello del dialogo tra pensiero soggettivo e
mondo 3. Cioè occorre che il giovane entri in contatto con le spiegazioni, le
teorie, le ipotesi che sono state avanzate, o storicamente o sociologicamente,
oppure che sono diffuse nella comunità umana di appartenenza. Ma senza
accettarle acriticamente. Esse vanno accolte come ipotesi di lavoro, come
congetture da sottoporre a un ulteriore controlio. Questo controllo avviene
mettendosi in contatto con il mondo -. Ad esso si pone una domanda, da
esso si attende una risposta. Una conferma o una falsificazione. A un livello
definito di affidabilità e di consistenza.
I principi di metodo scientifico non variano, varia il processo. Perché
nel primo caso si tratta di scoprire davvero qualcosa, nel secondo caso di
conquistare una conoscenza ricostruendola personalmente. La prima è un'av-
ventura dell'umanità, la seconda un'avventura personale. Non illudiamo i
nostri allievi di poter scoprire tutta la scienza da capo.
Traiamo ora alcune prime conclusioni dal discorso fatto.
La prima riguarda il partire dall'osservazione. Già Dewey rifiutava un
certo andazzo dell'attivismo delle scuole « progressive » americane: « Non
c'è da meravigliarsi che questo zelo entusiastico manchi di chiedersi come
e perché l'osservazione abbia valore ... educativo, e che quindi cada nel-
l'errore di fare dell'osservazione un fine a sé stante, accontentadosi, di con-
seguenza, di una qualsiasi specie di materiale in qualsiasi tipo di condi-
zione ». D'altronde: « Il pensiero non tratta con le nude cose, ma con i
loro significati, le loro suggestioni. Senza significati, le cose sono nient'akro
che ciechi stimoli, brutte cose, oppure fonti occasionali di piaceri e di pene... »
e questi significati « hanno origine nelle comunicazioni ».
Ma nell'educazione scientifica, come d'altronde in ogni tipo di educa-
zione sistematica, occorre partire da quanto gli allievi già possiedono, da
quello che hanno già costruito. Essi infatti, a qualsiasi livello di scolarità si
affacciano, portano con sé un insieme di conoscenze, di capacità, di atteggia-
menti e stati emozionali, collegati tra loro e strutturati ad un certo grado di
sviluppo, sia nel senso della ricchezza che in quello della incisività. Questo
bagaglio lo hanno costruito, a partire dalle esperienze scolastiche, dagli influssi
dell'ambiente familiare e sociale, dagli stimoli della televisione e dagli altri
mezzi di comunicazione. D'altra parte il livello raggiunto deve essere supe-
rato, e in ciò sta l'apprendimento. Occorre che la situazione cognitiva degli
51
allievi venga oltrepassata, trasformata, collocata a livelli superiori di profon-
dità e di articolazione. Il mezzo per far ciò è di norma una crisi, o disagio,
che emerge di fronte a una nuova esperienza, una nuova comunicazione, una
riflessione più attenta, che si pone in qualche modo in contrasto con quanto
già coagulato, con gli schemi interpretativi già elaborati, con le teorie già
formate. Si genera così uno stato problematico, di incertezza, analogo alla
scoperta della falsità di un'asserzione e della non applicabilità di una legge,
di una teoria. Ogni nuova conoscenza, ogni nuova strutturazione dell'espe-
rienza nasce da una situazione problematica, da una rimessa in discussione
di ciò che già si possiede.
Queste affermazioni richiamano un altro problema.
Nella formazione di base il pensiero scientifico deve essere visto in una
prospettiva di continuità nei riguardi del cosiddetto senso comune. Esso è
infatti come una evoluzione del senso comune e del suo principale stru-
mento di comunicazione, il linguaggio orale, per mezzo di un'azione di ritor-
no che critica e supera quanto precedentemente acquisito a causa del lavoro
di riflessione. Già perché non è tanto l'agire che produce scienza, quanto il
riflettere sull'agire.
Azione e pensiero devono cioè integrarsi in maniera continua. Si può
rimanere prigionieri della manipolazione, come del puro verbalismo. Pen-
sare e agire possono essere sviluppati e acquistare una validità e produttività
nuove, se a poco a poco acquistano sempre più marcatamente i caratteri della
rilevanza, della consistenza e della pubblicità. Se cioè evolvono verso forme
integrate di competenza scientifica. Competenza, questa, che risulta intrisa
di concetti, capacità e atteggiamenti.
In ciò sta la principale potenzialità educativa della scienza. Questa,
d'altra parte, oggi, nell'elaborare i suoi progetti di ricerca, non può fare a
meno di interrogarsi sugli apporti, che a essa può dare la tecnologia, intesa
nel suo senso più vasto, soprattutto quella segnata dall'informatica. In un
certo senso il cammino dello scienziato è simmetrico a quello dell'operatore
nel mondo della produzione. Quegli, infatti, cerca nella tecnologia il sup-
porto tecnico e organizzativo per il suo lavoro di ricerca, questi cerca nella
scienza il fondamento delle sue trasformazioni dei percorsi e delle strutture
produttive.
4. Conclusione
52
acquisire una competenza tecnica e tecnologica, ma soprattutto aprirsi in
modo serio, responsabile e cosciente all'assunzione dì un ruolo professio-
nale, non rigido e cristallizzato, bensì dinamico ed evolutivo. Non sembra
però che le impostazioni sopra delineate siano sempre e adeguatamente pre-
senti a quanti sono impegnati, sia nella costruzione del percorso formativo
della scuola dell'obbligo, sia di quello postobbliga torio. I curricoli, che via
via vengono prefigurati per la formazione professionale di fascia, sottovalu-
tano, spesso, l'apporto determinante di matematica e scienze alla prepara-
zione tecnologica e pratica. E non si può certo pensare che i programmi di
scienze della Scuola media siano sufficienti a questo scopo; e questo per due
ordini di motivi: il primo riguarda la loro consistenza interna e la loro
apertura alle applicazioni; il secondo l'età degli allievi e il metodo di inse-
gnamento generalmente adottato, Di qui la necessità di un congruo periodo
di sviluppo, consolidamento e integrazione della formazione matematico-
scientifica dopo la Scuola Media.
53
VITA CNOS
Il progetto di ricerca-intervento
"Telematica e nuove
competenze degli operatori
della formazione professionale"
Michele Pellerey
73
del modello informatico nella tecnologia, nella cultura, nella società rende
sempre urgente questo problema. Tuttavia ora si affaccia in modo prepo-
tente un suo sviluppo. La congiunzione tra informatica e telecomunicazioni
ha dato origine non tanto al termine telematica, quanto a un ancora più
specifico modo dì procedere nell'analisi e nella soluzione delle questioni, sia
produttive che di organizzazione del lavoro. Sembrerebbe che la terziarizza-
zione in atto dell'industria abbia preso in un primo tempo alcuni caratteri
propri dell'informatica distribuita, poi altri più specificatamente inerenti al-
l'automazione degli uffici e alla costruzione di reti interconnesse e dinamica-
mente gestite da elaboratori. Tutto ciò rende urgente un passo ulteriore:
verificare quali conoscenze, abilità e atteggiamenti sono iinplicati al fine di
risolvere due problemi:
74
* Ì processi di orientamento e formazione professionale a distanza, ge-
stiti tramite sistemi che includono elaboratori elettronici (centrali e perife-
rici) e reti dì comunicazione.
Gli obiettivi particolari della ricerca partono tutti dalla ipotesi di base,
relativa al carattere paradigmatico dell'off ice-automation nei riguardi dei pro-
cessi di terziarizzazione dell'industria e includono come risvolto operativo
la realizzazione di un pacchetto-intervento formativo, rivolto al personale della
formazione professionale. Essi sono:
In tutti questi casi si cercherà, per quanto possìbile, talora solo in si-
mulazione, di sviluppare un'effettiva realizzazione sia nella fase di ricerca
che in quella di intervento.
75
anche l'organizzazione del lavoro e le competenze conoscitive e operative
richieste a tutti i livelli. Non è più tanto e solo la presenza del calcolatore
o del microprocessore che fa problema, bensì reti interconnesse e gestite da
elaboratori elettronici che permettono il trasferimento di informazioni, co-
mandi e controlli sia all'interno di una azienda, sia tra aziende collegate, sia
tra sistemi produttivi e informativi posti a migliaia di kilometri di distanza.
b) Queste trasformazioni impongono analoghe trasformazioni del siste-
ma di formazione tecnico-professionale, onde conservare il carattere di ana-
logia e/o di simulazione delle strutture formative nei riguardi di quelle pro-
duttive. Ciò è impensabile senza un'adeguata riqualificazione di quanti ope-
rano nei Centri: dirigenti, amministrativi, docenti, ecc.
e) L'ulteriore elaborazione dei profili professionali, che viene così sol-
lecitata, dovrà tener conto in modo selettivo e pertinente di quanto deriva
da questa irruzione di nuove tecnologie e di nuove conoscenze. Tale lavoro
esige collaborazione tra le parti sociali (imprenditori e sindacati), organi di
governo (nazionale e regionale) e responsabili dei processi formativi (Enti,
dirigenti, docenti). A questo fine ognuno dei corresponsabili dovrà in primo
luogo aggiornarsi ed entrare in modo cosciente e flessibile nel mondo del-
l'informatica, della telematica e delle loro applicazioni.
76
5. La realizzazione del primo seminario
77
* Progettazione di aule, intese come laboratori per l'acquisizione e lo
sviluppo della conoscenza, nelle quali siano possibili lavori individuali e di
gruppo, con collegamenti, sia diretti che a distanza, con sistemi informativi
e tecnologie applicative di vario tipo.
* Progettazione di reti locali e distali di modeste proporzioni, tali cioè
da poter essere costruite e utilizzate nel contesto dei Centri di formazione
professionale, ai fini sia di sviluppo e uso di banche di dati, sia di orienta-
mento e formazione professionale.
* Progettazione di sistemi di orientamento e formazione professionale,
anche a distanza, che si ispirino ai principi e alle tecnologie dei sistemi esperti
a struttura modulare.
78
Informazione,
orientamento al lavoro
e nuove tecnologie
Michele Pellerey
1. Introduzione
49
definizione del compito di orientamento, e relative modalità di realizzazione,
dei primi due anni della Scuola secondaria superiore. É infatti in questi due
anni susseguenti la Scuola Media, che si gioca oggi tutta la credibilità di un
sistema formativo istituzionalmente ben strutturato.
Sul piano delle competenze permane la segmentazione tra funzioni sco-
lastiche e professionali dell'orientamento (il D.P.R. n. 6 1 6 / 7 7 e la legge
n. 8 4 5 / 7 8 in questo senso sanciscono una tradizione di « separatezza »), le
cui iniziative vengono frantumate tra circa 800 soggetti distrettuali (con
ruoli di programmazione e gestione) e 20 soggetti regionali (con moli legi-
slativi e promozionali).
A livello centrale, il Ministero del Lavoro sembra oggi escluso da atti-
vità operative formalmente definite, mentre quello della Pubblica Istruzione
è impegnato nella regolamentazione delle funzioni dei distretti, con le diffi-
coltà connesse al problema dì coniugare funzioni programmatone, proprie
di un soggetto promozionale e funzioni gestionali, proprie di un soggetto
giuridico.
Sul piano operativo, dopo lo scioglimento dei Consorzi provinciali e
dell'ENPI e la conseguente dispersione del personale addetto in strutture
ed enti diversi (regioni, provincia, USL...), l'orientamento appare una sorta
di « terra di nessuno », via via esplorata più da iniziative che sorgono per
volontà del cosiddetto civile (associazioni private, organismi internazionali)
o da singoli enti pubblici (comuni, province, comunità montane, università),
che tentano di dare qualche risposta secondo livelli diversificati di vivacità
e di flessibilità istituzionale (A. Augenti e K. Polacek, 1982).
Per quanto riguarda gli obiettivi specifici dell'azione di orientamento
si assiste ad una proliferazione di tendenze e di indirizzi che, nel complesso,
sembrano potersi ricondurre a due impostazioni principali: una, che vorrebbe
privilegiare la qualificazione della capacità e delle propensioni personali;
un'altra, che tenderebbe ad assumere come centrali le variabili socio-eco-
nomiche.
La polarizzazione dell'una o dell'altra ottica contrappone un'azione di
orientamento mirata al processo formativo (con una sostanziale centralità
della scuola), ad un'azione più legata ad una politica attiva della manodo-
pera. Tale polarizzazione appare, a un esame più accurato, perlomeno pre-
testuosa, in quanto le due posizioni trovano una loro validità entro una stra-
tegia integratrice, che concepisce l'orientamento in modo evolutivo, in quanto
si dirige a soggetti che crescono nel tempo e manifestano bisogni di natura
diversa. In sintesi, si può indicare una graduale transizione da una domanda
di formazione generale alla capacità di orientarsi nella società e nel mondo
50
del lavoro e delle professioni; a una domanda molto specifica e puntuale di
informazioni e di esperienze, che consentano una scelta sempre più precìsa
e soddisfacente e un inserimento adeguato nell'attività lavorativa; a una
ricerca di aiuto e sostegno, quando si debba modificare una scelta precedente
per problemi personali o socio-economici.
La soluzione istituzionale dovrebbe essere tracciata tenendo conto in
modo adeguato di queste problematiche. Un utile riferimento potrebbe allora
essere quello indicato dal diagramma seguente:
51
II. Su alcune questioni ancora irrisolte nell'ambito dell'informazione e del-
l'orientamento al lavoro
52
mativi scolastici, con una forte, che implica scelte di vita, di relazione, di
realizzazione di sé. D'altra parte la scelta di un qualsiasi canale scolastico
deve essere sempre subordinata a una qualche percezione d: sé nell'ambito
del mondo lavorativo o professionale.
Ciò risulta ancora più vero, se richiamiamo brevemente gli elementi fon-
damentali, che concorrono nello sviluppo della capacità di scegliersi come lavo-
ratore e di scegliere il campo, nel quale ci si impegnerà nella vita lavorativa.
Tali elementi possiamo raggrupparli secondo tre grandi aree:
53
La società e le varie comunità di appartenenza dei giovani non solo pos-
sono, ma debbono organizzarsi per integrare l'influenza della scuola, della
famiglia e dei mezzi di comunicazione di massa e fornire propri servizi col-
legati con queli offerti dalla struttura scolastica. Questi servizi, però, deb-
bono risultare molto più attenti alle situazioni di fatto, e, quindi, sistema-
ticamente e seriamente riferiti alle possibilità e alle necessità del territorio,
di quanto non possa fare per sua natura la scuola.
In sintesi: alla scuola e alla formazione professionale certamente com-
pete fornire una cultura sul e del lavoro in termini generali, e questo pur-
troppo oggi la scuola non fa e non sembra volere, nonostante fragili ed epi-
sodiche iniziative. Ciò è dovuto in gran parte all'attuale sua organizzazione
interna e alle effettive competenze culturali e professionali dei suoi inse-
gnanti. I n particolare essa può contribuire, soprattutto attraverso la testimo-
nianza e la sollecitudine dei docenti, visti come adulti responsabili e maturi,
a una crescita nella capacità non solo di leggere e interpretare la realtà, ma
anche di scegliersi e di scegliere la propria collocazione nel mondo e nella
società.
Tuttavia la scuola dovrà aprirsi molto di più e desiderare l'intervento
integrativo dì altre forze a essa esterne, che le offrano quello che essa non
può dare, e cioè: informazioni, conoscenze, quadri di riferimento, capacità
decisionali, confronti sistematici, percorsi formativi direttamente riferiti alla
scelta personale di un ruolo lavorativo e professionale collocato in un luogo
e in un tempo specifici. L'attuale attività dei distretti, d'altra parte^ non
sembra né adeguata, né congruente con questa domanda di orientamento, in
quanto da una parte essa è sbilanciata sul versante psico-attitudinale e, dal-
l'altra, rimane episodica (spesso limitata addirittura al solo termine della
scuola media).
Qui si apre un vasto campo di intervento delle Regioni, degli altri enti
locali e delle vaste organizzazioni intermedie presenti sul territorio, per rea-
lizzare una rete vasta e ben distribuita di servizi specifici e di servìzi inte-
grativi, e talora sostitutivi, di quelli statali, troppo spesso inadeguati non
solo nella loro realizzazione pratica, ma nella loro stessa impostazione gene-
rale. Basti qui ricordare la situazione della scuola secondaria superiore e le
attuali proposte di innalzamento dell'obbligo scolastico, spesso al di fuori di
ogni coerente quadro prospettico relativo proprio alle questioni dell'orien-
tamento.
54
2. La domanda di orientamento: sua vastità e complessità
55
avendo completato le più urgenti e impegnative cure rivolte alla propria
prole, intendono aprirsi, magari in forma ridotta, ad attività lavorative loro
confacenti. Queste, da una parte non hanno potuto seguire le evoluzioni
delle richieste di professionalità, dall'altra la loro formazione di base si è
completata molto tempo prima e probabilmente non ha consentito loro di
acquisire un quadro significativo della struttura e organizzazione attuale del
mondo del lavoro e delle professioni e delle opportunità che esso offre.
Un'ulteriore fascia assai complessa, ma altamente impegnativa, è costi-
tuita da soggetti che si trovano in particolari condizioni di difficoltà, più o
meno per loro colpa. Tra questi i rinchiusi in case ài pena, che escono o
stanno per uscire da esse, avendo completato il loro periodo detentivo; co-
loro che rientrano da altri paesi, a causa delle trasformazioni economiche dei
paesi ospitanti o per ragioni personali; coloro che hanno avuto esperienze di
tossicodipendenza, di abbandono o di emarginazione di qualsiasi tipo; i sog-
getti portatori di handicaps fisici, sensoriali o mentali.
Infine, non può essere trascurato quell'insieme, sempre più numeroso,
di cittadini che, ormai al limite della pensione, guardano al loro futuro con
inquietudine. Gran parte di essi entra nello stato di quiescenza in un'età an-
cora assai valida e ricca di esperienze e di energie, un po' per effetto del-
l'abbassamento dei limiti per l'età pensionabile, ma soprattutto per le poli-
tiche di prepensionamento negli ultimi anni. Gran parte di questi cittadini
è desiderosa di trovare ancora forme di impegno e di occupazione, magari
parziali e integrative, oppure occasioni di studio e di perfezionamento delle
proprie conoscenze e competenze. Inoltre sembrerebbe esistere una certa
possibilità di impiego sociale in contesti e situazioni assai adatti per persone
di una certa età e esperienza.
L'analisi sommariamente delineata fornisce un sufficiente quadro indi-
cativo della vastità e complessità della domanda di orientamento, domanda
d'altronde che non è caratterizzata solo da supposte attitudini o preferenze
professionali, bensì da ben più ricche e articolate componenti personali e
sociali. È evidente che i servizi necessari a rispondere in maniera adeguata
a questa domanda esigono ben diverse strutture e competenze di quelle nor-
malmente riscontrabili oggi nelle iniziative presenti sul territorio.
56
profonde dei singoli, e sostenitori del momento oggettivo e sociologico, e
cioè della necessaria delimitazione delle scelte individuali sulla base dello
stato del mercato lavoro e delle professioni, occorre richiamare e chiarire
alcuni elementi centrali di ogni processo decisionale, in particolare nel set-
tore professionale. Infatti, se certamente si parte sempre dal soggettivo in
ogni attività dì acquisizione della conoscenza e di elicitazione di decisioni,
lo sviluppo e il valore di queste è dato per la più gran parte dalla capacità
di adeguare la propria struttura conoscitiva e il proprio sistema decisionale
alla realtà culturale, sociale e professionale del mondo in cui si vive. Certo
in maniera critica e consapevole, ma non per questo in modo meno attento
e cosciente della complessità e difficoltà delle situazioni di fatto ed evolutive,
Il processo decisionale è d'altra parte costituito nella sua essenza dalla
progressiva canalizzazione della volontà verso una scelta, scelta che avviene
in seguito alla percezione di più alternative, o di un conflitto di possibilità,
e dopo un loro attento esame e valutazione di coerenza o congruenza con un
quadro di riferimento progettuale o valoriale. Tale scelta implica come con-
seguenza un impegno a lungo termine e talora una faticosa acquisizione
degli elementi necessari ad assolverlo validamente. Quanto più, quindi, una
scelta è strategicamente importante per la vita del singolo, tanto più occorre
fare attenzione a tutte le componenti interne ed esterne che ne favoriscono
o inibiscono il carattere prudenziale e responsabile.
Tra le componenti essenziali di un maturo atto decisionale si possono
segnalare:
57
Da quanto accennato deriva abbastanza chiaramente il ruolo di media-
zione che ciascun soggetto deve operare, in base alla propria maturità e com-
petenza decisionale, tra un quadro realistico di conoscenze e informazioni,
che si condensano in una pluralità di possibilità e di alternative, e il quadro
culturale, valoriale e progettuale posseduto. Il processo educativo familiare,
quello scolastico, quello realizzato dalle altre agenzie formative, come quelle
religiose e associazionistiche, possono e debbono contribuire in maniera con-
vergente alla crescita e maturazione delle capacità decisionali, dell'autonomia
e della sicurezza emotiva. La scuola, in particolare, ha ruoli decisivi, se rea-
lizzati, nello sviluppo del patrimonio culturale e delle capacità cognitive di
base. Altre fonti e agenzie informative e formative, anche interne alla scuola
e alla formazione professionale, ma soprattutto esterne a esse, devono aiu-
tare a sviluppare un'acquisizione continua, pertinente e valida di informa-
zioni e conoscenze sulle possibilità lavorative e professionali, su dove e come
raggiungerle, sui percorsi formativi che possono condurre in modo più con-
sono e consistente a esse.
L'ultimo punto va inteso in modo ciclico o ricorrente, nel senso che
cultura e maturità personali possono essere viste a una certa età come un
dato acquisito secondo un certo livello; mentre una visione realìstica delle
alternative professionali, implica un percorso esplorativo fatto di iniziali pre-
ferenze, controllo critico delle implicazioni personali, sociali, di studio e di
carriera di queste, ricerca di opzioni alternative, o di riserva, ecc. Insomma,
la scelta è preceduta da un periodo di orientamento progressivo ed è intrin-
secamente, soprattutto in questo campo, connessa con margini di rischio e
di incertezza più o meno consistenti. Di conseguenza richiederà la presa in
considerazione anche di scelte di ripiego.
58
lavoro, possibilità di elaborare sistemi interattivi, in cui il cliente utilizza il
computer, per maturare la propria scelta professionale (cioè il computer al
posto del consigliere d'orientamento) » (G. Milanesi, 1985).
In effetti il primo campo, quello della costituzione di banche di dati
relative al mercato del lavoro, alla sua evoluzione, soprattutto a livello ter-
ritoriale, alle possibilità di istruzione e di formazione presenti in esso, al-
l'esistenza e alle modalità di svolgimento di concorsi pubblici o privati per
posti di lavoro o per borse di studio e di perfezionamento, ecc., sta riscuo-
tendo anche in Italia un certo interesse e si ha notizia di iniziative signifi-
cative nel settore. Si è così spesso parlato di osservatori sul mercato del la-
voro a livello nazionale e regionale, osservatori che raccolgano in modo dina-
mico le informazioni sull'occupazione, sulle professioni emergenti e in de-
clino, sulle prospettive di lavoro a breve e medio termine, ecc,
Più recentemente ci si è rivolti al complesso delle informazioni che pos-
sono essere utili o necessarie ai giovani per organizzare la loro vita, per fare
le loro scelte di lavoro o di tempo libero. Un censimento dei Centri di infor-
mazione per i giovani, fatto nel 1985, ne contava ventuno già in funzione
o in via di realizzazione (R. Bassoli, 1985). Molti di questi utilizzano come
strumento fondamentale per svolgere la loro attività di servizio basi di dati
computerizzate. Ad esempio l'Osmeg (Osservatorio Metropolitano Giovani)
della Provincia di Milano ria aperto al pubblico due sportelli informativi su
supporto elettronico, chiamati « Informshop », che consentono l'accesso a
due banche di dati specìfiche, riguardanti le opportunità sociali e culturali
per Ì giovani di 18 paesi europei e i concorsi pubblici e parapubblici nel-
l'area della regione Lombardia. Tali sportelli dispongono dì un servìzio dì
posta elettronica e sono collegati con i servìzi Televideo della RAI e Videotel
della SIP. Il Centro Informagiovani di Torino sta lavorando per la costitu-
zione di una banca dati sull'orientamento e la formazione professionale.
Queste iniziative si basano su uno degli sviluppi più significativi delle
nuove tecnologie, quello appunto che consente il reperimento, la memoriz-
zazione e l'aggiornamento dinamico di masse di dati, masse strutturate in
modo logicamente coerente, al fine di permetterne un'adeguata utilizzazione
nei vari campì applicativi.
Tuttavia nel paesi dove queste esperienze sono già state fatte e nelle
situazioni in cui tali metodologie sono state utilizzate, ci si è imbattuti presto
in una duplice difficoltà. Da una parte, per accedere alle informazioni di cui
sì sente il bisogno, occorre un'adeguata conoscenza della logica secondo la
quale le informazioni sono state raccolte, codificate e conservate; dall'altra,
le informazioni che sì ottengono, anche quando sono pertinenti, nulla dicono
59
sulla affidabilità o sulla loro validità interna o esterna. Ad esempio, nel caso
di una banca dati relativa a studi e ricerche sul mondo giovanile, si potrà
avere un complesso anche imponente di notizie e di riferimenti; ma spesso,
senza un accesso diretto alle fonti, sarà difficile, sulla sola base degli elementi
ivi contenuti, poter giudicare della fruibilità e del valore di quanto segna-
lato. Resta, comunque, il fatto positivo, che almeno si può pervenire alla
conoscenza dell'esistenza di tali lavori.
Questa osservazione è tanto più importante, in quanto nel caso del-
l'orientamento, se l'informazione è necessaria, essa tuttavia non è sufficiente
senza una metodologia di interpretazione e, ancor più, una capacità di usarla
a fini decisionali entro un quadro di riferimento più generale, sia culturale
che valoriale. Nei precedenti paragrafi se ne è discusso ampiamente. DÌ qui
l'esigenza di passare a uno stadio più evoluto di utilizzazione delle nuove
tecnologie.
60
e qualificati possono essere rivolti a soggetti che presentano problematiche
più complesse.
Nei due punti sopra descritti sono contenute proposte che possono
essere integrate in un unico sistema di consulenza automatizzata. Per rendere
evidente l'idea che è alla base dell'ipotesi di progetto, è opportuno riportare
quanto realizzato per l'orientamento e l'assunzione presso la Marina degli
Stati Uniti d'America. Questo sistema viene denominato « Computerized
Vocational Guidance System for Navy Recruiting » (Sistema computerizzato
di orientamento professionale per il reclutamento in Marina) ed è composto
da nove moduli coordinati (H. G. Baker 1985).
61
* Modulo 9: Valutazione del sistema; viene somministrato un que-
stionario per sapere dal soggetto le sue impressioni e valutazioni sul sistema
usato in modo da poterlo migliorare progressivamente.
62
umano (sia in termini di risultati che di prestazioni), emulandone il processo
decisionale, in quanto è capace di gestire esplicitamente un vasto corpo orga-
nizzato di conoscenze in un'area ben definita (T. M. Lazzari e F. L. Ricci,
1985).
Il sistema esperto instaura un colloquio con l'utente tramite un'inter-
faccia in linguaggio naturale, o in forma a esso molto vicina ed esegue dedu-
zioni (inferenze) relativamente a un caso in esame, secondo le conoscenze
sul dominio precedentemente memorizzate. In tal modo esso arriva interat-
tivamente a esprimere un parere sul caso stesso e a suggerire le azioni da
intraprendere.
Inoltre, ìl sistema fornisce spiegazioni su come ha raggiunto determi-
nati convincimenti e sul perché è interessato a particolari informazioni.
Un altro aspetto importante è quello di permettere l'evoluzione della
sua base di conoscenza sul dominio, senza dover riprogrammare il sistema;
in tal maniera esso può variare le funzioni che svolge allo stesso modo del-
l'esperto umano.
Essi sono capaci di proporre un insieme di consigli o di soluzioni, che
l'utente dovrà valutare autonomamente, in aggiunta a pareri ricavati con altri
mezzi. Essi sono infatti sistemi di aiuto alla decisione, e non possono certa-
mente sostituirsi all'utente nel suo processo decisionale, né pretendere dì for-
nire conclusioni assolute o definitive. Il sistema, infatti, raggiunge una con-
clusione al meglio che può, in base alla quantità e alla qualità delle infor-
mazioni disponìbili al momento sul singolo caso; esso dovrebbe sollecitare
l'utente a riutilizzarlo, quando quest'ultimo avrà raccolto nuovi dati più pre-
cisi, poiché con nuove informazioni si ottengono in nuove consultazioni pa-
reri più utili e affidabili. Solo nel caso limite in cui l'informazione fosse
troppo carente, il sistema non può raggiungere un risultato soddisfacente.
63
a) la base di conoscenze a lungo termine, che è costituita dai concetti
e dalle regole che sono proprie al campo di applicazione considerato;
b) un algoritmo molto generale, detto anche motore inferenziale, che
è la concretizzazione del metodo di ragionamento;
e) la base di conoscenza a breve termine, costituita dalle informazioni
relative al singolo caso.
A queste tre componenti si aggiunge generalmente un sistema di inter-
rogazione o interfaccia utente, che realizza in concreto il dialogo che inter-
corre tra chi utilizza il sistema esperto e il sistema stesso e un generatore
di rapporti, che produce la relazione finale relativa al caso affrontato. Ne
risulta uno schema generale di questo tipo:
Ingegnere dell a
conoscenza
''
Base di conoscenza
r
Dialogo di '
Macchina inferenziale
consultazione
i. i '
Generatore di rapporti
64
Un secondo modulo include in forma adatta il complesso di operazioni
logico-inferenziali e di esplorazione-verifica, che sono necessarie per un uso
valido e produttivo della base di conoscenze e di informazioni contenute nel
primo e che permettono di compiere una scelta.
Un terzo modulo potrebbe assumere, ed è il nostro caso, caratteri dia-
gnostico-prescrittivi, nel senso che favorirebbe l'evidenziazione dello stato di
conoscenza e di orientamento presente nel soggetto, suggerendo, in base alla
situazione riscontrata, piste di lavoro, di esplorazione, ed eventualmente, di
formazione, oppure orientamenti precisi quanto al lavoro o alla professione
a cui avviarsi.
Un quarto modulo includerebbe la simulazione dell'esperto consulente
che guida il soggetto nella diagnosi, nella individuazione del percorso da
seguire, nell'uso della base di conoscenze e di informazioni secondo l'insieme
di regole contenute nel secondo modulo. È quanto prima si definiva sistema
di interrogazione o di dialogo.
Un quinto modulo dovrebbe raccogliere e coordinare in modo organico
gli elementi raccolti durante la consultazione e produrre un rapporto di con-
sulenza scritto da dare all'interrogante.
65
JV. Conclusione
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68
STUDI
21
segnalati per impostare un'azione formativa, che sia contemporaneamente si-
stematica, congruente e feconda. D'altra parte l'uso della stessa espressione
« formazione », richiama sia il termine tedesco parallelo, e più complesso, Bil-
dung, sia quello greco paideìa\ espressioni che integrano gli aspetti istruttivi,
anche in senso operativo, con quelli più generali rivolti all'educazione della
persona nel suo complesso (Klafki, 1967; Bombardelli, 1985). Vedremo come
quest'ultima istanza viene oggi ripresa nella prospettiva di una nuova centrali-
tà del « soggetto » lavoratore non solo nell'azione formativa, ma anche nell'at-
tività produttiva1.
Il discorso verrà articolato in tre parti. Nella prima si tenterà una chia-
rificazione, certamente ancora parziale e provvisoria, sull'identità della forma-
zione professionale nel contesto dell'evoluzione tecnico-produttiva e organizza-
tiva attuale del lavoro. L'accento verrà posto sulla preparazione del personale
che non è destinato a compiti dirigenziali e manageriali. Nella seconda parte
si awierà un'analisi della struttura dell'azione formativa, struttura a nostro
avviso complessa e multidimensionale. Nella terza si descriveranno nei loro
aspetti più fondamentali le fasi che caratterizzano un'azione formatrice siste-
matica, finalizzata e consistente.
Prima parte
IDENTITÀ DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE
1
W. Klafki (1967, 96) afferma che la BUdung è diretta allo sviluppo della capacità di gestione della
vita nella sua complessità e di conseguenza deve prendere in considerazione tutte le dimensioni dell'uomo,
compresi il sentimento, la fede, l'originalità, ia spontaneità.
22
competenze lavorative. Era un apprendimento per la vita. Oggi l'apprendi-
mento professionale è coestensivo all'esperienza attiva del lavoratore. I termi-
ni sono rovesciati: è una vita per apprendere. Basti pensare ai tumultuosi an-
ni ottanta. La terziarizzazione dei ruoli nelle industrie ha proceduto a passi
da gigante, richiedendo modifiche non solo operative, ma anche di identità
personale, di soddisfazione professionale, di motivazione, oltre che di svilup-
po di conoscenze e di processi cognitivi fondamentali.
Si è iniziato così a definire « formazione professionale di base » non già
quella formazione iniziale che introduce in un settore lavorativo e fornisce gli
elementi costitutivi essenziali di una professionalità spendibile in quel settore,
bensì lo sviluppo di certi processi interni, di competenze pratiche e di speci-
fici atteggiamenti di fondo, che costituiscono come il nucleo portante di ogni
professionalità e che esigono un continuo adeguamento e sostegno, per tutta
la vita lavorativa. Non si tratta di competenze specifiche, di abilità connesse
con il posto di lavoro occupato o con quello a cui si mira, bensì dì qualcosa
di più generale, assimilabile a un fondamento sul quale poggiare ogni adatta-
mento alle situazioni lavorative concrete, che però le attraversa tutte ed esige
al pari delle competenze specifiche un continuo impegno di crescita e inte-
grazione,
Questa prospettiva sembra trovare conferme significative dal carattere
non solo pratico-operativo delle trasformazioni tecnico-organizzative del lavo-
ro, bensì spesso profondamente culturali e cognitive. Ad esempio il rapporto
uomo-macchina presenta sempre più chiaramente caratteri di novità che im-
plicano competenze culturali e cognitive di ordine assai diverso dal passato,
in quanto basato non più su comandi e controlli manuali, bensì codificati in
una forma linguistica artificiale. Così le esigenze di un'organizzazione delle
imprese a rete comportano non piccole, né superficiali modifiche culturali e
comportamentali sia a livello imprenditoriale, sia a livello di lavoratore dipen-
dente. Ciò è particolarmente chiaro nel caso delle imprese artigiane. Per esse
è necessario che gli stessi addetti, oltre che gli imprenditori, acquisiscano
presto una capacità di cogliere il significato di un sistema reticolare e di rap-
portarsi con esso in modo coordinato e fecondo, così da attivare in gruppi
di aziende che operano nello stesso settore adeguate sinergie e presentarsi sul
mercato come una struttura dinamica, flessibile e integrata.
L'assunzione dì questa distinzione permette l'individuazione dì due di-
mensioni della realtà della formazione professionale nella sua prospettiva di-
namica: una orizzontale che si articola in formazione di base e formazione
23
legata al posto di lavoro; l'altra verticale che si articola in formazione iniziale
e formazione continua (Fig. 1.1).
Formazione Formazione legata
di base al posto di lavoro
Formazione
iniziale
Formazione
contili uà
24
formative più complesse e comprensive, che in un persona adulta si potreb-
bero in gran parte considerare giunte a sufficiente maturazione. Tra queste
emergono in particolare: uno sviluppo più elevato e controllato di processi
cognitivi generali; una costruzione più vasta e significativa di reti concettuali
al fine, da un lato, di dare senso alla realtà e all'esperienza sociale, personale
e professionale; dall'altro, di comprendere in modo adeguato fenomeni e si-
tuazioni del mondo fisico naturale e artificiale; un'integrazione personale ed
emozionale che permetta un equilibrato scambio comunicativo e validi rap-
porti interpersonali; capacità di giudizio e di scelta nella complessità delle si-
tuazioni di vita e di lavoro.
Questa multidimensionalità formativa è stata talora contestata in quanto
non direttamente rapportabile alla formazione professionale vera e propria,
bensì all'azione educativa scolastica, la cui obbligatorietà deve raggiungere il
sedicesimo anno di età. Se ciò verrà realizzato, si riproporrà il problema del-
la formazione professionale iniziale diretta a questo tipo di soggetti, in quan-
to certamente si attenuerà una più specifica esigenza di formazione personale
e culturale. Ma sempre fino a un certo punto, in quanto l'acquisizione delle
competenze richieste per assumere un ruolo professionale definito non può
più essere ormai ridotto all'acquisizione di capacità lavorative, direttamente
ed esplicitamente rapportate a una o più mansioni legate a uno specifico po-
sto di lavoro. Di più, lo sviluppo di una carriera professionale e la tendenza
a potere o dovere sperimentare nel corso della propria vita attiva uno o più
cambiamenti di lavoro, implicherà sempre un'attenzione particolare alla pro-
mozione di quella formazione professionale di base a cui abbiamo sopra ac-
cennato. Inoltre il possesso reale di una professionalità aperta a sviluppi e
approfondimenti futuri coinvolge comunque una maturazione del soggetto dal
punto di vista culturale, sociale e personale.
D'altro canto è ormai comune nelle analisi dei processi formativi rivalu-
tare il ruolo del soggetto, cioè della persona che deve rapportarsi con la tec-
nologia, che deve affrontare mutate condizioni relazionali, che deve interio-
rizzare nuovi valori di riferimento, in sintesi: una nuova qualità della vita di
lavoro. Scrive Gian Piero Quaglino: « In realtà una formazione che dimentica
i suoi soggetti non è ben chiaro come possa ottenere risultati: né come, né
quali, né per chi. Il recupero del soggetto del processo educativo diviene al-
lora per la formazione stessa un atto di valore e, contemporaneamente, il
passaggio obbligato per il recupero della capacità di esprimere valori. Tecno-
logia sofisticata (attrezzatura e teoria) ed espressione di valori sono del resto
intimamente complementari:...» (Quaglino, 1985, 28).
25
Successivamente lo stesso Autore, scrivendo insieme a G. Varchetta, ri-
badiva: «Il riferimento al soggetto conferma anzitutto la convinzione che oc-
corra spostare la definizione degli obiettivi della formazione dai contenuti ...
ai destinatari: la centralità del soggetto esprime l'idea che il territorio della
formazione deve misurare i suoi confini non tanto rispetto alle 'cose da im-
parare' quanto piuttosto rispetto alle 'persone che imparano' » (Quaglino-
Varchetta, 1988, 14).
Se questo è vero nell'ambito della formazione manageriale rivolta a sog-
getti adulti, quanto più lo è nelle azioni formative rivolte a soggetti in età
evolutiva o giovanile, con un minor retroterra culturale e destinati ad una
carriera lavorativa assai meno ricca di stimoli rivolti alla loro crescita persona-
le e sociale.
Per chiarire ulteriormente il discorso avviato è utile ricorrere a un dia-
gramma esplicativo (Fig. 1.2).
Settore B \
Comp etenze professionali
da includere negli obiet
tivi fonativi del Centro
Settore A Settore C
Conoscenze, abilità Obiettivi formativi
e attegq aienti da acquisire riguardanti la formazione personale,
sul aosto di lavoro sociale e culturale generale
necessaria per allievi della
formazione professionale iniziale
~ig. 1.2 - Diagramma esplicativo dei rapporti esistenti tra formazione professionale iniziale e sviluppo di
competenze riferite a u n o specifico posto di lavoro
26
Il grafico o diagramma comprende due cerchi intersecantesi nel settore
B. H primo cerchio, che include i settori A e B, comprende l'insieme delle
competenze professionali, che costituiscono le caratteristiche di una figura
professionale, quale può essere rilevata tenendo conto sia delle specifiche si-
tuazioni lavorative, sia della loro evoluzione tecnologica e organizzativa.
Il settore A rappresenta l'insieme di conoscenze, abilità e atteggiamenti,
che solo nel contesto specifico di un posto di lavoro concreto è possibile ac-
quisire o che dovrebbero essere oggetto di una formazione continua in servi-
zio. Si tratta di competenze professionali contestualizzate a un ruolo lavorati-
vo considerato all'interno di un'azienda particolare. Questo settore include,
quindi, aspetti di una concreta professionalità che non è possibile, né utile,
promuovere nell'azione formativa dei Centri di formazione professionale. Ciò
che da questi, invece, è necessario promuovere, è l'acquisizione della capacità
di trasferire e contestualizzare le competenze, che sono state oggetto degli
obiettivi formativi del Centro, alle diverse situazioni lavorative ed essere di-
sponibili a quelle iniziative di formazione ricorrente che si renderanno nel se-
guito necessarie a causa dei mutamenti tecnologici e organizzativi del lavoro.
Di qui l'importanza di visite e di stages presso aziende specifiche del settore
professionale.
Il settore B del grafico comprende quelle competenze professionali che
costituiscono il cuore o la radice della professionalità implicata dalla figura
professionale studiata. Esse, di conseguenza, costituiscono anche la base por-
tante della formazione professionale iniziale diretta all'acquisizione di quella
qualificazione. Esse, quindi, devono essere adeguatamente esplicitate e tra-
sformate in obiettivi formativi specifici dell'azione formativa.
Il secondo cerchio comprende i settori B e C. Esso Ìndica il complesso
di conoscenze, capacità e atteggiamenti che debbono costituire il quadro de-
gli obiettivi formativi relativi a una particolare qualifica professionale.
Del settore B si è già detto. Il settore C del grafico include gli apporti
di natura culturale, di crescita personale e sociale che sono necessaria inte-
grazione non solo del complesso delle competenze professionali, ma dell'inte-
ro processo di formazione iniziale, in quanto diretto a sviluppare una profes-
sionalità di ruolo posseduta soggettivamente e non solo considerata come si-
stema di attese di un sistema sociale e produttivo. Nel caso di allievi ancora
in età evolutiva, questo settore include anche componenti di sostegno alla lo-
ro più generale maturazione culturale, personale e sociale.
Questo quadro di riferimento permette un'immediata estensione del di-
scorso al caso della formazione continua vista sia nella sua componente di
27
sviluppo degli elementi di base della professionalità, sia in quella di adegua-
mento costante alle esigenze e richieste emergenti sul posto di lavoro. Occor-
re però rilevare come in Italia non esista ancora nessuna regolamentazione né
per legge statale, né per leggi regionali della formazione continua dei lavora-
tori. La gravità di questa carenza deriva dall'essere H processo di formazione
continua dei lavoratori un diritto dovere sia di questi, sia della stessa comu-
nità nazionale o regionale, oltre che a costituire l'indispensabile supporto di
ogni ipotesi di sviluppo della società e del mondo del lavoro.
28
re più un « posto » che un « lavoro », cioè a trovare più sicurezza e stabilità,
che ad aprirsi a una carriera e crescita professionale. Quest'atteggiamento, se
comprensibile in situazioni di disoccupazione o di instabilità economica, lo è
molto di meno nell'attuale situazione di molte zone d'Italia, ma soprattutto
in vista degli sviluppi futuri del mondo del lavoro e delle professioni; co-
munque manifesta una carenza di apponi formativi e orientativi.
Centrale in quanto prima esposto risulta un processo decisionale costi-
tuito nella sua essenza dalla progressiva canalizzazione della volontà verso
scelte che si attuano in seguito alla percezione di alternative, o di un conflit-
to di possibilità, e dopo un loro esame e valutazione di coerenza o con-
gruenza con un personale quadro di riferimento progettuale o valoriale, pos-
sibilmente reso esplicito nel corso e per merito dell'intervento formativo. Tale
scelta implica come conseguenza un impegno a lungo termine e talora una
faticosa acquisizione degli elementi necessari ad assolverlo validamente. Quan-
to più, quindi, queste scelte risultano strategicamente importanti per la vita
non solo lavorativa del singolo, tanto più occorre fare attenzione a tutte le
componenti interne ed esterne che ne favoriscono o inibiscono il carattere
prudenziale e responsabile.
D'altro canto una visione realistica delle alternative professionali e delle
possibilità di carriera che ciascuna di esse permette di intravedere, implica
un percorso esplorativo fatto di iniziali preferenze; di controllo critico delle
conseguenze personali, sociali, di studio e di carriera; di ricerca di opzioni
alternative o di considerazione di soluzioni di ripiego e di future transizioni,
ecc. Insomma, le scelte in ordine alla propria identità professionale e allo svi-
luppo della propria carriera sono precedute da un periodo di orientamento
progressivo e sono intrinsecamente connesse, soprattutto in questo campo,
con margini di rischio e di incertezza più o meno consistenti. Per questo oc-
corre da una parte rimanere disponibili verso soluzioni transitorie, ma, dal-
l'altra, valorizzare e conservare vivo in sé un certo spirito di avventura, cioè
di apertura verso strade e itinerari che non sono ancora del tutto conosciuti
e controllabili nei loro esiti finali.
Tra le componenti essenziali di un maturo atto decisionale si possono,
quindi, ricordare;
a) una visione realistica delle cose;
b) un'attività creatrice, proattiva e che si esprime in atti innovativi e
originali;
e) un progetto di vita o piano esistenziale, in gran parte concretizzazio-
29
ne di un concetto di sé e del proprio futuro, ispirato a modelli culturali sto-
ricamente e socialmente collocabili;
d) un'autonomia personale adeguata;
e) un'apertura alle esperienze, al nuovo, frutto di personalità flessibile,
disponibile e aperta;
fi sicurezza emotiva;
g) sviluppo mentale e culturale adeguato.
Quanto ai fattori esterni ricordiamo Ì due principali:
a) l'ambiente culturale, sociale e famigliare di appartenenza;
b) il gruppo sociale o di pari nel quale si è inseriti.
Da quanto accennato deriva abbastanza chiaramente il ruolo di suppor-
to educativo che con continuità e in maniera diffusa deve certamente essere
presente a tutti i livelli scolastici, ma che si deve manifestare specialmente
nelle azioni formative. È evidente quindi che la dimensione «orientamento
professionale» appare come una dimensione essenziale dello stesso concetto
di formazione professionale e come tale deve entrare a far parte di ogni atti-
vità formativa, soprattutto se iniziale.
Questa riconsiderazione dell'orientamento come centrato sul soggetto in
formazione, sia iniziale sia continua, non significa negare il valore dell'appor-
to di servizi ad hoc o di personale particolarmente esperto nel seguire e con-
sigliare i singoli o i gruppi nello sviluppo delle proprie scelte, soprattutto là
dove si esigano prestazioni di tipo specialistico, sia diagnostico che terapeuti-
co. Il ricorso a queste prestazioni sembra più significativo e produttivo se av-
viene nel contesto e in stretta connessione con le azioni formative progettate
e attivate.
A questo impegno orientativo, data la sua importanza, complessità e
diffusità, è evidente che debbano concorrere tutte le persone che partecipa-
no, a vario titolo, all'azione formativa. Tuttavia sembra del pari evidente che
debba essere presente sia nella sua fase progettuale che di attuazione qualcu-
no che se ne assuma un compito propositivo e di coordinamento, garanten-
do non solo l'attenzione, ma anche la validità e la fecondità delle iniziative
predisposte. In fin dei conti è come se si considerasse l'orientamento come
una componente dell'azione formativa, che necessita certamente di un appor-
to collettivo, ma implica la presenza di chi se ne assuma una più diretta re-
sponsabilità e ne abbia una più precisa competenza, anche per discernere fin
dove è possibile intervenire in forma normale e collettiva e quando è neces-
sario, invece, ricorrere a servizi specialistici e individualizzati.
Occorre riconoscere, infine, l'esistenza di un ruolo di guida e sostegno
30
nei processi di inserimento nel primo lavoro o nella transizione da un lavoro
a un altro. Come già rilevato, la formazione iniziale non può coprire tutte le
componenti implicate dall'inserimento in uno specifico contesto di lavoro.
Chi si inserisce per la prima volta in un'azienda, o passa da una a un'altra
azienda, si trova di fronte a specifiche esigenza di adattamento non tanto e
non solo sul piano delle abilità e della competenze lavorative, quanto più
profondamente su quello della propria identità, dell'immagine di sé come
persona e come lavoratore e della capacità di controllare dal punto di vista
cognitivo l'ambiente in cui si deve operare. Nel periodo pre-lavorativo posso-
no essere stati costruiti un'immagine di sé e un quadro del posto di lavoro
non completamente congruenti con la realtà, di qui la possibilità di conflitti
interni e di tensioni esterne che possono essere più o meno agevolmente su-
perati per giungere a una più matura consapevolezza delle proprie risorse e
delle esigenze di uno specifico posto di lavoro.
Tali conflitti o tensioni, in sé inevitabili, possono essere ricondotti a
normali esigenze di adattamento nella stessa fase formativa per mezzo di op-
portune visite e esperienze di stages presso aziende. Tuttavia in molte circo-
stanze, a esempio quando siano mancate esperienze previe dirette dell'am-
biente di un lavoro, quando il processo formativo è attivato in diretto e
stretto rapporto con l'attività lavorativa, quando il soggetto presenta particola-
ri difficoltà di adattamento, è ovvio che si manifestino particolari esigenze di
guida a sostegno da parte di persone esplicitamente preparate e destinate a
svolgere questo compito.
31
la responsabilità dell'attore viene giudicata» (ibidem). Nell'ambito professio-
nale esso viene spesso identificato con le attese che un sistema produttivo
complesso ha nei riguardi di chi deve assumere il compito di organizzare,
gestire e controllare un segmento della sua realtà. Un ruolo professionale sa-
rebbe quindi definito a partire dalla considerazione dell'intero sistema pro-
duttivo, considerato nella sua complessità, cioè ivi incluso il sistema di rela-
zioni istituzionali e interpersonali che esso implica.
Questo approccio lascia però un pò a desiderare nella prospettiva sopra
delineata, prospettiva che intende valorizzare maggiormente la soggettività del
lavoratore, rispetto alla sola oggettività del sistema produttivo. «La rivoluzio-
ne dei sistemi sociali complessi di questo decennio è infatti decisamente mar-
cata [dal riferimento al soggetto]... Il suo tratto distintivo è l'aver recuperato
al soggetto il ruolo centrale nella realtà e nella comprensione della realtà del-
l'organizzazione » (Quaglino, 1988, 114).
In questa prospettiva il concetto di ruolo professionale deve integrare in
modo dinamico e sinergico tre componenti fondamentali:
a) H compito, o i compiti lavorativi affidabili a un soggetto, visti in re-
lazione alla totalità dei compiti lavorativi presenti nel sistema produttivo. Ciò
implica da parte del lavoratore la capacità di comprendere il sistema e coglie-
re se stesso come una sua componente essenziale, discriminandone la specifi-
cità (funzioni professionali).
b) Le relazioni sia interpersonali che istituzionali che il soggetto deve
essere in grado di sviluppare e gestire per portare a termine in modo valido
e fecondo i suoi compiti lavorativi (relazioni professionali). Questa compo-
nente è particolarmente importante nel caso in cui il sistema di produzione
esiga un continuo interscambio di informazioni e di verifiche.
e) Il sistema di significati che il soggetto lavorativo deve essere in grado
di dominare e attribuire alla sua attività, alle persone con cui entra in rap-
porto, al sistema della situazione storico-evolutiva e territoriale (senso e moti-
vazioni professionali).
È utile aggiungere che tutto questo va posseduto in maniera cosciente,
e ciò è evidentemente incluso nelle esigenze sopra delineate, e flessibile, in
quanto dinamicamente aperto all'adattamento progressivo alle varie spinte tra-
sformative.
In una prospettiva un poco differente ma non incoerente con questa
impostazione, Quaglino (1985, 77) evoca tre ambiti differenziati di riferimen-
to al soggetto: l'area del lavoro, quella del ruolo, quella del sé. Nella sua ter-
minologia l'area del lavoro « riguarda in senso stretto il contesto dell'attività
32
professionale del soggetto (insieme dei compiti, contenuti del lavoro) »; quel-
la del ruolo « costituisce un più ampio riferimento alla posizione occupata
dal soggetto rispetto al contesto di lavoro ovvero alla contemporanea molte-
plicità di posizioni rispetto ad un contesto di rete di ruoli »; l'area del sé
« rappresenta un riferimento ancora più ampio in cui convergono elementi
professionali ed elementi personali del soggetto >>.
Un processo di formazione professionale centrato su un concetto di
ruolo, ampio come quello sopra descritto, ovvero tale da includere le aree
sopra ricordate, esige il progressivo passaggio da una situazione di orienta-
mento e di apertura fondamentale verso la professionalità a una acquisizione
di quelle qualità o disposizioni che congiunte in modo valido e fecondo per-
mettono l'acquisizione e l'esplicazione di un ruolo professionale vero e pro-
prio. Queste qualità o disposizioni vengono comunemente denominate com-
petenze professionali.
Una competenza professionale è, dal nostro punto di vista e in estrema
sintesi, la capacità di compiere una certa attività lavorativa, o un compito la-
vorativo globale, in modo tecnologicamente e operativamente valido e pro-
duttivo, in modo socialmente congruo e fluido, in modo cognitivamente e af-
fettivamente adeguato e aperto. Una competenza professionale assume cioè le
stesse dimensioni, o componenti, del ruolo professionale, ma contestualizzate
in modo più pertinente e preciso.
A sua volta una competenza professionale deriva dall'integrazione dina-
mica di conoscenze, abilità e di atteggiamenti. Conoscenze relative a fatti,
concetti, principi e teorie; abilità di natura pratica e intellettuale; atteggia-
menti riferiti sia al lavoro inteso nella sua globalità e specificità, sia alle rela-
zioni sociali, interpersonali e istituzionali, sia alla percezione di sé, del grup-
po e della comunità più vasta.
Quaglino (1985) insiste, richiamandosi a un contributo di Burgoyne e
Stuart (1987), sullo sviluppo di una specifica qualità: la capacità di controlla-
re i processi di acquisizione di conoscenze, abilità e atteggiamenti. Tale at-
tenzione per quella che è stata chiamata la metacognizione, cioè la capacità
di comprendere, valutare e controllare i propri processi cognitivi e affettivi, è
oggi particolarmente evidente non solo nella ricerca, ma anche nell'imposta-
zione dei vari programmi formativi. Occorre dire che nel campo della forma-
zione professionale è stato compiuto ancor poco progresso in questa direzio-
ne, ma certamente si apre, di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso,
un ampio spazio di studio e ricerca di come poterli dominare da un punto
di vista più elevato e, per giungere a questo, sono essenziali capacità di ordi-
33
ne superiore, quelle appunto che vengono denominate meta-qualità o meta-
disposizioni 2
Seconda parte
L'AZIONE FORMATIVA
2
Alla problematica dello sviluppo della capacità di regolazione dei processi interni, anche di natura
metacognitiva, è dedicato l'intero n. 3 del 1990 della rivista « O tiene amenti Pedagogici».
34
to nelle disposizioni o nelle capacità umane che persiste nel tempo e non è
semplicemente ascrivibile al processo di crescita» (Ibidem). Da questo punto
di vista la didattica viene allora concepita come una scienza pratica che stu-
dia le mediazioni che legano i processi di insegnamento a quelli di apprendi-
mento.
Quindi, se per l'azione formativa tale spazio costituisce il campo nel
quale essa si esplica, da questo pure dipende la sua validità e fecondità. Es-,
so quindi appare come l'oggetto principale di studio e di progettazione siste-
matica da parte dei docenti, ed è in esso che si può cogliere o meno la coe-
renza delle decisioni che vengono prese, coerenza in riferimento ai traguardi
formativi intesi e allo stato di preparazione degli allievi. D'altro canto tale
spazio non è solo il campo d'azione del docente, ma, come già ricordato,
anche quello del discente e si costituisce, quindi, come l'ambiente, o « me-
dium », culturale e relazionale di un'azione reciproca.
35
L'agire dell'uomo in quanto uomo, infatti, nella tradizione aristotelica
deve essere considerato da due prospettive differenti: la prospettiva produtti-
va e quella della prassi. L'agire tecnico o produttivo è quello proprio dell'ar-
tigiano. Esso è guidato dall'idea {èidos) o modello dell'oggetto da produrre e
trova la sua perfezione nell'abilità Uéchne) operativa posseduta. L'agire prati-
co (pràxis) è anch'esso guidato da un ideale (il bene) e può realizzarsi trami-
te una disposizione interiore (la phrònesis, o capacità di decisione prudente e
consapevole).
La razionalità pratica, in quanto rivolta alla considerazione dell'agire
umano in quanto tale (cioè la razionalità che guida la pràxis), può essere a
sua volta considerata secondo due ulteriori punti di vista. H primo mira alla
fondazione di una dottrina dell'agire umano, una vera e propria filosofia mo-
rale, e si serve per questo essenzialmente del metodo argomentativo proprio
della dialettica classica. Il secondo punto di vista può anche essere definito
come educativo, in quanto è orientato a identificare le strade attraverso cui
l'uomo giunge ad agire «.bene», cioè a portare a compimento decisioni pru-
denti e responsabili sia nella vita quotidiana, sia nell'attività lavorativa, sia nei
momenti cruciali della vita.
Questa distinzione tra pràxis e téchne è la più valorizzata dall'attuale fi-
losofia pratica. Essa è presente in buona parte dei pensatori tedeschi sia di
tendenza neomarxista, come J. Habermas, sia di orientamento ermeneutico
come H. G. Gadamer. L'attenzione per il pensiero pratico, cioè per il pen-
siero che precede, accompagna e segue l'azione umana, ha costituito anche la
base per un'analisi critica dell'approccio puramente scientifico-tecnologico alla
razionalità umana e alla sua promozione attraverso Ì processi formativi.
La razionalità tecnico-strumentale, per intenderci quella propria dell'arti-
giano che produce un pezzo, sia esso una sedia o un edificio, è evoluta nel
tempo ed oggi si può distinguere tra una tecnica, o tecnologia antica, basata
essenzialmente su un accumulo di esperienze, e una tecnologia moderna che
si costituisce e si sviluppa in stretta interazione con la ricerca e il pensiero
scientifico. Di conseguenza la tecnologia moderna se da un lato è caratteriz-
zata dal suo orientamento all'azione trasformatrice della realtà, essa è anche
segnata dai caratteri propri della razionalità matematico-scientifica.
La conseguenza più evidente è la tendenza a costituirsi come un campo
autonomo che tende a definire da sé medesimo le sue finalità, sensibile sem-
pre più alle sue possibilità interne anziché ai bisogni o alle motivazioni ester-
ne. Ai cosiddetti «bisogni primari» dell'uomo essa tende così ad accostare
se non a sostituire nuovi bisogni, dotati dello stesso carattere di artificiosità
36
dei sistemi tecnologici a cui corrispondono. Di qui l'emergere di una tensio-
ne, che quando non è socialmente mediata e superata, può divenire assai vi-
vace tra bisogni e motivazioni presenti nella sensibilità degli appartenenti a
un determinato contesto culturale e bisogni e motivazioni indotti dai vari si-
stemi tecnologici. È in tale quadro di riferimento che si può anche collocare
il conflitto ormai permanente tra esigenze e di sviluppo tecnologico e urgen-
ze di conservazione della natura e dei suoi equilibri, tra mondi artificiali e
mondi naturali. Per molti è spontaneo pensare che la natura vada piegata a
progetti elaborati su basi scientifico-tecnologiche, analogamente a quanto si è
tentato di fare con le società civili; per altri questo tentativo non può che ri-
solversi in una catastrofe universale.
Nel pensiero attuale si evidenziano così chiare sensibilità da un lato per
l'impatto che la tecnologia moderna ha, o può avere, sulla società e sull'am-
biente di vita e di lavoro e, dall'altro, sulla necessità di individuare nuovi ri-
ferimenti etici e valori guida nell'indirizzare e controllare l'invadenza tecnolo-
gica e il dominio di una razionalità che sembra talora avvitarsi su se stessa,
imprigionando l'uomo in esigenze che appaiono sempre più estranee ai suoi
bisogni e motivazioni profondi.
Di qui l'attenzione progressivamente più precisa e definita verso la com-
ponente pratica ed etica dell'agire umano, verso una razionalità diversa da
quella matematico-scientifica e tecnologica, ma non per questo meno valida
da un punto di vista conoscitivo. Una razionalità che riscopre il valore della
dialettica intesa nel senso di argomentazione interpersonale, di dialogo guida-
to da regole di coerenze. A fronte dei problemi etici e politici che occorre
affrontare nella vita odierna non è possibile far riferimento a gusti o prefe-
renze ingiustificate, è necessario, invece, affrontare in modo controllato di-
scussioni che permettano di giustificare le conclusioni a cui si perviene; chie-
dere e rendere ragione delle scelte compiute e da compiere.
Nello sviluppo di questa razionalità dialettica e comunicativa è d'altron-
de necessario, come già accennato, distinguere tra l'elaborazione di una filo-
sofia pratica, intesa come dottrina etica e politica razionalmente fondata e
giudizi di valore connessi con il comportamento quotidiano proprio e altrui.
Nel primo caso sembra necessario ricorrere a quello che è stato indicato da
Aristotele come la via maestra della filosofia, cioè l'argomentazione dialettica;
nel secondo caso, invece, sembra inevitabile affidarsi alla prudenza e saggez-
za pratica derivanti dall'esperienza della vita e dal controllo della passionalità
istintiva e capace di applicare a situazioni particolari le norme derivanti sia
37
dalla dottrina etica e politica, sia dai valori consensualmente accettati e che
caratterizzano la vita comune.
Lo spazio di apprendimento proprio dell'azione formativa appare, quin-
di, costituito in primo luogo dall'insegnante stesso con le sue scelte, le sue
azioni, i suoi atteggiamenti. La sua testimonianza viva, il suo modo di rap-
portarsi agli allievi, di conversare e di discutere con essi, di accettarli e di
consigliarli, creano di fatto un contesto vivo di dialogo educativo. Questa è,
e rimane, una componente essenziale dell'azione formativa e dello spazio
educativo che in esso viene attivato e ad essa è inscindibilmente collegata la
formazione della coscienza morale del lavoratore.
L'altra componente, quella tecnologica, è data invece dalla costituzione
di un insieme valido e produttivo di condizioni sia sistemiche, che dinamiche
che stimolino, guidino, sostengano l'acquisizione di conoscenze, di capacità e
di atteggiamenti positivi da parte degli allievi.
38
finale, ma anche il processo di produzione e il sistema controllo/regolazione
del processo stesso.
È la logica del progetto che sottende tutte le fasi e i procedimenti che
verranno messi in opera, logica però da assumere in senso flessibile, perché
occorrerà saper valutare continuamente Ì risultati parziali ottenuti nelle varie
fasi per adattare le azioni e le scelte alle esigenze che man mano emergeran-
no. Per questo si distinguono generalmente tre momenti o livelli: quello del
design (o del progetto), quello dell"implementation (o della realizzazione) e
quello dèi'evaluatt'on o del quality control (valutazione/regolazione).
Il livello del design va a sua volta articolato secondo due fasi: una prece-
dente, dell'analisi; e una susseguente, dello sviluppo. La prima garantisce
un'adeguata base informativa circa le reali esigenze progettuali, l'altra la pre-
figurazione di concreti procedimenti attuativi del progetto. Quanto alla fase
di sviluppo, essa implica una programmazione nei tempi e nelle forme delle
attività da svolgere durante il processo produttivo, tenendo conto delle risor-
se disponibili in termini di tempi, spazi, strumenti e personale. Questa fase
deve tener conto anche dei modi di organizzazione concreta del lavoro, di
una definizione abbastanza precisa degli standard sia relativi al processo che
al prodotto.
Questa mentalità sta velocemente trasferendosi anche nel mondo delle
azioni formative e più in generale nei vari sistemi educativi, utilizzando la
metafora della tecnologia moderna come riferimento per impostare, condurre
e valutare le varie azioni formative. Tutto ciò è certamente positivo purché
non si dimentichi la centralità dell'altra componente di ogni azione formativa,
quella che considera la dimensione etica e interpersonale del rapporto tra
formatore e formando.
39
stemi più sofisticati e flessibili. Per un certo tempo si è addirittura ipotizzata
la possibilità di costituire sistemi formativi multimediali che fossero in grado
di sostituire l'azione formativa diretta. Oggi, pur ammettendo la potenza e
l'utilità di tecniche audiovisive e di sistemi informatici intelligenti, si è dovu-
to riconoscere come intrinseco a ogni intervento formativo il rapporto inter-
personale e la testimonianza viva del formatore.
Ciò risulta d'altronde evidente se si accetta l'analisi della struttura del-
l'azione formativa sopra ricordata. Tuttavia è bene approfondire ulteriormen-
te il discorso.
Nell'analisi del ruolo e delle competenze professionali si è insistito sia
sull'importanza della capacità di gestire un complesso sistema di relazioni in-
terpersonali e istituzionali, sia sulla centralità di quelli che possiamo definire
gli atteggiamenti professionali di fondo. Lo sviluppo professionale in questa
direzione esige la costituzione di un valido e fecondo rapporto educativo tra
formatori e allievi. Vediamo perché.
In primo luogo occorre riconoscere come gli atteggiamenti sviluppati in-
teriormente influenzino le scelte d'azione degli individui. Un atteggiamento è
definibile in effetti come « uno stato interno che condiziona la scelta di azio-
ne dell'individuo nei confronti di un certo oggetto, di una certa persona o
evento» (Gagnè-Briggs, 1990, 95). Questa scelta nasce da un complesso di
convinzioni ed è accompagnata e rafforzata dall'affettività. Un atteggiamento,
evidentemente, non può essere osservato direttamente. Non ha senso, quindi,
cercare di rispondere direttamente alla domanda « qual è l'atteggiamento di
questa persona verso la gente di colore?». La domanda va formulata in que-
st'altra maniera: « Qual è l'atteggiamento dì questa persona nel lavorare con
gente di colore, nel vivere accanto a gente di colore o nel sedersi vicino a gen-
te di colore? ».
Un'azione formativa diretta a promuovere o a modificare atteggiamenti
può certo tendere a rinforzare le scelte d'azione e i comportamenti che risul-
tino positivi nella direzione formativa intesa, tuttavia la ricerca psicologica ha
recentemente evidenziato l'enorme importanza di quel processo che è stato
chiamato «l'apprendere da un modello».
Apprendere da un modello implica in primo luogo poter osservare in
una situazione esemplare il comportamento positivo di una persona che è
considerata degna di attenzione, di fiducia e con la quale ci si può anche
identificare. Non solo, occorre anche constatare come la scelta d'azione ope-
rata dal modello sia fonte di soddisfazione, sia una scelta riuscita (Gagnè-
Briggs, 1990, 98-99). Nel nostro caso i modelli cui fare riferimento possono
40
essere formatori, ma anche lavoratori che sul posto dì lavoro mostrano trami-
te i loro comportamenti e le loro scelte atteggiamenti positivi, desiderabili in
vista della costruzione di una professionalità ricca e completa anche dal pun-
to di vista etico.
Analogo problema emerge nello sviluppo delle competenze relazionali
cui abbiamo sopra fatto riferimento. Riprenderemo questa problematica nel
terzo paragrafo della prossima parte. Per ora basta aver rafforzato l'idea della
centralità del rapporto educativo diretto in ogni azione formativa e del suo
ruolo nello sviluppo di fondamentali componenti della professionalità. D'altro
canto occorre oggi forse rivalutare l'importanza del processo di apprendistato
nello sviluppo di competenze operative, cioè il passaggio dallo stato princi-
piante in un settore del saper fare a quello di esperto, e del ruolo che in ta-
le contesto ha chi tale competenza già possiede in un grado abbastanza ele-
vato.
Terza Parte
PROGETTAZIONE, CONDUZIONE E VALUTAZIONE
DELL'AZIONE FORMATIVA
41
rio sul mercato del lavoro. Questo centro di rilevazione degli andamenti del
mercato doveva offrire dati di stock e di flusso per capire la quantità e la
qualità della domanda e dell'offerta di lavoro, offrendo così informazioni pre-
ziose per le decisioni da prendere sia nell'elaborazione di un piano di svilup-
po territoriale, sia nella realizzazione di azioni formative iniziali o continue.
Sembra però emergere, per quanto concerne la progettazione e l'attivazione
delle azioni formative, una certa presa di coscienza di alcuni limiti che pre-
senta questa, per altri versi, preziosa fonte informativa. In effetti, i dati che
provengono dalle rilevazioni compiute da un Osservatorio di questo tipo po-
tranno essere elaborati e resi di pubblico dominio solo dopo un certo lasso
di tempo; inoltre saranno basati su situazioni esistenti e, al massimo, su
qualche previsione soggettiva. Ora la dinamica della domanda di formazione
e, più in generale delle assunzioni per ricoprire determinati ruoli professiona-
li in azienda, dipende da una molteplicità di fattori assai elevata e complessa,
nella quale l'andamento del mercato internazionale, le variazioni della con-
giuntura economica, le trasformazioni organizzative e tecnologiche giocano un
ruolo assai difficile da dominare nelle sue ricadute a livello locale. Basti qui
accennare al mercato del lavoro del campo grafico nella Regione del Veneto,
ambito a noi più famigliare, che nel 1986-87 ebbe una fase di preoccupante
contrazione, mentre due anni dopo manifestava segni di notevole vivacità.
Una rilevazione fatta negli anni 1986-87 avrebbe orientato gli interventi for-
mativi nel settore verso una riduzione dei corsi e del numero degli allievi,
cosa che avrebbe provocato una pericolosa ricaduta nella possibilità di ri-
spondere all'aumentata richiesta di personale evidenziatasi solo due anni do-
po.
Dall'analisi del processo di produzione emergerà la possibilità di indivi-
duare le figure professionali di riferimento, nel nostro caso quelle che tende-
ranno a occupare ruoli di tipo esecutivo, anche se specializzato. Tali figure
dovranno essere descritte non solo nei compiti che dovranno essere in grado
di portare a termine, ma anche nelle varie competenze che dovranno posse-
dere e, in ultima analisi, come sopra precisato, nelle conoscenze, capacità e
atteggiamenti che dovranno essere posseduti in modo integrato e dinamico.
Occorre però mettere subito in guardia dalla possibilità di un facile uti-
lizzo di una metodologia di job analysis di derivazione tayloriana, metodolo-
gia ormai troppo datata e riduttiva. Essa si basa su una osservazione attenta
e cronologicamente scandita di ciò che il lavoratore svolge nelTassolvere il
suo compito lavorativo, osservazione configurata a partire da una segmenta-
zione del compito lavorativo in singole operazioni e specifiche abilità richie-
42
ste. Ne deriva una matrice a due dimensioni che riporta sull'asse delle ordi-
nate i singoli compiti svolti nella mansione lavorativa considerata e su quello
delle ascisse le abilità richieste per portarli a termine. In realtà è impossibile
cogliere un ruolo professionale se non si pane dalla considerazione dell'intero
sistema aziendale visto sotto il profilo produttivo, organizzativo e sociale.
Un'azienda, infatti, vista come un sistema complesso, è caratterizzata da
finalità e valori, cioè da quella che potremo definire la sua cultura; finalità e
valori che ne guidano la sua strutturazione e la sua azione. Evidentemente il
sistema aziendale può assumere più di una struttura organizzativa e produtti-
va, nella ricerca di un migliore adattamento e risposta alle esigenze poste
dalle sue finalità e valori, dalle risorse disponibili ed alla realizzazione dei
prodotti o dei servizi in condizioni di efficienza e di efficacia. Così il proces-
so produttivo deve, soprattutto oggi, possedere adeguate doti di flessibilità
per adattarsi sia al tipo, sia alla qualità, sia alla quantità dei prodotti da rea-
lizzare.
Di conseguenza l'analisi di un'azienda, o anche di un campione ridotto
di aziende, potrà solo fino a un certo punto fornire un quadro di riferimen-
to valido anche nel futuro sulle varie funzioni e ruoli professionali che aggre-
gano compiti e responsabilità corrispondenti a una certa fase o sottofase dì
un ciclo produttivo. Esemplare, da questo punto di vista, è, soprattutto nel
campo delle aziende grafiche, il caso della Mondadori (De Filippis, 1989).
Da questo quadro di riferimento, che descrive le figure e Ì ruoli profes-
sionali richiesti dai vari settori economico-produttivi, deriva la possibilità di
sviluppare un vero e proprio progetto formativo.
A questo punto, però, l'analisi compiuta non è ancora sufficiente per
impostare un processo formativo concreto. Occorrerà andare oltre, verso
quella che viene più propriamente definita l'analisi dei bisogni di formazione,
cioè la rilevazione degli scarti esistenti tra l'attuale stato di preparazione dei
soggetti che entrano nel sistema formativo e le conoscenze, capacità e atteg-
giamenti che si ritengono essenziali per poter assumere, all'interno del siste-
ma produttivo, un ruolo professionale in maniera valida e feconda.
43
ne i caratteri e le ragioni. Ai nostri fini occorre solo richiamare alcuni ele-
menti ormai ritenuti classici nella elaborazione di un progetto formativo:
44
formativa: quello dei docenti, singoli o di area. L'analisi della situazione di
ingresso degli allievi, la disponibilità effettiva di risorse tecniche, didattiche e
temporali, la particolare cultura e professionalità del o dei docenti, porteran-
no a un'ulteriore e più puntuale definizione dell'impianto formativo, soprat-
tutto per quanto concerne l'organizzazione didattica concreta delle singole di-
scipline e degli interventi formativi. Nel corso della sperimentazione si è dato
ampio spazio agli incontri di docenti di diversi Centri di formazione, ma re-
sponsabili delle stesse discipline, al fine di fornire non solo un supporto di-
dattico a questo impegno professionale, ma anche per coordinare e omoge-
neizzare il più possibile la concreta azione formativa sviluppata nei diversi
Centri.
45
portatore, cioè l'insieme dei valori e delle finalità che ne caratterizzano l'esi-
stenza.
La qualità umana positiva del clima o atmosfera comunicativa presente
in un Centro, o in un corso, è stata riconosciuta da numerose ricerche come
uno dei fattori fondamentali per la crescita non solo culturale e professionale,
ma anche personale degli allievi (Franta, 1985). Molte delle manifestazioni
comportamentali disturbate, delle reazioni difensive o aggressive evidenziate,
degli stati di demotivazione o di evitamento riscontrati sono dovuti anche, se
non principalmente, alle carenze esistenti sul piano delle relazioni umane e
del modo di agire e di interagire dei vari soggetti presenti e in particolare di
quelli più responsabili della vita del Centro.
Per analizzare il sistema di relazioni sociali che viene a costituire il cli-
ma che si respira concretamente nello spazio formativo di un Centro o di un
corso, (Franta, 1989) ha recentemente proposto lo schema di Fig. 3.1. In es-
so si evidenziano le relazioni interpersonali che vengono a stabilirsi all'interno
del gruppo dei docenti, tra docenti e allievi, e tra questi ultimi.
La qualità delle relazioni tra docenti dipende in gran parte dal modo in
cui questi ultimi interpretano i contenuti formativi, dalla loro esperienza e
competenza nel contatto all'interno dei consigli e dei collegi e dalla funziona-
lità che le strutture comunicative imposte dalla istituzione hanno ai fini del
loro rapporto interpersonale (Franta, 1989, 330).
.contesto sociale
e = Contenuti
r = Relazioni
0 = Organizzazione
A = Allievi
1 = Insegnanti
Fig. 3.1 - Sistema di relazioni interpersonali presente all'interno della Scuola e dei Centri di torniamone
professionale.
46
Le relazioni tra docente e allievi sono state anch'esse affrontate da nu-
merosi studi (Tausch-Tausch, 1977). In primo luogo è stata evidenziata l'im-
portanza rispetto ai contenuti formativi del grado di significatività che questi
ultimi riescono ad attribuire loro, del livello di partecipazione attiva e critica
al processo di apprendimento, della pressione psicologica costituita dal con-
trollo del rendimento.
Nel contatto con gli allievi sono state evidenziate due dimensioni princi-
pali: una emozionale, l'altra di controllo (Tausch-Tausch, 1977). La prima
dimensione riguarda soprattutto l'esperienza che gli allievi hanno del tipo di
percezione e di valutazione che il docente ha nei loro confronti. La seconda
dimensione, di controllo, concerne la funzione di guida che il docente ha nei
riguardi dei suoi allievi: le decisioni sulle attività da svolgere, le scelte che
questi compie in ordine all'organizzazione del gruppo, le modalità attraverso
le quali si giunge a regolare gli aspetti disciplinari e comportamentali.
Infine va considerato il gruppo degli allievi che costituisce una unità so-
ciale informale dotata di una propria specifica dinamica. Le relazioni che si
stabiliscono tra di essi sono spesso effetto dell'azione formativa dei docenti o
del Centro considerato nel suo complesso. Non è il caso di dilungarci sui ri-
sultati delle ricerche a questo livello, è tuttavia importante evidenziare come
lo sviluppo di una buona capacità collaborativa nel raggiungimento di obietti-
vi comuni sia uno dei bisogni formativi più sentiti anche in vista della nuova
organizzazione del lavoro.
47
se prospettive _ di lavoro che nella pratica si riscontrano derivano nella loro
essenza dai problemi valutativi che vengono via via selezionati. Diverso è il
problema legato a una valutazione delle competenze effettivamente acquisite
da un soggetto in un certo settore professionale da quello connesso con la
valutazione di un progetto o programma di formazione visto nel suo com-
plesso; analogamente occorre distinguere la valutazione di un processo forma-
tivo considerato sotto il profilo della sua efficienza, da quella sei suo prodot-
to finale in termini ài efficacia.
Assumendo un punto di vista leggermente differente, si può affermare
che in ogni attività formativa esistono due dimensioni fondamentali della va-
lutazione. La prima dimensione è interna al processo formativo stesso ed ha
essenzialmente una funzione regolativa, in quanto verifica con continuità e si-
stematicità gli scarti emergenti tra progetto e realizzazione, consentendo sia
di adeguare meglio l'azione alle esigenze del progetto, sia di rivedere quelle
parti del progetto che si manifestano incongrue, carenti o eccessive.
La seconda dimensione riguarda gli esiti del processo formativo e que-
sto da almeno due punti di vista fondamentali. Il primo considera la qualità
del lavoro formativo compiuto in termini di raggiungimento dei suoi obiettivi
fondamentali, nel nostro caso riferendosi al numero dei soggetti che hanno
effettivamente conseguito il livello di qualificazione inteso. Il secondo punto
di vista riguarda l'entrata nella vita lavorativa da parte dei soggetti così quali-
ficati e la loro carriera professionale, cioè misura l'efficacia della formazione
in termini di sbocchi occupazionali.
Come è ben chiaro il problema della valutazione coinvolge, anche emo-
zionalmente, tutti i soggetti implicati nei processi formativi, le loro famiglie, i
docenti e i dirigenti dei Centri e degli Enti di formazione, l'Amministrazione
pubblica, le aziende a cui sono destinati i soggetti formati, la stessa opinione
pubblica. Non meraviglia quindi che intorno a questo problema il dibattito
sia sempre aperto e manifesti non poche difficoltà e tensioni. Quello che oc-
corre evitare è una certa tendenza, in via di diffusione, che affronta secondo
modalità assai riduttive della complessità del problema, mirando a una sem-
plificazione del processo, considerato secondo pochi e talora poco significativi
aspetti quantitativi.
Riferimenti bibliografici
ASSOCIAZIONE ITALIANA FORMATORI (1989), Professione formazione, Milano, ir. Angeli, (3 a ed.).
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49
La comunicazione educativa
nell'azione didattica
Michele Pellerey
51
Le altre due parti approfondiranno in questo contesto le due dimensioni
sopra ricordate: quella pratico-poietica e quella prassica, rileggendo e ripropo-
nendo il modello formativo dell'apprendistato, allargandone l'applicazione dal
campo pratico a quello cognitivo, affettivo e morale. Il concetto di apprendi-
stato implica la compresenza di esperti e principianti in ambiente che assume
la forma di laboratorio formativo nel quale si vive e si interiorizza non solo
una cultura e una professionalità, ma anche una visione etica e abiti morali
positivi.
La conclusione, che spero potremo raggiungere insieme, andrà nella dire-
zione di una migliore identificazione delle responsabilità e delle esigenze di chi
dirige una scuola o un centro di formazione professionale e di chi partecipa
alla sua organizzazione e alle sue attività educative, facendo particolare riferi-
mento a una scuola cattolica e salesiana.
52
punto di vista di una crescita progressiva nella conoscenza e soprattutto nella
competenza relativa a un certo ambito del sapere, del saper fare e, soprattutto
del saper essere, è essenziale che l'insegnante non solo sia in grado di diventa-
re, ma di fatto costituisca, un modello per gli allievi. Questi hanno bisogno di
interiorizzare, mediante l'osservazione, il comportamento dei più competenti,
o degli adulti, per evocarlo quando si trovino in analoghe circostanze e utiliz-
zare cosi il loro esempio come orientamento e mediazione interna nell'orga-
nizzare la propria condotta.
Lo spazio educativo nel quale sì esplica l'azione didattica è, dunque, in
primo luogo costituito da un insieme valido e produttivo di condizioni che sti-
molino, guidino, sostengano l'acquisizione significativa e stabile di conoscenze,
di capacità e di atteggiamenti positivi da parte degli allievi in un settore speci-
fico del sapere e del saper fare. Tuttavia gran parte di questa validità e produt-
tività dipende da alcune qualità più generali dell'azione dell'insegnante. Egli
con le sue attese, le sue scelte, Ì suoi comportamenti, i suoi atteggiamenti, la
sua testimonianza viva, il suo modo di rapportarsi agli allievi, di conversare e
discutere con essi, dì accettarli e di consigliarli, crea un contesto vìvo di dialo-
go educativo, nel quale l'apprendimento acquista senso e direzione.
Il fondamento teorico di questa impostazione può essere fatto risalire alla
distinzione introdotta da Aristotele tra agire umano orientato alla produzione
di oggetti (pòiesis) e agire umano etico-politico (praxis).
L'agire pratico-pò ìetico, oggi diremmo tecnico, secondo Aristotele, è per
sua natura diretto alla produzione di oggetti precisi. Esso è guidato dall'idea
(èidos) o modello dell'oggetto da produrre e trova la sua perfezione nell'abilità
(téchne) operativa posseduta. Il risultato di questo tipo di azione è il prodotto
inteso (fig. 1).
Kg. 1
idea guida disposizione azione risultato
53
Fig. 2
idea guida disposizione azione nsu ltato
54
zioni, cioè dal complesso di percezioni, attese, motivazioni, credenze, strategie
di insegnamento e di apprendimento conosciute, intenzioni, consapevolezze e
capacità di controllo attivate, ecc., proprie sia degli insegnanti che degli allievi.
Gli studi sui pensieri dei docenti hanno spesso utilizzato due categorie di
analisi, concernenti da una parte Ì pensieri che precedono l'azione di insegna-
mento o che la seguono (pensieri preattivi o postatavi) e, dall'altra, quelli che
l'accompagnano (pensieri interattivi). A queste è stata aggiunta la categoria che
include le concezioni e credenze che essi hanno del proprio ruolo di inse-
gnanti e di educatori e della propria disciplina di insegnamento. Alla prima
categoria appartengono la progettazione e l'organizzazione concreta delle atti-
vità di apprendimento e le riflessioni interne che le seguono; alla seconda, i
pensieri e le decisioni che hanno luogo nel corso dell'azione didattica. La terza
categoria costituisce come il quadro di riferimento che guida le attribuzioni di
significato e di valore nel corso dei pensieri preattivi e postattrvi e di quelli
interattivi (Fig. 3).
Questo mondo interiore si rende visibile e osservabile tramite i compor-
tamenti che insegnanti e alunni manifestano in classe e tramite i risultati da
questi ultimi conseguiti. La tradizione comportamentistica si limitava allo stu-
dio di questi elementi esterni, evidenziando correlazioni od eventuali rapporti
causali; oggi con tecniche anche assai raffinate si cerca di risalire all'origine
cognitiva dei comportamenti esterni.
INSEGNANTE ALLIEVO
55
formazione professionale e specificatamente nei riguardi dei sìngoli alunni,
sulle attribuzioni causali relative alle iniziative riuscite o fallimentari, sull'attra-
zione e repulsione provate per determinati argomenti di studio, determinate
attività didattiche e specifici alunni, ecc., hanno mostrato la complessità e
profondità di tale gioco, spesso inconsapevolmente esplicato.
2. La competenza pratico-poietica
56
stemologia, pedagogia, didattica, ecc.) norme per l'azione didattica concreta,
come del pari è impossibile far discendere dalle varie disciplme scolastiche o
formative, intese come scienze particolari, siano esse più dirette allo studio
della lingua e del linguaggio ovvero a quello della natura o studio della realtà
storica e sociale dell'uomo, regole per il loro insegnamento. Tuttavia dalle une
e dalle altre si devono trarre indicazioni ed elementi per sostanziare e struttu-
rare l'azione educativa scolastica.
Quest'ultima però deve tener conto delle circostanze diverse e della pecu-
liare situazione proprie di ciascun contesto scolastico e, più particolarmente,
delle caratteristiche dei singoli allievi. Le scelte pedagogiche e didattiche e
l'organizzazione del processo di apprendimento emergeranno da un attento
confronto tra le informazioni che si posseggono sul versante della realtà scola-
stica e le conoscenze che provengono sia dalle scienze dell'educazione sia da
quelle che fanno la riferimento alle discipline formative.
Tuttavia l'esigenza di una chiara intenzionalità espressa e quella della
sistematicità portano inevitabilmente a cercare nell'impostazione tecnologica la
strada e lo strumento per concretizzare la mediazione tra il sapere educativo e
disciplinare e l'azione educativa scolastica.
SÌ può così considerare nel processo educativo scolastico e professionale
un triplice polo di riferimento: le scienze, le tecnologie, l'azione. I rapporti fra
questi tre poli sono di tipo interattivo, transazionale. Va tuttavia sottolineata
l'importanza del processo che dall'azione va agli altri due poli, a causa dei
pericoli di una troppo facile deduzione dalle scienze di leggi d'azione e di pro-
grammi di intervento. E questa affermazione comporta come conseguenza
anche la sollecitazione a una maggiore attenzione e aderenza ai contenuti
dell'educazione e l'accettazione senza riserve del ruolo imprescindibile che,
nelle scienze e nella tecnologia, hanno gli operatori.
57
lizzato, sia dal sistema di relazioni instaurato. Una cultura e una professionalità,
d'altra parte, sono caratterizzate dai modi e dai mezzi con cui esse sì esprimo-
no e vengono trasmesse. SÌ tratta non solo di parole dette o scritte, di imma-
gini e suoni, di forme di vita e di organizzazione sociale, ma anche di com-
portamenti e di rapporti concreti. L'insegnante, o il formatore, è chiamato a
organizzare in maniera valida e produttiva i cosiddetti mediatori didattici, cioè
i sistemi di rappresentazione dei contenuti formativi che egli vuole promuove-
re negli allievi. SÌ tratta di «in signo ponere» quanto deve diventare oggetto di
acquisizione o di costruzione significativa da parte dell'allievo. Un insieme di
rappresentazioni che permettano di afferrarne il senso e il valore. E questo il
cuore della comunicazione didattica. Una buona orchestrazione di questi
mediatoti permette a ciascuno di entrare in presa diretta con i significati e la
sostanza di quanto proposto. D'altra parte, sia che si tratti di esperienze diret-
te, sia che ci si avvalga di conoscenze mediate, occorre porsi a una certa distan-
za dalla realtà della vita quotidiana e del coinvolgimento emotivo per permet-
tere riflessione critica e acquisizione cosciente. Il fine fondamentale di ogni
insegnamento mira in effetti all'allargamento e all'approfondimento della capa-
cità di leggere, interpretare, valutare la realtà umana, personale e sociale, e di
decidere e agire in essa; non solo nella scuola e nel centro di formazione pro-
fessionale, ma anche accanto e oltre di essi.
Per quanto concerne il sistema di relazioni instaurato accennerò solo alla
necessità di sviluppate un dialogo o un discorso educativo che coinvolga sia
lui stesso che i suoi allievi in una posizione di ricerca e acquisizione significa-
tiva di conoscenze, di competenze e di valori. Di questo aspetto è già stato
ampiamente trattato.
Queste considerazioni hanno indotto Ì ricercatori a rivolgere la loro
attenzione all'agire concreto degli insegnanti nella classe e nella scuola, cioè
alla loro capacità dì gestire complessivamente lo spazio di apprendimento e la
comunità educativa da essi stessi prefigurati. Qui è stato individuato il cuore
della loro professionalità e della loro competenza. Un insegnante esperto, in
effetti, si differenzia da un principiante secondo un numero rilevante di ele-
menti distintivi, tra cui si possono qui ricordare:
58
— flessibilità nell'adattare i contenuti di insegnamento, i modi di insegna-
re, le forme di interazione, il sostegno alla motivazione all'apprendimento
secondo le esigenze dei diversi soggetti e in base alle situazioni che concreta-
mente si presentano di volta in volta, tenendo conto della loro preparazione,
del loro stato d'animo, delle loro reazioni, ecc.; il principiante si presenta rigi-
do e poco capace di adattamento alla varietà dei casi particolari e delle situa-
zioni concrete;
59
pratica, sia di sviluppare un apprendistato consistente, che permetta poi gli
adattamenti, le flessibilità, la mobilità verticale e orizzontale, di cui molte volte
si parla. Oggi, però, si presenta alla formazione sia scolastica, sia professiona-
le, una sfida molto più grande, che si insinua tra apprendistato pratico e cul-
tura di riferimento: quello che è stato definito l'apprendistato cognitivo, impa-
rare cioè strategie di pensiero, strategie di soluzione di problemi, strategie
interpretative e valutative per capire le situazioni e per affrontarle e sviluppare
un'adeguata capacità di regolazione, meglio di autoregolazione, di questi pro-
cessi. Questo è particolarmente urgente ove si accetti una concezione costrut-
tiva della conoscenza e della professionalità.
Come attivare^ però, in questo ambito processi autentici di apprendista-
to? Come rendere osservabili modelli di operazioni e strategie cognitive validi
e produttivi? Occorre che gli insegnanti si prestino a fare da modello, renda-
no visibili strategie e operazioni cognitive implicate nelle varie prestazioni sco-
lastiche e professionali. Occorre far vedere agli alunni come si procede nell'eia-
borare un testo scritto, nell'affrontare un problema di fìsica, nel progettare la
produzione di un pezzo. Non solo spiegare come si fa, ma anche far osserva-
re e interiorizzare esempi concreti; guidarlo nell'esercizio diretto all'esplicazio-
ne di operazioni intellettuali e all'elaborazione di strategie cognitive congruen-
ti con il compito fotmativo loro assegnato. Ma la questione dello sviluppo
della capacità di autoregolazione, di gestione autonoma dei processi interni è
molto più vasta. Sappiamo tutti, e i giornali ne parlano ampiamente, che una
consìstente maggioranza di chi lavora soffre di stress, di ansietà. Esiste, cioè,
anche un problema di apprendistato affettivo, emozionale, per saper gestire se
stessi dal punto di vista delle emozioni, delle motivazioni, degli stress: la moti-
vazione non viene solo da fuori di noi. I motivi, le finalità, i perché della
nostra vita, ce li diamo noi e dobbiamo essere principalmente noi a diventar-
ne i gestori, coloro che riescono a controllarli; altrimenti vendiamo la nostra
identità, diveniamo degli etero-dipendenti, ancora più profondamente di quel-
lo che si era una volta.
3. La componente etico-sociale
Viene preferito il termine etico-sociale al termine etico-politico, di deri-
vazione aristotelica, in quanto esso sembra accostarsi meglio agli approcci che
considerano questa dimensione come componente personale o componente
socio-relazionale.
H o accennato al fatto che la prassi, cioè l'azione umana vista nel suo
aspetto decisionale, è per sua natura guidata da un'idea del bene da consegui-
60
re. Questo fine fondamentale che orienta l'uomo nelle sue scelte non è tanto
e solo il bene individuale del singolo, quanto quello di una comunità o di un
gruppo ristretto, come la famiglia o la classe, o, ancor più, di un gruppo più
vasto come la comunità cittadina. E il bene della pòlis (la città), che viene
in definitiva cercato, «perché il singolo è parte della città» (Berti). Di qui la
scelta dell'espressione «dimensione etico-politica» per caratterizzare l'agire
dell'insegnante in quanto non specificatamente diretto a produrre le condizioni
di apprendimento, bensì volto a scegliere comportamenti e relazioni valide
e positive in sé e in rapporto al bene dei singoli e della comunità a lui affi-
data.
Tuttavia nella visione aristotelica non basta giungere, con opportuni
metodi di indagine, a cogliere qual è il bene da conseguire, cioè il fine da
porre alle proprie azioni, occorre anche saper deliberare bene, cioè calcolare
correttamente i mezzi che ci consentono di raggiungerlo. E questo sempre
tenendo conto non solo del bene dell'individuo, ma di questo visto nell'ambi-
to del gruppo sempre più esteso di cui egli fa parte. Questa capacità decisio-
nale implica una certa esperienza, cioè la conoscenza di un ragionamento che
da un principio etico generale, tramite la considerazione delle condizioni e dei
mezzi concreti in cui si può o si deve porre un'azione, permette di giungere
alla scelta o all'azione stessa, in altre parole «la premessa maggiore contiene
l'indicazione del fine, la minore l'indicazione del mezzo, cioè dell'azione neces-
saria per conseguire il fine, e la conclusione il comando di agire» (Berti).
Occorre sottolineare che «solo l'identificazione del fine, cioè della perfezione,
della piena realizzazione, del completo sviluppo ed esercizio delle facoltà più
specificatamente umane, giustifica... l'ideale dell'emancipazione e quindi fonda
razionalmente l'etica ad esso corrispondente» (Berti).
Questa rilettura di Aristotele da una parte è in linea con la sensibilità di
molti studiosi contemporanei interessati all'agire e alla sua interpretazione e,
dall'altra parte, si ricollega a una nuova attenzione verso la dimensione etica
della professionalità e della formazione professionale, eticità che va considera-
ta nel suo più profondo spessore, che non in comportamenti legalistici e isti-
tuzionalmente corretti. Tuttavia occorre ribadire una sottolineatura aristotelica:
la componente etico-politica dell'agire umano non è interessata solo a scopri-
re qual è il bene da raggiungere, o addirittura «il bene supremo, bensì si pro-
pone anche di realizzarlo» (Berti). «Con il suo solito realismo, cioè con la con-
sapevolezza già manifestata circa l'insufficienza del conoscere ai finì dell'agire
bene, ritiene più necessaria, a questo fine, una buona educazione attuata per
mezzo di buone abitudini, che un'accurata conoscenza del perché» (Berti).
L'inferenza pratica aristotelica ha avuto una riìettura tomistica, che sotto-
linea il ruolo del desiderio. Il soggetto dice a se stesso:
61
Tu desideri conseguire questo bene (vuoi raggiungere questo fine);
Tu sei convinto che per raggiungere questo bene devi agire in questo modo (rag-
giungere questo bene implica, secondo te, agire in questo modo);
Quindi devi apre in questo modo (se veramente desideri raggiungere quel bene).
L'azione umana, nella prospettiva aristotelico-tomista, tende a stabilire un
rapporto con la realtà del mondo, a intessere una rete di relazioni con le cose,
con le persone, con Dio. Questo rapporto non è basato, però, sulla ricerca di
un soddisfacimento razionale dei desideri rivolti al conseguimento dì una feli-
cità edonica, bensì alla ricerca di un bene che è giudicato, compreso e voluto
come tale. Un bene che designa un arricchimento, una crescita, un potenzia-
mento dell'essere proprio o altrui. La moralità, anche e soprattutto per l'edu-
catore qual è sempre un insegnante, sta nella capacità di governare il proprio
agire in vista della realizzazione di una condizione ottimale per l'uomo, in par-
ticolare per quegli uomini in formazione di cui si ha la responsabilità.
Di conseguenza il problema morale centrale è: che cosa posso fare, come
posso agire, secondo le mie possibilità individuali, per questa condizione otti-
male, degna e doverosa per l'uomo? Per rispondere a questa domanda entra in
gioco la virtù che fonda ogni capacità di giudizio pratico di natura etica: la
prudenza, non arte di soddisfare razionalmente i bisogni per massimizzare la
felicità edonica, ma competenza nel saper scegliere le vie che portano, nei
limiti propri di ciascuno, a tale condizione ottimale. Una competenza che
nasce non solo dal saper riconoscere dì volta in volta il bene da conseguire e
il modo per raggiungerlo, ma anche dall'acquisizione di una disposizione inte-
riore permanente derivata dalla consuetudine nello scegliere e agire in coeren-
za con il bene riconosciuto.
Secondo Aristotele, per conseguire una crescita della competenza morale
occorre «procedere dalle cose più note a noi, cioè dall'esperienza, a quelle più
note in sé, cioè ai principi, ma... per esperienza si intende un abito morale
acquisito, non una mera conoscenza esteriore». Questa posizione, che sembra
contraddire a un'impostazione razionale dell'agire educativo, in realtà vuole
chiarire il fatto che un conto è il sapere che cosa è bene fare o decidere, un
altro avere la forza e la coerenza di agire di conseguenza. E dall'intreccio ine-
stricabile tra approfondimento del senso e della direzione da dare al proprio
agire come insegnanti ed educatori e comportamento coerente con queste
assunzioni che cresce la dimensione etico-politica dell'azione didattica, come,
d'altra parte, la personalità dell'alunno.
62
3.1 La specificità della professione dell'insegnante
Viene sempre più spesso invocata, anche in sede d'i contrattazione collet-
tiva dì lavoro, la professionalità del docente come parametro di riferimento
per la normativa contrattuale e la remunerazione delle prestazioni date. Le
discussioni accentuano spesso problematiche relative allo status e al prestigio
degli insegnanti nella nostra società, alla rilevanza e responsabilità della loro
opera, alla necessità di riorganizzazione e miglioramento del funzionamento
della scuola, al bisogno di verifiche e valutazioni dei risultati scolastici, talora,
perfino, alla possibilità di una valutazione dell'azione stessa degli insegnanti.
Raramente si mettono a fuoco le responsabilità circa il raggiungimento di
finalità in ordine allo sviluppo culturale, personale e sociale degli allievi,
all'acquisizione di autonomia e competenza nei processi intellettuali e affettivi,
alla loro crescita e maturità morale e spirituale.
Eppure è ben diffìcile cogliere la specificità dell'azione di insegnamento
rispetto all'agire professionale di altri, come i medici o gli avvocati, se non si
esaminano più da vicino le sue dimensioni morali. In effetti, si tratta dell'azio-
ne di uomini e donne in riferimento ad altri uomini e donne, anche se in via
di sviluppo. Problemi di che cosa è equo, onesto, giusto, retto, virtuoso sono
di conseguenza sempre presenti. Qualunque cosa un docente chieda a un suo
allievo, qualunque impegno gli faccia assumere nei confronti di un altro com-
pagno, qualunque cosa egli decìda nei casi di discussione o di conflitto, qua-
lunque decisione assuma o posizione prenda nelle discussioni con i colleghi
circa il bene dei suoi alunni, implica risvolti etici.
D'altra parte la moralità dell'insegnante ha profondi influssi e risonanze
nella moralità degli allievi. Egli è per essi un «modello», oggetto di continue
osservazioni, interiorizzazioni, imitazioni e discussioni con i compagni, in par-
ticolare per quanto concerne comportamenti e tratti segnati dall'onestà,
dall'equità, dal rispetto e considerazione degli altri, dalla tolleranza e dalla par-
tecipazione. D'altra parte per ottenere dagli alunni condotte ispirate alla giu-
stizia egli deve agire con giustizia, per aspettarsi comportamenti segnati
dall'attenzione e dalla cura per gli altri, egli deve comportarsi di conseguenza,
l'insegnante aiuta a sviluppare la tolleranza in quanto egli stesso si mostra tol-
lerante. Ogni risposta a una domanda, ciascuna discussione o problema, la
composizione di una dìsputa, le valutazioni o i giudizi espressi nei riguardi
degli alunni evidenziano il carattere morale dell'insegnare.
Nel rivendicare il carattere professionale dell'azione dì insegnamento
occorre dunque esplorare più da vicino gli aspetti morali di questa azione, per-
ché, come già accennato, essa in realtà appare assai diversa da quella di pro-
fessioni spesso invocate come parallele, ìn particolare quelle del medico e
63
dell'avvocato. Medici e avvocati, ad esempio, usano, certo, la loro conoscenza
e la loro competenza come mezzi per svolgere l'attività professionale, ma nello
stesso tempo queste sono spesso occasione di distacco culturale e sociale. Ben
difficilmente un medico si sforza di spiegare il senso e il perché di una sua
diagnosi, oppure insegna o indica come apprendere a svolgere semplici fun-
zioni diagnostiche o terapeutiche. Il suo compito non è condividere con gli
altri conoscenze e competenze, anzi. Analoghe osservazioni si possono fare per
gli avvocati. Occorre fidarsi delle loro qualità professionali, rimanendo a debi-
ta distanza da qualche privilegio di casta. La vita complessiva e Ì problemi per-
sonali più vasti dei clienti non li interessano.
L'insegnante è, invece, nella posizione opposta. Quanto sa e sa fare è
continuo oggetto di partecipazione e di consegna agli altri. Invece di essere
causa o ragione di distanza sociale, conoscenza e competenza sono motivo e
sollecitazione di vicinanza e condivisione. Egli, inoltre, se vuole effettivamente
svolgere la sua attività in modo serio e fecondo, occorre che si interessi alle
situazioni personali e alle condizioni di vita dei suoi allievi. Un rapporto di
insegnamento implica in definitiva un rapporto tra persone che sì conoscono
e si comprendono più da vicino. Ciò che, però, più distingue un insegnante
da un altro professionista è la reciprocità e continuità dell'impegno. Egli non
può limitarsi a visitare, diagnosticare e prescrivere una medicina, bensì deve
con continuità stare vicino ai suoi allievi, quotidianamente stimolare il loro
impegno. Questi sono nella condizione di chiedere e sollecitare con pari con-
tinuità l'impegno del loro insegnante. Perché esistano risultati in termini di
apprendimento, è necessario che sia l'insegnante, sia l'allievo si applichino con
costanza e dedizione in una convergenza di intenti, spesso in seguito ad atten-
te negoziazioni.
Il fondamento della specificità della professionalità docente appare, dun-
que, costituito non solo dal rapporto che un adulto attua nei riguardi di un
giovane uomo, che deve essere iniziato alla vita sociale e collettiva, ma anche,
e talora soprattutto, dalla stessa condizione umana da ambedue condivisa nella
sua radice più profonda e comune e dalla relazione, segnata da reciprocità, che
si stabilisce tra due persone nonostante le evidenti, e necessarie, asimmetrie
nella conoscenza, nella competenza, nella responsabilità.
Ciò che fa, dunque, di questa attività umana un impegno altamente
morale è che essa è direttamente rivolta verso altre persone con caratteri di
continuità e sistematicità. Giudizi e condotte derivati da che cosa si intenda
per equo, giusto, retto, virtuoso, o meno, sono sempre presenti. Nel trattare i
vari problemi pratici o contenutistici e nei comportamenti e nelle scelte con-
crete egli indica esplicitamente o implicitamente che cosa si debba o si possa
intendere per onestà, giustizia, tolleranza, considerazione per gli altri. L'allievo
64
o l'allieva, come più volte sottolineato, li «coglie» osservando, imitando, discu-
tendo ciò che l'insegnante fa in classe.
