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7.

Aristotele
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Di cosa parleremo

Nonostante l’arco di tempo che separa Platone da Aristotele — il suo allievo


migliore — sia piuttosto breve, l’epoca storica in cui si forma il pensiero
aristotelico riflette alcune notevoli variazioni rispetto a quella in cui si era
sviluppata la dottrina del maestro. In primo luogo la crisi della pólis come
istituzione politica, per molti versi, giunge ad un livello irreversibile: il citta-
dino greco perde interesse nei confronti delle questioni politiche e si volge
verso altri orizzonti, soprattutto di carattere scientifico ed etico. Questa di-
versa atmosfera storica e culturale risulta chiaramente percepibile anche
dall’insieme delle circostanze e degli interessi che caratterizzano la vita e
l’opera di Aristotele, in cui si mostra appieno, per la prima volta, la notevole
curvatura scientifica che segnerà per secoli il pensiero occidentale.

1) Biografia e opere

Aristotele (Stagira, Macedonia, 384 - Calcide, Eubea, 322 a.C.), dopo


la morte del padre, si stabilì ad Atene e frequentò per vent’anni l’Acca-
demia di Platone. Alla morte di questi (347 a.C.), allontanatosi da Ate-
ne, visse ed insegnò ad Asso nella Troade. Nel 343-342 a.C. fu chiama-
to alla corte macedone da Filippo II come precettore del figlio Ales-
sandro. Poco tempo dopo l’ascesa al trono del suo discepolo si stabilì
di nuovo ad Atene e vi fondò la scuola del Liceo, chiamata anche
Peripato (da perìpatos, letteralmente «giro intorno»: Aristotele aveva
l’abitudine di insegnare passeggiando con gli allievi). Ad Atene com-
pose e portò a termine gran parte delle sue opere. Alla morte di Ales-
sandro (323 a.C.), prevalso in Atene il partito antimacedonico, Aristo-
tele fu accusato di empietà e, temendo la stessa sorte di Socrate, si
rifugiò a Calcide, nell’Eubea, dove morì l’anno dopo. Tra gli scritti di
Aristotele (che si distinguono tradizionalmente in essoterici, cioè desti-
7. Aristotele

nati al pubblico, ed esoterici, destinati alla scuola) ricordiamo: a) gli

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scritti di logica, indicati tradizionalmente col nome di Organon (lette-
ralmente «strumento della ricerca»), i cui principali sono Dell’interpre-
tazione, Analitici primi e Analitici secondi, Topici; b) scritti di fisica,
storia naturale e psicologia, tra cui la Fisica; c) scritti di filosofia gene-
rale, tra cui la celebre Metafisica (la cosiddetta «filosofia prima» in 14
libri,); d) opere di etica e politica, tra cui l’Etica a Nicomaco e la Poli-
tica; e) scritti di estetica e teoria del linguaggio, di cui ricordiamo la
Retorica e la Poetica.

2) La critica all’idea platonica e la metafisica

Le divergenza tra Platone e Aristotele. Platone ed Aristotele rifletto-


no un passaggio complesso dall’età classica a quella ellenistica. Vi
sono tra loro infatti delle divergenze in particolare per quel che riguar-
da gli scopi del sapere. Platone crede nella finalità politica della
conoscenza e immagina il filosofo come un reggitore e un uomo poli-
tico. Aristotele mira ad un modello di conoscenza disinteressata e
definisce il filosofo come un «sapiente» interamente dedito alla ricerca
e all’insegnamento. La dimensione politica-educativa è preminente
in Platone, quella conoscitiva e scientifica in Aristotele. Le differen-
ze tra i due filosofi fanno riferimento, naturalmente, anche ad una
concezione della realtà radicalmente diversa. A questo livello si inseri-
sce la dura critica che Aristotele elabora nei confronti della dottrina
platonica delle idee. Queste secondo Aristotele non riescono a spiega-
re l’esistente: si limitano piuttosto a «duplicare» la realtà, ponendo da
un lato un mondo iperuranio di essenze e modelli (o paradigmi) eterni
delle cose, dall’altro un mondo sensibile e terreno che ne sarebbe la
pallida copia. Ma il ragionamento non tiene: se si ammettono da un
lato cose individuali e mutevoli, dall’altro idee universali ed eterne (i
singoli uomini da un lato, ad esempio, e l’«idea» pura di uomo dall’al-
tro) si dovrà introdurre necessariamente un nuovo argomento che con-
sideri sia gli individui sia la loro idea, cioè una sorta di terzo elemen-
7. Aristotele

to, che appare inutile dal punto di vista scientifico oltre che concet-
tualmente insostenibile.

