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Abilità di counseling: COSA INTENDIAMO?

Il nostro obiettivo è l’apprendimento delle abilità di counseling, cioè di tecniche utili per il
colloquio di aiuto.

Diamo inizialmente qualche definizione. Intendiamo per colloquio di aiuto (o relazione


d’aiuto) quel contesto di relazione - prevalentemente tra due individui - nel quale una
persona porta un problema o una particolare situazione di difficoltà e l’altra cerca di
ascoltare e facilitare un percorso di approfondimento ed esplorazione del problema, in
vista di un possibile cambiamento. Chiameremo la persona che porta il problema
interlocutore e la persona che si propone l’intento di aiutare helper.

L'utilizzo del temine helper (colui che aiuta) - più generico rispetto a counselor, operatore,
o quant’altro - risponde a una precisa scelta: questo corso on line traccia delle linee guida
per l'approccio di aiuto utili a tutte le persone interessate al tema, quindi non solo a chi fa
uso del colloquio per la professione (psicologi, operatori sociali, ma anche operatori
sanitari, insegnanti...). Le abilità di base del counseling sono spendibili anche in contesti di
vita quotidiana e possono essere apprese da chiunque avverta il desiderio di qualificare la
propria capacità di ascolto. Riservare un atteggiamento di comprensione e offrire un
ascolto attivo può essere importante nelle più diverse occasioni, dai contesti strutturati di
volontariato fino alle relazioni più prossime, come quelle genitori-figli, tra amici, con vicini
di casa...

Su questo, invito a leggere le parole - riportate alla fine di questo testo - di Carl Rogers,
illustre fondatore dell’approccio centrato sulla persona, che terremo in particolare
considerazione durante il corso.

Le tecniche di counseling quindi possono essere utili a tutti, se si discrimina bene il


contesto in cui possono essere efficaci e le situazioni relazionali in cui utilizzarle. E’ chiaro
che l’apprendimento di tali tecniche non definisce l’area professionale del counselor,
professionista debitamente formato che, soprattutto nel contesto anglosassone, opera con
precise connotazioni specialistiche.

Una definizione di counseling è comunque utile per comprendere l’obiettivo con cui ci si
appresta alla relazione con l’interlocutore, sia che ciò avvenga in un contesto professionale
sia nella vita quotidiana.

La British Association of Counseling definisce il counselor come colui che “può indicare le
opzioni di cui il cliente dispone e aiutarlo a seguire quella che sceglierà. Egli può aiutare il
cliente a esaminare dettagliatamente le situazioni o i comportamenti che si sono rivelati
problematici e trovare un punto piccolo, ma cruciale, da cui sia possibile originare qualche
cambiamento. Qualunque approccio usi il counselor [...] lo scopo fondamentale è
l’autonomia del cliente: che possa fare le sue scelte, prendere le sue decisioni e porle in
essere” (BAC, Information Sheet 10, 1990).

L’obiettivo di chi abbiamo chiamato “helper” è quello di aiutare la persona a esplorare la


sua situazione per trovare delle soluzioni che vadano bene per lei stessa. Nell’apprendere
le tecniche che seguono è importante tenere ben presente che questo è l’obiettivo che
perseguiamo.

Aiutiamoci a definire meglio l'oggetto del nostro interesse con Folgheraiter (Gli elementi
che caratterizzano il counseling) e con Mucchielli (Confronto fra colloquio di aiuto e altri
generi di colloquio), che puntualizzano la definizione attraverso il confronto con altri
generi di colloquio che counseling non sono. Infine, per chiarire i confini tra utilizzo delle
abilità di counseling e counseling professionale, utilizziamo alcune pagine di Geldard e
Geldard (Chi può far uso delle abilità di counseling).
Ecco le parole di Rogers:

L’interesse per la psicoterapia mi ha spinto a porre un’attenzione particolare ad ogni


tipo di relazione “di aiuto”. Con questo termine mi riferisco a una relazione in cui
almeno uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo
sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed
integrato nell’altro. L’altro, in questo senso, può essere un individuo o un gruppo. In
altre parole, una relazione “di aiuto” potrebbe essere definita come una situazione
in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le parti, una
valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggiore
possibilità di espressione.
Ora, è ovvio che una definizione del genere copre un vasto ambito di rapporti
normalmente ritenuti utili per lo sviluppo. Include certamente il rapporto tra
genitori e figli, tra medico e paziente. Dovrebbe includere il rapporto tra insegnante
ed alunno, sebbene molti insegnanti non pongano tra i loro scopi quello di stimolare
la maturazione della personalità degli allievi. Include quasi tutte le relazioni di
orientamento, sia in campo educativo, sia professionale, sia più strettamente
psicoterapeutico [...] Ma dovremmo prendere in considerazione anche il gran numero
di interazioni tra individuo e gruppo intese come relazioni “di aiuto”. L’interazione
tra il leader della terapia di gruppo e il suo gruppo appartiene a questo tipo di
rapporti. Così è per il rapporto tra il consulente di comunità e la comunità stessa.
Ancora, il rapporto tra il consulente industriale e un gruppo dirigente può essere
inteso come una relazione “di aiuto”.
Forse una enumerazione così lunga potrà farci capire che molte delle relazioni in cui
noi, o i nostri amici, siamo coinvolti, rientra nella categoria dei rapporti destinati a
promuovere uno sviluppo ed un funzionamento maturo e adeguato della persona.
(Rogers, 1989, pp. 68-69)

Gli elementi che caratterizzano il counseling

Cosa è dunque il counseling e quali attitudini richiede a chi lo applica? Abbiamo il


counseling quando un operatore intraprende un colloquio di aiuto con precisi intendimenti
molto generali:

a) Non si propone di realizzare qualcosa di suo, in accordo a un suo progetto o desiderio,


bensì di facilitare che qualcosa che è dentro un’altra persona (il suo interlocutore) si
realizzi secondo le sue proprie potenzialità (Rogers, 1978). Si pone come consulente non
tecnico, quindi non come un esperto tenuto a dare un parere o un consiglio di fronte a una
situazione complessa oggettiva, bensì come un esperto in grado di offrire alla persona (o
alle persone) un supporto metodologico ed emotivo affinché questa possa ragionare e
decidere da sola — ma non in solitudine. Anzi, essa svilupperà la certezza di essere stata in
contatto anche profondo con una persona accreditata che ha osservato e accompagnato il
suo decidere, senza influenzarlo radicalmente ma sorreggendolo e rinforzandolo nei suoi
tratti intrinseci di razionalità, coerenza e sensatezza.

b) Non si propone di curare (una patologia o una disfunzione) bensì di accrescere e di


migliorare (nell’ottica del cosiddetto recovery) (Folgheraiter, 2004). Spesso può accadere
che questo miglioramento si riferisca alle capacità di una persona gravemente scompensata
di modificarsi e cambiare profondamente: così, alla fine il risultato appare come se si fosse
prodotta una "cura" o si fosse risolta una disfunzione. In realtà, si è trattato di una
lievitazione di potenzialità già presenti, piuttosto che di un capovolgimento radicale di
qualità o di essenza di una persona (una brusca riconversione di una struttura psichica
"negativa" in una "positiva").

c) Così come il counselor non pensa di curare patologie, neppure pensa a "risolvere
problemi" in senso stretto. Egli si congiunge a situazioni esistenziali o a problemi di vita
anche gravi e drammatici con l’intento di essere di aiuto, ma non a rigore per cercare
"soluzioni". Egli non si aspetta cioè che tali problemi cessino definitivamente, sostituiti da
uno stato opposto ottimale, la cui immagine risiede nella sua testa e che nel linguaggio
corrente è definito "soluzione". I problemi di vita non ammettono una soluzione ideale (ne
ammettono semmai tante possibili) e dunque non sono neppure problemi in linea logica. In
effetti, il counselor sa di aiutare le persone a fronteggiare la loro situazione di vita, cioè
a gestire il loro vivere così come è, per migliorarlo o renderlo più sopportabile nel suo
perdurare, e non a "risolverle", vale a dire a sostituire meccanicamente la difficoltà con
uno stato ideale predefinito secondo standard oggettivi esterni (Folgheraiter, 1998; 2003).

d) Ciò detto, va precisato che il counseling tipico è un aiuto che spesso viene dato alle
persone in situazioni di vita ordinarie (Burnett, 1977), per compiere scelte o prendere
iniziative del tutto comuni e che quindi non sono connotate da alcun marchio
stigmatizzante, come succede agli utenti dei servizi socio-assistenziali. Tali situazioni di
aiuto "normali" si danno ad esempio con le persone in lutto, con gli studenti nel momento di
compiere scelte di studio o di vita, con i carer nei momenti più duri e difficili del loro
impegno di cura, e così via.

e) Per tutti questi motivi si dice che il counseling per principio guarda "in avanti", alle
realtà future che si delineeranno come conseguenza delle decisioni e delle azioni emergenti
progressivamente dalla relazione di counseling o dalla successiva autonoma capacità di
scelta in capo alla persona interessata. Non mira a rivangare il passato, a trarre diagnosi o
descrizioni o spiegazioni di cause o catene di cause che hanno portato alla difficile
situazione corrente (Folgheraiter, 1998).

f) Il counselor agisce sorretto da una idea precisa della reciprocità. È un operatore


consapevole che "relazione di aiuto" significa che l’aiuto si produce dalla relazione in essere
e quindi da entrambe le parti coinvolte. In questa direzione, l’accrescimento delle capacità
di autodeterminazione della persona è considerato essenziale affinché l’operatore possa
esso stesso funzionare in quanto helper. La teoria del counseling ammette che il
miglioramento sia reciproco, debba sempre verificarsi a carico di entrambi i poli della
relazione, sebbene gli effetti più vistosi appaiano spesso (o siano ricercati) in capo al
cosiddetto utente (Folgheraiter, 1998, 2000; Carkhuff, 1987).

g) Il counselor quindi non pensa di essere efficace e di ottenere risultati in funzione della
sua bravura, bensì in funzione della combinazione di potenzialità che — se si è fortunati e
se ci si crede abbastanza — possono sbocciare e dare frutto. Sul piano "filosofico", si tratta
di passare da una concezione positivistica dell’aiuto, con l’operatore che lo intende come
un suo proprio prodotto ovvero come l’effetto di una sua precisa manipolazione, a una
concezione postmoderna, designabile con vari termini come fenomenologica, o
costruttivistica, o relazionale (Cooper, 2001; Folgheraiter, 2000a; Parton, 2003).

Tratto da Folgheraiter F. (2004), Voce di dizionario "Counseling", "Lavoro Sociale", vol. 4, n.


2, settembre 2004.

Confronto fra il colloquio di aiuto e altri generi di colloquio

Il colloquio non è una conversazione

In una conversazione "ci si siede e si chiacchiera". Si scambiano delle opinioni, sugli altri e
su molti argomenti. Da una semplice conversazione non esce nulla di definito tranne lo
scambio di alcune informazioni possedute dall’uno o dall’altro; non vi è nulla oltre
l'incontro in se stesso, che crea o rinforza un senso di familiarità. Può avvenire che tutta la
prima fase di un colloquio d’aiuto sia del genere "conversazione", per prendere confidenza
e "fare la conoscenza" in modo graduale (il contenuto degli scambi è irrilevante). Ma il
colloquio propriamente detto è tutt’altra cosa e non può limitarsi a ciò.

Il colloquio d’aiuto non è una discussione

In una discussione cerchiamo di sostenere degli argomenti, di rispondere a delle obiezioni,


di parare degli attacchi o delle confutazioni che vengono dalla "parte avversa". I partner
sono "faccia a faccia" nel senso del confronto, della rivalità, della gara. La discussione, per
ciascuno dei due interlocutori, ha delle fasi di offesa e delle fasi di difesa. Una discussione
può essere più o meno appassionata; più frequentemente implica una forma di lotta o di
dibattito "giuridico", con momenti di arringa, di accusa, di difesa, di argomentazione, di
conclusione. I partner sono affettivamente coinvolti (pro o contro) e ciascuno osserva le
reazioni dell’altro. La comprensione dell’interlocutore è "impedita" dalle posizioni personali
preconcette. La relazione che si instaura è dominata dall’alternanza dominazione-
sottomissione e non è una relazione di comprensione propriamente detta.

Il colloquio d’aiuto non è un’intervista nel senso giornalistico del termine

L’intervista giornalistica (per giornali e riviste, per la radio o per la televisione) è un genere
di colloquio "faccia a faccia" in cui uno dei due (il giornalista) cerca effettivamente di far
parlare l’altro su se stesso o su un determinato problema (tema dell’intervista).
Sembrerebbe che questo tipo di colloquio sia centrato sulla persona dell’intervistato e
richieda, da parte del giornalista, un tentativo per comprendere, il più possibile, le opinioni
personali del suo "cliente". Evidentemente si tratta di un’illusione poiché in effetti il
colloquio non è limitato al faccia a faccia. Un terzo partner, enorme e potente, è sempre
presente benché non se ne parli esplicitamente: il pubblico.

L’intervistatore non cerca di comprendere il suo cliente, bensì di interessare il pubblico,


vale a dire di accentuare l’aspetto "spettacolare". L’intervista giornalistica è uno
spettacolo, e il tema posto o proposto è scelto in funzione del pubblico. In ogni modo si
cerca di favorire la curiosità del pubblico (già esistente o al contrario da risvegliare e da
alimentare). L’intervista, giornalisticamente intesa, ha obiettivi estranei all’aiuto.

Il colloquio d’aiuto non è un interrogatorio

In un interrogatorio di qualunque genere (il bombardamento di domande nel corso di


un’inchiesta, un’interrogazione scolastica, un interrogatorio di polizia), colui che viene
interrogato è palesemente in situazione d’inferiorità e le domande sono "sondaggi" che
esercitano una pressione più o meno ostile. Che si esigano risposte precise a determinate
domande o che si verifichi come una persona ha passato il suo tempo per far cadere un
alibi, l’interrogato è sempre in una posizione di sospetto, a volte di accusa, di fronte a un
censore onnipotente che conduce il gioco in maniera autoritaria. Una simile situazione
produce necessariamente nell’intervistato il panico o una reazione difensiva, e lo rende
soprattutto ansioso di trovare "la risposta indovinata", quella che gli permetterà di
cavarsela. L’intervistatore si preoccupa delle domande che deve porre e della maniera in
cui l’altro vi risponde; non si preoccupa delle domande che l’altro si pone né della maniera
in cui se le pone. D’altra parte l’atteggiamento difensivo dell’intervistato non facilita
certamente il dialogo.

Il colloquio d’aiuto non è un "discorso" dell’intervistatore

Succede spesso che il colloquio sia, da parte di colui che per definizione deve accogliere e
ascoltare l’altro, un’occasione per parlare da solo. "Ha parlato soltanto lui", dirà l’altro
uscendo, "non ho potuto dire neanche una parola". Il "discorso" può avere diversi obiettivi
coscienti: tentativo più o meno premeditato di far ammettere qualcosa all’altro o fargli
cambiare opinione, informazioni da dare a senso unico e così via. Possono esserci anche
degli obiettivi inconsci: piacere narcisistico di sentirsi parlare, bisogno di manifestare una
volontà di potenza, paura di ciò che l’altro potrebbe dire e così via. Ciò che è certo è che il
discorso-monologo davanti all’altro è esattamente l’opposto di ciò che occorrerebbe fare
per comprenderlo.

Il colloquio d’aiuto non è una confessione

L’atteggiamento (e il ruolo) del confessore implica una valutazione morale di ciò che l’altro
dice, come una serie di confessioni che lo colpevolizzano. Malgrado egli abbia intenzione di
perdonare o di assolvere, il confessore si connota come detentore di una regola morale o
religiosa, come "moralmente superiore" o come giudice. L’altro (l’intervistato) è quindi
nella situazione di colui che ha infranto o rischia di aver infranto la legge morale. Può
capitare che il colloquio d’aiuto assuma, in certi momenti, le caratteristiche di una
confessione; questo però non significa che l’atteggiamento dell’operatore debba essere
quella del confessore o del direttore spirituale. Il suo obiettivo non è quello di "liberare
dalla colpa" né di giudicare (punire o perdonare) ma di comprendere la situazione
dell’altro.

Il colloquio d’aiuto non mira a una diagnosi

Nell’interrogatorio a scopo diagnostico, il medico, lo psicologo o il terapeuta ha in mente


un insieme di "quadri clinici", di tipi di disturbo o una classificazione di casi; il suo
interrogatorio ha per obiettivo sapere in quale "casella" si colloca il suo cliente.
L’intervistatore è contento (potente, riconosciuto e autorassicurato) quando ha ottenuto la
sua diagnosi. Lungi dall’aver compreso una singola persona, nell’unicità della sua esistenza,
ha fatto rientrare il suo "caso" in un "contenitore predisposto" e si immagina con ciò di
averlo compreso. In realtà egli si è fatto sfuggire l’essenziale: il vissuto del cliente.

Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al


colloquio di aiuto, Trento, Erickson, pp. 27-29.

Chi può fare uso delle abilità di counseling?

