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Il nostro obiettivo è l’apprendimento delle abilità di counseling, cioè di tecniche utili per il
colloquio di aiuto.
L'utilizzo del temine helper (colui che aiuta) - più generico rispetto a counselor, operatore,
o quant’altro - risponde a una precisa scelta: questo corso on line traccia delle linee guida
per l'approccio di aiuto utili a tutte le persone interessate al tema, quindi non solo a chi fa
uso del colloquio per la professione (psicologi, operatori sociali, ma anche operatori
sanitari, insegnanti...). Le abilità di base del counseling sono spendibili anche in contesti di
vita quotidiana e possono essere apprese da chiunque avverta il desiderio di qualificare la
propria capacità di ascolto. Riservare un atteggiamento di comprensione e offrire un
ascolto attivo può essere importante nelle più diverse occasioni, dai contesti strutturati di
volontariato fino alle relazioni più prossime, come quelle genitori-figli, tra amici, con vicini
di casa...
Su questo, invito a leggere le parole - riportate alla fine di questo testo - di Carl Rogers,
illustre fondatore dell’approccio centrato sulla persona, che terremo in particolare
considerazione durante il corso.
Una definizione di counseling è comunque utile per comprendere l’obiettivo con cui ci si
appresta alla relazione con l’interlocutore, sia che ciò avvenga in un contesto professionale
sia nella vita quotidiana.
La British Association of Counseling definisce il counselor come colui che “può indicare le
opzioni di cui il cliente dispone e aiutarlo a seguire quella che sceglierà. Egli può aiutare il
cliente a esaminare dettagliatamente le situazioni o i comportamenti che si sono rivelati
problematici e trovare un punto piccolo, ma cruciale, da cui sia possibile originare qualche
cambiamento. Qualunque approccio usi il counselor [...] lo scopo fondamentale è
l’autonomia del cliente: che possa fare le sue scelte, prendere le sue decisioni e porle in
essere” (BAC, Information Sheet 10, 1990).
Aiutiamoci a definire meglio l'oggetto del nostro interesse con Folgheraiter (Gli elementi
che caratterizzano il counseling) e con Mucchielli (Confronto fra colloquio di aiuto e altri
generi di colloquio), che puntualizzano la definizione attraverso il confronto con altri
generi di colloquio che counseling non sono. Infine, per chiarire i confini tra utilizzo delle
abilità di counseling e counseling professionale, utilizziamo alcune pagine di Geldard e
Geldard (Chi può far uso delle abilità di counseling).
Ecco le parole di Rogers:
c) Così come il counselor non pensa di curare patologie, neppure pensa a "risolvere
problemi" in senso stretto. Egli si congiunge a situazioni esistenziali o a problemi di vita
anche gravi e drammatici con l’intento di essere di aiuto, ma non a rigore per cercare
"soluzioni". Egli non si aspetta cioè che tali problemi cessino definitivamente, sostituiti da
uno stato opposto ottimale, la cui immagine risiede nella sua testa e che nel linguaggio
corrente è definito "soluzione". I problemi di vita non ammettono una soluzione ideale (ne
ammettono semmai tante possibili) e dunque non sono neppure problemi in linea logica. In
effetti, il counselor sa di aiutare le persone a fronteggiare la loro situazione di vita, cioè
a gestire il loro vivere così come è, per migliorarlo o renderlo più sopportabile nel suo
perdurare, e non a "risolverle", vale a dire a sostituire meccanicamente la difficoltà con
uno stato ideale predefinito secondo standard oggettivi esterni (Folgheraiter, 1998; 2003).
d) Ciò detto, va precisato che il counseling tipico è un aiuto che spesso viene dato alle
persone in situazioni di vita ordinarie (Burnett, 1977), per compiere scelte o prendere
iniziative del tutto comuni e che quindi non sono connotate da alcun marchio
stigmatizzante, come succede agli utenti dei servizi socio-assistenziali. Tali situazioni di
aiuto "normali" si danno ad esempio con le persone in lutto, con gli studenti nel momento di
compiere scelte di studio o di vita, con i carer nei momenti più duri e difficili del loro
impegno di cura, e così via.
e) Per tutti questi motivi si dice che il counseling per principio guarda "in avanti", alle
realtà future che si delineeranno come conseguenza delle decisioni e delle azioni emergenti
progressivamente dalla relazione di counseling o dalla successiva autonoma capacità di
scelta in capo alla persona interessata. Non mira a rivangare il passato, a trarre diagnosi o
descrizioni o spiegazioni di cause o catene di cause che hanno portato alla difficile
situazione corrente (Folgheraiter, 1998).
g) Il counselor quindi non pensa di essere efficace e di ottenere risultati in funzione della
sua bravura, bensì in funzione della combinazione di potenzialità che — se si è fortunati e
se ci si crede abbastanza — possono sbocciare e dare frutto. Sul piano "filosofico", si tratta
di passare da una concezione positivistica dell’aiuto, con l’operatore che lo intende come
un suo proprio prodotto ovvero come l’effetto di una sua precisa manipolazione, a una
concezione postmoderna, designabile con vari termini come fenomenologica, o
costruttivistica, o relazionale (Cooper, 2001; Folgheraiter, 2000a; Parton, 2003).
In una conversazione "ci si siede e si chiacchiera". Si scambiano delle opinioni, sugli altri e
su molti argomenti. Da una semplice conversazione non esce nulla di definito tranne lo
scambio di alcune informazioni possedute dall’uno o dall’altro; non vi è nulla oltre
l'incontro in se stesso, che crea o rinforza un senso di familiarità. Può avvenire che tutta la
prima fase di un colloquio d’aiuto sia del genere "conversazione", per prendere confidenza
e "fare la conoscenza" in modo graduale (il contenuto degli scambi è irrilevante). Ma il
colloquio propriamente detto è tutt’altra cosa e non può limitarsi a ciò.
L’intervista giornalistica (per giornali e riviste, per la radio o per la televisione) è un genere
di colloquio "faccia a faccia" in cui uno dei due (il giornalista) cerca effettivamente di far
parlare l’altro su se stesso o su un determinato problema (tema dell’intervista).
Sembrerebbe che questo tipo di colloquio sia centrato sulla persona dell’intervistato e
richieda, da parte del giornalista, un tentativo per comprendere, il più possibile, le opinioni
personali del suo "cliente". Evidentemente si tratta di un’illusione poiché in effetti il
colloquio non è limitato al faccia a faccia. Un terzo partner, enorme e potente, è sempre
presente benché non se ne parli esplicitamente: il pubblico.
Succede spesso che il colloquio sia, da parte di colui che per definizione deve accogliere e
ascoltare l’altro, un’occasione per parlare da solo. "Ha parlato soltanto lui", dirà l’altro
uscendo, "non ho potuto dire neanche una parola". Il "discorso" può avere diversi obiettivi
coscienti: tentativo più o meno premeditato di far ammettere qualcosa all’altro o fargli
cambiare opinione, informazioni da dare a senso unico e così via. Possono esserci anche
degli obiettivi inconsci: piacere narcisistico di sentirsi parlare, bisogno di manifestare una
volontà di potenza, paura di ciò che l’altro potrebbe dire e così via. Ciò che è certo è che il
discorso-monologo davanti all’altro è esattamente l’opposto di ciò che occorrerebbe fare
per comprenderlo.
L’atteggiamento (e il ruolo) del confessore implica una valutazione morale di ciò che l’altro
dice, come una serie di confessioni che lo colpevolizzano. Malgrado egli abbia intenzione di
perdonare o di assolvere, il confessore si connota come detentore di una regola morale o
religiosa, come "moralmente superiore" o come giudice. L’altro (l’intervistato) è quindi
nella situazione di colui che ha infranto o rischia di aver infranto la legge morale. Può
capitare che il colloquio d’aiuto assuma, in certi momenti, le caratteristiche di una
confessione; questo però non significa che l’atteggiamento dell’operatore debba essere
quella del confessore o del direttore spirituale. Il suo obiettivo non è quello di "liberare
dalla colpa" né di giudicare (punire o perdonare) ma di comprendere la situazione
dell’altro.
Avete mai avuto problemi, a livello personale? Può darsi senz’altro che la risposta sia
affermativa. Siamo arrivati alla conclusione che non ci sia nessuno, o quasi, che non abbia
mai avuto problemi di un qualche tipo. Non è il caso di disperare: avere dei problemi non
preclude la possibilità di dare una mano agli altri. Con una nota di cautela, però. Se
decidete di fare uso di queste abilità di counseling, è probabile che gli altri si sentano
incoraggiati a condividere con voi parte dei loro problemi, o delle cose che li preoccupano.
Ora, ascoltare i problemi degli altri può anche essere un’azione di grandissimo impegno
emotivo. Tanto più se siete voi i primi ad avere dei problemi che si intromettono in
continuazione nella vostra vita. Se ciò avviene, è possibile che tali problemi ostacolino, in
modo anche grave, la vostra effettiva capacità di dare una mano agli altri.
C’è poi da considerare il rischio che vi troviate soffocati, da un momento all’altro, dal peso
simultaneo dei vostri problemi e di quelli altrui. È chiaro, come vedremo nel corso del
libro, che nell’utilizzo delle abilità di counseling non si possono non considerare le
eventuali ripercussioni su ciascuno di noi. Tali ripercussioni, del resto, possono anche
essere di segno positivo; una buona capacità di impiego di queste abilità, anzi, ci darà non
solo la soddisfazione del dare una mano agli altri, ma servirà anche a migliorare le nostre
relazioni interpersonali.
Aiutare gli altri nei problemi della vita quotidiana, in effetti, non è una prerogativa degli
"esperti", operatori qualificati ad hoc. Al contrario, è un’attività che la maggior parte di noi
svolge abitualmente, di tanto in tanto, quando se ne presenta la necessità. Un’attività che
si svolge in modo del tutto naturale, e che ciascuno di noi impara a fare, dall’infanzia in
avanti. Chiunque di noi, scavando nella memoria, si potrebbe ricordare almeno un
momento in cui ha avuto occasione di ascoltare qualcuno che stava male, aiutandolo — per
ciò stesso — a sentirsi un po’ meglio.
Proviamo a fare un elenco — che potrebbe essere senz’altro più lungo — degli ambiti
professionali che potrebbero essere maggiormente interessati a sviluppare le abilità di
counseling: servizi sociosanitari, studi di consulenza, progetti per i giovani, studi legali,
servizi abitativi, organizzazioni caritative e di volontariato, servizi di emergenza, ecc. Ma
anche a leader religiosi o spirituali, insegnanti, carer informali, e tanti altri potrebbe
essere utile.
Avete mai notato che c’è qualcuno che ha una specie di talento naturale nell’ascoltare gli
altri, e nell’aiutarli a risolvere i loro problemi? Se avete un talento di questo tipo, l’avrete
forse capito da tutte le persone che vengono a chiedervi un consiglio, quando hanno
qualche problema che le assilla. Ciascuno di noi, beninteso, ha un certo livello di
competenza, e di efficacia, nell’arte dell’ascoltare gli altri. Siamo comunque convinti che,
con l’apprendimento di determinate abilità specifiche, questo "livello" possa migliorare un
po’ per tutti.
Se vogliamo rispondere con una parola soltanto, questa è "no". È importante chiarire da
subito la differenza tra l’uso di alcune abilità elementari di counseling, nella vita di tutti i
giorni, e la pratica professionale del counseling stesso. Per meglio illustrare la differenza,
descriveremo a parte ciascuno dei due elementi:
il counseling;
l’utilizzo delle (o meglio, di alcune) abilità di counseling.
Il counseling
Apprendere l’utilizzo delle abilità elementari del counseling nella sfera della vita
quotidiana non vuol dire, di per sé, acquisire le abilità professionali di un counselor. È
possibile comunque che alcuni lettori, entusiasti della loro esperienza nel mettere in
pratica queste abilità di base, decidano di intraprendere un vero e proprio percorso
formativo per counselor.
Chiunque voglia diventare counselor dovrebbe frequentare un corso di studi specifico, con
il supporto di un’esperienza di tirocinio, e con un’adeguata supervisione. Un counselor
deve avere maturato una buona competenza in psicologia e nei processi dello sviluppo
umano, oltre che un’adeguata conoscenza delle teorie del counseling e di molteplici altri
approcci teorici. Deve inoltre fare riferimento a uno specifico modello teorico, da cui
deriva un determinato stile di intervento — o l’integrazione di più stili diversi, ricavati da
altre teorie — sul piano della pratica professionale. Un buon counselor deve essere in grado
di servirsi di molteplici abilità, tecniche e strategie diverse, anche in relazione allo stile di
intervento prescelto.
La pratica professionale del counseling risponde a tutta una serie di criteri e di linee
guida, fissate da organismi professionali che stabiliscono gli standard di accreditamento, e i
livelli di competenza, richiesti agli operatori. Ogni counselor deve rispondere a un codice
professionale, in cui si sottolinea l’importanza del massimo rispetto per i valori, le
esperienze, i pensieri, i sentimenti e la capacità di decidere da soli, da parte dei clienti. Lo
scopo è sempre quello di soddisfare nel miglior modo possibile gli interessi del cliente
(BACP, 1999). Oltre a questo, ogni counselor deve rispondere a principi etici come il
rispetto dei confini che si danno alla relazione, la buona qualità della relazione stessa e la
sua congruenza con gli obiettivi a cui risponde ogni singolo intervento di counseling.
Ci si potrebbe a questo punto domandare che differenza c’è tra la relazione d’aiuto che si
crea in un intervento di counseling professionale, e le "normali" relazioni sociali in cui si
utilizzano le abilità di counseling. La differenza principale sta nella diversa qualità della
relazione tra il counselor e il suo interlocutore.
Una relazione di counseling, inoltre, non prevede quella forma di reciprocità che si può
incontrare, normalmente, in un’amicizia.Il counseling, in un certo senso, è un processo
unidirezionale. Il counselor invita il cliente a condividere con lui pensieri, sentimenti,
esperienze e problemi; da parte sua, però, non dovrà fare particolari sforzi di
"condivisione", se non nella misura in cui questi vanno a diretto beneficio del cliente. Anche
sotto questo profilo, è qualche cosa di ben diverso da una relazione d’amicizia, in cui due
persone possono condividere le rispettive esperienze e, in tal modo, rafforzare il legame
che le unisce.
Una relazione di counseling, inoltre, non può assolutamente essere di natura autoritaria. Il
counselor deve fare del suo meglio per dare vita a una relazione orizzontale, di parità,
con la persona che aiuta. Un rapporto ben diverso, per intenderci, da quello che si crea tra
un’équipe di operatori e chi ne supervisiona o ne coordina le attività, in un contesto
lavorativo. In tale contesto, un dirigente è pienamente legittimato a dare ordini, istruzioni,
indicazioni al personale di sua competenza, in modo da realizzare, con le attività
necessarie, gli obiettivi previsti dall’azienda, o dal servizio pubblico. In questa situazione il
rapporto tra le parti non è certo paritario, ma queste potranno comunque fare uso, laddove
opportuno, delle loro abilità di counseling.
Nelle relazioni sociali "normali", ciascuno di noi cerca spesso di convincere gli amici a fare
ciò che vorrebbe lui, o ciò che ritiene sia "meglio" per loro. Non è così che si comporta un
counselor. Questi tenderà a incoraggiare gli altri a fare ciò che loro vorrebbero, più che ciò
che egli si aspetterebbe, al posto loro. È per questo che un buon counselor dovrebbe
sempre cercare di evitare, per quanto possibile, di dare consigli ai clienti.
I counselor, in effetti, non offrono quasi mai consigli, né suggerimenti, circa il modo in cui
un determinato problema — dal punto di vista degli "esperti" — si presterebbe a essere
risolto. Tendono, semmai, a incoraggiare i clienti nella scoperta delle loro risorse, e delle
loro personali soluzioni. Viceversa, in un rapporto di amicizia, di lavoro o di supervisione,
rientra nell’ordine delle cose — al di là di un eventuale utilizzo delle abilità di counseling —
che si diano consigli o suggerimenti a chi si trova in difficoltà.
Ogni volta che qualcuno si sente preoccupato o disorientato, magari perché deve prendere
una decisione difficile o risolvere un problema, le abilità di counseling possono essere
d’aiuto. Un medico potrebbe farne uso nel curare un paziente che ha subito lesioni fisiche
nel litigare pesantemente con qualcuno. Un impiegato se ne potrebbe avvalere per aiutare
il collega in difficoltà a gestire il suo carico di lavoro. E gli esempi potrebbero continuare:
un insegnante — tanto per farne un altro — potrebbe mettere in pratica queste abilità di
counseling, al fine di aiutare uno studente a parlare delle sue difficoltà nello studio.
Avrete forse notato, da questi esempi, che l’utilizzo di queste semplici abilità di counseling
non incide sulla natura dei rapporti tra la persona che ne fa uso e il suo interlocutore.
L’amico continuerà a essere nulla più che un amico; il manager continuerà a rapportarsi
con i suoi collaboratori nel ruolo di manager; altrettanto si dica per l’infermiere. Non
sarebbe corretto, né opportuno, tentare di cambiare le carte in tavola. La relazione tra le
parti, nella sostanza, è sempre la stessa, ma l’esperienza suggerisce che, attraverso l’uso
corretto delle abilità di counseling, essa potrà migliorare.
Al contrario del counseling professionale, in cui è raro che si diano dei consigli espliciti e
diretti, le "normali" abilità di counseling possono anche essere impiegate in contesti in cui
è opportuno, se non necessario, dare informazioni, o veri e propri consigli. In certi casi,
è innegabile che dare consigli sia utile per aiutare qualcuno a risolvere un problema, o ad
assumere una decisione. Ciò è tanto più vero se chi fa uso delle abilità di counseling
dispone di conoscenze, o di esperienze, che l’altra persona non ha. È quello che potrebbe
fare una madre, ad esempio, mentre ascolta la figlia adolescente che è in rotta di collisione
con la sua migliore amica. Nel suo ruolo di genitore, può anche essere appropriato, a
seconda delle circostanze, che dia dei suggerimenti alla figlia, se non degli espliciti
consigli. Per fare un altro esempio, il responsabile del personale di un’azienda potrebbe
affrontare, con le sue abilità di counseling, il problema della scarsa puntualità di una
dipendente che è appena tornata al lavoro, dopo un congedo per maternità; al tempo
stesso, le potrebbe dare dei consigli, facendo riferimento alle regole aziendali sul rispetto
degli orari.
Ogni volta che facciamo uso delle abilità di counseling dobbiamo riconoscere che ci
stiamo sforzando, deliberatamente, di comunicare in un modo diverso da quello della
normale conversazione.
Sarebbe interessante capire quali siano le aspettative di ciascuno di noi, quando ci viene da
domandarci: "Che risultati possiamo ottenere, grazie alle abilità di counseling?". Anche in
questo caso, varrebbe forse la pena fermarsi un attimo a riflettere, per mettere meglio a
fuoco queste aspettative. Se siete d’accordo, vi proponiamo di annotarle nello schema
seguente:
1. ..............................................................................
2. ..............................................................................
3. ...............................................................................
4. ...............................................................................
A nostro giudizio, le abilità di counseling possono servire a portare conforto a chi vive una
situazione di sofferenza, e più in generale ad aiutare le persone in difficoltà a:
Chiunque di noi, riflettendo un po’ sul passato, si ricorderà probabilmente di qualcuno che
lo ha aiutato, con la sua paziente capacità d’ascolto, ad affrontare una situazione
emotivamente difficile, o a risolvere un problema. Ciascuno di noi, cioè, ha già avuto
probabilmente a che fare con qualcuno che, in modo più o meno consapevole, ha fatto uso
delle proprie abilità di counseling, per aiutarlo.
Probabilmente sarà più facile ricordarci quanto in seguito ci siamo sentiti meglio più che
non ciò che l’altra persona ha effettivamente detto o fatto per aiutarci. Anzi, se quella
persona ha fatto un buon uso delle sue abilità di counseling, difficilmente avremo colto le
parole che ha usato.
Aiutare gli altri, con le normali abilità comunicative, è qualche cosa che tutti noi
impariamo a fare — e che, molte volte, facciamo naturalmente — lungo tutto il corso della
nostra vita. Potremo risultare molto più efficaci, però, se impareremo anche a fare un uso
corretto di alcune abilità di base del counseling.
Possono rendere difficile per l’interlocutore l’esplorazione ampia e serena della sua
situazione o del suo problema, soprattutto se utilizzati all’eccesso.
Sono centrati sull’helper, ovvero sono direttivi, e si riferiscono a ciò che lui pensa,
impedendo di comprendere a fondo ciò che l’interlocutore, verbalmente o meno,
sta esprimendo.
Nel prossimo modulo troverai una spiegazione dei primi cinque atteggiamenti e dei loro
potenziali effetti dannosi.
Una premessa necessaria riguarda il limite implicito che un corso come questo può avere
sull’apprendimento di atteggiamenti. E’ chiaro che la comprensione delle implicazioni
positive o negative dell’assunzione di un atteggiamento piuttosto che degli altri riguarda il
campo della pratica e quindi va ben al di là delle possibilità formative di un corso base di
counseling (che sia on line o in aula). Quel che cercheremo di fare è di rendere espliciti
alcuni effetti che possono provocare le risposte dell’helper, invitando ciascuno a riflettere
sulla sua esperienza personale.
L'ATTEGGIAMENTO DI COMPRENSIONE
L’atteggiamento di comprensione, così come gli altri, non si manifesta solo attraverso le
parole. E’ anzitutto una disposizione personale, che deve essere fatta propria dall’helper e
poi resa evidente all’interlocutore attraverso tutti i canali possibili: il luogo dell’incontro e
i messaggi non verbali sanno veicolare il desiderio di comprendere tanto quanto le parole.
La figura proposta di seguito (da M.L. Raineri) ci aiuta a focalizzare gli elementi cruciali
dell’atteggiamento di comprensione, che andiamo ora brevemente a definire uno per uno.
Oggetto della seconda parte del nostro corso saranno le principali tecniche di counseling,
ma a questo punto una premessa è cruciale.
L’utilizzo delle tecniche senza un sostanziale impegno a far propria l’idea che le sorregge,
difficilmente porta a qualche risultato nella relazione di auto. Quando si sperimentano
nella vita concreta le abilità proposte in questo corso e non si ottengono gli esiti sperati, è
molto facile attribuirne la colpa al metodo che non funziona. Varrebbe prima la pena,
invece, riflettere se nell’occasione concreta c’erano i presupposti della comprensione,
ovvero se il nostro atteggiamento, il luogo dove eravamo, il modo in cui ci stavamo
relazionando con l’altro erano adeguati oppure no. Una risposta può anche essere
“tecnicamente” sbagliata ma veicolare comunque il nostro desiderio di comprensione e
quindi essere efficace. Viceversa, una risposta tecnicamente perfetta ma priva di anima
difficilmente darà il risultato sperato.
Anzitutto l’ovale “interno” delimita la disposizione interna, dove trovano posto i tre
atteggiamenti personali che Rogers ha sempre ritenuto condizioni necessarie e sufficienti
per realizzare l’aiuto, ovvero congruenza (o genuinità), accettazione incondizionata,
empatia.
Congruenza (o genuinità)
Nella relazione d’aiuto l’helper cerca di essere sempre se stesso ed essere collegato con i
sentimenti che prova.
“In primo luogo pongo l’ipotesi che la crescita di una persona sia facilitata quando il
terapeuta è ciò che è, quando nel rapporto con il suo cliente è autentico, senza maschera o
“facciata” [...] è disponibile ai propri sentimenti ed è perciò capace di viverli, di essere in
rapporto con loro e di comunicarli, se opportuno. Vuol dire che il terapeuta entra in un
rapporto personale diretto con il cliente, incontrandolo da persona a persona; vuol dire che
è proprio se stesso, senza alcuna riserva. Nessuno raggiunge completamente questa
condizione, tuttavia quanto più il terapeuta sa ascoltare con accettazione ciò che passa
dentro di lui tanto più è congruente.” (Rogers, 1989, p. 89)
Accettazione incondizionata
L’helper cerca di mantenere una disposizione positiva verso il suo interlocutore senza
condizioni, indipendentemente da ciò che questi fa, pensa o dice.
“Posso accettare, dell’altra persona, ogni aspetto che mi presenta? Posso accettarlo così
com’è? Posso comunicargli questo atteggiamento? O lo accetto solo sotto condizione,
approvando alcuni aspetti dei suoi sentimenti e dissapprovando tacitamente o apertamente
gli altri aspetti? Secondo la mia esperienza se il mio atteggiamento è condizionato l’altro
non cambia, nè cresce, almeno in quegli aspetti che non riesco ad accettare
completamente.” (Rogers, 1989, p. 83)
Empatia
Sulla base delle due disposizioni di cui sopra, l’helper può cercare di mettersi nei panni
dell’interlocutore per comprendere la sua situazione attuale, i suoi sentimenti, i suoi
vissuti.
“Sentire il mondo personale del cliente “come se” fosse nostro, senza però mai perdere
questa qualità del “come se”, questa è empatia; sentire l’ira, la paura, il turbamento del
cliente, come se fossero nostri, senza però aggiungervi la nostra ira, la nostra paura, il
nostro turbamento, questa è la condizione che tentiamo di descrivere.” (Rogers, 1989, p.
57)
Aggiungiamo ancora da Rogers che “gli atteggiamenti descritti non hanno senso se non in
una atmosfera di grande rispetto per la persona e per le sue capacità potenziali. Se il punto
centrale del sistema di valori del terapeuta non è la dignità della persona, egli non è in
grado di provare un interessamento reale o un desiderio di capire, e forse non rispetterà
abbastanza se stesso da essere autentico.” (Rogers, 1989, p. 98)
Per approfondire meglio la disposizione personale cui l’helper dovrebbe tendere per
ottenere una buona relazione d’aiuto, invito allo studio de Gli atteggiamenti dell'helper
(Folgheraiter, Hough e Geldard e Geldard).
A chi desideri soffermarsi ancora sull’argomento, suggerisco inoltre un saggio di Rogers che
mi pare interessante perchè riporta l’esperienza che l’autore stesso ha fatto, nella vita e
nella professione, di questi elementi fondamentali. Si tratta di una saggio collocato in una
delle opere più tardive. Il saggio è Esperienze nella comunicazione, contenuto in Un modo
di essere. I più recenti pensieri dell'autore su una concezione di vita centrata-sulla-
persona.
Dal momento che l’atteggiamento interno è senz’altro un prerequisito centrale per poter
applicare le tecniche in modo non meccanico ma motivato, propongo a questo punto di
verificare le nozioni e, soprattutto, di ragionare sulla loro spendibilità nel proprio contesto
di vita.
L’approccio di "centrarsi sul cliente" per comprendere il problema come è vissuto dalla
persona presuppone, logicamente, determinati principi che possono essere formulati nel
modo seguente:
Questo richiede qualche cosa d’altro oltre la semplice buona volontà. Richiede una
formazione e un metodo. In un certo senso, il problema del metodo è comune a tutte le
scienze umane. La loro "oggettività" non è quella delle scienze naturali. Lo sforzo di essere
oggettivi non è importante in nessun’altra cosa più che nella comprensione di una persona;
questo sforzo esige, allo stesso tempo, da parte di chi assiste, una "fredda" intelligenza e
l’immersione nella soggettività del cliente: questo sforzo viene chiamato "empatia", sforzo
di decentrarsi da se stessi per entrare nell’universo dell’altro e comprenderlo umanamente.
Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al colloquio di
aiuto, Trento, Erickson, pp. 3233.
Come noto, Rogers aveva individuato una "triade" di atteggiamenti personali che lui
riteneva - e ha sempre continuato a ritenere, nonostante le pressioni contrarie di qualche
suo scolaro, Carkhuff tra i primi - condizioni necessarie e sufficienti perché i processi
interpersonali si dispieghino in senso costruttivo e pertanto l’aiuto (comunque lo si intenda:
integrazione del sé; capacità di autonomia e di soluzione di problemi; pienezza della vita
emozionale, ecc.) si realizzi. Questi atteggiamenti - che Carkhuff ha poi accolto come
essenziali - Rogers li ha elencati in ordine non casuale, ma seguendo una precisa linea di
priorità e di importanza. Vediamoli sinteticamente.
1. La genuinità (o spontaneità)
Ciò non significa che l’operatore debba restare indifferente agli aspetti etici connessi a ciò
che la persona dice o fa, ma semplicemente ribadire che il processo di aiuto è
un’opportunità che si offre alla persona per prendere piena consapevolezza di
comportamenti o modi di essere che possono presentarsi come moralmente riprovevoli,
anzi che spesso lo sono, proprio perché è anche per questo che l’aiuto è richiesto. Il
processo di aiuto deve servire a rinforzare questa presa di coscienza morale nella persona e
la disponibilità a cambiare; non dev’essere un’arena nella quale l’helper possa dar sfoggio
della sua superiorità morale, bollando le incapacità della persona attraverso dei giudizi.
Anche se l’atteggiamento di accettazione, come la non direttività, può essere declinato con
gradualità3 ma, in generale, il poter trovare un interlocutore non giudicante e affettuoso è
per Rogers la condizione essenziale per lo sviluppo di una piena maturità della persona.
3. La comprensione empatica
Per Rogers, empatia significa "capacità di mettersi al posto dell’altro, di vedere il mondo
come lo vede costui " (Rogers e Kinget, 1982, p. 92). Questa comprensione dell’altro "nei
suoi significati più intimi e personali come se fossero i propri, senza d’altronde dimenticare
che in realtà non lo sono" (Rogers e Kinget, 1982, p. 1697) non deve essere né troppo
condizionata da emotività o determinata da effettiva condivisione e affinità (in questo caso
si tratterebbe di simpatia) né troppo intellettualizzata o frutto di interpretazioni cliniche
(di "perspicacia diagnostica", per dirla con Giordani). La comprensione accurata dell’altro
dovrebbe prodursi con un mix di sentimento (coinvolgimento affettivo) e di intelligenza
percettiva.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, 1999, pp. 69-76.