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Le condizioni e le divisioni della scienza. Aristotele elabora dunque
una teoria della conoscenza profondamente alternativa a quella plato-
nica. Abbiamo ricordato che per Platone le idee esistono in sé, eterna-
mente, in un «mondo intelligibile». Aristotele, negando la separazione
tra il mondo delle idee universali e il mondo degli oggetti individuali,
intende definire le condizioni che consentono di fare autentica scien-
za, cioè di studiare «ciò che non può essere diversamente da quello
che è». Tale scienza è la teoretica, che consiste in una ricerca delle
«cause e dei principi primi». Essa si divide in tre parti: filosofia prima
o teologia (o metafisica, come verrà chiamata dopo Aristotele), fisi-
ca e matematica. La fisica è la scienza della physis, cioè della natura,
e la natura è il regno del movimento e del divenire. La matematica
studia enti che non esistono per sé (i numeri) e che sono immobili. La
filosofia prima studia gli enti esistenti per sé e immobili: essa «considera
l’essere, il «ciò che è» in quanto è quello che è, e le condizioni che gli
sono intrinseche; non più, quindi, gli esseri in quanto naturali o mate-
matici, ma l’«essere» in quanto «essere», cioè i caratteri e le proprietà
comuni a tutte le forme di essere. Scopo della filosofia prima è dunque
la ricerca di ciò senza di cui le cose, tutte le cose, non sarebbero: in
altre parole l’essenza stessa (ousía) delle cose.
Secondo Aristotele, accanto alle scienze teoretiche esistono anche
le scienze pratiche, quelle che riguardano l’agire umano (pràxis) in
quanto rivolto a realizzare un fine: le scienze pratiche hanno per og-
getto non ciò che è necessario, ma ciò in cui l’uomo di volta in volta
opera in vista di fini. La realizzazione del bene e della felicità costitu-
isce l’etica che, a sua volta, si collega alla politica, dato che l’uomo è
un naturale «animale politico» che realizza se stesso nella vita sociale.
La finalità intrinseca della vita etica sarà, come vedremo in seguito, la
politica.

3) La metafisica
7. Aristotele

Il termine metafisica, abbiamo detto, non è aristotelico. Sembra sia


stato coniato da Andronico di Rodi, che nel I secolo d.C., ordinando i

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capolavori aristotelici, collocò le opere di «filosofia prima» subito dopo
i libri di «fisica» (il significato letterale dell’espressione metà ta physikà
è proprio questo: «cose che vengono dopo la fisica»). Le definizioni
che Aristotele diede della metafisica sono quattro:
• La metafisica «indaga le cause e i principi primi»
• La metafisica «indaga l’essere in quanto essere»
• La metafisica «indaga la sostanza»
• La metafisica «indaga Dio e la sostanza immobile»
È importante soffermarsi subito sul secondo dei significati attribuiti
da Aristotele alla metafisica: in polemica con gli eleati che considera-
vano l’essere come unico e contro i platonici che lo intendevano come
realtà trascendente, sostenere che la metafisica sia la dottrina dell’es-
sere in quanto essere equivale a dire che essa non ha per oggetto
una realtà particolare, bensì la realtà in generale. La domanda fonda-
mentale è dunque: cos’è l’essere? Aristotele risponde sostenendo in
primo luogo che l’essere non ha un’unica forma bensì una molte-
plicità di aspetti e di significati: «l’essere si dice in molti modi», è la
celebre sentenza con cui Aristotele delinea l’inizio della sua specula-
zione metafisica. Questi molteplici modi o significati dell’essere posso-
no essere così schematizzati:
a) L’essere come accidente
b) L’essere come categoria (o essere per sé)
c) L’essere come vero
d) L’essere come atto e potenza
Analizziamoli punto per punto. L’essere si dice come accidente.
Quando diciamo, ad esempio, «l’uomo è un poeta» indichiamo un caso
di essere accidentale: infatti l’essere poeta non esprime l’essenza del-
l’uomo, ma solamente ciò che all’uomo può
Accidente: termine che in avvenire di essere, un semplice accidente.
Aristotele indica ciò che L’opposto dell’essere come accidente è l’es-
appartiene a qualcosa e
che può essere detto con sere per sé, l’essere come categoria: esso
7. Aristotele