Da queste semplici considerazioni appare evidente come l'azione di inse-
gnamento risulti largamente caratterizzata dalle sue dimensioni morali. E come
l'educazione morale sia largamente dipendente dalla qualità morale deile azio-
ni di insegnamento.
Nell'approfondire, un poco, il discorso, mi limiterò a indicare tre aree
proprie dell'azione di insegnamento, aree che possono essere rilette nella pro-
spettiva individuata e che di certo influiscono sulla crescita morale dell'allievo
Queste aree sono: lo spirito di ricerca, la conoscenza e la competenza; il pren-
dersi cura, il dedicarsi agli altri; la libertà e la giustizia.
65
cativìtà solo perché possono parlare tra loro e con se stessi alla ricerca di
senso». La ricerca condivisa di senso e dì significato sta al cuore del processo
educativo scolastico e professionale. Il fatto che il primo e più interessato a
questo sia proprio l'insegnante produce alla lunga una profonda influenza
nella disponibiLità e nell'impegno degli alunni a seguire le stesse strade, non
solo a scuola e nel centro di formazione professionale, ma nella vita, accanto
e oltre la scuola.
Un comune detto afferma che le cose che vai la pena di fare, vale la pena
di farle bene. Segni di incompetenza ci circondano da presso sempre più ogni
giorno. Ragioni per spiegarlo possono essere trovate nell'aumento di comples-
sità della nostra società, ma anche nella mancanza di serio impegno. Ci sono
anche indizi che le stesse organizzazioni sociali, politiche e sindacali possono,
talora, coprire e proteggere l'incompetenza.
La competenza, tuttavia, è la più naturale aspirazione dell'essere umano.
Amiamo il riconoscimento, il successo, non il fallimento; l'eccellenza, non la
mediocrità. Competenza e competizione hanno la stessa radice latina. Ma la
competizione in questo caso dovrebbe essere con noi stessi e questo si può chia-
mare apprendimento. Un'etica della competenza e dell'impegno mostrata nel
fare e nell'imparare a fare bene le cose che sono degne di essere fatte bene è un
impegno che è già al servizio degli altri, in modo serio, non banale o debole.
66
realtà di ciascun alunno. Quindi, un'attenzione costante alle difficoltà, incer-
tezze e sensi di inadeguatezza che facilmente possono emergere nell'attività di
apprendimento, manifestando non solo comprensione e fornendo parole di
incoraggiamento, ma esplicando un impegno attivo per aiutare a superare tali
situazioni di disagio. Infine, manifestando il proprio interesse per le possibili
situazioni diffìcili di tipo personale, familiare e sociale dei singoli alunni, cer-
cando quando possibile di dare una mano, o almeno di far percepire il fatto
che ne teniamo conto, che siamo sensibili a esse.
Non è cosa semplice alle volte, sia per le condizioni proprie nelle quali si
trovano questi alunni e per il loro carattere non sempre facile, sia per le situa-
zioni personali in cui ci si trova: mancanza di tempo, impegni urgenti, stati
d'animo non sempre sereni e pacati. Qui emerge un indiscutibile campo di
decisione morale, dove prudenza e forza d'animo si incontrano per agire nella
direzione più equa e più giusta.
67
formazione professionale, costituisce anch'essa un polo di riferimento n o n
secondario, né ininfluente, di orientamento morale del giovane. D'altra parte
qui si gioca anche gran parte della moralità del singolo insegnante, come della
comunità educativa nel suo insieme.
G. Gatti insiste su questo punto in maniera appassionata: «...l'insegnante
è tenuto all'esercizio competente e serio della sua professione in forza di un
obbligo... di giustizia commutativa, di quel tipo di giustizia, per intenderci,
che nel caso di una colpevole violazione fa insorgere l'obbligo della restituzio-
ne.
Questo debito stretto di giustizia nei confronti degli allievi, ma anche
delle loro famiglie e dell'intera società, investe tutti gli ambiti della professio-
ne e quindi la preparazione culturale e pedagogica, remota e prossima,
l'aggiornamento e la formazione permanente, lo svolgimento delle lezioni, la
correzione dei compiti e le interrogazioni, i consigli di classe e i colloqui con
Ì genitori, la sperimentazione didattica e la guida intellettuale individuale.
Anche se non espressamente contemplata in nessun contratto collettivo
di lavoro, va considerata come dovere di giustizia contrattuale... (la) 'passione
per l'insegnamento e per l'educazione'... che resta... un tratto essenziale della
personalità morale dell'insegnante.
Vanno considerate come Ìntimamente collegate con gli obblighi di giusti-
zia, inerenti allo svolgimento della professione di insegnante, le esigenze di
saggia imparzialità nella valutazione delle capacità, diligenza, profìtto, attitudi-
ni degli allievi, che legge e tradizione affidano in misura considerevole ai
docenti e ai loro organi collegiali».
68
ca. Non basta parlare di riscoperta dell'etica nel lavoro, il problema dell'etica
sta nel fatto che i valori, cioè i motivi che guidano il comportamento morale,
non si celebrano parlandone, ma si celebrano agendo, si costruiscono attraver-
so un apprendistato. Divento buono, nel mondo del lavoro, come nella vita
sociale, nella vita polìtica, nella vita familiare, nella vita pubblica perché agisco
bene in riferimento a certi valori, non perché li proclamo. Il comportamento
buono si acquisisce comportandosi bene: si impara a risolvere problemi, risol-
vendo problemi, non studiando in teoria quali sono le strade per risolverli.
L'esperto è qualcuno che segue rigidamente delle regole, ma che sa affrontare,
capire le situazioni e trovare delle soluzioni che sono molto più ricche di con-
tributi, di adattamento, di avvicinamento alle possibilità offerte.
Occorre a questo punto riprendere il discorso relativo allo spazio di
apprendimento ed educativo costituito dalla scuola e dalla classe. Una comu-
nità scolastica o di formazione professionale diventa realmente educante non
solo e non tanto perché proclama a voce o per iscritto valori educativi validi
e significativi, ma soprattutto perché questo ethos è effettivamente condiviso
dai suoi membri come riferimento morale fondamentale e a esso ci si sforza di
riferire le scelte, le relazioni, i comportamenti personali e sociali. L'apprendi-
stato morale è guidato certamente da singoli maestri (più o meno buoni), ma
soprattutto stimolato e sostenuto dall'appartenenza a una comunità che incar-
na nella vita quotidiana ì valori che vuole promuovere.
Conclusione
69
essere lei a saper scegliere che cosa fare e come farla; a saper partecipare e inse-
rirsi positivamente in questo dinamismo; a non subire tutto passivamente e
senza capire; a non dipendere anche affettivamente da questi cambiamenti,
vissuti come oppressione e annullamento di sé; a orientarsi eticamente, a sce-
gliere e ad agire bene.
L'apprendistato esige la presenza di maestri, di esperti. Nelle botteghe si
imparava dal maestro, dalla sua testimonianza viva, dal suo saper fare, dal suo
sapere e dal suo saper essere. Ora credo che bisogna riconquistare quest'idea
del laboratorio-comunità formativa dove i maestri, cioè insegnanti, formatori,
dirigenti e personale di servizio diventano anche testimoni di come si gesti-
scono non solo le attività pratiche, ma anche Ì processi cognitivi, i processi
affettivi, i problemi etici. Occorre riconquistare il ruolo dell'insegnante, del
formatore, dei maestro che è capace di dire: «questa situazione complessa, que-
sta conoscenza impegnativa, questa diffìcile scelta puoi pian piano imparare ad
affrontarla in maniera positiva e io ti faccio vedere come». E questa una gran-
de sfida all'educazione scolastica e alla formazione professionale, ma soprattut-
to una grande sfida nella formazione dei formatori.
70
MICHELE
PELLEREY L'orientamento come
dimensione costitutiva
della formazione
scolastica e professionale
Riflessioni in margine al documento
di lavoro del Ministro Berlinguer
sul riordino dei cicli scolastici
46
tovalutare, relativo all'attività educativa sviluppata nell'anno di prescolarità.
Un secondo, più incidente, che emerge nell'ultimo ciclo della scuola prima-
ria. Un terzo che riguarda l'intero primo ciclo della scuola secondaria, ciclo
definito nel documento "orientativo". Un quarto snodo centrale riguarda l'ul-
timo anno del secondo ciclo di scuola secondaria, quello che precede l'esame
finale di Stato.
Tn primo luogo cercherò di approfondire nelle sue linee principali il con-
cetto di orientamento sia scolastico, sia, soprattutto, professionale. Dedi-
cherò, quindi, la mia attenzione al ruolo della scuola dell'obbligo nel pro-
muovere e guidare un processo educativo centrato sull'orientamento, eviden-
ziando alcune possibili soluzioni istituzionali per quanto concerne i rapporti
con la formazione professionale e indicando alcune mie preferenze. Infine
verrà concentrata l'attenzione sulla formazione successiva all'obbligo scola-
stico e sul prospettato diritto alla formazione fino a diciotto anni. Emerge-
ranno alcuni consensi, qualche possibile via di soluzione, ma anche molti in-
terrogativi. Comunque, speriamo che si sia davvero avviata una stagione di
effettive riforme, riforme che trovino il maggior consenso possibile, oltre che
tra gli addetti ai lavori (politici, amministratori, docenti e dirigenti scolastici
e della formazione professionale) anche tra i fruitori del servizio scolastico e
di formazione professionale: le famiglie e i loro figli.
Nel corso dei passati decenni si è sempre più chiaramente preso coscien-
za che l'orientamento, inteso in senso educativo pieno, costituisce una di-
mensione costitutiva della formazione scolastica e professionale. Superando
il dibattito tra fautori di un'analisi degli aspetti attitudinali soggettivi e fauto-
ri di una conoscenza del mondo socioeconomico e lavorativo come base fon-
dante delle scelte scolastiche e professionali, ci si è resi conto che la comples-
sità del processo implica certamente una presa di consapevolezza delle varie
dimensioni del sé e contemporaneamente una percezione quanto più possibi-
le adeguata delle opportunità formative e lavorative disponibili; si è anche
chiarito come in questo processo interagiscano conoscenze, competenze e at-
teggiamenti-valori di varia natura e di diversa provenienza. Tra le competen-
ze maggiormente rilevanti si è quindi insistito su quelle connesse con la ca-
pacità di prendere decisioni in condizioni che presentino caratteri di più o
meno elevata incertezza. Tutto questo di conseguenza implicava la messa in
opera di percorsi formativi a lungo termine, caratterizzati anche da attività
didattiche ed educative molteplici e dal coinvolgimento della stessa famiglia,
come prima e più radicale forza orìentatrice delle scelte dei giovani.
D'altra parte la presa di coscienza delle trasformazioni in corso sempre
più velocemente nel mondo del lavoro e delle professioni ha evidenziato an-
che cambiamenti di esigenze formative di base. Si sono succeduti negli ulti-
47
mi decenni non solo spostamenti imponenti di lavoratori da un settore pro-
duttivo all'altro, m a anche cambiamenti drammatici nel m o n d o economico:
si è passati dal primato dell'agricoltura a quello dell'industria pesante e ma-
nifatturiera; da un primato di quest'ultima a quello di un'industria sofistica-
ta ad alto valore aggiunto e di un sistema di servizi nei quali dominano
l'informatica e la telematica. La stessa agricoltura ha cambiato volto e mo-
dalità organizzativa. "Nelle nuove realtà si richiedono competenze cognitive
e autoregolatorie per ricoprire mansioni lavorative complesse e per affronta-
re le richieste della vita quotidiana. [...] Il ritmo incalzante del progresso tec-
nologico e la crescita accelerata del sapere stanno conferendo un particolare
valore alla capacità di una gestione autonoma della propria istruzione. Una
buona scolarizzazione favorisce la crescita psicosociale che, a sua volta, con-
tribuisce alla qualità della vita anche al di là dell'ambito professionale. Uno
degli obiettivi principali dell'educazione formale quindi dovrebbe essere
quello di fornire agli studenti i mezzi intellettuali, la convinzioni di efficacia
e la motivazione intrinseca necessari per continuare a educare se stessi lun-
go tutto l'arco della propria vita" '.
Il quadro ha comportato quindi una serie di slittamenti di attenzione,
dalla prospettiva psicologica e socioeconomica ci si è aperti a una prospetti-
va più decisamente educativa e didattica. D'altra parte la definizione della
Scuola media italiana come scuola formativa, orientatrice e che colloca lo
studente nel mondo sembrava assegnare a questo segmento terminale
dell'obbligo scolastico il compito di dare corpo e fondamento alle scelte
scolastiche immediate e a quelle professionali a lungo termine per la mag-
gior parte degli alunni e per una minoranza a quelle più direttamente di for-
mazione professionale o di lavoro. Tn realtà le analisi compiute in questi ul-
timi anni sulle condizioni di ingresso nella scuola secondaria superiore han-
no evidenziato gravi segnali non solo di disagio, ma anche di evidente diso-
rientamento. 1 giovani non riescono a comprendere la realtà e le esigenze
della scuola in cui si trovano e pertanto non riescono ad adeguarvisi. E non
si tratta solo di mancanza di motivazioni o di resistenza alla fatica che i nuo-
vi impegni di studio implicano; entrano in gioco fattori più profondi e per-
manenti. Analoghe situazioni possono essere riscontrate nella formazione
professionale iniziale. Là dove questa si presenta sistematica e solida da u n
punto di vista culturale e formativo. La conclusione che si può trarre da que-
ste indagini è che la scuola dell'obbligo non riesce in un gran numero di ca-
si a fornire le conoscenze e le competenze necessarie a compiere transizioni
per molti versi impegnative senza che si debbano affrontare traumi e falli-
menti consistenti.
Occorre anche rilevare, a esempio, come un'alta percentuale, oltre il tren-
ta per cento, della piccola imprenditoria e dell'artigianato del Nord Est sia
formata da drop-out della scuola. SÌ tratta di persone che hanno manifestato
1
BANDURA A., // senso di autoefficacia, Trento, Erickson, 1996, p. 34.
48
spesso alte competenze strategiche e di gestione di sé nell'intraprendere vie
imprenditoriali autonome, ma che non hanno trovato nella scuola spazi e
contenuti formativi che rispondessero a questi loro orientamenti e aspira-
zioni. Spesso tali persone manifestano giudizi sulla formazione scolastica as-
sai critici, rilevando come essi siano riusciti a impostare da soli non solo la
loro attività, ma anche l'acquisizione di quelle conoscenze e competenze che
erano loro necessarie per sviluppare la loro attività lavorativa e imprendito-
riale; e che in questo la scuola ha avuto un ruolo del tutto marginale.
Tutto ciò è molto più pervasivo e profondo di una scarsa conoscenza di
sé o del mondo lavorativo che ci circonda. Si tratta in primo luogo di caren-
ze di sviluppo e di acquisizione di competenze strategiche di natura cogniti-
va, affettiva e volitiva; di debolezze nel saper riconoscere i propri processi co-
gnitivi, affettivi e volitivi e nel saperli regolare; di limitate aspirazioni perso-
nali, di altrettanto spesso bassa stima di sé e di convinzioni di scarsa effi-
cacia in aree essenziali dell'azione di apprendimento e della maturazione
personale; di attribuzioni di valore distorte o poco incidenti, di elaborazioni
irrealistiche o devianti di possibili sé. In una parola, come giustamente fa os-
servare Benadusi, si tratta di una "definizione dell'identità soggettiva nella
difficile transizione alla vita adulta, che mette in gioco anche variabili di ti-
po motivazionale, valoriale e affettivo, oggi trascurate sia dalla scuola uma-
nistica che da quella tecnica e professionale" 2 .
Non si tratta quindi in primo luogo di scegliere un percorso scolastico o
professionale, ma di scegliersi, nel senso di essere in grado di elaborare un
progetto di sé per un inserimento valido e produttivo nella società, nel mon-
do del lavoro e delle professioni, nel mondo delle responsabilità e delle rela-
zioni famigliari, nel mondo della cultura e della vita democratica non solo
del proprio Paese, ma anche dell'Europa e in prospettiva del mondo intero.
Per giungere a questa elaborazione occorre una crescita e consolidamento in
molte direzioni specifiche: a) in primo luogo in quella dei proprio mondo in-
teriore, del sistema del sé, visti nella loro complessità e ricchezza; b) quindi
nella capacità di lettura e interpretazione adeguata della realtà in cui si vive;
e) poi nella competenza nel decidere e nell'elaborare strategie di realizzazio-
ne delle proprie decisioni; d) infine, nella capacità di guidare se stessi nel
cammino spesso lungo e faticoso della realizzazione dei propri progetti.
In termini più immediati si tratta di arricchire l'io di desideri, aspirazio-
ni, di aperture a sé possibili; di concezioni e convinzioni adeguate riguardo
se stessi, il mondo, la formazione scolastica e professionale; di conoscenze
organizzate e di abilità strategiche nel risolvere i problemi posti dalla vita e
dell'apprendimento scolastico e professionale. Nulla di più negativo sarebbe,
invece, lasciarsi attrarre da un modello riduzionista e razionalista che con-
sidera la decisione umana in questo ambito come quella di individui che va-
gliano un'ampia gamma di possibilità, calcolano i propri vantaggi e svantag-
2
BENADUSI L., "Scuola, lavoro e riforma Berlinguer", Il Mulino, 1, 77-92, p. 90.
49
gi e successivamente scelgono l'alternativa d'azione dalla quale si aspettano i
maggiori vantaggi 1 .
In secondo luogo occorre guidare e sostenere i giovani nella capacità di
leggere e interpretare, alla luce delle proprie aspirazioni, delle proprie con-
vinzioni e delle proprie conoscenze e competenze, le situazioni particolari
nelle quali ci si deve confrontare sia nella vita quotidiana, sia in quella più ti-
picamente scolastica, e quindi nella generazione delle proprie intenzioni
d'azione, delle proprie scelte specifiche, nell'elaborazione dei propri progetti
immediati o a lungo termine di lavoro e di attività professionale.
Infine, occorre promuovere competenze nel saper gestire se stessi e l'am-
biente in cui ci si trova a operare in maniera valida e feconda per raggiunge-
re le mete che ci si è prefissato di raggiungere e realizzare i progetti elabora-
ti. E questa una parie della formazione spesso trascurata, quella che spesso
passa sotto i nome di volizione o capacità di perseverare nel proprie imprese
nonostante le difficoltà, gli imprevisti, le possibili frustrazioni, l'emergere di
alternative più piacevoli nell'immediato, le distrazioni, ecc.
5
BANDURA A., o.c, p. 42.
50
maria ha certamente lo scopo di promuovere la crescita della persona da
molti punti di vista; ma tra questi, quello di preparare ad affrontare positi-
vamente ed efficacemente il ciclo orientativo della scuola secondaria tende a
prevalere, in particolare nell'ultimo ciclo e nell'ultimo anno di tale segmento
scolastico. Tn questo arco di scolarità si debbono porre le basi conoscitive e
strategiche elementari sia di tipo cognitivo, sia affettivo, sia volitivo. In que-
sti ultimi decenni è stato messo in risalto il ruolo fondamentale di una cre-
scita nella consapevolezza dei propri processi interni e nella propria capacità
di gestirli fruttuosamente nel contesto dei vari apprendimenti. Si tratta di
quelle iniziali competenze di autoregolazione, che certamente devono essere
potenziate nel corso degli anni scolari seguenti, ma che se si presentano de-
boli e assenti al termine di questo segmento condizionano gravemente ogni
possibile crescita ulteriore. Possiamo citare a esempio: il senso di poter effi-
cacemente affrontare la scuola secondaria e la vita con buone possibilità di
riuscita personale e sociale; uno stile attributivo che assegni i risultati che si
ottengono a cause personali (intellettuali, affettive e volitive) che sono sotto
il proprio controllo; una iniziale competenza comunicativa e relazionale sia
nel saper collaborare con altri, nel sapere aiutare e saper essere aiutati, sia
nel saper affrontare situazioni di conflitto e di confronto in maniera positiva.
Il primo ciclo della secondaria, o ciclo di orientamento, diviene per molti
versi lo snodo essenziale delle prime scelte forti che deve compiere l'alunno
con l'apporto centrale sia della scuola, sia della famiglia. Nel documento si di-
stinguono i diversi anni del ciclo triennale, introducendo nel primo un orien-
tamento generico che si basa sull'introduzione, accanto ad "alcune discipline
definite fondamentali (che tali restino per tutta la durata della scuola secon-
daria)" (quante e quali?) un "ventaglio più allargato di grandi opzioni" e "rela-
tivi percorsi". Qualcosa del genere è già presente in varie esperienze di tempo
flessibile, con l'introduzione delle cosiddette materie integrative, ma le inda-
gini in corso segnalano la tendenza a rendere rigida la flessibilità, in quanto
legata più alle esigenze di servizio dei docenti, che alle necessità o agli inte-
ressi degli alunni. L'ipotesi avanzata dal documento implica una reale capa-
cità organizzativa dei percorsi di apprendimento scolastico in maniera flessi-
bile e che valorizzi tutte le risorse formative disponibili sul territorio.
Dal secondo anno il processo di orientamento dovrebbe diventare più
"mirato" e sistematico. L'alunno dovrebbe "scegliere tra diversi indirizzi (ad
esempio: artistico, classico, scientifico, tecnico, professionale) già nettamen-
te caratterizzati", senza dover per questo rimanere prigioniero delle scelte
compiute. Per questo si ipotizzano meccanismi di transizione (quadrimestri
integrativi, debito scolastico) e figure dì sostegno (tutor).
In questo contesto si ipotizza anche un ruolo specifico del sistema della
formazione professionale. E a questo punto si fa riferimento all'Accordo sul
lavoro del 24 settembre .1996, accordo che ha trovato tante difficoltà ad esse-
re assunto in sede normativa. E qui emergono alcuni nodi irrisolti e tensioni
di difficile composizione. Il documento del Ministro ipotizza moduli e "per-
corsi integrativi di quelli scolastici", "ferma restando la frequenza degli inse-
51
gnamenti scolastici fondamentali". Si prefigurerebbe quindi una separazione
assai discutibile tra formazione "accademica" o "scolastica" e formazione
"professionale", quasi che le due non possano comporsi in una unità non so-
lo progettuale astratta, ma di azione formativa concreta. In poche parole gli
insegnamenti di matematica, di lingua italiana, di lingua straniera o anche di
scienze rimarrebbero ancorati al loro splendido isolamento e identità disci-
plinare, senza nessuno effettivo collegamento e dialogo sistematico con le
esperienze tecniche e operative proprie delle attività di formazione profes-
sionale, magari separando anche istituzionalmente e fisicamente i luoghi del-
la formazione culturale disciplinare accademica, da quelli della formazione
professionale e operativa.
La tradizione scolastica italiana in realtà conserva, a differenza di molti
Paesi europei, forme disciplinari assai chiuse e autosufficienti, poco aperte
alle applicazioni e al dialogo con il mondo reale del lavoro e della tecnologia.
Ancor più assente è una qualsiasi forma di apprendistato cognitivo legato
all'attività pianificatrice e realizzativa di progetti di natura tecnico-pratica.
Quell'accenno al "fare" e al "saper fare" sembra evocare una visione del mon-
do del lavoro assai dissonante dalla realtà attuale e ancor più di quella che si
prospetta. È sempre più difficile trovare infatti ambiti lavorativi nei quali si
debba interagire direttamente con gli oggetti da produrre o i servizi da svol-
gere per mezzo degli utensili o delle leve e manovelle di macchine meccani-
che o elettromeccaniche, mentre sempre più si deve saper utilizzare un siste-
ma di comunicazione artificiale interposto tra l'uomo e l'azione delle mac-
chine. Che tipo di "orientamento" emergerebbe da una simile ipotizzata dico-
tomia: che la parte nobile della formazione sta in uno studio fine a se stesso,
di natura astratta e critica, mentre la parte miserevole sta nell'imparare a "fa-
re", quasi che la prima forma di imprenditorialità non fosse proprio quella
relativa alla propria formazione secondo un progetto di sé unitario. La stes-
sa multimedialità viene vista spesso come una specie dì bricolage nel mondo
della conoscenza, più che una vera risorsa per progettare e per lavorare.
Nella sperimentazione avviata nella Provincia Autonoma di Trento si è
impiantato non solo u n percorso di formazione professionale rinnovata con
forti connotati culturali, m a anche si è avviato un processo di transizione al
sistema scolastico mediante apposite convenzioni con il Ministero della Pub-
blica Istruzione firmate dai Ministri Lombardi e Berlinguer. Questa signifi-
cativa esperienza, iniziata tre anni or sono, ha indicato la necessità di offrire
non solo forme integrative all'istruzione prevista per l'obbligo scolastico, ma
anche vie alternative che permettano il recupero e la rimotivazione di sog-
getti che mal si adattano ad apprendere in contesti asettici e un po' aristo-
cratici, mentre manifestano potenzialità e disponibilità insospettate in conte-
sti nei quali i rapporti tra apprendimenti disciplinari e attività di laboratorio
sono fortemente valorizzati.
Si rovescia quindi la stessa prospettiva di transizione e di collaborazione
tra scuola e formazione professionale, con la possibilità di una riscoperta
dello studio e delle possibilità di u n rientro nel sistema formativo scolastico
52
avendo superato blocchi e frustrazioni provocati nel passato proprio da tale
sottosistema. In una parola la scuola stessa, a causa della sua impostazione,
ha bisogno della formazione professionale per rivitalizzarsi e saper orientare
meglio nella scelta dei suoi stessi percorsi formativi. È anche questa una del-
le risorse che dovrebbero essere offerte come scuola della seconda chance
prevista dal Libro Bianco della Commissione europea.
In Trentino al termine del biennio cosiddetto di macrosettore, u n biennio
caratterizzato da un'ampia base culturale e un'esperienza tecnologico-opera-
tiva polivalente, al giovane si pongono tre grandi possibilità di scelta: un
rientro nel sistema scolastico, a esempio a livello di terzo anno di Istituto
Tecnico (secondo i sopra citati protocolli di Intesa); un proseguimento di for-
mazione professionale di natura più specialistica; un inserimento nel mondo
del lavoro come apprendista secondo un programma di formazione che ha
qualche carattere di alternanza (per la verità assai modesto). La sperimenta-
zione del percorso è giunta al terzo anno e si sono ormai consolidate alcune
prassi e ottenuti risultati incoraggianti.
b) La via di una certa flessibilità. È quella che sembra prefigurata dal do-
cumento del Ministro. Favorire esperienze del mondo della formazione pro-
fessionale con moduli integrativi che si pongono a lato alia struttura curri-
colare di base. Un po' come attualmente viene fatto con le attività integrati-
ve nelle esperienze di tempo flessibile. I centri di formazione professionale o
gli istituti professionali, se continueranno a esistere, accoglieranno in tempi
definiti dalla scuola e secondo modalità concordate con essa i giovani che
53
scelgono di i/are tali esperienze. A esempio: al mattino si insegnano le disci-
pline cosiddette curri colar i e al pomeriggio si avviano alcune attività inte-
grative in collaborazione con ì centri di formazione professionale o gli isti-
tuti professionali.
d) La via della transizione. A termine del secondo anno del ciclo orientati-
vo scolastico gli alunni possono scegliere di inserirsi a pieno titolo in un per-
corso di formazione professionale. In questo caso sarebbe consigliabile che
sì attivasse un anno di orientamento professionale, arricchito culturalmente
e polivalente, che permettesse alla sua conclusione u n a scelta più consape-
54
vole del settore professionale di qualificazione, un eventuale passaggio all'ap-
prendistato assistito o anche un rientro nel sistema scolastico. È un'imposta-
zione sostanzialmente analoga a quella sviluppata nelle sperimentazione or-
mai a regime per la formazione professionale del settore della grafica indu-
striale, soprattutto nella Regione Veneto.
Tn linea di principio tutte le quattro vie potrebbero assicurare una consi-
stente valenza orientante all'ultimo anno dell'obbligo e il completamento del-
la formazione culturale di base, ad eccezione, ferma restando la prevalente
prassi attuale, della prima. Tuttavia la preferenza, a mio avviso, andrebbe
accordata, là dove ciò è possìbile per la realtà territoriale e formativa del si-
stema di formazione professionale, alla terza e alla quarta via, cioè all'ipote-
si e) e d). A supporto di questa opzione ci sono effettive esperienze e speri-
mentazioni già attivate da anni e che stanno dando ottimi risultati.
Per rendere ancor più efficaci e attuabili tali soluzioni andrebbero even-
tualmente sottoscritti, come è slato fatto per la Provincia Autonoma di Tren-
to, protocolli dì intesa tra II Ministero della Pubblica Istruzione e le Regioni
o le Province autonome a ciò interessate. Forse ciò sarebbe possìbile anche a
livello di Sovrìntendenze regionali o di Provveditorati agli Studi.
Quanto all'esame conclusivo dell'obbligo scolastico, questo potrebbe esse-
re svolto anche nei Centri di formazione professionale, secondo modalità
analoghe a quelle della Scuola (a esempio con u n presidente di Commissio-
ne d'esame proveniente da essaj e dovrebbe concludersi con un giudizio di
orientamento, eventualmente vincolante, da includersi nel documento uffi-
ciale di valutazione.
5. Oltre l'obbligo
55
le per i giovani e dei suoi nessi con la scuola, di formazione di livello inter-
medio e superiore [...], di riqualificazione professionale ...", sottolineando
ancora una volta il ruolo della scuola nella formazione professionale; mentre
più avanti si dice che, in base all'Accordo su lavoro, si deve prevedere il po-
tenziamento della formazione professionale secondo "un maggiore ruolo
programmatorio e di supporto delle Regioni". Insomma sembrerebbe di do-
ver concludere, salvo smentite, che nella prospettiva del documento dei Mi-
nistro alla scuola di Stato competerebbe non solo la prima formazione pro-
fessionale, espropriando di fatto da questo compito le Regioni, m a essa
avrebbe anche competenze in tutte le altre modalità di formazione, soprat-
tutto in quelle di secondo livello e di livello superiore. Certo più avanti si di-
ce: "Ferma restando infatti la competenza delle Regioni a individuare i re-
quisiti perché un percorso formativo possa comportare il rilascio di una ve-
ra e propria qualifica professionale [...]", si prospetta un "protagonismo nel
segmento formativo del post-secondario di nuovi soggetti istituzionali e, pri-
ma fra tutti, della scuola".
Alle Regioni rimarrebbero competenze programmatone generali, ammi-
nistrative e di finanziamento, mentre la scuola $i assumerebbe in gran parte
il ruolo di soggetto forte del sistema di formazione professionale. Ma in que-
sto caso quali rapporti si attiverebbero tra le Regioni e lo Stato? Da chi di-
penderebbero i docenti e secondo quale contratto di lavoro; quali standard di
preparazione sarebbero necessari per una loro assunzione e secondo quali
modalità verrebbero assunti? Se venissero trasferite con più chiarezza e ri-
conoscimento costituzionale tutte le competenze primarie in materia di for-
mazione professionale alle Regioni, da chi dipenderebbero gli indirizzi pro-
fessionali attualmente e prospettivamente presenti nella scuola secondaria?
Non sarebbe caso mai da invertire il problema e prevedere convenzioni da
parte delle Regioni con le scuole che effettivamente "abbiano requisiti prede-
terminati e le necessarie garanzie culturali"?
Alle Regioni, infatti, in una prospettiva di maggiore autonomia e respon-
sabilità, dovrebbe essere effettivamente assegnato un ruolo fondamentale in
tutto quanto attiene alla formazione professionale, sia iniziale, sìa interme-
dia, sia superiore, sia continua. Un ruolo primario che non esclude certo il
dialogo e la collaborazione con la Scuola e le Università, ma che inverte la
prospettiva che sembra permeare il documento del Ministro: un ruolo fon-
damentale è attribuito allo Stato, tramite il Ministero della Pubblica Istru-
zione e le sue emanazioni istituzionali; le Regioni possono avere un "ruolo
maggiore" quando si tratta di programmare sul territorio le iniziative dello
Stato, magari soprattutto al fine di supportarle finanziariamente valorizzan-
do le risorse comunitarie. Io penso che occorre capovolgere tale prospettiva.
La titolarità della formazione professionale deve essere affidata interamente
alle Regioni e Province autonome, certamente in un quadro di riferimento a
valenza europea e non solo nazionale, che permetta poi una valorizzazione
delle qualifiche e delle competenze secondo una reale possibilità di mobilità
transnazionale e transregionale. Qualcosa si è già avviato con l'adozione da
56
parte di Regioni e Province autonome della certificazione relativa alla quali-
ficazione professionale proposta dal Ministero del Lavoro sulla base di un
modello di riferimento europeo. L'introduzione del libretto formativo potrà
colmare altre lacune.
Tutto ciò ha un rilievo estremamente significativo per l'orientamento.
Questo deve essere da una parte riferito alla domanda di formazione prove-
niente dai singoli fruitori del servizio, considerati nella loro specifica indivi-
dualità, dall'altra a quella del territorio, secondo le sue possibilità ed esigen-
ze di sviluppo, ma con uno sguardo aperto alla libera circolazione dei lavo-
ratori nell'intero ambito europeo. Che senso ha voler impostare sul piano na-
zionale piani di qualificazione, di perfezionamento o di riqualificazione pro-
fessionale che vadano bene per !a Sicilia o la Sardegna e contemporanea-
mente per il Veneto o il Trentino? Ma anche perché dover vincolare i singoli
allievi in percorsi formativi che non sono più al servizio del cittadino, ma so-
lo alle urgenze momentanee (e secondo preferenze politiche contingenti) di
un pezzo del Paese? La formazione professionale deve includere, in partico-
lare sotto il profilo dell'orientamento, una formazione alla mobilità e a
un'Europa senza frontiere, soprattutto per quanto concerne il mondo del la-
voro e delle professioni.
In questa prospettiva si riaffaccia la questione dell'Istruzione Professio-
nale di Stato e l'interpretazione del dettato costituzionale. In tale contesto è
ancora possibile mantenere una doppia modalità di qualificazione professio-
nale: una statale, quella data dagli istituti Professionali di Stato, e una regio-
nale, con notevoli discriminazioni sul piano dei concorsi statali circa il rico-
noscimento delle qualifiche regionali? Persino la Francia, che si muove "in
un ordinamento tradizionalmente più accentrato del nostro" si è mossa ver-
so una profonda regionalizzazione attribuendo alle Regioni "la responsabi-
lità di elaborare un piano per l'intera gamma di attività di formazione pro-
fessionale dei giovani, e di supportarne l'attuazione con appositi contratti fra
i diversi attori sociali e istituzionali ad essa interessati"'.
A mio giudizio quindi anche la competenza primaria nel settore
dell'orientamento professionale, proprio per la sua intrinseca interconnessio-
ne con la formazione professionale a ogni livello, deve essere con più chia-
rezza affidata alle Regioni, non solo per quanto riguarda i percorsi formativi
legati a un diritto alla formazione fino a diciotto anni, bensì anche nell'am-
bito delle azioni formative e orientative da sviluppare a favore di tutti i sog-
getti già occupati, non ancora occupati o in cerca di altra occupazione.
Per quanto concerne l'apprendistato, a esempio, le timide prospettive di
formazione fuori dal posto di lavoro prefigurate nel disegno di legge sul la-
voro dovranno comunque essere potenziate da robusti interventi a favore
dell'orientamento inteso in senso forte, cioè come promozione della capacità
di autoregolazione della propria formazione in una prospettiva di mobilità
4
BENADUSI L., o.c, p. 86.
57
non solo orizzontale, m a soprattutto verticale. Il diritto alla formazione de-
ve inoltre essere attentamente intrecciato al dovere che ogni lavoratore, co-
m e ogni professionista, ha di qualificarsi ulteriormente per poter svolgere ai
livelli richiesti dall'evoluzione tecnologica e organizzativa le mansioni che so-
no di sua spettanza. E questo dovere evidentemente deve essere esteso alle
aziende e alle varie amministrazioni. Diritti e doveri alla formazione devono
essere esplicitati e protetti secondo una chiara normativa.
Un cenno almeno va fatto, per quanto riguarda l'orientamento, a quanto
si afferma nel documento del Ministro circa il triennio finale della scuola se-
condaria. Esso dovrebbe avere "carattere professionalizzante, nel senso di of-
frire agli studenti indirizzi corrispondenti a grandi aggregazioni culturali-
professionali, il cui numero [...] varia da 7 a 11". Secondo il documento la
"vera novità" è data dall'ipotesi di favorire un "avvicinamento progressivo al
mondo del lavoro" secondo varie modalità organizzative. Non solo, l'ultimo
anno del triennio finale acquista un ruolo orientativo assai forte, soprattutto
se saranno veramente attivati i diversi canali di formazione superiore e post-
secondaria alternativi a quelli universitari (sia di diploma che di laurea). In
effetti alla fine della scuola secondaria si aprirebbero molte alternative pos-
sibili: inserirsi direttamente nel mondo del lavoro, frequentare corsi di quali-
ficazione post-diploma oppure corsi di formazione professionale superiore
(non mi piace la dizione "avanzata") non universitaria, iscriversi a corsi di
diploma universitario o di laurea. Con tutte le possibili variazioni sul piano
delle specializzazioni o degli indirizzi possìbili.
La domanda che deve essere posta però sulla base di alcuni dati attuali è
questa: quale impatto potrà avere questa molteplicità di possibili scelte
sull'effettiva comprensione e decisione del singolo? Non rimarrà prevalente
nell'immaginario personale l'alternativa tra lavoro e Università? Con un so-
vraffollamento di quest'ultima soprattutto là dove la prima alternativa non
sembra facilmente subito raggiungibile? Non sarebbe bene introdurre un
esame-concorso di ammissione ai vari corsi di laurea o di diploma? o alme-
no ripristinare alcuni vincoli di accesso alla diverse Facoltà a seconda dell'in-
dirizzo di studi prescelto? e contemporaneamente enfatizzare meno un ipo-
tetico nuovo "serio" esame di Stato finale? E che dire della questione (stret-
tamente connessa) del valore legale dei vari titoli che verrebbero così a esse-
re conseguibili dagli studenti? Verrebbero ancora, come ora, privilegiati i ti-
toli statali finali della scuola dell'obbligo, della scuola secondaria e quelli
universitari?
6. Conclusione
58
mentazioni sviluppale sia nell'ambito della formazione p r o f e s s i o n a l che
scolastica 5 spingono non solo a evidenziare la centralità dell'orientamento
nel contesto della formazione professionale (e scolastica) ma anche l'effetti-
va urgenza di soluzioni istituzionali stabili ed efficaci. Alcune delle indica-
zioni presenti nel documento del Ministro sono certamente valide e condivi-
sibili, altre sembrano alludere a un ruolo privilegiato ed eccessivo dello Sta-
to e della Scuola di Stato sia nell'ambito della formazione professionale, sia,
anche per la stretta connessione tra le due realtà, con quello dell'orien-
tamento professionale. In un clima di ricerca di nuovi equilibri tra Stato, Re-
gioni e altri attori sociali (sindacati, imprenditori, enti di formazione profes-
sionale) e in un contesto di proclamata accettazione di un ruolo più forte e
autonomo delle Regioni stesse, occorrerebbe porre le premesse per una più
chiara individuazione delle competenze di queste ultime, senza continua-
mente contrapporre a queste competenze parallele, e inevitabilmente più for-
ti, dello Stato centrale.
Un riferimento conclusivo deve essere inevitabilmente aggiunto. Si tratta
dei riconoscimenti reciproci tra quanto acquisito nella formazione professio-
nale e nelle esperienze di lavoro e quanto è divenuto patrimonio personale
nella scuola. È il tema dei cosiddetti crediti formativi. Se ne parla da tanti
anni, collegando questa problematica con quella dell'integrazione tra forma-
zione professionale e scuola. Occorre riuscire a fare chiarezza operativa in
proposito. Proprio ai fini di una corretta impostazione dell'orientamento. Il
sostegno che può essere offerto ai cittadini giovani e meno giovani al fine di
autoregolare la propria formazione e la propria c a m e r a lavorativa, verrebbe
di fatto in moti casi bloccato da rigidità burocratiche nell'accederc ai vari ca-
nali formativi disponibili. In Francia si è tentata una soluzione con il sistema
del cosiddetto "bilancio delie acquisizioni". Occorre, forse, anche in Italia
una qualche istituzione indipendente dalla scuola e dalla formazione profes-
sionale che esamini e garantisca il livello raggiunto da ciascuno nella sua
formazione, tenendo conto non solo delle promozioni scolastiche o delle
qualifiche professionali già certificate, ma delle conoscenze e competenze ef-
fettivamente già possedute come di quelle ancora mancanti.
La risposta a questo nuovo tipo di domanda formativa probabilmente
esigerà anche nuove e più flessibili forme di offerta formativa, che possano
rispondere contemporaneamente allo stato di preparazione dei singoli e alle
esigenze di ulteriori qualificazioni. In questo le modalità proprie di una for-
mazione a distanza possono assicurare una maggiore vicinanza ai bisogni in-
dividuali. Ma occorrono agenzie specializzate stabili e competenti per assicu-
rare questo ulteriore canale formativo, agenzie che comunque dovranno an-
che garantire la componente orientativa o in proprio o in collaborazione con
altre agenzie specializzate.
Mi pare che, infine, resti ancora una questione irrisolta. La domanda
1
Mi piace ricordare qui quelle sviluppate nell'ambito del CNOS-FAP, della Regione Veneto,
della Provincia Autonoma dì Trento e di vari Provveditorati agli Studi.
59
emergente nel Paese di decentramento, di autonomia, di federalismo che
sembra essere da tutti non solo riconosciuta, ma anche accettata, appare
troppo spesso limitata ad aspetti fiscali, economici, amministrativi, mentre
nei Paesi dove essa si è fatta insistente oppure è già istituzionalmente accet-
tala essa riguarda in primo luogo il bisogno di autonomia sul piano cultura-
le e formativo, scolastico e professionale. Dagli Stati Uniti, al Regno Unito,
alla Germania, alla Spagna, alla Svizzera, al Belgio, ecc., la prima e fonda-
mentale aspirazione dei popoli delle varie Regioni, Cantoni, Stati, Comunità
regionali, ecc. è stata quella di avere un reale protagonismo nell'impostare e
promuovere l'educazione, la formazione professionale, la cultura della pro-
pria gente, certamente in un quadro di coordinamento o di concertazione na-
zionale, nel quale lo Stato centrale non assume altro ruolo che quello di ga-
rantire le esigenze ritenute costituzionalmente essenziali per assicurare il be-
ne dei cittadini e un'identità nazionale. Come mai in Italia le varie forze po-
litiche rimangono così attaccate a una concezione centralizzata e statalista
della scuola e della formazione professionale, mentre sembrano disponibili
solo a qualche concessione sul piano fiscale, economico, amministrativo?
60
MICHELE
PELLEREY" Orientamento e riforma
della scuola
problemi e prospettive
103
1. Dimensioni dell'orientamento scolastico e professionale
104
essere quello di fornire agli studenti i mezzi intellettuali, la convinzione di ef-
ficacia e la motivazione intrinseca necessari per continuare a educare se stes-
si lungo tutto l'arco della propria vita" (Bandura, 1996, 34).
G. Domenici (1998) insiste anch'egli sulla necessità di un impianto for-
mativo prolungato nel tempo, di un modello dìacronico-formativo, dove:
"L'orientare diventerebbe un processo intenzionale che da eterodiretto si tra-
sforma via via, col progressivo avanzamento degli itinerari di formazione, so-
prattutto scolastica, in processo autonomo autodiretto, cioè tale da promuo-
vere un vero e proprio auto-orientamento" (p. 41).
105
che erano loro necessarie per sviluppare la loro attività lavorativa e impren-
ditoriale; e che in questo la scuola ha avuto un ruolo del tutto marginale.
Nell'analizzare la situazione attuale si riscontrano carenze molto più per-
vasive e profonde di una scarsa conoscenza di sé o del mondo lavorativo che
ci circonda. Tuttavia occorre ricordare come queste dimensioni rimangano
essenziali nello sviluppo di u n programma di orientamento. La conoscenza
del proprio sistema del sé è alla base di una possibilità di autoregolazione;
d'altra parte orientarsi significa possedere una adeguata mappa della realtà
lavorativa e professionale, nonché delle opportunità di preparazione, inseri-
mento e carriera presenti.
Sono state più volte riscontrate:
a) carenze di sviluppo e di acquisizione di competenze strategiche di na-
tura cognitiva, affettiva e volitiva;
b) debolezze nel saper riconoscere i propri processi cognitivi, affettivi e
volitivi e nel saperli regolare;
e) limitate aspirazioni personali, di altrettanto spesso bassa stima di sé e
di convinzioni di scarsa efficacia in aree essenziali dell'azione di apprendi-
mento e della maturazione personale;
d) attribuzioni di valore distorte o poco incidenti, di elaborazioni irreali-
stiche o devianti di possibili sé.
3. Riprendere l'impegno
106
e) poi nella competenza nel decidere e nell'elaborare strategie di realizzazio-
ne delle proprie decisioni; d) infine, nella capacità di guidare se stessi nel
cammino spesso lungo e faticoso della realizzazione dei propri progetti, con
senso di responsabilità verso se stessi e gli altri.
In termini più immediati si tratta in primo luogo di arricchire l'io di de-
sideri, aspirazioni, di aperture a sé possibili; di concezioni e convinzioni ade-
guate riguardo se stessi, il mondo, la formazione scolastica e professionale;
di conoscenze organizzate e di abilità strategiche nel risolvere i problemi po-
sti dalla vita e dall'apprendimento scolastico e professionale. Nulla dì più ne-
gativo sarebbe, invece, lasciarsi attrarre da un modello riduzionista e razio-
nalista che considera la decisione umana in questo ambito come quella di in-
dividui che vagliano un'ampia gamma di possibilità, calcolano i propri van-
taggi e svantaggi e successivamente scelgono l'alternativa d'azione dalla qua-
le si aspettano i maggiori vantaggi (Bandura, 1996, 34).
In secondo luogo occorre guidare e sostenere i giovani nella capacità di
leggere e interpretare, alla luce delle proprie aspirazioni, delle proprie con-
vinzioni e delle proprie conoscenze e competenze, le situazioni particolari
nelle quali ci si deve confrontare sia nella vita quotidiana, sia in quella più ti-
picamente scolastica, e quindi nella generazione delle proprie intenzioni
d'azione, delle proprie scelte specifiche, nell'elaborazione dei propri progetti
immediati o a lungo termine di lavoro e di attività professionale.
Infine, occorre promuovere competenze nel saper gestire se stessi e l'am-
biente in cui ci si trova a operare in maniera valida e leconda per raggiunge-
re le mete che ci si è prefissati di raggiungere e realizzare i progetti elabora-
ti. È questa una parte della formazione spesso trascurata, quella che spesso
passa sotto il nome di volizione o capacità di perseverare nelle proprie im-
prese nonostante le diificoltà, gli imprevisti, le possìbili frustrazioni, l'emer-
gere di alternative più piacevoli nell'immediato, le distrazioni, ecc.
107
sviluppo di atteggiamenti e attese verso il leggere e lo scrivere, atteggiamen-
ti e attese che non possono essere in alcun modo pensati come derivanti so-
lo da contesti famigliari o da esperienze sociali generali dei bambini. In ef-
fetti i bambini in gran parte non hanno la possibilità di osservare i grandi, o
i più grandi di loro, impegnati nel leggere e, particolarmente, nello scrivere
per dovere. Tutto questo è proprio del mondo del lavoro e non del tempo li-
bero. Qualche esperienza di osservazione e interiorizzazione di comporta-
menti adulti di lettura per piacere è possibile coglierla, ma anche in questa
prospettiva sempre meno.
Secondo quanto affermato nel testo di presentazione del disegno di legge
sul riordino dei cicli esiste u n a preoccupazione diffusa circa il pericolo di
trasformare la scuola dei cinquenni in una "scuola preparatoria". Questa
preoccupazione nasce da una possibile interpretazione dell'obbligo come
troppo precoce impostazione sistematica di tipo scolastico. Tuttavia il ruolo
preparatorio della prescuola alla scuola è indubbio dal punto di vista cogni-
tivo, affettivo, motivazionale, sociale e di prevenzione e compensazione di
possibili squilibri futuri. Si tratta di promuovere un orientamento, che per-
metta di valorizzare adeguatamente la successiva fase scolare.
Il processo formativo che si svolge nell'arco dei cinque anni attuali della
scuola elementare ha certamente lo scopo di promuovere la crescita della
persona da molti punti di vista. Tra questi tende a prevalere, in particolare
nell'ultimo anno, la centralità del preparare ad affrontare positivamente ed
efficacemente l'attuale scuola media formativa e orientativa.
In questo arco di scolarità si debbono porre le basi conoscitive e strate-
giche elementari sia di tipo cognitivo, sia affettivo, sia volitivo. In questi ul-
timi decenni è stato messo in risalto il ruolo fondamentale di una crescita
nella consapevolezza dei propri processi interni e nella propria capacità di
gestirli fruttuosamente nel contesto dei vari apprendimenti. Si tratta di
quelle iniziali competenze di autoregolazione, che certamente devono esse-
re potenziate nel corso degli anni scolari seguenti, m a che se si presentano
deboli e assenti al termine di questo segmento condizionano gravemente
ogni possìbile crescita ulteriore. Possiamo citare a esempio: il senso dì po-
ter efficacemente affrontare il successivo impegno scolastico e la vita con
buone possibilità di riuscita personale e sociale; uno stile attributivo che as-
segni i risultati che si ottengono a cause personali (intellettuali, affettive e
volitive) che sono sotto il proprio controllo; una iniziale competenza comu-
nicativa e relazionale sia nel saper collaborare con gli altri, aiutarli ed esse-
re aiutati, sia nel saper affrontare situazioni di conflitto e di confronto in
m a n i e r a positiva.
Questi obiettivi rimangono centrali anche nella scuola primaria prevista
dal disegno di legge, ma con una profonda modifica: l'ultimo ciclo assume le
caratteristiche formative proprie dell'attuale scuola media, mentre rispetto a
quest'ultima si attenua la valenza orientativa legata alla scelta del percorso
scolastico seguente oppure dell'inserimento nel mondo del lavoro tramite
formazione professionale o apprendistato.
108
5. La scuola media, scuola che orienta
L'attuale scuola media nei programmi del 1979 è descritta come scuola
delia iormazione dell'uomo e del cittadino, scuola che colloca nel mondo,
scuola orientativa. Quest'ultima caratterizzazione viene così esplicitata: "La
scuola media è orientativa in quanto favorisce l'iniziativa del soggetto per il
proprio sviluppo e Io pone in condizione di conquistare la propria identità di
fronte al contesto sociale tramite un processo formativo continuo cui debbo-
n o concorrere unitariamente le varie strutture scolastiche e i vari aspetti
dell'educazione. La possibilità di operare scelte realistiche nell'immediato e
nel futuro, pur senza rinunciare a sviluppare un progetto di vita personale
deriva anche dal consolidamento di una capacità decisionale che si fonda su
una verificata conoscenza dì sé". È questo un quadro di riferimento abba-
stanza complesso e impegnativo, del quale ben raramente la scuola ha preso
adeguatamente coscienza, ma soprattutto è riuscita a tradurre in pratica
educativa consolidata.
La scuola media prevedeva nel suo momento costitutivo certamente un
obbligo per tutti, ma al suo interno erano possibili alcune possibili articola-
zioni di percorso. Un'opzione era diretta verso il mondo del liceo e per sag-
giare questo orientamento era previsto l'insegnamento del latino nella terza
classe, una seconda opzione era più diretta verso i canali tecnico-prolesiona-
li e prevedeva un insegnamento delle applicazioni tecniche in seconda e ter-
za. Materia opzionale era anche l'educazione musicale. Questa impostazione
più che derivare però da una istanza orientativa traeva le sue origini dai due
canali formativi precedenti: la scuola media e la scuola di avviamento al la-
voro.
Nella riforma del 1977 il percorso divenne unico per tutti. E l'idea di un
biennio comune unitario ne fu uno sviluppo ipotizzato negli stessi anni.
L'orientamento divenne sostanzialmente un giudizio di orientamento emesso
dal consiglio di classe e basato sui risultati scolastici nelle discipline princi-
pali, italiano e scienze matematiche chimiche fisiche e naturali. In qualche
caso ci si avvaleva della consulenza di qualche psicologo al fine di saggiare
attitudini e preferenze professionali, oppure si organizzavano conferenze di
persone del mondo del lavoro e delle professioni. 11 giudizio di sufficiente
emesso al termine degli esami finali indicava, e indica, che un soggetto non
è in grado di percorrere in maniera regolare né i licei, né, in gran parte dei
casi, gli stessi istituti tecnici. Meglio l'Istituto professionale o i Corsi di for-
mazione professionale. Ma anche là dove queste due possibili strade forma-
tive sono strutturate in maniera sufficientemente solida si hanno fortissime
emorragie nei primi due anni di frequenza. Nelle zone dove è facile inserirsi
nel mondo del lavoro si tratta di un passaggio diretto verso l'attività lavorati-
va. Dove ciò è più difficile o impossibile si aprono strade assai pericolose di
vita marginale rispetto sia alla suola, sia all'attività produttiva. E così in am-
bedue le situazioni viene a delinearsi una mancata, sia pur iniziale, qualifi-
cazione professionale spendibile nel mercato del lavoro e un livello di for-
109
inazione culturale e personale del tutto inadeguate] rispetto alla esigenza
dell'attuale società complessa.
Il termine della scuola media e l'inizio della secondaria si presentano co-
sì come lo snodo fondamentale delle prime scelte forti che l'alunno compie
sotto l'influsso della scuola e della famiglia. Ma a questo egli nella gran par-
te dei casi non è preparato, né sostenuto e guidato dal sistema formativo nel
suo complesso. Anche perché questo stesso sistema non è stato capace di
darsi delle strutture di supporto stabili, valide ed efficaci, nonostante le mol-
te iniziative formative delle cosiddette "figure di sistema", e l'esistenza in al-
cune aree di centri di consulenza anche di buon livello.
110
Dal secondo anno il processo di orientamento dovrebbe diventare più
"mirato" e sistematico. L'alunno dovrebbe scegliere tra i diversi indirizzi già
nettamente caratterizzati, senza dover per questo rimanere prigioniero delle
scelte compiute. Per questo viene affidato ai consigli dì classe l'impegno di
attivare "apposite iniziative didattiche [...] finalizzate all'acquisizione di una
preparazione adeguata al nuovo indirizzo". Ciò vale anche per coloro che ab-
biano già completato l'obbligo scolastico.
Il comma 4 dell'art. 8 allude indirettamente a un ruolo specifico del siste-
ma della formazione professionale, alfermando: "Una parte dei moduli del
terzo anno, fermo restando lo svolgimento negli istituti secondari delle ma-
terie fondamentali comuni, può essere realizzata, sulla base di specifica pro-
grammazione degli istituti, mediante attività o iniziative formative da realiz-
zare anche presso altri istituti, enti o agenzie sulla base di una disciplina da
definire mediante un accordo quadro tra il Ministero della pubblica istruzio-
ne, il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, la Conferenza perma-
nente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento
e Bolzano".
Questo comma, a mio avviso, deve essere messo in relazione all'Accordo
sul lavoro del 24 settembre 1996, accordo che ha trovato tante difficoltà ad
essere assunto in sede normativa- E qui emergono alcuni nodi irrisolti e ten-
sioni di difficile composizione. Il disegno di legge continua a prefigurare una
separazione assai discutibile tra formazione "accademica" o "scolastica" e
formazione "non scolastica" o "professionale", quasi che le due non possano
comporsi in una unità non solo progettuale astratta, ma di azione formativa
concreta. In poche parole gli insegnamenti della matematica, della lingua ita-
liana, della lingua straniera, delle scienze rimarrebbero ancorati al loro
splendido isolamento e identità disciplinare (e istituzionale), senza nessun
effettivo collegamento e dialogo sistematico con le esperienze tecniche e ope-
rative proprie delle attività di formazione professionale, separando istituzio-
nalmente e fisicamente i luoghi della formazione culturale disciplinare acca-
demica, da quelli della formazione professionale e operativa.
La tradizione scolastica italiana in realtà conserva, a differenza di molti
Paesi europei, forme disciplinari assai chiuse e autosufficienti, poco aperte
alle applicazioni e aì dialogo con il mondo reale del lavoro e della tecnologia.
Ancor più assente è una qualsiasi forma di apprendistato cognitivo legato
all'attività pianificatrice e realizzativa di progetti di natura tecnico-pratica.
Un accenno al "fare" e al "saper fare" contenuto nel documento governativo
sembra evocare una visione del mondo del lavoro assai dissonante dalla
realtà attuale e ancor più di quella che si prospetta. È sempre più difficile
trovare infatti ambiti lavorativi nei quali si debba interagire direttamente con
gli oggetti da produrre o i servizi da svolgere per mezzo degli utensili o delle
leve e manovelle di macchine meccaniche o elettromeccaniche, mentre sem-
pre più si deve saper utilizzare un sistema di comunicazione artificiale inter-
posto tra l'uomo e l'azione delle macchine. Che tipo di "orientamento" emer-
gerebbe da una simile ipotizzata dicotomia: che la parte nobile della forma-
111
zione sta in u n o studio fine a se stesso, di natura astratta e crìtica, mentre la
parte miserevole sta nell'imparare a "fare", quasi che la prima forma di im-
prenditorialità non fosse proprio quella relativa alla propria formazione se-
condo un progetto di sé unitario. La stessa multimedialità viene vista spesso
come una specie di bricolage nel mondo della conoscenza, più che una vera
risorsa per progettare e per lavorare.
Un'ultima osservazione: come è possibile promuovere un orientamento
rivolto a percorrere il cammino della formazione professionale, se nel secon-
do anno le uniche esperienze proposte riguardano esclusivamente gli indiriz-
zi scolastici? E se nel terzo anno gli istituti non intendono includere nella lo-
ro programmazione attività o iniziative formative presso centri o agenzie di
formazione professionale?
112
8. Su alcune possibili soluzioni istituzionali a livello di primo ciclo se-
condario nella prospettiva di un sistema integrato
113
d) La via della transizione. A termine del secondo anno del ciclo orientati-
vo scolastico gli alunni possono scegliere di inserirsi a pieno titolo in un per-
corso di formazione professionale. In questo caso sarebbe consigliabile che
si attivasse un anno di orientamento professionale, arricchito culturalmente
e polivalente, che permettesse una scelta più consapevole del settore profes-
sionale di qualificazione, un eventuale passaggio all'apprendistato assistito o
anche un rientro nel sistema scolastico. È un'impostazione sostanzialmente
analoga a quella sviluppata nella sperimentazione ormai a regime della for-
mazione professionale nel settore della grafica industriale, soprattutto nella
Regione Veneto.
9. Oltre l'obbligo
114
Nel documento elaborato dalle regioni si evidenzia la preoccupazione che
al termine dell'obbligo scolastico possa prodursi un inserimento nel mondo
del lavoro da parte di soggetti che non hanno conseguito alcuna preparazio-
ne dal punto di vista professionale. Per questo si avanza l'ipotesi di aggiun-
gere a conclusione dell'obbligo scolastico un anno dì obbligo formativo pro-
fessionale. Ciò porterebbe a consentire un inserimento nel mondo del lavoro
solo a coloro che siano in possesso o di un diploma, o di una qualifica ini-
ziale conseguita presso il sistema della formazione professionale, oppure una
qualifica conseguita con percorso in alternanza attraverso un contratto a
causa mista che preveda un congruo numero di ore di formazione al dì fuo-
ri dell'impresa presso il sistema della formazione professionale.
Il sistema della formazione professionale dovrebbe attrezzarsi a rispon-
dere al diritto alla formazione fino a diciotto anni mediante un percorso ar-
ticolato (per anni o secondo un biennio seguito da un anno di specializza-
zione) in modo da consentire livelli di qualificazione successivi. Viene anche
previsto, come ribadito spesso in tutti i documenti di questi ultimi anni, ma
mai messo in sperimentazione, l'avvio di percorsi di formazione professiona-
le superiore consistenti di tipo non universitario.
115
quella del territorio, secondo le sue possibilità ed esigenze di sviluppo, ma
con uno sguardo aperto alla libera circolazione dei lavoratori nell'intero am-
bito europeo. Cbe senso ha voler impostare sul piano nazionale piani di qua-
lificazione, di perfezionamento o di riqualificazione professionale che vada-
no bene per la Sicilia o la Sardegna e contemporaneamente per il Veneto o il
Trentino? Ma anche perché dover vincolare i singoli in percorsi formativi che
non sono più al servizio del cittadino, ma solo alle urgenze momentanee (e
secondo preferenze politiche contingenti) di un pezzo del Paese. La forma-
zione professionale deve includere, in particolare sotto il profilo dell'orienta-
mento, una formazione alla mobilità e a un'Europa senza frontiere, soprat-
tutto per quanto concerne il mondo del lavoro e delle professioni.
In questa prospettiva si riaffaccia la questione dell'Istruzione Professio-
nale di Stato e l'interpretazione del dettato costituzionale. In tale contesto è
ancora possibile mantenere una doppia modalità di qualificazione profes-
sionale; u n a statale, quella data dagli istituti Professionali di Stato, e u n a
regionale, con notevoli discriminazioni sul piano dei concorsi statali circa
il riconoscimento delle qualifiche regionali? Persino la Francia, che si m u o -
ve "in u n ordinamento tradizionalmente più accentrato del nostro" si è
mossa verso u n a profonda regionalizzazione attribuendo alle Regioni "la
responsabilità di elaborare un piano per l'intera g a m m a di attività di for-
mazione professionale dei giovani, e di supportarne l'attuazione con appo-
siti contratti fra i diversi attori sociali e istituzionali ad essa interessati"
(Benadusi, 1997, 86).
A mio giudizio quindi anche la competenza primaria nel settore
dell'orientamento professionale, proprio per la sua intrinseca interconnessio-
ne con la formazione professionale a ogni livello, deve essere con più chia-
rezza affidata alla Regioni, non solo per quanto riguarda i percorsi formativi
legati a un diritto alla formazione fino a diciotto anni, bensì anche nell'am-
bito delle azioni formative e orientative da sviluppare a favore di tutti i sog-
getti già occupati, non ancora occupati o in cerca di altra occupazione.
Per quanto concerne l'apprendistato, ad esempio, le timide prospettive di
formazione fuori dal posto di lavoro prefigurate nel disegno di legge sul la-
voro dovranno comunque essere potenziate da robusti interventi a favore
dell'orientamento inteso in senso forte, cioè come promozione della capacità
di autoregolazione della propria formazione in una prospettiva dì mobilità
non solo orizzontale, ma soprattutto verticale. Il diritto alla formazione deve
inoltre essere attentamente intrecciato al dovere che ogni lavoratore, come
ogni professionista, ha di qualificarsi ulteriormente per poter svolgere ai li-
velli richiesti dall'evoluzione tecnologica e organizzativa le mansioni che so-
no di sua spettanza. E questo dovere evidentemente deve essere esteso alle
aziende e alle varie amministrazioni. Diritti e doveri alla formazione devono
essere esplicitati e protetti secondo una chiara normativa.
Un cenno almeno va latto, per quanto riguarda l'orientamento, a quanto
si afferma nel documento del Ministro circa il triennio finale della scuola se-
condaria. Esso dovrebbe avere "carattere professionalizzante, nel senso di
116
offrire agli studenti indirizzi corrispondenti a grandi aggregazioni culturali-
professionali, il cui numero [...] varia da 7 a 11". Secondo il documento la
"vera novità" è data dall'ipotesi di favorire un "avvicinamento progressivo al
mondo del lavoro" secondo varie modalità organizzative. Non solo, l'ultimo
anno del triennio finale acquista un ruolo orientativo assai forte, soprattutto
se saranno veramente attivati i diversi canali di formazione superiore e post-
secondaria alternativi a quelli universitari (sia di diploma che di laurea). In
effetti alla fine della scuola secondaria si aprirebbero molte alternative pos-
sibili: inserirsi direttamente nel mondo del lavoro, frequentare corsi di quali-
ficazione post-diploma oppure corsi di formazione professionale superiore
(non mi piace la dizione "avanzata") non universitaria, iscriversi a corsi di
diploma universitario o di laurea. Con tutte le possibili variazioni sul piano
delle specializzazioni o degli indirizzi possibili.
La domanda che deve essere posta però sulla base di alcuni dati attuali:
quale impatto potrà avere questa molteplicità di possibili scelte sull'effettiva
comprensione e decisione del singolo. Non rimarrà prevalente nell'immagi-
nario personale l'alternativa tra lavoro e Università? Con un sovraffollamen-
to di quest'ultima soprattutto là dove la prima alternativa non sembra facil-
mente subito raggiungibile? Non sarebbe bene introdurre un esame-concor-
so di ammissione ai vari corsi di laurea o di diploma? o almeno ripristinare
alcuni vincoli di accesso alla diverse Facoltà a seconda dell'indirizzo di stu-
di secondario prescelto? e contemporaneamente enfatizzare meno un ipote-
tico nuovo "serio" esame di Stato finale? E che dire della questione (stretta-
mente connessa) del valore legale dei vari titoli che verrebbero così a essere
conseguibili dagli studenti? Verrebbero ancora, come ora, privilegiati i titoli
statali finali della scuola dell'obbligo, della scuola secondaria e quelli uni-
versitari?
117
ne professionale) e in un contesto di proclamata accettazione di un ruolo più
forte e autonomo delle Regioni stesse, occorrerebbe porre le premesse per
una più chiara individuazione delle competenze di queste ultime, senza con-
tinuamente contrapporre a queste competenze parallele, e inevitabilmente
più forti, dello Stato centrale.
In particolare giova sottolineare come un'integrazione effettiva tra scuola
e formazione professionale non possa essere realizzata con normativa a li-
vello nazionale. Al massimo si possono fornire quadri di rilerimento legisla-
tivi e protocolli di intesa tra Stato e Regioni a carattere generale che aiutino
l'azione a livello locale. Sono tre le ragioni principali di questa affermazione.
La prima riguarda il ruolo delle Regioni in materia di istruzione e formazio-
ne professionale, ruolo che, come più volte sottolineato, inevitabilmente an-
drà potenziato, tenendo conto anche degli orientamenti in ambito europeo.
La seconda ragione deriva dalla necessità di tenere conto delle realtà effetti-
vamente presenti nei vari bacini di utenza. Si tratLa di aree geografiche ca-
ratterizzate da profonde diversità culturali, economiche, sociali, di domanda
e di offerta formativa. La terza riguarda l'autonomia delle singole unità sco-
lastiche e delle diverse agenzie formative, che, in base alle norme in via di at-
tuazione, avrà progressivamente sempre più peso. A mio avviso occorrerà
prevedere un coordinamento delle autonomie a livello provinciale e regiona-
le al fine di rendere effettivo il ruolo di programmazione e di governo delle
regioni stesse.
Un riferimento conclusivo deve essere inevitabilmente aggiunto. Si trat-
ta dei riconoscimenti reciproci tra quanto acquisito nella formazione pro-
fessionale e nelle esperienze di lavoro e quanto è divenuto patrimonio per-
sonale nella scuola. È il tema dei cosiddetti crediti formativi. Se ne parla da
tanti anni, collegando questa problematica con quella dell'integrazione tra
formazione professionale e scuola. Occorre riuscire a fare chiarezza opera-
tiva in proposito. Proprio ai fini di una corretta impostazione dell'orienta-
mento. Il sostegno che può essere offerto ai cittadini giovani e meno giova-
ni al fine di autoregolare la propria formazione e la propria carriera lavora-
tiva, verrebbe di fatto in molti casi bloccato da rigidità burocratiche nell'ac-
cedere ai vari canali formativi disponibili. In Francia si è tentata una solu-
zione con il sistema del cosiddetto "bilancio delle acquisizioni". Occorre,
forse, anche in Italia una qualche istituzione indipendente dalla scuola e
dalla formazione professionale che esamini e garantisca il livello raggiunto
da ciascuno nella sua formazione, tenendo conto non solo delle promozioni
scolastiche o delle qualifiche professionali già certificate, m a delle cono-
scenze e competenze effettivamente già possedute come di quelle ancora
mancanti. Questo è tanto più importante in quanto nella fase attuale di ap-
profondimento della problematica connessa con i crediti formativi emerge
un certo sbilanciamento sul versante tecnico-professionale, mentre rimane
in o m b r a la componente culturale, quella, per intendersi, che consentirebbe
un accesso più agevole ai vari gradi e ordini scolastici e alle stesse carriere
universitarie.
118
12. Conclusione
Riferimenti bibliografici
119
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STUDI
Lo schema di Decreto
sul secondo ciclo:
aspetti didattici
PELLEREY MICHELE"
1. INTRODUZIONE
1
Università Pontificia Salesiana di Roma, Facoltà di Scienze dell'Educazione.
2
Ci si riferisce alla bozza di Decreto legislativo denominato "Schema di decreto legislativo
concernente le linee generali ed i livelli essenziali delle prestazioni del secondo ciclo del sistema
educativo di istruzione e formazione ai sensi della legge 28 marzo 2005, n. 53" del 3 maggio 2005.
153
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e
3
II testo della Legge 53 a cui fare riferimento è il seguente: "Mediante u n o o più regolamen-
ti da adottare a n o r m a dell'articolo 117, sesto comma, della Costituzione e dell'articolo 17, com-
m a 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentite le Commissioni parlamentari competenti, nel ri-
spetto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, si provvede: a) alla individuazione del nucleo
essenziale dei piani di studio scolastici per la quota nazionale relativamente agli obiettivi speci-
fici di apprendimento, alle discipline e alle attività costituenti la quota nazionale dei piani di stu-
dio, agli orari, ai limiti di flessibilità interni nell'organizzazione delle discipline; b) alla determi-
nazione delle modalità di valutazione dei crediti scolastici; e) alla definizione degli standard mi-
nimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all'esito dei
percorsi formativi, nonché per i passaggi dai percorsi formativi ai percorsi scolastici".
4
Quanto al concetto di competenza si può leggere la prima parte del volume di M. PELLEREY,
Le competenze individuali e ilportfolio, La Nuova Italia, Scandicci, 2004. La concezione lì espres-
sa è abbastanza diversa da quella sviluppata da G. BERTAGNA in Valutare tutti, valutare ciascuno,
La Scuola, Brescia, 2004.
154
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e
I contenuti formativi del secondo ciclo sia per il sistema dei licei, sia per
quello dell'istruzione e formazione professionale dovrebbero essere letti nel
quadro di una declinazione per singole filiere del profilo educativo, culturale
e professionale del secondo ciclo. Questo profilo, infatti, è comune a tutto il
sistema educativo ed è diretto a garantire una prospettiva comune per l'azio-
ne formativa sia delle istituzioni, sia degli insegnanti. A esso si riferisce il pri-
mo comma dell'art. 15, citandolo come allegato A. La sua assunzione viene col-
' A fini esemplificativi riporto quanto riferito alla matematica. Occorre ricordare che si tratta
della conclusione di u n percorso formativo durato 11-12 anni: "Conoscere criticamente concetti
matematici e operare con essi in modo tale da essere in grado di porre e risolvere problemi rela-
tivamente sia agli aspetti strutturali della disciplina sia alle sue diverse applicazioni. Compren-
dere il ruolo che il linguaggio matematico ricopre in quanto strumento essenziale per descrivere,
comunicare, formalizzare, dominare i campi del sapere scientifico e tecnologico ai quali la mate-
matica è applicata. Comprendere il procedimento di modellizzazione che porta alla costruzione
degli strumenti matematici, inquadrandolo nel più generale processo di conoscenza e raziona-
lizzazione della realtà perseguito nel secondo ciclo".
155
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e
legata alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono ca-
ratterizzare i percorsi offerti da Regioni e Province autonome per u n loro ri-
conoscimento a livello nazionale ed europeo.
Il testo circolante del profilo, un testo assai elaborato, si presenta come
una paideia della scuola, istituzione che assume con estrema chiarezza fina-
lità squisitamente educative su una vasta molteplicità di piani. D'altra parte,
nel testo della bozza di decreto legislativo si richiama quanto affermato nella
legge 53 e cioè che nel secondo ciclo: "sono promossi il conseguimento di una
formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione,
lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, al-
la comunità nazionale ed alla civiltà europea" (art. 1,3). Non meraviglia quin-
di che si riscontrino nel Profilo indicazioni di questo tipo: "Avvertire la diffe-
renza tra il bene e il male ed orientarsi di conseguenza nelle scelte della vita
e dei comportamenti sociali e civili. Cogliere la dimensione morale di ogni
scelta, interrogandosi sulle conseguenze delle proprie azioni, e avere la co-
stanza di portare a termine gli impegni assunti. Avere coscienza che è proprio
dell'uomo dare significato alla propria vita e costruire una visione integrata
delle situazioni e dei problemi di cui si è protagonisti" 6 .
L'art. 18, comma 1 b) prende l'avvio dal richiamo dell'art. 1 comma 5, che
afferma: "I percorsi liceali e quelli di istruzione e formazione professionale nei
quali si realizza il diritto-dovere all'istruzione e formazione sono di pari dignità
e perseguono il fine comune di promuovere l'educazione alla convivenza civile,
la crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il
fare e l'agire, e la riflessione critica su di essi, nonché di sviluppare l'autonoma
capacità di giudizio e l'esercizio della responsabilità personale e sociale curando
anche lo sviluppo delle conoscenze, abilità e competenze relative all'uso delle
nuove tecnologie e la padronanza di una lingua europea, oltre all'italiano e al-
l'inglese, secondo il profilo educativo, culturale e professionale di cui all'allegato
A. Essi assicurano gli strumenti indispensabili per l'apprendimento lungo tutto
l'arco della vita. Essi, inoltre, perseguono le finalità e gli obiettivi specifici indi-
cati ai Capi II e III".
Sulla base di questo dettato si precisano le competenze da acquisire da
parte degli studenti nel corso dell'attività di apprendimento: competenze lin-
guistiche, matematiche, scientifiche, tecnologiche, storico-sociali ed econo-
miche, destinando a tal fine quote dell'orario complessivo obbligatorio idonee
al raggiungimento degli obiettivi indicati nel profilo educativo, culturale e
professionale dello studente, nonché di competenze professionali mirate in
relazione al livello del titolo a cui si riferiscono. Esso nel suo complesso indi-
ca con chiarezza che, se quanto alla parte professionalizzante specifici profi-
li professionali possono essere articolati secondo i fabbisogni del territorio, le
5
Nelle leggi di riforma scolastica inglese del 1944 e del 1988 si riscontra u n a dizione simile
quanto a finalità fondamentali della scuola. Un'analisi delle possibili interpretazioni di un'edu-
cazione spirituale e morale nella scuola si può trovare in alcuni miei scritti: PELLEREY M., Edu-
care, Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, LAS, Roma, 1991; ID. Educazione
spirituale, educazione religiosa ed educazione morale, "Orientamenti Pedagogici", 3 (2000), 556-561;
ID., Spiritualità e educazione, "Orientamenti Pedagogici", 1 (2002), 39-54.
156
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7
Si parla genericamente nel testo della bozza di "interventi [...] per il recupero e lo sviluppo
degli apprendimenti" (art. 16, 1, b).
159
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e
Tutto questo può essere riletto in due opposte prospettive. La prima, me-
no valida e significativa in termini educativi, evoca la soggettività e l'interes-
se individuale come elemento principe di riferimento in questo percorso di
personalizzazione dello sviluppo delle competenze 8 . La seconda, a mio avviso
più pregnante dal punto di vista pedagogico, implica il rapporto con un edu-
catore che ascolti, solleciti, guidi nella scelta delle esperienze, delle iniziative,
delle attività di valorizzazione delle conoscenze e abilità acquisite nel conte-
sto scolastico e non scolastico, al fine di prospettare e consolidare u n proprio
progetto di vita professionale, sociale e personale. È in quest'ultima prospet-
tiva che si colloca la sollecitazione a rendere effettivamente presente l'azione
orientativa e tutoriale nel contesto formativo. Essa può essere svolta dagli
stessi docenti, assegnando a ciascuno di essi u n numero ridotto di studenti.
Dall'esperienza svolta in alcune istituzioni educative si è potuto constatare
che l'accompagnamento personale è certamente essenziale per soggetti che
manifestano elemento di disagio e/o di disorientamento; esso è comunque de-
siderato e valutato positivamente da tutti, con riscontri significativi sul piano
dello sviluppo personale 9 . Il suggerimento di additare u n numero ristretto di
studenti ai vari docenti tiene conto sia delle esigenze di tempo che l'assolvi-
mento di tale funzione comporta, sia il loro coinvolgimento nelle problema-
tiche più generali che i loro discenti presentano. La personalizzazione assu-
me dunque due facce: quella del processo di apprendimento, e quella della re-
lazione educativa instaurata. Tutto ciò ha una rilevanza peculiare quando si
consideri la dimensione orientativa dell'azione educativa.
In questo contesto può essere chiarito ulteriormente il ruolo del portfolio,
anche in relazione al libretto formativo del cittadino. Negli anni successivi
all'accordo Stato-Regioni del 18 febbraio 2000 10 si erano avute varie speri-
mentazioni assai interessanti, che probabilmente dovrebbero essere riprese al
fine di definire con più chiarezza quella specie di supplemento alla pagella e
al diploma che, in analogia a quanto ormai previsto a livello universitario,
consente di rileggere più in profondità il percorso formativo e i suoi risultati
sul piano individuale, rispetto a quanto sviluppato dalle varie istituzioni edu-
cative nelle quali lo studente è passato.
Il Decreto legislativo del 10 settembre 2003 n. 276, la cosiddetta Legge
Biagi, parla del Libretto formativo del cittadino all'art. 2 punto i) in questi
termini: il libretto formativo del cittadino è il "libretto personale del lavoratore
definito, ai sensi dell'accordo Stato-Regioni del 18 febbraio 2000, di concerto
tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Ministero dell'istruzio-
ne, dell'università e della ricerca, previa intesa con la Conferenza unificata
3
Una discussione in proposito è richiamata da BERTAGNA G. nel già citato volume Valutare
tutti, valutare ciascuno, La Scuola, Brescia, 2004.
5
PELLEREY M., Competenze individuali eportfolio, La Nuova Italia, Scandicci, 2004, 216-220.
10
"Al fine di documentare il curriculum formativo e le competenze acquisite le regioni isti-
tuiscono il libretto formativo del cittadino su cui verranno annotati anche i crediti formativi che
possono essere conosciuti, ai fini del conseguimento di u n titolo di studio o dell'inserimento in
u n percorso scolastico, sulla base di specifiche intese tra Ministeri competenti, Agenzie formative
e regioni interessate".
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e
5. CONCLUSIONE
11
A questo proposito si può leggere il capitolo ottavo di PELLEREY M., Competenze individuali
e portfolio, La Nuova Italia, Scandicci, 2004.
162
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e
stocratico, poco aperto alle applicazioni e a cogliere nel mondo delle espe-
rienze pratiche e professionali la radice di una loro motivazione e valorizza-
zione personale. La carenza di strumenti didattici (manuali, testi, eserciziari)
specificamente concepiti e redatti per questo ambito formativo accentua, poi,
la tendenza a una scolasticizzazione negativa del loro impianto contenutisti-
co e metodologico. Le recenti indagini sui risultati dell'insegnamento della
lingua nazionale, della matematica e delle scienze nei quindicenni dei Paesi
dell'OCSE (Progetti Pisa 2000 e Pisa 2003) hanno messo in luce il divario cre-
scente tra nazioni che facilitano processi formativi aperti alla realtà sociale
e professionale e nazioni nelle quali i processi educativi rimangono legati a
forme di insegnamento disciplinare autosufficienti. Lltalia ha manifestato in
questo ambito una drammatica arretratezza.
Il settore della formazione professionale si trova di fronte a una sfida assai
rilevante, che forse può essere affrontata validamente ed efficacemente se si
assume seriamente e intelligentemente la prospettiva ormai da tutti accettata
dello sviluppo di effettive competenze sia disciplinari, sia professionali e pra-
tiche. Un concetto adeguato di competenza, infatti, permette di coniugare
un'acquisizione significativa, stabile e fruibile di conoscenze e abilità discipli-
nari con una loro valorizzazione sul piano della crescita professionale e civile
nelle due direzioni: la prima, partendo dai compiti che ne sollecitano lo svi-
luppo; la seconda, consolidando le basi culturali e teoriche che permettono di
inquadrali e portarli a termine. La prima prospettiva può favorire la percezio-
ne di senso e di valore di molte acquisizioni di ordine teorico e/o operativo; la
seconda, l'organizzazione interna del sapere, che fa da sfondo alla compren-
sione e risoluzione delle varie problematiche tecnico-pratiche e sociali.
163
OSSERVATORIO sulle riforme
Competenze di base,
competenze chiave
e standard formativi Parole chiave:
MICHELE PELLEREY1
Competenza;
Standard;
PISA;
OCSE
In Italia, a partire dallo studio svolto dall’ISFOL sulle competenze che do-
vrebbero caratterizzare il cittadino-lavoratore, si è diffusa la tendenza a di-
1
Professore Emerito, già Ordinario di Didattica presso l’Università Pontificia Salesiana di
Roma.
67
stinguerle secondo tre categorie fondamentali: competenze di base, compe-
tenze trasversali, competenze tecnico-professionali2. Tale studio teneva conto
in particolare dei processi di formazione continua. La distinzione è stata uti-
lizzata sistematicamente nelle proposte formative elaborate nel contesto dei
percorsi IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore) e, più recente-
mente, nella definizione degli standard formativi minimi relativi alla conclu-
sione del percorso sperimentale triennale di formazione professionale cui con-
segue l’acquisizione di una qualifica. Le competenze di base, secondo la pro-
spettiva adottata dall’ISFOL, si riferiscono a saperi fondamentali utilizzabili
nel contesto della vita quotidiana e lavorativa secondo necessità, trasferibili al
variare delle condizioni di contesto e incrementabili secondo i diversi livelli di
responsabilità3. Nell’accordo raggiunto nella Conferenza Stato-Regioni del
2003 esse sono state considerate come una “base più ampia di quella tradi-
zionalmente utilizzata nella formazione professionale, in quanto non sono
[gli standard] concepiti solo in riferimento all’occupabilità delle persone, ma
anche al fine di garantire i pieni diritti di cittadinanza a partire dal possesso
di un quadro culturale di formazione di base”. Gli standard minimi di com-
petenza sono distribuiti secondo un’area linguistica, un’area tecnologica, un’a-
rea scientifica e un’area storico-socio-economica.
Esempio di competenze di base relative all’area tecnologica e storico-
socio-economica.
2
Cfr. a esempio: ISFOL Competenze trasversali e comportamento organizzativo. Le abilità di
base nel lavoro che cambia, Milano, Franco Angeli, 1994; ISFOL, Unità capitalizzabili e crediti
formativi. I repertori sperimentali, Milano, Franco Angeli, 1998.
3
Le competenze trasversali hanno carattere generale e si riferiscono a qualità della per-
sona che hanno rilevanza nel contesto di ogni sua attività e relazione. Si citano spesso tre ma-
crocategorie: relazionarsi in modo adeguato con l’ambiente fisico, tecnico e sociale; affrontare
e gestire operativamente l’ambiente, il compito e il ruolo sia mentalmente, sia a livello della
condotta finale; diagnosticare le caratteristiche dell’ambiente, del compito e del ruolo asse-
gnato. Quelle tecnico-professionali riguardano un settore specifico dell’attività professionale.
68
2. Utilizzare consapevolmente le tecnologie 2.1 È consapevole delle regole della
tenendo presente sia il contesto culturale e comunicazione telematica e utilizza gli
sociale nel quale esse fanno agire e strumenti nel rispetto della propria e altrui
comunicare, sia il loro ruolo per privacy
l’attuazione di una cittadinanza attiva 2.2 Conosce potenzialità e rischi nell’uso
delle tic
69
A proposito di competenze di base degli adulti e di standard formativi si
può citare la ricerca pubblicata nel dicembre 2002 sui Quaderni degli Annali
dell’Istruzione realizzata a cura dell’Indire nel corso del 2002. Nella pre-
messa metodologica, Guasti tratta del concetto di standard riferendosi so-
prattutto alle esperienze in corso nel mondo anglosassone e statunitense in
particolare. I cosiddetti “content standards”, egli ricorda, dovrebbero descri-
vere “ciò che gli studenti dovrebbero conoscere ed essere capaci di fare” e
pertanto “non si ha un puro contenuto senza una concettualizzazione ope-
rativa né un’operazione senza un concetto formale. Così il conoscere qual-
cosa richiede alcune operazioni intellettuali che possono essere dimostrate
solo attraverso alcune ‘performance’. […] Si ha così il valore degli standard
come certificatori, che si occupano del rapporto con le competenze dimo-
strate e certificate, gli standard come predittori, che affrontano la relazione
tra le performances e la prospettiva di sviluppo del soggetto, gli standard
come descrittori, che hanno la funzione di evidenziare i risultati e i pro-
cessi finalizzati all’accertamento e alla valutazione, gli standard come moti-
vatori, che hanno lo scopo di mettere il soggetto nella condizione di poter
essere costantemente attratto dall’apprendimento del livello successivo o di
una conoscenza integrativa o correlata”(Guasti L., 2002, 23; grassetto nell’o-
riginale).
Gli standard elaborati dalla ricerca avevano come base contenutistica le
indicazioni della direttiva 22, approvata dalla Conferenza Unificata Stato
Regioni il 6 febbraio 2001 ed entrata in vigore il 2 aprile dello stesso anno,
che individuava in quattro aree la cultura di base che un adulto deve posse-
dere: socio-economica, dei linguaggi, scientifica, tecnologica. Sono di conse-
guenza stati individuati 5 standard per l’area dei linguaggi, 16 per l’area
socio-economica, 11 per l’area scientifica, 5 per l’area tecnologica, in tutto
37. Essi “sono definiti dal rapporto concetto-azione, in base al quale il con-
tenuto che ne scaturisce assume connotazioni essenzialmente operatorie. Va
qui ricordato che la dimensione operatoria non è ancora l’attività operativa
– questa è propria degli standard di performance – che tanta parte ha nel-
l’immaginario comune teso alla delegittimazione culturale degli standard.
Ci sono aspetti dello standard che hanno carattere operativo ma la loro le-
gittimità è data dalla funzione operatoria dei dinamismi della mente e
della coscienza del soggetto. […] La presentazione formale degli standard è
caratterizzata dalla descrizione dello standard e dalla successiva indica-
zione dei livelli” (Ibidem, 24). Vengono anche evidenziate le più rilevanti
connessioni fra i diversi standard.
Non è possibile anche in questo caso riportare i vari standard e i rispet-
tivi livelli. A titolo di esempio vengono presentati due standard e relativi li-
velli. Il primo è ricavato dall’area socio-economica (standard E), l’altro dal-
l’area tecnologica (standard C).
70
Standard E: Si riconosce come soggetto di diritti e doveri nell’ambito delle norme che regolano il
rapporto di lavoro e comprende come opera un sistema di tutela del lavoro in relazione alle tra-
sformazioni della società.
Livello 1
Riconosce, a partire dall’esperienza personale, i principali diritti connessi al lavoro e li collega
alle principali norme costituzionali.
1.1 Elenca e spiega i principali diritti costituzionali in materia di lavoro;
1.2 Descrive modalità secondo le quali opera la tutela costituzionale nei rapporti di lavoro, at-
traverso riferimenti alle proprie esperienze personali;
1.3 Esemplifica diritti e doveri con riferimento al vissuto lavorativo.
Livello 2
2.1 Distingue le fonti di regolazione del rapporto di lavoro (Costituzione, legge, contratto col-
lettivo, contratto individuale);
2.2 Descrive, anche con riferimento a situazioni concrete, le relazioni tra le diverse fonti di re-
golazione del rapporto di lavoro;
2.3 Identifica e spiega i principali diritti e doveri connessi al rapporto di lavoro;
2.4 Identifica, nel testo della Costituzione, gli articoli relativi al lavoro;
2.5 Spiega, attraverso esemplificazioni e a partire dalla propria condizione lavorativa, come
opera la legislazione del lavoro.
Livello 3
Legge e interpreta semplici norme che regolano il rapporto di lavoro; utilizza fonti, selezionate
dall’insegnante, nella soluzione guidata di semplici casi legati all’esperienza personale.
3.1 Identifica, a partire da estratti della Costituzione, di leggi ordinarie, di contratti collettivi,
norme significative per la definizione dei propri diritti e doveri come lavoratore;
3.2 Utilizza le diverse fonti di regolazione come strumento per identificare e spiegare diritti e
doveri delle parti nell’ambito del rapporto di lavoro;
3.3 Utilizza le fonti di regolazione del rapporto di lavoro per comprendere situazioni concrete
e risolvere semplici problemi connessi alla propria condizione lavorativa;
3.4 Interpreta una busta paga e ne identifica le voci fondamentali (retribuzione fissa e varia-
bile, ritenute fiscali e previdenziali).
Livello 4
Comprende che la legislazione del lavoro definisce un equilibrio tra esigenze e interessi in fun-
zione di un determinato contesto storico; identifica e utilizza in modo guidato le fonti perti-
nenti nella soluzione di casi.
4.1 Identifica le clausole principali di un contratto individuale di lavoro e le pone in relazione
con la contrattazione collettiva e la legislazione sul lavoro;
4.2 Mette in relazione il sistema di tutela del lavoro adottato dall’ordinamento italiano con il
contesto storico che lo ha originato e con le sue successive evoluzioni;
4.3 Distingue e analizza le esigenze della produzione e le esigenze di tutela del lavoratore;
4.4 Trova la soluzione di semplici casi attraverso l’uso guidato delle fonti appropriate.
Livello 5
Discute criticamente le diverse modalità di regolazione del rapporto di lavoro in contesti storici
e sociali differenti; identifica e utilizza in autonomia le fonti appropriate per la soluzione di casi.
5.1 Analizza e valuta con giudizi argomentati le modalità secondo le quali le esigenze di tutela
del lavoratore si conciliano/non conciliano con il contesto della nuova organizzazione del
lavoro;
5.2 Confronta e valuta diversi sistemi (in Paesi diversi e/o in epoche diverse) di regolazione del
rapporto di lavoro;
5.3 Identifica e utilizza le norme pertinenti per la soluzione di casi problematici relativi al la-
voro.
71
Standard C: Usa strumenti elettronici e computer per elaborare e presentare informazioni
Livello 1
1.1 Coglie le peculiarità del testo elettronico rispetto al testo tradizionale nelle sue caratteri-
stiche di manipolabilità e ne sa fare uso.
Livello 2
2.1 Sa scegliere i formati che offrono maggiore compatibilità con i vari sistemi operativi;
2.2 Conosce le caratteristiche e le differenze che i documenti devono possedere per essere
adatti alle tecniche di video proiezione e di pubblicazione in Internet;
2.3 Padroneggia programmi specifici per gestire testi ed ipertesti complessi con salvataggio e
conversione nei formati più adatti, invio automatico ad una lista di destinatari attraverso le
varie modalità di stampa o di condivisione mediante posta elettronica.
Livello 3
3.1 Padroneggia tutte le possibilità di gestione offerte dal sistema operativo e sa ottimizzarne
le prestazioni per migliorarne e velocizzarne l’uso;
3.2 Usa applicazioni specifiche per creare, elaborare e gestire un foglio elettronico, utilizzando
funzionalità di trattamento dei testi, la rappresentazione di dati in forma grafica;
3.3 Usa applicazioni specifiche per creare, elaborare e gestire le basi di dati, utilizzando le pe-
culiari funzioni di inserimento, ricerca, selezione e ordinamento dei dati, generazione di
semplici rapporti;
3.4 Sa acquisire immagini da scanner, fotocamera e videocamera, e importarle, convertirle ed
esportarle nel formato migliore per l’uso a cui sono destinate con particolare riferimento
alla videoproiezione ed alla pubblicazione in Internet;
3.5 Usa applicazioni specifiche per creare, elaborare e gestire presentazioni multimediali desti-
nate a fini specifici usando funzionalità peculiari per la creazione di disegni e pulsanti di
spostamento e l’aggiunta di effetti speciali;
3.6 Usa applicazioni specifiche per creare, elaborare e gestire ipertesti complessi per creare do-
cumenti destinati ad usi specifici e adatti alla videoproiezione.
Livello 4
4.1 Usa con competenza applicazioni specifiche per creare, elaborare e gestire un foglio elet-
tronico, utilizzando le funzionalità aggiuntive di inserimento di oggetti, importazione ed
esportazione dei dati nel formato più adatto per l’uso a cui sono destinati;
4.2 Crea e gestisce database relazionali, importa ed esporta dati nel formato migliore per l’uso
a cui sono destinati;
4.3 Sa acquisire sequenze di immagini, importarle, convertirle, elaborarle e farne il montaggio
filmico;
4.4 Sceglie ed usa applicazioni specifiche per acquisire, elaborare e gestire suoni digitali e con-
vertirli nel formato migliore per l’uso a cui sono destinati;
4.5 Usa applicazioni specifiche per creare, elaborare e gestire presentazioni multimediali desti-
nati a fini specifici usando le funzionalità peculiari di formattazione del testo e della pa-
gina, l’inserimento di grafici, immagini, suoni e l’esportazione nel formato migliore per
l’uso a cui sono destinate con particolare riferimento alla videoproiezione ed alla pubblica-
zione in Internet;
4.6 Usa applicazioni specifiche per creare, elaborare e gestire ipertesti complessi per creare do-
cumenti destinati ad usi specifici e adatti alla pubblicazione in Internet.
2. LE COMPETENZE CHIAVE
72
gram for International Student Assessment) al fine di monitorare fino a che
punto gli studenti che stavano per giungere al termine dell’obbligo scola-
stico avessero acquisito le competenze essenziali per una piena partecipa-
zione alla società4. Lo studio iniziale, poi progressivamente approfondito, si
poneva la questione preliminare di “definire e selezionare le competenze” da
prendere in considerazione, in gergo DeSeCo (“Definition and Selection of
Competencies”. La definizione assunta all’avvio delle indagini messe in atto
nel 2000 (Pisa 2000) e nel 2003 (Pisa 2003) era la seguente: “Fronteggiare ef-
ficacemente richieste e compiti complessi comporta non solo il possesso di
conoscenze e di abilità ma anche l’uso di strategie e di routines necessarie
per l’applicazione di tali conoscenze e abilità, nonché emozioni e atteggia-
menti adeguati e un’efficace gestione di tali componenti. Pertanto la no-
zione di competenze include componenti cognitive ma anche componenti
motivazionali, etiche, sociali e relative ai comportamenti. Costituisce l’inte-
grazione di tratti stabili, risultati di apprendimento (conoscenze e abilità),
sistemi di valori e credenze, abitudini e altre caratteristiche psicologiche. Da
tale punto di vista, leggere, scrivere e far di conto sono abilità che, ai livelli
di base, rappresentano le componenti critiche di numerose competenze.
Mentre il concetto di competenza si riferisce alla capacità di far fronte a ri-
chieste di un elevato livello di complessità e comporta sistemi di azione
complessi, il termine conoscenze è riferito ai fatti o alle idee acquisiti attra-
verso lo studio, la ricerca, l’osservazione o l’esperienza e designa un insieme
di informazioni che sono state comprese. Il termine abilità viene usato per
designare la capacità di utilizzare le proprie conoscenze in modo relativa-
mente agevole per l’esecuzione dì compiti semplici”5.
Verso la fine del 2005 veniva pubblicato dall’OCSE un rapporto che fa-
ceva il punto sulla questione delle competenze essenziali del cittadino rileg-
gendole sotto la dizione di “competenze chiave”6. In tale documento si evi-
denziavano tre fondamentali criteri per selezionarle e definirle: a) impor-
tanza dei benefici economici e sociali che ne derivano; b) ampiezza dello
spettro di contesti nei quali si manifestano tali benefici; c) universalità di
tali benefici, nel senso che non sono limitati a specifiche categorie di per-
sone. L’aggregazione proposta per combinare tra loro le competenze indivi-
duate su tale base utilizza concetti di interazione e di riflessività. Le cate-
gorie individuate sono le seguenti.
4
Dalla “Dichiarazione mondiale sull’educazione per tutti: dare risposta ai bisogni fondamenta-
li di apprendimento” (UNESCO, Conferenza mondiale sull’educazione 1990): Art.1: “Ogni persona –
bambino, giovane e adulto – dovrà poter beneficiare di opportunità educative progettate per rispon-
dere ai loro fondamentali bisogni di apprendimento. Questi bisogni comprendono sia gli strumenti
essenziali di apprendimento (literacy, espressione orale, numeracy e problem solving) sia i contenuti
di base (conoscenze, abilità, valori e attitudini) necessari agli esseri umani per poter sopravvivere, svi-
luppare le loro capacità, vivere e lavorare dignitosamente, partecipare pienamente allo sviluppo, mi-
gliorare la qualità della loro vita, prendere decisioni informate e continuare ad apprendere”.
5
Vedi a esempio: OCDE, Definition and Selection of Competencies (DeSeCo): theoretical and
conceptual foundations. Strategic Paper , 07- Oct-2002.
6
Cfr. OECD, The definition and selection of key competencies. Executive summary , Unpu-
blished Paper, 27 – May 2005.
73
1) Agire in modo autonomo implica due caratteristiche interconnesse: lo
sviluppo dell’identità personale e l’esercizio di un’autonomia relativa, nel
senso di saper decidere, scegliere e agire in un contesto dato. Per eserci-
tare quest’autonomia, occorre avere un orientamento rivolto al futuro,
essere sensibili al proprio ambiente, capire che cosa comprende, come
funziona e qual è il posto che vi si occupa. Le competenze essenziali di
questa categoria sono:
a) la capacità di difendere e affermare i propri diritti, interessi, respon-
sabilità, limiti e bisogni: permette di fare scelte come cittadino,
membro di una famiglia, lavoratore, consumatore, ecc.;
b) la capacità di definire e realizzare programmi di vita e progetti perso-
nali: permette di concepire e realizzare obiettivi che danno signifi-
cato alla propria vita e si conformano ai propri valori;
c) la capacità di agire in un quadro d’insieme, in un contesto ampio:
consente di capire il funzionamento del contesto generale, la propria
collocazione, la posta in gioco e le possibili conseguenze delle proprie
azioni.
74
a) la capacità di stabilire buone relazioni con gli altri: permette di stabi-
lire, mantenere e gestire relazioni personali;
b) la capacità di cooperare: permette di lavorare insieme e tendere a un
fine comune;
c) la capacità di gestire e risolvere i conflitti: presuppone l’accettazione
del conflitto come aspetto intrinseco alle relazioni umane e l’ado-
zione di un modo costruttivo per gestirli e risolverli.
75
battito attuale sulle competenze è lungi dal limitarsi al semplice aspetto vi-
tale.
Per giungere a una scelta il gruppo aveva individuato tre criteri: a) com-
piutezza personale ed evoluzione durante tutta la vita; b) inclusione nella
società; c) capacità di inserimento professionale. Inoltre, si riconosce che il
concetto di competenza implica allo stesso tempo conoscenze, abilità e dis-
posizioni interne stabili, che siano trasferibili e in qualche misura poliva-
lenti. Nel caso delle competenze chiave, queste dovrebbero costituire un ba-
gaglio trasferibile e polivalente necessario al compimento o allo sviluppo
personale, come anche all’inclusione e all’impiego di ognuno, che si sup-
pone essere state acquisite alla fine del periodo di scolarità o di formazione
obbligatoria e che costituiscono il fondamento dell’educazione e della for-
mazione lungo tutta la vita. È questa una posizione che può essere rivista
considerando come nel corso degli ultimi decenni questo tipo di compe-
tenze sia notevolmente evoluto in seguito a importanti cambiamenti dal
punto di vista culturale, sociale, personale e professionale. Basti pensare al
campo delle scienze e della tecnologia, in particolare di quella dell’informa-
zione e della comunicazione. Alle classiche competenze che costituiscono la
lettura, la scrittura e il calcolo, omesse nelle conclusioni di Lisbona, si acco-
stano ora competenze di natura più generale come l’apprendere ad appren-
dere, cioè le strategie devono permettere all’individuo di costruire le compe-
tenze chiave, ma anche di conservarle, di rinnovarle e di aggiornarle, e di
acquisire nuove competenze completandole e superandole; competenze cul-
turali generali, che arricchiscano gli individui e contribuiscano alla loro ri-
cerca di felicità.
In questo quadro sono state individuate alcune aree: comunicazione in
lingua materna; comunicazione in lingue straniere; tecnologia della comu-
nicazione e dell’informazione; calcolo e competenze matematiche, scienti-
fiche e tecnologiche; spirito di iniziativa, capacità di relazione e civiche, ap-
prendere ad apprendere, cultura generale. Nel documento del novembre
2004 sono stati precisati ulteriormente sia il concetto di competenze chiave,
sia i loro domini o ambiti o aree.
76
– Conoscenza del legame tra la tecnologia e altri aspetti come il pro-
gresso scientifico (per esempio in medicina), la società (valori, que-
stioni etiche), la cultura (per esempio i mezzi multimediali) e l’am-
biente (inquinamento, sviluppo durevole).
b) Saper fare (abilità):
– Saper utilizzare e maneggiare gli strumenti e le macchine tecnolo-
giche, come anche i dati e le intuizioni scientifiche per raggiungere
uno scopo o formulare delle conclusioni.
– Abilità nel riconoscere i principali caratteri della ricerca scientifica.
– Abilità nel comunicare le conclusioni e i ragionamenti che conducono
ad esse.
c) Disposizioni:
– Curiosità e apprezzamento critico nei confronti della scienza e della
tecnologia, comprese questioni di sicurezza e di etica.
– Atteggiamento positivo anche se critico verso l’uso delle informazioni
fattuali e consapevolezza del bisogno di un procedimento logico nel
trarre conclusioni.
– Voglia di acquisire conoscenza scientifica e interesse per la scienza e
le carriere scientifiche e tecnologiche.
d) Legame con altre competenze chiave (tra altre)
– Imprenditorialità: in un’economia fondata sulla conoscenza, i pro-
gressi scientifici e tecnologici stimolano l’innovazione e lo sviluppo
dei prodotti.
– Espressione culturale: la competenza in tecnologia multimediale faci-
lita l’accesso ai materiali e alle informazioni culturali.
– Competenze interpersonali e civiche: in un’epoca in cui le questioni
scientifiche e tecnologiche sono entrate nel discorso politico domi-
nante, bisogna possedere dei riferimenti e un vocabolario sufficiente
per essere in grado di partecipare a dei dibattiti fondati.
77
c) Ambito della matematica e scientifico di base. Per la matematica si
tratta dell’abilità di usare addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, divi-
sioni e rapporti in calcoli mentali e scritti per risolvere un insieme di
problemi presenti nelle situazioni quotidiane. L’enfasi è posta sul pro-
cesso più che sul risultato, sull’attività più che sulla conoscenza. Per le
scienze ci si riferisce all’abilità e alla voglia di utilizzare un insieme di
conoscenze e metodologie valorizzate per spiegare il mondo naturale.
Per la tecnologia si considera la comprensione e l’applicazione di tali
conoscenze e metodologie per modificare l’ambiente naturale come ri-
sposta a volontà o bisogni percepiti dall’uomo.
d) Ambito delle competenze digitali. Coinvolge un uso sicuro e critico dei
media elettronici per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione.
Sono collegate al pensiero logico e critico, ad abilità di gestione di in-
formazioni di alto livello, ad abilità ben sviluppate di comunicazione.
