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William R. Lethaby
Architettura,
misticismo e mito
William R. Lethaby
Architecture, Mysticism and Myth, 1891
Solos Press, Melksham, Wiltshire (UK) 1994
Prefazione 3
Introduzione 5
CAPITOLO PRIMO
Il tessuto del mondo 12
CAPITOLO SECONDO
Il microcosmo 32
CAPITOLO TERZO
Il quadrato 50
CAPITOLO QUARTO
Al centro della Terra 65
CAPITOLO QUINTO
L’albero dei gioielli 85
CAPITOLO SESTO
Le sfere planetarie 109
CAPITOLO SETTIMO
Il labirinto 132
CAPITOLO OTTAVO
La Porta d’oro del Sole 154
CAPITOLO NONO
Pavimenti come il mare 178
CAPITOLO DECIMO
Soffitti come il cielo 196
CAPITOLO UNDICESIMO
Le finestre del paradiso e i trecentosessanta giorni 208
CAPITOLO DODICESIMO
Il simbolo della creazione 224
GUGLIELMO BILANCIONI
VII
Guglielmo Bilancioni
VIII
William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori
IX
Guglielmo Bilancioni
X
William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori
XI
Guglielmo Bilancioni
XII
William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori
XIII
Guglielmo Bilancioni
XIV
William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori
XV
Guglielmo Bilancioni
XVI
William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori
XVII
Guglielmo Bilancioni
XVIII
William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori
XIX
Guglielmo Bilancioni
anche essere imperfetto, dal buio del non essere. John Dando
Sedding diceva: vi è “hope in honest error”, nessuna speranza,
invece, nelle perfezioni del mero stilista.
Lo stile è lo spirito della forma, e gli “stili catalogati”, con gli
eclettici eufemismi di un triviale revival, non contengono verità,
sono “thrice-boiled slims”, cose da poco e cotte troppe volte,
come i voluti effetti, le features, il Fancy decorativo meccanico
stigmatizzato da Ruskin, dalle forme furbe e inconsistenti.
Come Goethe, Lethaby è capace di vedere l’essenza della
bellezza in una pozzanghera iridescente, “piccolo mare con le
sue rive, specchio di tutta l’immensità”. Da quella visione, pro-
priamente cosmica, muove alla magnifica ricerca della “influen-
za dei fatti noti e di quelli immaginati dell’universo” sull’Opus
di architettura. Intende l’azione di scienza e arte.
Tiene conto della storia ma conferma che l’immaginazione,
per gli umani, è forza vivente che ripete la creazione, agente di
ogni percepire e fonte di felicità, e indica, raggiungendo profon-
dità abissali, la connessione fra il mondo come struttura e l’edi-
ficio costruito. Svelata la finalità invisibile che soggiace al fondo
della struttura e della forma, vuole scoprire, e far agire di nuo-
vo, i “principi esoterici dell’architettura”.
Perché l’architettura, per essere tale, deve essere una imita-
zione del cosmo, una mimesi riducente dell’universo, e recare in
sé l’eco del Principio.
Nella sua appassionata quête, mette in congiunzione attiva
struttura intelligibile e scienza verificabile, gnomoni, cristalli,
numeri sacri, macrocosmo e microcosmo, ed in questo ha un
metodo da maestro rigoroso: “se vuoi conoscere il nuovo devi
cercare l’antico”.
L’impressività inerente della forma è estratta, per via di le-
vare, dalla conoscenza della connessione delle pietre, e l’archi-
tettura è esaminata in quanto ha fondamento su atti rituali e ri-
petitivi, dal risultato certo, come la magia. Vige, negli studi di
Lethaby, che conosceva Vitruvio, l’arte dei principi primi, pro-
dotta da abili Machinatores, ingegnosi structores, e davvero sa-
pienti magistri. Come nelle macchine di Villard de Honnecourt,
l’arte segreta che muove e connette le pietre, e dispone diritti i
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William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori
mattoni, è una unione e una forza: il vero senso del Craft, arte
applicata alla Sapienza del Come.
“There is a kind of free-masonry in the craft”, sentenzia sec-
co e profondo Charles Dickens, in Sketches of Boz.
Gli studi di Lethaby dipartono da quelli di John Ruskin, per
il quale l’architettura è seconda natura, poiché nasce dalle sue
necessità ed in questo esprime la sua natura propria. Gli scritti
di Ruskin sull’architettura si centrano tutti su come realizzare la
congiunzione della volontà umana con la natura. Ma il pensiero
di Ruskin si evolve.
“Con Queen of the Air, del 1869, e con i libri successivi” scri-
ve Adrian Forty, in Words and Buildings, “Ruskin cominciò a ve-
dere come il significato della natura dovesse essere compreso
non attraverso l’osservazione dei fenomeni naturali ma attraver-
so la mitologia, la quale, credeva Ruskin, esprimeva il significato
della natura e la sua essenza in modo più completo rispetto alla
pura osservazione. Il portato architettonico sull’architettura suc-
cessiva è stato limitato; AM&M di Lethaby è stato l’unico tenta-
tivo di sviluppare queste idee in relazione con l’architettura”.
Lethaby ha appreso da Ruskin che l’uomo di gusto è l’uomo
che ottempera alla volontà divina e che la contemplazione della
bellezza è compiuta percezione di un ordine divino. E che nel
cercare, con devozione, ciò che è comune si rinviene l’essenzia-
le. Il quale viene prima della grandezza, e della eccellenza veri-
ficabile, ed è più grande dei monumenti: il Santo Graal dell’ar-
chitetto, l’Essenziale, si cela nell’anelito dell’arte alla semplicità,
alla purezza originaria del simbolo.
Per appagare questo anelito l’architetto dovrà piegarsi con
umile devozione alla preconcetta, e rigidamente calcolata, ne-
cessità, dovrà estrarre la sua libertà dal vincolo, e misurarsi con
cellule originarie e tracciati regolatori, incontrando, in una su-
periore taxis, il proprio registro, e in una bella stasi una appro-
priata sede.
“L’arte è molte cose” scriverà Lethaby, trent’anni dopo
AM&M, in What shall we call beautiful, un saggio del 1918 “è
servizio, record, e stimolo: non è soltanto una questione di genio;
senza il fondamento dell’arte comune non si può raggiungere il
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Guglielmo Bilancioni
culmine del genio”. E quel che Lethaby definisce come l’arte co-
mune riguarda tutte le cose ordinarie della vita. Bisogna riferir-
si al naturale, insegna, all’ovvio e al ragionevole, per poter ri-
conciliare la scienza con l’arte.
Il rapporto di invenzione fra norma e forma deve basarsi su
moderazione e limitazione, sul controllo di “symmetry, smooth-
ness” e “sublimity”, e, nell’equilibrio fra quanto è levigato e
quanto è sublime, deve essere in grado di esprimere verità in
simboli comprensibili; la bellezza sta, come religione, in forme
di convenzione diffusa: la forma di un pane con le sue croccan-
ti decorazioni o un quilt del Northumberland, o la treccia rac-
colta in forma di cuore di una fanciulla felice. “Abbiamo biso-
gno di una daily bread beauty, una bellezza da pane quotidiano:
senza di essa moriamo di fame”.
