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2013
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Misero e impotente Socrate.


Sul Pasolini “corsaro” e “luterano”
di Andrea Cortellessa, 2005

www.zibaldoni.it (archivio storico)

Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Ma


Fort

“Si ha l’impressione che di Pasolini ce ne siano troppi, e da tutte l


Mangane

“Di lucciole ce ne sono fin


Sanguin

“Aveva torto e non avevo


Fort

L’Italia si raccoglie, in questi giorni, a celebrare il suo Autore. A trent’anni da una morte che – vittima sacri cale di isteria collettiva, freddo complotto stragista o inopinatamente r
per procura – resta il suo ultimo, estremo capolavoro. (Qualcuno sarebbe pronto a sostenere che sia stata, quella morte, anche il suo unico, vero e compiuto capolavoro. È
Pasolini a scrivere – nel suo saggio più geniale, Osservazioni sul piano-sequenza, suoi i corsivi – che « nché siamo vivi, manchiamo di senso», per cui «La morte compie un fulm
della nostra vita» e «Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci».).
Il paradosso principe, relativo a questo gran maestro del paradosso (arma retorica eccezionale ma costitutivamente a doppio taglio), è che sempre più, col passare del tempo
sico del suo carisma, lettori avversari (il che è ovvio), neutri (che è già meno ovvio) o addirittura seguaci e cultori (che è assolutamente strano e, credo, abbastanza unico) fac
gara a indicare i limiti delle opere, di quest’autore. Leggo per esempio, ad apertura dell’ultima e più ponderosa delle monogra e pasoliniane, quella del giovane Antonio Trico
parlando di un «poeta senza la grazia quasi naturalmente incline al classicismo di un Sereni; narratore incapace della grandezza espressionistica di un Volponi […]; saggista istinti
e dunque privo del nitore (tuttavia spesso algido) e della precisione […] di un Calvino».
Ed ecco Alfonso Berardinelli: «in de nitiva se dovessi scegliere fra i poemetti delle Ceneri di Gramsci e gli articoli di Lettere luterane e Descrizioni di descrizioni non avrei dubbi a f
ultimi. I famosi e proverbiali poemetti pasoliniani degli anni Cinquanta oggi si leggono con fatica e disagio, peccano di patetismo e di retorica. Sono preoccupati di portare la poes
prosa argomentativa e del monologo teatrale. Ma il risultato è nello stesso tempo impressionante e insoddisfacente».
Ma ecco addirittura il Curatore che all’Autore ha eretto il monumento in dieci Meridiani che fa di Pasolini l’unico scrittore italiano (di tutti i tempi) che nella collana ammiraglia della
sia rappresentato con gli Opera omnia, ma proprio omnia: cioè Walter Siti. Il quale ha scritto nell’antiporta stessa, di questo monumento, una frase estremamente vera: «Pasolini
brutti versi – ma ci ha dato anche, credo, almeno in Trasumanar, il ritratto vivo e intenso d’una poesia che desidera essere brutta, per impulso suicida e per lucidità di fronte ai m
poi de nirlo, nell’altro testo liminare del monumento, «lo scrittore dell’imperfezione»: affetto da «inconcepibile pressapochismo», «fretta», «cialtroneria», «bulimia intellettuale», «d
dir meglio […] sfacciata improntitudine) culturale», eccetera eccetera.
Ma lo stesso Siti ci dà la chiave di quella che insomma, tutto ciò malgrado, sarebbe la grandezza di Pasolini nel nostro secondo Novecento. Essa si manifesterebbe malgrado le
vera “opera” di Pasolini è l’insieme delle sue opere, dai cui interstizi gurali traspare il volto stesso dell’autore». I singoli testi sono per Siti «opere transtestuali»: tali cioè da completa
che, sebbene scritte e pubblicate separatamente, «devono essere lette insieme». Parla chiaro la suddivisione (nient’affatto rigorosamente tematica) da parte di Pasolini, d
materiale dei suoi tre ultimi anni di lavoro giornalistico, fra Scritti corsari (pubblicato nel ’75, vivente l’autore), il “semipostumo” Lettere luterane (edito nel ’76 ma licenziato
postumo, a tutti gli effetti, Descrizioni di descrizioni (edito nel ’79 riordinando una cartella pure lasciata dall’autore). E non è poi un caso che l’opus magnum di questa stagione
progettato per restare in stato di semilavorato scartafaccio. (Giungendoci dunque doppiamente incompiuto, intenzionalmente e non: parte non ultima del suo fascino si deve a que
– ancora una volta – unica.).
Ma anche in altro senso l’ultimo Pasolini si presenta incompiuto. Berardinelli ha sottolineato come (dopo una lunga stagione di processi reali) principale mossa retorica di Pas
periodo, fosse quella di presentarsi come perseguitato, processato, vittima sacri cale: «Attirarsi accuse e difendersi dalle accuse, giusti carsi di fronte alla legge, mettere i
fondamenti della legge positiva […] La condizione di imputato era ormai forse il movente più forte della sua opera. La sua maschera letteraria, la sua scrittura, si era ssata una
confessione pubblica, difesa e accusa». Naturalissima e “parlante”, dunque, la scelta delle due predilette maschere proiettive di Socrate e di Cristo.
Alla condizione di imputato fa certo pensare il tono del Pasolini giornalista degli ultimi anni, in particolare sul «Corriere della Sera»: per antonomasia organo di quella stessa
spesso eletta a idolo polemico da chi inopinatamente, il 7 gennaio 1973, prende a scrivere sulle sue colonne. Si estremizza, qui, il carattere di «intertesti» delle scrittu
«performances linguistiche dal valore anzitutto pratico, che cioè chiedevano ai destinatari di essere tradotte in azioni tese a modi care la società» (Tricomi). L’opera si prospetta
dunque, non solo per la materiale incompiutezza: ma, costitutivamente, in virtù del suo continuo appellarsi alla cooperazione del lettore. Questo lettore va provocato sino allo st
sua reazione è parte integrante dell’opera che lo scritto di Pasolini, più che costituire, innesca. Alla reazione dei suoi lettori, a sua volta, reagisce l’autore; il quale concepisce molti
questa stagione come repliche: tali letteralmente – rispondendo cioè a interventi che, sullo stesso Corriere o altrove, sono stati da lui, appunto, provocati – oppure in se
rispondendo colpo su colpo ai mille stimoli che il costume contemporaneo offre allo sguardo del commentatore, del moralista, del corsaro insomma.

Uno scandaloso rimpianto


L’ultimo (e probabilmente maggiore) libro di versi di Pasolini, La nuova gioventù, si conclude con un dittico di testi lunghi, uno in italiano e l’altro in dialetto. Versi sottili come righe d
subito in scena l’Io perseguitato, da condannare / severamente:

Bisogna condannare
severamente chi
creda nei buoni sentimenti
e nell’innocenza.

Bisogna condannare
altrettanto severamente chi
ami il sottoproletariato
privo di coscienza di classe.

Bisogna condannare
con la massima severità
chi ascolti in sé e esprima
i sentimenti oscuri e scandalosi.

