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HYMISKVIÐA
IL CARME DI HYMIR
LJÓÐA EDDA
HYMISKVIÐA
IL CARME DI HYMIR
- Il poema
- La trama
- La critica
- Le redazioni
- Genere e metrica
- Edizioni italiane
Il poema
Protagonista della vicenda è il dio Þórr, il quale si reca, in compagnia di Týr, nella dimora
dello jǫtunn Hymir per impossessarsi di un imponente calderone, necessario agli Æsir per preparare la
necessaria quantità di birra per i loro banchetti. Nel corso dell'avventura, Þórr viene coinvolto in una battuta
di pesca da Hymir, nel corso della quale riesce a prendere all'amo nientemeno che Jǫrmungandr, il serpente
che circonda il mondo, che però gli sfugge. Il poema sembra voler incastrare tra loro un certo numero di
vicende slegate tra loro, ragion per cui i critici lo hanno generalmente ritenuto opera di uno scaldo esperto in
poesie di occasione e non di un mitografo.
Þórr pesca Jǫrmungandr (✍ 1885)
Lorenz Frølich (1820-1908), illustrazione (Oehlenschläger 1885)
Anche il linguaggio, ricco di kenningar, mostra caratteristiche più vicine alla poesia scaldica che a quella
eddica. Per tale ragione, l'Hymiskviða, insieme all'affine Þrymskviða, sono considerati poemi piuttosto tardi,
composti in Islanda alla fine dell'XI secolo se non all'inizio del XII. Questa datazione bassa è stata anche
sostenuta per via dello spirito burlesco con cui le divinità pagane sono rappresentate nel poema. Non
mancano tuttavia voci dissezienti: il filologo Jónas Kristjánsson ha recentemente proposto una datazione più
alta: «in realtà non vi sono ragioni per cui l'Hymiskviða non possa essere assegnata a un'epoca pre-cristiana,
diciamo al tardo X secolo». (Jónas 1988).
La trama
La trama dell'Hymiskviða appare composita, con frequenti divagazioni e diversi episodi minori. Gli Æsir,
dopo aver preso della selvaggina, si mettono a mangiare, ma a questo punto sentono bisogno di innaffiare il
loro pasto con della ǫl. Una divinazione rivela loro che avrebbero trovato abbondanza di tutto presso Ægir, il
gigante marino. Þórr si reca alla dimora di costui e gli impone di fornire birra a tutti gli dèi.
Irritato, Ægir ribatte che per far ciò ha bisogno di un calderone abbastanza grande e chiede che glielo si
procuri. [1-3]
Illustrazione per l'Hymiskviða (✍ 1885)
Lorenz Frølich (1820-1908), illustrazione (Oehlenschläger 1885)
Naturalmente gli dèi non riescono a trovare quanto richiesto, finché Týr spiega a Þórr che suo padre,
lo jǫtunn Hymir, possiede un calderone davvero capiente. Servendosi di qualche astuzia, forse riusciranno a
ottenerlo [4-6]. I due perciò partono e si recano a oriente degli Élivágar, dove abita Hymir. Dopo aver
lasciato il carro di Þórr e i suoi caproni a casa di un gigante, certo Egill, Þórr e Týr arrivano a casa
di Hymir [7]. Týr incontra così i suoi parenti: la terrificante nonna con novecento teste, e la madre, assai più
aggraziata [8-9]. Hymir arriva poco dopo: è vecchio, cupo, malevolo, con la barba gelata, e non è affatto
felice di trovarsi in casa i due ospiti, dai quali prevede soltanto guai [10-14¹²]. Fa cucinare tre buoi:
ma Þórr se ne mangia due, costringendo il padrone di casa a organizzare una battuta di pesca per la cena del
giorno successivo [14²-16¹]. Il giorno successivo, Hymir e Þórr si preparano per la pesca, e Þórr uccide il
miglior toro della mandria di Hymir per approntarsi un'esca, soluzione che non diminuisce affatto il
malumore dello jǫtunn [16²-19²].
Hymir e Þórr partono sulla barca, e l'áss rema più di quanto lo jǫtunn non abbia voglia [20]. Lanciano le
lenze. Hymir tira su due balene, ma all'esca di Þórr abbocca il serpente Jǫrmungandr [21-22]. Þórr lotta con
il serpente, cercando di trascinarlo a bordo, e lo colpisce con il martello, facendo tremare la terra;
ma Jǫrmungandr gli sfugge e torna a sprofondare negli abissi [23-25].
L'impresa non ha certo migliorato l'umore di Hymir e, una volta tornati a riva, chiede a Þórr di ormeggiare la
barca o di trascinare le due balene alla fattoria: Þórr compie entrambi i lavori [26-27]. Quella
sera, Hymir provoca a più riprese il dio del tuono, sfidandolo a rompere un certo calice magico per provare
la sua forza. Þórr scaglia il calice contro le colonne della hǫll, ma riesce soltanto a spezzare la roccia [28-
29]. È la madre di Týr a suggerire a Þórr di colpire col calice la fronte di Hymir: Þórr esegue e finalmente il
calice va in pezzi [30-32]. Hymir è furioso: sfida i due æsir a sollevare il suo calderone. Týr non riesce
nemmeno a smuoverlo, ma Þórr lo afferra per i bordi, se lo mette sul capo e, pur sprofondando con i piedi
nel terreno, si allontana, con gli anelli del calderone che gli tintinnano all'altezza delle caviglie [33-34].
Gli jǫtnar, guidati da Hymir, si gettano presto all'inseguimento dei due fuggitivi, ma Þórr li stermina [35-
36]. Poco dopo, Þórr e Týr arrivano da Egill, ma non riescono a partire: uno dei caproni ha una zampa
slogata. Sebbene il responsabile sia Loki, è Egill a risarcire Þórr offrendogli i suoi due figli [37-38].
Nonostante queste disavventure, il calderone viene infine portato al þing degli Æsir, i quali, da quel
momento in poi, potranno bere ǫl a sazietà, presso Ægir, ogni inverno.
La critica
Secondo buona parte della critica, l'Hymiskviða risulterebbe essere una cucitura mal assortita di due miti
distinti: quello della cerca del calderone presso Hymir e quello della pesca del serpente Jǫrmungandr. Tale
idea è stata in parte influenzata da Snorri, il quale, nella sua Prose Edda, tratta l'episodio della pesca come
mito indipendente (Gylfaginning [48]). A loro volta, i critici hanno puntualizzato il fatto che, in questa
ridondante struttura narrativa, siano stati inseriti molti episodi minori incentrati sugli exploits di Þórr: il suo
gagliardo appetito, l'uccisione del toro, il trasporto della barca con tutto il suo contenuto, il lancio del calice
contro la testa di Hymir, l'uccisione degli jǫtnar, etc. Ciò ha portato molti studiosi a spacciare
sbrigativamente l'Hymiskviða per un poema composito e mal strutturato.