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ai requisiti esigenti della vita, del lavoro, della bellezza e del ser-
vizio.
Deborah van der Plaat teorizza, a proposito di AM&M, di un
“modernismo sincretico” di Lethaby, che intreccia mito e mate-
riali in una indagine da Eterno Presente: a-storica, sinottica e sin-
cronica, eppure orientata al Moderno del divenire necessario.
Così, muro, arco e volta dovranno essere investigati come
leva e vite, con un tratto analitico bio-morfologico, intimamen-
te e radicalmente funzionalista, che condurrà, quando la tempe-
sta del futuro avrà sovvertito membra ed elementi, all’attitudine
“olistica” dell’architettura organica, ed agli asciutti abachi dei
razionalisti.
Lo stile, che è sempre euristico, rivela verità architettoniche
soggiacenti, le vere radici, le autentiche finalità che sottendono
la struttura. “L’architettura antica viveva perché aveva uno sco-
po”: è il rivelarsi come nome e forma del mondo, con la sua più
importante qualità, l’aderenza allo scopo, e la capacità di cre-
scere e di trasformarsi aderendo ad esso, che la fa essere vera
“matrix of civilisation”: Forma-Madre della civiltà.
Risuona nell’architettura un ordine cosmico maestoso, fatto
di memoria; il libro di Lethaby è la quintessenza del punto di vi-
sta del costruttore, che custodisce i simboli che impiega met-
tendoli in salvo nel loro uso: in antico il costruttore del tempio
era, del tempio, anche il guardiano. Sapeva, e solo per questo sa-
peva fare.
E l’arte è fare bene ciò che ha bisogno di essere fatto: “well
doing of what needs doing”, dice Lethaby con un accento to-
mistico: portare in essere ciò cui urge presenza, dettata da ne-
cessità.
Un quadrato interpretativo vale a comprendere AM&M di
Lethaby: un quadrato costituito, contemperando i quattro auto-
ri in non evidenti diagonali, da John Ruskin, il sacerdote della
vita etica contemplata; Henry Focillon, lo scienziato della vita
delle cause storiche degli effetti formali; Aby Warburg, lo scia-
mano della vita in movimento del paganesimo antico, il quale ha
insegnato che “deve essere interpretato simbolicamente ciò che
appare come soltanto ornamentale”; ed Ernst Bloch, l’analista
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gli esseri e delle cose, e vedeva nella loro stamina la loro essen-
za, il geroglifico dell’essere-nel-mondo. L’uomo è circondato dai
simboli, dice il Sarto Rappezzato, “riconosciuti come tali o
meno”, che sono “indicatori” e “rappresentazioni collettive”.
Come Carlyle, Lethaby è il redentore estetico, che con i suoi
semplici precetti, ed i suoi esperimenti, mira, puro, alla perfetti-
bilità del costume e dell’attrezzo.
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ge, come Cosmo e cosmesi, come Ordine, ogni idea del costrui-
re, dall’Omphalos alla Montagna Sacra, in un mondo, ora e sem-
pre, popolato dall’aquila e dal serpente, orgoglio e intelligenza,
dove transitano fermi l’Invariabile mezzo della croce e i moltis-
simi cuori alati dei pellegrini cherubici, che anelano alla Cono-
scenza: un cuore generoso, colto e romantico, e l’esattezza di
orizzontale e verticale al loro incrocio mistico, nel Centro dei
territori del Simbolo.
È il monogramma di Lethaby: Croce + cuore = cosmos.
Cosmo e simpatia.
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Lavori citati
XLV
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INTRODUZIONE
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Introduzione
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Introduzione
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Introduzione
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CAPITOLO PRIMO
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Il tessuto del mondo
il serpente in eterno
giace addormentato nell’oscuro cuore del mondo.
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Il tessuto del mondo
di vita sono molto simili agli uomini sulla Terra. Come sopra la
piatta Terra, così anche sotto di essa esistono regioni abitate da-
gli uomini, o da creature che ad essi assomigliano, che a volte
salgono sulla superficie ed a volte ricevono le visite degli abitanti
della Terra di sopra. Abitiamo, per così dire, al pianterreno di
una grande casa, con i piani che si innalzano uno dopo l’altro so-
pra di noi e con le cantine ai nostri piedi”.
Tale stadio del pensiero durò così a lungo, comprendendo in
sé le grandi epoche architettoniche, che è impossibile non scor-
gere una relazione ed una reazione tra quella struttura del mon-
do e le costruzioni dell’uomo; e questo soprattutto per gli edifi-
ci sacri, destinati – come nella maggior parte dei casi – ad un
culto che pensava di trovare il proprio oggetto nel cielo, nella
Terra e nelle stelle.
In generale, sembra che per le grandi razze portatrici della
civiltà un universo in forma quadrata precedesse quello emisfe-
rico; invero, oggi siamo, e di molto, nell’età emisferica, abba-
stanza arcaica, ancora, da fornire similitudini al poeta; ma un
poeta antico come Giobbe trovò i suoi paragoni nella forma del-
la stanza: una scatola quadra, con sopra il coperchio. Al centro
di questa enorme scatola, il cui coperchio è il cielo, sorge la
montagna della Terra, che è il suo sostegno e il perno delle sue
rotazioni. Si pensò che il centro di questa orbita fosse un punto
all’interno dello spazio posto sotto la custodia dell’Orsa mag-
giore, e che, dietro l’Orsa, le stelle affondassero sotto la terra
dell’orizzonte boreale. La montagna terrestre a nord, così, per-
mette una più che adeguata spiegazione dei movimenti appa-
renti dei cieli; il cielo di metallo o di cristallo delle stelle fisse
ruota attorno ad essa, e, di conseguenza, ad ogni orbita, le stel-
le scompaiono dietro di essa. Il Sole, la Luna ed i pianeti emer-
gono da una cavità ad est e, ad ovest, precipitano in un’altra: si
muovono in alto e ritornano seguendo un itinerario sotterraneo.
La forza motrice veniva a volte fornita da esseri attivi, come nel-
la descrizione contenuta nel Libro di Enoch, oppure dai venti;
così l’universo era come un enorme mulino.
È probabile che il passo successivo consistesse nella cupola,
sebbene fino ad allora gli uomini facessero fatica a comunicare
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Il tessuto del mondo
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Il tessuto del mondo
noi le porte’, che ‘si aprono alte e larghe con le cornici’. La co-
pertura della casa si riferisce al cielo, il cui epiteto era ‘il sen-
za-travi’. La stabilità della casa era mirabile e fu lodata. Men-
tre il disegno e la struttura generale vengono attribuiti alle
grandi divinità, e in modo particolare a Indra che li rappre-
senta, le opere lignee, con gli altri dettagli, vengono fatte dalle
divinità artigiane. Come la prima azione dei contadini indiani
quando entrano in possesso di una nuova casa è portare nella
casa il fuoco sacro, così, ci ricorda il signor Wallis, ‘la prima
azione degli dèi, dopo la creazione del mondo, era quella di
produrre l’Agni celeste’”.