Queste parole di condanna


hanno cominciato a risuonare
nel cuore degli Anni Cinquanta
e hanno continuato no a oggi.

Frattanto l’innocenza,
che effettivamente c’era,
ha cominciato a perdersi
in corruzioni, abiure e nevrosi. […]

Naturalmente, chi condannava


non si è accorto di tutto ciò:
egli continua a ridere dell’innocenza,
a disinteressarsi del sottoproletariato […]

è felice del progressismo […]

È felice del laicismo


per cui è più che naturale
che i poveri abbiano casa
macchina e tutto il resto.

È felice della razionalità


che gli fa praticare un antifascismo
grati cante ed eletto,
e soprattutto molto popolare.

Che tutto questo sia banale


non gli passa neanche per la testa:
infatti, che sia così o che non sia così,
a lui non viene in tasca niente.

Parla, qui, un misero e impotente Socrate


che sa pensare e non losofare,
il quale ha tuttavia l’orgoglio
non solo d’essere intenditore

(il più esposto e negletto)


dei cambiamenti storici, ma anche
di esserne direttamente
e disperatamente interessato”.

Ed ecco Saluto e augurio, col quale il libro – e con esso la scrittura poetica del suo autore – termina:

A è quasi sigùr che chista


a è la me ultima poesia par furlan;
e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn. […]

«Ven cà, ven cà, Fedro.


Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa a un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns

su di te: jo sai ben, i lu sai,


ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlerài. […]

Difìnt i ciamps tra il paìs


e la campagna, cu li so panolis,
il vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat

tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja. […]

Difìnt, conserva, prea! La Repùblica


a è drenti, tal cuàrp da la mari […]

Tu difìnt, conserva, prea:


ma ama i puòrs: ama la so diversitàt […]

Ama il soreli di sitàt e la miseria


dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.

Drenti dal nustri mond, dis


di no essi borghèis, ma un sant
o un soldàt: un sant sensa ignoransa,
un soldàt sensa violensa.

Puarta cun mans di sant o soldàt


l’intimitàt cu ’l Re, Destra divina
ch’à è drent di nu, tal siùn. […]

Ciàpiti tu chist pèis, fantàt ch’i ti mi odiis:


puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo i ciaminarai
lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri

la vita, la zoventùt.»

(È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano: e voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani. […] / «Vieni qua, vieni qua, Fedro. Ascolta. Vo
discorso che sembra un testamento. Ma ricordati, io non mi faccio illusioni / su di te: io so, io so bene che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere since
sei un morto, io ti parlerò. […] / Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, abbandonate. Difendi il prato / tra l’ultima casa del paese e la roggia. […] / Dife
prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. […] / Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. […] / Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama
mamma nel glio. / Dentro il nostro mondo, di’ di non esser borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, un soldato senza violenza. / Porta con mani di sant
l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. […] / Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando
scegliendo sempre / la vita, la gioventù.»)
Davvero l’ultimo Pasolini si deve leggere tutto insieme. Qui, intanto, seguendo la successione fra la proiezione di sé quale misero e impotente Socrate e l’allocuzione a un Fedro.
questi due testi (e più in generale la sezione esplicitaria della Nuova Gioventù, «Tetro entusiasmo») sono la chiave di tutta la scrittura “corsara” e “luterana”. Acquista infatti u
diverso, dopo aver letto questi versi, rileggere uno dei più celebri – diciamo pure famigerati – “pezzi” di Scritti corsari, quello che il 9 giugno 1973 prende spunto dalla pubblicazio
febbre di Sandro Penna:

Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambia
indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavan
quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi,
tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei
pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che nivano col costituire un mondo dentro il mondo, p
vederlo. […] Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa – e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei pa
stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione – è nato uno scandaloso rimpianto: quello per l’
distrutta dalla guerra”.

Pasolini sapeva bene che questo rimpianto – anche per i toni addirittura estatici, abbandonati che ostenta – non poteva che essere scandaloso. Voleva ardentemente che lo fos
primi a reagire fu Edoardo Sanguineti, il 27 dicembre dello stesso anno:

Com’era verde, però, la nostra valle! Com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su
querce. E che bella razza che erano, per forza, con i debolucci e i denutritelli che si autoeliminavano in culla […] Certo che ha ragione il P.P.P., «che Paese meraviglioso che era l’
periodo del fascismo e subito dopo!» […] è proprio il P.P.P. che ce li ha guastati, a colpi di Decameron e di Canterbury, facendone dei «miseri erotomani nevrotici», quando stava
prima, con il Mistero del Sesso represso bene, e represso «con la gioia» […] E io allora gli dico, ai sottoproletari di qui, di adesso, ma sul serio: quello che non vi hanno fatto gli A
stateci un po’ attenti, che ve lo stanno preparando i Pasolini”.

E non è un caso che, a distanza di vent’anni e più, due altri protagonisti – da Pasolini certo meno distanti di Sanguineti – ricordino proprio quest’aspetto. Differente il loro giudizio s
ma simile il moto appunto di scandalo, all’inizio, che si argomenta si complica e quasi si capovolge, poi. Nel ventennale della morte di Pasolini ha scritto Elio Pagliarani:

La rabbia che mi facevi con l’esempio dei contadini friulaniche stavano meglio prima, negli anni Trenta/Quarantal’angoscia della tua voceincrinata spezzata da un vento gelido
mi pareva a effetto, e pensai«perché mi parli dell’India con toni così drammatici e agitati, quando nonc’è pubblico» – in piazza del Popolo, semideserta, quando mi raccontavi
viaggio in India, con toni drammatici e agitati
potrò perdonarti di aver detto la verità, che questo benessere è una rovinache tu avevi prevista, che l’uomo più sta bene più è egoistapotrò mai perdonarmiche quel grido quel
a effetto, altro che arti cialeerano le tue stimmateera nelle tue viscereti era consubstanziale.

(Solo dopo aver trascritto epigrammi da SavonarolaLa carne è un abisso che tira in mille modi.Così intendi della libidine dello Stato /mi resi conto che dialogavo ancora con te

E Giovanni Raboni, nel suo ultimo Barlumi di storia:

Ricordo troppe cose dell’Italia. Ricordo Pasoliniquando parlava di quant’era bellaai tempi del fascismo. Cercavo di capirlo, e qualche volta (impazzava, ricordo, il devastante ba
miracolo) mi è sembrato persino di riuscirci. In fondo, io che ero più giovane d’una decina d’anni, avrei provato qualcosa di simile tornando dopo anni sui devastati luoghi del d
Spagna del ’51, forse per la Russia di Brenev… Ma ricordo anche lo sgomento, l’amarezza, il disgusto nella voce di Paolo Volponi appena si seppero i risultati delle elezioni del
malato, sapeva di averne ancora per poco e di lì a poco, infatti, se n’è andato. Di Paolo sono stato molto amico, di Pasolini molto meno, ma il punto non è questo. Il punto è ch
facile immaginare d’essere felici all’ombra d’un potere ripugnante che pensare di doverci morire.