Al livello più essenziale le abilità comprendono l’uso di tecnologie
multimediali per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e
scambiare informazioni e per comunicare e partecipare in rete via In-
ternet.
e) Ambito dell’apprendere ad apprendere. Comprende la disponibilità e l’a-
bilità a organizzare e regolare il proprio apprendimento, sia indivi-
dualmente, sia in gruppo. Include l’abilità a gestire il proprio tempo
produttivamente, a risolvere problemi, ad acquisire, elaborare, valu-
tare e assimilare nuove conoscenze e ad applicare queste e le abilità in
un varietà di contesti (a casa, nel lavoro, nella scuola e nella forma-
zione). Più in generale, essa contribuisce fortemente alla gestione del
proprio percorso di carriera.
f) Ambito delle competenze interpersonali e civiche. Si tratta di tutte le
forme di comportamento che occorre padroneggiare per partecipare
in maniera efficiente e costruttiva alla vita sociale e a risolvere i con-
flitti, quando necessario. Le abilità interpersonali sono essenziali per
una effettiva interazione personale e di gruppo e sono da valorizzare
sia in pubblico, sia in privato.
g) Ambito dell’imprenditorialità. Ha una componente attiva e una passiva
in quanto comprende sia la propensione a indurre cambiamenti in
prima persona, sia ad accogliere, appoggiare e adattarsi alle innova-
zioni sollecitate da fattori esterni. L’imprenditorialità coinvolge il
prendersi la responsabilità delle proprie azioni, positive e negative,
sviluppando una visione strategica, ponendosi degli obiettivi e rag-
giungendoli ed essendo motivato ad avere successo.
h) Ambito dell’espressione culturale. Si tratta di apprezzare l’importanza
dell’espressione creativa di idee, esperienze ed emozioni secondo uno
spettro di forme, che includono musica, espressione corporale, lette-
ratura e arti plastiche.
78
indicarle tutte. È però utile almeno in un caso presentare questi sviluppi per
cogliere in maniera più puntuale il grado di precisazione raggiunto.
Dalle indagini promosse nell’Unione Europea a 15 appariva una sostan-
ziale convergenza nel considerare le seguenti competenze chiave.
1) Competenza linguistica (literacy): “la capacità di capire e utilizzare l’in-
formazione scritta nelle attività quotidiane per raggiungere i propri
obiettivi e sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità” (IALS); “rea-
ding literacy” è “la comprensione e l’utilizzazione di testi scritti e la ri-
flessione su di essi al fine di raggiungere i propri obiettivi, sviluppare le
proprie conoscenze e potenzialità e svolgere un ruolo attivo nella so-
cietà” (PISA).
2) Competenza matematica (numeracy): “le conoscenze e le capacità ri-
chieste per gestire le richieste matematiche delle diverse situazioni “
(ALL); “la capacità di identificare, capire, utilizzare la matematica, e di
dare giudizi fondati sul ruolo che la matematica gioca nella vita privata
presente e futura degli individui, nella vita lavorativa, nella vita sociale e
nella vita di cittadini impegnati e riflessivi” (PISA).
3) Tecnologie della Comunicazione e dell’Informazione: TIC
4) Lingue straniere, non solo come abilità tecnica, ma come apertura a cul-
ture diverse, appartenenza a più di una comunità linguistica e culturale,
incremento delle possibilità di impiego, di istruzione e di uso del tempo
libero, a loro volta generatrici di altre competenze personali, sociali e la-
vorative.
5) Competenza scientifica: “la capacità di usare le conoscenze scientifiche,
di identificare i problemi, di trarre conclusioni basate sulle prove per
poter assumere decisioni in merito al mondo naturale e ai cambiamenti
operati su di esso dall’attività umana” ossia i concetti basilari della
scienza e della tecnica, la cui mancanza ha gravi conseguenze sull’istru-
zione successiva e sulla possibilità di impiego in molti campi. La capa-
cità di capire e applicare concetti scientifici promuove inoltre alcune im-
portanti competenze generali quali il problem solving, il ragionamento e
l’analisi.
6) Competenze trasversali, non collegate ad una specifica disciplina, quali:
comunicazione, problem solving, leadership, creatività, motivazione, la-
voro di gruppo, apprendere ad apprendere. Fra queste l’interesse mag-
giore è concentrato su “apprendere ad apprendere”.
7) Competenze sociali, in particolare educazione alla cittadinanza (citi-
zenship), basata sulla conoscenza dei propri diritti e doveri come
membri di una comunità, sull’impegno ad esercitarli e sull’attenzione
alla “sostenibilità” come segno di solidarietà verso le generazioni future.
79
“saper essere”. Ad esempio, Bellier (1998) ha indicato alcune tipologie del
“saper essere”, come qualità morali, carattere, gusto e interessi, comporta-
menti. Evéquoz (2004), in particolare, ha sviluppato una analisi sistematica
delle competenze chiave richieste da un cittadino e da un lavoratore sulla
base di una definizione comprensiva di competenza che suona così: “capa-
cità di una persona di agire con iniziativa e responsabilità in una situazione
data, in funzione della prestazione attesa e mettendo in moto le sue risorse
interne”. Ne è derivato un quadro di riferimento o referenziale abbastanza
elaborato che comprende sei ambiti generali nei quali viene definita una
competenza, che poi è articolata secondo capacità specifiche e indicatori
della presenza di tale capacità. Le sei competenze sono:
a) Trattare l’informazione: “Ricevere dati, comprenderli, elaborarli e saperli
riportare adeguatamente”.
b) Organizzare: “Strutturare attività in funzione di un risultato da raggiun-
gere in un tempo determinato”.
c) Risolvere problemi: “Produrre una risoluzione efficace sulla base di una
ricerca di informazioni utili, seguita da un’analisi rigorosa e logica”.
d) Lavorare in équipe: “Collaborare con gli altri al fine di raggiungere obiet-
tivi comuni”.
e) Inquadrare: “Guidare le persone verso un obiettivo mettendo in moto le
risorse disponibili”.
f) Comunicare: “Trasmettere e scambiare informazioni in un contesto pre-
ciso”.
CAPACITÀ INDICATORI
Gestire il tempo durante la - aver letto tutti i dati utili
preparazione - aver preparato il materiale (sintesi o programma)
Distribuire efficacemente il tempo a per la presentazione
disposizione tra le attività utili a
raggiungere l’obiettivo fissato
Gestire la situazione - stabilire una strategia
Prefigurare tutte le dimensioni di - fissare obiettivi chiari
una situazione al fine di coordinarle - essere rigoroso
nel raggiungere l’obiettivo - anticipare al meglio le incertezze e gli imprevisti
possibili
- avere coscienza della propria responsabilità
- rispettare gli obblighi e gli imperativi a cui occorre
far fronte
Pianificare - fissare le priorità
Definire e mettere in atto le tappe - determinare, secondo un ordine preciso, le differenti
che portano alla realizzazione del tappe da realizzare
progetto - coordinare tra loro i differenti compiti o attività
- costruire un piano/programma preciso e strutturato
Anticipare - determinare gli elementi importanti da prendere in
Agire tenendo conto delle tendenze e considerazione
delle conseguenze future - prevedere le conseguenze possibili derivanti dalla
decisione
80
Una precisazione terminologica avanzata dall’Autore sembra, infine,
utile nel considerare queste competenze chiave. Egli osserva che con il con-
cetto di trasversalità si prendono in considerazione le somiglianze che esi-
stono tra le situazioni e si tiene conto delle categorie di problemi visti in se
stessi, mentre con il concetto di trasferibilità si designa la capacità di una
persona nell’utilizzare le sue competenze chiave in situazioni differenti
(Evéquoz, 2004, 67). Questa distinzione a mio avviso va esaminata con
grande attenzione, in quanto dal punto di vista formativo è ben difficile,
come ha sottolineato Rey (1996), insegnare competenze di natura trasver-
sale, in quanto una competenza, soprattutto al suo livello iniziale, è legata
inevitabilmente a un contesto preciso. Il carattere di trasversalità può essere
promosso solo attraverso lo sviluppo progressivo di una capacità e volontà
di trasferire la competenza acquisita in contesti particolari ad altri contesti
o di natura diversa o più complessi e meno famigliari (Pellerey, 2004).
81
Un concetto comprensivo di competenza può suonare così: “Capacità di
far fronte a un compito, o a un insieme di compiti, riuscendo a mettere in
moto (attivare) e a orchestrare (coordinare) su un piano operativo (pratico)
le proprie risorse interne di natura cognitiva, affettiva e volitiva e a valoriz-
zare quelle esterne utili e disponibili in modo valido e produttivo”. Esami-
niamo un po’ più da vicino gli elementi che caratterizzano questa defini-
zione.
82
Complessità
II I
Famigliarità Novità
III IV
Semplicità
83
della compiutezza personale e dell’evoluzione durante tutta la vita, mentre
si riconosce che le conoscenze, abilità e disposizioni interne stabili coinvolte
debbano essere trasferibili e in qualche misura polivalenti. Queste caratteri-
stiche del patrimonio interiore, che forma come la base di partenza della
messa in campo delle competenze, riguardano tutto il sistema che costi-
tuisce il sé, e quindi concetto di sé, autostima, interessi, valori, significati,
motivazioni, capacità di persistenza e resistenza nel lavoro, ecc., ma ne se-
gnalano anche la complessità e dinamicità. D’altra parte, la crescita delle
competenze è certamente legata alla costruzione di conoscenze e abilità si-
gnificative, stabili e fruibili, allo sviluppo di disposizioni interiori valide e
produttive in questa direzione, ma è la pratica, l’esercizio che ne sta alla
base7.
Lo sviluppo delle competenze non avviene però solo come complessifi-
cazione di schemi interpretativi e d’azione. In gran parte il valore di una
competenza deriva dalla sua possibilità di adattamento e valorizzazione in
situazioni e contesti diversi da quello nel quale esse sono state sviluppate.
La capacità di attivare un processo di transfer o trasferimento delle proprie
competenze, implica lo sviluppo di quattro componenti fondamentali (Pel-
lerey, 2002). In primo luogo occorre promuovere la disponibilità a conside-
rare da un punto di vista superiore le proprie competenze in relazione alle
nuove situazioni o ai nuovi compiti da affrontare. È una forma di consape-
volezza del proprio livello di competenza di fronte ai nuovi impegni. In se-
condo luogo, entra in gioco un’adeguata sensibilità per avvertire, se c’è, la
presenza di una distanza tra le competenze già acquisite e quelle che si ri-
chiederebbero nella nuova situazione. Ciò non basta, occorre anche che si
riesca ad avvertire l’entità di tale distanza e quindi quanto impegnativo in
termini di tempo e di sforzo personale potrà essere l’adattare o il trasfor-
mare le proprie competenze. In terzo luogo è coinvolta la capacità di indivi-
duare quali risorse interne o esterne debbono essere prese in considerazione
al fine di affrontare la sfida incontrata. Se si constata che alcune cono-
scenze e/o abilità sono inadeguate, essere disponibile ad arricchirle opportu-
namente. Infine, è bene non dimenticarlo, è richiesta la capacità non solo di
giungere alla decisione effettiva di affrontare il lavoro necessario per adat-
tare o trasformare le competenze in oggetto, ma anche, e soprattutto, la ca-
pacità di impegnarsi per un tempo adeguato e mettendo in campo tutte le
forme di controllo dell’azione che consentono di portare a termine la deci-
sione presa.
Quanto ai livelli di distanza tra la base conoscitiva ed esperienziale, sia
concettuale che operativa, se ne possono indicare almeno due di riferi-
mento, che possono essere considerati come posti su posizioni contrastanti
su di una scala continua. Il primo livello prende in considerazione situa-
zioni nelle quali emerge la necessità di una estensione della base di cono-
7
Un approfondimento del ruolo della pratica nello sviluppo delle competenze si può tro-
vare in PELLEREY M., Le competenze individuali e il portfolio, Scandicci, La Nuova Italia, 2004.
84
scenza esperienziale a nuovi casi non ancora incontrati precedentemente e
che si discostano per alcuni aspetti significativi, ma non tali da rimettere in
discussione il quadro interpretativo utilizzato. Si tratta di sviluppare un
controllo critico di tipo analitico della situazione, seguito da un attento
esame del repertorio di schemi interpretativi e operativi disponibile per veri-
ficare se essa può essere inclusa con opportuni adattamenti in qualcuno di
essi per poi passare all’azione e valutare se la pratica sviluppata permette ef-
fettivamente di superare la difficoltà o la sfida incontrata. In questo caso si
hanno un allargamento del repertorio posseduto e una migliore capacità di
attivazione e orchestrazione delle proprie risorse. Se ciò non avviene oc-
corre passare a una nuova modalità di intervento.
L’altro livello è riferibile a situazioni in cui non si riesce a cogliere nella
sua totalità la configurazione della nuova situazione, sfuggono non solo al-
cuni elementi, ma la sua stessa struttura fondamentale. Occorre in questo
caso un esame critico approfondito per identificare, anche con l’aiuto di
altri esperti, quali componenti della competenza vengano rimesse in discus-
sione: se si tratta di categorie concettuali e interpretative carenti, inade-
guate o erronee; oppure di modalità d’azione e di schemi operativi non ri-
spondenti o del tutto fuori luogo; o, infine, di prospettive di significato, di
teorie generali, che sono rimesse in discussione e devono essere trasfor-
mate. Congiuntamente, il competente esperto riesce a elaborare una valuta-
zione anche se ipotetica e sommaria circa il tempo, l’impegno, le risorse
esterne necessarie e a decidere se egli si sente di affrontare quanto richiesto
per far evolvere positivamente la sua competenza. In questo caso, quando
egli è giunto a una vera e propria decisione di agire in proposito, deve saper
elaborare una linea di azione e essere in grado di metterla in atto con co-
stanza e sistematicità e di valutarne in corso d’opera e al termine gli esiti.
Si vengono così a evidenziare vari livelli di distanza tra le situazioni ed
esperienze nuove da affrontare, le competenze implicate, e il patrimonio di
competenze già posseduto in modo stabile e fruibile. In questo contesto,
come spesso oggi avviene quando si esaminano categorie concettuali, pro-
babilmente è utile considerare classi e tipologie di situazioni che sono al
loro interno sfumate. In effetti, tra il prototipo di una situazione professio-
nale, che caratterizza una competenza, o un grappolo di competenze, e le si-
tuazioni che a poco a poco si discostano sempre più da esso, si apre una
gamma di casi, che implicano un adattamento sempre più esigente, fino a
raggiungere i confini stessi della classe o tipologia di situazioni presa in
considerazione. Finché si rimane all’interno di una particolare classe o tipo-
logia di situazioni il processo d’adattamento può essere definito di modula-
zione della competenza.
Quando tale processo non è più sufficiente, cioè ci si trova in contesti
che implicano non tanto e non solo la mobilizzazione e orchestrazione di ri-
sorse interne già possedute, bensì un loro sviluppo e, spesso, una loro pro-
fonda trasformazione, si passa a tipologie di situazioni che implicano una
vera e propria discontinuità. Le risorse interne e la capacità di una loro mo-
bilizzazione e orchestrazione si dimostrano in questi casi non più sufficienti
85
per una semplice azione di modulazione della competenza, bensì una vera e
propria modificazione della competenza intesa nel suo complesso, o almeno
in alcune delle sue componenti fondamentali. Si giunge così a una trasfor-
mazione profonda della stessa prospettiva di significato del proprio agire sia
professionale, sia più genericamente umano8.
Sulla base di quanto esaminato è possibile prospettare un continuo co-
stituito da classi o tipologie di situazioni professionali sfumate e relative
competenze richieste, che coinvolgono livelli di transfer progressivamente
sempre più impegnativi, in quanto si passa da una valorizzazione valida ed
efficace di risorse interne già possedute a una anche profonda e impegna-
tiva loro trasformazione, che implica capacità non solo di mobilizzazione e
orchestrazione, ma una metacompetenza abbastanza sofisticata.
Conclusione
8
È quanto ha esaminato J. Mezirow nelle sue opere sull’apprendimento trasformativo.
86
bligo scolastico che assicuri più o meno validamente l’apprendimento di al-
cune discipline scolastiche, i cui contenuti e metodi non sempre emergono
come fondanti oggi la capacità di leggere, interpretare, valutare la realtà in-
terna ed esterna alla scuola e la capacità di agire competentemente e re-
sponsabilmente in esse. In particolare, potrebbero essere assai più valoriz-
zate nel contesto formativo le dimensioni spirituali e morali di cui parla la
legge 53 nel comma b) dell’art.2: “sono promossi il conseguimento di una
formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione,
e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale,
alla comunità nazionale ed alla civiltà europea”.
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89
IeFP IN ITALIA
Il sistema di
formazione professionale
Parole chiave: trentino
Trento; MICHELE PELLEREY1
Sperimentazione;
Triennio;
Macrosettore;
Qualifica;
Diploma;
Competenze;
Ricreazione
1. INTRODUZIONE
1
Università Pontificia Salesiana di Roma.
106
raggiungeva la percentuale di circa il 20%. Occorre aggiungere che succes-
sivi Protocolli di intesa tra la PAT e il Ministro della Pubblica Istruzione
hanno favorito i reciproci passaggi dalla formazione professionale all’Istru-
zione Tecnica e Professionale, per cui si può effettivamente parlare di un si-
stema educativo ormai fortemente unitario. A coprire ulteriormente le esi-
genze di formazione professionale concorrono le iniziative formative rela-
tive all’apprendistato e alla formazione continua in gran parte coordinate
dall’Agenzia del Lavoro. Può essere interessante ripercorrere le tappe di
questo sviluppo ed esaminarne l’attuale configurazione. Si tratta certamente
di una esperienza unica in Italia e come tale può costituire un riferimento
significativo per le politiche formative delle differenti Regioni.
RASSEGNA CNOS problemi esperienze prospettive per l’istruzione e la formazione professionale • ANNO 22 / n° 3 - 2006
107
Il biennio aveva una forte valenza orientativa per favorire una progres-
siva e guidata presa di coscienza delle scelte possibili da parte degli allievi. A
14 anni, infatti, essi scelgono solo il macrosettore di riferimento, mentre a
16 anni optano per una precisa qualifica o per il rientro nella scuola o nel
lavoro. In sostanza, l’impianto si caratterizzava per l’articolazione del per-
corso in un biennio di base, seguito da un anno di qualificazione specifica e
per la strutturazione del biennio in un’area comune e in aree di indirizzo
differenziate per macrosettore. L’area comune era uguale per tutti i settori
formativi, in modo da consentire agli allievi del biennio di raggiungere stan-
dard di “apprendimenti culturali di base” tali da garantire una pari dignità
rispetto al biennio scolastico e quindi la spendibilità ai fini dell’eventuale as-
solvimento dell’obbligo. L’area comune comprendeva: italiano, storia, diritto
ed economia, matematica, lingua straniera, oltre a educazione fisica e reli-
gione, per complessive 17 ore settimanali di insegnamento. L’introduzione
delle discipline rappresentava un novità rispetto al passato, secondo una lo-
gica di maggiore comunicazione con la scuola. In particolare si era cercato
di dare alle discipline dell’area comune un’identità propria, mantenendo
però un raccordo costante con l’area professionale. L’impianto intendeva ga-
rantire il dialogo tra l’area comune e quella di indirizzo per concorrere in-
sieme allo sviluppo di una cultura professionale.
L’area di macrosettore, o indirizzo, comprendeva quattro ambiti di inse-
gnamento aventi denominazione uguale in tutti i macrosettori: scienze, lin-
guaggi e comunicazione, modelli organizzativi, tecnologie e processi opera-
tivi, per complessive 19 ore settimanali. Essi si differenziavano all’interno di
ciascun macrosettore per finalità, contenuti e durata. La denominazione in-
dividuata per queste aree era funzionale non solo ad un’omogeneità d’im-
pianto, ma anche a dare un segnale di cambiamento sostanziale del per-
corso, per evitare che, dietro un apparente rinnovamento ci fosse una ripro-
posizione diluita delle vecchie materie e dei vecchi contenuti. In totale, il
quadro orario prevedeva, dunque, 36 ore settimanali di attività formativa,
per un totale di 1.100 ore annue. L’insegnamento delle scienze era collocato
nell’area d’indirizzo, per favorire un suo più stretto legame con le tecnologie
peculiari del macrosettore. Nel corso della progettazione si è passati, previo
accordo sindacale, ad un’impostazione dell’orario da settimanale ad an-
nuale. Inizialmente i macrosettori attivati per il biennio erano industria e
artigianato, terziario, alberghiero e della ristorazione, abbigliamento, servizi
alla persona. Successivamente sono stati introdotti il grafico e, infine il
legno e l’agricoltura.
Nel biennio, all’area comune era destinato un monte ore annuo di 540
ore così distribuito: italiano, storia, diritto ed economia, 210 ore annue; ma-
tematica e informatica, 130 ore annue; lingua straniera: 100 ore annue; edu-
cazione fisica 66 ore annue; religione 34 ore annue. Si può notare come in
questo quadro sono presenti sia l’educazione fisica, sia la religione cattolica
per coloro che se ne avvalgono. Per quanto riguarda l’area di indirizzo, il
monte ore annuale era di 560 ore. La sua distribuzione per insegnamenti
specifici variava da macrosettore a macrosettore. Per le scienze si andava da
108
70 a 150 ore annuali; per i linguaggi e la comunicazione da 60 a 163; per i
modelli organizzativi da 30 a 80; per le tecnologie e i processi operativi da
222 a 344.
Il terzo anno di qualificazione, progettato per moduli, acquistava una
particolare flessibilità, in quanto le qualifiche attivate sono rese costante-
mente coerenti con la dinamica del mondo del lavoro e del territorio, sia
quanto a specializzazioni previste, sia quanto a specifiche competenze pro-
fessionali promosse. Le qualifiche e le loro caratterizzazioni sono state indi-
viduate mediante la rilevazione e l’analisi del fabbisogno espresso dal si-
stema produttivo, che ha visto: a) il coinvolgimento e la testimonianza di
230 imprese dei vari comparti economici; b) l’individuazione delle caratteri-
stiche in termini di conoscenze e competenze dei profili professionali che
hanno portato ad identificare 18 qualifiche professionali approvate dal Co-
mitato provinciale di Programmazione della Formazione Professionale; c) la
definizione, sulla base dei profili professionali di riferimento, degli obiettivi
e dei contenuti dei singoli percorsi di qualifica a partire da quelli previsti
nei primi due anni.
Le qualifiche professionali attivate sono state per il macrosettore indu-
stria artigianato: “Operatore meccanico su macchine e impianti automatiz-
zati”; “Operatore impiantista-produzione di carpenteria metallica”; “Impian-
tista elettrico”; “Operatore elettronico”; “Elettromeccanico riparatore di au-
toveicoli”; “Termoidraulico”; “Operatore professionale edile”; “Operatore del
settore legno”. Per il macrosettore alberghiero e della ristorazione: “Operatore
ai servizi di ristorazione”; “Operatore ai servizi di sala-bar”; “Operatore ai
servizi di ricevimento”. Per il macrosettore terziario: “Operatore ai servizi
amministrativi e di segreteria”; “Operatore alle vendite”. Per il macrosettore
servizi alla persona: “Parrucchiere”; “Estetista”. Per il macrosettore abbiglia-
mento: “Operatore abbigliamento”. Per il macrosettore grafico: “Operatore di
prestampa”;” Operatore di stampa”.
L’articolazione del terzo anno prevedeva tre aree: a) un’area di “cultura
professionale e contesto organizzativo”, la cui durata poteva variare, a se-
conda delle qualifiche, dalla 100 alle 200 ore annue, che comprendeva 6 mo-
duli obbligatori per tutte le qualifiche (legislazione sociale e del lavoro, cul-
tura d’impresa e autoimprenditorialità, comunicazione e comportamenti
professionali, igiene e sicurezza del lavoro, preparazione e rielaborazione
dei risultati dello stage, ricerca attiva del lavoro); b) un’area “professionale”
(la cui durata poteva variare a seconda delle qualifiche da 700 a 800 ore
annue), costituita da un’area tecnico-scientifica e un’area operativa che pre-
vedevano, quali moduli obbligatori per tutte le qualifiche, la conoscenza del
processo produttivo, l’antinfortunistica in riferimento alla particolare quali-
fica professionale, la conoscenza tecnica della lingua straniera; c) lo stage
(della durata minima di 200 ore, aumentabili in relazione alle esigenze di
ciascuna qualifica ed articolabili anche in più momenti da collocare nelle
diverse fasi del percorso formativo del terzo anno).
La riconfigurazione dell’offerta di formazione professionale iniziale è
stata seguita da una Commissione istituzionale presieduta dall’Assessore
109
alla formazione professionale e composta da rappresentanti della Provincia,
degli Enti gestori, del Ministero della Pubblica istruzione e del Ministero del
Lavoro. Per la progettazione del percorso sono state costituite commissioni
tecniche, composte da insegnanti, da rappresentanti delle associazioni im-
prenditoriali e professionali, esperti. La progettazione del terzo anno ha
comportato una consistente fase di analisi dei fabbisogni che ha messo a di-
retto confronto il mondo della formazione con le imprese, ai fini della defi-
nizione delle nuove qualifiche e del profilo professionale. Tutta la macchina
organizzativa del sistema della formazione professionale ha dovuto ade-
guarsi al nuovo impianto, dall’organizzazione dei rapporti con l’utenza e le
famiglie alla gestione delle aule e dei laboratori.
Dal punto di vista educativo, didattico e valutativo furono introdotti non
pochi elementi innovativi. Essi riguardano l’orientamento, la valutazione, la
progettazione di Centro e l’organizzazione didattica, la formazione dei do-
centi. È interessante soffermarsi su alcune di queste innovazioni in quanto
hanno precorso molte indicazioni attuali. La valutazione, in particolare, è sta-
ta completamente reimpostata, sia metodologicamente che quanto a stru-
mentazione specifica. Sono stati definiti i criteri per la valutazione (in in-
gresso, in itinere e finale), gli strumenti di certificazione, le modalità per l’e-
same di qualifica dove, anticipando la riforma della scuola, è stata introdotta
la valutazione in centesimi. Si è cercato di introdurre una concezione della va-
lutazione che aiutasse il sistema ad essere più promozionale che selettivo, so-
prattutto temendo il pericolo che l’introduzione di una più forte dimensione
culturale comportasse maggiori difficoltà per un’utenza tradizionalmente de-
bole, e quindi un aumento di ritiri e bocciature. Perciò la valutazione degli ap-
prendimenti si connota come un processo basato sull’integrazione di tre fat-
tori: i risultati delle prestazioni, l’osservazione da parte del docente, l’autova-
lutazione da parte dell’allievo. Tale processo parte dal bilancio iniziale delle ri-
sorse personali in termini di apprendimento professionale, si sviluppa du-
rante il percorso formativo attraverso metodologie di osservazione e di rac-
colta di documentazione in un dossier o portfolio per ciascun allievo, coinvol-
gendo l’allievo stesso nella sua costruzione e gestione, e consente di esprime-
re la valutazione finale mediante un supporto di documentazione che costi-
tuisca la base di un bilancio conclusivo e della comunicazione alle famiglie.
Si è introdotta la distinzione tra diversi documenti di valutazione e le differenti
funzioni che essi assumono: a) la pagella ufficiale, certifica pubblicamente e
periodicamente i risultati conseguiti durante il percorso, sulla base di format
e descrittori formalmente approvati dalla Giunta Provinciale; b) l’attestato di
qualifica, per il quale si è utilizzato il format adottato in forma sperimentale
dal Ministro del Lavoro, che certifica il risultato finale e la descrizione del
percorso effettuato; c) il portfolio o dossier, inteso come strumento di valuta-
zione e di auto-valutazione; d) altri documenti di valutazione interni del Cen-
tro e/o curati dai singoli docenti. Particolarmente innovativa è stata la pagel-
la del terzo anno. Coerentemente con l’impostazione progettuale, che ha rot-
to lo schema tradizionale delle discipline o ambiti disciplinari (che invece ca-
ratterizza il biennio e le relative pagelle), per il terzo anno si è adottata un’im-
110
postazione basata sulle competenze. Essa ha rivestito una notevole valenza co-
municativa verso il mondo del lavoro. Inoltre ha implicato una diversa orga-
nizzazione delle procedure valutative degli insegnanti, poiché al consegui-
mento di determinate competenze concorrono contenuti che fanno riferi-
mento a più docenti. I descrittori sono individuati in base ai cinque blocchi ri-
portati nella tavola che segue.
111
può essere utilizzato in modo flessibile, modulare, in base alle necessità che
si presentano in corso d’anno, secondo criteri didattici ed organizzativi defi-
niti nella programmazione di Centro. Contemporaneamente è stata intro-
dotta una funzione organizzativa nuova, quella del coordinatore della speri-
mentazione, con il compito di accompagnare e supportare le équipes di do-
centi sia per l’aspetto didattico che per quello organizzativo, tenendo i rap-
porti con i coordinatori degli altri Centri e con gli eventuali esperti esterni.
Un ulteriore elemento fortemente innovativo nel panorama nazionale è
stato il collegamento con il sistema scolastico. Sulla base di alcune verifiche
di fattibilità si è pervenuti alla sottoscrizione, nell’ottobre del 1995, del Pro-
tocollo d’intesa tra la PAT e il Ministero della Pubblica Istruzione, che preve-
deva la possibilità di transitare dal secondo anno del biennio del macrosetto-
re dell’industria e artigianato al terzo anno degli Istituti Tecnici Industriali e
degli Istituti Tecnici per Geometri. Nel novembre 1996, è stato sottoscritto un
secondo Protocollo, tra le stesse parti, che prevedeva di allargare la possibilità
di transito dal macrosettore terziario agli Istituti Tecnici Industriali. La pos-
sibilità di passaggio non è generalizzata, bensì condizionata da alcuni vinco-
li: 1) gli allievi devono risultare promossi ed avere formalizzato nella pagella
un giudizio di orientamento favorevole al rientro scolastico; 2) gli allievi de-
vono superare positivamente un colloquio, volto ad effettuare un bilancio dei
livelli di apprendimento già documentati nella propria cartella personale
(portfolio), creato per ciascun allievo secondo la metodologia di valutazione
adottata nell’ambito del nuovo percorso di formazione di base, ai fini di ac-
certare l’orientamento dell’allievo al passaggio nel terzo anno scolastico. Non
un esame di ammissione, quindi, ma un momento di verifica complessiva. Il
colloquio è effettuato presso il CFP dell’allievo alla presenza di una commis-
sione paritetica costituita dal preside e da un docente dell’Istituto Tecnico di
destinazione, designati dalla Sovrintendenza scolastica provinciale e dal di-
rettore e da un docente del CFP di provenienza, designati dalla Provincia.
Per favorire sul piano pratico l’attuazione dei Protocolli, è stata adottata
una metodologia concordata tra i due sistemi, che individua un percorso nel
quale il colloquio finale diventa la naturale conclusione. Esso prevede un
programma di incontri tra i docenti dei CFP ed i docenti degli Istituti Tec-
nici interessati, per un esame congiunto dei dossier degli allievi. Ciò avviene
nel secondo quadrimestre, dopo che si è individuato il gruppo di allievi po-
tenzialmente interessato al rientro nella scuola. Tali incontri consentono
anche di individuare eventuali necessità di rinforzo o di approfondimento.
Durante la seconda metà dell’anno formativo, secondo le necessità riscon-
trate, vengono scelte le attività connesse. Dal 1996 ad oggi gli allievi transi-
tati all’istruzione tecnica si aggira intorno all’8% degli iscritti al secondo
anno della formazione professionale di base.
Completata la progettazione e sperimentazione del triennio, nel 1998 si
è compiuto un primo bilancio della sperimentazione, anche ai fini di una
sua messa a regime. Dentro un giudizio complessivamente positivo, confer-
mato peraltro dalla tenuta delle iscrizioni, uno degli elementi emersi era la
necessità di operare una revisione del biennio, ora che si disponeva dell’in-
112
tero quadro. Prendeva così avvio un percorso di revisione che si è venuto in-
trecciando con nuove azioni da mettere in campo a causa del mutato
quadro di riferimento nazionale, che stava determinando condizioni ed un
contesto del tutto nuovo.
113
crosettore di appartenenza. Di conseguenza gli obiettivi di scienze riguar-
dano le conoscenze scientifiche comuni ai vari macrosettori. Specifici com-
plementi vengono invece sviluppati nell’area di orientamento professionale
di ciascun macrosettore. La terza area, denominata dell’orientamento pro-
fessionale, comprende gli ambiti disciplinari, ripartiti diversamente per fi-
nalità, contenuti e monte ore all’interno di ciascun macrosettore, di scienze
applicate, linguaggi e comunicazione, modelli organizzativi, tecnologie e
processi operativi. Le prime due aree sono volte a favorire l’esercizio del
senso critico dell’allievo e ad agevolare, ove necessario, il passaggio alla
scuola secondaria superiore. La terza area è volta a consentire agli allievi
scelte più confacenti alla propria personalità e al proprio progetto di vita. A
queste aree si aggiungono gli insegnamenti di religione ed educazione fisica.
Anche il quadro orario del primo anno è stato quindi ridefinito sempre in
base ad un monte ore annuo di 1.100 ore suddiviso nel modo seguente: area
della cultura e della società, 310 ore; area delle conoscenze scientifiche, 180
ore; area dell’orientamento professionale, 510 ore.
Nel 2000 è entrato in vigore anche l’obbligo formativo a 18 anni, se-
condo quanto previsto dall’Accordo Stato-Regioni in attuazione dell’art. 68
della legge n. 144/99. Pertanto il percorso così impostato si pone a cavallo
tra l’obbligo scolastico, del quale consente l’assolvimento tramite il primo
anno, e l’obbligo formativo, del quale consente l’assolvimento tramite il se-
condo ed il terzo anno.
In questo contesto occorreva anche adeguare gli ordinamenti al dibattito
che si sviluppava in quegli anni a livello nazionale ed europeo sul tema delle
competenze, viste anche come possibile chiave concettuale ed operativa per
la realizzazione di un sistema di crediti formativi che consenta passaggi tra
sistemi (scuola, formazione professionale, lavoro) e progressioni formative
anche nella nuova logica della formazione lungo tutto l’arco della vita (life-
long learning). Il processo è iniziato con la ridefinizione degli obiettivi for-
mativi in termini di competenze. L’ipotesi era che ciò conferisse potenzial-
mente ulteriori elementi di flessibilizzazione del percorso formativo, in
quanto, nella misura in cui si arrivasse a definire criteri e modalità di veri-
fica e certificazione delle competenze ai fini di consentire rientri scolastici o
lavorativi o, viceversa, accessi ai vari livelli del percorso di formazione pro-
fessionale per chi proviene dalla scuola o da esperienze di lavoro o di ap-
prendistato, saranno le competenze, assunte come obiettivo formativo, il ri-
ferimento per verificarne l’acquisizione. Tra l’altro, impostare per compe-
tenze il percorso, rafforzava la valenza che secondo e terzo anno assume-
vano nel nuovo contesto dell’obbligo formativo. L’approccio per competenze
ha innovato la progettazione formativa, portando al superamento dei tradi-
zionali modelli basati sull’individuazione di obiettivi e contenuti e solleci-
tando i Centri/Istituti a una maggiore autonomia organizzativa, purché ga-
rantissero il raggiungimento delle competenze previste sia per il primo, sia
per il secondo anno. Sono state anche definite un insieme di competenze ge-
nerali per tutti i macrosettori, competenze che poi venivano declinate a se-
conda delle famiglie e delle qualifiche.
114
Tav. 2 - Competenze generali comuni ai macrosettori
1) Collegare alcuni concetti e principi scientifici particolari agli sviluppi tecnologici del
macrosettore
2) Descrivere il risultato del proprio lavoro (prodotto/servizio) in rapporto al cliente
utente e comunicare verbalmente nelle diverse situazioni organizzative, interpretando
i principali segni dei diversi linguaggi, strutturati e non
3) Interpretare e produrre comunicazioni (testi scritti, disegni, schemi, ecc.) in uso nel
macrosettore, individuandone funzioni e strutture standard
4) Attuare un percorso di autovalutazione e orientamento alla scelta, rispetto alle proprie
motivazioni e aspettative e alle opportunità e caratteristiche specifiche del macrosettore
5) Descrivere i processi di lavoro relativi al macrosettore
6) Controllare, sulla base di standard prefissati, le informazioni, le materie prime, i
semilavorati in ingresso e i prodotti / servizi realizzati
7) Organizzare e gestire le sequenze ottimali di lavoro al fine di realizzare il
prodotto/servizio finito, operando con il grado di autonomia previsto nelle diverse fasi
8) Riconoscere e interpretare le esigenze del cliente / utente esterno / interno, individuando
le caratteristiche di qualità richieste
9) Attuare comportamenti coerenti con le richieste di ruolo, con le norme di igiene e
sicurezza sul lavoro e con la salvaguardia ambientale
10) Adottare i principi dell’ergonomia per prevenire o contrastare stress, affaticamento e
malattie professionali, nonché i criteri che regolano il rapporto fra salute e ambiente
di lavoro
115
fica. Inoltre, l’area della formazione culturale si estende su tutto il triennio
secondo forme progressivamente sempre più integrate con l’area professio-
nale.
Gli insegnamenti previsti per l’intero triennio sono ora: lingua italiana,
lingua straniera, matematica e informatica, studi storico-economico-sociali,
scienze, linguaggi e comunicazione, modelli organizzativi, tecnologie e pro-
cessi operativi. Nel terzo anno gli insegnamenti pertinenti all’area professio-
nale sono preferibilmente integrati tra loro secondo una struttura modulare.
Più specificatamente per il primo anno: a) si confermano le finalità di con-
solidamento culturale, di propedeuticità, di orientamento e di polivalenza;
b) le due aree della formazione culturale e di quella professionale hanno un
peso corrispondente indicativamente intorno al 50% delle ore previste; c) ai
macrosettori individuati nella fase iniziale dell’impianto vengono aggiunti i
macrosettori del “Legno” e dell’“Agricoltura”; d) a conclusione del primo
anno, l’allievo sceglie una determinata famiglia professionale tra quelle pre-
viste dal macrosettore frequentato.
Nel secondo anno si persegue un avvicinamento progressivo alla quali-
fica attraverso un’articolazione della polivalenza per famiglie professionali.
La famiglia professionale si contraddistingue per un ambito professionale
distintivo e peculiare, riconducibile ad uno specifico macrosettore e declina-
bile in una o più qualifiche. La frequenza di una data famiglia professionale
persegue il progressivo avvicinamento alla scelta della qualifica e non pre-
clude un eventuale passaggio assistito ad altre famiglie. Le famiglie profes-
sionali individuate sono dieci: meccanica, elettrico-elettronica, edile, ter-
moidraulica, legno, abbigliamento, grafica, alberghiera e ristorazione, ter-
ziario, servizi alla persona. Rispetto alla precedente articolazione, l’area cul-
turale ha un peso leggermente inferiore e corrispondente indicativamente
intorno al 40% del monte ore previsto (contro il 50% del passato), mentre
l’area professionale ha un peso di circa il 60%. A conclusione del secondo
anno, l’allievo sceglie una qualifica professionale.
Il terzo anno è finalizzato al conseguimento della qualifica professio-
nale. Rispetto alla precedente articolazione del percorso, va sottolineato lo
sviluppo dell’area culturale, che acquista un peso corrispondente ad un arco
temporale che va da un 30 al 35% delle ore previste, mentre l’area professio-
nale prevede un arco temporale tra il 65% e il 70% delle ore previste (ri-
spetto ai precedenti 80%, 90%), in relazione alle peculiarità delle diverse
qualifiche. Nell’area professionale è prevista la realizzazione di uno stage
formativo in azienda, che rimane sostanzialmente invariato intorno al 20%
del monte ore complessivo. Viene anche redatto per l’intero triennio un
“Profilo educativo, culturale e professionale” specifico.
La Provincia ha approvato pertanto le finalità generali del percorso
triennale, articolate rispetto alla crescita educativa dell’allievo, alla crescita
culturale e alla crescita professionale. Per quanto riguarda quest’ultima, il
percorso mette gli allievi nella condizione di poter assumere un ruolo lavo-
rativo attivo, con adeguate competenze per inserirsi in attività di carattere
esecutivo che prevedono l’utilizzo di strumenti e tecniche e che possono es-
116
sere autonomamente svolte nei limiti delle tecniche ad esse inerenti. Tale li-
vello di acquisizione corrisponde al livello 2 della “Classificazione europea
dei livelli professionali” (ECTS). Sono state poi ridefinite le figure professio-
nali relative alle singole qualifiche. Esse, sulla base dell’analisi di cui si è
detto in precedenza, e dopo un ulteriore confronto con le parti sociali, ven-
gono articolate secondo lo schema seguente:
1) Denominazione
2) Specificazione della figura professionale
3) Collocazione organizzativa
4) Competenze connotative centrali, articolate in:
- competenze professionali finali (strumentali tecniche, strumentali
concettuali, organizzative, relazionali, strategiche);
- competenze di base (attinenti all’area dei linguaggi, all’area scientifica,
all’area tecnologica, all’area storico-socio-economica)
5) Risorse/capacità personali
6) Evoluzione prossima e opportunità formative successive
7) Corrispondenza con la classificazione europea dei livelli di attività pro-
fessionale
8) Corrispondenza della qualifica rispetto alla classificazione delle attività
economiche ATECO 2002.
117
mento di tali questioni al fine di individuare le azioni necessarie allo svilup-
po e al miglioramento del sistema in alcune aree strategiche del sistema, tra
queste si evidenziava la possibilità di impostare un quarto anno di formazio-
ne professionale in questi termini: “la progettazione di un nuovo percorso spe-
rimentale di specializzazione in alternanza dopo la qualifica professionale da at-
tivare in base alle effettive esigenze del mondo del lavoro e da costruire in rap-
porto con le imprese ed in armonia con gli indirizzi di politica del lavoro”.
La stessa Giunta provinciale con delibera del 23 febbraio 2003 appro-
vava il “Progetto di innovazione del sistema della formazione professionale
iniziale trentina”. In esso si definivano alcune linee guida per l’attivazione
dell’innovazione stessa. I punti esplicitati nel progetto erano:
1) Lo scenario di riferimento.
2) Il percorso triennale di qualifica professionale.
3) L’anno di formazione professionale successivo alla qualifica.
4) La transizione al sistema scolastico.
5) Continuità tra formazione professionale iniziale e continua.
6) Indicazioni per l’attuazione del progetto di innovazione.
2
Nell’ambito della ricerca sociologica, ad esempio, si sono rifatti alla ricerca-azione anche
autori come C. Argyris, R. Hess, A. Touraine, O. Fals Borda.
118
zione dell’innovazione della formazione professionale nell’ambito della gra-
fica industriale.
Non era facile prefigurare un percorso che integrasse in maniera valida
e feconda l’apporto formativo dei CFP e quello che poteva essere sviluppato
nel contesto di specifiche attività lavorative aziendali. Inoltre, affinché tale
progetto risultasse fattibile, occorreva coinvolgere fin dall’inizio della sua
concezione sia i Centri, sia le aziende. La metodologia sperimentale adot-
tata aiutava a tener conto in maniera sostanziale dell’apporto dei Centri
coinvolti, come delle aziende interessate, entro un quadro iniziale indivi-
duato al livello di responsabilità più generale: Provincia, forze sociali, istitu-
zioni formative. Fu costituito a questo livello un Comitato istituzionale che
seguisse l’avvio dell’innovazione prevista.
Le linee portanti del modello individuato prevedevano un rapporto tra
formazione presso il Centro e formazione in azienda che garantisse a que-
st’ultima almeno un 40% del tempo disponibile. Questo venne stabilito se-
condo le tradizionali 1.100 ore previste per tutti gli anni del sistema di for-
mazione professionale iniziale. Vennero individuate con l’apporto delle or-
ganizzazioni industriali e artigianali le figure professionali che risponde-
vano alle caratteristiche proprie del progetto. Venne chiesto ai Centri, che si
proponevano come sperimentatori del nuovo modello formativo, di prefigu-
rare un progetto concreto nelle sue linee attuative. Questo progetto doveva
essere concordato con le imprese che entravano a far parte dell’azione for-
mativa a pieno titolo. Ciò implicava la costituzione di un vero e proprio par-
tenariato tra Centro, aziende interessate ed eventualmente altro organismo,
formalizzato attraverso un “Accordo di collaborazione”. Da questa stretta
collaborazione doveva derivare: l’ipotesi progettuale; l’individuazione delle
imprese che ospiteranno gli allievi in formazione; la validazione dei piani di
formazione presso il CFP e presso le imprese; la validazione del dispositivo
tutoriale di sostegno degli allievi presso il CFP e nelle imprese; la effettua-
zione del monitoraggio dell’andamento del percorso formativo nella sua glo-
balità; la valutazione degli esiti finali del percorso formativo.
Le aree settoriali scelte come ambiti della sperimentazione iniziale per
l’anno formativo 2003-2004 tenevano conto degli esiti della verifica della
coerenza e della qualità del prodotto formativo svolta nelle imprese del con-
testo produttivo provinciale, nonché delle successive verifiche “congiunte”
(sistema formativo, sistema delle imprese o Parti Sociali) della fattibilità di
tale tipologia dl azione formativa. Esse erano: a) manutenzione elettro-mec-
canica; b) manutenzione di processi automatizzati; c) autoriparazione; d)
nuovi processi produttivi nel settore grafico; e) servizi alberghieri e della ri-
storazione. Negli anni seguenti sono stati estesi gli ambiti di intervento.
Quanto al modello di progettazione e realizzazione, questo era stato
espresso in questi termini:
119
sin dalla predisposizione e presentazione del progetto assumano un approccio di coope-
razione attiva, con definizione congiunta di obiettivi, ruoli e responsabilità di ciascun
membro della Partnership dei Progetto.
120
tistica elettrica, delle tecniche di cucina, della gestione integrata dei processi
organizzativo-amministrativi aziendali, dell’innovazione delle tecniche nel-
l’acconciatura, della gestione tecnico-integrata dei centri benessere.
3
Risulta esclusa dalla sperimentazione la sola famiglia professionale “agricoltura e am-
biente” dato che tale percorso di formazione professionale è stato recentemente istituito ed il
triennio non è ancora a regime.
121
borare, interpretare e valutare le informazioni di supporto alla presa di giu-
dizio e decisione. Si trattava, in primo luogo, di assicurare carattere di con-
tinuità alla valutazione formativa nonostante l’alternarsi degli ambienti di
apprendimento (Centro/Istituto di formazione - Impresa), vi era poi la que-
stione dell’inidoneità del modello valutativo dello stage, svolto nel corso del
terzo anno, che non poteva reggere la prova dell’equivalenza formativa det-
tata dall’alternanza, bisognava, inoltre, ricondurre gli esiti del processo va-
lutativo durante l’azione didattica alla valutazione connessa con la decisione
di ammissione all’esame finale (valutazione sommativa dell’esperienza) e,
infine, occorreva stabilire il modo e lo strumento con cui comunicare i giu-
dizi agli allievi e ai genitori.
Fin dalle prime fasi di lavoro congiunto con i team di progetto è, quindi,
emersa con particolare evidenza la complessità di messa a punto di un pro-
cesso di valutazione, e ancor più di certificazione delle competenze posse-
dute dall’allievo, in un contesto di alternanza formativa, dunque in un si-
stema di apprendimento individuale che, come abbiamo visto, si struttura
come un circolo virtuoso tra due momenti essenziali: l’esperienza e l’acqui-
sizione di competenze in un contesto di lavoro; la riflessione critica sull’e-
sperienza vissuta come motivazione ed incentivazione alla acquisizione di
ulteriori apprendimenti teorici.
Si è dunque proceduto secondo un piano operativo di lavoro che si ri-
chiama al metodo della “triangolazione” e che prende in considerazione una
pluralità di fonti di informazione e di metodi di rilevazione al fine di poter
contare su informazioni pertinenti, rilevanti e affidabili per sviluppare un
lavoro di interpretazione e di elaborazione di un giudizio conclusivo fidato.
Osservazione sistematica
122
di ordine educativo oltre che di natura professionale, evidenziando l’ap-
porto di apprendimenti non formali e informali, favoriti in modo diretto
e/o indiretto dalle esperienze vissute durante il percorso, utili nel fron-
teggiare situazioni riguardanti la sfera sociale e civile;
4) la narrazione e la valorizzazione del percorso da parte dell’allievo, met-
tendo in luce l’abilità nel: raccontare, giustificandole, le scelte operative
compiute o da compiere in un contesto professionale specifico; descri-
vere la successione delle operazioni compiute o da compiere per portare
a termine un compito particolare, evidenziando, eventualmente, gli er-
rori più frequenti e i possibili miglioramenti; valutare la qualità non solo
del prodotto, risultato del suo intervento, ma anche del processo produt-
tivo adottato;
5) la verifica del rispetto del patto formativo;
6) la transizione verso il lavoro e/o altri percorsi di istruzione/formazione.
123
nella sua progettazione, attuazione e valutazione. Naturalmente la respon-
sabilità formativa dei Centri/Istituti rimane, ma è condivisa in momenti fon-
damentali dalle forze produttive del territorio.
Quali i risultati più significativi conseguiti in questi tre anni di attua-
zione della ricerca-azione? Quali gli elementi conoscitivi più importanti e
influenti per il futuro del Trentino e potenzialmente estensibili ad altre
realtà? Quali aspetti critici sono emersi da valutare attentamente nel pro-
grammare l’offerta formativa successiva?
Il principale risultato in termini di conoscenza è la fattibilità di un per-
corso formativo professionale diretto alla preparazione di tecnici basato su
uno stretto dialogo tra esperienza lavorativa in azienda e completamento
delle conoscenze e competenze di natura personale, culturale e tecnico-pro-
fessionale per una fascia di utenti di età 17-18 anni, che hanno conseguito la
Qualifica professionale. Il rapporto tra formazione in azienda e formazione
presso il Centro/Istituto è al minimo di 4 a 6, cioè 40% in azienda, 60% nel-
l’istituzione formativa. In genere si va oltre. Questa fattibilità è condizionata
tuttavia da alcuni fattori. Il primo è la presenza di un vero e proprio tutor
aziendale. Ciò implica il coinvolgimento di aziende che sono in grado di in-
teragire in maniera coordinata, sistematica e continua con il Centro/Istituto.
Il secondo fattore è di natura metodologica. Tra esperienza in azienda e in-
terventi formativi nella istituzione formativa va attivata una vera e propria
circolarità: l’apporto conoscitivo offerto dall’istituzione formativa deve tro-
vare riscontro nella esperienza lavorativa, oltre che promuovere un più alto
livello di competenza personale e culturale; l’esperienza lavorativa deve tro-
vare spazio di riflessione critica e di consapevolezza progressiva all’interno
degli interventi dell’istituzione formativa.
L’impostazione formativa basata su questa forma di alternanza permette
una maggiore attenzione allo sviluppo di capacità di autoregolazione del
proprio apprendimento. Ciò dipende da alcuni elementi di riferimento. In
primo luogo si sviluppa una chiara finalizzazione della propria attività di
apprendimento: ciascuno si può porre obiettivi di competenza il cui signifi-
cato e valore personale sono direttamente o indirettamente collegati con la
propria identità e carriera professionale. In secondo luogo è possibile un si-
stematico riscontro delle proprie acquisizioni nella loro progressività, in-
cluso la constatazione oggettiva di sviluppo di abilità tecnico-pratiche e il
feedback offerto sia dal tutor aziendale, sia da quello formativo. In terzo
luogo si hanno metodologie di auto-valutazione attuabili con continuità,
come l’uso del diario e più in generale del portfolio.
È possibile progettare il percorso formativo verso standard di compe-
tenza di natura più ricca e coinvolgente rispetto a una loro definizione più
legata ai contenuti specifici e alla loro strutturazione interna. La riflessione
critica sul concetto di standard formativi ha evidenziato, infatti, una
qualche contraddizione interna tra un concetto di standard spesso utilizzato
e quello di competenza quale è ormai definito a livello europeo come capa-
cità di attivazione e coordinamento delle proprie risorse interne (cono-
scenze, abilità e disposizioni interne stabili) nell’affrontare un insieme di
124
compiti. La prospettiva non è quella, dunque, di un sapere già organizzato
che viene acquisito in tale forma dallo studente, bensì quella di un soggetto
che costruisce attivamente le sue conoscenze e abilità in maniera significa-
tiva, stabile e fruibile. Non solo, si è più sensibili allo sviluppo dei processi
cognitivi e metacognitivi e a quello delle disposizioni interne, cioè delle
componenti affettive, motivazionali, sociali e valoriali. Di qui anche una ri-
caduta sui metodi didattici. Si è constatata, infatti, la possibilità di promuo-
vere competenze linguistiche, scientifiche e tecnologiche, nonché consape-
volezze di natura storica, giuridica e sociale in maniera coordinata tra loro e
sulla base di moduli a carattere integrato.
L’aspetto più gratificante rispetto agli esiti formativi è stata l’approva-
zione convinta e generale al termine del primo anno di sperimentazione di
tutti coloro che a vario titolo erano stati coinvolti: giovani e loro famiglie,
rappresentanti delle aziende e docenti dei Centri/istituti. In particolare le
aziende e le associazioni imprenditoriali hanno manifestato tutto il loro ap-
prezzamento. Occorre aggiungere che da parte loro si è avuta una collabora-
zione positiva, nonostante si trattasse di una esperienza del tutto innovativa
e venisse loro chiesto uno sforzo non indifferente nel designare un dipen-
dente come tutor aziendale. In generale si tratta di aziende piccole o medio-
piccole poco avvezze ad avere personale disponibile per attività formative e
di accompagnamento. Si può ben dire che da una parte i Centri/istituti
hanno guadagnato da questa sperimentazione in aggiornamento sul piano
tecnico-professionale, mentre, d’altra parte, le aziende hanno guadagnato
sul piano della loro capacità di formare nuovo personale.
È utile indicare anche elementi di criticità, alcuni propri della situazione
trentina, altri più generali. Tra quelli più direttamente legati alla realtà terri-
toriale e organizzativa della formazione professionale della Provincia
emerge con evidenza che i quarti anni così configurati non possono essere
attivati in ognuno dei Centri/istituti. Questi, infatti, sono molto distribuiti
sul territorio. Ciò è un bene a causa della sua configurazione geografica, in
gran parte di tipo montano. Di conseguenza la popolazione scolastica che li
frequenta in alcuni casi è assai ridotta di numero e anche il personale è ab-
bastanza limitato, mentre in altri si ha una consistente presenza di studenti
e risorse formative più adeguate. Anche il riferimento al mondo del lavoro è
più agevole in alcuni casi che in altri. Occorre perciò individuare con atten-
zione alcuni poli di riferimento presso i quali attivare i quarti anni secondo
la loro specifica area professionale di riferimento. All’età ormai di almeno
17 anni compiuti un eventuale spostamento quotidiano per frequentare tali
poli non presenta più elementi di disagio o di incertezza, e ciò è favorito
anche dalla rete di comunicazioni già in essere, che permette la frequenza
degli istituti scolastici superiori.
La generalizzazione dei quarti anni formativi in alternanza pone non
pochi problemi di reperimento e interazione con le aziende del territorio.
Aumentando i giovani iscritti, aumentano anche le esigenze numeriche di
aziende disponibili ad accettarli per il periodo di esperienza lavorativa. Oc-
corre ricordare che non si tratta di stage di natura più o meno osservativa,
125
ma di un vero e proprio coinvolgimento nel processo produttivo con esi-
genze di accompagnamento e di affiancamento. Il ruolo e le caratteristiche
della figura del tutor aziendale non sono cose che si possono improvvisare
facilmente, né in maniera diffusa. Da questo punto di vista occorre esami-
nare con cura quali aziende è possibile coinvolgere e a quali condizioni,
tanto più che progressivamente esse sono sempre più coinvolte in attività
formative a vari livelli. Si può pensare di costituire per i differenti settori
produttivi di beni e servizi una specie di albo delle aziende che possono es-
sere contattate e valorizzate.
Occorre anche porre una grande attenzione all’azione di orientamento
messa in atto durante il triennio iniziale. Non sempre i soggetti manifestano
qualità personali e livelli di preparazione congruenti con le esigenze di un
percorso formativo diretto al raggiungimento di un titolo di tecnico. Talora,
infatti, le scelte famigliari sono più orientate a mantenere i propri figli in un
contesto formativo di cui si ha fiducia, anche se essi non sono particolar-
mente orientati e impegnati nello sviluppo delle conoscenze e competenze
richieste. Questa problematica è in qualche modo analoga a quella della
scuola, ma in questo caso, trattandosi di corsi a carattere innovativo, è assai
pericoloso indurre una mentalità un po’ ingenua e facilona. Conseguire un
titolo di tecnico in un settore professionale specifico deve mantenere un li-
vello adeguato di riconoscimento sociale e di valenza professionale, pena
una sua dannosa svalutazione.
Una delle caratteristiche peculiari del nostro sistema educativo è stato
ed è ancora quello di prevedere percorsi scolastici tecnico-professionali che
impegnano gli studenti fino all’età di 19 anni. Tredici anni di scolarità sono
in Europa più un’eccezione che una consuetudine diffusa. Già la riforma
impostata dall’allora Ministro Berlinguer prevedeva la riduzione degli anni
della scuola da 13 a 12, con conseguente conclusione normale del periodo
formativo scolastico a 18 anni. Nella stessa direzione è andata la legge sul-
l’obbligo formativo e successivamente quella su diritto dovere alla forma-
zione. La riforma Moratti prevede per il settore dell’Istruzione e formazione
professionale un percorso quadriennale con conclusione a 18 anni. Tra le
possibili impostazioni del quadriennio del secondo ciclo del sistema educa-
tivo sono previste sia quella che porta dopo tre anni alla qualifica, seguita
da un anno per giungere al diploma, sia quella comprendente due bienni
formativi. La soluzione adottata nel Trentino sembra da molti punti di vista
la più coerente con una evoluzione dell’attuale sistema comprendente sia l’I-
struzione professionale, sia la Formazione professionale. Il fatto che co-
munque al termine del terzo anno si possa conseguire un titolo professio-
nale garantisce di più soggetti che trovano maggiori difficoltà a seguire per-
corsi formativi formali e sistematici. In genere in questo modo si rende più
agevole continuare subito o successivamente la propria preparazione tec-
nico-professionale.
L’offerta di un vero e proprio praticantato aziendale che copre un pe-
riodo consistente del tempo formativo, almeno 400-450 ore, permette di
mettere alla prova in maniera seria e continua le conoscenze, le abilità, le
126
qualità personali in contesti reali e per questo esigenti. Prima di immettere
definitivamente nel mercato del lavoro giovani ormai maggiorenni, questi
avranno assaggiato in maniera forte che cosa li aspetta. Sarà più facile co-
gliere dall’interno una cultura e un’etica del lavoro, progettare una propria
carriera professionale, prevedere percorsi futuri di formazione continua,
misurarsi con le esigenze di puntualità, di responsabilità, di autonomia de-
cisionale poste dalle diverse situazioni lavorative. Inoltre, sarà più facile
rendersi conto che il processo formativo seguito presso le istituzioni forma-
tive ha costituito la base fondamentale della propria qualificazione tecnico-
professionale, ma l’inserimento in concreti posti di lavoro implica non pochi
impegni di apprendimento e di adattamento.
La finalità generale, che sta alla base della strutturazione delle attività di
Alta formazione, riguarda la costituzione di un sistema completo delle of-
ferte di formazione professionale a tutti i livelli, creando a un tempo conti-
nuità e discontinuità tra di essi. Il secondo ciclo del sistema educativo na-
zionale, nel quale è incluso il quadriennio di formazione professionale ini-
ziale, chiude un percorso, mentre se ne apre uno diverso: quello che interna-
zionalmente sta sotto il titolo di higher education; un vero e proprio per-
corso terziario di formazione professionale superiore. Si ha, quindi, da una
parte continuità rispetto alle persone e alla loro crescita culturale e profes-
sionale; discontinuità, dall’altra, come identità formativa.
Perché questa innovazione? Si è spesso insistito perché in Italia si intro-
ducessero istituzioni dedicate alla formazione professionale superiore, dal
momento che in tutto il mondo dagli Stati Uniti all’Europa queste iniziative
erano già consolidate nel tempo. Negli Stati Uniti si tratta del cosiddetto
Two Years College, in Inghilterra e nel Belgio fiammingo si chiamano Poli-
tecnici, in Germania e in Austria Fachhochschulen, in Spagna e in Svizzera
Formazione professionale superiore. È una offerta formativa che coniuga
due esigenze: l’esperienza del praticantato, oramai richiesto per entrare nel
mondo del lavoro a un certo livello di autonomia e di responsabilità, e il
completamento delle conoscenze e delle competenze che costituiscono il
cuore della professionalità di tecnici superiori. A rispondere a questa do-
manda di formazione non possono essere né la scuola secondaria superiore,
né l’Università, in quanto è ormai prassi europea di esigere un praticantato
consistente, di circa tre anni, per riconoscere una vera e propria abilitazione
all’esercizio di molte professioni tecniche. Sfortunatamente, gli ordini pro-
fessionali dei geometri e dei ragionieri preferiscono puntare sulla laurea
triennale. Ma quanto sono in grado le Università di gestire vere e proprie at-
tività di praticantato e riconoscerne i relativi crediti? Non si tratta infatti di
semplici stage professionali, ma sistematiche presenze nel contesto lavora-
tivo sotto la supervisione di tutor aziendali qualificati.
127
La prospettiva dell’Alta formazione, infatti, vuole rispondere all’esigenza
di un praticantato assistito in una forma che completi il quadro conoscitivo
tecnico-scientifico e l’acquisizione di competenze professionali consapevoli
e spendibili nel contesto lavorativo. È una strada che coniuga apprendistato
e formazione superiore, una strada intermedia tra lavoro e studi universitari
che, come già notato, è presente nei vari Paesi europei. Una delle ragioni ul-
teriori per cui l’Università non è in grado di assolvere a questo ruolo di-
pende anche nel fatto che buona parte degli studenti, al termine del cosid-
detto primo ciclo universitario, quello che porta alla laurea, continua nel se-
condo ciclo, perché la struttura universitaria porta normalmente a comple-
tare il percorso fino alla laurea specialistica o magistrale.
Rispondere alla domanda di formazione espressa da coloro che vengono
vuoi dalla formazione professionale, vuoi dal sistema scolastico, vuoi anche
dal mondo del lavoro e vogliono proseguire la formazione professionale su-
periore che non sia quella del canale universitario, poneva alla PAT non
pochi problemi di sistema. Anche perché dalle aziende proveniva una do-
manda di qualificazione che non trovava in Provincia una risposta ade-
guata.
In coerenza con questa finalità generale si è trattato di formare figure
professionali di livello superiore, coerenti con i reali bisogni del territorio,
del sistema socio-economico, anticipando anche quanto possibile le ten-
denze del cambiamento dei sistemi produttivi. In questi ultimi venticinque
anni si sono avuti tali cambiamenti tecnologici e organizzativi che, se non si
formano persone con forti capacità di adattamento e di continuo apprendi-
mento, in pochi anni ci si trova in grandi difficoltà. Se non si guarda in
avanti e non si cerca continuamente di esplorare le esigenze prospettiche e
di conseguenza formare persone capaci di arricchire e anche trasformare
nel tempo le loro risorse interne, anche mediante forme di apprendimento
auto gestito, emergono presto gravi problemi di competitività, di efficienza
e di efficacia.
Tutto questo significa, ed è uno dei punti chiave di questa iniziativa, una
sistematica cooperazione e interazione tra istituzioni formative, e ambienti
di lavoro, istituti di ricerca e organizzazioni professionali, al fine di incre-
mentare l’attrattività e la rilevanza dell’apprendimento sia nel sistema for-
mativo, sia nella vita lavorativa. Il problema sta quindi nel promuovere una
profonda collaborazione tra il mondo della produzione di beni e servizi e il
mondo della formazione per poter garantire la crescita di persone che
hanno raggiunto un insieme di competenze effettivamente spendibili nel
mondo del lavoro, con attenta consapevolezza e in forme aperte all’innova-
zione. Una sfida non indifferente.
In sintesi, si tratta di preparare persone dotate di competenze di medio-
alto livello, spendibili e riconoscibili non solo in ambito nazionale, bensì
anche europeo. L’esistenza di un Protocollo d’intesa con il Ministero aiuta
ma non garantisce ciò. Ciò che garantisce è la qualità effettiva dell’azione
formativa, è la spendibilità reale di tali competenze nel mondo del lavoro,
non certo un altro “pezzo di carta”. Occorre, infatti, superare un concetto di
128
titolo di studio o professionale isolato dal percorso che lo ha consentito e
dalle competenze effettivamente acquisite. Occorre poter conoscere in ma-
niera precisa che cosa attesta titolo o il diploma. Il sistema “Europass” pre-
vede sempre accanto ai titoli o ai diplomi, un supplemento che deve descri-
vere non solo il percorso fatto, ma soprattutto le competenze effettivamente
acquisite dal soggetto. È esigenza di trasparenza, di riconoscibilità della
qualificazione personale, reale, effettiva. Coerentemente con questi orienta-
menti i titoli rilasciati si devono riferire a figure professionali dotate di ele-
vata preparazione in ambiti specifici di eccellenza, in grado di svolgere
un’attività professionale con significative competenze tecnico scientifiche, a
livelli elevati di responsabilità e autonomia. Si tratta di figure che sono de-
scritte in maniera puntuale nel nuovo quadro di riferimento europeo.
Tale prospettiva è ormai comune nei Paesi industrializzati, cioè si è rico-
nosciuto il bisogno di figure con competenze di natura diversa da quelle ti-
picamente promosse dal sistema universitario. Non solo, ma il processo for-
mativo assume connotati del tutto specifici in quanto integra in maniera ri-
corsiva e sistematica l’esperienza in azienda, la riflessione critica su di essa,
l’arricchimento di conoscenze di abilità che si confrontano continuamente
con le esigenze professionali attuali e prospettiche. Si tratta di uno sviluppo
di competenze spendibili con consapevolezza in situazioni lavorative anche
complesse, difficili, innovative. Va da sé, come più volte sottolineato, che la
identificazione delle caratteristiche della figure professionali da promuovere
implica un’attenta collaborazione tra imprese di un settore produttivo di
beni e servizi e istituzioni formative sotto il controllo della Provincia.
Questo è il principio di riferimento per cui ogni figura professionale non
può essere inventata a tavolino. Una figura professionale può emergere solo
da una attenta riflessione basata sull’interazione di partner che vengono dal
mondo del lavoro e che riflettendo sulla loro esigenza attuale ma soprattutto
prospettica, identificano le figure professionali di cui hanno bisogno per la
innovazione, per la competitività, al fine di garantire la continuità, in un
quadro di sviluppo del territorio.
È una risposta che deve dare il sistema formativo a esigenze presenti
spesso fuori di esso, ma ben presenti nel mondo del lavoro, in quello sociale,
civile, economico, produttivo, organizzativo. Il sistema formativo non è ri-
volto soltanto a rispondere al bisogno di formazione del singolo cittadino,
occorre aprire lo sguardo alla comunità vista nella sua complessità, quella
trentina, quella più vasta della Regione Trentino Alto Adige, del Veneto. Oc-
corre allargare lo sguardo, come suggeriva il pedagogista Sergio Hessen,
progressivamente dalla propria Heimat, dal proprio piccolo paese natale,
fino alla propria nazione, all’Europa, al mondo intero; una visione consape-
vole dei pericoli di ritardi e di chiusure, dovuti a qualche aspetto di provin-
cialismo.
Questa sistematica partnership tra aziende e istituzioni formative porta a
identificare il referenziale di competenza da promuovere. Non siamo molto
abituati ad usare questa terminologia, ma il referenziale di competenza è il
quadro delle competenze che caratterizzano la figura professionale. D’altra
129
parte la competenza è un insieme di conoscenze, abilità e disposizioni in-
terne stabili, che si sa attivare e orchestrare di fronte ai compiti professio-
nali ai quali si deve far fronte. Si tratta di qualità personali, che oggi sono
sempre più importanti per persone che siano in grado anche di coordinarsi
tra loro per affrontare le situazioni alle volte anche difficili, complesse. Tale
referenziale può essere riletto da due punti di vista: quello proprio del posto
di lavoro e quello proprio del processo formativo. È chiaro che tra i due c’è
continuità, ma anche una sensibilità differente. Nel primo caso è il contesto
di lavoro che fa da riferimento; nel secondo caso è il percorso formativo.
Sulla base di tale referenziale viene impostato il progetto di percorso forma-
tivo, un progetto che non è compito esclusivo dell’istituzione formativa,
bensì responsabilità di un gruppo di lavoro nel quale è presente anche la
partnership aziendale e la Provincia stessa. La partnership aziendale deve tra
il resto garantire l’attuazione valida ed efficace del progetto, soprattutto
nella realizzazione del praticantato. Le aziende, infatti, sono coinvolte come
vere e proprie istituzioni formative.
È questa anche una sfida per le aziende: l’assunzione esplicita di attività
formative sistematiche e coordinate. E questo è più di quanto avviene nor-
malmente. Quando un soggetto entra in azienda deve certo imparare, il
posto di lavoro deve conquistarselo nel tempo. Impara a lavorare proprio
nello specifico contesto lavorativo. In questo caso, però, l’azienda diventa
consapevole di un ruolo particolarmente forte in processo formativo più
vasto e significativo. Non solo diventa titolare di un progetto formativo, ma
garantisce la sua attuazione, in particolare perché il praticantato venga
svolto in maniera equilibrata, e valuta poi la qualità complessiva del per-
corso attuato. C’è un coinvolgimento sistematico nella progettazione, realiz-
zazione e valutazione dell’attività formativa.
L’Alta formazione, nella sua fase iniziale, vuole adottare una particolare
metodologia sperimentale che è chiamata in termine tecnico “Ricerca basata
su progetti”. Si parte da una progettazione sufficientemente elaborata dal
punto di vista sia teorico, sia esperienziale, in maniera tale che sia elaborato
un quadro progettuale ben fondato. Tuttavia non si rimane prigionieri di
tale quadro; esso può essere modificato a mano a mano che esso viene rea-
lizzato, a condizione di giustificare in maniera seria e documentata gli even-
tuali adattamenti, al fine non solo di realizzare in maniera consapevole e
flessibile il progetto, ma anche di acquisire nuove conoscenze, sia teoriche,
sia tecniche, sia operative e progettare meglio nel futuro analoghi percorsi
formativi. Questo anche perché dobbiamo sviluppare nel tempo una cultura
della formazione professionale superiore o Alta formazione. In questa pro-
spettiva occorre tener conto di quanto si è ormai consolidato in altri Paesi.
Per sviluppare in maniera sistematica ma controllata la sperimentazione
dell’Alta formazione, la Provincia ha costituito un gruppo di riferimento al
suo interno. Questo gruppo ha delineato alcune linee guida per l’elabora-
zione dei progetti sulla base di una ricognizione dei settori professionali più
direttamente interessati, l’identificazione di una piattaforma culturale e
operativa per questo tipo di formazione, la promozione, quindi la loro speri-
130
mentazione. Sono stati selezionati alcuni settori che sembravano prioritari:
i servizi alberghieri e della ristorazione, le arti grafiche, l’automazione indu-
striale, la gestione amministrativa, economica e contabile. Sono state anche
individuate istituzioni presso cui poter appoggiare l’attuazione dei progetti.
In questo avvio della sperimentazione di un sistema di Alta formazione
la Provincia ha inteso mantenere un ruolo di governo assai impegnativo e
attento. Le istituzioni formative che vengono coinvolte sono considerate
come soggetti a cui viene affidata la realizzazione dei progetti, mentre
questi vengono convalidati e valutati da un Comitato per l’Alta formazione e
seguiti nella loro attuazione dalla stessa Provincia. La delineazione delle fi-
gure professionali, del relativo referenziale per competenze è affidato a spe-
cifici gruppi di progetto. Per ognuno dei settori professionali deve essere
identificata la figura professionale da promuovere descrivendo il suo refe-
renziale di competenza e il percorso formativo relativo. Per questo sono pre-
senti aziende o associazioni di categoria, rappresentanti della Provincia, del-
l’istituzione formativa, esperti del settore ed esperti di progettazione forma-
tiva. Elaborare un progetto è cosa impegnativa, sono necessarie competenze
molteplici che dialoghino tra loro.
In questo lavoro, che io ho svolto nel settore delle arti grafiche, ho po-
tuto constatare il grado di impegno che ciascuno dei partecipanti era chia-
mato a mettere in atto. Ci sono voluti mesi per riuscire a elaborare il refe-
renziale e il progetto formativo basandosi sul concetto di competenza; poi,
si sono dovuti strutturare i vari moduli formativi e prefigurare quanto indi-
spensabile per avere un quadro completo, che garantisse un equilibrato dia-
logo formativo tra istituzione e aziende, tra insegnamenti e praticantato. Vo-
levamo che effettivamente conoscenze ed esperienze potessero venire conti-
nuamente collegate fra di loro in forme circolari, una sorta di feed back reci-
proco, cioè riflessione sull’esperienza arricchita da continui apporti teorici:
apporti concettuali e procedurali che consentano di concettualizzare meglio
l’esperienza e intervenire più validamente nel futuro.
Quanto alla metodologia formativa, questa deve garantire un’effettiva fa-
cilitazione all’apprendimento; la centralità di questo processo formativo non
è data dall’insegnamento ma dall’apprendimento professionale. Questo è il
cuore dei percorsi formativi come oggi vengono concepiti. Sfortunatamente
sia sistema scolastico, sia il sistema universitario sono ancora basati sull’in-
segnamento e non sull’apprendimento. La riforma universitaria concepita al
fine di armonizzazione il nostro sistema con quello degli altri sistemi uni-
versitari europei mirava a una valorizzazione dell’apprendimento. Il sistema
di crediti formativi ECTS, in Italia CFU, che prevede dalle 24 alle 28 ore di
impegno di lavoro dello studente ed esige una trasformazione della menta-
lità non più centrata su quello che fa l’insegnante, ma sul servizio che questi
può fare per facilitare l’apprendimento degli studenti. Di qui l’uso di molte-
plici forme di intervento: lezioni, insegnamento e accompagnamento a di-
stanza, riflessione sull’esperienza, lavori di gruppo, elaborazione di progetti,
ecc. cioè tutte le forme possibili di sostegno e guida all’apprendimento.
Da questa prospettiva nasce anche la definizione da parte della Pro-
131
vincia delle procedure di attuazione di un bilancio valutativo in ingresso,
non solo per identificare eventuali crediti e debiti, ma soprattutto per favo-
rire una personalizzazione dei percorsi. Una vera personalizzazione dell’ap-
prendimento implica un’attenzione particolare alle condizioni di ingresso,
ai ritmi diversi di acquisizione di conoscenze, abilità e competenze, diffe-
renti stili di approccio ai contenuti. Di qui la necessità di una presenza siste-
matica ed efficace di tutor formativi, che sostengano, guidino e assistano il
cammino dei singoli studenti. Contemporaneamente, viene prefigurato un
sistema di valutazione degli apprendimenti e di valutazione conclusiva al
fine del rilascio del titolo finale che in genere assume la denominazione di
“Tecnico superiore”.
5. CONCLUSIONE
RASSEGNA CNOS problemi esperienze prospettive per l’istruzione e la formazione professionale • ANNO 22 / n° 3 - 2006
132
STUDI
Parole chiave:
Lifelong learning,
Competenze chiave,
Adulti
1
Università Pontificia Salesiana di Roma.
17
aree di competenza, ad individuare strategie coerenti e misure pratiche al
fine di favorire la formazione permanente per tutti”. Per istruzione e forma-
zione permanente viene qui intesa, nel quadro della strategia europea per
l’occupazione, “ogni attività di apprendimento finalizzata, con carattere di
continuità, a migliorare conoscenza, qualifiche e competenza” in particolare
nella “promozione della cittadinanza attiva e nella promozione dell’occupa-
bilità”.
Il 21 novembre 2001 una Comunicazione della Commissione riprendeva
il tema, dopo una rilevazione generalizzata nell’ambito dell’Unione Europea,
sotto il titolo: “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento perma-
nente” nel quale si precisava che per apprendimento permanente si inten-
deva: “qualsiasi attività di apprendimento avviata in qualsiasi momento
della vita, volta a migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze in
una prospettiva personale, civica, sociale e/o occupazionale”. In questo con-
testo, se emergeva l’importanza, accanto alla valorizzazione dell’apprendi-
mento formale, di una più chiara e decisa valorizzazione dell’apprendi-
mento non formale e informale, veniva indicato anche un ruolo specifico
delle Università nel processo di riconoscimento delle qualifiche e dei crediti
formativi acquisiti a ogni livello e in ogni contesto.
La Commissione si è impegnata nell’ambito dei processi di apprendi-
mento formali a: “creare una base più solida per la comune fiducia e il rico-
noscimento reciproco delle qualifiche; sviluppare un sistema europeo di tra-
sferimento di unità di corso capitalizzabili, diplomi e certificati supplemen-
tari, un Europass della formazione, un formato europeo di Curriculum
vitae; promuovere un’informazione diffusa sui possibili riconoscimenti pro-
fessionali; sostenere attivamente il cosiddetto “processo di Bologna” nel-
l’ambito dell’istruzione superiore; sostenere la creazione e attuazione a ti-
tolo volontario di diplomi e certificati europei”.
Nell’ambito di apprendimento non formale e informale, la stessa Com-
missione si è impegnata a: “avviare uno scambio sistematico di esperienze e
di buone pratiche nel campo dell’identificazione, della valutazione e del ri-
conoscimento dell’apprendimento non formale; elaborare un inventario di
metodologie, sistemi e norme di identificazione, valutazione e riconosci-
mento dell’apprendimento non formale e informale al fine di sostenere e sti-
molare metodologie e norme di valutazione di buona qualità ai livelli eu-
ropeo, nazionale e settoriale; mettere a punto il quadro giuridico necessario
per realizzare più estesamente l’identificazione della valutazione e del rico-
noscimento dell’apprendimento non formale e informale; impegnare gli
Stati membri a sollecitare le Università e gli Istituti di ricerca ad attuare si-
stematicamente misure di valutazione e di riconoscimento dell’apprendi-
mento non formale e informale”.
In generale la Commissione si è impegnata a: “sviluppare un sistema di
‘portfolio’ che consentirà ai cittadini in tutte le fasi dell’istruzione e della
formazione di sviluppare le loro qualifiche e competenze e di presentarle;
mettere a punto un sistema ‘modulare’ di cumulo delle qualifiche acquisite
in istituzioni e paesi diversi, ispirandosi all’attuale sistema ECTS; rafforzare
18
i servizi europei e nazionale di informazione e di orientamento anche al fine
di avvicinare i discenti e le opportunità di apprendimento; incoraggiare e
sostenere l’apprendimento sul luogo di lavoro, mediante metodi e strumenti
pedagogici efficaci”.
Nel giugno 2002 la Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea sul-
l’apprendimento permanente, nel richiamare gli orientamenti assunti dal
1996 al 2002 in sede comunitaria, ha ribadito che l’apprendimento perma-
nente è un obiettivo fondamentale della strategia europea per l’occupazione
e ha tracciato alcune priorità di azione: garantire l’accesso all’apprendi-
mento per tutti; favorire l’opportunità di acquisire competenze di base in
cultura tecnologica e lingue straniere, competenze sociali e imprenditoria-
lità; garantire la formazione e l’aggiornamento dei docenti; valorizzare e ri-
conoscere l’apprendimento non formale ed informale.
L’apprendimento permanente deve mirare dunque a dotare i cittadini
europei di saperi e competenze indispensabili alla loro vita professionale,
ma anche a sostenere lo sviluppo personale per una vita sociale migliore. Il
ruolo riconosciuto all’apprendimento permanente è di ampio respiro. Deve
rispondere alle sfide rappresentate dalla globalizzazione dei mercati e dalla
società della conoscenza, ma anche favorire l’inclusione sociale, prevenendo
la discriminazione e promuovendo la tolleranza nel rispetto delle diversità
linguistiche e multiculturali.
I Ministri dell’Istruzione dei Paesi membri nel maggio del 2003 si sono
accordati su una serie di indicatori per l’analisi comparativa tra i sistemi di
istruzione e di formazione al fine di traguardare al 2010 i seguenti obiettivi:
almeno l’85% della popolazione ventiduenne abbia completato la secondaria
superiore; i laureati in matematica, scienze e tecnologia si incrementino al-
meno del 15% e diminuiscano le disuguaglianze di genere; il tasso medio di
abbandono scolastico e formativo sia pari almeno al 10%; diminuiscano ri-
spetto al 2000 almeno del 20% i quindicenni con livelli bassi di capacità di
lettura e di nozioni matematiche e scientifiche; almeno il 12,5% della popo-
lazione attiva (25-64 anni) partecipi alla formazione permanente.
Nel novembre 2003, l’Unione Europea assume la Comunicazione sulla
valutazione dell’implementazione del Programma “Education & Training
2010” scaturito dagli “Obiettivi di Lisbona” che ha portato alla costituzione
di gruppi di lavoro tematici al fine di sollecitare gli Stati membri a prose-
guire nello sviluppo di politiche per l’apprendimento permanente. I temi af-
frontati nei gruppi di lavoro riguardano: le competenze di base, l’insegna-
mento delle lingue, l’ICT in istruzione e in formazione, l’incremento della
partecipazione in matematica e scienze, il miglior utilizzo delle risorse, la
mobilità e la cooperazione europea, l’open learning, la cittadinanza attiva e
l’inclusione, la formazione dei formatori, il sistema di crediti europeo per
la formazione professionale, la validazione dell’apprendimento non for-
male.
Nel marzo 2004 la Commissione Europea nella Comunicazione “La
nuova generazione dei Programmi di istruzione e formazione comunitari
dopo il 2006” ha proposto un programma integrato per il lifelong learning,
19
incorporando l’insieme dei progetti già esistenti promossi per supportare
specifiche attività nel campo dell’istruzione e della formazione nel contesto
della strategia dell’apprendimento permanente: tra questi il Programma So-
crate e Leonardo da Vinci, il Programma E-learning, l’iniziativa Europass e
il Programma Erasmus, quest’ultimo a partire dal 2009. L’intento è di creare
una maggiore sinergia fra i diversi campi di azione dei sistemi di istruzione
e formazione sostenendo ulteriori sviluppi nel lifelong learning e di offrire
modalità più coerenti ed efficienti di allocazione delle risorse finanziarie. In
prospettiva si mira ad una razionalizzazione delle forme di finanziamento
in virtù dell’allargamento dell’Unione ad altri Paesi e di una maggiore iden-
tità economico-sociale dell’Europa verso un mondo globale e multiculturale.
Il Programma Integrato, che sarà implementato nel periodo 2007-2013,
persegue i seguenti obiettivi: rafforzare il contributo dell’apprendimento
permanente ai fini dello sviluppo personale, della coesione sociale, della cit-
tadinanza attiva, delle pari opportunità; contribuire allo sviluppo della qua-
lità del lifelong learning e promuovere l’innovazione; rendere accessibili, at-
traenti e di qualità le opportunità dell’apprendimento permanente tra gli
Stati membri; contribuire ad aumentare la partecipazione all’apprendi-
mento permanente da parte delle persone di ogni età; promuovere la creati-
vità, la competitività, l’occupabilità e la crescita di uno spirito imprendito-
riale; promuovere l’apprendimento delle lingue e la diversità linguistica; di-
vulgare risultati, prodotti e processi innovativi e scambi di esperienze;
rafforzare il ruolo dell’apprendimento permanente nel creare un senso di
cittadinanza europea ed incoraggiare la tolleranza e il rispetto per gli altri e
per le altre culture; promuovere la cooperazione nell’assicurare la qualità in
tutti i settori dell’istruzione e della formazione in Europa.
Nell’ambito di tale prospettiva la Commissione Europea nel dicembre 2004
ha adottato una Decisione relativa all’istituzione di un “quadro unico” per la
trasparenza delle qualifiche e delle competenze chiamato Europass. Europass
è un portfolio di documenti pensato per facilitare la mobilità geografica e pro-
fessionale dei cittadini europei attraverso la valorizzazione e la visibilità del
patrimonio di conoscenze, competenze ed esperienze acquisite e dei percorsi
professionali e formativi realizzati nel tempo. Sul piano della strategia del li-
felong learning, Europass contribuisce a concretizzare il dialogo tra gli ambi-
ti dell’apprendimento formale, non formale ed informale degli individui, sen-
za soluzione di continuità tra i percorsi della vita sociale e di lavoro.
I documenti più recenti, ai quali faremo riferimento in seguito, hanno di
mira lo sviluppo di politiche e azioni che favoriscano sul piano pratico gli
orientamenti emersi tra il 2000 e il 2005.
20
differente dei processi di formazione permanente. Mi riferisco, a esempio,
all’introduzione nel contesto del cosiddetto processo di Bologna, cioè del
percorso di armonizzazione dei percorsi di formazione universitaria, di un
concetto di credito formativo non più basato sulla considerazione dell’a-
zione di insegnamento, bensì su quella di apprendimento, Si tratta di uno
spostamento di attenzione dall’agente di formazione verso il destinatario di
tale azione. Di conseguenza la valutazione della qualità istituzionale dei si-
stemi di istruzione terziaria dovrà essere basata principalmente sui risultati
ottenuti in termini di acquisizione effettiva di conoscenze e competenze da
parte degli studenti. I più recenti documenti riferibili agli interventi di for-
mazione lungo tutto l’arco della vita sono redatti mettendo al primo posto i
processi di apprendimento.
Anche il disegno di legge italiano riferito a tale tematica reca il titolo:
“Norme in materia di apprendimento permanente”. E la relativa definizione
suona così “Per apprendimento permanente si intende qualsiasi attività di
apprendimento intrapresa nelle varie fasi della vita al fine di migliorare le
conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale ci-
vica, sociale e occupazionale”. Una simile definizione implica un cambio di
orizzonte di riferimento, in quanto occorre prendere in considerazione l’in-
sieme di processi attraverso i quali si attua la crescita del soggetto nelle sue
varie dimensioni: personali, sociali, culturali, professionali e i differenti con-
testi che sono in grado di stimolare, sostenere e orientare tale crescita: dalla
famiglia, alla scuola, alla comunità locale di appartenenza, alle associazioni
alle quali si può appartenere, alla comunità ecclesiale, etc. Per cercare di di-
stinguere i diversi contesti formativi e le relative modalità di influenza sui
soggetti è stata poi introdotta la distinzione tra apprendimento formale, non
formale e informale. Il disegno di legge citato indica le seguenti definizioni.
Ai fini della presente legge si intende per apprendimento formale, quello che si realizza
nel sistema nazionale di istruzione e formazione e che si conclude con il consegui-
mento di un titolo di studio o di una qualifica professionale o di una certificazione rico-
nosciuta. […]. Per apprendimento non formale si intende quello, caratterizzato da una
scelta intenzionale, [che si realizza al di fuori del contesto formale], in ogni organismo
che persegua scopi educativi e formativi, anche del volontariato e del privato sociale.
Per apprendimento informale si intende quello che prescinde da una scelta intenzionale
e che si realizza nello svolgimento, da parte di ogni persona, di attività nelle situazioni
di vita quotidiana e nelle interazioni che in essa hanno luogo, nell’ambito del contesto
di lavoro, familiare e del tempo libero.
21
sua facilitazione, sostegno, guida, orientamento. Il soggetto che apprende è
l’attore principale, da due punti di vista specifici: uno strategico e l’altro tat-
tico. Infatti, il dirigere se stessi nell’apprendere può essere riletto secondo
due prospettive complementari, integrando tra loro i concetti di autodeter-
minazione e di autoregolazione. Con il termine “autodeterminazione” si se-
gnala la dimensione della scelta, del controllo di senso e di valore, della in-
tenzionalità dell’azione: è il registro della motivazione, della decisione, del
progetto, anche esistenziale. Con il termine “autoregolazione”, che evoca
monitoraggio, valutazione, pilotaggio di un sistema d’azione, si insiste di
più sul registro del controllo strumentale dell’azione. Al primo livello, nel
dare senso, finalità, scopo all’azione ci si colloca sul piano del controllo di
tipo “strategico”, che mette in evidenza la componente motivazionale, di
senso, di valore. Al secondo livello si richiede, invece, di sorvegliare la coe-
renza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il funzionamento o
pilotarla; si tratta di un livello “tattico”2.
2
Cfr. M. PELLEREY, Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006.
3
Cfr. MINISTÈRE DE L’ÉDUCATION NATIONALE, Le socle commun de connaissances et compé-
tences, Paris, CNDP, 2006.
22
discosta parzialmente e invece di otto competenze chiave individua sette pi-
lastri di un sapere comune: la padronanza della lingua francese, la pratica
di una lingua straniera vivente, i principali elementi di matematica e la cul-
tura scientifica e tecnologica, la padronanza delle tecniche usuali della co-
municazione e dell’informazione, la cultura umanista, le competenze sociali
e civiche, l’autonomia e l’iniziativa. La legge che ha fatto da supporto a
questa pubblicazione definisce lo zoccolo comune come “un insieme di co-
noscenze e di competenze che è indispensabile padroneggiare per portare a
termine con successo la propria scolarità, per perseguire la propria forma-
zione, costruire il proprio avvenire personale e professionale e riuscire nella
propria vita sociale”.
È interessante notare che la definizione dei sette pilastri del sapere non
modifica i programmi scolastici relativi alle diverse discipline, bensì indica
a tutti, docenti, studenti, famiglie e in genere alla società il senso ultimo del-
l’attività educativa scolastica obbligatoria. Un orizzonte di riferimento per
impostare ed elaborare i curricoli specifici di studio ai vari livelli scolari.
Nelle parole del decreto: “Non si tratta di riassumere, disciplina per disci-
plina, i programmi, bensì di dare un senso globale a tutta l’educazione ob-
bligatoria, di indicare quali sono le sue grandi direzioni, finalità, obiettivi,
contenuti indispensabili”.
In Italia si è cercato di redigere qualcosa di analogo nel contesto dell’in-
troduzione dell’obbligo di istruzione. Tuttavia non è stato così chiaro lo spi-
rito del documento redatto, né le indicazioni operative hanno aiutato a co-
glierne le finalità. Tanto più che si è operata quasi una dicotomia tra gli assi
culturali identificati (dei linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico, sto-
rico-sociale) e le otto competenze chiave di cittadinanza da acquisire al ter-
mine dell’istruzione obbligatoria, considerate quasi come un’appendice al
testo, quando esse dovrebbero costituire proprio l’orizzonte di senso entro il
quale impostare l’azione educativa scolastica. Nel documento tecnico tut-
tavia si precisa che i saperi e le competenze per l’assolvimento dell’obbligo
di istruzione riferiti ai quattro assi culturali costituiscono “il tessuto” […]
per la costruzione di percorsi di apprendimento orientati all’acquisizione
delle competenze chiave che preparino i giovani alla vita adulta e che costi-
tuiscano la base per consolidare e accrescere saperi e competenze in un pro-
cesso di apprendimento permanente, anche ai fini della futura vita lavora-
tiva”. E che “Le competenze chiave proposte […] sono il risultato che si può
conseguire – all’interno di un unico processo di insegnamento /apprendi-
mento – attraverso la reciproca integrazione e interdipendenza tra i saperi e
le competenze contenuti negli assi culturali”. Ci si sofferma anche su indica-
zioni di carattere metodologico: “L’accesso ai saperi fondamentali è reso
possibile e facilitato da atteggiamenti positivi verso l’apprendimento. La
motivazione, la curiosità, l’attitudine alla collaborazione sono gli aspetti
comportamentali che integrano le conoscenze, valorizzano gli stili cognitivi
individuali per la piena realizzazione della persona, facilitano la possibilità
di conoscere le proprie attitudini e potenzialità anche in funzione orienta-
tiva. A riguardo, possono offrire contributi molto importanti – con riferi-
23
mento a tutti gli assi culturali – metodologie didattiche capaci di valorizzare
l’attività di laboratorio e l’apprendimento centrato sull’esperienza”.
Le otto competenze chiave del documento italiano sono: imparare ad
imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo
autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e re-
lazioni, acquisire ed interpretare l’informazione. Non entro nel merito di
una loro disamina, perché si dovrebbe fare riferimento al documento di
base elaborato da un’apposita commissione e che è stato riassunto in una
paginetta.
Tra le nuove sfide all’apprendimento esteso a tutto l’arco della vita oc-
corre ricordare la nuova visione emergente circa la formazione terziaria.
L’OCSE per esplorare in maniera sistematica la situazione formativa post-
secondaria presente ha elaborato una definizione di educazione terziaria,
distinguendola da e integrandola con quella che ordinariamente è stata defi-
nita istruzione superiore. In effetti, nel passato l’educazione o istruzione su-
periore veniva identificata con quanto offerto e attuato nelle università, in
particolare in quelle europee. Ciò comprendeva in generale: a) forme di in-
segnamento e apprendimento richiedenti abilità concettuali e intellettuali di
alto livello nell’ambito degli studi umanistici, degli studi scientifici, delle
scienze sociali; b) la preparazione specifica per un limitato numero di pro-
fessioni come medicina, ingegneria e legge; c) ricerche avanzate e relative
borse di studio.
Negli ultimi trenta anni tale situazione è andata progressivamente modi-
ficandosi, e ciò per varie ragioni. In primo luogo si è avuto un aumento con-
siderevole di presenza di studenti e le università hanno assunto la responsa-
bilità di preparare soggetti all’attività professionale in un più vasto numero
di ambiti occupazionali, mentre la loro base conoscitiva si andava progres-
sivamente allargando e approfondendo; per rispondere a tale domanda for-
mativa si sono anche articolati i titoli e i diplomi che esse potevano confe-
rire. In secondo luogo, le istituzioni universitarie hanno assunto sempre di
più un ruolo consultivo nei riguardi delle aziende e degli stessi governi na-
zionali e locali. In alcuni casi sono state introdotte anche quelle che ven-
gono denominate “corporate universities”, istituzioni formative di livello
universitario legate a una singola azienda, o a un gruppo di aziende, a fa-
vore spesso dei loro dipendenti.
Tuttavia, lo sviluppo più innovativo è stato quello della presenza sempre
più diffusa di istituzioni formative e di ricerca a livello superiore non identi-
ficatesi più con le istituzioni universitarie tradizionali, bensì più diretta-
mente collegate con il mondo delle applicazioni tecniche e organizzative e
delle attività professionali specificatamente presenti nel mondo del lavoro.
Esempi di questa evoluzione sono le Fachochschulen tedesche, le IUT fran-
cesi, i Politecnici finlandesi, ecc. Inoltre, accanto a percorsi formativi abba-
24
stanza lunghi, di quattro o cinque anni, si sono accostati percorsi formativi
più corti di due o tre anni, talora collegati e/o integrati con quelli più
lunghi4. La situazione dell’insieme delle forme di educazione superiore è di-
ventata così molto più complessa e articolata. Dal punto di vista statistico si
ha un quadro di riferimento elaborato in sede Unesco nel 1997 e denomi-
nato ISCED-97 (International Standard Classification of Education), che di-
stingue tre tipi di programmi di formazione terziaria: a) ISCED 5A: pro-
grammi largamente basati su conoscenze teoriche e diretti a fornire suffi-
cienti qualificazioni per poter entrare in programmi di ricerca avanzati e
professioni che richiedono elevate competenze. Essi durano in genere al-
meno tre anni, anche se esistono esempi di durata minore; b) ISCED 5B:
programmi che richiedono il completamento previo, come per il 5A, della
formazione secondaria, ma che sono in genere più corti, più pratici e tecni-
camente o dal punto di vista occupazionale più specifici di quelli del tipo
5A; c) ISCED 5C: programmi di ricerca avanzati, che richiedono l’elabora-
zione di una tesi.
In Italia con l’art. 69 della Legge 17 maggio 1999 n.144 si è cercato di in-
trodurre qualcosa di analogo con l’avvio delle attività di Istruzione e Forma-
zione Tecnica Superiore (IFTS). Occorre notare che tali attività erano conce-
pite nell’ambito di un più vasto sistema di formazione integrata superiore,
mai chiaramente definito: “Per riqualificare e ampliare l’offerta formativa de-
stinata ai giovani e agli adulti, occupati e non occupati, nell’ambito del si-
stema di formazione integrata superiore (FIS), è istituito il sistema della istru-
zione e formazione tecnica superiore (IFTS), al quale si accede di norma con il
possesso del diploma di scuola secondaria superiore”.
Negli anni successivi sono state attivate numerose esperienze di IFTS,
ma sono mancati alcuni elementi fondamentali per parlare di sistema; si è
trattato soprattutto di più completamenti della formazione secondaria, che
di preparazione a livello terziario, anche se professionale. Tenendo conto
degli orientamenti europei, la normativa più recente vorrebbe avviare un
più sistematico percorso di alta formazione professionale introducendo i co-
siddetti Istituti Tecnici Superiori. La Provincia Autonoma di Trento in
questo contesto ha avviato da due anni percorsi di Alta Formazione Profes-
sionale che portano al Diploma di Tecnico Superiore. Essi sono stati avviati
in applicazione della legge provinciale n. 5 del 7 agosto 2006 che istituiva
con l’art. 67 tale segmento formativo: “L’alta formazione professionale è volta
allo sviluppo di figure professionali dotate di elevata preparazione in ambiti
specifici e di eccellenza, in grado di svolgere un’attività professionale con signi-
ficative competenze tecnico-scientifiche e livelli elevati di responsabilità e auto-
nomia da realizzarsi valorizzando la metodologia dell’alternanza tra l’ambito
formativo e quello lavorativo, in raccordo con il sistema universitario e il si-
stema produttivo provinciale. I percorsi di alta formazione professionale
4
Cfr. MAZERAN J. (Ed.), Les enseignements supérieurs professionnels courts, Paris, Hachette,
2007.
25
hanno durata massima triennale e si concludono con il rilascio di un diploma
che attesta l’acquisizione di competenze di alta formazione, secondo le moda-
lità e i criteri definiti dalla Provincia. Possono accedere all’alta formazione pro-
fessionale gli studenti in possesso di diploma professionale di durata quadrien-
nale o che hanno superato l’esame di stato al termine di un percorso del se-
condo ciclo”.
Occorre segnalare a questo proposito come nei corsi avviati sono pre-
senti non pochi studenti che sono già impegnati in attività lavorative anche
a livelli di autonomia e responsabilità abbastanza elevate. Ciò porta a evi-
denziare come attività formative di questo tipo rispondano alle esigenze di
apprendimento non solo iniziali, ma anche continue dei lavoratori.
26
pria crescita culturale e professionale, la disponibilità di base a impegnarsi
per migliorare se stessi, la capacità di perseverare nel cercare di raggiungere
obiettivi di perfezionamento personale e collettivo.
L’art. 6 del disegno di legge tratta del “Sistema per l’orientamento lungo
tutto il corso della vita” evidenziando il ruolo di una rete territoriale di ser-
vizi di orientamento e consulenza da intendere come “complesso di azioni
essenziali per il pieno sviluppo della persona e la crescita equilibrata della
comunità”, considerato come “fattore strategico volto a promuovere il be-
nessere e lo sviluppo personale, a garantire pari opportunità nell’accesso al
lavoro e alla formazione e nello sviluppo della carriera professionale di ogni
cittadino”. Ciò che a mio avviso deve essere garantito è la presenza sistema-
tica in ogni fase della crescita, dalla scuola primaria all’inserimento nel
mondo del lavoro e successivamente di un servizio di assistenza, di aiuto e
di sostegno alle proprie scelte e alla propria attività di preparazione ad af-
frontare le conseguenze delle proprie scelte ed, eventualmente, a riorientare
se stessi di fronte a situazioni di difficoltà. Se l’attività di orientamento
come sopra definita deve costituire un supporto permanente all’apprendi-
mento lungo tutto l’arco della vita, occorre sia che essa venga considerata
come una dimensione fondamentale della formazione, sia che i relativi ser-
vizi siano garantiti in tutte la fasi del proprio apprendimento, soprattutto a
livello formale.
5
ISTAT, La partecipazione degli adulti ad attività formative, cfr. www.istat.it
27
La tabella evidenzia come fino a 19 anni prevale l’apprendimento for-
male (66,2 %), mentre l’autoformazione segue con il 50,4% e l’apprendi-
mento informale conta per il 25,1%. Quest’ultimo appare presente per circa
un quarto/un quinto dei soggetti fino ai 54 anni, per poi estinguersi rapida-
mente. È un dato che riequilibra la percezione generale che gli adulti tra i
25 e i 55 anni partecipino in misura assai ridotta ad attività formative.
Legenda:
colonna a: non partecipazione
colonna b: partecipazione a una qualsiasi forma di attività
colonna c: partecipazione a corsi di studio
colonna d: partecipazione a corsi di formazione
colonna e: attività di autoformazione
colonna f: solo corsi di studio e/o formazione
colonna g: solo autoformazione
colonna h: sia corsi di studio e/o formazione, sia autoformazione
28
percentuale in questo tratto della loro vita non partecipi ad alcuna attività
formativa rappresenta una constatazione assai allarmante.
L’indagine è interessante anche perché esplora più in dettaglio verso
quali corsi di studio ci si orienta e quali corsi di formazione si seguono.
Inoltre vengono evidenziati i problemi incontrati e le ragioni che hanno in-
dotto a non partecipare ad alcuna attività formativa. Ai primi posti stanno
studi di scienze sociali, economiche, giuridiche (22,1%), seguono i servizi
(18,5%) e corsi di letteratura e arte (17,2%). Molto minore la partecipazione
a materie tecniche o ingegneristiche. La motivazione principale a parteci-
pare ad attività di formazione è il lavoro (65,3%), anche se i più giovani e i
più anziani frequentano prevalentemente per motivi personali. È interes-
sante che la percentuale maggiore di coloro che partecipano si riscontra tra
gli occupati, soprattutto se dirigenti e quadri (tra l’85,8% e il 77,4%). Le fi-
nalità principali sono: l’ampliamento delle proprie conoscenze e compe-
tenze su un argomento di interesse (44%) e la possibilità di svolgere meglio
il proprio lavoro e di avanzare nella carriera (43,3%). Quanto agli ostacoli
incontrati: costo elevato del corso (37%), organizzazione dei corsi in orari
scomodi (32,6%), luogo difficile da raggiungere (28,8%), formazione non
adeguata alle aspettative (20,1%). Questi ultimi argomenti sembrano segna-
lare le opportunità di corsi a distanza, magari basati su metodologie di e-
learning.
29
goli individui in condizione di sostenere la mobilità e l’apprendimento per-
manente. A ciò si aggiunge il nuovo modello per il riconoscimento dei cre-
diti del cittadino in formazione o del lavoratore, denominato European Cre-
dits for Vocational Education and Training (ECVET). Tutti i Paesi dell’UE
sono quindi impegnati a ripensare i propri sistemi formativi in modo coe-
rente con tali dispositivi comunitari.