Nell’Avesta il cielo viene descritto “come un palazzo co-
struito con una sostanza celeste, saldo e stabile con i lati molto
distanti l’uno dall’altro”. L’idea del tempio del Cielo accomuna
i poeti classici, e diventa il palazzo o il tempio di cristallo nelle
lingue romanze.
L’antico sistema dei Caldei rientra nella categoria emisferica
ed è interessante il fatto che gli scavi moderni abbiano dimo-
strato come l’origine della cupola fosse proprio in Mesopota-
mia. “I Turanici di Caldea rappresentavano la Terra come una
barca rovesciata e cava sotto, non come quelle oblunghe barche
di cui ci serviamo, ma tutta tonda, come mostrano i rilievi, ed
ancora in uso sull’Eufrate. Nel vuoto interno si celava l’abisso,
luogo delle tenebre e della morte; sulla superficie convessa si di-
stendeva la Terra, propriamente detta, avviluppata da ogni par-
te dai flutti dell’oceano.
La Caldea era considerata il centro del mondo, e, ben oltre
il Tigri, stava la montagna dell’Est, che univa il cielo e la Terra.
I cieli avevano la forma di un vasto emisfero, il margine inferio-
re del quale era appoggiato sull’estremità della barca terrestre,
oltre le correnti dell’oceano”.
“Il firmamento si distendeva sopra il mondo come una ten-
da; esso roteava, come su un perno, attorno alla montagna del-
l’Est e trascinava con sé nella sua corsa inarrestabile le stelle fis-
se, delle quali la sua calotta era trapunta. Fra la Terra e il cielo
ruotavano sette pianeti simili a grandi animali pieni di vita; poi
vennero le nuvole, i venti, il tuono, le piogge. La Terra stava sul-
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l’abisso, il cielo stava sulla Terra. Gli antichi Caldei non si erano
ancora domandati su che cosa poggiasse l’abisso”. Così il Ma-
spero [Egyptian Archaeology].
È deliziosamente appropriato a quanto si sta dicendo che
nell’età eroica della Grecia uno scudo, probabilmente rotondo
e convesso con una grande borchia al centro, raffigurasse la for-
ma della Terra. Per Omero, la Terra dove apparivano i fantasmi
dei morti è oltre l’oceano. Potremmo supporre che questa fosse
la riva solitaria della catena di montagne da cui sorgeva il firma-
mento. L’abisso è il Tartaro, come nel libro settimo dell’Iliade,
“oscuro Tartaro molto lontano da là, l’Olimpo, dove è un
profondo golfo sotto la Terra, con i portali di ferro e una soglia
di bronzo, distante dall’Ade come il cielo dalla Terra”. Esiodo è
più preciso: un’incudine di bronzo precipiterebbe per nove
giorni dal cielo alla Terra, e altri nove giorni precipiterebbe dal-
la Terra al Tartaro.
Così, lo schema omerico conosceva la Terra come è raffigu-
rata sullo scudo di Achille; circondata dall’oceano, stava in mez-
zo, forse, tra il duro cielo di metallo e il Tartaro, come un disco
avvolto in un involucro sferico. L’Olimpo dalle molte cime, dove
gli dèi si davano convegno, è più l’Olimpo celeste, la superficie
della volta del cielo, che una semplice montagna della Terra.
Una buona descrizione di esso ci è data nella Storia della Grecia
[I, IX] del Duncker: sulla sua cima vi era il “lago che-tutto-nu-
tre”, dal quale fluivano tutte le acque del mondo; l’Olimpo ter-
restre era solo un simbolo del monte celeste. Anassagora inse-
gnò che la volta celeste è di pietra. Teofrasto disse che la Via lat-
tea era il punto di congiunzione delle due metà di una solida cu-
pola, tanto malamente saldate che la luce vi passava attraverso;
altri dicevano che essa fosse il riflesso della luce del Sole sulla
volta celeste. È nei Miti astronomici di Flammarion.
Poi, quando i viaggiatori fenici ebbero esplorato i mari occi-
dentali ed una conoscenza dell’India aprì all’Oriente, si pensò al
mondo come evidentemente esteso da est a ovest, e con le stes-
se condizioni di clima; mentre erano incalcolabili le distanze da
nord a sud, e il clima cambiava. Per questo Erodoto dice: “sor-
rido quando vedo tante persone, prive di valide ragioni che le
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Il tessuto del mondo
pli sei entrato? Hai qui nove cerchi, o meglio sfere, tutte con-
nesse fra loro, delle quali una è quella del cielo, la più esterna
che contiene tutte le altre; essa è lo stesso dio supremo che com-
prende e tiene insieme tutto il resto. In essa sono fissate le orbi-
te eterne percorse dalle stelle in rotazione; ad essa sono sotto-
poste le sfere che ruotano all’indietro, in senso contrario a quel-
lo del cielo. Di queste sfere una è quella occupata dall’astro che
sulla Terra chiamiamo col nome di Saturno. Quindi viene quel-
lo folgorante che prende il nome da Giove e che agli uomini
porta prosperità e salute. Poi c’è quello rosso e rovinoso per la
Terra, a cui date il nome di Marte. Viene poi la regione all’incir-
ca intermedia più sotto, che è occupata dal Sole, guida, princi-
pe e reggitore degli altri astri, anima del mondo e suo equilibra-
tore; esso è tanto grande da arrivare con i suoi raggi dappertut-
to. Gli fanno seguito l’orbita di Venere e quella di Mercurio,
mentre nella sfera più bassa ruota la Luna, che ha luce dai raggi
del Sole. Al di sotto di essa non c’è più nulla che non sia morta-
le e caduco, con l’eccezione delle anime assegnate quali doni di-
vini al genere umano; sopra la Luna, invece, ogni cosa è eterna.
Infatti la nona sfera, quella centrale, cioè la Terra, non è dotata
di movimento ed è la più bassa e verso di essa cadono, per in-
clinazione naturale, tutti i gravi’. Fui preso da meraviglia all’os-
servazione di tutte queste cose, e quando mi ripresi dallo stupo-
re dissi: ‘Che cos’è? Che musica è questa, così intensa e così pia-
cevole che riempie le mie orecchie?’. Egli mi rispose: ‘È quella
prodotta dall’energia che muove le sfere stesse […]. Le orecchie
degli uomini, riempite di questo suono, sono diventate sorde, e
nessuno dei sensi in noi è così debole come questo’”.