Avete mai avuto problemi, a livello personale? Può darsi senz’altro che la risposta sia
affermativa. Siamo arrivati alla conclusione che non ci sia nessuno, o quasi, che non abbia
mai avuto problemi di un qualche tipo. Non è il caso di disperare: avere dei problemi non
preclude la possibilità di dare una mano agli altri. Con una nota di cautela, però. Se
decidete di fare uso di queste abilità di counseling, è probabile che gli altri si sentano
incoraggiati a condividere con voi parte dei loro problemi, o delle cose che li preoccupano.
Ora, ascoltare i problemi degli altri può anche essere un’azione di grandissimo impegno
emotivo. Tanto più se siete voi i primi ad avere dei problemi che si intromettono in
continuazione nella vostra vita. Se ciò avviene, è possibile che tali problemi ostacolino, in
modo anche grave, la vostra effettiva capacità di dare una mano agli altri.

C’è poi da considerare il rischio che vi troviate soffocati, da un momento all’altro, dal peso
simultaneo dei vostri problemi e di quelli altrui. È chiaro, come vedremo nel corso del
libro, che nell’utilizzo delle abilità di counseling non si possono non considerare le
eventuali ripercussioni su ciascuno di noi. Tali ripercussioni, del resto, possono anche
essere di segno positivo; una buona capacità di impiego di queste abilità, anzi, ci darà non
solo la soddisfazione del dare una mano agli altri, ma servirà anche a migliorare le nostre
relazioni interpersonali.

Aiutare gli altri nei problemi della vita quotidiana, in effetti, non è una prerogativa degli
"esperti", operatori qualificati ad hoc. Al contrario, è un’attività che la maggior parte di noi
svolge abitualmente, di tanto in tanto, quando se ne presenta la necessità. Un’attività che
si svolge in modo del tutto naturale, e che ciascuno di noi impara a fare, dall’infanzia in
avanti. Chiunque di noi, scavando nella memoria, si potrebbe ricordare almeno un
momento in cui ha avuto occasione di ascoltare qualcuno che stava male, aiutandolo — per
ciò stesso — a sentirsi un po’ meglio.

Proviamo a fare un elenco — che potrebbe essere senz’altro più lungo — degli ambiti
professionali che potrebbero essere maggiormente interessati a sviluppare le abilità di
counseling: servizi sociosanitari, studi di consulenza, progetti per i giovani, studi legali,
servizi abitativi, organizzazioni caritative e di volontariato, servizi di emergenza, ecc. Ma
anche a leader religiosi o spirituali, insegnanti, carer informali, e tanti altri potrebbe
essere utile.

Avete mai notato che c’è qualcuno che ha una specie di talento naturale nell’ascoltare gli
altri, e nell’aiutarli a risolvere i loro problemi? Se avete un talento di questo tipo, l’avrete
forse capito da tutte le persone che vengono a chiedervi un consiglio, quando hanno
qualche problema che le assilla. Ciascuno di noi, beninteso, ha un certo livello di
competenza, e di efficacia, nell’arte dell’ascoltare gli altri. Siamo comunque convinti che,
con l’apprendimento di determinate abilità specifiche, questo "livello" possa migliorare un
po’ per tutti.

Utilizzare le abilità di counseling significa diventare un counselor?

Se vogliamo rispondere con una parola soltanto, questa è "no". È importante chiarire da
subito la differenza tra l’uso di alcune abilità elementari di counseling, nella vita di tutti i
giorni, e la pratica professionale del counseling stesso. Per meglio illustrare la differenza,
descriveremo a parte ciascuno dei due elementi:

 il counseling;
 l’utilizzo delle (o meglio, di alcune) abilità di counseling.

Il counseling è cosa ben diversa dall’utilizzo di determinate abilità di counseling nella


vita di tutti i giorni

Il counseling

Apprendere l’utilizzo delle abilità elementari del counseling nella sfera della vita
quotidiana non vuol dire, di per sé, acquisire le abilità professionali di un counselor. È
possibile comunque che alcuni lettori, entusiasti della loro esperienza nel mettere in
pratica queste abilità di base, decidano di intraprendere un vero e proprio percorso
formativo per counselor.

Chiunque voglia diventare counselor dovrebbe frequentare un corso di studi specifico, con
il supporto di un’esperienza di tirocinio, e con un’adeguata supervisione. Un counselor
deve avere maturato una buona competenza in psicologia e nei processi dello sviluppo
umano, oltre che un’adeguata conoscenza delle teorie del counseling e di molteplici altri
approcci teorici. Deve inoltre fare riferimento a uno specifico modello teorico, da cui
deriva un determinato stile di intervento — o l’integrazione di più stili diversi, ricavati da
altre teorie — sul piano della pratica professionale. Un buon counselor deve essere in grado
di servirsi di molteplici abilità, tecniche e strategie diverse, anche in relazione allo stile di
intervento prescelto.

Molti counselor operano all’interno di un setting strutturato — poniamo, uno studio


professionale — in cui si presentano, a cadenza periodica e con orari predefiniti, le persone
che chiedono loro aiuto (i loro "clienti"). Ci sono anche counselor che scelgono un ambiente
di lavoro più informale, ma anch’essi si attenderanno, normalmente, che sia il cliente a
rivolgersi a loro, chiedendo un certo tipo di sostegno psicologico.

La pratica professionale del counseling risponde a tutta una serie di criteri e di linee
guida, fissate da organismi professionali che stabiliscono gli standard di accreditamento, e i
livelli di competenza, richiesti agli operatori. Ogni counselor deve rispondere a un codice
professionale, in cui si sottolinea l’importanza del massimo rispetto per i valori, le
esperienze, i pensieri, i sentimenti e la capacità di decidere da soli, da parte dei clienti. Lo
scopo è sempre quello di soddisfare nel miglior modo possibile gli interessi del cliente
(BACP, 1999). Oltre a questo, ogni counselor deve rispondere a principi etici come il
rispetto dei confini che si danno alla relazione, la buona qualità della relazione stessa e la
sua congruenza con gli obiettivi a cui risponde ogni singolo intervento di counseling.

> I confini della relazione tra counselor e cliente

Ogni intervento di counseling si svolge, normalmente, in un setting che garantisca


riservatezza, ma anche un adeguato senso di sicurezza fisica ed emotiva, sia per il cliente,
sia per lo stesso counselor. Sin dal primo incontro tra le parti occorre chiarire la natura e lo
scopo della relazione che si verrà a creare, nel rispetto, anche dal punto di vista etico, di
determinati "paletti". Non è opportuno che i counselor entrino in contatto con i clienti per
ragioni di tipo personale, che esulano dalla relazione d’aiuto.

> Le qualità di una buona relazione di counseling

La qualità delle relazioni instaurate da un counselor non è necessariamente la stessa che si


richiede nelle situazioni, lavorative o di altro tipo, in cui possiamo impiegare certe abilità
di counseling nel corso della vita di tutti i giorni.

Ci si potrebbe a questo punto domandare che differenza c’è tra la relazione d’aiuto che si
crea in un intervento di counseling professionale, e le "normali" relazioni sociali in cui si
utilizzano le abilità di counseling. La differenza principale sta nella diversa qualità della
relazione tra il counselor e il suo interlocutore.

I counselor mettono da parte i loro personali bisogni, e si sforzano di concentrarsi soltanto


sulle esigenze del cliente. Anche un amico o un collega potrebbe fare lo stesso, almeno per
un po’ di tempo, ma è difficile — senza una preparazione specifica — che riesca a mettere
da parte le proprie preoccupazioni, concentrandosi soltanto sull’altro.

Un counselor professionista, invece, dovrebbe essere in grado di mettere da parte i propri


interessi e dedicarsi interamente all’altra persona, per tutta la durata della seduta. Un
buon counselor deve sapersi occupare esclusivamente di ciò che gli racconta il cliente,
senza "intromettersi" con i suoi pensieri o con i suoi problemi. Una cosa ben diversa, come
si può vedere, dalla normale conversazione tra amici o colleghi di lavoro.

Una relazione di counseling, inoltre, non prevede quella forma di reciprocità che si può
incontrare, normalmente, in un’amicizia.Il counseling, in un certo senso, è un processo
unidirezionale. Il counselor invita il cliente a condividere con lui pensieri, sentimenti,
esperienze e problemi; da parte sua, però, non dovrà fare particolari sforzi di
"condivisione", se non nella misura in cui questi vanno a diretto beneficio del cliente. Anche
sotto questo profilo, è qualche cosa di ben diverso da una relazione d’amicizia, in cui due
persone possono condividere le rispettive esperienze e, in tal modo, rafforzare il legame
che le unisce.

Una relazione di counseling, inoltre, non può assolutamente essere di natura autoritaria. Il
counselor deve fare del suo meglio per dare vita a una relazione orizzontale, di parità,
con la persona che aiuta. Un rapporto ben diverso, per intenderci, da quello che si crea tra
un’équipe di operatori e chi ne supervisiona o ne coordina le attività, in un contesto
lavorativo. In tale contesto, un dirigente è pienamente legittimato a dare ordini, istruzioni,
indicazioni al personale di sua competenza, in modo da realizzare, con le attività
necessarie, gli obiettivi previsti dall’azienda, o dal servizio pubblico. In questa situazione il
rapporto tra le parti non è certo paritario, ma queste potranno comunque fare uso, laddove
opportuno, delle loro abilità di counseling.

Nelle relazioni sociali "normali", ciascuno di noi cerca spesso di convincere gli amici a fare
ciò che vorrebbe lui, o ciò che ritiene sia "meglio" per loro. Non è così che si comporta un
counselor. Questi tenderà a incoraggiare gli altri a fare ciò che loro vorrebbero, più che ciò
che egli si aspetterebbe, al posto loro. È per questo che un buon counselor dovrebbe
sempre cercare di evitare, per quanto possibile, di dare consigli ai clienti.

I counselor, in effetti, non offrono quasi mai consigli, né suggerimenti, circa il modo in cui
un determinato problema — dal punto di vista degli "esperti" — si presterebbe a essere
risolto. Tendono, semmai, a incoraggiare i clienti nella scoperta delle loro risorse, e delle
loro personali soluzioni. Viceversa, in un rapporto di amicizia, di lavoro o di supervisione,
rientra nell’ordine delle cose — al di là di un eventuale utilizzo delle abilità di counseling —
che si diano consigli o suggerimenti a chi si trova in difficoltà.

> Le finalità del counseling

L’attività di counseling si propone, normalmente, di aiutare gli altri ad affrontare


determinati problemi che li assillano. Può anche voler dire, molte volte, aiutare le persone
a maturare un atteggiamento più positivo e fiducioso, nel fronteggiare i problemi della vita.
Ci si può rivolgere al counseling, d’altra parte, con le motivazioni più svariate. Ci si può
sentire, ad esempio, sconvolti emotivamente, per la perdita di una persona cara; o magari
soli e depressi, per problemi di tipo relazionale, per lo stress, l’ansia, per pensieri ossessivi
e ricorrenti, legati a certe esperienze del passato. In molti casi, il counseling aiuta
effettivamente a sviluppare nuove abilità, e a fare un’esperienza di crescita personale.
Risolvere delle questioni problematiche, o maturare la capacità di fronteggiare i problemi,
sono quindi due degli scopi più comuni del counseling.

La pratica del counseling si fonda su un insieme di regole e di linee guida, stabilite da


un organismo professionale appropriato, in accordo con un codice professionale incentrato
sul rispetto per i valori, l’esperienza, i pensieri, i sentimenti e la capacità di
autodeterminazione dei clienti.

Utilizzare le abilità di counseling

Ogni volta che qualcuno si sente preoccupato o disorientato, magari perché deve prendere
una decisione difficile o risolvere un problema, le abilità di counseling possono essere
d’aiuto. Un medico potrebbe farne uso nel curare un paziente che ha subito lesioni fisiche
nel litigare pesantemente con qualcuno. Un impiegato se ne potrebbe avvalere per aiutare
il collega in difficoltà a gestire il suo carico di lavoro. E gli esempi potrebbero continuare:
un insegnante — tanto per farne un altro — potrebbe mettere in pratica queste abilità di
counseling, al fine di aiutare uno studente a parlare delle sue difficoltà nello studio.

Le abilità di counseling trasformano le relazioni sociali in cui si applicano? Le relazioni della


vita di tutti i giorni non sono le stesse che si creano tra counselor e cliente, né è opportuno
che lo diventino.

 Se si è amici. In un autentico rapporto di amicizia, è difficile che l’altra persona


apprezzi un vostro eventuale tentativo di farle da counselor. L’amicizia è fatta di
reciprocità, di condivisione e di mutuo sostegno. È probabile, quindi, che l’altra
persona apprezzi la vostra disponibilità a lasciarla parlare delle cose che la
preoccupano, attraverso abilità interpersonali come un ascolto attento e rispettoso,
che servirà — insieme con altre abilità comunicative — a metterla più a suo agio,
nel raccontarvi il problema. A differenza di quanto avviene nel counseling, però,
non avrete particolari confini etici, o regole formali, da osservare; si tratterà,
semplicemente, di un normale (e bidirezionale) rapporto di amicizia. Tanto per
dire, sarete liberi di raccontare, a vostra volta, eventuali esperienze o problemi
dello stesso tipo, che vi è capitato di affrontare. Nella cornice di un rapporto di
amicizia è senz’altro possibile, e anzi auspicabile, condividere le rispettive
preoccupazioni. A seconda del rapporto con l’altra persona, potreste anche
metterle una mano sulla spalla, o magari abbracciarla, per rassicurarla o per
consolarla.
 Per un manager. Se questo è il vostro caso, rivestite un ruolo che vi richiede in
continuazione di prendere delle decisioni che coinvolgono gli altri, facendo uso del
potere che vi è stato conferito. I vostri rapporti con gli altri, quindi, non potranno
certo ricalcare quelli tra counselor e cliente. Non potrete nemmeno aspettarvi
dalle persone con cui lavorate un’eccessiva disponibilità a confidarsi, o a mettersi
in gioco, al di là di limiti ben precisi. Con un utilizzo appropriato delle abilità di
counseling, tuttavia, potrete aiutare i vostri collaboratori a parlarvi dei loro
problemi lavorativi, a prendere meglio le loro decisioni e quindi a sentirsi meglio.
Non dovrete mai dimenticare, però, il tipo di relazione che intercorre tra di voi. Il
vostro ruolo è quello del manager, e tale dovrà rimanere; all’interno di questo
ruolo, però, potrete applicare le abilità di counseling, per rendere più facile la
comunicazione e il confronto sui problemi del lavoro.
 Per un infermiere. In questo caso, sarete abituati ad avere rapporti di tipo
professionale con i vostri pazienti, nella cornice dei servizi sanitari. Si tratta,
beninteso, di rapporti assai diversi da quelli che si creano tra counselor e cliente;
ciononostante avrete senz’altro la possibilità, con un utilizzo calibrato delle abilità
di counseling, di aiutare i pazienti a sentirsi emotivamente meglio.

Avrete forse notato, da questi esempi, che l’utilizzo di queste semplici abilità di counseling
non incide sulla natura dei rapporti tra la persona che ne fa uso e il suo interlocutore.
L’amico continuerà a essere nulla più che un amico; il manager continuerà a rapportarsi
con i suoi collaboratori nel ruolo di manager; altrettanto si dica per l’infermiere. Non
sarebbe corretto, né opportuno, tentare di cambiare le carte in tavola. La relazione tra le
parti, nella sostanza, è sempre la stessa, ma l’esperienza suggerisce che, attraverso l’uso
corretto delle abilità di counseling, essa potrà migliorare.

Al contrario del counseling professionale, in cui è raro che si diano dei consigli espliciti e
diretti, le "normali" abilità di counseling possono anche essere impiegate in contesti in cui
è opportuno, se non necessario, dare informazioni, o veri e propri consigli. In certi casi,
è innegabile che dare consigli sia utile per aiutare qualcuno a risolvere un problema, o ad
assumere una decisione. Ciò è tanto più vero se chi fa uso delle abilità di counseling
dispone di conoscenze, o di esperienze, che l’altra persona non ha. È quello che potrebbe
fare una madre, ad esempio, mentre ascolta la figlia adolescente che è in rotta di collisione
con la sua migliore amica. Nel suo ruolo di genitore, può anche essere appropriato, a
seconda delle circostanze, che dia dei suggerimenti alla figlia, se non degli espliciti
consigli. Per fare un altro esempio, il responsabile del personale di un’azienda potrebbe
affrontare, con le sue abilità di counseling, il problema della scarsa puntualità di una
dipendente che è appena tornata al lavoro, dopo un congedo per maternità; al tempo
stesso, le potrebbe dare dei consigli, facendo riferimento alle regole aziendali sul rispetto
degli orari.

Ogni volta che facciamo uso delle abilità di counseling dobbiamo riconoscere che ci
stiamo sforzando, deliberatamente, di comunicare in un modo diverso da quello della
normale conversazione.

Che risultati possiamo ottenere grazie alle abilità di counseling?

Sarebbe interessante capire quali siano le aspettative di ciascuno di noi, quando ci viene da
domandarci: "Che risultati possiamo ottenere, grazie alle abilità di counseling?". Anche in
questo caso, varrebbe forse la pena fermarsi un attimo a riflettere, per mettere meglio a
fuoco queste aspettative. Se siete d’accordo, vi proponiamo di annotarle nello schema
seguente:

Mi piacerebbe impiegare le mie abilità di counseling, per aiutare gli altri a:

1. ..............................................................................

2. ..............................................................................

3. ...............................................................................

4. ...............................................................................