Quanto sopra ricordato influisce certamente sulle qualificazioni e i titoli
che derivano dai processi di apprendimento formale. Tuttavia ciò costituisce
una sfida non indifferente al riconoscimento della competenze acquisite in
contesti non formali e informali. Per questo il disegno di legge dedica l’arti-
colo 4 alla “Individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e
informali” e l’art. 5 alla “Certificazione delle competenze”. Viene così prefi-
gurato “un decreto legislativo per la definizione delle norme generali per
l’individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali ed infor-
mali, ai fini del rientro nel sistema dell’istruzione scolastica e universitaria e
per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni ai fini del
rientro nel sistema dell’istruzione e formazione professionale, sulla base dei
seguenti principi e criteri direttivi: a) la validazione dei saperi acquisiti at-
testa l’apprendimento non formale e informale e consente la certificazione
dell’insieme delle conoscenze, abilità e competenze possedute dalla persona;
la validazione è effettuata nel rispetto delle scelte e dei diritti individuali e in
modo da assicurare a tutti pari opportunità, anche ai fini dell’accesso; b) la
ponderazione dei crediti spendibili ai fini del rientro nei percorsi dell’istru-
zione scolastica e universitaria deve essere effettuata in modo da garantire
l’equità e il pari trattamento su tutto il territorio nazionale; c) le procedure e
i criteri di validazione dell’apprendimento non formale ed informale sono
ispirati a principi di equità, adeguatezza e trasparenza e, sono sostenuti da
sistemi di garanzia della qualità anche a tutela dei fruitori dei servizi di
istruzione e formazione offerti dalle strutture che operano nei contesti non
formali […]; d) previsione di criteri generali per il riconoscimento della ca-
pacità formativa delle imprese previo confronto con le parti sociali”.
Quanto alla certificazione delle competenze essa “è finalizzata a garan-
tire la trasparenza e il riconoscimento degli apprendimenti in coerenza con
gli indirizzi fissati dall’Unione europea”. Tuttavia una competenza è certifi-
cabile se si tratta di “un insieme strutturato di conoscenze e di abilità, ac-
quisite nei contesti” formali, non formali e informali “e riconoscibili anche
come crediti formativi, previa apposita procedura di validazione degli ap-
prendimenti”. “Le competenze acquisite nell’ambito dei percorsi di appren-
dimento formali, non formali ed informali certificate sono registrate nel Li-
bretto formativo del cittadino”.
Il problema della certificazione delle competenze, come quello del rico-
noscimento dei crediti formativi, implicano non pochi problemi di natura
sia sostanziale, sia procedurale. In primo luogo, perché un credito, come un
certificato, sia riconosciuto da un ente diverso da quello che lo attesta oc-
correrebbe che venga istituito un organo terzo che agendo autonomamente
dia la garanzia della qualità del credito o delle competenze presi in conside-
30
razione e autorevolmente definisca la loro validità o ai fini istruttivi, o ai
fini dell’inserimento nel mondo del lavoro. Il Quadro Europeo delle Quali-
fiche è stato introdotto appunto come riferimento di base per potere defi-
nire i livelli di qualificazione dei soggetti, da questi comunque raggiunti, sia
in contesti formali, sia no. La questione che si pone di conseguenza è quale
autorità è competente per dichiarare la qualificazione raggiunta e il suo va-
lore sia nel contesto istruttivo, sia in quello professionale. È certo che i si-
stemi di istruzione secondaria e terziaria, sia universitaria, sia non universi-
taria, hanno la competenza nel riconoscere titoli, qualificazioni, crediti al
fine di un inserimento nei loro percorsi formativi. Per giungere però a un ri-
conoscimento generalizzato si deve andare oltre. La strada più semplice è
quella degli accordi e delle convenzioni tra istituzioni, siano esse formative
o imprese di produzione di beni o servizi, ma questa è comunque ancora
una strada limitata alle istituzioni coinvolte. Per giungere a validazioni e ri-
conoscimenti più generalizzati occorre istituire un’apposita autorità, sotto
forma a esempio di commissioni, definendo con chiarezza norme sostan-
ziali e procedurali da seguire nei vari casi.
6
C. MONTEDORO (a cura di), Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca
epistemologica, Milano, Franco Angeli, 2001; C. MONTEDORO (a cura di), Le dimensioni metacur-
ricolari dell’agire formativo, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 113-153; ISFOL, Apprendimento di
competenze strategiche, Milano, Franco Angeli, 2004; ISFOL, La riflessività nella formazione:
modelli e metodi, Roma, I libri del fondo sociale europeo, 2007.
31
azioni educative e di apprendimento. Tali interazioni possono risultare con-
gruenti e rapportarsi dinamicamente in maniera feconda, oppure dare ori-
gine a tensioni e contrasti anche distruttivi dal punto di vista del consegui-
mento degli obiettivi educativi e formativi intesi. Per questo all’attenzione
posta negli ultimi decenni ai processi di autoregolazione dell’apprendi-
mento si è accompagnata sempre più una considerazione maggiormente
comprensiva dell’intero sistema di rapporti esistenti tra istituzione forma-
tiva, formatori, ambiente vitale materiale e tecnologico, soggetti considerati
globalmente, individualmente o secondo gruppi particolari.
È anche significativa la riscoperta del ruolo di una comunità di pratica
dovuto oggi in gran parte alle ricerche guidate da E. Wenger e collabora-
tori7. Ciò che nelle loro analisi è riferito alle imprese di produzione di beni e
servizi può ben essere trasposto con le dovute attenzioni agli ambienti for-
mativi. Entra in gioco una rivalutazione dell’apprendistato pratico e dei pro-
cessi di apprendimento da modelli, ma anche la valorizzazione del concetto
di zona di sviluppo prossimale dovuto a L.S. Vygotskji8. È chiaro il ruolo
formativo di una realtà viva di pratica formativa se si considera come ac-
canto ai soggetti in formazione, che, differendo tra loro per livello di svi-
luppo delle conoscenze, abilità e competenze, possono costituire già un si-
stema di reciproco aiuto e sostegno, ci sono formatori a loro volta diversa-
mente competenti nell’esplicare le loro incombenze. L’intero sistema comu-
nitario viene così a costituirsi con un sistema di relazioni di aiuto e sostegno
nell’apprendimento, in quanto si moltiplicano le possibilità di aiuto, stimolo
e modello, secondo livelli molteplici di maturità e competenza.
Nell’esaminare le caratteristiche di una comunità di pratica Wenger os-
serva: “La prima caratteristica della pratica come fonte di coerenza di una
comunità è l’impegno reciproco dei partecipanti. La pratica non esiste in
astratto. Esiste perché le persone sono impegnate in azioni di cui negoziano
reciprocamente il significato. In questo senso, la pratica non risiede nei libri
o negli strumenti, anche se può coinvolgere tutti i tipi di oggetti. Non risiede
in una struttura preesistente, anche se non nasce in un vuoto storico. La
pratica risiede in una comunità di persone e nelle relazioni di impegno reci-
proco attraverso le quali esse fanno tutto ciò che fanno. L’appartenenza a
una comunità di pratica è dunque un patto di impegno reciproco. È ciò che
definisce la comunità”9. La natura di una comunità educativa si viene così a
configurare come una comunità in cui si alimenta e si coltiva un impegno
educativo reciproco a vari livelli e secondo le differenti responsabilità e
competenze, in un intenso contesto di relazioni interpersonali.
7
Cfr. E. WENGER, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cor-
tina, 2006; E. WENGER - R. MCDERMOTT - W.M. SNYDER, Coltivare comunità di pratica, Milano,
Guerini, 2007.
8
La zona di sviluppo prossimale in ambito educativo può essere così descritta: “l’insieme
delle conoscenze, capacità e competenze che l’educando può manifestare solo con l’aiuto di chi
già le possiede”.
9
E. WENGER, o.c., 88.
32
È quello che può essere anche definito il luogo ideale della conversa-
zione educativa, cioè di un complesso dialogo che permane nel tempo e che
favorisce lo scambio di significati tra tutti gli attori presenti. È in questo
luogo che si possono assimilare quelle conoscenze definite tacite o personali
in quanto non trasmissibili attraverso norme o principi, bensì solo per siste-
matica interazione tra soggetti portatori di tali conoscenze, interazione che
di solito assume sia le forme apprenditive dell’apprendistato, sia modalità
narrative di vario genere. Le forme pedagogiche basate sull’interazione tra
principianti ed esperti e sulle varie modalità narrative sono le strade ordi-
narie della sensibilizzazione e dell’assimilazione delle conoscenze e compe-
tenze di natura tacita10.
10
Cfr. M. POLANYI, La conoscenza inespressa, Roma, Armando, 1983.
33
Proposte per l’affermazione della FPI
1
Università Pontificia Salesiana di Roma.
Preferiamo usare l’espressione “qualificazioni”, invece che “qualifiche”, per restare più fe-
2
100
Proposte per l’affermazione della FPI
sionale secondo la nuova impostazione, in quanto viene a non aver più va-
lore quanto contenuto nell’Accordo raggiunto nella Conferenza Unificata del
19 giugno 2003 circa il carattere proprio dei trienni previsti per “consentire
il conseguimento di una qualifica professionale riconosciuta a livello nazio-
nale e corrispondente almeno al secondo livello europeo” (Decisione del
Consiglio 85/368/CEE).
1. Dalla legge 845/78 alla legge 53/03 e oltre: una radicale modifica di
prospettiva
La legge 845 è ancora una legge dello Stato italiano, ma essa ora deve
essere considerata alla luce di quanto viene definito dalla legge 53 del 2003
e dal D.lgs. del 17 ottobre 2005 n. 226, nonché dalle norme ulteriori che
sono entrate in vigore nel periodo.
In primo luogo occorre ricordare come la legge 845 venne votata il 21
dicembre 1978 in un periodo particolare della nostra storia, quello della co-
siddetta solidarietà nazionale. Essa, denominata legge quadro sulla forma-
zione professionale, definisce il rapporto con il sistema scolastico in quanto
alla scuola spetta il compito di fornire la preparazione culturale di base, alla
formazione professionale quello di avviare al lavoro attraverso l’intervento
delle Regioni e dei privati. Per capire il significato di questa legge occorre ri-
cordare come contemporaneamente era stato elaborato un disegno di legge
che portava l’obbligo scolastico a 16 anni. La formazione professionale po-
teva essere attivata solo per giovani che avessero assolto tale obbligo.
Questa seconda legge non venne mai approvata a causa della modificazione
del quadro politico. È in questo contesto che va interpretato il nuovo com-
pito attribuito alla formazione professionale: fare da ponte tra scuola e la-
voro ed aggiornare e riqualificare i lavoratori.
La legge 845 prevede che le Regioni predispongano programmi plurien-
nali e piani annuali di attuazione delle attività e che assicurino la partecipa-
zione degli enti terzi interessati, in armonia con l’evoluzione della occupa-
zione e delle esigenze formative e con il concorso delle forze sociali. Nel-
l’ambito delle modalità gestionali, la legge definisce la presenza parallela di
interventi pubblici e privati, chiarendo i vincoli e le condizioni al finanzia-
mento pubblico per le iniziative promosse e realizzate dai privati. Le Re-
gioni sono l’attore primario nella programmazione e gestione amministra-
tiva dell’ampio ventaglio di iniziative che rientrano nella formazione profes-
sionale iniziale e continua, per tutti i livelli formativi. In particolare le Re-
gioni attuano di norma iniziative formative dirette alla qualificazione e spe-
cializzazione di coloro che abbiano assolto l’obbligo scolastico e non ab-
biano mai svolto attività di lavoro. Inoltre le attività di formazione profes-
sionale sono articolate in uno o più cicli, e in ogni caso non più di quattro,
ciascuno di durata non superiore alle 600 ore. Ogni ciclo è rivolto ad un
RASSEGNA CNOS problemi esperienze prospettive per l’istruzione e la formazione professionale • ANNO 24 / n° 2 - 2008
101
Proposte per l’affermazione della FPI
3
Cfr. M. PELLEREY, Sperimentare nella formazione professionale, Venezia, Regione del Ve-
neto, 1991.
102
Proposte per l’affermazione della FPI
103
Proposte per l’affermazione della FPI
104
Proposte per l’affermazione della FPI
4
“Verso un quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente”
(Sec(2005)957 del 08/07/05).
5
Esiti della Consultazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Dicembre
2005.
6
Proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 novembre 2007,
COM(2007) 680 definitivo.
105
Proposte per l’affermazione della FPI
La decisione del 1985 adottava un approccio dall’alto verso il basso che richiedeva
una cooperazione intensa tra esperti di diversi paesi al fine di aggiornare continua-
mente l’elenco, modificare le descrizioni delle occupazioni e delle qualifiche e, se del
caso, aggiungerne di nuove. Il fatto che solo un campo limitato di occupazioni e solo
una frazione delle qualifiche professionali siano stati coperti riflette il carattere poco
pratico di questo approccio. Il QEQ adotta un approccio volontario e decentrato in cui
la Comunità fornisce un punto di riferimento comune e le decisioni dettagliate sono la-
sciate agli organismi competenti a livello nazionale e settoriale. Le disposizioni previste
per il lavoro di riferimento all’interno dei paesi non sono eccessivamente onerose. I
paesi mettono i loro livelli di qualifiche in relazione con il QEQ in modo da poter asse-
gnare un livello QEQ a qualunque qualifica di un livello particolare nel quadro o si-
stema nazionale. Il QEQ fornisce quindi un linguaggio comune per descrivere e com-
prendere le qualifiche. Le decisioni nazionali sulla corrispondenza delle qualifiche ai li-
velli QEQ sono successivamente trasmesse al gruppo consultivo QEQ che garantisce la
qualità del processo. I paesi hanno quindi un interesse ad effettuare una valutazione
iniziale appropriata del livello delle proprie qualifiche e a contribuire al processo di ga-
ranzia della qualità a livello europeo. Il QEQ affronta i limiti della decisione del 1985 a
due livelli: ponendo l’accento sul miglioramento della trasparenza delle qualifiche e in-
troducendo un approccio decentrato di cooperazione più adatto alla crescente comples-
sità delle qualifiche in Europa.
D’altra parte il documento ricorda che sono stati nel frattempo elabo-
rati altri strumenti e misure di trasparenza e mobilità a livello europeo che
promuovono la trasparenza e aumentano la trasferibilità delle qualifiche,
tra cui: Europass, il Sistema europeo di trasferimento crediti (ECTS), le
conclusioni del 2004 del Consiglio sull’individuazione e la convalida del-
l’apprendimento non formale e informale, il nascente Sistema europeo di
trasferimento crediti per la formazione professionale (ECVET) (SEC
(2006) 1431), nonché il portale Ploteus7. Inoltre, il riconoscimento reci-
proco delle qualifiche nel campo delle professioni regolamentate è discipli-
nato dalla direttiva 2005/36/CE del 7 settembre 2005. La direttiva, che con-
solida, aggiorna e semplifica 15 direttive approvate tra il 1975 e il 1999,
istituisce un sistema di riconoscimento automatico delle qualifiche per
professioni con percorsi di formazione armonizzati (medici, infermieri,
ostetriche, odontoiatri, veterinari, farmacisti e anche per architetti). Per le
altre professioni regolamentate (attualmente, sono regolamentate in uno o
più Stati membri dell’UE circa 800 professioni) le modalità si basano sul
riconoscimento reciproco: una persona qualificata a esercitare una profes-
sione in uno Stato membro, sarà autorizzata a esercitarla in un altro Stato
membro.
Alla luce di questa situazione la Commissione, dopo aver preso in consi-
derazione alcune opzioni alternative, ha proposto di abrogare la decisione
del 1985 e realizzare i suoi obiettivi nell’ambito del nuovo QEQ e degli altri
meccanismi sopra menzionati. Infatti, il QEQ raggiunge gli obiettivi in
modo più efficiente grazie al suo quadro più semplice e in modo più efficace
grazie alla sua maggiore trasparenza, al suo campo di applicazione più
ampio e al fatto che si basa sui risultati dell’apprendimento.
Di conseguenza occorre fare riferimento ormai a tale quadro, tanto più
7
http://ec.europa.eu/ploteus
106
Proposte per l’affermazione della FPI
107
Proposte per l’affermazione della FPI
108
Proposte per l’affermazione della FPI
109
Proposte per l’affermazione della FPI
8
Cfr. Ministère de l’Éducation Nationale, Le socle commun de connaissances et compé-
tences, Paris, CNDP, 2006.
110
Proposte per l’affermazione della FPI
Prima dimensione
Si tratta di conoscenze, abilità e competenze che permettono alla per-
sona di crescere nella propria cultura e professionalità e di orientarsi nel
mondo sociale, civile e professionale. Il loro perseguimento dovrebbe infor-
mare tutta l’attività formativa e didattica, a tutti i livelli, secondo una pro-
spettiva progressiva e sistematica. Esse costituiscono come un quadro di ri-
ferimento che permette di impostare l’azione formativa e la valutazione
della sua qualità da un punto di vista educativo. Si possono citare a
esempio:
– Competenze nel gestire se stessi nell’apprendere in modo da poterle va-
lorizzare lungo tutto l’arco della vita.
– Competenze nel progettare la propria vita e la propria professionalità
con spirito di iniziativa e di imprenditorialità e con senso di solidarietà e
partecipazione alla vita comunitaria.
– Competenze relazionali e comunicative, relative sia alla interazione tra
persone, sia alla collaborazione nello studio e nel lavoro.
Seconda dimensione
Competenze che da una parte radicano lo studente nella cultura, nella
storia e nella geografia della propria terra, della propria nazione, dell’Eu-
ropa e del mondo, sia quelle che favoriscono lo sviluppo e la valorizzazione
delle forme espressive di sé e dei propri sentimenti, sia lo sviluppo armonico
del proprio corpo e la cura della propria e altrui salute, sia quelle che l’aiu-
tano a orientarsi nel mondo civile, sociale, professionale e religioso; dal-
l’altra caratterizzano il soggetto dal punto di vista culturale e professionale a
un livello coerente con quello descritto dal QEQ. Si possono citare a
esempio:
– Competenze e sensibilità nell’ambito delle espressioni culturali che radi-
cano la propria identità sia a livello locale, sia nazionale, sia europeo, sia
internazionale.
– Competenze tecniche e professionali che permettono di orientarsi prima
e di inserirsi poi nel mondo della produzione di beni e servizi.
– Competenze sociali e civiche, che permettono di partecipare in maniera
consapevole, attiva e responsabile alla vita democratica del Paese.
Terza dimensione
Si tratta di interventi diretti allo sviluppo della padronanza di compe-
tenze che fanno da fondamento sia alla prima, sia alla seconda dimensione.
Tenendo conto anche dell’attuale configurazione dell’obbligo istruttivo, le
discipline da includere dovrebbero essere: lingua italiana, lingue straniere,
matematica, scienze. Si possono citare a esempio:
– Competenze fondamentali nella lingua italiana che portano a padroneg-
giarla sia nella comunicazione orale, sia in quella scritta.
– Competenze fondamentali nella valorizzazione dei concetti e delle pro-
cedure matematiche sia nella vita quotidiana, sia nello studio delle varie
discipline scientifiche e tecnologiche, sia nelle professionalità specifiche.
– Competenze che permettono di utilizzare concetti, principi, teorie scien-
111
Proposte per l’affermazione della FPI
9
Anche la Germania ha unificato tutte le terminalità del livello secondario di scuola a 18
anni. Rimane solo l’eccezione della Polonia.
112
Proposte per l’affermazione della FPI
113
Proposte per l’affermazione della FPI
5. Conclusione
10
M. FRISANCO (a cura di), Da qualificati a tecnici. La sperimentazione dei quarti anni di di-
ploma professionale in alternanza formativa nella Provincia Autonoma di Trento, Franco Angeli,
Milano, 2007.
114
Proposte per l’affermazione della FPI
DOCUMENTAZIONE ALLEGATA
A. Livelli previsti dalla decisione del Consiglio del 16 luglio 1985 relativa alla corrispon-
denza delle qualifiche di formazione professionale tra gli stati membri delle Comu-
nità europee (85/368/CEE)
Livello 1
Formazione che dà accesso a questo livello: istruzione obbligatoria e preparazione profes-
sionale.
Questa preparazione professionale è ottenuta sia a scuola, sia nell’ambito di strutture ex-
trascolastiche, sia nell’azienda. Le conoscenze teoriche e le capacità pratiche sono molto limi-
tate.
Questa formazione deve permettere principalmente l’esecuzione di un lavoro relativa-
mente semplice, la cui acquisizione può essere abbastanza rapida.
Livello 2
Formazione che dà accesso a questo livello: istruzione obbligatoria e preparazione profes-
sionale (compreso in particolare l’apprendistato).
Questo livello corrisponde ad una qualifica completa per l’esercizio di una attività ben de-
finita con la capacità di utilizzare i relativi strumenti e tecniche.
Questa formazione deve permettere principalmente l’esecuzione di un lavoro relativa-
mente semplice, la cui acquisizione può essere abbastanza rapida.
Livello 3
Formazione che dà accesso a questo livello: istruzione obbligatoria e/o formazione tecnica
complementare o formazione tecnica scolastica o altra, di livello secondario.
Questa formazione implica maggiori conoscenze teoriche del livello 2.
Questa attività riguarda prevalentemente un lavoro tecnico che può essere svolto in modo
autonomo e/o comporta altre responsabilità come quella di programmazione e coordinamento.
115
Proposte per l’affermazione della FPI
Livello 4
Formazione che dà accesso a questo livello: studi secondari (scuola media o ad indirizzo
tecnico/professionale) e formazione tecnica secondaria superiore.
È una specializzazione tecnica di livello superiore che può essere acquisita in strutture
scolastiche o extrascolastiche. La qualifica ottenuta al termine della formazione ricevuta in-
clude conoscenze e attitudini di livello superiore senza però esigere la padronanza dei fonda-
menti scientifici delle varie materie. Queste attitudini e conoscenze permettono in particolare
di assumere un lavoro di responsabilità nel complesso autonomo o indipendente per una atti-
vità di concetto (programmazione e/o amministrazione e/o gestione).
Livello 5
Formazione che dà accesso a questo livello: studi secondari (scuola media o ad indirizzo
tecnico/professionale) e formazione superiore completa.
Questa formazione porta chi l’ha ricevuta ad esercitare un’attività professionale – retri-
buita o indipendente – ed implica la padronanza dei fondamenti scientifici della professione.
Le qualifiche richieste per esercitare un’attività professionale possono essere integrate ai di-
versi livelli.
Dal punto di vista statistico si ha un quadro di riferimento elaborato in sede Unesco nel
1997 e denominato ISCED-97 (International Standard Classification of Education).
Empiricamente, ISCED utilizza qualsiasi criterio esistente che possa aiutare a distribuire i
programmi secondo i livelli di istruzione. A seconda del livello e del tipo di istruzione conside-
rati, è necessario stabilire un sistema gerarchico tra criteri principali ed ausiliari (qualifica ti-
pica d’entrata, requisiti minimi richiesti per l’ingresso, età minima, qualificazione dello staff,
ecc.).
0 Istruzione pre-scolastica: è definita come lo stadio iniziale dell’istruzione organizzata; è
una scuola o un centro pensato per bambini che abbiano almeno tre anni.
1 Istruzione primaria: questo livello inizia tra i quattro ed i sette anni di età; è obbligatorio
in tutte le nazioni e generalmente dura dai cinque ai sei anni.
2 Istruzione secondaria inferiore: continua i programmi di base del primo livello, sebbene
l’insegnamento sia tipicamente più focalizzato per materia. In genere, la fine di questo li-
vello coincide con la fine dell’istruzione obbligatoria.
3 Istruzione secondaria superiore: questo livello comincia in genere alla fine dell’istruzione
obbligatoria. L’età di ingresso è generalmente 15 o 16 anni. La qualifica di entrata (fine
dell’istruzione obbligatoria) e altri requisiti minimi di ingresso sono generalmente neces-
sari. Gli insegnamenti sono spesso più orientati per materia rispetto al livello ISCED 2. In
genere la durata del livello ISCED 3 varia da due a tre anni.
4 Istruzione post-secondaria non universitaria: questi programmi stanno a cavallo tra l’istru-
zione secondaria e quella universitaria. Servono per allargare le conoscenze dei diplomati
di livello ISCED 3. Esempi tipici sono i programmi pensati per preparare gli studenti per
gli studi al livello 5 o programmi disegnati per preparare gli studenti all’entrata diretta nel
mercato del lavoro.
5 Istruzione terziaria (primo stadio): l’accesso a questi programmi di studio richiede nor-
malmente di aver terminato con successo gli studi al livello 3 o 4 dell’ISCED. Questo livello
include programmi con indirizzo accademico (tipo A) che sono in gran parte teorici e pro-
grammi con indirizzo professionale (tipo B) che sono generalmente più corti di quelli del
tipo A e pensati per l’ingresso nel mondo del lavoro.
6 Istruzione terziaria (secondo stadio): questo livello è riservato a studi terziari che condu-
cono ad una qualifica di ricerca avanzata (Ph.D. o Dottorato).
116
Proposte per l’affermazione della FPI
C. I primi cinque livelli del Quadro Europeo delle Qualificazioni per l’Apprendimento
Permanente
117
PROGETTI e ESPERIENZE
1
Prof. Emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma
2
BAY M. - GRZA˛DZIEL D. - PELLEREY M. (a cura di), Promuovere la crescita nelle competenze
strategiche che hanno le loro radici nelle dimensioni morali e spirituali della persona, Rapporto fi-
nale, CNOS-FAP, 2009.
gogiche relative alla formazione degli adulti hanno messo e mettono sempre più
in risalto la centralità da una parte dello sviluppo della capacità di autoformazione
o di apprendimento auto-diretto, e in generale di regolazione delle proprie azioni,
e, dall’altra, del ruolo del senso e della prospettiva esistenziale che anima tali pro-
cessi.
In questa prospettiva è utile rileggere alcuni suggerimenti che Pascual Chávez
ha avanzato nel quadro di una rinnovata esigenza di rilettura del sistema preven-
tivo. Tra le trasformazioni culturali e storiche che influiscono inevitabilmente sul-
l’interpretazione dell’approccio preventivo nell’educazione egli ricorda in partico-
lare che si è passati da “un sistema «istituzionale» chiuso, separato, apolitico, auto-
nomo dove tutto si svolgeva all’interno di un preciso spazio educativo autosuffi-
ciente, dove i maestri ufficialmente riconosciuti erano don Bosco e i suoi «figli»” a
un contesto aperto nel quale molti adulti “a vario titolo, incidono sull’educazione
dei giovani e sulla loro capacità di compiere scelte esistenziali: genitori, inse-
gnanti, educatori, assistenti e operatori socio-sanitari, politici, economisti, ammi-
nistratori a tutti i livelli, agenzie educative, organizzatori scolastici, gestori di mezzi
di comunicazione di massa, associazioni culturali, sportive, di tempo libero, reli-
gioni, chiese”3. Bauman in un suo intervento4 così descrive questa caratteristica
dell’esistenza postmoder na, a suo avviso responsabile di evidenti disagi nella peda-
gogia odierna: “l’aprirsi di ogni «ambiente pedagogico» e il reciproco mescolarsi
degli ambienti. Nei tempi premoderni e per la maggior parte della storia mo-
derna, l’ambiente pedagogico […] era, dal punto di vista dell’oggetto dell’educa-
zione o di ogni categoria di oggetti, chiaramente delineato e accuratamente sepa-
rato dagli altri. Di solito l’ambiente pedagogico restava racchiuso all’interno del
villaggio o del quartiere cittadino; il flusso delle comunicazioni interambientali era
esile; una certa breccia in quel muro la producevano i libri, ma erano accessibili
solo a una minoranza, pochi vi ricorrevano e meno ancora riuscivano a trarne
profitto. Per la maggior parte degli umani oggetti pedagogici, il prete e il maestro
erano le uniche finestre sul mondo, gli unici trasmettitori di informazioni extram-
bientali nonché mediatori di una cultura più vasta.
Ogni programma educativo poteva quindi avere il proprio destinatario e assu-
mere nei suoi confronti un atteggiamento monopolistico. Per gli ambienti educa-
tivi orientati su basi locali e divisi per categorie, i mezzi di trasmissione di massa
furono ciò che le trombe di Giosué erano state per le mura di Gerico. Le pareti di-
visorie tra le enclaves pedagogiche crollarono, e assieme a esse sparì la possibilità
di dirigere il processo di studio, la scelta pianificata degli influssi educativi e dei
programmi di insegnamento guidato. Per farla breve, svanì la possibilità di con-
trollare efficacemente l’ambiente da educare, quella possibilità che finora era stata
alla base di ogni teoria e strategia pedagogica”.
In questo contesto sono cresciuti progressivamente le libertà e i diritti degli in-
dividui, uno sviluppo certamente positivo e per molti versi ricco di frutti meravi-
gliosi, ma nel quale possono annidarsi seri rischi che ciascuno deve contrastare
3
CHÁVEZ P., “Cristianità e prevenzione”, in LANEVE C. (a cura di), L’educatore, oggi: tratti per
un profilo di san Giovanni Bosco, Bari, Servizio Editoriale Universitario, 2007, 15.
4
BAUMAN Z., Il disagio della postmodernità, Milano, Bruno Mondadori, 2002, 160-161.
con la propria coscienza. Un contesto sociale libero non più illuminato da valori
tradizionali non cancella la differenza tra bene e male, tra giusto e ingiusto, ma ri-
mette la scelta all’esercizio responsabile della libertà. E ciò in presenza sia di
forme sempre più polverizzate e individualizzate di vita, sia del progresso di
scienza e tecnologia, da cui deriva alla nostra libertà la sensazione di un potere
senza limiti. In altre parole non si può sfuggire alla tensione tra il grande spazio di
libertà e di iniziativa che si apre per i singoli e le comunità e il venir meno delle
reti sociali che garantivano sicurezza e protezione. Pascual Chávez esprime in
questo modo la condizione giovanile che ne deriva. “La conseguenza più vistosa
per tutti, ma specialmente per le generazioni giovani, è il travaglio di orientarsi
nella molteplicità di stimoli, problemi, visioni, proposte. Appaiono confuse le
varie dimensioni della vita e non è facile cogliere il loro valore”5. “L’emergere
della soggettività è una delle chiavi per interpretare la cultura attuale.
Essa è legata al riconoscimento della singolarità di ogni persona e del valore
della sua esperienza e interiorità. Viene rivendicata da quei gruppi che per molto
tempo si sono sentiti “oggetto” di leggi, di imposizioni di identità o di convenzioni
sociali, che impedivano loro di esprimersi. Lasciata però al proprio dinamismo,
senza riferimento alla verità, alla società e alla storia, la soggettività non riesce a
realizzarsi”6.
Sembra dunque evidente – ed è questa anche una tendenza nelle politiche for-
mative europee – che il cuore del problema educativo deve essere centrato sulla
promozione di quelle qualità personali che consentono a ciascuno di diventare il
vero protagonista della propria crescita e maturazione, divenendo soggetto che
assume progressivamente in proprio le istanze di apprendimento e di formazione
necessarie per garantire la capacità non solo di agire e interagire positivamente
nel contesto sociale culturale e professionale, ma anche di progredire nella qualità
della propria vita interiore e nelle dimensioni morali e spirituali della propria per-
sona. L’espressione che sembra inglobare queste tendenze suona più o meno
così: imparare a dirigere se stessi nell’apprendere. Dirigere se stessi nel proprio
apprendimento culturale e/o professionale può essere riletto secondo due pro-
spettive complementari, integrando tra loro i concetti di autodeterminazione e di
autoregolazione. Con il termine “autodeterminazione” si segnala la dimensione
della scelta, del controllo di senso e di valore, della intenzionalità dell’azione: è il
registro della motivazione, della decisione, del progetto, anche esistenziale. Con il
termine “autoregolazione”, che evoca monitoraggio, valutazione, pilotaggio di un
sistema d’azione si insiste di più sul registro del controllo strumentale dell’azione.
Al primo livello, nel dare senso, finalità, scopo all’azione ci si colloca sul piano del
controllo di tipo “strategico”, che mette in evidenza la componente motivazionale,
di senso, di valore. Al secondo livello si richiede, invece, di sorvegliare la coe-
renza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il funzionamento o pilo-
tarla; si tratta di un livello “tattico”.
5
CHÁVEZ P., “Educhiamo con il cuore di don Bosco”, Atti del Consiglio generale della Società
Salesiana di San Giovanni Bosco, 400, gennaio-marzo 2008, 22.
6
CHÁVEZ P., Ibidem, 23.
Nel corso dell’anno 2006 era stata realizzata dal CNOS-FAP una ricerca di
base sul “Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo
tutto l’arco della vita”.7 Nell’impostare tale indagine ci si era posta la domanda:
quale ruolo può avere il tener conto in maniera esplicita e sistematica delle dimen-
sioni spirituali e morali della crescita personale, sociale, culturale e professionale
dei vari soggetti. In particolare, nella sempre più complessa realtà culturale e reli-
giosa di coloro che frequentano le istituzioni formative, come è possibile prendere
in considerazione in maniera sistematica, ma rispettosa dell’identità di ciascuno, le
implicazioni di una educazione che tenga conto dello sviluppo della capacità di at-
tribuire senso e prospettiva esistenziale al proprio apprendimento e alla propria
attività lavorativa? La domanda emergeva naturale in quanto sono sempre più nu-
merosi i contributi che in campo internazionale e nazionale rileggono in profon-
dità il ruolo della dimensione morale e spirituale nei processi di formazione iniziale
e continua. La ricerca ha potuto esplicitare gli apporti esistenti da due punti di
vista: quello teorico-filosofico e quello psicologico-educativo. E ciò in una prospet-
tiva multi-culturale e multi-religiosa.
Dal punto di vista della dimensione spirituale apporti significativi sono venuti
in particolare dalla ricerca psicologica e dal movimento che prende la denomina-
zione di psicologia positiva. Tuttavia sono ormai numerose le proposte e le speri-
mentazioni sia in ambito di prima formazione professionale, sia di formazione
professionale continua di sollecitazione della capacità di dare senso e prospettiva
esistenziale alla propria vicenda personale e comunitaria. In maniera analoga la
questione dell’educazione morale è stata riletta in contesti pluriculturali e multireli-
giosi come educazione del carattere; ciò soprattutto in contesti anglofoni. In ge-
nere ci si rifà al modello proposto da Aristotele e ripreso da A. MacIntyre. Un si-
gnificativo contributo dell’American Psychological Association ne indicano la frui-
bilità a vari livelli di formazione professionale8.
La prospettiva formativa delineata tendeva a valorizzare la metafora della “co-
munità di pratica” quale è stata concettualizzata da J. Lave ed E. Wenger, riletta
filosoficamente a partire dalle indicazioni di A. MacIntyre. In questo quadro di rife-
rimento entrano in gioco soprattutto le interazioni e il contesto culturale e sociale
che si riescono a costruire in coerenza con le finalità fondamentali del processo di
educazione spirituale e morale dei giovani. Si valorizza così la riflessione odierna
sul ruolo del formatore, definito come facilitatore dell’apprendimento, creando
uno spazio o contesto nel quale i soggetti in formazione possano e vogliano ap-
prendere. Si tratta di uno spazio nel quale i formatori diventano un riferimento
forte e sicuro sia dal punto di vista motivazionale, sia da quello della guida all’a-
zione di apprendimento, sia da quello della perseveranza in tale impresa. D’altra
parte l’approccio socio-culturale ha messo in luce l’importanza, valorizzata ap-
7
PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona, Roma,
CNOS-FAP, 2007.
8
FOWERS B.J., Virtue and psychology, Washington, APA, 2005.
9
ISFOL, Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica,
Milano, Franco Angeli, 2001; ISFOL, Le dimensioni metacurricolari dell’agire formativo, Milano,
Franco Angeli, 2002, 113-154; ISFOL, Apprendimento di competenze strategiche, Milano, Franco
Angeli, 2004, 150-191.
10
FARAS J.F. - BAUMEISTER R.E. - TICE D.M., Psychology of Self-Regulation, New York, Psy-
chology Press, 2009.
effetti si tratta in genere di una variabile latente, cioè di una caratteristica perso-
nale che non può essere rilevata direttamente, bensì solo attraverso un certo nu-
mero di indicatori che permettono di inferire non solo la sua presenza, ma anche
il suo livello. Lo sforzo dunque sta nell’identificare da una parte i caratteri costitu-
tivi della competenza (approccio in gran parte teorico) e dall’altra di individuare le
possibili forme di rilevazione di tali caratteri. In genere si prendono in considera-
zione tre possibili fonti di rilevazione: le prestazioni finali, la percezione sogget-
tiva, l’osservazione del comportamento in situazioni significative. Una delle com-
ponenti fondamentali di un giudizio inferenziale di competenza risulta essere l’au-
tovalutazione o percezione soggettiva. Questa in genere è rilevabile attraverso op-
portuni strumenti di misurazione. Si è scelto dunque di costruire e validare uno
strumento che consente di raccogliere gli elementi auto-valutativi essenziali per
poter concludere circa la presenza e il livello di competenza raggiunto.
11
Cfr. CEPOLLARO G., Le competenze non sono cose, Milano, Guerini e Associati, 2008.
12
PERRENOUD P., Costruire le competenze a partire dalla scuola, Roma, Anicia, 2003, 39.
non solo si posseggono le risorse interne necessarie per inquadrare la sfida cor-
rente e comprenderne le richieste, ma si è anche consapevoli di essere pronti a
metterle in azione in maniera integrata. In molti casi occorre inoltre conoscere e
saper valorizzare le risorse esterne disponibili: altre persone competenti diretta-
mente coinvolte nella sfida, oppure che se richieste possono dare un aiuto; ogni
altra fonte di aiuto o strumento indispensabile o utile per svolgere l’attività ri-
chiesta. Molti Autori insistono su tale dimensione soggettiva delle competenze
fino a considerarle come del tutto peculiari alle singole persone. Pur riconoscendo
che molti aspetti delle manifestazioni di competenza inducono a riconoscere mo-
dalità personali di integrazione delle conoscenze e delle competenze, segnate oltre
tutto da peculiari forme organizzative e da specifiche coloriture affettive e motiva-
zionali, a nostro avviso occorre tener conto anche di due altre dimensioni: quella
oggettiva e quella intersoggettiva.
La mobilizzazione e integrazione delle risorse si effettua in un contesto o situa-
zione specifica e implica un intervento attivo da parte del soggetto. Nella nostra
prospettiva il contesto normalmente va riferito alla pratica nella quale si è coin-
volti, pratica che ha modelli di eccellenza ai quali fare riferimento, modelli che tut-
tavia possono variare sia culturalmente, sia storicamente, e che possono anche
essere superati per l’impegno e la creatività dei singoli o dei gruppi. Il compito, o
i compiti, da portare a termine all’interno della pratica presa in considerazione o
dell’attività da svolgere caratterizza la competenza considerata. È questa la dimen-
sione delle competenze che possiamo definire in qualche modo oggettiva, non
solo perché collegata a una realtà esterna al soggetto, realtà che ne sollecita una
risposta pertinente ed efficace, ma anche perché l’azione personale si esplica al-
l’interno di una pratica umana socialmente e culturalmente condivisa.
Il riconoscimento sociale di una competenza implica una molteplicità di mani-
festazioni (non basta una singola prestazione), in una molteplicità di contesti parti-
colari (la cosiddetta policontestualità), manifestazioni che possono essere osservate
e valutate in quanto evidenziazione pubblica di quanto per sua natura rimane non
direttamente accessibile. In questa riconoscibilità pubblica entra in gioco anche il
dover tener conto di una pluralità di fonti di informazione: da quelle che fanno ri-
ferimento all’osservazione esterna più o meno sistematica di come agisce la per-
sona, alla considerazione dei pensieri e dei sentimenti personali che hanno gui-
dato e accompagnato tale agire, all’analisi attenta dei risultati di tale azione.
Questa dimensione può essere descritta come intersoggettiva.
Oltre a quanto ricordato nel paragrafo precedente si deve tenere presente che
una competenza non è rilevabile direttamente. In termini psicologici si dice che si
tratta di una variabile latente che può essere solo inferita a partire da un insieme
di indicatori.
Sempre in termini psicologici una competenza è dunque un costrutto la cui
identità deriva da una parte da considerazioni teoriche spesso convalidate da ri-
cerche empiriche e, dall’altra, dalla possibilità di coglierla a un buon grado di plau-
sibilità e di fiducia attraverso più elementi informativi. In altre parole la definizione
di una competenza esige una doppia coerenza: sul piano teorico e sul piano di
una sua possibile misurazione indiretta.
13
L’indagine ISTAT “I diplomati e lo studio” pubblicata il 12 novembre 2009 indica in circa il
50% dei diplomati degli Istituti tecnici come iscritti inizialmente all’Università, dei quali più del 20% in-
terrompe quasi subito tali studi e circa un terzo contemporaneamente lavora.
14
M. PELLEREY, Questionario sulle Strategie di Apprendimento. QSA, Roma, LAS, 1996.
superficiale alle esigenze di una esistenza costruita sulla base di prospettive di si-
gnificati e valori personali assunti consapevolmente e presi giorno per giorno
come guida efficace nelle vicende della vita culturale, sociale e professionale. Una
diagnosi di come un soggetto si presenta da questo punto di vista al termine dei
percorsi formativi propri del secondo ciclo di istruzione e formazione è essenziale
per orientare le proprie scelte future. A tale diagnosi dà un apporto fondamentale
la percezione soggettiva di essere più o meno competente da questo punto di
vista. Lo strumento messo a punto e validato si presta anche a favorire nei forma-
tori una seria considerazione nella loro azione educativa degli elementi che le sin-
gole scale descrivono. Ne può derivare una più attenta impostazione dell’attività
formativa, che tende a considerare le persone nella loro integralità.
Al fine poi di favorire un uso diffuso e agevole del questionario sarebbe utile
non solo renderlo facilmente applicabile mediante una somministrazione e corre-
zione on line, bensì anche offrire, sempre a distanza, indicazioni e suggerimenti
per impostare l’azione educativa dei formatori e quella auto formativa degli allievi.
Se poi venisse attivato un ambiente informatico al quale accedere per poter facil-
mente fruire di più strumenti di questo tipo ed avere una opportuna assistenza,
l’apporto proveniente da un lavoro di questo tipo si rivelerebbe del tutto prezioso.
Riferimenti bibliografici
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PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona, Roma, CNOS-
FAP, 2007.
PERRENOUD P., Costruire le competenze a partire dalla scuola, Roma, Anicia, 2003, 39.
1
Professore Emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
Responsabile macro area mercato del lavoro ISFOL.
1/2011 45
allo sviluppo di competenze come quelle connesse con l’arte retorica da esercitare in
ambito pubblico, a esempio in tribunale. Tuttavia nell’un caso e nell’altro l’uso di
tali institutiones da un punto di vista formativo si poneva nella prospettiva più
ampia di dare fondamento e sviluppo alla collocazione del formando nello status di
uomo completo ed equilibrato non solo dal punto di vista del suo conoscere, bensì
anche da quello del suo agire e della sua partecipazione alla vita pubblica. Nel pe-
riodo imperiale il termine institutio evocava anche la formazione di funzionari pub-
blici che non solo conoscono il corpus delle leggi, ma sanno anche farne loro uso
validamente e onestamente nella pratica istituzionale.
In Quintiliano si ha nella descrizione di competenza una integrazione tra il con-
cetto di peritus (perito) in un ambito di attività professionale particolare e quello di
bonus (buono) come qualità fondamentale della persona: “Ci proponiamo di formare
l’oratore completo, il quale non può non essere anche un uomo onesto, e perciò da
lui pretendiamo non solo un’eccellente capacità professionale, ma anche tutte le
virtù dell’animo”3. La perizia professionale deve essere innestata in una matrice di
probità di vita: vir bonus, dicendi peritus.
Nel medioevo, la nascita delle università avvenne insieme alla introduzione di
titoli professionali specifici: le licenze. Così si ebbero le licenze di insegnare deter-
minate discipline, di svolgere attività medica, di esercitare le professioni giuridiche.
E non bastava aver seguito i corsi, le lezioni ex cathedra, le disputazioni, ma so-
prattutto occorreva aver dimostrato pubblicamente di possedere le conoscenze e le
competenze proprie della pratica professionale per la quale si intendeva conseguire
la licenza di operare.
Più o meno nello stesso periodo nel quale si costituirono le università, in Europa
si svilupparono le corporazioni delle arti e dei mestieri. Si trattava di associazioni
create per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa cate-
goria professionale. In Francia presero il nome di Guildes, in Inghilterra Guilds, in
Spagna Gremios, in Germania Zünften. Indipendentemente dalle diversità e dal coin-
volgimento politico più o meno profondo, il compito primario di ogni corporazione
era la difesa dell’esercizio del proprio mestiere; e chi lo praticava, pur non essendovi
iscritto, veniva considerato dalla corporazione un lavoratore che costituiva un po-
tenziale pericolo verso gli iscritti. Esse avevano dunque lo scopo non solo di prepa-
rare i nuovi adepti ma anche di riconoscerne e tutelarne le competenze proprie della
professione, in particolare di fronte alla concorrenza e alla intrusione nella pratica
professionale di persone non adeguatamente competenti. Il termine latino più usato
per indicare tali associazioni era quello di Collegia. Gli attuali collegi e ordini profes-
sionali si ricollegano proprio alla tradizione avviata in epoca medioevale. Fin dal
loro inizio è stato presente l’intervento pubblico per regolare la vita e l’influenza
delle corporazioni nella vita pubblica e sociale.
Nei tempi più vicini a noi le principali attività professionali di grande impatto
sociale sono state protette da possibili intrusioni di incompetenti mediante le cosid-
3
QUINTILIANO, Istituzione oratoria, Torino, UTET 1968, 69.
46 RASSEGNA CNOS
dette abilitazioni pubbliche a esercitarle. Di qui il nome di professioni protette o re-
STUDI e RICERCHE
golamentate. In molti Paesi ancora oggi sono gli ordini professionali a gestire la for-
mazione e il riconoscimento delle competenze necessarie per essere abilitati all’eser-
cizio di determinate professioni. Dove lo Stato centralistico ha preso il sopravvento,
tali abilitazioni sono state regolate e in molti casi gestite direttamente dalla stessa
Autorità pubblica, spesso con l’ausilio delle istituzioni scolastiche e universitarie
pubbliche. Così alcuni titoli scolastici o di istruzione superiore assunsero anche il
ruolo di titoli abilitanti all’esercizio di determinate attività professionali.
La razionalità che stava e sta alla base di tali certificazioni di competenza era
ed è di tipo protettivo: per determinate categorie di lavoratori, di fronte a possibili
intrusioni e condizionamenti; per la collettività, come garanzia di qualità delle pre-
stazioni di chi possedeva tali titoli; per difendere diritti e privilegi conseguiti nel
tempo; per sanzionare comportamenti giudicati negativi per l’onorabilità della pro-
fessione stessa.
4
McINTYRE A., Dopo la virtù, Milano, Feltrinelli 1988, 225.
1/2011 47
finito saggio perché si comporta normalmente in maniera saggia; un medico si rico-
nosce come competente in quanto le sue prestazioni rispondono normalmente ai re-
quisiti di qualità definiti dalla comunità scientifica di appartenenza. Analogo con-
cetto è quello di perizia professionale.
Nell’approfondire il concetto di competenza da un punto di vista teorico è ne-
cessario tener conto, quindi, della sua natura relazionale secondo almeno tre grandi
riferimenti: il soggetto che agisce, i compiti da svolgere, la pratica sociale e colla-
borativa nella quale si è inseriti5.
La prima relazione è tra il soggetto e il compito da svolgere. Si attiva in tale re-
lazione un processo che il soggetto deve essere in grado di gestire e nel quale en-
trano in gioco sia le caratteristiche peculiari della persona, sia quelle del compito o
della situazione lavorativa. Si tratti di riflettere su una questione, di interpretare
una situazione, di risolvere un problema, di realizzare un prodotto, di affrontare una
situazione di lavoro o di relazione sociale, la competenza di una persona si evidenza
nell’essere in grado di attivare, guidare, sostenere, controllare, valutare il processo
che permette di conseguire il risultato atteso. Ciò vale non solo nel caso di attività
esterne al soggetto, ma anche di attività che si svolgono solo al suo interno. Il pen-
siero e la riflessione sono anch’essi azioni interiori che si attuano in forma di con-
versazione, un argomentare tra sé e sé, un porsi domande e cercare di rispondervi,
una ricerca di soluzioni e insieme una critica serrata ad esse. Un tipo di conversa-
zione che si attiva analogamente quando l’interlocutore è esterno, come il compito
da svolgere o la situazione lavorativa. Si tratta di un’attività che è tanto più sentita
e significativa quanto più il soggetto ne è coinvolto e motivato; tanto più sfidante
quanto più essa è percepita come complessa e poco famigliare; tanto più agevole,
quanto più egli pensa di possedere le risorse in termini di conoscenze, abilità ed
esperienza necessari per affrontarla; ecc.
In effetti la generazione dell’intenzione di agire, di impegnare le proprie energie
in una direzione, deriva dall’interazione tra il sistema del sé (conoscenze concettuali
e operative; motivi, valori e convinzioni; attribuzioni di valore nei riguardi di sé,
degli altri e del contesto lavorativo, ecc.) e la percezione della situazione specifica
o del compito da affrontare e delle sue caratteristiche6. In altre parole ha un ruolo
5
Si tratta di tre dimensioni che, a nostro avviso, caratterizzano una competenza, e cioè la di-
mensione soggettiva, quella oggettiva e quella intersoggettiva. Nel considerare tali dimensioni, però,
si può essere tentati di isolare il soggetto dall’oggetto, nel senso di esaminare con cura le qualità pro-
prie della persona, le sue conoscenze e abilità possedute nella loro trasformazione personale, le mo-
tivazioni e i significati che guidano i suoi comportamenti; e, separatamente, per quanto concerne
l’oggetto, un’analisi attenta del compito da svolgere e delle sue esigenze in termini di risultati da
conseguire. Questa lettura può condurre a trascurare ciò che caratterizza il concetto stesso di com-
petenza: la relazione esistente tra il soggetto e il compito da svolgere o la situazione sfidante. Inoltre,
la natura stessa di una competenza personale si definisce in gran parte in riferimento alla pratica
umana nella quale egli è inserito. A questo proposito si può leggere il secondo capitolo del volume:
PELLEREY M., Le competenze individuali e il portfolio, Scandicci, La Nuova Italia 2004.
6
Cfr. PELLEREY M., Educare, Roma, Las, 1999, 66-67. Vedi anche: NUTTIN J., Teoria della mo-
tivazione umana, Roma, Armando 1983.
48 RASSEGNA CNOS
del tutto rilevante una componente della competenza che possiamo denominare in-
STUDI e RICERCHE
terpretativa, in quanto si tratta di dare senso a una situazione (o a un problema),
cogliendone gli aspetti che implicano un intervento che la modifichi secondo un
obiettivo preciso e, contemporaneamente percepire se si è in grado di affrontare tale
situazione in maniera valida ed efficace7.
La seconda relazione è tra il soggetto e il contesto sociale e collaborativo nel
quale si è inseriti. Da questo punto di vista è utile evocare quanto descritto da E.
Wenger e collaboratori8 circa le comunità di pratica. Si ha una rivalutazione dell’ap-
prendistato pratico e dei processi di apprendimento da modelli, insieme alla valoriz-
zazione del concetto di zona di sviluppo prossimale dovuto a L.S. Vygotskji9. Nello
sviluppo delle competenze è chiaro il ruolo di una realtà viva e dinamica di pratica,
soprattutto se si considera come, accanto al singolo partecipante, esistono in genere
numerosi altri soggetti, che, differendo tra loro per livello di sviluppo delle cono-
scenze, abilità e competenze, possono costituire un sistema di reciproco aiuto e so-
stegno. Inoltre, normalmente ci sono soggetti già esperti che sono in grado di solle-
citare, guidare e valutare l’impegno apprenditivo dei meno competenti. L’intero si-
stema comunitario viene così a costituirsi con un sistema di relazioni di aiuto, guida
e sostegno non solo nello stimolare le manifestazioni della competenza ma anche,
se non soprattutto, nel promuoverne lo sviluppo.
La terza relazione si evidenzia se teniamo presente come sia il soggetto che
agisce, sia il compito da svolgere siano inseriti in un contesto culturale e pratico
che evolve nel tempo e si differenzia geograficamente. Nella teoria psicologica del-
l’attività socioculturale, e in particolare negli studi di Engeström10, il discorso si al-
larga a considerare un primo livello di sistema dell’attività che oltrepassa il singolo
evento per considerare una complessa struttura di azioni umane segnate da media-
zioni e interazioni collettive che si modificano nel tempo adattandosi alle mutate
circostanze e all’evoluzione degli artefatti umani (tecnologie, linguaggi, ecc.). In
altre parole, alla materialità dell’azione specifica va congiunta la sua lettura e inter-
7
Questo processo può essere esaminato utilizzando il quadro concettuale del transfer, cioè del
processo attraverso il quale una competenza già raggiunta riesce a essere modulata o addirittura
trasformata per affrontare un situazione nuova e/o più complessa, evidenziandone i caratteri e le
condizioni necessarie per una sua attivazione positiva. In altra occasione ho studiato tale processo
giungendo alla conclusione che alla base della attivazione della gestione del processo sta l’inten-
zione e la voglia di impegnarsi in esso. Cfr. a esempio: PELLEREY M., Processi di transfer delle com-
petenze e formazione professionale. In ISFOL, Le dimensioni metacurricolari dell’agire formativo (a
cura di C. Montedoro), Milano, FrancoAngeli 2002, 113-153.
8
Cfr. WENGER E., Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina,
2006; WENGER E. - McDERMOTT R. e SNYDER W.M., Coltivare comunità di pratica, Milano, Guerini
2007.
9
La zona di sviluppo prossimale in ambito educativo può essere così descritta: “l’insieme delle
conoscenze, capacità e competenze che l’educando può manifestare solo con l’aiuto di chi già le
possiede”.
10
Cfr. a esempio: ROTH W.M. e LEE Y.J., Vigotsky’s neglected legacy. Cultural-historical acti-
vity, Review of Educational Research, 2007, 2, 186-232.
1/2011 49
pretazione secondo un quadro di riferimento storico-culturale. Tale posizione è ana-
loga a quella aristotelica evidenziata da McIntyre circa il fatto che la singola azione
si inscrive in una pratica e il suo valore può essere colto solo a partire dal senso e
valore che la pratica stessa ha nel contesto della comunità umana nella quale si
attua. Di conseguenza, la qualità della competenza di una persona non può essere
riferibile solo alla sua manifestazione in caso specifico e isolato, bensì entro una
cornice assai più complessa di criteri di riferimento presenti nella comunità. Un
compito, una sfida lavorativa non può essere colta solo in riferimento a se stessi,
bensì tenendo conto, anche se non soprattutto, del contesto pratico, sociale e cul-
turale nel quale tale compito o sfida si colloca.
Tutto ciò porta a considerare attentamente il fatto che un riconoscimento di
competenza è legato certamente a riscontri sociali, pubblici di prestazioni che per-
mettono di inferire la competenza di una persona, ed eventualmente un suo livello
di eccellenza, in un contesto di pratica professionale, ma che quest’ultima subisce
nel tempo anche sostanziali evoluzioni. Basti pensare alle trasformazioni che sempre
più rapidamente caratterizzano le tecnologie e le forme organizzative dei sistemi di
produzione di beni e servizi.
Il riconoscere poi la competenza di qualcuno nel contesto di una pratica lavora-
tiva non può derivare solo da una sua occasionale manifestazione, occorre che in più
situazioni la persona riesca ad affrontare positivamente i compiti che caratterizzano
tale pratica. Un giudizio di competenza segue infatti un percorso di consolidamento
circa la sua fondatezza a partire da adeguati riscontri ed evidenze raccolte.
50 RASSEGNA CNOS
nione Europea e la contemporanea veloce trasformazione del sistema produttivo
STUDI e RICERCHE
hanno imposto non pochi cambiamenti.
A partire dalla fine degli anni ottanta la comunità europea ha iniziato ad affron-
tare il problema della certificazione delle competenze a causa delle esigenze poste
dal mutuo riconoscimento delle attestazioni di qualificazione professionale rilasciate
dai vari paesi membri. Si tratta di qualcosa di analogo a quanto in seguito è avve-
nuto a livello dei titoli scolastici e universitari. La prospettiva di riferimento era
quella di favorire la mobilità delle persone, dei lavoratori e degli studenti all’interno
di uno spazio comune di vita, di studio e di lavoro.
Nel decennio 1989-1999 sono state pubblicate tre direttive europee (CEE 89/48;
CEE 92/51; CEE 99/42) che hanno sancito tre principi di riferimento comuni: a) la
necessità di sviluppare una reciproca fiducia tra i sistemi formativi dei Paesi membri;
b) impostare meccanismi di riconoscimento delle qualificazioni che tenessero in
conto soprattutto delle persone e dei loro diritti; c) rilasciare attestazioni di compe-
tenza comparabili sulla base di un “apprezzamento delle qualità personali, delle at-
titudini e delle conoscenze del richiedente da parte di un’autorità, se non c’è una
preventiva formazioni sistematica”.
Si fa strada, accanto alla necessità di certificare la competenza raggiunta da una
persona nello svolgere una determinata attività lavorativa a fini di garanzia della so-
cietà e del mondo del lavoro: a) il diritto di ciascuno a vedere riconosciute le com-
petenze effettivamente acquisite, comunque esse siano state conseguite; b) l’artico-
lazione delle competenze in unità o nuclei che possono essere considerati separata-
mente da una qualificazione professionale completa e integrati secondo varie figure
professionali; c) la possibilità di certificare il raggiungimento di competenze carat-
terizzanti tali unità o segmenti, anche indipendentemente dalla qualificazione ri-
chiesta da una particolare figura professionale. Basti qui ricordare gli sviluppi della
certificazione delle competenze linguistiche nelle lingue straniere secondo un
quadro di riferimento comune europeo e delle competenze informatiche secondo gli
impianti valutativi coordinati a livello europeo dalle varie associazioni di informa-
tici.
Gli sviluppi di tali orientamenti hanno portato nel 2002 alla individuazione da
parte dell’Unione Europea di alcune linee guida per quanto riguarda il riconosci-
mento reciproco delle qualificazioni in vista di un potenziamento della mobilità nel
mercato del lavoro, in particolare per quanto riguarda le professioni regolamentate.
In tale documento si parla ancora di una distinzione di livelli di qualificazione sulla
base della considerazione del tempo dedicato al processo formativo in analogia a
quanto definito nel 1985 (CEE 85/768)11. A esempio il livello 3 “corrisponde a una
11
A esempio per il livello 2 si dice: “Formazione che dà accesso a questo livello: istruzione ob-
bligatoria e formazione professionale (compreso in particolare l’apprendistato). Questo livello cor-
risponde ad una qualifica completa per l’esercizio di una attività ben definita con la capacità di uti-
lizzare i relativi strumenti e tecniche. Si tratta principalmente di un lavoro esecutivo che può essere
autonomo nei limiti delle tecniche ad esso inerenti”.
1/2011 51
formazione di livello post-secondario di almeno 1 anno e inferiore a 3 anni”, mentre
per il livello 4 si esige “una formazione di livello superiore o universitario di almeno
3 anni e inferiore a 4 anni”. Tuttavia si precisano anche varie forme di equivalenza
formativa, che includono tirocini e/o pratica professionale. In tale documento ven-
gono anche considerati, in analogia a quanto ormai in atto a livello universitario, i
cosiddetti crediti formativi descritti spesso come unità di competenze riconoscibili,
capitalizzabili e trasferibili.
Il salto di qualità rispetto a queste indicazioni avviene alla fine del primo de-
cennio del nuovo millennio con l’approvazione del Quadro Europeo delle Qualifica-
zioni (EQF), con la considerazione ormai esclusiva dei risultati di apprendimento ef-
fettivamente raggiunti, senza più tener conto dei percorsi formativi seguiti, e la de-
finizione del sistema dei Crediti Europei nell’ambito della Formazione Professionale
(ECVET). Viene anche codificata la nozione di competenza e si giunge alla prospetta-
zione di otto competenze chiave per l’apprendimento permanente.
Le trasformazioni progressive dell’impianto europeo nei riguardi della certifica-
zione delle competenze ha portato in primo luogo alla considerazione di un diritto
individuale a vedere riconosciuta la propria competenza a operare in ambiti di pra-
tiche lavorative o sociali, e questo indipendentemente dall’avere o meno seguito
corsi di formazione specifici. In qualche modo si è spostato l’accento sulla persona e
i suoi apprendimenti, rispetto ai sistemi e ai processi di istruzione e di formazione.
La formula adottata è quella di considerare le competenze come il risultato di pro-
cessi complessi di interazione formativa attuati in contesti sia formali, sia non for-
mali e informali e di conseguenza la necessità di separare i risultati di apprendi-
mento dal contesto nel quale essi sono stati raggiunti. La certificazione delle com-
petenze effettivamente raggiunte da ciascuno implica in questa prospettiva processi
valutativi in qualche modo separabili da quelli presenti nelle istituzioni educative e
formative, con reciproche influenze metodologiche. A testimonianza di ciò sta lo
sviluppo dei cosiddetti “supplementi al diploma”, attestati che si accostano al titolo
scolastico, accademico, o tecnico-professionale per indicare il livello di conoscenze,
abilità e competenze che è stato affettivamente raggiunto e che ha permesso di ri-
lasciare tale certificato.
12
CEDEFOP, Terminology of European education and training policy, Luxembourg: Office for
Official Publications of the European Communities, 2008.
52 RASSEGNA CNOS
1) Apprendimento formale. Apprendimento erogato in un contesto organizzato e
STUDI e RICERCHE
strutturato (per esempio, in un istituto d’istruzione o di formazione o sul la-
voro), appositamente progettato come tale (in termini di obiettivi di apprendi-
mento e tempi o risorse per l’apprendimento). L’apprendimento formale è inten-
zionale dal punto di vista del discente. Di norma sfocia in una convalida e in
una certificazione.
2) Apprendimento non formale. Apprendimento erogato nell’ambito di attività pia-
nificate che non sono specificamente concepite come apprendimento (in termini
di obiettivi, di tempi o di sostegno all’apprendimento). L’apprendimento non
formale è intenzionale dal punto di vista del discente.
3) Apprendimento informale. Apprendimento risultante dalle attività della vita quo-
tidiana legate al lavoro, alla famiglia o al tempo libero. Non è strutturato in ter-
mini di obiettivi di apprendimento, di tempi o di risorse dell’apprendimento.
Nella maggior parte dei casi l’apprendimento informale non è intenzionale dal
punto di vista del discente.
13
WERQUIN P., Recognising Non-formal and Informal Learning, OECD, 2010.
1/2011 53
esplicitamente definite in termini di obiettivi, tempo e supporto formativo, a con-
testi che si avvicinano a quelli formali, perché in essi si manifestano forme di inten-
zionalità più esplicite, attività più sistematiche e organizzate, in vista dello sviluppo
di competenze specifiche.
A suo giudizio si può ipotizzare una gradazione progressiva di formalità basata su
alcuni aspetti significativi propri dei contesti nei quali si svolgono gli apprendimenti:
a) si tratta di istituzioni istruttive o formative esplicitamente destinate a promuo-
vere gli apprendimenti e regolate da norme statali o regionali?
b) si tratta di organizzazioni per le quali esistono forme di assicurazione della qua-
lità delle attività apprenditive sviluppate?
c) si tratta di percorsi formativi ben strutturati dal punto di vista curricolare e che
portano a titoli e certificazioni garantiti dall’autorità pubblica?
Egli propone di tener presente quindi di un continuo che tiene conto di alcune
scale di riferimento. Agli estremi si collocano contesti chiaramente definibili come
formali o informali, tra questi si possono collocare gli altri contesti che possono av-
vicinarsi di più a quelli formali o a quelli informali.
54 RASSEGNA CNOS
Primo passaggio. Identificazione della competenza considerata e raccolta della
STUDI e RICERCHE
documentazione disponibile, in altre parole identificare ciò che un soggetto conosce
ed è in grado di valorizzare in compiti coerenti con la competenza in oggetto, sulla
base di opportune evidenze. In questo passaggio è coinvolto il soggetto stesso, ma-
gari con l’aiuto di qualcuno più esperto.
Secondo passaggio. Stabilire ciò che effettivamente il soggetto conosce ed è in
grado di fare in maniera consapevole e responsabile. Entra in gioco sia una processo
di autovalutazione, sia di valutazione esterna per giungere a una conclusione che sia
affidabile e pertinente.
Terzo passaggio. Si tratta ora di validare il quadro valutativo raggiunto rispetto a
un riferimento esterno o standard, cioè a quanto viene richiesto non solo come pa-
trimonio di conoscenze e abilità, ma anche come capacità di loro valorizzazione ri-
spetto a compiti caratterizzanti un certo livello di competenza.
Quarto passaggio. Se le esigenze di qualificazione rispetto agli standard previsti
sono state soddisfatte, allora l’autorità che ne è competente può redigere un docu-
mento che lo certifica, specificando quanto il soggetto sa, sa fare e sa valorizzare in
un ambito specifico di competenza.
Quinto passaggio. È il passaggio spesso più problematico nei casi di certifica-
zione degli apprendimenti conseguiti nei contesti informali e non formali, riguarda,
infatti, il riconoscimento sociale, cioè l’accettazione da parte della società, nelle sue
varie articolazioni, di tale documentazione come assicurazione di competenza spen-
dibile sia nel campo dello studio, sia in quello del lavoro.
Nei prossimi due contributi esploreremo più nei dettagli le problematiche prece-
dentemente accennate sia negli ambiti più formali, sia in quelli più informali o non
formali.
1/2011 55
STUDI e RICERCHE
La certificazione delle competenze
sviluppate in contesti
di apprendimento formale,
non formale e informale
MICHELE PELLEREY1 - OLGA TURRINI2
1
Professore Emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
Responsabile macro area mercato del lavoro ISFOL.
2/2011 39
le pagelle scolastiche in quanto dichiaravano che lo studente aveva raggiunto uno
stato di preparazione tale da poter affrontare ciò che veniva richiesto dalla classe
scolastica successiva. Venivano anche indicati con votazioni i livelli di apprendi-
mento raggiunti nelle varie discipline e più in generale nell’impegno e nel comporta-
mento. Il riferimento fondamentale di tali certificazioni erano i programmi scolastici
in vigore, spesso articolati per singole annualità o per cicli.
La pagella di fine anno scolastico costituiva, dunque, nei primi decenni del do-
poguerra la prima e più diffusa forma di certificazione. Accanto a ciò, a partire dalla
riforma Gentile erano presenti nella scuola italiana non poche forme di accertamento
dello stato di preparazione degli studenti. Ad esempio, il passaggio dalla scuola ele-
mentare al ginnasio, i cui primi tre anni furono in seguito denominati scuola media,
era condizionato al superamento di un esame di ammissione che doveva certificare il
fatto che lo studente che lo superava era in grado di frequentare il nuovo ciclo sco-
lastico. Con l’avvento della scuola media unica alla fine del 1962 veniva attuato
l’art. 34 della Costituzione italiana che prescrive otto anni di obbligo scolastico.
Tale esame di ammissione è stato allora abolito, sostituendolo con un esame di fine
ciclo, che in qualche modo dichiarava, per chi lo superava, che egli aveva raggiunto
gli obiettivi di apprendimento previsti dai programmi didattici in vigore. Questo
esame è stato anch’esso ora abolito. Anche l’esame di ammissione al Liceo classico,
presente alla fine della quinta ginnasio, è stato nel tempo eliminato, prospettando
quindi un ciclo unitario per questo tipo di liceo, in analogia con gli altri licei.
Altre disposizioni potrebbero essere evocate, come l’insistenza perché l’esame di
Stato alla fine del secondo ciclo di istruzione si basi su quanto effettivamente svolto
nell’ultimo anno, disposizioni tutte orientate a ridurre o almeno allentare il con-
trollo centralistico del lavoro educativo delle singole scuole, per promuoverne una
maggiore autonomia e responsabilità. La stagione delle sperimentazioni più o meno
selvagge ha collaborato a rendere difficile la corrispondenza tra pagelle e contenuti
effettivamente appresi. Tutto ciò ha avuto come conseguenza una maggiore variabi-
lità di impostazioni contenutistiche, didattiche e organizzative e una certa difficoltà
a riconoscere quali conoscenze, abilità e competenze siano state effettivamente pro-
mosse nel corso dei vari anni scolastici, o nei differenti periodi o cicli pluriennali di
studio, e, quindi, a che cosa facciano riferimento le votazioni incluse in tali docu-
menti. Ancor più importante poi era la questione riguardante i diplomi o titoli sco-
lastici conseguiti al termine dei cicli di studio fondamentali.
Come conseguenza del DPR 8 marzo 1999, n. 275, contenente il Regolamento re-
cante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche si è avuta così una
sempre più marcata responsabilizzazione della singola scuola a elaborare un proprio
curricolo di studi peculiare attraverso gli strumenti del cosiddetto POF (Piano dell’Of-
ferta Formativa) e della programmazione educativa e didattica di Istituto. Il Regola-
mento ha sancito, infatti, un principio fondamentale di riferimento: lo Stato può e
deve definire i risultati di apprendimento che caratterizzano il termine dei fondamen-
tali cicli scolastici, mentre sta alle singole istituzioni educative scolastiche la strut-
turazione progressiva dei contenuti da introdurre per conseguire tali risultati e la de-
40 RASSEGNA CNOS
finizione dell’impostazione metodologica e organizzativa dei percorsi. Lo Stato può,
STUDI e RICERCHE
per aiutare le scuole a svolgere queste incombenze, fornire indicazioni nazionali per la
programmazione curricolare o linee guida per la definizione dei piani di studio di isti-
tuto. Tali indicazioni e linee guida non assumono però carattere prescrittivo e vinco-
lante, anche se sono suggerimenti autorevoli e funzionali al lavoro delle scuole.
Ciò ha provocato e provoca non pochi problemi nei riguardi di una possibile
identificazione delle pagelle come certificazione di quanto effettivamente appreso
nei vari anni dai singoli allievi, in quanto senza una descrizione più puntuale dei
contenuti svolti durante l’anno scolastico è difficile raccordare la votazione finale
con quanto appreso. Ne deriva di conseguenza l’esigenza di rendere pubblico il cur-
ricolo elaborato dalle singole istituzioni. Nella normativa contenuta nella legge 53
del 2003 si parlava di piani di studio personalizzati intesi come percorsi di insegna-
mento e di apprendimento che le scuole sono tenute a preparare e a realizzare, av-
valendosi delle facoltà decisionali loro attribuite, partendo dal «nucleo fondamen-
tale» fissato a livello nazionale e tenendo conto di quanto stabilito dalle Regioni,
nell’ambito della quota loro riservata.
Diverso è il caso della formazione professionale, dove la forma di certificazione
in esito al percorso formativo, in base alla legge 845/78, era l’attestato di qualifica.
L’art. 14. infatti recitava:
“Al termine dei corsi di formazione professionale volti al conseguimento di una
qualifica, gli allievi che vi abbiano regolarmente partecipato sono ammessi alle
prove finali per l’accertamento dell’idoneità conseguita. Tali prove finali, che devono
essere conformi a quanto previsto dall’articolo 18, primo comma, lettera a), sono
svolte di fronte a commissioni esaminatrici, composte nei modi previsti dalle leggi
regionali, delle quali dovranno comunque far parte esperti designati dalle ammini-
strazioni periferiche del Ministero della pubblica istruzione e del Ministero del lavoro
e della previdenza sociale, nonché esperti designati dalle organizzazioni sindacali
dei lavoratori e dei datori di lavoro. Con il superamento delle prove finali gli allievi
conseguono attestati, rilasciati dalle regioni, in base ai quali gli uffici di colloca-
mento assegnano le qualifiche valide ai fini dell’avviamento al lavoro e dell’inqua-
dramento aziendale. Gli attestati di cui sopra costituiscono titolo per l’ammissione
ai pubblici concorsi”.
L’attestato di qualifica si connotava dunque come titolo di lavoro, tant’è che ve-
niva trascritto sul libretto di lavoro. L’evoluzione della normativa in materia di la-
voro ha portato alla soppressione del libretto di lavoro, mentre l’evoluzione della
normativa in materia di istruzione e formazione, con la citata legge 53/2003, ha ri-
condotto i percorsi di formazione professionale iniziale nell’alveo del sistema di
istruzione e formazione professionale (IeFP). Di conseguenza, l’attestato di qualifica
si configura ora come titolo di studio a tutti gli effetti.
Tuttavia, poiché l’ambito di competenza in materia di formazione professionale è
regionale, la titolarità del rilascio della certificazione è della Regione. Questo fatto,
in mancanza di un sistema nazionale di qualifiche condiviso, ha portato a comporta-
menti molto diversi nell’attribuzione dell’attestato da parte delle diverse Regioni. Ciò
2/2011 41
rende del tutto evidente la necessità di dare quantomeno trasparenza e visibilità ai
contenuti dei percorsi formativi dei quali l’attestato costituisce l’esito finale. Un pri-
mo tentativo in tal senso venne fatto dal Ministero del Lavoro, in accordo con le Re-
gioni, nel Decreto 12 marzo 1996 “Adozione degli indicatori minimi da riportare ne-
gli attestati di qualifica professionale rilasciati dalle regioni e province autonome con
allegato modello di attestato” introduce in forma sperimentale un format di attesta-
to di qualifica valido a livello nazionale. Il decreto trae motivazione dalla risoluzione
del Consiglio dell’Unione europea del 3 dicembre 1992 concernente la trasparenza
delle qualifiche, nonché “dall’esigenza di fornire agli utenti dei sistemi formativi cer-
tificazioni trasparenti dei percorsi di apprendimento seguiti e nel contempo di con-
sentire ai datori di lavoro di disporre di certificazioni formative atte ad individuare
con chiarezza le candidature d’impiego ed a valutarne la rispondenza rispetto ai fab-
bisogni ed alla organizzazione funzionale delle imprese”. Nello stesso periodo, anche
il rinnovato percorso dell’istruzione professionale statale (Progetto’92), veniva dota-
to di un’analoga forma di certificazione, recependo gli input provenienti dal livello
europeo. Successivamente, nel 2004, a seguito dell’introduzione dell’obbligo forma-
tivo con l’art. 68 della legge 144/1999, il DM 86 del Ministro dell’Istruzione, di con-
certo con il Ministro del Lavoro, sulla base di un accordo quadro in sede di Conferen-
za Unificata, adotta due modelli di certificazione finalizzati al riconoscimento dei
crediti ai fini dei passaggi dal sistema della formazione professionale e dall’apprendi-
stato al sistema dell’istruzione. Siamo ancora lontani dal rovesciamento di logica com-
piuto con l’approvazione della Raccomandazione sul Quadro europeo delle qualifica-
zioni (EQF), che impone di mettere in trasparenza non più la descrizione dei conte-
nuti dell’insegnamento, bensì i risultati dell’apprendimento (learning outcomes).
L’EQF costituisce un quadro di riferimento vincolante, sulla base del quale defi-
nire le conoscenze, abilità, competenze, che dovrebbero caratterizzare i livelli fon-
damentali di apprendimento permanente dei singoli Stati. Il riconoscimento dei ti-
toli e delle qualifiche a livello nazionale ed europeo deve fare riferimento a una
puntuale esplicitazione delle conoscenze, abilità e competenze ai livelli fondamen-
tali della scolarità e della formazione da parte dei singoli Stati e delle istituzioni
scolastiche e formative. In altre parole, di fronte alla più marcata autonomia pro-
grammatoria delle singole istituzioni scolastiche e formative, deve fare riscontro una
più chiara ed esplicita dichiarazione delle conoscenze, abilità e competenze conse-
guite dai singoli studenti in coerenza con il quadro di riferimento nazionale. Tale
quadro di riferimento è infatti vincolante per esse e deve costituire la base non solo
di una valutazione degli apprendimenti conseguiti dai singoli, ma anche di una veri-
fica della coerenza, funzionalità ed efficacia dell’impostazione didattica seguita. Di
conseguenza, la definizione del quadro europeo dei titoli e delle qualifiche centrato
sui risultati di apprendimento conseguiti, ha portato abbastanza presto all’esigenza
di accostare ai titoli e diplomi una specificazione più puntuale di quanto in termini
di conoscenze, abilità e competenze fosse stato raggiunto dai singoli studenti.
Qualcosa di analogo si era verificato a livello universitario. Le norme sull’auto-
nomia di ateneo emanate anch’esse alla fine degli anni novanta avevano portato a
42 RASSEGNA CNOS
una notevole proliferazione non solo di percorsi universitari, ma anche di variabilità
STUDI e RICERCHE
dei contenuti insegnati. Di conseguenza non era più possibile riconoscere automati-
camente gli esami superati presso una università da parte di un altro ateneo. A li-
vello europeo, volendo armonizzare i vari sistemi di istruzione superiore e rendere
trasparente quanto studiato nei vari percorsi accademici, si è giunti a rendere obbli-
gatorio l’accostamento, accanto ai titoli accademici, dei cosiddetti Supplementi al
diploma, cioè a documenti che descrivessero in maniera compiuta il percorso forma-
tivo seguito dai singoli studenti e la valutazione riferita ai risultati di apprendi-
mento effettivamente conseguiti. Accanto al titolo accademico si accostava così un
altro documento in cui si riportava in maniera analitica il curricolo di studi seguito
dal singolo studente, descrivendo in maniera puntuale tempi, contenuti e risultati
delle singole unità di apprendimento, denominate in Italia crediti formativi universi-
tari, mentre in Europa vengono riferiti al sistema europeo di trasferimento dei cre-
diti (European Credit Transfer System).
Nell’ambito dell’Istruzione e formazione professionale la questione si è presen-
tata ancora più stringente perché il conseguimento di una qualifica e di un diploma
professionale per essere valido sul piano nazionale ed europeo, ma soprattutto sul
piano dell’inserimento nel mondo del lavoro, esigeva una chiara definizione degli
standard di riferimento sia culturali di base, sia professionali. Ciò è stato raggiunto
dagli accordi tra Stato e Regioni e Province autonome nel corso del 2010 e 1011.
Sono stati definiti gli standard per 21 qualifiche professionali, conseguibili dopo un
triennio formativo, e per 21 diplomi professionali, conseguibili dopo un quadriennio
formativo. In questo caso gli attestati e i diplomi conseguiti dagli allievi dovrebbero
certificare il raggiungimento da parte di questi dei livelli o standard di conoscenza e
competenza definiti a livello nazionale. In questo caso rimane una questione ulte-
riore, la definizione di eventuali adattamenti e integrazioni a livello regionale, data
la competenza esclusiva che questa hanno in tale ambito.
In sintesi, si può affermare che rispetto alle esigenze di attivazione delle certi-
ficazioni di competenze previste dalla normativa vigente, non sempre sono state an-
cora raggiunte alcune condizioni fondamentali per poter esercitare tale obbligo. In
particolare viene a mancare un chiaro quadro di riferimento esterno all’istituzione, o
standard. In altre parole è carente la descrizione puntuale di quanto viene richiesto
non solo come patrimonio di conoscenze e abilità, ma anche come capacità di loro
valorizzazione rispetto a compiti caratterizzanti un certo livello di competenza.
2/2011 43
turazione, è rilasciata all’alunno una certificazione che attesta l’adempimento del-
l’obbligo di istruzione o il proscioglimento dal medesimo e che ha valore di credito
formativo, indicante il percorso didattico ed educativo svolto e le competenze acqui-
site”. D’altra parte l’art. 10 del già citato Regolamento del 1999 relativo all’autonomia
delle istituzioni scolastiche oltre a prevedere regolari rilevazioni periodiche di verifi-
ca del raggiungimento degli obiettivi di apprendimento e di qualità del servizio sco-
lastico, al comma 3 afferma: “Con decreto del Ministro della Pubblica Istruzione sono
adottati i nuovi modelli per le certificazioni, le quali indicano le conoscenze, le com-
petenze, le capacità acquisite e i crediti formativi riconoscibili, compresi quelli rela-
tivi alle discipline e alle attività realizzate nell’ambito dell’ampliamento dell’offerta
formativa o liberamente scelte dagli alunni e debitamente certificate”.
All’art. 3 del Dl. 137/2008 si dice “Dall’anno scolastico 2008/2009, nella scuola
secondaria di primo grado la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti
degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite è espressa in de-
cimi. Nel D.P.R. del 22 giugno 2009, n. 122 all’art. 8, 1 si afferma “Nel primo ciclo
d’istruzione, le competenze acquisite dagli alunni sono descritte e certificate al ter-
mine della scuola primaria e, relativamente al termine della scuola secondaria di
primo grado, accompagnate anche da valutazione in decimi, ai sensi dell’articolo 3,
commi 1 e 2, del decreto-legge”.
Mancando però un modello comune di certificazione, ogni scuola ha adottato un
suo modello, spesso insistendo su quelle che comunemente sono chiamate compe-
tenze trasversali, collocate spesso accanto a competenze denominate disciplinari. A
parte l’incongruenza tra certificazione delle competenze e votazione in decimi dei
risultati di apprendimento, la mancanza di chiari riferimenti nazionali ha portato a
una notevole attività di sviluppo di modelli che, se da un lato hanno sollecitato l’at-
tività progettuale dei docenti, dall’altra creano non poche perplessità sul piano della
comprensibilità e fruibilità sul piano pubblico e sociale di quanto certificato. Più ri-
spondenti alle esigenze di avere a disposizione un comune riferimento esterno sem-
brano essere i modelli elaborati dalla Provincia Autonoma di Bolzano e dalla Repub-
blica di San Marino per il termine del primo ciclo scolastico.
La Provincia Autonoma di Bolzano ha predisposto un modello che distingue com-
petenze personali e sociali, competenze procedurali e competenze disciplinari. Le
competenze personali e sociali sono di questa natura: l’alunno/a riconosce le proprie
capacità, dimostra autostima, accetta le sfide ed è consapevole delle proprie respon-
sabilità; agisce di propria iniziativa, è motivato/a e gestisce situazioni e processi; sa
lavorare in team; nel gruppo rispetta le opinioni degli altri, sa formulare la propria
opinione e motivarla; affronta i conflitti in modo costruttivo; rispetta le regole della
convivenza democratica, contribuisce al benessere comune e dimostra impegno e so-
lidarietà. Tra le competenze procedurali si possono citare: riconosce situazioni proble-
matiche, individua, ricerca e propone soluzioni; utilizza procedure, strategie e stru-
menti che rendono efficace il lavoro personale. Tra le competenze disciplinari eccone
alcune: in italiano comprende testi di vario tipo, sa trarne informazioni e interpretarli;
utilizza strutture linguistiche adeguate ai diversi scopi comunicativi e produce testi
44 RASSEGNA CNOS
strutturati; è consapevole che, in ogni cultura, l’essere umano esprime i propri pen-
STUDI e RICERCHE
sieri e le proprie emozioni attraverso l’arte, la musica e la letteratura; sa dare forma
alle proprie idee e ai propri sentimenti utilizzando diverse tecniche, materiali e stru-
menti.
Il progetto elaborato nella Repubblica di San Marino per la certificazione alla
fine delle scuola media è chiaramente legata alle varie discipline. Ad esempio per l’i-
taliano le competenze si articolano secondo quattro tipologie (ascoltare, parlare,
leggere e scrivere) per le quali si evidenzia il livello raggiunto dallo studente sulla
base di tre possibilità. Per la scrittura i tre livelli sono:
2/2011 45
Infatti, l’impostazione data dal Regolamento sull’obbligo di istruzione3, il cui art. 4
è totalmente dedicato alla certificazione delle competenze, è assai più chiara e
puntuale.
“1. La certificazione relativa all’adempimento dell’obbligo di istruzione di cui al
presente regolamento è rilasciata a domanda. Per coloro che hanno compiuto il di-
ciottesimo anno di età è rilasciata d’ufficio.
2. Nelle linee guida di cui all’articolo 5 sono contenute indicazioni in merito ai
criteri generali per la certificazione dei saperi e delle competenze di cui all’articolo
2, comma 1, ai fini dei passaggi a percorsi di diverso ordine, indirizzo e tipologia
nonché per il riconoscimento dei crediti formativi, anche come strumento per facili-
tare la permanenza, nei percorsi di istruzione e formazione.
3. Con decreto del Ministro della pubblica istruzione, sentita la Conferenza per-
manente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bol-
zano, sono adottati modelli di certificazione dei saperi e delle competenze di cui al-
l’articolo 2, comma 1, acquisite dagli studenti nell’assolvimento dell’obbligo di istru-
zione.”
Il modello sopra evocato è stato pubblicato con decreto del Ministro n. 9 del 27
gennaio 2010 ed è in vigore l’obbligo di consegnarlo su richiesta degli interessati a
partire dall’anno scolastico 2010-2011. Esso è unico su tutto il territorio nazionale.
Si nota un certo miglioramento normativo, in quanto non si fa più riferimento alle
votazioni in decimi relative alle singole discipline. La scuola certifica i livelli di ap-
prendimento raggiunti da ciascun alunno al fine di sostenere i processi di apprendi-
mento, di favorire l’orientamento per la prosecuzione degli studi, di consentire gli
eventuali passaggi tra i diversi percorsi e sistemi formativi e l’inserimento nel
mondo del lavoro. Il modello è strutturato in modo da rendere sintetica e traspa-
rente la descrizione delle competenze di base acquisite a conclusione del primo
biennio della scuola secondaria superiore, con riferimento agli assi culturali che ca-
ratterizzano l’obbligo di istruzione (dei linguaggi, matematico, scientifico-tecnolo-
gico e storico-sociale), entro il quadro di riferimento rappresentato dalle compe-
tenze chiave di cittadinanza, in linea con le indicazioni dell’Unione europea, con
particolare riferimento al Quadro europeo dei titoli e delle qualifiche.
La valutazione delle competenze da certificare in esito all’obbligo di istruzione, è
espressione dell’autonomia professionale propria della funzione docente, nella sua di-
mensione sia individuale che collegiale, nonché dell’autonomia didattica delle istitu-
zioni scolastiche ed è effettuata dai consigli di classe per tutte le competenze elen-
cate nel modello di certificato, allo scopo di garantirne la confrontabilità. I consigli
di classe utilizzano le valutazioni effettuate nel percorso di istruzione di ogni stu-
dente in modo che la certificazione descriva compiutamente l’avvenuta acquisizione
delle competenze di base, che si traduce nella capacità dello studente di utilizzare co-
3
Decreto 22 Agosto 2007, n. 139. Regolamento recante norme in materia di adempimento del-
l’obbligo di istruzione, ai sensi dell’articolo 1, comma 622, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.
46 RASSEGNA CNOS
noscenze e abilità personali e sociali in contesti reali, con riferimento alle discipli-
STUDI e RICERCHE
ne/ambiti disciplinari che caratterizzano ciascun asse culturale.
La definizione per livelli di competenza è parametrata secondo la scala, indicata
nel certificato stesso, che si articola in tre livelli: base, intermedio, avanzato. Ai fini
della compilazione delle singole voci del modello di certificato, si precisa che il rag-
giungimento delle competenze di base va riferito a più discipline o ambiti discipli-
nari. Nel caso in cui il livello base non sia stato raggiunto, è riportata, per ciascun
asse culturale, la dicitura “livello base non raggiunto”. La relativa motivazione è ri-
portata nel verbale del consiglio di classe, nel quale sono anche indicate le misure
proposte per sostenere lo studente nel successivo percorso di apprendimento. Per
l’accertamento delle competenze il documento fa riferimento alla metodologia adot-
tata dall’OCSE per le rilevazioni che vengono effettuate all’interno del progetto PISA.
2/2011 47
quella di elaborare un quadro preciso non solo di quanto si intende rilevare, ma
anche dei livelli che le manifestazioni di competenza potevano evidenziare.
Si tratta dunque di avere a disposizione non solo un ambito descrittivo di com-
petenza, quale è stato prospettato dal quadro delle competenze chiave per l’appren-
dimento permanente dall’Unione Europea, bensì anche una più puntuale definizione
ai vari tipi di competenza da certificare e, se utile o necessario, dei livelli raggiunti.
In realtà sarebbe possibile anche definire solo un livello o standard di competenza
ritenuto fondamentale ai fini della certificazione di una competenza. È quello che
avviene per esempio nel processo di certificazione della competenza nella guida di
un autoveicolo o in quello della certificazione delle competenze in ambito informa-
tico. Accanto a questo quadro è necessario esplicitare quali indicatori possono o
debbono essere utilizzati per inferire la presenza effettiva di una competenza ed
eventualmente del livello raggiunto in essa.
Ai fini valutativi, non solo per la progettazione dei processi formativi, è oppor-
tuno che la descrizione di una competenza venga accompagnata da una esplicitazione
delle conoscenze e abilità che la implicano. Infatti una competenza si manifesta per-
ché si è in grado di valorizzare il proprio patrimonio conoscitivo per affrontare situa-
zioni e problemi che abbiano un sufficiente carattere di novità e complessità. Sarebbe
ben difficile parlare di competenza se la prestazione richiesta avesse carattere ripeti-
tivo e/o banale. Nel caso poi di competenze che si riferiscono alla valorizzazione di
saperi di natura disciplinare, o anche interdisciplinare, è del tutto naturale specificare
tali saperi in maniera adeguata, in coerenza con gli orientamenti europei. Ad esempio
per l’asse dei linguaggi dell’obbligo istruttivo per la lingua italiana alla prima compe-
tenza “padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per ge-
stire l’interazione comunicativa verbale in vari contesti” si associano le conoscenze e
abilità coinvolte. Conoscenze: principali strutture grammaticali della lingua italiana;
elementi di base della funzioni della lingua; lessico fondamentale per la gestione di
semplici comunicazioni orali in contesti formali e informali; contesto, scopo e desti-
natario della comunicazione; codici fondamentali della comunicazione orale, verbale e
non verbale; principi di organizzazione del discorso descrittivo, narrativo, espositivo,
argomentativo. Abilità: comprendere il messaggio contenuto in un testo orale; co-
gliere le relazioni logiche tra le varie componenti di un testo orale; esporre in modo
chiaro logico e coerente esperienze vissute o testi ascoltati; riconoscere differenti re-
gistri comunicativi di un testo orale; affrontare molteplici situazioni comunicative
scambiando informazioni, idee per esprimere anche il proprio punto di vista; indivi-
duare il punto di vista dell’altro in contesti formali ed informali.
Nel caso della certificazione delle competenze al termine dell’obbligo istruttivo
si ha così da una parte una elencazione per ognuna delle competenze delle cono-
scenze e abilità che la contraddistinguono, dall’altra si insiste perché le competenze
relative agli assi culturali vengano considerate in relazione alle otto competenze
chiave di carattere più traversale. In qualche maniera si chiede non solo ai fini di
impostazione del percorso formativo decennale, ma anche ai fini valutativi di consi-
derare una matrice del tipo di Fig. 1. Leggendo per linee orizzontali si può eviden-
48 RASSEGNA CNOS
ziare il contributo dei vari ambiti di competenza a quelle chiave, leggendo vertical-
STUDI e RICERCHE
mente si possono mettere in risalto alcuni caratteri formativi che dovrebbero carat-
terizzare un ambito disciplinare.
Degli ultimi due passaggi il primo riguarda chi certifica, cioè l’autorità che ne è
competente e che redige il relativo documento, specificando quanto il soggetto sa,
sa fare e sa valorizzare in un ambito specifico di competenza. In un contesto for-
male è l’istituzione scolastica o formativa che è titolare di tale certificazione. Tut-
tavia perché tale certificazione acquisti un valore adeguato occorre che oltre ad as-
sumere con chiarezza puntualità il quadro di riferimento esterno comune essa sia
trasparente quanto a metodologia rilevativa adottata.
L’ultimo passaggio concerne il riconoscimento della certificazione ai fini sia
istruttivi e formativi, sia extrascolastici e lavorativi. È questo un passaggio cruciale
in quanto il valore di una certificazione di questo tipo deve essere garantita più che
da qualità procedurali, dal grado di fiducia che la comunità ha nei riguardi dell’isti-
tuzione stessa, oltre che dall’apporto conoscitivo che ne deriva. Il caso più singo-
lare è quello del sistema universitario. In seguito alla Convenzione di Lisbona del
1997 relativa al riconoscimento reciproco di titoli e periodi di studio da parte dei
vari Paesi europei si è giunti a sviluppare un processo di armonizzazione dei vari
percorsi universitari e di controllo della loro qualità tramite apposite Agenzie nazio-
nali accreditate presso un registro europeo. Nonostante questo, il valore di un titolo
universitario anche in Europa dipende in gran parte dalla stima che la comunità ac-
cademica ha della istituzione universitaria considerata4.
4
Da questo punto di vista, in ambito internazionale, e in particolare negli Stati Uniti d’Ame-
rica, il riferimento alle graduatorie elaborate da enti indipendenti circa la qualità delle singole sedi
universitarie è essenziale.
2/2011 49
5. La questione dei descrittori di competenza e dei suoi
livelli
Nella definizione di certificazione di competenze un passaggio spesso sottovalu-
tato riguarda la descrizione quanto più possibile chiara e trasparente di quanto si
certifica. Nella dizione del Cedefop si parla di standard o di riferimento esterno con
cui confrontare quanto validato da parte dell’istituzione stessa o da un organismo
terzo. Per le università si è scelto il termine di descrittori per indicare conoscenze,
abilità e competenze che caratterizzano un livello di apprendimento. Nel caso delle
rilevazioni promosse dall’OCSE con il programma PISA si è proceduto a una analisi e
descrizione attenta di indicatori per tre ambiti di competenza: lettura, matematica
scienze. È utile richiamare brevemente quanto indicato per la lettura e i suoi sei li-
velli di competenza. Si è partiti da una attenta analisi delle componenti essenziali
della competenza nel leggere, individuando cinque processi raggruppabili secondo
questo schema: 1) Utilizzare informazioni ricavate direttamente dal testo implica: a)
individuare tali informazioni; b) interpretare il testo comprendendone il significato
generale; c) sviluppare tale interpretazione. 2) Attingere a conoscenze extratestuali
per riflettere: a) sul contenuto del testo e valutarlo; b) sulla forma del testo stesso
e valutarla. I processi individuati sono poi descritti in maniera puntuale
a) Individuare informazioni. Nell’affrontare prove che richiedono di individuare
informazioni, lo studente deve confrontare le informazioni fornite nella domanda
con le informazioni letterali o sinonimiche presentate nel testo, e ricostruire così la
nuova informazione richiesta. In questo tipo di prove, l’individuare informazioni si
basa sul testo stesso e sulle informazioni esplicite presenti in quest’ultimo. Nei
compiti di individuazione lo studente deve trovare determinate informazioni sulla
base delle condizioni o degli elementi specificati nei quesiti. Lo studente deve sco-
prire o identificare uno o più elementi essenziali di un messaggio (personaggi,
ritmo/tempi, ambientazione, ecc.) e cercare quindi una corrispondenza che può es-
sere letterale o sinonimica.
b) Comprendere il significato generale del testo. Per comprendere il significato ge-
nerale del testo, chi legge lo deve considerare nel suo insieme o in una prospettiva
globale. Vi sono diversi compiti per i quali il lettore deve dimostrare di aver com-
preso il significato generale del testo. Lo studente potrebbe dimostrare una iniziale
comprensione del testo identificandone l’argomento principale o il messaggio, o in-
dividuandone lo scopo generale o la funzione. Alcuni dei compiti che rientrano in
questo processo possono richiedere allo studente di trovare una corrispondenza fra
un segmento specifico del testo e il quesito. Altri compiti possono richiedere che lo
studente presti attenzione a più riferimenti specifici presenti nel testo, come ad
esempio quando il lettore deve inferire l’argomento principale sulla base della ricor-
renza di una particolare categoria di informazioni. Definire l’idea di fondo di un
testo significa ordinare le idee in modo gerarchico e scegliere quelle più generali e
sovraordinate. Un compito di questo tipo permette di verificare se lo studente sia in
50 RASSEGNA CNOS
grado di distinguere i concetti chiave dai dettagli marginali o se sia in grado di ri-
STUDI e RICERCHE
salire, da una frase o da un titolo, al tema centrale di un testo.
c) Sviluppare una interpretazione. Per sviluppare un’interpretazione il lettore deve
andare al di là delle proprie impressioni iniziali in modo da elaborare una compren-
sione più dettagliata o completa di quanto ha letto. I compiti che attivano questo
tipo di processo richiedono una comprensione di tipo logico: chi legge deve esami-
nare il modo in cui le informazioni sono organizzate all’interno del testo. Per fare
ciò, il lettore deve dimostrare di cogliere la coerenza interna del testo, anche nel
caso in cui non sia del tutto in grado di definirla esplicitamente. In alcuni casi, per
sviluppare un’interpretazione occorre che il lettore elabori una sequenza di due sole
frasi unite da una relazione di coesione locale, il cui riconoscimento può essere age-
volato dalla presenza di indicatori di coesione, quali “primo” e “secondo” per indi-
care una sequenza. In casi più complessi (ad esempio per indicare relazioni di
causa-effetto), è possibile che non vi sia alcun indicatore di coesione esplicito.
Questi cinque indicatori permettono di individuare una serie di prove o possibili pre-
stazioni che consentono di indurre la presenza e il livello di competenza raggiunto.
Nel caso della lettura sono sei i livelli descritti.
d) Riflettere sul contenuto del testo e valutarlo. Per riflettere sul contenuto del
testo e valutarlo il lettore deve collegare le informazioni presenti all’interno del
testo stesso con conoscenze che provengono da altre fonti. Chi legge deve anche va-
lutare le affermazioni contenute nel testo sulla base del proprio bagaglio di cono-
scenze. Si richiede spesso al lettore di articolare e di sostenere il proprio punto di
vista. Per far ciò, egli deve prima di tutto elaborare un’interpretazione di quanto il
testo dice e sottintende; quindi deve verificare tale rappresentazione mentale alla
luce di quanto egli sa e crede, sulla base di informazioni già in suo possesso o di
informazioni fornite da altri testi. Il lettore deve far riferimento ai dati forniti dal
testo e confrontarli con quelli di altre fonti di informazione, ricorrendo a conoscenze
sia generali sia specialistiche, nonché alla propria capacità di ragionamento astratto.
e) Riflettere sulla forma del testo e valutarla. I compiti che rientrano in questa
categoria richiedono che il lettore non si faccia coinvolgere dal testo, che lo consi-
deri in modo oggettivo valutandone la qualità e l’adeguatezza. In compiti di questo
tipo diventano importanti elementi quali la struttura del testo, il genere e il regi-
stro. Tali elementi, che costituiscono le basi del mestiere di autore, sono di grande
rilevanza negli standard di comprensione propri di questo tipo di compiti. Per giudi-
care quanto un autore riesca a ritrarre determinate caratteristiche o a convincere il
lettore, non basta la conoscenza del contenuto, ma occorre anche saper cogliere le
sfumature del linguaggio, comprendere, ad esempio, quando la scelta di un agget-
tivo possa guidare l’interpretazione.
Il passo seguente sta nell’individuare livelli progressivi di competenza. Ne sono
stati individuati cinque a partire da uno minimo. Su questa base è stato possibile
costruire prove di vario tipo che potessero permettere in maniera affidabile e perti-
2/2011 51
nente una valutazione fondata non solo di competenza, ma anche di livello di com-
petenza. Nel caso del portfolio si tratterebbe di raccogliere quella documentazione
che consente di esprimere una valutazione fondata a partire da questi quadri o stan-
dard o riferimenti esterni. Qualcosa di analogo è stato fatto a suo tempo per defi-
nire il quadro delle competenze per le lingue straniere.
Conclusione
L’esempio mette in luce le difficoltà connesse con i processi di certificazione
delle competenze nei contesti scolastici e formativi e cioè il non avere a disposi-
zione una specificazione adeguata di indicatori di competenza e modelli coerenti di
prove che possono saturare tali indicatori. Da un punto di vista tecnico la compe-
tenza è considerata come una variabile latente, cioè come una qualità personale che
non può essere rilevata direttamente e della cui presenza e livello si può solo infe-
rire a partire da alcuni indicatori. La questione si sposta allora sulla scelta di tali in-
dicatori. Questi si dovrebbero prestare a una qualche forma di misurazione, tenendo
conto del fatto che le misure statistiche comprendono anche forme di sola classifi-
cazione o di solo ordinamento delle manifestazioni di competenza senza dover con-
siderare procedimenti più impegnativi e giungere a rappresentarle numericamente.
La conseguenza di questa impostazione è che una valutazione di competenza non
può mai consistere in un giudizio assoluto, bensì relativo alla considerazione di
molti elementi che incidono su di esso: come la qualità del processo valutativo
messo in campo, degli strumenti usati, della loro utilizzazione, della interpretazione
delle informazioni raccolte, ecc.
Sulla affidabilità e pertinenza di un giudizio di competenza nel contesto scola-
stico entrano quindi in gioco non pochi fattori, a esempio: a) la scelta degli indica-
tori e la loro funzionalità rispetto al processo valutativo da mettere in atto; b) la
utilizzazione operativa degli indicatori stessi; c) il processo inferenziale realizzato a
partire dai dati raccolti per mezzo degli indicatori; d) il consenso raggiunto sulla
presenza e il livello della competenza; e) le forme di descrizione della competenza e
del suo livello.
52 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
La certificazione delle competenze
sviluppate in contesti
di apprendimento formale,
non formale e informale
MICHELE PELLEREY1 - OLGA TURRINI2
1
Professore Emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
Responsabile macro area del mercato del lavoro ISFOL.
3/2011 37
non si intende arricchire tale patrimonio, bensì solo superare una prova, ottenere un
risultato positivo, raggiungere un riconoscimento da parte di altri o di un’istitu-
zione. Un limite dell’apprendimento nei contesti informali è invece dovuto al fatto
che, non essendo intenzionale, esso non comporta necessariamente l’acquisizione di
una consapevolezza del valore cognitivo dell’esperienza.
Un apprendimento che faccia crescere effettivamente il proprio patrimonio cono-
scitivo e operativo implica non solo che ci si impegni, più o meno consapevolmente,
a migliorare se stesso da qualche punto di vista, ad affrontare una situazione sfi-
dante, ma anche che tale esperienza abbia risonanze emozionali positive e che si
cerchi di capirne il perché. La filosofia dal canto suo tende ad approfondire tale
istanza dal punto di vista cognitivo e affettivo e con il termine esperienza essa non
intende “il semplice fare, l’essere coinvolto in qualche forma di attività; l’esperienza
non coincide con il mero vissuto … modo diretto e naturale di vivere nell’orizzonte
del mondo. L’esperienza prende forma quando il vissuto diventa oggetto di rifles-
sione e il soggetto se ne appropria consapevolmente per comprenderne il senso ... Il
fare esperienza va inteso come il movimento dello stare in contatto di sé, il disporsi
in atteggiamento di ascolto pensoso rispetto al divenire della propria presenza nel
mondo. L’esperienza richiede ascolto: ascolto di sé, dei propri vissuti emotivi e co-
gnitivi”3.
Una delle difficoltà più rilevanti, constatate durante i processi di validazione
delle competenze professionali acquisite in contesti non formali e informali, sta pro-
prio nella difficoltà che provano i soggetti nel riuscire a descrivere in maniera com-
piuta, o almeno a narrare in maniera articolata, le loro esperienze di lavoro. Sono
passati attraverso attività anche impegnative, che li hanno coinvolti e hanno fornito
loro abilità anche complesse, ma queste sono state vissute come pura interazione
con situazioni specifiche, come un semplice saper fare, senza una reale consapevo-
lezza del perché si era in grado di svolgere tale attività. Nei processi di apprendi-
mento esperienziale è necessario che ci sia un momento di riflessione, di ritorno
sulla situazione vissuta, per narrarla a se stessi, o ad altri, e darle un senso, un si-
gnificato. In altre parole concettualizzarla. Si tratta di un passaggio obbligato per
poter poi confrontare quanto si è acquisito in termini di abilità con altri, con mo-
delli operativi differenti o migliori, con situazioni diverse. Senza tutto ciò non si
può parlare di vere competenze. Come abbiamo chiarito nel primo contributo non
basta avere acquisto un certa abilità, un saper fare, bisogna che questa sia soste-
nuta dalle relative conoscenze di riferimento, che il soggetto ne sia consapevole,
che sia in grado di adattarla a nuove situazioni anche più impegnative.