Non fu perduta la distinzione tra il superiore e l’inferiore né
la solidità dei cieli sferici, come si nota nel seguente brano trat-
to dall’astrologo Manilio: “Vieni, dunque, prepara la tua mente
a studiare i Meridiani; sono in numero di quattro, la loro posi-
zione nel firmamento è fissa, e modificano l’influenza dei segni
mentre ne sono velocemente attraversati. Uno è posizionato
dove il cielo s’innalza per formare la sua volta, ed è questo ad
avere il primo sguardo della Terra da quell’altezza. Il secondo è
posto di fronte ad esso sul margine opposto dell’etere: da qui
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Il tessuto del mondo
nel quale è detto che Dio ha creato sette cieli e sette terre, ovve-
ro sette piani o livelli terrestri. Le tradizioni divergono sulla con-
sistenza dei sette cieli. La descrizione più credibile, secondo un
noto storico, vuole che il primo cielo sia di smeraldo, il secondo
di argento bianco, il terzo di grandi perle bianche, il quarto di ru-
bino, il quinto di oro rosso, il sesto di giacinto giallo, il settimo di
luce scintillante. Alcuni affermano che il paradiso sia nel settimo
cielo; ho capito, invero, che è proprio questa l’opinione di miei
amici musulmani; mentre l’autore sopra citato descrive, subito
sopra il settimo cielo, sette mari di luce, poi un numero indefini-
to di veli o divisioni delle differenti sostanze, sette per ogni tipo,
e quindi il paradiso, fatto di sette livelli sovrapposti, che si di-
stinguono con i nomi di gemme preziose, su cui si impone il tro-
no del compassionevole. Queste molteplici regioni del paradiso
vengono descritte in alcuni resoconti tradizionali come altrettan-
ti gradi, o stadi, cui si ascende come su una scala”.
“Gli Arabi considerano la Terra circondata dall’oceano deli-
mitato da una catena montuosa di nome Kaf, che circonda il tut-
to come un anello, che isola e rinforza l’intera compagine; si dice
che queste montagne siano composte di crisolito verde, che è
come la sfumatura verde del cielo. La Mecca, secondo alcuni, o
Gerusalemme, secondo altri, sta esattamente nel centro. La Ter-
ra è sostenuta da creazioni che si susseguono, l’una al di sotto
dell’altra. La Terra giace sull’acqua, l’acqua sulla roccia, la roccia
sulla groppa del toro, il toro su un letto di sabbia, la sabbia sul
pesce, il pesce su un fermo vento soffocante, il vento su una val-
le di tenebra, la tenebra su una nebbia; e ciò che è sotto la neb-
bia è sconosciuto. Si ritiene che sotto la Terra e i mari delle tene-
bre giaccia la Gehenna, formata da sette piani, uno sotto l’altro”.
Lo stesso Dante ricapitola tutti i miti classici ed orientali in
quell’anno 1300, un traguardo del Medioevo: nel Convivio espo-
ne con chiarezza il sistema ragionato sul quale costruisce lo
schema del mondo della Divina Commedia.
“Dico adunque, che del numero de li cieli e del sito diversa-
mente è sentito da molti, avvegna che la veritade a l’ultimo sia
trovata. Aristotile credette, seguitando solamente l’antica gros-
sezza de li astrologi, che fossero pure otto cieli, de li quali lo
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Il microcosmo
sulla Terra una parte del cielo per fare una dimora per il suo
Dio. Questa idea si incontra in ogni paese, anche se espressa in
apparenze diverse”.
Per le antiche razze europee, allo stesso modo, “il tempio
più magnifico che gli antichi avessero immaginato, e che prece-
deva tutte le loro nozioni sugli edifici fatti dalle mani dell’uomo,
era la volta di Olimpia, sotto la quale supponevano dimorasse il
grande Giove”. Questo simbolismo, in epoche successive, fu
conservato in modo più preciso nei templi rotondi, la tholos di
Hestia in Grecia e il tempio di Vesta a Roma: forma che gli stu-
diosi attuali ammettono come una rappresentazione della volta
celeste.
Plutarco, in Iside e Osiride, descrive così un tempio di Vesta:
“Numa costruì un tempio dalla forma orbicolare per la custodia
del fuoco sacro; non intendeva tanto, con la forma dell’edificio,
evocare la figura della Terra, o di Vesta considerata in tale aspet-
to, quanto l’universo intero, nel centro del quale i Pitagorici ave-
vano posto il fuoco da loro nominato Vesta e Armonia”. Ovidio
nei Fasti dà la stessa spiegazione: il tempio rappresentava la Ter-
ra rotonda, “una ragione della sua figura che merita il nostro ri-
conoscimento”.
La grande rotonda di Roma, il Pantheon, è di certo il tem-
pio più grandioso fra quelli costruiti in questo modo: 43 metri
circa di diametro con una semplice apertura sulla cupola, larga
9 metri, attraverso cui discende il grande fascio dei raggi solari.
L’altezza allo zenit dal pavimento è uguale al diametro, così che
il tempio potesse esattamente contenere una sfera. Di questo va-
sto dispiegarsi della cupola Plinio dice: “quod forma ejus con-
vexa fastigiatum caeli similitudinem ostenderet. Essendo questa
forma convessa mostra l’immagine della profondità del cielo”. A
proposito della disposizione, un cerchio con otto grandi nicchie,
una delle quali è occupata dalla porta rivolta a nord, si è ipotiz-
zato che la nicchia verso sud dovesse esser destinata a Febo
Apollo, e le altre alla Luna e agli altri cinque pianeti – Diana,
Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno.
L’antica usanza latina di mettere la fondazione degli edifici
sacri in rapporto con i cieli, è così descritta, nel Dizionario del
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pagoda cinese, è inteso, come quello di tutti gli altri edifici sacri,
a far immaginare una idea del mondo o dell’universo governato
o occupato da uno Spirito, o da un Essere, supremo. Questo era
certamente il significato della forma e degli apparati del taber-
nacolo ebraico e del tempio. Come dice Flavio Giuseppe nelle
Antichità ebraiche, Salomone si alzò e disse: ‘O Signore, hai una
dimora eterna e come tale l’hai creata Tu, per te stesso e con il
tuo proprio lavoro; noi sappiamo che essa è il cielo, e l’aria, e la
Terra, e il mare’: era un simbolo di tutto questo che Salomone
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CAPITOLO TERZO
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Il quadrato
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necropoli di Abido sia la porta che la stele sono più spesso ri-
volte a sud, cioè verso il Sole al suo zenit. Ma né a Menfi, né ad
Abido, né a Tebe vi è una tomba illuminata da ovest o che ri-
volga la sua iscrizione verso il Sole che tramonta. Così, dalle
oscure profondità dove hanno dimora, i morti hanno gli occhi
rivolti verso il quartiere dei cieli dove la fiamma che dona la vita
si riaccende ogni giorno, e sembra che aspettino il raggio che di-
strugga la loro notte, e li faccia levare dal loro lungo riposo”.