A nostro giudizio, le abilità di counseling possono servire a portare conforto a chi vive una
situazione di sofferenza, e più in generale ad aiutare le persone in difficoltà a:

 affrontare le loro emozioni, in modo da sentirsi meglio;


 far fronte a pensieri o idee che sono motivo di preoccupazione;
 trovare delle soluzioni ai propri problemi;
 assumere decisioni;
 sentirsi più sicuri di sé;
 rileggere — e forse cambiare — i propri comportamenti, per quanto riguarda i
rapporti con gli altri.

Chiunque di noi, riflettendo un po’ sul passato, si ricorderà probabilmente di qualcuno che
lo ha aiutato, con la sua paziente capacità d’ascolto, ad affrontare una situazione
emotivamente difficile, o a risolvere un problema. Ciascuno di noi, cioè, ha già avuto
probabilmente a che fare con qualcuno che, in modo più o meno consapevole, ha fatto uso
delle proprie abilità di counseling, per aiutarlo.

 Che tipo di esperienza era?


 Quali sono gli aspetti più significativi di quell’esperienza, di cui ancora oggi
abbiamo il ricordo?
 Riusciamo a ricordarci come ci sentivamo, in quel momento particolare?
 Ci ricordiamo anche che cosa avesse fatto quella persona, per aiutarci?

Probabilmente sarà più facile ricordarci quanto in seguito ci siamo sentiti meglio più che
non ciò che l’altra persona ha effettivamente detto o fatto per aiutarci. Anzi, se quella
persona ha fatto un buon uso delle sue abilità di counseling, difficilmente avremo colto le
parole che ha usato.

Aiutare gli altri, con le normali abilità comunicative, è qualche cosa che tutti noi
impariamo a fare — e che, molte volte, facciamo naturalmente — lungo tutto il corso della
nostra vita. Potremo risultare molto più efficaci, però, se impareremo anche a fare un uso
corretto di alcune abilità di base del counseling.

Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling nella


vita quotidiana, Trento, Erickson, pp. 11-21.

BREVI NOTE SUGLI ATTEGGIAMENTI SPONTANEI


Con il test precedente hai scoperto quali atteggiamenti ti viene spontaneo utilizzare nella
relazione di aiuto. Mucchielli ne ha individuati sei e ne ha analizzato gli effetti sul
colloquio. Benché tutti abbiano l’intento di offrire un aiuto, cinque tra essi possono correre
il rischio di ostacolare il colloquio, impedendo all’interlocutore di esprimere veramente i
suoi sentimenti e i suoi vissuti.

Questi atteggiamenti sono: Valutazione, Interpretazione, Sostegno, Indagine e Soluzione.

Tutti hanno in comune due potenziali difetti principali:

 Possono rendere difficile per l’interlocutore l’esplorazione ampia e serena della sua
situazione o del suo problema, soprattutto se utilizzati all’eccesso.
 Sono centrati sull’helper, ovvero sono direttivi, e si riferiscono a ciò che lui pensa,
impedendo di comprendere a fondo ciò che l’interlocutore, verbalmente o meno,
sta esprimendo.

Il sesto, l’atteggiamento di Comprensione, è capace di comunicare il desiderio di


comprendere davvero la persona e di accompagnarla nell’esplorazione della sua situazione.

Nel prossimo modulo troverai una spiegazione dei primi cinque atteggiamenti e dei loro
potenziali effetti dannosi.

L’oggetto specifico del nostro corso è l’atteggiamento di comprensione perciò iniziamo


subito a vedere cosa implica e come si trasmette, per impostare il colloquio di aiuto in
modo efficace.

Una premessa necessaria riguarda il limite implicito che un corso come questo può avere
sull’apprendimento di atteggiamenti. E’ chiaro che la comprensione delle implicazioni
positive o negative dell’assunzione di un atteggiamento piuttosto che degli altri riguarda il
campo della pratica e quindi va ben al di là delle possibilità formative di un corso base di
counseling (che sia on line o in aula). Quel che cercheremo di fare è di rendere espliciti
alcuni effetti che possono provocare le risposte dell’helper, invitando ciascuno a riflettere
sulla sua esperienza personale.

L'ATTEGGIAMENTO DI COMPRENSIONE

L’atteggiamento di comprensione si differenzia da tutti gli altri perché non è centrato


sull’helper ma nasce dal tentativo di entrare nel problema così come è vissuto
dall’interlocutore. Le risposte di comprensione possono essere di diverso tipo, ma mirano
tutte a “ritornare”, in sintesi e con altre parole, alla persona che parla, l’essenza o
parte di ciò che ha detto esplicitamente o implicitamente, focalizzando i fatti o le
emozioni o i vissuti personali.

L’effetto della risposta di comprensione è di accrescere la fiducia e la motivazione


dell’interlocutore a proseguire e approfondire la sua narrazione.

L’atteggiamento di comprensione, così come gli altri, non si manifesta solo attraverso le
parole. E’ anzitutto una disposizione personale, che deve essere fatta propria dall’helper e
poi resa evidente all’interlocutore attraverso tutti i canali possibili: il luogo dell’incontro e
i messaggi non verbali sanno veicolare il desiderio di comprendere tanto quanto le parole.
La figura proposta di seguito (da M.L. Raineri) ci aiuta a focalizzare gli elementi cruciali
dell’atteggiamento di comprensione, che andiamo ora brevemente a definire uno per uno.

Oggetto della seconda parte del nostro corso saranno le principali tecniche di counseling,
ma a questo punto una premessa è cruciale.

L’utilizzo delle tecniche senza un sostanziale impegno a far propria l’idea che le sorregge,
difficilmente porta a qualche risultato nella relazione di auto. Quando si sperimentano
nella vita concreta le abilità proposte in questo corso e non si ottengono gli esiti sperati, è
molto facile attribuirne la colpa al metodo che non funziona. Varrebbe prima la pena,
invece, riflettere se nell’occasione concreta c’erano i presupposti della comprensione,
ovvero se il nostro atteggiamento, il luogo dove eravamo, il modo in cui ci stavamo
relazionando con l’altro erano adeguati oppure no. Una risposta può anche essere
“tecnicamente” sbagliata ma veicolare comunque il nostro desiderio di comprensione e
quindi essere efficace. Viceversa, una risposta tecnicamente perfetta ma priva di anima
difficilmente darà il risultato sperato.

Leggiamo da Mucchielli (Principi del colloquio di comprensione) i principi evidenziati da


Rogers per un efficace colloquio comprensione, ovvero un collquio che voglia comprendere
il problema dal punto di vista dell’interlocutore.

Tenendo presente la figura riportata in precedenza, analizziamo ciascuno degli elementi


che concorrono a rendere un colloquio un buon luogo di comprensione.

Anzitutto l’ovale “interno” delimita la disposizione interna, dove trovano posto i tre
atteggiamenti personali che Rogers ha sempre ritenuto condizioni necessarie e sufficienti
per realizzare l’aiuto, ovvero congruenza (o genuinità), accettazione incondizionata,
empatia.

Di seguito prendiamo direttamente da Carl Rogers la loro definizione.

Congruenza (o genuinità)

Nella relazione d’aiuto l’helper cerca di essere sempre se stesso ed essere collegato con i
sentimenti che prova.

“In primo luogo pongo l’ipotesi che la crescita di una persona sia facilitata quando il
terapeuta è ciò che è, quando nel rapporto con il suo cliente è autentico, senza maschera o
“facciata” [...] è disponibile ai propri sentimenti ed è perciò capace di viverli, di essere in
rapporto con loro e di comunicarli, se opportuno. Vuol dire che il terapeuta entra in un
rapporto personale diretto con il cliente, incontrandolo da persona a persona; vuol dire che
è proprio se stesso, senza alcuna riserva. Nessuno raggiunge completamente questa
condizione, tuttavia quanto più il terapeuta sa ascoltare con accettazione ciò che passa
dentro di lui tanto più è congruente.” (Rogers, 1989, p. 89)

Accettazione incondizionata

L’helper cerca di mantenere una disposizione positiva verso il suo interlocutore senza
condizioni, indipendentemente da ciò che questi fa, pensa o dice.

“Posso accettare, dell’altra persona, ogni aspetto che mi presenta? Posso accettarlo così
com’è? Posso comunicargli questo atteggiamento? O lo accetto solo sotto condizione,
approvando alcuni aspetti dei suoi sentimenti e dissapprovando tacitamente o apertamente
gli altri aspetti? Secondo la mia esperienza se il mio atteggiamento è condizionato l’altro
non cambia, nè cresce, almeno in quegli aspetti che non riesco ad accettare
completamente.” (Rogers, 1989, p. 83)

Empatia

Sulla base delle due disposizioni di cui sopra, l’helper può cercare di mettersi nei panni
dell’interlocutore per comprendere la sua situazione attuale, i suoi sentimenti, i suoi
vissuti.

“Sentire il mondo personale del cliente “come se” fosse nostro, senza però mai perdere
questa qualità del “come se”, questa è empatia; sentire l’ira, la paura, il turbamento del
cliente, come se fossero nostri, senza però aggiungervi la nostra ira, la nostra paura, il
nostro turbamento, questa è la condizione che tentiamo di descrivere.” (Rogers, 1989, p.
57)

Aggiungiamo ancora da Rogers che “gli atteggiamenti descritti non hanno senso se non in
una atmosfera di grande rispetto per la persona e per le sue capacità potenziali. Se il punto
centrale del sistema di valori del terapeuta non è la dignità della persona, egli non è in
grado di provare un interessamento reale o un desiderio di capire, e forse non rispetterà
abbastanza se stesso da essere autentico.” (Rogers, 1989, p. 98)

Per approfondire meglio la disposizione personale cui l’helper dovrebbe tendere per
ottenere una buona relazione d’aiuto, invito allo studio de Gli atteggiamenti dell'helper
(Folgheraiter, Hough e Geldard e Geldard).

A chi desideri soffermarsi ancora sull’argomento, suggerisco inoltre un saggio di Rogers che
mi pare interessante perchè riporta l’esperienza che l’autore stesso ha fatto, nella vita e
nella professione, di questi elementi fondamentali. Si tratta di una saggio collocato in una
delle opere più tardive. Il saggio è Esperienze nella comunicazione, contenuto in Un modo
di essere. I più recenti pensieri dell'autore su una concezione di vita centrata-sulla-
persona.

Infine, segnalo il capitolo 5 di Psicoterapia e relazioni umane (Rogers e Kinget, 1970),


interamente dedicato a nozioni teoriche sul terapeuta.

Dal momento che l’atteggiamento interno è senz’altro un prerequisito centrale per poter
applicare le tecniche in modo non meccanico ma motivato, propongo a questo punto di
verificare le nozioni e, soprattutto, di ragionare sulla loro spendibilità nel proprio contesto
di vita.

Principi del "colloquio di comprensione" o "colloquio centrato sul cliente"

L’approccio di "centrarsi sul cliente" per comprendere il problema come è vissuto dalla
persona presuppone, logicamente, determinati principi che possono essere formulati nel
modo seguente:

1. Un atteggiamento di interesse "aperto", ossia una disponibilità integrale, senza


alcun pregiudizio o preconcetto di qualunque tipo, un modo di essere e di fare che
sia un incoraggiamento continuo all’espressione spontanea dell’altro.
2. Un atteggiamento non giudicante che permette di ricevere e di accettare tutto
senza critiche, né colpevolizzazioni, né consigli.
3. Un atteggiamento di non direttività, basato sul presupposto che non vi sia nulla di
"nascosto" da cercare o da verificare e che il cliente abbia la completa iniziativa
nella presentazione del problema e nell’"itinerario" del colloquio.
4. Un’intenzione autentica di comprendere l’altro nella sua propria lingua, di
pensare con le sue parole, di scoprire il suo universo soggettivo. Ossia cogliere i
significati che la situazione ha per il cliente.
5. Uno sforzo costante per rimanere obiettivo e per controllare tutto ciò che avviene
nel corso del colloquio.

Questo richiede qualche cosa d’altro oltre la semplice buona volontà. Richiede una
formazione e un metodo. In un certo senso, il problema del metodo è comune a tutte le
scienze umane. La loro "oggettività" non è quella delle scienze naturali. Lo sforzo di essere
oggettivi non è importante in nessun’altra cosa più che nella comprensione di una persona;
questo sforzo esige, allo stesso tempo, da parte di chi assiste, una "fredda" intelligenza e
l’immersione nella soggettività del cliente: questo sforzo viene chiamato "empatia", sforzo
di decentrarsi da se stessi per entrare nell’universo dell’altro e comprenderlo umanamente.

Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al colloquio di 
aiuto, Trento, Erickson, pp. 32­33.

Le disposizioni personali dell’operatore di aiuto: da Rogers a Carkhuff

Tratto da Folgheraiter F. (1993), Introduzione all’edizione italiana. In Carkhuff R., L’arte


di aiutare. Manuale, Trento, Erickson, pp. 22-24.

Come noto, Rogers aveva individuato una "triade" di atteggiamenti personali che lui
riteneva - e ha sempre continuato a ritenere, nonostante le pressioni contrarie di qualche
suo scolaro, Carkhuff tra i primi - condizioni necessarie e sufficienti perché i processi
interpersonali si dispieghino in senso costruttivo e pertanto l’aiuto (comunque lo si intenda:
integrazione del sé; capacità di autonomia e di soluzione di problemi; pienezza della vita
emozionale, ecc.) si realizzi. Questi atteggiamenti - che Carkhuff ha poi accolto come
essenziali - Rogers li ha elencati in ordine non casuale, ma seguendo una precisa linea di
priorità e di importanza. Vediamoli sinteticamente.

1. La genuinità (o spontaneità)

La prima di queste disposizioni umane individuate da Rogers è la genuinità o la spontaneità


dell’operatore di aiuto. "Tutti noi conosciamo individui di cui ci fidiamo perché sentiamo
che essi sono realmente come appaiono, aperti e trasparenti; in questo caso sentiamo di
avere a che fare con la persona stessa, non con una facciata cortese o professionale.
Questa è la genuinità" (Rogers, 1970, p. 1695).

Nel processo di aiuto, la genuinità dell’operatore si evidenzia nell’essere sempre se


stesso, sempre in collegamento con i propri sentimenti e con ciò che nel rapporto si sta
svolgendo dentro di lui, senza sentire la necessità di negarlo o di distorcerlo. "L’operatore
genuino non nega la propria personalità, ma la esprime" (Rogers, 1970, p. 1695). La
genuinità implica la congruenza fra i livelli psicologici (fra ciò che si sente, ciò che si
pensa, ciò che si fa e ciò che si è). In concreto, questa disposizione porta l’operatore a non
innalzarsi sul piedistallo dato dal "ruolo" di esperto o di terapeuta (a non sentire il piacere
di essere superiore e di comunicarlo all’altro in forma implicita) né a proteggersi dietro il
ruolo, mettendo avanti la tecnicità professionale per evitare un autentico coinvolgimento
personale, necessario all’aiuto, ma non sempre facile da sostenere.

L’invito alla spontaneità è una raccomandazione astratta, senza contenuti o condizioni.


Nella relazione di aiuto essere se stessi è necessario di per sé, secondo Rogers. Ma è del
tutto evidente - come Mucchielli ha efficacemente sottolineato - che l’operatore non può
semplicemente dar sfogo a se stesso. Perché l’aiuto sia efficace occorre che il Sé
dell’helper sia liberato da atteggiamenti connaturati di tipo distruttivo che, se espressi
liberamente (genuinamente) nella relazione, bloccherebbero senz’altro ogni progresso della
persona.1

Data questa premessa, che l’operatore sia un essere psicologicamente costruttivo, la


genuinità (l’aperta visibilità di questo suo essere) è, per Rogers, la condizione-base
dell’aiuto, sulla quale vanno a poggiare tutte le altre. Se la persona avverte che
l’operatore non è se stesso nella relazione, ma finge o si difende o mistifica, qualsiasi cosa
egli faccia in seguito (anche di tecnicamente o "superficialmente" corretto) rischierà di
essere squalificato in via preventiva, come se fosse qualcosa di cui, non si sa perché, ma è
meglio non fidarsi. Senza genuinità, l’helper è reso da se stesso inefficace prima ancora di
iniziare ad operare.

2. L'accettazione incondizionata (o considerazione positiva incondizionata)

La seconda disposizione umana è ciò che Rogers chiama accettazione incondizionata o


considerazione positiva incondizionata. Con questa dizione si intende l’atteggiamento di
non porre delle condizioni al fatto di "accettare" o di mantenere una positiva disposizione
verso la persona cui il nostro aiuto è rivolto. La persona è accettata, indipendentemente da
ciò che pensa, fa, o dice, solo per quello che è e per la sua motivazione di cambiare. "Il
terapeuta deve comunicare al suo cliente il profondo e sincero interesse per lui come
persona con potenzialità umane, un interesse non contaminato da un giudizio sulle idee, sui
sentimenti o sul comportamento del paziente" (Rogers, 1970, p. 1696). L’atteggiamento di
accettazione incondizionata si riflette nella capacità dell’helper di interagire senza dare
giudizi morali, né di riprovazione né di approvazione.2

Ciò non significa che l’operatore debba restare indifferente agli aspetti etici connessi a ciò
che la persona dice o fa, ma semplicemente ribadire che il processo di aiuto è
un’opportunità che si offre alla persona per prendere piena consapevolezza di
comportamenti o modi di essere che possono presentarsi come moralmente riprovevoli,
anzi che spesso lo sono, proprio perché è anche per questo che l’aiuto è richiesto. Il
processo di aiuto deve servire a rinforzare questa presa di coscienza morale nella persona e
la disponibilità a cambiare; non dev’essere un’arena nella quale l’helper possa dar sfoggio
della sua superiorità morale, bollando le incapacità della persona attraverso dei giudizi.
Anche se l’atteggiamento di accettazione, come la non direttività, può essere declinato con
gradualità3 ma, in generale, il poter trovare un interlocutore non giudicante e affettuoso è
per Rogers la condizione essenziale per lo sviluppo di una piena maturità della persona.