verità ma non necessaria- indica la sostanza, di cui parleremo più


mente. avanti.

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Il terzo significato nominato da Aristotele è quello dell’essere come
vero, a cui si oppone il non-essere come falso. Questo è l’essere
«logico»: l’essere come «vero» indica infatti il giudizio coretto, il ragio-
namento autentico. Si tratta di un essere puramente «mentale». Infine
Aristotele allude all’essere come atto e potenza. Per capire a cosa il
filosofo si riferisce, consideriamo un semplice esempio: se prendiamo
una statua già scolpita possiamo dire che
Atto/Potenza: coppia di termi- essa è «in atto» una statua; il blocco di mar-
ni con cui si intende la realtà mo invece, prima di esser lavorato dallo scul-
realizzata (atto) e quella non
realizzata (potenza). tore, era solo «in potenza» la statua che poi
diverrà effettiva o in atto.

La sostanza. Non basta però aver delimitato i molteplici modi e


significati dell’essere. Per rispondere adeguatamente alla domanda «che
cos’è l’essere» bisognerà rispondere prima ad una questione ancora
più fondamentale: «che cos’è la sostanza (ousia)»?
Per arrivare a ciò, la filosofia deve ridurre tutti i significati dell’esse-
re ad un significato unico e basilare: deve cioè considerare l’essere
solo in quanto essere. Dobbiamo quindi ricorrere al principio di non-
contraddizione, che Aristotele esprime in due modi:

«È impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla


medesima cosa e secondo il medesimo rispetto»; «È impossibile che
la stessa cosa sia e insieme non sia» (Metafisica, IV, 3 IV, 4).

Uno stesso predicato non si può dunque affermare e negare con-


temporaneamente riguardo allo stesso soggetto: non si può dire con-
temporaneamente «l’uomo è animale ragionevole» e «l’uomo non è
animale ragionevole», poiché una di queste due affermazioni è neces-
sariamente vera, mentre l’altra deve essere necessariamente falsa. La
seconda asserzione aristotelica indica l’impossibilità ontologica che un
determinato essere sia, e insieme non sia, quello che è. Secondo il
principio di non-contraddizione infatti, ogni essere ha una natura de-
terminata che è impossibile negare. È quel che Aristotele chiama pro-
7. Aristotele

priamente sostanza: vale a dire la natura necessaria di un essere qual-

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siasi (egli ricorre all’espressione to de ti, che indica proprio «qualcosa
di determinato», di «definito»). Sostanza è ad esempio un certo uomo a
cui si riferiscono determinate proprietà (scuro, chiaro, basso, alto, ecc.)
logiche e fisiche. Ma non basta. Definire la sostanza come base fonda-
mentale delle cose, non ci aiuta ancora a capire esattamente quale sia
la struttura specifica degli enti della natura. Qui Aristotele inserisce la
nozione di sinolo (synolon), cioè l’unione di forma e materia. For-
ma è la natura intima delle cose, il che cos’è o l’essenza, ciò che rende
una cosa ciò che è. (La forma o essenza dell’uomo, ad esempio, è la
sua anima, ciò che fa di lui un essere razionale). La materia, invece, è
ciò che risulta necessario per la costituzione delle cose, è l’essere ma-
teriale delle cose.