Questo scrivono Georges Perrot e Charles Chipiez.
“L’asse maggiore del rettangolo sul quale sono ideate queste
strutture funerarie scorre sempre esattamente da nord a sud; ed
a Giza, la necropoli dell’ovest, le tombe sono disposte secondo
un piano simmetrico, simile ad una scacchiera, sulla quale tutti
i riquadri sono rigidamente orientati. Il fronte principale delle
tombe è rivolto ad est. In quattro casi su cinque l’ingresso alle
camere, quando ve ne è uno, si trova su questo fronte. Subito
dopo la facciata orientale, in ordine di importanza, viene il fron-
te rivolto a nord”. Così il Mariette.
Che l’orientamento in senso stretto non fosse l’obiettivo de-
gli Egizi, ma piuttosto il desiderio di far quadrare il loro edificio
con i punti cardinali della Terra e del cielo, è detto molte volte
nelle iscrizioni. Quella di Tutmosi III sulle fondazioni di Karnak
dice che “dopo che la posizione dell’edificio era stata stabilita in
accordo con la posizione dei quattro quartieri, le grandi porte di
pietra furono innalzate”. È nella Storia dell’Egitto di Heinrich
Brugsch.
Questo disporre le linee in quadratura con il mondo è una
parte del rituale di fondazione in tutti i paesi e in tutti i tempi;
si ripete continuamente, come anche il pensiero che in esso vi
fosse una influenza magica, la magia della corrispondenza; poi-
ché, come le fondamenta del cielo e della Terra sono salde, “da
non poter mai essere mosse, per sempre”, così la costruzione
che le imita dovrebbe condividere la loro stabilità.
In Egitto questo viene espresso dalla frase “è come il cielo
con tutte le sue parti, saldo come i cieli”. Nei Salmi come nei
Veda viene cantata la stabilità del tempio del mondo. Le costru-
zioni buddhiste sono in stretta relazione con il cielo. Lo stupa
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gine nel cielo, con quattro flussi da cui scorreva giù la volta ce-
leste e che, introducendosi in alcune fenditure, girava attorno
alle acque dell’oceano, precipitando poi negli abissi: l’Acheron-
te, il Piriflegetonte, il Cocito e lo Stige, probabilmente hanno la
loro origine in questo pensiero.
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di una pietra segnata con nove cerchi concentrici che viene tut-
tora esposta a Gaya, come trono dei diamanti.
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cerca del prete Gianni, scoprì al servizio del Khan dei Tartari un
orafo di Parigi che aveva appena fabbricato quello che conside-
rava il suo capolavoro: “Nel palazzo del Khan” racconta Ru-
bruquis “dato che sembrava cosa inadatta portare con sé reci-
pienti di latte e altre bevande, il maestro Guglielmo fece per lui
un grande albero d’argento alle radici del quale furono messi
quattro leoni d’argento, con un beccuccio da cui usciva puro lat-
te di mucca. Quattro condotti passavano raccolti all’interno del
tronco dell’albero fino alla cima, e le cime ricadevano giù; su
ognuna c’era un serpente d’oro, la coda attorcigliata al tronco
dell’albero; da una di queste cannule scorreva il vino, dall’altra
il koumis, il latte di capra, dall’altra ancora il ball, una bevanda
fatta con il miele mescolata con un’altra fatta di riso. Tra i con-
dotti, sulla cima dell’albero, stava un angelo con la tromba e sot-
to l’albero una cavità, nella quale si poteva nascondere un
uomo. Una cannula risaliva da questa volta cava, su per l’albero,
fino all’angelo. Fece dapprima i mantici, ma non davano vento
abbastanza. Fuori dalle mura del palazzo c’era una sala dove ve-
nivano portate diverse bevande: alcuni servitori erano pronti a
versarle quando avessero udito l’angelo suonare la sua tromba.
I rami dell’albero e le foglie dei frutti erano d’argento. Quando,
dunque, vogliono bere, il capo dei servitori grida all’angelo di
suonare la tromba. Poi, colui che era nascosto nella volta, uden-
do il segnale, soffia forte nella canna che arriva all’angelo. E l’an-
gelo avvicina la tromba alla bocca e la tromba suona acuta. I ser-
vitori, chiusi nella stanza, sentono lo squillo e ciascuno di essi
versa la sua bevanda nella sua canna e tutte le canne versano così
il loro liquido dall’alto, raccolto, sotto, in vasellame preparato a
quello scopo”.
Va notato che questi movimenti meccanici erano nella rosa
delle arti legittime del Medioevo: infatti, Villard de Honnecourt,
un contemporaneo del Rubruquis, descrive come gli angeli po-
tessero chinare la testa nell’udire il santo nome.
Nel XVII secolo, Jean Baptiste Tavernier, un altro viaggiato-
re francese, vide un albero d’oro carico di gemme fatto per il pa-
lazzo del Gran Mogol ad Agra, e siccome era un esperto di pie-
tre preziose non vi può essere alcun dubbio sulla sua testimo-
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nianza. In questo palazzo “sul lato che guarda verso il fiume, c’è
un diwan, una specie di loggia aggettante dove il re siede per
guardare i combattimenti dei suoi elefanti. Prima del diwan c’è
una galleria che funge da portico, per decorare il quale Cha-
Jehan ha pensato ad un tralcio, di smeraldi e rubini, che avreb-
be riprodotto i chicchi d’uva al naturale, ancora verdi, o quan-
do diventano rossi. Ma quest’idea, che fece tanta impressione
nel mondo e che avrebbe richiesto, per essere compiuta, più ric-
chezze di quante il mondo intero avrebbe mai potuto permet-
tersi, rimase incompiuta; vennero ultimati soltanto tre tronchi di
vite d’oro con le loro foglie preparate nella maniera prevista, lac-
cate per riprodurre i colori della natura e con smeraldi, rubini e
granati modellati a grappoli”.
Troviamo alberi simili nelle raccolte di leggende popolari
hindu, come Old Deccan Days; pare infatti che in India si fac-
ciano tali alberi anche ai giorni nostri. Sir George Birdwood af-
ferma: “Alberi d’oro massiccio e d’argento che rappresentano il
mango o qualsiasi altra specie di albero, e di ogni dimensione,
sono decorazioni comuni nelle case hindu. Sono spesso di seta,
con piume e fili dorati e sempre richiamano alla mente la vite
d’oro, fatta nei tempi antichi dagli orafi di Gerusalemme”.
Una di queste viti d’oro di Gerusalemme ornava l’entrata al
tempio di Erode. La porta, secondo Flavio Giuseppe, e le mura
attorno ad esso, erano tutte coperte di oro. “Le pareti erano ri-
coperte da viti d’oro con grappoli pendenti a grandezza natura-
le”. Pare che questo lavoro fosse retto dalle travi della torana, la
porta isolata. “E chiunque portasse un’offerta, una foglia, un
grappolo, o molti grappoli, li appendeva alla vite”. Decorata
così, la Porta dell’alba deve aver superato in splendore qualun-
que immaginazione, quando il Sole nascente brillava sul prezio-
so metallo. Un’altra vite del valore di 500 talenti, chiamata Ter-
pole – “la delizia” – fu spedita a Pompei, e sembra che abbia for-
temente impressionato il popolo di Roma quando fu portata in
trionfo, come è detto da Plinio e da Tacito.