In questo Raboni si sbagliava. La fascinazione di Pasolini per la Destra divina non era solo legata alla sua onnipresente nostalgia per l’Eden rurale pre-moderno. Come ci m
gioventù, al giovane fassista sono sì quei valori che Pasolini tramanda e raccomanda (i ciamps, il prat, l’intimitàt cu ’l Re – ossia appunto quella che nell’articolo “su Penna” de ni
l’umile volontà di vita dei sottomessi ragazzi di campagna: contrapposta all’ansia di ribellione e appropriazione dei detestati giovani del Sessantotto, piccolo-borghesi ban
antifascisti). Ma non per il passato: per il futuro. Il suo è un discors / ch’al somèa a un testamìnt, dunque l’immagine di sé del nale (jo i ciaminarai / lizèir ecc.) vale c
pre gurazione della propria morte. Se così stanno le cose, nel consegnare idealmente al fassista l’Italia, l’antica e umile Italia, Pasolini pensa precisamente che in questa pros
morire. Ed è una prospettiva che accetta con lietezza: lizèir appunto. Dice Tricomi che «era inevitabile che Pasolini a dasse in eredità le sue opere a un fascista»: perché «tutti i
[…] sono violenti atti di accusa contro una sinistra» che ha consegnato alla destra «la tutela, o anche solo l’esplorazione, di discorsi e valori che gli uomini continuano a sentire attua
Sono questi discorsi e valori, appunto, i temi scandalosi del Pasolini “corsaro” e “luterano”. Col nuovo anno 1975, che per lui sarà l’ultimo, Pasolini – forse per la prima volta da qua
smette di scrivere versi e spalanca il suo laboratorio sulla più “pubblica” delle sedi: la prima pagina del «Corriere».

Una questione privata


Su questo (in tutti i sensi) “estremo” Pasolini vigono due tabù. Il primo tace la sua continua sovrapposizione di propositi pubblici e ossessioni private. Solo di recente Ma
sottolineato come «nella vulgata che è stata fatta del Pasolini corsaro, critico rispetto alla società dei consumi, rispetto alla distruzione delle lingue locali, rispetto alla mutazione
rispetto alla distruzione del paesaggio e della cultura tradizionale dell’Italia, si è quasi sempre sorvolato sul tema dell’omosessualità e sull’elemento estetico. In realtà il c
argomentazione è proprio qui». Tanto per essere chiari, quando Pasolini dice che i ragazzi sono diventati brutti non usa solo una metafora.
La collaborazione al «Corriere» comincia con uno degli articoli più celebri, Contro i capelli lunghi, che inaugura anche Scritti corsari. Marco Bazzocchi ha mostrato come quella
sulla nuca sia una ricorrente ossessione gurativa, sin dai più antichi scritti di Pasolini: connotato erotizzante primo, per lui, della corporeità dei ragazzi. Quello infatti che, all’inizio
forma della Nuova gioventù, introduce il zòvin al quale jo i ghi regali / chistu libri: «Se duciu i zòvins / comunis’c a si tajàssin / i ciavièj, ghi colarès / la mascara ai zòvins fass
giovani comunisti si tagliassero i capelli, cadrebbe la maschera ai giovani fascisti”). Anche il tema dell’indistinguibilità fra Destra e Sinistra ha insomma un movente primo privato
un’ossessione erotica.
La nuova gioventù non solo lo ammette: lo grida. Il misero e impotente Socrate, infatti, non è solo intenditore (in quanto a essi esposto e insieme da essi negletto) dei cambiamen
la maledizione (e dunque l’orgoglio) di esserne direttamente / e disperatamente interessato. Ma Pasolini non manca di segnalare tale condizione – appunto con orgoglio – anch
“corsaro”, specie alla climax di tragica urgenza rappresentata dalle Lettere luterane: «Il lettore mi perdoni se parto “giornalisticamente” da una situazione esistenziale. Mi sarebbe
meno»; «mio radicale rovesciamento di giudizio sul sottoproletariato (cosa che implica per me una tragedia personale)»; «la mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale –
ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalistici e dei politici che non vivono queste cose»; e, in forma di preterizione: «non esibirò a questo punto la
intenditore in concreto: patente ottenuta attraverso il mio modo di esistenza» – per poi però esibirla eccome, e ribadire: «Premesso tutto questo (privato e perciò concreto)».
Non è un caso che nel testo nel quale più in profondità venga svolto un discorso sull’omosessualità (la recensione al libro di Marc Daniel e André Baudry, Gli omosessuali), ap
coppia Socrate-Fedro sulla quale, s’è visto, di lì a poco si concluderà La nuova gioventù: «il libertinaggio non esclude affatto la vocazione pedagogica. Socrate era libertino: da L
suoi amori per i ragazzi son stati innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non può che amare tutti i ragazzi (ed è questa, appunto, la ragione della sua vocazione pedagogica)».
avvicini all’esplicitazione del cortocircuito privato sotteso alla polemica pubblica di Pasolini. E non è un caso che le Lettere luterane si aprano col trattatello pedagogico per Gennar
Il privato di Pasolini non è neppure genericamente comunitario, seppur in forma particolaristica (quella da lui non a caso a più riprese rivendicata), relativo cioè ai diritti degli
generale. È privato, invece, in senso stretto: strettamente personale. Quando leggiamo certi passaggi di pura stizza anti-eterosessuale («Tutte quelle sciocche coppie che s
tenendosi all’in nito strette per mano, con aria di vicendevole, romantica protezione e ispirata certezza del domani»), non siamo solo indotti – dal suo stesso ampliamento co
categoria – a considerarle forme di razzismo sessuale (della specie, cioè, che lo spinge a de nire razze borghesia e sottoproletariato; scagliando, contro coloro che lui stesso ha d
una frase di struttura didascalicamente razzista: «Tutti i borghesi sono infatti razzisti, sempre, in qualsiasi luogo, a qualsiasi partito essi appartengano»). Ma, scavando un po’
capiamo come siano appunto interessi privati di Pasolini a guidarlo nelle sue prese di posizione pubbliche. Quelle cioè presentate come interessanti – se non a tutti gli effetti valide
In una lettera dell’agosto 1971 Pasolini confessa a Paolo Volponi di essere «quasi pazzo di dolore»:

Ninetto è nito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua raga
a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma ge
dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui.