Le quattro cause. Abbiamo precedentemente detto che la metafisi-


ca è, in primo luogo, presentata da Aristotele come ricerca delle cause
prime. Ad un ulteriore livello di approfondimento, tali cause sono
riducibili a quattro: la causa materiale, cioè la materia di cui è costi-
tuito un determinato ente (per esempio la materia dell’uomo è la sua
carne e le sue ossa). La causa formale, cioè la forma, il modello di
una cosa (per esempio l’«anima» come forma dell’uomo). La causa
efficiente, vale a dire ciò che dà origine a qualcosa (ad esempio il
«padre» come colui che ha generato il proprio figlio). La causa finale
è il telos, lo scopo cui tende il divenire dell’uomo.

Il problema di Dio. Dei quattro significati di metafisica, abbiamo


finora considerato quello per cui essa è lo studio dell’essere in quanto
essere e quello per cui essa è lo studio della sostanza. Rimangono da
chiarire gli altri due, quello per cui la metafisica è la scienza delle
cause ultime e quello per cui essa è la scienza di Dio. Nella Metafisica
Aristotele si chiede se esistano sostanze soprasensibili, oppure sola-
mente sostanze sensibili. Questo era un ulteriore punto in cui egli
riteneva di dover correggere Platone. Le sostanze sono le realtà prime,
poiché tutti i modi di essere dipendono dalla sostanza. Se tutte le
sostanze fossero corruttibili non esisterebbe nulla di incorruttibile. Ma
7. Aristotele

secondo Aristotele il tempo e il movimento sono senza dubbio in-

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corruttibili: il tempo non è generato né soggetto a corruzione e lo
stesso vale per il movimento, essendo il tempo nient’altro, per Aristo-
tele, che una determinazione (il «numero») del movimento.
Quindi, sviluppando un argomento presente già negli ultimi dialo-
ghi platonici, Aristotele afferma che tutto ciò che è in moto è necessario
che sia mosso da qualcos’altro. Non potendo però il processo essere
infinito (poiché in tal caso non si spiegherebbe il movimento iniziale)
è necessario che ci sia un principio primo e immobile, che Aristo-
tele definisce «motore immobile» e che funziona come causa iniziale
di ogni movimento. Tale principio primo è Dio stesso, dotato delle
seguenti caratteristiche: eterno (se eterno è il movimento, eterna deve
essere la sua causa); immobile (solo l’immobile può essere la causa
assoluta del mobile); privo di potenzialità, cioè atto puro, perfezio-
ne senza alcuna possibile trasformazione.

4) La logica

La teoria del ragionamento corretto. La logica, intesa come scienza


filosofica speciale, nasce con Aristotele e con lui raggiunge anche ec-
cezionali livelli di sviluppo. Essa è lo strumento (òrganon) che deve
rendere possibili «ragionamenti corretti» in tutti gli ambiti scientifici. La
logica non studia oggetti, bensì procedimenti attraverso i quali le
singole scienze conoscono gli oggetti.
La logica aristotelica è stata definita «formale», in quanto non si
occupa della materia del conoscere, ma della sua modalità, e cioè del
pensiero. Come tale essa deve essere considerata propedeutica a tutte
le altre scienze. Tutti i termini che costituiscono il linguaggio, ci dice
Aristotele, possono essere «senza connessione» (ad esempio «uomo»,
«pianta», «animale»), oppure «secondo una connessione» (ad esempio «il
cavallo corre»). Solamente in questo secondo caso essi compongono
un discorso. Aristotele ne nomina due tipi fondamentali: quello se-
mantico indica il discorso dotato di significato. Quello apofantico
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determina invece ciò che può essere qualificato come vero o falso. A
sua volta, la verità o falsità di un discorso dipende dalla sua congruen-

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za o meno con la realtà: quando il predicato di un soggetto è afferma-
to o negato in modo corrispondente ad una connessione oggettiva di
sostanza e attributo, abbiamo un giudizio vero; nel caso contrario ab-
biamo un giudizio falso.
La classificazione dei giudizi operata da Aristotele è molto ampia.
Ci limitiamo qui a ricordare come l’analisi delle forme dei giudizi che
costituisce la parte più rilevante della sua logica è la cosiddetta «sillogi-
stica», cioè la teoria del sillogismo.