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sceva dalla terra fino ad una misura enorme, la cui sostanza era
l’oro puro; questa sembra essere la versione orientale dell’episo-
dio riportato qui sotto dalla Storia di Alessandro, dove l’albero
predice la sua morte.
Anche nelle storie greche abbiamo alberi che portano frutti
o fiori d’oro connessi con la terra del beato Occidente, come in
Pindaro: “dove è l’isola / dei felici, nell’alito del mare. / Ardono
fiori d’oro / in piante luminose”, oppure in Esiodo: “Le Esperi-
di che, al di là dell’inclito Oceano, dei pomi aurei e belli hanno
cura”. E così come Ercole entra in questo giardino, l’eroe di Ba-
bilonia, Gilgamesh, nei suoi pellegrinaggi oltre le Porte del Sole,
vede un albero che:
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L’orso era nella culla e l’albero stava in cima alla collina d’o-
ro; e, come nella nostra canzone per bambini,
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lo”. Nei Veda è il celeste albero del Soma dal quale cola il netta-
re per gli dèi. Nell’Avesta dei Persiani i dettagli sono amplifica-
ti, ma la scena – il mondo, la montagna del paradiso – e l’albero
sono la stessa cosa. “Haoma dai fiori d’oro che cresce sulle altu-
re, Haoma che ci risana, che allontana la morte”. C’è un altro al-
bero, sui cui rami sono appollaiati due uccelli. Questi mitici uc-
celli – “le due aquile del cielo, Amru e Chamru – sono invocati
come potenze protettrici. Il loro nido è sull’albero della vita, nei
cieli”. Sulla vetta più alta cresce Haoma, dal mare delle acque
celesti prospera l’altro albero, che reca tutti i semi. “Quando
Amru si posa su quest’albero, cadono i semi, e Chamru li porta
via”: essi cadono, con la pioggia, sulla Terra.
Gli alberi della Terra, dunque, come le acque, giungono a
noi dal paradiso centrale, dove tutta la vita ha avuto origine. È
nella Storia dell’antichità, di Maximilian Wolfgang Duncker. Si-
murgh, nell’opera del persiano Firdausi, è l’equivalente moder-
no dell’uccello dell’albero della vita.
Il nordico frassino del mondo, alto seggio degli dèi e soste-
gno del cielo, reca, come frutti, le stelle; attorno al tronco si av-
volgeva il serpente Nidhogg e sul ramo più alto l’aquila cantava
di creazione e distruzione. Quest’albero era la dimora adatta per
un simile uccello, conosciuto nelle antiche favole con diversi
nomi: e così, nelle Storie dell’Oriente, il Garuda si posa sopra
un albero meraviglioso, dal quale si lancia in volo per afferrare
con i suoi artigli il rinoceronte o l’elefante e portarli via.
Nelle antiche storie del Giappone si racconta di un grande
pino di metallo che cresce al Nord, al centro del mondo. I nostri
antenati sassoni raccontavano di Irminsul, la colonna del cielo, il
“polo” nel suo doppio significato: pole è “polo” e “palo”. L’al-
bero dalle mele d’oro compare spesso nelle leggende popolari, di
solito in relazione con una visita all’altro mondo. In una leggen-
da boema un immenso albero cresce oltre le nuvole. Una princi-
pessa desidera averne il frutto. Hans, il figlio più giovane di un
contadino – l’equivalente maschile di Cenerentola, fatto oggetto
di scherno ma fortunato nelle sue imprese –, dopo che tutti han-
no fallito, tenta l’impresa. Comincia portando con sé molti zoc-
coli di legno, e ogni giorno ne lascia cadere uno. Dopo essersi ar-
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CAPITOLO SESTO
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l’uomo venne divisa in sette età. I primi sette sono gli anni del-
l’infanzia. A tre volte sette, ventuno, arriviamo alla “maggiore
età”. Tre volte ventuno è il “grande climaterio”, e a 70 anni, si
conviene, è tempo di morire.
Così la vita del mondo era stata, nelle storie del Medioevo,
divisa in sette epoche, e noi siamo nell’ultima. C’erano sette cie-
li materiali; questo mondo di mezzo era diviso in altrettante
zone o “climi”, e il mondo sotterraneo in altrettanti abissi. Nel-
la filosofia scolastica ogni fattore dell’universo presentava una
suddivisione in sette elementi.
Nel Cursor Mundi si nota che vi sono sette orifizi nella testa,
“perché di stelle maestre ve ne sono sette”.
Tanto presente è stata la natura di questo numero, che quan-
do vi siano gruppi, di qualsiasi cosa, dai quattro elementi fino
alla dozzina, diciamo, essi sono quasi sicuramente le “sette so-
relle” o i “sette fratelli”: Sevenoaks, i sette colli di Roma, o quel-
li di Costantinopoli, le sette città sante dell’India, o, in architet-
tura, le sette meraviglie del mondo. John Ruskin ci dice di aver
incontrato grandi difficoltà nel limitare le sue “sette lampade”,
per far sì che non diventassero otto o nove.
I sette pianeti hanno avuto una potente influenza sull’archi-
tettura e sulle arti. Il Sole, la Luna e gli altri cinque pianeti non
venivano soltanto visti ruotare autonomamente rispetto alla
“sfera” delle stelle fisse, ma il moto di ciascuno era anche esso
autonomo, nei diversi periodi. Dato che l’intero cielo delle “stel-
le fisse” era un “firmamento” solido e tempestato di stelle che
ruotano attorno a un perno: la montagna della Terra; così, via
via che il sistema veniva perfezionato, dovevano essere immagi-
nate altre sfere trasparenti, una per ogni pianeta, che trasportas-
sero il cielo, nel tempo dovuto. La celeste montagna degli dèi è
così o interamente celeste – il lato esterno del nostro firmamen-
to, e tutti e sette i successivi cieli disposti a cupola – oppure è la
montagna centrale di questo mondo più basso, il pilastro o co-
lonna dei cieli, diviso in sette livelli, uno per ogni sfera planeta-
ria. È praticamente impossibile tenere queste due nozioni sepa-
rate, e dire cosa sia l’Olimpo, una montagna a gradoni che so-
stiene i cieli, oppure lo stesso cielo ripartito in sette regioni. Il
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dottor H.J. Rink, parlando degli Eschimesi, dice: “il mondo su-
periore, sembra, può essere considerato identico alla montagna,
attorno alla cui cima la volta del cielo sta girando in eterno…”.