3. La comprensione empatica

Il terzo atteggiamento individuato da Rogers è la comprensione empatica. Mentre le prime


due disposizioni, appena descritte, costituiscono il terreno di base su cui si costruisce il
rapporto con l’altra persona, quest’ultima disposizione è più fine, per così dire, e
interviene quando già il rapporto esprime i suoi contenuti e la sua dinamica particolare. La
comprensione empatica riguarda appunto la capacità dell’helper di cogliere
accuratamente la situazione personale di colui che gli sta di fronte: da ciò che dice (dai
contenuti oggettivi delle sue espressioni) e da ciò che è (dal suo rivelarsi nel "non verbale").

Per Rogers, empatia significa "capacità di mettersi al posto dell’altro, di vedere il mondo
come lo vede costui " (Rogers e Kinget, 1982, p. 92). Questa comprensione dell’altro "nei
suoi significati più intimi e personali come se fossero i propri, senza d’altronde dimenticare
che in realtà non lo sono" (Rogers e Kinget, 1982, p. 1697) non deve essere né troppo
condizionata da emotività o determinata da effettiva condivisione e affinità (in questo caso
si tratterebbe di simpatia) né troppo intellettualizzata o frutto di interpretazioni cliniche
(di "perspicacia diagnostica", per dirla con Giordani). La comprensione accurata dell’altro
dovrebbe prodursi con un mix di sentimento (coinvolgimento affettivo) e di intelligenza
percettiva.

Empatia, trasmettere calore e genuinità

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, 1999, pp. 69-76.

Quando i counselor rispondono ai clienti valendosi delle abilità di riflessione, parafrasi e


riassunto, devono farlo — se desiderano essere efficaci — da quella che Rogers (1991) ha
descritto come la struttura interna di riferimento. La dizione si riferisce alle esperienze
individuali del cliente, alle circostanze in cui si trova e al suo mondo. La capacità di
comprendere la prospettiva interna che un cliente ha delle cose richiede un grande
impegno da parte del counselor, che deve anche usare disciplina, ascolto attivo e la
determinazione di mettere da parte tutte le sue idee preconcette.

L’empatia

L’empatia è centrale in questo tipo di esperienza fra counselor e cliente. In ogni caso,
Rogers (1991) sottolinea che fare riferimento al mondo interiore del cliente non significa
identificarsi emozionalmente con lui. In altre parole, non è né necessario né opportuno che
un counselor faccia veramente esperienza delle emozioni che prova il cliente, mentre è
invece essenziale che le comprenda. Questo perché se un counselor venisse sopraffatto
dalle forti emozioni di un cliente sarebbe incapace di mantenere nel giusto equilibrio una
relazione che, non bisogna dimenticarlo, ha lo scopo di aiutare il cliente.

Simpatia e l’empatia sono differenti perché la simpatia tende a essere superficiale e


alquanto facile da palesare, mentre l’empatia richiede impegno e un genuino desiderio di
comprendere l’altro. Entro certi limiti, la simpatia può voler dire provare dispiacere per
l’altro e può anche comprendere emozioni come la compassione e manifestazioni come la
gentilezza. Il più delle volte, la simpatia implica la volontà di offrire assistenza o aiuto
pratico se necessari. La simpatia, quindi, riveste un ruolo molto importante nelle relazioni
umane e, quando viene offerta in modo appropriato a familiari e amici, i suoi effetti sono
generalmente positivi.

Probabilmente una delle cose più importanti da considerare riguardo alla simpatia è che
quasi invariabilmente deriva da una struttura esterna di riferimento. Una persona che
esprime simpatia può farlo senza una reale comprensione di ciò che l’altro ha sofferto. La
simpatia può derivare da una visione superficiale o esterna di ciò che l’altro ha provato, ma
non tenta in alcun modo di raggiungere un vero insight della natura o della qualità di quella
esperienza. Quando ci avviciniamo al vissuto di qualcuno con una struttura esterna di
riferimento, tendiamo a categorizzarlo e a imporre su di esso il nostro punto di vista.
Questa tendenza a conformare l’esperienza di un’altra persona al nostro modo di pensare è
limitata e fuorviante, e presenta l’ulteriore svantaggio di produrre un punto di vista
unidimensionale dell’esperienza stessa. Vediamolo con un esempio.

La signora Mariangela si prendeva cura del marito malato da molti anni. Quest’ultimo
soffriva di una malattia progressiva, il che significa che le sue condizioni peggiorarono
rapidamente nell’anno che precedette la sua morte. La signora Mariangela aveva 46 anni
quando il marito morì, e benché lo avesse amato provò una sorta di sollievo quando il lungo
periodo di assistenza si fu concluso. Frammisti al sollievo, però, c’erano un senso di colpa e
un certo rimorso. Talvolta era stata impaziente e ostile con il marito. Lui era per molti
aspetti una persona difficile, e adesso che non c’era più lei si sentiva libera di dedicarsi ai
propri interessi che aveva dovuto abbandonare durante la sua malattia. Oltre a questo
riusciva ora a ripescare vecchie amicizie e conoscenze e ad avere una più ricca vita sociale.

Una risposta animata da una convenzionale simpatia si sarebbe limitata a focalizzarsi sulla
sua perdita. Così, altri importanti aspetti della sua situazione non sarebbero stati
riconosciuti, in parte perché non avrebbero potuto essere comunicati ad amici, vicini o
conoscenti. D’altronde, gli atteggiamenti tradizionali nei confronti del lutto e delle perdite
tendono a dare per scontato che tali esperienze siano assolutamente dolorose. Il fatto è
che eventi palesemente tragici possono essere positivi per certi aspetti. Nel caso della
signora Mariangela, ci sono molti aspetti complessi della sua esperienza che possono essere
certamente descritti come positivi. Ciò non vuol dire che non abbia sofferto per la morte
del marito; può averne sofferto anche più di una persona il cui matrimonio fosse stato
idilliaco — sempreché sia possibile descrivere qualunque matrimonio in questo modo.

Il punto da considerare è che non è dato conoscere veramente l’esatta natura


dell’esperienza di qualcun altro, né possiamo presupporre che certi eventi siano
intrinsecamente negativi o positivi. L’unico modo per cercare di condividere l’esperienza di
un’altra persona è quello di sviluppare e praticare l’empatia. Quando l’empatia è presente
in una relazione — come dovrebbe esserlo nel counseling —, la persona che riceve aiuto
saprà che le caratteristiche e le complessità uniche della sua situazione sono accettate,
valorizzate e comprese.

L’empatia quindi, a differenza della simpatia, riguarda la comprensione del punto di vista
individuale e unico del cliente. Un’altra formulazione dello stesso concetto è che
l’empatia è ciò che rende possibile ai counselor immaginare e comprendere la struttura
interna di riferimento del cliente.

Non è comunque sufficiente che i counselor sperimentino semplicemente l’empatia. Devono


anche possedere la capacità di trasmetterla efficacemente ai clienti. L’empatia è un
processo a due vie, ed è essenziale che i clienti sappiano che è presente nella relazione di
counseling. La capacità di usare opportunamente un ventaglio di abilità di counseling è un
prerequisito fondamentale per un counselor che desideri stabilire e trasmettere empatia ai
clienti.
Ecco una serie di abilità e attributi personali necessari in tal senso:

 interesse per il cliente e per le sue esperienze;


 la capacità di comprendere e usare il linguaggio del cliente;
 la capacità di riflettere i sentimenti espressi dal cliente;
 la comprensione del perché il cliente faccia esperienza di certi sentimenti;
 la capacità di stabilire un rapporto emozionale con il cliente attraverso l’uso
dell’ascolto attivo, e un’accurata attenzione alle sfumature che traspaiono dietro
al linguaggio del cliente;
 il periodico parafrasare e riassumere gli elementi essenziali della storia del cliente;
 l’uso sensibile e tempestivo delle domande;
 autocontrollo e pazienza sufficienti a permettere al cliente di procedere con il
proprio ritmo;
 la capacità di identificarsi con il cliente senza lasciarsi sommergere emotivamente
dai suoi problemi;
 la capacità di usare suggerimenti e aiuti non verbali che incoraggino i clienti a
continuare a parlare dei loro problemi;
 la capacità di far sentire i clienti valorizzati e degni;
 la capacità di far sentire i clienti fiduciosi e motivati.

Oltre a possedere le abilità e le caratteristiche già menzionate, i counselor devono essere


capaci di (e disposti a) usare le loro esperienze personali come punti di riferimento per
una comprensione più profonda dei clienti. Ciò non significa che i ricordi personali
debbano essere condivisi con i clienti durante le sedute, poiché una cosa simile sarebbe
inappropriata nel counseling psicoterapeutico; e neppure implica che i counselor debbano
concentrarsi nel raffrontare mentalmente le loro esperienze con quelle dei clienti mentre
sono insieme a loro. Ciò che intendo è che i counselor possono utilizzare la conoscenza e
l’esperienza che hanno accumulato nella loro vita per rifinire e sviluppare la loro capacità
di stabilire una relazione empatica con i clienti. Gli studenti di counseling chiedono spesso
se sia possibile esercitarsi nell’empatia, e la risposta è senz’altro affermativa. Possiamo far
pratica di empatia innanzitutto identificando le nostre stesse esperienze, e ciò può essere
fatto attraverso specifici esercizi di autoconsapevolezza nel corso della formazione.
Possiamo poi continuare a far pratica condividendo le nostre esperienze con altri durante la
formazione. Gli studenti possono infine osservare l’uso che fanno dell’empatia nel
comunicare con gli altri e possono, per un certo periodo di tempo, incrementare il loro uso
di risposte empatiche.

Trasmettere calore

Il calore è la seconda delle tre condizioni fondamentali enunciate da Carl Rogers, e talvolta
vi viene fatto riferimento con le parole accettazione, considerazione incondizionatamente
positiva o cura. Naturalmente è molto più facile per i clienti (come per chiunque altro)
discutere questioni delicate, personali o intime quando la persona con cui stanno parlando
mostra chiaramente un atteggiamento permeato di calore e accettazione. L’accettazione
implica un approccio non giudicante da parte dei counselor.

Un altro aspetto significativo del calore e dell’accettazione è che, quando sono presenti, è
più probabile che i clienti acquistino fiducia in se stessi e nella loro capacità di fronteggiare
gli eventi problematici (coping). Il fatto di sentire che qualcuno si preoccupa per noi e ci
valorizza dà un senso di fiducia immediato. Ciò può, a sua volta, indurre maggiore
coraggio e sicurezza nell’affrontare i problemi.

L’accettazione dei clienti non implica che un counselor debba approvare qualunque cosa
essi dicano o facciano. Emerge la questione dell’autoconsapevolezza del counselor, e
dell’importanza di essere capaci diseparare i propri punti di vista e opinioni da quelli del
cliente. Le opinioni, le esperienze e i comportamenti di un cliente possono essere in totale
contrasto con il sistema di valori del counselor, ma il cliente, in quanto persona, ha diritto
all’accettazione e alla considerazione positiva, specialmente quando si è affidato
completamente al counselor e si è reso vulnerabile nel processo della psicoterapia.

È necessario che i counselor credano nel diritto all’autonomia e all’autogoverno del


cliente. Quando tale credenza è presente, la tentazione di esercitare pressioni (in modo
sottile o manifesto) sui clienti sarà assente nella situazione di counseling. La comprensione
della natura umana e dei mille problemi che le persone possono sperimentare è un
requisito fondamentale per coloro i quali desiderino lavorare in una relazione di aiuto con
altre persone.

Il calore e l’accettazione sono particolarmente importanti quando cliente e counselor si


incontrano per la prima volta. Il modello di counseling a tre fasi di Egan descrive la prima
fase come il momento in cui i clienti vengono incoraggiati a esplorare e chiarificare i loro
problemi. Tale esplorazione e chiarificazione non può avvenire, tuttavia, a meno che il
cliente non si senta accettato e valorizzato come persona. Alcune delle abilità già
menzionate possono aiutare a stabilire e dimostrare questi atteggiamenti di accettazione e
di cura.

L’ascolto attivo e la riflessione sensibile sono particolarmente efficaci, ma è importante


anche la personalità del counselor. Non è così comune che counselor e clienti si piacciano
reciprocamente in modo automatico, e ci sono casi in cui un legame emozionale non viene
affatto stabilito. Dalla prospettiva di Carl Rogers, è la percezione che il cliente ha della
relazione di counseling ciò che determinerà il buono o il cattivo corso della psicoterapia
(Rogers, 1991). Detto altrimenti, il cliente deve sentirsi a suo agio con il counselor prima di
poter compiere qualunque progresso. Rogers aggiunge che il modo in cui i clienti
percepiscono la relazione di counseling è, in larga misura, influenzata dalle precedenti
aspettative e dalle idee preconcette formatesi sulla base delle interazioni avute in passato
con gli altri (Rogers, 1991). I clienti che sono stati prevalentemente criticati dai genitori
nella loro infanzia si attenderanno verosimilmente lo stesso approccio da un counselor. I
counselor perciò devono affrontare il compito di trasmettere calore e accettazione in un
modo che sia "incondizionato" e senza limitazioni.

Quando il rispetto, l’accettazione e il calore sono presenti nel counseling, è più probabile
che i clienti accettino se stessi. Ciò dovrebbe, a sua volta, aumentare la loro autostima, e
una maggiore autostima li aiuterà a fronteggiare il cambiamento. Gli atteggiamenti di
rispetto e di accettazione sono fondamentali quando il counselor usa abilità di messa in
discussione, poiché la sfida del mettere in discussione una convinzione radicata è sempre
difficile per i clienti.

Un altro aspetto significativo per prendersi cura dei clienti è che il calore viene manifestato
non soltanto negli atteggiamenti espressi dal counselor al cliente, ma anche dall’ambiente
in cui le sedute vengono tenute. Una stanza fredda e non invitante, per esempio, inibirà
per certo lo sviluppo della fiducia e della capacità da parte del cliente di impegnarsi
nell’arduo compito dell’autorivelazione. Hargie et al. (1995) fanno notare che una stanza
nuda con scarsa illuminazione e un mobilio scadente ricordano una saletta in cui si venga
interrogati da un commissario di polizia. I clienti percepiscono queste cose accuratamente
non solo a livello conscio ma anche a livello inconscio.

Vale la pena menzionare qui che l’aspetto e gli abiti del counselor faranno a loro volta una
qualche impressione sui clienti. Quantunque sarebbe inappropriato suggerire ai counselor di
vestirsi in un modo particolare o prescritto, è necessario che ricordino di mostrare rispetto
ai clienti, e a se stessi, prestando attenzione ai dettagli del proprio abito e del proprio
aspetto in generale. Il rispetto e l’accettazione di sé dei counselor vanno di pari passo con
il rispetto per gli altri.

La genuinità
La genuinità è una qualità che i counselor dovrebbero possedere se desiderano essere
efficaci nel loro lavoro con i clienti. Altre parole che descrivono tale qualità sono onestà,
congruenza, coerenza, sincerità e autenticità. Non c’è bisogno di dire che l’onestà con se
stessi è un prerequisito per essere onesti con gli altri. Gli studenti di counseling devono
essere consapevoli che siamo tutti capaci di autoinganno, per lo meno occasionalmente; se
inganniamo noi stessi, i clienti che se ne accorgeranno ci percepiranno come incongrui o
falsi e in definitiva incapaci di ricevere le loro confidenze.

Quando i counselor sono onesti e aperti nel comunicare con i clienti, subito si stabilisce
un’atmosfera di fiducia, e tale atmosfera aiuta a stimolare i clienti a diventare più onesti e
aperti a loro volta. È possibile, quindi, che il counselor funga da modello di apertura per il
cliente e che in questo modo possa migliorare la capacità del cliente di impegnarsi nel
processo spesso doloroso dell’autorivelazione. Uno dei problemi che sperimentano gli
studenti di counseling, comunque, è che talvolta trovano difficile padroneggiare un
ventaglio di abilità di counseling senza diventare artificiali o innaturali nell’usarle. In altre
parole, gli studenti di counseling possono trovare difficile essere congruenti quando sono
preoccupati dal fatto di dire e fare la cosa "giusta" dal punto di vista tecnico. La
spontaneità e l’apertura tendono quindi a perdersi all’inizio della formazione ma vengono
recuperate allorché l’accento sulle abilità diminuisce perché è stata acquisita una certa
competenza.

Le discussioni sulla genuinità del counselor stimolano quasi sempre un certo grado di
conflittualità fra i counselor in formazione. Ciò si verifica perché l’idea di onestà o di
apertura viene spesso confusa con un’assoluta franchezza con i clienti. Va sottolineato che
la franchezza assoluta con i clienti è inappropriata, poiché avrebbe l’effetto di rafforzare
le difese del cliente nei confronti della possibile loro autorivelazione. Il vero significato
della genuinità del counselor è dunque che l’empatia e l’atteggiamento
incondizionatamente positivo per il cliente siano reali e non fittizi. Quando l’empatia e la
considerazione positiva sono realmente presenti il counselor sarà aperto, onesto e naturale
in modo autentico. L’esperienza che il cliente fa di tale coerenza o genuinità dovrebbe
aiutarlo a rendersi conto che tali atteggiamenti sono utili in una relazione, e incoraggiarlo a
essere più onesto anche nelle sue relazioni con altre persone.