L’empatia
L’empatia è centrale in questo tipo di esperienza fra counselor e cliente. In ogni caso,
Rogers (1991) sottolinea che fare riferimento al mondo interiore del cliente non significa
identificarsi emozionalmente con lui. In altre parole, non è né necessario né opportuno che
un counselor faccia veramente esperienza delle emozioni che prova il cliente, mentre è
invece essenziale che le comprenda. Questo perché se un counselor venisse sopraffatto
dalle forti emozioni di un cliente sarebbe incapace di mantenere nel giusto equilibrio una
relazione che, non bisogna dimenticarlo, ha lo scopo di aiutare il cliente.
Probabilmente una delle cose più importanti da considerare riguardo alla simpatia è che
quasi invariabilmente deriva da una struttura esterna di riferimento. Una persona che
esprime simpatia può farlo senza una reale comprensione di ciò che l’altro ha sofferto. La
simpatia può derivare da una visione superficiale o esterna di ciò che l’altro ha provato, ma
non tenta in alcun modo di raggiungere un vero insight della natura o della qualità di quella
esperienza. Quando ci avviciniamo al vissuto di qualcuno con una struttura esterna di
riferimento, tendiamo a categorizzarlo e a imporre su di esso il nostro punto di vista.
Questa tendenza a conformare l’esperienza di un’altra persona al nostro modo di pensare è
limitata e fuorviante, e presenta l’ulteriore svantaggio di produrre un punto di vista
unidimensionale dell’esperienza stessa. Vediamolo con un esempio.
La signora Mariangela si prendeva cura del marito malato da molti anni. Quest’ultimo
soffriva di una malattia progressiva, il che significa che le sue condizioni peggiorarono
rapidamente nell’anno che precedette la sua morte. La signora Mariangela aveva 46 anni
quando il marito morì, e benché lo avesse amato provò una sorta di sollievo quando il lungo
periodo di assistenza si fu concluso. Frammisti al sollievo, però, c’erano un senso di colpa e
un certo rimorso. Talvolta era stata impaziente e ostile con il marito. Lui era per molti
aspetti una persona difficile, e adesso che non c’era più lei si sentiva libera di dedicarsi ai
propri interessi che aveva dovuto abbandonare durante la sua malattia. Oltre a questo
riusciva ora a ripescare vecchie amicizie e conoscenze e ad avere una più ricca vita sociale.
Una risposta animata da una convenzionale simpatia si sarebbe limitata a focalizzarsi sulla
sua perdita. Così, altri importanti aspetti della sua situazione non sarebbero stati
riconosciuti, in parte perché non avrebbero potuto essere comunicati ad amici, vicini o
conoscenti. D’altronde, gli atteggiamenti tradizionali nei confronti del lutto e delle perdite
tendono a dare per scontato che tali esperienze siano assolutamente dolorose. Il fatto è
che eventi palesemente tragici possono essere positivi per certi aspetti. Nel caso della
signora Mariangela, ci sono molti aspetti complessi della sua esperienza che possono essere
certamente descritti come positivi. Ciò non vuol dire che non abbia sofferto per la morte
del marito; può averne sofferto anche più di una persona il cui matrimonio fosse stato
idilliaco — sempreché sia possibile descrivere qualunque matrimonio in questo modo.
L’empatia quindi, a differenza della simpatia, riguarda la comprensione del punto di vista
individuale e unico del cliente. Un’altra formulazione dello stesso concetto è che
l’empatia è ciò che rende possibile ai counselor immaginare e comprendere la struttura
interna di riferimento del cliente.
Trasmettere calore
Il calore è la seconda delle tre condizioni fondamentali enunciate da Carl Rogers, e talvolta
vi viene fatto riferimento con le parole accettazione, considerazione incondizionatamente
positiva o cura. Naturalmente è molto più facile per i clienti (come per chiunque altro)
discutere questioni delicate, personali o intime quando la persona con cui stanno parlando
mostra chiaramente un atteggiamento permeato di calore e accettazione. L’accettazione
implica un approccio non giudicante da parte dei counselor.
Un altro aspetto significativo del calore e dell’accettazione è che, quando sono presenti, è
più probabile che i clienti acquistino fiducia in se stessi e nella loro capacità di fronteggiare
gli eventi problematici (coping). Il fatto di sentire che qualcuno si preoccupa per noi e ci
valorizza dà un senso di fiducia immediato. Ciò può, a sua volta, indurre maggiore
coraggio e sicurezza nell’affrontare i problemi.
L’accettazione dei clienti non implica che un counselor debba approvare qualunque cosa
essi dicano o facciano. Emerge la questione dell’autoconsapevolezza del counselor, e
dell’importanza di essere capaci diseparare i propri punti di vista e opinioni da quelli del
cliente. Le opinioni, le esperienze e i comportamenti di un cliente possono essere in totale
contrasto con il sistema di valori del counselor, ma il cliente, in quanto persona, ha diritto
all’accettazione e alla considerazione positiva, specialmente quando si è affidato
completamente al counselor e si è reso vulnerabile nel processo della psicoterapia.
Quando il rispetto, l’accettazione e il calore sono presenti nel counseling, è più probabile
che i clienti accettino se stessi. Ciò dovrebbe, a sua volta, aumentare la loro autostima, e
una maggiore autostima li aiuterà a fronteggiare il cambiamento. Gli atteggiamenti di
rispetto e di accettazione sono fondamentali quando il counselor usa abilità di messa in
discussione, poiché la sfida del mettere in discussione una convinzione radicata è sempre
difficile per i clienti.
Un altro aspetto significativo per prendersi cura dei clienti è che il calore viene manifestato
non soltanto negli atteggiamenti espressi dal counselor al cliente, ma anche dall’ambiente
in cui le sedute vengono tenute. Una stanza fredda e non invitante, per esempio, inibirà
per certo lo sviluppo della fiducia e della capacità da parte del cliente di impegnarsi
nell’arduo compito dell’autorivelazione. Hargie et al. (1995) fanno notare che una stanza
nuda con scarsa illuminazione e un mobilio scadente ricordano una saletta in cui si venga
interrogati da un commissario di polizia. I clienti percepiscono queste cose accuratamente
non solo a livello conscio ma anche a livello inconscio.
Vale la pena menzionare qui che l’aspetto e gli abiti del counselor faranno a loro volta una
qualche impressione sui clienti. Quantunque sarebbe inappropriato suggerire ai counselor di
vestirsi in un modo particolare o prescritto, è necessario che ricordino di mostrare rispetto
ai clienti, e a se stessi, prestando attenzione ai dettagli del proprio abito e del proprio
aspetto in generale. Il rispetto e l’accettazione di sé dei counselor vanno di pari passo con
il rispetto per gli altri.
La genuinità
La genuinità è una qualità che i counselor dovrebbero possedere se desiderano essere
efficaci nel loro lavoro con i clienti. Altre parole che descrivono tale qualità sono onestà,
congruenza, coerenza, sincerità e autenticità. Non c’è bisogno di dire che l’onestà con se
stessi è un prerequisito per essere onesti con gli altri. Gli studenti di counseling devono
essere consapevoli che siamo tutti capaci di autoinganno, per lo meno occasionalmente; se
inganniamo noi stessi, i clienti che se ne accorgeranno ci percepiranno come incongrui o
falsi e in definitiva incapaci di ricevere le loro confidenze.
Quando i counselor sono onesti e aperti nel comunicare con i clienti, subito si stabilisce
un’atmosfera di fiducia, e tale atmosfera aiuta a stimolare i clienti a diventare più onesti e
aperti a loro volta. È possibile, quindi, che il counselor funga da modello di apertura per il
cliente e che in questo modo possa migliorare la capacità del cliente di impegnarsi nel
processo spesso doloroso dell’autorivelazione. Uno dei problemi che sperimentano gli
studenti di counseling, comunque, è che talvolta trovano difficile padroneggiare un
ventaglio di abilità di counseling senza diventare artificiali o innaturali nell’usarle. In altre
parole, gli studenti di counseling possono trovare difficile essere congruenti quando sono
preoccupati dal fatto di dire e fare la cosa "giusta" dal punto di vista tecnico. La
spontaneità e l’apertura tendono quindi a perdersi all’inizio della formazione ma vengono
recuperate allorché l’accento sulle abilità diminuisce perché è stata acquisita una certa
competenza.
Le discussioni sulla genuinità del counselor stimolano quasi sempre un certo grado di
conflittualità fra i counselor in formazione. Ciò si verifica perché l’idea di onestà o di
apertura viene spesso confusa con un’assoluta franchezza con i clienti. Va sottolineato che
la franchezza assoluta con i clienti è inappropriata, poiché avrebbe l’effetto di rafforzare
le difese del cliente nei confronti della possibile loro autorivelazione. Il vero significato
della genuinità del counselor è dunque che l’empatia e l’atteggiamento
incondizionatamente positivo per il cliente siano reali e non fittizi. Quando l’empatia e la
considerazione positiva sono realmente presenti il counselor sarà aperto, onesto e naturale
in modo autentico. L’esperienza che il cliente fa di tale coerenza o genuinità dovrebbe
aiutarlo a rendersi conto che tali atteggiamenti sono utili in una relazione, e incoraggiarlo a
essere più onesto anche nelle sue relazioni con altre persone.
I counselor che rispondono apertamente ai clienti non hanno bisogno di nascondersi dietro
una facciata, non sono costretti a fingere. Trattano i clienti da uguali e riconoscono la loro
capacità potenziale di gestire efficacemente i loro problemi. Un counselor che manchi della
consapevolezza delle proprie limitazioni e che non riesca a identificare i sentimenti larvati
di superiorità che dovessero emergere in lui, deluderà i clienti. Essi si renderanno conto
ben presto dell’autoinganno e della vanità del counselor, con le conseguenze di fallimento
che è facile immaginare.
Per "essere" se stessi i counselor devono "conoscere" se stessi. Quando tale autoconoscenza
è presente, sarà presente anche la capacità di essere genuini nella relazione con i clienti.
Una risposta appropriata e genuina è sempre una risposta "naturale", che viene dettata dal
reale desiderio di aiutare il cliente. Quando la congruenza è presente, c’è coerenza fra
quel che il counselor sente e quel che dice o fa.
Cliente Talvolta sono assolutamente priva di energia. Mi sento completamente prosciugata. Me lo ha già sent
prima d’ora... Deve essere proprio stufo.
Counselor No, non sono né stufo né annoiato per questo. Ma ricordo che ha detto cose del genere diverse volte d
nostri incontri, quindi credo che sia un argomento da esplorare più approfonditamente.
Cliente So che la mia famiglia ne ha abbastanza di ascoltarmi. A casa semplicemente spengono l’audio quand
Counselor Io non spegnerò l’audio. Io voglio ascoltarLa...
Cliente È iniziato tutto... circa due mesi fa...
Cliente Tutto sembrava accatastarsi... deve sembrare una specie di catalogo di problemi...
Counselor Ho l’impressione che ci siano un mucchio di aree problematiche per Lei in questo momento. Forse po
raccogliere i fili più importanti di quel che ha detto...
A questo punto, il counselor sintetizzò quel che Lidia aveva detto nel corso del colloquio.
Le sue risposte alla cliente furono date in modo aperto e genuino, e la sua preoccupazione
più importante fu quella di restare entro la struttura di riferimento della cliente.
Vi vengono in mente, a pensarci, dei momenti in cui eravate molto preoccupati, e qualcuno
si è sforzato di ascoltarvi, in modo da darvi una mano? Vi ricordate in che modo quel
"qualcuno" si fosse relazionato con voi? Se ci fosse qualche cosa di speciale in quella
relazione, rispetto a tutte le altre? Se c’era un quid di diverso dal solito, potreste forse
annotarlo.
Gli aspetti "speciali" della relazione con quella persona, rispetto alle altre, erano che:
1. ..........................................................................................
2. ..........................................................................................
3. ..........................................................................................
C’è un accordo quasi unanime sul fatto che la qualità della relazione, tra chi offre aiuto e
chi lo riceve, sia l’"ingrediente" da cui più dipende l’efficacia del processo d’aiuto. Le
qualità personali di chi presta aiuto, in effetti, sono un fattore cruciale. C’è anche chi ha
messo in luce che le convinzioni, i valori e i tratti caratteriali di chi sa aiutare gli altri in
modo efficace sono notevolmente diversi da quelli di chi, pur sforzandosi, non riesce
altrettanto bene nell’impresa. È importante, a questo punto, porsi il seguente
interrogativo: "Quali sono le caratteristiche irrinunciabili di una buona relazione d’aiuto?".
Tenteremo una risposta, facendo riferimento alle idee di Carl Rogers.
Nella visione di Rogers, sono essenzialmente tre le caratteristiche da cui non si può in alcun
modo prescindere, per una relazione d’aiuto efficace. Si tratta — nell’ordine — di
congruenza, empatia e accettazione positiva incondizionata. Rogers sottolinea anche
l’esigenza di "fare tesoro" della relazione d’aiuto e della persona che si va ad aiutare. 4
Nel discutere, in questa prospettiva, gli atteggiamenti e le caratteristiche che contano di
più per aiutare gli altri, faremo quindi riferimento a otto principi fondamentali:
fiducia
rispetto
empatia
accettazione
sicurezza
atteggiamento non giudicante
autenticità
considerazione della persona come esperta del suo problema.
Fiducia
Se vogliamo avere successo nell’aiutare qualcuno, non potremo fare a meno della sua
fiducia. Senza questo elemento, è impossibile che gli altri ci parlino liberamente dei loro
problemi personali, tanto più se questi riguardano la loro intimità e altrettanto improbabile
che riescano a entrare in contatto con i loro sentimenti, riescano a esprimerli e, per ciò
stesso, a sentirsi meglio.
Il caso di Simone
Simone è un ragazzo di una ventina d’anni, o poco più. Qualche tempo fa ha commesso
l’errore di affidarsi alle droghe illegali, per reggere meglio lo stress e le tensioni della vita
di tutti i giorni. In breve, si è gravemente indebitato. Negli ultimi tempi, Simone appare
addirittura terrorizzato: crede che le persone a cui deve tutti quei soldi siano davvero
senza scrupoli. Non ci metterebbero niente a "farsi giustizia" da sole. Uno dei suoi colleghi
di lavoro, Damiano, ha avvertito la sua paura e ha cominciato a preoccuparsi. Da parte sua,
Damiano nutre delle convinzioni religiose molto rigide, che non ammetterebbero mai l’uso
della droga. È forse per questo che, la prima volta che ha invitato Simone a parlarne con
lui, questi ci ha messo un bel po’, prima di fidarsi veramente. Il sospetto di Simone è che
Damiano, sotto sotto, abbia un secondo fine: convertirlo alla sua fede religiosa. Nei fatti,
però, le cose non stanno assolutamente così.
Riuscite a immaginarvi quanto sia stato difficile, per Simone, fidarsi pienamente di
Damiano? E quanta fatica abbia dovuto fare quest’ultimo, per convincere l’amico che
poteva davvero contare su di lui? Alla fine Damiano riuscirà a conquistare la fiducia di
Simone. A quel punto, riuscirà anche a dargli una mano nel risolvere il suo problema.
Rispetto
Il rispetto è l’attitudine di chi si sa rapportare con ogni persona per quello che è,
rispettandone e valorizzandone la capacità di trovare da sola le soluzioni ai propri
problemi, nella convinzione che ciascuno — a prescindere da come si è comportato in
passato — faccia le cose nel modo migliore che gli è possibile. Il rispetto ci richiede di
essere convinti del fatto che la persona che aiutiamo sia in grado di farsi carico della
propria vita, di fare un’esperienza di crescita individuale, di rapportarsi con gli altri in
modo positivo. Per dirla in breve, il rispetto ci richiede di valorizzare l’altro, per quello che
è; e di farlo sentire, in qualsiasi circostanza, come una persona "che vale".
Il rispetto ci richiede di trattare sempre l’altro come una persona "che vale".
Messa in questi termini, la pratica del rispetto sembrerebbe una cosa facile; nei fatti, però,
può anche non essere tale. Ripensiamo, ad esempio, al caso di Simone e di Damiano: viste
le differenze tra l’uno e l’altro, in quanto a idee e a stili di vita, dobbiamo ammettere che
non era poi facile, per Damiano, riuscire davvero a rispettare Simone. È solo perché
Damiano vi è riuscito, e quindi gli ha trasmesso il suo rispetto, che Simone ha cominciato ad
avere più fiducia in lui.
Empatia
Siamo sicuri che nessuno si sorprenderà, se diciamo che il successo della relazione d’aiuto
dipende dalla creazione di un clima caldo, positivo e "accettante", tra le due parti
coinvolte. Carl Rogers usa l’espressione "empatia", per descrivere questa peculiare
colorazione emotiva della relazione d’aiuto. Dopo i suoi scritti, le parole "empatia" ed
"empatico" sono gradualmente entrate nel gergo tecnico degli addetti ai lavori.
Qualcuno ha definito una relazione empatica con la metafora di chi, ascoltando, riesce a
"camminare con le scarpe" indossate dall’altra persona. In certi casi, quando questa ci
confida informazioni legate alla sua vita personale, può essere utile immaginare come ci si
vedrebbe, e come ci si sentirebbe, se si fosse nei suoi panni (o "nelle sue scarpe"); se si
guardasse quella situazione, cioè, dal suo stesso punto di vista. Facendo questo, è possibile
immaginare, e comprendere meglio, il mondo dell’altra persona; è possibile, in una certa
misura, identificarsi con lei.
Accettazione
Abbiamo già detto della fondamentale esigenza di valorizzare l’altra persona. Questo
significa, tra le altre cose, saperla accettare per quello che è. Se fossimo capaci di farlo,
paradossalmente, saremmo nelle condizioni ottimali per metterci nei suoi panni, in modo
da facilitarne il processo di cambiamento, di crescita, di trasformazione nella persona che
lei stessa vorrebbe diventare. L’atteggiamento diametralmente opposto all’accettazione
è quello di chi critica gli altri. Avete mai notato che, quando vi mettete a criticare
qualcuno, è più probabile che questi resista a ogni cambiamento, e si "barrichi" ancora di
più nei suoi modi di pensare o di fare? Se invece accettiamo l’altro per quello che è, sarà
più probabile che questi si senta valorizzato e rispettato: una condizione che gli permetterà
più facilmente di riflettere sui suoi vissuti, fare emergere gli elementi positivi della sua
personalità, muoversi da solo in direzione di obiettivi positivi.
Damiano, come si è visto, non nutriva alcun "secondo fine" nei confronti di Simone. Lo
conosceva bene. Aveva imparato, comunque, ad accettarlo per quello che era; è così — e
soltanto così — che Simone ha potuto prendere una decisione che si è tradotta in un
cambiamento significativo, e in un "volano" di crescita positiva.
Sicurezza
Se volete essere d’aiuto a una persona, dovrete dare vita a una relazione e a una
condizione ambientale che le permettano di parlare in tutta libertà. Nessuno se la sentirà
di parlarvi liberamente, se non si sente abbastanza sicuro per farlo. Nel caso che abbiamo
studiato, Simone, all’inizio, era scettico rispetto alla possibilità di parlare con Damiano del
suo consumo di droghe. Non si sentiva per nulla a proprio agio. Temeva addirittura che
Damiano potesse andare a denunciarlo. Va da sé che la questione della sicurezza va di pari
passo con quella della fiducia. Mano a mano che cresceva la fiducia, tra Damiano e Simone,
quest’ultimo si sentiva più sicuro, fino al punto in cui è riuscito a raccontare liberamente la
situazione in cui si trovava.
Perché la relazione con la persona che ascoltate sia effettivamente d’aiuto, è necessario
che essa sia del tutto incondizionata. Se la relazione è "condizionata" dalle vostre
aspettative verso quella persona, la vostra capacità di aiutarla risulterà gravemente
compromessa.
Per citare ancora Carl Rogers, occorre infatti che la persona che aiuta assuma un
atteggiamento di "accettazione positiva incondizionata". Chi aiuta deve saper accettare
l’altra persona per quello che è, senza porre condizioni; deve vederla, in ogni caso, sotto
una luce positiva. Accettare una persona in modo incondizionato richiede, naturalmente,
di sospendere il giudizio nei suoi confronti. Ora, non possiamo negare che questo non è
sempre possibile; in ogni caso, si tratta di un obiettivo a cui dobbiamo per lo meno
tendere, se vogliamo davvero essere d’aiuto agli altri. Il punto è che se assumiamo un
atteggiamento giudicante nei confronti dell’altro, non potremo che compromettere la
qualità della relazione; nel momento in cui si sente giudicato, l’altro tenderà a mettersi
sulla difensiva, anziché confrontarsi liberamente con noi, in una comune esplorazione dei
suoi problemi.
Come è possibile, in concreto, riuscire ad essere davvero "non giudicanti"? La prima cosa da
fare è sforzarsi di immaginare il mondo quale lo vede l’altra persona. È un mondo
caratterizzato da valori, atteggiamenti e convinzioni che non coincidono necessariamente
con i nostri. Entrare in questo mondo, di fatto, può rivelarsi difficile. Formulare un qualche
giudizio sugli atteggiamenti, le idee o i valori degli altri, viceversa, è quanto di più facile si
possa fare. È necessario, comunque, saper mettere il giudizio da parte, in modo da lasciare
all’altra persona tutto lo spazio che le serve per esprimere i suoi vissuti emotivi di segno
negativo.
Per attivare una relazione d’aiuto efficace, oltre che ascoltare, dobbiamo anche sforzarci
di evitare ogni giudizio su ciò che riteniamo "giusto" o "sbagliato"; le nostre energie si
dovrebbero concentrare, piuttosto, sul tentativo di guardare la realtà dallo stesso punto di
vista della persona che abbiamo di fronte. Se non facciamo questo passaggio, è probabile
che l’altro finisca per sentirsi giudicato, e non se la senta più di parlarci liberamente. La
sua ansia e la sua sofferenza emotiva, a questo punto, saranno destinate ad aumentare; si
innesca così una spirale che lo vedrà sempre meno capace di affrontare i suoi problemi in
modo (per lui) soddisfacente.
Potrebbe essere utile, ancora una volta, considerare un esempio concreto. Ipotizziamo una
situazione, tra le tante possibili, in cui i valori e le convinzioni personali possono
precludere una relazione d’aiuto efficace.
Immaginate di essere una mamma, con un figlio piccolo che frequenta la scuola materna. Vi
rendete conto che uno degli altri bambini ha comportamenti aggressivi nei confronti di
tutti. Decidete di parlarne con la mamma del bambino, che vi dice che il comportamento di
suo figlio continua a peggiorare. Quel bimbo fa sempre i capricci, è estremamente
maleducato e manca di rispetto verso chiunque. La mamma è veramente stravolta: non sa
più che pesci pigliare, per gestire i comportamenti del figlio. Continuando la conversazione,
scoprite che la madre fa spesso uso di punizioni fisiche.
Ecco un buon esempio di una situazione che metterebbe in gioco le convinzioni di molti di
noi. Per qualcuno, qualsiasi forma di punizione fisica rappresenta un abuso, e per ciò stesso
non può essere accettata. Altri ritengono che per i bambini le punizioni fisiche, purché non
eccessive, siano del tutto legittime, o addirittura necessarie.
Immaginate di essere tra coloro che non ammettono assolutamente le punizioni fisiche.
Potreste essere senz’altro tentati di interrompere la conversazione, per parlare di ciò che è
"giusto" o "sbagliato" nell’utilizzo (ovvero nel non utilizzo) delle punizioni fisiche, per
controllare determinati comportamenti. Ebbene, ritenete che una simile interruzione
sarebbe davvero utile?
La nostra risposta è la seguente: se vi metteste a formulare queste obiezioni, nel bel mezzo
della conversazione, soddisfereste un vostro bisogno immediato. Non le esigenze della
persona — in questo caso, la madre del bambino — che vorreste aiutare. Questa, come
minimo, smetterebbe subito di parlare dei suoi problemi e delle sue sofferenze. Si
sentirebbe giudicata, e farebbe molta più fatica, da quel momento in poi, a fidarsi di voi.
Se invece la incoraggiate a continuare a raccontare, senza alcuna interruzione, è più
probabile che emergano tutti i suoi dubbi e le sue preoccupazioni, rispetto ai difficili
rapporti con il figlio. A quel punto, potrebbe anche riuscire a focalizzare meglio il
problema, e quindi a gettare le basi per affrontarlo in modo più adeguato. Potrebbe anche
esplicitare il suo senso di inadeguatezza, rispetto al ruolo di madre, senza per questo
sentirsi criticata.
Questo non vuol dire che dobbiate sottoscrivere un comportamento che non approvate, o
mostrarvi d’accordo con idee o valori che non vi appartengono. Il punto è un altro: dovreste
sforzarvi di mettere da parte le vostre idee o convinzioni, per tutto il tempo in cui
l’altro vi parla dei suoi problemi, o delle sue esperienze di vita. Per restare all’esempio:
può anche darsi che in un momento successivo, dopo che siano stati affrontati i problemi di
quella donna, vi capiti di mettere in luce — come possibilità alternativa, nulla di più — dei
modelli di comportamento diversi, a cui lei potrebbe, magari, fare riferimento.
Può darsi infatti che, giunti a quel punto, la madre sia pronta per questo passaggio; il
presupposto, però, è che abbia riconosciuto da sola che certi suoi modi di fare non
andavano bene. Se dal colloquio emergesse che le punizioni fisiche hanno raggiunto livelli
inaccettabili (ma siamo sempre sul piano dei valori – che cos’è che è accettabile?),
potrebbe anche essere il caso di prendere una decisione diversa, per tutelare la sicurezza
fisica del bambino. Ancora una volta, però, la soluzione ottimale potrebbe essere quella di
affrontare il problema dopo che la madre abbia avuto l’opportunità di parlare liberamente,
in un clima di accettazione positiva, delle sue preoccupazioni.
Dalla lettura di queste pagine, vi sarete certo resi conto che l’accettazione incondizionata
e non giudicante, talvolta, è estremamente difficile; l’avvio di una buona relazione d’aiuto,
comunque, non può non passare da qui. È un passaggio non sempre facile da percorrere,
visto che ciascuno di noi ha le sue idee o convinzioni, che potranno essere anche molto
diverse da quelle della persona che aiutiamo.
Capita spesso di scoprire, all’inizio di una conversazione d’aiuto, che il nostro interlocutore
ha atteggiamenti, convinzioni o valori che non coincidono affatto con i nostri. Ritenete che
questo possa precludere, in qualche modo, la vostra capacità di aiutare quella persona a
rielaborare i suoi problemi? In teoria, potreste anche fare il tentativo di convincerla che i
vostri valori, o le vostre idee, sono migliori dei suoi e che sarebbe dunque il caso che li
accettasse. Ebbene, credete che questo le servirebbe a qualche cosa? A giudicare dalla
nostra esperienza, ci sentiamo di rispondere che questa soluzione, il più delle volte, non
serve. L’approccio centrato sulla persona, da cui l’accettazione incondizionata e non
giudicante, ha ben maggiori probabilità di ottenere successo. Il problema delle differenze
sul piano delle idee, o dei valori, emerge spesso nel confronto tra leader spirituali e — più
in generale — tra persone di culture diverse, quanto più queste fanno riferimento a valori o
convinzioni "forti", che sono parte integrante della loro esperienza di vita. Queste persone
avvertono, più ancora delle altre, l’esigenza di essere sempre coerenti con le proprie
credenze.
Autenticità
In qualsiasi relazione d’aiuto occorre essere autentici, sinceri e, per dirla con Rogers,
"congruenti". Di qui nasce una domanda inevitabile: "Quando aiutiamo qualcuno, siamo
sempre le stesse persone, o siamo — in qualche modo — diversi dal solito?". Qual è il vostro
punto di vista? Per qualcuno, l’idea di cambiare la propria personalità, quando si
intraprende una relazione d’aiuto, potrebbe anche suonare allettante. Va detto, però, che
chi si mette a fare tentativi di questo tipo ha ben poche probabilità di essere d’aiuto agli
altri. È difficile, infatti, che la persona aiutata si faccia abbindolare da questi
cambiamenti; il più delle volte, si renderà perfettamente conto che colui (o colei) che la
vorrebbe aiutare sta cercando di "mascherarsi" da qualche cosa di diverso da ciò che è.
Se davvero volete aiutare qualcuno, è essenziale — lo abbiamo già visto — che questi si
possa fidare di voi. E questo non potrà certo avvenire, se vi "travestite" di un’identità
diversa dalla vostra, e il vostro interlocutore lo avverte. Per aiutare qualcuno, occorre che
siate autenticamente voi stessi. Se non siete autentici, non potrete sperare che la persona
che vorreste aiutare vi ritenga congruenti e, quindi, si fidi realmente di voi.
Ciascuno di noi ha dei propri valori, idee e atteggiamenti, che si riflettono nello stile di vita
e di comportamento. Da questo insieme di valori, idee e atteggiamenti dipenderanno anche
le immagini che ci costruiamo degli altri e il modo in cui ne giudichiamo il comportamento.
Ognuno di noi prende le sue decisioni su ciò che è giusto o sbagliato, rifacendosi ai propri
orientamenti valoriali. Anche tra amici, del resto, non sempre si può essere d’accordo su
tutto. La verità è che siamo tutti diversi. C’è qualcuno, ad esempio, che è fermamente
convinto dell’importanza della vita familiare; altri, magari, vedranno le cose diversamente,
e privilegeranno la dimensione del singolo individuo, rispetto a quella della famiglia.
Per aiutare gli altri in modo efficace, dovrete mettere nella relazione tutto ciò che siete: la
personalità, le abilità, gli atteggiamenti e le convinzioni che vi caratterizzano. Facendo
questo, sarete percepiti come persone autentiche, sincere, congruenti e degne di fiducia.
Occorre che siate chiari, quindi, sui vostri atteggiamenti e sulle vostre idee; al tempo
stesso, è essenziale che evitiate di imporli all’altra persona. Non sarebbe corretto, e
certo non le gioverebbe.
Se partecipate alla relazione d’aiuto con tutti voi stessi, vi sentirete una persona completa,
invece che "frammentata". Il vostro comportamento risulterà coerente con la vostra
personalità. La persona che aiutate percepirà la vostra autenticità, e sentirà di poter
nutrire fiducia nei vostri confronti.