Nonostante ciò, un'analisi più attenta l'Hymiskviða mostra che gli episodi, lungi dall'essere combinati in
maniera casuale, formano una struttura perfettamente simmetrica:
La narrazione inizia e si conclude alla dimora di Ægir (punti 1 e 7), per cui si può parlare di andamento
circolare: l'organizzazione del banchetto, problematica al punto 1, viene risolta al punto 7. La dimora
di Egill (punti 2 e 6) costituisce una tappa necessaria nel percorso tra l'Ásgarðr e la terra degli jǫtnar. La
dimora di Hymir (punti 3 e 5) è teatro di due cene: nella prima Þórr sfida inconsapevolmente
lo jǫtunn divorando due tori; nella seconda è Hymir a lanciare delle sfide al dio del tuono. La pesca del
serpente Jǫrmungandr è il climax dell'intera vicenda. ①
L'analisi comparatistica, tuttavia, mostra tracce di una struttura più antica, che connetteva tra loro un buon
numero dei temi di questo racconto: dalla lotta con il serpente alla cerca del calderone. Per approfondimenti,
rimandiamo ai nostri articoli. ②
Le redazioni
Nel Codex Arnamagnæanus, l'Hymiskviða è invece il secondo poema, disposto tra il Grímnismál e i Baldrs
Draumar.
Snorri non cita alcun verso tratto dall'Hymiskviða nella sua Prose Edda, né mostra di essere a conoscenza
del poema. Racconta la vicenda della pesca del serpente Jǫrmungandr da parte di Þórr, cambiando
completamente il contesto e alcuni dettagli della vicenda (Gylfaginning [48]). Ignora del tutto l'episodio
della ricerca del calderone e fornisce una versione piuttosto diversa di quello della visita a Egill, che però
viene incastonato nel mito del viaggio di Þórr a Útgarðr ①. Un'analisi del testo snorriano evidenzia che le
sue fonti furono, con ogni probabilità, alcuni poemi scaldici (in primis la Ragnarsdrápa di Bragi Boddason e
l'Húsdrápa di Úlfr Uggason). ②
Un piccolo dettaglio della versione della vicenda narrata nel poema, sebbene non necessariamente tratto da
esso, è citato nel Fyrsta Málfrǿðiritgerðirnar.
L'Hymiskviða è un poema mitologico, di carattere eroicomico, condotto nello stile di una ballata. Come
genere è assai simile, tra i canti della Ljóða Edda, alla Þrymskviða, ed è possibile che sia stato composto
dallo stesso autore. Altri studiosi lo collegano piuttosto allo Skírnismál, sebbene le differenze con
quest'ultimo siano più marcate. Questi tre poemi sono gli unici, nella sezione mitologica della Ljóða Edda,
che narrino estesamente dei miti, invece di limitarsi a citarli, e tutti e tre descrivono dei viaggi nello
Jotunheimr.
Il linguaggio dell'Hymiskviða differisce da quello degli altri poemi eddici per via, soprattutto, dell'uso
estensivo delle kenningar, generalmente associate con la poesia scaldica. Per fare un esempio,
la Þrymskviða – che pure è il poema più simile all'Hymiskviða per genere e argomento – contiene solo
tre kenningar, tutte legate a Þórr e di tipo parentale. Nell'Hymiskviða troviamo invece non meno di
trenta kenningar, più di un terzo delle quali legate a Þórr o agli jǫtnar, mentre un paio si riferiscono al
serpente Jǫrmungandr; ve ne sono poi numerose per indicare animali, oggetti e parti del corpo, tra cui un
numero assai alto di kenningar rare. Delle quattro kenningar per «testa» presenti nel corpus eddico, tre sono
attestate in Hymiskviða [19 | 23 | 31]; la kenning per «barba» in Hymiskviða [10] è unica in entrambi
i corpora poetici, eddico e scaldico.
Questa inusuale abbondanza di kenningar, o di affini circonlocuzioni poetiche, ha permesso agli studiosi di
datare l'Hymiskviða a un'epoca piuttosto tarda, rispetto alle altre composizioni eddiche: la fine dell'XI secolo
o addirittura l'inizio del XII. È anche possibile che il poeta sia stata influenzato da qualche
perduto dróttkvætt affine, sul tipo della Þórsdrápa o dell'Haustlǫng, due composizione scaldiche che
narrano delle avventure di Þórr, anch'esse redatte con un linguaggio assai ricco di kenningar. C'è anche la
possibilità che l'Hymiskviða sia una composizione burlesca, redatta in un linguaggio scaldico
esageratamente pomposo, composta per divertire gli ascoltatori dell'XI secolo.
Il metro dell'Hymiskviða è il fornyrðislag o «metro epico», il più comune della poesia nordica. Ogni strofa è
composta da quattro «versi pieni», ciascuno costituito a sua volta di due semiversi. Le strofe sono
generalmente composte di quattro versi (cioè otto semiversi), sebbene alcune siano eccessive [11|27] e altre
difettive [6|25|26|36], cosa che ha portato alcuni autori ha proporre distribuzioni alternative
degli helmingar (semistrofe) che le compongono.
In questa pagina, per ragioni grafiche, i «versi lunghi» sono stati spezzati e i due semiversi posti su righe
differenti; in altre parole, le singole strofe, originariamente formate di quattro versi, appaiono qui disposte su
otto righe, ciascuna corrispondente a un semiverso. Ecco, per confronto, la versificazione rigorosa della
strofa [1]:
Ár valtívar veiðar námu
ok sumblsamir, áðr saðir yrði,
hristu teina ok á hlaut sáu;
hfundu þeir at Ægis ǫrkost
hvera.
Edizioni italiane
Escludendo le strofe scorporate nelle antologie, la prima traduzione integrale dell'Hymiskviða è quella di
Olga Gogala di Leesthal in Canti dell'Edda, nella «Collana di traduzioni» della UTET (Torino 1939).
Intitolata Il Canto di Hymir, la traduzione, più solenne che rigorosa, è assai curata metricamente. Le quartine
sono costituite da coppie di senari giustapposti, come a distinguere i due semiversi che in originale
compongono ogni verso. Le annotazioni rispecchiano la letteratura disponibile all'epoca.
Segue la traduzione di Alberto Mastrelli, ne L'Edda. Carmi norreni, libro della collana «Classici della
religione», edita da Sansoni (Firenze 1951, 1982). Il carme di Hymir è in versi liberi, con le coppie di
semiversi «cucite» in versi interi. Abbastanza libera, ma rigorosa, fittamente annotata.