Dove bisognerà notare, anzitutto, l’apparire di un modulo concettuale (il desengaño che stinge anche retrospettivamente, su un passato creduto felice, i propri colori luttuosi) dest
appunto, negli scritti pubblici – cioè in una delle più celebri lettere luterane, quella uscita appena postuma col titolo Abiura dalla «Trilogia della vita» («oggi la degenerazione dei c
ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di
è, dal presente, svalutato»).
Ma lo squarcio sul privato pasoliniano ci dice ben altro. Specie se dopo questa lettera ne leggiamo un’altra, non datata ma da attribuire allo stesso ’71, emersa solo due anni fa.
direttamente a Davoli, bensì alla danzata Patrizia:

Cara Patrizia,

io non ti conosco se non di vista, non so bene com’è il tuo carattere, se puoi capire o non capire certe cose. Ma forse sai che la mia amicizia per Ninetto è più di un’amicizia: n
senso volgare di questa parola, il sesso non c’entra. Per Ninetto io provo solo un grande affetto, un immenso affetto, che ha sostituito addirittura quello per mia madre. Ninett
costituisce la mia vita, che senza di lui mi è diventata inconcepibile. Tu sai che chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata. E così io con Ninetto: lo amo, e pe
tutto per me, com’è sempre stato in questi otto anni che ci conosciamo. Pensare che lui stia con un’altra persona, che dedichi a lei i suoi sentimenti e il suo tempo, mi fa soffr
non ti so descrivere: mi fa soffrire no a desiderare di morire. Io voglio che tu sappia questo, e che tu lo sappia chiaramente. […] Tu sai che mia madre ha ottant’anni: fra un po
mondo. Io muoio al pensiero che Ninetto non sia più il mio Ninetto. Ma naturalmente non posso chiedergli di lasciarti, sarebbe disumano da parte mia, e anche inutile. Come
di lasciare lui: io non posso farlo. Ma siccome questa è una vera tragedia, e tu ci sei coinvolta, è bene che tu sappia tutto.

Ma ecco il veleno dell’argomento (si ricordi l’altra a Volponi: Ninetto è «disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei») (corsivi miei):

Quando ci saremo lasciati, cosa farà Ninetto? Te lo sei mai chiesta? Bisogna che tu ti faccia questa domanda. Sarebbe immorale che io vi mantenessi. Io potrò sempre aiutar
Ninetto, che non abbandonerò mai, sarebbe troppo vile da parte mia. Ma una volta che Ninetto mi abbia lasciato, e stia con te e ti sposi, non mi si potrebbe proprio chiedere d
quello che faccio ora […] Allora lui dovrebbe cominciare tutta una nuova esistenza, a cui, per colpa mia, non è più abituato; dovrebbe lavorare, e accontentarsi della semplice vi
umile lavoro. Sarebbe capace Ninetto di questo? Io credo di no, e non perché sia un cattivo ragazzo, ma perché ormai chiunque al suo posto farebbe così. Io credo che per rea
farebbe delle sciocchezze, e forse, perché anche lui sarebbe disperato, farebbe anche delle «sciocchezze» abbastanza gravi […] Perché se Ninetto lascerà me per te, poi non te
mai, e te lo rimprovererà per tutta la vita; e così se lascerà te per tornare da me, nirà col portarmi rancore per averti perduta. Non so più cosa dire, non so più cosa fare. Senza
stata la mia rovina, e senza tua colpa, sarai forse la rovina di Ninetto. Speriamo che non sia così… Tuo Paolo.

Il Pasolini pubblico adotta armi retoriche tali che Berardinelli ha potuto dire, metaforicamente, che egli «ci disarma e ci ricatta». Ma nel suo privato, evidentemente, l’arma del rica
che metaforica.
In considerazione della tragedia personale che aveva appena vissuto acquistano senso assai diverso le considerazioni di Pasolini sul divorzio, in occasione del referendum de
schiera a favore della legge Fortuna-Baslini (la quale se non altro concede a Ninetto di tornare sui suoi passi…) ma non rinuncia a indicare nell’abbandono popolare dei prec
principio edonistico: e dunque «per qualcosa di peggio della religione, indubbiamente». Ma a cambiare “tono”, soprattutto, sono quelle ben più nette (e note) sull’aborto. Quello che
più scandaloso degli Scritti corsari, Sono contro l’aborto appunto, esce sul «Corriere della Sera» il 19 gennaio 1975.
La «lotta per la legalizzazione dell’aborto» poggia su princìpi «non reali»: Pasolini se ne dice convinto «per una serie caotica, tumultuosa e emozionante di ragioni». È una delle
l’autore denunci il proprio stile retorico: che accumula a pioggia – in una sorta di asindeto concettuale – una serie caotica, tumultuosa ed emozionante di argomenti tali da contra
nel giro di poche righe. Coloro che polemizzano con lui, anche per i limiti di spazio loro concessi, riescono magari a smontare uno di questi argomenti: ma replicando Pasolini ha b
notare come l’antagonista perda di vista «l’Insieme» per accanirsi sul singolo anello che, nella catena argomentativa, non tiene.
E invece occorre proprio smontare Pasolini: rallentare il suo furor pindarico; focalizzare un punto, decisivo. È contro l’aborto perché esso è «una enorme comodità per la
Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli». E questa libertà è voluta, si capisce,
consumi» ossìa «dal nuovo fascismo». L’aborto è l’arma de nitiva che renderà il «piccolo patto criminale» della coppia eterosessuale una «condizione parossistica». Non si fa
questo punto, dietro la proiezione simbolica della coppia o coppietta (come sprezzante la ribattezza), una speci ca coppia eterosessuale: quella a lui particolarmente sgradita.
Furono in pochi all’epoca, fra coloro che da sinistra gli replicarono sul «Corriere» e altrove, ad avere il coraggio di chiamare in causa la dimensione omosessuale – diciamo
omosessuale – a proposito dello scritto di Pasolini. Autocensura probabilmente dovuta alla furente insultistica fascista o fascistoide che accompagnava, almeno dai primi anni
uscita pubblica di Pasolini: e che non mancava mai di fare becere allusioni, appunto, alla sua condotta sessuale. Non si poteva considerare propriamente di sinistra Goffredo
amava affatto Pasolini pur condividendone molti presupposti; per la medesima testata scrisse un articolo intitolato Aborto e omosessualità ma probabilmente scelse di non inv
(in ogni caso non venne mai pubblicato). Annota Parise che sino all’intervento di Pasolini l’omosessualità «è stata lasciata in disparte nel suo peso […] politico», mentre essa si c
come «terza forza sessuale, per così dire terza forza biologica». Proprio in nome della biologia conclude Parise, schierandosi a sua volta contro la legalizzazione dell’abor
motivazioni di Pasolini, né per quelle della Chiesa cattolica […], quanto per un viscerale e ogni giorno commosso abbandono alla forza delle cose, alla forza della vita».
Non poteva essere però Parise, irrazionalista in servizio permanente effettivo, a fungere da effettivo disinnescante del razionalismo perverso – indistricabile commistione
raziocinante, persino sillogistico, e salti analogico-paradossali – che è il marchio di fabbrica del Pasolini intellettuale. Poteva riuscirci invece un altro razionalista perverso – ch
classica perverte, però, in direzione opposta a quella perseguìta da Pasolini: Giorgio Manganelli. Il quale infatti interviene dopo appena tre giorni, il 22 gennaio, sempre sul «Co
articolo intitolato Risposta a Pasolini:

Da qualche tempo mi accade di leggere le prose teoretiche di Pier Paolo Pasolini con una sorta di devozionale raccapriccio; non oserò dire che scrive male, tenuto conto anch
nazionale, ma che scrive, all’incirca, come un sociologo che, dopo passionali e discontinui studi giuridici, abbia scoperto e incautamente amato una letteratura, degli autori no
indiscriminatamente consigliabili, tanto per fare un esempio, Giovanni Papini, Luigi Russo e l’ultimo Pier Paolo Pasolini. Mi rendo conto di esser caduto in un errore di logica, m
così squisitamente pasoliniano, da non trovar cuore per emendarlo. […] Il problema dell’aborto, ovviamente, pone in primo luogo il tema della mamma; Pasolini afferma di vive
nel comportamento quotidiano» la sua vita prenatale, quella che egli chiama «la mia felice immersione nelle acque materne». Sarà, ma la mia memoria amniotica è piuttosto
allora fossi felice, chissà mai, senza nemmeno un libro da leggere; in ogni caso, molti, ed io di questi, se invece di essere partoriti fossero stati abortiti, non se ne sarebbero av

Sono, questi, i consueti sali del Manganelli corsivista, sulfureo e sarcastico. A sua volta maestro riconosciuto nell’uso del paradosso, ha buon gioco a districarsi in quelli che chiam
clausola, dribbling) argomentativi di Pasolini; comprende sùbito il problema tecnico – retorico – di fermare la vorticosa macchina argomentativa di Pasolini: onde poterla contra
punto («Il lettore ha l’impressione di tentare l’autostop durante gli ultimi tre giri sulla pista di Indianapolis: estremamente frustrante»).
Come ha notato Berardinelli (che da parte sua di quest’arte è l’unico erede credibile), supremo arti cio retorico di questo Pasolini è quello di mostrare come truismi – argoment
quelli che al contrario sono, appunto, dei paradossi. La «semplicità contundente dell’argomentazione» fa sparire «ogni gioco di sfumature, di attenuazioni, di correzioni, incisi,
talché, «in questi nuovi poemetti civili o incivili in prosa, tutto è disperatamente e rigoristicamente in piena luce». Ma questo descritto è, in realtà, mero effetto ottico, trompe-l’oeil re
quanta parte del pasoliniano complesso di volizioni e intenzioni resti immerso, tutt’al contrario, nella più fonda oscurità. Manganelli capisce allora che a sua volta deve disme
sottigliezze e, come dice – con espressione davvero non sua –, stare sul terra terra. Cioè ricondurre il discorso, appunto, a una semplicità contundente (che oltretutto non manca
ricorso alla patente d’intenditore in concreto, cioè all’esempio personale):

Ora qualcuno potrebbe mettersi in testa che costringere una donna, che già deve varcare la soglia infera del trauma dell’aborto, a comportarsi come un animale braccato, a ris
e in ne ad essere dichiarata “delinquente” a nome del popolo italiano sia un comportamento abbastanza repressivo. Macché: come saviamente argomenta il Pasolini, la “mag
vuole l’aborto, perché la coppia eterosessuale ha scoperto il coito consumistico, lo vive come dovere sociale della propria gura di consumatore. È del tutto evidente che Paso
l’aborto come una attività psicologicamente distensiva, una faccenda da carosello. Essendo stati esentati dall’arbitrio della natura da codeste scelte, una tal quale prudenza n
troppo. Diciamo, di indiretta scienza, che l’aborto non ha mai fatto ridere nessuno; alcuni anni fa, mi accadde di assistere ad un suicidio nell’Aniene di una domestica: incinta; q
insegnante, una mia allieva si gettò da un quarto piano: incinta; chissà quale illusione le aveva persuase di essere oggetto di una “brutale repressione”; forse una cultura che tr
“puttana” la ragazza madre, che le porta via i gli per in larli in quelle case di riposo per angeli che sono i nostri brefotro , che garantisce una vita di disprezzo, di frustrazione,
ha tutte le carte in regola per discutere della sacra vita.

Il giorno stesso nel quale esce questo pezzo di Manganelli, gli scrive Calvino:

Caro Giorgio, sento proprio il bisogno di scriverti per dirti quanto sono stato contento a leggere la tua risposta a PPP sul «Corriere» di oggi. Sei stato proprio bravo, hai trovato
hai detto le cose più serie con una levità di mano miracolosa. Ecco qualcosa che non sarei mai riuscito a fare, quando ho letto quell’articolo domenica m’ero tanto arrabbiato c
non avrei mai potuto polemizzare senza scendere su un livello che avrebbe fatto il suo gioco, e mi sono detto: no, con Pasolini l’unica è fare come se non esistesse. Invece tu
dire quello che c’era da dire cominciando con l’humour e poi in un crescendo e pur sempre con la grinta necessaria.

È un fatto che Pasolini, a Manganelli, evita di rispondere.

“La mia paradossalità non è che formale”