Gli approfondimenti che nei passati decenni sono stati dedicati ai processi di
apprendimento esperienziale hanno portato a descriverli per mezzo di uno schema
che può essere ripreso anche per chiarire meglio quanto sopra ricordato. Si tratta di
forme circolari di apprendimento che collegano strettamente l’esperienza professio-
nale con una sua rilettura e riprospettazione a un livello di comprensione e proget-
3
MORTARI L., Apprendere dall’esperienza, Carocci, Roma 2003, pp. 15-16.
38 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
tazione superiore, per mezzo di apporti di natura teorica e confronti con parallele si-
tuazioni operative. In altre parole va valorizzato in maniera sistematica il ciclo di
apprendimento esperienziale delineato dal grafico seguente.
In tale ciclo, che si ripete nel corso delle propria esistenza, è essenziale che
venga alimentata una valida e adeguata concettualizzazione dell’esperienza pratica e
che venga arricchito l’insieme delle conoscenze teoriche, affinché si possa giungere
a una migliore comprensione e a un’adeguata riprogettazione operativa. La compe-
tenza che ne deriva è oggetto, dunque, di un’evoluzione che implica da una parte
una lavoro di riflessione critica e di sviluppo concettuale e, dall’altra, di adatta-
mento continuo delle proprie abilità per affrontare situazioni diverse, meno fami-
liari, di complessità crescente.
4
Cfr. PELLEREY M., Sull’offerta formativa non accademica successiva al Secondo Ciclo di Istru-
zione e Formazione, «Rassegna CNOS», XXVI (2010), 2, pp. 95-103.
3/2011 39
mini di validazione e di certificazione è stato oggetto di riflessione in tutto il primo
decennio degli anni 2000, nell’ambito del cosiddetto “Processo di Copenhagen”. In
particolare esso prende corpo a partire dalle Conclusioni del Consiglio Europeo del
maggio 2004, relative ai principi comuni europei concernenti l’identificazione e la
validazione dell’apprendimento non formale e informale. Nel testo viene sottolineato
come, avendo acquisito il concetto della rilevanza di processi di apprendimento di
questo tipo, occorre definire delle forme di garanzia per “incoraggiare e orientare lo
sviluppo di affidabili impostazioni e sistemi di identificazione e validazione di ele-
vata qualità dell’apprendimento non formale e informale”.
Data la difficoltà di trovare un linguaggio comune che tenga conto delle defini-
zioni esistenti nei diversi Paesi europei, il Consiglio adotta due definizioni.
Identificazione: attesta e rende visibili i risultati dell’apprendimento. Ciò non dà
luogo ad una certificazione formale (attestato o diploma), ma può costituire la base
per tale riconoscimento formale.
Validazione: si basa sulla valutazione dei risultati di apprendimento conseguiti
da un individuo e può dar luogo ad una certificazione formale.
I principi comuni definiti sono relativi ad alcuni fondamentali riferimenti.
– Diritti individuali: l’identificazione e la validazione dell’apprendimento non for-
male e informale dovrebbero essere, in linea di principio oggetto di decisione
facoltativa per la persona. A ciascuno dovrebbero essere garantiti pari opportu-
nità ed equità di accesso e di trattamento. La sfera privata e i diritti della per-
sona devono essere rispettati.
– Obblighi delle parti interessate: le parti interessate dovrebbero definire, confor-
memente ai rispettivi diritti, responsabilità e competenze, sistemi e approcci
per l’identificazione e la validazione dell’apprendimento non formale e informale.
Ciò dovrebbe includere meccanismi appropriati di garanzia della qualità. Le parti
interessate dovrebbero fornire orientamento, consulenza e informazione su tali
sistemi e approcci ai singoli individui.
– Affidabilità e fiducia: i processi, le procedure e i criteri di identificazione e vali-
dazione dell’apprendimento non formale e informale devono essere equi, traspa-
renti e sostenuti da sistemi di garanzia della qualità.
– Credibilità e legittimità: i sistemi e gli approcci di definizione e validazione del-
l’apprendimento non formale e informale dovrebbero rispettare gli interessi le-
gittimi e assicurare la partecipazione equilibrata delle parti interessate perti-
nenti.
Appare chiaro dunque che la scelta di valorizzare questo tipo di apprendimenti
si accompagna alla consapevolezza della delicatezza e della difficoltà di definire si-
stemi di valutazione e certificazione adeguati.
I documenti chiave elaborati a livello europeo negli anni successivi contengono
tutti riferimenti agli apprendimenti non formali ed informali. Sono da citare in par-
ticolare le Raccomandazioni su EQF (del 2008) ed ECVET (del 2009), che contengono
importanti riferimenti e forniscono una strumentazione operativa. Le Conclusioni del
40 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
Consiglio del 12 maggio 2009 su ET 2020, poi riprese nella Strategia “Europa 2020”
e nel “Bruges Communiqué” del dicembre 20105, ribadiscono un concetto chiave: la
strategia per la crescita e l’occupazione richiede un forte investimento sulle compe-
tenze della popolazione, anche adulta. Tale investimento deve passare non solo at-
traverso i sistemi formali tradizionali, ma anche attraverso forme di stimolo e incen-
tivazione a promuovere il proprio apprendimento legato ad una strategia di sviluppo
professionale, che passino attraverso la promozione di una capacità di riconoscere le
competenze acquisite in vari contesti, di promuoverle, di ottenere una loro valuta-
zione e una validazione (cui conseguano forme appropriate di certificazione). Gene-
ralmente la principale finalizzazione di tali percorsi è quella di agevolare l’accesso a
forme di formazione formale, utilizzando come parte dei percorsi le competenze di
cui si è già in possesso, in una logica di “crediti”. Il risultato atteso, in termini stra-
tegici, è quello di ottenere una maggior partecipazione ad opportunità ulteriori di
apprendimento, stimolate dal riconoscimento delle competenze di cui si è già in
possesso, innalzando così il livello complessivo di competenze della popolazione
adulta a livello europeo. Un secondo risultato atteso è quello di stimolare i sistemi
di istruzione e formazione a cercare nuove forme di flessibilità e di apertura verso le
esigenze del mercato del lavoro.
Nel 2009 il Cedefop elabora le “Linee guida europee per la validazione dell’ap-
prendimento non formale e informale”. Esse hanno il pregio di fare il punto su aspet-
ti definitori e di standardizzazione del processo, a partire dai principi definiti nel
2004, cominciando a tradurli in forma più operativa. Tra l’altro, le Linee guida ag-
giornano e reinterpretano le definizioni del Consiglio europeo, tenendo conto anche
delle successive definizioni correlate all’EQF e precisando che la distinzione tra iden-
tificazione e validazione riflette la distinzione tra valutazione formativa e sommativa
e la supera, adottando una definizione complessiva (già precedentemente citata):
“Validazione di risultati di apprendimento è la conferma, da parte di un’autorità com-
petente che i risultati di apprendimento (conoscenze, abilità e competenze) acquisi-
ti da un individuo in un contesto formale, non formale o informale, sono stati valu-
tati secondo criteri predefiniti e sono conformi a standard o referenziali di validazio-
ne. La validazione sfocia normalmente in una certificazione”. Il documento descrive
puntualmente, fornendo linee direttrici precise, tutti gli elementi e le fasi che entra-
no in gioco in un processo di validazione, precisando che, coerentemente con lo spi-
rito delle conclusioni del Consiglio del 2004, l’individuo è al centro del processo.
La strategia Europa 2020 e i nuovi Orientamenti per le politiche degli Stati
membri a favore dell’occupazione del 2010 ribadiscono che “per garantire a tutti
l’accesso ad un sistema d’istruzione e formazione di qualità e migliorare i risultati,
gli Stati membri dovrebbero investire efficacemente nei sistemi … per innalzare il
livello di competenze della forza lavoro nell’UE in modo da soddisfare le esigenze in
rapida evoluzione dei mercati del lavoro moderni e della società in generale. In linea
con i principi dell’apprendimento permanente, le iniziative dovrebbero interessare
5
http://ec.europa.eu/education/lifelong-learning-policy/doc/vocational/bruges_en.pdf
3/2011 41
tutti i settori dell’istruzione ... tenendo in considerazione anche l’apprendimento in
contesti informali e non formali”(Orientamento n. 9).
42 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
– Valore negoziale (o di seconda parte), poiché sono frutto di una transazione tra
un individuo e un secondo soggetto (frequentemente un’agenzia formativa o
un’impresa) riconducibile ad un contesto ben definito ma non istituzionale.
Nella pratica in alcuni contesti sono rilasciati documenti di questo tipo sotto
forma di “attestazione o dichiarazione di competenza”.
– Valore di semplici autodichiarazioni, che hanno solo un valore personale e il loro
riconoscimento sociale si fonda sulla fiducia nei confronti del dichiarante (ad
esempio l’Europass CV).
Non v’è dubbio che un ruolo pubblico nel validare e certificare le competenze
presenti indubbi vantaggi per:
a) il lavoratore, in quanto rafforza la consapevolezza delle sue competenze e age-
vola il riconoscimento di una qualificazione o un titolo formale, e attraverso i
crediti formativi stimola ulteriori apprendimenti;
b) i servizi per il lavoro, in quanto agevola il matching domanda-offerta utilizzando
il linguaggio delle competenze e consente di approfondire la conoscenza della
domanda e offerta professionale;
c) l’azienda, in quanto favorisce i processi di assunzione, crescita professionale e
sviluppo di carriera e agevola la gestione delle risorse umane;
d) i servizi formativi, in quanto stimola percorsi più flessibili, passaggi orizzontali
o verticali nei sistemi di istruzione e formazione attraverso il riconoscimento di
crediti e facilita la personalizzazione dei percorsi di apprendimento.
Gli strumenti forniti attraverso le Raccomandazioni europee (EQF, ECVET, EQARF
e Europass) concorrono a definire un framework basato su principi comuni di traspa-
renza, riconoscibilità, legame con la concreta realtà lavorativa, valorizzazione del
ruolo delle istituzioni e delle parti sociali.
Nel caso dell’EQF, che nasce con la finalità di agevolare trasparenza e riconosci-
bilità delle competenze legate ai processi formali (definendole secondo 8 livelli di
progressione e descrivendole in termini di risultati di apprendimento di conoscenze,
abilità e competenze), viene introdotta una modalità descrittiva che consente un ri-
ferimento anche alle competenze acquisite in processi non formali e informali, age-
volandone la convalida.
Nel caso dell’ECVET (European Credits in Vocational Education and Training),
viene introdotto un meccanismo per il riconoscimento reciproco di crediti formativi,
volto ad agevolare la mobilità formativa, inizialmente in sistemi formali. Si basa su
un sistema di competenze e resa in carico degli apprendimenti coerente con l’EQF e
prefigura nuove forme di progettazione formativa legate a standard di riferimento
espressi in forma di unità di risultati di apprendimento, ai quali viene attribuito un
valore in termini di crediti (riferibile a un valore di 60 crediti per un percorso di du-
rata annuale). La Raccomandazione relativa a ECVET suggerisce ai vari Stati di svi-
luppare un sistema di unità di risultati di apprendimento, che costituiscono le com-
ponenti fondamentali delle differenti qualificazioni professionali. Vi si prospettano
alcune definizioni:
3/2011 43
a) «risultati dell’apprendimento», indicazione in termini di conoscenze, abilità e
competenze di ciò che un beneficiario di una formazione sa, comprende ed è in
grado di fare una volta che ha completato un processo di apprendimento;
b) «unità di risultati dell’apprendimento»: un elemento della qualifica costituito da
un insieme coerente di conoscenze, abilità e competenze suscettibili di essere
valutate e convalidate;
c) «credito per i risultati dell’apprendimento», un insieme di risultati d’apprendi-
mento conseguiti da una persona che sono stati valutati e che possono essere
accumulati in vista di una qualifica o trasferiti ad altri programmi di apprendi-
mento o altre qualifiche.
Un’unità è dunque un elemento della qualifica costituito da un complesso coe-
rente di conoscenze, abilità e competenze che possono essere valutate e convalidate
con una serie di punti ECVET associati6. Una qualifica comprende in linea di principio
diverse unità ed è formata dal complesso delle unità. Una persona può pertanto ac-
quisire una qualifica accumulando le unità necessarie ottenute in paesi e contesti
diversi (formali e, se del caso, non formali e informali), nel rispetto della legisla-
zione nazionale relativa all’accumulazione delle unità ed al riconoscimento dei risul-
tati dell’apprendimento. Le unità che costituiscono una qualifica dovrebbero essere:
– descritte in termini leggibili e comprensibili con riferimento alle conoscenze,
abilità e competenze in esse contenute;
– costruite e organizzate in modo coerente con riguardo alla qualifica generale;
– articolate in modo tale da consentire la distinta valutazione e convalida dei ri-
sultati dell’apprendimento contenuti nell’unità.
Un’unità può riguardare un’unica qualifica o essere comune a diverse qualifiche.
I risultati dell’apprendimento attesi che definiscono un’unità possono essere conse-
guiti indipendentemente dal luogo o dalle modalità di ottenimento. Un’unità, per-
tanto, non va confusa con un elemento di un programma di apprendimento formale
o di una formazione.
Il sistema favorisce la possibilità non solo di identificare le competenze già ac-
quisite e che entrano a far parte di un referenziale professionale riferito ad una qua-
lifica lavorativa, ma anche di validarle e certificarle. Esso favorirebbe la prospettiva
operativa di un sistema di formazione permanente che abbia una sua coerenza e
funzionalità ai fini della progressiva qualificazione dei lavoratori, con possibili rica-
dute sulla loro carriera professionale. Non si tratta infatti di forme di aggiorna-
mento, bensì di costituzione progressiva di un patrimonio di conoscenze, abilità e
competenze, non solo effettivamente posseduto, ma anche riconosciuto e spendibile
sul piano formativo o lavorativo. Naturalmente, si tratta di una visione per alcuni
6
Il concetto di punti ECVET è analogo a quello di crediti ECTS nel sistema universitario. Gli
ECTS (European Credit Transfer System) sono definiti sulla base dell’impegno di circa 25 ore di la-
voro dello studente e per un anno a pieno tempo ne sono previsti 60. Per ogni unità di apprendi-
mento si attribuisce un certo numero di crediti (qui di punti) in base all’impegno richiesto allo stu-
dente.
44 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
versi criticabile, perché può venire a mancare un processo organico, progressivo e
continuo del proprio apprendimento a causa della frammentazione delle unità e della
possibile fragilità dei soggetti. Ciò impone da una parte un buon sistema di orienta-
mento e sostegno, dall’altra di puntare a promuovere una più elevata capacità di au-
toformazione. Infine, occorre che sia chiaro il concetto di riferimento per la compe-
tenza che si intende promuovere o acquisire e le sue caratteristiche fondamentali.
7
http://www.cedefop.europa.eu/EN/about-cedefop/projects/validation-of-non-formal-and-
informal-learning/european-inventory-scope.aspx
3/2011 45
prie competenze. Il rapporto opera un raggruppamento dei Paesi in quattro tipo-
logie, in base al livello (alto, mediamente alto, mediamente basso e basso) di svi-
luppo e attuazione del tema (l’Italia viene collocata nel terzo gruppo, ma non viene
mai citata nel testo). Si evidenzia però come, in generale, tranne in alcuni Stati, il
gran numero di iniziative e buone pratiche non abbia ancora fatto il salto verso veri
e propri sistemi di validazione e come via sia un’enorme diversità di casi e di espe-
rienze, che richiede ulteriori riflessioni e valutazioni.
Sono interessanti le indicazioni che il Rapporto fornisce sulle problematicità/cri-
ticità che occorrerà affrontare in futuro per una reale implementazione della valida-
zione dell’apprendimento non formale informale. In primo luogo permane una gran
varietà terminologica, persino a livello europeo (dove nel processo di Bologna si usa
il termine di “riconoscimento dell’apprendimento pregresso” anche in riferimento al
riconoscimento dell’apprendimento non formale e informale), dietro alla quale ci
sono in realtà concettualizzazioni assai differenti. Occorre, quindi, ancora un grande
lavoro in questa direzione. Un secondo elemento di criticità riguarda il costo elevato
dei dispositivi e l’incertezza dei finanziamenti pubblici, mentre nel caso di finanzia-
menti legati al Fondo sociale o a Programmi europei, come il Lifelong learning, ri-
mane aperto il problema della sostenibilità e della continuità al termine del finan-
ziamento di singoli progetti.
Un terzo aspetto riguarda il fatto che ci sono importanti ostacoli di tipo cultura-
le e di scarsa fiducia nella validazione. Essi emergono in particolare nei sistemi uni-
versitari, ma sono anche legati a timori riguardo all’effettiva libertà di scelta, al rischio
di speculazioni e creazioni di business della validazione, alla difficoltà di descrivere e
certificare competenze sociali. Vi è anche un problema di fiducia sull’effettivo van-
taggio di un processo di validazione individuale, rispetto ai tradizionali esami dei si-
stemi formali. Un quarto aspetto riguarda la distanza e il ritardo delle politiche rispetto
alle pratiche. Mancano norme di riferimento, finanziamenti, ma anche la capacità da
parte delle istituzioni formative di mettere in atto processi di validazione, capacità non
surrogata, in molti casi, dall’individuazione di soggetti specificatamente dedicati. Inol-
tre, laddove la validazione è delegata a istituzioni formative o a centri dedicati, si vie-
ne a creare una gran varietà di applicazioni che rischia di inficiarne credibilità e qua-
lità. Infine, mancano dati attendibili sull’effettivo numero di utilizzatori e loro carat-
teristiche, nonché effettive valutazioni costi/benefici.
8
http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/Europalavoro/SezioneEuropaLavoro/Utilities/Glossario/
Certificazionecompetenze
46 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
quisite da un individuo mediante la propria esperienza personale, professionale e
formativa, permettendone conseguentemente la spendibilità all’interno del sistema
educativo e del mondo del lavoro. La certificazione delle competenze è quindi la
base per percorsi formativi lungo l’intero corso della vita, garantendo interventi per-
sonalizzati in funzione delle caratteristiche dell’individuo. La certificazione è resa
possibile da un sistema di standard formativi, che costituiscono un riferimento certo
e condiviso per riconoscere il possesso di competenze in modo univoco e confronta-
bile”. Tre elementi di questa definizione esigono un approfondimento adeguato: il ri-
ferimento ai processi di apprendimento permanenti, la spendibilità delle competenze
acquisite, la disponibilità di standard di riferimento.
In primo luogo, nel contesto dei processi di certificazione di competenze, oc-
corre che le competenze che il soggetto è stato in grado di sviluppare nel corso
della sua esistenza siano riconoscibili e valorizzabili come facenti parte di un si-
stema di crediti spendibili nel contesto dei processi di qualificazione culturale e pro-
fessionale propri dei sistemi educativi, oppure, direttamente nel contesto del mondo
del lavoro. In questa direzione proposte e iniziative sperimentali degli ultimi de-
cenni hanno delineato alcuni quadri di riferimento utili, anche se manca in Italia un
vero e proprio sistema di descrizione dei cosiddetti referenziali professionali che
esplicitino in maniera adeguata per ogni comparto lavorativo le conoscenze, abilità
e competenze che li caratterizzano ai vari livelli; e ciò sia nel caso di processi for-
mativi di tipo formale, sia nel caso di apprendimenti esperienziali o non formali. In
Italia sono disponibili finora: a) le competenze di base e professionali che caratte-
rizzano le 21 qualifiche professionali e i 21 diplomi professionali approvate in Con-
ferenza Stato-Regioni; b) le descrizioni ATECO 2007 relative alle diverse attività eco-
nomiche; c) per alcuni comparti, elaborazioni curate nel contesto di sperimentazioni
promosse da varie Regioni; d) altri apporti derivanti da studi di settore. Ma l’Italia è
caratterizzata da un quadro regolativo debole o limitato e di elevato consenso nei
confronti del valore dei processi formali e dei titoli correlati, con conseguente
scarsa credibilità di procedure di certificazione alternative, anche se vi è una gran
ricchezza di sperimentazioni eterogenee. Il Quadro nazionale delle qualificazioni
(NQF) non vede ancora la luce e non vi è gran fermento sull’attuazione della Racco-
mandazione relativa a ECVET. La crisi ha prodotto numerose esperienze di valida-
zione e certificazione, ma mancano standard pubblici riconosciuti di riferimento.
Ci sono aspetti da approfondire ancora sulla questione della validazione e certifi-
cazione, almeno per due capitoli fondamentali: il concetto stesso di validazione e le
implicazioni; l’aspetto metodologico centrale di tale processo. Esso presuppone un
processo di valutazione e un insieme di metodi e di procedure atti a definire la misu-
ra in cui una persona ha effettivamente conseguito una particolare conoscenza, abi-
lità o competenza. Si tratta di un processo non immediatamente agevole, anche per-
ché è mancato un adeguato approfondimento teorico e sviluppo pratico nel contesto
dei sistemi formali di istruzione e di formazione, anche superiore. In particolare, vie-
ne spesso sottovalutato l’apporto fondamentale che in tale processo deve venire da par-
te di chi intende ottenere il riconoscimento delle proprie competenze. Come si è ri-
3/2011 47
cordato, questi deve essere consapevole di quanto posseduto, capace di presentarlo e
difenderlo di fronte a esaminatori esterni, in maniera articolata ed efficace. Nella tra-
dizione, oggi ripresa in questo ambito, si tratta di raccogliere elementi documentari,
spesso denominati evidenze, del livello di competenza raggiunto in determinati am-
biti, quello proprio delle varie unità di apprendimento, e relative conoscenze e abilità
implicate; presentare poi questa raccolta, denominata correntemente portfolio, in ma-
niera chiara e dettagliata; rispondere convenientemente a eventuali obiezioni e rilie-
vi critici. La questione fondamentale, tuttavia, riguarda il fatto che una competenza
non è direttamente osservabile e misurabile, come ogni altra qualità umana comples-
sa, bensì inferibile a partire dalle sue manifestazioni. In qualche maniera si tratta di
ottenere elementi di prova rispetto a un’ipotesi di competenza che portino a un livel-
lo di plausibilità o di probabilità abbastanza elevato da garantire l’accoglienza del
giudizio da parte di altri perché degno di fiducia. Il pericolo emerso dalle tendenze at-
tuali in merito all’assicurazione di qualità è una certa propensione ad insistere sulla
fedeltà rispetto a procedure definite nei minimi particolari. Ciò può funzionare per mi-
surare conoscenze e abilità, anche manifestazioni specifiche di competenza, ma la
sintesi finale è sempre basata su giudizi complessivi che tanto più sono affidabili,
quanto più basati su argomenti e prove a loro favore. Questa osservazione si estende,
ovviamente, in particolare all’ente responsabile della valutazione. Il passaggio suc-
cessivo implica il confronto tra quanto concluso dalla valutazione e quanto richiesto
dai risultati d’apprendimento previsti. Naturalmente, ciò sarà assai facilitato se nel pro-
cesso stesso di valutazione si è guidati da una descrizione funzionale delle conoscen-
ze e abilità che costituiscono nella loro integrazione le competenze richieste.
In sostanza, occorre decidere cosa è veramente utile che il soggetto pubblico pro-
muova riguardo alla validazione e certificazione di apprendimenti non formali e infor-
mali. Non è semplice, ed è anche costoso. Ma è possibile, e le sperimentazioni com-
piute offrono utili elementi, sia a livello regionale, sia nella bilateralità. Forse sareb-
be anche il caso di decidere che non tutte le competenze sono certificabili (o non ne
vale la pena). Come in altri paesi, si potrebbe partire da quelle che hanno standard pro-
fessionali e formativi di riferimento. Ma occorre risolvere i problemi di economicità,
di motivazione degli attori e di scelte di priorità. Non si possono coltivare illusioni
meccanicistiche, occorre garantire affidabilità e adottare dispositivi semplici e leggi-
bili, ma anche democrazia nell’accesso ai dispositivi di validazione, con efficaci siste-
mi di accompagnamento per evitare selezione ed esclusione dei più deboli.
Occorre infine fare chiarezza sul senso effettivo del riconoscimento da parte dei
sistemi formativi e del mondo del lavoro. Per questo è necessario il coinvolgimento
degli attori chiamati a formalizzare il valore d’uso o di scambio delle competenze
validate e/o certificate, a seconda che esse siano equivalenti a titoli o crediti for-
mativi e attestino il possesso di requisiti professionali cui sia attribuito un valore in
un’ottica prossima alle politiche del lavoro e della gestione delle risorse umane. Da
ultimo, quindi, la domanda di fondo: qual è il valore effettivo della certificazione
pubblica dell’apprendimento non formale e informale e come ciò si connette con il
dibattito che periodicamente affiora sul valore legale dei titoli?
48 RASSEGNA CNOS
Imparare a dirigere se stessi
PROGETTI e ESPERIENZE
nello studio e nel lavoro
MICHELE PELLEREY1
Il contributo presenta alcuni dei risultati conseguiti nel contesto della ricerca
sviluppata nel corso degli anni 2010 e 2011 dal CNOS-FAP dal titolo: “Imparare
a dirigere se stessi. Progettazione e realizzazione di una guida e di uno
strumento informatico per favorire l’autovalutazione e lo sviluppo delle proprie
competenze strategiche nello studio e nel lavoro”. Del gruppo di ricerca
facevano parte: Filippo Epifani, Dariusz Gra˛dziel, Massimo Margottini,
Enrica Ottone, Michele Pellerey.
■ 1. Premessa
Vari studi sia di natura teorica, sia di natura sperimentale, hanno messo
spesso in evidenza come una delle finalità fondamentali dei percorsi scolastici
e formativi dovrebbe essere la capacità di dirigere se stessi non solo nell’ap-
prendimento sviluppato nei contesti formali, bensì anche che si attua in conte-
sti non formali e informali propri degli ambienti di vita e di lavoro2. Dirigere se
stessi nel proprio apprendimento culturale, professionale e di vita dovrebbe es-
sere riletto secondo due prospettive complementari, integrando tra loro i con-
cetti di autodeterminazione e di autoregolazione. Con il termine “autodetermi-
nazione” si segnala in genere la dimensione della scelta, del controllo di senso
e di valore, della intenzionalità dell’azione: è il registro della motivazione, della
decisione, del progetto, anche esistenziale. Con il termine “autoregolazione” si
evoca il monitoraggio, la valutazione, il pilotaggio di un sistema d’azione e si
insiste di più sul registro del controllo strumentale dell’azione. Al primo livello,
1
Professore Emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
Cfr. a es. PELLEREY M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2008.
2/2012 97
nel dare senso, finalità, scopo all’azione, ci si colloca sul piano del controllo di
tipo “strategico”, che mette in evidenza la componente motivazionale, di
senso, di valore. Al secondo livello si richiede, invece, di sorvegliare la coe-
renza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il funzionamento o pilo-
tarla; si tratta di un livello “tattico”»3.
Una problematica analoga era stata affrontata da una serie di ricerche svi-
luppate dall’Isfol, riferendosi più direttamente al mondo del lavoro. Si inten-
deva elaborare una base teorica a supporto delle attività di formazione, soprat-
tutto in ambito adulto, ed era emersa l’importanza della promozione di compe-
tenze strategiche che consentissero alle persone di affrontare in modo valido e
produttivo le sfide della vita sociale e professionale4.
In ambito internazionale Joachim Wirth e Detlev Leutner5 avevano proposto
di considerare la capacità di autoregolazione nell’apprendimento come una com-
petenza, mentre Winne e Hadwin6 hanno cercato un’integrazione dei vari modelli
proposti dalla letteratura, indicando alcune delle componenti fondamentali della
competenza auto-regolativa che fanno riferimento a sotto-competenze di natura
metacognitiva, motivazionale e strategica: la definizione del compito, la deci-
sione circa gli obiettivi e il piano da attuare per raggiungerli, l’attivazione delle
tattiche necessarie, l’adattamento dei processi metacognitivi, il monitoraggio e
il feedback. Dal canto suo Monique Boekaerts aveva messo in luce il ruolo delle
conoscenze previe circa gli aspetti cognitivi e motivazionali dell’autoregolazione
distinguendo un livello riferito specificatamente al campo di studio o di lavoro,
uno di tipo strategico e uno concernente gli obiettivi da raggiungere7.
Su questa base conoscitiva due indagini promosse dal CNOS-FAP avevano ap-
profondito il concetto di competenza strategica tenendo conto di due dimensioni
fondamentali del processo formativo: la dimensione spirituale e la dimensione
morale8. In particolare erano state identificate alcune competenze strategiche
3
PELLEREY M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2008, p. 8.
4
ISFOL, Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica, Mi-
lano, Franco Angeli, 2001; ISFOL, Le dimensioni meta-curricolari dell’agire formativo, Milano,
Franco Angeli, 2002, 113-154; ISFOL, Apprendimento di competenze strategiche, Milano, Franco
Angeli, 2004, pp. 150-191.
5
WIRTH J. - LEUTNER D., Self-Regulated learning as a competence, in «Zeitschrift für Psycholo-
gie», 216 (2008), 2, pp. 102-110.
6
WINNE P.H. - HADWIN A.F., Studying as a self-regulated learning, in BOEKAERTS M. - PINTRICH
P.R. (Eds.), Handbook of self-regulation, San Diego, Academic Press, 2000, pp. 531-566.
7
BOEKAERTS M. - NIEMIVIRTA M., Self-Regulated learning: finding balance between learning
goals and ego-protective goals, in BOEKAERTS M. - PINTRICH P.R. (Eds.), Handbook of self-regulation,
San Diego, Academy Press, 2000, pp. 417-450.
8
PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e
prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, Roma, CNOS-FAP, 2007;
BAY M. - GRA˛DZIEL D. - PELLEREY M., Promuovere la crescita nelle competenze strategiche che hanno
le loro radici nelle dimensiono morali e spirituali della persona, Roma, CNOS-FAP, 2010.
98 RASSEGNA CNOS
PROGETTI e ESPERIENZE
che sembrano costituire la struttura fondamentale di una persona in grado di di-
rigere se stessa nella vita, nello studio e nel lavoro: competenze strategiche nel
dare senso e prospettiva alla propria esistenza umana e lavorativa; competenze
strategiche nell’affrontare situazioni sfidanti o pericolose e nel decidere; compe-
tenze strategiche nel gestire forme accentuate di ansietà; competenze strategi-
che nel collaborare nel lavoro e nell’apprendimento; competenze strategiche nel
comunicare e nel relazionarsi con altri; competenze strategiche nel gestire se
stessi nel lavoro e nell’apprendimento; competenze strategiche da mettere in
atto per capire e ricordare. Dal punto di vista motivazionale si era rilevato come
entrassero in gioco anche la percezione soggettiva di competenza e lo stile attri-
butivo nei riguardi dei propri successi o fallimenti. Ai fini di una loro rilevazione
era stato messo a punto e validato un questionario, il QPCS (Questionario di Per-
cezione delle proprie Competenze Strategiche), mediante la somministrazione a un
campione italiano di circa 2000 soggetti e polacco di circa 1000 soggetti9.
La questione, che si poneva con particolare urgenza al termine del percorso
di indagine precedente, era: come rispondere all’esigenza di mettere a disposi-
zione dei docenti e dei formatori strumenti e metodologie che consentissero di
implementare tali prospettive nel contesto dei percorsi istruttivi e formativi? In
pratica si trattava di sviluppare per insegnanti e studenti risorse adeguate per
prendere coscienza della realtà e centralità di tali dimensioni della loro persona
e poter intervenire individualmente e collettivamente al fine di favorire un loro
sviluppo adeguato. Ne è derivato l’impegno nel mettere a punto e validare al-
cuni strumenti e metodologie di supporto all’azione educativa scolastica e for-
mativa, che integrassero forme di autovalutazione e valutazione esterna a mo-
dalità di progettazione e realizzazione di percorsi formativi cogestiti da forma-
tori e studenti. Il progetto di lavoro attuato nel corso degli anni 2010 e 2011
è stato orientato di conseguenza alla “progettazione e realizzazione di una
guida e di uno strumento informatico per favorire l’autovalutazione e lo svi-
luppo delle proprie competenze strategiche nello studio e nel lavoro”.
9
Questi risultati hanno esplicitato e contestualizzato quanto a suo tempo proposto a livello eu-
ropeo con il quadro delle competenze chiave da valorizzare nei processi di apprendimento perma-
nente e in particolare le competenze chiave considerate nell’ambito dell’apprendere ad apprendere;
delle competenze interpersonali e civiche; dell’imprenditorialità; dell’espressione culturale.
2/2012 99
cetto di “autoregolazione dell’apprendimento e della prestazione”10. In tale pro-
spettiva nel 2011 essi prendevano in considerazione: “processi nei quali gli ap-
prendenti attivano e sostengono personalmente cognizioni, affetti e comporta-
menti che sono sistematicamente orientati verso il raggiungimento di finalità
personali. Nel porre fini personali essi creano cicli di feedback auto-orientati
attraverso i quali essi possono monitorare la loro efficacia e adattare il loro fun-
zionare. Poiché la persona auto-regolata deve essere proattiva nel porsi i propri
obiettivi e nell’impegnarsi in un ciclo auto-regolativo, sono essenziali anche
convinzioni motivazionali di supporto. Al contrario della saggezza convenzio-
nale, l’autoregolazione non è definita come una forma di apprendimento indivi-
dualizzato, perché esso include forme auto-generate di apprendimento sociale,
come cercare aiuto da compagni, formatori e insegnanti”11.
Nella nostra impostazione del lavoro si è voluto insistere da una parte sul
ruolo fondamentale della scelta in un quadro di senso e di prospettiva esisten-
ziale e, dall’altra, sul contributo che possono dare gli altri alla capacità di ge-
stire se stessi nel perseguire i propri obiettivi. Da quest’ultimo punto di vista,
a esempio, occorre che sia da parte dei formatori, sia da parte degli studenti
stessi si sviluppino adeguate sensibilità, oltre che per i processi di natura co-
gnitiva, per i processi emozionali e sociali coinvolti e la capacità di gestirli.
Dal punto di vista teorico si è constatata la grande valenza concettuale e
pratica dell’interpretazione delle competenze strategiche come disposizioni sta-
bili ad agire in maniera autonoma e responsabile12. Ciò riconduce il discorso a
una tradizione antica che considera un “abito” come una disposizione interna
stabile che attraverso la pratica ripetuta diventa come una seconda natura che
10
In particolare si può fare riferimento ad alcuni testi fondamentali: ZIMMERMAN B.J. - SCHUNK
D.H. (eds.), Self-regulated learning and academic achievement: Theory, research, and practice, New
York, Springer, 1989; SCHUNK D.H. - ZIMMERMAN B.J. (eds.), Self-regulated learning and perfor-
mance: Issues and Educational Applications, Hillsdale, Erlbaum, 1994; SCHUNK D.H. - ZIMMERMAN
B.J. (eds.), Self-regulated learning and performance: From teaching to self-reflective practice, New
York, Guilford, 1998; BOEKAERTS M. - PINTRICH P.R. - ZEIDENER M. (eds.), Handbook of self-regu-
lation, San Diego, Academic Press, 2000; BAUMESTEIR R.F. - VOHS K.D. (eds.), Handbook of self-reg-
ulation: Research, Theory, and Applications, New York, Guilford, 2004; J. J. GROSS (ed.), Hand-
book of emotion regulation, New York, Guilford, 2007; SCHUNK D.H. - ZIMMERMAN B.J. (eds.), Mo-
tivation and self-regulated learning: Theory, research, and applications, Mahwah, Erlbaum 2008; FOR-
GAS J.P. - BAUMESTEIR R.F. - TICE D.M. (eds.), Psychology of Self-regulation. Cognitive, and Motiva-
tional Processes, New York, Psychology Press, 2009; ZIMMERMAN B.J. - SCHUNK D.H. (eds.), Hand-
book of self-regulation of learning and performance, New York, Routledge, 2011; A. Berger, Self-Reg-
ulation: Brain, Cognition, and Development, Washington, APA, 2011; ZIMMERMAN B.J. - LABUHN
A.S., Self-regulation of learning: process approaches to personal development, in APA Educational
Psychology Handbook, Vol. I , APA, Washington, 2012, pp. 399-425.
11
ZIMMERMAN B.J. - SCHUNK D.H. (eds.), Handbook of self-regulation of learning and perfor-
mance, New York, Routledge, 2011, 1.
12
Cfr. la definizione di competenza sviluppata nei vari documenti europei.
Negli ultimi anni il concetto di abito sulla scia delle indicazioni fornite a suo tempo da John
13
Dewey è stato ripreso in vari contesti formativi. Negli Stati Uniti è stata soprattutto Lyn Corno a
2/2012 101
■ 3.perLapromuovere
progettazione e conduzione di risorse didattiche
le competenze strategiche
sviluppare numerose ricerche in merito: CORNO L., Work habits and self-regulated learning: help-
ing students to find a “will” from a “way”, in SCHUNK D.H. - ZIMMERMAN B.J. (eds.), Motivation
and self-regulated learning: Theory, research, and applications, Mahwah, Erlbaum, 2008, pp. 197-222;
Studying Self-Regulation Habits, in ZIMMERMAN B.J. - SCHUNK D.H. (eds.), Handbook of self-regu-
lation of learning and performance, New York, Routledge, 2011, pp. 361-378. In Italia Massimo Bal-
dacci ha valorizzato tale concetto nel suo volume Ripensare il curricolo (Carocci, Roma, 2006) e nel
suo saggio: L’educazione e l’inculturazione: l’habitus come sostrato formativo” (Pedagogia più di-
dattica , gennaio 2012, 1, pp. 43-48).
14
WINNE P.H. - HADWIN A.F., Studying as a self-regulated learning, in BOEKAERTS M. - PIN-
TRICH P.R. (Eds.), Handbook of self-regulation, San Diego, Academy Press, 2000, pp. 531-566.
15
WIRTH J. - LEUTNER D., Self-Regulated learning as a competence, in «Zeitschrift für Psycholo-
gie», 216 (2008), 2, pp. 102-110.
16
Alcuni suggerimenti vengono anche dai contributi inclusi nel volume curato da HARTING J. -
KLIME E. e LEUTNER D., Assessment of competencies in educational contexts (Göttingen, Hogrefe,
2008), che trattano più in generale della valutazione delle competenze rilevabili nel settore scola-
stico, in quanto nell’accordo tra i vari Länder tedeschi circa l’identificare le competenze fondamen-
tali da promuovere e valutare da parte di tutte le realtà territoriali sono emerse questioni riguardanti
le tecniche statistiche più appropriate da utilizzare in tale ambito.
Nel corso dei tre decenni passati sono stati sviluppati vari strumenti per
diagnosticare il livello raggiunto nella capacità di auto-dirigere e/o auto-rego-
lare il proprio apprendimento17. Tra questi hanno manifestato una particolare ri-
levanza i questionari di autovalutazione. Nel nostro progetto sono stati scelti
due questionari assai ben validati sia sul piano scientifico, sia su quello della
pratica: il QSA, Questionario sulle Strategie di Apprendimento18, e il QPCS, Que-
17
Una rassegna che include anche riferimenti bibliografici puntuali relativi ai vari strumenti e
metodi sviluppati si trova in PELLEREY M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola,
2006, quarto capitolo.
18
PELLEREY M., QSA, Questionario sulle strategie di apprendimento, Roma, LAS, 1996. Il que-
stionario permette di rilevare la situazione rispetto alle strategie riferibili ai seguenti processi: ela-
borazione, autoregolazione, disorientamento, collaborazione, rappresentazioni semantiche, concen-
trazione, auto-interrogazione, ansietà, volizione, attribuzione a cause controllabili e incontrollabili,
perseveranza, percezione di competenza, interferenze emotive.
2/2012 103
stionario di Percezione delle proprie Competenze Strategiche19. Il primo si presta
particolarmente a essere usato all’inizio del secondo ciclo sia scolastico, sia for-
mativo; il secondo è stato predisposto per essere valorizzato verso la sua fine.
Per facilitare da parte delle scuole e dei centri di formazione professionale, ol-
tre che da parte dei centri di orientamento, è stata predisposta una loro frui-
zione on line, attraverso il collegamento con una piattaforma appositamente
progettata e realizzata: www.competenzestrategiche.it.
L’idea di sviluppare un software applicativo adeguato alle nuove possibilità
offerte dalle tecnologie di rete è confluita, pertanto, nel progetto di una piat-
taforma on line che potesse raccogliere sia le funzioni di somministrazione e
compilazione dei questionari, sia di immediata elaborazione delle risposte e re-
stituzione del profilo, subito interpretabile da parte dell’utente. Al tempo
stesso, per rafforzare l’idea di promuovere, intorno all’uso dei questionari, una
serie di strumenti di carattere didattico è stato realizzato un ambiente interat-
tivo che ha la funzione di raccogliere la documentazione di carattere tecnico e
didattico e un adeguato spazio comunicativo finalizzato a sviluppare il con-
fronto tra docenti, operatori, ricercatori ed esperti nella prospettiva di favorire
la costruzione di una “comunità di pratica”20 intorno al tema della autovaluta-
zione e dello sviluppo delle competenze strategiche.
La piattaforma comprende dunque: due questionari di autovalutazione delle
competenze da parte di studenti ed allievi ai vari livelli di percorsi formativi, ed
in particolare all’inizio e al termine del secondo ciclo di istruzione e forma-
zione: il QSA, e il QPCS; una guida alla compilazione dei questionari ed inter-
pretazione degli esiti; materiali didattici con suggerimenti e proposte di utiliz-
zazione dei dati raccolti, attraverso i questionari, utili a favorire la progetta-
zione di percorsi orientati a consolidare o a promuovere le competenze che ri-
sultassero meno sviluppate; uno spazio di comunicazione e interazione tra do-
centi, studenti ed esperti che si propone di accompagnare e sostenere docenti
ed operatori, interessati all’uso dei questionari, nelle attività di somministra-
zione, elaborazione ed interpretazione degli esiti ottenuti nonché ad approfon-
dire le questioni di carattere teorico ed operativo legate all’uso degli strumenti
proposti.
Essa è multilingue. Per il momento, è stata realizzata in due versioni: in lin-
gua italiana e in lingua polacca. Pertanto, sia la somministrazione dei questio-
nari sia l’accesso alle funzioni di elaborazione dei dati è possibile in entrambe
le lingue. Questo ha consentito, nella fase di sviluppo del progetto la sommini-
19
BAY M. - GRA˛DZIEL D. - PELLEREY M., Promuovere la crescita delle competenze strategiche che
hanno le loro radici nelle dimensioni morali e spirituali della persona, Roma, CNOS-FAP, 2010.
20
WENGER E., Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina,
2006.
2/2012 105
l’eventualità che la percezione del soggetto non corrisponda pienamente alle
reali competenze dell’allievo, l’insegnante può utilizzare altri strumenti e ser-
virsi di più fonti di informazione come osservazioni sistematiche raccolte me-
diante una griglia del tipo di quelle presenti sulla piattaforma, griglia che con-
sente di individuare alcuni indicatori riferiti agli stessi fattori rilevati dal QSA.
Al termine del periodo stabilito per l’osservazione, l’insegnante potrebbe con-
frontarsi con i colleghi, presentare all’allievo i risultati raccolti e invitarlo a
confrontarli con gli esiti ottenuti nel profilo al QSA. Naturalmente la valenza
formativa di un intervento come quello descritto può essere reso più incisivo se
si riesce a coinvolgere più docenti o l’intero consiglio di classe.
Vengono anche proposti modelli di intervento articolati secondo modalità
più o meno intense e prolungate di azione. Essi sono stati sperimentati nella
loro funzionalità ed efficacia in vari contesti scolastici. Uno di questi modelli è
riprodotto nella Fig. 2. In esso si fa riferimento a un Libretto per lo studente.
Si tratta di un ulteriore sussidio formativo che permette di personalizzare gli in-
terventi e seguirne gli sviluppi e che può essere ripreso dalla piattaforma.
Un secondo esempio riguarda la formazione dei docenti. Nel contesto del-
l’attività di ricerca è emerso che gli insegnanti avvertono il bisogno di ampliare
la propria conoscenza dei fattori cognitivi, affettivi e motivazionali correlati ai
processi e alle strategie di apprendimento e dichiarano di voler approfondire in
particolare gli aspetti affettivo-motivazionali, che si sentono meno disposti ad
affrontare e sui quali riconoscono di essere meno preparati21. Si è evidenziato
anche un quadro di competenze che un insegnante dovrebbe sviluppare per pro-
muovere negli studenti la capacità di dirigere il proprio apprendimento: a) co-
noscere i principali fattori affettivo-motivazionali e cognitivi delle strategie di
apprendimento; b) conoscere e saper usare strumenti e metodi che gli consen-
tano di rilevare l’incidenza di tali fattori in ambito scolastico e di saper ricono-
scere un allievo con difficoltà in tali fattori; c) aiutare gli allievi ad auto-valu-
tarsi e a riconoscere i propri punti di debolezza e di forza; d) conoscere e uti-
lizzare strategie e tecniche per aiutare gli studenti a migliorare aspetti specifici
delle proprie competenze strategiche22.
Il percorso di formazione indirizzato a promuovere le competenze elencate
dovrebbe prevedere momenti di approfondimento individuale e di lavoro di
gruppo e tempi per l’autoformazione. Si potrebbero mettere a disposizione dei
materiali di approfondimento su alcuni fattori cognitivi e affettivo-motivazio-
nali dell’apprendimento, come quelli sull’ansietà di base e sull’attribuzione cau-
21
OTTONE E., Diritto all’educazione e processi educativi scolastici. Un percorso di ricerca-azione
in una scuola secondaria di secondo grado, Roma, LAS, 2006, 265.
22
Ivi, cap. II.
Fig. 2 - Modello di intervento che valorizza il QSA nella progettazione di percorsi formativi
in vista dello sviluppo di competenze strategiche
2/2012 107
zione professionale italiani e polacchi, ne sono derivate non pochi informazioni
significative, che consentono di prendere coscienza non solo delle differenze
presenti, ma soprattutto di eventuali aree di potenziamento dell’attività forma-
tiva in settori strategici della crescita non solo dello studente, ma soprattutto
della persona umana e del lavoratore.
■ 6. Conclusione
Il gruppo di lavoro che ha portato a termine questa impresa pensa di aver
messo a disposizione non solo della scuola e della formazione professionale
strumenti e metodi per promuovere le principali competenze strategiche neces-
sarie per affrontare positivamente lo studio, il lavoro e la vita, ma anche di aver
contribuito a rileggere la questione dell’orientamento dal punto di vista di un’a-
zione formativa continua e sistematica.
In particolare quanto proposto può aiutare ad affrontare meglio alcune
transizioni fondamentali: a) tra primo ciclo e secondo ciclo di istruzione e for-
mazione; b) tra primo biennio del secondo ciclo (obbligo di istruzione) e per-
corsi successivi; c) tra secondo ciclo e istruzione terziaria (Università, ITS,
2/2012 109
ecc.); d) tra mondo dello studio e della formazione e mondo del lavoro e delle
professioni; e) tra un ambito lavorativo e un altro (mobilità orizzontale); f) tra
un livello di carriera lavorativa e uno superiore (mobilità verticale). A esempio
nei percorsi di istruzione tecnica il passaggio dal biennio iniziale all’indirizzo
successivo implica un’impegnativa scelta, che deve essere attuata in maniera
consapevole. In quelli di istruzione professionale si pone non solo la scelta del-
l’indirizzo alla fine del biennio, ma anche l’eventuale scelta del (o transizione
al) sistema di Istruzione e formazione professionale (qualifica e diploma) di
competenza regionale.
La piattaforma utilizzata in maniera opportuna dovrebbe facilitare una ri-
sposta a frequenti e impegnative domande: quale stato di preparazione è ne-
cessario raggiungere per potere affrontare tali transizioni in maniera valida e
consapevole? e ciò in un contesto culturale, sociale e lavorativo che presenta
alti livelli di cambiamento? quali competenze possono garantire un più efficace
e valido passaggio? come promuoverle e come rilevarle nel loro sviluppo? gli
studenti quanto si sentono preparati alla fine del secondo ciclo di istruzione e
formazione per affrontare il loro futuro di studio o di lavoro?
STUDI e RICERCHE
nei processi formativi
Un approfondimento della dimensione cognitiva
nel quadro del triplice riferimento educativo
“ragione, religione, amorevolezza” di don Bosco
MICHELE PELLEREY1
■ Introduzione
Nell’evocare il triplice riferimento su cui si fonda il sistema formativo sale-
siano “ragione, religione, amorevolezza”, molti autori mettono in luce come
esso si debba applicare in primo luogo alle qualità dell’educatore, individuo o
comunità, e alle sue modalità d’azione2. Tuttavia lo stesso riferimento deve es-
sere utilizzato, esaminando le dimensioni fondamentali da considerare come fi-
nalità proprie del processo formativo da promuovere nel formando. Si tratta di
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
Cfr. a es. BRAIDO P., Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, Las,
1999, p. 290.
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una visione sistemica, nel senso che ciascuno dei tre poli non può essere evo-
cato se non tenendo conto delle sue relazioni dinamiche con gli altri due. Di
conseguenza, dal momento che in questo mio contributo intendo approfondire
il polo “ragione”, tenendo conto delle evoluzioni e delle sollecitazioni culturali
contemporanee, occorre precisare che sarà necessario accennare anche alle in-
fluenze che si danno da parte degli altri due poli. Non solo, tale polarità andrà
letta nelle due direzioni: come qualità fondamentale che deve caratterizzare l’a-
zione del formatore, e della comunità formativa, e come dimensione fondamen-
tale da perseguire nel processo formativo sia individualmente, sia collettiva-
mente.
In una rilettura del 1988 avevo esaminato il pensiero educativo di don Bo-
sco riferendomi alle sue stesse parole, oltre che alla sua azione3. In effetti la
prospettiva pedagogica di don Bosco occorre coglierla in quelli che possono es-
sere definiti “principi in azione”, da individuare esaminando la pratica svilup-
pata nel tempo e le riflessioni che questa ha in lui sollecitato anche come sug-
gerimenti per i suoi continuatori. Esemplare da questo punto di vista è la
corrispondenza da Roma rivolta ai suoi giovani e ai suoi collaboratori nel 18844.
La rilettura portava a distinguere ciò che di permanente era presente nel suo
pensiero e nella sua azione da ciò che era più legato al suo tempo e alla sua cul-
tura particolare. In questa ulteriore riflessione cerco di valorizzare alcune evolu-
zioni culturali e sociali che segnano il nostro tempo, per mettere in luce come
l’insegnamento di un tempo possa essere ancora valido nei nostri contesti, per
molti versi assai lontani dai suoi. È anche necessario precisare che i tre poli di
riferimento verranno considerati secondo una interpretazione allargata: la ra-
gione come dimensione cognitiva del pensiero e dell’azione, la religione come
dimensione spirituale e religiosa, l’amorevolezza come dimensione affettiva ed
etica. Dimensioni, che devono caratterizzare l’impegno educativo sui due ver-
santi: quello dell’azione educativa e quello delle finalità educative da perseguire.
3
PELLEREY M., La via della ragione. Rileggendo le parole e le azioni di don Bosco, Orienta-
menti Pedagogici, 35 (1988), pp. 383-396.
4
Cfr. “Due lettere datate da Roma 10 maggio 1994”, in BRAIDO P., Don Bosco educatore. Scritti
e testimonianze, Roma, LAS, 1997.
26 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
e, dall’altro, attualizzare tali indicazioni nel contesto culturale e professionale
attuale. La prospettiva adottata privilegia quello che può essere definito un
“uso della ragione”, ovvero una forma di competenza in cui prevale la dimen-
sione cognitiva.
Nell’attuale rivisitazione del pensiero aristotelico, soprattutto nell’ambito
degli studi sulla razionalità che guida la persona umana nel pensare e nell’agire,
spesso si prendono le mosse dalla sua distinzione tra “virtù dianoetiche” e
“virtù etiche”, che con un linguaggio moderno potremmo definire “competenze
nel pensare” e “competenze nell’agire”. Le virtù, o competenze, intellettuali che
Aristotele cita sono: la scienza, che si può intendere come competenza nel pro-
muovere la propria conoscenza e nell’organizzarla; la sapienza, come compe-
tenza nel riflettere e dare senso e valore alle proprie conoscenze e alle vicende
umane; l’arte, come competenza tecnico-pratica nel progettare, realizzare e uti-
lizzare gli artefatti umani; la saggezza pratica, o prudenza, come competenza
nel decidere come agire e come attuare quanto deciso; l’intelligenza, come com-
petenza nel capire, nel cogliere il significato, nel concettualizzare l’esperienza.
Una “testa ben fatta” deve essere in grado di valorizzare questi processi cogni-
tivi al fine non solo di crescere dal punto di vista del sapere, ma anche del sa-
per essere, del saper fare e del sapere stare con gli altri.
Sulla scia del pensiero aristotelico, e della riflessione teorica di questi ul-
timi cinquanta anni, sono state messe in luce le molteplici “vie della ragione”,
o forme di razionalità, che si manifestano nei vari ambiti dell’esperienza cultu-
rale e professionale. Certamente, tenendo conto di quanto sopra ricordato, è
stata sottolineata la distinzione tra razionalità messa in atto quando si tratta
di un’azione di tipo produttivo e razionalità che caratterizza l’agire etico e so-
ciale. L’agire produttivo, o tecnico-pratico, è per sua natura diretto alla produ-
zione di oggetti o beni materiali precisi. Esso è guidato da un’idea, modello o
progetto, dell’artefatto (oggetto o strumento) da produrre e trova la sua perfe-
zione nelle abilità e nelle competenze tecnico-pratiche possedute. Il suo com-
pimento è dato dal bene prodotto e dalla sua qualità. L’agire etico-sociale è an-
ch’esso guidato da un’idea o ideale (il bene) e può realizzarsi tramite una par-
ticolare disposizione interiore e competenza intellettuale, la saggezza pratica o
prudenza, che consiste nella capacità di prendere decisioni e condurre azioni,
che incarnano i beni di eccellenza perseguiti in modo appropriato alle variabili
particolari delle situazioni.
Tuttavia, nel contesto culturale attuale occorre prendere in considerazione
altre “vie della ragione”, anche perché a partire dal settecento si è particolar-
mente insistito sulla centralità, se non esclusività, della forma di razionalità
che guida lo studio matematico-scientifico: la razionalità logico-analitica. Altre
forme di razionalità, messe in ombra da allora, ora riprendono interesse: la com-
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petenza argomentativa, che mira a conseguire non tanto certezze, quanto una
adeguata plausibilità alle proprie conclusioni; la competenza che è rivolta a
persuadere gli altri, cercando non tanto di modificare i loro comportamenti,
quanto le loro convinzioni. E poi, le forme di pensiero che guidano l’interpreta-
zione dei testi e delle vicende umane, l’ermeneutica; la soggettiva percezione
del senso e significato delle proprie vicende personali, come la fenomenologia.
Sul piano educativo diventa evidente la necessità di promuovere uno svi-
luppo intellettuale che tenga conto delle molteplici forme di razionalità, solle-
citandone una presa di coscienza personale della loro natura, delle loro poten-
zialità e limiti; della necessità di coerenza metodologica nella loro valorizza-
zione nell’apprendere e nel pensare; ma anche dell’importanza di un dialogo fe-
condo tra i differenti approcci. La ragione, infatti, vista nella sua multidimen-
sionalità, favorisce la costruzione di un patrimonio ben organizzato di espe-
rienze, di conoscenze e di competenze, possedute in modo cosciente e fecondo.
Non solo quindi un uso della ragione, ma anche il saperla controllare dall’alto.
Oggi per questo aspetto si parla di meta-cognizione: complesso ambito della
cognizione per il quale l’uomo si abilita a conoscere, controllare e valorizzare le
proprie risorse conoscitive e processuali interne. Una ragione aperta anche alla
ricerca di un senso ulteriore più profondo e più a lungo termine, alla costru-
zione di valori esistenziali, a una religiosità che aiuta a dare senso alla vita e a
tutte le piccole e grandi cose che si fanno giorno per giorno, e che aiuta a in-
nalzarsi a Dio.
Tenendo conto di questo quadro di riferimento è ora possibile esplorare più
da vicino il significato che nel processo formativo assume quella che è stata de-
finita “educazione alla ragione”, e che, vale la pena ripeterlo, nella prospettiva
educativa di don Bosco non può essere disgiunta dalle altre dimensioni educa-
tive fondamentali: la dimensione affettiva e quella religiosa.
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STUDI e RICERCHE
lisi, è abbastanza chiaro in lui il prevalere di quella disposizione cognitiva che
è stata denominata “saggezza pratica”. Si tratta, come abbiamo visto, di una
componente della razionalità che fa parte della “ragion pratica”, quella che pre-
siede all’agire personale, all’interagire con gli altri e alla realizzazione di opere
sia materiali, sia sociali. Una razionalità di questo tipo è forse, allora, uno dei
segreti per comprendere le sue intuizioni e spiegare, oggi, il rispetto, se non
l’affetto che ancora molti portano per lui. Essi ne sentono la vicinanza e un pos-
sibile modello per un personale sviluppo di senso e di prospettiva esistenziale,
anche se per altri versi ne colgono i limiti e la lontananza. Questo mettere il
pensiero al servizio dell’azione, il sapere come quadro di riferimento per l’agire,
può però portare verso due direzioni pericolose. Da una parte un certo dedutti-
vismo ideologizzante, che vuol racchiudere la complessità del reale in categorie
precostituite e dedurre norme per l’azione da quadri teorici astratti; dall’altra, il
rimanere prigionieri delle immediate esigenze delle situazioni, con una certa
tendenza all’esser più faccendieri, che seri operatori. E qui sta il valore di una
ragione bene educata, ponte e mediazione tra quanto è stato elaborato sul
piano dell’interpretazione e riflessione critica, sia individualmente che colletti-
vamente, e quanto le circostanze, i tempi e i luoghi pongono come sfida e sol-
lecitazione alla capacità di progetto e d’intervento.
A tale fine è utile approfondire la dinamica propria del ragionamento che
sta alla base delle decisioni di ordine pratico. Essa si basa su due caposaldi: il
fine che si vuole raggiungere e la conoscenza approfondita delle condizioni
nelle quali occorre agire. In don Bosco era estremamente chiaro ciò che voleva
conseguire per i suoi giovani: la loro salvezza materiale e spirituale. A questo
fine egli usava una formula abbastanza semplice, ma ricca di risonanze
profonde, formare “onesti cittadini e buoni cristiani”. Anche oggi l’identifica-
zione delle qualità proprie di una cittadinanza attiva e partecipativa nel conte-
sto di un mondo che ci avvolge in cerchi concentrici dal luogo natale, alla na-
zione, all’Europa, al mondo, pone non piccoli problemi di comprensione delle
esigenze di tali molteplici appartenenze e di capacità di rispondere a esse in
maniera autonoma e responsabile. Essere onesti in tale contesto implica saper
gestire se stessi nel complesso delle relazioni e degli impegni di tipo lavorativo,
famigliare, sociale e politico, in un sistema soggetto a rapidi cambiamenti e a
crisi ricorrenti. D’altra parte, egli si poneva con chiara lucidità il destino finale
dei suoi “ragazzi”: la salvezza delle loro anime. Essere buoni cristiani oggi è an-
ch’essa impresa di non minore impegno, anche per le sollecitazioni e i condi-
zionamenti di una società sempre più pluralista, consumista e per molti versi
lontana dagli ideali evangelici.
Se era chiara la finalità ideale che lo sollecitava, occorreva conoscere e in-
terpretare con perspicacia le condizioni concrete della domanda di intervento,
3/2012 29
rispetto alle quali scegliere le forme e le modalità d’azione e di relazione. E qui
sta per molti versi la grandezza della sua opera considerata nel contesto otto-
centesco nel quale egli si trovava a vivere. L’esperienza diretta delle condizioni
dei giovani in carcere, la frequentazione di ragazzi che provenienti dalla cam-
pagna si trovavano disorientati nel contesto cittadino, la conoscenza diretta
delle modalità nelle quali i giovani apprendisti venivano trattati nelle botteghe
artigiane, la consapevolezza delle esigenze che l’iniziale industrializzazione po-
neva alla formazione dei giovani lavoratori, la percezione di una domanda dif-
fusa di alfabetizzazione popolare, la constatazione della realtà di una scolarità
ancora limitata per molti e progressivamente sempre più orientata a selezionare
le classi dirigenti e tecniche per pochi, erano tutti elementi di contesto che im-
ponevano scelte di natura non solo operativa, quanto a opere da promuovere,
ma anche nell’identificare metodologie formative adeguate.
E poi il coraggio e la forza volitiva con cui ci si deve impegnare nel realiz-
zare quanto intuito come possibile risposta all’appello che proviene dalla situa-
zione dei giovani. Questa energia interiore in don Bosco derivava dal suo amore
per essi, cioè dalla passione per il loro bene, per la loro riuscita sia nella vita
sociale e lavorativa, sia nella partecipazione alla comunità dei credenti. Fin da
piccolo il messaggio che gli era rimasto nel cuore era: “Renditi umile, forte e
robusto” al fine di poter portare a compimento la tua missione5.
5
Suggerimento ricevuto all’età di nove anni. Cfr. BOSCO G., Memorie dell’Oratorio di S. Fran-
cesco di Sales dal 1815 al 1855. Saggio introduttivo e note storiche di A. Giraudo, Roma, LAS, 2011.
30 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
Ci si è concentrati sulla dimensione cosiddetta discorsiva della ragione, quella
che presiede l’analisi critica analitica delle questioni e delle situazioni, per-
dendo molte volte di vista la sua dimensione intuitiva, quella che ci permette
di coglierne la totalità e il significato. Oggi si tende a rileggerla e rivalutarla
nella sua importanza da molti punti di vista, anche sul piano scientifico-mate-
matico.
Massimo Baldacci ha evocato recentemente tali due dimensioni, definendole
come momento intuitivo e momento razionale della cognizione nel quadro di un
insieme di antinomie educative6. L’importanza della dimensione o momento in-
tuitivo del processo cognitivo è stata in particolare sottolineata dalla psicolo-
gia della Gestalt, che ha evidenziato il suo ruolo centrale nella soluzione di pro-
blemi anche esistenziali, nella comprensione profonda e nel dare senso e signi-
ficato alle situazioni, rispondendo quasi a un appello che ci proviene dal mondo
esterno (in molti casi anche dal mondo interno), perché ci apriamo alla cosid-
detta “buona forma” o totalità significativa7. Per molti versi il cuore della sag-
gezza pratica messa in atto da don Bosco sembra proprio essere stata la capa-
cità di cogliere con chiarezza non solo i bisogni dei giovani cha accostava, ma
anche le possibilità di impostare con loro un percorso di miglioramento e di at-
tuarlo progressivamente, adattando i propri interventi agli sviluppi via via colti
con intelligenza.
Quanto al processo decisionale è utile accennare alle indicazioni di Joseph
Nuttin8 circa il ruolo motivazionale e di spinta all’azione che ha nella mente e
nel cuore delle persone il confronto tra la percezione della situazione presente
e il quadro di quella che si pensa rispondere meglio all’ideale che ci si pre-
figge. Quanto è più chiara e pertinente la percezione della situazione di fatto
e delle sue sollecitazioni migliorative e appare ragionevole e prudente la pre-
figurazione degli obiettivi da porre al proprio intervento, tanto più valida ed
efficace sarà la spinta motivazionale ad agire e ad agire secondo un piano di
attività congruente e ipoteticamente fecondo, e la perseveranza nel portarlo
a termine.
6
M. Baldacci nel quadro della suo criticismo moderato considera varie antinomie educative
che inevitabilmente sollecitano il giudizio pratico dell’educatore. BALDACCI M., Trattato di pedago-
gia generale, Roma, Carocci, 2012, 314-318.
7
È la tesi sostenuta da molti psicologi della Gestalt. Ad esempio M. Wertheimer lo ha descritto
nel processo di soluzione di problemi (WERTHEIMER M., Il pensiero produttivo, Firenze, Editrice
Universitaria, 1965). Una trattazione più approfondita la si può trovare in: FULLER A.R., Insight into
value: an exploration of the premises of a phenomenological psychology, State University of New
York, New York 1990.
8
NUTTIN J., Teoria della motivazione umana, Roma, Armando, 1983.
3/2012 31
■ 4. Alcuni elementi di conferma
Nell’esplorare un po’ più da vicino la dinamica del pensiero di don Bosco, in
primo luogo va comunque ricordata la chiara e puntuale finalizzazione che sta
al fondo delle sue decisioni. Egli spesso evoca negli scritti e nei discorsi le sue
motivazioni profonde. Nelle testimonianze raccolte e pubblicate emerge la pas-
sione che lo anima per i giovani e la loro educazione e per l’avvento del Regno
di Dio. “La formula «gloria di Dio e salute delle anime» riempie la sua vita come
i suoi scritti, espressione dell’unica passione di grande operatore”9. Per questo
è possibile affermare che: “L’azione di don Bosco non è […] espressione di at-
tivismo puramente temperamentale; è «consacrazione», consapevole e volonta-
ria, è «missione» con uno scopo preciso, la «salvezza» plenaria dei giovani.
[…] Precisamente per questo motivo, la sua dedizione ha un ritmo che è del
tutto distinto da quello della vita fisica: sembra crescere, addirittura, col decli-
nare o indebolirsi o esaurirsi di questa”10.
Questa carica motivazionale può essere descritta anche sotto il profilo del-
l’amore per i giovani (“Basta che voi siate giovani perché io vi ami assai”), del
trovare nella loro frequentazione una carica vitale (“Qui con voi mi trovo bene:
è proprio la mia vita stare con voi”). Volere il loro bene è la molla che gli fa af-
frontare molte fatiche, difficoltà, incomprensioni, umiliazioni. Quando è lon-
tano da loro scrive: “Fa un cordialissimo saluto a tutti i nostri cari giovani e di’
loro che loro voglio tanto bene, che li amo nel Signore, che li benedico”; “Dirai
ai nostri cari giovani e confratelli che lavoro per loro e che fino l’ultimo respiro
sarà per loro”.
Spinto da questa carica affettiva e motivazionale cerca di individuare quali
opportunità, attività, esperienze possano aiutarli a crescere. Egli si rendeva
conto che si trattava in genere di un’impresa complessa, multidimensionale,
nella quale il posto della religiosità era certamente centrale, ma essa doveva es-
sere vista come propulsiva di espansioni in ogni direzione: l’istruzione, l’acqui-
sizione di capacità lavorative, l’attività fisica e sportiva, l’espressione teatrale e
musicale, l’iniziativa filantropica, il turismo, nella forma povera allora possibile,
il gioco e il divertimento, il mutuo aiuto nello studio, nel lavoro e nelle varie
necessità; e ogni altra attività ed esperienza umana ed umanizzante era non
solo accettata ma doveva essere valorizzata per divenire spazio di esercizio e di
realizzazione di sé.
D’altra parte la stessa fonte motivazionale attivava la sua razionalità e for-
9
BRAIDO P., Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, LAS, 1999, p. 185.
10
Ibidem, 179.
32 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
niva la prospettiva di risposta alla domanda di educazione presente nel suo
tempo. Se egli appare come figlio di un certo tradizionalismo religioso, si può
dire invece che aveva saputo coniugare lo spirito pratico della sua origine con-
tadina con quello imprenditoriale della nascente società industriale. Il suo
modo di ragionare era certamente di natura operativa: riflessiva sì, ma in or-
dine all’azione, alla trasformazione del reale, alla realizzazione di progetti, a
volte di una grandiosità che faceva paura ai suoi collaboratori; e non chiusa
nell’osservazione distaccata degli avvenimenti e nell’analisi critica delle posi-
zioni culturali ed ideologiche. Forse per questo cercava una grande autonomia:
nella Chiesa come nello Stato. Ossequiente alle leggi e alle norme, audace nel
cercare risorse e aiuti, sostegni e riconoscimenti, ma tenace nel non lasciarsi
mai legare le mani. Sono significativi da questo punto di vista il senso del
complessivo, della totalità, dell’insieme; la capacità di assimilazione pronta e
produttiva di tutte le proposte e le suggestioni che potevano sostenere e ren-
dere valida ed efficace la sua opera; la flessibilità nell’agire, pur nella fedeltà
alle scelte e alle ragioni di fondo. Ad esempio, nel 1884 egli presentò alla
grande Esposizione nazionale dell’industria, della scienza e della tecnica in To-
rino, con l’impiego effettivo di macchinari e di artigiani all’opera, la linea com-
pleta del sistema di produzione dell’industria grafica allora disponibile: dalla
fabbricazione della carta, alla prestampa, alla stampa e alla rilegatura del li-
bro. Quell’iniziativa rimane segno e simbolo di una modernità di razionalità im-
prenditoriale e formativa nel campo industriale davvero straordinaria per i suoi
tempi.
3/2012 33
quanti appartenevano a queste masse popolari rimasero ancora per molti de-
cenni quasi esclusivamente legate agli studi seminaristici11.
D’altra parte anche nell’istruzione classica e tecnica i processi istruttivi non
davano molto spazio a un vero approfondimento; e la tendenza a formare “una
testa ben piena”, piuttosto che “una testa ben fatta”, era assai diffusa. Don Bo-
sco percepiva la necessità di curare una comunicazione efficace, che potesse
muovere quindi in modo reale i processi mentali e d’apprendimento. Per questo,
però, non solo i testi dovevano essere comprensibili e produttivi sul piano edu-
cativo ed istruttivo, in modo che gli studenti potessero avvantaggiarsene, ma
anche i metodi didattici dovevano ispirarsi al principio della valorizzazione e
stimolazione degli allievi, dando la massima attenzione a chi ne avesse più bi-
sogno. Ecco un accenno a principi oggi definiti di individualizzazione dell’inse-
gnamento, in un periodo in cui il numero degli allievi per classe era ben più nu-
meroso dell’attuale. «Generalmente i professori tendono a compiacersi degli al-
lievi, che primeggiano per studio e per impegno e spiegando mirano solo ad
essi. Quando i primi della classe hanno capito bene, sono pienamente soddi-
sfatti e così proseguono sino alla fine dell’anno. Invece con chi è corto di
mente o poco avanti nello studio, si adirano e finiscono con lasciarli in un can-
tone senza più curarsi di loro. Io invece sono di parere affatto opposto. Credo
che sia dovere di ogni professore tener d’occhio i più meschini della classe, in-
terrogarli più spesso degli altri, per loro fermarsi più a lungo nelle spiegazioni
e ripetere, finché non abbiano capito, adattare i compiti e le lezioni alla loro
capacità. Se l’insegnante tiene un metodo contrario a questo, non fa scuola agli
scolari, ma ad alcuni degli alunni. Per occupare convenientemente gli alunni di
ingegno più svegliato, si assegnino compiti e lezioni di supererogazione, pre-
miandoli con punti di diligenza. Piuttostoché trascurare i più tardi, si dispen-
sino da cose accessorie; ma le materie principali si adattino interamente a
loro»12. «E sono anche di parere che s’interroghi molto e molto, e, se possibile,
non si lasci passar giorno senza interrogare tutti. Da ciò si trarrebbero vantaggi
incalcolabili. Invece sento che qualche professore entra in classe, interroga uno
o due, e poi senz’altro fa la sua spiegazione. Questo metodo non lo vorrei nem-
meno nell’Università. Interrogare, interrogare molto, interrogare moltissimo:
quanto più si fanno parlare gli scolari, tanto più il profitto aumenta»13.
Oggi nei nostri Paesi i problemi dell’istruzione si pongono in forme del tutto
nuove. Gli orientamenti europei mettono l’accento sulla necessità che si svilup-
11
Cfr. STELLA P., Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), Roma, Las, 1980.
12
Cfr. CERIA E., Memorie biografiche, del beato Giovanni Bosco, Vol. 11, Torino, SEI, 1930,
p. 218.
13
Ibidem.
34 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
pino a tutti i livelli quelle competenze nel pensare e nell’agire sopra ricordate:
capacità di apprendere, comprendendo adeguatamente quanto accostato; capa-
cità di valorizzare quanto appreso per interpretare situazioni di studio, di vita
e di lavoro, affrontandone le questioni più rilevanti; capacità di comunicare ef-
ficacemente e di partecipare alla vita lavorativa, sociale e culturale con ade-
guate forme di autonomia e responsabilità personale. Spesso tuttavia persi-
stono modalità istruttive sia in ambito liceale, sia tecnico e professionale di na-
tura ripetitiva, poco approfondite e validate sul piano della crescita culturale e
professionale dei singoli.
La massa di notizie e di dati che giornalmente si riversa su ciascuno; il mol-
tiplicarsi delle fonti e dei sistemi di accesso alle informazioni; la pressione av-
volgente e coinvolgente dei mezzi di comunicazione di massa e personali; il
diffondersi di nuove tecnologie del lavoro e dell’organizzazione aziendale; la
mobilità lavorativa che inevitabilmente ne deriva: sono tutti elementi che sol-
lecitano una costruzione organica, significativa e stabile di sistemi di cono-
scenze, basati su categorie concettuali organizzate e organizzatrici. Accanto a
ciò va ricordato lo sviluppo di sistemi di capacità strumentali, tra le quali sono
centrali le capacità: di rappresentazione astratta e di riflessione critica; di co-
struzione di sistemi di significati, derivanti da quadri disciplinari orientati a
dialogare sul piano della realtà esperienziale ed operativa; di interiorizzazione
di sistemi di valori, coscientemente sperimentati e razionalmente assunti. Tutto
questo è ben lungi dall’essere adeguatamente impostato e soprattutto tradotto
in pratiche educative scolastiche reali.
■ 6. La ragione
educativo
come mezzo e finalità del processo
3/2012 35
su una impegnativa e seria «istruzione» religiosa ... Ragione significa, anzi-
tutto, razionalità, guida degli animi con la chiarezza delle idee e della verità e
non mediante la suggestione o la pressione emotiva”14.
Se la ragione appartiene da questo punto di vista all’ordine dei mezzi edu-
cativi, il suo uso sistematico ed equilibrato ha come effetto l’interiorizzazione
di questo modo di procedere e con ciò stesso lo sviluppo della capacità di ra-
gionare soprattutto in contesti pratici riceve un progressivo sostegno. Ragio-
nare con la propria testa, saper argomentare a difesa delle proprie posizioni, af-
frontare in modo valido e produttivo le situazioni difficili sono tutte condizioni
di difesa e salvezza in un ambiente che viene percepito ostile a scelte di vita
impegnative e autonome. E quindi appartengono all’ordine delle finalità educa-
tive.
Un altro elemento probabilmente è bene segnalare: il ruolo che una ragione
bene educata ha nello sviluppo morale del soggetto educando. Don Bosco ha
spesso associato il concetto di ragionevolezza con il problema dei castighi e
questi ultimi con la presa di coscienza delle proprie responsabilità nei compor-
tamenti non adeguati e quindi nel porvi rimedio. Egli raccomandava che nella
correzione fatta, o per il castigo minacciato, vi fosse sempre “l’avviso amiche-
vole e preventivo che lo ragiona, e per lo più riesce a guadagnare il cuore, co-
sicché l’allievo conosce la necessità del castigo e quasi lo desidera”15. “Si usi la
massima prudenza e pazienza per fare che l’allievo comprenda il suo torto colla
ragione e colla religione”16. L’uso della ragione anche in questo caso è mezzo di
interiorizzazione di una modalità essenziale di processi decisionali e di scelte
morali valide.
Appartiene d’altro canto alla tradizione pedagogica sottolineare l’uso della
ragione nel controllo e nella guida delle passioni. Queste sono come il motore,
l’energia vitale propulsiva dell’essere umano. Il compito non è reprimerle o
comprimerle, ottenendo magari effetti tragici sul piano dell’equilibrio perso-
nale; bensì dirigerle, canalizzarle verso finalità di valido sviluppo di sé e di pro-
duttivo impegno per gli altri e per la società. E qui si pone un gioco delicato di
transazioni tra educando ed educatore. In quanto la scelta e organizzazione di
un proprio progetto di vita vanno da un lato rispettati nella loro singolarità e
privatezza, dall’altro stimolati nel loro costituirsi e sostenuti nel loro svilup-
parsi. Don Bosco usa una frase singolarmente densa per designare questo inter-
scambio: “Amino (gli educatori, i «superiori») ciò che piace ai giovani e i gio-
vani ameranno ciò che piace ai Superiori”17. Specificando che non basta dedi-
14
BRAIDO P., Il sistema preventivo di don Bosco, Zürich, Pas Verlag, 1964, p. 63.
15
BOSCO G., Scritti pedagogici e spirituali, Roma, Las, 1987, p. 166.
16
Ibidem, p. 173.
17
Ibidem, p. 296.
36 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
carsi con tutto il proprio impegno al bene dei giovani, occorre: “Che essendo
amati in quelle cose che loro piacciono col partecipare alle loro inclinazioni in-
fantili, imparino a vedere l’amore in quelle cose che naturalmente loro piac-
ciono poco; quali sono la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi e
queste cose imparino a fare con amore”18.
■ 7. La ragione
educativo
e le altre dimensioni del processo
Don Bosco, d’altro canto, come già ricordato, accanto alla ragione sottoli-
neava gli altri due elementi di riferimento essenziali per il suo sistema educa-
tivo: la religione e l’amorevolezza. Era quindi sensibile ai pericoli di un ecces-
sivo, se non esclusivo, centrare sulla razionalità e non tener conto delle altre
dimensioni dell’esperienza umana. Era evidente nel suo modo di agire un’assun-
zione fondamentale: il cuore dell’educando si conquista con l’affetto e «l’amo-
revolezza », e non certo solo con gli argomenti della ragione. Ma la ragione,
come già ricordato, e la religione rimangono a guardia del rapporto affettivo e
della relazione educativa interpersonale. Il rapporto educativo, se è condizio-
nato dagli affetti che legano l’educatore all’educando e viceversa, non può e
non deve risolversi in tale stato di cose. Esso è finalizzato alla crescita umana,
personale e sociale, del soggetto e in definitiva a liberarlo dai possibili lacci
che tale rapporto può porre alle sue scelte libere e liberanti. L’esperienza di un
affetto adulto, rispettoso e disinteressato è essenziale per sviluppare un atteg-
giamento positivo verso i valori connessi con l’accettazione degli altri e la de-
dizione ad essi. Occorre però, che questa dimensione emozionale divenga ma-
tura e stabile: e questo è garantito da un’adeguata riflessione critica e presa di
coscienza e da conseguenti libere scelte ed esercizi operativi. Questa capacità
di assegnare valore non può essere solo guidata dal sentimento e da esperienze
soddisfacenti sul piano emozionale ed esistenziale.
Anche la religione ha bisogno della ragione. Come, d’altronde, la stessa ra-
gione e l’amorevolezza hanno bisogno della religione, intesa nel suo senso più
penetrante e profondo. Ogni religiosità ha come effetto da una parte l’attribuire
valore ad alcune componenti della vita e dell’esperienza umana e dall’altra rela-
tivizzare e porre confini alla volontà di potenza e di sopraffazione, che po-
trebbe derivare da una fiducia esagerata nella ragione o nelle emozioni. Ne de-
riva un senso delle proporzioni; si impediscono le illusioni prometeiche e le re-
lative catastrofiche delusioni. E con ciò permette di rimanere meglio agganciati
18
Ibidem, p. 294.
3/2012 37
alla complessità e per molti versi misteriosità del reale e consci della provviso-
rietà e relatività delle situazioni e soluzioni. Ma la ragione pone anche alla re-
ligione domande profonde ed esistenziali e ne cerca risposte che aiutino a vi-
vere anche là dove emergono ombre gravi e assurdità insopportabili. La fede re-
ligiosa deve allora rendere conto di se stessa, fornire le sue credenziali, anche
se è conscia dei limiti delle sue argomentazioni, per quanto logicamente coe-
renti. Essa deve soddisfare la fame di senso e di significato che emerge dall’e-
sistenza umana.
Una religione che aiuta a trovare le ragioni, il senso della vita, di tutte le
piccole e grandi cose che si fanno giorno per giorno, che aiuta a innalzarsi a
Dio. Una religione ragionevole, non bigotta, ritualistica, oppressiva e depri-
mente. La religione salesiana sembra essere una religione popolare, semplice,
che va all’essenziale («amore di Dio e amore del prossimo»), senza tanti fron-
zoli. Una liturgia e preghiere lunghe, incomprensibili non significative per i gio-
vani e per la gente, non si addicono al sistema preventivo. D’altra parte don Bo-
sco era «l’unione con Dio», viveva la quotidianità «come se sempre vedesse l’in-
visibile». Una fede che non è solo quella dei teologi, è anche quella della tra-
dizione, della gente comune che fa la carità, che fa servizio, volontariato. E una
ragione non è solo quella dei filosofi, è anche quella della letteratura, della ma-
tematica, della tecnica, del computer. Vedere queste forme di «ratio» alla luce
della fede, e non contro di essa, è importantissimo per il sistema preventivo.
Educare implica sollecitare e dare gli strumenti per convogliare le proprie aspi-
razioni ed energie interiori verso una prospettiva di vita che risulti ricca di
senso e di speranze per se stessi e per gli altri. Educare implica sostenere un
progressivo impegno responsabile nello scegliere e nello scegliersi in contesti a
volte pesantemente condizionanti e difficili.
■ Conclusione
Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate afferma: “La ragione ha sem-
pre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione
politica, che non può credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre
bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto
umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per l’u-
manità” (n. 56).
D’altra parte, le ricerche psicologiche degli ultimi decenni hanno messo in
luce la centralità nel pensiero e nell’azione di quella che è stata definita “in-
telligenza emotiva”: non solo la capacità di conoscere e gestire le nostre emo-
zioni ma anche l’importanza della spinta affettiva nello sviluppare validi ed ef-
38 RASSEGNA CNOS
STUDI e RICERCHE
ficaci processi cognitivi. In particolare nell’azione educativa, si manifesta una
particolare forma di affetto, di amore: un ricerca del bene altrui, che attiva, so-
stiene e dirige l’esplorazione attenta della domanda di formazione intellettuale,
professionale, etica e religiosa presente, la scelta concreta di progetti di inter-
vento e di forme di loro realizzazione, la costanza nel portarli a termine con co-
raggio e pazienza, nell’intessere un sistema di relazioni interpersonali valido e
rispettoso.
Come si vede l’intreccio tra “ragione, religione e amorevolezza” si evidenzia
sempre più come la piattaforma fondamentale di ogni impresa educativa e for-
mativa.
3/2012 39
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STUDI e RICERCHE
che dovrebbero caratterizzare i
percorsi di Istruzione
e Formazione Professionale:
coniugare in maniera valida ed efficace
apprendimento culturale e professionale
MICHELE PELLEREY1
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
65
04pellerey_03anni.qxd 11/06/13 13.02 Pagina 66
2004 al 2012 i giovani iscritti alla IeFP sono passati da 25.000 a più di 240.000,
di cui oltre 124.000 iscritti presso i CFP. Il nostro Paese comincia ad avere un si-
stema alternativo a quello scolastico, come nella maggioranza dei Paesi dell’Eu-
ropa. Dare più forza alla IeFP, come dimostra la Germania, significa fornire più
occasioni di lavoro ai giovani e maggiori opportunità di crescita alle imprese. L’o-
biettivo di questa Conferenza è quello di preparare, per il prossimo Governo, un’a-
genda già condivisa con le Regioni, le Parti sociali e gli operatori del settore: met-
tendo a regime l’IeFP il Paese potrà compiere il salto culturale di cui ha bisogno,
riconoscendo il valore formativo dell’alternanza scuola lavoro”.
Lo sviluppo notevole della frequenza dei corsi di Istruzione e Formazione
Professionale di quest’ultimo periodo sembra dovuto in gran parte alla loro at-
tuazione in regime di sussidiarietà presso gli Istituti Professionali di Stato. I
modelli attuativi prevalenti sembrano essere quelli di natura integrativa. Se-
condo quanto previsto dal regolamento e dall’accordo tra Stato e Regioni le ti-
pologie di offerta formativa sussidiaria previste sono infatti due: integrativa e
complementare. Per quanto riguarda l’offerta sussidiaria integrativa: “Gli stu-
denti iscritti ai percorsi quinquennali degli Istituti Professionali finalizzati al-
l’acquisizione dei Diplomi di Istruzione professionale possono conseguire, al
termine del terzo anno, anche i titoli di Qualifica professionale […] in relazione
all’indirizzo di studio frequentato, validi per l’assolvimento del diritto dovere al-
l’istruzione e alla formazione. A tal fine, nell’ambito del Piano dell’offerta for-
mativa, i competenti Consigli di classe organizzano i curricoli, nella loro auto-
nomia, in modo da consentire, agli studenti interessati, la contemporanea pro-
secuzione dei percorsi quinquennali,…”. Nel contesto invece dell’offerta sussi-
diaria complementare: “Gli studenti possono conseguire i titoli di Qualifica e Di-
ploma Professionale presso gli Istituti Professionali. A tal fine, gli Istituti Pro-
fessionali attivano classi che assumono gli standard formativi e la regolamenta-
zione dell’ordinamento dei percorsi di IeFP, determinati da ciascuna Regione
…”.
È evidente che l’attivazione di percorsi di IeFP nel contesto degli Istituti
Professionali di Stato, soprattutto in regime di sussidiarietà integrativa, pre-
senta decisivi vantaggi sul piano finanziario da parte delle Regioni, sia per
quanto concerne le spese per la docenza, sia per quanto riguarda le spese per
le attrezzature e il funzionamento. D’altra parte, in molte Regioni è venuta a
mancare negli anni, o non è mai esistita, una vera cultura della Formazione Pro-
fessionale iniziale, soprattutto là dove il tessuto industriale e commerciale non
è particolarmente sviluppato e interessato ad assorbire mano d’opera qualifi-
cata. In molte realtà regionali è mancata, poi, negli ultimi decenni un’adeguata
esperienza di corsi triennali regionali, volti al conseguimento di una qualifica
professionale. In questo contesto i docenti delle discipline culturali vengono re-
STUDI e RICERCHE
clutati tra i laureati e gli abilitati, indifferentemente rispetto alla loro colloca-
zione nei vari ordini di scuola secondaria superiore. Non deve, quindi, meravi-
gliare se i metodi di insegnamento attivati dai docenti tendano a essere gli
stessi presenti nell’area dell’istruzione tecnica o in quella liceale. Da molti non
viene percepita la differenza tra una formazione culturale da perseguire in un
settore più orientato direttamente a un inserimento nel mondo del lavoro ri-
spetto a un settore che prepara a proseguire gli studi non solo per conseguire
un diploma di Stato, ma anche per frequentare corsi universitari.
In questo contesto anche l’elevamento dell’obbligo di istruzione e la rela-
tiva certificazione delle competenze degli assi culturali può costituire una peri-
colosa sollecitazione alla omogeneizzazione dei percorsi sia sul piano contenu-
tistico, sia su quello metodologico. E ciò a danno sia della preparazione degli
studenti liceali ai fini degli studi da portare a termine nel triennio successivo,
sia di quella degli studenti del settore tecnico-professionale, sia, soprattutto, di
quelli orientati a conseguire solo una qualifica professionale. In realtà, l’intro-
duzione della certificazione delle competenze culturali a sedici anni segue la
tendenza sviluppatasi a livello europeo che, nel quadro di un obbligo istruttivo
fino a sedici anni, porta a identificare le conoscenze e le competenze fonda-
mentali necessarie a tutti, al fine di garantire una sufficiente partecipazione va-
lida e consapevole alla vita cittadina, sociale e professionale. E ciò indipen-
dentemente dal particolare ordine o tipologia di scuola o di percorso formativo
seguito.
La notevole presenza nei percorsi di istruzione professionale di bocciature e
abbandoni può certamente essere attribuita a molti fattori. Tra questi, si può ri-
cordare la tendenza, sviluppata a partire dalla fine degli anni Ottanta, inizio di
quelli Novanta del secolo scorso, diretta a promuovere da una parte una note-
vole presenza dell’area culturale a scapito di quella professionale e, dall’altra, a
prolungare fino a cinque anni i percorsi formativi previsti. Certo, molte ricerche
tendono ad attribuire al segmento scolastico precedente, quello secondario di
primo grado, molte delle debolezze persistenti, ma ciò non toglie l’esigenza di
accogliere e accompagnare in maniera adeguata gli studenti, anche i più deboli,
a raggiungere quei traguardi di cittadinanza e di professionalità che dovrebbero
costituire i riferimenti essenziali della certificazione della competenze al ter-
mine dell’obbligo istruttivo e a fornire in tempi ragionevoli qualificazioni spen-
dibili nel mercato del lavoro.
Ciò risulta ancor più evidente dal fatto che il livello di certificazione delle
competenze relativo alla fine dell’obbligo istruttivo e la successiva qualifica
professionale dovrebbero corrispondere rispettivamente al secondo e al terzo li-
vello del Quadro Europeo delle Qualificazioni. La Conferenza Stato-Regioni del
20 dicembre 2012 ha adottato, infatti, una tabella di corrispondenza tra i titoli
67
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Nel seguito del discorso viene valorizzato come quadro di riferimento gene-
rale il modello proposto da I. Nonaka e H. Takeuchi2 per descrivere le complesse
dinamiche che stanno alla base della creazione e diffusione delle conoscenze e
delle competenze nelle organizzazioni, adattandolo al nostro caso. Essi partono
dalla distinzione tra conoscenze esplicite e conoscenze tacite. La conoscenza
esplicita è la conoscenza che è possibile esprimere in un linguaggio formale, in
2
POLANYI M., The Tacit Dimension, Chicago, University of Chicago Press, 2009; POLANYI
M., La conoscenza personale, Milano, Rusconi, 1990; NONAKA I., A dynamic Theory of Organi-
zational Knowledge Creation, Organization Science, 1994, 1, pp. 14-37; NONAKA I. - TAKEUCHI
H., The knowledge creating company, Oxford, Oxford University Press, 1995.
STUDI e RICERCHE
frasi che osservano le regole della grammatica, espressioni matematiche, defi-
nizioni tecnologiche, manuali. La conoscenza tacita è costituita dalla cono-
scenza personale, radicata nell’esperienza di ciascun uomo, e include credenze
e prospettive, sistemi di valori, cioè elementi informali. La creazione e diffu-
sione della conoscenza in un’organizzazione consiste nel portare non solo la co-
noscenza esplicita, ma soprattutto la conoscenza tacita, interiorizzata da cia-
scun individuo e acquisita attraverso le proprie esperienze, verso una dimen-
sione sociale diffusa, che permetta di considerarle come patrimonio cognitivo e
operativo comune, attraverso opportune forme comunicative.
I processi identificati da Nonaka e Takeuchi sono quattro e il diagramma di
Fig. 1 permette di coglierne la dinamica. In questo contributo essi verranno ri-
letti sotto il profilo del trasferimento di conoscenze e di competenze, che deve
essere promosse all’interno dei percorsi di Istruzione e Formazione Professio-
nale.
69
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3
Molte volte un lavoratore, o uno studente, non riesce a comunicare le proprie conoscenze
e competenze in forme linguistiche adeguate, come è risultato evidente in alcuni tentativi di cer-
tificazione degli apprendimenti acquisiti in contesti non formali o informali realizzati nella Re-
gione Veneto.
■ scenze
STUDI e RICERCHE
3. Da conoscenze e competenze esplicite a cono-
e competenze esplicite
4
Il metodo era stato prospettato negli anni trenta da E. Claparède e poi utilizzato sistema-
ticamente da H. Simon nelle ricerche degli anni ottanta e novanta sui processi di pensiero, in
particolare di problem solving. Il testo classico descrittivo delle forme di apprendistato cognitivo
è: COLLINS A. - BROWN J.S. - NEWMAN S.E., Cognitive apprenticeship: Teaching the craft of rea-
ding, writing and mathematics, Cambridge, BBN Laboratories, 1987.
71
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Fig. 2 - Quadro sintetico dello sviluppo delle competenze secondo l’approccio socio-cognitivo
5
DIEZ R. - SARTON L., Transférer les compétences, Paris, Eyrolles, 2012.
6
Idem, 65.
7
Idem, 67
STUDI e RICERCHE
dalità concrete di collaborazione, sia i criteri di valutazione dei progressi e/o
del conseguimento del livello di competenza prefigurato. Nell’interazione è più
utile indicare come conviene agire, più che dire cosa si deve fare o cosa non si
dovrebbe fare. Gli autori suggeriscono la figura del mentore come quella più
adatta a descrivere il maestro. Vengono, quindi, descritte la caratteristiche del
mentore, come quelle dell’apprendista, che facilitano l’effettuazione del trasfe-
rimento. La Fig. 3 riassume le condizioni di riuscita di un trasferimento di co-
noscenze e competenze tacite, evidenziando le caratteristiche che deve posse-
dere sia l’esperto che guida il transfer, sia il soggetto che ne è il destinatario,
nonché il contesto nel quale ciò avviene. Anche l’organizzazione deve possedere
alcune caratteristiche precise.
73
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periore per mezzo di apporti di natura teorica e di confronti con parallele si-
tuazioni operative. In altre parole, va valorizzato in maniera sistematica il ciclo
di apprendimento esperienziale delineato dal grafico di Fig. 4.
Ciò non può essere realizzato se non in un percorso formativo in cui l’atti-
vità laboratoriale e il coinvolgimento in esperienze professionali dirette ab-
biano un ruolo centrale e una chiara finalizzazione verso l’acquisizione delle
competenze necessarie ad assumere il ruolo prefigurato da una figura professio-
nale specifica. Contemporaneamente, deve essere alimentata una valida e ade-
guata concettualizzazione dell’esperienza e arricchito l’insieme delle cono-
scenze scientifiche-tecnologiche che ne permettano una migliore comprensione
e riprogettazione operativa.
■ 6. scenze
Da conoscenze e competenze esplicite a cono-
e competenze tacite
8
Un interessante approfondimento del concetto di abito come perno del processo educa-
tivo e formative è stata sviluppato da Massimo Baldacci nella sua opera Trattato di pedagogia ge-
nerale (Roma, Carocci, 2012), soprattutto nel quarto capitolo.
STUDI e RICERCHE
intorno all’idea di una qualità propria della persona acquisita attraverso l’eser-
cizio, qualità che però viene distinta dalla sua messa in pratica. Non basta pos-
sedere una disposizione ad agire e ad agire bene, occorre di fatto voler agire e
voler agire bene. Quando le due cose, attraverso la pratica, si saldano tra loro,
è facile che, data l’occasione o la sollecitazione di una situazione, ci si impegni
immediatamente ad agire senza un particolare ulteriore processo decisionale.
Ciò, evidentemente, se non si frappongono impedimenti specifici.
Secondo Tommaso d’Aquino la natura umana possiede in sé le potenzialità
richieste per sviluppare tali qualità, ma senza un agire ripetuto e coerente tali
potenzialità non si traducono in effettive disposizioni stabili della persona.
Queste qualità in un linguaggio moderno potremmo definirle anche abilità pra-
tiche consolidate; tuttavia, se esse sono unite a un patrimonio conoscitivo con-
gruente che consente di interpretare correttamente le esigenze poste dalle va-
rie situazioni di studio, di lavoro o di vita quotidiana per affrontarle in maniera
valida ed efficace, esse possono essere denominate competenze. In effetti, una
competenza si manifesta perché si riesce ad attivare in maniera coerente il pro-
prio patrimonio di conoscenze e di abilità consolidate di fronte alle esigenze
delle varie situazioni sfidanti.
Se lo sviluppo di abiti sia intellettuali, sia morali, sia pratici e motori im-
plica apprendimento, e un apprendimento sviluppato tramite esercizio9, oc-
corre anche ricordare che ogni apprendimento si fonda sull’esperienza, un’e-
sperienza che è un incontro, talora un dialogo, tra la persona agente e una si-
tuazione che la sfida. Ne deriva una scelta, o decisione, la cui qualità e vali-
dità dipendono da una parte dalla persona stessa che è in grado di rispondere
all’appello esterno mettendo in gioco se stessa e il suo mondo interiore, dal-
l’altra, dalla rispondenza effettiva alle esigenze e circostanze presenti nella si-
tuazione. L’esperienza attraverso cui passa la persona ha, o può avere, sia una
risonanza affettiva, sia una sollecitazione alla sua riflessione. Una risonanza
emozionale la cui valenza positiva o negativa sollecita la ricerca del perché di
tale reazione affettiva e il tentativo di darne un senso. Una attribuzione di
senso che può derivare anche da quella che Jarvis chiama esperienza secon-
daria, cioè la comunicazione sia personale, sia socio-culturale che la facilita e
la orienta10.
9
Occorre osservare come a causa della poca famigliarità che si ha con i concetti di abito
mentale e abito di lavoro, queste modalità operative possano essere interpretate, erroneamente,
come forme di abitudine ripetitiva; per questo, spesso è preferibile parlare di competenze, anche
se molte volte si tende, anche in questo caso erroneamente, a designare con esse modalità di un
saper fare poco consapevole delle implicazioni conoscitive e critiche necessarie e poco flessibile
nell’interpretare e affrontare le situazioni variabili.
10
JARVIS P., Learning to be a person in society, London, Routledge, 2009.
75
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■ 7. conoscenze
Promuovere in maniera integrata lo sviluppo di
culturali, o saperi, e di competenze
professionali
STUDI e RICERCHE
quanto prefigurato. In altre parole entra in gioco quella qualità personale che
passa sotto il nome di “volizione”, cioè l’essere in grado di tener testa alle pos-
sibili frustrazioni, distrazioni, sollecitazioni contraddittorie, motivazioni alter-
native, stanchezze, ecc. che possono non solo interferire nell’attività, ma addi-
rittura impedire che si riesca a portare a termine l’impegno preso.
Le considerazioni precedenti portano a centrare l’attenzione sulla persona
considerata nelle sua totalità, soprattutto perché i percorsi formativi dell’IeFP ri-
guardano soggetti adolescenziali per i quali è essenziale cercare di consolidare
quegli apporti culturali ed educativi che coltivano lo studente sia come persona,
sia come cittadino, sia come lavoratore. E ciò in maniera coordinata e integrata
con le esperienze di natura professionale, perché la coltivazione dell’animo umano
esige una visione armonica di quanto offerto dai processi formativi.
D’altra parte, occorre anche in questi percorsi formativi riconoscere che esi-
stono apporti educativi meno direttamente e immediatamente spendibili, ma
certamente fondamentali per arricchire la persona da molti punti di vista. Una
genuina esperienza dei beni dello spirito (il vero, il bene, il bello, il giusto) im-
plica lo sviluppo di uno spazio interiore, che permetta nel tempo di penetrare
sempre più in profondità il loro valore e di coglierne sempre meglio la connes-
sione con il senso e la prospettiva della propria esistenza. Occorre cioè, che la
coltivazione dello spirito sia chiaramente perseguita dalla frequentazione di di-
scipline culturali che aiutano la crescita in tale direzione. È questa la vocazione
fondamentale dell’impianto sotteso agli assi culturali, tutti ingredienti indi-
spensabili per lo sviluppo della persona umana.
I suggerimenti metodologici presentati sommariamente nei paragrafi prece-
denti possono allora offrire piste operative assai utili per progettare e realizzare
percorsi di IeFP coerenti con il quadro di finalità che dovrebbero caratterizzarli,
sia che essi si attuino nei Centri che fanno riferimento alle Regioni, sia che essi
lo siano negli Istituti professionali di Stato.
77
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11
Sono i criteri individuati nei lavori preparatori in vista della redazione della Raccomanda-
zione europea sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente. Cfr. PELLEREY M.,
Competenze. Il ruolo delle competenze nei percorsi educativi scolastici e formativi, Napoli, Tecno-
did, 2011, p. 74.
12
A questa tematica è stata dedicata da parte del CNOS-FAP una ricerca di cui si dà conto
nell’articolo: PELLEREY M., Imparare a dirigere se stessi nello studio e nel lavoro, in «Rassegna
CNOS», XXVIII(2012), 2, pp. 97-110. «Dirigere se stessi nel proprio apprendimento culturale
e/o professionale può essere riletto secondo due prospettive complementari, integrando tra loro
i concetti di autodeterminazione e di autoregolazione. Con il termine “autodeterminazione” si
segnala la dimensione della scelta, del controllo di senso e di valore, della intenzionalità dell’a-
zione: è il registro della motivazione, della decisione, del progetto, anche esistenziale. Con il ter-
mine “autoregolazione”, che evoca monitoraggio, valutazione, pilotaggio di un sistema d’azione
si insiste di più sul registro del controllo strumentale dell’azione […]. Al primo livello, nel dare
senso, finalità, scopo all’azione. ci si colloca sul piano del controllo di tipo “strategico”, che
mette in evidenza la componente motivazionale, di senso, di valore. Al secondo livello si ri-
chiede, invece, di sorvegliare la coerenza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il fun-
zionamento o pilotarla; si tratta di un livello “tattico”» (PELLEREY M., Dirigere il proprio appren-
dimento, Brescia, La Scuola, 2008, p. 8).
STUDI e RICERCHE
A questo fine emerge la centralità dello sviluppo di un ambiente formativo
che garantisca la presenza di autentiche forme di apprendistato sia sociale, sia
culturale, sia professionale. In altre parole, aiutare ciascuno a sviluppare le
competenze culturali e professionali intese dai profili descrittivi di qualifiche e
diplomi, valorizzando i suggerimenti provenienti da quanto precedentemente
esplorato e, in particolare, le quattro forme di attività formative incluse nel mo-
dello ispirato alle proposte di Nonaka e Takeuchi, specialmente per ciò che si ri-
ferisce all’apprendistato sia cognitivo, sia pratico e allo sviluppo di abiti di stu-
dio, di lavoro e di relazioni sociali valide ed efficaci. La qualità dell’ambiente
formativo, dei suoi docenti, dei suoi laboratori, del sistema di relazioni inter-
personali e istituzionali attivato, dell’apertura al mondo del lavoro e delle sue
evoluzioni, delle pratiche educative messe in atto quotidianamente, costitui-
scono il primo e fondamentale influsso formativo che orienta e dà senso e pro-
spettiva ai giovani che ne partecipano quotidianamente e aiuta il loro poten-
ziamento personale.
In questo contesto, occorre favorire lo sviluppo di relazioni produttive tra
allievo e artefatti culturali (lingue, disegno tecnico, matematica, scienze, tec-
nologia, …) e tra allievo e strumenti tecnologici (generali e caratterizzanti
l’ambito professionale), attraverso una pratica guidata in vista dell’acquisizione
di una adeguata e sicura famigliarità nell’usarli dai vari punti di vista possibili.
Si tratta di guidare la sviluppo di competenze intese come abiti, cioè come di-
sposizioni stabili a pensare e agire in maniera valida e produttiva, autonoma e
responsabile, sia dal punto di vista personale, sia culturale e professionale. Ba-
sti citare, a esempio, gli abiti di lavoro che possono garantire per sé e per gli
altri condizioni di sicurezza e di salute. Da questo punto di vista ogni comunità
formativa dovrebbe promuovere una cultura educativa pratica che interpreti in
maniera valida e significativa quanto descritto nel quadro delle competenze cul-
turali e professionali che caratterizzano qualifiche, diplomi professionali e for-
mazione professionale superiore.