HYMISKVIÐA
LA BALLATA DI HYMIR
HYMISKVÍÐA
IL CARME DI HYMIR
NOTE
2 — (a) bergbúi, «abitatore dei monti», è una tipica kenning per «gigante», sebbene appaia piuttosto
impropria riferita ad Ægir, personificazione dell'oceano. — (a-e) Sat... leit í augu, «la scena,
dove Þórr trova Ægir seduto fuori della sua dimora e lo fissa negli occhi ricorda una scena analoga
nella Vǫluspá, che ha per protagonisti Óðinn e la vǫlva:
Ljóða Edda > Vǫluspá [28]
— (b) barnteitr, letteralmente «felice come un bimbo», potrebbe forse riferirsi a una concezione dei giganti
come semplici o stupidi (cfr. api «scimmia», in [20]) (Eysteinn 2003). Tale immagine, che contrasta con
quella tradizionale degli jǫtnar quali esseri antichi e sapienti (esemplificata nel Vafþrúðnismál), è
probabilmente tarda. La felicità di Ægir contrasta d'altra partecon il continuo malumore
di Hymir (detto óteitr «infelice», in [25]). Si noti anche la ripetizione di barn «bimbo» al verso f. —
(d) Miskorblindi, presentato qui come il padre di Ægir, non viene nominato in altre fonti. In
genere Ægir viene detto figlio di Fornjótr e fratello di Logi e Kári (Supplementum Historiæ
Norvegicæ [c1] | Orkneyinga saga [1] | Hversu Noregr byggðist). Il nomen Miskorblindi, traducibile con
«cieco nella nebbia», potrebbe essere un epiteto riferito tanto allo stesso Fornjótr che ad altri personaggi, ed
Eysteinn Björnsson pensa piuttosto a Ymir. Nella sua traduzione Bellow scioglie il significato del nome e
rende l'intera frase come «sembrava simile a un cieco» [soon like a blinded man he seemed] (Bellows 1923).
— (f) Yggs barn, «figlio di Yggr» (dove Yggr è un heiti di Óðinn) è una kenning per Þórr. — (g-h) Il ruolo
di Ægir come birraio degli dèi è testimoniato in altri testi, soprattutto nel Lokasenna, dove gli Æsir si
riuniscono a bere ǫl nella magione di Ægir (che Snorri afferma trovarsi nell'isola di
Hlésey (Skáldskaparmál [1])). Il compilatore del Codex Regius ha collocato l'Hymiskviða prima
del Lokasenna, considerando un testo propedeutico all'altro (v. introduzione [supra]▲). Anche Egill
Skallagrímsson definisce Ægir «fabbro di birra» [ǫlsmiðr] (Sonatorrek [8]).
3 — (b) orðbæginn, espressione che compare solo qui e che significa più o meno «[colui che] provoca con
le parole». Cleasby e Vigfússon traducono con tauting, «[colui che] insulta» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). —
(e) Sifjar verr «uomo di Sif» è un'altra kenning per Þórr. Ritornerà nelle strofe [15] e [34]. È anche presente
in Þrymskviða [24].
4 — (e) Tryggð, «in fede, in verità, amichevolmente, in confidenza» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). —
(f) Hlórriði, «[colui che] cavalca con fragore», un heiti di Þórr riferito al frastuono prodotto dalle ruote del
suo carro, che è immagine metaforica del tuono tra le nuvole.
5 — Che la dimora di Hymir si trovasse «a oriente degli Élivágar» [fyr austan Élivága], «al limite del cielo»
[at himins enda], è un'interessante precisazione cosmologica. I fiumi cosmici Élivágar, in questo caso,
sembrano indicare l'úthaf, l'oceano esterno nel quale Jǫrmungandr circonda il mondo. In quanto alla formula
«alla fine del cielo» [at himins enda], viene utilizzata in Vafþrúðnismál [37] per indicare il luogo da dove
l'aquila Hræsvelgr produce i venti che soffiano sulla terra (luogo collocato da Snorri nell'estremo
settentrione (Gylfaginning [18])). Entrambe le nozioni sembrano indicare l'orizzonte, il punto dove la terra
finisce e dove l'oceano esterno diviene una nozione astronomica, forse affine all'equatore celeste o
all'eclittica. Snorri utilizza la medesima formula anche per indicare il luogo dove sorge Himinbjǫrg, la
dimora dove Heimdallr sta di sentinella, all'estremità celeste del ponte Bifrǫst (Gylfaginning [17 | 27]). ①
— (e) Týr dichiara che Hymir sia suo padre; nel seguito del racconto compariranno anche sua madre e sua
nonna. Questa notizia contrasta con un'affermazione di Snorri che, nell'elencare le kenningar di Týr,
definisce quest'ultimo son Óðins «figlio di Óðinn» (Skáldskaparmál [16]), notizia piuttosto frettolosa e non
altrimenti giustificata. Che Týr sia figlio di uno jǫtnar, sulla base degli elementi forniti dall'Hymiskviða,
sembra difficile da negare. Nondimeno alcuni interpreti hanno cercato di «ammorbidire» tale scomoda
discendenza: è il caso di Lee Milton Hollander che ha emendato il testo del poema sostituendo, in
traduzione, father con kinsman, segnalando peraltro in nota che la sposa di Hymir potesse essere una dea
unita al gigante contro la sua volontà (Hollander 1928). ② — (g) rúmbrugðinn è «esageratamente vasto».
— (h) Il rǫst, o «miglio» vichingo, sembra misurasse poco più di 11 km.
6 — (c) Vél è «artificio, artigianato», ma anche «trucco, astuzia, inganno». Il verbo véla (o væla) ha, come
significato principale, «frodare, imbrogliare» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). — Sia nel Codex Regius (ms. R),
sia nel Codex Arnamagnæanus (ms. A), questa strofa e alcune delle successive vengono ripartite in maniera
piuttosto irrazionale: [6-7¹ | 7²-8¹ | 8²-9¹ | 9²-10¹ | 10²-11] (i numeri in esponente indicano gli helmingar).