La persona che state aiutando è l’"esperta" nel trovare le soluzioni dei suoi problemi
Ne deriva che, quando cerchiamo di aiutare qualcuno a superare i suoi problemi, dovremo
cercare di rispettare le sue abilità e le sue risorse, anziché sforzarci di trovare la soluzione
in vece sua. Dovremo confidare nella sua capacità di iniziativa, rispetto alla ricerca e alla
sperimentazione delle soluzioni possibili. A noi spetterà semplicemente il compito di
facilitare questo processo.
1
Sulla scia di Carl Rogers, Mucchielli ha ridescritto questi atteggiamenti non costruttivi
degli operatori di aiuto, individuandoli nell’atteggiamento di indagine, sostegno,
valutazione, soluzione, interpretazione. Questi atteggiamenti sono definiti come non
costruttivi perché servono a soddisfare bisogni dell’helper (di supremazia, di sicurezza,
ecc.) invece che "accogliere" i bisogni dell’altro.
2
Anche frettolosi giudizi di approvazione (o di rinforzo, in senso comportamentistico)
possono essere controproducenti, perché confermano la persona come "oggetto" di giudizi,
dunque in posizione di minorità ribadita.
3
Rogers dice a questo proposito: "Sembra ormai chiaro che alcuni clienti immaturi o
regrediti possono percepire come segno di maggior accettazione un interesse condizionato
da parte del terapeuta piuttosto che un atteggiamento di accettazione incondizionata"
(Rogers, 1970).
4
Nell’originale, gli autori prendono appunto la parola "tesoro" (in inglese treasure) come
acronimo degli otto elementi chiave di una relazione d’aiuto efficace, secondo un gioco di
parole che non è possibile riproporre in italiano.
ASPETTI ESTERNI
L’obiettivo della comprensione si raggiunge anche attraverso la cura riservata agli aspetti
per così dire “esterni” al contenuto del colloquio: il setting e gli elementi non verbali.
1. Il setting
Si definisce setting il luogo fisico dove la relazione ha luogo, nonchè la diposizione spaziale
dei partecipanti. E’ importante controllare il setting per poter creare un clima di fiducia e
garantire al’interlocutore la riservatezza del colloquio.
Riflettiamo criticamente sui diversi luoghi in cui possiamo trovarci con il nostro
interlocutore: l’ufficio, l’abitazione nostra o dell’interlocutore, uno spazio aperto, un luogo
pubblico come un bar o la sede dell’associazione in cui prestiamo volontariato... Di per sè
nessuno di questi contesti preclude la possibilità di condurre un colloquio ma bisogna essere
consapevoli di quali elementi possono creare disturbo alla comunicazione.
E’ una valutazione che va fatta di volta in volta rispetto: alla situazione in cui noi siamo
(siamo in grado di sostenere il colloquio in quel momento?); alla condizione
dell’interlocutore (il tema è particolarmente delicato e può suscitare una reazione forte?);
agli elementi del contesto (siamo in un luogo riservato? Ci sono fonti di distrazione?)
Con l’espressione elementi non verbali intendiamo tutti quegli aspetti che non si
esprimono attraverso le parole ma veicolano importanti messaggi relativi allo stato d’animo
e alla disposizione interna dell’helper come dell’interlocutore. E’ bene quindi fare
attenzione sia al nostro atteggiamento non verbale, sia a ciò che il nostro interlocutore
comunica in maniera non verbale.
la postura
l’espressione del viso
i gesti
il tono di voce
il silenzio
...
Rispetto agli atteggiamenti non verbali è utile ricordare che non sempre essi sono
congruenti con i messaggi verbali, come emerge negli esempi dei testi proposti. L’helper
che sa riconoscere questa discrepanza può aiutare la persona a rendersene conto e a
chiarire meglio il suo vissuto.
Gli stati affettivi (il "vissuto") si esprimono direttamente e ogni modalità "interna" ha le sue
espressioni immediate che si offrono alla vostra percezione. Un sorriso trionfante significa
molto semplicemente la soddisfazione della vittoria. Se un cliente vi dice con quel sorriso:
"Il medico ha detto che mia moglie era matta e l’ha fatta ricoverare", voi dovete vedere il
sorriso e comprendere ciò che questo fatto significa per il cliente. Può darsi che lui,
dicendo ciò, non si renda conto che allo stesso tempo ha mostrato un sorriso trionfante.
Se la signora che sta seduta di fronte a voi tiene la sua borsetta e il suo ombrello ben
stretti a sé o annoda le sue caviglie attorno ai piedi della sedia, occorre percepire questa
espressione di inquietudine, di insicurezza; il suo essere contratta ha valore di
un’espressione diretta, anche prima che apra bocca. Se qualcuno se ne sta zitto, si può
vedere in questo silenzio l’espressione di una inibizione, di un fastidio o di un blocco
qualsiasi. Se qualcuno cambia bruscamente argomento nel corso del colloquio, bisogna
vedervi un tentativo di scansare (o di fuggire) qualche cosa.
Tutti gli atteggiamenti hanno un significato diretto, esprimono qualcosa. Lo stupore, la
collera, l’aggressività, la paura, l’angoscia, il fastidio, l’esasperazione, il panico, il piacere-
soddisfazione, il dispiacere, la vergogna, la tristezza, ecc. si traducono non soltanto in
parole ma più sovente, oltre le parole, attraverso il tono, la mimica, le "posture"
osservabili.
Perciò, se qualcuno vi dice: "Sebbene non mi abbia mai detto nulla, ho l’intima certezza
che il mio vicino mi vuole male", potete rispondere senza alcun rischio di sbagliarvi: "Voi
nutrite una certa sfiducia nei confronti del vostro vicino".
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, p. 38-39.
Una notevole quantità di informazioni può essere ottenuta prestando attenzione sia alla
maniera in cui le cose vengono dette che all'effettivo contenuto del discorso. La voce, il
tono, il volume, l’intensità, il ritmo, le informazioni che vengono date, sono tutti aspetti
della comunicazione verbale che di solito ci dicono di più, riguardo a ciò che una persona
sente, che non le parole stesse che sceglie di adoperare. Quando le persone sono infelici o
tristi, tali sentimenti si riflettono nella loro voce e quando si provano sentimenti positivi
come la gioia, anche questi vengono facilmente individuati. Un cliente che stia descrivendo
un episodio traumatico o infelice può riuscire a nascondere, per esempio, qualcuno dei
sentimenti a esso associati, ma a un certo punto questi sentimenti sono destinati a
interferire e alterare la descrizione che sta facendo.
Un’anziana donna, a cui era accaduto di perdere molti dei suoi effetti personali e delle sue
cose durante un’alluvione, descrisse ciò che provava nel modo seguente:
Penso siano solo cose materiali, per cui non sono importanti, sento che dovrei ringraziare il
Signore per ciò che mi ha donato. C’erano delle fotografie... [pausa] ...erano della mia
famiglia [silenzio]. Ma sono molto contenta. Certe persone non sono così fortunate, e io
veramente ringrazio il Signore per i doni che ha voluto farmi.
Il counselor che assisteva la cliente era ben cosciente della tristezza presente nella voce
della donna, dell’esitazione che aveva avuto nel corso della descrizione e del lungo silenzio
di riflessione occorso proprio prima che lei usasse la parola "fortunate" riferita a se stessa.
Non sono unicamente gli episodi traumatici che i clienti possono cercare di minimizzare o
mascherare. A volte si verifica l’esatto contrario ed eventi felici vengono descritti in
termini che non lasciano dubbi sul significato che hanno in realtà per il narratore. Quando
Viviana, una donna di quarantasei anni, parlava dell’imminente matrimonio della sua unica
figlia, appariva intenta a esprimere, quantomeno esteriormente, la sua felicità e la sua
approvazione, dato che la figlia era palesemente contenta. Parlava dei buoni rapporti che
aveva sempre avuto con lei, del ricevimento che stava aiutandola a organizzare e della casa
che aveva acquistato di recente con il futuro sposo.
Si trova proprio qui, dalla parte opposta della città, così non è troppo lontana. Sono proprio
contenta per lei. Non avrei mai pensato di potermi sentire così quando la mia unica figlia se
ne fosse andata di casa, ma è proprio così. [Ride.]
Il counselor si era accorto che la risata di Viviana suonava piuttosto forzata. Notò anche
l’espressione triste che per un momento aveva oscurato il suo volto. Quando ebbe finito di
parlare, Viviana rimase in silenzio per un po’, fino a che quell’espressione malinconica
riapparve sul suo viso. Sebbene avesse manifestato gioia riguardo al matrimonio della figlia,
Viviana era incapace di nascondere, anche a se stessa, i sentimenti contrastanti che
ovviamente provava.
PRESTARE ATTENZIONE
Fin qui possiamo dire che un helper efficace è capace di prestare attenzione al contesto in
cui si svolge il colloquio e agli elementi verbali e non verbali che percorrono tutta la
comunicazione, sia dalla parte dell’interlocutore sia dalla propria. In altri termini, le
principali abilità dell’helper possono essere così sintetizzate:
A noi compete ricordare un’ultima importante questione. Una qualità fondamentale per
l’helper che voglia raggiungere l’obiettivo dell’ascolto attivo è l’autoconsapevolezza o la
capacità di autoriflessione. Su questo tema, più che dire qualcosa oltre a ciò che potete
leggere nei testi, mi sembra opportuno stimolare a riflettere. Consiglio due esercizi tratti
da Hough (Esercizi di autoconsapevolezza) che ciascuno può fare liberamente e, come è
ovvio, senza nessuna valutazione. Se qualcuno avesse qualche riflessione o dubbio, ricordo
che abbiamo lo strumento del forum per parlarne insieme.
A tutti può comunque essere utile leggere Quali sono le qualità di un buon counselor
(Hough) e L’uso delle abilità di counseling (Geldard e Geldard) per riflettere sull’utilizzo
più o meno opportuno delle abilità di counseling.
L’ascolto attivo
Una conversazione d’aiuto è ben diversa dalle altre conversazioni della nostra vita di tutti i
giorni, lavorativa oppure no. In generale, queste conversazioni sono abbastanza equilibrate:
le parole "rimbalzano" in continuazione tra un interlocutore e l’altro, senza che vi sia una
netta prevalenza tra i due. Quando cerchiamo di aiutare qualcuno che è afflitto da un
problema personale, emotivo o relazionale, invece, è quel "qualcuno" che dovrebbe
occupare la maggior parte della conversazione. È una cosa ben diversa — vale la pena
ripeterlo — dalle conversazioni normali: in queste ultime, in effetti, siamo abituati a
interloquire educatamente con gli altri, prendendo la parola a turno. Il più delle volte
parleremo tutti, bene o male, con la stessa frequenza dei nostri interlocutori. È anche per
questo che un colloquio d’aiuto, specie all’inizio, dà l’impressione di essere innaturale: ci
richiede, dopo tutto, di ascoltare molto, ma di parlare (relativamente) poco.
L’ascolto attivo
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, pp. 46-52.
La maggior parte della gente dà per scontato che le proprie abilità di ascolto siano
adeguate o addirittura molto buone. È quindi spesso sorprendente, per gli studenti,
accorgersi che l’ascolto è un processo attivo che richiede impegno e concentrazione,
nonché la capacità di mettere da parte i propri problemi e preoccupazioni — per lo meno
temporaneamente.
Nel corso delle nostre interazioni quotidiane con altre persone tendiamo ad ascoltare a un
livello molto superficiale, e ci capita addirittura di ascoltare mentre stiamo facendo
qualcos’altro. Per esempio, talvolta sentiamo o udiamo le parole che altre persone ci
dicono mentre siamo impegnati in attività come le faccende domestiche, guardare la
televisione o guidare l’automobile. In questo caso, però, non si può parlare di ascolto
attivo, perché siamo occupati in altre attività che non consentono alla persona che ci sta
parlando di ricevere una completa attenzione. È importante comprendere che ascoltare e
sentire non sono la stessa cosa: spesso sentiamo le parole pronunciate da qualcuno senza
una reale comprensione del messaggio globale che ci vorrebbe comunicare.
Probabilmente una delle ragioni per le quali l’ascolto è un’abilità così scarsamente
sviluppata risiede nel fatto che non ci è stato insegnato a valorizzarla da bambini. I genitori
spesso sono troppo presi dalle loro faccende per prestare ai bambini un’attenzione totale e
assoluta e, quando ascoltano, lo fanno in modo distratto e per nulla attento al reale
significato che c’è dietro le parole. I bambini fanno spesso esperienze simili anche a scuola,
dove gli insegnanti non hanno il tempo per ascoltare con un’attenzione completa ed
esclusiva le esperienze di ciascun bambino del gruppo classe. Così, benché i bambini
vengano esortati ad ascoltare gli insegnanti, questi ultimi possono non essere percepiti da
loro come buoni modelli delle abilità di ascolto. È soltanto quando si verificano situazioni
traumatiche o di crisi, magari nella seconda parte della vita, che le persone si accorgono
del deficit di ascolto — non soltanto in se stesse ma anche negli altri. Questi episodi
traumatici o di crisi possono, specialmente quando ci toccano personalmente, farci
comprendere quanto dipendiamo dall’aiuto degli altri. L’ascolto attivo, per lo meno
all’inizio, è la forma più efficace di aiuto che possiamo dare alle persone che soffrono di
uno sconvolgimento emozionale o di un trauma.
Le abilità di ascolto
Gli studenti di counseling trovano spesso difficile restare verbalmente inattivi quando
iniziano a lavorare con i clienti. Il desiderio di parlare e di fare domande deriva in parte dal
desiderio — da parte dello studente di counseling — di aiutare il cliente a risolvere il suo
problema. Tuttavia, è improbabile che i clienti possano essere aiutati in questo modo,
poiché per riuscire a gestire efficacemente i loro problemi essi devono avere l’opportunità
ininterrotta di chiarirsi prima con se stessi. Questa esplorazione e chiarificazione dei
problemi può essere compiuta soltanto se al cliente è permesso di procedere con i suoi
tempi, e verrà facilitata ulteriormente se il counselor manterrà la sua presenza
visibilmente interessata e attenta, ma verbalmente contenuta.
Un buon ascolto incoraggia i clienti a parlare più liberamente poiché mostra rispetto non
soltanto per il contenuto di quanto viene detto, ma anche per i sentimenti e le esperienze
che sottendono le parole. Gli studenti di counseling hanno bisogno di imparare ad ascoltare
se stessi oltreché i clienti, e tale ascolto di sé è un processo continuo che dura non solo
durante la formazione, ma anche dopo. La supervisione ha fra gli altri scopi quello di
alimentare il processo di ascolto di se stessi e aiuta gli studenti a identificare e monitorare
le loro reazioni generali ai clienti.
Il fatto di ascoltare le proprie reazioni si verifica anche quando un cliente parla durante
una seduta di counseling. Sintonizzarsi su quel che il cliente sta dicendo significa notare
ogni aspetto della sua comunicazione fra cui il tono della voce, la postura e l’aspetto, l’uso
della lingua, le esitazioni e ogni emozione discernibile che trapeli da quanto viene
espresso. Implica anche notare la risposta che si dà a quanto il cliente esprime. Questa
osservazione degli aspetti verbali e paraverbali è una delle ragioni per le quali è
generalmente difficile mantenere un ascolto attivo nel counseling. Nelle normali
conversazioni quotidiane la maggior parte di quel che il locutore dice e fa viene notato
inconsciamente dall’ascoltatore, ma il contesto del counseling è differente. Quel che il
cliente dice e fa dev’essere registrato dal counselor non solo inconsciamente, ma anche a
livello conscio.
Gli aspetti non verbali del comportamento che facilitano un buon ascolto sono:
mantenere il contatto oculare;
movimenti del capo che indichino incoraggiamento;
rispecchiare le espressioni mimiche del cliente per mostrare empatia; ciò andrebbe
fatto con discrezione, comunque, poiché spesso i clienti (come tutte le altre
persone) usano espressioni facciali che non descrivono affatto alla lettera il loro
stato d’animo, come quando sorridono nell’atto di raccontare eventi dolorosi o
traumatici;
assumere una postura calda e aperta, sporgendosi lievemente verso il cliente;
dare un appropriato incoraggiamento verbale quando si verificano delle pause
nell’eloquio del cliente.
Alcune risposte non verbali sono sorridere, fare movimenti con la testa per indicare
interesse, evitare gesti irritanti e manierismi, prestare un sufficiente contatto oculare per
farsi vedere partecipi, assumere una postura attenta e aperta, dare indicazioni di
incoraggiamento che possono essere sia verbali che non verbali.
Un altro modo di cui dispongono i counselor per raggiungere lo stesso effetto è quello di
ripetere quanto hanno detto verbalmente i clienti. Si tratta semplicemente della tecnica di
ascoltare attentamente quel che un cliente dice e poi dare le risposte più logiche che vi
conseguono.
Nell’esempio seguente una cliente sta facendo riferimento alla depressione di suo marito:
Cliente
Quando tornai dal lavoro, ieri, sedeva nel buio accanto alla finestra, completamente solo.
Mi rese depressa vederlo.
Counselor
Anche Lei si sentì depressa.
Si tratta di una questione molto importante nel counseling. I clienti hanno bisogno di sapere
che li si tratta da uguali, e a tal fine i counselor dovrebbero evitare di usare qualunque
espressione gergale che è, per sua stessa natura, esclusiva. Ciò è particolarmente
importante all’inizio, quando cliente e counselor si incontrano per la prima volta, perché è
proprio in questo contatto iniziale che andrebbe stabilito il rapporto.
Può darsi che il cliente chieda informazioni sulla formazione del counselor o sul suo
approccio teorico, e anche in questi casi bisognerebbe rispondere con termini chiari ed
espliciti, senza usare alcun gergo.
I counselor dovrebbero anche stare attenti a non usare un linguaggio sessista o espressioni
svalutative o etichettanti quando parlano con i clienti. Queste trappole linguistiche
potrebbero sembrare fin troppo ovvie perché se ne parli, ma in realtà capita di usare certi
termini inappropriati a causa dell’abitudine o della mancanza di una lucida consapevolezza
in merito, ed è quindi possibile cadere nella trappola di etichettare le persone secondo
determinate situazioni; per esempio: "È un alcolista? Depresso? Manipolatore?" e così via.
Ci sono alcuni aspetti pratici del counseling che devono essere affrontati nel contesto
generale della comunicazione. Gli studenti di counseling devono sapere come salutare i
clienti quando li incontrano per la prima volta; devono sapere come assicurare loro la
riservatezza e come metterli a loro agio, come stabilire i limiti temporali e i contratti;
come parlare della confidenzialità e stabilire se sia o no appropriato prendere appunti
durante o dopo le sedute.
Il cliente dovrebbe ricevere dal counselor un saluto caldo e amichevole. Ciò implica
stringergli la mano, dare un buon contatto oculare e chiamarlo per nome. Il
counselor dovrebbe a sua volta presentarsi e indicare una poltrona o una sedia in
cui il cliente possa sedersi. Ecco un esempio di scambio verbale che potrebbe avere
luogo:
Counselor
Buon giorno, signor Offredi. Sono Caterina Vannetti.
Cliente [esitando nervosamente] Buon giorno. A dire il vero non so da che parte cominciare
adesso che sono qui.
Counselor
Talvolta è effettivamente difficile cominciare. Forse potrebbe dirmi perché ha deciso di
venire. Abbiamo un’ora a disposizione per parlarne.
Il nostro compito come helper è quello di facilitare il passaggio degli helpee attraverso le
fasi principali dell’apprendimento umano: esplorazione, comprensione e azione. Dobbiamo
iniziare coinvolgendo gli helpee nel processo di aiuto. Questo lo possiamo ottenere
prestando loro attenzione.
È legittimo porsi alcune domande nel momento in cui ci accostiamo a questa tematica:
Leggete qui di seguito il resoconto di questo caso e provate a vedere se riconoscete delle
situazioni in cui l’helper non riesce a coinvolgere l’helpee.
Le abilità di prestare attenzione mettono l’helper nella posizione più adatta per vedere e
sentire gli helpee. Queste abilità comprendono il prepararsi all’attenzione, il prestare
attenzione alla persona, osservare e ascoltare. Le abilità di attenzione servono per
coinvolgere gli helpee nella relazione di aiuto. Quando l’helper è veramente attento, gli
helpee diventano a loro volta pienamente attenti e si impegnano nel processo di aiuto.
Prestare attenzione getta le basi per una risposta che faciliti l’esplorazione dell’helpee.
Prepararsi all’attenzione
Il primo compito nel prestare attenzione è quello di "prepararsi all’attenzione". Come per
qualsiasi altra cosa nella vita, la preparazione è una condizione necessaria ma non
sufficiente per ottenere il risultato desiderato, che, in questo caso, è il coinvolgimento
degli helpee.
Prepararsi all’attenzione ci prepara alla successiva fase del "prestare attenzione", il dare
attenzione alla persona.
CHI incontreranno.
QUANDO e dove avranno luogo gli incontri.
COME arrivarci.
QUALI saranno gli scopi generali di questo contatto.
Incoraggiare gli helpee sottolinea l’importanza di fornire agli helpee le motivazioni per
lasciarsi coinvolgere, rispondendo alle seguenti domande:
Incoraggiare
Informare
Contattare
Preparare il contesto
La nostra abilità nel facilitare il coinvolgimento dell’helpee dipende, in parte, anche dalla
preparazione di un ambiente fisico adatto all’helpee. La preparazione del contesto richiede
di predisporre opportunamente i mobili e gli oggetti e di organizzare il nostro studio o
comunque l’ambiente dove si prevede abbia luogo l’incontro.
Predisporre gli oggetti significa utilizzare degli oggetti o abbellimenti con i quali gli helpee
possano stabilire un rapporto. Ad esempio, se gli helpee sono studenti universitari, le
decorazioni del nostro locale dovrebbero rispecchiare oggetti a loro familiari che possano
aiutarli a sentirsi a loro agio.
Infine, il luogo (setting) in cui si svolge la relazione di aiuto deve essere tenuto pulito ed
ordinato. In questo modo comunichiamo agli helpee che siamo liberi dalle nostre faccende
e siamo pronti a concentrarci sui loro problemi.
Facilitare
Familiarizzare
Tenere ordine
Preparare noi stessi alla relazione di aiuto è altrettanto importante che preparare gli
helpee e il contesto. Noi ci possiamo preparare ripassando mentalmente ciò che sappiamo
degli helpee e degli obiettivi generali che la relazione di aiuto dovrebbe conseguire, oppure
rilassandoci.
Ripassare ciò che sappiamo della situazione di aiuto significa ricordarsi di tutto quello che
abbiamo saputo sugli helpee nel corso di tutte le precedenti interazioni. Queste
informazioni possono essere date da appunti, dati o registrazioni, come anche da semplici
impressioni.
Rivedere gli obiettivi del processo di aiuto sottolinea l’importanza di tenere presente lo
scopo dei nostri contatti o colloqui con l’helpee. Durante le fasi iniziali della relazione di
aiuto, l’obiettivo fondamentale è quello di coinvolgere gli helpee nell’esplorazione di come
essi vivono i loro problemi.
Rivedere le informazioni
Rilassarsi
Prestando attenzione alla persona si riesce a far "entrare" gli helpee in prossimità stretta
con noi. In questo modo, noi comunichiamo il nostro interesse per loro. Comunicando
interesse per gli helpee, si tende a suscitare una corrispondente risposta di interesse da
parte loro.
Un’attenzione alla persona richiede l’assunzione di una posizione che ci permetta di dare
agli helpee la nostra piena e completa attenzione. Dare attenzione alla persona sottolinea
l’importanza di disporsi di fronte agli helpee, in modo da poterli guardare in faccia, di
piegarsi leggermente in avanti verso di loro e di mantenere un costante contatto oculare.
Prestando attenzione alla persona degli helpee ci prepariamo alla fase successiva, che è
quella di riuscire ad osservarli pienamente.
Mettersi di fronte
Un modo in cui possiamo porci per prestare attenzione agli helpee, è di averli esattamente
di fronte. Sia in piedi che seduti, possiamo prestare attenzione ad una persona singola
avendola di fronte sullo stesso piano: la nostra spalla destra di fronte alla sua spalla sinistra
e viceversa.
Quando invece ci troviamo a lavorare con una coppia o con un piccolo gruppo di persone,
dovremmo metterci al vertice di un immaginario angolo retto tracciato partendo dalle
persone che si trovano ai due estremi, alla nostra destra ed alla nostra sinistra. Provate a
vedere quali differenti sensazioni avreste nei confronti delle persone posizionandovi in
questo modo, rispetto a quelle che proviamo quando ci mettiamo in una posizione
pensando soltanto a stare comodi.
Vi sono altri modi di posizionarsi per prestare attenzione alla persona. L’inclinazione del
nostro corpo è una delle caratteristiche più importanti. Ad esempio, stando seduti,
riusciamo ad essere più pienamente attenti se incliniamo il corpo in avanti, o comunque
verso gli helpee, fino a poter appoggiare gli avambracci sulle cosce. Stando in piedi, la
nostra attenzione è più completa se riduciamo lo spazio fisico avvicinandoci agli helpee.
Mettere una gamba più avanti dell’altra ci aiuterà ad inclinarci leggermente verso gli
helpee.
Contatto oculare
Dobbiamo, come detto, cercare in ogni modo di comunicare all’altra persona la nostra
piena ed incondizionata attenzione. La maniera fondamentale di prestare attenzione alla
persona è probabilmente il modo in cui usiamo i nostri sensi, gli occhi in particolare.
Possiamo valutare il nostro livello di "attenzione alla persona stando seduti" usando la
seguente scala:
Alto. Di fronte, contatto con gli occhi e un’inclinazione di venti gradi o più
Medio. Di fronte, contatto con gli occhi
Basso. Non di fronte, scomposti
Chiaramente, non sempre prestiamo attenzione stando seduti. Spesso ci capita di dover
interagire e di aiutare le persone stando in piedi. Possiamo usare una scala analoga per
valutare il nostro livello di abilità stando in piedi.
Alto. Di fronte, contatto con gli occhi e un’inclinazione di dieci gradi o più
Medio. Di fronte, contatto con gli occhi
Basso. Non di fronte
Noi comunichiamo la nostra attenzione alla persona attraverso tutti i nostri modi di fare e
le nostre espressioni. Quando siamo emotivamente coinvolti ma rilassati, noi comunichiamo
attenzione. Quando siamo nervosi ed inquieti, comunichiamo un senso di riluttanza ad
essere lì, in quel momento. Quando il nostro comportamento è costantemente attento,
comunichiamo interesse. Quando arrossiamo o impallidiamo, comunichiamo agli helpee
diversi livelli di reazione. È importante che cerchiamo di mantenere sempre un certo
controllo sul nostro comportamento attentivo.
Osservare
Le abilità di osservare sono le abilità fondamentali per un’efficace relazione di aiuto. Esse
costituiscono un’inesauribile fonte di apprendimento sulle persone. Quando tutto il resto
sembra fallire, è bene procedere ad una più profonda osservazione dei nostri helpee.
Possiamo imparare molto di ciò che ci serve sapere sulle persone semplicemente
osservandole.
Mentre osserviamo, noi raccogliamo le informazioni non verbali che gli helpee ci forniscono.
Impariamo a conoscere le altre persone facendo attenzione al loro aspetto esteriore e, in
particolare, alla loro posizione, alla loro corporatura e a come hanno cura della propria
persona. Possiamo raccogliere informazioni anche osservando i loro comportamenti e,
soprattutto, le espressioni del loro viso ed i movimenti del corpo. Dal loro aspetto e dai
loro comportamenti è possibile fare alcune inferenze riguardo al loro livello di energia, alla
loro situazione emotiva ed alla loro disponibilità all’aiuto.
Osservare la cura di sè
Osservare la corporatura
Osservare la postura
Il grado di energia
Oltre che dall’aspetto della persona, si può desumere il livello di energia anche dal
comportamento dell’helpee. Ad esempio, dei movimenti lenti possono suggerire un basso
livello di energia.
Osservare la postura
Osservare la cura di sè
Osservare la corporatura
Inferire i sentimenti
Le espressioni del viso rappresentano la fonte più ricca di informazioni sui sentimenti
dell’helpee. Anche altri aspetti come la posizione del corpo, possono essere di aiuto nel
comprendere le esperienze dell’helpee. Come detto, valide deduzioni sui vissuti possono
essere fatte anche in base ai movimenti del corpo, dove i movimenti lenti indicano il
sentirsi "giù" e i movimenti troppo rapidi suggeriscono tensione o ansia. Da questi indizi
possiamo desumere lo stato emotivo dell’helpee. Ad esempio, la fronte corrugata, lo
sguardo corrucciato, l’atteggiamento scomposto, gli occhi bassi, l’aspetto trascurato e dei
movimenti lenti, sono tutti segni del sentirsi "giù". Un sorriso aperto, le sopracciglia
sollevate, una posizione vigile, il contatto degli occhi, un aspetto curato, dei movimenti
rapidi e reattivi, si possono associare al sentirsi "su".
Osservare le posture
Osservare i movimenti
Disponibilità all’aiuto
Altre informazioni le possiamo trarre osservando i movimenti del corpo e le espressioni del
viso. Così, l’helpee che ha un basso livello di energia e si senta "giù", avrà di solito una
scarsa disponibilità all’aiuto. Un helpee con alta energia, che si sente "su", è più facilmente
pronto al processo di aiuto.
Osservare le incongruenze
Forse una delle osservazioni più importanti che possiamo fare è quella di individuare
discrepanze ed incongruenze presenti nel comportamento o nell’aspetto delle persone.
Incongruenza significa semplicemente che una persona non dimostra coerenza nei diversi
aspetti del proprio comportamento e del proprio aspetto esteriore. Ad esempio, una
persona è incongruente se afferma di sentirsi bene, ma è pesantemente accasciata sulla
sedia, con gli occhi bassi e appare agitata.
