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Il tram

La vedo.
Vedo le sue mani agitarsi convulse in aria, i capelli mossi dai rapidi movimenti, le
labbra aprirsi e chiudersi senza sosta. Osservo la sua lingua sobbalzare, l’ugola
messa a nudo negli strepiti più prolungati. Noto la malinconia nei suoi occhi, le
lacrime amare che sgorgano senza sosta.
La vedo, ma non la sento.
Non sento parole vuote e spente spiegarmi che cosa è cambiato. Non avverto le
grida e i pianti disperati. Non odo quel “è finita” che improvvisamente abbatte,
distrugge e annulla tre anni di vita e sogni.
Attorno a noi, il mondo scorre nella piena normalità. Attorno alla panchina, la
nostra panchina, colletti bianchi impettiti si dirigono verso i loro uffici, mamme
indaffarate accompagnano i figli a scuola, netturbini svogliati raccolgono mozziconi
e biglietti del tram usati. La quotidianità della grande metropoli ci scivola addosso
senza alcun esito: siamo persi nel nostro universo, nel nostro mondo ormai giunto
all’Armageddon, il giorno del giudizio universale e della fine di ogni cosa.
Fingo che nulla stia accadendo. Nella mia contorta mente simulo che il litigio sia
una messa in scena, tanto realistica e verosimile da trarre in inganno persino uno dei
due attori protagonisti. Finché lei rimane vicino a me, nulla mi può uccidere. Lei è
la salvezza, lei è la speranza di un nuovo inizio, di un giorno migliore.
Ma lei si allontana. Rimango attonito, quasi sbalordito nel constatare come la mia
architettura mentale sia stata messa in crisi da un semplice gesto: pochi passi oltre
la strada, aldilà della portata delle mie braccia, dei miei abbracci. E dei miei baci.
Le gambe, incerte, la portano sul marciapiede opposto. Si volta quasi dondolando.
Punta verso di me lo sguardo, appassionato e triste allo stesso tempo, mentre le
guance vengono bagnate dalle ennesime lacrime, distillati di disperazione e
rassegnazione. Improvvisamente, comprendo che non si tratta di uno sguardo
qualunque: si tratta di un addio, la parola “fine” marchiata a fuoco sulle rovine della
nostra storia d’amore.
Lo capisco, ma non lo accetto.
Faccio per muovermi, ma un inaspettato istinto di sopravvivenza mi àncora le
gambe a terra. Le osservo. Che diavolo succede? Alzo lo sguardo e torno a fissarla
negli occhi. Nel mentre, un tram affollato di persone attraversa con fare lento e
stanco la strada. Il contatto visivo viene interrotto dalle espressioni annoiate dei
passeggeri, impazienti di giungere a destinazione per riprendere l’assonnato corso
delle loro vite.
Vedo.
Sulla prima carrozza del tram vedo quello che avremmo potuto essere io e lei,
ovunque e per sempre. Vedo una giovane coppia impegnata in effusioni amorose
poco consone a un luogo pubblico, ma così vere e spontanee. Nella carrozza
successiva vedo una madre prendersi cura del figlio, nascosto alla crudeltà e alla
spietatezza del mondo in un passeggino. Ancora lo sferragliare delle ruote
metalliche sui binari, ed ecco le mani rugose e sagge di due anziani, accomunate da
una stretta salda, rivelatrice di un rapporto lungo decenni.
Ora volevo.
Volevo condividere quell’esperienza con lei. Ricominciare da zero. Volevo essere
come loro.
Il tram passa.
Torno ad osservarla, in attesa di una sua mossa. Congiunge le mani. Che voglia
ripensarci, pregarmi di raggiungerla? Affatto. Si sfila con non poca fatica un anello
in oro bianco, simbolo di un sentimento ormai sepolto nel rimpianto. Lo osserva per
un’ultima volta, quasi a voler pesare l’entità di quel gesto. Infine me lo lancia
addosso con tutta la rabbia che ha in corpo. Va a sbattere contro il mio petto. Il mio
cervello accusa minimamente il colpo, appena sfiorato da un oggetto troppo leggero
per poter impensierire la mia integrità fisica. Il cuore, invece, trasforma il gioiello in
un proiettile che corre ad alta velocità, raggiungendo in pochi istanti l’obiettivo.
Il mio cuore.
Spezzato, polverizzato, schiantato.
Porto la mano al centro della cassa toracica.
Non sento.
Non sento più l’ormai affannato respiro dei polmoni, non percepisco il battito
affaticato del cuore.
Sono morto?
Lei si gira, incurante delle mie reazioni. Ha fatto una scelta. Deve essere forte. Deve
accettarla.
Osservo il passo sempre più slanciato e deciso che la sta portando via da me, dal
mio futuro, dai miei sogni.
La seguo.
Avanzo, proprio mentre un altro tram sta giungendo.

La vedo.
Vedo questa volta le sue mani sono ferme, placide, intente ad accarezzare le mie,
invase da tubicini e sonde. Vedo le labbra frementi, sospese e paralizzate. Osservo
il viso nervoso e disteso, stanco ed energico. Noto i magnifici occhi, questa volta
straripanti di commozione per i miei primi cenni di vita dopo tre interminabili
giorni di buio e spegnimento. Giorni difficili che lei ha affrontato al mio fianco
senza mai allontanarsi, senza mai abbandonarmi.
La vedo, ma non la sento.
Non la sento perché l’emozione non ha voce, perché un’occhiata di intesa vale più
di mille parole. Vorrei sporgermi, avvicinarmi a lei. Allungo le braccia, le apro in
attesa di una sua riposta. Accoglie il tentativo sciogliendosi in un pianto che più di
qualunque cosa riesce a sfogare tutto ciò che prova e ha provato.
Sento.
Sento l’odore dei suoi capelli, l’aroma della sua emozione, il profumo del suo
amore. La bacio. Con passione, profondità, dolcezza. È lei che voglio. È lei la
donna con il quale voglio trascorrere il resto della mia vita, il miracolo dell’amore
apparso su un tram.
Ora volevo.
Volevo scappare con lei, fuggire, andare lontano. Accenno un movimento.
Non posso.
Le gambe, pietrificate, rimangono legate alle fresche lenzuola di un grigio ospedale.
Il dottore, felice di vedermi finalmente sveglio, attende sulla soglia della camera per
fornirmi tutte le spiegazioni del caso.
Dice che forse sono destinato a restare in sedia a rotelle per tutta la vita, ma non
importa.
Il corpo è immobile, ma il cuore è finalmente libero dalle sue catene.
Lei è con me.
Nient’altro conta.

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