I counselor che rispondono apertamente ai clienti non hanno bisogno di nascondersi dietro
una facciata, non sono costretti a fingere. Trattano i clienti da uguali e riconoscono la loro
capacità potenziale di gestire efficacemente i loro problemi. Un counselor che manchi della
consapevolezza delle proprie limitazioni e che non riesca a identificare i sentimenti larvati
di superiorità che dovessero emergere in lui, deluderà i clienti. Essi si renderanno conto
ben presto dell’autoinganno e della vanità del counselor, con le conseguenze di fallimento
che è facile immaginare.

Per "essere" se stessi i counselor devono "conoscere" se stessi. Quando tale autoconoscenza
è presente, sarà presente anche la capacità di essere genuini nella relazione con i clienti.
Una risposta appropriata e genuina è sempre una risposta "naturale", che viene dettata dal
reale desiderio di aiutare il cliente. Quando la congruenza è presente, c’è coerenza fra
quel che il counselor sente e quel che dice o fa.

Ecco un esempio di congruenza messa in pratica: la cliente, Lidia, aveva


partecipato ad alcune sedute di counseling e aveva parlato a lungo dello stress
che la opprimeva. Non le piaceva il suo lavoro e aveva alcune difficoltaà a casa.

Cliente Talvolta sono assolutamente priva di energia. Mi sento completamente prosciugata. Me lo ha già sent
prima d’ora... Deve essere proprio stufo. 

Counselor  No, non sono né stufo né annoiato per questo. Ma ricordo che ha detto cose del genere diverse volte d
nostri incontri, quindi credo che sia un argomento da esplorare più approfonditamente.
Cliente  So che la mia famiglia ne ha abbastanza di ascoltarmi. A casa semplicemente spengono l’audio quand

Counselor  Io non spegnerò l’audio. Io voglio ascoltarLa... 

Cliente È iniziato tutto... circa due mesi fa... 

La cliente continuoà a raccontare la storia in modo dettagliato. Cioà implicoà lunghe


ruminazioni su alcuni aspetti del suo lavoro e della sua vita familiare. A un certo
punto, parloà ancora della possibilitaà che tutto questo fosse troppo per il
counselor.

Cliente Tutto sembrava accatastarsi... deve sembrare una specie di catalogo di problemi...

Counselor Ho l’impressione che ci siano un mucchio di aree problematiche per Lei in questo momento. Forse po
raccogliere i fili più importanti di quel che ha detto...

A questo punto, il counselor sintetizzò quel che Lidia aveva detto nel corso del colloquio.
Le sue risposte alla cliente furono date in modo aperto e genuino, e la sua preoccupazione
più importante fu quella di restare entro la struttura di riferimento della cliente.

Gli atteggiamenti e le caratteristiche che aiutano di più

Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling nella


vita quotidiana, Trento, Erickson, pp. 40-50.

Vi vengono in mente, a pensarci, dei momenti in cui eravate molto preoccupati, e qualcuno
si è sforzato di ascoltarvi, in modo da darvi una mano? Vi ricordate in che modo quel
"qualcuno" si fosse relazionato con voi? Se ci fosse qualche cosa di speciale in quella
relazione, rispetto a tutte le altre? Se c’era un quid di diverso dal solito, potreste forse
annotarlo.

Gli aspetti "speciali" della relazione con quella persona, rispetto alle altre, erano che:

1. ..........................................................................................

2. ..........................................................................................

3. ..........................................................................................

C’è un accordo quasi unanime sul fatto che la qualità della relazione, tra chi offre aiuto e
chi lo riceve, sia l’"ingrediente" da cui più dipende l’efficacia del processo d’aiuto. Le
qualità personali di chi presta aiuto, in effetti, sono un fattore cruciale. C’è anche chi ha
messo in luce che le convinzioni, i valori e i tratti caratteriali di chi sa aiutare gli altri in
modo efficace sono notevolmente diversi da quelli di chi, pur sforzandosi, non riesce
altrettanto bene nell’impresa. È importante, a questo punto, porsi il seguente
interrogativo: "Quali sono le caratteristiche irrinunciabili di una buona relazione d’aiuto?".
Tenteremo una risposta, facendo riferimento alle idee di Carl Rogers.

Nella visione di Rogers, sono essenzialmente tre le caratteristiche da cui non si può in alcun
modo prescindere, per una relazione d’aiuto efficace. Si tratta — nell’ordine — di
congruenza, empatia e accettazione positiva incondizionata. Rogers sottolinea anche
l’esigenza di "fare tesoro" della relazione d’aiuto e della persona che si va ad aiutare. 4
Nel discutere, in questa prospettiva, gli atteggiamenti e le caratteristiche che contano di
più per aiutare gli altri, faremo quindi riferimento a otto principi fondamentali:

 fiducia
 rispetto
 empatia
 accettazione
 sicurezza
 atteggiamento non giudicante
 autenticità
 considerazione della persona come esperta del suo problema.

Fiducia

Se vogliamo avere successo nell’aiutare qualcuno, non potremo fare a meno della sua
fiducia. Senza questo elemento, è impossibile che gli altri ci parlino liberamente dei loro
problemi personali, tanto più se questi riguardano la loro intimità e altrettanto improbabile
che riescano a entrare in contatto con i loro sentimenti, riescano a esprimerli e, per ciò
stesso, a sentirsi meglio.

Guadagnarsi la fiducia di qualcuno è un’operazione complessa, che dipende anzitutto


dalle esperienze maturate dall’altra persona, in passato e nel presente, nei nostri
confronti. Dipende anche dalla situazione in cui ci si trova e, più ancora, dalla natura della
relazione tra le due parti. La fiducia sarà condizionata, inoltre, dalla percezione che esse
hanno dei rispettivi interessi in gioco. Per chiarire meglio tutti questi aspetti, vi
proponiamo il caso di Simone.

Il caso di Simone

Simone è un ragazzo di una ventina d’anni, o poco più. Qualche tempo fa ha commesso
l’errore di affidarsi alle droghe illegali, per reggere meglio lo stress e le tensioni della vita
di tutti i giorni. In breve, si è gravemente indebitato. Negli ultimi tempi, Simone appare
addirittura terrorizzato: crede che le persone a cui deve tutti quei soldi siano davvero
senza scrupoli. Non ci metterebbero niente a "farsi giustizia" da sole. Uno dei suoi colleghi
di lavoro, Damiano, ha avvertito la sua paura e ha cominciato a preoccuparsi. Da parte sua,
Damiano nutre delle convinzioni religiose molto rigide, che non ammetterebbero mai l’uso
della droga. È forse per questo che, la prima volta che ha invitato Simone a parlarne con
lui, questi ci ha messo un bel po’, prima di fidarsi veramente. Il sospetto di Simone è che
Damiano, sotto sotto, abbia un secondo fine: convertirlo alla sua fede religiosa. Nei fatti,
però, le cose non stanno assolutamente così.

Riuscite a immaginarvi quanto sia stato difficile, per Simone, fidarsi pienamente di
Damiano? E quanta fatica abbia dovuto fare quest’ultimo, per convincere l’amico che
poteva davvero contare su di lui? Alla fine Damiano riuscirà a conquistare la fiducia di
Simone. A quel punto, riuscirà anche a dargli una mano nel risolvere il suo problema.

Rispetto

Il rispetto è l’attitudine di chi si sa rapportare con ogni persona per quello che è,
rispettandone e valorizzandone la capacità di trovare da sola le soluzioni ai propri
problemi, nella convinzione che ciascuno — a prescindere da come si è comportato in
passato — faccia le cose nel modo migliore che gli è possibile. Il rispetto ci richiede di
essere convinti del fatto che la persona che aiutiamo sia in grado di farsi carico della
propria vita, di fare un’esperienza di crescita individuale, di rapportarsi con gli altri in
modo positivo. Per dirla in breve, il rispetto ci richiede di valorizzare l’altro, per quello che
è; e di farlo sentire, in qualsiasi circostanza, come una persona "che vale".
Il rispetto ci richiede di trattare sempre l’altro come una persona "che vale".

Messa in questi termini, la pratica del rispetto sembrerebbe una cosa facile; nei fatti, però,
può anche non essere tale. Ripensiamo, ad esempio, al caso di Simone e di Damiano: viste
le differenze tra l’uno e l’altro, in quanto a idee e a stili di vita, dobbiamo ammettere che
non era poi facile, per Damiano, riuscire davvero a rispettare Simone. È solo perché
Damiano vi è riuscito, e quindi gli ha trasmesso il suo rispetto, che Simone ha cominciato ad
avere più fiducia in lui.

Empatia

Siamo sicuri che nessuno si sorprenderà, se diciamo che il successo della relazione d’aiuto
dipende dalla creazione di un clima caldo, positivo e "accettante", tra le due parti
coinvolte. Carl Rogers usa l’espressione "empatia", per descrivere questa peculiare
colorazione emotiva della relazione d’aiuto. Dopo i suoi scritti, le parole "empatia" ed
"empatico" sono gradualmente entrate nel gergo tecnico degli addetti ai lavori.

L’empatia richiede una profonda comprensione e condivisione dei sentimenti dell’altro.

Qualcuno ha definito una relazione empatica con la metafora di chi, ascoltando, riesce a
"camminare con le scarpe" indossate dall’altra persona. In certi casi, quando questa ci
confida informazioni legate alla sua vita personale, può essere utile immaginare come ci si
vedrebbe, e come ci si sentirebbe, se si fosse nei suoi panni (o "nelle sue scarpe"); se si
guardasse quella situazione, cioè, dal suo stesso punto di vista. Facendo questo, è possibile
immaginare, e comprendere meglio, il mondo dell’altra persona; è possibile, in una certa
misura, identificarsi con lei.

Se si crea una relazione calda, affettuosa ed empatica, la persona aiutata si sentirà


protetta e rispettata, sino a potersi "permettere" di confidarci certi aspetti della sua vita
privata. Una relazione di questo tipo mette chi aiuta nelle condizioni di capire a fondo il
punto di vista dell’altro, e quindi di identificarne correttamente i vissuti emotivi. Se chi
aiuta si mette nei panni del suo interlocutore, e si immagina come si sentirebbe al suo
posto, riuscirà anche a provare sensazioni ed emozioni non dissimili da quelle dell’altra
persona.

Accettazione

Abbiamo già detto della fondamentale esigenza di valorizzare l’altra persona. Questo
significa, tra le altre cose, saperla accettare per quello che è. Se fossimo capaci di farlo,
paradossalmente, saremmo nelle condizioni ottimali per metterci nei suoi panni, in modo
da facilitarne il processo di cambiamento, di crescita, di trasformazione nella persona che
lei stessa vorrebbe diventare. L’atteggiamento diametralmente opposto all’accettazione
è quello di chi critica gli altri. Avete mai notato che, quando vi mettete a criticare
qualcuno, è più probabile che questi resista a ogni cambiamento, e si "barrichi" ancora di
più nei suoi modi di pensare o di fare? Se invece accettiamo l’altro per quello che è, sarà
più probabile che questi si senta valorizzato e rispettato: una condizione che gli permetterà
più facilmente di riflettere sui suoi vissuti, fare emergere gli elementi positivi della sua
personalità, muoversi da solo in direzione di obiettivi positivi.

Damiano, come si è visto, non nutriva alcun "secondo fine" nei confronti di Simone. Lo
conosceva bene. Aveva imparato, comunque, ad accettarlo per quello che era; è così — e
soltanto così — che Simone ha potuto prendere una decisione che si è tradotta in un
cambiamento significativo, e in un "volano" di crescita positiva.

Sicurezza
Se volete essere d’aiuto a una persona, dovrete dare vita a una relazione e a una
condizione ambientale che le permettano di parlare in tutta libertà. Nessuno se la sentirà
di parlarvi liberamente, se non si sente abbastanza sicuro per farlo. Nel caso che abbiamo
studiato, Simone, all’inizio, era scettico rispetto alla possibilità di parlare con Damiano del
suo consumo di droghe. Non si sentiva per nulla a proprio agio. Temeva addirittura che
Damiano potesse andare a denunciarlo. Va da sé che la questione della sicurezza va di pari
passo con quella della fiducia. Mano a mano che cresceva la fiducia, tra Damiano e Simone,
quest’ultimo si sentiva più sicuro, fino al punto in cui è riuscito a raccontare liberamente la
situazione in cui si trovava.

Atteggiamento non giudicante

Perché la relazione con la persona che ascoltate sia effettivamente d’aiuto, è necessario
che essa sia del tutto incondizionata. Se la relazione è "condizionata" dalle vostre
aspettative verso quella persona, la vostra capacità di aiutarla risulterà gravemente
compromessa.

Per citare ancora Carl Rogers, occorre infatti che la persona che aiuta assuma un
atteggiamento di "accettazione positiva incondizionata". Chi aiuta deve saper accettare
l’altra persona per quello che è, senza porre condizioni; deve vederla, in ogni caso, sotto
una luce positiva. Accettare una persona in modo incondizionato richiede, naturalmente,
di sospendere il giudizio nei suoi confronti. Ora, non possiamo negare che questo non è
sempre possibile; in ogni caso, si tratta di un obiettivo a cui dobbiamo per lo meno
tendere, se vogliamo davvero essere d’aiuto agli altri. Il punto è che se assumiamo un
atteggiamento giudicante nei confronti dell’altro, non potremo che compromettere la
qualità della relazione; nel momento in cui si sente giudicato, l’altro tenderà a mettersi
sulla difensiva, anziché confrontarsi liberamente con noi, in una comune esplorazione dei
suoi problemi.

L’accettazione incondizionata richiede sempre di sospendere il giudizio.

Come è possibile, in concreto, riuscire ad essere davvero "non giudicanti"? La prima cosa da
fare è sforzarsi di immaginare il mondo quale lo vede l’altra persona. È un mondo
caratterizzato da valori, atteggiamenti e convinzioni che non coincidono necessariamente
con i nostri. Entrare in questo mondo, di fatto, può rivelarsi difficile. Formulare un qualche
giudizio sugli atteggiamenti, le idee o i valori degli altri, viceversa, è quanto di più facile si
possa fare. È necessario, comunque, saper mettere il giudizio da parte, in modo da lasciare
all’altra persona tutto lo spazio che le serve per esprimere i suoi vissuti emotivi di segno
negativo.

Per attivare una relazione d’aiuto efficace, oltre che ascoltare, dobbiamo anche sforzarci
di evitare ogni giudizio su ciò che riteniamo "giusto" o "sbagliato"; le nostre energie si
dovrebbero concentrare, piuttosto, sul tentativo di guardare la realtà dallo stesso punto di
vista della persona che abbiamo di fronte. Se non facciamo questo passaggio, è probabile
che l’altro finisca per sentirsi giudicato, e non se la senta più di parlarci liberamente. La
sua ansia e la sua sofferenza emotiva, a questo punto, saranno destinate ad aumentare; si
innesca così una spirale che lo vedrà sempre meno capace di affrontare i suoi problemi in
modo (per lui) soddisfacente.

Potrebbe essere utile, ancora una volta, considerare un esempio concreto. Ipotizziamo una
situazione, tra le tante possibili, in cui i valori e le convinzioni personali possono
precludere una relazione d’aiuto efficace.

Immaginate di essere una mamma, con un figlio piccolo che frequenta la scuola materna. Vi
rendete conto che uno degli altri bambini ha comportamenti aggressivi nei confronti di
tutti. Decidete di parlarne con la mamma del bambino, che vi dice che il comportamento di
suo figlio continua a peggiorare. Quel bimbo fa sempre i capricci, è estremamente
maleducato e manca di rispetto verso chiunque. La mamma è veramente stravolta: non sa
più che pesci pigliare, per gestire i comportamenti del figlio. Continuando la conversazione,
scoprite che la madre fa spesso uso di punizioni fisiche.

Ecco un buon esempio di una situazione che metterebbe in gioco le convinzioni di molti di
noi. Per qualcuno, qualsiasi forma di punizione fisica rappresenta un abuso, e per ciò stesso
non può essere accettata. Altri ritengono che per i bambini le punizioni fisiche, purché non
eccessive, siano del tutto legittime, o addirittura necessarie.

Immaginate di essere tra coloro che non ammettono assolutamente le punizioni fisiche.
Potreste essere senz’altro tentati di interrompere la conversazione, per parlare di ciò che è
"giusto" o "sbagliato" nell’utilizzo (ovvero nel non utilizzo) delle punizioni fisiche, per
controllare determinati comportamenti. Ebbene, ritenete che una simile interruzione
sarebbe davvero utile?

La nostra risposta è la seguente: se vi metteste a formulare queste obiezioni, nel bel mezzo
della conversazione, soddisfereste un vostro bisogno immediato. Non le esigenze della
persona — in questo caso, la madre del bambino — che vorreste aiutare. Questa, come
minimo, smetterebbe subito di parlare dei suoi problemi e delle sue sofferenze. Si
sentirebbe giudicata, e farebbe molta più fatica, da quel momento in poi, a fidarsi di voi.
Se invece la incoraggiate a continuare a raccontare, senza alcuna interruzione, è più
probabile che emergano tutti i suoi dubbi e le sue preoccupazioni, rispetto ai difficili
rapporti con il figlio. A quel punto, potrebbe anche riuscire a focalizzare meglio il
problema, e quindi a gettare le basi per affrontarlo in modo più adeguato. Potrebbe anche
esplicitare il suo senso di inadeguatezza, rispetto al ruolo di madre, senza per questo
sentirsi criticata.