Nella stessa maniera in cui osserviamo gli altri, possiamo osservare anche noi stessi. Cosa ci
possono "dire" di noi, come helper, il nostro aspetto e il nostro comportamento? Siamo in
grado di esprimere un alto livello di energia, sensibilità e determinazione ad aiutare? Siamo
congruenti nel nostro comportamento e nel nostro desiderio di aiutare?
Possiamo anche utilizzare le osservazioni che abbiamo svolto su noi stessi e sui nostri
helpee per coinvolgere gli helpee. Nell’aiuto, è nostro dovere concentrarci completamente
sugli helpee e sul modo in cui essi esprimono la loro esperienza. In questo modo, riusciamo
a comunicare, in maniera non verbale, che siamo attenti a loro e che il nostro interesse è
incentrato sul modo in cui essi fanno esperienza di sé. Così facendo, aumentiamo negli
helpee il senso di fiducia e di sicurezza di star ricevendo veramente aiuto.
Ascoltare
Gli input maggiormente utili nella relazione di aiuto ci giungono dalle espressioni verbali
degli helpee. Ciò che le persone dicono e il modo in cui lo dicono, ci fa capire molto su
come queste persone vedono se stesse e su come vedono il mondo intorno a loro. In
definitiva, le espressioni verbali degli helpee sono, per l’helper, la più ricca fonte di
comprensione empatica.
Noi diamo agli helpee la nostra piena e incondizionata attenzione solo se siamo pronti ad
ascoltare le loro espressioni verbali. Quanto più stiamo attenti agli indizi esterni che le
persone ci presentano, tanto più siamo in grado di dare ascolto ai messaggi interni che
riflettono le loro esperienze interiori. Vi sono molti modi in cui è possibile migliorare le
nostre abilità di ascolto. Tra questi: avere un motivo per ascoltare, sospendere il nostro
giudizio, concentrarci sull’helpee e sul contenuto, ricordare le espressioni usate
dall’helpee, e prestare attenzione a quelle che sono le tematiche ricorrenti. Ascoltare ci
prepara a rispondere empaticamente ai nostri helpee.
Prima di tutto, per ascoltare bene, dobbiamo sapere perché stiamo ascoltando. Dobbiamo
avere un motivo per ascoltare. L’obiettivo della relazione di aiuto è, in realtà, il motivo per
il quale ogni helper deve impegnarsi ad ascoltare: raccogliere tutte le informazioni possibili
collegate ai problemi o agli obiettivi presentati dagli helpee.
Come nell’osservare, dovremmo ascoltare le indicazioni che ci vengono dai diversi livelli di
funzionamento degli helpee: fisico, emotivo ed intellettuale. Per far questo, dobbiamo
concentrarci non solo sulle parole, ma anche sul tono della voce e sul modo con cui le
persone si presentano. Le parole ci diranno del contenuto intellettuale delle esperienze che
l’altra persona sta vivendo. Il tono della voce ci dirà dei sentimenti presenti negli helpee.
Modo di presentarsi
Parole dell'helpee
È poi importante, almeno in un primo momento, che noi sospendiamo il nostro giudizio
personale mentre ascoltiamo. Se intendiamo veramente ascoltare ciò che gli helpee dicono,
dobbiamo momentaneamente mettere da parte le cose che diciamo a noi stessi. Dobbiamo
lasciarci penetrare dai messaggi degli helpee senza voler cercare di esprimere un giudizio
su di essi.
Nell’ascoltare gli helpee, ci concentriamo inizialmente sul contenuto oggettivo di ciò che
l’altro dice. Concentrandoci sul contenuto, vogliamo essere certi di aver colto tutti i
dettagli "concreti" delle esperienze degli helpee. Se così non fosse, non saremmo in grado
di aiutarli a comprendere le loro esperienze. Possiamo concentrarci sul contenuto di ciò
che esprimiamo ponendoci le sei domande chiave.
CHI?
COSA?
PERCHÉ?
QUANDO?
DOVE?
COME?
Se siamo in grado, ogni volta, di rispondere a queste domande, possiamo essere certi di
aver colto gli ingredienti fondamentali che compongono il contenuto delle esperienze degli
helpee. Se, viceversa, non siamo in grado di rispondere a queste domande, vuol dire che è
necessario continuare ad ascoltare: a mano a mano che le persone, parlando,
condivideranno con noi le loro esperienze, completeranno le informazioni che ci mancano.
Cosa? Perchè?
Chi?
Ricordare
Per essere in grado di fissare in memoria e richiamare di volta in volta alla mente il
contenuto di ciò che le persone stanno dicendo, ma anche il sentimento che lo
accompagna, dobbiamo concentrarci piuttosto intensamente sulle espressioni degli helpee.
"Le cose non mi stanno andando molto bene. Né a scuola, né con la mia ragazza. Mi sento
come bloccato. Cerco di far finta di niente, ma dentro mi sento molto giù perché non sono
sicuro di cosa vorrei fare o dove vorrei andare".
"Buchi"
Sentimento
Contenuto
Dobbiamo anche imparare a cogliere ciò che le persone ci stanno dicendo a "lungo termine",
cioè per un certo arco di tempo. Per far questo, un utile accorgimento è quello di cercare
di individuare i temi o gli argomenti ricorrenti nelle esperienze degli helpee. Le tematiche
importanti (ciò che veramente sta a cuore alle persone) è probabile che vengano ripetute e
ripetute, più volte. Di solito, gli helpee sono anche emotivamente coinvolti con maggiore
intensità in queste tematiche, dal momento, appunto, che cercano di comunicarcele
continuamente.
In realtà, sono proprio questi temi ricorrenti a farci capire quello che veramente gli helpee
cercano di dirci di loro stessi e del loro mondo. Se solo gliene daremo l’opportunità, questi
temi ci diranno da "dove" (da quali esperienze) le persone provengono. Dobbiamo solo
ricevere i messaggi che essi ci mandano e decodificarli, cercando di riconoscere quali sono i
temi ricorrenti. Questa percezione ci metterà in condizione di rispondere agli helpee con
accuratezza. È possibile esercitarci nell’ascolto cercando di "cogliere" le tematiche
ricorrenti presenti nelle nostre conversazioni di tutti i giorni.
Temi ricorrenti
Intensità
Ripetizione
Alla maggior parte di noi è sempre stato "insegnato" a non stare a sentire, a non ascoltare.
Anni di condizionamenti hanno portato a questo. Siamo distratti perché non vogliamo stare
a sentire. Travisiamo le espressioni degli altri per evitare eventuali conseguenze spiacevoli
di una vera comprensione. Sono soprattutto le conseguenze che vi possono essere sulla
propria intimità che spaventano le persone. Così come siamo stati condizionati a non
ascoltare ed a non sentire, per essere helper efficaci dobbiamo "decondizionarci", ovvero
dobbiamo abituarci ad ascoltare e sentire attivamente le espressioni degli helpee.
Sentire
Riflettere
Ascoltare
Riepilogo
In conclusione, l’intero processo di aiuto verbale dipende dalla nostra abilità di ascoltare e
di decodificare il contenuto ed il sentimento delle molteplici espressioni che le persone
tentano di "inviarci".
Possiamo ora iniziare a costruire una scala di valutazione cumulativa delle varie abilità che
compongono la relazione di aiuto. Se l’helper è attento alla persona, osserva e ascolta gli
helpee, possiamo valutarlo come pienamente attento (livello 2.0). Se l’helper è solamente
attento alla persona, può essere valutato ad un livello inferiore rispetto al precedente
(livello 1.5). Se l’helper non è attento alla persona, allora non lo possiamo considerare in
relazione con l’helpee (livello 1.0)
Livelli di aiuto
5.0
4.5
4.0
3.5
3.0
2.5
2.0 Osserva e ascolta
1.5 Presta attenzione alla persona
1.0 Non attento
Ma quello che più conta è che gli helpee, da parte loro, incominceranno a lasciarsi
coinvolgere nel processo di aiuto. Si prepareranno alle sedute o agli incontri con noi.
Diverranno attenti ed impareranno ad osservare se stessi e gli altri. Incominceranno a
condividere le loro esperienze e ad ascoltare, a loro volta, le esperienze degli altri. In
questo modo, gli helpee dimostreranno di essere pronti ad entrare nella fase successiva
della relazione di aiuto: la fase dell’esplorazione della loro esperienza.
Come per ogni altro tipo di abilità, sarà necessario che vi esercitiate nelle abilità di
attenzione, fino a che non le avrete integrate nella vostra personalità e nel vostro stile di
aiuto, come dimostra di aver fatto l’helper nel caso che ora presentiamo.
Alberto è un ragazzo di 23 anni, alto, robusto, spalle larghe. Appariva agitato e arrabbiato.
Paola, la terapista, incontrò per la prima volta Alberto nel proprio studio. L’unico preavviso
era stata una telefonata da parte della ditta in cui Alberto lavora (e con la quale Paola
aveva un contratto come consulente), in cui le veniva richiesto un appuntamento urgente
per Alberto nel pomeriggio.
Quando Paola entrò nella sala d’aspetto, fu sorpresa. Alberto non aveva affatto l’aspetto di
un suo tipico cliente: era alto, muscoloso e si muoveva velocemente. Indossava indumenti
da lavoro, puliti, ma evidentemente usati. Ed era in collera. Camminava avanti e indietro,
con una smorfia sul viso nel tentativo di controllare la propria rabbia. Dopo aver esitato una
frazione di secondo, Paola gli si avvicinò.
Paola: (ricordandosi di rimanere rilassata) "Buon giorno. Lei deve essere il signor Masoni".
Alberto: "Sì".
Paola: (allungando la mano) "Il mio nome è Paola Rante". (Alberto le stringe la mano in una
morsa che rischia di schiacciarle le dita, ma che subito si trasforma in una energica stretta
di mano). "Prego, si accomodi nel mio studio. Prenda quella sedia vicino alla finestra: è più
comoda". (Non appena Alberto si siede, Paola gli offre una tazza di caffè, che egli rifiuta.
Paola si siede su una sedia di fronte ad Alberto, piegandosi leggermente in avanti). "Allora,
mi pare di capire che lei desiderava vedermi per qualcosa che la disturba".
Alberto: "... Esattamente! Ho appena perso il lavoro perché ho colpito il caporeparto! Se
non imparo a controllare il mio carattere, tutta la mia vita andrà a p..!"
(Paola si piega leggermente più in avanti e guarda Alberto con franchezza). "Non so cosa
possa fare una ragazza come lei per aiutarmi, ma sono disposto a provare qualsiasi cosa!"
Parlò quindi per altri 15 minuti, senza mai interrompersi. Ad un certo punto saltò anche in
piedi di scatto e si mise a camminare, battendo ripetutamente il pugno nel palmo della
mano, mentre parlava. Paola rimase seduta sulla sua sedia, voltandosi verso di lui che
camminava avanti e indietro. Quando si rese conto di cosa stava facendo, egli sorrise
imbarazzato e tornò a sedersi. Alla fine concluse la sua invettiva e, seduto sulla propria
sedia, si rivolse a Paola che sedeva di fronte a lui.
Alberto: "Lo sa che lei ha del fegato? Un’altra donna al suo posto avrebbe già tagliato la
corda o avrebbe cercato di farmi stare seduto e tranquillo. Perché lei no?"
Paola: (con calma, guardando Alberto) "Lei, in questo momento non ha certo bisogno di una
persona che abbia paura di lei, né di una mamma che le faccia delle raccomandazioni. Lei
mi ha appena detto che ha bisogno di una persona che sia in grado di aiutarla: se voglio
essere io quella persona, devo scoprire prima di tutto chi è lei. E non vi è alcuna possibilità
che io ci riesca scappando o costringendola a fare quello che voglio io".
Alberto: (per un istante è perplesso, poi sorride) "Lei certamente sa quello che fa, non c’è
dubbio".
Paola: (sorride anche lei) "Lei è troppo forte per lasciarsi trattare come un bambino. Lei è
troppo forte per permettersi un comportamento infantile".
Alberto: "Lo sa che ha proprio ragione? Io non voglio perdere il controllo. Quando mi
succede, questo non fa che crearmi dei guai".
Sono state necessarie a Paola tutte le sue abilità di attenzione per mantenere un contatto
con Alberto. Ha dovuto essere attenta al contesto, preparando se stessa, l’ambiente e
Alberto all’interazione. È riuscita in questa impresa tenendo sotto controllo la propria
tensione, mettendo Alberto a suo agio e rendendo il proprio studio quanto più confortevole
possibile in funzione della sua interazione con Alberto. Ha fatto in modo di poter
mantenere il contatto oculare. Si è piegata in avanti e si è sempre rivolta verso Alberto,
anche mentre lui camminava avanti e indietro nella stanza. Ha fatto delle osservazioni che
la hanno aiutata a capire che Alberto era sì in grado di controllare la sua rabbia, ma solo a
fatica. Ed ha ascoltato quello che egli le diceva, cercando di ricavarne delle informazioni
utili. I suoi sforzi sono stati premiati. Il suo corretto uso delle abilità di attenzione ha fatto
sì che Alberto si impegnasse a parlare con lei, ammettendo che avrebbe potuto aiutarlo a
crescere.
Tratto da Carkhuff R.R. (1993), L’arte di aiutare. Manuale, Trento, Erickson, pp. 6389.
Considerate l'elenco seguente di abilità e capacità e indicate quelle che: (a) avete bisogno
di migliorare; (b) possedete in modo soddisfacente.
incontrare estranei
iniziare una conversazione
accettare complimenti
rispondere alle critiche
delegare
prendersi cura degli altri
dare incoraggiamento
scusarsi
esprimere sentimenti negativi
esprimere sentimenti positivi
chiedere aiuto
fare complimenti
fare lamentele
prendere decisioni
accettare responsabilità
rilassarsi
porsi degli obiettivi
gestire lo stress
gestire il fallimento
Discuti quanto è emerso con gli altri che hanno fatto l'esercizio e considerate meglio le
aree che risultano problematiche per la maggior parte di voi.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, 1999, pp. 30 e 57.
Oltre alle abilità pratiche essenziali ci sono altri prerequisiti — ugualmente importanti —
per l’efficacia di un counselor. Essi comprendono quelle a cui Carl Rogers si riferiva
definendole le condizioni chiave dell’empatia, del rispetto e della congruenza, che
considerava i principali attributi di un counselor efficace (Rogers, 1991a).
Fra le altre qualità che sono auspicabili in un counselor vi sono un interesse genuino per le
altre persone e interessi che esorbitino dal contesto del counseling. Possono sorgere
problemi scottanti quando un counselor investe tutto se stesso nella professione con il
risultato che i clienti diventano necessari per il suo senso di benessere. Senza contare che
esiste l’ulteriore pericolo di un attaccamento emozionale inappropriato ai clienti, se la vita
personale e le relazioni del counselor sono prive di altri reali interessi e impegni. I
counselor devono essere consapevoli del fatto che i clienti, i quali sono spesso
emozionalmente vulnerabili, possono essere sfruttati, anche senza rendersene conto, dai
counselor quando i loro bisogni emozionali non vengano soddisfatti in altra sede.
Un’altra caratteristica del counselor efficace è quella di imparare qualcosa dai propri
errori e quindi impegnarsi nel processo spesso difficile del cambiamento. È di grande aiuto
avere un buon senso dell’umorismo ed è importante la capacità di ridere delle
contraddizioni e delle incongruenze della vita in generale. Anche la flessibilità di
pensiero, la creatività e le abilità di problem solving sono essenziali, come pure la capacità
di rilassarsi e di godere di attività culturali, artistiche, ecc.
I counselor devono essere obiettivi e privi di pregiudizi nei loro atteggiamenti ed essere
consapevoli e rispettosi di diverse culture — inclusa la loro. L’accettazione delle altre
persone, prescindendo dalla loro razza o religione o dal loro orientamento sessuale, è
un’esigenza fondamentale del counseling, come lo è l’accettazione delle persone dei più
diversi gruppi sociali.
È necessario che i counselor facciano chiarezza sulle loro priorità e sui loro obiettivi, e
che comprendano la natura della loro ambizione e come essa possa influenzare il loro
lavoro e le loro relazioni. Un corollario di ciò è che sarebbe auspicabile un certo equilibrio
nel rapporto fra se stessi e gli altri. La sovrastima di se stessi rovina quanto la tendenza a
sottovalutarsi, poiché quando le persone cominciano a vedere se stesse e il proprio
contributo come indispensabili il burnout diventa una possibilità tangibile.
Ecco un elenco delle qualità di un counselor efficace (vedi anche la figura 1):
È importante decidere di volta in volta se sia il caso, in una certa conversazione, di fare
uso delle proprie abilità di counseling. Vale la pena riportare, a questo riguardo, un
esempio tratto dalla nostra esperienza di vita quotidiana.
La settimana scorsa Davide ha incontrato una nostra vicina di casa, Giulia. Abbiamo tutti e
due un buon rapporto di amicizia con Giulia. Ci capita spesso di fermarci a chiacchierare
con lei: sul tempo che fa, gli amici, i parenti, le cose che stiamo facendo. Quella volta
però, non appena Giulia cominciò a parlargli del figlio e della nuora, Davide avvertì in lei
un profondo turbamento. Si trovò quindi a decidere se fosse il caso — oppure no — di
attingere alle sue abilità di counseling, per aiutare quella donna a sentirsi meglio. Doveva
anche tenere conto dei suoi rapporti di buon vicinato con Giulia, del tempo disponibile,
della situazione in cui si trovavano, delle sue stesse energie emotive.
Proviamo a metterci nei panni di Davide: era senz’altro possibile che fosse di fretta, che si
fosse reso conto di essere in un ambiente pubblico e poco "protetto", o — magari — che
scoprisse di non avere, in quel momento, energie emotive a sufficienza per ascoltare un
problema altrui. Se avesse considerato l’uno o l’altro di questi fattori, avrebbe forse deciso
che non era il caso, date le circostanze, di impiegare le sue abilità di counseling.
Si sarebbe così trovato a dire a Giulia una frase del tipo: "Mi dispiace davvero sapere che
tuo figlio e tua nuora, Giulia, abbiano dei problemi. I giovani hanno spesso l’impressione di
trovarsi in difficoltà, nella vita matrimoniale, specialmente all’inizio. Spero che le cose
migliorino al più presto, sia per loro sia per te". Si sarebbe trattato, da un certo punto di
vista, di una risposta impeccabile: rispettosa, amichevole, perfino affettuosa. Non era,
tuttavia, una risposta che attingesse alle abilità di counseling: anziché invitare la vicina a
raccontargli come si sentisse, Davide, così facendo, avrebbe finito col disinteressarsi della
sua sfera emotiva, chiudendo la conversazione con un semplice augurio di "pronto
miglioramento".
Le cose, tuttavia, non andarono così. Davide non rispose con una frase come quella
riportata, ma decise di fare uso delle sue abilità di counseling, per aiutare la vicina a
esprimere meglio le sue emozioni sull’accaduto, e — di conseguenza — a sentirsi un po’
meglio di prima. Con un uso appropriato del counseling, Giulia fu quindi invitata a
raccontare l’oggetto delle sue preoccupazioni. Libera di sfogarsi, continuò a parlare per un
po’. Mano a mano che parlava dei suoi problemi, cresceva in lei la convinzione di poterli
affrontare positivamente.
È importante che riconosciamo il fatto che, quando scegliamo di impiegare certe abilità di
counseling, stiamo anche invitando il nostro interlocutore — in modo più o meno
esplicito e diretto — a parlarci di sé. La persona che abbiamo di fronte potrebbe trovarsi a
rivelare delle cose molto private e personali, che vorrebbe mantenere nella massima
riservatezza. Occorre quindi una grande sensibilità, da parte nostra, rispetto a questa
esigenza di riservatezza.
La decisione di impiegare certe abilità di counseling, oppure no, può dipendere da diversi
fattori. È sempre meglio riflettere con calma, di volta in volta, sugli elementi che
potrebbero influenzare questa nostra decisione.
Potrebbe essere opportuno soppesare alcuni interrogativi, come quelli che seguono:
Adesso che avete letto questo elenco di domande, vi sarete probabilmente resi conto che
l’uso delle abilità di counseling, anche nella sfera della vita di tutti i giorni, non è
un’opzione neutra, o priva di implicazioni. Ciascuno di noi si assume un obbligo morale
verso la persona che vorrebbe aiutare. Se questa decide di confidarci certi suoi problemi
personali, magari anche molto delicati, siamo tenuti a rispettare la sua riservatezza; nessun
altro dovrà sentire questa nostra conversazione. La persona con cui parliamo deve potersi
fidare di noi. Deve confidare nel fatto, cioè, che non faremo nessun utilizzo improprio delle
informazioni che ci consegna.
Nell’esempio che abbiamo riportato, vista l’importanza della riservatezza, Davide fece la
massima attenzione a non forzare la mano: a non spingere la conversazione al di là di quel
che Giulia, la nostra vicina, avrebbe potuto desiderare. Giacché Davide aveva saputo
rispettare questi confini, Giulia diede l’impressione di avere avuto un’esperienza positiva,
dalla conversazione con lui. Era inoltre probabile, visto che Davide era stato ben attento a
non forzarla a toccare gli aspetti più dolorosi del problema, che Giulia si sarebbe sentita
sicura, e a proprio agio, nel conversare con lui anche in futuro.
Dovrebbero essere abbastanza chiare, a questo punto, le differenze tra l’uso delle abilità di
counseling in una normale conversazione e una semplice relazione d’amicizia, senza nessun
riferimento al counseling. Quando decidiamo di usare le abilità di counseling, invitiamo il
nostro interlocutore a parlarci di più dei suoi pensieri e delle sue esperienze emotive,
al fine di aiutarlo a sentirsi meglio. In una normale conversazione, facciamo uso di
"abilità" più semplici, che non richiedono nulla di tutto questo. Si tratta di scegliere, di
volta in volta, se sia il caso di puntare sulle abilità di counseling, o se non sia meglio,
piuttosto, continuare a fare gli amici "normali", come al solito.
Potete scegliere se utilizzare certe abilità di counseling, oppure no, tenendo conto di
una serie di fattori: il tipo di relazione, il tempo disponibile, la situazione, le risorse
personali di cui disponete.
Va da sé che un corretto utilizzo delle abilità di counseling aiuterà gli altri ad "alleggerirsi"
del loro fardello emotivo, condividendo con voi determinati problemi, fino a riuscire ad
affrontare meglio certe questioni "emotivamente cariche", a prendere le decisioni, a
sentirsi meglio. Impiegare bene le abilità elementari di counseling, oltretutto, può essere
molto gratificante anche per la persona che decide di utilizzarle.
Ritorniamo per un attimo all’esempio di Giulia, la nostra vicina di casa. Quando Giulia
cominciò a raccontare a Davide ciò per cui era preoccupata, entrò in contatto con alcune
sue emozioni profonde e dolorose. Come ci si poteva attendere — essendo il suo
interlocutore una persona di grande sensibilità emotiva — tali emozioni, mano a mano che
ne parlava, inducevano in Davide delle emozioni non dissimili, benché più attenuate.
Quella conversazione, oltretutto, gli aveva riportato alla mente certi momenti dolorosi del
suo passato. Anche per lui, doveva essere impegnativo — o addirittura doloroso —
ascoltarla mentre narrava, con vivida tristezza, i suoi problemi familiari.
Impiegare le proprie abilità di counseling, quindi, può essere una scelta costosa: è
probabile che ritornino a galla anche in noi, nostro malgrado, certe esperienze o problemi
irrisolti del passato. Se Davide avesse deciso di comportarsi da normale vicino di casa (o da
amico), avrebbe potuto semplice mente dire: "Mi dispiace davvero che tuo figlio e tua
nuora, Giulia, abbiano dei problemi… Spero che le cose migliorino al più presto", per poi
cambiare argomento di conversazione. Così facendo, avrebbe potuto evitare di ascoltare la
sofferta esperienza della vicina, e si sarebbe risparmiato, a sua volta, il "richiamo emotivo"
di certe sue esperienze dolorose del passato.
Se decidete di fare uso di queste abilità di counseling, dovete essere consapevoli che state
deliberatamente invitando un’altra persona a parlare dei suoi problemi, e magari delle sue
emozioni più sofferte. Dovrete essere pronti, di conseguenza, a fronteggiare anche le
vostre reazioni emotive, dinanzi a quel che vi racconterà. Riteniamo che sia proprio
questa una delle ragioni per cui tante persone — la maggior parte di noi — utilizzano le
proprie abilità di counseling (comprese quelle più spontanee e naturali) molto meno di
quanto potrebbero. Siamo tutti abituati a deviare la conversazione, in modo più o meno
elegante, quando si affacciano alla ribalta argomenti imbarazzanti e dolorosi. Così facendo,
ci possiamo proteggere dalla sofferenza che si accompagna, molte volte, all’ascolto dei
problemi degli altri. Invece di invitarli ad andare avanti, tendiamo spesso a liquidare la
faccenda sul nascere: "Beh… è così che va, nella vita"; "Pazienza, da adesso in poi le cose
potranno soltanto andare meglio". Più semplicemente ancora, cambiamo argomento.
Quante volte vi sarà capitato di sentire dire, da qualcuno: "Ho tanti di quei problemi per
conto mio, non è il caso che mi preoccupi per i problemi degli altri". A prima vista, un
atteggiamento di questo tipo parrebbe, quanto meno, poco condivisibile. A nostro giudizio,
tuttavia, si tratta di un atteggiamento comprensibile e legittimo, soprattutto da parte di
chi, con una vita difficile o stressante alle spalle, ha dei gravi problemi personali da
risolvere. Detto questo, non si può negare che dare una mano agli altri con queste piccole
abilità di counseling — nella misura in cui ci si sente di farlo — sia un’attività ricca di
gratificazioni. Ci auguriamo che lo possa essere anche per voi, così come lo è stata per noi.
Mettere in pratica certe semplici abilità di counseling per dare una mano agli altri, lo
abbiamo detto, può essere davvero gratificante. Dalla disponibilità di offrire agli altri
un’occasione per parlare dei loro vissuti emotivi (e per ciò stesso affrontarli), e per
discutere delle soluzioni dei loro problemi (e magari trovarle insieme), è possibile ricavare
anche una notevole soddisfazione personale. Non ci possiamo che augurare che anche voi
possiate sperimentare esperienze positive in tal senso, come le nostre.
Vale la pena notare che un atteggiamento rispettoso verso gli altri, e un utilizzo
appropriato di certe abilità di counseling, serviranno anche a migliorare — a rendere più
profondi — i nostri rapporti con gli altri; costoro scopriranno nuove opportunità di
relazionarsi con noi, in modi significativi e gratificanti tanto per loro, quanto per noi.
Le aspettative personali
Perché possiate fare un utilizzo positivo delle vostre abilità di counseling, occorre che
abbiate un’idea ben chiara delle vostre personali aspettative. Per aiutarvi a riflettere su
questo aspetto, vi proponiamo un esempio operativo. Ipotizziamo che una persona, tale
Michele, si rivolga a voi, raccontandovi di un suo recenteproblema.
La settimana scorsa Michele ha perso il lavoro, che per lui era qualche cosa di molto
importante. Ci sarebbe un’altra proposta di lavoro che fa al caso suo, ma viene da una
cittàche è a sei ore di viaggio da quella in cui vive attualmente,con la compagna.
Quest’ultima, se lui accettasse quel lavoro, non si potrebbe comunque trasferire; di qui il
dilemma sul da farsi. Michele si sente davvero angosciato, anche perché ci teneva
tantissimo al lavoro che ha appena perduto.
Ipotizziamo che Michele sia un vostro vecchio compagno di scuola, e che vi troviate ancora
per giocare a tennis insieme. Finita la partita, state bevendo un tè o un caffè, quando
Michele vi racconta di questo suo problema. Vi chiede un consiglio: dovrebbe accettare il
nuovo lavoro, o rimanere lì dov’è, senza lavoro, per continuare a vivere con la sua
compagna?
1. Gli darò una mano a trovare un lavoro vicino alla città in cui vive, con la sua
compagna.
2. Parlerò anche con lei e vedrò se riesco a convincerla a trasferirsi con lui.
3. Cercherò di fargli cambiare idea: non è così necessario, dopo tutto, che trovi subito
un nuovo lavoro.
4. Gli dirò di accettare la nuova proposta di lavoro, aggiungendo che, se la sua
compagna lo ama davvero, non c’è dubbio che alla fine lo seguirà.
5. Gli dirò che la sua relazione sentimentale è più importante del lavoro, per cui
dovrebbe rimanere con la sua compagna.
Che cosa pensate di questo tipo di aspettative? A rischio di cogliervi di sorpresa, ci tocca
dirvi che tutte le aspettative che vi abbiamo elencato sono, a nostro giudizio,
inappropriate e irrealistiche. Sapreste dire il perché?
Aspettative come quelle che abbiamo appena descritto sono irrealistiche, per tutta una
serie di ragioni.
1. Se pensiamo che sia possibile, per noi, risolvere i problemi degli altri, partiamo già
con un’aspettativa irrealistica, condannata a essere smentita dai fatti. Il più delle
volte, infatti, è semplicemente impossibile risolvere i problemi di qualcun altro.
Ogni persona deve attivarsi per risolvere i problemi che ha. L’utilizzo di alcune
semplici abilità di counseling, però, può facilitare il percorso di ricerca di una sua
personale soluzione.
2. È estremamente difficile, se non impossibile, cambiare le convinzioni o gli
atteggiamenti di una persona nel modo in cui vorremmo noi, a meno che la
persona stessa non sia d’accordo. Tentare di convincerla a pensare in un altro
modo, o a fare qualche cosa che non ha alcuna intenzione di fare, non servirà a
nulla.
3. In molti casi è opportuno evitare di dare consigli, anche quando ci chiedono di
farlo. Va da sé che questa regola conosce non poche eccezioni, nella vita
quotidiana di ciascuno di noi.
Alla questione del dare (o del non dare) consigli non è facile trovare una risposta, anche
perché molto dipende dal contesto in cui ci si trova. Ci sono tante situazioni, nella vita di
tutti i giorni, in cui dare consigli è cosa ragionevole e appropriata. Pensiamo ad alcuni casi
esemplari.