Secondo e maggiore tabù, riguardo a questo Pasolini, è il prenderlo alla lettera. Chi lo fa, tra i suoi interlocutori, viene da lui stesso brutalmente ridicolizzato. Una volta Luigi Firpo,
messo alla berlina per non aver colto una sua «evidente ironia». Inoltre, nei casi di maggior tensione retorica, Pasolini bada a presentare le proprie provocazioni – all’atto stesso di
come «umoristiche». Nella celebre lettera luterana Il Processo (24 agosto 1975) avverte: «l’immagine di Andreotti o Fanfani […] ammanettati tra i carabinieri, sia un’immagine me
processo sia una metafora. Al ne di rendere il mio discorso comico oltre che sublime (come ogni monologo!), e soprattutto didascalicamente molto più chiaro». Eppure s do qua
questa o delle altre Lettere a ricordarle per la loro comicità. (Specie ove si insista, com’è oggi persino topico, a leggere questo Pasolini in chiave “profetica”: col senno di poi,
detenzione e “processo” brigatisti ad Aldo Moro – o della stagione di Mani Pulite).
Se resiste una vulgata critica positiva, rispetto a un’opera pasoliniana, è proprio quella della radicale eteronomia, del valore pratico insomma, della sua produzione “corsara” e “lu
formulato meglio detta vulgata è, al solito, Berardinelli: «lo stile, la forma sono un indice puntato verso qualcosa. Qui la letteratura è ben lontana dall’essere “uso autoreferenziale”
non è infatti indifferente al con itto tra vero e falso, fra giusto e ingiusto, fra innocente e colpevole». Eppure Berardinelli, e con lui tanti altri lettori ammirati di questo repertorio, fann
il contrario di quanto da quest’assunto dovrebbe logicamente discendere (mutuando insieme allo stile, forse, anche un tipico modo di ragionare di Pasolini…): si limitano a ripetere
– che la polemica di Pasolini è servita a problematizzare dati concettuali che, nella modernità, apparivano automatizzati e ormai schematici (come appunto ciò che è davvero Sini
davvero Destra: questione quanto mai attuale, in questi anni e settimane) ma evitano di fare il passo successivo: di affrontare, cioè, il problema di cosa – nel quantitativamente st
pasoliniano – sia vero e cosa falso, cosa giusto e cosa ingiusto. Se non, addirittura, cosa innocente e cosa colpevole.
Un tentativo isolato e coraggioso, in questa direzione, è un recente libro dell’economista Giulio Sapelli, che individua la chiave concettuale di Pasolini nella distinzione, anti-i
Sviluppo e progresso (è il titolo di uno degli Scritti corsari, pubblicato direttamente nel volume del ’75 come sua chiave d’accesso; è qui che Pasolini ammette la propria distanza
leninismo classico: una delle sue parole d’ordine destinate a maggiore e più stucchevole fortuna postuma, quella del genocidio delle culture subalterne, deriva per esempio da
mislettura del Manifesto del Partito Comunista: nel quale Marx esprime un giudizio positivo sul fenomeno…). Sapelli ha un merito fondamentale: quello di entrare nel merito di cia
senza peritarsi di distinguere fra vero e falso, fra giusto e sbagliato. E focalizza in particolare un’intuizione economica, non meno che geniale, di Pasolini: il quale è a suo giudi
abbia capito che «l’industrializzazione italiana è un processo che si compie attraverso l’espansione del consumo di beni privati piuttosto che di beni pubblici». L’industrializzazione
con sé «la creazione di infrastrutture, come scuole, ospedali, ferrovie», ma ha incoraggiato un a uire straripante di «beni di consumo immediati».
Il tormentone polemico dei blue jeans Jesus, che tappezzano le città italiane con lo slogan chi mi ama mi segua, è un esempio perfetto di questa sostituzione di un bene di
“valore” come quello incarnato, appunto, da “Gesù”. Ed è quanto mai signi cativo che la chiave della polemica pasoliniana sia – in una sorta di simmetria speculare rispetto ai s
irrisolti – proprio la contestazione di un’indebita confusione tra pubblico e privato. Come spesso accade ai grandi moralisti l’innegabile acutezza clinica di Pasolini nell’indic
comunità deriva dal suo conoscere, quegli stessi mali, in modo personale: privato e perciò concreto.
Ma, al contrario di quanto faccia Sapelli, nella critica pasoliniana è divenuta pressoché normativa (come a sua volta autoevidente) un’indicazione di Berardinelli: «Le argomentaz
chiedono assenso o dissenso. I suoi ragionamenti si svolgono a partire da un dato passionale […] e quindi non possono essere razionalmente confutati». Indicazione che è, invece
paradossale: come paradossale è questo quindi. Se Pasolini ci chiede assenso o dissenso – se questa è addirittura la sostanza stessa delle sue scritture estreme – non si vede
possa essere confutato. Ognuno, ovviamente, col proprio modo di pensare: passionale o razionale che sia.
Rispettarlo, al contrario, esige precisamente che, di volta in volta, si contrastino (o assecondino) le sue intenzioni. È lo stesso Pasolini a pretenderlo. Nelle repliche a interlocutori
Moravia è evidente la sua soddisfazione per essere stato preso sul serio («Moravia mi onora delle sue illazioni») o la più urgente pretesa di esserlo (a Calvino: «tu sai bene come do
vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che nalmente pretendo che tu faccia»). Non c’è, in questi scritti, nulla di ludico o giocoso (neppure di menippeo-grottesco come invec
in forma romanzesca o antiromanzesca questi stessi materiali – in Petrolio): Pasolini fa sul serio, tragicamente sul serio; e lo sa.
Siamo con ciò arrivati quasi al capolinea. All’ultima, e in certa misura quintessenziale, polemica pasoliniana: quella sul delitto del Circeo. È in quest’occasione che il meccanis
paradosso si autodenuncia: già col titolo, Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia. Le due modeste proposte – «1) Abolire immediatamente la scuola media d’ob
immediatamente la televisione» – vengono presentate come paradossali all’atto stesso di enunciarle («Sono due proposte swiftiane, come la loro de nizione umoristic
minimamente di nascondere»); ma in effetti il riferimento diretto al contenuto della Modest Proposal del 1729, che in tono freddo e asettico, per risolvere il problema della sovra
della fame in Irlanda, proponeva – come si ricorderà – di mangiare i bambini delle famiglie povere («Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non e
come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione»), è l’unico passaggio che, nello scritto pasoliniano, possa destare un qualche accen
La polemica sulla scuola dell’obbligo non era certo, all’altezza di quel 18 ottobre 1975, una novità. Nell’Abiura dalla «Trilogia della vita» si legge infatti che «la televisione, e forse a
scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie»; mentre nella replica a Firpo del 9 settembre aveva
che «solo un laicismo e un progressismo a buon mercato possono indurre a pensare che la scuola media d’obbligo così com’è hic et nunc in Italia non sia un crimine».
Due modeste proposte insomma, nelle intenzioni di Pasolini, non è in alcun modo (come lo de nisce Sapelli) «uno scritto quasi dadaista». Non è vero che «le sue proposte no
come indicazioni politiche concrete». Non è solo «il segnale di una disperata ri essione». Non è una provocazione so stica, non è una “contro-verità”, non è uno choc demisti can
Non è insomma, in alcun modo, un paradosso. È una dichiarazione d’intenti politica: una proposta fattiva, effettiva, concreta. All’assoluta serietà di chi fa questa proposta non osta
che egli stesso sia perfettamente consapevole, com’è ovvio, della sua irrealizzabilità. Tutto il sistema, non solo retorico ma immaginativo e morale, di questo Pasolini – il suo Ins
sulla pretesa, da parte sua, di affermare delle verità che non solo si aspetta, ma in qualche modo esige non verranno accettate come tali. È emblematico del suo modo di intende
maledetti articoli» la successiva risposta a Moravia (Le mie proposte su scuola e tv, 29 ottobre). Il quale quattro giorni dopo le Modeste proposte, il 22 ottobre sullo stesso «C
risposto E se abolissimo davvero la scuola media?: aveva cioè preso assolutamente sul serio Pasolini (nella fattispecie sostenendo che si dovrebbero conservare la scuola
l’università, mentre la scuola media potrebbe essere sostituita con «un rapporto più diretto con la realtà della vita e del lavoro»; quanto alla televisione, si dovrebbe sopprimere la
«allo svago e al passatempo» per farne un’istituzione «esclusivamente educatrice e divulgatrice»). Con malcelato divertimento per lo scomposto entusiasmo dell’amico (il mit
intelligenza moraviana è persino più duro a morire di quello dell’infallibile veridicità pasoliniana), Pasolini precisa:

Intanto va detto che le mie «due modeste proposte» di abolizione intendevano chiaramente riferirsi a una abolizione provvisoria. Dicevo, per la precisione: «in attesa di tempi
un altro sviluppo – ed è questo il nodo della questione». In altre parole chiamavo in causa il Pci, le migliori forze di sinistra ecc., il cui interesse per una radicale riforma della
televisione non dovrebbe essere messo in dubbio: se è essenziale alla trasformazione dello «sviluppo». In attesa di una tale radicale riforma, sarebbe meglio abolire (lo so c
ma ne sono lo stesso fermamente convinto) sia la scuola d’obbligo che la televisione: perché ogni giorno che passa è fatale sia per gli scolari che per i telespettatori… […
proposta di «abolizione» – ancora una volta – non è che la metafora di una radicale riforma