Questo non vuol dire che dobbiate sottoscrivere un comportamento che non approvate, o
mostrarvi d’accordo con idee o valori che non vi appartengono. Il punto è un altro: dovreste
sforzarvi di mettere da parte le vostre idee o convinzioni, per tutto il tempo in cui
l’altro vi parla dei suoi problemi, o delle sue esperienze di vita. Per restare all’esempio:
può anche darsi che in un momento successivo, dopo che siano stati affrontati i problemi di
quella donna, vi capiti di mettere in luce — come possibilità alternativa, nulla di più — dei
modelli di comportamento diversi, a cui lei potrebbe, magari, fare riferimento.

Può darsi infatti che, giunti a quel punto, la madre sia pronta per questo passaggio; il
presupposto, però, è che abbia riconosciuto da sola che certi suoi modi di fare non
andavano bene. Se dal colloquio emergesse che le punizioni fisiche hanno raggiunto livelli
inaccettabili (ma siamo sempre sul piano dei valori – che cos’è che è accettabile?),
potrebbe anche essere il caso di prendere una decisione diversa, per tutelare la sicurezza
fisica del bambino. Ancora una volta, però, la soluzione ottimale potrebbe essere quella di
affrontare il problema dopo che la madre abbia avuto l’opportunità di parlare liberamente,
in un clima di accettazione positiva, delle sue preoccupazioni.

Ricapitolando, un atteggiamento di accettazione non critica e non giudicante dell’altra


persona, quali che siano le sue idee o i suoi valori, può aiutarla a sentirsi valorizzata,
permettendovi al contempo di mettervi nei suoi panni e, soprattutto, di incoraggiarla a
parlare liberamente, senza alcuna inibizione. Si possono così gettare le basi per una
relazione di fiducia.

Dalla lettura di queste pagine, vi sarete certo resi conto che l’accettazione incondizionata
e non giudicante, talvolta, è estremamente difficile; l’avvio di una buona relazione d’aiuto,
comunque, non può non passare da qui. È un passaggio non sempre facile da percorrere,
visto che ciascuno di noi ha le sue idee o convinzioni, che potranno essere anche molto
diverse da quelle della persona che aiutiamo.

Capita spesso di scoprire, all’inizio di una conversazione d’aiuto, che il nostro interlocutore
ha atteggiamenti, convinzioni o valori che non coincidono affatto con i nostri. Ritenete che
questo possa precludere, in qualche modo, la vostra capacità di aiutare quella persona a
rielaborare i suoi problemi? In teoria, potreste anche fare il tentativo di convincerla che i
vostri valori, o le vostre idee, sono migliori dei suoi e che sarebbe dunque il caso che li
accettasse. Ebbene, credete che questo le servirebbe a qualche cosa? A giudicare dalla
nostra esperienza, ci sentiamo di rispondere che questa soluzione, il più delle volte, non
serve. L’approccio centrato sulla persona, da cui l’accettazione incondizionata e non
giudicante, ha ben maggiori probabilità di ottenere successo. Il problema delle differenze
sul piano delle idee, o dei valori, emerge spesso nel confronto tra leader spirituali e — più
in generale — tra persone di culture diverse, quanto più queste fanno riferimento a valori o
convinzioni "forti", che sono parte integrante della loro esperienza di vita. Queste persone
avvertono, più ancora delle altre, l’esigenza di essere sempre coerenti con le proprie
credenze.

Autenticità

In qualsiasi relazione d’aiuto occorre essere autentici, sinceri e, per dirla con Rogers,
"congruenti". Di qui nasce una domanda inevitabile: "Quando aiutiamo qualcuno, siamo
sempre le stesse persone, o siamo — in qualche modo — diversi dal solito?". Qual è il vostro
punto di vista? Per qualcuno, l’idea di cambiare la propria personalità, quando si
intraprende una relazione d’aiuto, potrebbe anche suonare allettante. Va detto, però, che
chi si mette a fare tentativi di questo tipo ha ben poche probabilità di essere d’aiuto agli
altri. È difficile, infatti, che la persona aiutata si faccia abbindolare da questi
cambiamenti; il più delle volte, si renderà perfettamente conto che colui (o colei) che la
vorrebbe aiutare sta cercando di "mascherarsi" da qualche cosa di diverso da ciò che è.

Se davvero volete aiutare qualcuno, è essenziale — lo abbiamo già visto — che questi si
possa fidare di voi. E questo non potrà certo avvenire, se vi "travestite" di un’identità
diversa dalla vostra, e il vostro interlocutore lo avverte. Per aiutare qualcuno, occorre che
siate autenticamente voi stessi. Se non siete autentici, non potrete sperare che la persona
che vorreste aiutare vi ritenga congruenti e, quindi, si fidi realmente di voi.

Siate voi stessi!

Ciascuno di noi ha dei propri valori, idee e atteggiamenti, che si riflettono nello stile di vita
e di comportamento. Da questo insieme di valori, idee e atteggiamenti dipenderanno anche
le immagini che ci costruiamo degli altri e il modo in cui ne giudichiamo il comportamento.

Ognuno di noi prende le sue decisioni su ciò che è giusto o sbagliato, rifacendosi ai propri
orientamenti valoriali. Anche tra amici, del resto, non sempre si può essere d’accordo su
tutto. La verità è che siamo tutti diversi. C’è qualcuno, ad esempio, che è fermamente
convinto dell’importanza della vita familiare; altri, magari, vedranno le cose diversamente,
e privilegeranno la dimensione del singolo individuo, rispetto a quella della famiglia.

Per aiutare gli altri in modo efficace, dovrete mettere nella relazione tutto ciò che siete: la
personalità, le abilità, gli atteggiamenti e le convinzioni che vi caratterizzano. Facendo
questo, sarete percepiti come persone autentiche, sincere, congruenti e degne di fiducia.
Occorre che siate chiari, quindi, sui vostri atteggiamenti e sulle vostre idee; al tempo
stesso, è essenziale che evitiate di imporli all’altra persona. Non sarebbe corretto, e
certo non le gioverebbe.

Se partecipate alla relazione d’aiuto con tutti voi stessi, vi sentirete una persona completa,
invece che "frammentata". Il vostro comportamento risulterà coerente con la vostra
personalità. La persona che aiutate percepirà la vostra autenticità, e sentirà di poter
nutrire fiducia nei vostri confronti.

Considerazione della persona come esperta del suo problema


I counselor, come è noto, non amano considerarsi degli "esperti", rispetto alla risoluzione
dei problemi degli altri. Perché, allora, riteniamo che "essere esperti" sia una qualità
importante, laddove si tratta di aiutare gli altri? Spieghiamoci meglio: la cosa importante,
per noi, è che sia la persona che vogliamo aiutare ad autopercepirsi come "esperta". Da
parte nostra, è essenziale riconoscere che quella persona, potenzialmente, ha in sé le
risorse interiori per lavorare sui suoi problemi e trovare le soluzioni più adatte alla sua
situazione. È lei l’esperta, quando si tratta di autocomprendersi, e di trovare dentro di sé i
modi per riuscire a stare meglio. Sotto questo profilo, l’etichetta di "esperta" si applica alla
persona aiutata; non a chi si sforza di aiutarla.

La persona che state aiutando è l’"esperta" nel trovare le soluzioni dei suoi problemi

Ne deriva che, quando cerchiamo di aiutare qualcuno a superare i suoi problemi, dovremo
cercare di rispettare le sue abilità e le sue risorse, anziché sforzarci di trovare la soluzione
in vece sua. Dovremo confidare nella sua capacità di iniziativa, rispetto alla ricerca e alla
sperimentazione delle soluzioni possibili. A noi spetterà semplicemente il compito di
facilitare questo processo.

1
Sulla scia di Carl Rogers, Mucchielli ha ridescritto questi atteggiamenti non costruttivi
degli operatori di aiuto, individuandoli nell’atteggiamento di indagine, sostegno,
valutazione, soluzione, interpretazione. Questi atteggiamenti sono definiti come non
costruttivi perché servono a soddisfare bisogni dell’helper (di supremazia, di sicurezza,
ecc.) invece che "accogliere" i bisogni dell’altro.

2
Anche frettolosi giudizi di approvazione (o di rinforzo, in senso comportamentistico)
possono essere controproducenti, perché confermano la persona come "oggetto" di giudizi,
dunque in posizione di minorità ribadita.

3
Rogers dice a questo proposito: "Sembra ormai chiaro che alcuni clienti immaturi o
regrediti possono percepire come segno di maggior accettazione un interesse condizionato
da parte del terapeuta piuttosto che un atteggiamento di accettazione incondizionata"
(Rogers, 1970).

4
Nell’originale, gli autori prendono appunto la parola "tesoro" (in inglese treasure) come
acronimo degli otto elementi chiave di una relazione d’aiuto efficace, secondo un gioco di
parole che non è possibile riproporre in italiano.

ASPETTI ESTERNI

L’obiettivo della comprensione si raggiunge anche attraverso la cura riservata agli aspetti
per così dire “esterni” al contenuto del colloquio: il setting e gli elementi non verbali.

1. Il setting

Si definisce setting il luogo fisico dove la relazione ha luogo, nonchè la diposizione spaziale
dei partecipanti. E’ importante controllare il setting per poter creare un clima di fiducia e
garantire al’interlocutore la riservatezza del colloquio.

Riflettiamo criticamente sui diversi luoghi in cui possiamo trovarci con il nostro
interlocutore: l’ufficio, l’abitazione nostra o dell’interlocutore, uno spazio aperto, un luogo
pubblico come un bar o la sede dell’associazione in cui prestiamo volontariato... Di per sè
nessuno di questi contesti preclude la possibilità di condurre un colloquio ma bisogna essere
consapevoli di quali elementi possono creare disturbo alla comunicazione.
E’ una valutazione che va fatta di volta in volta rispetto: alla situazione in cui noi siamo
(siamo in grado di sostenere il colloquio in quel momento?); alla condizione
dell’interlocutore (il tema è particolarmente delicato e può suscitare una reazione forte?);
agli elementi del contesto (siamo in un luogo riservato? Ci sono fonti di distrazione?)

Per approfondire e ampliare la riflessione vedi il contributo di Mucchielli: Le variabili del


colloquio.

2. Gli elementi non verbali

Con l’espressione elementi non verbali intendiamo tutti quegli aspetti che non si
esprimono attraverso le parole ma veicolano importanti messaggi relativi allo stato d’animo
e alla disposizione interna dell’helper come dell’interlocutore. E’ bene quindi fare
attenzione sia al nostro atteggiamento non verbale, sia a ciò che il nostro interlocutore
comunica in maniera non verbale.

In particolare concentrandosi su:

 la postura
 l’espressione del viso
 i gesti
 il tono di voce
 il silenzio
 ...

Vedi in proposito L'espressione dei sentimenti (Mucchielli e Hough) e La comunicazione non


verbale (Hough, Geldard e Geldard).

Rispetto agli atteggiamenti non verbali è utile ricordare che non sempre essi sono
congruenti con i messaggi verbali, come emerge negli esempi dei testi proposti. L’helper
che sa riconoscere questa discrepanza può aiutare la persona a rendersene conto e a
chiarire meglio il suo vissuto.

L'espressione dei sentimenti

Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al


colloquio di aiuto, Trento, Erickson, p. 39.

Gli stati affettivi (il "vissuto") si esprimono direttamente e ogni modalità "interna" ha le sue
espressioni immediate che si offrono alla vostra percezione. Un sorriso trionfante significa
molto semplicemente la soddisfazione della vittoria. Se un cliente vi dice con quel sorriso:
"Il medico ha detto che mia moglie era matta e l’ha fatta ricoverare", voi dovete vedere il
sorriso e comprendere ciò che questo fatto significa per il cliente. Può darsi che lui,
dicendo ciò, non si renda conto che allo stesso tempo ha mostrato un sorriso trionfante.

Se la signora che sta seduta di fronte a voi tiene la sua borsetta e il suo ombrello ben
stretti a sé o annoda le sue caviglie attorno ai piedi della sedia, occorre percepire questa
espressione di inquietudine, di insicurezza; il suo essere contratta ha valore di
un’espressione diretta, anche prima che apra bocca. Se qualcuno se ne sta zitto, si può
vedere in questo silenzio l’espressione di una inibizione, di un fastidio o di un blocco
qualsiasi. Se qualcuno cambia bruscamente argomento nel corso del colloquio, bisogna
vedervi un tentativo di scansare (o di fuggire) qualche cosa.
Tutti gli atteggiamenti hanno un significato diretto, esprimono qualcosa. Lo stupore, la
collera, l’aggressività, la paura, l’angoscia, il fastidio, l’esasperazione, il panico, il piacere-
soddisfazione, il dispiacere, la vergogna, la tristezza, ecc. si traducono non soltanto in
parole ma più sovente, oltre le parole, attraverso il tono, la mimica, le "posture"
osservabili.

È perciò importante saper utilizzare le conoscenze psicologiche provenienti dalla vostra


autointrospezione e dalla vostra esperienza delle realtà umane per cogliere le espressioni
dirette del vissuto, attraverso le parole e, se è possibile, al di là delle parole, sempre a
condizione che questo sia il frutto di un’osservazione e non di una supposizione. Detto per
inciso: c’è una grande legge psicologica che può essere applicata in questo caso: tutte le
volte che si "suppongono" le sensazioni degli altri, che si attribuiscono loro delle intenzioni
o dei secondi fini, con 95 probabilità su 100 si sta proiettando la propria soggettività e non
si sta osservando. Così, allorché qualcuno suppone che un altro nutra dei sentimenti
malevoli nei suoi confronti (senza possedere dei fatti derivanti da un’oggettiva osservazione
psicologica, avendo fatto una supposizione), si può dedurre che questa supposizione
significa una diffidenza nei confronti dell’altro; attribuire idee malevole agli altri non è il
risultato di un’intuizione ma l’espressione diretta della diffidenza nei confronti di questi
altri.

Perciò, se qualcuno vi dice: "Sebbene non mi abbia mai detto nulla, ho l’intima certezza
che il mio vicino mi vuole male", potete rispondere senza alcun rischio di sbagliarvi: "Voi
nutrite una certa sfiducia nei confronti del vostro vicino".

Elementi della comunicazione

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, p. 38-39.

Una notevole quantità di informazioni può essere ottenuta prestando attenzione sia alla
maniera in cui le cose vengono dette che all'effettivo contenuto del discorso. La voce, il
tono, il volume, l’intensità, il ritmo, le informazioni che vengono date, sono tutti aspetti
della comunicazione verbale che di solito ci dicono di più, riguardo a ciò che una persona
sente, che non le parole stesse che sceglie di adoperare. Quando le persone sono infelici o
tristi, tali sentimenti si riflettono nella loro voce e quando si provano sentimenti positivi
come la gioia, anche questi vengono facilmente individuati. Un cliente che stia descrivendo
un episodio traumatico o infelice può riuscire a nascondere, per esempio, qualcuno dei
sentimenti a esso associati, ma a un certo punto questi sentimenti sono destinati a
interferire e alterare la descrizione che sta facendo.

Un’anziana donna, a cui era accaduto di perdere molti dei suoi effetti personali e delle sue
cose durante un’alluvione, descrisse ciò che provava nel modo seguente:

Penso siano solo cose materiali, per cui non sono importanti, sento che dovrei ringraziare il
Signore per ciò che mi ha donato. C’erano delle fotografie... [pausa] ...erano della mia
famiglia [silenzio]. Ma sono molto contenta. Certe persone non sono così fortunate, e io
veramente ringrazio il Signore per i doni che ha voluto farmi.

Il counselor che assisteva la cliente era ben cosciente della tristezza presente nella voce
della donna, dell’esitazione che aveva avuto nel corso della descrizione e del lungo silenzio
di riflessione occorso proprio prima che lei usasse la parola "fortunate" riferita a se stessa.

Non sono unicamente gli episodi traumatici che i clienti possono cercare di minimizzare o
mascherare. A volte si verifica l’esatto contrario ed eventi felici vengono descritti in
termini che non lasciano dubbi sul significato che hanno in realtà per il narratore. Quando
Viviana, una donna di quarantasei anni, parlava dell’imminente matrimonio della sua unica
figlia, appariva intenta a esprimere, quantomeno esteriormente, la sua felicità e la sua
approvazione, dato che la figlia era palesemente contenta. Parlava dei buoni rapporti che
aveva sempre avuto con lei, del ricevimento che stava aiutandola a organizzare e della casa
che aveva acquistato di recente con il futuro sposo.

Si trova proprio qui, dalla parte opposta della città, così non è troppo lontana. Sono proprio
contenta per lei. Non avrei mai pensato di potermi sentire così quando la mia unica figlia se
ne fosse andata di casa, ma è proprio così. [Ride.]

Il counselor si era accorto che la risata di Viviana suonava piuttosto forzata. Notò anche
l’espressione triste che per un momento aveva oscurato il suo volto. Quando ebbe finito di
parlare, Viviana rimase in silenzio per un po’, fino a che quell’espressione malinconica
riapparve sul suo viso. Sebbene avesse manifestato gioia riguardo al matrimonio della figlia,
Viviana era incapace di nascondere, anche a se stessa, i sentimenti contrastanti che
ovviamente provava.