Se avete un ruolo aziendale direttivo, e sapete che uno dei vostri collaboratori si
sta comportando in modo da danneggiare l’interesse dell’azienda, avrete la precisa
responsabilità di dargli un certo tipo di indicazioni.
Se siete insegnanti e uno studente vi domanda quali siano i possibili sbocchi
occupazionali di un certo corso di studi, cercherete senz’altro di dargli informazioni
obiettive — per quanto possibile — e di consigliarlo, di conseguenza, rispetto al
proseguimento degli studi.
Gli esempi, come è evidente, potrebbero proseguire all’infinito. Ci sono anche tante
situazioni della vita quotidiana, tuttavia, in cui è meglio non dare consigli. Spiegheremo
subito il perché, ma prima vi proponiamo un’altra breve pausa di riflessione, per capire
perché il "dare consigli" risulti spesso inopportuno. Che idee vi siete fatti in merito? Sono
idee che assomigliano a quelle che vi proponiamo in questo elenco, oppure no?
È anche vero che chi ha un qualche tipo di problema è incline a chiedere un qualche
consiglio, specie alle persone di cui si fida di più. La richiesta potrebbe assumere la forma,
ad esempio, del: "Che cosa faresti tu, se fossi al mio posto?"; oppure: "Non so che fare. Che
cosa pensi che dovrei fare?". Di fronte a domande di questo tipo, riteniamo sia il caso di
rispondere, in modo chiaro ed esplicito, perché è più importante che la persona in
questione faccia quel che è giusto per lei, anziché ciò che ritenete giusto voi. Una
risposta potrebbe essere, ad esempio:
Credo che la cosa più importante, per te, sia fare quel che ritieni giusto fare tu.
Quali sono le possibilità di scelta che hai?
Al che il vostro interlocutore potrebbe anche rispondere: "Non lo so… è proprio per questo
che ti sto chiedendo che cosa potrei fare". A questo punto, la vostra risposta potrebbe
essere:
Non lo so proprio, quale sia la soluzione migliore per te. Se continuiamo a parlarne,
però, ci potrebbe venire in mente qualche possibilità.
Può anche essere utile ammettere, con il nostro interlocutore, che il problema che sta
cercando di risolvere è proprio difficile; al punto, magari, che siamo un po’ disorientati
anche noi.
Dare dei consigli può servire a risolvere i problemi degli altri, o ad aiutarli a prendere
una decisione, solamente nel caso in cui si sappiano offrire loro delle informazioni
corrette e aggiornate, che riguardano direttamente la situazione in cui si trovano.
Aspettative realistiche
Quando facciamo uso delle abilità di base del counseling, nella vita di tutti i giorni,
dobbiamo anche sincerarci del fatto che la persona che vorremmo aiutare non nutra, nei
nostri confronti, delle aspettative irrealistiche. Noi per primi, come si è visto, dobbiamo
guardarci dal rischio di darci delle aspettative eccessivamente elevate.
Occorre essere onesti con se stessi, rispetto all’aiuto che si può effettivamente offrire agli
altri. Capita a tutti di domandarsi, di tanto in tanto: "Posso davvero aiutare quella
persona?". Se non ne siete sicuri, ricordatevi che potrete sempre suggerirle di rivolgersi a
qualcuno più esperto e qualificato per aiutarla. Ciascuno di noi è limitato, nell’aiuto che
può offrire agli altri. È fondamentale essere ben consapevoli dei limiti oltre i quali, anche
con le migliori intenzioni, non ci potremo spingere. Ci saranno sempre delle circostanze in
cui avvertiremo l’esigenza di una "fonte d’aiuto" più esperta e specializzata; è altamente
raccomandabile, in tali casi, che la persona che state cercando di aiutare si rivolga subito a
un counselor professionista.
Riteniamo che tra le aspettative realistiche che è possibile coltivare, usando le abilità di
counseling nella vita di tutti i giorni, vi siano le seguenti:
1. Cercare di dare vita a una relazione emotivamente intensa, e ricca di fiducia, con
la persona che è in cerca d’aiuto.
2. Ascoltare in modo attivo la sua storia, così da restituirle la sensazione di essere ben
compresa.
3. Sforzarsi di riconoscere, e di prendere atto, dei sentimenti e delle emozioni di
quella persona; farla sentire a proprio agio, perché ne possa parlare.
4. Cercare di aiutare la persona a districarsi, in una situazione di confusione, e quindi
a risolvere questioni problematiche.
5. Offrirle un’opportunità per passare in rassegna le possibili soluzioni ai suoi
problemi, le alternative di cui dispone, e quindi per prendere le decisioni che le
sono più congeniali.
Quali ulteriori aspettative potrebbero essere aggiunte, da ciascuno di noi, a questo elenco?
Si tratta di aspettative realistiche?
Auspicabilmente, la scelta di dare una mano a qualcuno, con un corretto utilizzo delle
abilità di counseling, dovrebbe servire a farlo stare meglio di prima, almeno sotto il profilo
emotivo. Potrebbe anche servire a facilitare la risoluzione dei problemi, la scoperta di
nuove soluzioni, l’assunzione di decisioni positive. Sarebbe bello, in verità, se le cose
andassero sempre così. Nei fatti però, è irrealistico aspettarsi un risultato di questo tipo.
Capita di scoprire, certe volte, che invitando qualcuno a parlarci di sé si finisce per indurlo,
suo malgrado, a riprendere contatto con emozioni forti, e magari dolorose, che lo
turberanno non poco. Quando ciò avviene, è senz’altro il caso di suggerirgli di fare
riferimento a un professionista, con le qualifiche del caso.
Riteniamo che l’aspettativa più importante, che potrà senz’altro essere realizzata, sia
quella di ascoltare l’altra persona in modo attento e rispettoso, così che questa sappia
che c’è qualcuno che ha ascoltato la sua storia, senza giudicarla e ha avvertito appieno
il carico di emozioni e di sofferenze che, tante volte, ne deriva. Se riuscirete in questo,
farete una cosa di grande utilità per quella persona, e ne trarrete voi stessi un senso di
legittima soddisfazione personale.
Finora ci siamo concentrati su tutti quegli aspetti dell'atteggiamento di comprensione che, potremmo
dire, sono propedeutici ai fini del nostro colloquio.
Entriamo ora nell’oggetto più specifico del nostro corso on line, ovvero gli aspetti verbali con cui
sviluppare un colloquio. Apprenderemo delle tecniche – studiate e consolidate – che permettono di
raggiungere il nostro obiettivo: far sentire la persona compresa e rimandarle questa comprensione
affinché possa aprirsi e quindi guardare la situazione in cui si trova, fare chiarezza dentro se stessa e
provare a capire come muoversi.
Le parole di Carkhuff ci spiegano bene questo punto:
“…gli helper devono essere in grado di rispondere alle esperienze comunicate dagli interlocutori, per
facilitare la loro esplorazione. Gli helper cercano di comunicare con accuratezza quanto essi, di
queste esperienze, hanno percepito. Una risposta accurata servirà a facilitare o a stimolare negli
interlocutori una ulteriore esplorazione del loro vissuto.” (Carkhuff, 1993, p. 55)
Come abbiamo visto, non tutte le risposte dell’helper sono in grado di stimolare questo obiettivo.
Mucchielli ci indica i cinque tipi di risposte che, pur desiderando dare aiuto, di fatto possono
ostacolare l’esplorazione della situazione da parte del nostro interlocutore.
Risposte di valutazione, interpretazione, sostegno, indagine, soluzione possono rendere difficile per
l’interlocutore l’esplorazione ampia e serena della sua situazione o del suo problema, soprattutto se
utilizzate all’eccesso; tutte, infatti, hanno una caratteristica determinante: sono centrate sull’helper e si
riferiscono a ciò che lui pensa rispetto alla situazione o all’interlocutore. Si dice anche che
sottintendono un atteggiamento direttivo da parte dell’helper, perché egli induce il colloquio verso
direzioni che è lui a scegliere, invece di accompagnare la persona ad esplorare ciò che emerge da lei.
Studiamo ciascun atteggiamento aiutandoci con la sintesi qui proposta e poi direttamente con le parole
di Mucchielli Atteggiamenti che non facilitano l'espressione del soggetto.
Proveremo poi ad esercitarci nel riconoscerle, sia rivedendo le risposte del test proposto nel modulo
precedente, sia con l’esperienza di ciascuno, per capire perché possono essere di ostacolo per
l’interlocutore.
1. Atteggiamento di valutazione
Consiste nel fare riferimento a norme e a valori, indicando ciò che è bene o male. L’helper trasmette
più o meno apertamente il messaggio “ti dico io cosa/come fare”, “offrendo” un consiglio morale o
moralistico: messa in guardia, approvazione, disapprovazione, invito a pensare in una certa maniera,
allusione a criteri ritenuti validi da chi aiuta.
Potenziali effetti dannosi
L’interlocutore può sentirsi in una posizione di ineguaglianza morale e quindi in uno stato di
inferiorità, specie se disapprovato con frasi come: fai attenzione a.., (non) bisognerebbe/(non) si
dovrebbe, non si può…
Anche quando il giudizio emesso dall’helper è positivo – hai ragione, fai bene, è giusto – c’è
comunque un giudizio che può dissuadere la persona dall’aprirsi con fiducia. Rogers stesso afferma:
“E’ curioso ma una valutazione positiva è, a lungo andare, altrettanto minacciosa che una valutazione
negativa poiché dire a qualcuno che è buono implica che si ha anche il diritto di dirgli che è cattivo”
(Rogers, La terapia…, op. cit, p. 83)
Tra le possibili reazioni innescate dall’atteggiamento valutativo, a seconda della personalità
dell’interlocutore, ci possono essere:
inibizione (freno, reticenza, blocco);
colpa (sensazione di essere in errore o colpevole);
ribellione;
dissimulazione;
angoscia.
2. Atteggiamento di interpretazione
L’atteggiamento interpretativo si può verificare in vari modi:
a volte l’helper pone l’accento su uno tra gli elementi espressi dall’interlocutore che a lui pare
essenziale e quindi fa un riassunto parziale e orientato;
altre volte deforma il significato di quello che è stato detto partendo da proprie categorie di
interpretazione;
in altri casi ancora l’helper dà una propria spiegazione della situazione che la persona gli riporta.
In tutti i casi l’helper proietta il proprio modo di comprendere e quindi provoca una inevitabile
distorsione del pensiero dell’interlocutore. Inoltre egli trasmette il messaggio di essere lui a dover
rivelare il perché stanno succedendo alla persona quegli eventi, restituendo la sensazione che l’altro
non possa arrivare a comprendere da sé.
Potenziali effetti dannosi
L’interlocutore può sentirsi frainteso e quindi costretto a rettificare. Se però l’atteggiamento si
prolunga, esso produce:
il disinteresse dell’interlocutore nel proseguire l’esplorazione della sua situazione: egli
deciderà se cambiare argomento o mostrare un accordo solo di cortesia;
un’irritazione sempre maggiore;
un blocco difensivo (resistenza).
3. Atteggiamento di sostegno
La risposta di sostegno mira a dare supporto, incoraggiamento, consolazione. A volte fa riferimento a
una comunanza di esperienze tra interlocutore ed helper e comunque serve a evidenziare come
quest’ultimo comprenda la situazione del primo. Spesso il pensiero e le emozioni dell’altro vengono
lette come naturali e si cerca di rassicurare la persona sdrammatizzando e minimizzando.
L’essenza della risposta di sostegno è un atteggiamento materno, a volte paternalistico, utilizzato di
frequente nella vita quotidiana nelle espressioni di rassicurazione come “coraggio, vedrai, capita a tutti,
è capitato anche a me, è normale, sei una persona forte e ce la farai…”.
Nel contesto del counseling può essere utile non tanto a chi lo riceve quanto piuttosto a chi lo usa, per
allontanare l’ansia che deriva dal “toccare” la difficoltà dell’altro.
Potenziali effetti dannosi
L’interlocutore potrebbe, a lungo andare:
sentirsi portato a mantenere una certa dipendenza dal counselor per non perderne la vicinanza
emotiva, accettando di essere guidato, di rimanere in attesa delle sue proposte e dei suoi
suggerimenti;
restare passivo per la sensazione di aver “sbagliato” a preoccuparsi della questione (ansia,
vergogna per effetto della sdrammatizzazione);
rifiutarsi di essere trattato con pietà paternalistica o di veder minimizzate questioni per lui così
importanti.
4. Atteggiamento di indagine
La risposta investigativa consiste nel porre domande per ottenere indicazioni aggiuntive
dall’interlocutore su aspetti che l’helper ritiene importanti per comprendere la situazione. Non lascia
esplorare alla persona la sua situazione e i suoi sentimenti, ma guida il colloquio in una precisa
direzione. Il messaggio sotteso è “io ho bisogno di informazioni per diagnosticare il tuo problema”.
Potenziali effetti dannosi
L’indagine può provocare, a seconda della personalità dell’interlocutore:
un orientamento del colloquio in una direzione, desiderata dall’helper, che può non
corrispondere a ciò che l’interlocutore vorrebbe esplorare; quest’ultimo quindi assumerà
l’atteggiamento di colui che risponde a un interrogatorio e interromperà la riflessività interna;
una reazione ostile a quello che può essere percepito come una curiosità inquisitrice o,
all’estremo, come un giudizio implicito sulla volontà dell’interlocutore di tenere nascosti certi
dettagli;
messa in allarme delle “difese sociali” per dare di sé la migliore immagine possibile.
5. Atteggiamento di soluzione
In questo caso l’helper propone chiaramente all’interlocutore una soluzione per uscire dalla situazione:
può indicare di rivolgersi a qualcuno che, si pensa, può risolvere i problemi oppure suggerire quale fine
perseguire e quale sia il mezzo adeguato. Un simile atteggiamento, specie se il consiglio arriva troppo
presto, impedisce al soggetto di sentirsi protagonista della soluzione e quindi difficilmente produce una
sua soddisfazione. Anche laddove la soluzione potrebbe essere effettivamente quella efficace per la
persona, se non è lei a sentirla come sua, non la accetterà o comunque difficilmente ne beneficerà.
Potenziali effetti dannosi
Due possono essere le possibili conseguenze di questo atteggiamento:
l’interlocutore si sente sminuito per non aver pensato da sé alla soluzione e quindi è portato ad
accettarla anche se non la ritiene appropriata. Molto probabilmente ciò induce una
passivizzazione e il rimando di responsabilità per la sua esecuzione all’helper, senza
protagonismo attivo;
l’interlocutore non accetta la soluzione e quindi tronca il colloquio con una totale
insoddisfazione.
Come si vede tutti questi atteggiamenti, pur avendo per obiettivo l’aiuto all’interlocutore, nascondono
degli effetti non voluti:
dal punto di vista psicologico tendono a svalutare l’interlocutore e quindi finiscono per
compromettere, se usati alla lunga, il rapporto interpersonale tra helper e persona;
dal punto di vista funzionale, ovvero per la dinamica del colloquio, compromettono
l’esplorazione del problema a causa dell’intervento direttivo dell’helper.
Peraltro essi sottintendono una precisa distinzione di ruoli tra chi ha il problema e chi ha la soluzione,
sminuendo il protagonismo della persona che invece è centrale per la soluzione dei suoi problemi.
Vedremo di qui in avanti che l’atteggiamento di comprensione stravolge questa logica e trae la sua
forza dall’idea che la soluzione emerga nella relazione, se l’helper sa creare un clima di fiducia e cerca
di entrare nell’“orizzonte di senso” del suo interlocutore.
Per un ulteriore chiarimento sulla differenza tra counseling e dare consigli, rimando a Hough
Differenza fra counseling e dare consigli.
Seguendo le ricerche di E.H. Porter riprese da Carl Rogers, definiremo ora cinque
atteggiamenti o tipi di intervento verbale dell’intervistatore che innescano induzioni e che
hanno in comune il fatto di non facilitare l’espressione del soggetto (e, nello stesso tempo,
nemmeno la comprensione di ciò che egli ha da dire).
Per maggiore comodità noi chiameremo "risposta dell’operatore" il suo intervento verbale
(che concretamente manifesta il suo atteggiamento) dopo che l’intervistato ha esposto una
parte di ciò che egli vuole dire. Si distingueranno:
Consiste nel fare riferimento a norme, a valori. Essa "offre" un consiglio morale o
moralistico: messa in guardia, approvazione, disapprovazione, invito a pensare in questa o
in quest’altra maniera, allusione a criteri considerati come veri dall’intervistatore. Questa
risposta induce nell’altra persona una sensazione d’ineguaglianza morale, ponendola in uno
stato d’inferiorità. Non abbastanza "morale" o non abbastanza razionale, o al contrario
lodato e approvato, in tutti i casi il cliente si sente giudicato da un censore.
Questa risposta induce nel soggetto la sensazione di essere stato frainteso, quasi un senso
di stupore, poiché egli non si ritrova esattamente nella risposta ricevuta. Generalmente,
soprattutto all’inizio, una simile risposta provoca una rettifica ("Non è proprio questo che
volevo dire..."). Ma se questo tipo di interpretazione continua, l’intervistato reagisce con:
Questa consiste, da parte dell’operatore, nel porre domande per ottenere risposte
supplementari da lui giudicate indispensabili per poter comprendere la situazione. In
questo modo, insistendo su un particolare dettaglio che gli sembra essere stato
"dimenticato" dall’intervistato, l’intervistatore fa "apparire" la sua personale opinione di ciò
che è importante. D’altronde, questo atteggiamento tende a mostrare all’intervistato che il
problema non è ancora stato esaminato in tutta la sua ampiezza, che dovrà considerare più
approfonditamente questo o quest’altro aspetto, orientando così la sua ricerca e la sua
memoria.
Il fare domande è una delle abitudini più inveterate negli operatori sociali. Fa parte sia
della preoccupazione per la "diagnosi", sia del bisogno d’iniziativa/superiorità. Un solo tipo
di domanda si rende opportuna: la cosiddetta domanda semantica ("Che cosa … significa per
Lei?").
L’investigazione provoca nell’intervistato reazioni diversificate a seconda della sua
personalità:
Essa consiste nel proporre all’intervistato un’idea per uscire dalla situazione.
Quest’intenzione può avere i seguenti sbocchi: rinviare il soggetto a qualcun altro che, si
pensa, lo tirerà fuori dal problema; suggerirgli il metodo da seguire per risolvere il suo
problema; indicare la meta o la strada che porta alla soluzione; dargli un consiglio, ritenuto
definitivo, che mette fine al problema e, allo stesso tempo, al colloquio.
l’impressione di essere messo alla porta, rottura implicita del colloquio; perciò,
praticamente, nessun aiuto ricevuto e insoddisfazione;
l’impressione che egli debba scegliere questa soluzione, anche se non la ritenga,
personalmente, appropriata; da cui dipendenza (desiderio di conservare la
protezione di un intervistatore che trova le soluzioni al posto suo) e possibilità di
rinviare ulteriormente la responsabilità di questa soluzione a colui che gliel’ha data
o suggerita.
Figura 1
E1: Inizio dell’espressione della sua opinione da parte del cliente. R1, R2, R3, R4, ...
Interventi verbali dell’intervistatore che provengono da uno stesso atteggiamento
sfavorevole, che si mantiene cronicamente. E2, E3, E4, E5, ... Espressioni successive del
cliente, indotte dall’atteggiamento dell’intervistatore, che deviano progressivamente nella
direzione degli interventi dell’intervistatore. Caso in cui il cliente segue i suggerimenti
impliciti senza reazioni negative o blocchi.
Figura 2
E1: Inizio dell’espressione della sua opinione da parte del cliente. R1, R2, R3, R4:
Interventi verbali dell’intervistatore che provengono da atteggiamenti diversi e tutti
"sfavorevoli". E2, E3, E4, E5: Espressioni indotte nel cliente. Nella figura 1, come nella
figura 2, aumenta lo scarto tra l’espressione virtuale completa (Ec) e il contenuto effettivo
di ciò che dice il soggetto (E2 a E5 ecc.). Caso in cui il cliente segue i diversi suggerimenti
impliciti, senza reazioni negative o blocchi.
1
Nel 1950, E.H. Porter aveva opposto alla "comprensione" i seguenti 6 atteggiamenti: 1.
Valutazione-giudizio; 2. Interpretazione; 3. Sostegno affettivo; 4. Ricerca di informazioni-
esplorazione; 5. Suggerimento; 6. Informazioni e possibilità. Rogers ha raggruppato le
ultime due in "soluzione del problema".
Certo, sarebbe ingenuo sostenere che i counselor non influenzino mai i loro clienti
indirettamente. Naturalmente, lo fanno. Infatti, il counselor ovviamente è tenuto a
influenzare il cliente che, in fin dei conti, è venuto per ricevere un aiuto. Inoltre, i
counselor spesso incoraggiano i clienti a riesaminare la loro vita e le loro relazioni per
chiarificare questioni che risultano problematiche. Nel corso di questa fase di "riesame",
possono essere discusse varie opzioni di cambiamento. Quindi si può star certi che, anche
quando non vengono forniti consigli diretti, i clienti sono spesso influenzati dalle idee, dagli
atteggiamenti e spesso anche dai punti di vista inespressi del counselor.
Ecco alcune ragioni per le quali è meglio astenersi dal dare consigli:
Molto spesso le persone non desiderano consigli. Vogliono invece essere ascoltate e
comprese.
È raro che le persone accettino consigli, specialmente quando pensano che non
siano i consigli giusti.
Se il consiglio si rivela sbagliato, la persona che lo ha accettato potrà abdicare alla
responsabilità personale: dopo tutto, non era stata un’idea sua.
È necessario che i clienti nel counseling sentano che le loro abilità ed esperienze
sono ritenute e trattate come valide. Qualunque consiglio da parte di un counselor
metterebbe in discussione questo principio basilare.
L’equità è vitale nella relazione di counseling. Se vengono dati consigli il ruolo di
esperto del counselor viene rinforzato e l’equità viene negata.
Dare consigli può essere offensivo e intrusivo, specialmente quando la persona che
li riceve è sconvolta e vulnerabile.
Non ci sono due sole persone al mondo che abbiano la stessa esperienza di vita,
quindi un consiglio si addice di più a chi lo fornisce che a chi lo riceve.
I consigli tendono a considerare soltanto gli aspetti più superficiali di un problema,
aggirando o ignorando le questioni più profonde che spesso sono quelle nodali.
Dare consigli è un sistema di comunicazione a una sola via. Nel counseling il cliente
dovrebbe essere coinvolto attivamente nell’intero processo.
È difficile che i consigli aiutino i clienti a cambiare.
Tenute presenti tutte queste critiche che possono essere mosse al fatto di dare consigli,
sorge spontanea la domanda "Perché alcune persone chiedono e si aspettano di ricevere
consigli, specialmente quando cominciano un counseling?".
Come abbiamo visto prima, il più delle volte i clienti considerano il counselor come un
"esperto". Di solito quindi abbisognano di un certo tempo prima di familiarizzarsi con la
vera natura di questo tipo di relazione. In ogni caso, le richieste di consiglio dovrebbero
sempre essere gestite con sensibilità e rispetto, guidando il cliente verso una
partecipazione più attiva al processo di counseling.
Proponiamo di seguito un esempio del modo in cui i clienti talvolta chiedono consiglio, e
riportiamo la risposta data dal counselor a una cliente di nome Patrizia. Quest’ultima, una
donna di trent’anni, era preoccupata dalla recente rottura del suo rapporto matrimoniale e
dagli effetti che avrebbe avuto sul suo figlio Gianni di sei anni. Avrebbe voluto trasferirsi in
una nuova casa per ricominciare un’altra vita da zero, ma era preoccupata che il trasloco
causasse troppo stress a Gianni. Patrizia continuava a soppesare i pro e i contro del suo
proposito, e a un certo punto disse al counselor:
Cliente:
Mi preoccupa questo nuovo grande cambiamento nella vita di mio figlio. Di cambiamenti
ne ha già avuti a sufficienza. Che cosa pensa che dovrei fare?
Counselor:
È preoccupata dei cambiamenti che si sono prodotti recentemente nella Sua vita, e adesso
si ritrova a dover prendere un’altra importante decisione. Forse potremmo esaminare un
po’ più profondamente i Suoi sentimenti e vedere che cosa pensa veramente sia meglio per
Lei.
I clienti talvolta chiedono consigli per sottrarsi al bisogno di fare cambiamenti importanti.
Ricevere un consiglio è molto più semplice che imbarcarsi nel processo — spesso doloroso —
di autoesaminarsi e cambiare. Altre volte i clienti chiedono un consiglio semplicemente
perché desiderano parlare. Non sapendo come avviare la conversazione, vedono nella
richiesta di consiglio un modo per riuscirci o comunque un modo per attirare l’attenzione
del counselor.
Va poi considerato che la maggior parte delle persone che iniziano un counseling lo fanno di
propria volontà, ma ci sono casi in cui si ricevono pressioni per sottoporvisi. Quando si è
stati indotti a iniziare un counseling, c’è un naturale risentimento — spesso nascosto — da
parte del cliente, e chiedere un consiglio è un modo di stare al gioco. Va detto che in
genere le persone non dovrebbero essere "mandate" a fare un counseling.
Ecco cosa disse uno studente sedicenne che aveva fissato un appuntamento con il counselor
dell’università:
Be’, la signora Mariani ha detto che avrei dovuto vedere un counselor perché ritiene che io
abbia dei problemi. Sono stato bocciato tre volte a scuola e faccio fatica a preparare gli
esami. In realtà anche se ci metto un po’ di tempo in più mi sembra di non avere
particolari problemi e... se il counseling mi aiuterà, vada per il counseling. Ma non voglio
venire da Lei tutte le settimane. (Bruce, 1995)
Il counselor dell’università dovette trascorrere un po’ di tempo con lo studente per riuscire
a spiegargli che lui e soltanto lui avrebbe dovuto decidere se desiderava o voleva un
counseling. Alla fine risultò chiaro che lo studente non lo voleva e tornò dalla signora
Mariani per spiegarglielo.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento, Erickson,
pp. 1113.
Certo, sarebbe ingenuo sostenere che i counselor non influenzino mai i loro clienti
indirettamente. Naturalmente, lo fanno. Infatti, il counselor ovviamente è tenuto a
influenzare il cliente che, in fin dei conti, è venuto per ricevere un aiuto. Inoltre, i
counselor spesso incoraggiano i clienti a riesaminare la loro vita e le loro relazioni per
chiarificare questioni che risultano problematiche. Nel corso di questa fase di "riesame",
possono essere discusse varie opzioni di cambiamento. Quindi si può star certi che, anche
quando non vengono forniti consigli diretti, i clienti sono spesso influenzati dalle idee, dagli
atteggiamenti e spesso anche dai punti di vista inespressi del counselor.
Ecco alcune ragioni per le quali è meglio astenersi dal dare consigli:
Molto spesso le persone non desiderano consigli. Vogliono invece essere ascoltate e
comprese.
È raro che le persone accettino consigli, specialmente quando pensano che non
siano i consigli giusti.
Se il consiglio si rivela sbagliato, la persona che lo ha accettato potrà abdicare alla
responsabilità personale: dopo tutto, non era stata un’idea sua.
È necessario che i clienti nel counseling sentano che le loro abilità ed esperienze
sono ritenute e trattate come valide. Qualunque consiglio da parte di un counselor
metterebbe in discussione questo principio basilare.
L’equità è vitale nella relazione di counseling. Se vengono dati consigli il ruolo di
esperto del counselor viene rinforzato e l’equità viene negata.
Dare consigli può essere offensivo e intrusivo, specialmente quando la persona che
li riceve è sconvolta e vulnerabile.
Non ci sono due sole persone al mondo che abbiano la stessa esperienza di vita,
quindi un consiglio si addice di più a chi lo fornisce che a chi lo riceve.
I consigli tendono a considerare soltanto gli aspetti più superficiali di un problema,
aggirando o ignorando le questioni più profonde che spesso sono quelle nodali.
Dare consigli è un sistema di comunicazione a una sola via. Nel counseling il cliente
dovrebbe essere coinvolto attivamente nell’intero processo.
È difficile che i consigli aiutino i clienti a cambiare.
Tenute presenti tutte queste critiche che possono essere mosse al fatto di dare consigli,
sorge spontanea la domanda "Perché alcune persone chiedono e si aspettano di ricevere
consigli, specialmente quando cominciano un counseling?".
Come abbiamo visto prima, il più delle volte i clienti considerano il counselor come un
"esperto". Di solito quindi abbisognano di un certo tempo prima di familiarizzarsi con la
vera natura di questo tipo di relazione. In ogni caso, le richieste di consiglio dovrebbero
sempre essere gestite con sensibilità e rispetto, guidando il cliente verso una
partecipazione più attiva al processo di counseling.
Proponiamo di seguito un esempio del modo in cui i clienti talvolta chiedono consiglio, e
riportiamo la risposta data dal counselor a una cliente di nome Patrizia. Quest’ultima, una
donna di trent’anni, era preoccupata dalla recente rottura del suo rapporto matrimoniale e
dagli effetti che avrebbe avuto sul suo figlio Gianni di sei anni. Avrebbe voluto trasferirsi in
una nuova casa per ricominciare un’altra vita da zero, ma era preoccupata che il trasloco
causasse troppo stress a Gianni. Patrizia continuava a soppesare i pro e i contro del suo
proposito, e a un certo punto disse al counselor:
Cliente:
Mi preoccupa questo nuovo grande cambiamento nella vita di mio figlio. Di cambiamenti
ne ha già avuti a sufficienza. Che cosa pensa che dovrei fare?
Counselor:
È preoccupata dei cambiamenti che si sono prodotti recentemente nella Sua vita, e adesso
si ritrova a dover prendere un’altra importante decisione. Forse potremmo esaminare un
po’ più profondamente i Suoi sentimenti e vedere che cosa pensa veramente sia meglio per
Lei.
I clienti talvolta chiedono consigli per sottrarsi al bisogno di fare cambiamenti importanti.