Infine, va favorita la transizione tra ambiente formativo e ambiente di la-
voro in forme che ne garantiscano una maggiore continuità, nonostante l’inevi-
tabile distanza che esiste tra qualificazione raggiunta una volta concluso il per-
corso formativo di qualifica, o di diploma, ed esigenze poste da uno specifico
posto di lavoro. Quanto sopra richiamato sul ruolo dell’apprendimento delle co-
noscenze e competenze tacite e delle modalità di attuazione di forme valide ed
efficaci di apprendistato anche nel contesto della Formazione Professionale ini-
ziale, deve essere esteso alle aziende che devono accogliere i qualificati o di-
plomati. Si costruirebbe così la base di una continuità di natura metodologica
più che banalmente operativa. Questo è un capitolo di riflessione e progetta-
zione estremamente impegnativo. Non basta parlare di alternanza, di stages in
79
04pellerey_03anni.qxd 11/06/13 13.03 Pagina 80
azienda, ecc. Occorre prefigurare un sistema che almeno nella sua concezione di
base risulti come “duale”, in cui quanto promosso nell’istituzione formativa e
quanto sperimentato in un contesto lavorativo abbiano nel tempo un equilibrio
progressivamente orientato a promuovere esperienze vive di tipo lavorativo
reale, e non solo simulato, aperte alle esigenze poste dall’evoluzione tecnolo-
gica e organizzativa futura e a un apprendimento professionale che si estenda
lungo tutto l’arco della vita.
Riferimenti bibliografici
STUDI e RICERCHE
una competenza chiave per
l’apprendimento permanente
Dieci anni di riflessioni critiche
e propositive a livello europeo e italiano
MICHELE PELLEREY1
■ 1. formativi
Una dimensione fondamentale dei processi
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università pontificia Salesiana di Roma.
41
più grandi e potenti si era già sviluppato in molti ambiti di ricerca e di lavoro,
soprattutto da quando alle valvole erano stati sostituiti i transistor. In quegli
stessi anni Settanta erano state non solo introdotte nel mondo del lavoro le
macchine utensili a controllo numerico, ma anche la possibilità di simularne il
lavoro tramite computer da ufficio come la P6060 della stessa Olivetti. Gli uf-
fici iniziavano a usare computer non solo per la contabilità, ma anche per la
scrittura tramite le prime macchine da scrivere elettroniche, sempre dell’Oli-
vetti. L’esplosione si ebbe negli anni Ottanta in particolare nel mondo della
stampa, giungendo prima a invadere l’ambito della composizione dei testi, poi
delle immagini, infine dello stesso processo di stampa. Oggi l’uso di smartphone
e di tablet ha reso mobili tali strumenti informatici, che prima erano, come si
usa dire, fissi, in quanto collocati in un posto fisso, anche a causa dei nume-
rosi collegamenti necessari. Le prospettive nel mondo del lavoro, dello studio,
del tempo libero sono ormai tali che si è dovuto pensare a definire una nuova
dimensione fondamentale dell’apprendimento permanente: la competenza digi-
tale, competenza che per sua natura penetra e informa molte delle altre com-
petenze fondamentali necessarie al cittadino e al lavoratore.
Parallelamente a questa progressiva diffusione e penetrazione della strumen-
tazione informatica nell’ambito dello studio e del lavoro ci si è domandato: quali
conseguenze tutto ciò avrebbe potuto comporre sul piano personale, educativo,
culturale, sociale, professionale. A esempio: a livello educativo il passaggio da
una lettura basata su testi stampati a testi letti su schermi digitali quali conse-
guenze può comportare sul piano cognitivo e dell’apprendimento? dal punto di
vista del lavoro, quali problemi occupazionali, sia quantitativi, sia qualitativi,
può avere la transizione a un modo dominato da tecnologie digitali, in partico-
lare mobili? dal punto di vista etico e legale, oltre che culturale, quali conse-
guenze derivano dalla possibilità di comunicare senza limiti in un mondo globa-
lizzato? Le domande tendono a moltiplicarsi e ad estendersi a tutto lo spettro
dell’esperienza umana: materiale e spirituale. Diventa dunque importante esami-
nare criticamente le indicazioni offerte dalle politiche pubbliche, europee e ita-
liane, che sono state avanzate sul piano dei processi formativi al fine di favorire
un potenziamento della persona umana nel saper far fronte a tali trasformazioni,
per molti versi spesso in contraddizione con le tradizionali modalità educative.
Nel 2006 veniva approvata a livello Europeo una Raccomandazione che in-
cludeva un quadro delle competenze chiave per l’apprendimento permanente. La
43
istruzione e al termine dell’obbligo istruttivo. Le indicazioni nazionali per il
primo ciclo di istruzione, 14 anni, nel profilo finale delle competenze che do-
vrebbe avere raggiunto ciascuno studente, così si esprimono:
“Lo studente ha buone competenze digitali, usa con consapevolezza le tecnologie della co-
municazione per ricercare e analizzare dati e informazioni, per distinguere informazioni at-
tendibili da quelle che necessitano di approfondimento, di controllo e di verifica e per inte-
ragire con soggetti diversi nel mondo”.
STUDI e RICERCHE
Un progetto europeo di approfondimento della
della competenza digitale
2
FERRARI A., Digital competence in practice: An analysis of frameworks: http://ipts.jrc.ec.
europa.eu/publications/pub.cfm%3Fid%3D5099.
3
ALA-MUTKA K., Conceptual mapping of digital competence in the academic and policy lite-
rature: http://ipts.jrc.ec.europa.eu/publications/pub.cfm?id=4699. FERRARI A., Analysis of case
studies for the development of digital competence: http://ipts.jrc.ec.europa.eu/publications/
pub.cfm?id=5099. JANSSEN J. - STOYANOV S., Opinions of experts collected during an online con-
sultation: http://ipts.jrc.ec.europa.eu/publications/pub.cfm?id=5339.
4
CARIOLI S., Dallo sviluppo del concetto di competenza digitale alle nuove prospettive in
chiave operativa su cosa significhi, oggi, essere digitalmente competente, Orientamenti Pedago-
gici, 61(2014), in corso di stampa. Dal lavoro della Cairoli sono stati tratti ampi sviluppi per la
redazione del terzo e del quarto paragrafo.
45
Figura 1 - Mappa delle 12 aree che costituiscono la competenza digitale (cfr. Carioli, 2014)
F. Privacy e sicurezza
Ha la capacità di proteggere i dati personali e di adottare opportune misure
di sicurezza.
Comprende i rischi associati all’uso dell’online e all’incontro con persone
sconosciute. È consapevole dei problemi di privacy implicati nell’utilizzo di In-
ternet/Internet mobile ed è in grado di agire con prudenza. Sa proteggere se
stesso dalle minacce del mondo digitale (frode, malware, virus, ecc.), com-
prende il rischio del furto di identità e delle proprie credenziali di accesso ed è
in grado di adottare misure per ridurre tali rischi.
Sa che molti servizi interattivi utilizzano le informazioni fornite per filtrare
messaggi commerciali in modi più o meno espliciti.
47
G. Aspetti legali ed etici
Si comporta adeguatamente e in modo socialmente responsabile, dimo-
strando conoscenza e consapevolezza delle regole e degli aspetti etici connessi
all’uso delle TIC e dei contenuti digitali.
Nello specifico, è in grado di comunicare e collaborare online con gli altri
adottando un codice di comportamento adeguato al contesto. Tiene in conside-
razione le normative e i principi etici connessi all’utilizzo e alla pubblicazione
delle informazioni. Comprende le norme sul copyright e sulle regole di licenza e
sa che ci sono diverse modalità di distribuzione di un’opera e diverse licenze
che tutelano la proprietà intellettuale e la cessione dei diritti d’autore; capisce
le differenze tra l’utilizzo del diritto d’autore, le licenze di dominio pubblico, il
copyleft e/o le licenze Creative Commons.
49
3) Comunicazione: si riferisce alle conoscenze, alle abilità e ai comportamenti
necessari per comunicare attraverso strumenti on-line, tenendo conto della
privacy, della sicurezza e della “netiquette”.
4) Creazione di contenuti e di conoscenze: prende in considerazione l’espres-
sione della creatività e la costruzione di nuove conoscenze attraverso la
tecnologia e i media, ma anche integrazione e rielaborazione delle cono-
scenze e dei contenuti e loro diffusione attraverso mezzi online.
5) Etica e responsabilità: include gli atteggiamenti, le conoscenze e le abilità
necessari per comportarsi in modo eticamente corretto, responsabile e con-
sapevole delle cornici legali.
6) Valutazione e problem solving: è intesa generalmente come l’identificazione
della giusta tecnologia e/o dei giusti media per risolvere un problema o per
completare un compito e come valutazione sia delle informazioni recuperate
che del prodotto mediatico consultato.
7) Operatività tecnica: si riferisce alle conoscenze, alle abilità e ai comporta-
menti necessari per un uso efficace, efficiente, sicuro e corretto delle tec-
nologie e dei media.
Le aree di competenza individuate si riferiscono a conoscenze, abilità e at-
teggiamenti, ma allo stato attuale l’attenzione è concentrata principalmente
sulle conoscenze e sulle abilità, mentre gli atteggiamenti sembrano giocare un
ruolo secondario a causa del forte intreccio con le altre due componenti che li
rende difficili da isolare in ambito valutativo o certificativo. I livelli sono stati
sviluppati secondo tre criteri: a) età degli studenti; b) ampiezza o profondità
del contenuto; c) complessità cognitiva. Tutti e tre i criteri hanno la loro im-
portanza e, allo stesso tempo, essi si non dovrebbero essere considerati tra-
sversalmente, ma essere differenziati tra le aree di competenza. In sostanza,
colui che apprende dovrebbe essere incoraggiato a lavorare a diversi livelli e in
ciascuna delle aree di competenza.
■ 5. digitali
Il rapporto finale e il quadro delle competenze
risultante
5
FERRARI A., DIGCOMP: A Framework for Developing and Understanding Digital Compe-
tence in Europe, http://ipts.jrc.ec.europa.eu/publications/pub.cfm%3Fid%3D6359
51
sere consapevole dei diversi aspetti culturali, essere abile nel proteggere se
stesso e gli altri da possibili pericoli online (es. cyber bullying), sviluppare
strategie attive per scoprire comportamenti inappropriati.
2.6 Gestire l’identità digitale: creare, adattare e gestire una o molteplici
identità digitali, essere capace di proteggere la propria reputazione; gestire
sia dati che prodotti attraverso molteplici accounts e applicazioni.
3) Creazione di contenuti: creare ed editare nuovi contenuti (da testi elabo-
rati digitalmente a immagini e video), integrare e rielaborare conoscenze
precedenti e contenuti, produrre espressioni creative, prodotti multimediali
e programmi, tener conto e applicare le questioni di proprietà intellettuale
e le licenze. Questa area comprende quattro competenze specifiche.
3.1 Sviluppare contenuti: creare contenuti di diverso formato, inclusi i mul-
timediali, editare e migliorare contenuti creati da sé o dagli altri, esprimersi
creativamente attraverso i media digitali e le tecnologie.
3.2 Integrare e rielaborare: modificare, rifinire e integrare risorse esistenti
per sviluppare nuovi, originali e rilevanti contenuti e conoscenze.
3.3 Copyright e licenze: comprendere come si applicano al caso dell’informa-
zione e del contenuto copyright e licenze.
3.4 Programmazione: utilizzare installazioni, modifiche dei programmi, uti-
lizzo dei programmi, del software, degli strumenti per capire i principi della
programmazione, comprendere che cosa c’è dietro un programma.
4) Sicurezza: protezione personale, protezione dei dati, protezione dell’iden-
tità digitale, misure di sicurezza, usi sicuri e sostenibili. Questa area com-
prende quattro competenze specifiche.
4.1 Proteggere gli strumenti: proteggere i propri strumenti e capire i rischi e
le minacce online, conoscere le misure da adottare per la sicurezza.
4.2 Proteggere i dati personali: comprensione dei termini comuni di un ser-
vizio; attiva protezione dei dati personali; comprensione dell’altrui privacy;
proteggere se stessi dalle frodi online, dalle minacce e dal bullismo infor-
matico (cyber).
4.3 Proteggere la salute: evitare i rischi per la salute nell’uso della tecnolo-
gia in termini di minacce al benessere fisico e psicologico.
4.4 Proteggere l’ambiente: essere consapevoli dell’impatto delle ICT sull’am-
biente.
5) Problem solving: identificare bisogni e risorse digitali, prendere decisioni
su quali siano i più adatti strumenti digitali sulla base delle finalità e dei
bisogni, risolvere questioni concettuali mediante strumenti digitali, uso
creativo delle tecnologie, risolvere problemi tecnici, aggiornare le proprie
e altrui competenze. Questa area comprende quattro competenze specifi-
che.
■ 6. italiana
Le risonanze di tali indagini nella riflessione
6
CALVANI A., Competenze digitali nella scuola. Modelli e strumenti per valutarla, Trento.
Erickson, 2010.
53
La dimensione cognitiva riguarda la capacità di leggere, selezionare, inter-
pretare e valutare dati, costruire modelli astratti e valutare informazioni consi-
derando la loro pertinenza e affidabilità. Vengono segnalati tre indicatori prin-
cipali: capacità di reperimento e selezione dell’informazione; valutazione cri-
tica; organizzazione, sistematizzazione.
La dimensione etica evoca la responsabilità sociale nel sapersi porre nei rap-
porti con gli altri, rispettandone i diritti e comportandosi in maniera positiva
nel cyberspazio anche tenendo conto della tutela personale.
Recentemente egli si è confrontato con i vari contributi derivanti dall’inda-
gine europea, giungendo alla conclusione che il suo modello poteva ben colle-
garsi con quanto da essa proposto, soprattutto se ci si riferisce ai processi edu-
cativi e formativi propri del Sistema italiano di Istruzione e Formazione7. In ef-
fetti, il quadro da lui delineato si presta bene a sviluppare anche un sistema di
valutazione di tali competenze8.
■ 7. Conclusione
Ma la questione fondamentale, che deriva tutto quanto finora elaborato
come quadro di riferimento per l’azione formativa, riguarda la progettazione e
la diffusione delle pratiche educative che sia la Scuola, sia l’Istruzione e For-
mazione Professionale possono o debbono realizzare per sviluppare tali compe-
tenze, pratiche che manifestano un’adeguata efficacia. Essa, d’altra parte, si
deve porre secondo due diverse prospettive di analisi e di verifica: a) esaminare
l’efficacia di tali pratiche nel favorire i processi di apprendimento collegati alle
varie discipline di studio, in altre parole quanto le tecnologie digitali favori-
scono l’apprendimento rispetto ad altre forme di azione didattica; b) conside-
rare l’efficacia di tali pratiche nel promuovere le fondamentali competenze digi-
tali individuate nella prospettiva sia di una cittadinanza attiva e partecipativa,
sia di una preparazione fondamentale dal punto di vista professionale e lavora-
tivo. L’importanza di tale distinzione deriva da alcuni degli attuali riscontri em-
pirici. Recenti indagini internazionali tendono a evidenziare alcune criticità nel-
l’introdurre le tecnologie informatiche, e in particolare le tecnologie mobili,
nell’apprendimento di materie altamente strutturate come la matematica e il
leggere e lo scrivere; mentre l’effetto sullo sviluppo di specifiche competenze
7
CALVANI A., La competenza digitale: per un modello pedagogicamente significativo, Tec-
nologie didattiche, 21(2013), 3, 132-140.
8
CALVANI A. - FINI A. - RANIERI M., Valutare la competenza digitale, Trento, Erickson, 2011.
9
A questo proposito si possono citare alcune rassegne critiche: RANIERI M., Le insidie del-
l’ovvio, Tecnologie educative e critica della retorica tecnocentrica, Pisa, Edizioni ETS, 1012; PER-
SICO D. - MIDORO V., Pedagogia nell’era digitale, Ortona, Edizioni Menabò, 2013.
10
In gran parte dei Paesi europei l’insegnante di una disciplina scolastica rimane nella pro-
pria aula dedicata a tale insegnamento e sono gli studenti che passano da un’aula all’altra du-
rante l’attività didattica.
55
In questo quadro il primo e più assoluto obiettivo formativo che si eviden-
zia, però, è quello di aiutare ciascuno a sviluppare la capacità fondamentale di
progettare, gestire e valutare se stesso. Si tratta dell’autonomia personale e
quindi della capacità di autodeterminazione e di autoregolazione di sé, secondo
un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, verso la co-
munità, verso l’ambiente sociale e naturale. E ciò anche nello studio, nell’ap-
prendimento, nel lavoro, nei rapporti sociali11.
11
A questa problematica sono state alcune ricerche condotte dal CNOS-FAP negli ultimi
anni: BAY M. - GRZA˛DZIEL D. - PELLEREY M., Promuovere la crescita nelle competenze strategiche
che hanno le loro radici nelle dimensioni morali e spirituali della persona, Roma, CNOS-FAP,
2010; PELLEREY M. et al., Imparare a dirigere se stessi, Roma, CNOS-FAP, 2013.
(Segue)
57
STUDI e RICERCHE
(Segue)
Oltre il costruttivismo?
PROGETTI e ESPERIENZE
Verso una progettazione didattica
sensibile alle caratteristiche
degli studenti e alle esigenze
dei contenuti da apprendere,
secondo un approccio
costruttivista cognitivo
MICHELE PELLEREY1
■ 1. Introduzione
Norberto Bottani in un suo recente volume2 afferma che lo scontro tra pe-
dagogisti e insegnanti, che fanno riferimento alle teorie costruttiviste, e coloro
che vengono definiti, spesso in modo dispregiativo, come tradizionalisti “è reso
più acuto dall’irruzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comu-
nicazione, ossia dalla diffusione di nuovi mezzi che possono servire per poten-
ziare una corrente o l’altra”. Poco dopo afferma che: “Resta il fatto che nem-
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
BOTTANI N., Requiem per la scuola, Bologna, Il Mulino, 2013, 140.
77
06pellerey_03anni.qxd 18/06/14 09.39 Pagina 78
3
Ibidem, 141.
4
Di tali convegni o seminari di studio sono stati finora pubblicati i seguenti atti: CORBI E. -
OLIVERIO S. (a cura di), Realtà tra virgolette? Nuovo realismo e pedagogia, Lecce, Pensa Multimedia
Editore, 2013; CORBI E. - OLIVERIO S. (a cura di), Oltre la Bildung postmoderna? La pedagogia tra
istanze costruttiviste e orizzonti post-costruttivisti, Lecce, Pensa Multimedia Editore, 2014.
5
LICHTNER M., Vygotsky e la teoria dell’attività nella ricerca educative, in Scuola democratica,
2013, 1, 33-55.
6
In questa luce, a mio avviso, andrebbero lette e interpretate le varie teorie sull’apprendi-
mento proposte nel corso dei decenni passati: dall’associazionismo, al comportamentismo, al co-
gnitivismo, al costruzionismo, alle vare forme di costruttivismo.
PROGETTI e ESPERIENZE
La gestione degli apprendimenti”7. Nella Prefazione del volume Barak Rosen-
shine riassume la tesi fondamentale sostenuta dall’opera. Egli richiama l’esito
degli studi realizzati nel corso dei decenni passati sulla natura delle pratiche
sviluppate in classe dagli insegnanti più efficaci. Egli poi si ricollega agli studi
sull’architettura cognitiva per insistere sul fatto che l’insegnante deve dare un
sostegno appropriato ai suoi studenti quando insegna un nuovo contenuto
d’apprendimento, riducendo in seguito tale sostegno a mano a mano che essi
progrediscono. Ciò si realizza: distribuendo la materia in passaggi successivi in
modo da evitare ogni confusione; strutturando la lezione dandone prima un’i-
dea generale o un piano; dando poi l’opportunità a ciascun allievo di eserci-
tarsi in ciascun passaggio successivo in modo da favorire il trasferimento delle
nuove conoscenze nella memoria a lungo termine; fornendo esercizi supple-
mentari per consolidare e organizzare meglio quanto appreso al fine di facili-
tare gli apprendimenti successivi. Gli studenti sviluppano in seguito attraverso
la pratica la nuova abilità finché tutti ne abbiano avuto un feedback valuta-
tivo, favorendo progressivamente il raggiungimento di una maggiore autono-
mia nel realizzarla.
Egli richiama quindi alcune strategie risultate valide e produttive nell’atti-
vità degli insegnanti efficaci. Questi avviano le loro lezioni richiamando breve-
mente gli apprendimenti precedenti; presentano la nuova materia per piccoli
passi, seguiti da attività pratiche, all’inizio di tali pratiche guidano da vicino gli
studenti; ragionano ad alta voce per evidenziare ciascuna tappa di un procedi-
mento; esigono e ottengono una partecipazione attiva da parte di tutti; danno
incombenze e spiegazioni chiare e dettagliate; porgono molte domande e veri-
ficano la comprensione degli studenti; mostrano esempi di problemi completa-
mente risolti; domandano agli studenti di esplicitare la loro comprensione; ve-
rificavano le risposte di tutti; presentano numerosi esempi; riprendono alcune
spiegazioni quando necessario; preparano gli studenti a sviluppare pratiche di
lavoro autonomo e all’inizio li seguono in tale impegno.
7
GAUTHIER C. - BISSONNETTE S. - RICHARD M., Enseignement explicite er réussite des élèves.
La gestion des apprentissages, Bruxelles, De Boeck, 2013. L’espressione “insegnamento esplicito” è
stata utilizzata da B. Rosenshine a partire dagli anni ottanta, cfr. a es. ROSENSHINE B., Synthesis of
research on explicit teaching, Educational leadership, 43(1986), 7, 60-69. La sua posizione è stata
sviluppata sulla base di ricerche che tengono conto più dell’efficacia dei metodi di insegnamento
che di una loro coerenza con una particolare teoria dell’apprendimento. Recentemente ha
pubblicato in inglese una sintesi del suo pensiero sulla rivista americana American Educator che
include una buona bibliografia: ROSENSHINE B., Principles of instruction. Research-based
strategies that all teachers should know, American educator, 2012, 1, 12-20. La denominazione
può essere collegata ad altre espressioni come “insegnamento diretto”. Si tratta di un approccio
esplicito, strutturato, intensivo, che pone l’accento su una preparazione minuziosa delle lezioni, la
cui efficacia è verificata e da cui trae indicazioni per una più valida attuazione. Cfr. www.nifdi.org.
79
06pellerey_03anni.qxd 18/06/14 09.39 Pagina 80
8
È un processo psicologico che si mette in moto quando una persona osserva, prestandovi
attenzione, i comportamenti di altre persone e li interiorizza, nel senso che vive in terza persona le
situazioni e le vicende di altri e tende a conservare queste esperienze nella propria memoria.
Presentandosi una situazione analoga, quasi automaticamente si sente portata a comportarsi in
maniera simile. Attraverso tale processo i soggetti interiorizzano modi di agire e di reagire, regole
e forme di comportamento e di relazione, formando così un patrimonio di esperienza che una
volta codificata internamente serve da guida all’azione.
9
Ad esempio negli studi legati alle cosiddette comunità di pratica.
PROGETTI e ESPERIENZE
verso le quali è possibile e utile attivare conoscenze e abilità già possedute per
orchestrarle al fine di affrontare positivamente la situazione o il problema pre-
sente. La variante dell’apprendistato cognitivo implica un’adeguata manifesta-
zione esterna di processi e strategie interne, normalmente messi in atto in ma-
niera non evidente. Mediante tecniche di verbalizzazione, analoghe a quelle
proprie del cosiddetto thinking aloud o della réflexion parlée, rispettivamente
descritte da A. Newell e H.A. Simon e da E. Claparède nello studio delle strate-
gie di soluzione di problemi, è possibile comunicare tali processi e strategie in
maniera efficace. In tal modo si evidenziano alcune abilità strategiche e di al-
cuni processi cognitivi e affettivi e se ne favorisce l’interiorizzazione. In parti-
colare, si possono citare: mettere a disposizione standard di valutazione delle
prestazioni messe in atto; seguire orientamenti motivazionali congruenti; es-
sere sensibili a valori di riferimento; persistere nell’attività nonostante elementi
di disturbo sia cognitivo, sia emozionale; ecc.
La constatazione che l’esperienza vicaria non sia sufficiente per passare al-
l’effettiva manifestazione autonoma della competenza, implica come sviluppo
ulteriore la necessità di passare a prestazioni che cercano di imitare forme o
stili d’azione, legati ad abilità che possono essere guidate e corrette social-
mente. Si tratta del livello denominato dell’emulazione. Tuttavia, ben difficil-
mente il soggetto che apprende riesce a realizzare prestazioni che si avvicinano
alla qualità generale di quelle del modello. Un miglioramento si può avere se la
persona competente adotta un ruolo docente e offre guida, feedback e soste-
gno durante l’esercizio pratico. D’altra parte, il riuscire a emulare almeno in al-
cuni aspetti generali un modello ha effetto sullo stato di motivazione favorendo
l’impegno ulteriore. Occorre segnalare come a questi due primi livelli la fonte di
apprendimento delle abilità auto-regolatrici è esterna al soggetto che apprende.
Negli ulteriori livelli di sviluppo di tali abilità, come vedremo subito, il riferi-
mento diventa interno.
Il terzo livello si raggiunge quando si è in grado di sviluppare forme indi-
pendenti d’abilità, esercitate però in contesti e condizioni strutturate. È il li-
vello denominato dell’autocontrollo. Non basta, infatti, la presenza di un inse-
gnante o di un modello, occorre una estesa e deliberata pratica personalmente
esercitata: prestazioni che si svolgono in contesti organizzati affinché i sog-
getti si impegnino a migliorare e ad auto-osservarsi. Il soggetto competente
non è più presente e il riferimento a standard di qualità è interno, si tratti di
immagini o di verbalizzazioni. Il raggiungere livelli di qualità desiderati so-
stiene e alimenta la motivazione a impegnarsi.
Infine, si raggiunge il livello della competenza vera e propria quando il sog-
getto riesce ad adattare da solo le proprie prestazioni sulla base delle condi-
zioni soggettive e ambientali varianti. Egli riesce a mutare le sue strategie in
81
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10
SWELLER J., Cognitive load during problem solving: Effects on learning, Cognitive science,
12(1988), 2, 257-285.
11
MILLER G.A., The magic number seven plus or minus two: some limits to our capacity to
process informations, Psychological review, 62(1956), 2, 81-97.
PROGETTI e ESPERIENZE
liminabile, riguarda le esigenze di elaborazione cognitiva che certe conoscenze
sia dichiarative, sia procedurali implicano. Si tratta del cosiddetto carico cogni-
tivo intrinseco al contenuto da apprendere. Per intenderci, è ben differente la
sfida alla comprensione e alla valorizzazione in problemi pratici di un procedi-
mento aritmetico elementare, rispetto a questioni di analisi infinitesimale, che
implicano un’adeguata padronanza dei concetti di funzione e di limite. Tutta-
via, l’impegno cognitivo dipende anche dal soggetto, in quanto questi può pos-
sedere già le conoscenze e le competenze necessarie per affrontare compiti
complessi. Ciò porta a due conseguenze valutative: la prima relativa alla com-
plessità del contenuto; la seconda, allo stato di preparazione del soggetto.
L’analisi del cosiddetto carico cognitivo estrinseco è diretta a individuare le
condizioni che possono alleggerire il carico cognitivo e che quindi non dipen-
dono dalla complessità intrinseca del materiale da apprendere. Esse mirano a
organizzare la presentazione dei contenuti da apprendere secondo progressioni
che ne favoriscono l’assimilazione e verificare quali modalità di approccio siano
più funzionali. Ad esempio si è trovato che vi è una maggiore facilità di acqui-
sizione delle conoscenze e delle abilità, se si usano esempi sviluppati in ma-
niera completa e adatta alla comprensione e al ricordo, rispetto a forme di
esplorazione e scoperta, soprattutto se debolmente guidate da parte del do-
cente; così l’uso di immagini può essere più utile di descrizioni solo verbali.
Si è anche proposto di considerare carichi cognitivi di tipo coerente (in in-
glese germane), nel senso che si tratta di impegni diretti allo sviluppo di
schemi concettuali o operativi funzionali alla possibilità di affrontare questioni
più complesse, in quanto la disponibilità di tali schemi nella memoria di lavoro
riduce il carico di lavoro nella memoria a breve termine12. Ciò porta a progettare
forme adeguate di progressione sistematica nel proporre i vari contenuti in
modo che ogni tappa raggiunta possa diventare la base per gli apprendimenti
successivi.
Dalle ricerche sono derivate non poche indicazioni circa la validità, sul piano
della pratica didattica, di alcune indicazioni operative, spesso considerate tradi-
zionali e poco produttive sul piano formativo. Non solo, ma è emerso un certo ri-
pensamento nei riguardi di prospettive considerate innovative. In particolare, tra
il 2008 e il 2009 si è sviluppato negli Stati Uniti un ampio dibattito relativo a
una diffusione un po’ ingenua di metodologie riferibili all’approccio cosiddetto
“costruttivista”. Ciò ha portato a una pubblicazione che cercava di elaborare un
bilancio delle ricerche sull’efficacia dei metodi cosiddetti di “insegnamento in-
12
In questo contesto viene confermata la validità non solo dell’automazione di alcuni processi
elementari, ma anche dello sviluppo di quelli che nella terminologia aristotelica sono definiti
“abiti”, cioè disposizioni stabili ad agire in maniera adatta alle diverse situazioni. Così si può
parlare di abiti operativi, abiti di studio, abiti di lavoro.
83
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13
TOBIAS S. - DUFFY T.M. (Eds.), Constructivist Instruction. Success of Failure?, New York,
Routledge, 2009.
14
SWELLER J., What Human Architecture Tells Us About Constructivism, in TOBIAS S. -
DUFFY T.M. (Eds.), Constructivist Instruction. Success of Failure?, New York, Routledge, 2009,
127-143.
15
GEARY D., The origin of mind: Evolution of brain, cognition, and general intelligence,
Washington, APA, 2005.
16
È interessante citare a questo proposito le più recenti indagini Ocse-Pisa (2012) sulla
competenze dei quindicenni italiani. Questi manifestano non poche difficoltà sia nelle scienze, sia
in matematica, ma se si tratta di problemi di natura pratica quotidiana non legati a conoscenze e
abilità disciplinari essi si collocano a livelli assai più elevati.
17
CALVANI A., Per un’istruzione evidenze-based. Analisi teorico-metodologica internazionale
sulle didattiche efficaci e inclusive, Trento, Erikson, 2012.
PROGETTI e ESPERIENZE
apporti di John Hattie si sono avuti negli anni successivi18. Calvani sottolinea
come anche in questo caso possano emergere due fronti contrapposti: quello
che intende basare le indicazioni metodologiche a partire dalle evidenze che
sono state raccolte nel corso degli anni circa l’efficacia delle varie forme di in-
segnamento, “sul versante opposto vengono avanzate critiche soprattutto dai
fautori dei metodi interazionisti e fenomenologici; la più ricorrente è quella che
sottolinea i rischi di un nuovo rinascente neopositivismo, ispirato a una inge-
nua aspettativa che sia possibile formulare leggi generali in un campo che è so-
stanzialmente diverso da quello medico in quanto vi assumono un maggiore ri-
lievo percezioni e aspettative personali”19. In particolare egli nota come “il co-
struttivismo rappresenta un orientamento epistemologico sviluppatosi verso la
fine degli anni Ottanta in contrapposizione a una concezione astratta e genera-
lizzata del funzionamento cognitivo, quale era stata esasperata dal cognitivi-
smo […]. Esso è nato ponendo al centro il concetto di conoscenza situata come
complesso di saperi ancorati nella specificità della cultura e nelle attività e pra-
tiche dell’allievo”20.
Le ricerche sull’efficacia dei vari metodi di insegnamento hanno segnalato
come molti degli approcci più sollecitati dai pedagogisti e diffusi negli am-
bienti innovatori non abbiano dato i risultati sperati. In particolare, le ricerche
già ricordate di John Hattie (2009; 2012; 2014) hanno evidenziato la fragilità
di alcuni di essi, come i metodi basati sulla ricerca autonoma condotta dagli al-
lievi, l’apprendimento per problemi, ma anche lo stesso cooperative learning,
quando questi metodi sono poco guidati e controllati dal docente; mentre l’in-
segnamento reciproco tra studenti, il feedback che riceve l’insegnante dagli al-
lievi e quello che egli loro fornisce, la valutazione formativa, l’insegnamento di-
retto ed esplicito, che segue da vicino la comprensione dei concetti e la padro-
nanza delle abilità, evidenziano una buona validità didattica. Particolarmente
interessante nei suoi risultati è l’insegnamento esplicito di strategie di natura
metacognitiva come il controllo della propria comprensione, a esempio attra-
verso il porsi opportune domande, oppure strategie di studio adattate ai vari
ambiti di apprendimento. Tali indagini mettono in evidenza che le attività a fi-
nalità aperta, come le varie forme di apprendimento per scoperta, possono ren-
18
Le opere del neozelandese J. Hattie più note sono: HATTIE J., Visible learning, London,
Routledge, 2009; HATTIE J., Visible learning for teachers, London, Routledge, 2012; HATTIE J. -
YATES G.C.R., Visible learning and the science of how we learn, London, Routledge, 2014.
19
CALVANI A., o.c., 18.
20
Ibidem, 40. L’autore considera l’interpretazione costruttivista alla quale faceva cenno anche
M. Lichter, citato prima. Ormai non si può fare a meno di considerare una molteplicità di
“costruttivismi”: da quella radicale ispirato a J. Piaget e codificato da von Glaserfeld, a quello
sociale ispirato più direttamente a Vygotsky, a quello considerato da Calvani, a un costruttivismo
moderato, che tiene conto delle diverse critiche avanzate.
85
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PROGETTI e ESPERIENZE
rimanere nascosto e implicito, impedendo un’adeguata comprensione e poi una
valida valorizzazione di quanto compreso. Se lo studente, o anche il gruppo de-
gli studenti, dovesse conquistare tutto ciò attraverso solo le risorse personali
disponibili, come può raggiungere una conoscenza valida e completa? E se an-
che, date capacità eccezionali, potesse farlo, quanto tempo gli occorrerebbe e
quanto di quel tempo andrebbe a scapito di quello necessario per gli altri ap-
prendimenti?
21
FERRARIS M., Realismo positivo, Torino, Rosenberg & Seller, 2013, 9.
22
CORBI E. - OLIVERIO S., L’ostinazione dei fatti e l’invenzione del reale: la koiné costruttivista
e le razioni del realismo in pedagogia. In CORBI E. - OLIVERIO S. (a cura di), Realtà tra virgolette?
Nuovo realismo e pedagogia, Lecce, Pensa, 2013, 11-29.
87
06pellerey_03anni.qxd 18/06/14 09.39 Pagina 88
dicale”, per prospettare una visione più integrata in cui si ritrovi un rapporto
valido e fecondo tra pensiero e percezione della realtà, dando a questa un ruolo
decisivo soprattutto di fronte alle scelte di natura educativa.
Pier Giuseppe Rossi nota come nelle tendenze post-costruttiviste attuali si
rivisitano le teorie aristoteliche relative all’acquisizione della conoscenza prati-
ca con alcune modificazioni: “il fine dell’agire del soggetto non è più un riferi-
mento esterno che determina l’azione, ma viene ricorsivamente ridefinito nell’a-
zione stessa e in connessione con i mezzi; il soggetto non è autonomo, ma in-
terno a una reta complessa; l’agire umano non è frutto di una decisione cogni-
tiva, ma un fare complesso in cui l’uomo opera in modo olistico, con il suo cor-
po”23. “In sintesi molte critiche al costruttivismo emerse nell’ultimo decennio
sembrano focalizzarsi sostanzialmente sulle derive relativiste e sull’assenza di
strumenti di validazione delle ipotesi”24. “Il post-costruttivismo indica essen-
zialmente quattro percorsi: (1) l’interazione tra i processi di insegnamento e di
apprendimento, (2) la centralità delle pratiche educative per la comprensione
dei processi di insegnamento-apprendimento e per la formazione degli inse-
gnanti, (3) la rivalutazione dei prodotti dopo la centralità dei processi, (4) la ri-
valutazione del ruolo del corpo nei processi di insegnamento-apprendimento”25.
In realtà occorre riconoscere che buona parte della critica di natura filoso-
fica, anche di tipo pedagogico, che anima le tendenze post-costruttiviste si
concentra sulla critica delle proposte provenienti dal costruttivismo radicale,
nella convinzione che non è possibile far prevalere l’elaborazione conoscitiva,
l’epistemologia, ripetendo che “tutto è interpretazione”, sulla realtà, ignoran-
done il ruolo fondamentale come costante controllo della bontà e funzionalità
delle proprie costruzioni conoscitive. In qualche modo si vuole riproporre come
riferimento essenziale una dialettica, in questo caso sì costruttiva, tra oggetti-
vità ed epistemologia, tra realtà e conoscenza, tra esperienza delle cose, delle
persone, delle istituzioni, degli eventi e loro descrizione, interpretazione e va-
lutazione.
In ambito pedagogico si viene così sollecitando una posizione ragionevole,
che riconosce nel dialogo educativo il ruolo fondamentale dell’altro, degli altri,
del contesto, dell’ambiente culturale e sociale, di fronte a una pura deduzione
di norme per l’azione derivanti da assunzioni teoriche e/o ideologiche26.
23
ROSSI P.G., Post-costruttivismo. L’attrito del reale, l’analisi pratica, le tecnologie. In CORBI
E. - OLIVERIO S. (a cura di), Realtà tra virgolette? Nuovo realismo e pedagogia, Lecce, Pensa
Multimedia Editore. 2013, 93-94.
24
Ibidem, 96.
25
Ibidem, 101.
26
PELLEREY M., La forza della realtà nell’agire educativo, Educational Cultural and
Psychological Studies, 2014, in stampa.
PROGETTI e ESPERIENZE
Vari studiosi affermano che è corretto pensare al costruttivismo dal punto
di vista del processo di apprendimento della singola persona. Infatti, ciascuno
di noi costruisce le proprie conoscenze sulla base di quanto ha già acquisito in
maniera significativa e stabile. Per chiarire meglio la distinzione tra la conside-
razione di una teoria dell’apprendimento di natura costruttivista, considerata
corretta, e l’indicazione che nel processo istruttivo ci si debba sempre muovere
con procedure pratiche di natura costruttivista, posizione quest’ultima vista
come errata, Richard Mayer27 ha descritto quattro possibili situazioni di appren-
dimento. In primo luogo viene considerato un apprendimento attivo nel quale lo
studente si impegna in un appropriata attività cognitiva, a esempio selezio-
nando informazioni rilevanti, integrando le nuove conoscenze con quelle già
possedute e organizzando in maniera coerente quanto acquisito. Un apprendi-
mento passivo si ha quando tale attività non ha luogo e si ha solo una forma di
semplice recezione di quanto proposto e ciò rimane non integrato nella strut-
tura conoscitiva, quindi non compreso e non ricordato. Una didattica attiva si
ha quando gli studenti sono coinvolti in un’attività pratica, come ricerca di
informazioni, di soluzioni a un problema, o discussione in gruppo. Una didat-
tica passiva è attuata quando non si sollecita un’attività pratico-operativa.
Un vero apprendimento si ha quando si verifica un cambiamento sufficien-
temente permanente nel quadro di conoscenze dello studente. La teoria co-
struttivista dell’apprendimento sottolinea il fatto che lo studente per appren-
dere deve impegnarsi personalmente nel rappresentare nella sua memoria di la-
voro le nuove conoscenze mettendo in atto appropriati processi cognitivi. E ciò
è coerente con molte ricerche, anche di natura empirica. La questione però si
pone quando si intende trasporre tale teoria, che riguarda i processi cognitivi,
a una metodologia didattica che metta in moto soprattutto i comportamenti
esterni degli studenti. A un’attività esterna di questo tipo non corrisponde ne-
cessariamente un congruente e funzionale processo interno di costruzione con-
cettuale. Ciò è dimostrato da numerose ricerche che l’Autore cita distesamente.
Per contrasto non poche ricerche hanno messo in evidenza la possibilità di
coinvolgere un apprendimento attivo, che mette in moto appropriati processi
cognitivi, attraverso forme di insegnamento che esternamente appaiono pas-
sive. L’Autore non lo cita, ma è immediato evocare il concetto di apprendimento
significativo per ricezione di D.P. Ausubel e le condizioni da lui indicate perché
27
MAYER R., Constructivism as a Theory of learning Versus Constructivism as a Prescription
for Instruction, in TOBIAS S. - DUFFY T.M. (Eds.), Constructivist Instruction. Success of Failure?,
New York, Routledge, 2009, 184-200.
89
06pellerey_03anni.qxd 18/06/14 09.39 Pagina 90
ciò avvenga. Mayer elenca anche alcuni principi di riferimento, derivati dalle ri-
cerche in merito, che facilitano l’attivazione di processi di apprendimento at-
tivo in contesti di didattica cosiddetta passiva28.
A mio avviso una rilettura positiva del costruttivismo deve tener conto sia
delle istanze provenienti dal cognitivismo, e valorizzare quindi i processi indi-
viduali che permettono di conoscere, comprendere, organizzare, conservare e
valorizzare fatti, concetti, teorie e procedimenti e valori, sia di quelle che met-
tono in luce l’apporto fondamentale dell’interazione tra discente e docente e
tra discente e compagni, secondo una teoria conversazionale dell’attività scola-
stica e formativa. Da una parte, infatti, è necessaria la presenza di un educa-
tore, di un insegnante che guidi, sostenga e corregga efficacemente lo stu-
dente, dall’altra il processo di apprendimento implica un ruolo attivo e costrut-
tivo dello studente stesso. Probabilmente la soluzione prospettata a suo tempo
da D.P. Ausubel sul versante cognitivo è ancora valida e feconda.
Allora egli scriveva: “il fattore di gran lunga più importante nell’influenzare
l’apprendimento è ciò che l’alunno conosce già. Verifichiamo quindi le sue co-
noscenze preesistenti e istruiamolo di conseguenza” (Ausubel, 1969, 4). Lo
stesso Ausubel insisteva nel dire che un apprendimento significativo comporta
spesso una trasformazione attiva e dinamica della struttura conoscitiva. Almeno
una parte di essa, infatti, deve subire una riorganizzazione, che consenta al
nuovo concetto o al nuovo procedimento di inserirvisi in maniera ben collegata
e connessa con il restante della conoscenza.
28
Si possono citare a esempio i principi: di coerenza per escludere materiali estranei; di
sottolineatura delle cose essenziali; di contiguità spaziale e temporale tra testi scritti e immagini;
ecc. (Ibidem, 193-4).
PROGETTI e ESPERIENZE
rigine di ciò che in psicologia viene definito “situazione problematica”. Questa
situazione problematica produce da una parte una spinta motivazionale verso il
suo superamento, dall’altra attiva tutta una serie di condotte intellettuali atte
a produrre una nuova strutturazione della conoscenza. Una situazione proble-
matica diventa problema quando sono chiaramente definiti l’oggetto e il settore
che sono all’origine dello stato di disagio e viene espresso in maniera altret-
tanto precisa l’obiettivo da raggiungere attraverso il lavoro intellettuale messo
in moto. In altre parole, diventa evidente quando si può affermare di aver ri-
solto il problema e superata la situazione problematica.
Il processo di integrazione consiste poi nella constatazione e verifica della
raggiunta soluzione del problema e nella ricomposizione della struttura conosci-
tiva in un nuovo stato stabile e ben organizzato nel quale la soluzione del pro-
blema viene incorporata solidamente. Il lettore anche in questo caso potrebbe
erroneamente credere che per giungere a una conoscenza significativa occorra su-
perare tale stato problematico da soli, lavorando in modo autonomo, o al più me-
diante una ricerca di gruppo. In realtà, se si è creato uno stato problematico, si
è creato anche un bisogno di sapere, di conquistare, si è prodotta una domanda.
Anche una comunicazione più o meno diretta della soluzione o della conoscenza
che consente di superare tale situazione realizza allora un apprendimento signi-
ficativo. Anzi, occorre dire che gran parte dell’apprendimento scolastico, soprat-
tutto nelle classi più avanzate, avviene proprio per queste strade, cioè attraver-
so la comunicazione diretta fatta o dall’insegnante o da un libro di testo.
Quanto sopra richiamato oggi potrebbe essere così tradotto. L’autore del-
l’apprendimento è lo studente. L’insegnante crea la condizioni nelle quali egli
possa e voglia far proprio quanto da lui proposto. Quindi la metafora della co-
struzione della conoscenza ha un suo valore se si riferisce all’attività dello stu-
dente o più in generale del soggetto che apprende: egli è l’attivo costruttore
del suo sapere e del suo saper fare. La metafora però deve essere considerata in
tutte le sue componenti. Un processo costruttivo che voglia essere valido e fe-
condo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto
chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nelle questioni: per-
ché e come. Ma è ben difficile che nel caso dell’apprendimento di nuove cono-
scenze il progettista e il capocantiere possa essere lo studente29. L’apporto di
scaffolding si gioca dunque a due livelli: quello degli obiettivi da raggiungere e
quello della guida e del sostegno nel processo. Questo processo deve essere poi
pianificato con cura, soprattutto se ci si avventura in ambiti conoscitivi impe-
29
Già Platone nel suo celebre paradosso dell’apprendimento lo aveva messo in luce: non si
può cercare qualcosa se non se ne conosce l’esistenza e, da altra parte, se già lo si conosce è inutile
cercare.
91
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gnativi e un po’ complessi, magari avendo a che fare con soggetti che manife-
stano lentezza e difficoltà nell’apprendere.
In questo contesto entra in gioco anche la polemica spesso evocata contro
la “lezione frontale”. A questo proposito Pietro Boscolo scrive: “La lezione fron-
tale ha indubbie potenzialità per la costruzione dell’apprendimento: attraverso
essa si propone un tema o un argomento e se ne sottolinea il rapporto con ap-
prendimenti precedenti e l’importanza e utilità per gli apprendimenti succes-
sivi.” Subito dopo però avverte che questa non è e non deve essere l’unica
forma di insegnamento: “Tuttavia – conta sottolineare – la lezione frontale do-
vrebbe rappresentare un momento della didattica della classe, da affiancare ad
altri in cui gli studenti hanno l’opportunità di condividere con l’insegnante la
costruzione stessa dell’apprendimento”30. L’osservazione di Boscolo si presta a
essere estesa per considerare la varie forme e modalità di insegnamento come
risorse didattiche in mano al docente per impostare le sue lezioni in maniera
valida ed efficace, diventando così un co-costruttore delle conoscenze e delle
competenze dei singoli, come del gruppo nel suo insieme, svolgendo in tale im-
presa un ruolo decisivo e insostituibile.
30
BOSCOLO P., Costruire l’apprendimento, Rivista dell’istruzione, XXIX(2013), 1, 14.
PROGETTI e ESPERIENZE
automaticamente e in maniera deterministica quanto sollecitato dall’esterno si
traduca in processi interni. A me sembra utile fornire una specie di bussola di
orientamento alla progettazione di attività didattiche tenendo conto di una os-
servazione di D. Jonassen32. Egli insisteva sul fatto che non tutti i contenuti e
gli obiettivi d’apprendimento sono uguali e di conseguenza anche i processi di
apprendimento e di insegnamento debbono articolarsi. Ciò porta a valorizzare
quanto E. Eisner nel 1985 aveva indicato come aree di progettazione didattica
di natura differente, che implicano anche la considerazione di obiettivi di ap-
prendimento diversificati e metodi didattici congruenti33.
La prima area concerne concetti e abilità che nella scolarità primaria e se-
condaria sono considerati come fondamentali e irrinunciabili; non solo, essi si
presentano come strumentali rispetto ad altri apprendimenti e sono caratteriz-
zati, o caratterizzabili, da una organizzazione sequenziale interna. Cioè si tratta
di conoscenze e competenze che costituiscono come il nucleo centrale dell’ap-
prendimento scolastico con il quale dobbiamo a tutti i costi confrontarci e che
si presentano come altamente concatenate tra loro. La seconda area riguarda un
insieme di aperture culturali e di competenze che non si presentano così strut-
turate e sequenziali, ma costituiscono una base conoscitiva fondamentale per
collocare i giovani nel contesto culturale del proprio Paese e più in generale
dell’Europa e del mondo intero. Questi apporti allargano, approfondiscono e
danno senso alla prima area, costituendo spesso come il campo nel quale eser-
citarne le abilità fondamentali e nel quale usarne i concetti. La terza area è co-
stituita da attività di arricchimento di natura più espressiva: ambiti di lavoro
che offrono spazi di libera esplorazione, di gioia di esprimersi, di manifesta-
zione spontanea dei propri sentimenti e dei propri interessi, di partecipazione
a progetti vissuti come propri o di iniziative personali. Spesso una stessa disci-
plina può essere presente in tutte e tre le aree e, a seconda delle sue compo-
nenti, esige metodologie didattiche e processi di apprendimento coerenti.
31
CALVANI A. - FINI A., Criticità e guideline per l’innovazione tecnologica. In CALVANI A. et
alii, Valutare la competenza digitale, Trento, Erickson, 2011, 30. In questo stesso contributo sono
citati vari Autori che tendono a demitizzare alcuni assunti assai diffusi, tra cui il mito
dell’apprendimento autentico. Infatti, nonostante i numerosi tentativi, i compiti ancorati a un
contesto realistico hanno sinora portato a scarsi apprendimenti. Anche le posizioni che
suggeriscono un guida minima da parte del docente nel corso dell’ultimo cinquanta anni non
hanno avuto conferme adeguate.
32
JONASSEN D., Reconciling a human cognitive architecture, in TOBIAS S. - DUFFY T.M.
(Eds.), Constructivist Instruction. Success of Failure?, New York, Routledge, 2009, 13-33.
Probabilmente questo è stato una dei suoi ultimi interventi, essendo venuto prematuramente a
mancare dopo due anni di malattia il 2 dicembre 2012.
33
EISNER E., The educational imagination: On the design and evaluation of school programs,
New York, MacMillan, 1985. La proposta di Eisner era stata valorizzata da PELLEREY M.,
Progettazione didattica, Torino, SEI, 19942, 60-63.
93
06pellerey_03anni.qxd 18/06/14 09.39 Pagina 94
Inoltre, occorre tener conto della diversità dei processi cognitivi quali pos-
sono esser messi in atto da parte dei singoli studenti. Alcuni manifestano no-
tevoli lentezze e difficoltà di elaborazione e organizzazione mentale, mentre al-
tri sono più rapidi e capaci non solo di capire, ma anche di collegare le nuove
conoscenze con quelle già possedute. Nell’attività di apprendimento, poi, al-
cuni sono più pronti a collaborare con gli altri, mentre altri sono più restii a la-
vorare in maniera cooperativa. Certo, in quest’ultimo caso occorre favorire la di-
sponibilità a lavorare in gruppo, ma ai fini dei risultati da ottenere nell’imme-
diato occorre tener conto dello stato di preparazione già raggiunto da ciascuno,
non solo sul piano delle conoscenze e delle abilità già fatte proprie.
Da queste osservazioni deriva la possibilità di costruire un riferimento a due
assi (cfr. Fig. n. 1). Il primo asse riguarda le esigenze del contenuto da ap-
prendere, facendo però riferimento a quanto già acquisito o meno stabilmente
da parte degli studenti come base portante per una sua acquisizione, cioè alla
disponibilità o meno di conoscenze di appoggio o di ancoraggio al fine di co-
glierne gli elementi essenziali. Il secondo asse concerne le caratteristiche degli
studenti dal punto di vista della loro capacità di attivare e gestire i processi di
apprendimento necessari per padroneggiare i contenuti proposti in maniera più
o meno lenta e difficoltosa oppure veloce e agevole. Gli assi debbono quindi es-
sere considerati come graduati da un minimo a un massimo. Normalmente gran
parte degli studenti possono essere collocati dal punto di vista della facilità e
velocità nell’apprendere in posizioni intermedie. La stessa cosa non sempre è
vera per i contenuti. Come sopra si è cercato di chiarire, alcuni permettono
forme più esplorative e quindi modalità di insegnamento meno dirette, esplicite
e strutturate; altri esigono una organizzazione sequenziale più attenta e inter-
venti didattici più espliciti, diretti e progressivi.
Nel primo quadrante, in alto a destra, si potrà procedere secondo quanto sug-
gerito da Rosenshine, ma dando progressivamente maggiore autonomia e respon-
sabilità ai singoli e favorendo forme di collaborazione per approfondire e appli-
care quanto acquisito. Mentre in alto a sinistra, nel secondo quadrante, occorrerà
seguire più da vicino e sistematicamente i singoli studenti, sostenendoli, correg-
gendoli e adattando frequentemente quanto proposto al livello di acquisizione
raggiunto. Molte delle abilità che si ritengono essenziali per soggetti con disturbi
specifici di apprendimento possono essere considerate come riferimento al limite
per questo quadrante. I due quadranti inferiori permettono una minore struttura-
zione del percorso e una meno diretta ed esplicita azione didattica, inserendo at-
tività di ricerca, di produzione collettiva, di lavoro di gruppo, ecc. Ma se ciò può
essere un canone di riferimento per i soggetti più veloci e pronti nell’apprendere,
per gli altri spesso si tratterà solo di attività occasionali, miranti più che ad ap-
prendimenti disciplinari, allo sviluppo di dimensioni educative più generali.
PROGETTI e ESPERIENZE
È facile collocare in questo quadro di riferimento anche le pratiche forma-
tive che si ispirano alle varie forme di apprendistato, sia quando il più esperto
deve intervenire più da vicino e con più sistematicità nel guidare, correggere e
sostenere l’apprendista nel suo apprendimento, sia quando può progressiva-
mente seguirlo più da lontano e occasionalmente.
■ 10. Conclusione
Da queste brevi osservazioni viene rafforzata l’importanza di una delle com-
petenze fondamentali dei docenti: quella di progettatore di percorsi di appren-
dimento che mediano tra le esigenze poste da un’acquisizione significativa, sta-
bile, fruibile di conoscenze e abilità disciplinari e interdisciplinari e le caratte-
ristiche peculiari degli studenti con cui deve interagire. Uno studio di Diana
Laurillard34 ha messo bene in luce l’importanza strategica di tale competenza, in
particolare oggi, a causa delle esigenze poste da una integrazione valida ed ef-
ficace della tecnologie informatiche, soprattutto di natura mobile (tablet e
34
LAURILLARD D., Teaching as a design science, London, Routledge, 2012. La Laurillard
ricorda come anche nell’ambito della ricerca didattica occorra tener conto della complessità e
fluidità delle situazioni concrete e la necessità di considerare metodologie di indagine che ne
tengano conto. A questo proposito si può leggere: PELLEREY M., Verso una nuova metodologia di
ricerca educativa: La Ricerca basata su progetti (Design-Based Research), Orientamenti
pedagogici, 52(2005), 5, 721-737.
95
06pellerey_03anni.qxd 18/06/14 09.39 Pagina 96
35
PELLEREY M., La forza della realtà nell’agire educativo, Cultural, Educational and
Psychological Studies, 2014, in stampa.
STUDI e RICERCHE
(tablet, smartphone)
nel contesto scolastico e formativo:
alcuni orientamenti operativi derivanti
da uno studio realizzato in ambito CNOS-FAP
MICHELE PELLEREY1
Nel corso del biennio 2013-2014 è stato condotto In the period 2013-2014
uno studio relativo all’impatto delle tecnologie mobili a study was carried out
sui processi educativi scolastici e formativi. about mobile technologies
I risultati ottenuti saranno pubblicati dal CNOS-FAP. and their impact
Sembra utile presentare on the educational process
alcuni dei principali orientamenti operativi emersi. in schools.
Sembra infatti che occorra distinguere con accortezza The research results will be published
tra ricerche ed esperienze di punta by CNOS-FAP.
e manifestazione di diffidenza The paper meanwhile shows some
per assumere prospettive più ragionevoli e rispettose of the main guidelines resulting
dei progetti educativi fondamentali delle istituzioni from the study,
e delle competenze e responsabilità specifiche the success stories and the reticence
dei singoli docenti. about the use of technology.
■ 1. Introduzione
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
OECD, Connected minds: Technologies and Today’s Learners, Parigi, OECD, 2012.
41
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 42
tori, tra i quali non poco influsso ha la percezione di docenti e studenti della
natura stessa dell’ambiente di apprendimento cui essi sono abituati e del tipo
di richieste di attività di studio in esso presenti. Una seconda conclusione rag-
giunta riguarda il fatto che non sono emerse evidenze adeguate e affidabili circa
l’influsso positivo che un loro utilizzo sistematico e diffuso può avere sul piano
cognitivo e degli apprendimenti più impegnativi. Da queste conclusioni, certa-
mente provvisorie, deriva la necessità di un’esplorazione più diffusa e sistema-
tica circa la natura e le modalità di valorizzazione dei modelli di integrazione
risultati i più validi ed efficaci nel raggiungere gli obiettivi di apprendimento
propri delle istituzioni scolastiche e formative.
Ciò è tanto più necessario, in quanto la letteratura di ricerca e divulgativa
degli ultimi anni può esser così distribuita. In primo luogo si evidenziano quelli
che possono essere definiti i missionari (o evangelici) delle tecnologie digitali
e della connessione continua. Essi partono dalla considerazione delle opportu-
nità (affordances), che i sistemi d’interconnessione offrono ai fini dell’informa-
zione, della documentazione e dell’interazione, e ne traggono la conclusione di
un potenziamento mai prima raggiunto delle capacità di lavoro e di apprendi-
mento. La loro presenza diffusa nella pratica didattica non può che migliorare le
prestazioni sia dei docenti, sia degli studenti. Diversamente si collocano in tale
quadro i catastrofisti. Questi mettono in evidenza gli influssi deleteri non solo
sui processi cognitivi, ma anche sulle stesse possibilità di apprendimento. In
particolare l’attenzione viene frammentata e destabilizzata, con la conseguenza
di impedire approfondimenti e organizzazioni concettuali adeguate. Superficia-
lità e instabilità delle conoscenze ne sono la conseguenza più evidente, ma an-
che il patrimonio culturale ne rimane decisamente impoverito. Una terza cate-
goria è quella degli scettici. Questi rimangono perplessi sia di fronte a quanto
affermano i primi come a quanto lamentano i secondi in mancanza di elementi
conoscitivi adeguatamente pertinenti e affidabili. Quindi l’unica via di uscita è
quella di condurre sistematiche ricerche empiriche al fine di sbrogliare un poco
la matassa delle affermazioni più o meno gratuite degli uni come degli altri.
L’Accademia delle Scienze francese ha pubblicato nel 2013 un rapporto, che
è un’informativa e un monito, per ministri competenti in materia di educazione3.
Di fronte alla constatazione, che l’interazione con gli strumenti digitali sollecita
soprattutto il pensiero rapido, fluido, che può essere superficiale e disordinato,
si afferma: “Ciò che resta fondamentale è un’educazione, proposta e inquadrata
da esseri umani, genitori, docenti, ecc., che utilizza gli schermi e Internet e
identifica i loro aspetti positivi, ma anche negativi (pratica eccessiva, mancanza
3
J. BACH, O. HOUDÉ, P. LÉNA, S. TISSERON, L’enfant et les écrans. Avis de l’Académie des
sciences, Parigi, Le Pommier, 2013.
STUDI e RICERCHE
di ripensamento, di sonno, rischio di fatica visuale, etc.). Ma preservando anche
forme e momenti di pensiero «senza schermi e Internet», più lenti, profondi,
lineari e cristallizzati – periodi di calma e «riposo digitale» – necessari alle
sintesi cognitive personali e alla memorizzazione”.
Da questo rapporto ben documentato si possono trarre due importanti indi-
cazioni per quanto riguarda l’attuale situazione scolare. In primo luogo, promuo-
vere in maniera equilibrata una integrazione funzionale e formativa tra la valo-
rizzazione di quella che è stata definita la cultura del libro e la cultura dello
schermo e digitale. Ciò rimanda a una sollecitazione specifica: l’importanza di
una progettazione didattica che tenga conto in maniera consapevole: a) dei sog-
getti presenti e del loro stato di preparazione sia culturale, sia cognitivo, sia af-
fettivo; b) dei contenuti conoscitivi da promuovere e della loro specifica natura
epistemologica; c) delle risorse disponibili sia quanto a preparazione del perso-
nale docente, sia quanto a strumenti e materiali effettivamente utilizzabili in
classe (sia personali, sia istituzionali).
Una seconda istanza sottolinea ancor più fortemente il compito della scuola
di promuovere nel corso degli anni una progressiva competenza auto-regolativa
del proprio apprendimento e dei processi cognitivi, affettivi e motivazionali che
ne stanno alla base.
Il neurobiologo Lamberto Maffei, dopo aver esaminato l’effetto dell’intera-
zione del cervello con strumenti digitali intende: “avanzare la proposta che
un’eccessiva prevalenza dei meccanismi rapidi del pensiero, che chiameremo
‘pensiero rapido’ o digitale, possa comportare soluzioni o comportamenti errati,
danni all’educazione e in generale al vivere civile, innescando nella mente uma-
na sogni di un dominio sulla natura e sull’uomo stesso quasi soprannaturale, il
quale, per evidenti limitazioni biologiche, non può esistere. Il mio è un invito a
riconsiderare le potenzialità del cosiddetto ‘pensiero lento’ basato principalmen-
te sul linguaggio e sulla scrittura, anche al livello dell’educazione scolastica4.
In qualche modo l’argomentazione di Maffei riecheggia quanto ha elaborato
il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman in vari suoi scritti, ma soprat-
tutto nel ponderoso volume dal titolo in italiano “Pensieri lenti e veloci”5. Dove
il pensiero lento è quello di tipo argomentativo, discorsivo, analitico, critico,
in gran parte collegato alla parola, in particolare scritta; mentre quello veloce
è più di tipo intuitivo, più vicino alla sensazione visiva, uditiva, alle immagini.
Le due tipologie di intelligenza non devono porsi però in contrapposizione,
bensì cooperare tra loro in modo produttivo. In questo ambito sembra potersi
4
L. MAFFEI, Elogio della lentezza, Bologna, Il Mulino, 2014.
5
D. KAHNEMAN, Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori, 2012 (ed. orig.; Thinking, fast
and slow, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2011).
43
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 44
6
Il documento completo è reperibile su www.agcom.it.
7
A. CHADWICK, The Hybrid Media System. Politics and Power, Oxford, Oxford University
Press, 2013.
8
I. DIAMANTI, L’informazione liquida, La Repubblica, 9 dicembre 2014, 36-37.
9
Ad esempio: G. TRENTIN e S. BOCCONI, The effectiveness of hybrid solutions in higher ed-
ucation: a call for hybrid-teaching instructional design, Educational Technology, 2014, Septem-
ber-October, 12-21.
STUDI e RICERCHE
svolgono in classe e attività che posso essere realizzate fuori dalla classe, ad
esempio a casa propria. In altre parole la presenza delle tecnologie di comuni-
cazione mobili e la disponibilità di una rete a supporto di tale comunicazione
non vanno intese come sostituzione di forme più tradizionali di attività didatti-
ca, ma come nuove opportunità da combinare tra loro validamente ed efficace-
mente secondo una pluralità di approcci metodologici.
In effetti il concetto di modalità di insegnamento ibrida, o blended (mista),
va intesa secondo un ampio spettro di possibili attuazioni sul campo. Si tratta
infatti di mescolare, meglio di integrare, tra loro differenti approcci di insegna-
mento, secondo le molteplici combinazioni possibili, al fine di promuovere un
reale processo di apprendimento in vista del conseguimento di obiettivi forma-
tivi fondamentali. Un’integrazione non solo di metodi, ma anche di strumenti e
materiali, che possano favorire al meglio tale processo. L’accettazione di tale ap-
proccio comporta dunque anche l’esigenza di riconsiderare in maniera aggiornata
la stessa progettazione dell’attività didattica ed educativa, tenendo conto da un
lato dello stato di preparazione degli studenti effettivamente presenti nelle clas-
si sulla base non solo del grado scolastico, ma anche delle loro caratteristiche
individuali; e, dall’altra, degli obiettivi da raggiungere nei vari ambiti di studio
e di apprendimento (anche all’interno delle stesse discipline scolastiche o in
contesti multidisciplinari). In questa prospettiva è anche necessario esaminare
con cura la natura e l’apporto ai processi di apprendimento che la varie tecno-
logie della comunicazione possono dare se usate in maniera consapevole e il
ruolo stesso dell’incontro e del dialogo interpersonale tra docente a studenti e
degli studenti tra di loro.
La giustificazione teorica di tale approccio si basa sui risultati dell’indagine
condotta nel contesto della ricerca. Si è constatato come le indicazioni, che si
fondano su elementi documentati e controllabili, siano soprattutto quelle che
provengono dalla neuropsicologia, anche grazie alla possibilità di esplorare, tra-
mite le immagini raccolte per mezzo di opportune tecnologie, le parti effettiva-
mente attivate del cervello durante i differenti processi. I dati raccolti indicano
come l’interazione con le tecnologie mobili e di rete tende a sollecitare il siste-
ma nervoso centrale, e in particolare le cellule neuronali e le loro interconnes-
sioni presenti nel cervello, sotto il profilo di quello che è stato definito il Siste-
ma1, quello che presiede ai pensieri rapidi, automatici e intuitivi. Questo si svi-
lupperebbe in maniera notevole a scapito, sembra, di un parallelo sviluppo del
Sistema2, cioè della parte che presiede al pensiero lento, alla riflessione, al ra-
gionamento, al controllo critico. Ciò è particolarmente significativo dal punto di
vista dello sviluppo umano, in quanto tenendo conto della plasticità presente
soprattutto nell’età infantile potrebbe manifestarsi nel tempo uno squilibrio de-
leterio nell’intreccio necessario tra Sistema1 e Sistema2. L’indicazione che ne de-
45
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 46
Così sembra sostenere P.C. RIVOLTELLA nel suo scritto: La rivoluzione del libro digitale, in
10
■ 3.
STUDI e RICERCHE
Promuovere in un contesto comunicativo ibrido le
competenze strategiche necessarie per gestire se
stessi nello studio e nel lavoro in maniera valida
ed efficace
47
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 48
11
In gran parte dei Paesi europei l’insegnante di una disciplina scolastica rimane nella propria
aula dedicata a tale insegnamento e sono gli studenti che passano da un’aula all’altra durante
l’attività didattica.
STUDI e RICERCHE
processi e delle strategie di apprendimento siano giunti gli alunni sia all’inizio,
sia durante la scuola secondaria superiore o la Formazione Professionale. Il que-
stionario è stato denominato “Questionario sulle Strategie di Apprendimento”,
in breve QSA. Esso è attualmente disponibile on line collegandosi al sito
www.competenzestrategiche.it. Rispondendo al questionario si può ottenere un
profilo dello studente riferito a dieci tipologie di competenze strategiche. Un re-
cente volume12 aiuta a non solo interpretare tali profili, ma anche a impostare
un percorso di sviluppo da parte del singolo docente o del consiglio di classe.
12
E. OTTONE, Apprendere, Strumenti e attività per promuovere l’apprendimento, Roma, Anicia,
2014.
13
La Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), avviata nel 1997 in attuazione del Trattato
di Amsterdam, è stata collegata dal processo di Lussemburgo alla considerazione di quattro pi-
lastri: l’imprenditorialità, l’adattabilità, le pari opportunità e, appunto, l’occupabilità o idoneità
al lavoro.
14
J HILLAGE. e E. POLLARD, Employability: developing a framework for policy analysis.
Research Brief 85, Department for Education and Employment, London, 1998.
15
Il pericolo segnalato da molti studi recenti è quello di pensare che a ciò possa essere
descritto a partire da una diretta conoscenza della domanda presente nel mercato del lavoro.
Una rassegna delle ricerche relative al legame tra mondo del lavoro e processi educativi è stata
49
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 50
condotta da R. Wilson (Skills anticipation. The future of work and education, International
Journal of Educational research, 61(2013), 101-110). Riportando gli esiti di una ricerca sistema-
tica internazionale europea egli evidenziava l’importanza dal punto di vista della preparazione a
entrare nel mondo del lavoro, oltre alla competenze di base (lingua e matematica), competenze
nell’uso di Internet e delle ICT, apertura all’apprendimento permanente anche sul posto di la-
voro, sviluppo della capacità di apprendimento autodiretto, apertura alle altre culture e alle di-
versità personali.
16
L.M SPENCER, S.M. SPENCER, Competenza al lavoro. Modelli per una performance supe-
riore, Milano, F. Angeli, 1995.
STUDI e RICERCHE
Fig. 1 - Un quadro comprensivo delle competenze professionali di natura digitale
competenze tecniche
e pratiche
competenze culturali
e tecnologiche
competenze generali
e personali
51
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gran parte di esse sono incluse nella dimensione tecnologica della sintesi di
A. Calvani.
17
Si veda a esempio: M. SHARPLES, Mobile learning: research, practice and challenges.
Distance Education in China, 2013, 3(5), pp. 5-11.
18
Un esame più dettagliato di questa problematica si può trovare in: M. PELLEREY, Oltre
il costruttivismo? Verso una progettazione didattica sensibile alle caratteristiche degli studenti e alle
esigenze dei contenuti da apprendere, secondo un approccio costruttivista cognitivo, in Rassegna
CNOS, XXX(2014), 2, pp. 77-96.
STUDI e RICERCHE
Questa impostazione oggi tende a sposarsi con una visione della progetta-
zione didattica che valorizza una specie di circolo virtuoso tra scelta della me-
todologie di insegnamento e i risultati di apprendimento ottenuti. Questi costi-
tuiscono una fonte informativa di ritorno, un feedback, essenziale per calibrare
con continuità la propria azione didattica. Un impulso assai forte in questa di-
rezione è venuto dalle ricerche sul rapporto tra metodologie didattiche e risultati
di apprendimento avviate negli anni ottanta da molti studiosi, che si avvalgono
di metodologie cosiddette di meta-analisi19. L’impostazione prevalente del movi-
mento evidence based education, che sollecita l’uso di forme di istruzione basate
su prove di efficacia, ha favorito tale orientamento, anche se certe posizioni
estremiste possono far perdere di vista alcune questioni educative di fondo. In-
fatti, la natura e qualità dei risultati da prendere in considerazione deriva da as-
sunzioni di tipo educativo che stanno alla base dell’identità stessa delle istitu-
zioni formative. Inoltre, ricerche ormai consolidate hanno evidenziato come lo
stato di preparazione con cui gli studenti affrontano un percorso di apprendi-
mento è responsabile almeno della metà del successo che si può raggiungere.
Proprio per questo, la scelta metodologica insita nel processo di progetta-
zione didattica deve rapportarsi con chiarezza allo stato di preparazione dei sog-
getti da una parte, agli obiettivi educativi e didattici da conseguire dall’altra,
alla natura stessa dei contenuti di apprendimento e al loro statuto epistemolo-
gico riletto dal punto di vista educativo. La scelta delle tecnologie informatiche
mobili rientra in tale processo e certamente su di essa influiscono tutti gli ele-
menti presi inconsiderazione. Circa lo stato di preparazione degli studenti risulta
chiaro non solo l’apporto da tenere presente e derivante dalla qualità delle co-
noscenze già possedute in uno specifico ambito del sapere, ma anche lo svilup-
po raggiunto nelle capacità di gestire tali tecnologie in maniera produttiva sul
piano degli apprendimenti, piuttosto che soltanto su quello del divertimento e
della comunicazione informale. Più profondamente, riguarda il livello di compe-
tenza raggiunto nell’autoregolarsi nell’attività di studio e di lavoro, di collabo-
rare in maniera valida produttiva con i propri compagni, nel concentrarsi a un
livello adeguato di focalizzazione sui compiti ai quali si deve attendere. Sul pia-
no degli obiettivi educativi e didattici emerge accanto all’acquisizione delle co-
noscenze e delle competenze intese, lo sviluppo delle conoscenze e competenze
connesse proprio con tali tecnologie informatiche. Tutto ciò influisce sulle scelte
19
Ci si può riferire ai lavori di John Hattie, di cui il più conosciuto è J. A. HATTIE, Visible
learning. A Synthesis of over 800 meta-analyses Relating to Achievement, New York, Routledge,
2009. Una buona introduzione alle metodologie didattiche basate sulle evidenze è quella di
A. CALVANI, Per un’istruzione evidence based. Analisi teorico-metodologica internazionale sulle
didattiche efficaci e inclusive, Trento, Erickson, 2012.
53
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 54
STUDI e RICERCHE
vrebbe essere chiarita anche l’importanza dello sviluppo di tali competenze di-
gitali e dell’arricchimento nel loro contesto di esperienze produttive, non solo
consumistiche, ai fini di una incisiva promozione dell’orientamento professionale
e dell’occupabilità a favore dei singoli studenti.
55
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 56
STUDI e RICERCHE
personale si associa l’interazione mediata e la fruizione di una molteplicità di
fonti informative e conoscitive, costituisce una delle priorità educative dei no-
stri tempi. Così i percorsi formativi proposti devono favorire l’esperienza guidata
e la progressiva competenza nel valorizzare le varie possibilità comunicazione
sia faccia a faccia, sia tramite dispositivi digitali, in maniera valida e produttiva.
20
D. LAURILLARD, Teaching as a Design Science. Building Pedagogical Patterns for Learning
and Technology, London, Routledge, 2012.
21
Ivi, 96.
57
03pellerey_StudiRicerche 25/03/15 09:30 Pagina 58
Apprendimento
Tecnologie tradizionali Tecnologie digitali
attraverso
Lettura di libri, dispense; ascolto delle Fruizione di prodotti multimediali, di siti
Acquisizione esposizioni e spiegazioni del docente, os- web, fonti e documenti digitali. Ascolto di
servazione di dimostrazioni pratiche. podcast; visione di video e animazioni.
Uso di guide stampate per lo studio e la Uso di guide e suggerimenti disponibili
ricerca. Esame delle idee e informazioni on line; esame delle idee e delle informa-
tramite risorse stampate e altri materiali. zioni tramite risorse digitali. Uso di stru-
Ricerca
Uso di strumenti e materiali tradizionali menti digitali per raccogliere, confrontare
per raccogliere, confrontare testi, esami- testi, esaminare e valutare fonti.
nare e valutare fonti.
Esercizi applicativi, realizzazione di pro- Uso on line di modelli digitali, di simula-
Pratica getti operativi, laboratori, attività di role- zioni, di micromondi, di laboratori vir-
play faccia a faccia. tuali, di attività di role-play.
Produzione di artefatti sotto forma di Produzione e memorizzazione sotto forma
testi, saggi, rapporti, relazioni di attività digitale di documenti, progetti grafici,
Produzione
svolte, progetti, performance, animazioni, modelli, artefatti, animazioni, slides, per-
modelli, video. formance, foto, video, blogs e portfolio.
Tutoriali, seminari, discussioni tramite Tutoriali on line, forme sincrone e asin-
Discussione email, gruppi di discussione, discussioni crone di seminari, di gruppi di discus-
in classe. sione, forum, conferenze via web.
Progetti di piccoli gruppi, analisi e valu- Attraverso il web realizzazione di pro-
Collaborazione tazione di risultati altrui, costruire in- getti; forum on line, wiki, chat, per esa-
sieme un prodotto. minare produzione altrui e costruire pro-
pri prodotti.
STUDI e RICERCHE
e risultati di apprendimento:
alcuni apporti derivanti da ricerche internazionali
MICHELE PELLEREY1
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
M. PELLEREY, L’integrazione delle tecnologie mobili (tablet, smartphone) nel contesto scola-
stico e formativo: alcuni orientamenti derivanti da uno studio in ambito CNOS-FAP, Rassegna
CNOS, 31, 1, 2015, pp. 41-58.
39
03pellerey_StudiRicerche 22/06/15 11:05 Pagina 40
3
M. RAINERI, Le insidie dell’ovvio. Tecnologie educative e critica della retorica tecnocentrica,
Pisa, ETS, 2011.
4
Si tratta delle conclusioni che ha proposto Hattie: J.A. HATTIE, Visible learning. A Synthe-
sis of over 800 meta-analyses relating to achievement, New York, Routledge, 2009, pp. 22-232.
mento della matematica. Tali indagini hanno messo in luce il fatto che solo in
STUDI e RICERCHE
alcune modalità di loro valorizzazione si riescono a attenere assai modesti in-
crementi nelle conoscenze e competenze degli studenti. In altre parole sembra
che la scelta di una congruente metodologia di insegnamento possa dare una
mano all’insegnante nel promuovere una cultura matematica. L’utilizzo più pro-
ficuo, anche se modesto, si realizza mediante l’integrazione dell’uso degli stru-
menti digitali nel lavoro scolastico più per consolidare con l’esercizio e la pra-
tica progressiva concetti e procedure spiegate dal docente e disponibili in validi
manuali, che per una loro introduzione significativa. In altre parole invece di
avere una semplice relazione tra docente, libro e studente, si costituisce una re-
lazione più complessa, ma funzionale, tra docente, libro, studente e strumento
tecnologico.
Gran parte di questi orientamenti derivano da una serie di meta-analisi
compiute su una massa impressionante di ricerche da J.A. Hattie5. Un ulteriore
apporto agli orientamenti emersi dalle indagini di Hattie si deve a P. Reimann
e A. Aditomo, che nel 2013 hanno preso in esame ulteriori dati6. La conclusione
a cui giungono gli Autori nell’ambito della valorizzazione delle tecnologie infor-
matiche nell’apprendimento dal punto di vista della loro efficacia è la seguente:
l’uso delle tecnologie ICT sembrano avere un modesto impatto positivo in alcuni
ambiti di studio e mediante l’utilizzo di alcune di esse. Ma i dati non danno al-
cuna garanzia che una particolare tecnologia di per sé possa portare a un dif-
fuso impatto migliorativo dei risultati di apprendimento. Occorre però anche
concludere contemporaneamente che non si evidenziano neanche effetti nega-
tivi. L’utilizzo delle ICT sembra particolarmente valido quando gli studenti inte-
ragiscono tra di loro e con il contenuto d’apprendimento. La questione cioè non
è tanto se la tecnologia viene usata, bensì come essa viene usata.
5
J.A. HATTIE, o.c.
6
P. REIMANN e A. ADITOMO, Technology-Supported Learning and Academic Achievement,
in J.A. HATTIE, E.M. ANDERMAN, International Guide to Student Achievement, New York, Rout-
ledge, 2013, pp. 399-401.
41
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2. % di studenti che usano e-book. La domanda era: Per l’utilizzo a scuola hai
a disposizione un lettore di e-book?
Matematica Lettura Scienze
Sì, e lo uso 423 403 425
Sì, ma non lo uso 453 447 458
No 494 502 503
7
S. INTRAVAIA su La Repubblica del 6 dicembre 2013, p. 27.
STUDI e RICERCHE
l’OCSE del 20099, si è posto una domanda comprensiva su che cosa sappiamo
circa l’efficacia delle ICT sugli apprendimenti curricolari, affermando: “Le corre-
lazioni tra uso del computer e miglioramento dei risultati rimane positiva fino
a un certo livello per poi decrescere; da una certa soglia in avanti quanto più il
computer è usato a scuola, tanto più gli alunni peggiorano. Come sintetizza Gui
«Questi risultati suggeriscono grande cautela nel sostituire didattica tradizio-
nale con didattica basata sui nuovi media». [...] Questi dati [...] sono con-
gruenti con osservazioni avanzate sin dai primordi del computer nella scuola e
con l’affermazione che sono le metodologie (e gli insegnanti che le utilizzano),
e non le tecnologie, a fare la differenza”. L’attenzione poi si sposta alla consi-
derazione del contesto educativo e di obiettivi formativi più generali e perso-
nali. La conclusione generale oltre a richiamare quanto affermato circa gli ap-
prendimenti curricolari, prende in considerazione il contesto da promuovere e
suggerisce di “definire specifici obiettivi/target, conseguibili in tempi brevi o
medi, verificarne la conseguibilità, dimostrando i vantaggi in termini costi/be-
nefici”. Infine, quanto a una visione più generale dell’impatto delle tecnologie
sulla società e l’ecologia della mente, occorre tener presente come le trasforma-
zioni delle istituzioni a livello informale sono “assai più lente di quelli immagi-
nati da chi lavora con le nuove tecnologie”.
8
A. CALVANI, Le TIC nella scuola: dieci raccomandazioni per i policy maker, Form@re, 2013,
13, 4, pp. 30-46.
9
M. GUI, Uso di Internet e livelli di apprendimento. Una riflessione sui sorprendenti dati
dell’indagine Pisa 2009, Media education, 3 (2012), 1, pp. 29-42.
10
E. MOSA, L. TOSI, Tecnologie e innovazione. Lo scenario internazionale, in S. BAGNARA et
alii, Apprendere in digitale, Milano, Guerini e Ass., 2014, pp. 97-188.
43
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scolastici sia ormai tramontata”. I rapporti finali avevano evidenziato effetti po-
sitivi su alcuni aspetti generali come motivazione e competenze trasversali, ma
avevano messo in chiaro come gli esiti positivi dipendessero da alcune condi-
zioni fondamentali, come la competenza dei docenti, l’ambito disciplinare e il
livello scolastico. E concludeva: “L’idea che l’introduzione di tecnologie digitali
e connettività nelle scuole possa migliorare gli apprendimenti individuali dei
nostri studenti incondizionatamente è un’utopia che vorremmo ormai archiviare
insieme alla stagione degli impact studies che hanno segnato una fase impor-
tante del percorso di maturazione della comunità scientifica e degli enti incari-
cati di orientare o promuovere processi di riforma a livello nazionale”.
In seguito gli Autori giungono ad affermare: “l’idea che vede nelle tecnolo-
gie per la didattica la panacea per la risoluzione dei problemi della scuola del
terzo millennio è tramontata insieme all’idea, altrettanto illusoria, che si possa
ridurre la rilevazione dell’impatto delle ICT nei processi di apprendimento alla
misurazione dello scarto migliorativo degli esiti dei risultati negli ambiti disci-
plinari”. Da questa constatazione consegue che la presenza di tali tecnologie
dovrebbe essere il “volano per l’innovazione e la modernizzazione dei sistemi
educativi”. In sostanza occorre verificare: “in che modo l’introduzione delle tec-
nologie digitali è in grado di supportare un’innovazione nelle pratiche didatti-
che e a quali condizioni l’innovazione può essere estesa su larga scala e non ri-
manere un’esperienza legata a un singolo contesto”. Sembra, sulla base di
quanto elaborato dalla Europea Schoolnet, che cinque siano le aree di riferi-
mento: la leadership, le infrastrutture e le risorse, la progettazione curricolare,
la qualità e sviluppo, la gestione e comunicazione.
Nel numero di aprile 2013 della rivista Scientific American è stato pubblicato
un articolo di Ferris Jahr dal titolo: “Il cervello che legge al tempo del digitale”11.
Il Direttore Generale della Casa Editrice Zanichelli, commentando tale contri-
buto12, riprendeva una delle sue conclusioni fondamentali: “Mentre leggiamo il
nostro cervello costruisce una rappresentazione mentale del testo come se fosse
un passaggio fisico e quando cerchiamo di farci tornare alla mente un episodio,
spesso ricordiamo dove era nella pagina. Questo avviene nei libri, ma non negli
11
F. JAHR, The Reading Brain in the Digital Age: The Science of Paper versus Screens, Scientific
American, 11 aprile 2013, 39. Il sottotitolo dice: “E-readers and tablets are becoming more popular
as such technologies improve, but research suggests that reading on paper still boasts unique advan-
tages”.
12
Il sole 24 ore, domenica 17 dicembre 2013, p. 34.
ebook. [...] Più di cento ricerche negli ultimi vent’anni dicono che capiamo e ri-
STUDI e RICERCHE
cordiamo il testo sulla carta meglio che sullo schermo”. L’articolo è stato in se-
guito pubblicato in italiano sulla rivista Le Scienze13 ed è interessante rileggerne
le principali conclusioni: “la tecnologia riscuote sempre più successo via via che
diventa più user friendly; eppure la maggior parte degli studi pubblicati a partire
dai primi anni novanta confermano le conclusioni precedenti: come mezzo per la
lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di
laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli
apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il
che incide negativamente sulla capacità di comprensione. Poiché sembrano ri-
chiedere maggior impegno mentale rispetto alla carta, gli schermi rendono anche
più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre
gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della let-
tura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. Infine, anche se non ce ne ren-
diamo conto, spesso ci poniamo di fronte a un computer o a un tablet con un’im-
postazione mentale meno aperta all’apprendimento rispetto a un libro”.
L’articolo di Jahr tiene conto in particolare di una ricerca pubblicata all’ini-
zio dell’anno da parte di alcuni ricercatori norvegesi14. Questi avevano confron-
tato i risultati in termini di comprensione del testo da parte di alunni di 15-16
anni di due scuole norvegesi che leggevano testi in pdf presentati sullo schermo
di un computer con alunni della stessa età e delle stesse scuole che leggevano
gli stessi testi stampati su carta. L’indagine prendeva spunto da un insieme di
ricerche che segnalavano il carico cognitivo in termini di decisioni da prendere
e di elaborazione visiva da compiere richieste dalla lettura di ipertesti da cui
derivava una riduzione di prestazioni sul piano della comprensione. Ma non tutti
i testi da leggere sono di tipo ipertestuale. In prevalenza nella scuola sono di
tipo lineare, narrativi e non narrativi. Le ricerche da quest’ultimo punto di vista
non sono molte ma tendono a evidenziare migliori prestazioni quanto a ricordo
e comprensione. Data la diffusione anche in Norvegia dell’uso di testi digitaliz-
zati nella scuola occorreva verificare eventuali effetti di tali sviluppi.
I risultati sono stati significativamente diversi tra i due gruppi a chiaro fa-
vore dei lettori di testi lineari stampati sia che fossero narrativi, sia non narra-
tivi. Le evidenze raccolte, secondo Mengen e collaboratori, portano a segnalare
che: “Chi ha letto il libro cartaceo ricorda meglio la trama e riesce più facil-
mente a mettere gli eventi in giusta sequenza. L’effetto potrebbe essere corre-
13
Le Scienze è l’edizione italiana delle rivista statunitense Scientific American: F. JAHR, Carta
contro pixel, Le Scienze, 545, gennaio 2014, pp. 66-71.
14
A. MENGEN, B.R. WALGERMO, K. BRØNNICK, Reading linear texts versus computer screen:
Effects on reading comprehension, International Journal of Educational Research, 58 (2013), pp.
61-68.
45
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lato alla necessità di tenere il filo di ciò che leggiamo: su carta abbiamo molti
indizi fisici ad aiutarci, a esempio possiamo ricordare che un fatto si è compiuto
quando eravamo quasi all’inizio o a circa metà del volume. Il testo elettronico,
invece, ci fa perdere di più tra le righe: non percepiamo quanto manca alla fine
o a che punto siamo, il testo appare sempre uguale. Sembra anche che la lettura
on line renda incapaci di attenzione a lungo temine e quindi di affrontare let-
tura impegnative di testi lunghi e complessi. Gli autori si dilungano sull’analisi
delle possibili cause di tale diversità. Valorizzando tale analisi, Ferris Jahr ri-
corda come nello studio, a differenza della sola lettura, occorre non solo capire
ma anche ricordare le cose fondamentali, per questo occorre concentrazione e
capacità di controllo di tipo metacognitivo, spesso si deve tornare indietro, sot-
tolineare e segnare a margine, ecc. Tutto ciò è più impegnativo quando si usano
testi letti su schermi digitali.
Tuttavia, nel caso di soggetti con disturbi specifici di apprendimento, come
i dislessici le cui difficoltà dipendono soprattutto da problemi di riconosci-
mento visivo, molte ricerche evidenziano il vantaggio di avere schermi che per-
mettono di scegliere sia il tipo di carattere, sia le spaziatura tra le parole, cosa
che non è possibile con i libri stampati. L’aggiustamento del testo a seconda
delle possibilità di decodificazione dei singoli soggetti è una della caratteristi-
che positive non solo per veri e propri dislessici, ma in genere per ogni persona
che ha qualche problema di tipo visivo. Meno evidente è la valenza positiva
dello schermo per i dislessici che presentano problematiche legate ai processi
più direttamente di natura linguistica.
È stato pubblicato verso la fine del 2014 un interessante volume che prende
in considerazione specificatamente la questione della diffusione internazionale
del mobile learning (Raineri, Pieri, 2014)15. Di fronte alla “diffusione crescente
e ubiquitaria dei dispositivi mobili tra i bambini e gli adolescenti” dall’indagine
Project Tomorrow pubblicata nel 2012 risulta che buona parte dei genitori ri-
tiene tali dispositivi utili sia fuori, sia dentro l’aula ai fini dell’apprendimento.
D’altra parte, le scuole in vari casi stanno “introducendo le tecnologie mobili in
modo acritico, dettato dalle logiche di mercato e da un desiderio talvolta naïve
di stare al passo con i tempi [...], senza far precedere questa innovazione da
15
M. RAINERI, M. PIERI, Mobile learning. Dimensioni teoriche, modelli didattici, scenari appli-
cativi, Milano, Unicopli, 2014.
STUDI e RICERCHE
blemi che le tecnologie mobili possono apportare nella specifica situazione
d’uso”. Viene quindi citato l’esempio di quanto spesso suggerito per poter di-
sporre di tali tecnologie: che gli studenti portino a scuola i loro dispositivi (mo-
dello BYOD: Bring Your Own Device): “i dispositivi mobili posseduti dagli stu-
denti sono, nella migliore delle ipotesi, strumenti poco adatti all’apprendi-
mento. Questi dispositivi sono tutti diversi tra di loro e vengono sostituiti
spesso con nuovi modelli ...”16.
Constatazioni di questo tipo sono state registrate anche in varie delle espe-
rienze condotte in Italia. Emergono così studiosi che mettono in luce le “criticità
legate alla realizzazione di progetti di mobile learning a scuola”. Tra queste ven-
gono citate: mancanza di supporto tecnico, problemi organizzativi, mancanza di
formazione dei docenti, sottovalutazione delle rappresentazioni implicite dei do-
centi e degli studenti circa l’uso di tali tecnologie, mancanza di condivisione e
comunicazione tra i diversi attori, mancata analisi del contesto specifico.
Altri, più legati a progetti di diffusione delle tecnologie innovative spin-
gono nella direzione di una presenza diffusa, penetrante e sistematica di tablet
e smartphone nella pratica scolastica. In questa direzione viene citata l’affer-
mazione del fondatore di Qualcomm: “Il fatto di essere nelle mani degli studenti
sempre accesi, sempre connessi, i dispositivi mobili hanno le potenzialità di
migliorare drammaticamente i risultati educativi scolastici”17. Per dimostrare
questo assunto l’Autore dello studio cita la diffusione ormai al 68% di disposi-
tivi mobili tra gli studenti degli Stati Uniti e l’accesso pari a 70% delle famiglie
a una rete Wi-Fi veloce. Ciò induce la possibilità di adattare i contenuti d’ap-
prendimento sui singoli studenti. Non solo, ma pensare ad attività educative in-
dividualizzate e sviluppantesi lungo tutto il giorno e tutto l’anno solare. Il fatto
poi che i giovani sono consapevoli di nuovi strumenti d’apprendimento come
testi, illustrazioni, registrazioni audio e video permette lo sviluppo di espe-
rienze di natura olistica e un più agevole adattamento ai bisogni e stili d’ap-
prendimento di ciascuno. Quanto alla verifica degli apprendimenti, questi pos-
sono essere incorporati facilmente nel materiale didattico, a esempio con prove
di comprensione e conoscenza. Si facilita così anche l’effetto di un immediato
feedback sia agli studenti, sia ai genitori. Alcuni studi pilota condotti da asso-
ciazioni nazionali hanno evidenziato i benefici di tale approccio allo sviluppo
delle conoscenze in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica.
D.M. WEST, Mobile learning. Transforming Education. Engaging Students, and Improving
17
Outcomes, Center for Technology Innovations at Brookings, September 2013, 1. Cfr.: http:
//www.brookings.edu/research/papers/2013/09/17-mobile-learning-education-engaging-stu-
dents-west (consultato il 30 dicembre 2014).
47
03pellerey_StudiRicerche 22/06/15 11:06 Pagina 48
18
C.A. NORRIS, E. SOLOWAY, Mobile technology in 2020: Predictions and implications for
K-12 education, Educational Technology, 1, January-February 2015, pp. 12-19.
cerca, sui progetti, sull’apprendere dal fare”. In altre parole l’impianto metodo-
STUDI e RICERCHE
logico deve essere coerente con la tecnologia usata. Più brutalmente la tecno-
logia determina come si insegna. In un precedente contributo si è discusso pro-
prio tale assunto dal punto di vista metodologico.
Sono stati pubblicati i rapporti Horizon Europa 2014 elaborati dal New Me-
dia Consortium. Dei tre disponibili interessa soprattutto quello denominato Ho-
rizon Report Europe 2014 Schools Edition che è stato sviluppato in collabora-
zione con la Direzione generale della Commissione Europea per l’Educazione e la
Cultura e altri organismi legati all’Unione Europea19. Il rapporto si articola se-
condo tre grandi aree di interesse: le tendenze in atto, le sfide che tendono a
impedire l’adozione delle tecnologie da parte delle scuole, gli sviluppi più im-
portanti da prevedere per i prossimi anni. Si può anche notare come gli altri due
rapporti riguardanti il livello terziario o universitario e la scuola non europea
(soprattutto nord-americana) si presentino del tutto analoghi, evidenziando si-
mili opportunità, rischi e necessità di sviluppo.
Due affermazioni secche appaiono assai significative: entro un anno l’uso
del Cloud e del Tablet sarà comunemente presente nelle scuole europee, mentre
prospetticamente lo saranno Computer games e ambienti virtuali. Citando la po-
polarità di servizi basati sulla valorizzazione del Cloud, come Dropbox o Google
Drive si afferma: “Cloud computing è ormai ampiamente riconosciuto come uno
strumento per migliorare la produttività ed espandere la collaborazione nei pro-
cessi educativi”. D’altra parte: “Il numero di applicazioni disponibili che si ba-
sano sulle tecnologie cloud è talmente aumentato che ben poche istituzioni
non ne fanno uso, sia ciò parte della politica scolastica o meno”. Questa con-
statazione è collegata anche con l’adozione diffusa di tablet, per i quali sono
ormai disponibili più di 115.000 applicazioni educativa gratis o a costi modesti.
Il potenziale offerto dalla presenza del tablet nelle scuole sta diventando og-
getto di studio in molti casi: “Per valorizzare tale opportunità gli insegnanti de-
vono conoscere come usarli nelle loro attività didattiche e nell’apprendimento
basato su progetti”.
Quanto ai cosiddetti “computer games”, questi vengono riletti nella loro po-
tenzialità formativa in quanto avvio allo sviluppo delle conoscenze e abilità
proprie della computer science: essi, infatti, possono richiedere ai giocatori di
19
https://ec.europa.eu/jrc/sites/default/files/2014-nmc-horizon-report-eu-en_online.pdf.
49
03pellerey_StudiRicerche 22/06/15 11:06 Pagina 50
usi impropri della rete come cyberbullying. In tale contesto occorre ripensare il
STUDI e RICERCHE
ruolo dei docenti e delle pratiche didattiche, tenendo conto della disponibilità
on line di risorse educative aperte. Viene sottolineato l’uso nei processi forma-
tivi dell’apprendimento on line e le opportunità che la raccolta di dati digitaliz-
zati permette al fine di personalizzare di più non solo l’apprendimento, adattan-
dolo alle manifestazioni individuali di competenza, ma soprattutto la valuta-
zione, valorizzando la raccolta strutturata di tali manifestazioni tramite e-
portfolio (o portfolio digitale).
Tra le sfide che possono in qualche modo ridurre o bloccare l’impatto delle
tecnologie digitali nell’attività scolare se non adeguatamente affrontate ven-
gono segnalate: l’integrazione delle ICT nella formazione degli insegnanti; la
modesta competenza digitale degli studenti; l’integrazione tra apprendimento
formale e non formale; la creazione di autentiche opportunità di apprendi-
mento.
51
Verso una più diffusa e incisiva
studI e RICERCHE
valorizzazione di un apprendimento
basato sulla pratica,
anche in un ambiente digitale
MICHELE PELLEREY1
Il contributo vuole insistere sull’importanza The contribution deals with the importance
di una visione educativa e culturale che si apra of the educational vision
più decisamente all’ambito produttivo and open cultural sphere productive
e imprenditoriale. A questo fine esplora alcune and entrepreneurial. For that it analyzes some
delle iniziative che si stanno diffondendo sia of the actions that are spreading both abroad
all’estero, sia in Italia, e che evocano l’approccio
and in Italy, and that evoke the approach
ai processi di apprendimento elaborato da
Seymour Papert e denominato “costruzionismo”. to learning processes developed
Tale approccio, pur facendo riferimento by Seymour Papert
al costruttivismo, soprattutto di natura and called “constructionism”.
piagetiana, se ne differenzia per la costante
interazione tra soggetto e realtà, quasi una
conversazione ininterrotta, nella quale possono
entrare in gioco forme collaborative con altri,
anche di interscambio linguistico,
ma sempre centrate sulla realizzazione
di un prodotto fisico o digitale.
■ Introduzione
Nell’attività educativa, sia scolastica, sia in quella più propriamente formativa
professionalmente, è sempre più urgente promuovere una cultura tecnico-profes-
sionale che parta da un fare «efficace ed efficiente dell’uomo per risolvere pro-
blemi personali e sociali grazie a particolari strumenti che costituiscono un pro-
lungamento artificiale delle sue mani (pinze, trapani, martelli, succhielli... pen-
tole... badili... penne... pennelli e così via” per aprirsi a un “riflettere critico
sulle tecniche adoperate per migliorarle, integrarle, combinarle, impiegarle a scopi
diversi, fino a mettere in campo la competenza sintetica di “progettare” intel-
lettualmente artefatti che, a loro volta, dopo essere stati costruiti, “fanno” quello
che il progettista si era teoricamente proposto facessero».2
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
G. BERTAGNA, Lavoro e formazione dei giovani, Brescia, La Scuola, 2011,106.
57
■ 1. Alcuni spunti per un approfondimento
Nel documento “La buona scuola” del 3 settembre 2014 c’è un passo che merita
di essere approfondito sulla base di quanto si sta sviluppando sia in Italia, sia,
soprattutto, in altri Paesi, al fine di promuovere una vera competenza digitale.3
«La scuola ha il dovere di stimolare i ragazzi a capire il digitale oltre la superficie.
A non limitarsi ad essere “consumatori di digitale”. A non accontentarsi di utiliz-
zare un sito, una app, un videogioco, ma a progettarne uno. Perché programmare
non serve solo agli informatici. Serve a tutti, e serve al nostro Paese per tornare a
crescere, aiutando i nostri giovani a trovare lavoro e a crearlo per sé e per gli altri.
Pensare in termini computazionali significa applicare la logica per capire, control-
lare, sviluppare contenuti e metodi per risolvere i problemi e cogliere le opportu-
nità che la società già oggi ci offre».
A questo proposito vorrei citare una mia diretta esperienza. Nel luglio 2014 ho
presieduto a Trento una sessione di esami finali di percorsi di Alta Formazione Pro-
fessionale nel campo della Grafica e della Comunicazione mediale. Si tratta dell’e-
quivalente trentino degli Istituti Tecnici Superiori, istituzioni terziarie di tipo non
accademico. Tra le competenze che vengono promosse in questa istituzione ci sono
quelle tecnologiche connesse con la comunicazione multimediale al servizio delle
aziende. Ormai ogni azienda, anche piccola, ha bisogno di un proprio sito informa-
tico non solo per farsi conoscere, ma anche per presentare in dettaglio i prodotti
che essa è in grado di realizzare e la loro qualità. Ora si tratta di utilizzare a tale
scopo sistemi di tecnologia digitale mobile (smartphone e tablet). Di conseguenza
in questi ultimi anni i candidati si sono cimentati con la realizzazione di Applica-
zioni (le cosiddette App) dedicate alla comunicazione tra azienda e possibili clienti.
Attraverso una App adatta viene consentito non solo di consultare il catalogo
dei prodotti che un’azienda, a esempio di arti grafiche, è in grado di realizzare,
ma anche di interagire da parte del cliente con l’azienda stessa sia in sincrono,
sia in asincrono, per discutere di un possibile prodotto da realizzare, considerando
le sue caratteristiche e i relativi costi. In questo modo con un clic sull’icona della
App il cliente è in diretta comunicazione con l’azienda e questa è in grado di pre-
sentare se stessa e la sua produzione in maniera sempre aggiornata. A parte altri
vantaggi, questa possibilità favorisce anche un processo di fidelizzazione. Giovani
competenti trovano lavoro sia come dipendenti, sia come piccoli imprenditori.
Durante gli esami sopra ricordati due dei candidati, che avevano presentato la
realizzazione di App di questo tipo facilmente integrabili nel contesto aziendale,
3
M. PELLEREY, La competenza digitale: una competenza chiave per l’apprendimento perma-
nente. Dieci anni di riflessioni critiche e propositive a livello europeo e italiano, in «Rassegna
CNOS», XXX(2014), 1, 41-58.
4
Una raccolta era stata messa a disposizione sul sito Nova del Sole24ore: http://nova.il-
sole24ore.com/esperienze/la-mia-scuola-sogna-il-suo-futuro#sthash.9reUh8wt.dpuf
59
Tutto ciò è in linea con quanto prospettato da Seymour Papert in un’intervista
del 1997. “Non è importante fare un videogioco, ma per i bambini il videogioco
fa parte della cultura in cui vivono, loro pensano che sia importante, ed è impor-
tante per le loro vite. Dunque, il primo cambiamento che arriva quando un bam-
bino può fare un proprio videogioco è che i bambini passano dall’essere consu-
matori ed essere produttori. Questo è un primo cambiamento nell’approccio e
nella mentalità. L’errore della televisione, dei media, persino della scuola, sta
nell’offrire la conoscenza ai bambini; in questa prospettiva i bambini consumano,
non producono. Il bambino, viceversa, può, ora, realmente realizzare un video-
gioco, uno veramente bello; e questo è un cambiamento già di per sé un cam-
biamento importante. Ma facendo questo videogioco, parti realmente importanti
della conoscenza entrano nel gioco, e così il bambino è molto motivato ad ap-
prendere bene. Che cosa? Prima di tutto la programmazione: il bambino apprende
a programmare il computer per fare il gioco. Abbiamo dei bambini di nove, dieci
anni che imparano a programmare ad un livello che normalmente non ci si aspetta
neanche da studenti di scuole medie o addirittura da studenti universitari”.5 E
cita la possibilità anche di altri possibili apprendimento nel campo della mate-
matica e della fisica.
Oggi la prospettiva di valorizzazione dei videogiochi, e in generale dei giochi
digitali per apprendere contenuti impegnativi, è sempre più approfondita. Il rap-
porto Horizon Europe 2014 Schools Edition6, realizzato in collaborazione con la
Direzione generale della Commissione Europea per l’Educazione e la Cultura e altri
organismi legati all’Unione Europea, cita come sviluppi prossimi dell’integrazione
delle tecnologie mobili nell’insegnamento proprio i cosiddetti “giochi informatici
seri”. I “computer games”, infatti, vengono riletti nella loro potenzialità formativa
in quanto avvio allo sviluppo delle conoscenze e abilità proprie della computer
science: essi, infatti, possono richiedere ai giocatori di “usare abilità di program-
mazione per affrontare le sfide del mondi virtuali” e, in quanto tali, si ritiene che
la loro presenza si svilupperà notevolmente nei prossimi anni. Più in generale, i
laboratori virtuali saranno destinati a diventare più comuni. Essi diventeranno
luoghi nei quali gli studenti potranno fare pratica tecnica e sviluppare compe-
tenze operative in un ambiente sicuro prima di usare veri e propri strumenti pro-
duttivi. Si potranno avere laboratori remoti, utilizzabili in collegamento internet
attraverso una interfaccia virtuale, al fine di aiutare le scuole che mancano di
adeguate attrezzature per realizzare esperimenti e attività laboratoriale.