PRESTARE ATTENZIONE

Fin qui possiamo dire che un helper efficace è capace di prestare attenzione al contesto in
cui si svolge il colloquio e agli elementi verbali e non verbali che percorrono tutta la
comunicazione, sia dalla parte dell’interlocutore sia dalla propria. In altri termini, le
principali abilità dell’helper possono essere così sintetizzate:

Abilità di attenzione al contesto


a se stesso
all’interlocutore

L’attenzione all’interlocutore in particolare deve avvenire sia attraverso l’osservazione sia


attraverso l’ascolto di ciò che dice. Si parla in questo senso di ascolto attivo per
sottolinearne la qualità di ascolto autentico e comprensivo, che dimostri alla persona la
nostra volontà di comprenderla e accompagnarla nel suo percorso di esplorazione del
problema.

Vedi in proposito L’ascolto attivo (Geldard e Geldard, Hough) e il l’efficace


approfondimento di Carkhuff sul Prestare attenzione e coinvolgere l’helpee.

A noi compete ricordare un’ultima importante questione. Una qualità fondamentale per
l’helper che voglia raggiungere l’obiettivo dell’ascolto attivo è l’autoconsapevolezza o la
capacità di autoriflessione. Su questo tema, più che dire qualcosa oltre a ciò che potete
leggere nei testi, mi sembra opportuno stimolare a riflettere. Consiglio due esercizi tratti
da Hough (Esercizi di autoconsapevolezza) che ciascuno può fare liberamente e, come è
ovvio, senza nessuna valutazione. Se qualcuno avesse qualche riflessione o dubbio, ricordo
che abbiamo lo strumento del forum per parlarne insieme.

A tutti può comunque essere utile leggere Quali sono le qualità di un buon counselor
(Hough) e L’uso delle abilità di counseling (Geldard e Geldard) per riflettere sull’utilizzo
più o meno opportuno delle abilità di counseling.

L’ascolto attivo

Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling nella


vita quotidiana, Trento, Erickson, pp. 82-89.

Una conversazione d’aiuto è ben diversa dalle altre conversazioni della nostra vita di tutti i
giorni, lavorativa oppure no. In generale, queste conversazioni sono abbastanza equilibrate:
le parole "rimbalzano" in continuazione tra un interlocutore e l’altro, senza che vi sia una
netta prevalenza tra i due. Quando cerchiamo di aiutare qualcuno che è afflitto da un
problema personale, emotivo o relazionale, invece, è quel "qualcuno" che dovrebbe
occupare la maggior parte della conversazione. È una cosa ben diversa — vale la pena
ripeterlo — dalle conversazioni normali: in queste ultime, in effetti, siamo abituati a
interloquire educatamente con gli altri, prendendo la parola a turno. Il più delle volte
parleremo tutti, bene o male, con la stessa frequenza dei nostri interlocutori. È anche per
questo che un colloquio d’aiuto, specie all’inizio, dà l’impressione di essere innaturale: ci
richiede, dopo tutto, di ascoltare molto, ma di parlare (relativamente) poco.

Quando cercate di aiutare qualcuno ad affrontare un problema, è opportuno che non


concentriate l’attenzione su quello che dovreste dire. Concentratevi, semmai, su quello
che vi dice l’altra persona. Se, soprattutto all’inizio, vi limitate ad ascoltare in silenzio —
dando qualche breve rimando verbale o non verbale — e parlate soltanto quando è
necessario, è probabile che il vostro interlocutore si senta apprezzato e ben considerato.
Mano a mano che la conversazione procede, però, se continuaste così l’altra persona
potrebbe anche rimanerci male, e convincersi che non siate poi granché interessati a ciò
che vi racconta. Per esserle davvero d’aiuto, la conversazione si dovreste innescare un
processo di ascolto attivo, più che un semplice ascolto passivo.

L’ascolto attivo

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, pp. 46-52.

La maggior parte della gente dà per scontato che le proprie abilità di ascolto siano
adeguate o addirittura molto buone. È quindi spesso sorprendente, per gli studenti,
accorgersi che l’ascolto è un processo attivo che richiede impegno e concentrazione,
nonché la capacità di mettere da parte i propri problemi e preoccupazioni — per lo meno
temporaneamente.

Nel corso delle nostre interazioni quotidiane con altre persone tendiamo ad ascoltare a un
livello molto superficiale, e ci capita addirittura di ascoltare mentre stiamo facendo
qualcos’altro. Per esempio, talvolta sentiamo o udiamo le parole che altre persone ci
dicono mentre siamo impegnati in attività come le faccende domestiche, guardare la
televisione o guidare l’automobile. In questo caso, però, non si può parlare di ascolto
attivo, perché siamo occupati in altre attività che non consentono alla persona che ci sta
parlando di ricevere una completa attenzione. È importante comprendere che ascoltare e
sentire non sono la stessa cosa: spesso sentiamo le parole pronunciate da qualcuno senza
una reale comprensione del messaggio globale che ci vorrebbe comunicare.

Probabilmente una delle ragioni per le quali l’ascolto è un’abilità così scarsamente
sviluppata risiede nel fatto che non ci è stato insegnato a valorizzarla da bambini. I genitori
spesso sono troppo presi dalle loro faccende per prestare ai bambini un’attenzione totale e
assoluta e, quando ascoltano, lo fanno in modo distratto e per nulla attento al reale
significato che c’è dietro le parole. I bambini fanno spesso esperienze simili anche a scuola,
dove gli insegnanti non hanno il tempo per ascoltare con un’attenzione completa ed
esclusiva le esperienze di ciascun bambino del gruppo classe. Così, benché i bambini
vengano esortati ad ascoltare gli insegnanti, questi ultimi possono non essere percepiti da
loro come buoni modelli delle abilità di ascolto. È soltanto quando si verificano situazioni
traumatiche o di crisi, magari nella seconda parte della vita, che le persone si accorgono
del deficit di ascolto — non soltanto in se stesse ma anche negli altri. Questi episodi
traumatici o di crisi possono, specialmente quando ci toccano personalmente, farci
comprendere quanto dipendiamo dall’aiuto degli altri. L’ascolto attivo, per lo meno
all’inizio, è la forma più efficace di aiuto che possiamo dare alle persone che soffrono di
uno sconvolgimento emozionale o di un trauma.

Le abilità di ascolto

Un buon ascolto è difficile da sostenere perché impone di restare tranquilli e di permettere


all’altra persona di parlare. Il fatto di rimanere tranquilli è particolarmente importante nel
counseling perché i clienti, che il più delle volte già trovano arduo di per sé il fatto di
venire in counseling, hanno bisogno di sapere che quel che dicono viene ascoltato con
rispetto e attenzione. Qualunque interruzione prematura da parte di un counselor viene
interpretata (correttamente) dal cliente come un’intrusione inopportuna o come una
mancanza di interesse. Talvolta questo fallimento nel mostrare interesse per il cliente
deriva dalle preoccupazioni personali del counselor. In altre parole, avviene talora che il
cliente descriva una difficoltà, un comportamento o un’emozione che sono problematici
anche per il counselor, e ciò può provocare un cortocircuito nel flusso di comunicazione del
cliente. Quest’ultimo punto mette in luce ancora una volta l’importanza dell’autosviluppo e
dell’autoconsapevolezza nella formazione del counselor.

Gli studenti di counseling trovano spesso difficile restare verbalmente inattivi quando
iniziano a lavorare con i clienti. Il desiderio di parlare e di fare domande deriva in parte dal
desiderio — da parte dello studente di counseling — di aiutare il cliente a risolvere il suo
problema. Tuttavia, è improbabile che i clienti possano essere aiutati in questo modo,
poiché per riuscire a gestire efficacemente i loro problemi essi devono avere l’opportunità
ininterrotta di chiarirsi prima con se stessi. Questa esplorazione e chiarificazione dei
problemi può essere compiuta soltanto se al cliente è permesso di procedere con i suoi
tempi, e verrà facilitata ulteriormente se il counselor manterrà la sua presenza
visibilmente interessata e attenta, ma verbalmente contenuta.

Un buon ascolto incoraggia i clienti a parlare più liberamente poiché mostra rispetto non
soltanto per il contenuto di quanto viene detto, ma anche per i sentimenti e le esperienze
che sottendono le parole. Gli studenti di counseling hanno bisogno di imparare ad ascoltare
se stessi oltreché i clienti, e tale ascolto di sé è un processo continuo che dura non solo
durante la formazione, ma anche dopo. La supervisione ha fra gli altri scopi quello di
alimentare il processo di ascolto di se stessi e aiuta gli studenti a identificare e monitorare
le loro reazioni generali ai clienti.

Il fatto di ascoltare le proprie reazioni si verifica anche quando un cliente parla durante
una seduta di counseling. Sintonizzarsi su quel che il cliente sta dicendo significa notare
ogni aspetto della sua comunicazione fra cui il tono della voce, la postura e l’aspetto, l’uso
della lingua, le esitazioni e ogni emozione discernibile che trapeli da quanto viene
espresso. Implica anche notare la risposta che si dà a quanto il cliente esprime. Questa
osservazione degli aspetti verbali e paraverbali è una delle ragioni per le quali è
generalmente difficile mantenere un ascolto attivo nel counseling. Nelle normali
conversazioni quotidiane la maggior parte di quel che il locutore dice e fa viene notato
inconsciamente dall’ascoltatore, ma il contesto del counseling è differente. Quel che il
cliente dice e fa dev’essere registrato dal counselor non solo inconsciamente, ma anche a
livello conscio.

Alcuni aspetti generali dell’ascolto


 Quando ascoltiamo le persone accuratamente riusciamo a vedere più chiaramente
le cose dal loro punto di vista. Questa è la base dell’empatia.
 Quando ascoltiamo le persone, esse ricevono il messaggio che stiamo prendendo
seriamente sia loro che i loro problemi. Ciò le aiuta a chiarificare e a rendersi
conto pienamente delle loro esperienze.
 Ci sono alcune distrazioni che possono pregiudicare la qualità del nostro ascolto, fra
cui i rumori estranei, le interruzioni, le scomodità nonché emozioni come la rabbia,
la tristezza e l’ansia. Anche il fatto di pensare ad altro può inibire un buon ascolto.
 L’ascolto attivo è qualcosa di più che un esercizio meramente uditivo. Comprende
anche l’abilità di osservare e registrare messaggi non verbali (Egan, 1990).
L’interferenza all’ascolto può verificarsi anche quando la lingua usata è ricercata, o
quando è presente una disabilità come la difficoltà di verbalizzazione o di udito.
 I pregiudizi, le idee preconcette e gli atteggiamenti giudicanti agiscono come
barriere all’ascolto attivo.
 La ripetizione fra sé e sé del proprio imminente contributo verbale mina l’abilità di
ascolto. Questo tipo di di ripetizione e preparazione mentale è frequente nelle
riunioni di lavoro.
 Il fatto di cercare mentalmente di risolvere il problema del cliente danneggia la
capacità di ascolto del counselor.
 Per tutta la durata dell’ascolto attivo, l’ascoltatore deve capire i pensieri, i
sentimenti, le esperienze e le convinzioni del locutore. Ciò richiede un’intensa
concentrazione.

Gli aspetti non verbali del comportamento che facilitano un buon ascolto sono:
 mantenere il contatto oculare;
 movimenti del capo che indichino incoraggiamento;
 rispecchiare le espressioni mimiche del cliente per mostrare empatia; ciò andrebbe
fatto con discrezione, comunque, poiché spesso i clienti (come tutte le altre
persone) usano espressioni facciali che non descrivono affatto alla lettera il loro
stato d’animo, come quando sorridono nell’atto di raccontare eventi dolorosi o
traumatici;
 assumere una postura calda e aperta, sporgendosi lievemente verso il cliente;
 dare un appropriato incoraggiamento verbale quando si verificano delle pause
nell’eloquio del cliente.

La comunicazione non verbale del counselor

Come fanno i clienti durante il counseling a sapere che i counselor effettivamente li


ascoltano e prestano attenzione a ciò di cui parlano? La risposta è che anche i clienti
osservano e generalmente colgono ogni aspetto della comunicazione non verbale e del
comportamento generale del counselor.

Alcune risposte non verbali sono sorridere, fare movimenti con la testa per indicare
interesse, evitare gesti irritanti e manierismi, prestare un sufficiente contatto oculare per
farsi vedere partecipi, assumere una postura attenta e aperta, dare indicazioni di
incoraggiamento che possono essere sia verbali che non verbali.

Per esempio, un counselor può incoraggiare un cliente a continuare a parlare


dell’argomento che sta trattando. Un modo per farlo potrebbe essere quello di fornire
appropriati rinforzi verbali al momento giusto, del tipo:
 Sì...
 Si sentiva ...?
 E così...
 E poi?
 Ah ha...

Un altro modo di cui dispongono i counselor per raggiungere lo stesso effetto è quello di
ripetere quanto hanno detto verbalmente i clienti. Si tratta semplicemente della tecnica di
ascoltare attentamente quel che un cliente dice e poi dare le risposte più logiche che vi
conseguono.

Nell’esempio seguente una cliente sta facendo riferimento alla depressione di suo marito:

Cliente
Quando tornai dal lavoro, ieri, sedeva nel buio accanto alla finestra, completamente solo.
Mi rese depressa vederlo.
Counselor
Anche Lei si sentì depressa.

È importante usare questo tipo di risposte il minimo indispensabile, e attendere che si


verifichi una pausa naturale per darle. Bisogna ricordare che se è vero che la
consapevolezza delle proprie risposte non verbali è essenziale per un counselor, è anche
vero che preoccuparsene eccessivamente può risultare controproducente e può indurre
comportamenti suscettibili di apparire inautentici o forzati. Gli studenti di counseling
devono imparare a usare il proprio corpo "istintivamente" (Egan, 1990), ma un siffatto uso
istintivo della comunicazione può essere raggiunto soltanto quando gli studenti hanno un
grado di fiducia sufficiente per essere se stessi nelle relazioni con i clienti.
L’uso del linguaggio da parte del counselor

Si tratta di una questione molto importante nel counseling. I clienti hanno bisogno di sapere
che li si tratta da uguali, e a tal fine i counselor dovrebbero evitare di usare qualunque
espressione gergale che è, per sua stessa natura, esclusiva. Ciò è particolarmente
importante all’inizio, quando cliente e counselor si incontrano per la prima volta, perché è
proprio in questo contatto iniziale che andrebbe stabilito il rapporto.

Può darsi che il cliente chieda informazioni sulla formazione del counselor o sul suo
approccio teorico, e anche in questi casi bisognerebbe rispondere con termini chiari ed
espliciti, senza usare alcun gergo.

I counselor dovrebbero anche stare attenti a non usare un linguaggio sessista o espressioni
svalutative o etichettanti quando parlano con i clienti. Queste trappole linguistiche
potrebbero sembrare fin troppo ovvie perché se ne parli, ma in realtà capita di usare certi
termini inappropriati a causa dell’abitudine o della mancanza di una lucida consapevolezza
in merito, ed è quindi possibile cadere nella trappola di etichettare le persone secondo
determinate situazioni; per esempio: "È un alcolista? Depresso? Manipolatore?" e così via.

Anche la consapevolezza del linguaggio colloquiale e informale è importante per i


counselor, al pari della familiarità con (e all’accettazione di) parole ed espressioni usate
comunemente per descrivere i comportamenti sessuali.

Aspetti pratici della comunicazione

Ci sono alcuni aspetti pratici del counseling che devono essere affrontati nel contesto
generale della comunicazione. Gli studenti di counseling devono sapere come salutare i
clienti quando li incontrano per la prima volta; devono sapere come assicurare loro la
riservatezza e come metterli a loro agio, come stabilire i limiti temporali e i contratti;
come parlare della confidenzialità e stabilire se sia o no appropriato prendere appunti
durante o dopo le sedute.

Alcuni punti generali in relazione agli aspetti pratici del counseling:

 Il cliente dovrebbe ricevere dal counselor un saluto caldo e amichevole. Ciò implica
stringergli la mano, dare un buon contatto oculare e chiamarlo per nome. Il
counselor dovrebbe a sua volta presentarsi e indicare una poltrona o una sedia in
cui il cliente possa sedersi. Ecco un esempio di scambio verbale che potrebbe avere
luogo:

Counselor
Buon giorno, signor Offredi. Sono Caterina Vannetti.
Cliente [esitando nervosamente] Buon giorno. A dire il vero non so da che parte cominciare
adesso che sono qui.
Counselor
Talvolta è effettivamente difficile cominciare. Forse potrebbe dirmi perché ha deciso di
venire. Abbiamo un’ora a disposizione per parlarne.