Ricevere un consiglio è molto più semplice che imbarcarsi nel processo — spesso doloroso —
di autoesaminarsi e cambiare. Altre volte i clienti chiedono un consiglio semplicemente
perché desiderano parlare. Non sapendo come avviare la conversazione, vedono nella
richiesta di consiglio un modo per riuscirci o comunque un modo per attirare l’attenzione
del counselor.
Va poi considerato che la maggior parte delle persone che iniziano un counseling lo fanno di
propria volontà, ma ci sono casi in cui si ricevono pressioni per sottoporvisi. Quando si è
stati indotti a iniziare un counseling, c’è un naturale risentimento — spesso nascosto — da
parte del cliente, e chiedere un consiglio è un modo di stare al gioco. Va detto che in
genere le persone non dovrebbero essere "mandate" a fare un counseling.
Ecco cosa disse uno studente sedicenne che aveva fissato un appuntamento con il counselor
dell’università:
Be’, la signora Mariani ha detto che avrei dovuto vedere un counselor perché ritiene che io
abbia dei problemi. Sono stato bocciato tre volte a scuola e faccio fatica a preparare gli
esami. In realtà anche se ci metto un po’ di tempo in più mi sembra di non avere
particolari problemi e... se il counseling mi aiuterà, vada per il counseling. Ma non voglio
venire da Lei tutte le settimane. (Bruce, 1995)
Il counselor dell’università dovette trascorrere un po’ di tempo con lo studente per riuscire
a spiegargli che lui e soltanto lui avrebbe dovuto decidere se desiderava o voleva un
counseling. Alla fine risultò chiaro che lo studente non lo voleva e tornò dalla signora
Mariani per spiegarglielo.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento, Erickson,
pp. 1113.
La signora Bignardi ha 75 anni e frequenta un day hospital tre giorni la settimana. Viene seguita in
quella sede da un terapista occupazionale che desidera farsi un’idea della sua vita a casa in termini
globali.
Signora Bignardi: Riesco senz’altro a occuparmi di me stessa, tranne che per fare le scale il
bagno. Sono sempre stata molto indipendente e cerco di arrangiarmi da sola.
Terapista occupazionale: Ha sempre attribuito importanza alla Sua indipendenza e alla Sua
capacità di gestire le situazioni.
Signora Bignardi: Sì, ho... vado piano... non faccio le cose troppo in fretta. In ogni caso
entrare e uscire dalla vasca da bagno è un problema.
Terapista occupazionale: Benché se la cavi benissimo il più delle volte, ci sono alcune cose
per le quali potrebbe aver bisogno di aiuto...
Signora Bignardi: Non mi piace chiedere aiuto, ma qualche volta è frustrante essere da
soli.
Terapista occupazionale: Essere soli presenta qualche svantaggio per Lei... il fatto di non
poter ricevere aiuto quando ce ne sarebbe bisogno.
Signora Bignardi: Non è solo per l’aiuto... talvolta è proprio la sensazione di solitudine a
pesarmi, specialmente da quando mia figlia si è trasferita in un’altra città. Prima veniva
spesso a trovarmi.
Terapista occupazionale: Quindi il fatto che Sua figlia si sia trasferita significa che adesso
Lei ha meno compagnia... e ciò rende più difficile gestire la Sua vita da sola.
Signora Bignardi: Sì, è così. È più difficile andare avanti, e non mi piace assillare altre
persone con i miei problemi. Anche gli altri hanno i loro problemi.
Terapista occupazionale: Lei non sente di poter chiedere aiuto ad altre persone perché
anche loro potrebbero aver bisogno di aiuto.
Signora Bignardi: [Assentendo con la testa.] Sì, mi ricordo quando la signora Settembrini si
fece aiutare. Misero un ascensore, e dei corrimano e altri congegni in cucina se ricordo
bene... Probabilmente ci sono delle cose che mi aiuterebbero.
Nel corso di tutto l’interscambio con la signora Bignardi, Sandro è stato attento a restare
nell’ambito della struttura interna di riferimento del cliente. Per riuscirvi, aveva bisogno
di non uscire dallo sfondo delle affermazioni della signora e di restare nei confini delle sue
risposte che l’avrebbero posta in grado di considerare meglio la sua situazione reale e i suoi
concreti bisogni. A un certo punto della conversazione, però, Sandro ha detto qualcosa di
personale affermando che è giusto chiedere aiuto quando se ne ha bisogno. Ma tale parere
personale è stato espresso solo verso la fine del colloquio, quando Sandro era convinto che
la signora Bignardi fosse pronta a riceverlo.
Il vero ascolto attivo si sintonizza sempre sul contenuto sia emozionale che fattuale di quel
che dicono i clienti. Una riflessione sensibile delle risposte del cliente, perciò, implica un
buon ascolto, buone abilità di parafrasi e la capacità di trasmettere la comprensione dei
contenuti emozionali e fattuali espressi dal cliente.
Stefano aveva 34 anni ed era stato inviato per il counseling a causa della depressione che lo
aveva colpito dopo la rottura del suo matrimonio. Era sposato da dieci anni, ma aveva
sempre avuto liti frequenti con sua moglie. Nonostante questi attacchi spesso violenti e
dolorosi, Stefano amava ancora sua moglie e gli doleva moltissimo la loro separazione.
Tuttavia, era chiaro che lei voleva il divorzio e lui sentiva di non avere alternativa: doveva
acconsentire. La sua preoccupazione principale era che lui e Lisa (sua moglie) facessero le
cose più opportune per i figli.
Stefano: Lisa ha riparlato della cosa sabato... sa... di noi, del divorzio. Abbiamo avuto una
lite, come al solito. Così come mi sento adesso, non sono in grado di prendere una
decisione.
Counselor: Trova difficile pensare chiaramente alla Sua relazione con Lisa in questo
momento, e ciò aumenta la tensione fra voi.
Stefano: Sì, sembra che la situazione vada di male in peggio. Più lei ne parla, più mi sento
depresso. Semplicemente non voglio farlo.
Stefano: No, beh, sì. So che devo giungere a una decisione prima o poi. Se non lo faccio,
Lisa procederà in ogni modo. Ma ho bisogno di poter dire la mia su quello che sta
accadendo, per via di Rosa e Guglielmo [i figli].
Counselor: Quindi, per un verso, Lei sa di aver bisogno di parlare con Lisa di questo poiché
lei potrebbe avviare la procedura di divorzio comunque.
Counselor: E sa di aver bisogno di esercitare qualche influenza sugli eventi a causa dei Suoi
figli...
Counselor: La prospettiva del divorzio, e tutto quanto implica, La logora dal punto di vista
emotivo. È estenuante per Lei venire alle prese con questa situazione.
Stefano: Forse se riuscissimo a parlarne senza litigare, la cosa non mi abbatterebbe così
tanto.
Counselor: Quindi il fatto di riuscire a discutere in modo più calmo La aiuterebbe a sentire
di esercitare un maggiore controllo e ad affrontare meglio le questioni pratiche che sono
implicate nella faccenda.
Counselor: Lei, per lo meno, sa che un approccio più calmo sarebbe d’aiuto... quindi Lei
direbbe che è il caso di provarci.
Ascoltando attentamente quel che diceva Stefano, e focalizzandosi sulle sue parole e sui
suoi sentimenti, il counselor è riuscito a formulare delle risposte riflessive appropriate.
Queste risposte riflessive erano prevalentemente parafrasi di quel che Stefano aveva detto,
ma erano riformulate in modo un po’ diverso e accentuavano gli elementi affettivi o
emozionali delle sue affermazioni. Sembra che Stefano abbia trovato utile questo approccio
perché lo ha aiutato ad andare avanti nella discussione fino al punto in cui è riuscito a
rendersi conto di quel che gli occorreva per avere maggiormente il controllo della
situazione.
Il counselor è stato attento a non rivolgere domande, benché in un caso ("prendere una
decisione") lo abbia fatto. Nel contesto della riflessione e della parafrasi, comunque,
dovrebbe essere ben chiaro che le domande dirette aiutano raramente i clienti a sentirsi
compresi o a chiarire i problemi che li preoccupano.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento, Erickson,
pp. 6466.
Abbiamo visto fin qui, trattando degli atteggiamenti e degli interventi non appropriati, quanto siano
importanti le "risposte" dell’operatore nella dinamica del colloquio e a che punto esse possano creare
fenomeni di "induzione".
La conclusione logica di questo esame critico è che sarebbe opportuno poter mettere in
atto un modo di intervenire che faciliti un’espressione sempre più completa da parte
dell’altro e una formulazione di ciò che ha da dire sempre più chiara. Se ci si rifà agli
schemi visti in precedenza, si tratterebbe di riuscire a delineare una tecnica che,
inglobando gli atteggiamenti di accoglienza, di focalizzazione sul vissuto e sulla persona, di
rispetto del soggetto e di facilitazione della comunicazione, "spinga" o "attiri" l’espressione
del soggetto verso il suo spontaneo completamento, rendendo più probabile allo stesso
tempo una corrispondente comprensione da parte dell’operatore. Questa tecnica è la
riformulazione.
Si chiama "riformulazione" un intervento dell’operatore che consiste nel ridire con altre
parole, e in maniera più concisa o più chiara, ciò che l’altro ha appena detto, e questo in
modo tale che l’operatore ottenga l’accordo da parte del cliente.
Una possibile obiezione può venire dal fatto che la riformulazione può indurre in errore.
Cosa succede quando l’operatore "si sbaglia", la qual cosa viene immediatamente
evidenziata dal disaccordo del soggetto sulla riformulazione? Risposta facile: il cliente si
spiega di nuovo e l’intervistatore ha di nuovo la possibilità di riuscire nel suo tentativo di
comprensione.
1. La riformulazione suppone che il cliente sia considerato realmente come la persona più
"al corrente" del problema, la più informata della situazione, e praticamente la sola a
"sentire" il caso in tutta la sua profondità esistenziale; perciò lui solo sa esattamente di che
cosa parla. Questa affermazione ha l’aria di una "verità di La Palisse". È tuttavia una
concezione rivoluzionaria in confronto alla concezione corrente (e fino ai nostri giorni
indiscussa) sostenuta dalla psicoanalisi, secondo la quale il soggetto non sarebbe cosciente
della vera natura del suo problema.
È su questa concezione ereditata dalla psicoanalisi che si innesta l’idea della perspicacia
onnipotente dello psicoterapeuta che considera ciò che viene detto come un insieme di
"simboli" e che interpreta l’informazione (ricevuta dal soggetto) grazie alla sua "chiave
simbolica". Niente di simile si verifica nella tecnica della riformulazione. L’operatore con
un buon atteggiamento (ascolto attento, assenza di idee preconcette, desiderio sincero di
comprendere) dà fiducia al soggetto per quel che riguarda il modo in cui lui stesso vive
soggettivamente la sua situazione. Non esiste un’altra maniera per sapere in che modo un
soggetto umano vive un fatto, una situazione, una difficoltà esistenziale, che chiedergli di
esporre e tentare di ricostruire, nel modo più completo possibile, il suo punto di vista. A
parte il caso in cui non sia possibile ottenere qualche cosa di intelligibile (persone con
ritardo mentale o psicotici in fase di delirio), questa fiducia nell’altro (riguardo alla
capacità di conoscere il suo problema) è più che giustificata. In effetti, pensate ai numerosi
casi in cui, tentando di esporre la vostra opinione o le motivazioni di una decisione a un
interlocutore, avete rilevato, come principale ostacolo, la difficoltà di essere ascoltati ma
certo non "l’incoscienza" di quel che avevate da dire.
3. La riformulazione suppone che il soggetto sia capace di riconoscere il "riflesso" di ciò che
sta dicendo; in effetti è essenzialmente questo il senso della riflessione messa in atto dalla
tecnica della riformulazione, che deve essere riflessione attiva da parte dell’operatore ma,
contemporaneamente, riflessione altrettanto attiva anche da parte del cliente.
L’importanza della capacità di prendere coscienza di sé è dunque fondamentale. Se questa
capacità esiste nel soggetto, il colloquio non potrà che essere efficace, come vedremo.
4. La riformulazione suppone una concezione dell’uomo alla base della quale non vi è
soltanto la fiducia nelle sue capacità di razionalità e di relazione sociale, ma anche la
fiducia nella capacità autonormativa (autodeterminazione) del soggetto stesso.
La riformulazione-riflesso
Non basta dare un segno di approvazione dicendo "sì" di tanto in tanto, ma bisogna fare in
modo che il soggetto comprenda che l’intervistatore ha capito. In questo modo gli si
dimostra concretamente che si è pensato "con lui" e non soltanto "a lui".
La maniera più semplice di riformulare consiste nella cosiddetta risposta-eco (in cui
l’operatore ripete semplicemente le ultime parole del soggetto). Non si dovrebbe abusare
di questa tecnica in quanto il soggetto verrebbe sollecitato da una semplice ripetizione, e
in fin dei conti non vi scorgerebbe il segno di un reale tentativo di comprenderlo. La
riformulazione-riflesso che utilizza altre parole, considerate come equivalenti per il
soggetto, è invece una tecnica "superiore", nella misura in cui evidenzia meglio il tentativo
di comprensione.
Esempio 2 "Mio marito lavora in un’officina, ha un buon posto. Quanto a me, io mi occupo
della casa e dei figli e questo mi va molto bene."
Possibili risposte:
"Dal punto di vista dei ruoli e del reddito, secondo Lei non c’è alcun problema."
"Da questo punto di vista la situazione Le sembra del tutto normale."
Esempio 3 "Il guaio con questo tipo di sensazioni piacevoli è che mi sento triste poiché so
che, dopo questi momenti di straordinaria forma, ricadrò nella mia depressione."
Risposta: "Lei crede che queste reazioni toniche siano passeggere e questo Le toglie ogni
soddisfazione".
La situazione rogersiana della "ristrutturazione del campo" si situa proprio qui. Uno dei
modelli preferiti da Rogers per spiegare la modalità operativa della riformulazione è la
famosa immagine presa dalla teoria della forma (Gestalt), nella quale "la figura" si stacca
su uno "sfondo" ma lo sfondo può a sua volta diventare figura.
Il cambiamento figura-sfondo non aggiunge né toglie nulla, perciò, a ciò che viene dato o
presentato, ma, di colpo, fa apparire qualche cosa che fino a quel momento era rimasto
latente. Questa metamorfosi permette di apportare qualche cosa di nuovo: essa dà al
soggetto la possibilità di "vedere" in un altro modo la propria percezione. Molto spesso, in
effetti, il soggetto è come prigioniero di un aspetto dominante del proprio pensiero, quasi
come se nell’immagine che ha davanti fosse condannato a non vedere che il calice e a non
vedere mai i profili, benché egli abbia sotto gli occhi, allo stesso tempo, sia i profili che il
calice. L’intervento dell’operatore produce un certo effetto di choc e accentua una
consapevolezza più riflessiva e già più oggettiva della situazione. Ecco un esempio tipico di
questo fenomeno, secondo Rogers.
Il cliente: "La città in cui vivo è proprio un buco. Tra quasi centomila abitanti, si possono
contare sulle dita quelli con i quali è possibile sostenere una conversazione semplicemente
intelligente. Osservi bene che non dico: una conversazione "interessante", ma,
semplicemente, "intelligente".
Risposta: "Da un certo punto di vista, come quello dell’intelligenza, Lei si trova, perciò,
praticamente da solo nella Sua città".
È molto importante, qui, evitare l’effetto "choc", poiché il carattere penetrante della
procedura, se questa non è rigorosamente "esatta", rischia d’essere traumatizzante. È per
questo che qui il tono della risposta deve più che mai essere "empatico".
La riformulazione-chiarificazione
Il racconto del soggetto è l’espressione diretta di ciò che egli vive, con tutto quello che c’è
di incerto, disorganico e confuso. La chiarificazione è, in una volta, l’obiettivo più difficile
e più efficace della riformulazione; essa consiste nel mettere in luce e nel "rinviare" al
soggetto il "senso" di ciò che ha detto.
Esempio (il cliente): "Mio cognato è un tipo che ha la pretesa di sapere letteralmente tutto.
Secondo lui, non c’è che lui che conti. Non c’è che lui che abbia qualcosa da dire. Non
appena entra in scena, la conversazione viene monopolizzata da lui. Posso dire buona sera
a tutti e andarmene".
Risposta: "Il nocciolo del problema non è presentato tanto dal modo di fare di Suo cognato,
è il fatto che questo, in una maniera o nell’altra, La tocca sfavorevolmente, La esclude
sempre".
Qui, la difficoltà sta nel partire dall’essenziale così come viene percepito dal soggetto.
Esiste il grande rischio di sconfinare, invece, in un’interpretazione. La chiarificazione deve
rimanere strettamente ancorata al livello dell’essenziale; suppone, di conseguenza, una
sottile intuizione da parte dell’intervistatore, una capacità di porre in luce ciò che il
soggetto, spesso, dice in maniera confusa e disorganica.
Domanda: Quali sono esattamente i casi e le situazioni che richiedono il colloquio centrato
sul soggetto?
Risposta: Il problema sotteso a questa domanda è quello della paura (da parte
dell’operatore) di perdere l’autorità. Invece l’operatore non deve aver paura di spiegare
all’intervistato che egli sta semplicemente cercando di comprendere ciò che sta capitando
al cliente, in modo che quest’ultimo percepisca il meglio possibile la sua situazione-
problema. L’esperienza indica che, in realtà, è facile rispondere a un cliente che "aspetta"
qualche cosa: "Mi rendo conto che Lei si aspetta che io … Tuttavia, prima di tutto, devo
comprendere la Sua situazione, la Sua esistenza, il Suo problema. Perciò, dapprima
cercherò solamente di comprenderLa".
Domanda: Cosa bisogna fare quando il soggetto comincia con il parlare per dieci minuti
senza mai interrompersi?
Risposta: Prima di tutto bisogna capire perché l’intervistato parli per dieci minuti.
Generalmente egli reagisce alla situazione; l’operatore deve ricondurre questo
atteggiamento, e cercare di comprenderlo, nel quadro di percezione che abbiamo chiamato
la "dinamica del colloquio". Per esempio, il soggetto non vuol cedere la parola all’operatore
per timore che costui prenda una decisione affrettata o dia un giudizio prematuro. Ad ogni
modo, anche dopo dieci minuti, sta all’operatore fare la sintesi di ciò che è stato detto e
presentare al cliente un riassunto dell’essenziale.
Domanda: Caso opposto. Come fare quando il dialogo non è fluido o si interrompe?
Una prima distinzione importante riguarda ciò che potremmo definire diversi “gradi” di
riformulazione, in relazione ai contenuti espliciti o impliciti del messaggio
dell’interlocutore.
Possiamo utilizzare:
Esempio 1
Un uomo afferma con voce provata: “Mia moglie mi lasciò un anno fa. Si limitò a portare via
i suoi vestiti e partì senza dire una parola.”
Esempio 2
Una giovane donna afferma: “Ho deciso di accettare quella proposta di lavoro. Sarà
impegnativo ma è un’opportunità da non farsi sfuggire. ”
Riformulazione esplicitante: “Mi pare che quel lavoro sia talmente interessante per lei che i
sacrifici passano in secondo piano…”
L’helper deve decidere che tipo di riformulazione è più adeguata al momento in cui
l’interlocutore esprime la sua affermazione. In una fase iniziale probabilmente si limiterà a
una riformulazione a specchio, ricordando di non fare un’inutile ripetizione a pappagallo
ma cercando di creare il clima di fiducia necessario perché la persona si apra.
A mano a mano che il colloquio prosegue, l’helper può utilizzare riformulazioni esplicitanti,
più deduttive, se ritiene che possano essere utili all’interlocutore per meglio comprendere
alcuni aspetti della questione di cui sta parlando.
Esempio
Una donna afferma: “Guardi, io non mi considero più come parte dell’azienda. Sento che
non sono stata in grado di rispondere a ciò che si attendeva da me…”
Riformulazione centrata sull’interno: “Ha la sensazione di non essere riuscita nel suo
compito.”
Alcuni operatori inesperti osservano spesso che la riformulazione sembra loro una
procedura inconcludente, una sorta di "segnare il passo". Lo è senza dubbio se questa
procedura si limita a essere un’eco, una ripresa pura e semplice dell’espressione del
soggetto ma, come abbiamo già visto, ciò sarebbe ridurla a una procedura impersonale
mentre essa deve essere il segno concreto del tentativo sincero di comprensione. È questo
tentativo che risulta utile ed efficace, non il suo simulacro.
Dalla riformulazione del primo tipo alla riformulazione del terzo tipo vi è un netto
progresso nella comprensione
Il semplice "riflesso" è insufficiente, benché sia già qualche cosa. In effetti, questa
testimonianza ha la focalizzazione sul cliente e in più, in quanto specchio, si connota come
riflessione oggettiva. Ciò che il soggetto ha detto, tratto dal proprio vissuto, gli ritorna
dall’esterno e, se la riformulazione è buona, egli è obbligato a riconoscersi. Ciò produce un
impatto in chiave di riflessione razionale, che rende più chiaro il suo grado di
autocoscienza; allo stesso tempo, egli si sente rassicurato dall’ascolto comprensivo.
Il primo tipo di riformulazione gli "rimanda" la sua immagine come in uno specchio, ed egli
ha la possibilità di potersi guardare con un po’ di "distacco". Il terzo genere di
riformulazione gli offre di più: questa pone in evidenza un "essenziale" soggettivo che il
cliente sperimentava come tale (ed è per questo che egli può riconoscervisi) ma che non
riusciva a esprimere chiaramente.
Lo sforzo di penetrare nell’universo del soggetto è più difficile a mano a mano che si passa
dall’"eco" alla "chiarificazione"; lo spirito di sintesi, così come l’intelligenza dell’operatore,
vengono sottoposti a dura prova. Ciò perché è quasi impossibile, all’inizio di un colloquio o
durante un primo colloquio, fare qualche cosa che vada oltre la riformulazione semplice.
Quando la massa dei dati aumenta, la chiarificazione diventa più accessibile. Comprendere
non significa spiegare, nemmeno spiegare a se stessi e segretamente ciò che avviene per il
soggetto. La comprensione diventa meno difficile a mano a mano che emerge il contesto
esistenziale del soggetto.
Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al
colloquio di aiuto, Trento, Erickson, 1987, pp. 79-80.
Interiezioni di conferma
Si tratta di cenni di ascolto attivo (“Ah, ah. Certo. Sì. Sicuro“…) che hanno lo scopo di far
capire all’interlocutore che lo stiamo ascoltando, senza interrompere il suo discorso.
E’ evidente che il loro utilizzo va calibrato a seconda della situazione e della persona che
abbiamo di fronte, per non correre il rischio di infastidirla, provocando l’effetto opposto di
ostacolare la sua espressione.
Riassunti
Nel corso del colloquio può essere utile, di tanto in tanto, fare sintesi degli elementi più
importanti emersi fino ad allora, per dare lo stimolo a proseguire sui temi che la persona
stessa ha messo a fuoco.
Domande aperte
Le domande aperte sono quelle che lasciano all’interlocutore la libertà di esporre la sua
situazione come desidera, senza doversi concentrare su questioni specifiche scelte
dall’helper.
Per quanto le domande non siano di per sé necessarie in un colloquio, il loro utilizzo può
essere vantaggioso soprattutto nella fase iniziale per aprire lo spazio dell’ascolto e aiutare
la persona a sentirsi accolta. Nelle fasi successive, se si decide di utilizzare qualche
domanda per orientare la persona verso il nucleo problematico che ha espresso, vanno
usate sempre parsimonia e cautela.
Sia Geldard e Geldard sia Hough dedicano ampio spazio ad approfondire quali tipi di
domande, quando è opportuno utilizzarle, a che scopo (Fare domande e aiutare i clienti a
esplorare i problemi).
La capacità di riassumere
Con il procedere delle pennellate, quanto più si delinea un’immagine riconoscibile, potrete
far sapere all’artista che riconoscete l’oggetto del suo quadro. Allo stesso modo, nel
counseling, potrete confermare la vostra comprensione di quel che vi viene detto, con la
tecnica della riformulazione. Altrettanto potrete fare rispetto alle emozioni che vi
comunica l’altra persona, se riuscite a rispecchiarle in maniera adeguata.
Più si va avanti nell’esecuzione del quadro, più le diverse forme al suo interno
cominceranno a collegarsi l’una all’altra, a sovrapporsi, a interagire. Se questo accade,
ancora una volta, potrete far sapere all’autore del quadro che riconoscete la sua opera, e
ne comprendete abbastanza bene i contenuti. Per fare questo, però, dovrete cominciare a
descrivere ciò che intravedete in essa. Fuori di metafora, dovrete far capire alla persona
che comprendete la sua situazione, offrendole un breve riassunto (ossia una descrizione
sintetica) di una parte rilevante delle cose che vi ha raccontato.
Un buon riassunto dovrebbe fare sintesi di tutte le cose più importanti che vi sono state
dette, e potrebbe anche fare riferimento ai vissuti emotivi dell’altra persona. Nel corso di
una conversazione, è possibile fare anche più di un riassunto, ogni qualvolta risulti utile
riepilogare le principali idee che sono emerse. Grazie anche al vostro riassunto, la persona
avrà davanti a sé un’immagine più chiara e definita della propria situazione, da cui
emergeranno solo le "sfaccettature" più rilevanti della sua esperienza narrata: quelle, cioè,
che andranno affrontate in modo prioritario.
Nell’arco di una conversazione, come abbiamo detto, può anche essere utile fare molteplici
riassunti. Ogni volta che ne fate uno, il vostro interlocutore potrà più facilmente ricostruirsi
un’"immagine d’insieme" della sua esperienza vissuta; gli risulterà quindi più facile
proseguire nella narrazione, puntando direttamente sugli aspetti giudicati più importanti.
Certe volte, il riassunto potrebbe innescare ulteriori reazioni emotive o riflessioni, di cui la
persona si sentirà più portata a parlare. Alla fine, varrà comunque la pena che proponiate
un riassunto complessivo, come una specie di mosaico in cui ricollocherete, uno dopo
l’altro, i riassunti intermedi.
Vi proponiamo a questo punto, per rendere il tutto più comprensibile, un esempio pratico
di riassunto. Come vedrete, il riassunto viene utilizzato solo dopo un ripetuto impiego delle
risposte brevi, delle interiezioni, delle riformulazioni.
Esempio 1
Mara: Sembri veramente preoccupato per come si comporta. [Riformulazione del vissuto emotivo e del contenuto]
Dennis: Sì, sono preoccupato per il suo comportamento, non so veramente più che cosa fare. Mi sta causando un sacco d
problemi, è una preoccupazione continua. Come tu ben sai, l’anno scorso mi sono risposato, e Vera — la mia nu
moglie — fa una fatica tremenda a controllare il comportamento di Gianni.
Mara: Vera fatica a gestire i modi in cui si comporta Gianni. [Riformulazione del contenuto, che si sarebbe rivelato
impreciso, ma è comunque servito per incoraggiare Dennis a procedere nella conversazione]
Dennis: Beh, a dir la verità non è proprio così. È che questa situazione ci fa un po’ litigare, Vera e io. Lei pensa che dov
essere molto più severo con Dennis, e che gli lascio fare tutto quello che vuole.
Mara: Vera si aspetterebbe che tu, come genitore, fossi molto più severo. [Riformulazione del contenuto]
Dennis: Sì, Vera crede che io sia troppo accomodante. Finisce che si arrabbia in continuazione con me, e mi dà la colpa
tutto quello che fa Gianni, a casa. Insomma, non so proprio che cosa dovrei fare.
Mara: Se capisco bene, tu e Vera avete idee diverse rispetto al modo migliore di trattare Gianni; sei preoccupato, perch
dovete trovare insieme una soluzione. [Riassunto]
Avete notato come il riassunto punti, in definitiva, alle differenze di "stile genitoriale" tra
Dennis e Vera? Il vero focus non è sul comportamento del bambino, ma su quello che è, a
ben guardare, il vero motivo della preoccupazione di Dennis: il suo rapporto con Vera.
Nell’esempio Mara è riuscita, grazie alle sue abilità di ascolto attivo e di riformulazione, ad
aiutare Dennis a mettere a fuoco il problema che lo preoccupa di più, anziché limitarsi al
problema da cui era partita la conversazione (ossia il cattivo comportamento del piccolo
Gianni).
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, pp. 66-69.
Riassumere, quindi, è qualcosa di più del fatto di ripetere quel che il cliente ha detto con
un numero inferiore di parole. Per riassumere bene, è necessario cogliere il filo del
pensiero e dell’espressione dei sentimenti del cliente, e quindi enucleare il messaggio o i
messaggi nodali che vi sono sottesi. Bisognerebbe stabilire connessioni fra le idee, i
pensieri e i sentimenti espressi, e il counselor deve farlo usando parole sue. Non è
sufficiente ripetere quel che il cliente ha detto in forma abbreviata, quantunque sarebbe
irrealistico aspettarsi di trovare sinonimi appropriati per tutte le parole usate dal cliente.
Anche la sequenza di una storia o di un’esposizione è importante, e per fare un riassunto
accurato i counselor devono ricordare l’ordine degli eventi.
La scelta del momento in cui fare un riassunto è cruciale nel counseling, poiché qualunque
interruzione prematura del racconto di un cliente potrebbe inibirlo o imbarazzarlo.
Bisognerebbe dare ai clienti l’opportunità di correggere qualunque errore nel riassunto,
e quando il riassunto viene usato per concludere una seduta bisogna che cliente e counselor
siano d’accordo nel definirlo accurato.
Di seguito forniamo un esempio di come si possa usare il riassunto per concludere una
seduta.
Corinna era stata inviata per il counseling dal suo medico di base e fornì la seguente
descrizione della sua situazione e dei problemi che vi erano legati. Si era appena trasferita
con suo marito e un figlio piccolo in una casa in campagna. In passato, avevano sempre
abitato in città. Il trasferimento in campagna le causava ansia perché non le piaceva stare
così lontano dai suoi familiari e amici. Aveva trovato difficile farsi dei nuovi amici
nell’ambiente rurale, e l’isolamento e la solitudine le avevano fatto soffrire attacchi di
depressione. Ultimamente provava riluttanza a uscire per fare la spesa, e anche i lavori di
casa o la preparazione dei pasti risultavano gravosi e opprimenti.