Il sillogismo. Con questo temine si intende un ragionamento in


cui poste due premesse ne consegue necessariamente una conclu-
sione diversa dalle premesse stesse. Affinché vi sia un sillogismo vi
devono dunque essere tre proposizioni di cui due sono le premesse e
una è la necessaria conclusione che connette i due termini estremi
delle premesse. Nel sillogismo classico troviamo tre proposizioni, due
delle quali (la premessa maggiore e la premessa minore) fungono da
antecedenti e la terza (la conclusione) da conseguente. L’esempio clas-
sico di sillogismo è: «Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è uomo;
dunque Socrate è mortale»: il termine medio è uomo; i termini estremi
sono Socrate e mortale. Si dice premessa maggiore quella in cui il
medio compare insieme al termine estremo di significato più esteso
(«Tutti gli uomini sono mortali»); premessa minore l’altra in cui sog-
getto è il termine estremo meno esteso (Socrate è uomo); conclusio-
ne è: «dunque Socrate è mortale».

5) La fisica

Le condizioni del movimento. Abbiamo visto che i principi della realtà


sono la materia e la forma. Poiché gli esseri naturali sono in movimento
nasce il problema di cogliere le condizioni che spiegano il movimento
di ciascun essere: la fisica studia i corpi naturali che hanno in sé movi-
mento e riposo. Aristotele individua quattro tipi di movimento o di
7. Aristotele

moto: la generazione e corruzione delle cose individuali, cioè il moto


«sostanziale» per cui le cose nascono e muoiono; il mutamento, o alte-

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razione, cioè il movimento qualitativo in quanto passaggio da una qua-
lità ad un’altra; l’accrescimento e diminuzione, cioè il passaggio da
piccolo a grande e viceversa (detto perciò anche «moto quantitativo»); la
traslazione, ossia il movimento locale (distinto a sua volta in moto
naturale e moto violento). Queste varie forme di movimento sono deter-
minazioni particolari del più generale concetto di moto inteso come
divenire, trasformazione degli enti, passaggio da qualcosa a qualcos’al-
tro: ciò presuppone la distinzione tra sostanza e accidenti, e cioè tra
l’essenza che permane nonostante certe variazioni (un uomo è sempre
tale anche se muta aspetto negli anni) e le qualità variabili che la riguar-
dano. Perché il moto sia possibile, dice Aristotele, è necessario porre tre
principi: materia (o sostrato), forma e privazione. Il movimento im-
plica infatti sempre una tensione tra due contrari, tra la forma e la sua
privazione (ad esempio, il rosso viene dal non-rosso, il poetico dal non-
poetico). È tuttavia necessario anche un sostrato comune, distinto da
entrambi, che è il soggetto del divenire, la materia, ciò da cui una cosa
nasce. Ogni movimento comporta inoltre anche una causa specifica
(cosiddetta «causa efficiente») e un fine determinato («causa finale»).

La psicologia. La fisica aristotelica non studia unicamente la natura


in generale e i suoi principi: essa studia anche gli essere inanimati e
quelli animati. Agli esseri animati Aristotele dedica il suo celebre tratta-
to Sull’anima. Questi si differenziano dagli altri in virtù di un principio
vivificatore: tale principio, l’abbiamo più volte ricordato, è l’anima.
Ma che cos’è di preciso l’anima? L’anima non è sostanza a sé stante ma
«atto primo (entelechìa) di un corpo fisico organico avente la vita in
potenza». Aristotele ne distingue tre funzioni fondamentali:
• La funzione vegetativa, cioè la potenza nutritiva e riproduttiva. È
propria di tutti gli esseri viventi a cominciare dalle piante;
• La funzione sensitiva che comprende la sensibilità e il movimento
ed è propria degli animali e dell’uomo;
• La funzione intellettiva, propria dell’uomo.
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Le funzioni più elevate possono far le veci delle funzioni inferiori,


ma non viceversa; così nell’uomo l’anima intellettiva compie anche le

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funzioni che negli animali sono compiute dall’anima sensitiva e nelle
piante da quella vegetativa. Nell’uomo, in cui l’anima oltre a essere
vegetativa e sensitiva è anche intellettiva o razionale, al di là del cono-
scere sensibile sta il conoscere intellettuale: è questo il conoscere pro-
prio dell’anima intellettiva o intelletto.