7 — (a-b) Il Codex Arnamagnæanus (ms. A) riporta una piccola variazione nel secondo semiverso che
cambia, sebbene di poco, il senso del verso: «Viaggiarono decisi / velocemente tutto il giorno» [fóru
drjúgan / dag fráliga]. — (c) Questa è una delle due sole occorrenze del toponimo Ásgarðr nella Ljóða
Edda; l'altra è in Þrymskviða [18]. Un'altra indicazione che, nel corpus eddico, l'Hymiskviða e
la Þrymskviða sono da considerarsi le due composizioni più tarde, risalenti forse all'XI secolo, un'epoca in
cui la letteratura gnomico-sapienziale dei þulir aveva lasciato il posto alle ballate mitologiche. — (d) Il
nome di Egill è attestato come <Egils> nel Codex Regius (ms. R), ma appare nella lezione
<Ægis> nel Codex Arnamagnæanus (ms. A). Il lapsus scribale è probabilmente dovuto al fatto che la scena
si è spostata dalla dimora di Ægir a quella di Egill; l'errore potrebbe anche essere indicativo di una possibile
natura soprannaturale, jǫtunica, dello stesso Egill. (Eysteinn 2006) — (d-f) Il testo non specifica la ragione
per cui Þórr e Týr lascino carro e caproni a casa di Egill. Per Þórr è evidentemente impossibile proseguire
con il carro attraverso l'úthaf, che qui sembra identificarsi con i fiumi cosmici Élivágar. Non dimentichiamo
che Þórr è quotidianamente costretto a guadare una serie di fiumi celesti (l'Ǫrmt, il Kǫrmt e i due Karlaugar)
per recarsi al þing degli Æsir, perché il suo carro non può accedere al ponte Bifrǫst, né, evidentemente, può
oltrepassare quei corsi d'acqua (Grímnismál [29]). La sosta presso Egill è forse legata a qualche ragione
analoga: carro e caproni non possono guadare gli Élivágar e arrivare at himins enda, «al limite del
cielo». (Eysteinn 2003). Si noti che una situazione analoga si verifica durante il viaggio
di Þórr verso Útgarðr, narrato da Snorri (Gylfaginning [44]): anche qui il dio del tuono parcheggia carro e
caproni alla dimora di un anonimo fattore – in un episodio che è chiaramente un doppione di questo presente
nell'Hymiskviða – prima di attraversare l'úthaf. ①
9 — (c e h) Hugr, un termine dall'ampio arco semantico: «intelligenza, animo, coraggio»; indica in un certo
senso le qualità raziocinanti e spirituali dell'individuo. Il gigante Hugi, che nel racconto di Snorri
sfida Þjálfi in una gara di corsa, si rivela essere l'emanazione dell'hugr di Útgarðaloki (Gylfaginning [46-
47]). In questo caso, ai due æsir, detti hugfulla, «pieni di hugr», quindi di senno, coraggio, intelligenza, si
contrappone Hymir, ills hugar, «di cattivo, malevolo hugr». — (e) fríi è «amante, marito, compagno»;
curiosamente la lezione <mí frí> è presente solo nel Codex Regius (ms. R); il Codex
Arnamagnæanus (ms. A) ha invece <min fað> (abbreviazione di minn faðir, «mio padre»). Tra gli studiosi,
Finnur Jónsson accoglie la seconda lettura, sebbene lo costringa a emendare faðir («padre») in afi («nonno»)
nella strofa [5] (Jónsson 1926). Eysteinn Björnsson si chiede ironicamente perché sia tanto difficile accettare
che Týr sia áttniðr jǫtna, «prole di giganti», così come lo saluta la madre nel primo semiverso di questa
strofa (Eysteinn 2003).
11-19 — Nelle seguenti strofe l'argomento del secondo helming si conclude ogni volta nel
primo helming della strofa successiva. Per tale ragione seguiamo qui la suddivisione delle strofe secondo il
suggerimento di Gustav Neckel: [11¹ | 11²-12¹ | 12²-13¹ | 13²-14¹ | 14²-15¹ | 15²-16¹ | 16²-17¹ | 17²-18¹ | 18²-
19¹ | 19²] (Neckel 1962).
11¹ — frilla è contrazione di friðla, «amica, compagna, concubina». — (b) í hugum góðum, «in buon hugr»,
contrasta con l'ills hugar, «di cattivo hugr», della strofa [8]. — (c-f) sonr [...] sá er vit vættum, «il figlio [...]
che abbiamo atteso»: in questo duale vit (che include Hymir e la sua frilla), così come nella
giustapposizione di sonr e sala þinna (che implica «tuo figlio»), Eysteinn Björnsson vede citato un mito
perduto. L'impressione è che Týr abbia abbandonato la sua casa molto tempo prima e sia andato a vivere
in Ásgarðr, forse in qualità di ostaggio (Eysteinn 2003). Non dimentichiamo tuttavia che è stato Týr stesso a
consigliare Þórr di agire con l'inganno e l'astuzia nei confronti di Hymir : un dettaglio che fa pensare a un
rapporto non certo idilliaco tra padre e figlio.
13²-14¹ — (c) gýgjar græti, «[colui che] fa piangere le donne dei giganti» (gýgr è termine specifico per
gigantessa, strega, femmina troll): kenning per Þórr.
14²-15¹ — (g) senn, «subito; il Codex Arnamagnæanus (ms. A) presenta invece la lezione <svn>, che
potrebbe essere tanto un lapsus del copista, quanto un accusativo di sunr (variante di sonr, «figlio»); in
questo caso il senso della frase verrebbe ad essere: «lo jǫtunn ordinò al figlio [Týr] che andasse a cucinarli».
— (c) seyðir, una sorta di forno di terra, dove la carne veniva messa a cuocere tra le pietre infuocate; la fossa
veniva poi ricoperta fino alla completa cottura.
15²-16¹ — (f) Át [...] øxn tvá, «divorò due buoi»: lo smodato appetito di Þórr è un tratto tipico del dio-tuono,
ben presente anche nei personaggi omologhi in altre mitologie. In Þrymskviða [24], Þórr mangia un bue
intero. L'aver raddoppiato la porzione, in questo testo, è forse un indizio che il poeta dell'Hymiskviða aveva
ben presente l'altro carme e procede esagerando, con voluta ironia, il motivo ben noto della voracità di Þórr.
Inoltre, non solo l'áss divora due buoi, ma li ingoia með ǫllu, «con tutto quanto», cioè carne, ossa, grasso
(analogamente a come si comporta Logi in Gylfaginning [46]). Contribuisce alla vis comica della scena
l'indispettita contrarietà di Hymir. — (b) Hrungins spjalla, «confidente di Hrungnir», una ovvia kenning per
indicare Hymir, dove Hrungnir è in gigante ucciso da Þórr in Skáldskaparmál [25-26]; spjalli è colui che
parla, bisbiglia si confida a un amico.
17²-18¹ — (g) berg-Danir, «Danesi delle montagne»: curiosa kenning per «gigante», che il compositore cita
probabilmente da Þjóðólfr ór Hvíni, il quale la usa con intento polemico (Haustlǫng [18]); il «distruttore dei
Danesi delle montagne» è Þórr. — (b) þurs ráðbani, «uccisore dei þursar [giganti]», altra kenning per
indicare Þórr. Nel diritto scandinavo, il ráðbani è però colui che complotta, pianifica, suggerisce l'omicidio,
opposto all'handbani, che ne è l'esecutore materiale. L'uso di questa parola sembra implicare che, nel caso
di Þórr, uccidere i giganti non sia soltanto una questione di hýbris, ma un'azione perseguita e compiuta
deliberatamente. La responsabilità del dio del tuono è dunque ideologica.