5
http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=260&tab=int#link002. Intervista
raccolta il 7 marzo 1997. Sito consultato il 13 luglio 2015.
6
https://ec.europa.eu/jrc/sites/default/files/2014-nmc-horizon-report-eu-en_online.pdf
studI e RICERCHE
Una rinascita dell’approccio costruzionista
sollecitato dal movimento che enfatizza
la produzione di artefatti,
soprattutto digitali: il Maker Movement
Le iniziative sopra evocate possono essere inquadrate in quello che negli Stati
Uniti è stato denominato il Maker Movement in Education.7 Con lo sviluppo sempre
più veloce della possibilità di utilizzare forme di tecnologia digitale agevoli da
valorizzare, si è manifestata una nuova attenzione per un approccio educativo
che si appoggia sulla possibilità di progettare e realizzare artefatti cognitivi e
fisici in generale, e oggi anche artefatti digitali. Viene così ripreso e reso ancor
più incisivo l’approccio elaborato a suo tempo da Seymour Papert e da lui deno-
minato costruzionismo. In effetti il movimento esprimeva l’interesse nel costruire
e condividere invenzioni personali e artefatti creativi, ridefinendo lo studente
come produttore più che consumatore. “Gli appassionati lavorano nelle scuole,
nei musei, nelle biblioteche, nei centri educativi, nelle proprie case e, partico-
larmente, in quelli che oggi vengono denominati makerspaces (spazi di produzio-
ne). Viene affermato che il processo di immaginare, creare, rifinire e condividere
un artefatto offre una forma unica di apprendimento collaborativo e autodiretto
sia per giovani, sia per adulti”.8
Anche in Italia il movimento Maker ha avuto un notevole sviluppo in questi
ultimi anni. Gli aderenti tendono a definirsi artigiani digitali. In realtà spesso
sembra emergere uno sviluppo della tendenza al bricolage, al fai da te. Tuttavia
l’ambito di lavoro, quello digitale, sollecita lo sviluppo di non poche conoscenze
a abilità informatiche e, in generale, di tipo ingegneristico. D’altra parte, in vari
Istituti Tecnici e Professionali italiani, nonché in alcuni Centri di Formazione Pro-
fessionale, sotto la guida di valenti docenti e anche di esperti italiani e stranieri,
sono stati sviluppati progetti impegnativi di natura robotica, di produzione di
start-ap, e di altre significative applicazioni dell’informatica. Nel 2012 si è svolta
a Roma la prima Fiera dedicata alla presentazione dei prodotti realizzati nei mol-
teplici FabLab italiani, laboratori di fabbricazione digitale. Negli anni seguenti
si sono svolte analoghe manifestazioni fino a quella del 2015 alla quale hanno
partecipato più di 65.000 appassionati.
Un FabLab è un laboratorio al quale possono partecipare giovani e adulti,
attrezzato con macchine utili per la produzione di artefatti, soprattutto digitali.
7
La rivista Harvard Educational Review ha dedicato un simposio al Movimento con interes-
santi articoli di approfondimento (cfr. Harvard Educational Review, 84, 4, Winter 2014)
8
Presentazione del Simposio “The Maker Movement in Education: Designing, Creating,
and Learning Across Contexts”, Harvard Educational Review, 84, 4, Winter 2014, 492.
61
Alla sua realizzazione e funzionamento possono contribuire sia individui, sia im-
prese, mettendo a disposizione attrezzature e competenze differenziate. In esso
possono così essere coinvolte persone e attivati processi in grado di trasformare
idee in prototipi e prodotti. L’idea della costituzione di un FabLab è nata nel
2001 al MIT dove Neil Gershenfeld riuscì a ottenere un finanziamento per aprire
un centro specializzato in questa direzione. Il laboratorio nasceva dall’idea di
Gershenfeld di sviluppare un luogo nel quale gli oggetti fisici nascessero sulla
base delle loro rappresentazioni digitali grazie a macchine in grado di trasfor-
mare la materia. Un buon FabLab è un luogo di incontro tra persone con forma-
zioni eterogenee, che risultano complementari per concepire progetti innova-
tivi: artigiani tradizionali, esperti di elettronica, grafici, informatici.
Da questi semplici accenni si possono cogliere alcune indicazioni per far ri-
vivere in ambienti integrati digitalmente la tradizione della bottega artigiana,
rivisitata secondo la prospettiva di una comunità di pratica quale è stata esplo-
rata da Etienne Wenger. Tale prospettiva integra diverse indicazioni provenienti
dalla ricerca, valorizzando l’apprendistato e l’apprendimento da modelli. Il ruolo
formativo di una comunità di pratica diventa significativo, se si prende in consi-
derazione la moltitudine delle relazioni tra persone che già possiedono compe-
tenze avanzate e persone principianti, o che devono acquisire competenze nuove.
Grazie alle possibilità di osservare persone più esperte, di lavorare insieme, di
confrontarsi con gli altri, si crea un naturale sistema di apprendimento vicende-
vole e la possibilità di confrontarsi e sostenersi con pratiche e modelli che sono
stati verificati come effettivi.
Scrivendo della comunità di pratica E. Wenger afferma: “La prima caratteri-
stica della pratica come fonte di coerenza di una comunità è l’impegno reciproco
dei partecipanti. La pratica non esiste in astratto. Esiste perché le persone sono
impegnate in azioni di cui negoziano reciprocamente il significato. In questo
senso, la pratica non risiede nei libri o negli strumenti, anche se può coinvolgere
tutti i tipi di oggetti. [...] La pratica risiede in una comunità di persone e nelle
relazioni di impegno reciproco attraverso le quali esse fanno tutto ciò che fanno.
L’appartenenza a una comunità di pratica è dunque un patto di impegno recipro-
co. È ciò che definisce la comunità”9. In tale ambiente è possibile acquisire com-
petenze collegate con il mondo attuale del lavoro e per potervi rimanere in ma-
niera attiva e partecipativa. È pure possibile l’acquisizione delle competenze e
conoscenze che da Polanyi sono state definite tacite e che non si possono tra-
9
E. WENGER, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina,
2006, p. 88. Vedi anche: E. WENGER, R. MCDERMOTT e W.M. SNYDER, Coltivare comunità di pra-
tica, Milano, Guerini, 2007.
10
Y. ENGESTRÖM, R. ENGESTRÖM, M. KÄRKKÄINEN, Polycontextuality and boundary crossing in
expert cognition: Learning and problem solving in complex work activities, Learning and Instruction,
1995, 5, 319-336.
11
Un approfondimento del concetto di competenze strategiche nel gestire se stessi nello studio
e nel lavoro si trova, accompagnato da strumenti di autovalutazione, nel sito www.competenze-
strategiche.it.
12
S. PAPERT, Mindstorms. Bambini computer e creatività, Milano, Emme ed., 1984 (originale 1980).
13
I. HAREL, S. PAPERT (Eds.), Constructionism, Norwood, Ablex, 1991. Vedi anche: S. PAPERT,
The Children’s Machine: Rethinking School in the Age of the Computer, New York, Basic Books, 1993
(I bambini e il computer, Milano, Rizzoli, 1994).
63
Tuttavia Papert ha messo in luce una sua differente prospettiva. Più che sul co-
struire una propria struttura cognitiva, o un proprio modello rappresentativo della
realtà, attraverso l’interazione con l’ambiente, egli insiste sullo sviluppo delle
proprie conoscenze e delle proprie abilità, sulla base dell’attività costruttiva di
artefatti di natura cognitiva e fisica “sia che si tratti di un castello di sabbia
sulla spiaggia, sia di una teoria circa l’universo”14. Più che tendere a sviluppare
progressivamente la capacità di manipolare sistemi simbolici, come descritto da
Piaget, Papert insiste sul coinvolgimento pieno con quanto si va facendo, rima-
nendo legati al contesto nel quale si opera (di qui l’insistenza sulla natura situata
dell’apprendimento). Papert si domanda, poi, come fanno i bambini a imparare
tante cose senza un insegnamento esplicito e dice: «la risposta è ovvia. Ciò av-
viene perché l’apprendimento è legato all’azione e riceve i suo feedback non dal
sì-no dell’autorità degli adulti, ma dalla resistenza e dalla guida della realtà.
Alcune azioni tentate non producono i risultati attesi. Altre producono risultati
sorprendenti. Il bambino giunge ad apprendere che non basta volere un risultato
perché esso arrivi. Occorre agire in una forma “appropriata”, e “appropriata”
significa basata sulla comprensione».15
Quello che evoca Papert è il cosiddetto feedback intrinseco o interno, pre-
sente come risposta alle nostre azioni, ai nostri interventi, alle nostre prestazioni,
interpretato in riferimento agli obiettivi che ci siamo posti, e ciò sia in contesti
di interazione con le cose che costruiamo, sia con i vari artefatti umani con i
quali interagiamo, sia con le persone con le quali ci rapportiamo. Esso va distinto
da quello estrinseco o esterno, come i commenti degli altri, i giudizi del docente.
In generale il feedback interno è all’origine della riflessione critica sui risultati
(buoni o meno buoni) delle nostre attività e sulle cause che li hanno determinati.
Rimane, comunque, essenziale considerare quale meta ci si è posti nel nostro la-
voro. Così, quando si parla di auto-valutazione, si prendono in considerazione i
risultati del nostro agire, cercando di comprenderne le ragioni del successo o del-
l’insuccesso, sempre in riferimento agli obiettivi intesi. In questo processo au-
to-valutativo si può distinguere tra: a) Feed-Up: dove sto (stiamo) andando?
b) Feed-Back: come sto (stiamo) procedendo? c) Feed-Forward: quale la prossima
mossa?
Il modo di apprendere descritto da Papert è stato inquadrato da Diana Lau-
rillard16 nella prospettiva dei processi di apprendimento, che si realizzano attra-
verso la pratica, processi che includono sia forme di apprendistato pratico e co-
14
I. HAREL, S. PAPERT, o. c., 1.
15
S. PAPERT, The Connected Family: Bridging the Digital Generation Gap, Athens, Long-
street Press, 1996, 68.
16
D. LAURILLARD, Teaching as a Design Science. Building Pedagogical Patterns for Learning
and Technology, London, Routledge, 2012.
17
Cfr.: http://nsf.gov/awardsearch/showAward?AWD_ID=8751190.
18
M. FERRARIS, Realismo positivo, Torino, Rosenberg & Seller, 2013.
65
denziare alcune opportunità nella direzione di favorire lo sviluppo di un’autore-
golazione in un contatto concreto con la realtà, e in quella di uno sviluppo del-
l’imprenditorialità. Se ben impostato si ha un ambiente di lavoro che aiuta a met-
tere in atto forme di collaborazione e di apprendimento da modelli.
67
la possibilità di sfruttare le caratteristiche di tali ambienti di lavoro per impostare
la propria attività e strutturare programmi rispondenti alle proprie esigenze. In que-
sta stessa impostazione, sono stati resi disponibili software specificamente dedicati
al lavoro costruttivo in contesti disciplinari. Un esempio significativo è dato dal
programma Geogebra, che favorisce lo sviluppo progressivo di conoscenze matema-
tiche, sia geometriche sia algebriche, in modo dinamico e costruttivo. Diretto ad
altri obiettivi vengono ora offerti alla progettazione, realizzazione e perfezionamento
personali forme di portfolio elettronico o digitale, come il progetto Mahara; tuttavia,
se si vuole più direttamente promuovere accanto a un’attività produttiva, lo sviluppo
del pensiero computazionale, occorre entrare nella prospettiva di strutturare un vero
e proprio ambiente operativo, quale può essere un videogioco, una app che risponde
a precise finalità, un sito sufficientemente ricco e dinamico.
Lo sviluppo e la diffusione di strumenti digitali può far riprendere consapevolezza
dell’importanza di promuovere anche nel contesto scolastico una progressiva fami-
liarizzazione con una cultura tecnico-produttiva e l’imprenditorialità. Ciò deve av-
venire attraverso vere e proprie attività lavorative che includano sia il momento
ideativo, sia quello progettuale, realizzativo e valutativo di oggetti, di iniziative, di
soluzione di problemi pratici. La pedagogia del lavoro, suggerita a suo tempo da
Sergio Hessen,19 ha evidenziato un cammino progressivo di esperienze lavorative
che, partendo dalla scuola primaria, promuove negli studenti qualità personali come
spirito di iniziativa, creatività, capacità di utilizzare strumenti pratici, saper colla-
borare con altri nell’attività produttiva, saper comunicare, saper controllare la propria
attività e perseverare fino al raggiungimento di un risultato. In particolare nel primo
ciclo di istruzione occorre aiutare a passare “dall’azione al senso dell’azione, dal fare
per diletto al dovere del fare”. Poi, dalla scuola secondaria, attraverso una vera ini-
ziazione ai modi elementari di lavorazione e alla familiarizzazione con gli strumenti
utili, promuovere l’educazione al gusto di portare termine e perfezionare un artefatto,
recuperando la componente intellettuale del lavoro pratico. In seguito ci si apre a
un lavoro sempre più creativo e autonomo nel quadro di quella che oggi si definisce
una comunità di lavoro professionale, risvegliando di desiderio di trovare una proprio
posto nel mondo.
Sembra però che negli ultimi decenni si sia perso di vista quanto i pedagogisti
come Sergio Hessen avevano indicato come componente fondamentale del processo
educativo fin dai primi anni della vita scolastica. Capita, infatti, che i giovani siano
sollecitati a diventare attivi e produttivi fuori dalle aule di scuola, come nel caso
del Maker Movement in Education.
19
S. HESSEN, Pedagogia e mondo economico, Roma, Armando, 1950. Vedi anche G. BOCCA,
Pedagogia del lavoro, Brescia, La Scuola, 1998.
studI e RICERCHE
della persona umana in vista
della sua occupabilità: il ruolo delle
soft skills, o competenze professionali
personali generali
MICHELE PELLEREY1
Il contributo intende evidenziare il ruolo The article aims to highlight the increasingly
sempre più importante che viene attribuito alle important role which is attributed to the so-
cosiddette soft skills, o competenze professionali called “soft skills”, or general vocational skills,
generali, nella preparazione dei giovani al fine in the preparation of young people in order to be
di potersi inserire e permanere nel mondo del able to enter and to remain in the labour market.
lavoro. Ne vengono di conseguenza modificati, As a consequence, concept and practice of voca-
anche profondamente, sia il concetto, sia la tional guidance are modified. In this regard, the
pratica stessa di orientamento professionale. CNOS-FAP Federation is conducting a research
A partire da queste constatazioni è in corso aimed at developing an overall and more
una ricerca nell’ambito del CNOS-FAP con integrated framework of vocational skills
l’obiettivo di sviluppare un quadro più comples- to be promoted at all levels of training,
sivo e integrato di competenze professionali thereby fostering the necessary background
da promuovere a tutti i livelli della formazione for job placement.
e così favorire nei singoli la costituzione di una
migliore base occupazionale.
■ Introduzione
Si sono moltiplicate negli ultimi tempi le richieste provenienti dal mondo
del lavoro nei riguardi di una maggiore attenzione alla preparazione dei giovani
a entrare nel mondo del lavoro da parte dei processi istruttivi, sia a livello se-
condario, sia a livello terziario e universitario. Anche per rispondere a tali ri-
chieste è stata stabilita una consistente attività curricolare di alternanza scuo-
la-lavoro. Tuttavia in questa prospettiva sembra ancora poco presente la consa-
pevolezza di quale sia l’effettiva domanda di formazione dal punto di vista del-
l’occupabilità. Ci si concentra, infatti, su aspetti di tipo tecnico-organizzativo,
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
41
mentre si sottovalutano le richieste provenienti da imprenditori ed esperti circa
lo sviluppo di quelle competenze che passano sotto il nome di soft skills profes-
sionali. La stessa nozione di orientamento professionale subisce in questo con-
testo una notevole evoluzione: sempre più si insiste in tale ambito sul processo
di potenziamento della persona in quelle qualità di base che consentono non
solo di entrare, ma soprattutto di permanere nell’attività lavorativa. Ad esempio,
recentemente è stato pubblicato in Francia e in Italia un volume dedicato alla
“Psicologia dell’accompagnamento” il cui sottotitolo dice: “Il senso delle vita e
del lavoro nell’orientamento professionale”2. In esso si evidenza il ruolo centrale
del quadro di significati e di valori che animano e guidano la persona nel corso
della sua esperienza esistenziale e lavorativa sia nell’impostare le proprie scelte
iniziali, sia nel decidere il seguito della propria carriera professionale. È sembrato
quindi opportuno avviare una riflessione critica nei riguardi del concetto di
occupabilità e nei riguardi di quello di orientamento professionale, al fine di
impostare più solidamente i processi istruttivi e formativi a ogni livello.
L’approccio che in tale contesto è sembrato più ragionevole e promettente
è stato quello che centra l’azione educativa sul processo di empowerment, o po-
tenziamento della persona, inteso come sviluppo di una persona capace di dare
senso e prospettiva alla propria vita e di crescere armonicamente nelle proprie
competenze personali, sociali e lavorative in maniera di essere più pronto ad af-
frontare le sfide che oggi pone il mondo del lavoro.
2
J. BERNAUD et alii, Psicologia dell’accompagnamento. Il senso delle vita e del lavoro nel-
l’orientamento professionale, Trento, Erickson, 2015.
3
European Union, Transferability of Skills across Economic Sectors: Role and Importance for
Employment at European Level, Luxembourg, Publications Office of the European Union, 2011.
4
Nel Seminario di studio europeo su Soft skills and their role in employability. New perspec-
tives in teaching, assessment and certification (Bertinoro, 18-19 novembre 2015), Sydney Engel-
berg della Hebrew University di Gerusalemme ha affermato: «Studi recenti dimostrano che
il 46% dei neo dipendenti “fallisce” nei primi 18 mesi dall’assunzione. Solo il 19% raggiunge
il successo. Contrariamente alla credenza popolare, la motivazione principale alla base di tale
fallimento non risiede nella mancanza di competenze tecniche ma piuttosto nelle scarse capacità
interpersonali. Comprendere i processi di assunzione, formazione e fidelizzazione dei dipendenti
in possesso di tali capacità può pertanto risultare in un miglioramento del processo decisionale,
del coinvolgimento dei dipendenti e delle prestazioni portando a risultati migliori». Cfr.
http://www.almalaurea.it/informa/news/2015/07/23/soft-skills-and-employabiity.
43
b) Skills relazionali e di servizio: comprensione interpersonale; orientamento al
cliente; cooperazione con gli altri; comunicazione. Queste skills permettono
alle persone di comprendere i bisogni degli altri e di cooperare con loro. Le
skills comunicative sono legate a tutti gli altri cluster ma sono incluse in
questo per il ruolo che hanno nella costruzione di relazioni.
c) Skills relative a impatto e influenza: capacità di esercitare un’influenza o un
impatto sugli altri; consapevolezza organizzativa, leadership, sviluppo degli
altri. Le skills di questo gruppo riflettono la capacità di un individuo di in-
fluenzare gli altri. Le competenze manageriali rappresentano un sottoinsie-
me particolare di questo cluster.
d) Skills orientate alla realizzazione: orientamento agli obiettivi (o al successo);
efficienza; attenzione all’ordine, alla qualità e all’accuratezza; capacità di
prendere l’iniziativa (approccio proattivo); problem solving; pianificazione e
organizzazione; ricerca e gestione delle informazioni; autonomia. L’essenza
di questo cluster è la propensione all’azione, una propensione diretta più alla
realizzazione di attività che all’impatto su altre persone.
e) Skills cognitive: pensiero analitico; pensiero concettuale. Queste due skills
riflettono i processi cognitivi di un individuo: come pensa, analizza, ragiona,
pianifica, nonché le sue capacità di pensiero critico, di identificare problemi
e situazioni, di formulare spiegazioni e ipotesi, di elaborare concetti.
Dal punto di vista della trasferibilità, secondo lo studio, occorre considerare
anche un’altra categoria di skills, quelle denominate hard skills, e che sono più
direttamente legate ad aspetti tecnico professionali. Esse si possono distinguere
secondo due tipologie fondamentali: generiche e specifiche. Le prime, le hard
skills generiche, sono competenze la cui natura è certamente tecnica e relativa ad
ambiti di lavoro particolari, ma entrano in gioco in quasi tutti gli ambiti esaminati
e così sono percepite come altamente trasferibili. Se ne considerano sei tipologie:
relative all’ambito legislativo e normativo; economiche; di base in scienze e
tecnologia; ecologiche (relative alla questione ambientale); digitali e informatiche;
di comunicazione in lingue straniere. Le hard skills specifiche sono invece presenti
in poche situazioni e in specifici settori lavorativi, essendo direttamente connesse
con precise forme di lavorazione. Nello studio ne sono state individuate numerose
ed esse possono essere raggruppate tra loro secondo 264 clusters.
Si tratta di uno studio che prende in considerazione molteplici ambiti di la-
voro e giunge alle sue conclusioni non sulla base di una raccolta di opinioni da
parte di datori di lavoro o di esperti di organizzazione e funzionamento azien-
dale, bensì di una esplorazione analitica delle esigenze poste dai diversi specifici
contesti e settori lavorativi.
Questa tripartizione delle competenze può essere presa in considerazione da
un percorso formativo sia iniziale, sia continuo, circa la promozione di tali qua-
5
R. ABRAMAVEL, L. D’AGNESE, La ricreazione è finita. Scegliere la scuola. Trovare il lavoro,
Milano, Rizzoli, 2015.
6
L’Autore riassume la ricerca sviluppata nel quarto capitolo del volume: H. GARDNER, Verità,
bellezza, bontà, Educare alle virtù nel ventunesimo secolo, Milano, Feltrinelli, 2001. Il rapporto
generale della ricerca è contenuto nel volume: H. GARDNER, GoodWork, Theory and Practice,
Cambridge, 2010. Esso può essere scaricato dal sito: www.goodworkproject.org/publicatios/
books.htm.
7
V. GARCIA HOZ, La práctica de la educación personalizada, Madrid, Rialp, 1988.
45
Qui tocchiamo un punto decisivo delle competenze che stanno alla base di
un «buon» lavoro. Esso viene definito spesso come «etica del lavoro». Molte vol-
te viene attribuita questa caratteristica a chi dà lavoro; l’azienda, l’imprenditore
non deve corrompere, trattare male la gente, inquinare l’ambiente, ecc. Ma molti
casi anche recenti hanno messo in luce l’importanza di tener conto dell’etica dal
punto di vista del dipendente. Anche Gardner prende in considerazione l’ambien-
te nel quale opera il lavoratore. A queste tre qualità che caratterizzano tutte le
professioni e le attività lavorative egli aggiunge, soprattutto per quelle meno
«professionali», che l’ambiente nel quale il lavoratore opera sia «equo». Nel sen-
so «che tutti sono trattati con correttezza». «Avendo la possibilità di scegliere,
pochi opterebbero per un ambiente di lavoro “cattivo” o “compromesso”. Di fat-
to, invece, in molti luoghi è difficile riuscire a svolgere un buon lavoro e riuscire
a continuare a svolgerlo sul lungo periodo.
«La nostra ricerca, afferma Gardner, ha messo in luce tre fattori che aumen-
tano la probabilità di un buon lavoro». 1. Supporto verticale: i valori e i princìpi
operativi delle persone che stanno al vertice o vicino al vertice della piramide
lavorativa. Se il vostro capo è un buon lavoratore, offre un modello di buon la-
voro, si aspetta lo stesso da voi e impone sanzioni sempre più severe in caso di
lavoro compromesso o cattivo; il suo esempio eserciterà una forte influenza sulla
vostra etica del lavoro. 2. Supporto orizzontale: i valori e i modi usuali di com-
portamento di pari e colleghi. Anche quelli che si trovano al vostro livello, sono
buoni lavoratori e inviano segnali di avvertimento quando voi (o altri) deviate
da quella norma; costituiscono esempi importanti. 3. Periodiche iniezioni di en-
tusiasmo: in tutte le professioni ci sono ogni tanto atti di eroismo, così come
richiami d’attenzione in conseguenza dell’identificazione di lavori compromessi
o decisamente cattivi. I lavoratori sono fortemente influenzati da questi eventi
positivi o negativi e, in particolare, dal modo in cui reagiscono gli altri8.
8
H. GARDNER, o.c., 97.
9
C. CIAPPEI, M. CINQUE, Soft skills per il governo dell’agire, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 161.
10
OMS, Skills for Life, Genève, 1993.
11
M. PELLEREY, Competenze. Il ruolo delle competenze nei processi educativi scolastici e for-
mativi, Napoli, Tecnodid, 2010, p. 87.
12
C. CIAPPEI, M. CINQUE, Soft skills per il governo dell’agire, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 136.
47
ambiti. [...] le soft skills sono predittive di successo nella vita [...] e per questo
motivo dovrebbero essere tenute in debita considerazione nelle politiche pubbliche
relative allo sviluppo e agli investimenti per la formazione»13. Viene anche riferita
l’opinione di Knight e Page secondo cui si tratta di un mix di disposizioni, attributi
e pratiche, tipicamente “non determinate” o determinabili, che richiedono tempo
per formarsi, essendo il prodotto di anni. Inoltre possono essere rilevate solo
attraverso le prestazioni che ne rappresentano la manifestazione esterna. D’altra
parte queste possono variare a seconda dei contesti e quindi la loro identificazione
esige la considerazione di una molteplicità di manifestazioni14.
13
Ibidem, p. 137.
14
P. KNIGHT, A. Page, The assessment of “wiched” competences. Cfr: http://www.open.ac.uk/
opencetl/files/opencetl/file/ecms/web-content/knight-and-page-(2007)-The-assessment-of-
wicked-competences.pdf (visitato il 31 dicembre 2015).
15
M. TUCCIARELLI, Coaching e sviluppo delle soft skills, Brescia, la Scuola, 2014.
16
COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CEI (a cura di), Per il lavoro. Rapporto-
Proposta sulla situazione italiana, Roma-Bari, Laterza, 2013, 4.
■ Conclusione
Nel 1922 John Dewey descriveva il carattere di una persona come un’inter-
penetrazione dei suoi abiti, cioè delle sue disposizioni, intese queste ultime co-
me un insieme interconnesso e coerente di atteggiamenti, significati, conoscen-
ze, abilità e pattern o schemi di comportamento; non singoli comportamenti
specifici, né insiemi sconnessi di prestazioni19. Tale interpenetrazione non è mai
totale. Essa è più marcata nei caratteri in quelli che chiamiamo caratteri forti.
D’altra parte tale integrazione è un costruzione, più che un dato di fatto. «Un
carattere debole, instabile, vacillante è uno nel quale i differenti abiti si alter-
nano tra loro invece di incorporarsi l’uno nell’altro. La forza, solidità di un abito
17
Purtroppo l’Autore insiste su un concetto di competenza come comportamento, equivo-
cando tra manifestazione di competenza, o prestazione, e competenza stessa. Quest’ultima infatti
è alla radice dei singoli comportamenti e questi assumono il ruolo di indicatori di competenza.
18
R. ABRAMAVEL, L. D’AGNESE, o.c., 57.
19
J. DEWEY, Human nature and conduct: an introduction to social psychology, New York,
H. Holt, 1922, pp. 38-42.
49
non sta nel suo possesso ma è data dal rinforzo che essa riceve dagli altri abiti
che assorbe in sé»20.
Un “buon” lavoratore deve quindi essere caratterizzato da un insieme inte-
grato di disposizioni interne stabili, o competenze, sia di natura personale e tra-
sversale, le soft skills, sia di natura tecnologica e culturale, le soft skills generi-
che, sia di natura tecnico-operativa, le soft skills specifiche. Tutto ciò sollecita
un ripensamento profondo della progettazione e della conduzione dei percorsi
formativi sia a livello di Formazione Professionale Iniziale, sia Continua, sia a
livello secondario, sia a livello terziario e universitario. È quanto veniva richia-
mato nel contesto del già citato seminario di studio europeo promosso dal-
l’Università di Bologna e da Alma Laurea, il cui tema sollecitava proprio questa
attenzione: “Le soft skills e il loro ruolo nell’occupabilità”.
20
Ibidem, p. 38.
studI e RICERCHE
e prospettiva temporale
MICHELE PELLEREY1
Due significative tendenze sembrano dominare Two significant approaches are needed in
nell’ambito dei processi sia formativi, the area of education, guidance and also in
sia orientativi, anche in ambito professionale. vocational training. The first one insists on the
La prima insiste sul ruolo costruttivo di sé che creation of the self that everyone is called to
ciascuno è chiamato a compiere. La seconda mette accomplish. The second one highlights the
in evidenza la dimensione narrativa che sottende narrative dimension of the self and the past
a questa impresa, sia dal punto di vista del senso experience in order to reinterpret the events
e della prospettiva esistenziale che ne sta alla base, of the past for planning the own future.
sia in quello della necessità di reinterpretare le The following article explores the impact of these
proprie vicende passate in vista della progettazione approaches on the activities of vocational
del proprio futuro. L’articolo esplora le ricadute di guidance considering the studies on time
queste tendenze sull’attività di orientamento perspective made by Philip Zimbardo and those
professionale tenendo conto degli apporti on guidance counselling called “Life Design”
degli studi sulla prospettiva temporale avviati a made by Mark Savickas.
suo tempo da Philip Zimbardo e di quelli
di Mark Savickas sulla consulenza orientativa
denominata “life design”.
■ 1. Introduzione
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
53
assunta, come nel caso delle cosiddette transizioni. Si evidenzia in ciò l’aspetto
decisionale che implica l’elaborazione o la rielaborazione di progetti di vita
e l’individuazione delle condizioni necessarie per poterli realizzare. Accanto a
questa capacità si colloca quella di auto-regolazione, intesa come la capacità di
gestire se stessi nel cercare di mettere in atto quanto deciso con continuità
e sistematicità2. Le teorie più recenti riguardanti l’orientamento professionale
sembrano valorizzare di più la capacità di autodeterminazione, centrando la pro-
posta sullo sviluppo di un progetto di vita lavorativa, che tenga conto della pro-
pria storia personale.
Quanto alla dimensione narrativa, essa è stata valorizzata in ambito sia
filosofico, sia pedagogico, sia orientativo. I riferimenti comunemente assunti
riguardano spesso i contributi di Jerome Bruner e Paul Ricoeur, seguiti da
una folta schiera di studiosi. Ad esempio, Ricoeur3 distingue per il concetto di
identità narrativa due diverse possibili accezioni, complementari tra loro, che
rispondono a due diverse domande: «che cosa sono io» e «chi sono io». La pri-
ma, relativa all’identità espressa dal termine idem, può essere messa in crisi dal-
la dispersione e frammentarietà dell’esperienza, sviluppando una dissociazione
interiore, che invoca però una risposta alla seconda, relativa quest’ultima al-
l’identità espressa dal termine ipse. L’identità narrativa si viene a costituire nel-
l’interazione tra le due identità, quella della sedimentazione anteriore, della con-
statazione della dispersione, e quella prospettica, della promessa e dell’impegno
rivolto al futuro che aspira alla coesione.
L’insistenza sull’aspetto narrativo, che sta alla base della propria identità,
evoca anche quanto lo stesso Jean Guichard descrive come un processo di co-
struzione di sé, nel quale entra in gioco in maniera essenziale la componente
temporale, considerata nelle sue tre dimensioni fondamentali: passato, presente
e futuro (Guichard, 2009). Nel 2009 Mark L. Savickas e un folto gruppo di spe-
cialisti, tra cui lo stesso Jean Guichard, proponevano un nuovo paradigma di ri-
ferimento per l’attività di orientamento professionale, un paradigma elaborato
nei precedenti tre anni, centrato sull’attività di promozione delle competenze
necessarie al fine di progettare la propria vita professionale, nell’anticipare e
gestire le transizioni e dare spazio alla speranza per un futuro significativo, no-
nostante la complessità del mondo del lavoro e delle professioni, indotta dalle
2
Alcuni Autori integrano queste due capacità nell’unica competenza denominata appunto
competenza strategica di autoregolazione, includendo in essa anche la dimensione della scelta (Zim-
merman, 1989). Quest’ultimo approccio viene però applicato soprattutto ai contesti scolastici e
all’apprendimento che vi si attua.
3
Si può vedere in particolare il volume: P. RICOEUR, Persona, comunità e istituzioni, a cura di
A. DANESE, Firenze, Edizioni Cultura della Pace, 1994.
55
tivo verso il passato – che sia fondato su ricordi veritieri o meno – tendono a
essere più felici, più sane e avere più successo delle persone che hanno un at-
teggiamento negativo verso il passato» (Zimbardo, Boyd, 2009, 83). Di qui la
prima dimensione da prendere in considerazione: l’orientamento verso il passato,
positivo o negativo. Ricerche italiane hanno rilevato come i soggetti con un
atteggiamento prevalentemente negativo sono caratterizzati da bassa auto-
stima, avvertono forti sentimenti di inadeguatezza e di depressione. Difficil-
mente si impegnano in un compito e quasi sempre presentano disturbi di ti-
po psicologico. Quando prevale l’aspetto positivo i soggetti tendono ad affron-
tare i problemi quotidiani cooperando con gli altri, perché ritengono importante
mantenere buone relazioni sociali, sono poco aperti alle novità, avvertono forti
sentimenti nostalgici e sono inclini a pregiudizi fino a giungere a una vera e
propria paura di tutto ciò che sia nuovo e diverso. Hanno, comunque, un forte
senso di continuità personale e un sentimento stabile di sé nel tempo (Laghi,
D’Alessio, Baiocco, 2007, 178-179).
Quanto al presente vengono esaminati due orientamenti fondamentali, de-
nominati rispettivamente presente edonista e presente fatalista. Il primo orien-
tamento segnala i soggetti che “sono concentrati sulla gratificazione immediata,
sull’auto-stimolazione, sui benefici a breve termine”, mentre sono “attratti dalle
cose che procurano piacere ed evitano le cose che procurano dolore” (Zimbardo,
Boyd, 2009, 101). Nelle indagini europee emerge che essi difficilmente dedicano
molto tempo al lavoro o allo studio e sono attratti notevolmente da eventi ec-
citanti e stimolanti. Sono insofferenti nei confronti di ogni tipo di abitudine e
hanno un focus temporale rivolto a motivazioni estrinseche e raramente a quelle
intrinseche. Sono soggetti che preferiscono hobbies estremi (ad esempio, il gio-
co d’azzardo) e tutte le attività che richiedono elevati livelli di energia; si de-
scrivono come molto “suscettibili” e spesso presentano comportamenti antiso-
ciali e atteggiamenti anticonformisti (Laghi, D’Alessio, Baiocco, 2007, 177-178).
Circa l’orientamento denominato presente fatalistico esso sembra derivare
dall’esperienza ripetuta di non poter far nulla per cambiare il presente e soprat-
tutto il futuro. «“Una sorta di impotenza appresa”, “una visione fatalistica della
vita” che può essere riassunta della convinzione che “la mia vita è controllata
da forze su cui non ho alcuna influenza”» (Zimbardo, Boyd, 2009, 104-5), In
generale, viene affermato che la prevalenza di tale orientamento porta a foca-
lizzarsi sul qui ed ora con una modalità di pensiero poco astratta e molto concre-
ta; non si hanno stimoli e si crede che ogni evento si risolva in modo già presta-
bilito. Per alcuni soggetti il fatalismo è ancorato al proprio credo religioso, al
punto da ritenere che ogni iniziativa sia gestita da un’autorità divina; per altri
è il prodotto di una rappresentazione di sé fallimentare con credenze di impossi-
bilità a cambiare gli eventi. Tendono a credere che il proprio successo o insuc-
Mark Savickas ha riassunto secondo tre grandi prospettive quanto passa nella
situazione italiana sotto la denominazione di “orientamento professionale”. La
prima prospettiva considera il soggetto come un portatore stabile di attitudini,
interessi, valori. Rilevare per mezzo di opportuni strumenti tali tratti e caratteri
personali è il primo passo. Il secondo prende in considerazione il mondo del la-
voro, anch’esso considerato abbastanza stabile nella sua configurazione fonda-
mentale, organizzato secondo filiere professionali e chiare gerarchie di ruoli.
L’attività di orientamento tende a favorire l’incontro positivo e produttivo tra
persona e una specifica posizione lavorativa, sia nel momento preparatorio,
quello dello studio e della formazione, sia poi nel momento dell’inserimento ef-
fettivo nel lavoro. Questa prospettiva viene descritta da Savickas sotto la for-
mula di “vocational guidance”. In un suo lavoro tradotto in italiano egli ricorda
57
come la teoria di Holland sulla congruenza della scelta professionale ha avuto
una grande diffusione e nella pratica essa viene applicata: «Per aiutare i clienti
ad acquisire una migliore conoscenza di sé e del lavoro e a realizzare il matching
tra se stessi e l’occupazione» (Savickas, 2014, 22).
La seconda prospettiva vede la persona come un soggetto evolutivo, che può
impegnarsi nel costruire conoscenze, competenze e atteggiamenti orientati ver-
so specifiche carriere professionali, caratterizzanti il mondo del lavoro, quale
viene da esso percepito. L’attività di orientamento favorisce, da una parte, che
l’impostazione formativa sia coerente con tale aspirazione, dall’altra, che la per-
cezione della posizione lavorativa sia valida e aggiornata. Si tratta di quanto
passa sotto la denominazione di “career education”. In questa impresa si aiutano
le persone: «(a) a comprendere gli stadi del percorso professionale, (b) a cono-
scere i compiti evolutivi immediatamente successivi, (c) a basarsi su atteggia-
menti, convinzioni e competenze necessari a gestire tali compiti» (Ibidem).
Queste due prospettive rivestono ancora la loro importanza quando si deve
rispondere a una domanda relativa a come fare carriera nelle professioni gerar-
chizzate e nelle organizzazioni burocratiche.
L’impostazione della terza prospettiva, denominata “life design”, deriva
dalla constatazione che il mondo del lavoro ha ormai caratteristiche instabili,
fortemente evolutive sia dal punto di vista tecnologico, sia organizzativo, e,
quindi, è ben difficile fare riferimento a precise figure e ruoli professionali pre-
derminati. Di conseguenza occorre puntare sul potenziamento di qualità umane
e professionali del soggetto, al fine di metterlo in grado di affrontare le incer-
tezze e complessità del presente e, soprattutto, quelle del futuro, rendendolo
così attivo costruttore di sé in vista di progetti esistenziali, aperti anche a
profonde forme di decostruzione e ricostruzione, che nelle varie transizioni esi-
stenziali si rendessero necessarie. Si evidenzia così da una parte il ruolo del
senso e della prospettiva esistenziale, che sta alla base dello sviluppo di sé e
delle scelte anche faticose da compiere; dall’altra, si esalta il ruolo della narra-
zione nella ricostruzione del proprio passato e della riflessione critica su di
esso, nonché della prospettazione del futuro, in un impegno di elaborazione o
rielaborazione di un proprio progetto di vita. È immediato cogliere il collega-
mento tra questo impianto e quello sviluppato sulla base delle ricerche di Jo-
seph Nuttin e di Philip Zimbardo. Sugli orientamenti da assumere nel presente
incide fortemente il giudizio che si dà del proprio passato e la capacità di pro-
spettarsi il proprio futuro, ma anche il come si vive il proprio oggi. Il suggeri-
mento di Zimbardo è quello di favorire un equilibrio basato su un visione pre-
valentemente positiva del passato, una buona apertura verso il futuro, mentre
nel presente prevale una componente moderatamente edonistica e per nulla fa-
talistica (Zimbardo, Boyd, 2009, 289).
■ 4. aUncostruire
approfondimento dell’orientamento come aiuto
la propria identità professionale
59
Nel Manuale pubblicato sul web Savickas nel 20154 riassume così il quadro di
riferimento adottato: «La gente utilizza racconti per organizzare la propria vita,
per costruire la propria identità, per dare senso ai propri problemi. Chi entra in
consulenza porta con sé una storia relativa a qualche transizione. Questa narra-
zione permette di prendersi cura di lui. Partendo da essa, nella relazione attivata
il consulente, aiuta la persona a riflettere sulla propria vita. In questo modo è
possibile destabilizzare alcune vecchie idee, che bloccano le decisioni da pren-
dere, e ciò generalmente favorisce una consapevolezza nuova, che facilita la
scelta. Da lui stesso emerge la prospettiva per impostare una nuova storia iden-
titaria. Questa consente di elaborare o cambiare la propria storia in modo da
chiarire le scelte da compiere e attivare le azioni trasformative per affrontare la
transizione» (Savickas, 2015, 9).
Saggiamente Savickas indica sul piano operativo un approccio di tipo ecclet-
tico. In effetti nell’attività di orientamento, sia in quella che viene ordinariamente
sviluppata nelle realtà educative e formative, sia quella più specialistica di tipo
consulenziale, che viene rivolta a singoli soggetti, si deve tener conto della realtà
concreta nella quale si vive. Sulla base dei bisogni personali e del contesto sociale
l’azione orientativa può scegliere quale orientamento preferire: se quello denomi-
nato “vocational guidance” al fine di individuare un buon inserimento occupazio-
nale a partire dai tratti che lo caratterizzano, o quello denominato “career educa-
tion” che mira a sviluppare un adattamento personale alla prospettiva occupa-
zionale preferita, o quello da lui promosso e denominato “life design” al fine di
costruire una propria storia professionale (Savickas, 2012, 12).
Anzi: «L’approccio life design mira a collocarsi accanto alla vocational guidan-
ce, non a rimpiazzarla» (Savickas, 2015, 8). Riassumendo tale impostazione egli
descrive i tre orientamenti operativi dal punto di vista della visione che si ha del
soggetto, visto come “attore” nel primo caso, come “agente” nel secondo, come
“autore” della propria vicenda lavorativa nel terzo. Anche la caratterizzazione del-
l’azione da intraprendere nell’aiutare le persone assume denominazioni differenti:
di guida alle proprie scelte professionali, di educatore che promuove la propria
preparazione professionale, di consulente che aiuta il soggetto a costruire e svi-
luppare la propria identità professionale. Si tratta di metodologie operative che
devono entrare nelle competenze pratiche di ogni orientatore. Questo non può ri-
manere rigidamente legato ad una di esse, bensì adattarsi alle esigenze delle sin-
gole persone e alle condizioni esistenziali nelle quali esse si trovano, scegliendo
come modulare il suo intervento in vista del potenziamento di un’identità profes-
sionale aperta agli sviluppi di una società complessa, dinamica e, spesso, piena di
4
http://vocopher.com/LifeDesign/LifeDesign.pdf
61
In effetti, a mano a mano che gli studenti progrediscono nella loro espe-
rienza scolastica ed extra-scolastica, essi passano per numerose esperienze, che
possono essere rilette, anche con l’aiuto di opportuni consulenti, per promuove-
re nuove consapevolezze su di sé, sulle proprie aspirazioni e potenzialità, sul
senso che si vuole attribuire alla propria esistenza. Cercare di cogliere in ogni
esperienza significativa le ragioni delle emozioni positive o negative provate
aiuta a cogliere un possibile filo rosso di collegamento, una prima ipotesi di fu-
turo. Csikszentmihalyi (1999) ha esplorato l’intera gamma delle esperienze se-
gnate da risvolti emozionali, segnalando quelle segnate da un coinvolgimento
personale intenso e produttivo. E ha racchiuso il livello massimo di questi stati
personali intensi nel concetto di “flow”, cioè di piena partecipazione e di espli-
citazione completa delle proprie capacità e potenzialità. L’attività che viene rea-
lizzata in queste condizioni è percepita come degna di essere svolta per se stes-
sa e fonte, essa stessa, di soddisfazione e gratificazione. È un’esperienza di sé
come persona che riesce ad agire al massimo delle proprie capacità e questo sta-
to di cose è già di per se stesso motivo di rinforzo. Ricostruire la propria storia
personale cercando di individuare quali esperienze si sono di più avvicinate a
questo stato soggettivo, permette di individuare tendenze personali, certamente
da verificare nel futuro, ma che possono costituire una prima base per nuove
narrazioni di sé.
Quanto proposto da Savickas può così essere rivisto nel caso di adolescenti
che affrontano le loro prime transizioni, qualche volta senza particolari traumi,
ma spesso, come le statistiche segnalano, origine di fallimenti, insuccessi, fru-
strazioni. Occorre quindi che essi possano essere affiancati da persone di fiducia,
insegnanti o altri educatori, che li aiutino a ricostruire la propria identità sco-
lastica e professionale, a sviluppare una nuova e più consapevole narrazione di
sé. E, altrettanto spesso, occorre che tale azione orientativa o ri-orientativa
coinvolga le loro famiglie.
L’apporto originario di Joseph Nuttin circa il ruolo nel presente della pro-
spettiva temporale (Nuttin, 1992) metteva in luce in particolare l’incidenza delle
percezione del tempo futuro sullo stato motivazionale del presente, sottolinean-
do in ciò il ruolo dei contenuti o delle tematiche che lo caratterizzano a breve,
a medio e a lungo termine. Una recente ricerca ha convalidato tale assunto evi-
denziando strette correlazioni tra componenti motivazionali, come percezione di
autoefficacia, e attribuzioni causali e orientamenti temporali degli adolescenti
(Crea, Emad, 2016).
63
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STUDI e RICERCHE
se stessi nell’affrontare le sfide poste
dallo studio e dal lavoro
in una società complessa
e altamente dinamica
MICHELE PELLEREY1
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
39
3-Pellerey016_StudiRicerche 14/10/16 10:27 Pagina 40
■ 1. studio
Potenziare la persona in vista del suo futuro di
e di lavoro
2
Per una più puntuale presentazione vedi: M. PELLEREY, Orientamento professionale e pro-
spettiva temporale, Rassegna CNOS, 2016, 2, pp.53-64.
3
Per una chiarificazione dei concetti implicati secondo le indagini europee vedi: M. PELLE-
REY, Orientamento come potenziamento della persona umana in vista della sua occupabilità: il
ruolo delle soft skills, o competenze professionali personali generali, Rassegna CNOS, 2016, 1,
pp.41-50.
STUDI e RICERCHE
stessa infanzia. Data l’ampiezza della problematica coinvolta, è utile concentrare
l’attenzione sullo sviluppo delle soft skills, tenendo conto di quanto esse entrino
in gioco nei processi educativi e formativi fin dalla Scuola dell’infanzia.
In questa prospettiva è sempre più comune valorizzare l’espressione inglese
“empowerment” per indicare un cammino di crescita della persona umana. Il ver-
bo “to empower” in italiano viene comunemente tradotto con “conferire poteri”,
“mettere in grado di”. I diversi dizionari privilegiano ora l’uno ora l’altro aspetto.
Risulta spesso difficile tradurre questo termine in italiano con una sola parola,
per la ricchezza semantica di tale concetto. Talora si usa l’espressione “abilita-
re”, oppure più spesso “capacitare”. Qui si preferisce usare il termine “potenzia-
re”, evocando con esso sia il “processo” di potenziamento, sia il suo “risultato”.
Un “saper essere” e un “saper fare”, caratterizzati da una condizione di fiducia
in sé, percezione di competenza, capacità di sperimentare, di confrontarsi con
la realtà circostante. In altri termini: accrescere la possibilità di controllare at-
tivamente la propria vita. Le azioni e gli interventi formativi in questa prospet-
tiva mirano, cioè, a rafforzare il potere di scegliere, migliorando le conoscenze
e le competenze, favorendo la stima di sé, la fiducia nella proprie capacità, l’i-
niziativa e il controllo delle proprie azioni, dei rapporti con gli altri e con l’am-
biente. Può essere così proposta una rilettura del costrutto stesso nella direzione
della promozione dello sviluppo di una persona capace di dare senso e prospet-
tiva alla propria vita e di crescere armonicamente nelle proprie competenze per-
sonali, sociali e lavorative, in maniera di essere più pronto ad affrontare le sfide
che oggi pone il mondo del lavoro.
■ 2. generali,
Una rivisitazione delle competenze personali
intese come soft skills professionali, alla
luce del concetto di disposizione interna stabile
Tra la fine degli anni novanta del secolo passato e gli anni duemila nella ri-
flessione pedagogica statunitense si è riaffacciata la considerazione del concetto
di disposizione evocato da John Dewey. «Noi abbiamo bisogno di una parola che
esprima quel genere di attività umana che è influenzata da un’attività preceden-
te, e in questo senso è acquisita; che contenga in se stessa un certo ordinamen-
to o sistemazione di minori elementi di azione; che sia prospettica, di qualità
dinamica, pronta a manifestarsi apertamente, e che operi in qualche forma at-
tenuata e subordinata anche quando non domini palesemente l’azione; e la pa-
rola “habit” nel suo senso ordinario si avvicina più di qualsiasi altra a denotare
questi fatti. Riconosciuta che ne sia stata la natura, potremo usare anche le pa-
41
3-Pellerey016_StudiRicerche 14/10/16 10:27 Pagina 42
4
J. DEWEY, Human nature and conduct: an introduction to social psychology, New York, H.
Holt, 1922, pp.40-41.
5
R. RITCHHART, Intellectual character: What it is, why it matters, and how to get it, San Fran-
cisco, Jossey Bass, 2002.
6
A.L. COSTA e B. KALLICK, Dispositions, Corwin, Thousand Oaks, 2014, p. 20.
7
I contributi sono stati tradotti in italiano a cura di Mario Comoglio nel 2007: A.L. COSTA,
B. KALLICK, Le disposizioni della mente. Come educarle insegnando, Roma, LAS, 2007.
STUDI e RICERCHE
tutti i sensi, creare, immaginare, innovare; rispondere con meraviglia e stupore;
assumere rischi responsabili; trovare il lato umoristico; pensare in maniera indi-
pendente; rimanere aperti all’apprendimento continuo.
Come è facile intuire, lo sviluppo di tali disposizioni interne al fine di giun-
gere una loro sufficiente stabilizzazione è un lungo cammino. Nelle indagini svi-
luppate presso il CNOS-FAP si è preferito adottare l’espressione “competenze
strategiche” per quelle disposizioni interne che fanno più esplicitamente riferi-
mento all’autodeterminazione e all’autoregolazione nello studio, nel lavoro e nel-
le attività quotidiane.8 Oggi si hanno elementi decisivi per coglierne le radici in
quell’ambito di competenze elementari che caratterizzano i bambini fin dalla
scuola dell’infanzia e dalla scuola primaria: le cosiddette funzioni esecutive.9
■ 3. tegiche
La radici iniziali dello sviluppo delle competenze stra-
a livello di scuola dell’infanzia e primaria
Terrie Moffit, una delle maggiori criminologhe del mondo, ha studiato per
circa quarant’anni la popolazione del suo Paese, la Nuova Zelanda. I risultati di
tali studi sono stati presentati nel 2015 in varie conferenze tenute in Europa.
La studiosa ha messo in evidenza come bambini che manifestano buone capacità
di auto-controllo già nel periodo della scuola dell’infanzia diventino in generale
adulti autonomi e responsabili, mentre bambini che evidenziano limitate capa-
cità di autoregolazione tendano a crescere come cittadini problematici e in molti
casi sono proclivi ad azioni criminali. Tale tendenza era stata da lei addirittura
constatata nel caso di due fratelli gemelli.10
Gerge McCloskey in vari studi ha messo in evidenza come le capacità di au-
todeterminazione, cioè di scelta responsabile, e di autoregolazione, cioè di ge-
stione di sé, si fondano già nella prima infanzia su alcune competenze fonda-
mentali, denominate “funzioni esecutive”, cioè funzioni di governo di sé.11 Dopo
8
Uno studio specifico sulle competenze strategiche è stato pubblicato dal CNOS-FAP nel
2010: M. BAY, D. GRZADZIEL, M. PELLEREY, Promuovere la crescita nelle competenze strategiche
che hanno le loro radici nelle dimensioni morali e spirituali della persona, Roma, CNOS-FAP, 2010.
9
Circa la natura e lo sviluppo delle funzioni esecutive si possono consultare in italiano: G.M.
MARZOCCHI, S. VALAGUSSA, Le funzioni esecutive in età evolutiva, Milano, Franco Angeli, 2011; A.
CANTAGALLO, G. SPITONI, G. ANTONUCCI (a cura di), Le funzioni esecutive. Valutazione e
riabilitazione, Roma, Carocci Faber, 2010.
10
Sono varie le pubblicazioni della Moffit. Tra queste, si può citare lo studio: T. MOFFIT et alii,
A gradient of childhood self-control predicts health, wealth, and public safety, PNAS, 2011, 108,
7, February, 2693-2698. Delle conferenze dà conto a esempio la rivista on line Observer APS del
maggio 2015.
43
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aver esaminato una notevole quantità di studi specialistici nell’ambito della psi-
cologia cognitiva, della neuropsicologia, delle neuroscienze, della psicologia
evolutiva e dell’educazione, l’Autore è giunto a proporne un modello multidimen-
sionale. In esso vengono evidenziati i compiti fondamentali di tali funzioni ese-
cutive: sollecitare e dirigere il funzionamento della percezione, delle emozioni,
della cognizione, dell’azione nel contesto intrapersonale, interpersonale, am-
bientale e simbolico. Tale competenze iniziano a svilupparsi ben presto nell’in-
fanzia e la loro crescita continua a evolvere almeno fino alla terza decade del-
l’esistenza, ma probabilmente lungo tutto l’arco della vita. Dal punto di vista
neurologico sono coinvolte varie aree dei lobi frontali.12
Russel A. Barkley13 ha proposto una definizione operazionale di funzioni ese-
cutive, che consente non solo di individuarle, ma soprattutto di coglierne lo svi-
luppo e la funzione. Essa suona così: «L’uso delle azioni auto-dirette come sce-
gliere obiettivi, selezionare, mettere in atto, supportare azioni nel tempo verso
tali obiettivi normalmente nel contesto di altri spesso appoggiandosi su mezzi
sociali e culturali al fine di massimizzare il proprio benessere quale egli conce-
pisce».14 Tale definizione consente quindi di individuare successivi livelli di svi-
luppo attraverso quello che l’Autore definisce processo di interiorizzazione. Il
primo livello viene definito come uno stadio di preparazione alla capacità di au-
to-direzione. Esso evolve progressivamente verso la capacità di autoregolarsi in
quanto si è consapevoli delle diverse funzioni esecutive più importanti, si rie-
scono a gestire validamente i processi di inibizione, quelli relativi alla memoria
di lavoro verbale e non verbale, quelli di natura emozionale e motivazionale, la
pianificazione e la risoluzione di problemi.
Si tratta di un cammino di interiorizzazione, che porta a una vera e propria
maturazione personale. Un livello superiore si ha quando si riesce a governare la
propria esistenza da questo punto di vista in maniera coerente e continua. A
questo livello si possono evidenziare almeno cinque dimensioni interrelate: la
capacità di gestione di sé nel tempo; la capacità di auto-organizzarsi e di risol-
vere problemi; la capacità di auto-controllo (attraverso forme di inibizione di
impulsi e di subordinazione di interessi a breve termine); la capacità di auto-
motivarsi e di auto-regolare le proprie emozioni. A questo nucleo possono ac-
compagnarsi altre capacità cognitive. Infine si giunge a quello che viene chia-
mato livello strategico-cooperativo, che include l’ambito dei rapporti sociali,
11
G. MCCLOSKEY, L.A. PERKINS, Essentials of Executive Functions Assessment, Wiley,
Hoboken (NJ), 2013.
12
Ibidem, pp.8-9.
13
R.A. BARKLEY, Executive functions. What they are, how they work, and why they evolved,
New York, The Guilford Press, 2012.
14
Ibidem, p. 176.
STUDI e RICERCHE
famigliare.15
Nel quadro della nostra esplorazione sullo sviluppo delle competenze personali
generali il ruolo di un’adeguata crescita delle funzioni esecutive assume un rilievo
essenziale almeno da due punti di vista. Il primo riguarda la prospettiva che tende
a considerare le diverse funzioni esecutive da un punto di vista unitario: quello
dell’auto-direzione e dell’autoregolazione. Il secondo elemento concettuale, diret-
tamente derivante dal primo, è il processo di sviluppo di tali funzioni esecutive,
centrato sul processo della loro interiorizzazione, cioè non solo di una loro cono-
scenza e capacità di riconoscimento in sé e di loro valutazione, ma anche di impe-
gno nello svilupparle. E in tutto ciò è direttamente convolta una sensibilità e com-
petenza formativa specifica da parte di genitori, di educatori e di docenti.
■ 4. diagnostici
Un progetto prospettico di sviluppo di strumenti
e di intervento dalla scuola dell’infanzia
all’inserimento e permanenza nel mondo del lavoro
Sulla base di quanto già elaborato e sull’apporto delle ricerche sulle funzioni
esecutive è derivata l’idea di considerare la dimensione orientamento professio-
nale come una dimensione permanente del processo educativo scolastico e for-
mativo fin dalla scuola dell’infanzia. In particolare sono coinvolte sia le cosid-
dette soft skills, sia le hard skills generiche. In questo contributo ci stiamo sof-
fermando in particolare sulle soft skills, o competenze personali generali, in
quanto sembrano costituire un perno essenziale nello sviluppo di una persona
in grado di autodeterminarsi e autoregolarsi non solo nello studio, ma soprat-
tutto nel mondo del lavoro e nella vita sociale e famigliare. Ci siamo quindi do-
mandati quali competenze personali generali favoriscono un potenziamento della
persona umana dal punto di vista dell’orientamento professionale e dell’inseri-
mento lavorativo.
Nel corso degli anni passati da parte del CNOS FAP sono state sviluppate nu-
merose indagini, che hanno dato luogo a varie pubblicazioni. La questione ori-
ginaria era stata posta in questi termini: quali competenze dovrebbero costituire
le qualità fondamentale di una persona in grado di dirigere se stessa nella vita,
nello studio e nel lavoro. Tali competenze vennero denominate strategiche, in
quanto costituiscono le risorse interne essenziali per dare senso e prospettiva
alla propria esistenza e per essere in grado di perseguire con sistematicità e co-
15
Ibidem, pp, 177-179.
45
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STUDI e RICERCHE
professionale; tale percezione è estesa anche alla capacità di appropriarsi in
maniera valida e significativa di nuove conoscenze e capacità necessarie per
migliorare nella professionalità.
– Stile attributivo e competenze strategiche nel gestire le attribuzioni causali: quanto
il soggetto attribuisce alla propria dedizione e al proprio sforzo personale sia la
riuscita sia l’eventuale fallimento? È presente e a quale livello la convinzione che
la possibilità di giungere a risultati positivi dipende da ciascuno, non solo dalle
sue capacità, ma soprattutto dall’impegno messo?
– Competenze strategiche nel gestire forme accentuate di ansietà: i soggetti, come
è facile constatare anche dall’osservazione occasionale, differiscono grandemente
nelle loro reazioni emozionali alle situazioni e agli avvenimenti; ciò dipende
anche da una componente biologica, ma in gran parte intervengono componenti
culturali ed educative; una reazione emotiva, infatti, acquista valenza positiva
o negativa a seconda dell’interpretazione che ne diamo; inoltre è possibile
canalizzare in maniera fruttuosa la tendenza ad una accentuata reattività
emozionale, sviluppando competenze specifiche di controllo e di valorizzazione
della propria emotività.
– Competenze strategiche nel gestire se stessi nel lavoro e nell’apprendimento:
autoregolazione e volizione: quale percezione si ha della propria capacità di portare a
termine in maniera sistematica e decisa gli impegni? Si tratta di quello che è stato
definito il controllo dell’azione, cioè la capacità di mettere in atto strategie che
proteggono e sostengono l’esecuzione delle decisioni prese, in particolare di fronte a
noia, fatica o disinteresse per il contenuto, quanto si rimane fedeli lo stesso all’impegno
assunto e si riesce a predisporre le cose e ad organizzare il tempo in modo da assicurare
che i compiti assegnati o assunti giungano a soddisfacente conclusione.
– Competenze strategiche nell’affrontare situazioni sfidanti o pericolose e nel decidere:
coping: una delle qualità tipiche della volizione è la capacità di far fronte alle
situazioni che si presentano minacciose o sfidanti in vario modo; spesso in
situazioni di questo tipo il soggetto trova grande difficoltà a reagire e raccogliere
le proprie energie per intervenire positivamente; si vuole cogliere la tendenza a
mettere in atto strategie di tipo cognitivo che puntano a darsi le ragioni delle
difficoltà o reazioni negative riscontrate.
Tali competenze strategiche ora possono essere agevolmente auto-valutate, uti-
lizzando uno degli strumenti diagnostici proposti nella piattaforma del CNOS-FAP:
www.competenzestrategiche.it: il questionario QPCS (Questionario di Percezione delle
proprie Competenze Strategiche).16
16
M. PELLEREY et alii, Imparare a dirigere se stessi. Progettazione e realizzazione di una guida
e di uno strumento informatico per favorire l’autovalutazione e lo sviluppo delle proprie compe-
tenze strategiche nello studio e nel lavoro, Roma, CNOS-FAP, 2013.
47
3-Pellerey016_StudiRicerche 14/10/16 10:27 Pagina 48
■ 5. so
Gli strumenti di intervento già disponibili e in cor-
di sviluppo nel quadro delle ricerche promosse
in sede CNOS-FAP
Nel contesto delle indagini svolte sono stati finora messi a punto e resi di-
sponibili alcuni strumenti di sensibilizzazione e di autovalutazione, che aiutano
docenti e studenti a prendere coscienza dell’importanza di tali competenze per-
sonali generali e a valutarne lo sviluppo sul piano individuale e collettivo al fine
di impostare un adeguato percorso formativo.
Oltre al già citato QPCS, per il secondo ciclo di istruzione e formazione sono
disponibili in rete sulla piattaforma www.competenzestrategiche.it due questio-
nari. Il primo è denominato QSA17 e viene normalmente valorizzato all’inizio dei
percorsi del secondo ciclo di istruzione e formazione. Oramai sono molte le scuo-
le e i centri che ne fanno sistematicamente uso. Per la diffusione di tale stru-
mento diagnostico è stato pubblicato un manuale per la sua valorizzazione ai fi-
ni formativi, che aiuta non solo a diagnosticare la situazione in essere, ma anche
a progettare e realizzare un cammino formativo sistematico e controllato.18
A questo questionario è stato accostato, soprattutto per la fine del primo bien-
nio, un questionario dedicato alla percezione di autodeterminazione, in partico-
lare nel dare senso e prospettiva alla propria esistenza e nel sentirsi all’origine
delle proprie scelte e delle proprie azioni.19
Per quanto riguarda la scuola secondaria di primo grado è stato messo a pun-
to e reso disponibile in rete una versione del QSA ridotta e adattata a questa
popolazione scolastica.
Tenendo conto, poi, dell’importanza della dimensione temporale nello svi-
luppo di un progetto di sé e della motivazione in generale emersa dalle ricerche
in corso20, sono stati inseriti nella piattaforma due questionari derivanti dalle ri-
cerche di Philip Zimbardo. Il primo, soprattutto rivolto a soggetti adulti, è l’o-
17
M. PELLEREY, Questionario sulle strategie d’apprendimento (QSA), Roma, LAS, 2006.
18
E. OTTONE, Apprendo. Strumenti e attività per promuovere l’apprendimento, Roma, Anicia, 2014.
19
M. PELLEREY et alii, Imparare a dirigere se stessi. Progettazione e realizzazione di una guida e di
uno strumento informatico per favorire l’autovalutazione e lo sviluppo delle proprie competenze strategiche
nello studio e nel lavoro, Roma, CNOS-FAP, 2013, pp. 45-49.
STUDI e RICERCHE
adattamento italiano denominato SPT (Scala Prospettiva Temporale), costituito
da 25 item e validato per un pubblico italiano di adolescenti.22
L’impegno più delicato attualmente in corso riguarda la Scuola dell’infanzia
e la Scuola Primaria. Il progetto in via di realizzazione parte dalla considerazione
delle funzioni esecutive più importanti da sviluppare soprattutto in contesti sco-
lastici. Inizialmente queste competenze elementari possono essere solo osser-
vate dagli educatori e/o dagli insegnanti, solo verso i 9-10 anni all’osservazione
sistematica può essere accostato un questionario per gli studenti.
Dall’analisi critica delle ricerche e degli strumenti osservativi disponibili, e
tenendo dell’ambito di applicazione che intendiamo privilegiare, si è giunti a
identificare otto funzioni esecutive o competenze elementari di governo di sé.
Eccole.
– Controllo dell’impulsività: capacità di inibire risposte immediate e di spostare
la gratificazione immediata. Si manifesta come la capacità di resistere agli
impulsi, di considerare le conseguenze prima di agire, di bloccare il proprio
comportamento quando è opportuno. I soggetti appaiono capaci di controllare
se stessi. Esempio di comportamento problematico: ha bisogno che qualcuno
gli dica “no”, “basta questo”.
– Controllo dell’attenzione: capacità di gestione dell’attenzione, in particolare
di quella selettiva e di quella sostenuta. Per attenzione selettiva si intende
la capacità di focalizzare gli stimoli che di volta in volta sono pertinenti
rispetto al compito o alla situazione. Per attenzione sostenuta di intende la
capacità di mantenere la concentrazione per un tempo prolungato su di un
determinato stimolo. Esempio di comportamento problematico: ha bisogno di
essere continuamente richiamato al compito da svolgere.
– Controllo delle emozioni: loro conoscenza, denominazione, riconoscimento in
sé e negli altri, attivazione di comportamenti coerenti. È capace di modulare
e di controllare le proprie risposte emozionali. Un debole controllo emozionale
si manifesta come labilità emozionale, improvvise esagerate reazioni, esplosioni
isteriche di pianto o di risa. Esempio di comportamento problematico: reagisce
esageratamente di fronte a piccoli problemi o a qualche osservazione.
– Flessibilità: gestione di sé nel riuscire a spostare l’attenzione, il comporta-
mento, l’impegno da un ambito all’altro; capacità di passare da una prospet-
20
G. CREA, S.A.M. EMAD, Prospettiva temporale, motivazione e ricerca di senso nelle stra-
tegie di apprendimento degli adolescenti, Orientamenti Pedagogici, 2016, 2, pp. 345-381.
21
P. ZIMBARDO, J. BOYD, Il paradosso del tempo, Milano, Mondadori, 2008.
22
M. D’ALESSIO et alii, Testing Zimbardo’s Stanford Time Perspective Inventory (STPI) –
Short Form. An Italian study, Time and Society, 2003, 2-3, pp. 333-347.
49
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STUDI e RICERCHE
Per chiarire ulteriormente lo spirito del progetto, consideriamo una delle
funzioni esecutive sopra citate: la gestione dell’attenzione. Sia nello studio, sia
nel lavoro, sia nella vita quotidiana la capacità di concentrarsi negli impegni per
un tempo adeguato, focalizzando bene l’attenzione, sembra sempre più una com-
petenza strategica minacciata dalla molteplicità degli strumenti comunicativi di-
gitali che ci circondano, mentre “l’attenzione ci fornisce quei meccanismi che
stanno alla base della nostra consapevolezza del mondo e del controllo volonta-
rio dei pensieri e delle emozioni”.23 Si tratta, infatti, di sviluppare la capacità di
gestione di tre tipi di attenzione: verso l’interno, per riflettere, chiarire le pro-
prie idee e prendere decisioni; verso gli altri, per favorire le proprie relazioni in-
terpersonali e istituzionali; verso il mondo esterno, per agire coerentemente nel-
lo studio e nel lavoro. In particolare si nota una progressiva difficoltà nel gestire
la propria attenzione nei rapporti diretti con le persone, a fronte della quantità
di stimoli distraenti, provenienti in particolare dagli strumenti di comunicazione
digitale.
Un ulteriore elemento emerge dal quadro finora delineato: sia le competenze
strategiche individuate per adolescenti e giovani, sia le funzioni esecutive consi-
derate prevalentemente per bambini e ragazzi non sono qualità personali separate,
ma tendono ad influirsi reciprocamente e, per dirla con John Dewey, a interpene-
trarsi tra loro. Un esempio è dato dall’interazione tra capacità di gestione dell’at-
tenzione e la capacità di controllo delle emozioni. «Dato che per concentrarci dob-
biamo mettere a tacere anche le nostre distrazioni emotive, il circuito neurale
dell’attenzione selettiva include quello dell’inibizione delle emozioni: ciò significa
che le persone che si concentrano meglio sono relativamente immuni ai tumulti
emotivi, hanno minore difficoltà a mantenersi imperturbabili nei momenti di crisi
e restano stabili in mezzo al flusso di emozioni della vita».24
In questa stessa prospettiva si colloca anche la reciproca influenza tra ge-
stione dell’attenzione e flessibilità cognitiva. Si può notare, infatti, sia nei bam-
bini, sia negli adulti la difficoltà se non l’incapacità di abbandonare un oggetto
di attenzione per soffermarsi su altri e così ci si riduca “a rimuginare senza fine
ripercorrendo sempre gli stessi circoli di preoccupazioni, in uno stato di ansia
cronica”.25
23
M. POSNER, M. ROTHBART, Research on Attention Networks as a Model for Integration of
Psychological Science, Annual review of Psychology, 2007, 50, pp. 1-27.
24
D. GOLEMAN, Focus. Come mantenersi concentrati nell’era della distrazione, Milano, BUR,
2013, pp.23.
25
Ibidem, pp.23-24.
51
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studi e ricerche
professionale coerente con il
contesto lavorativo odierno
michele pellerey 1
Nei processi di Formazione Professionale, come In the field of vocational training as well
nel contesto delle attività lavorative, sembra as in the working context, there seems to be
delinearsi una rinnovata richiesta di attenzione a renewed focus on the ethical dimension of
per la dimensione etica della professionalità. professionalism. Both in the work as employed
Sia nell’ambito del lavoro autonomo, sia in and self-employed new needs of independent
quello del lavoro dipendente, emergono nuove decisions and responsibility are emerging. Some
esigenze di autonomia decisionale e di conse- surveys have also indicated conscientiousness
guente assunzione di responsabilità. Alcune as an essential quality to enter and remain
indagini di tipo econometrico hanno indicato poi in the labour market. The following article
nella coscienziosità una qualità essenziale per will explore why and how the ethical dimension
accedere e restare nel mondo del lavoro. must be an explicit commitment of educational
Il contributo intende esplorare perché e come institutions. On the other hand, a good
la dimensione etica debba costituire un esplicito educational method leads to the development
impegno da parte delle istituzioni formative. of good work habits and is based on moral
D’altra parte, una valida metodologia formativa apprenticeship and the presence of a valid
in questo ambito è coerente con lo sviluppo di community of practice.
buoni abiti di lavoro e di studio, ed è basata su
forme di apprendistato morale e sulla presenza
di un valida comunità di pratica.
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
A questo proposito si possono citare le ricerche sviluppate dal CNOS-FAP negli anni passati:
M. BAY, D. GRZADZIEL, M. PELLEREY, Promuovere la crescita nelle competenze che hanno le loro
radici nelle dimensioni morali e spirituali della persona, Roma, CNOS-FAP, 2010; M. PELLEREY et
alii, Imparare a dirigere se stessi, Roma, CNOS-FAP, 2013.
49
di un maggiore sviluppo della capacità del soggetto lavoratore di aprirsi al cam-
biamento, su una più pronta flessibilità di fronte alla mutevolezza del quadro la-
vorativo; ma ciò sembra essere all’origine di un vagabondare tra un’attività e
l’altra, un bricolage di impegno lavorativo, che alla lunga può minare la stessa
stabilità psicologica e morale della persona. Nella dizione inglese la “career”, la
carriera, tende a presentarsi più come un labirinto spesso incomprensibile e ine-
stricabile, che un percorso professionale chiaro e stabile verso cui protendere.
Cavalcare l’incertezza, il cambiamento, le continue transizioni richiede una grande
perizia e il pericolo di cedere di fronte alla complessità di tale condizione umana
può facilmente portare alla sensazione di non andare da nessuna parte, di non
avere una prospettiva futura, di essere condannato a un continuo presente. La
propria esistenza appare quindi come un agglomerato di frammenti privi di lega-
mi, come una faticosa sopravvivenza di fronte a continue avversità, un immobi-
lismo caotico privo di senso e di prospettiva, che genera apatia, disimpegno
emotivo, rinuncia al passato e al futuro, un vivere alla giornata.3
Gestire se stessi in tale condizione esistenziale è già in generale complesso
e difficoltoso, ma ben più disorientati e impotenti si può rimanere di fronte a un
mondo del lavoro, presente o futuro, che appare incerto, cangiante, caotico, dif-
ficile da toccare, e, quando raggiunto, temporaneo, diverso da quanto pensato,
senza chiari punti di riferimento, senza prospettive di stabilità. Ci si sente allora
inadeguati, senza risorse interne o esterne a cui aggrapparsi, senza perni di an-
coraggio di natura valoriale in un mare caotico e procelloso. Ma ogni impianto
etico personale ha bisogno di senso e prospettiva esistenziali, Aristotele parle-
rebbe di telos, di possibile finalizzazione della propria esperienza umana e pro-
fessionale. Ed è ben difficile che ciò possa essere presente, se si lotta puramente
per la sopravvivenza. Inoltre, ciò può rimandare a un individualismo esasperato
e a una ricerca di facili compensazioni, che risultano in genere poco valide e co-
struttive. A lungo andare si insinua una sottile percezione di fallimento, senza
alcuna possibilità di riconoscere le proprie sconfitte e di rielaborarne il senso in
chiave positiva.
La ricaduta di ciò sul piano educativo e formativo in generale, e di orienta-
mento e Formazione Professionale in particolare, conduce inevitabilmente a sol-
lecitare la ricerca di un punto di appoggio e di ancoraggio dentro se stessi, più
che fuori di sé; un rendersi capaci di osservare la realtà con occhi nuovi, al fine
di prospettare per il proprio futuro una pluralità di sé possibili e non solo un
chiaro e distinto sé ideale; diventare in qualche modo imprenditore del proprio
futuro in un contesto aperto e dinamico, cercando di conoscere nella sua pro-
3
C. LASCH, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Milano,
Feltrinelli, 2004, p. 38.
51
etico esige in primo luogo chiarire un possibile equivoco evocato da Antonio Da
Re: pensare che l’etica professionale riguardi solo o principalmente le cosiddette
professioni libere, quelle dei medici, degli avvocati, degli ingegneri, ecc. In realtà
la dimensione etica caratterizza il lavoro in quanto tale e non solo alcune profes-
sioni.4 Tanto più che anche i cosiddetti professionisti sono sempre più legati a isti-
tuzioni, come nel caso della sanità, divenendo di fatto loro dipendenti.
Per contro attività lavorative classificabili come lavoro dipendente esigono alti
gradi di professionalità, come nel caso dell’informatica e della gestione ed elabo-
razione di dati e informazioni, che implicano non poche responsabilità pubbliche
e sociali. Anche la possibile riduzione dell’etica alla deontologia presenta analoghe
debolezze in quanto detta norme di condotta riferibili solo a singole aree profes-
sionali. Di conseguenza occorre parlare di etica professionale secondo «un signi-
ficato più generale, non riducibile né a quello proprio delle libere professioni», né
alle sole deontologie professionali, senza per questo ignorarne il ruolo e la signi-
ficatività. Un approccio che oggi appare ricco di potenzialità teoriche e di possibili
applicazioni formative è quello che si ispira all’impianto aristotelico, in quanto
esso collega la realtà dell’agire umano allo sviluppo di un organismo virtuoso.
«Secondo questa prospettiva, virtuoso si definisce non un singolo atto buo-
no o moralmente retto, ma l’abito o l’abitudine a compiere determinati atti buo-
ni. Noi acquistiamo le virtù con un’attività precedente: si diventa costruttori,
costruendo, giusti compiendo azioni giuste, coraggiosi con azioni coraggiose.
[...] Coraggioso è colui che è abituato ad agire in modo coraggioso. Onesto è
colui che ripetutamente si comporta onestamente, acquisendo attraverso l’impe-
gno e l’esercizio, un abito mentale che lo porta nelle diverse situazioni, anche
in quelle impreviste, ad agire con onestà. [...] D’all’esercizio di atti buoni na-
scono, secondo un processo niente affatto estemporaneo o occasionale, inten-
zioni buone, che a loro volta, supportate da un’adeguata valutazione della si-
tuazione, da una scelta opportuna dei mezzi, da un comportamento retto, danno
vita ad atti buoni».5 Da queste premesse deriva la prospettiva di un processo
formativo chiaro nella sua finalità e definito nella modalità di sviluppo. Prose-
gue Da Re: «Ciò presuppone evidentemente un forte impegno formativo che ab-
bia come obiettivo quello di aiutare il professionista, il lavoratore ad acquisire
lentamente, ma progressivamente, quegli abiti virtuosi, quelle attitudini perso-
nali che lo portano ad agire bene, con competenza e correttezza, nel proprio
specifico ambito di attività».6
4
A. DA RE, La nozione di professione e la riscoperta delle virtù nell’etica contemporanea.
In ID., La saggezza possibile. Ragioni e limiti dell’etica, Fondazione Lanza-Gregoriana Editrice,
Padova, 1994, pp. 197-221.
5
Ibidem, pp. 211-212.
6
Ibidem, p. 213.
studi e ricerche
nella prospettiva aristotelica
7
O. HÖFFE, Etica. Un’introduzione, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2016, p. 90.
8
Ibidem, p. 91.
9
Ibidem, p. 75.
53
non è l’applicazione immediata della norma generale al caso particolare, bensì la
capacità di tener conto della realtà con la quale ci si confronta per trovare la più
valida soluzione concreta possibile nel quadro di riferimento generale evocato
dalla stessa norma generale. Viene anche citato un passo di Tommaso, riferentesi
alla conoscenza della norma e alla conoscenza particolare: «Se non vi è che una
sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la conoscenza della realtà
particolare, che si avvicina maggiormente all’agire».10
Applicando tale impostazione alla competenza professionale si evidenza la
centralità dell’interpretazione della sfida concreta con la quale ci si deve con-
frontare. In altre parole non è possibile applicare al caso concreto l’insieme delle
conoscenze e abilità possedute senza penetrare a fondo le esigenze poste dal
problema da risolvere. Così è per la stessa valutazione etica che deve dirigere le
decisioni e l’azione in situazioni problematiche da questo punto di vista: occorre
cogliere l’appello che proviene da tali situazioni per dare a esse una risposta a
un tempo coerente con i principi morali di riferimento e con le possibilità effet-
tive e i vincoli esistenti. E, dal momento che la realtà concreta della sfida all’agire
professionale deve guidare le scelte e la conduzione della loro realizzazione, la
complessità e incisività della dimensione etica coinvolta dipenderà da tale realtà.
Diversa, infatti, è la condizione di esercizio della propria professionalità in un
contesto sanitario, rispetto a un contesto informatico, o a uno relativo alla ge-
stione dell’ordine pubblico.
La seconda area di approfondimento riguarda il ruolo della comunità di ap-
partenenza e di quella di lavoro nel processo sia di formazione del carattere della
persona e della sua saggezza pratica, sia in quello nel quale si svolge un’attività
lavorativa a pieno tempo. Rispetto alla tradizione aristotelico-tomista, ci si trova
di fronte a una nuova condizione problematica: la carenza di una comunità di
appartenenza che possa fare da orientamento e sostegno allo sviluppo di una
buona base di riferimento per una condotta etica professionale. Ciò accentua l’e-
sigenza di trovare modalità formative che, pur valorizzando quanto la famiglia e
la comunità di vicinato possono dare di positivo, si apra a una più attenta e si-
stematica promozione del carattere del lavoratore e della sua componente etica
fondamentale in riferimento alla condizione attuale del mondo del lavoro.
Non è un’impresa facile, anche perché nelle indagini sviluppate, anche recen-
temente, emerge con chiarezza che i giovani che entrano nel mondo del lavoro
interpretano la loro esperienza attraverso le lenti dell’esperienza precedente, come
l’ambiente famigliare, il contesto culturale, la vicinanza sociale, e l’ambiente edu-
cativo. Queste lenti includono strutture ormai consolidate di valori e di condotte
morali che su questa base si dovrebbero sviluppare ulteriormente e venire rein-
10
PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, n.304 e nota 348.
Ci si trova di fronte a una sfida analoga a quella che a suo tempo don Bosco
dovette affrontare a favore dei giovani reclusi presso le carceri torinesi: come
costruire o ricostruire un lavoratore dotato di una adeguata etica professionale.
Egli scrisse a questo proposito, descrivendo gli inizi della sua attività con i gio-
vani dimessi dalle carceri: «Fu allora che toccai con mano, che i giovanetti usciti
dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola, che di loro si prenda cura,
li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso di qualche onesto
padrone, e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, questi giova-
netti si davano a una vita onorata, dimenticando il passato, divenivano buoni
cristiani e onesti cittadini».12
Tre elementi sembrano essenziali in questo cammino evocato da don Bosco:
a) la relazione personale avviata e basata su una fiducia reciproca; b) l’accom-
pagnamento protratto nel tempo verso una realtà esistenziale materiale e spiri-
tuale rinnovata; c) la cura per inserirli in maniera valida e produttiva nel tessuto
sociale e lavorativo. Tali riferimenti vanno riletti come elementi che dovrebbero
caratterizzare ciò che nella pratica educativa appare centrale: tramite la presenza
costante in mezzo ai giovani, l’educatore, o il gruppo degli educatori, attiva, so-
stiene e orienta con loro un sistema di relazioni che costituisce la base fonda-
mentale per promuoverne la crescita personale, etica, culturale, sociale, profes-
sionale. In altre parole costruire una comunità nella quale si possa sperimentare
l’accompagnamento personale in un cammino di costruzione del proprio carattere
11
Una sintesi delle indagini condotte da Stephen Billett nel corso dei precedenti anni si trova
nel contributo: M. CAMPBELL, K.E. ZEGWAARD, Developing Critical Moral Agency Through Work-
place Engagement. In M. KENNEDY, S. BILLETT, S. GHERARDI, L. GREALISH (Eds.), Practice-based
Learning in Higher Education, Dordrect, Springer, 2015, pp.47-64.
12
G. BOSCO, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, saggio introdut-
tivo e note storiche di A. Giraudo, Las, Roma, 2011, p. 129.
55
e della propria saggezza pratica, cioè dei fondamenti di un’etica professionale
che si possa incarnare nel contesto lavorativo attuale.
Tuttavia, nel contesto attuale del mondo lavorativo occorre che queste qua-
lità possano essere collegate alle future esperienze professionali. Certamente è
utile la parte laboratoriale del processo formativo, ma questa inevitabilmente si
presenta come un’area di esperienza protetta, più o meno in continuità con l’at-
tività nella quale ci si dovrà o potrà inserire. Di qui deriva anche l’importanza di
periodi formativi centrati su attività di stage in azienda e di tirocini in ambito
lavorativo effettivo. Certo nel processo formativo occasioni di sviluppo non solo
della competenza professionale, ma anche della sua componente etica, ce ne so-
no molte, basti pensare allo sviluppo di abiti di lavoro legati alla sicurezza per-
sonale o alla gestione della qualità dell’ambiente in cui si opera. Ma il passaggio
a situazioni non protette dal punto di vista istituzionale implica un esercizio
più autonomo e responsabile delle proprie mansioni lavorative. Inoltre, il con-
fronto con gli altri lavoratori e con diversi contesti lavorativi implica lo sviluppo
di capacità di lettura e interpretazione delle nuove condizioni operative. Da due
punti di vista: di capacità di analisi critica realistica delle condizioni sia fisiche,
sia tecniche, sia organizzative, sia relazionali presenti; e, poi, di impatto con
una realtà che nel futuro caratterizzerà sempre più la propria esperienza profes-
sionale. In tali periodi occorre che il soggetto abbia un buon contatto con quan-
ti operano nell’azienda per rendersi conto delle attese nei riguardi del personale
da parte dell’istituzione, degli elementi critici che possono emergere sia sul pia-
no relazionale con i superiori e i colleghi, sia quanto a puntualità, concentra-
zione e qualità del proprio apporto lavorativo. In questa presa di consapevolezza
non basta essere attenti agli aspetti più direttamente riferibili alla competenza
operativa occorre anche esplorare aspetti positivi e negativi da un punto di vista
etico-morale.
Infine, occorre insistere sull’accompagnamento che è necessario ai giovani
lavoratori, quando riescono a essere assunti più o meno stabilmente in un’atti-
vità lavorativa. In qualche modo è ciò che suggeriva don Bosco quando afferma-
va riferendosi all’ambiente artigianale “andandoli qualche volta a visitare”.
Un accompagnamento sia prima, sia durante, sia immediatamente dopo la
transizione dall’istituzione formativa all’azienda lavorativa. Ciò si rende possibile
se l’istituzione formativa riesce a stabilire nel tempo buone relazioni con le
imprese presenti sul territorio.
studi e ricerche
psicologica
Billett afferma che gran parte delle competenze professionali anche etiche
possono essere sviluppate in contesti che non sono direttamente né immediata-
mente strutturati intenzionalmente per questo, senza con ciò sottovalutare l’ap-
prendimento professionale, incluso quello di natura etica, che può essere acqui-
sito nel contesto formativo in maniera esplicitamente intenzionale. L’apprendi-
mento in tali situazioni emerge attraverso l’osservazione, cioè la rappresentazione
imitativa della natura della prestazione umana vista, l’imitazione e la riflessione
critica. In psicologia una delle possibili schematizzazioni di tale processo è de-
nominata modeling, o apprendere da modelli, attraverso il meccanismo psicolo-
gico dell’esperienza vicaria.13 Negli studi di tipo socio-cognitivo si indicano quat-
tro livelli di progressiva acquisizione delle competenze, non per forza successivi.
Essi, infatti, indicano solo che la padronanza raggiunta in ognuno di essi facilita
l’apprendimento successivo. È utile approfondire i processi psicologici messi in
atto in tale contesto, anche perché essi sono particolarmente coinvolti nello svi-
luppo delle competenze etiche, in particolare nella prospettiva dello sviluppo
delle virtù del carattere e della saggezza pratica, secondo la prospettiva di Höffe.
Il primo livello è fondamentalmente legato all’osservazione di uno più esper-
to, che induce a ipotizzare gli elementi fondamentali che concorrono a formare
la sua competenza. L’esperienza vicaria, attivata dalla presenza di un soggetto
già competente, permette di osservare direttamente le modalità attraverso le
quali è possibile e utile attivare conoscenze e abilità già possedute per orche-
strarle al fine di affrontare positivamente la situazione o il problema presente.
Zimmerman14, ad esempio, ricorda i risultati di alcune ricerche che mostrano come
la perseveranza di un modello nel portare a termine un compito complesso e im-
pegnativo influisca sulla perseveranza di coloro che lo osservano. Si tratta di
cogliere e interiorizzare alcune abilità strategiche e alcuni processi cognitivi e
affettivi come: avere a disposizione standard di valutazione delle prestazioni
messe in atto; seguire orientamenti motivazionali congruenti; essere sensibili a
13
È un processo psicologico che si mette in moto quando una persona osserva, prestandovi
attenzione, i comportamenti di altre persone e li interiorizza, nel senso che vive in terza persona
le situazioni e le vicende di altri e tende a conservare queste esperienza nella propria memoria.
Presentandosi una situazione analoga, quasi automaticamente si sente portata a comportarsi in
maniera simile. Attraverso tale processo i soggetti interiorizzano modi di agire e di reagire, regole
e forme di comportamento e di relazione, formando così un patrimonio di esperienza che una
volta codificato internamente serve da guida all’azione.
14
B.J. ZIMMERMAN, Attaining self-regulation: A social cognitive perspective, in M. BOEKAERTS,
P.R.PINTRICH, M. ZEIDNER (a cura di), Handbook of self-regulation, San Diego, CA, Academic
Press, 2000, pp. 13-39.
57
valori di riferimento; persistere nell’attività nonostante elementi di disturbo sia
cognitivo, sia emozionale; ecc.
La constatazione che l’esperienza vicaria non sia sufficiente per passare al-
l’effettiva manifestazione autonoma della competenza, implica come sviluppo
ulteriore la necessità di passare a prestazioni che cercano di imitare forme o stili
d’azione, legati ad abilità che possono essere guidate e corrette socialmente. Si
tratta del livello denominato dell’emulazione. Tuttavia, ben difficilmente il sog-
getto che apprende riesce a realizzare prestazioni che si avvicinano alla qualità
generale di quelle del modello. Un miglioramento si può avere se la persona com-
petente offre una qualche forma di feedback e sostegno durante l’esercizio pra-
tico. D’altra parte, il riuscire a emulare almeno in alcuni aspetti generali un mo-
dello ha effetto sullo stato di motivazione favorendo l’impegnarsi ulteriormente.
Occorre segnalare come a questi due primi livelli la fonte di apprendimento delle
abilità auto-regolatrici è esterna al soggetto che apprende. Negli ulteriori livelli
di sviluppo di tali abilità il riferimento diventa interno.
Il terzo livello si raggiunge quando si è in grado di sviluppare forme indipen-
denti d’abilità, esercitate però in contesti e condizioni strutturate. È il livello
denominato dell’autocontrollo. Non basta infatti la presenza di un insegnante o
di un modello, occorre una estesa e deliberata pratica personalmente esercitata:
prestazioni che si svolgono in contesti organizzati affinché i soggetti si impe-
gnino a migliorare e ad auto-osservarsi. Il soggetto competente non è più pre-
sente e il riferimento a standard di qualità è interno, si tratti di immagini e di
verbalizzazioni. Il raggiungere livelli di qualità desiderati sostiene e alimenta la
motivazione a impegnarsi.
Infine, si raggiunge il livello della competenza vera e propria quando il sog-
getto riesce ad adattare da solo le proprie prestazioni sulla base delle condizioni
soggettive e ambientali varianti. Egli riesce a mutare le sue strategie in maniera
autonoma. La motivazione può fare riferimento a sentimenti di auto-efficacia.
Non c’è più grande bisogno di auto-monitoraggio. D’altra parte, dal momento
che le competenze dipendono anche dalle condizioni esterne, possono presentarsi
nuove situazioni che evidenziano i limiti delle competenze già acquisite ed esi-
gono nuovi apprendimenti.
Questo processo può anche essere riletto tenendo conto della cosiddetta zona
di sviluppo prossimale di matrice vygotskyana. La zona di sviluppo prossimale,
infatti, è costituita dalla fascia cognitiva e operativa entro la quale un soggetto
riesce a svolgere, con il sostegno (scaffolding) di un esperto, o in collaborazione
con un pari più capace, e attraverso la mediazione degli scambi comunicativi
compiti che non sarebbe in grado di svolgere da solo. È nel momento in cui
agisce in un contesto sociale, valorizzando forme di comunicazione valide, che
egli si appropria di nuovi strumenti cognitivi e operativi che gli serviranno ad
Il processo sopra descritto, come già segnalato, può essere riletto intera-
mente nella prospettiva dello sviluppo sia delle virtù del carattere, sia della sag-
gezza pratica. È nel contesto dell’attività ordinaria di una comunità di pratica,
quale quella descritta da Etienne Wenger16, che si possono osservare prima, imi-
tare poi e, infine adottare autonomamente e responsabilmente comportamenti
ispirati a un’etica professionale intesa nella sua complessità. Il ruolo formativo
di una comunità di pratica si evidenzia nella sua centralità, se si prende in con-
siderazione la moltitudine delle relazioni tra persone che già possiedono compe-
tenze etiche avanzate, e persone principianti o che devono acquisire competenze
nuove. Grazie alle possibilità di osservare persone più esperte, di lavorare insieme,
di confrontarsi con gli altri, si crea un naturale sistema di apprendimento vicen-
devole e la possibilità di sostenersi con le pratiche e i modelli che sono stati ve-
rificati come effettivi. E. Wenger afferma: «La prima caratteristica della pratica
come fonte di coerenza di una comunità è l’impegno reciproco dei partecipanti.
La pratica non esiste in astratto. Esiste perché le persone sono impegnate in
azioni di cui negoziano reciprocamente il significato. In questo senso, la pratica
non risiede nei libri o negli strumenti, anche se può coinvolgere tutti i tipi di
oggetti. Non risiede in una struttura preesistente, anche se non nasce in un
vuoto storico. La pratica risiede in una comunità di persone e nelle relazioni di
impegno reciproco attraverso le quali esse fanno tutto ciò che fanno. L’apparte-
nenza a una comunità di pratica è dunque un patto di impegno reciproco. È ciò
che definisce la comunità».17
La comunità di pratica diventa una comunità formativa se si costituisce come
un ambiente in cui, attraverso relazioni interpersonali intense, gli incarichi svolti
e le esperienze possedute, si attiva un processo di sviluppo personale, culturale,
professionale ed etico a vari livelli. In questo ambiente è possibile acquisire le
15
Cfr. V. BALAKRISHNAN, L.B. CLAIBORNE, Vygotsky from ZPD to ZCD in moral education,
The Journal of Moral Education, 2012, 41, 2, pp. 225-243.
16
E. WENGER, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina,
2006. Vedi anche: E. WENGER, R. MCDERMOTT e W.M. SNYDER, Coltivare comunità di pratica,
Milano, Guerini, 2007.
17
E. WENGER, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina,
2006, p. 88.
59
varie competenze richieste per entrare nel mondo del lavoro e delle vita sociale
e civile e per potervi rimanere in maniera attiva e partecipativa. È pure possibile
l’acquisizione delle competenze e conoscenze che da Michael Polanyi sono state
definite tacite e che non si possono trasmettere agli altri, né possono essere ac-
quisite se non attraverso personali interazioni con quelli che le possiedono.18
Tutto ciò può essere riletto in maniera ancor più specifica facendo riferimento
alla dimensione etica dell’attività professionale. Va anche osservato che se è vero
che una competenza anche etica si sviluppa con l’esercizio attuato in un contesto
di pratica lavorativa, è anche vero che essa implica quella che è stata definita
da Yriö Engeströmn la poli-contestualità, cioè il saper andare oltre il contesto
specifico e la tipologia particolare delle pratiche. È questo il problema della tra-
sferibilità delle abilità e delle competenze da un contesto all’altro.19 Problema
che diventa ancora più importante quando si tratta di vere e proprie transizioni
da ambiente formativo a ambiente di lavoro, da un ambiente di lavoro a un altro,
da un livello e ruolo professionale a uno superiore, ecc. Qui la competenza chiave
è data dalla capacità di gestire se stessi in tali passaggi e implica chiari obiettivi
formativi centrati su quelle che oggi si definiscono come sviluppo di competenze
strategiche e che costituiscono la struttura fondamentale di una persona in grado
di dirigere se stessa nella vita, nello studio e nel lavoro.20
L’influsso della comunità di studio o di lavoro, come è stato ben evidenziato
dagli studi sopra ricordati, è certamente determinante non solo nel promuovere
le competenze necessarie, ma anche nel dare senso e prospettiva professionale
alle persone e nel promuovere la loro competenza etica. Naturalmente ciò può
esserlo nel bene e nel male. Una comunità di pratica poco aperta all’innovazione,
prigioniera dell’esperienza passata e di modalità di relazione e di lavoro poco
funzionali e ripetitive, in cui la trasmissione delle conoscenze e competenze è
basata su forme autoritarie, se non violente, e banalmente imitative, poco sen-
sibile ai valori e ai comportamenti di natura etica, può costituire un serio osta-
colo a un valido e sviluppo professionale, anche da un punto di vista etico.
18
M. POLANYI, La conoscenza personale, Milano, Rusconi, 1990; M. POLANYI, The Tacit Dimension,
Chicago, University of Chicago Press, 2009.
19
Y. ENGESTRÖM, R. ENGESTRÖM e M. KAKKAINEN, Polycontestuality and boundary crossing
in expert cognition: learning and problem-solving in complex work activities, «Learning and In-
struction», 1995, 4, 319-336.
20
Un approfondimento del concetto di competenze strategiche nel gestire se stessi nello
studio e nel lavoro si trova, accompagnato da strumenti di autovalutazione, nel sito Internet:
www.competenzestrategiche.it.
studi e ricerche
e comunità professionale
61
o il servizio, presso cui si svolge l’attività formativa esterna occorre che assuma
la forma di una comunità di apprendimento professionale segnata da comporta-
menti di natura etica.
A questo fine è necessario accettare un apprendista come un membro effet-
tivo della comunità di lavoro, anche se la sua partecipazione alle attività lavo-
rative vere e proprie sarà progressiva. Tale accettazione implica anche la necessità
che la frequenza sistematica delle attività formative esterne all’azienda venga
considerata come fondamentale al fine di raggiungere i livelli formativi e culturali
che caratterizzano le qualifiche e i diplomi professionali. Tale dualità di riferi-
menti è essenziale certamente per l’apprendistato in obbligo formativo, ma in
molti casi lo è anche per gli altri tipi di apprendistato in quanto molte delle
aziende non sono in grado di aprire la mente verso le innovazioni, e in generale
verso il futuro, tanto meno in un’ottica di autonomia e responsabilità personali.
Occorre anche chiarire bene sia all’apprendista, sia a quanti avranno a che
fare con lui, la dinamica propria dell’apprendimento da uno o più modelli e il
trasferimento tramite esperienze condivise delle conoscenze tacite, cercando di
sollecitarne qualche forma di concettualizzazione e il collegamento con almeno
alcune di quelle esplicite acquisite in altri contesti. In tale contesto va attivato
un sistema di feedback sistematici rispetto alla progressione che si può riscontrare
nelle sue abilità e competenze. Per favorire lo sviluppo di standard di riferimento
interni non basta infatti l’osservazione del modello, ma anche la sollecitazione
a identificare le caratteristiche peculiari delle competenze da acquisire, le loro
componenti conoscitive e di abilità, i progressivi livelli, per farne obiettivi di
riferimento per il proprio apprendimento e la propria autovalutazione.
STUDI e RICERCHE
apprendimento esperienziale
e sviluppo dell’identità professionale
MICHELE PELLEREY1
Il contributo intende rileggere la prospettiva This article intends to analyse the prospect
di un quarto anno di Formazione Professionale of a fourth year of Vocational Training
diretto al conseguimento di un diploma aimed at obtaining a diploma
e realizzato sotto forma di apprendistato and realized in the form of apprenticeship
nel contesto del sistema duale, evidenziando, in the dual system context.
sulla base di esperienze precedenti svolte Based on previous experiences in altenation,
in alternanza, alcune esigenze formative it underlines training needs encouraging
che favoriscano lo sviluppo di un’identità the development of a professional identity,
professionale, consapevole delle proprie harmoniously integrated with
competenze, armonicamente integrata con lo the development of own personal identity.
sviluppo di una propria identità personale. It will focus on the role of tutorial functions,
Ci si soffermerà soprattutto sul ruolo delle training methodology,
funzioni tutoriali, della metodologia formativa, diary use and digital portfolio.
dell’uso del diario e di un portfolio digitale.
■ 1. Introduzione
Sembra, sulla base delle prime rilevazioni sulle iniziative attivate presso le
varie Regioni italiane circa la sperimentazione del sistema duale di Formazione
Professionale, che emerga una certa prevalenza dei percorsi dei quarti anni di IeFP
che portano al diploma professionale. Tuttavia, in alcune Regioni è presente in
tale sperimentazione anche un buon numero di percorsi triennali diretti alla qua-
lifica professionale. Per l’attuazione di questi ultimi sembra delinearsi una parti-
colare progressione: nel primo anno si preferisce mettere in campo esperienze di
simulazione d’impresa in collegamento con un’impresa madrina; per poi passare a
forme di alternanza, magari rafforzate; infine, nei terzi anni, mettere in campo ve-
re e proprie forme di apprendistato.
Nel seguito verrà dedicata particolare attenzione ai problemi posti dall’attua-
zione dei quarti anni, valorizzando quanto a suo tempo era stato sperimentato
nella Provincia Autonoma di Trento. In effetti negli anni 2003-2007 in tale Pro-
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
55
vincia era stato progettato e messo in opera un quarto anno di Formazione Profes-
sionale in alternanza diretto al conseguimento di un diploma di tecnico. Di tale
sperimentazione è stata data ampia documentazione e valutazione critica nel 2007
mediante una pubblicazione curata da Mauro Frisanco2. Il principale risultato con-
seguito in tale circostanza è stata la verifica delle condizioni di fattibilità di un
percorso formativo professionale basato su uno stretto dialogo tra esperienza la-
vorativa in azienda e completamento delle conoscenze e competenze di natura
personale, culturale e tecnico-professionale per utenti che hanno già conseguito
una qualifica professionale3. In tale verifica erano emersi alcuni fattori condizio-
nanti la qualità del percorso, fattori che merita riprendere, approfondire e prospet-
tare come elementi fondamentali per un’attuazione positiva del sistema formativo
duale.
2
M. FRISANCO (a cura di), Da qualificati a tecnici. La sperimentazione dei quarti anni di diploma
professionale in alternanza formativa nella Provincia di Trento, Milano, Franco Angeli, 2007.
3
M. PELLEREY, Conclusioni. In M. FRISANCO (a cura di), Da qualificati a tecnici. La sperimentazione
dei quarti anni di diploma professionale in alternanza formativa nella Provincia di Trento, Milano, Franco
Angeli, 2007, pp. 133-138.
4
Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015; vedi:
ttp://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/12/21/15A09396/sg.
STUDI e RICERCHE
formazione interna propria dell’azienda e quella esterna, propria dell’istituzione
formativa. Le loro funzioni sono così descritte: «Il tutor formativo assiste l’ap-
prendista nel rapporto con l’istituzione formativa, monitora l’andamento del per-
corso e interviene nella valutazione iniziale, intermedia e finale del periodo di
apprendistato. Il tutor aziendale, che può essere anche il datore di lavoro, favo-
risce l’inserimento dell’apprendista nell’impresa, lo affianca e lo assiste nel per-
corso di formazione interna, gli trasmette le competenze necessarie allo svolgi-
mento delle attività lavorative e, in collaborazione con il tutor formativo, forni-
sce all’istituzione formativa ogni elemento atto a valutare le attività dell’appren-
dista e l’efficacia dei processi formativi». Essi inoltre collaborano alla compila-
zione del dossier individuale dell’apprendista e garantiscono l’attestazione delle
attività svolte e delle competenze acquisite dall’apprendista al termine del
periodo di apprendistato.
Nella sperimentazione trentina si è potuto constatare come sul versante del
tutorato formativo il docente incaricato doveva assumere un ruolo di coordina-
mento e di gestione delle relazioni tra i componenti dell’équipe formativa coin-
volta e il contesto in cui si sviluppava l’alternanza, nonché quello di mediatore
e di facilitatore nel monitoraggio dello sviluppo dell’esperienza e nella gestione
delle criticità segnalate dall’allievo. Nei confronti di quest’ultimo egli doveva of-
frire sostegno motivazionale nonché consulenza rispetto alla comprensione della
valenza educativa, culturale e professionale delle varie attività proposte dal per-
corso. Egli era anche responsabile dell’informazione verso la famiglia sull’anda-
mento dell’esperienza dell’allievo in termini di partecipazione, di obiettivi rag-
giunti e di competenze progressivamente sviluppate. Più in generale il tutor for-
mativo si occupava dell’organizzazione gestionale e logistica dell’alternanza, an-
che se molti dei progetti attuati prevedevano già un coordinatore generale per
tutti i progetti di quarto anno presenti con compiti di presidio e garanzia del-
l’omogeneità di attuazione dei vari percorsi.
Sul versante del tutorato aziendale, i vari operatori individuati dalle aziende
collaboravano sistematicamente alla progettazione, organizzazione e valutazione
dell’esperienza formativa, assumendo nei confronti dell’allievo il ruolo di guida e
facilitatore del percorso di inserimento nonché quello di valutatore dei livelli di
competenza progressivamente raggiunti. Nella maggioranza delle esperienze at-
tuate, il tutor aziendale era anche la persona a cui l’impresa attribuiva una respon-
sabilità di supervisione generale sull’investimento che l’azienda aveva fatto, ade-
rendo al progetto ed era chiamata ad esercitare questo ruolo curando l’integrazione
tra quanto svolto presso il centro di formazione e le attività svolte sul luogo di la-
voro, coinvolgendo di volta in volta tutti quei soggetti presenti all’interno dell’or-
ganizzazione che potevano contribuire alla buona riuscita dell’esperienza.