L’Olimpo, per i Greci, aveva molte vette o molti strati, come lo
strato-senza-strato dell’iraniana montagna delle stelle. Con l’ag-
giunta di una sfera per le stelle fisse e di un involucro esterno
immobile, i sette diventano nove cieli.
Nei Veda ci sono sette cieli. “Nella cosmogonia hindu”, scri-
ve Sir George Christopher Molesworth Birdwood, “il mondo è
paragonato ad un fiore di loto che galleggia al centro di un vas-
soio circolare e poco profondo; lo stelo è un elefante, il basa-
mento una tartaruga. I sette petali del fiore di loto rappresenta-
no le sette parti del mondo, come sapevano gli antichi Hindu, e
il ricettacolo piatto rappresenta il monte Meru, l’Himalaya idea-
le, che suona come Himmel, l’Olimpo indiano. Vi si ascende da
sette speroni di roccia, sui quali sono costruite sette distinte città
e sette palazzi degli dèi, fra boschi verdi e corsi d’acqua mor-
moranti, in sette cerchi, posti l’uno sopra l’altro”. Qui vi sono
un albero che profuma l’intero mondo con i suoi fiori, un carro
di lapislazzuli, un trono d’oro fiammeggiante; “e sopra ogni
cosa, sulla cima del Meru, c’è Brahmapura, la città incantata di
Brahma, circondata dalle sorgenti del sacro Gange, e le orbite
fisse nelle quali per sempre brillano il Sole e la Luna d’argento,
e le sette sfere planetarie”. Gli antichi poemi giapponesi tradot-
ti dal signor B. Hall Chamberlain parlano di una montagna
all’“acme della Terra o all’onfalo, che si ergeva fino ai cieli; sul-
la cima c’era una splendida dimora”.
Il modo moderno di vedere in Siam è simile. Il signor Carl
Bock scrive: “Per la gente del Laos il centro del mondo è il mon-
te Zinnalo, che è a metà sommerso nell’acqua, con l’altra metà
fuori dall’acqua. La parte della montagna che è immersa è di so-
lida roccia, ed ha tre protuberanze, simili a radici, che si pro-
tendono dall’acqua verso l’aria sottostante. Attorno alla monta-
gna sta arrotolato un grande pesce dalle proporzioni di un le-
viatano, tali da poter abbracciare la montagna e muoverla.
Quando dorme, la Terra è tranquilla, ma quando si muove, pro-
duce terremoti”. “Sopra la Terra e attorno a questa grande mon-
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bra essere ben più di una coincidenza che le prime piramidi, at-
tribuite alle prime quattro dinastie, fossero a stadi. Quella di
Sakkara presenta tuttora sei gradoni, che decrescono dai circa
11 metri di altezza alla base agli 8 metri alla sommità, in una so-
miglianza, che va considerata, con la ziggurat di Babele. Petrie
ha scoperto che la piramide di Medum è stata costruita a sette
stadi, prima che vi fosse applicato l’involucro esterno e conti-
nuo, “producendo una piramide che servì come modello per i
futuri sovrani”.
Nella cerchia esterna del suo mondo sotterraneo, Dante
vede i campi di pace dei grandi morti pagani. Dalla sua descri-
zione e dal disegno di Botticelli, dell’edizione del 1481, con le
sette mura circolari e con una alta porta a torre per ciascuna cin-
ta, un assiro avrebbe compreso in un istante che quella era la
città dei morti.
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Or Topazio Sole
Argent Perla Luna
Sable Diamante Saturno
Gules Rubino Marte
Azur Zaffiro Giove
Vert Smeraldo Venere
Porpure Ametista Mercurio
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Sole Oro
Luna Argento
Marte Ferro
Mercurio Mercurio
Giove Stagno
Venere Rame
Saturno Piombo
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Fuori e dentro
Sembrava che io andassi attraverso tutti
e sette i mondi inferiori.
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CAPITOLO OTTAVO
La Porta orientale
Dove il grande Sole inizia il suo cerimoniale.
Milton
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ne. Sia nei tempi antichi che nell’epoca moderna il loro simbo-
lismo rimanda al Sole. “Dedicato al Sole”, è scritto sull’obelisco
innalzato da Augusto a Roma. Secondo Plinio, essi “rappresen-
tano i raggi del Sole”. “Gli obelischi”, dice George Ebers, “era-
no sacri a Ra, il Sole”. È stato scritto che talvolta essi erano com-
pletamente ricoperti d’oro, o che, a volte, l’apice veniva coper-
to con bronzo dorato; sembra che alcuni reggessero sfere o di-
schi, anch’essi di metallo dorato.
Un’iscrizione descrive due obelischi eretti dalla regina Hat-
shepsut, sorella del grande Thutmosi: “Le loro punte sono co-
perte dal rame dei migliori tributi di guerra di tutti i paesi: le si
vedono da molte miglia di distanza. Vi è un flusso di splendore
irradiante quando il Sole si leva al centro, fra i due”. Lo scrive
Heinrich Brugsch. Le lapidi ed i bronzi degli Assiri sembrano
chiarire che i “pilastri solari” erano ai lati delle entrate, o veni-
vano innalzati alla destra e alla sinistra di un altare.
In India, pilastri che sostengono ruote del Sole si trovano ai
portali d’ingresso degli edifici sacri. James Fergusson dice: “La
mia impressione è che tutti i pilastri sormontati da leoni davan-
ti alle grotte, come a Karla, sorreggessero originariamente una
ruota di metallo”. Questi “pilastri dei chakra”, di simile fattura,
sono frequenti nelle sculture dei buddhisti, e sembra che le ruo-
te girassero su un asse. Nell’Orissa, ci dice il dottor William Wil-
son Hunter, sopra i “pilastri del Sole” vi è l’auriga del dio, op-
pure un’aquila.
In Perù e in Messico troviamo esattamente le stesse inter-
pretazioni di questo pensiero universale. Nel tempio placcato
d’oro di Cuzco “le porte si aprivano verso est, e, in fondo, c’era
il disco d’oro del Sole, messo in modo da riflettere sulla sua
splendente superficie i primi raggi solari del mattino, e ripro-
durre così l’astro d’oro”. “Colonne del Sole” erano innalzate in
Perù. “Esse venivano considerate ‘seggi del Sole’, che amava po-
sarsi su di essi. Agli equinozi e ai solstizi mettevano dei troni
d’oro su di esse, perché lui vi si sedesse”. Sulla base erano trac-
ciati quadranti che servivano da meridiane. Lo dice Albert Ré-
ville, in una delle Hibbert Lectures.
Il portale monolitico a Tiahuanaco reca al centro dell’archi-
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CAPITOLO NONO
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lo, “le sue pareti, come anche il suo pavimento, erano formati da
pietre di cristallo, e così, di cristallo, era il suolo”.