18²-19¹ — (e) sveinn, «ragazzo, giovane»: questo sostantivo, attribuito a Þórr, così come il mǫgr, «figlio»,
attribuito a Týr nella strofa [8], sottolineano la giovane età degli æsir rispetto alla solenne antichità
degli jǫtnar, nati all'inizio del mondo. — (c-d) hátún ofan / horna tveggja, “l'alta fortezza delle due
corna”: kenning per indicare la testa del toro. — Snorri, nella sua versione dell'episodio, fornisce il nome del
bue, Himinhrjótr, e aggiunge che era il più grande della mandria di Hymir:
Hann spurði Ymi hvat þeir skyldu hafa at beitum, en Chiese dunque a Hymir che cosa avrebbero usato
Ymir bað hann fá sér sjálfan beitur. Þá snerisk Þórr come esca, e Hymir gli disse di procurarsi da solo la
á braut þangat er hann sá øxnaflokk nǫkkvorn er sua. Þórr si allontanò e si recò dove aveva visto la
Ymir átti. Hann tók hinn mesta uxann, er mandria di buoi che apparteneva a Hymir. Prese il
Himinhrjótr hét, ok sleit af hǫfuðit ok fór með til bue più grande, chiamato Himinhrjótr, gli mozzò la
sjávar. testa e la portò con sé verso il mare.
Nel nostro testo non viene detto che il toro ucciso da Þórr fosse il più grande o il preferito di Hymir, sebbene
il rancore e il malanimo dello jǫtunn, nella battuta successiva, siano più che manifesti.
19² — Hymir rimprovera a Þórr di combinare guai sia quando siede tranquillo a cena (mangiando
spropositatamente), sia quando si accinge a compiere qualche lavoro (uccidendo in questo caso il toro,
azione che giudica assai peggiore). — (g) kjóla valdi, «padrone delle navi». Quasi tutti i traduttori
considerano questa espressione una kenning per Þórr, sebbene non si conosca alcuna ragione che giustifichi
tale epiteto (Thorpe 1866 | Bellows 1923 | Hollander 1962 | Larrington 1996); anche Patricia Terry, che
traduce impropriamente lord of sea, attribuisce tale espressione a Þórr (Terry 1969). Questa è anche la
soluzione dei traduttori italiani: «nocchier del naviglio» (Di Leesthal 1939); «signore delle
chiglie» (Mastrelli 1951); «signore delle navi» (Scardigli ~ Meli 1982). Il sostantivo valdi è variante
di valdr, espressione del Lexicum Poëticum che Cleasby e Vigfússon traducono con wielder,
keeper (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Ma come nota Eysteinn Björnsson, valdi potrebbe anche essere un
dativo: dunque non «o padrone delle navi» (vocativo), ma «al padrone delle navi». In tal caso Hymir si
riferisce a sé stesso, non a Þórr. Il parlare di sé stessi in terza persona non è inconsueto nella letteratura
nordica. (Eysteinn 2003) — Se il proposto riassemblamento degli helmingar delle strofe [11-19] rispecchia
l'originale distribuzione dei versi, allora la strofa [19] è difettiva. La supposta lacuna, che in tal caso
interessa un intero helming, riguarderebbe la partenza della barca. L'episodio è presente in Snorri con un
breve passaggio:
Hafði þá Ymir út skotit nǫkkvanum. Þórr gekk á Hymir aveva già spinto in acqua il nǫkkvi. Þórr salì
skipit ok settisk í austrrúm, tók tvær árar ok røri, ok in barca e si sedette a poppa, prese due remi e
þótti Ymi skriðr verða af róðri hans. cominciò a remare. A Hymir parve che le sue vogate
producessero una buona velocità.
Hymir reri í hálsinum fram ok sóttisk skjótt róðrinn.
Sagði þá Hymir at þeir váru komnir á þær vaztir er Hymir remava a prua e la navigazione procedeva
hann var vanr at sitja ok draga flata fiska. En Þórr spedita. A un certo punto Hymir disse che erano
kvezk vilja róa miklu lengra, ok tóku þeir enn giunti nelle acque dove intendeva fermarsi a pescare
snertiróðr. Sagði Ymir þá at þeir váru komnir svá sogliole, ma Þórr disse che voleva spingersi ancora
langt út at hætt var at sitja útar fyrir Miðgarðsormi. più al largo e fecero un altro breve sforzo. Osservò
En Þórr kvezk mundu róa eina hríð, ok svá gerði, en allora Hymir che erano giunti così lontano che
Hymir var þá allókátr. sarebbe stato pericoloso spingersi oltre per via
del Miðgarðsormr, ma Þórr rispose che intendeva
andare avanti ancora un poco, e
procedette. Hymir era molto turbato.
In realtà nulla prova che vi sia realmente una lacuna in questo punto, tanto più che il passaggio di Snorri non
comprende alcun episodio significativo. Questi «salti» narrativi sono piuttosto comuni nelle composizioni
eddiche.
20 — Questa strofa presenta tre kenningar animali nei primi tre versi. — (a) hlunngoti, «destriero dei
rulli», kenning per «nave». I hlunnar erano i rulli su cui si facevano scivolare le imbarcazioni quando
venivano varate; avevano questo nome anche i supporti su cui venivano deposte le chiglie delle navi quando
venivano tirate in secca; goti indica in questo caso un «cavallo gotico», un destriero particolarmente
apprezzato dai popoli germanici. Goti era anche un nome proprio comunemente dato ai cavalli (cfr. il
destriero di Gunnarr nella Vǫlsunga saga). In letteratura sono attestate molte analoghe kenningar per
«nave»: hlunndýr, hlunnfákr, hlunnjór, hlunnvigg, hlunnvitnir, hlunnvísundr (rispettivamente «cervo,
ronzino, stallone, destriero, lupo, bisonte dei rulli»). — (b) hafra dróttinn, «signore dei
caproni», kenning per Þórr. — (c) áttrunnr apa, «congiunto di scimmia», kenning per «jǫtunn». — (e-h)
L'Hymiskviða non spiega la scarsa voglia di continuare a remare manifestata da Hymir. Snorri spiega invece
che lo jǫtunn temeva di spingersi troppo al largo per paura di incontrare Jǫrmungandr:
Sagði Ymir þá at þeir váru komnir svá langt út at Osservò allora Hymir che erano giunti così lontano
hætt var at sitja útar fyrir Miðgarðsormi. En Þórr che sarebbe stato pericoloso spingersi oltre per via
kvezk mundu róa eina hríð, ok svá gerði, en Hymir del Miðgarðsormr, ma Þórr rispose che intendeva
var þá allókátr. andare avanti ancora un poco, e
procedette. Hymir era molto turbato.
Snorri anticipa che lo scopo della spedizione di Þórr era proprio chiudere i conti con il Miðgarðsormr. Nel
poema, invece, l'incontro del dio del tuono con il serpente non viene mai premesso e il momento in
cui Jǫrmungandr abbocca all'amo appare come un improvviso coup de théâtre al centro di una trama di
argomento apparentemente differente. Non si può tuttavia negare che, nel procurarsi un'esca tanto
particolare, Þórr accarezzasse un suo progetto particolare, di cui non aveva fatto parola con nessuno.