Suo marito, poiché il trasferimento era legato a una promozione nel lavoro, era ansioso di
intrattenere i colleghi e le persone con cui faceva affari invitandoli a cena di tanto in
tanto, ma Corinna si sentiva incapace di coadiuvarlo. Peraltro, non riteneva giusto che lui
la coinvolgesse in cene diplomatiche dato che aveva già un bambino piccolo di cui occuparsi
e talvolta si sentiva assolutamente prosciugata di ogni energia. Suo marito mostrava
apparentemente di andarle incontro, ma Corinna era persuasa che lui non capisse
realmente la sua situazione. Quando si recò dal suo medico di base e parlò dei sintomi di
spossatezza, ansia e agorafobia, lui le chiese se avrebbe gradito andare da un counselor e
lei aveva accettato.
Il counselor (Anna) ascoltò Corinna per tutta la prima seduta dandole risposte appropriate.
Prima di salutarla, fece il seguente riassunto: "Visto che ci stiamo avvicinando alla fine di
questa seduta, vediamo un po’ di riassumere quel che mi ha detto fino ad ora. Ha iniziato
dicendomi di essersi trasferita con la Sua famiglia in questa zona di campagna e che il
trasferimento è risultato traumatico per Lei. Sono sopraggiunti alcuni problemi di salute, e
si sente sola lontano dalle Sue conoscenze e dai Suoi amici. Adesso Suo marito vorrebbe che
Lei intrattenesse a cena i suoi colleghi di lavoro e questa sembra proprio essere la goccia
che fa traboccare il vaso, specialmente se si pensa che Lei ha un bambino da seguire e che
si sente così stanca. Suo marito La sostiene in parte, ma non sembra comprenderLa
completamente. Lei sente che le cose potrebbero andare meglio se potesse comunicare di
più. Quel che ho detto fino adesso Le sembra giusto?"
La cliente rispose al riassunto della counselor insistendo sull’ansia che provava al pensiero
di dover cucinare per i contatti di lavoro del marito. Generalmente i clienti scelgono un
aspetto di un riassunto per discuterne ulteriormente, e ciò aiuta a focalizzare
l’attenzione sugli argomenti che risultano per loro particolarmente problematici. Un
riassunto accurato dà sia al counselor sia al cliente l’opportunità di selezionare i problemi o
di dare a uno di essi la priorità. Inoltre, spesso i clienti aggiungono qualcosa al riassunto
del counselor, il più delle volte qualcosa che avevano dimenticato di menzionare quando
avevano parlato.
Proprio non riesco a sopportare il mio capo. E' proprio il tipo di uomo da cui staresti alla
larga se potessi. Da quando è venuto a lavorare nella nostra azienda, l'atmosfera è
cambiata completamente. Non ci si sente più sicuri come prima, e nessuno va più a genio a
nessuno. E' un'atmosfera terrribile. I livelli di stress sono veramente alti, e la gente si
ammala sempre più spesso. Anch'io sono dovuto andare dal medico; mi sono fatto
prescrivere qualcosa che mi aiuti a dormire. Mi ha dato alcune compresse che dovrò
prendere per due settimane, ma ha anche detto che devo cercare di comprendere quali
siano le cause del mio stress. Ecco perchè mia moglie mi ha suggerito di parlare con
qualcuno, e voglio farlo certamente se può aiutarmi. Badi però che non sono io la persona
con un problema. E' il mio capo che ha tutti i problemi. Quando il mio collega gli ha chiesto
se potessimo dare un diverso indirizzo al lavoro che stavamo facendo, lui non lo ha neppure
ascoltato. Pensa che nessuno tranne lui sia degno di fiducia e non delega mai niente. Il
nostro capo precedente era una gran persona. Era il tipo di uomo che ti induce a lavorare
bene anche perchè non ti guardava dall'alto verso il basso. Quando se ne andò rimanemmo
tutti male. Adesso non mi sembra che valga più la pena di sforzarsi nel lavoro, perchè tanto
non si viene nè ringraziati nè apprezzati.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, p. 81.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, pp. 85-102.
Il processo del counseling consiste in qualcosa che va ben oltre il mero scambio di informazioni fra due
persone; implica infatti un vasto repertorio di abilità fra cui una delle più importanti è quella di
rivolgere domande. Negli scambi quotidiani formuliamo domande soprattutto per sollecitare
informazioni dagli altri, e possiamo farlo sia per semplice curiosità sia per conoscere più pienamente le
altre persone. Ecco un elenco delle principali ragioni per cui si pone una domanda:
chiedere informazioni
soddisfare una curiosità
manifestare interesse
incoraggiare un’ulteriore conversazione
facilitare la comprensione
scoprire quel che gli altri sentono o pensano
chiarire questioni
identificare e dare risalto ad aree di preoccupazione
controllare e confermare risposte già date
aumentare l’intimità
avviare una conversazione
mettere altre persone a proprio agio
Quando le persone sono sconvolte, infelici o disperate, allora le domande irrilevanti o per
le quali non esiste risposta sono non solo inutili ma spesso anche dannose. Ecco un esempio
dell’uso di questo tipo di domande inutili:
Susanna: Da ieri sono così depressa. Sembra semplicemente che non riesca a togliermela di dosso questa cappa.
Giuseppe: Perché sei depressa?
In questo caso la domanda formulata è inutile perché è alquanto probabile che Susanna non sappia
perché si sente in quel modo; del resto, quand’anche sapesse perfettamente la ragione della sua
depressione, la domanda è troppo dura e cruda nel modo in cui è stata espressa. Giuseppe
probabilmente ha fatto la domanda per acquisire informazioni di interesse per lui e per soddisfare la sua
personale curiosità. Idealmente, dovrebbe invece aiutare Susanna a guardare più da vicino i suoi
problemi. Nell’esempio sopra riportato, è senz’altro possibile che Susanna si senta sotto
interrogatorio a causa della formulazione della domanda, anche se ciò dipende in qualche misura dal
tono della voce e dal contegno generale di Giuseppe. In altre parole, il modo in cui si risponde alle
domande dipende da una varietà di fattori (vedi figura 1). Ecco alcuni di tali fattori:
la persona che rivolge la domanda
il tono di voce, il linguaggio corporeo e il contegno generale della persona
quando la domanda viene formulata
il tipo di domanda fatta
il contesto in cui la domanda è stata posta
Figura 1. Il modo in cui le persone rispondono alle domande dipende da una varietà di
fattori.
Un’altra ragione di questa iniziale passività dei clienti che vengono in counseling,
specialmente quelli che non ne hanno mai fatto esperienza prima, è che spesso sono
convinti che sia strutturato come un’intervista. Di conseguenza, rispettano questo copione
finché non si rendono effettivamente conto che il counselor è lì per ascoltarli e per aiutarli
a esplorare i loro problemi.
Tipi di domande
Questo tipo di domanda richiede generalmente una risposta che consiste in un semplice sì o
no o in una risposta molto specifica. Le domande chiuse danno poche opportunità o libertà
nella scelta delle risposte. Vengono usate quando si cerca o si ha bisogno di informazioni
specifiche. Le domande chiuse, perciò, dovrebbero essere evitate nel counseling, poiché un
obiettivo fondamentale di questa procedura di aiuto è quello di rendere i clienti capaci di
esplorare aree di preoccupazione in modo riflessivo, ponderato e approfondito.
È probabile che la risposta a ciascuna delle domande sopra riportate sia monosillabica e
chiunque le riceva non avrà la sensazione di essere stato invitato a dilungarsi o a discutere.
Formulare domande è una delle abilità più difficili da padroneggiare per gli studenti di
counseling. La tendenza è sempre, perlomeno all’inizio della formazione, quella di
rivolgere troppe domande generali e di articolarle in modo chiuso anziché aperto.
Giuseppina, una studentessa, descrisse nel modo seguente la sua reazione quando visionò la
sua prima seduta nel video:
Prima di tutto mi accorsi di odiare il suono della mia voce, e non mi ero mai accorta di
quanti manierismi avessi. Dopo aver superato lo shock iniziale di vedermi in quel modo,
notai quante domande facevo. Povera Viviana (la cliente), non le lasciavo la possibilità né
di pensare né di fare una pausa. Ne discutemmo in seguito con il nostro formatore, e credo
che una delle cose di cui avevo paura fosse il silenzio. Pensavo solo che se fosse calato il
silenzio fra noi ciò avrebbe significato che avevo fallito. L’altra cosa a cui continuai a
pensare era che avevo bisogno di aiutare Viviana a risolvere i problemi che aveva, e dunque
dovevo incalzarla. Ma potei rendermi conto dal video che la mia tecnica di formulare le
domande non avrebbe potuto dare il minimo aiuto.
Visionando il suo video e discutendolo con il suo formatore, Giuseppina riuscì a identificare
i due problemi principali nel suo approccio alla seduta di counseling. Al pari di molti altri
studenti lei aveva paura del silenzio e faceva ogni cosa in suo potere per essere certa che
non si verificasse. Ma i clienti spesso ne hanno bisogno e vogliono stare in silenzio durante il
counseling, perché dà loro l’opportunità di raccogliere i pensieri, di esaminare alcuni
problemi con più accuratezza, o semplicemente di vivere una forte emozione alla presenza
di qualcuno che sia empatico e comprensivo.
Il secondo problema identificato da Giuseppina era quello di voler risolvere i problemi della
cliente in sua vece; in altre parole, rivolgeva domande per mitigare le sue ansie
sull’andamento della seduta di counseling, non per facilitare la cliente. Queste sono due
trappole del counseling, ma attraverso la pratica possono essere evitate.
Le domande aperte
Le domande aperte, come quelle negli esempi forniti, possono offrire ai clienti
l’opportunità di rispondere con i loro tempi e di espandere e chiarificare aree significative
di preoccupazione che è forse necessario considerare più in profondità.
Le domande "Perché?"
Le domande che iniziano con la parola "Perché" sono problematiche nel contesto del
counseling, dato che è spesso difficile o impossibile darvi risposta. Suonano inoltre
talvolta come un’accusa, e ciò ha l’effetto di mettere i clienti sulla difensiva. Un esempio
di domanda "Perché" è stato fornito all’inizio quando alla cliente è stato chiesto dal
counselor perché fosse depressa.
Oltre a mettere la cliente sulla difensiva, la domanda può aver avuto l’effetto di farla
sentire inadeguata perché non era in grado di rispondere, il che, a sua volta, può aver
indotto la situazione in cui la cliente abbia delegato tutto al counselor in quanto
depositario di conoscenza e esperto dell’argomento. Questo è un tipico modo in cui i clienti
possono essere spossessati della loro capacità innata di chiarire, discutere e comprendere i
propri problemi. Le domande "Perché" possono essere utili in alcune situazioni, per
esempio, in un’intervista, ma perfino in quei casi, se insistite, sono limitanti perché
tendono a inibire la reale comunicazione invece di aprirla.
Susanna:
Da ieri sono così depressa. Sembra semplicemente che non riesca a togliermela di dosso
questa cappa.
Giuseppe:
Dici di sentirti così da ieri; puoi dirmi qualcosa di come è cominciato?
Questa risposta, una delle tante possibili, invita Susanna a guardare più da vicino all’origine
della sua depressione. In questo modo, può cominciare a capire i suoi sentimenti e che cosa
li abbia originati.
Marina, una cliente, descrive la sua esperienza di counseling e il modo in cui l’ha
aiutata a identificare alcuni dei suoi bisogni:
Marina: Tutto accadde quando Franco, il mio piccolino, venne portato in ospedale. Fu tutto così inaspettato perché
mai stato ammalato prima, ma quasi subito parlarono della necessità di un intervento chirurgico e il mondo
letteralmente fra le mani. C’era Laura a casa, la mia figlia maggiore, e cercavo disperatamente di immagin
avrebbe fatto mentre ero in ospedale con Franco. Laura era così sconvolta e non voleva stare con nessun al
marito è lontano e così dovevo cavarmela da sola. Non ho nessun familiare qui. Ci siamo trasferiti due mes
conosco a malapena i miei vicini.
Counselor: Quindi dev’essere stato un periodo carico di ansia e persino di terrore per Lei.
Marina: Sì, davvero. Continuavo ad andare avanti ma… sì [pausa] è stato terribile
Counselor: Non c’era nessuno che potesse sostenerLa o aiutarLa?
Marina: Esatto. Prima, non avrei neppure pensato di poter chiedere aiuto a Elena [una vicina]. Pensavo che ciò sare
equivalso ad ammettere di non riuscire a farcela da sola, e del resto la conoscevo appena
Counselor: Ma adesso Lei sa che è giusto chiedere aiuto quando se ne ha bisogno, specialmente quando il peso che si
insostenibile.
Marina: Sì. Non esiterei più.
Non è sempre così facile per i clienti fronteggiare la situazione e identificare sentimenti di
infelicità, inadeguatezza, paura o rabbia. Ecco perché è essenziale che i counselor
formulino le domande con accuratezza e sensibilità, e in questo senso anche la scelta del
momento è importante. Chiedere a qualcuno di guardare in faccia emozioni forti e talvolta
soverchianti quando non è ancora pronto a farlo può causare ancora più dolore e ansia.
Le domande allusive
Ci sono domande che vengono poste in un modo tale da indurre una particolare risposta.
Ecco alcuni esempi semplici di domande allusive:
La persona che debba rispondere a domande del genere può sentirsi obbligata a dirsi
d’accordo con quanto è stato detto, ma spesso le domande allusive sono ancora più sottili e
la risposta è suggerita solo vagamente. Talvolta viene usata una parola emotiva per
indicare il tipo di risposta richiesta, e in tal caso la domanda non è più soltanto allusiva, ma
anche emozionalmente carica.
Le domande allusive pongono la persona a cui sono rivolte sotto la pressione di dichiararsi
d’accordo, e se ciò si verifica nel contesto del counseling vuol dire che il counselor sta
imponendo le sue opinioni, i suoi valori, le sue convinzioni al cliente. Ciò va contro
l’etica della relazione di counseling, e pone il counselor nella posizione dell’autorità o
dell’esperto che dice ai clienti cosa sentire e cosa pensare. Per questa ragione, le domande
allusive dovrebbero essere sempre evitate nel counseling. L’unico modo sicuro per gli
studenti di superare qualunque tendenza a usarle è quello di esercitarsi con frequenza e
regolarità con i membri del loro gruppo e con un formatore.
Le domande multiple
Talvolta le persone fanno numerose domande tutte in una volta. Queste domande multiple
sono imbarazzanti e inopportune, e molto spesso hanno l’unico risultato di confondere i
clienti, specialmente quelli i cui processi di pensiero sono stati disturbati dallo
sconvolgimento emozionale e dal dolore. Gli anziani, in particolare, possono trovare
difficile seguire il filo di una domanda multipla. Molto spesso si riesce a rispondere soltanto
a una parte della domanda (generalmente l’ultima). Le domande multiple hanno anche
l’effetto di far sentire sotto interrogatorio e tendono a far assumere una atteggiamento
difensivo. È vero che qualche volta i clienti chiedono che la domanda venga ripetuta, ma il
più delle volte si limitano a dare una risposta vaga.
Ecco un esempio di domanda multipla che non può avere alcuna utilità per il cliente:
Counselor:
Quando decise di partire? Dove andò? Era lontano?
Cliente:
Beh no, non molto.
Non è difficile accorgersi che qualunque comunicazione reale collasserà in fretta quando
viene usato questo tipo di domanda. Infatti, la risposta abituale è la confusione, e spesso
in seguito ci vuole un bel po’ di lavoro perché la comunicazione si ristabilisca.
Nicola, uno studente di counseling, descrisse una seduta di esercizio effettuata con un
compagno che entrambi passarono poi in rassegna guardando il video che ne era stato
girato:
Nicola: Quando il tuo capo si ammalò ti venne chiesto di sostituirlo. Per quanto tempo occupasti il suo posto? Qu
ritornò?
Davide: Penso sia stato un mese, no, forse un mese e mezzo.
Nicola: Hai detto che non eri sicuro di farcela. Come andò? Come ti senti adesso che è finita e che l’hai fatto?
Davide: Non lo so.
Nicola: Sembra che sia andato tutto bene, comunque.
Davide: Sì.
Si rileva molto bene dall’interscambio sopra riportato che a Davide non è stata offerta
alcuna reale opportunità di esplorare questioni relative ai suoi sentimenti riguardo alla
situazione lavorativa e alla sua capacità di cavarsela in assenza del suo capo. Al contrario,
è stato confinato a dare risposte fattuali riguardanti l’ultima domanda di ciascuna serie.
Quando gli è stato chiesto direttamente dei suoi sentimenti, ha dovuto rispondere che non
lo sapeva, e ciò è comprensibile se si riflette che non gli è stata offerta alcuna possibilità di
considerarli.
Spesso è solo all’ultima parte di una domanda multipla che viene data risposta, e la
risposta data è generalmente sia vaga sia tale da scoraggiare ulteriori domande.
Le domande retoriche
Si tratta di quelle domande che non richiedono una risposta. Eccone alcuni esempi:
È raro che domande simili da parte del counselor possano essere utili nella situazione di
counseling, perché esse sono generalmente un’espressione delle opinioni personali del
counselor, e se le si usa troppo liberamente si può indurre il cliente ad accettare i punti
di vista che contengono. Spesso sono gli stessi clienti a fare uso di domande
retoriche, talvolta come modo indiretto per sollecitare consigli o opinioni.
Quando cioà avviene, una risposta utile da parte del counselor puoà essere quella di
invitare il cliente a considerare in modo piuà approfondito il significato di quel che
ha detto. Per esempio:
Cliente: Che senso avrebbe lavorare se non ci si potesse divertire spendendo quel che si è guadagnato?
Counselor: Quindi forse Lei sente di aver bisogno di ricompensarsi per il fatto che lavora e si occupa anche della cas
Cliente: Sì, perché in realtà nessun altro mi ringrazia veramente. Mi ricompenso da sola e so che talvolta esagero
m’indebito.
Counselor: E ciò Le crea ulteriori problemi?
Quando una domanda retorica è affrontata in questo modo, il cliente ha la possibilità di considerare
quegli aspetti che gli creano ansia o preoccupazione ma che sono difficili da esprimere direttamente.
Anche l’amarezza, il sarcasmo o la rabbia possono essere sottesi all’uso di una domanda retorica da
parte di un cliente; anche in questo caso, il counselor può rispondere sollecitando un esame più
minuzioso del sentimento reale che è stato espresso in modo indiretto. Si ricordi comunque che le
domande retoriche dei clienti non dovrebbero mai essere ignorate, perché sono pressoché
invariabilmente generate dal bisogno di discutere o considerare ulteriormente certi temi.
Spesso i clienti descrivono le loro situazioni problematiche in modi tali che, se si desidera
giungere a un vero insight, necessitano di un’ulteriore elaborazione. Anche l’uso delle
domande di scandaglio aiuta i clienti a guardare al di là delle ovvietà che hanno detto e a
considerare le varie dimensioni e implicazioni nascoste. Nel suo libro The skilled helper,
Gerard Egan precisa che queste domande di scandaglio possono assumere la forma della
comunicazione sia verbale che non verbale, e che perfino un cenno del capo o
un’espressione di interesse da parte del counselor può dare al cliente un incoraggiamento
sufficiente per andare avanti (Egan, 1990). Una stimolazione o una guida troppo
pronunciata, tuttavia, sia verbale che non verbale, rischia di esercitare un’indebita
pressione sul cliente. È pure importante ricordare che i clienti hanno bisogno di tempo per
riflettere prima di passare a una fase successiva. Se gli si mette fretta, un cliente può
facilmente perdere la linea di pensiero che stava seguendo, e ciò può voler dire sabotare e
rendere vano il lavoro svolto fino ad allora.
Ecco un cliente che trovoà difficile chiarire i suoi problemi a causa del dolore
emozionale e della confusione che quei problemi gli avevano creato:
Cliente: Non era il lavoro in realtà, il lavoro mi piaceva. È solo che la pressione che mi causava… [lunga pausa]
Counselor: [fa un cenno d’incoraggiamento col capo] La pressione?
Cliente: Era una combinazione della pressione del lavoro e dell’incidente automobilistico: le due cose insieme era
troppo. E tuttavia…
Counselor: E tuttavia?
Cliente: Ho avuto altre volte eventi stressanti quasi altrettanto brutti e sono sempre sopravvissuto. Stavolta è dive
sto cercando di capire perché.
In questo interscambio il counselor si è confinato in un ruolo molto marginale, limitandosi a
ripetere interrogativamente le ultime parole pronunciate dal cliente, per dargli
affermazione e incoraggiarlo a esplorare ulteriormente ciò di cui stava parlando. Oltre a
dargli incoraggiamento, comunque, le sottolineature del counselor hanno avuto l’effetto
aggiunto di aiutare il cliente a focalizzare l’attenzione sulle ragioni reali che si trovano
dietro la sua depressione, dandogli così una reale comprensione di se stesso e del modo in
cui reagisce quando è sotto stress.
All’inizio abbiamo considerato i fattori che influenzano il modo in cui le persone rispondono
alle domande, e abbiamo notato che la scelta del momento ne è un elemento importante.
Benché alcuni clienti vengano in counseling aspettandosi che vengano loro rivolte delle
domande, ce ne sono altri che desiderano e pretendono di parlare in prima persona delle
questioni e dei problemi che li concernono. Spesso buona parte di quel che i clienti dicono
all’inizio può sembrare incoerente e pieno di circostanziati dettagli non necessari. Dal
punto di vista del cliente, tuttavia, ciò è perfettamente logico perché il counselor è, dopo
tutto, un estraneo la cui attendibilità, credibilità e rispetto non sono ancora stati stabiliti o
confermati.
Un modo per mettere alla prova questi aspetti è quello di rivelare molto poco all’inizio, e
poi aprirsi a mano a mano di più via via che la fiducia aumenta. Quando i clienti parlano a
ruota libera, sarebbe sbagliato e inopportuno interromperli per far loro domande; se
vengono fatte interruzioni del genere, è probabile che il cliente se ne senta irritato e perda
il filo di quel che stava dicendo.
Dunque, nella fase iniziale è necessario che il counselor si concentri sull’abilità di ascolto,
anche se talvolta gli stessi clienti, e specialmente quelli ansiosi che non sanno cosa
aspettarsi, vorranno formulare domande. Queste domande spesso si riferiscono a dettagli
fattuali che hanno bisogno di chiarire, per esempio quanto dureranno le sedute, quale sarà
la loro frequenza e così via. Anche quando questi dettagli sono stati stabiliti in anticipo
(come dovrebbe sempre avvenire), può darsi che i clienti abbiano bisogno di riascoltarli.
Talvolta i clienti arrivano alla prima seduta con un elenco di domande già pronto: in questo
caso il counselor dovrebbe passare un po’ di tempo su queste cose con il cliente per
facilitare la comprensione e costruire un rapporto. La cosa più importante da ricordare
circa lo stadio iniziale del counseling è che i clienti dovrebbero essere autorizzati a
procedere con il loro ritmo e i loro tempi e a rivelare le informazioni gradualmente se lo
desiderano. Inoltre, il counselor dovrebbe evitare di formulare domande in questa fase
perché esse tendono a incoraggiare la dipendenza e potrebbero perfino far prendere alla
seduta una direzione di maggiore interesse per il counselor che per il cliente.
Le domande di apertura
Gli studenti di counseling sono spesso preoccupati rispetto al modo corretto di salutare i
clienti, specialmente la prima volta che li vedono a una seduta. In tale contesto, la cosa
migliore è usare una breve domanda come modo per riconoscere la presenza del cliente e
stabilire un contatto. Ecco alcune possibili domande/affermazioni di apertura che possono
servire allo scopo:
L’affermazione o la domanda iniziale dovrebbe essere aperta quanto basta per incoraggiare
il cliente a parlare liberamente. Si tratta di una sorta di autorizzazione a parlare, e
segnala al cliente che il counselor è là per ascoltarlo e aiutarlo.
L’ambito della formulazione di domande richiede molta sensibilità e insight, oltreché l’uso
appropriato di abilità di messa in discussione.
Il calore e l’empatia del counselor sono due caratteristiche, ritenute importanti da Rogers,
necessarie se si desidera che il cliente faccia progressi nel counseling (Rogers, 1991). È
difficile dire esattamente come questi attributi possano essere acquisiti, ma la maggior
parte della gente non ha assolutamente dubbi sulla loro esistenza quando li percepisce in
un’altra persona. Dal punto di vista dello studente di counseling, il prerequisito più
importante per lo sviluppo dell’empatia è costituito dall’autosviluppo e
dall’autoconsapevolezza, processi che devono essere affrontati nel corso della formazione.
Attraverso questi processi, che possono anche rivelarsi dolorosi, gli studenti sviluppano una
più profonda comprensione dei clienti e dei loro problemi, coltivando in tal modo le loro
innate riserve di empatia. Un ulteriore sviluppo può essere raggiunto grazie alla formazione
in servizio e alla supervisione, oltreché al contatto con i clienti nella pratica professionale.
Uno dei modi di favorire tale processo è quello di formulare domande, ma abbiamo visto
che è necessario considerare con accuratezza sia la scelta del tempo sia la struttura e
l’articolazione delle domande. Va altresì considerata la ragione per la quale si rivolgono
domande. Forniamo di seguito una sorta di scheda di valutazione per gli studenti di
counseling che hanno difficoltà a stabilire quando e con quale frequenza porre domande.
È inoltre opportuno che gli studenti divengano consapevoli del proprio linguaggio corporeo,
del proprio tono di voce e del loro contegno generale quando formulano una domanda. Se
queste aree vengono osservate e monitorate, è molto meno probabile che le sedute siano
simili a un interrogatorio o rimangano in superficie. Quando vengono rivolte troppe
domande, c’è il rischio reale che le sedute siano superficiali perché al cliente non è offerta
la reale opportunità né il tempo per esplorare approfonditamente i problemi.
Giulia aveva 16 anni e viveva a casa con i nonni e un fratello piuà grande. Venne in
counseling dapprincipio percheé suo fratello aveva atteggiamenti da bullo ed era
verbalmente aggressivo nei suoi confronti. I nonni non erano in grado di aiutarla
(o non erano disposti ad aiutarla) a gestire la situazione. A causa della
depressione che provava, il lavoro scolastico di Giulia ne risentiva, la ragazza
trovava sempre piuà difficile concentrarsi e aveva problemi di socializzazione con
gli amici. Il suo rapporto con il fratello era la maggior preoccupazione di Giulia,
ma era anche abbattuta a causa degli scambi interpersonali deteriorati e delle
molte piccole liti che continuava ad avere con gli amici. Durante la prima seduta
di counseling, Giulia descrisse i suoi problemi in questo modo:
Giulia: Mi prendono tutti in giro, non solo mio fratello, proprio tutti quanti. Vanessa, la mia amica, ha iniziato ad
andarsene in giro con una brutta ciurma. O almeno, penso che sia una brutta ciurma, e ieri quando salii
sull’autobus per andare a casa sapevo che stavano ridendo di me. Ero veramente imbarazzata e ho chiesto
smettessero, soprattutto a Vanessa. Non riesco a credere che stia agendo così. È stata la mia migliore am
tutto il periodo della scuola. E non è tutto. Ho questi stupidi dolori alle gambe e alle braccia. Gliene ho p
[Non aspetta la risposta.] Questi dolori aumentano d’intensità di notte, e tutto quel che ha saputo dirmi il
è stato che dovrei tornare dal medico, cosa che ho fatto. Mi sembra che il nonno prenda un po’ sottogam
questa faccenda, ha detto che ho avuto un sacco di grane nell’ultimo periodo e che dovrei prendermi un p
tempo. [Pausa.]
Counselor: Hai dovuto affrontare un sacco di cose in quest’ultimo periodo, tuo fratello, Vanessa, il fatto di non senti
fisicamente. È stato un periodo molto stressante.
Giulia: Sì, stressante è la parola giusta. Non riesco a credere di avere avuto tutti questi guai dopo quello che già
successo.
Counselor: Tutto quello che già era successo?
Giulia: Sì. La mia mamma è morta dieci mesi fa. [Scende una pausa di silenzio.] … Aveva il cancro.
Counselor: Così avevi tutta questa tristezza da sopportare, e anche le altre cose sono diventate un peso.
Giulia: Sì, è vero. Tutte le altre cose sembrano assumere un’importanza sproporzionata. Trovo difficile andare a
specialmente da quando Vanessa ha smesso di prendersi cura di me. Era la mia migliore amica.
Counselor: Era una persona a cui sentivi di poter parlare a cuore aperto?
Giulia: Sì.
Counselor: Forse adesso potremmo parlare di alcune delle cose di cui avresti voluto parlare con Vanessa. Della tua m
Giulia: Sì, mi piacerebbe.
Si può notare dall’interscambio sopra riportato che il counselor formulò molte domande a
Giulia nella prima parte della seduta. Può sembrare eccessivo all’inizio, ma le domande
furono rivolte a scopo esplorativo con grande sensibilità. Come molti altri clienti che
vanno in counseling, Giulia era preoccupata da numerosi problemi, ma il problema
principale non venne menzionato fino a che non ebbe parlato dettagliatamente degli altri
eventi che la assillavano. Questi eventi erano il suo rapporto con il fratello, il
comportamento bullistico di lui, la convinzione di Giulia che gli altri la prendessero in giro,
il comportamento apparentemente lesivo di Vanessa, i suoi dolori fisici e la sua incapacità
di assicurarsi il sostegno o l’aiuto dei nonni. Soggiacente a tutto questo, c’era il problema
fondamentale del lutto e della perdita.