Questa è l’idea definitiva su cui si basano i pavimenti di cri-
stallo delle storie fantastiche; ma forse, come vedremo, l’idea
non era tratta, in modo diretto, né consapevole, dalla Rivelazio-
ne. Nella Warre of Troy di Lydgate, il pavimento della grande
sala nel palazzo di Priamo è di diaspro. Nel Gest Hystoriale, che
narra la distruzione di Troia, Ettore, ferito, fu fatto giacere nel
glorioso “palazzo di Ilio”:
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scrito, che canta del lungo conflitto tra due casate reali rivali.
Uno dei Raja celebra un sacrificio regale. “Compiuto il sacrifi-
cio, Duryodhana entrò nel luogo dove era stato celebrato e vide
molte bellissime cose che non aveva mai visto nel suo regno ad
Hastinapur. Fra le altre meraviglie vide una piazza, fatta di cri-
stallo nero, che, agli occhi di Duryodhana, parve limpida ac-
qua, e quando arrivò ai bordi di essa, prese a sollevarsi le vesti
per non bagnarle, e poi, gettandole via, si tuffò per bagnarsi e
colpì con violenza la testa sul cristallo. Allora provò molta ver-
gogna e abbandonò quel luogo”.
Il signor J. Talboys Wheeler suggerisce che il racconto pos-
sa aver origine dal Corano, ma ammette che possa aver avuto
anche un’origine propria. Vi possono comunque essere pochi
dubbi sul fatto che questi palazzi trascendentali, tramandati in
millenni di storia dell’India, trovino la loro origine nelle co-
struzioni di una terra che non subisce il vento dell’inverno, né
alcun degrado: è la città d’oro, le cui fondamenta stanno nelle
acque al di sopra del firmamento.
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dell’abbraccio dell’infinito.
W. Wordsworth
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con le sue stelle, senza nubi ed immobile; fatto per non essere
mai visto da altri occhi se non dagli occhi del defunto.
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Soffitti come il cielo
loro grandi ali spiegate, si libravano fra stelle d’oro”. Per non
elencare tutti gli esempi, ci accontenteremo di osservarne uno
fra i più antichi.
Nel 1881 Maspero aprì una piramide a Sakkara, che appar-
teneva ad un re, l’ultimo faraone della V dinastia. Qui, tanto in-
dietro nel tempo che nessun uomo può calcolare quanto, “le pa-
reti laterali sono rivestite da splendidi geroglifici, dipinti di co-
lore verde, e il soffitto è cosparso di stelle dello stesso colore”.
Infine, il sarcofago stesso era decorato allo stesso modo, con
un pathos ancora superiore a quello del tempio o della tomba,
con i loro soffitti come il cielo. I sarcofagi di epoca tarda, al Bri-
tish Museum, hanno i coperchi, dipinti nella parte interna per
somigliare al cielo, di un verde-blu punteggiato di stelle; lungo i
bordi, su due file, vi sono i segni zodiacali; tra questi, disposta
nella sua lunghezza, è la dea dei cieli, rappresentata di fronte,
bianca e serena, i suoi occhi per sempre rivolti in giù verso quel-
li di colui su cui lei vigila.
Questi uomini dell’Egitto amavano lo stesso cielo che anche
noi amiamo.
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CAPITOLO UNDICESIMO
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Cinquecento porte
E quaranta in più,
Credo che ci siano nel Valhalla.
Questo vuol dire, si può supporre, sessanta sale per ogni pia-
no, in un cielo a nove settori.
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Abd Allah mi disse che vi era entrato e che era proprio come l’a-
vevo descritta: all’interno ci sono trecentosessanta porte, e dico-
no che uno degli angeli abiti lì. Attorno hanno fatto recinti d’o-
ro, e la storia che dicono di lui è molto strana”. El-Harawi pro-
mette di parlare altrove “della disposizione della chiesa, delle di-
mensioni, l’altezza, le porte e i pilastri che sono in essa; ed an-
che delle meraviglie della città, del suo ordinamento, e dei tipi
di pesci che in essa si trovano; della Porta d’oro, le torri di mar-
mo, gli elefanti di bronzo, e di tutti i suoi monumenti e le sue
meraviglie”, ed esclama concludendo, “Che Dio, nella sua bontà
e grazia, faccia di questa città, che è superiore alla sua fama, la
capitale dell’Islam!”.
È molto curioso vedere come il professor Piazzi Smyth asse-
risca che ogni lato della grande piramide misurasse 365,25 sacri
cubiti [167 metri]: i quattro lati, presi insieme, fanno cento
“pollici piramidali” per ogni giorno dell’anno.
Nella traduzione inglese del Doctor Faustus, del tardo Cin-
quecento, uno dei brani aggiunti all’originale tedesco, che rac-
conta i viaggi di Faustus, descrive il grande castello di Sant’An-
gelo a Roma, di forma circolare. “Bene, poi andò a Roma, che
stava e sta ancora sulle rive del fiume Tevere, che divide la città
in due parti. Sul fiume vi sono quattro grandi ponti di pietra, e al
di sopra del ponte detto ponte di Sant’Angelo, sta il castello di
Sant’Angelo, nel quale vi sono tanti cannoni quanti sono i giorni
dell’anno, capaci di sparare sette proiettili con un colpo solo”.
Un altro esempio tratto da una fonte inglese lo si può trova-
re fra le carte dell’archivio di Richard Hakluyt, nel rapporto di
Miles Phillips, un membro della spedizione che raggiunse le In-
die occidentali sotto il comando di Master John Hawkins nel-
l’anno 1568. In una città vicina al Messico, dice, “era stata co-
struita dagli Spagnoli una chiesa molto bella chiamata la chiesa
di Nostra Signora, nella quale c’è un’immagine della Madonna,
d’argento placcato d’oro, alta e grande come una donna alta; in
questa chiesa, di fronte a questa immagine vi sono tante lampa-
de d’argento quanti sono i giorni dell’anno, che sono tutte acce-
se nei giorni di festa”.
Nell’antica città greca di Taranto vi era, dice Ateneo, un can-
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CAPITOLO DODICESIMO
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te, per il lavoro che deve fare! Quasi tutti i sistemi che raccon-
tano la storia di una genesi concordano sul fatto che, al secondo
o terzo passo della creazione, fosse creato dal Caos un uovo gi-
gante. I sistemi egizi, fenici, assiri, indiani e greci sono, su que-
sto punto, concordi. “Dal Desiderio e dal Vapore derivò la Ma-
teria primitiva. Era un’acqua fangosa, nera, gelida, profonda,
che circondava mostri insensibili, incoerenti parti di forme che
dovevano nascere. Poi la materia si condensò e divenne un
uovo. Si ruppe: una metà formò la Terra, l’altra metà il firma-
mento. Comparvero il Sole, la Luna, i venti e le nuvole, e il fra-
gore del tuono destò gli esseri senzienti”. I frammenti orfici ed
Aristofane riflettono una tradizione greca del tutto analoga.
Quando esistevano soltanto il Caos e la Notte:
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