21 — Il prendere all'amo due balene è qui come una divertente esagerazione. Un risultato ben diverso da
quanto scriveva Snorri nel Gylfaginning dove Hymir intendeva piuttosto pescar sogliole. D'altre parte,
l'Hymiskviða descrive Hymir come un essere minaccioso, di statura possente e di carattere malevolo e
violento, cosa che rende piuttosto comica la sua continua insofferenza di fronte ai continui guai che gli
combina Þórr. Snorri, invece, tratteggia Hymir come un personaggio piuttosto pavido e remissivo: quasi una
vittima di Þórr, piuttosto che un suo antagonista.
Miðgarðsormr gein yfir oxahǫfuðit en ǫngullinn vá í Il Miðgarðsormr ingoiò la testa del bue, ma l'amo si
góminn orminum. En er ormrinn kendi þess, brá conficcò nelle fauci del serpente. Quando il serpente
hann við svá hart at báðir hnefar Þórs skullu út á se ne accorse, tirò con tanta forza che entrambi i
borðinu. Þá varð Þórr reiðr ok fǿrðisk í ásmegin, pugni di Þórr urtarono contro il bordo della
spyrndi við svá fast at hann hljóp báðum fótum barca. Þórr era furioso, crebbe nel suo ásmegin e si
gǫgnum skipit ok spyrndi við grunni, dró þá orminn piantò con tanta forza che sfondò la barca con
upp at borði. En þat má segja at engi hefir sá sét entrambi i piedi e colpì il fondale del mare e tirò
ógurligar sjónir, er eigi mátti þat sjá er Þórr hvesti quindi il serpente su a bordo. Si può ben dire che
augun á orminn en ormrinn starði neðan í mót ok non abbia mai assistito a scene terribili chi non vide
blés eitrinu. con quali occhi Þórr guardava il serpente, che lo
fissava dal basso, stillando veleno.
Unica differenza, in Snorri Þórr sfonda la chiglia del nǫkkvi e arriva a urtare con i piedi il fondale
dell'oceano. Nella lotta con il serpente, il dio del tuono sembra assumere una statura cosmica, quasi una
premessa al combattimento escatologico tra i due avversari, destinato a concludersi nell'atmosfera
apocalittica del ragnarǫk.
23 — (b) dáðrakkr Þórr («il vigoroso Þórr»): questo verso difettivo, di tre sillabe, fa pensare alla presenza
di una forma arcaica Þóarr (< *Þonarr); cfr. gammleið Þóarr skǫmmum (Þórsdrápa [2]) (Eysteinn 2003).
— (f) háfjall skarar, «sommo della chioma»: una kenning per indicare la testa. In particolare, skǫr è una
chioma tagliata a scodella intorno al capo, secondo un'acconciatura tipicamente medievale: termine usato
unicamente per la capigliatura maschile, mai femminile (Eysteinn 2003). L'espressione è quanto mai
incongrua per indicare la testa di un rettile. — (g) hnít-broðir, «fratello di scontri»; espressione non facile da
decifrare: il verbo hníta vuol dire «scontrarsi, battersi, ferirsi a morte»; la radice hnít- viene usata in
diverse kenningar per indicare la battaglia (es. hnit-hjǫrva, «scontro di spade», hnit-fleina, «scontro di
aste»). Tuttavia il serpente Jǫrmungandr e il lupo Fenrir non sono solo fratelli carnali, figli
di Loki ingravidato dal cuore di Angrboða, ma si schiereranno fianco a fianco nel ragnarǫk per combattere
rispettivamente contro Þórr e Óðinn. — Anche in Snorri Jǫrmungandr torna a sprofondare nell'oceano, ma a
causa dell'intervento di Hymir:
Þá er sagt at jǫtunninn Hymir gerðisk litverpr, Si dice che lo jǫtunn Hymir divenne pallido, livido,
fǫlnaði ok hræddisk er hann sá orminn ok þat er e fu preso dal terrore quando vide il serpente, mentre
særinn fell út ok inn of nǫkkvann. Ok í því bili er l'acqua di mare si scaraventava dentro e fuori
Þórr greip hamarinn ok fǿrði á lopt, þá fálmaði il nǫkkvi. Proprio quando Þórr afferrò il martello e lo
jǫtunninn til agnsaxinu ok hjó vað Þórs af borði, en sollevò in aria, il gigante prese il suo coltello da
ormrinn søktisk í sæinn. En Þórr kastaði hamrinum pesca e tagliò la lenza di Þórr dal capo di banda, così
eptir honum, ok segja menn at hann lysti af honum il serpente sprofondò di nuovo nel mare. Þórr gli
hǫfuðit við grunninum, en ek hygg hitt vera þér satt scagliò dietro il martello e alcuni dicono che gli
at segja at Miðgarðsormr lifir enn ok liggr í umsjá. abbia staccato la testa sotto le onde, ma io penso
En Þórr reiddi til hnefann ok setr við eyra Ymi, svá invece che il Miðgarðsormr sia ancora vivo e
at hann steyptisk fyrir borð ok sér í iljar honum. En giaccia sul fondo del mare che circonda la
Þórr óð til lands. terra. Þórr roteò quindi il pugno e lo affibbiò
all'orecchio di Hymir, tanto da farlo volare fuori
dalla barca e vedere le piante dei suoi piedi.
Poi Þórr guadò fino a terra.
Snorri trae le sue fonti da alcune composizioni scaldiche, da lui stesso citate nello Skáldskaparmál: in
particolare la Ragnarsdrápa di Bragi Boddason (IX sec.), tramandata integralmente, l'Húsdrápa di Úlfr
Uggason (~ 985), di cui conosciamo alcune strofe, più altri poemi degli scaldi Ölvir hnúfa (IX sec.),
Gamli gnævaðarskáld (X sec.) ed Eysteinn Valdason (~ 1000), di cui sono pervenuti solo pochi frammenti.
Per i dettagli si veda il relativo articolo. ①
27 — (c) austr è l'acqua di sentina depositata sul fondo dell'imbarcazione; così, l'austker o austrsker citato
pochi versi più in basso è la gottazza, ovvero la paletta di legno utilizzata per liberare la barca dall'acqua
(aggottaggio). — (d) lǫgfákr, «ronzino del mare»: kenning per «barca»; fákr è un cavallo
monorchide (Cleasby ~ Vigfússon 1874). — (i-j) holtriða hver, il significato di questa espressione è poco
chiaro ed è possibile che il testo sia corrotto (il ms. R riporta la lezione holtriba, che è senza senso). Si
ritiene che *holtrið significhi «crinale boscoso» (Cleasby ~ Vigfússon 1874), ma non è facile capire il senso
dell'associazione di questa parola con il successivo termine hver(r), «calderone». S'intende che Þórr sta
portando le balene al calderone di Hymir, dove dovranno essere bollite? Improbabile:
nell'Hymiskviða il hverr sembra deputato unicamente alla fabbricazione della birra e i tre buoi della sera
precedente erano stati cotti nel seyðir. Altra possibilità – ed è perlopiù questa la scelta dei traduttori – è
che hverr indichi una concavità del terreno sotto il crinale, sulla strada per la fattoria di Hymir. La corruttela
del testo non permette di sciogliere il significato preciso dei due versi.