57
A supporto delle attività del tutor formativo e del tutor aziendale e come
modalità di registrazione non solo del progetto formativo elaborato, ma anche
dello sviluppo del percorso, delle eventuali scelte modificatrici, oltre che delle
presenze e progressivo stato di avanzamento degli apprendimenti viene indicato
ora un “dossier individuale dell’apprendista”. Esso assume in fase di valutazione
finale un ruolo non indifferente in quanto raccoglie gli elementi fondamentali
di riferimento: gli obiettivi formativi espressi in termini di competenze, le evi-
denze a supporto della valutazione progressiva relativa al loro sviluppo e le mo-
dalità con le quali sono state raccolte, la valutazione dei comportamenti. Una
buona progettazione e tenuta del dossier è la base essenziale per una valuta-
zione continua, ma soprattutto per la valutazione finale. Nel Decreto Intermini-
steriale già citato a questo proposito si precisa: «Gli esami conclusivi dei per-
corsi in apprendistato si effettuano, laddove previsti, in applicazione delle vi-
genti norme relative ai rispettivi percorsi ordinamentali, anche tenendo conto
delle valutazioni espresse dal tutor formativo e dal tutor aziendale nel dossier
individuale e in funzione dei risultati di apprendimento definiti nel piano
formativo individuale». D’altra parte nella strutturazione, tenuta sistematica e
valorizzazione del dossier individuale spesso si fa riferimento a un ruolo speci-
fico del tutor formativo, che svolge un ruolo estremamente importante nel
prefigurare le modalità di valutazione delle prestazioni e delle acquisizioni
dell’apprendista.
Vedremo come sia essenziale da un punto di vista formativo che accanto a
questa documentazione gestita dai tutor venga attivato un diario gestito dal-
l’allievo, per favorire la consapevolezza personale delle acquisizioni via via con-
seguite e lo sviluppo di una propria identità professionale. L’ideale sarebbe at-
tivare per ogni allievo un portfolio digitale che svolga il ruolo di dossier indivi-
duale previsto dalla normativa, ma permetta anche di valorizzare un suo diario,
registrando le sue osservazioni, le sue riflessioni e possibili esperienze ulteriori.
■ 3. La questione metodologica
Il secondo fattore condizionante la buona riuscita del percorso formativo in-
dividuato nell’esperienza trentina era di natura metodologica. Tra esperienza in
azienda e interventi formativi nella istituzione formativa andava attivata una
vera e propria circolarità: l’apporto conoscitivo offerto dall’istituzione formativa
doveva trovare riscontro nell’esperienza lavorativa, oltre che promuovere un più
alto livello di competenza personale e culturale; l’esperienza lavorativa doveva
trovare spazio di riflessione critica e di consapevolezza progressiva all’interno
degli interventi dell’istituzione formativa. Il dialogo tra momento esperienziale
STUDI e RICERCHE
uno schema che deriva dalla tradizione della ricerca sull’apprendimento espe-
rienziale e che era stato adottato come riferimento nell’esperienza trentina5.
Guy Le Boterf nel 2000 ha delineato alcuni tratti di un percorso formativo
che consenta di promuovere non solo il “saper agire” professionale, ma anche il
“voler agire” professionale. È una visione che integra gli apporti della riflessione
critica sul concetto di competenza in generale e di competenza nel lavoro in
particolare. Egli parte da un concetto ormai dato per acquisito: si apprende dal-
l’esperienza. Una persona che sia capace di agire con pertinenza in una situazione
particolare deve possedere un doppia capacità di comprensione: quella della si-
tuazione nella quale interviene e quella della propria maniera di intervenire. Com-
prendere una situazione significa costruire una rappresentazione concettuale che
permetta di agire in essa con efficacia.
La riflessione implica per un soggetto un prendere le distanze da una spe-
cifica situazione, da una pratica lavorativa, in modo da rendere esplicita, nella
misura in cui ciò è possibile, la sua maniera di rappresentarle e di utilizzare o
sviluppare gli schemi operatori già posseduti. Le Boterf reinterpreta il ciclo pro-
posto da Kolb per descrivere un apprendimento basato sull’esperienza, tenendo
conto degli apporti di derivazione piagetiana. Si parte dall’esperienza vissuta. Il
soggetto è impegnato nell’azione, nella realizzazione di un’attività, di un pro-
getto, nella soluzione di un problema. È l’indispensabile momento di avvio, ma
se ci si limita a questo si cade nella ripetitività. Si passa alla fase di esplicita-
zione, il primo momento di riflessività, un raccontare a se stesso ciò che è av-
venuto nell’esperienza vissuta. Non si tratta solo di rappresentare in qualche
forma l’esperienza, bensì di trasformare gli avvenimenti in una storia, di ren-
derli intelligibili, fornirli di senso. È una forma di reinterpretazione, di ricostru-
zione tramite quella che Piaget denominava “astrazione riflettente”. Questa fase
non è automatica. Essa ha bisogno di mediatori che sappiano porre le giuste
domande al soggetto. Segue la fase di concettualizzazione e di modellizzazione.
La ricostruzione e reinterpretazione raggiunta con la narrazione conduce ora ai
modelli d’azione, ai cosiddetti suoi invarianti operatori, ciò che resta come
struttura fondamentale rispetto a ciò che varia, o può variare, come dettaglio
contestuale. È un sapere pragmatico che si appoggia su un processo di decon-
testualizzazione e di elaborazione di schemi o modelli che hanno carattere più
generale, più astratto. La quarta fase concerne la trasposizione degli schemi
5
M. PELLEREY, Introduzione. In M. FRISANCO (a cura di), Da qualificati a tecnici. La speri-
mentazione dei quarti anni di diploma professionale in alternanza formativa nella Provincia di
Trento, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 15-28.
59
operativi o dei modelli elaborati nel contesto di una nuova situazione o di un
nuovo problema. È il momento della ri-contestualizzazione. Più la nuova situa-
zione è simile a quella precedente più il processo è agevole (fino ad essere au-
tomatico). Più essa è distante, più sarà grande l’impegno di trasformazione e di
“accomodamento” degli schemi o modelli d’azione già elaborati.
Naturalmente questo ciclo ideale è più propriamente quello che dovrebbe
caratterizzare la Formazione Professionale continua, anzi esso dovrebbe essere
l’atteggiamento di base di ogni lavoratore e professionista che viva la sua espe-
rienza attiva in maniera attenta e responsabile, aperta all’innovazione e alla
propria qualificazione e riqualificazione permanente. Nel caso dei quarti anni
occorre accentuare rispetto alla riflessione concettualizzatrice dell’esperienza,
l’apporto di conoscenze teoriche e tecnologiche adeguate. Senza di queste, in-
fatti, la rilettura critica dell’esperienza può risultare ben povera perché carente
di categorie concettuali interpretative essenziali e di conoscenze organizzative
e procedurali sistematicamente strutturate. Questa parte, evidentemente, è di
stretta responsabilità dell’istituzione formativa, anche se dall’esperienza azien-
dale può venire un consistente apporto motivazionale all’approfondimento teo-
rico e di verifica pratica dei concetti e dei quadri di riferimento organizzativi e
operativi derivanti da conoscenze sistematiche.
L’insistenza sulla centralità della questione metodologica deriva anche dalla
constatazione di un pericolo insito in un impianto che tende a differenziare an-
che sul piano strutturale dell’ambiente formativo, competenze generali della per-
sona, competenze culturali e tecnologiche, e competenze tecnico-professionali
specifiche. Fin dal tempo dei Greci si è manifestato spesso un divario tra forma-
zione dei ceti superiori della popolazione e formazione da promuovere dei ceti
inferiori; tra un sapere che aveva valore in sé, come la filosofia, e un sapere che
aveva valore solo per le applicazioni pratiche. Il primo sapere coltivava la per-
sona a livelli superiori, il secondo sapere sviluppava le competenze necessarie
per il lavoro e la sopravvivenza. Qualcosa di ciò è rimasto nel dibattito degli an-
ni passati tra sapere e competenze. In Aristotele, invece, la qualità del pensiero
umano doveva integrare la parte cosiddetta teoretica e quella cosiddetta pratica.
Produrre un artefatto (compito della techne) e mantenere un buona relazione
tra le persone (compito della phronesis) erano competenze, da lui definite virtù,
che si dovevano correlare con altre virtù, o competenze, implicate nel saper ap-
prendere in maniera critica i vari saperi (compito dell’episteme), nell’intuire ri-
sposte valide da dare a problemi teorici e pratici (compito del nous), nel darsi
una prospettiva di senso e prospettiva esistenziale (compito della sophia). Per
questo Aristotele parlava di un organismo virtuoso.
Un recupero della prospettiva unitaria del processo educativo e formativo lo si
può cogliere all’inizio del secolo scorso in John Dewey, un attento lettore di Ari-
STUDI e RICERCHE
umana esprime il carattere di una persona. Essa deve essere vista come una “in-
terpenetrazione” degli abiti, o delle disposizioni personali (oggi dette anche com-
petenze), che l’individuo è riuscito sviluppare nel tempo in maniera equilibrata e
integrata. Tali disposizioni nella prospettiva deweyana sono viste come un insieme
interconnesso e coerente di atteggiamenti, significati, conoscenze, abilità e pat-
tern o schemi di comportamento. Dewey precisava: «Un carattere debole, instabile,
vacillante è uno nel quale i differenti abiti si alternano tra loro invece di incorpo-
rarsi l’uno nell’altro. La forza, solidità di un abito non sta nel suo possesso ma è
data dal rinforzo che essa riceve dagli altri abiti che assorbe in sé»7. Un “buon”
lavoratore è dunque caratterizzato da un insieme integrato di competenze sia di
natura culturale, sia di natura tecnico-professionale, sia di natura personale.
Tutto ciò può essere rivisitato sulla base di un documento dell’Unione Europea,
pubblicato nel 2011, che ha proposto un’articolazione delle competenze profes-
sionali, caratterizzanti un soggetto quanto alla sua possibilità di impiego nel mon-
do del lavoro e di transizione tra un impiego e l’altro8. Si tratta di una classifica-
zione che utilizza come criterio di analisi la loro trasferibilità da un’occupazione a
un’altra, sia in senso trasversale, sia in senso verticale. Vengono così distinte tra
loro le cosiddette soft skill, o competenze personali generali, le hard skill generi-
che, o competenze tecnologiche e culturali, le hard skill specifiche, o competenze
tecnico pratiche legate a una particolare filiera professionale. La questione cen-
trale sta nel garantire una loro buona integrazione.
Le prospettive sopra evocate mettono in evidenza per contrapposizione una
tendenza opposta sviluppata nel dopoguerra: un riemergere della separazione tra
sviluppo culturale e Formazione Professionale; un decadere progressivo della presenza
di una pedagogia del lavoro all’interno dei vari percorsi scolastici; un giungere ad
affermare: fino a diciotto anni la cultura, poi il lavoro. Molte forze politiche negli
anni Settanta e Ottanta erano orientate in questa direzione: un’unica formazione
culturale per tutti fino a diciotto anni. D’altra parte, lo stesso impianto descrittivo
delle competenze caratterizzanti le qualificazioni professionali può essere interpretato
in modo da separare tra loro la dimensione culturale e quella professionale. Parlare
di percorso e formazione duale può essere allora malamente interpretato in modo
tale da separare tra loro le due dimensioni, contro quanto sollecitato da Aristotele
e John Dewey, oltre che da un concetto chiaro di pedagogia della persona umana.
6
J. DEWEY, Human nature and conduct: an introduction to social psychology, New York, H.
Holt, 1922.
7
Ibidem, p. 38.
8
EUROPEAN UNION, Transferability of Skills across Economic Sectors: Role and Importance for
Employment at European Level, Luxembourg, Publications Office of the European Union, 2011.
61
■ 4. Il diario, il portfolio e il portfolio digitale
Nella sperimentazione trentina si è anche riscontrato come un’impostazione
formativa basata sull’alternanza permettesse una maggiore attenzione allo svilup-
po da parte del soggetto in formazione della capacità di autoregolazione del pro-
prio apprendimento. Ciò dipendeva da alcuni elementi di riferimento. In primo luo-
go si poteva sviluppare una chiara finalizzazione della propria attività di appren-
dimento. Anche nella prospettiva attuale di un sistema duale, la sottoscrizione da
parte dell’allievo del suo piano formativo individuale gli consente di porsi obiettivi
di competenza il cui significato e valore personale possono essere collegati con la
propria identità e carriera professionale. In secondo luogo è possibile un sistema-
tico riscontro delle proprie acquisizioni nella loro progressività, inclusa una con-
statazione oggettiva di sviluppo di abilità tecnico-pratiche, tramite il feedback of-
ferto sia dal tutor aziendale, sia da quello formativo. Il supporto a tale attività
può essere dato ora mediante una valorizzazione del previsto dossier. In terzo luo-
go si hanno metodologie di auto-valutazione e di auto-progettazione attuabili con
continuità per mezzo di un diario personale e più in generale di un portfolio. Su
quest’ultimo aspetto merita concentrare ora la nostra attenzione. La prospettiva
emergente era quella di un soggetto che costruisce attivamente le sue conoscenze
e abilità in maniera significativa, stabile e fruibile. Non solo, egli è più sensibile
allo sviluppo dei processi cognitivi e metacognitivi e a quello delle disposizioni
interne, cioè delle componenti affettive, motivazionali, sociali e valoriali. Visto da
un’altra angolatura si tratta di promuovere lo sviluppo di un’autoconsapevolezza
della propria identità professionale e delle competenze che la costituiscono.
Nella sperimentazione trentina nel promuovere l’uso del diario dell’allievo e del
suo portfolio si era partiti dal presupposto che il continuo confronto tra l’espe-
rienza vissuta e la riflessione critica su di essa consentisse all’allievo di consolidare
e valorizzare le proprie conoscenze/competenze e, di conseguenza, di mettere in
campo più adeguate ed efficaci strategie di azione per far fronte alle problemati-
che incontrate nelle varie situazioni. Per favorire tale coinvolgimento occorreva
valorizzare la sua capacità narrativa e ciò era favorito da un diario continuo avente
le seguenti finalità: sintetizzare le attività/argomenti svolte/trattati in un dato
periodo del percorso formativo che sono ritenuti importanti ai fini della propria
crescita personale e professionale; individuare le conoscenze/abilità “mobilizzate”
per lo svolgimento delle attività e/o “acquisite” attraverso i contenuti dei vari in-
segnamenti; esplicitare eventuali criticità incontrate, bisogni formativi emersi dal-
lo svolgimento di specifici compiti e/o dall’affrontare contenuti e temi oggetto
della didattica presso il Centro/Istituto di formazione, nonché degli eventuali “cor-
rettivi” richiesti al team di progetto oppure messi in campo autonomamente e/o
in forma assistita dal tutor; verificare il “rispetto” del piano formativo da parte
STUDI e RICERCHE
della valutazione formativa anche delle emozioni e degli stati affettivi e motiva-
zionali che hanno caratterizzato le esperienze vissute dall’allievo.
Si è accennato alla possibilità di attivare per ogni allievo un portfolio persona-
le, in particolare sviluppato sotto forma digitale, che da una parte svolga il ruolo
di dossier individuale, ma dall’altra permetta anche di valorizzare le caratteristiche
del diario personale, registrando le osservazioni, riflessioni e possibili esperienze
ulteriori. Questo portfolio sarebbe dunque costituito di due parti fondamentali: la
prima di natura più istituzionale e gestita in primo luogo dal tutor formativo in col-
laborazione con quello aziendale; la seconda di natura personale, gestita dall’allievo
stesso, con l’aiuto del tutor aziendale. Questa seconda parte si ricollega a una tra-
dizione abbastanza presente nei percorsi formativi, spesso descritta come diario di
bordo. Da questo punto di vista è utile considerare quanto sviluppato nelle pratiche
di alternanza scuola-lavoro e di apprendistato nella Regione Piemonte.
Nella sperimentazione dell’alternanza scuola-lavoro viene citata la redazione
di un Diario di bordo9. Esso viene ritenuto: «[...] utile per descrivere l’attività svol-
ta, i materiali utilizzati, elencare i principali termini appresi in azienda e apparte-
nenti al lessico tecnico-professionale in uso; inoltre, possono essere richieste
informazioni relative ad attività a cui ha partecipato direttamente, quelle alle qua-
li ha assistito, il personale coinvolto in esse, i luoghi di svolgimento e le eventuali
criticità incontrate». Sempre nella Regione Piemonte la pratica del Diario di bordo
è prevista per i percorsi di apprendistato diretti alla qualificazione o al diploma
professionale. «Il Diario di bordo è composta da report settimanali nei quali si
chiede all’allievo di tenere traccia della attività svolte secondo semplici criteri di
osservazione personale. Sul Diario l’apprendista è pregato di annotare tutti i gior-
ni, per grandi linee e con pochissime parole, quello che fa, i miglioramenti profes-
sionali, i problemi che eventualmente ha incontrato. All’apprendista viene chiarito
sin dall’inizio che il diario non è oggetto di valutazione e che ha due obiettivi
principali: aiutarlo a ragionare sulle cose che fa, su quelle che gli riescono bene,
su quelle per le quali trova difficoltà; aiutare chi lo segue (il tutor aziendale e il
coordinatore formativo) a capire come impostare i successivi interventi formativi.
Secondo il modello didattico adottato, il diario ha inoltre l’obiettivo di responsa-
bilizzare e coinvolgere l’apprendista nella definizione del proprio percorso forma-
tivo, rafforzando gli elementi di differenziazione con i tradizionali modelli di
apprendimento»10.
9
http://www.istruzionepiemonte.it/wp-content/uploads/2015/03/ASL_manuale-commen-
tato_Molinari.pdf.
10
G. MARTELENGO, Apprendistato per la qualifica professionale. L’esperienza piemontese,
Skill, 2016. 2, p. 30.
63
In sintesi, il compito formativo, che attraverso la valorizzazione del diario per-
sonale dovrebbe essere raggiunto, è promuovere nell’allievo lo sviluppo di una vera
e propria identità professionale, favorendo l’integrazione tra quanto fornito dall’e-
sperienza aziendale e quanto offerto dall’attività formativa istituzionale. Ad esem-
pio la redazione settimanale di un rendiconto di quanto vissuto nel contesto lavo-
rativo potrebbe essere valorizzato per consolidare e approfondire la sua compe-
tenza nel raccontare attraverso lo scritto non solo quanto sperimentato sul piano
operativo, ma anche gli aspetti più direttamente collegati alle sue conoscenze,
capacità di relazione ed emozioni provate.
Quanto al modello “trentino” dei quarti anni di diploma, il Portfolio doveva
supportare: un’azione di valutazione congiunta, che si configura come un processo
aperto alla collaborazione e partecipazione responsabile di più soggetti (docenti,
tutor aziendali e allievi); un’azione di valutazione longitudinale permettendo di
seguire gli effetti del processo formativo nel suo svolgersi temporale, documen-
tando e testimoniando i progressi che l’allievo compie verso l’acquisizione delle
competenze attese in uscita dal percorso ed evidenziando il “valore aggiunto” in
termini di crescita personale e professionale; la pratica riflessiva dell’allievo che
ha modo di ricomporre le esperienze sviluppate in contesti diversi (aula, labora-
torio, contesto lavorativo) nonché di attribuirne significati e valore d’uso rispetto
alle competenze effettivamente raggiunte; di analizzare e interpretare processi e
situazioni di ordine educativo oltre che di natura professionale, evidenziando l’ap-
porto di apprendimenti non formali e informali, favoriti in modo diretto e/o indi-
retto dalle esperienze vissute durante il percorso, utili nel fronteggiare situazioni
riguardanti la sfera sociale e civile; la narrazione e la valorizzazione del percorso
da parte dell’allievo, mettendo in luce l’abilità nel raccontare, giustificandole, le
scelte operative compiute o da compiere in un contesto professionale specifico;
nel descrivere la successione delle operazioni compiute o da compiere per portare
a termine un compito particolare, evidenziando, eventualmente, gli errori più
frequenti e i possibili miglioramenti; nel valutare la qualità non solo del prodotto,
risultato del suo intervento, ma anche del processo produttivo adottato11.
11
M. FRISANCO, L’attuazione dei percorsi sperimentali. In M. FRISANCO (a cura di), Da qua-
lificati a tecnici. La sperimentazione dei quarti anni di diploma professionale in alternanza forma-
tiva nella Provincia di Trento, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 110-11.
STUDI e RICERCHE
Un approfondimento del concetto di duale nella
Professionale tra sviluppo di un’identità
personale e di un’identità professionale
65
orientamenti che insistono sia dal punto di vista orientativo, sia da quello forma-
tivo, sulle centralità, se non esclusività, di una progressiva costruzione di sé come
lavoratore, altre impostazioni, pur condividendo l’importanza di una costruzione
di sé come lavoratore consapevole delle proprie competenze, mettono in luce che
ciò va vissuto nel contesto della costruzione di una specifica identità personale. È
quanto ha affermato Jean Guichard contrapponendo il suo pensiero a quello di
Mark Savickas12.
Jean Guichard è convinto che ogni persona: «[...] ha uno scopo più generale
rispetto alla costruzione professionale e cioè la costruzione [...] della propria vita
in ambiti differenti»13. Si tratta di un approccio alla costruzione di sé che: «[...]
tiene in considerazione il fatto che, nelle nostre società, le attività lavorative – e
quindi i percorsi professionali – occupano un posto importantissimo nella costru-
zione di vita della maggior parte degli individui. [...] Tuttavia, le attività lavora-
tive hanno un senso per le persone solo in relazione alle loro attività e esperienze
in altri ambiti. Quindi, la costruzione professionale sembra abbia necessità di es-
sere contestualizzata nel quadro più ampio della costruzione del percorso di vita.
Il modello di costruzione di sé intende descrivere i processi attraverso i quali le
persone connettono i diversi ambiti della propria vita e li ordinano in base a de-
terminate prospettive. Per fare ciò, considera le persone delle società postmoderne
come esseri plurali, che trovano un’unità sommando le loro diverse esperienze.
Questa unificazione avviene tramite la creazione di alcune aspettative sul proprio
futuro, aspettative che diventano poi fondamentali per l’individuo». D’altra parte:
«[...] nelle società ‘fluide’, rispetto alle società più rigide, meno diversificate e più
monolitiche, le persone (alcune più di altre) costruiscono un repertorio più ampio
di identità effettive o potenziali e hanno anche più facilità a modificarlo». Ad av-
viso di Guichard questa impostazione può: «[...] rispondere meglio alle esigenze
di adolescenti o giovani adulti che, nelle nostre società, devono affrontare molte-
plici compiti di sviluppo in diversi ambiti di vita (che stile di vita potrei avere?
cos’è che veramente importa nella mia vita? etc.)».
Quanto alla differenza tra l’impostazione di altri, come Mark Savickas, e quella
propria, Guichard afferma: «Si potrebbe dire che la persona descritta dal modello
di costruzione professionale appare più unificata e coerente e connessa nella co-
struzione della propria vita. La persona delineata dal modello di costruzione di sé
è invece più plurale, più influenzata dalla diversità delle proprie esperienze e in
cerca di prospettive future che possano unificare la propria esistenza. La costru-
12
La questione viene trattata più in dettaglio nel volume di M. PELLEREY, Soft Skill e orien-
tamento professionale, Roma, CNOS-FAP, in stampa.
13
J. GUICHARD, Ruolo delle teorie di costruzione professionale e costruzione di sé nel life
designing, Items, 2010, 15, pp.1-4.
STUDI e RICERCHE
passato; la costruzione di sé attraverso le possibilità future.
In sintesi, sembra che le similitudini e le differenze tra questi due approcci
possano essere riassunte in due domande. La costruzione professionale si basa sul
principio che, nelle nostre società, gli individui devono rispondere a una domanda
fondamentale: Qual è il significato del mio percorso professionale nella mia vita?
Il modello di costruzione di sé formulerebbe la stessa domanda come segue: Qual
è quella cosa nella mia vita che (potrebbe) darle significato?»14.
Il messaggio è chiaro: non è possibile dal punto di vista formativo non tener
conto della persona nella sua totalità e complessità, soprattutto oggi in cui la ra-
pida evoluzione tecnologica e organizzativa delle varie filiere professionali, l’in-
certezza e la mobilità della struttura socio-economica in cui si vive, la difficoltà a
un inserimento lavorativo stabile e coerente con una specifica identità professio-
nale, esigono una visione più ampia e prospettiva del proprio progetto di vita, sol-
lecitando forme imprenditoriali di sé aperte e dinamiche. Di qui anche la sempre
più chiara importanza dello sviluppo delle soft skill e delle hard skill generiche
nella Formazione Professionale dei giovani. Da questo punto di vista un sistema
duale può esser letto come la ricerca di una migliore integrazione tra formazione
della persona e formazione del lavoratore, soprattutto quando si tratta di soggetti
ancora adolescenti o di giovani adulti.
14
Ibidem.
67
L’esperienza diretta, personale
PROGETTI e ESPERIENZE
e realistica del mondo del lavoro
come fondamentale componente
dello sviluppo di una propria
identità professionale
MICHELE PELLEREY1
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di
Roma.
111
che il soggetto deve compiere sotto l’influenza sia dell’istituzione formativa, sia
soprattutto del contesto lavorativo nel quale viene inserito.2 In effetti, è sempre
più difficile pensare all’identità professionale come uno stato che viene assunto
più o meno passivamente in un contesto organizzativo stabile e ben strutturato
secondo ruoli e mansioni precise, magari codificate da forme contrattuali e condi-
zioni chiare di carriera. Tanto più che in molti casi si nota la tendenza a sviluppare
più di una identità professionale, o ad assumere forme di identità oggi descritte
come “provvisorie o temporanee”.
Un’identità professionale può essere considerata come costituita da un insieme
di competenze, attitudini, stati affettivi e motivazionali, comportamenti, che fan-
no riferimento a un ambito lavorativo nel suo complesso, più che a una ben pre-
cisa figura professionale e/o a un ben definito ruolo lavorativo. Certo nell’imma-
ginario di un giovane inserito in un percorso alberghiero o di ristorazione la figura
del cuoco, o dello chef, sembra oggi a lui abbastanza chiara, ma in realtà spesso
essa è elaborata più sulla base delle descrizioni presenti nei mass media, che de-
rivata dalla consapevolezza critica delle competenze, qualità personali e modalità
organizzative concrete implicate. Per cui molte volte il cammino da intraprendere
nel promuovere una consapevole identità professionale si gioca tra sogno e realtà,
tra prospettive immaginarie e scontro con l’esperienza diretta. L’istituzione forma-
tiva viene ad assumere così un ruolo mediatore determinante, aiutando a svilup-
pare da una parte le conoscenze, le abilità e gli atteggiamenti coinvolti e, dall’al-
tra, a riflettere su quanto viene direttamente esplorato e sperimentato nel conte-
sto lavorativo concreto. Anche perché inevitabilmente lo stesso mondo lavorativo
reale sperimentato se aiuta a sviluppare più realisticamente la concezione stessa
di una professione lavorativa può, proprio per la sua concretezza legata a un tem-
po e a uno spazio particolari, limitarla, con pericoli di chiusure alle trasformazioni
sempre più rapide di natura organizzativa e tecnologica.
L’importanza di sviluppare un’adeguata e consapevole identità professionale
deriva anche dal fatto che essa costituisce una fonte importante di significati e di
prospettive esistenziali personali, un vero e proprio quadro di riferimento per la
definizione di un concetto di sé e per lo sviluppo della propria autostima. Tutto
ciò influisce sul benessere psicologico e sulla motivazione a crescere nelle proprie
competenze e ad affrontare le sfide presenti del mondo del lavoro, con evidenti ri-
cadute sulla maniera di agire nei contesti lavorativi. La ricerca ha messo in luce
che i soggetti raramente sono passivi in quanto destinatari di processi di socializ-
2
B.B. CAZA, S.J. CREARY (2016), The construction of professional identity, The Scholarly
Commons, Cornell University. Cfr. http://scholarship.sha,cornell.edu/articles/878 (visitato 30
giungo 2017)
PROGETTI e ESPERIENZE
lo sono consapevoli, ma cercano di gestirli in proprio negoziando ogni adattamen-
to. Ibarra ha messo in luce come i soggetti tendano ad adattarsi alle nuove richie-
ste al fine di sperimentare possibili e temporanei sé lavorativi, cercando di svilup-
pare le attitudini e i comportamenti richiesti, prima di modificare permanente-
mente elementi costitutivi della propria identità professionale.3
A questo fine oggi si insiste sull’importanza di sviluppare sistematicamente
un apprendimento costruttivo, auto-regolato, collaborativo come veicolo per l’ac-
quisizione di una “competenza adattiva”.4 A questo proposito Savickas e Porfeli
hanno sviluppato un questionario di autovalutazione, diretto proprio all’identifi-
cazione di tale competenza adattiva, basato su quattro caratteristiche fondamen-
tali del soggetto: l’apertura alla progettazione del proprio futuro; la capacità di
controllo delle proprie decisioni; la curiosità ed esplorazione del mondo esterno;
la fiducia nella propria capacità di affrontare i problemi.5
Si può dire in sintesi che la costruzione di una propria identità professionale
è un percorso nel quale il confronto con la realtà del mondo del lavoro dovuta al-
l’esperienza diretta tende a sollecitare un continuo adattamento dell’immagine di
sé come lavoratore e in questo quadro a sviluppare competenze, atteggiamenti e
comportamenti. In tutto ciò, l’attività riflessiva e la mediazione del sistema for-
mativo costituiscono elementi chiave per una crescita progressivamente sempre
più consapevole e capace di adattamento della propria identità professionale.
■ 2. diLoun
sviluppo dell’identità professionale nel contesto
sistema duale
3
H. IBARRA, Provisional selves: Experimenting with image and identity in professional
adaptation, Administrative Science Quarterly, 1999 (44), 4, pp.764-791.
4
E. DE CORTE, L’apprendimento Constructive, Self-regulated, Situated, and Collaborative
(CSSC), come veicolo per l’acquisizione della competenza adattiva, Scuola Democratica, 2012,
5, pp.30-51.
5
M.L. SAVICKAS, E.J. PORFELI, Career Adapt-Abilities Scale: Construction, reliability, and
measurement equivalence across 13 countries, Journal of Vocational Behavior, 2012 (80), pp.
661-673.
113
geograficamente. Non sempre l’interazione tra questi due punti di riferimento si
presenta con una dinamica adeguata e, altrettanto spesso, l’azione di supporto da
parte delle istituzioni formative si manifesta debole. Così nello sviluppo di una
propria identità professionale, coerente con il contesto attuale e, soprattutto,
aperta a quello futuro, si possono notare ampie diversità cha vanno da giovani
che si sono progressivamente identificati con uno specifico ambito lavorativo, e
magari con una sua particolare specializzazione, a giovani che rimangono sempre
più disorientati e indecisi. Nel primo caso la scelta professionale si accompagna
in generale con qualità personali che ne fanno da supporto, come senso di autoef-
ficacia, sentirsi in grado di realizzare i propri sogni e progetti, positivo orienta-
mento. Nel secondo caso si intersecano insicurezza, fatalismo, rigidità, scarsa ca-
pacità di autoregolazione. Nelle ricerche degli ultimi tempi emergono inoltre con
sempre più chiarezza le correlazioni esistenti tra coscienziosità, apertura all’espe-
rienza e al cambiamento e possibilità di entrare e permanere nel lavoro.6
In precedenti contributi si è chiarito, tuttavia, come nella preparazione pro-
fessionale le competenze personali, le competenze culturali e tecnologiche e le
competenze tecnico-pratiche debbano potersi integrare validamente tra loro, così
che lo sviluppo di un’identità professionale non può essere promosso senza una
parallela attenzione allo sviluppo dell’identità personale e morale del soggetto.7
Di qui una prima possibilità di approfondimento circa il ruolo dell’istituzione for-
mativa e quello dell’azienda in cui si svolge o si svolgerà l’apprendistato. L’impe-
gno formativo sul piano personale e su quello della cultura e tecnologia generale
spetta principalmente all’istituzione formativa, mentre quello più diretto allo svi-
luppo di competenze tecnico-pratiche all’ambito lavorativo. Ma all’istituzione for-
mativa compete anche l’azione di integrazione tra le diverse competenze in vista
proprio dello sviluppo di un’identità professionale integrata e valida. Di qui il ruolo
non piccolo e non secondario del tutor formativo in collaborazione con quello
aziendale, in particolare quello di coordinare le varie attività formative, concen-
trando l’attenzione sulle singole persone e sullo sviluppo della loro identità per-
sonale, morale e professionale in maniera coerente e proficua.
In questo processo, tuttavia, è necessario, giova ripeterlo, che il soggetto in
formazione assuma progressivamente un ruolo sempre più personalmente consa-
pevole e autogestito: egli deve diventare l’attivo costruttore delle competenze
6
Si tratta di dimensioni della persona esplorate dal test di personalità Big Five le cui corre-
lazioni con il successo nel mondo del lavoro sono state evidenziate da varie ricerche. Cfr. in pro-
posito: G.V. CAPRARA, C. BARBARANELLI, L. BORGOGNI, BFQ, Big Five Questionnaire, Firenze,
OS, 2005, pp.51-52 e 56-57.
7
M. PELLEREY, Lo sviluppo di un’etica professionale coerente con il contesto lavorativo
odierno, Rassegna CNOS, 2017 (33), 1, pp.49-62.
PROGETTI e ESPERIENZE
sonale; certo con l’aiuto dei formatori, ma se inizialmente può prevalere la solle-
citazione, la guida e il controllo degli altri, tutto ciò deve progressivamente atte-
nuarsi per lasciar posto all’iniziativa e alla responsabilità personale. Per chiarire
ulteriormente quanto sopra accennato è utile ricordare quanto indicato a suo tem-
po da J. J. Rousseau.
■ 3. cogliere
La teoria dei tre maestri di J.J. Rousseau ci aiuta a
la dinamica dei processi formativi rivolti
allo sviluppo dell’identità professionale
8
J.J. ROUSSEAU, Emilio o dell’educazione, Edizione integrale a cura di E. Nardi, Firenze, La
Nuova Italia, 1995, p. 8.
9
Ibidem, 9.
10
M. FABRE, Penser la formation, Paris, PUF, 1995.
11
Analogamente P. Carré, A. Moisan e D. Poisson descrivono lo spazio formativo mediante
un diagramma triangolare ai cui vertici stanno: autoformazione, etero-formazione, eco-forma-
zione. Cfr. P. CARRÉ, A. MOISAN, D. POISSON, L’autoformation. Psychopédagogie, Ingénierie,
Sociologie, Paris, PUF, 2002, p.106.
115
Contesto
levorativo
Percorso
Istituzione Soggetto in
formativa formazione
PROGETTI e ESPERIENZE
scenza dei sistemi di relazione esistenti tra colleghi e tra dipendenti e superiori e
la capacità di tenerne conto nella maniera di interagire in situazione; d) la capa-
cità di lavorare in gruppo e di collaborare ai vari livelli al fine di produrre quanto
richiesto dalle attività d’impresa.
Questi compiti formativi tuttavia non otterranno alcun risultato, se i soggetti
in formazione non sviluppano le capacità di apprendere quanto loro proposto e di
trasformarlo in un patrimonio conoscitivo e operativo che caratterizzi la loro pro-
fessionalità. Nel seguito esploreremo alcune di queste esigenze in particolare. In
generale, si è indicato nell’azione del tutor aziendale e del tutor formativo il com-
pito di facilitare tale apprendimento sia mediante congrue progettazioni di per-
corsi formativi, sia seguendo sistematicamente il cammino che i singoli in forma-
zione intraprendono, sia favorendo da parte di essi la redazione di un diario di
bordo. A quest’ultimo proposito occorre tuttavia segnalare come recenti ricerche
hanno evidenziato che la semplice compilazione di un diario di quanto vissuto in
impresa non produce risultati apprezzabili, se non è sistematicamente collegato
allo sviluppo di capacità di riflessione critica e di competenze auto-regolative.12
Di qui la necessità di prospettare l’utilizzazione di un vero e proprio portfolio
digitale, ben progettato, che faccia da riferimento e integrazione tra l’apporto del
tutor aziendale, del tutor formativo e del soggetto in formazione. Tale portfolio
costituirebbe proprio l’architrave della possibilità di integrazione feconda tra i tre
riferimenti evocati da Rousseau. Tramite la sua valorizzazione il tutor formativo
può verificare se il cammino intrapreso sta dando i risultati sperati, oppure occorre
trovare per esso modesti adattamenti o profonde modificazioni. Dal canto suo il
tutor aziendale può riscontrare se quanto vissuto dall’allievo sul posto di lavoro
trova validi riscontri sul piano della consapevolezza critica e della valorizzazione
personale. L’allievo trova traccia del suo cammino percorso e, se ben aiutato, ac-
quista progressivamente consapevolezza di quanto appreso e spinta motivazionale
ad impegnarsi nel processo di sviluppo professionale.
Come gran parte della conoscenza si sviluppa nell’interazione con la realtà, co-
sì anche la propria identità viene strutturandosi nell’impatto con le diverse espe-
rienze lavorative e occupazionali. Tuttavia la pura e semplice presenza, l’impatto
con un ambiente, o contesto, l’incontro con le persone, la percezione delle cose,
non modificano le conoscenze e le competenze senza una presa di consapevolezza
del loro significato personale, concettuale o operativo. Il passaggio dall’evento al
suo significato implica una qualche forma di sdoppiamento, normalmente favorito
dal suo racconto, o ricostruzione narrativa, o dalla sua rappresentazione grafica.
12
L. DÖRRENBÄCHER, F. PERELS, More is more? Evaluation of interventions to foster self-
regulated learning in college, International Journal of Educational Research, 2016, 78, pp.50-65.
117
Ciò favorisce una riflessione critica che è stata ben descritta da Platone nel Teeteto
spiegando il significato del pensare, del riflettere. Socrate dialogando con il suo
interlocutore Teeteto gli chiede «Ma con termine ‘pensare’ intendi quello che in-
tendo io?». E prosegue: «Io intendo il dialogo che l’anima per sé instaura con se
stessa su ciò che sta esaminando. [...] Infatti mi pare chiaro che, quando pensa,
l’anima non fa altro che dialogare interrogando se stessa e rispondendosi da sé,
affermando e negando. Quando è giunta a una definizione, sia che abbia proceduto
lentamente, sia rapidamente, ormai afferma la medesima cosa, e non è più incerta,
è questa che noi poniamo essere la sua opinione. Per conseguenza, io chiamo l’o-
pinare ‘discorrere’ e l’opinione ‘discorso pronunciato’, non tuttavia rivolto ad un
altro né pronunciato con la voce, ma in silenzio rivolto a se stesso».13
Quest’atteggiamento riflessivo, questo discorrere tra sé e sé, nel nostro caso è
collegato alle nuove esperienze che derivano dell’impatto con il mondo del lavoro.
È dunque bene approfondire la questione, perché implica una qualità specifica
della persona: l’apertura all’esperienza.
■ 4. dimensione
L’apertura all’esperienza come fondamentale
dell’identità professionale
13
G. REALE (a cura di), Platone, tutti gli scritti, Milano, Rusconi, 1991, 2° ed., pp. 579-580.
14
G.V. CAPRARA, C. BARBARANELLI, L. BORGOGNI, BFQ, Big Five Questionnaire, Firenze,
OS, 2008. pp.56-57.
PROGETTI e ESPERIENZE
esperienze esplorative e attività di ricerca di informazioni producono aspirazioni per-
sonali e sollecitano verifiche della propria capacità di realizzarle.15
Nuttin nella sua teoria della motivazione umana ha messo in evidenza come uno
stato motivazionale venga normalmente attivato da un confronto fra il sé e le sue
aspirazioni e la realtà esterna quale viene percepita.16 Più precisamente, egli ha evi-
denziato come la generazione dell’intenzione di agire, di impegnare le proprie energie
in una direzione, derivi dall’interazione tra il sistema del sé (conoscenze concettuali
e operative; motivi, valori e convinzioni; attribuzioni di valore nei riguardi di sé, de-
gli altri e del contesto nel quale si opera; senso di efficacia nel portare a termine i
compiti richiesti, ecc.) e la percezione della situazione specifica che sollecita la no-
stra interpretazione e azione. Ciò vale anche in riferimento ai vari contesti di studio
e di lavoro, e ai diversi compiti da affrontare secondo le loro caratteristiche peculiari.
La componente di natura interpretativa che entra in gioco, mira a dare senso a una
situazione (o a una problema), cogliendone gli aspetti che implicano un intervento
atto a promuovere una situazione modificata secondo un obiettivo preciso (o a risol-
vere uno specifico problema).
Il ruolo dell’esperienza diretta della realtà non ha solo questo carattere di stimolo
motivazionale, ma anche, se non soprattutto, come contesto di verifica della qualità
del proprio mondo conoscitivo e operativo, giungendo a incidere sulla propria identità
personale e professionale. In qualche modo ciascuno ha bisogno di sviluppare una
continua e consapevole conversazione che la realtà che lo circonda, sia essa costi-
tuita da persone, da situazioni, da processi o da apporti culturali. La capacità di co-
struire con coerenza e continuità la propria identità personale e professionale è le-
gata inscindibilmente a due fedeltà: ai propri valori e significati profondi; alla realtà
che viene costantemente attraversata. Ciò evoca il problema della continuità e sta-
bilità della persona, come della sua flessibilità e adattabilità alle situazioni e circo-
stanze specifiche.
■ 5. essa
La natura dell’esperienza e le condizioni perché
sia formativa
In psicologia l’esperienza può essere considerata sia come sostantivo, sia come
verbo. Come sostantivo è: “la valutazione soggettiva (cosciente) degli stimoli re-
cepiti, o la conoscenza da essi derivata”. Come verbo: “provare qualcosa, imbat-
15
M.L. SAVICKAS, E.J. PORTFELI, Career Adapt-Abilities Scale: Construction, reliability, and
measurement equivalence across 13 countries, Journal of Vocational Behavior, 2012 (80), p.663.
16
J. NUTTIN, Teoria della motivazione umana, Roma, Armando, 1983.
119
tersi in qualcosa, trovare qualcosa, sentire, soffrire alcunché, o acquistare coscien-
za di un oggetto di stimolo, di una sensazione o di un evento interiore”. D’altra
parte Kurt Lewin identificava il campo di esperienza interiore con l’insieme dei
contenuti interiori che emergono progressivamente e con diverso grado di chia-
rezza alla coscienza. Esso, quindi, varia da persona a persona sia per estensione,
sia per strutturazione, nonché per la dinamica che si svolge nel suo ambito.
Perché un evento, un incontro, una situazione venga considerato un’esperienza
occorre dunque che si possa riscontrare la presenza di almeno due elementi: uno
affettivo, l’altro cognitivo. L’elemento affettivo è dato dalla reazione emozionale
che si prova: piacere, paura, tristezza, gioia, rabbia, entusiasmo, soddisfazione,
noia, rimpianto... Quello cognitivo consiste nel cercare di capire il perché, il senso
di tale emozione, la sua radice profonda. Naturalmente ciò può essere vissuto a un
livello più o meno profondo e coinvolgente, ma la reazione emozionale e la rifles-
sione critica, anche se in forme talora assai attenuate, fanno parte di ogni forma
di esperienza.
La filosofia tende ad approfondire ulteriormente tale prospettiva. Con il termi-
ne esperienza non si intende: «[...] il semplice fare, l’essere coinvolto in qualche
forma di attività; l’esperienza non coincide con il mero vissuto...modo diretto e
naturale di vivere nell’orizzonte del mondo. L’esperienza prende forma quando il
vissuto diventa oggetto di riflessione e il soggetto se ne appropria consapevol-
mente per comprenderne il senso... Il fare esperienza va inteso come il movimento
dello stare in contatto di sé, il disporsi in atteggiamento di ascolto pensoso ri-
spetto al divenire della propria presenza nel mondo. L’esperienza richiede ascolto:
ascolto di sé, dei propri vissuti emotivi e cognitivi».17
In realtà la parola “esperienza” deriva dal latino experiri (passare attraverso),
cioè provare, sentire, essere colpito da una situazione di vita. Il concetto di espe-
rienza è diverso da quello di attività alla quale si partecipa. L’attività riguarda per
un verso le cose che si fanno e per un altro il perché le si fa, cioè le mete che ci
si propone di raggiungere. L’esperienza riguarda invece il singolo partecipante al-
l’attività, quanto ne è o ne è stato coinvolto; la sollecitazione che prova o che ha
provato; la modifica o trasformazione interiore che è avvenuta. Naturalmente con
livelli o gradi diversi di profondità e di coinvolgimento a seconda dei partecipanti.
Dal punto di vista dell’apprendimento è essenziale non solo che si sia sentito o
provato qualcosa, ma anche che se ne sia divenuti consapevoli. Si può anche no-
tare come il termine “esperienza” valorizzi due preposizioni: “ex” (= da) che signi-
fica partenza, allontanamento, distacco più o meno volontario dall’ambiente fa-
17
L. MORTARI, Apprendere dall’esperienza, Roma, Carocci, 2003, pp.15-16.
PROGETTI e ESPERIENZE
mondo nuovo. Anche l’espressione tedesca che designa l’esperienza – Erfahrung –
racchiude in sé il motivo del viaggio (Fahrt) e quindi la duplice idea della partenza
e della peregrinazione.
Come si può notare, c’è una convergenza in tutte queste considerazioni: fare
esperienza implica andare oltre dove si è, quello che si è, quello che si sa, quello
che si sa fare, quello che si gusta, quello che si prova di solito. Per fare esperienza
occorre avere il coraggio di aprirsi a qualcosa di nuovo, di stimolante, di arric-
chente di sé o degli altri. D’altra parte per apprendere qualcosa di nuovo bisogna
avere il coraggio di affrontare un cammino, una nuova avventura, uscire da sé.
Uno dei principali studiosi dell’apprendimento adulto, David Kolb, ha approfon-
dito il concetto di “apprendimento esperienziale”. Questa espressione ha assunto
nel tempo due significati diversi, diversi, ma non contrastanti, e per molti aspetti
complementari. Il primo riguarda la constatazione che come risultato delle espe-
rienze di vita e di lavoro si ha lo sviluppo di conoscenze, competenze, atteggia-
menti che derivano non da studi sistematici, o formali, ma da quel tipo di appren-
dimento che viene oggi definito informale, cioè legato a situazioni non preceden-
temente organizzate, né chiaramente intenzionalmente finalizzate. È questo il ri-
sultato di un apprendimento basato sull’esperienza, sulla partecipazione a un am-
biente di vita o di lavoro. Persino a livello di studi superiori e universitari è ormai
riconosciuto il diritto ad avere forme di certificazione delle competenze acquisite
in questo modo o, come si suole dire, sul campo. Il secondo significato è stato
valorizzato in particolare da John Dewey ed è rivolto soprattutto al futuro, alla
possibilità di andare oltre quanto acquisito, di trascendere in qualche modo la con-
dizione esistente.
■ 6. nel
La specificità di un’esperienza valida e feconda
caso di formazione in un sistema duale:
l’apprendimento osservativo
Sia nel caso di simulazione d’impresa, sia in quello di alternanza, sia in quello
di apprendistato vero e proprio, l’esperienza del contesto lavorativo, che le carat-
terizza, per essere veramente formativa e apportare un durevole apprendimento
professionale, implica l’attivazione di quello che è stato definito apprendimento
osservativo. Osservando gli altri mentre agiscono e reagiscono in determinati con-
testi e prendendo in considerazione anche le conseguenze di tali comportamenti,
infatti, i soggetti interiorizzano modi di agire e di reagire, regole e forme di com-
portamento e di relazione, formando così un patrimonio di esperienza che una vol-
ta codificato internamente serve da guida all’azione. Inoltre, essi sono portati ad
121
attribuirne valore o disvalore. In molti casi inizialmente l’influenza più che sui va-
lori, le convinzioni, le credenze personali si esplica nei riguardi della percezione
delle situazioni e del modo di interpretarle e di agire in esse. A lungo andare, tut-
tavia, si cerca di darsene una ragione e si costruiscono non solo teorie ingenue
esplicative delle ragioni che stanno alla base di tali comportamenti e modi di fare,
ma anche convinzioni personali sempre più profonde circa la loro validità e utilità
personale.
«Nel corso degli anni, l’effetto dell’osservazione e interiorizzazione di modelli
è stato sempre riconosciuto come uno dei più potenti mezzi di trasmissione di va-
lori, atteggiamenti, modi di pensare e di agire».18 Bandura ha analizzato con gran-
de cura i meccanismi propri dell’esperienza indiretta, utilizzando sistematicamente
l’aggettivo “vicario”, che evoca il rivivere interiormente un’esperienza che è in
realtà vissuta da altri. Dalle sue indagini sono emersi quattro stadi che caratteriz-
zano l’apprendimento osservativo. Il primo stadio concerne l’attivazione di un’at-
tenzione sufficientemente focalizzata sulle persone e le attività, che queste svol-
gono e che costituiscono un riferimento fondamentale nel processo di acquisizione
di competenze professionali. Il secondo stadio riguarda la memoria. Non basta
identificare con cura i comportamenti osservati, bisogna anche ricordarli, codifi-
candoli nella propria memoria a breve termine e conservandoli poi in quella a lun-
go termine. Da quest’ultima occorrerà essere in grado di richiamarli a tempo op-
portuno. Il terzo stadio viene messo in moto quando si cerca di riprodurre perso-
nalmente quanto memorizzato, date le opportune circostanze. Tuttavia, spesso
mancano certe abilità, allora occorre identificarle ed esercitarsi per acquisirle.
Il quinto stadio mette in gioco aspetti motivazionali. A questo fine sono impor-
tanti i suggerimenti e le spiegazioni che vengono o da quanti fanno da modelli, o
dai formatori.
Oggi si hanno numerosi riscontri di quanto prospettato da Bandura sul piano
delle indagini neuropsicologiche connesse con il ruolo delle reti dei cosiddetti neu-
roni specchio. L’osservazione dei comportamenti motori compiuti dagli altri può
attivare tali reti, che grazie all’osservazione attenta tendono a conservare un mo-
dello interno di organizzazione motoria analogo a quello osservato e, a tempo
debito, a riprodurlo.19
L’interiorizzazione di modelli di comportamento, specialmente se accompagna-
ti da parole che ne spiegano il senso e il valore, è la base iniziale fondamentale di
quello che è stato chiamato “apprendistato”. Un apprendistato pratico è caratte-
18
A. BANDURA, Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Engle-
wood Cliffs, Prentice Hall, 1986, pp.47-48.
19
Vedi a esempio: G. RIZZOLATTI, C. SINIGAGLIA, So quel che fai. Il cervello che agisce e i
neuroni specchio, Milano, Cortina, 2006.
PROGETTI e ESPERIENZE
che fa vedere come si fa a produrre un oggetto o a realizzare un progetto di natura
più complessa. Segue poi un esercizio pratico da parte dell’allievo che intende ac-
quisire la competenza espressa dal modello. Tale esercizio è guidato e supervisio-
nato dal maestro e si sviluppa secondo una scansione temporale e di progressiva
difficoltà e complessità. Inizialmente il controllo è sistematico e attento, la cor-
rezione frequente, la ripetizione degli stessi atti condotta fino all’acquisizione di
una sufficiente precisione e scioltezza. A poco a poco il maestro si limita sempre
più a osservare e controllare da lontano, a intervenire con parsimonia, lasciando
all’allievo sempre maggiore autonomia.
Apprendere da un modello in questo caso non è solo osservare, ma passare
dall’osservazione progressivamente all’azione e all’esperienza operativa diretta.
In un primo tempo il modello è esterno, e con esso l’allievo deve frequentemente
confrontarsi per acquisire abilità e coerenza di azione, poi il modello diventa
interiore ed egli è in grado di valutare il proprio operato da solo, acquisendo
progressivamente anche la capacità di monitorare sistematicamente il corso
della sua opera.
123
Dal diario al portfolio digitale:
studI e RICERCHE
il loro ruolo nella costruzione
dell’identità professionale
MICHELE PELLEREY1
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
BROWN A. (1997), A dynamic model of occupational identity formation. In: BROWN A.
(ed.). Promoting vocational education and training: European perspectives. Tampere: University
of Tampere, pp. 59-67 (http://www.leeds.ac.uk/educol/documents/000000312.htm).
45
occupazionale nel tempo, coniugando stabilità e cambiamento; b) in tale pro-
cesso è presente una forte componente sociale in quanto un soggetto apprende,
lavora e interagisce con altri; c) egli è un attore significativo nella costruzione
della sua identità occupazionale; d) in questo ambito occorre riconoscere il ruolo
di una generale e di una specifica comunità di pratica, collegate al particolare
tipo di occupazione. Insieme alla sua collega Jenny Bimrose, egli ha continuato
le sue ricerche pubblicando numerosi contributi3 e precisando ulteriormente il
suo approccio al concetto di identità occupazionale e al suo sviluppo, collegan-
dolo direttamente a quello di apprendimento professionale. Quest’ultimo, a giu-
dizio dei due Autori, è basato su tre principi fondamentali: a) l’apprendimento
professionale va considerato come un divenire, uno sviluppo dell’identità occu-
pazionale; b) tale processo si realizza nell’interazione di quattro ambiti da pro-
muovere: relazionale, cognitivo, pratico ed emozionale; c) in ciò svolge un ruolo
il contesto delle opportunità offerte dalle strutture lavorative nelle quali il sog-
getto opera.4 Perché tale sviluppo possa avverarsi si richiede: che il soggetto sia
proattivo e capace di auto-dirigersi, sapendo dare senso e prospettiva alle pro-
prie scelte, impegnandosi poi a realizzarle; che sia autoriflessivo, essendo così
consapevole delle proprie competenze e capace di analisi critica delle situazioni;
che promuova le sue competenze relazionali ai vari livelli; che sia adattabile,
cioè in grado di gestire le tensioni tra continuità e cambiamento in vista della
sua crescita professionale e del suo inserimento lavorativo.5
Occorre anche precisare come la questione dell’identità occupazionale sia stata
esplorata in ambito non solo lavorativo dalla cosiddetta “scienza occupazionale”,
che considera l’occupazione umana in un senso assai generale, in quanto include,
oltre all’attività lavorativa vera e propria, attività legate alla vita quotidiana, al-
l’ambito educativo, al gioco e al tempo libero, alla vita sociale. In questo contesto
C.H. Christiansen ha così precisato il concetto generale di identità occupazionale:
a) è formata dalle nostre relazioni con gli altri e ne dà forma; b) deriva da quanto
facciamo e dalle interpretazioni di tali azioni nel contesto delle relazioni con gli
altri; c) è un elemento centrale nella narrazione di sé o storia di vita, che fornisce
coerenza e significato agli eventi quotidiani e alla stessa esistenza; d) di conse-
guenza è essenziale nel promuovere il benessere e una vita soddisfacente.6
3
Tra cui: A. BROWN, J. BIMROSE, Identity development, in P.J. HARTUNG; M.L. SAVICKAS.,
W.B. Walsh Eds.), APA Handbook of career intervention, Volume 2: Applications, Washington,
DC, US: American Psychological Association, 2015, pp. 241-254.
4
A. BROWN, J. BIMROSE, Model of learning for career and labour market transitions. Research
in Comparative and International Education, 2014, 9, pp. 270-286.
5
Cfr. CEDEFOP, Navigating difficult waters: learning for career and labour market transitions,
2014, Luxembourg Publications Office of the European Union. Una ricerca coordinata da Alan
Brown, Jenny Bimrose estesa a cinque Paesi, tra cui l’Italia.
6
C.H. CHRISTIANSEN, Defining lives: Occupation as identity. An essay on competence, co-
herence and the creation of meaning, American Journal of Occupational Therapy, 1999, 53,
pp. 547-558.
7
A. DA RE, La nozione di professione e la riscoperta delle virtù nell’etica contemporanea. In
ID., La saggezza possibile. Ragioni e limiti dell’etica, Fondazione Lanza-Gregoriana Editrice, Pa-
dova, 1994, pp. 197-221.
8
B.B. CAZA, S.J. CREARY (2016), The construction of professional identity, The Scholarly
Commons, Cornell University. Cfr. http://scholarship.sha,cornell.edu/articles/878 (visitato 30
giungo 2017).
9
M.L. SAVICKAS, Career counselling, Washington, D.C., American Psychological Association,
2011 (traduzione italiana a cura di A.M. DI FABIO, Trento, Erickson, 2014).
47
all’orientamento professionale, detto in inglese career counselling. In effetti
l’accento si è spostato dalla considerazione delle organizzazioni lavorative e delle
loro esigenze di competenza, al fine di identificare chi era in grado di essere da
loro assunto, all’attenzione alla singola persona che nella vita dovrà affrontare
più di una organizzazione e continui cambiamenti lavorativi. Il singolo, infatti,
dovrà essere in grado di gestire la costruzione della propria identità professionale
e di affrontare, riflettendo sulla propria esperienza esistenziale, le varie sfide e
momenti di crisi che dovrà affrontare. La costruzione della propria identità
professionale diventa così per il soggetto un progetto o una storia, che con l’aiuto
degli altri, come gli orientatori, cerca di dare e ricostruire continuamente senso
e prospettiva esistenziale nell’ambito lavorativo, aprendosi a un quadro di possibili
future occupazioni.
■ 2. professionale
Promuovere la costruzione della propria identità
10
H. IBARRA, Provisional selves: Experimenting with image and identity in professional adap-
tation, Administrative Science Quarterly, 1999 (44), 4, pp. 764-791.
11
E. DE CORTE, L’apprendimento Constructive, Self-regulated, Situated, and Collaborative
(CSSC), come veicolo per l’acquisizione della competenza adattiva, Scuola Democratica, 2012,5,
pp. 30-51.
12
M.L. SAVICKAS, E.J. PORTFELI, Career Adapt-Abilities Scale: Construction, reliability, and mea-
surement equivalence across 13 countries, Journal of Vocational Behavior, 2012 (80), pp. 661-673.
13
L. BERNASCONI, M. BERNASCONI, D. DELORENZI, M. POLITO, La pratica riflessiva e il diario
49
così definita, facendo riferimento agli studi dello spagnolo Miguel Ángel Zabalza
Beraza14: «Il diario di formazione non è un semplice diario, ma è una scelta de-
liberata di descrivere la propria esperienza professionale per vederci chiaro, per
conoscersi meglio, per fare il punto della situazione, per capire se si sta inse-
gnando bene, per affrontare le difficoltà e superare i problemi. Permette di ritor-
nare sull’esperienza, di rivolgere il proprio pensiero a quello che si è fatto, per
migliorare quello che si intende fare nel futuro. Non è un semplice diario dove si
scrive quel che si vuole in maniera disordinata e impulsiva. No, il diario di for-
mazione è la scelta di utilizzare la scrittura come strumento di analisi delle pro-
prie risorse per migliorare la propria persona e la propria pratica professionale»15.
Lo scopo principale della compilazione di un diario formativo è dunque quel-
lo di migliorare la propria identità professionale, e ciò si innesta sulla capacità
di autodeterminazione e di autoregolazione, valorizzando la scrittura come stru-
mento fondamentale di riflessione critica, di sviluppo della consapevolezza delle
proprie competenze, come della mancanza o limitatezza di esse, al fine di impo-
stare in maniera più consapevole e finalizzata un proprio cammino auto-forma-
tivo. Si tratta di una scrittura in prima persona, “perché bisogna descrivere quel-
lo che si sente, quello che si fa, quello che si evita, quello che si vorrebbe fare,
quello che si è fatto”. Infatti «... il diario di formazione implica un atteggiamen-
to metacognitivo, consapevole e deliberato. Di esplorare la propria esperienza,
di auto-valutarsi in maniera leale, di impegnarsi ad accogliere le proprie incoe-
renze e contraddizioni, di auto-monitorarsi quotidianamente, di auto-istruirsi,
di controllare i risultati ottenuti».16 Di conseguenza esso «... aiuta a dare senso,
ordine, organizzazione e struttura al flusso degli avvenimenti che spesso si ac-
cavallano e si stravolgono a causa di numerose interferenze”, e ciò “migliora
l’attenzione sia verso il mondo esterno, sia verso le nostre risonanze interne
che riguardano la nostra attività professionale. Accresce il pensiero critico [...]
Sviluppa il pensiero creativo, [...] Migliora l’autoregolazione e la capacità di
autocorreggersi».17
Dall’esperienza sviluppata emergono anche alcuni orientamenti pratici. In
primo luogo non è necessaria una scrittura quotidiana del diario: ognuno deve
trovare i suoi ritmi; tuttavia occorre essere sempre presenti a se stessi. D’altra
di formazione, Roma, Editori Riuniti, 2017. Si tratta di docenti formatori presso aa SUPSI (Scuola
Universitaria Professionale della Svizzera Italiana), e il DFA (Dipartimento Formazione Appren-
dimento) che hanno potuto sperimentare nel corso di vari anni l’efficacia di questo strumento
nella formazione dei docenti e degli operatori sociosanitari in formazione.
14
M. A. ZABALZA BERAZA, I diari di classe: uno strumento per lo sviluppo professionale dell’in-
segnante, Torino, UTET, 2001.
15
L. BERNASCONI, M. BERNASCONI, D. DELORENZI, M. POLITO, o. c., p. 27.
16
Ibidem, p. 28.
17
Ibidem, p. 29.
18
M.A. ZABALZA BERAZA, I diari di classe: uno strumento per lo sviluppo professionale dell’in-
segnante, Torino, UTET, 2001, p. 5.
19
Ibidem, p. 23.
51
■ 4. digitale,
Il ruolo di un supporto esterno, come il portfolio
nello sviluppare l’attività riflessiva
20
S. PARIS, L. AYRES, Becoming Reflective Students and Teachers. Washington, DC, American
Psychological Association, 1994.
21
R. BAILEY et alii, A model for reflective pedagogy, Journal of Management Education, 1997,
21, 2, pp. 155-167.
22
D. MCLEOD, A. COWIESON, Discovering credit where credit is due: Using autobiographical
writing as a tool for voicing growth. Teachers and Teaching: Theory and Practice, 2001, 7, 3,
pp. 239-256.
23
L. GALLIANI LUCIANO, C. ZAGGIA, A. SERBATI (a cura di), Adulti all’Università: bilancio,
portfolio e certificazione delle competenze, Lecce, Pensa Multimedia, 2011; D. GRZADZIEL, Meto-
dologia di lavoro con l’eportfolio, nella didattica universitaria. Bilancio delle competenze alla fine
del primo ciclo di studi, Orientamenti Pedagogici, 2017, 64, 3, pp. 583-603.
24
S. TRIACCA, Strumenti per l’eportfolio, in P.C. RIVOLTELLA (a cura di), Fare didattica con gli
EAS, La Scuola, Brescia, 2013, pp. 201-219.
53
gola e sostiene il comportamento vocazionale, emerge da un processo attivo di
creazione di significato e non di scoperta di fatti pre-esistenti. Consiste in una
riflessività biografica che viene prodotta discorsivamente e fatta ‘reale’ attraver-
so il comportamento vocazionale. Nel raccontare storie di percorsi lavorativi sul-
le proprie esperienze professionali, le persone scelgono di enfatizzare determi-
nate esperienze per creare una verità narrativa in base alla quale vivono».25
In questa prospettiva entra in gioco da una parte la riflessività personale che
deve accompagnare sia le esperienze vissute, sia l’esplorazione del mondo lavo-
rativo che circonda la persona. In questo processo la constatazione di una società
fluida e di organizzazioni flessibili implica lo sviluppo di quella che Savickas defi-
nisce “adattabilità professionale”, cioè: «[...] la capacità e le risorse di un indivi-
duo per affrontare compiti di sviluppo vocazionale, transizioni professionali e trau-
mi personali attuali e imminenti. L’adattabilità modella l’estensione di sé nell’am-
biente sociale allorché le persone si relazionano con la società e regolano il proprio
comportamento vocazionale in base al compito di sviluppo imposto da una comu-
nità e alle transizioni incontrate in ruoli occupazionali. Funzionando come strate-
gia di autocontrollo, l’adattabilità professionale permette agli individui di impie-
gare effettivamente i propri concetti di sé in ruoli occupazionali, creando così le
proprie vite lavorative e costruendo i propri percorsi professionali».26
La componente narrativa in tutto ciò ricopre un ruolo fondamentale. Rac-
contare «... rappresenta un tentativo reale di dare significato e forma al proprio
futuro [...]. Raccontando le proprie storie, i clienti stanno costruendo un possi-
bile futuro. Sembra che i clienti raccontino ai consulenti le storie che essi stessi
hanno necessità di sentire, poiché, tra tutte quelle disponibili, scelgono di rac-
contare quelle che sostengono gli obiettivi attuali e stimolano l’azione. Anziché
ricordare, le persone ricostruiscono il passato, cosicché avvenimenti trascorsi
vengono a sostenere scelte attuali e a gettare le basi per movimenti futuri. Non
si tratta dunque del presente che trae insegnamento dal passato, ma del passato
che trae insegnamento dal presente, rimodellandosi per adattarsi ai bisogni cor-
renti». Ciascuna di queste storie trova la propria unità nei temi di vita. «Le sin-
gole storie professionali raccontate da una persona sono unite da temi integranti
che collocano le singole esperienze di vita lavorativa in una trama. Attraverso la
collocazione e l’unione consapevole di queste singole esperienze, un tema uni-
ficante di vita modella l’esperienza vissuta dando coerenza significativa e con-
tinuità a lungo termine».27
25
M.L. SAVICKAS, The theory and practice of career construction. In S.D. BROWN e R.W.
LENT (a cura di), Career development and counseling: Putting theory and research to work. Hobo-
ken, NJ: John Wiley & Sons, 2005, p. 43.
26
Ibidem, p. 51.
27
Ibidem, p. 58.
studI e RICERCHE
e, più in generale, della propria identità
professionale
55
Una rilettura di un passo di quanto a suo tempo sviluppato da Etienne Wenger
e collaboratori aiuta ad approfondire tale tematica.
«La prima caratteristica della pratica come fonte di coerenza di una comunità è l’impegno
reciproco dei partecipanti. La pratica non esiste in astratto. Esiste perché le persone sono
impegnate in azioni di cui negoziano reciprocamente il significato. In questo senso, la pra-
tica non risiede nei libri o negli strumenti, anche se può coinvolgere tutti i tipi di oggetti.
Non risiede in una struttura preesistente, anche se non nasce in un vuoto storico. La pratica
risiede in una comunità di persone e nelle relazioni di impegno reciproco attraverso le quali
esse fanno tutto ciò che fanno. L’appartenenza a una comunità di pratica è dunque un patto
di impegno reciproco. È ciò che definisce la comunità. [...] Far parte di ciò che conta è una
condizione necessaria per essere coinvolti nella pratica di una comunità, così come l’impegno
è ciò che definisce l’appartenenza. Ciò che necessita a una comunità di pratica per realizzare
una coerenza sufficiente a funzionare può essere molto sottile e delicato. Il tipo di coerenza
che trasforma l’impegno reciproco in una comunità di pratica richiede del lavoro. Il lavoro di
«mantenimento della comunità» è dunque una parte intrinseca di qualunque pratica. Può
tuttavia risultare meno visibile di altri aspetti, più strumentali, di quella pratica. Di conse-
guenza, viene facilmente sottovalutato o addirittura totalmente ignorato. Anche quando c’è
molto in comune nei rispettivi background dei partecipanti, il coordinamento specifico che
è necessario per fare insieme le cose richiede una costante attenzione».28
28
E. WENGER, Comunità di pratica, Milano, Cortina, 2006, p. 88.
29
M. POLANYI, La conoscenza inespressa, Roma, Armando, 1983.
57
Educare al pensiero computazionale:
STUDI e RICERCHE
un’esigenza per i processi
di Formazione Professionale oggi.
Prima parte
MICHELE PELLEREY1
Questo primo contributo sulla tematica This first article on the subject
del pensiero computazionale intende accostare of computational thinking intends
il lettore, un po’ a volo di uccello, a una prima to approach the reader to a first
comprensione di quella dimensione del pensiero understanding of that dimension of human
umano che a partire dagli apporti di Seymour thought starting from the contributions of
Papert e di Jannette Wing è stata definita Seymour Papert and Jannette Wing.
computazionale. Una sua attenta analisi metterà A careful analysis will highlight how,
in luce come, soprattutto nell’ambito della especially in the field of vocational training,
formazione professionale, sia necessario it is necessary to promote its development
promuoverne lo sviluppo come elemento as a fundamental element of a professional
fondamentale di un’identità professionale adeguata identity in line with the technological
alle trasformazioni tecnologiche e organizzative and organizational changes
che stanno contraddistinguendo i nostri tempi. that are taking place in our times.
In un prossimo contributo si approfondiranno In a future article some fundamental
alcuni aspetti fondamentali, qui solo accennati, aspects will be explored from
da un punto di vista formativo. a training point of view.
■ Introduzione
42 anni fa nel settembre del 1976 il CNOS-FAP organizzò in collaborazione
con l’Istituto di Didattica dell’Università Salesiana il primo corso di informatica
per operatori della Formazione Professionale. Pietro Chasseur rievocando quel-
l’esperienza scriveva nel 1985: «Quanti frequentarono questo “epico” corso, pro-
seguito per altri due anni, incominciarono poi a socializzarlo, in un primo tempo
con i colleghi insegnanti, poi ai primi tentativi di estensione agli allievi del ter-
zo anno, consolidandosi poi nell’attuale impostazione».2 Quell’esperienza portò,
dopo dieci anni di approfondimenti, alla pubblicazione nel 1986 di un volume
dedicato ai fondamenti culturali e tecnologici dell’informatica.3 Già in quell’e-
1
Professore emerito, già Ordinario di Didattica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.
2
P. CHASSEUR, Esperienza di informatica al CFP San Zeno di Verona, Rassegna CNOS, 1985,
1, pp. 93-96.
3
M. PELLEREY, Informatica. Fondamenti culturali e tecnologici, Torino, SEI, 1986.
37
sperienza veniva evocata la possibilità di un’introduzione “povera” di tale disci-
plina, cioè senza il supporto di particolari attrezzature informatiche, puntando
soprattutto allo sviluppo dei concetti e dei procedimenti essenziali che la carat-
terizzavano.
L’attenzione rivolta più al pensiero che sta alla base dell’informatica che al-
l’uso pratico di attrezzature digitali è riemersa nel mondo accademico nel 2006
a causa di un influente intervento dell’allora Direttrice del Dipartimento di Infor-
matica della Carnegy Mellon University degli Stati Uniti Jannette Wing.4 Questa
studiosa riprendeva una sollecitazione di Seymour Papert degli Anni Sessanta,
orientata a considerare prioritaria la formazione a quello che egli aveva denomi-
nato “pensiero computazionale”. Da allora ha avuto inizio un forte movimento a
livello accademico, scolastico e politico nel cercare di inserire nei percorsi edu-
cativi scolatici e formativi professionali non solo e non tanto l’uso di strumen-
tazioni digitali, quanto piuttosto lo sviluppo dei suoi fondamenti cognitivi e cul-
turali. Anche in Italia ci si è mossi in questa direzione con le varie iniziative di
coding. Così anche il CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informa-
tica) ha sviluppato una “Proposta di Indicazioni Nazionali per l’Informatica nella
Scuola”.
Mi è sembrato utile allora riprendere molti degli elementi che avevano ca-
ratterizzato le esperienze degli Anni Settanta e Ottanta, riconsiderandoli nella
prospettiva oggi dominante, cioè come componenti essenziali del pensiero com-
putazionale, ed esaminandone alcune delle ricadute essenziali sui processi
formativi in particolare di natura professionale.
4
J.M. WING, Computational Thinking, Communications of the ACM, march 2006, 49, 3,
pp. 33-35.
STUDI e RICERCHE
realtà. La rappresentazione astratta di situazioni concrete contraddistingue mol-
te delle discipline fondamentali che oggi dovrebbero caratterizzare la formazione
sia culturale, sia soprattutto professionale. Sempre più operazioni ripetitive, ben
rappresentate nelle parodie di Charlie Chaplin del film Tempi moderni, vengono
delegate a macchine che le possono eseguire spesso con più precisione e più
continuità degli esseri umani. Basti pensare alla liberazione da lavori gravosi av-
venuta nelle abitazioni domestiche con l’avvento delle lavatrici automatiche e
delle lavastoviglie.
Ma il passaggio da forme dirette di comunicazione a forme mediate da rap-
presentazioni astratte fa parte della storia umana in maniera determinante. La
prima conquista fondamentale, almeno per il mondo occidentale, è stata l’inven-
zione dell’alfabeto fonetico verso il 600 a.C. Con poco più di venti segni grafici5
si potevano rappresentare tutte le parole dette e i pensieri che ne stavano die-
tro. Ma la cosa fondamentale era che la lettura, cioè la decodificazione delle pa-
role scritte, permetteva di risalire a quanto detto e pensato dallo scrivente. Al
processo di rappresentazione astratta corrispondeva un processo di interpreta-
zione o di ritorno alla realtà del contenuto rappresentato, anche se tutto ciò im-
plicava una dinamica in cui entrava in gioco la competenza linguistica e il mon-
do interiore del lettore. Scrivere e leggere diventavano così competenze fonda-
mentali per poter partecipare consapevolmente alla vita culturale. Acquisire le
conoscenze e le abilità coinvolte nel processo di scrittura e in maniera simme-
trica quelle necessarie per attivare con successo quello di lettura diventavano
l’essenza della cosiddetta alfabetizzazione di base.
Ci sono voluti molti secoli perché l’uomo occidentale, in particolare quello
europeo, conquistasse un altro passaggio fondamentale. All’inizio del 1200 ve-
niva pubblicato, ma la stampa non c’era ancora, il Liber abaci di Leonardo Pisano
detto il Fibonacci. Si veniva a conoscenza di quanto già sviluppato da indiani e
arabi: un sistema di rappresentazione astratta del numero più valido e funzionale
di quello fino ad allora usato. Ora con dieci segni grafici si poteva non solo scri-
vere qualsiasi numero, ma soprattutto operare nell’ambito dell’aritmetica in ma-
niera agevole ed efficace. Venivano così anche identificati e denominati alcuni
procedimenti di calcolo, in particolare gli algoritmi necessari per eseguire le
quattro operazioni fondamentali. La parola “algoritmo” era stata introdotta da
Leonardo Pisano come latinizzazione del nome del grande matematico arabo per-
siano Mu ammad ibn M sà al-Khw rizm. Leonardo scriveva infatti “dixit Algorit-
5
Segni grafici detti grafemi corrispondenti ai suoni presi in considerazione detti fonemi.
39
mus” quando faceva riferimento a un procedimento da lui messo a punto. Anche
in questo caso al mondo numerico reale faceva da corrispondente una sua rap-
presentazione astratta valida ed efficace.
Parole e numeri presenti nel mondo reale, concreto, avevano infine trovato
forme rappresentative astratte, segni grafici da utilizzare sia nel percorso di
scrittura delle parole, dei numeri e dei calcoli, sia di loro interpretazione ed ese-
cuzione. Rimaneva tuttavia un mondo reale che nella comunicazione svolgeva
una funzione fondamentale: la musica. La questione era dunque quella di giun-
gere a forme di rappresentazione astratta, mediante segni grafici, di melodie e
armonie sia cantate, sia suonate mediante strumenti. Nel corso dei secoli ci sono
stati molti passaggi finché anche in questo caso si è giunti a una forma conven-
zionale e universale di notazione musicale: il rigo o pentagramma. Il musicista
poteva ora scrivere le sue musiche e gli altri leggere e interpretare quanto da lui
elaborato.
Era possibile compiere progressi simili nell’ambito di altre realtà umane come
lavori ripetitivi e faticosi, le cosiddette opere servili, affidate a schiavi umani, o,
ancora, in produzioni più impegnative, che richiedevano particolare attenzione
operativa, come costruire qualcosa? In altre parole pensare a congegni capaci di
operare su materiali fisici al fine di produrre i risultati desiderati? Un sogno che
può essere ricondotto al mito ebraico del Golem, cioè di una realtà costruita dal-
l’uomo, dotata di una straordinaria forza e resistenza in grado di eseguire alla let-
tera gli ordini del suo creatore, di cui diventava una specie di schiavo, tuttavia in-
capace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché privo
di un’anima. In altre parole quello che oggi passa sotto la dizione “automa” ese-
cutivo, oppure di “robot non autonomo”: un congegno che riesce a eseguire ope-
razioni o movimenti propri dell’uomo ma privo di autonomia decisionale.
Il sogno di avere al proprio servizio strumenti fisici in grado di svolgere man-
sioni spesso ripetitive e noiose portò nel 1600 a progettare strumenti di calcolo
aritmetico su base meccanica. Qualche anticipazione c’era stata nei secoli prece-
denti nell’ambito degli orologi e di altri congegni abbastanza industriosi. Così il
diciannovenne Blaise Pascal pensò di aiutare il padre intendente di finanza nel
fare calcoli monetari lunghi e complessi realizzando la sua prima calcolatrice mec-
canica: la cosiddetta Pascalina. G. Leibniz ne progettò una più evoluta. La proget-
tazione di queste macchine esigeva, ormai lo sappiamo, una rappresentazione
astratta dei procedimenti richiesti per poterla poi concretizzare nell’ambito mec-
canico mediante appositi meccanismi, come ruote dentate ingranate tra di loro.
Quando nell’Ottocento si cercò di ideare macchine in grado di svolgere ope-
razioni più complesse, il primo passo fu la prefigurazione astratta di un sistema
adatto a tale impresa. Gran parte dei primi passi e poi della nascita concreta di
una calcolatrice automatica sono stati compiuti a livello di progettazione astrat-
STUDI e RICERCHE
pri della logica formale. D’altra parte la progettazione di un sistema di questo
tipo implicava una simulazione attenta di come l’uomo procede nell’affrontare
elaborazioni complesse. Da una parte occorreva mettere in gioco la disponibilità
di informazioni opportunamente codificate e strutturate (come numeri e parole
scritte), dall’altra, era necessario potersi avvalere di un insieme di procedimenti
o algoritmi che permettessero di operare su tali dati per ottenere i risultati at-
tesi. Infine, l’interazione tra insieme dei dati da elaborare e procedimenti da
mettere in campo implicava un organo di governo, che su comando umano met-
tesse in relazione dati e procedimenti per ottenere il risultato richiesto. Se de-
sideravo ottenere il risultato di operazioni aritmetiche specifiche occorreva non
solo dire quali numeri prendere in considerazione, ma anche quale procedimento
mettere in atto, il tutto in forme comprensibili dal sistema automatico. Di qui
la delineazione di una unità di memoria, di una unità logico-aritmetica e di una
unità di governo o esecutiva. Infine, era necessario prevedere come immettere i
dati in tale sistema e come ottenere che i risultati delle elaborazioni richieste
diventassero disponibili: gli organi di input (ingresso) e di output (uscita). Ne
è derivato un modello astratto di sistema ancor oggi valido. Esso comprende: a)
Unità di ingresso: serve per comunicare al calcolatore quello che desideriamo
che faccia, dandogli anche le informazioni necessarie; b) Unità di uscita: serve
al calcolatore per comunicare a noi il risultato del suo lavoro. Può essere un mo-
nitor o una stampante; c) Unità di elaborazione: è la parte nella quale si ese-
guono le operazioni che noi desideriamo; d) Unità di memoria: è la parte nella
quale si conservano sia i dati da utilizzare, sia le procedure da eseguire; e) Unità
di governo: è la parte fondamentale, quella che garantisce il funzionamento cor-
retto della macchina, un po’ come il capostazione di una stazione ferroviaria o
la torre di controllo di un aeroporto.
Questa lunga riflessione anche di natura storica è giustificata dall’afferma-
zione di Jannette Wing circa la centralità del processo astrattivo nell’ambito del
pensiero computazionale: «[...] cercare di catturare le proprietà essenziali co-
muni a un insieme di oggetti, mentre si nascondono distinzioni irrilevanti».6 Nel-
la creazione del linguaggio fonetico si è cercato di catturare le proprietà essen-
ziali della parola detta, nascondendo intonazione, timbro della voce, ecc. Nella
scrittura della musica sul pentagramma non vengono prese in considerazione
molte qualità proprie del canto reale o di uno strumento musicale concreto come
la tromba o il clarinetto. Nel caso che ora esploreremo più in dettaglio, i pro-
6
J. WING, Computational Thinking. What and Why, The Link, March 2011, p. 1.
41
cessi e le situazioni reali vengono esaminati per evidenziare, se ciò è possibile,
la loro struttura essenziale dal punto della loro rappresentazione algoritmica o
dell’organizzazione logica dei dati.
■ 2. automatica
Dalle macchine a controllo numerico alla gestione
di biblioteche, musei e magazzini
Parallelamente allo sviluppo dei primi elaboratori a base elettromeccanica,
poi elettronica, è iniziata a farsi strada l’idea di macchine utensili controllate
da programmi elaborati con opportuni linguaggi comprensibili da tali strumenti
meccanici e gestiti da apparati elettronici. Dalla fine degli Anni Quaranta del-
l’altro secolo agli Anni Cinquanta, grazie anche alla collaborazione-competizione
tra John T. Parsons e il Massachusetts Institute of Technology, si arrivò alla pro-
gettazione e realizzazione delle prime macchine a controllo numerico. Esse furo-
no sviluppate soprattutto negli Anni Sessanta e negli Anni Settanta iniziarono
a diffondersi anche in Italia. I processi di lavorazione dei pezzi meccanici veni-
vano descritti in maniera astratta, tradotti in comandi scritti in codici appositi
e quindi messi in atto in maniera solo indirettamente gestita dall’uomo, in quan-
to egli doveva intervenire solo se il programma esecutivo andava incontro a im-
previsti. Anche in questo caso la questione centrale stava nella rappresentazione
astratta del processo di fabbricazione di oggetti fisici.
Lo sviluppo delle macchine a controllo numerico, come torni, fresatrici e ale-
satrici, ha portato progressivamente ad associare il disegno tecnico degli oggetti
da realizzare, attuato con il supporto di un computer (CAD, Computer Aided De-
sign), a un programma che fosse in grado di interpretare tale disegno tecnico fi-
no a gestirne la realizzazione mediante opportune macchine utensili (CAM, Com-
puter Aided Manufactoring). Si è giunti così anche alla progettazione e realizza-
zione di oggetti in tre dimensioni mediante l’uso di appositi software. Di qui un
passo ulteriore verso la progettazione di robot dotati di maggiore autonomia.
Ciò è stato possibile inserendo inizialmente nel congegno forme di retroazione,
cioè di fronte a un ostacolo o a un nuovo elemento non previsto, la possibilità
di cambiare modalità operativa; poi, siamo nei nostri anni, integrando nel siste-
ma elementi propri dell’Intelligenza Artificiale o delle cosiddette “learning ma-
chines” o macchine che apprendono.
La questione della rappresentazione astratta di situazioni o processi concreti
ha avuto un suo parallelo sviluppo fin dall’antichità nella catalogazione dei libri
nelle biblioteche o delle opere nei musei. Qui doveva essere associata la descri-
zione dell’oggetto alla sua collocazione fisica in appositi reparti specializzati,
per poterlo poi reperire quando necessario. L’estensione di questi procedimenti
STUDI e RICERCHE
“logistica”, oggi costituita da un insieme di conoscenze e di abilità che permet-
tono la gestione automatica dei magazzini. È quanto avviene ad esempio per le
vendite online da parte di Amazon, ma anche, più in piccolo, in un comune su-
per o ipermercato. A ogni oggetto deve essere associato un codice identificativo
preciso che includa anche i parametri di riferimento per poterlo prelevare. Per
questo tutti i prodotti commerciali sono ormai contrassegnati da un codice a
barre.
Per comprendere meglio come funziona un sistema di questo tipo è utile
descrivere più in dettaglio una quotidiana esperienza, che evoca molti elementi
di automazione ormai gestiti da computer. Un cliente all’uscita da un supermer-
cato presenta alla cassa ciò che ha nel suo carrello per pagare quanto intende
acquistare. L’impiegato alla cassa prende ogni oggetto e fa leggere da un lettore
automatico il codice a barre di ogni prodotto. Il codice contiene le informazioni
relative al prodotto considerato, a esse sono associate altre informazioni utili
(oltre al suo nome, il suo prezzo, l’azienda che lo ha prodotto, la sua collocazio-
ne, ecc.). Le casse sono collegate a un computer, o sistema centrale. Questo ri-
ceve le informazioni che provengono dalle casse, le memorizza; poi, su richiesta,
esegue le operazioni programmate e fa, ad esempio, stampare la ricevuta. Non
solo. Conserva nella sua memoria gli incassi, il fatto che un certo prodotto è
stato venduto e non è più nel magazzino. Quest’ultimo dato è importante perché
segnala al gestore del supermercato che un dato prodotto sta per finire e con-
viene rifornirsene. A fine giornata, o a fine mese, è possibile sapere l’incasso
totale, quali prodotti sono stati più venduti e quali invece no. Ciò aiuta a
programmare le prossime forniture.
In tutti questi casi al magazzino, alla biblioteca, al museo, agli impianti rea-
li, vengono associate in maniera astratta tutte le informazioni necessarie alla
loro gestione. Le informazioni per poter essere conservate da un sistema infor-
matico, un computer, in maniera appropriata e utile devono essere tradotte in
dati, cioè codificate opportunamente, cioè secondo un sistema, o struttura, va-
lido e funzionale alla loro manipolazione. Si vengono così a costituire quelle che
in terminologia tecnica si chiamano “basi di dati”.
Così la rappresentazione astratta dei processi concreti mediante algoritmi e
delle informazioni mediante strutture o basi di dati viene a costituire il cuore
del cosiddetto pensiero computazionale. In tale mondo astratto si cercano le so-
luzioni ai problemi da affrontare per poi tradurle in codici comprensibili da au-
tomi che siano in grado di comprenderle ed eseguirle. Naturalmente i primi pro-
blemi affrontati sono stati procedimenti operativi di natura aritmetica, facilmen-
te rappresentabili in maniera astratta perché già noti e denominati in onore del
suo massimo inventore come algoritmi. In questo caso le basi di dati erano co-
43
stituite dal sistema dei numeri naturali, interi, decimali. Ma nel seguito i pro-
blemi affrontati si sono moltiplicati e ormai coprono ogni settore del sapere e
dell’agire umano. Così è stato possibile affermare che il pensiero computazionale
riguarda: «[...] i processi di pensiero coinvolti nel formulare un problema ed
esprimere la sua o le sue soluzioni in maniera che un computer, un umano o una
macchina, possa effettivamente portarlo a termine».7
Queste iniziali osservazioni portano naturalmente ad approfondire due grandi
quadri concettuali propri del pensiero computazione: quello degli algoritmi e
quello delle basi di dati.
7
J.M. WING, Computational thinking’s influence on research and education for all, Italian
Journal of Educational Technology, 2017, 25(2), pp. 7-14.
8
P. FERRAGINA, F. LUCCIO, Il pensiero computazionale. Dagli algoritmi al coding, Bologna, Il
Mulino, 2017, p. 10.
STUDI e RICERCHE
ca, che può portare contemporaneamente solo lui e un’altra cosa: o la capra, o
il lupo, o il cavolo. Come fa ad attraversare il fiume, portando tutti salvi all’altra
riva?”. La soluzione dell’indovinello porta alla scoperta di una precisa sequenza
di operazioni. Il contadino: 1) attraversa il fiume con la capra; 2) torna solo; 3)
attraversa il fiume con il cavolo; 4) ritorna con la capra; 5) attraversa il fiume
con il lupo; 6) ritorna solo; 7) attraversa il fiume con la capra.9
Nell’ambito delle macchine a controllo numerico si tratta di individuare una
precisa sequenza di operazioni che la macchina deve compiere per produrre il
pezzo progettato. Nell’ambito di un servizio di vendite online si tratta di prefi-
gurare la successione di operazioni che portano dall’ordine di un prodotto, al
suo reperimento in un magazzino, alla sua impacchettatura, alla sua spedizione,
mentre si controlla la carta di credito del cliente e se ne preleva il prezzo stabi-
lito. Per poter esaminare con cura le procedure necessarie si deve ricorrere a for-
me di loro rappresentazione astratta, soprattutto se esse risultano un po’ com-
plicate, ma soprattutto se poi dobbiamo tradurle in comandi che devono essere
compresi ed eseguiti dalle macchine automatiche.
La branca di studio propria del pensiero computazionale dedicata all’analisi
degli algoritmi ha avuto uno sviluppo assai fecondo. Nel 1966 Corrado Boehm e
Giuseppe Jacopini hanno dimostrato uno dei suoi teoremi fondamentali: qual-
siasi algoritmo, anche il più complesso, si basa in definitiva su tre schemi o
strutture elementari di controllo: la sequenza, la selezione, l’iterazione o ciclo.
Vediamo in sintesi di che cosa si tratta.
Il più semplice schema algoritmico è la sequenza: una successione ordinata
di istruzioni che devono essere eseguite in maniera puntuale per ottenere il ri-
sultato previsto. Un esempio è dato dalla soluzione dell’indovinello precedente.
Tuttavia non sempre le procedure sono lineari, nel senso che possono essere pre-
senti momenti che implicano la possibile selezione tra due percorsi diversi. Lo
schema della selezione è dunque costituito dalla scelta che deve essere fatta tra
due percorsi possibili in base a una condizione che può risultare vera o falsa. In
altre parole emerge una condizione espressa dalla formula “se..., allora...”, op-
pure “se ..., allora ..., altrimenti ...”. Un banale esempio è dato dal telefonare:
se non ricordo il numero da chiamare, allora lo cerco sulla rubrica. Il terzo sche-
ma è detto iterazione o ciclo: è costituito da una successione di operazioni da
ripetere finché non si verifica una precisa condizione.
9
Un problema analogo ma più sofisticato ed esaminato con cura dagli studiosi è costituito
dalle cosiddette Torri di Hanoi (cfr. P. FERRAGINA, F. LUCCIO, o.c., pp. 212 e ss.).
45
Per rappresentare in maniera astratta, ma chiaramente definita, i successivi
passi di un algoritmo si possono usare diagrammi di flusso o scritture dette
“pseudo codici”. Tutte forme che consentono di controllare la qualità delle nostre
soluzioni algoritmiche e verificarne la correttezza e complessità. Naturalmente
nel corso dei secoli e più recentemente dei decenni passati molti problemi sono
stati già affrontati e sono state trovate le relative soluzioni algoritmiche. Ma so-
no stati individuati anche problemi che non possono essere risolti mediante al-
goritmi. Problemi di quest’ultimo tipo sono stati definiti non computabili. D’al-
tra parte, in molti casi la soluzione algoritmica di un problema è facilitata dallo
spezzare di un problema generale in sotto problemi e così spesso si possono uti-
lizzare soluzioni algoritmiche già individuate. Queste vengono a costituire come
un insieme di moduli già pronti per essere valorizzati nello sviluppare la proce-
dura completa: una sorta di moduli componibili. Approfondiremo nel prossimo
intervento questa parte del pensiero computazionale cogliendone gli essenziali
aspetti formativi.
■ 4. Le basi di dati
STUDI e RICERCHE
propria tessera sanitaria. Tale codice è formato da sedici caratteri, in parte alfa-
betici, in parte numerici (per questo esso è denominato codice alfanumerico) ed
è organizzato secondo quattro campi più un carattere finale chiamato codice di
controllo.
I primi sei caratteri (primo e secondo campo, ciascuno di tre caratteri) ri-
guardano il cognome e il nome.10 I seguenti cinque caratteri (terzo campo) ri-
guardano la data di nascita e il sesso in questo modo: prima l’anno (due cifre fi-
nali dell’anno), poi il mese (indicato con le successive lettere dell’alfabeto), poi
il giorno (se femmina a esso si aggiunge 40). A questi primi undici caratteri,
che riguardano il tuo cognome, nome, data di nascita e sesso, seguono altri
quattro caratteri (quarto campo) che riguardano il comune di nascita indicato
secondo il codice catastale (da trovare su Internet11). L’ultimo carattere, il sedi-
cesimo, è una lettera che serve come codice di controllo della correttezza di
quanto scritto. Per trovarlo si usa un algoritmo un po’ complicato. Per semplicità
si può trovare ricorrendo a uno dei numerosi siti dedicati al codice fiscale.12 L’in-
sieme dei codici fiscali e delle dichiarazioni dei redditi ad essi associate vengono
a costituire un archivio imponente. La cosiddetta anagrafe tributaria, che com-
prende oltre ai codici fiscali anche le partite IVA sia delle persone, che delle
aziende.
La struttura del codice fiscale permette di associare i vari suoi campi ad altre
basi di dati o archivi disponibili. Si possono citare l’anagrafe nazionale della popo-
lazione residente, l’insieme dei comuni in base al loro codice ISTAT. Ma anche pos-
sono essere collegati a ciascun codice fiscale altri codici interessanti e sensibili,
come quelli relativi ai conti bancari. In particolare va considerato il codice IBAN o
International Banking Account Number (Numero di Conto Bancario Internazionale).
Esso è stato definito a livello internazionale ed è dal 2008 obbligatorio nelle varie
transazioni monetarie tra banche. Ma a poco a poco esso può essere utilizzato an-
che per altri fini. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate potrebbe accedere ai vari conti
bancari delle persone fisiche tramite il loro codice fiscale.
Naturalmente tutto questo comporta sia per le grandi basi di dati, sia per
gli archivi più modesti, come quelli delle biblioteche, non solo tecniche di
10
Vengono prese le consonanti prima del cognome e poi del nome (o dei cognomi e nomi, se più
di uno) nel loro ordine. Se le consonanti sono insufficienti, si prelevano anche le vocali, sempre nel loro
ordine. Le vocali vengono riportate dopo le consonanti. Per le donne, viene preso in considerazione il
solo cognome da nubile. Nel caso del nome, se contiene quattro o più consonanti, si scelgono la prima,
la terza e la quarta, altrimenti le prime tre in ordine.
11
http://www.paginebianche.it/codice-catastale.
12
http://ilmiocf.it/; http://www.codicefiscale.com/; http://www.paginebianche.it/codice-fiscale.
47
codificazione valide e funzionali, ma anche quello che viene definito un Sistema
di Gestione delle Basi di Dati (DBMS), cioè l’insieme strutturato delle procedure
(algoritmi) che consentono di valorizzarle, cioè definire, manipolare, richiamare
e gestire i dati. Ad esempio si possono citare modalità di interrogazione delle
basi di dati cosiddette relazionali dette query.
Una base di dati è quindi un insieme organizzato di informazioni opportu-
namente indicizzate, cioè trasformate in dati, alle quali si può facilmente acce-
dere e che possono essere opportunamente gestite e aggiornate. Dal punto di
vista del pensiero computazionale la questione centrale diventa così la logica
che permette di costruire, valorizzare e aggiornare tali insiemi di dati a seconda
delle esigenze poste dalle finalità per le quali sono progettate. Nel corso degli
anni si sono quindi succedute modalità di progettazione e realizzazione sia dif-
ferenti dal punto di vista della loro logica interna, sia da quello dell’ambito di
loro applicazione. Da quest’ultimo punto di vista esse possono differire dal punto
di vista dei loro contenuti: bibliografiche, testuali, numeriche, iconiche. Ma oggi
in molti casi si punta a una organizzazione detta a oggetti, nel senso che un
elemento della base di dati può avere un contenuto multimediale (testo, imma-
gini, numeri) oppure anche un procedimento algoritmico opportunamente indi-
cizzati. In generale, si parla di basi di dati di tipo relazionale quando si prefigu-
rano sistemi basati su elementi alfanumerici messi in relazione tra di loro, di ba-
si di dati non solo di tipo relazionale se ci si appoggia a modalità più complesse
come quelle a oggetti.
■ 5. La programmazione
Sia che l’esecutore sia un essere umano, sia un automa, la procedura proget-
tata deve essere comunicata in maniera chiara e precisa, e ciò richiede una for-
ma linguistica adeguata. Per questo è possibile sviluppare almeno in parte il
pensiero computazionale senza l’utilizzo di un elaboratore elettronico. Tuttavia
la natura stessa di questi congegni implica spostare l’attenzione dagli aspetti
più tipicamente logico-matematici a quelli ingegneristici. La stessa già citata
Jannette Wing lo mette ben in chiaro: «Il pensiero computazionale si basa con-
giuntamente sul pensiero matematico e su quello ingegneristico. Diversamente
dalla matematica, tuttavia, i nostri sistemi computazionali sono vincolati dalla
fisica delle strutture implicate dai processi di elaborazione delle informazioni e
dai loro ambienti operativi».13 La differenza fondamentale tra pensiero matema-
13
J. WING, o.c., p. 2.
STUDI e RICERCHE
a livello della seconda modalità di pensiero: la formalizzazione matematica deve
tener conto delle esigenze poste dal sistema fisico che deve realizzare quanto
prefigurato.14
Lo sviluppo tecnologico ed ingegneristico di tali strutture ha condizionato
non solo le possibilità di una loro valorizzazione, bensì anche le modalità di co-
municazione con essi. Tale sviluppo progressivo ha permesso di progettare lin-
guaggi sempre più evoluti. Inizialmente, infatti, si usavano i cosiddetti linguag-
gi macchina, cioè la scrittura di istruzioni direttamente riferite sia alle cosid-
dette locazioni di memoria (gli elementi delle inziali basi di dati), sia alle ope-
razioni da eseguire con essi. Poi, parallelamente alla complessificazione delle
macchine, si è avuto una più elevata possibilità non solo di elaborazione, ma
anche di specificazione dei linguaggi artificialmente prefigurati. Ciò ha permesso
di configurare gli elaboratori come macchine universali in quanto l’adattamento
alle varie applicazioni poteva avvenire tramite opportuni programmi scritti in
linguaggi specifici. Il cosiddetto hardware, la parte ingegneristica, poteva essere
configurato come specializzato in ambiti particolari tramite il cosiddetto softwa-
re, la parte logico-matematica. Di qui lo sviluppo di software applicativi di vario
genere, da quelli specializzati in ambito contabile a quelli di tipo didattico, da
quelli statistici a quelli ludici. Le app dei nostri smartphone, abbreviazione della
parola di applicazione, sono specifici programmi applicativi. Ad esempio per sa-
pere l’andamento climatico di un posto specifico, basta immettere il nome della
località in una della tante app di natura metereologica.
La scrittura di programmi, cioè di software, in grado di far funzionare elabo-
ratori elettronici più o meno potenti e complessi è l’ambito più specificatamente
denominato coding. Per cogliere il senso di questa parte del pensiero computa-
zionale e promuoverne lo sviluppo nel tempo sono state proposte varie soluzioni.
La più celebre è stata ideata e realizzata come ambiente di apprendimento da
Seymour Papert negli Anni Sessanta presso il MIT (Massachusetts Institute of
Tecnology) di Boston. Veniva usato un linguaggio di programmazione assai sem-
plice, il Logo, a prova di bambini. Oggi lo stesso MIT ha messo a disposizione
una sua versione più moderna e ricca, ma sempre assai semplice, di linguaggio
di programmazione tramite il software denominato Scratch, di cui è disponibile
anche una versione italiana gratuitamente scaricabile.15
14
J. WING, Computational thinking, Communications of the ACM, March 2006, 49, 3, p. 35.
15
https://scratch.mit.edu/
49
Per capire lo spirito della proposta sviluppata a suo tempo da Seymour Pa-
pert, e poi ripresa da varie esperienze, è utile riportare un brano della sua inter-
vista del 1997, nella quale prende lo spunto dalla programmazione di un video-
gioco da parte dei bambini, tramite un software adatto. «Non è importante fare
un videogioco, ma per i bambini il videogioco fa parte della cultura in cui vivo-
no, loro pensano che sia importante, ad è importante per le loro vite. Dunque,
il primo cambiamento che arriva quando un bambino può fare un proprio video-
gioco è che i bambini passano dall’essere consumatori ed essere produttori. Que-
sto è un primo cambiamento nell’approccio e nella mentalità. L’errore della tele-
visione, dei media, persino della scuola, sta nell’offrire la conoscenza ai bambini;
in questa prospettiva i bambini consumano, non producono. Il bambino, vice-
versa, può, ora, realmente realizzare un videogioco, uno veramente bello; e que-
sto è un cambiamento già di per sé importante. Ma facendo questo videogioco,
parti realmente centrali della conoscenza entrano nel gioco, e così il bambino è
molto motivato ad apprendere bene. Che cosa? Prima di tutto la programmazio-
ne: il bambino apprende a programmare il computer per fare il gioco. Abbiamo
dei bambini di nove, dieci anni che imparano a programmare ad un livello che
normalmente non ci si aspetta neanche da studenti di scuole medie o addirittura
da studenti universitari».16 E cita la possibilità anche di altri possibili apprendi-
mento nel campo della matematica e della fisica.
La parte del pensiero computazionale più impegnativa che sta al centro di
queste proposte sta proprio nel prefigurare il gioco, un gioco che deve seguire
regole precise, tener conto delle opportunità e dei vincoli del software (in defi-
nitiva della macchina), definire le singole operazioni possibili, avvalendosi di
una base di dati in parte esistente, in parte da definire. La programmazione con-
siste nel tradurre tale progetto in operazioni che esegue il computer sotto l’im-
pulso dell’utente: un programma operativo. In questo modo non è la macchina
che programma l’uomo, ma l’uomo che la programma. Ma anche nel caso della
programmazione più semplice entra in gioco un processo di rappresentazione
astratta. Si tratta di usare un linguaggio artificiale costruito proprio perché
quanto comunicato possa essere compreso ed eseguito senza ambiguità e in
completezza da un automa.
16
http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=260&tab=int#link002. Intervista
raccolta il 7 marzo 1997. Sito consultato il 13 luglio 2015.
STUDI e RICERCHE
La conclusione più importante di questa prima presentazione di alcuni ele-
menti fondamentali del pensiero computazionale sta nel mettere in evidenza al-
cune ricadute educative centrali, la cui principale è la necessità di promuovere
una capacità di rappresentazione astratta, di modellizzazione, di situazioni o
processi reali al fine di affrontare e risolvere problemi sul piano astratto, quello
del modello, per poi riportare tali soluzioni sul piano della configurazione o della
trasformazione della realtà concreta. Da un punto di vista educativo un passag-
gio obbligato da valorizzare in maniera adeguata nei percorsi formativi sembra
essere costituito dall’apprendimento del disegno tecnico, un linguaggio rappre-
sentativo astratto ormai di carattere universale. Esso implica proprio la capacità
di descrivere con completezza, univocità, fedeltà e trasferibilità un oggetto fi-
sico al fine di poter comunicare in maniera efficace e funzionale a un qualsiasi
operatore, umano o artificiale, cosa produrre e come farlo.
Un secondo messaggio sta nell’esigere che la soluzione trovata al problema
esaminato deve implicare una sua possibile esecuzione pratica o da parte di un
essere umano o di una macchina. Gran parte dei problemi affrontati sul piano
dell’azione nei vari ambiti della vita sociale, politica, professionale deve trovare
prospettive di soluzione che siano praticabili. Cioè, è essenziale che ci si con-
fronti sempre con la fattibilità di quanto proposto e non si rimanga sul piano
solo ideale. Un messaggio estremamente importante soprattutto quando si redi-
gono norme e procedure che guidano la vita quotidiana delle persone.
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