Sua madre era morta dieci mesi prima e Giulia non aveva avuto la possibilità di parlarne
con nessuno. Come tanto spesso avviene, i suoi nonni tendevano a evitare l’argomento e
Giulia si sentiva sempre più isolata e sola. Dapprima, Giulia era riluttante a parlare della
morte di sua madre, per paura che il counselor facesse marcia indietro (come altri avevano
fatto) o non riuscisse a capire il significato o la profondità dei sentimenti della ragazza. Il
counselor riuscì a manifestare empatia a Giulia e prima di tutto le diede un feedback sugli
argomenti che aveva menzionato facendo anche riferimento allo stress che aveva
accompagnato quegli eventi. Giulia, a sua volta rispose affrontando gradualmente il tema
della morte di sua madre. In seguito, il counselor rivolse domande che mostravano come
fosse realmente interessato, e la ascoltò attivamente. Ciò incoraggiò Giulia ad aprirsi
ulteriormente e a parlare diffusamente di sua madre.
Per quanto attiene alla reazione che Vanessa aveva avuto alla sua perdita, Giulia era
particolarmente sconvolta. Quando ebbe discusso di questo con il counselor durante le
sedute successive, comunque, la ragazza giunse a comprendere che Vanessa mancava
dell’esperienza e della confidenza necessarie per aiutarla. Anche Vanessa era stata
sopraffatta e spaventata da quel che era accaduto, e quando Giulia se ne rese conto il suo
rapporto con l’amica migliorò notevolmente.
Domande utili
Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling nella
vita quotidiana, Trento, Erickson, pp. 129-136.
Nel colloquio d’aiuto, una domanda si può considerare "utile" se risponde a uno dei seguenti
obiettivi:
Utilizzare le domande per aiutare la persona a concentrarsi sul "nocciolo" del problema
Dopo aver insistito tanto sull’importanza di non eccedere nelle domande, dobbiamo anche
riconoscere l’altra faccia della medaglia: se le si formula con cura, nei momenti giusti, le
domande possono servire tantissimo per aiutare la persona a individuare quali siano, tra
tutti i suoi problemi, quelli che veramente la preoccupano di più. Proveremo a spiegarci
meglio, al solito, con alcuni esempi pratici.
Lisa fa l’infermiera in una struttura residenziale sanitaria. Una delle sue pazienti, la signora
Rossi, è una donna ormai anziana, che non può più alzarsi dal letto, per via di una malattia
cronica. Deve cambiarsi spesso i vestiti, ed è Lisa che se ne deve occupare. Nell’ultima
settimana, mentre svolgeva le sue solite mansioni, l’infermiera si è resa conto che la sua
paziente, di solito abbastanza serena, appariva scossa e preoccupata. La ha quindi invitata
a parlare, secondo le modalità che abbiamo più volte descritto; a quel punto, la signora ha
cominciato a raccontarle di tutta una serie di problemi, che la stavano davvero
preoccupando. Nella conversazione, Lisa ha attinto a piene mani dalle sue abilità
elementari di counseling: interiezioni, risposte brevi e riformulazione. Alla fine, inoltre, ha
provato a riassumere le cose principali che le erano state dette: "Mi ha parlato di Suo figlio,
che è disoccupato; di Sua figlia, che fa molta fatica a stare dietro ai bambini; dei problemi
con l’alcol di Suo fratello; delle difficoltà che sta incontrando Suo marito, per via di quelle
riparazioni che deve fare in casa".
Grazie a questa domanda esplicita sull’esperienza emotiva della signora, Lisa la ha aiutata
a riconoscere il suo senso di impotenza e di disperazione: il profondo sconforto che
avvertiva per il fatto di essere lì, incapace di dare una mano alle persone che amava. È solo
così che è riuscita a mettere a fuoco il vero problema. Vale la pena, a rileggere il caso, di
guardare non solo quel che Lisa ha fatto, ma anche ciò che ha evitato di fare. Ha evitato,
ad esempio, di invitare la signora a continuare il racconto dei problemi degli altri: così
facendo, infatti, avrebbe distolto l’attenzione dai suoi problemi. Si è sforzata, piuttosto, di
invitare l’anziana signora a parlare di sé: di come si sentisse lei, a raccontare delle
difficoltà dei suoi parenti. In questo modo, la ha messa nelle condizioni adatte per
esplorare i suoi problemi, e non solo per parlare di quelli degli altri.
Possiamo anche fare uso di alcune domande mirate per aiutare la persona a proseguire,
soprattutto se ci sembra in difficoltà nel farlo da sola. Un buon modo per incoraggiarla ad
andare avanti, di fronte a una questione importante e delicata, potrebbe ad esempio
essere il seguente:
Naturalmente, prima di fare domande del genere dovremo esserci "accordati" con i vissuti
emotivi di quella persona. Una volta riusciti a creare una relazione di empatia, capiremo
facilmente se sia il caso di invitarla ad andare avanti, o se sia meglio desistere. Nel secondo
caso, potremmo ricorrere a qualche forma di riformulazione:
Talvolta, è anche possibile che la storia di quella persona vi lasci imbarazzati, disorientati o
confusi. Per quanto vi sforziate, faticherete a capire che senso abbia. Se ciò accade, è
opportuno che facciate qualche altra domanda, quanto basta per comprendere meglio la
situazione, e aiutare quella persona a cogliere — ancora una volta — il "nocciolo" del
problema. Poniamo, ad esempio, che vi stiate rivolgendo a una ragazza che vi ha dato
l’impressione — pur senza esplicitarlo — che il suo attuale fidanzato sia il padre del suo
bambino. Va da sé che, in un caso del genere, sarebbe appropriato porre una domanda del
tenore della seguente:
Perdonami, ma non capisco bene; il papà del tuo bambino è una persona diversa dal
tuo compagno?
Notate che la domanda, in questo caso, parte dall’esplicita ammissione del proprio
disorientamento. Ciò serve a far capire all’altra persona che le ponete quella domanda per
uno scopo ben preciso — capire meglio la sua storia — e non soltanto per una vostra
curiosità.
Le domande che ci capita di usare più spesso, nella vita di tutti i giorni, sono
probabilmente quelle che cominciano con "chi", "che cosa" e "come". Vale la pena riflettere
su come sia possibile utilizzare questi diversi tipi di domande, in un colloquio d’aiuto.
Le domande che iniziano con "perché?" non sono, il più delle volte, granché utili. Di fronte a
domande di questo tipo, molti tendono a dare delle spiegazioni, più che a comunicare ciò
che pensano, o che provano. Pensate — per ipotesi — di trovarvi a domandare a qualcuno
(che conoscete): "Perché hai lasciato tuo marito?". Piuttosto che cominciare una domanda
con un "perché", è di solito meglio ricorrere a un "che cosa", o magari a un "come".
Nell’esempio appena citato, avremmo potuto riformulare la domanda nel modo seguente:
Oppure:
Che cos'è che provi tu, adesso, dopo che hai lasciato tuo marito?
Notate che, nella seconda versione, abbiamo fatto esplicito riferimento — con il «tu» — alla
persona che abbiamo davanti a noi. È importante, infatti, che la persona concentri
l’attenzione sul suo vissuto emotivo, anziché parlare a titolo generale. In entrambi i casi,
inoltre, le domande alludono a come si sente la persona hic et nunc; non a come si sentiva,
in passato, con il suo partner. Anche questo particolare ha la sua importanza: perché un
colloquio sia davvero «d’aiuto», occorre che la persona sia incoraggiata a parlare delle sue
esperienze di vita attuali. È nell’attualità, infatti, che si colloca il suo problema, o la sua
situazione di disagio.
Vi proponiamo, a questo punto, alcuni esempi di domande impostate nella logica del «che
cosa», o del «come»:
Che cos’è che senti, dal punto di vista emotivo, quando parli di quella cosa lì?
Che cos’è che potrebbe succedere, se tu facessi quella cosa?
Quali possibilità di scelta pensi che avresti?
Com’è che ti senti, a livello emotivo, quando mi dici che…?
Com’è che ti fa sentire quella cosa…?
E adesso, com’è che ti senti?
Come faresti a sapere se…? [ad esempio: se tua madre è preoccupata]
Come pensi che potresti fare, per cambiare questa situazione?
Finora abbiamo visto che il colloquio può ottenere un buon esito – ovvero che il nostro
interlocutore si senta fiducioso e compreso e sviluppi così il desiderio di approfondire la sua
situazione problematica per cercare una soluzione – se siamo capaci di assumere un
atteggiamento comprensivo e di manifestarlo attraverso (anche) le nostre parole.
Durante il colloquio possiamo scegliere – anzi dobbiamo sempre scegliere – che tipo di
riformulazioni utilizzare, a seconda di come procede l’esplorazione del problema.
Faremo riformulazioni a specchio, centrate sull’esterno, senz’altro nella fase iniziale o
laddove riteniamo che vi possa essere una resistenza della persona ad entrare
nell’argomento in modo troppo personale.
Sceglieremo riformulazioni esplicitanti quando invece riteniamo opportuno aiutare la
persona a mettere a fuoco contenuti non espressi chiaramente, che possono riguardare i
fatti, ma anche i sentimenti – magari ambivalenti – o l’immagine di sé della persona.
A questo punto ci può venir utile la distinzione operata da Carkhuff, che focalizza i livelli
della riformulazione a seconda che vogliamo mettere in luce e rimandare alla persona i
fatti (contenuti), i sentimenti legati ai fatti, i vissuti.
Possiamo distinguere allora: la riformulazione del contenuto, del sentimento, del
significato e di personalizzazione. Lasciamo quest’ultima al prossimo modulo e
concentriamoci sulle prime tre, alle quali ci introduce lo stesso Carkhuff:
Chi dà aiuto può rispondere a tre differenti livelli. Gli helper rispondono al contenuto delle
espressioni dell’altro, e lo fanno “riflettendo” (cioè riformulando in altre parole) quel che
effettivamente l’interlocutore sta dicendo. Inoltre, rispondono ai sentimenti, ovvero agli
aspetti emozionali e affettivi, e lo fanno “riflettendo” come l’interlocutore si sente
rispetto agli eventi e situazioni che sta esponendo. Alla fine, gli helper possono unire
sentimenti e contenuti in un’unica risposta che rifletta il significato complessivo che queste
esperienze hanno per l’interlocutore. (p. 55)
La riformulazione del contenuto coglie, in tutto o in parte, gli eventi e i fatti narrati
dall’interlocutore; potremmo dire il contenuto fattuale espresso.
Struttura sintattica tipo: “Lei mi sta dicendo che…”, “In altre parole…”, “Dunque…”.
A un’adolescente che afferma: “I miei genitori mi trattano come se avessi dodici anni! Ma
ne ho già sedici e sono grande ormai! La devono proprio smettere…”,
una risposta al contenuto sarebbe: “I tuoi genitori non si accorgono che sei cresciuta”.
Gli stati emozionali sono molteplici e hanno intensità diverse. In questo modulo è proposta
un’esercitazione per organizzare e sviluppare il proprio vocabolario emozionale. Va tenuto
sempre presente, tuttavia, che emozioni e sentimenti hanno un alto grado di soggettività e
quindi possono ricoprire significati e intensità parzialmente diversi a seconda della persona
che li esprime e di quella che li recepisce. Inoltre, non è da sottovalutare nemmeno il
contesto in cui l’emozione si esprime, che può esacerbarne o moderarne l’intensità così
come modificarne le caratteristiche. Pensiamo, in questo senso, a quanto può incidere il
contesto di gruppo.
All’adolescente che afferma: “I miei genitori mi trattano come se avessi dodici anni! Ma ne
ho già sedici e sono grande ormai! La devono proprio smettere…”,
si potrebbe rispondere: “Sei proprio arrabbiata”.
La riformulazione del significato mette in relazione il fatto narrato dalla persona con il
sentimento legato al fatto. Si tratta di un’operazione meno immediata perché tenta di
cogliere lo stato d’animo della persona di fronte a ciò che le accade e in questo senso di
cogliere il significato che il fatto riveste per la persona stessa.
Alla nostra adolescente che afferma: “I miei genitori mi trattano come se avessi dodici
anni! Ma ne ho già sedici e sono grande ormai! La devono proprio smettere…”,
potremmo rispondere: “Sei arrabbiata per come ti trattano i tuoi genitori”.
Vedi “Rispondere al significato” (Carkhuff).
Gli stati affettivi (il "vissuto") si esprimono direttamente e ogni modalità "interna" ha le sue
espressioni immediate che si offrono alla vostra percezione. Un sorriso trionfante significa
molto semplicemente la soddisfazione della vittoria. Se un cliente vi dice con quel sorriso:
"Il medico ha detto che mia moglie era matta e l’ha fatta ricoverare", voi dovete vedere il
sorriso e comprendere ciò che questo fatto significa per il cliente. Può darsi che lui,
dicendo ciò, non si renda conto che allo stesso tempo ha mostrato un sorriso trionfante.
Se la signora che sta seduta di fronte a voi tiene la sua borsetta e il suo ombrello ben
stretti a sé o annoda le sue caviglie attorno ai piedi della sedia, occorre percepire questa
espressione di inquietudine, di insicurezza; il suo essere contratta ha valore di
un’espressione diretta, anche prima che apra bocca. Se qualcuno se ne sta zitto, si può
vedere in questo silenzio l’espressione di una inibizione, di un fastidio o di un blocco
qualsiasi. Se qualcuno cambia bruscamente argomento nel corso del colloquio, bisogna
vedervi un tentativo di scansare (o di fuggire) qualche cosa.
Perciò, se qualcuno vi dice: "Sebbene non mi abbia mai detto nulla, ho l’intima certezza
che il mio vicino mi vuole male", potete rispondere senza alcun rischio di sbagliarvi: "Voi
nutrite una certa sfiducia nei confronti del vostro vicino".
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, p. 38-39.
Una notevole quantità di informazioni può essere ottenuta prestando attenzione sia alla
maniera in cui le cose vengono dette che all'effettivo contenuto del discorso. La voce, il
tono, il volume, l’intensità, il ritmo, le informazioni che vengono date, sono tutti aspetti
della comunicazione verbale che di solito ci dicono di più, riguardo a ciò che una persona
sente, che non le parole stesse che sceglie di adoperare. Quando le persone sono infelici o
tristi, tali sentimenti si riflettono nella loro voce e quando si provano sentimenti positivi
come la gioia, anche questi vengono facilmente individuati. Un cliente che stia descrivendo
un episodio traumatico o infelice può riuscire a nascondere, per esempio, qualcuno dei
sentimenti a esso associati, ma a un certo punto questi sentimenti sono destinati a
interferire e alterare la descrizione che sta facendo.
Un’anziana donna, a cui era accaduto di perdere molti dei suoi effetti personali e delle sue
cose durante un’alluvione, descrisse ciò che provava nel modo seguente:
Penso siano solo cose materiali, per cui non sono importanti, sento che dovrei ringraziare il
Signore per ciò che mi ha donato. C’erano delle fotografie... [pausa] ...erano della mia
famiglia [silenzio]. Ma sono molto contenta. Certe persone non sono così fortunate, e io
veramente ringrazio il Signore per i doni che ha voluto farmi.
Il counselor che assisteva la cliente era ben cosciente della tristezza presente nella voce
della donna, dell’esitazione che aveva avuto nel corso della descrizione e del lungo silenzio
di riflessione occorso proprio prima che lei usasse la parola "fortunate" riferita a se stessa.
Non sono unicamente gli episodi traumatici che i clienti possono cercare di minimizzare o
mascherare. A volte si verifica l’esatto contrario ed eventi felici vengono descritti in
termini che non lasciano dubbi sul significato che hanno in realtà per il narratore. Quando
Viviana, una donna di quarantasei anni, parlava dell’imminente matrimonio della sua unica
figlia, appariva intenta a esprimere, quantomeno esteriormente, la sua felicità e la sua
approvazione, dato che la figlia era palesemente contenta. Parlava dei buoni rapporti che
aveva sempre avuto con lei, del ricevimento che stava aiutandola a organizzare e della casa
che aveva acquistato di recente con il futuro sposo.
Si trova proprio qui, dalla parte opposta della città, così non è troppo lontana. Sono proprio
contenta per lei. Non avrei mai pensato di potermi sentire così quando la mia unica figlia se
ne fosse andata di casa, ma è proprio così. [Ride.]
Il counselor si era accorto che la risata di Viviana suonava piuttosto forzata. Notò anche
l’espressione triste che per un momento aveva oscurato il suo volto. Quando ebbe finito di
parlare, Viviana rimase in silenzio per un po’, fino a che quell’espressione malinconica
riapparve sul suo viso. Sebbene avesse manifestato gioia riguardo al matrimonio della figlia,
Viviana era incapace di nascondere, anche a se stessa, i sentimenti contrastanti che
ovviamente provava.
David:
"Sediamoci qui" (indica il divano) "Vuoi del succo di frutta o qualcosa da mangiare?"
Carol:
(sedendosi) "No, non ho fame".
David:
"Sembri piuttosto stanca".
Carol: "Non riesco ancora a rendermi conto di quello che sta succedendo. Voglio dire, un mese fa pensavamo
una nuova casa. Mark aveva appena avuto una promozione. E adesso, da un momento all’altro sarà ...
andato. Morto".
David:
"È una situazione ancora irreale. Poche settimane facevate progetti insieme per il futuro. Ora, Mark sta
Carol: "È così incredibilmente ingiusto!
(scuotendo la testa e stringendo i pugni).
David:
"Sei veramente arrabbiata per tutto questo".
Carol: "Sono così furiosa! Furiosa! Santo Dio... io proprio non capisco".
David:
"Sei furibonda perché la morte di Mark è un’ingiustizia".
Carol: "E la cosa peggiore è che ce l’ho con Dio, con i medici, con tutti".
David:
"Sei così arrabbiata per quello che sta succedendo che tutti diventano un bersaglio".
Carol: "Sì. E quello che è orribile...
(inizia a piangere) ... è che ce l’ho con Mark perché mi sta lasciando. A volte mi domando se potrò perd
David:
"Sei arrabbiata anche con Mark perché ti sta lasciando sola, perché ti abbandona".
Carol:
(piangendo più forte) "È vero. Non so come potrò fare senza di lui... lo amo tantissimo... Mark... Mark...
Tratto da Carkhuff R.R. (1993), L’arte di aiutare. Manuale, Trento, Erickson, p. 110.
Dimostrare alla persona ascolto e comprensione
Rispecchiare le emozioni e i contenuti della conversazione
La riformulazione è legata alla capacità di ascoltare con cura quel che ci viene detto, ma anche di
osservare il modo in cui ci viene detto. Poniamo che qualcuno vi confidi: "Avrò dei grossi problemi
con il mio capo, se mi prendo un’altra giornata di malattia". A sentire queste parole, potreste
riconoscere almeno un paio di elementi:
1. Quella persona è preoccupata.
2. Il suo problema è legato al rischio di una reazione negativa del suo capo, qualora si prenda
un’altra giornata di malattia.
Avete fatto caso alla differenza tra il punto 1 e il punto 2? Il primo elemento che viene messo in luce
— la preoccupazione di quella persona — ha a che fare con la sua sfera emotiva; il secondo elemento
— il fatto che il problema dipenda dal giorno di malattia — riguarda invece il contenuto del
messaggio. Quando ci occupiamo di rispecchiare, è importante che sappiamo cogliere la differenza tra
emozioni e contenuto. Potremo quindi imparare a riformulare l’uno e/o l’altro di questi elementi, a
seconda di quale sia, caso per caso, la soluzione più appropriata.
Che cosa significa rispecchiare?
Ogni volta che vi guardate allo specchio, e vi vedete riflessi, scoprirete qualche cosa di importante su
di voi. Quando aiutate qualcuno in un colloquio d’aiuto, e fate uso della riformulazione, svolgerete
proprio la funzione di uno specchio. Nella fattispecie, "restituirete" a quella persona non le sue
sembianze fisiche, bensì ciò che essa dice, o che prova a livello emotivo. Nell’esempio che vi abbiamo
appena presentato, potreste rispecchiare il vissuto emotivo di chi vi sembra preoccupato, dicendo:
Sei preoccupato.
O magari, potreste rispecchiare il contenuto di ciò che quella persona vi ha appena detto:
Prenderti un’altra giornata di malattia ti potrebbe creare dei problemi.
Avete notato, anche da questi semplici esempi, la differenza tra riformulazione delle emozioni e
riformulazione dei contenuti? Nel primo caso, si è rispecchiato quel senso di preoccupazione che
trapelava dalle parole del nostro interlocutore; nel secondo caso, si è rispecchiato il contenuto della
conversazione, ossia i fatti concreti di cui si parla. In alternativa, sarebbe stato anche possibile
rispecchiare sia i vissuti emotivi, sia i contenuti, con la medesima formulazione:
Sei preoccupato delle conseguenze che potrebbe avere il fatto di prenderti un’altra giornata di malattia.
Una cosa importante: in ciascuno degli esempi, la riformulazione non si è mai tradotta nella mera
ripetizione, parola per parola, delle cose che vi sono state dette. Tali cose vengono sempre espresse in
forma leggermente diversa: con le vostre parole, più che con quelle della persona che state aiutando. È
un passaggio essenziale, per mettere la persona nelle condizioni di sentirsi capita e rispettata. Se così
non fosse, infatti, questa potrebbe vedere in voi dei semplici pappagalli!
Nel riformulare dovete usare parole vostre
Consideriamo un altro esempio pratico di riformulazione. Poniamo che qualcuno vi dica: "Mio
figlio non mi telefona da tanto di quel tempo. Pensavo che mi avrebbe telefonato, dopo che gli
avevo mandato un regalo di compleanno, la settimana scorsa". Un buon modo di rispecchiare, in
questo caso, potrebbe essere del tenore seguente:
Sembri deluso. [Riformulazione dei vissuti emotivi]
Ti aspettavi che tuo figlio ti facesse avere notizie. [Riformulazione dei contenuti]
Sembri deluso, perché non hai avuto più notizie di tuo figlio. [Riformulazione dei vissuti
emotivi e dei contenuti]
Può essere interessante notare che rispecchiare i vissuti emotivi richiede di soppesare
ogni singola parola con grande cura. Ci siamo resi conto che si tende spesso a confondere
la riformulazione delle emozioni e quello dei contenuti; o, comunque, che non si
riconosce abbastanza la differenza tra il primo e il secondo caso. Se dite, ad esempio:
"Ho la sensazione che oggi pioverà", avrete espresso un pensiero, più che un vissuto
emotivo. Sarebbe stato anzi più corretto dire, nella fattispecie: "Penso che oggi pioverà".
Se invece diceste: "Mi sento terrorizzato", rispecchiereste senz’altro un vissuto emotivo.
Fateci caso: "terrorizzato" è una parola sola. È eloquente, per capire la differenza, il
confronto con tutta la sequela di parole della frase precedente: "… la sensazione che
oggi pioverà".
Vi proponiamo una lista di parole a elevata "valenza emotiva", che vi potrebbero
risultare utili per rispecchiare dei vissuti emotivi.
A rileggere questa ipotetica lista, confrontandola con i vostri vissuti emotivi, è probabile
che vi siano venute in mente anche altre parole. Volete provare ad annotarle?
Parole ulteriori:
_____________________________________________
_____________________________________________
_____________________________________________
Se ci fate caso, per ciascuna delle parole che vi abbiamo proposto è possibile formulare
una frase compiuta, limitandosi ad aggiungere "mi sento" prima della parola in
questione. Così facendo, darete vita a una frase che potrà senz’altro essere utilizzata,
laddove opportuno, per rispecchiare sentimenti o altri vissuti emotivi. In pratica, non è
nemmeno necessario utilizzare l’espressione "mi sento…". Si possono rispecchiare i
sentimenti dicendo anche cose del tipo: "Sei triste", "Sei deluso", "Sei felice" e via
discorrendo.
Una pausa prima di riformulare
Avete mai notato che, nelle conversazioni normali, capita spesso di interrompersi gli uni
con gli altri? È quel che succede ogni volta che siamo impazienti di dire qualche cosa.
Anche quando non si interrompe l’altro, poi, si tende spesso a rispondere nel più breve
tempo possibile, non appena questi abbia smesso di parlare. Un comportamento di
questo tipo, così comune nelle chiacchierate di tutti i giorni, non giova, se vogliamo
cercare di aiutare qualcuno. Per aiutare una persona, infatti, non potremo fare a meno
di osservarla, mentre ci parla. Guardandone gli occhi o l’espressione facciale,
scopriremo probabilmente che, anche dopo averci detto qualche cosa, continuerà a
ripensarci su. Se non la interrompiamo, a questo punto, è probabile che continui a
parlarci di tutte le cose che le vengono in mente.
È quindi importante, in queste situazioni, saper gestire un attimo di pausa, prima di un
eventuale riformulazione: grazie a questa pausa, il nostro interlocutore avrà
l’opportunità di riflettere un po’. A quel punto, avrà anche il tempo necessario per
proseguire, se lo vorrà. Ci sono tante persone che, soprattutto all’inizio, faticano a
gestire questo momento; dopo tutto, nelle conversazioni normali non c’è nessuno che sia
abituato a fare pause di questo tipo. In ogni pausa, inoltre, si viene inevitabilmente a
creare una fase di silenzio. E molti di noi, come è noto, faticano parecchio a sopportare il
silenzio; è come un vuoto che si crea all’improvviso, e che si sente il bisogno di riempire
nel più breve tempo possibile. Per una conversazione d’aiuto efficace, comunque, non
potremo non dare al nostro interlocutore il tempo necessario per riflettere e completare
quel che intende dire, prima di una nostra eventuale interruzione.
Lasciate alla persona il tempo che le serve; rispettate le pause; non interrompetela.
Che cosa speriamo di ottenere, con la riformulazione?
La riformulazione è utile a realizzare tre ordini di obiettivi:
1. permette a chi ci sta di fronte di riconoscere che lo ascoltiamo con attenzione, e
comprendiamo quel che intende dire;
2. la aiuta a riconoscere meglio il proprio vissuto emotivo, o il senso delle parole
che ha appena formulato;
3. la incoraggia ad andare avanti nella conversazione.
Vi potreste forse chiedere, a questo punto, perché insistiamo così tanto sulla differenza
tra riflettere emozioni e contenuti. La ragione è la seguente: ci sono delle circostanze in
cui è più utile rispecchiare solo i vissuti emotivi. Se rispecchiate con cura una
determinata emozione, senza entrare nel merito dei contenuti, la persona potrebbe fare
molta meno fatica nel riconoscere, e nel riformulare, i propri vissuti emotivi. Ad
esempio, se rispecchiate un sentimento di tristezza dicendo: "Sei molto triste"; o magari:
"Sembri triste, quando mi dici che…", la persona con cui parlate avvertirà più
chiaramente la propria tristezza, e magari scoppierà addirittura in lacrime. Potrete,
cioè, offrirle uno spazio per sfogare i propri sentimenti negativi, anziché tenerli sempre
repressi. È chiaro peraltro che, se tentate una riformulazione di questo tipo, dovrete
essere pronti alla reazione emotiva di quella persona, che potrebbe anche mettervi a
disagio.
Dovrete anche tenere conto, ancora una volta, del contesto in cui vi trovate. In un
ambiente in cui sono presenti anche altre persone, una forte reazione emotiva potrebbe
risultare inappropriata, oltre che imbarazzante per il diretto interessato. Può essere più
opportuno, in questi casi, rispecchiare soltanto i contenuti, in modo che la persona possa
proseguire nella sua narrazione, senza eccessivi "rimestamenti" emotivi. In altri casi,
può essere utile rispecchiare sia i vissuti emotivi, sia i contenuti. Questa soluzione può
aiutare la persona a riconoscere meglio le proprie emozioni, ma anche a rivolgersi
prevalentemente al livello, più neutro, dei contenuti.
Con l’esperienza, riuscirete comunque a riconoscere quando sia il caso di rispecchiare i
vissuti emotivi, o i contenuti, o entrambi i livelli. Non esiste nessuna "formula astratta" a
cui fare riferimento: occorre puntare sull’intuito e sull’esperienza che ciascuno di voi,
nella pratica, saprà maturare.
Esempi pratici
Vi proponiamo alcuni esempi, tra gli infiniti possibili, delle cose che vi potrebbe dire
qualcuno che sta vivendo una situazione di disagio. Per ogni esempio, potreste forse
pensare alle risposte che vi paiono più appropriate:
o per rispecchiare i vissuti emotivi;
o per rispecchiare i contenuti;
o per rispecchiare gli uni e gli altri.
L’importante, nelle risposte, è che vi sforziate di non ripetere alla lettera le parole del
vostro interlocutore. Dovreste cercare, inoltre, di essere quanto più brevi possibili. Non è
necessario che rispecchiate tutte le cose che vi vengono dette; basteranno quelle che
ritenete più importanti.
È probabile che le affermazioni del vostro interlocutore siano suscettibili di
interpretazioni ben diverse, specie se sono espresse in forma scritta. Se si tratta di un
colloquio, basta fare caso al tono di voce, in molti casi, per capire se la persona che vi
parla sia triste, allegra, o magari frustrata; il che è impossibile quando le parole sono
solo lette.
Esempio 1
"Mia madre è una signora ormai anziana. Ieri sera mi ha telefonato per dirmi che era
scivolata per terra. Da quello che ho capito, deve essersi rotta un ginocchio, cadendo
mentre faceva le scale. Magari non vivessi così lontano da lei!".
Esempio 2
"Mia figlia è davvero disobbediente, continua a comportarsi in malo modo. È una
continua fonte di tensioni, perché si mette sempre a litigare con suo fratello e con il
padre".
Esempio 3
"Questo contratto, per me, è fondamentale. È veramente strano: ho mandato un fax
all’azienda la settimana scorsa, e non mi è arrivata nessuna risposta. E sì che, fino
adesso, sembrava che ci tenessero molto anche loro a mettersi d’accordo con me, sui
contenuti del contratto".
Esempio 4
"Mio figlio si sposerà a Birmingham. La sua futura moglie è proprio una bella persona,
non vedo l’ora di andare al matrimonio".
Esempio 5
"Il mio capo ha veramente delle grandi idee. Un progetto come questo andrà bene di
sicuro. Dovrebbe andare bene anche per me, visto che mi ha affidato l’incarico di
coordinare il lavoro".
Esempio 6
"Il mio professore mi ha dato questa tesina da fare. È tutto il giorno che cerco materiali
e informazioni, per avere qualche idea, ma non ho trovato proprio niente".
Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling
nella vita quotidiana, Trento, Erickson, 2005, pp. 8995.