28 — (h) kálk, «calice». Forestierismo dal latino calix, attraverso l'antico inglese calic. Il termine ricorre
anche in Atlakviða [35], in Sigurðarkviða in skamma [29] e in Rígsþula [32]. Da sottolineare il hrímkálkr
fullr forns mjaðar, «calice di brina colmo dell'antico mjǫðr», offerto da Gerðr a Skírnir in Skírnismál [37],
come anche, con identica formula, da Sif a Loki in Lokasenna [53]. Il kálk di Hymir è ovviamente un
oggetto magico, composto in vetro e cristallo, ma reputato infrangibile.
29 — (d) brattstein, «ripida pietra»: l'espressione può indicare tanto la parete rocciosa di una caverna,
quando una colonna o un pilastro. Nel primo caso, Þórr lancia il calice dapprima contro la parete,
danneggiando quest'ultima, poi contro le colonne della hǫll (le quali erano solitamente di legno). È tuttavia
probabile che i due helmingar di questa strofa riportino un medesimo evento: Þórr ha dunque lanciato il
calice di vetro una sola volta, spaccando una colonna, o forse un pilastro di pietra, mentre il calice torna
intatto nelle mani di Hymir.
31 — Curiosa la costruzione di questa strofa, nella quale Þórr colpisce con il calice il cranio di Hymir. Il
colpo, vibrato tra una semistrofa e l'altra, non viene infatti narrato, come se gli spettatori non fossero riusciti
a vederlo, né il poeta a narrarlo, tanto è stato fulmineo. Nel primo helming il dio del tuono sta chiamando a
raccolta tutta la sua potenza per scagliare il calice e nel secondo helming già ne stiamo vedendo i risultati: il
proiettile è arrivato a segno, il cranio dello jǫtunn ha incassato il colpo e il calice è in frantumi. —
(d) ásmeginn, la «potenza divina» caratteristica degli Æsir. — (f) hjalmstofn, «sostegno
dell'elmo»: kenning per «testa».
32 — (h) þú ert, ǫlðr, of heitt, letteralmente «sei tu, birra, già fermentata»; il verbo heita è infatti «fabbricare
[birra]». Questa frase potrebbe essere letta in diversi sensi. Forse il calice che è appena andato in frantumi
aveva la magica virtù di riempirsi di birra al comando di Hymir: un motivo fiabesco ben noto. Tuttavia nel
nostro racconto l'inesauribile recipiente di ǫl non è il calice, ma il calderone. Dunque Hymir ha perduto il
suo magico calderone in una sorta di scommessa? La sfida formulata nella strofa successiva va in questa
direzione.
34 — (a) Faðir Móða, «il padre di Móði», è una kenning per Þórr. — (c-d) ok í gegnum steig / gólf niðr í
sal: quasi tutte le traduzioni di questa coppia di semiversi descrivono una fuga di Þórr attraverso
la hǫll di Hymir. Così nelle traduzioni inglesi: «and before it stood on the floor below» (Bellows 1923);
«strode down the hall and out the door» (Terry 1969); «and rolled it along down onto the hall
floor» (Larrington 1996); ma anche in quelle italiane: «e scese dal podio fin giù nella sala» (Di Leesthal
1939); «ed attraversato l'atrio scese nella sala» (Mastrelli 1951); «e s'avviò verso l'atrio, giù nella
sala» (Scardigli ~ Meli 1982). I nostri traduttori hanno dunque diviso la hǫll di Hymir in due parti: la salr,
«sala», dove Þórr si impossessa del calderone, e il golf, tradotto con «atrio», dove Þórr si dirige subito per
guadagnare la porta. In realtà, come nota Eysteinn Björnsson, i traduttori si sono scontrati con l'ambiguità
della parola gólf, che vuol dire «stanza, appartamento, sala», ma anche, come significato principale,
«pavimento». Dunque gólf i sal non è altro che il pavimento del salone. Invece il verbo stíga vuol dire, sì,
«compiere dei passi» (cfr. inglese to step), ma anche in senso orizzontale e verticale, quindi «salire» [upp-
stíga] e «scendere» [niðr-stíga]. Il movimento di Þórr, in questi due versi, non è dal fondo della sala verso la
porta, ma dall'alto verso il basso, con i piedi che profondano nel pavimento. Commenta Eysteinn: «Sebbene
il significato di queste parole sia ovvio, almeno ai parlanti islandese, esse sono state travisate e mal tradotte
da un numero sorprendentemente alto di curatori e traduttori, nessuno dei quali era islandese [...].
L'espressione stíga niðr í gegnum gólf esprime un movimento strettamente verticale e non può essere inteso
come «si mosse attraverso la sala», frase che esprime invece un movimento orizzontale. Eppure il significato
di questo verso sarebbe stato immediatamente compreso, senza ombra di dubbio, da tutti gli
islandesi» (Eysteinn 2003). A difesa dei traduttori va però notato che il correre subito verso le porte
della hǫll di Hymir, trasportando il calderone, è un'azione perfettamente coerente con il contesto della
narrazione, quasi ovvia nella meccanica del testo. Questo elemento di passaggio ora viene a mancare: nella
strofa successiva, infatti, Þórr è già lontano dalla dimora di Hymir. Al contrario, lo sprofondare dei piedi
di Þórr nel pavimento è solo una nota di colore, dal quale risultano tanto il peso del paiolo quanto la forza
del dio del tuono, e non ha conseguenze sul resto della narrazione. — (g-h) Il calderone è talmente capiente
che ricopre completamente Þórr e gli anelli fissati sul bordo – che venivano utilizzati come manici – gli
tintinnano all'altezza dei piedi. Questa scena è ricordata nel Fyrsta Málfrǿðiritgerðirnar, il «Primo trattato
grammaticale», dove, tra i molti esempi linguistici dove si evidenziano le coppie di consonanti contrastive
della lingua norrena, ne leggiamo una che suona così:
Hǫ’ dó, þá er Hǫlgatrǫll dó, en heyrði til hǫddo, þá Una [donna] alta morì [hǫ’ dó] quando
es Þórr bar hverinn. morì Hǫlgatrǫll, ma si udiva il manico [hǫddo]
quando Þórr portava il calderone
Fyrsta Málfrǿðiritgerðirnar [90:20]
35 — C'è qui uno «stacco» con la strofa precedente: Þórr e Týr sono in fuga, a una certa distanza dalla
dimora di Hymir. Non sono ancora arrivati alla casa di Egill e non hanno ancora recuperato il carro trainato
dai caproni. — (a) Fóru lengi, «avevano viaggiato a lungo», è qui usualmente emendato in fórut lengi,
«non avevano viaggiato a lungo», similmente a quanto leggiamo in [37a]. — (e) Il termine hreysi significa
letteralmente «mucchi di pietre»; Cleasby e Vigfússon lo considerano sinonimo dell'islandese urð «macerie,
pietraia, mucchio di detriti», ma traducono skríða í reysi come «sgattaiolare in una tana»; d'altra parte, il
termine ha anche il significato secondario di «catapecchia, tugurio» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Curioso
notare che, nel tradurre questa parola, gli studiosi inglesi hanno proposto rese assai discordanti:
«caverns» (Thorpe 1866), «cairns» (Bray 1908), «caves» (Bellows 1923), «lair» (Terry 1969),
«hills» (Hollander 1962), «cliffs» (Larrington 1996), le ultime due considerate scorrette da Eysteinn
Björnsson (Eysteinn 2003). I traduttori italiani hanno reso hreysi rispettivamente con «caverne» (Di Leesthal
1939 | Mastrelli 1951) e «massi» (Scardigli ~ Meli 1982). Stante la convergenza di significati, è fuor di
dubbio che il testo si riferisca alle tradizionali dimore degli jǫtnar, generalmente situate all'interno di rocce e
montagne. — (h) folkdrótt [...] fjǫlhǫfðaða, «una schiera dalle molte teste»: possiamo dare a questa
espressione due possibili letture: la schiera che sta sopraggiungendo è formata da una moltitudine di jǫtnar,
oppure è composta da esseri dotati di molte teste.