Metafora? È una semplice metafora anche quella del 18 luglio precedente? Quando, a proposito di quello che di lì a poco battezzerà icasticamente Il Processo, Pasolini sostien
«l’Italia di oggi […] distrutta esattamente come l’Italia del 1945 […] come quelli del 1945 gli uomini di potere italiani […] sarebbero degni di un nuovo Piazzale Loreto»? È un discorso
su Andreotti o Fanfani ammanettati? E allora perché si paragona il loro caso a quelli di Nixon negli USA e Papadopulos in Grecia, ribadendo che «una vera democrazia debb
estreme conseguenze sia pur formali, cioè al processo»? È un Processo metaforico o concreto, quello di cui si sta parlando?
È questo l’ultimo, il più potente strumento retorico del “corsaro”. L’asindeto concettuale è multanime, autocontraddittorio per una ragione precisa. Perché deve mettere as
ragionamento svolti in chiave paradossale con pezzi di ragionamento svolti in chiave seria. Quello di Pasolini è un paradosso, sì, ma – per così dire – di secondo grado. Un m
perché fonde inscindibilmente il ragionamento paradossale e il suo contrario speculare. Per questo è così di cile, e anzi in certo modo impossibile, contraddirlo: perché – a men
ritorca contro un discorso uguale e contrario, sostanziato della stessa ancipite natura, come solo Manganelli è riuscito a fare – si andrà sempre a sbattere contro quella parte de
che segue una logica inversa alla parte che si contraddice. Se si analizza con rigore Due modeste proposte non si può che concludere che, se la forma retorica adottata è quella
paradossale à la Swift, la sostanza non lo è assolutamente. Non è affatto corrispondente all’antitesi della lettera, la sua intenzione: che è per l’appunto avversa alla scuola de
televisione (sia pure in misura meno radicale di quanto dica la lettera: è procedimento, dunque, piuttosto iperbolico che paradossale). E almeno una volta l’ha ammesso, Pasolin
limpidezza. In Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio: «la mia paradossalità non è che formale».

Con te e contro di te

«A dieci anni dalla sua morte, Pasolini è diventato un passaggio obbligato dell’immaginazione culturale italiana. Da alcuni viene considerato lo scrittore più importante, in Italia
tre o quattro decenni […] Nel linguaggio giornalistico le metafore con cui Pasolini sosteneva la sua requisitoria contro la classe politica e contro lo sviluppo sono diventate pro
Palazzo del Potere, la Scomparsa delle Lucciole, il Processo alla Democrazia cristiana. Metafore svuotate dall’abuso che, insieme all’omaggio e al riconoscimento postumo, h
permesso anche un rapido esorcismo. Così l’incubo (quel vero e proprio incubo che era il Pasolini polemista) si è trasformato in un mito facilmente consumabile. E nell’oggett
ipocrita, doveroso, retorico. In realtà, basta rileggere qualcuno dei suoi ultimi articoli per capire che Pasolini non meritava di essere avvolto dopo la sua morte nell’u cialità co
circonda il suo nome».

Eravamo negli anni Ottanta quando Alfonso Berardinelli scriveva queste parole. Tutte da condividere. Dopo di allora, periodicamente, l’in nita e in nitamente variegata schiera dei
ha mai mancato di “riscoprire”, “rivalutare”, “riaffermare” chi mai, a partire dal giorno seguente la sua orribile morte, è uscito dal centro esatto del nostro dibattito culturale, polit
Nonché dal centro del mediatico cicaleccio celebrativo-nostalgico-scandalistico. Quello che, un decennale dopo, anche un pasolino lo fervente come Enzo Golino non ha potu
«Premiato Pasolini cio s.p.a.». E che ora Franco Cordelli ha potuto de nire «una marca, un logo»: proprio come i jeans Jesus.
Una voce decisamente fuori del coro del Pasolini cio s’è ascoltata un quinquennio dopo lo scritto di Golino (gli anniversari del 2 novembre 1975 hanno accelerato, col passar de
decorrenza; è alle viste, ormai, la celebrazione annuale): quella di un giovane poeta e critico italiano che lavora negli Stati Uniti, Alessandro Carrera. È uno sfogo da saturazione, il s
accenti “pasolinianamente” estremi. Avendo assistito all’ennesima liturgia, il 2 novembre 2000 all’Istituto Italiano di Cultura di New York, Carrera si dice sbalordito dal «tentativo», d
Siciliano e dell’avvocato Guido Calvi, «di far quadrare l’eredità di Pasolini con un’Italia che oggi lo onora, ma nella quale non sappiamo se Pasolini si sarebbe riconosciuto». Si dov
chiedere a Siciliano, già Presidente della RAI, se condivida le sue idee sulla televisione pubblica. O ai tanti scrittori che Pasolini venerano e hanno eletto a modello, e che spe
raccontarci storie sulla scuola dell’obbligo, se come lui pensino che essa vada abolita (sia pur “provvisoriamente”).
Cita Carrera, per fare solo un esempio dell’attuale assoluta e frontale irricevibilità del pensiero pasoliniano, uno scritto dell’11 luglio 1974 compreso in Scritti corsari:

Ciò che più impressiona camminando per una città dell’Unione Sovietica è l’uniformità della folla: non si nota mai alcuna differenza sostanziale tra i passanti, nel modo di vest
di camminare, nel modo di essere seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma, nel modo di comportarsi. Il «sistema di segni» del linguaggio sico-mimico, in una
non ha varianti: esso è perfettamente identico in tutti. Qual è dunque la proposizione prima di questo linguaggio sico-mimico? È la seguente: «Qui non c’è differenza di classe
cosa meravigliosa. Malgrado tutti gli errori e le involuzioni, malgrado i delitti politici e i genocidi di Stalin (di cui è complice l’intero universo contadino russo), il fatto che il popo
nel ’17, una volta per sempre, la lotta di classe e abbia raggiunto l’uguaglianza dei cittadini, è qualcosa che dà un profondo, esaltante sentimento di allegria e di ducia negli uo
si è infatti conquistato la libertà suprema: nessuno gliel’ha regalata. Se l’è conquistata. Oggi anche nelle città dell’Occidente – ma io voglio parlare soprattutto dell’Italia – cam
strade si è colpiti dall’uniformità della folla […] Ma mentre in Russia ciò è un fenomeno così positivo da riuscire esaltante, in Occidente esso è invece un fenomeno negativo da
stato d’animo che rasenta il de nitivo disgusto e la disperazione. La proposizione prima di tale linguaggio sico-mimico è infatti la seguente: «Il Potere ha deciso che noi siam