6) Etica e filosofia pratica

La praxis. Accanto alle virtù dianoetiche (cioè quelle teoriche,


razionali, logico-concettuali che abbiamo esaminato sinora) Aristotele,
nei suoi trattati di etica e politica, pone anche le virtù etiche (campo
di studio delle scienze pratiche), che riguardano l’agire (la pràxis)
dell’uomo. Possiamo schematizzare così le tesi principali della filosofia
pratica di Aristotele:
• in senso generale la virtù (areté) consiste nell’attuare la propria
natura;
• la natura dell’uomo è la razionalità (logos).
Tale razionalità si esplica sia nell’azione, cioè all’interno dell’ambito
del mondo degli uomini al fine di guidarne e costituirne il costume (ethos),
sia nella conoscenza scientifica (episteme). Da questo punto di vista:
• le «virtù etiche» mirano al raggiungimento del «giusto mezzo», cioè
della scelta adeguata alla nostra natura;
• le «virtù dianoetiche» tendono invece alla comprensione dei princi-
pi primi della realtà nella sua totalità (metafisica).
Il fine più alto del processo etico per Aristotele è in questo senso la
comprensione razionale della giustizia che non può essere scissa dal
suo utilizzo pratico. La saggezza perfetta si configura come capacità di
agire convenientemente nei confronti di beni umani. Da questo punto
di vista la concezione dello Stato in Aristotele è certamente meno uto-
pistica di quella presente in Platone: non si cerca il governo perfetto
7. Aristotele

ma il più conveniente.

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Le forme della politica. Dal punto di vista dell’analisi più specifica
delle varie forme politiche, Aristotele distingue tre tipi governo: la
monarchia (dominio di un solo uomo); l’aristocrazia (potere dei
pochi, i «migliori»); e la politèia, che oggi chiameremmo democrazia.
In Aristotele il termine indica la forma di governo o di costituzione per
eccellenza, quella in cui è la maggioranza a governare; ma Aristotele
non si riferisce a una qualsiasi maggioranza di cittadini, bensì a un
governo basato su una solida ed estesa classe media. A questa con-
dizione la politèia è la forma di governo preferibile. Quando il potere
non è esercitato per la comune utilità, ma solo per un vantaggio perso-
nale, si ha la corruzione e la degenerazione di queste tre forme di
governo: la monarchia degenera in tirannide; l’aristocrazia in oligar-
chia, la democrazia in demagogia, cioè in puro inganno del popolo.

7) Retorica e poetica

Poesia, storia, catarsi. Nel trattato intitolato Poetica, Aristotele esa-


mina infine le varie forme della poesia greca: tuttavia dei due libri da
cui era composto originariamente il trattato, ci è rimasto solo quello
dedicato alla tragedia. La tesi fondamentale di questo celebre testo
(che ha costituito per secoli una guida ai problemi estetici, tecnici e
stilistici della composizione tragica) riguarda la distinzione tra vero e
verosimile. Il «vero» attiene a ciò che è realmente accaduto, al partico-
lare, ed è quindi campo di indagine della storia; il «verosimile» riguar-
da invece il possibile, ciò che potrebbe accadere, l’universale, ed è di
dominio della poesia, cui pertanto Aristotele riconosce un valore su-
periore a quello della storia. In particolare, egli definisce la tragedia
come imitazione (mimesis) di un’azione, non semplicemente attra-
verso il racconto (come nei poemi epici) ma grazie alla rappresenta-
zione scenica. La tragedia, con i suoi casi universali, è in grado di
produrre nello spettatore sentimenti di pietà e terrore che lo portano
ad una liberazione (katarsis) interiore, cioè una sorta di scarica, di
7. Aristotele

purificazione, sia pur temporanea, dalle passioni negative che dimora-


no potenzialmente in ogni animo umano.

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