36 — (e) hraunhvalr, «balena della pietraia», curiosa kenning per «jǫtunn». Come le balene sono i giganti
del mare, così gli jǫtnar sono le balene degli aspri campi di lava. Si veda l'espressione hraunbúi, «abitatore
della pietraia», analoga kenning presente alla strofa [38]. La lezione del ms. R, <hrꜹ́ n vala> non ha molto
senso.
37 — Altro «stacco»: Þórr e Týr, dopo aver sgominato gli jǫtnar, sono evidentemente passati dalla casa
di Egill dove hanno recuperato il carro e i caproni: gli animali sono stati aggiogati al carro ma, percorso un
breve tratto, uno è caduto al suolo, impossibilitato a proseguire il viaggio. — (e-f) Entrambi i manoscritti
riportano una lezione comune, che non sembra però avere molto senso: <var scıR scꜹkvls scacr abaNı>
(ms. R), e <var skıRr skꜹkvls skaKr a baNı> (ms. A). La lezione skirr, «compagno», sebbene accettata da
alcuni interpreti (Detter 1903) è stata tuttavia rifiutata dalla maggior parte dei moderni curatori e viene
solitamente accolto il suggerimento del linguista Rasmus Christian Rask (1787-1832), che ha emendato la
parola in skær «destriero». In verità quest'ultima parola, utilizzata come radice in kenningar per «lupo» o
«nave», non sembra adattarsi molto bene a un ovino: ma poiché il carro di Þórr è trainato da due caproni,
l'espressione skær skǫkull, «destriero della stanga», potrebbe significare, generalizzando, «animale da tiro».
Analogamente, la parola banni, «proibizione», è stata emendata da Rask in beini «osso», così da
ottenere skakkr á beini, «distorsione, slogatura dell'osso» (Rask 1818). Tale correzione, sebbene non
convinca appieno tutti gli studiosi, è stata comunemente accettata anche sulla base dell'omologo racconto
riferito da Snorri nella Prose Edda, dove uno dei caproni di Þórr rimane azzoppato perché Þjálfi,
incautamente, ne ha inciso un osso col coltello per estrarne il midollo (Gylfaginning [44]). — (g-h) lævíss,
«sapiente negli inganni», epiteto di Loki, al quale viene assegnata qui la colpa dell'azzoppamento del
caprone, sebbene il personaggio non compaia mai nel testo. Non si capisce neppure perché sia Egill a farsi
carico della responsabilità. L'esito è tuttavia il medesimo nelle due fonti: i suoi due figli
(Þjálfi e Rǫskva in Gylfaginning [44]) verranno ceduti a Þórr quali suoi servitori, come ricompensa per il
danno subìto dal caprone (v. strofa successiva).
38 — (a) ér, «voi»: questo passo, dove il poeta si riferisce direttamente al suo uditorio, è praticamente unico
nella poesia eddica e stilisticamente più in linea con quella scaldica (Eysteinn 2003). — (b-c) hverr [...]
goðmálugra, «chi conosce le storie degli dèi», «mitologo», a meno che hverr non vada letto come pronome
interrogativo. — (e) hraunbúi, «abitatore della pietraia». Questa kenning, riferita a Egill, lo qualifica come
un þursar, un ruvido gigante delle rocce, dettaglio che spiegherebbe la sua presenza ai confini del
mondo.
39 — (e) véar, i «santi», cioè gli dèi. Il significato originale di vé è «casa, dimora» (la parola è corradicale
col greco oîkos e col latino vicus), termine è utilizzato per lo più in poesia, in espressioni quali alda
vé, «casa dell'uomo» (kenning per indicare la terra), o vé mana, «dimora della luna» (a indicare il cielo). La
parola è però spesso usata nell'accezione di «luogo sacro» (cfr. sassone wih «tempio»), come
nell'espressione giuridica vega víg í véum, «uccidere un uomo in un luogo sacro» (tempio, santuario,
assemblea, etc.). Il derivato véi significa invece «consacrato, sacerdote» (Wulfila rende col gotico weiha il
greco hiereús, «sacerdote»; egli utilizza anche diverse parole derivate, tra cui weis, «santo», e weihiþa,
«santità»). Come nome proprio, Vé, «santo», è uno dei due fratelli di Óðinn (l'altro è Vili, «volontà»). Si
noti che questo è l'unico passo di tutta la letteratura antico-nordica dove il termine vé è attestato al plurale.
— (f) eitrhǫrmeitiðr, l'espressione che chiude il poema, è una kenning particolarmente ardua, formata da tre
termini: (α) eitr, «veleno»; (β) hǫrr, «lino»; (γ) meitiðr, «[colui che] taglia». Se la «velenosa [fune] di lino»
è una kenning per il serpente, «colui che taglia il serpente» potrebbe essere l'inverno: secondo un'antica
credenza, infatti, i serpenti morivano in inverno per rinascere in estate. Aiutano a decifrare questa
lambiccatissima kenning alcuni esempi tratti dalla letteratura scaldica: il termine hǫrr («lino») è utilizzato un
paio di volte per indicare le corde dell'arco; il serpente è chiamato eitr-þvengr «fune velenosa» in due tarde
composizioni; e infine abbiamo alcuni versi di Arnórr Þórðarson jarlaskáld (XI sec.), conservati
nel XX capitolo della Orkneyinga saga, che qui riportiamo nella traduzione di Marcello Meli (Meli 1997):
Questa kenning sembra innescare una relazione significativa tra l'inverno, stagione fatale ai serpenti, e la
lotta di Þórr contro Jǫrmungandr, necessaria per avere il calderone di Hymir. Ciò che gli Æsir stanno
celebrando è la conservazione dell'ordine cosmico, da essi garantito, e la temporanea vittoria contro le forze
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