«Si stenta a crederlo», commenta Carrera, «ma Pasolini sta proprio parlando della Russia di Breznev, del regime più as ssiante e “omologante” che mai mente di tiranno abbia po
(e sì che, dopo il suo articolo e persino citandolo, un critico amico dello stesso Carrera ha avuto il coraggio, in un suo libro, di provare ad annettere Pasolini al liberalismo “terzista
assimilandolo ad autori come Chiaromonte, Silone e Orwell). E conclude, Carrera: «Pasolini […] ipnotizza, incanta, fa credere che si possa ricavare qualche punto fermo dai suoi fr
su comunismo e religione, su fascismo e democrazia, su progresso e regresso, sulla povertà e sulla ricchezza». Mentre «non abbiamo bisogno di essere d’accordo con qualun
farneticato (e ha farneticato molto) per ammirare la sua grandezza».
Forse è vero che la grandezza di Pasolini scrittore vada cercata proprio – oltre che nelle splendide poesie in friulano, in molti saggi folgoranti di Empirismo eretico e in ampie torm
Petrolio – nei suoi ultimi scritti giornalistici. A patto di leggerli come nuovi e straordinari poemetti in prosa: formalmente antitetici alla nobile tradizione del genere, ma non
impossibili da usare praticamente. Punteggiati da esplosive verità diagnostiche, è vero, sui mali che ci a iggono. Ma intessuti, pure, di un’incredibile mole di irricevibili assurdità
assoluta convinzione, invece, come cure – di quei mali – valide per tutti.
A vent’anni, in una lettera all’amico Luciano Serra, scriveva Pasolini che i poeti sono «gli unici grandi educatori dell’umanità»: e a questo ha continuato a credere, forse, per il
esistenza. Per parte mia non da oggi so bene che – pur ammirandoli, amandoli magari alla follia – non è davvero il caso di farsi educare, nonché da Pasolini, da poeti da lui a s
amati (e di lui in nitamente più grandi) come Dino Campana o Ezra Pound.

—————–
NOTA
Gli scritti di Pasolini vengono citati direttamente nel testo dall’edizione in dieci volumi diretta da Walter Siti per i Meridiani Mondadori: RR 1 e 2 = Romanzi e racconti, due tomi a
Siti e Silvia De Laude, 1998; SPS = Scritti sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, saggio introduttivo di Piergiorgio Bellocchio, 1999; P 1 e 2 = Tutte le poe
cura di Walter Siti, saggio introduttivo di Fernando Bandini, 2003. Gli altri volumi dell’edizione sono Saggi sulla letteratura e sull’arte, due tomi a cura di Walter Siti e Silvia De
introduttivo di Cesare Segre, 1999; Per il cinema, due tomi a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, scritti introduttivi di Bernardo Bertolucci, Vincenzo Cerami e Mario Martone, 2001,
di Walter Siti e Silvia De Laude, interviste a Luca Ronconi e Stanislas Nordey, 2001. Empirismo eretico (che comprende fra l’altro Osservazioni sul piano sequenza, del ’67) venne o
edito nel 1972 da Garzanti; La nuova gioventù uscì da Einaudi nel 1975; pure del ’75 è la prima edizione, da Garzanti, di Scritti corsari; del ’76 e del ’79, entrambe da Einaudi, quelle di L
e Descrizioni di descrizioni (quest’ultimo poi ristampato da Garzanti). La lettera del ’42 a Luciano Serra è nell’edizione a cura di Nico Naldini delle Lettere 1940-1954, Torino, Einaudi
di essa ha richiamato l’attenzione Piergiorgio Bellocchio introducendo a SPS: pp. XV-XVI); quella del’71 a Paolo Volponi è contenuta in Lettere 1955-1975, Torino, Einaudi, 1988, p. 707
danzata di Ninetto Davoli è stata pubblicata nelle Note e notizie sui testi relative alla raccolta inedita L’hobby del sonetto (1971-73): in P 2, pp. 1743-45.
Sono altresì citati Antonio Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Roma, Carocci, 2005; Alfonso Berardinelli, Pasolini e la classe dir
introduzione a Lettere luterane, Torino, Einaudi 2003, pp. V-XIII; Walter Siti, Tracce scritte di un’opera vivente, in RR 1, pp. IX-XCII; Id., L’opera rimasta sola, in P 2, pp. 1897-946; Alfon
Pasolini, stile e verità, in Id., Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 149-69; Edoardo Sanguineti, La bisaccia del mend
Id. Giornalino 1973-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp. 51-4 (ma si veda pure l’intervista rilasciata a Paolo Di Stefano, Radicalismo e patologia, nella sezione dedicata a Pasolini di «Micro
pp. 213-220); la poesia di Elio Pagliarani è uscita su «l’Espresso» il 22 ottobre 1995 (ed è compresa nel suo volume Tutte le poesie 1946-2005, di prossima pubblicazione presso Gar
Giovanni Raboni in Id., Barlumi di storia, Milano, Mondadori, 2002; Marco Belpoliti, Pasolini corsaro e luterano, in «Nuovi argomenti», 21, gennaio-marzo 2003, pp. 140-61; Marc
Capelli, in Id., Pier Paolo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 67-8 (si veda poi, dello stesso autore, Parlano i capelli, in Id., Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana
ivi 2005, pp. 1-33); Aborto e omosessualità di Goffredo Parise lo leggo citato in Marco Belpoliti , Settanta, Torino, Einaudi, 2001, pp. 80 sgg. (sulla sua ideologia biopoliticheggiante
Scarpa, «In the blood, in the mood»: Parise tra Darwin e Montale, in Les illuminations d’un écrivain. In uences et recréations dans l’oeuvre de Goffredo Parise, a cura di Paolo Gross
Universitaires de Caen, 2000); la Risposta a Pasolini di Giorgio Manganelli si potrà leggere integralmente, fra breve, nel numero monogra co (il 25) che dedicherà a Manganelli l
diretta da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli ; la lettera di Italo Calvino a Manganelli del 22 gennaio 1975 è in Id., Lettere 1940- 1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio M
Mondadori, 2000, p. 1262; il libro di Giulio Sapelli (in realtà appunti da un suo corso universitario), Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, è appena uscito
Mondadori , 2005; il saggio di Enzo Golino, Tra lucciole e Palazzo. Pasolini e Moro, è uscito su «MicroMega», 3, 1994 (ma cito dalla versione ampliata, dal titolo Al di là della po
lucciole e Palazzo. Il mito Pasolini dentro la realtà, Palermo, Sellerio, 1995, pp. 15-72); esplicitamente o meno, sono in ne citati Franco Cordelli, Un fantasma sfuggente ridotto
«Corriere della Sera-Roma», 16 settembre 2005; Alessandro Carrera, Pro e contro Pasolini. Per farla nita con l’«umile Italia», in «Poesia», 145, dicembre 2000, pp. 73-6; Filippo La Port
gnostico innamorato della realtà, Firenze, Le Lettere, 2002.

Pubblicato il  19 settembre 2013

Misero e impotente Socrate, di Andrea


Cortellessa
Misero e impotente Socrate. Sul Pasolini “corsaro” e “luterano” di Andrea Cortellessa, 2005 www.zibaldo
storico)   Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche […]

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Pubblicato il  18 settembre 2013

Esce il settimo numero di «Studi pasolinia


settembre 2013
«Studi pasoliniani» n. 7, 2013 E’ disponibile il settimo numero di STUDI PASOLINIANI la prestigiosa rivist
prof. Guido Santato. Qui la pagina dedicata sul […]

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Pubblicato il  17 settembre 2013

I contributi dei partecipanti al gruppo “Pas


su Facebook, 17 settembre 2013
https://www.facebook.com/groups/pierpaolopasolini/ Si raggruppano in questo articolo diversi post rac
Angela Molteni attraverso il gruppo facebook “Pier Paolo Pasolini” e pubblicati su pasolinipuntonet.blog
17 […]

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