 I clienti devono essere incontrati in un ambiente confortevole e che dia il senso


della privacy.
 È necessario che i clienti conoscano l’ora degli appuntamenti, la lunghezza delle
sedute e con quale frequenza dovranno presentarsi.
 Cliente e counselor devono fare un contratto che preveda tutti gli aspetti
dell’accordo riguardante il counseling.
 Il cliente deve sapere come potrà essere aiutato e l’impegno a cui dovrà
assoggettarsi per aiutare se stesso.
 Dovrebbero essere discusse le questioni relative alla riservatezza e ai suoi confini.
 A seconda del setting in cui lavora il counselor, potrà essere necessario prendere
appunti durante le sedute. Un approccio veramente centrato sul cliente imporrebbe
che i clienti fossero informati di questi appunti e del perché siano necessari.
Prendere appunti durante le sedute può avere l’effetto di distrarre il cliente
facendolo concentrare su quanto viene scritto, e tende anche talvolta a porre
problemi di fiducia.
 Si dovrebbe evitare di interrompere bruscamente i clienti alla fine delle sedute,
indicando loro in anticipo che il tempo disponibile si esaurirà fra breve. Per questo
motivo, è opportuno che nello studio in cui avviene il counseling vi sia un orologio a
muro che sia visibile sia al counselor sia al cliente. Naturalmente il counselor dovrà
stare attento a non fissare lo sguardo sull’orologio, poiché ciò comunicherebbe al
cliente — anche nel caso non fosse così — l’idea che non vede l’ora di porre termine
al colloquio.
 La stanza in cui si svolge il counseling non dovrebbe essere esposta a interruzioni di
qualunque tipo. Se necessario, bisognerebbe appendere un cartello con la scritta
"Non disturbare" sulla porta. È preferibile che nella stanza non ci sia telefono, ma
se ci fosse bisognerebbe fare in modo che non squillasse finché la seduta è in corso.
Il mobilio dovrebbe essere disposto in modo da far sentire i clienti a loro agio,
senza ovvie barriere come tavoli o scrivanie. È utile, comunque, avere accanto un
tavolinetto con una confezione di fazzoletti di carta da porgere ai clienti che si
mettono a piangere.
 È del pari utile tenere a disposizione un’agenda in cui trascrivere i successivi
appuntamenti.

Prestare attenzione e coinvolgere l'helpee

Il nostro compito come helper è quello di facilitare il passaggio degli helpee attraverso le
fasi principali dell’apprendimento umano: esplorazione, comprensione e azione. Dobbiamo
iniziare coinvolgendo gli helpee nel processo di aiuto. Questo lo possiamo ottenere
prestando loro attenzione.

È legittimo porsi alcune domande nel momento in cui ci accostiamo a questa tematica:

 Come ci si può render conto in genere se una persona è veramente interessata a


noi?
 Come ci si può render conto in genere se una persona è veramente attenta a noi?
 Cosa possiamo imparare osservando le persone?
 Come facciamo a sapere se un persona ci sta veramente ascoltando?

Leggete qui di seguito il resoconto di questo caso e provate a vedere se riconoscete delle
situazioni in cui l’helper non riesce a coinvolgere l’helpee.

Caso n. 1: Prestare attenzione in modo poco abile

Angela è una studentessa universitaria di 20 anni. Ha telefonato a Federica, una sua


conoscente, chiedendole di "trovarsi insieme per parlare". Federica ha 24 anni e si sta
laureando in psicologia; Angela vorrebbe da lei un consiglio. Federica non aveva capito
esattamente perché Angela l’avesse chiamata. Di certo non si poteva dire che fossero
amiche. Aveva dei dubbi sul fatto che Angela avesse dei veri amici: era un tipo che
esasperava le persone. Federica ne aveva parlato diverse volte anche con i suoi amici.
Nessuno di loro era in grado di capire perché Angela indisponeva le persone in quel modo.
Pur essendo abbastanza carina, vi era qualcosa di indefinito in lei che irritava.
Questo appuntamento con Angela infastidiva non poco Federica. Non aveva, in effetti,
nessuna voglia di vederla. Per di più quel giorno le era andato tutto storto. Era una giornata
molto calda e umida. Mentre ritornava a casa, l’autobus si era rotto e lei era stata
costretta a camminare a piedi per due miglia. Il suo condizionatore era guasto e non aveva
avuto il tempo di farsi un bagno prima che Angela arrivasse. La stanchezza e la fame erano
il suo unico pensiero. Mentre Federica era assorta in questi pensieri, il campanello suonò.
Federica: (distrattamente) "Ciao, Angela, entra pure" (Federica entra nella camera da letto
facendo segno a Angela di seguirla. Appena entrata incomincia a cambiarsi. Angela è ferma
sulla soglia e guarda). "Spero che la tua giornata sia stata migliore della mia" (Angela non
dice nulla. Dopo essersi cambiata gli abiti, Federica fa strada verso il soggiorno. Angela si
siede sul divano. Federica prende una sedia dall’altro lato del tavolino, quindi si accende
una sigaretta facendo un profondo respiro, poi espira forte). "Allora, di che cosa volevi
parlare?"
Angela: "Io... non saprei da dove cominciare. Insomma, il fatto è che non sono capace di
farmi degli amici. Non piaccio proprio a nessuno. Io..."
Federica: "Ma dai! Io sono tua amica. Sai Angela, io penso che tu sei solo troppo sensibile".
Angela: "Non lo so. Sembra che a nessuno importi di me".
Federica: "Pensi che starei qui a parlare con te se non mi importasse?"
Angela: (con esitazione) "No... ma...".
Federica: (Interrompendola) "Forse il problema è che sei troppo tesa, capisci? Sembra che
tu non sia mai capace di lasciarti andare".
Angela: "Non lo so Federica. Solo che mi sento ... sola. Quasi nessun ragazzo mi invita mai
ad uscire e quando qualche volta capita, poi non si fa più vedere".
Federica: "Mah, forse se ti aprissi un pochino. Capisci ... se ti mostrassi un po’ più
disponibile".
Angela: "Non capisco cosa vuoi dire".
Federica: "Ma dai, Angela. Se vuoi conoscere qualcuno, devi fargli capire che ti interessa.
Non voglio dire di essere volgare".
Angela: "Non lo so".
Federica: "Ascolta, Angela. Hai detto che ti senti sola. Ho un’idea: andiamo a ballare
domani sera. Questa sera sono molto impegnata, ma domani andiamo. Ti chiamo domani
per fissare l’ora e tutto il resto, ok?" (Federica si alza e va verso la porta. Angela la
guarda). "Mi piacerebbe parlare ancora, Federica, ma devo darmi da fare".
Angela: (alzandosi in piedi, confusa) "Certo".
Federica: (appoggiandosi contro la porta dopo che Angela se ne è andata, a bassa voce)
"Perché mi debbo interessare di queste cose?"

Prestare attenzione è la pre-condizione necessaria dell’aiuto. Per comprenderne le


caratteristiche essenziali, provate a voltare le spalle alle persone che avete di fronte.
Chiedetevi ora come potete esprimere il vostro interesse per loro. E soprattutto chiedetevi
come potete imparare qualcosa dagli altri (e sugli altri) in questa condizione. Quando vi
volterete di nuovo piano piano verso gli altri, imparerete qualcosa su di loro. Molto
imparerete soprattutto da quello che vedete e da quello che sentite.

Le abilità di prestare attenzione mettono l’helper nella posizione più adatta per vedere e
sentire gli helpee. Queste abilità comprendono il prepararsi all’attenzione, il prestare
attenzione alla persona, osservare e ascoltare. Le abilità di attenzione servono per
coinvolgere gli helpee nella relazione di aiuto. Quando l’helper è veramente attento, gli
helpee diventano a loro volta pienamente attenti e si impegnano nel processo di aiuto.
Prestare attenzione getta le basi per una risposta che faciliti l’esplorazione dell’helpee.

Prepararsi all’attenzione

Il primo compito nel prestare attenzione è quello di "prepararsi all’attenzione". Come per
qualsiasi altra cosa nella vita, la preparazione è una condizione necessaria ma non
sufficiente per ottenere il risultato desiderato, che, in questo caso, è il coinvolgimento
degli helpee.

Prepararsi all’attenzione comprende la preparazione degli helpee, del contesto e


dell’helper. Se gli helpee non saranno stati adeguatamente preparati ad entrare in contatto
vi saranno minori probabilità che la relazione d’aiuto possa aver luogo. Se il contesto
(l’ambiente fisico) non è preparato a ricevere gli helpee, essi non saranno invogliati a
ritornare. Se l’helper non è preparato ad essere attento agli helpee, questi non verranno
coinvolti nel processo di aiuto.

Prepararsi all’attenzione ci prepara alla successiva fase del "prestare attenzione", il dare
attenzione alla persona.

Preparare gli helpee

La disponibilità degli helpee a lasciarsi coinvolgere dipenderà da quanto li avremo preparati


alla relazione di aiuto. La preparazione degli helpee è un processo che comprende il
contattarli, informarli della nostra disponibilità ed incoraggiarli ad utilizzare il nostro
aiuto.

Contattare gli helpee sottolinea l’importanza di salutarli in modo formale e di stabilire un


punto di vista comune riguardo allo scopo della presa di contatto o del colloquio.

Informare gli helpee sottolinea l’importanza di comunicare loro:

 CHI incontreranno.
 QUANDO e dove avranno luogo gli incontri.
 COME arrivarci.
 QUALI saranno gli scopi generali di questo contatto.

Incoraggiare gli helpee sottolinea l’importanza di fornire agli helpee le motivazioni per
lasciarsi coinvolgere, rispondendo alle seguenti domande:

 PERCHÉ dovrei sentirmi coinvolto?


 PERCHÉ tu vuoi sentirti coinvolto con me?

Incoraggiare

Informare

Contattare

Preparare il contesto

La nostra abilità nel facilitare il coinvolgimento dell’helpee dipende, in parte, anche dalla
preparazione di un ambiente fisico adatto all’helpee. La preparazione del contesto richiede
di predisporre opportunamente i mobili e gli oggetti e di organizzare il nostro studio o
comunque l’ambiente dove si prevede abbia luogo l’incontro.

Predisporre il mobilio in modo adeguato serve a facilitare una comunicazione aperta:


l’ideale sarebbe poter stare seduti su due sedie, una di fronte all’altra, senza una
scrivania, tavoli o altre barriere in mezzo. Se gli helpee sono più di uno, le sedie
dovrebbero essere messe in cerchio, per facilitare la comunicazione di interesse e di
attenzione tra le persone.

Predisporre gli oggetti significa utilizzare degli oggetti o abbellimenti con i quali gli helpee
possano stabilire un rapporto. Ad esempio, se gli helpee sono studenti universitari, le
decorazioni del nostro locale dovrebbero rispecchiare oggetti a loro familiari che possano
aiutarli a sentirsi a loro agio.

Infine, il luogo (setting) in cui si svolge la relazione di aiuto deve essere tenuto pulito ed
ordinato. In questo modo comunichiamo agli helpee che siamo liberi dalle nostre faccende
e siamo pronti a concentrarci sui loro problemi.
Facilitare

Familiarizzare

Tenere ordine

Preparare noi stessi

Preparare noi stessi alla relazione di aiuto è altrettanto importante che preparare gli
helpee e il contesto. Noi ci possiamo preparare ripassando mentalmente ciò che sappiamo
degli helpee e degli obiettivi generali che la relazione di aiuto dovrebbe conseguire, oppure
rilassandoci.

Ripassare ciò che sappiamo della situazione di aiuto significa ricordarsi di tutto quello che
abbiamo saputo sugli helpee nel corso di tutte le precedenti interazioni. Queste
informazioni possono essere date da appunti, dati o registrazioni, come anche da semplici
impressioni.

Rivedere gli obiettivi del processo di aiuto sottolinea l’importanza di tenere presente lo
scopo dei nostri contatti o colloqui con l’helpee. Durante le fasi iniziali della relazione di
aiuto, l’obiettivo fondamentale è quello di coinvolgere gli helpee nell’esplorazione di come
essi vivono i loro problemi.

Rilassarci significa alleggerire la mente ed il corpo prima di immergersi nella interazione di


aiuto. Alcuni helper rilassano la mente pensando ad esperienze piacevoli o tranquillizzanti.
Altri rilassano il corpo rilassando fisicamente un gruppo di muscoli alla volta. Ciascuno di
noi deve sperimentare e trovare il metodo di rilassamento che è più efficace per lui.

Rivedere le informazioni

Rivedere gli obiettivi

Rilassarsi

Prestare attenzione alla persona

Prestando attenzione alla persona si riesce a far "entrare" gli helpee in prossimità stretta
con noi. In questo modo, noi comunichiamo il nostro interesse per loro. Comunicando
interesse per gli helpee, si tende a suscitare una corrispondente risposta di interesse da
parte loro.

Un’attenzione alla persona richiede l’assunzione di una posizione che ci permetta di dare
agli helpee la nostra piena e completa attenzione. Dare attenzione alla persona sottolinea
l’importanza di disporsi di fronte agli helpee, in modo da poterli guardare in faccia, di
piegarsi leggermente in avanti verso di loro e di mantenere un costante contatto oculare.
Prestando attenzione alla persona degli helpee ci prepariamo alla fase successiva, che è
quella di riuscire ad osservarli pienamente.

Mettersi di fronte

Un modo in cui possiamo porci per prestare attenzione agli helpee, è di averli esattamente
di fronte. Sia in piedi che seduti, possiamo prestare attenzione ad una persona singola
avendola di fronte sullo stesso piano: la nostra spalla destra di fronte alla sua spalla sinistra
e viceversa.
Quando invece ci troviamo a lavorare con una coppia o con un piccolo gruppo di persone,
dovremmo metterci al vertice di un immaginario angolo retto tracciato partendo dalle
persone che si trovano ai due estremi, alla nostra destra ed alla nostra sinistra. Provate a
vedere quali differenti sensazioni avreste nei confronti delle persone posizionandovi in
questo modo, rispetto a quelle che proviamo quando ci mettiamo in una posizione
pensando soltanto a stare comodi.

Inclinare il corpo in avanti

Vi sono altri modi di posizionarsi per prestare attenzione alla persona. L’inclinazione del
nostro corpo è una delle caratteristiche più importanti. Ad esempio, stando seduti,
riusciamo ad essere più pienamente attenti se incliniamo il corpo in avanti, o comunque
verso gli helpee, fino a poter appoggiare gli avambracci sulle cosce. Stando in piedi, la
nostra attenzione è più completa se riduciamo lo spazio fisico avvicinandoci agli helpee.
Mettere una gamba più avanti dell’altra ci aiuterà ad inclinarci leggermente verso gli
helpee.

Contatto oculare

Dobbiamo, come detto, cercare in ogni modo di comunicare all’altra persona la nostra
piena ed incondizionata attenzione. La maniera fondamentale di prestare attenzione alla
persona è probabilmente il modo in cui usiamo i nostri sensi, gli occhi in particolare.

Noi comunichiamo la nostra attenzione quando riusciamo a mantenere un costante contatto


con gli occhi degli helpee. Gli helpee si rendono conto che noi ci sforziamo di avere un
contatto psicologico con loro dal fatto che cerchiamo di entrare in contatto con il loro
sguardo.

Possiamo valutare il nostro livello di "attenzione alla persona stando seduti" usando la
seguente scala:

Livello di attenzione (stando seduti):

 Alto. Di fronte, contatto con gli occhi e un’inclinazione di venti gradi o più
 Medio. Di fronte, contatto con gli occhi
 Basso. Non di fronte, scomposti

Chiaramente, non sempre prestiamo attenzione stando seduti. Spesso ci capita di dover
interagire e di aiutare le persone stando in piedi. Possiamo usare una scala analoga per
valutare il nostro livello di abilità stando in piedi.

Livello di attenzione (stando in piedi):

 Alto. Di fronte, contatto con gli occhi e un’inclinazione di dieci gradi o più
 Medio. Di fronte, contatto con gli occhi
 Basso. Non di fronte

Noi comunichiamo la nostra attenzione alla persona attraverso tutti i nostri modi di fare e
le nostre espressioni. Quando siamo emotivamente coinvolti ma rilassati, noi comunichiamo
attenzione. Quando siamo nervosi ed inquieti, comunichiamo un senso di riluttanza ad
essere lì, in quel momento. Quando il nostro comportamento è costantemente attento,
comunichiamo interesse. Quando arrossiamo o impallidiamo, comunichiamo agli helpee
diversi livelli di reazione. È importante che cerchiamo di mantenere sempre un certo
controllo sul nostro comportamento attentivo.

Possiamo esercitarci nell’apprendere la migliore postura che comunichi attenzione, prima


di tutto di fronte ad uno specchio e poi con le persone che abbiamo occasione di incontrare
tutti i giorni ed a cui vogliamo comunicare interesse e solidarietà. Da principio ci sentiremo
un po’ impacciati; dopo un po’, comunque, è possibile notare che la nostra capacità di
concentrarci sull’altra persona migliora e che l’altra persona, a sua volta, è più attenta a
noi.

Forse l’abilità più importante per la quale il comportamento di "prestare attenzione" è un


prerequisito è l’osservare.

Osservare

Le abilità di osservare sono le abilità fondamentali per un’efficace relazione di aiuto. Esse
costituiscono un’inesauribile fonte di apprendimento sulle persone. Quando tutto il resto
sembra fallire, è bene procedere ad una più profonda osservazione dei nostri helpee.
Possiamo imparare molto di ciò che ci serve sapere sulle persone semplicemente
osservandole.

Le abilità di osservare richiedono la capacità dell’helper di vedere e di comprendere il


comportamento non-verbale dell’helpee. Dobbiamo osservare quei particolari dell’aspetto
esteriore e del comportamento dell’helpee che ci aiutano a capire qual è il suo livello di
energia fisica, qual è il suo stato emotivo e qual è la sua disponibilità intellettuale
all’aiuto. Queste deduzioni costituiscono le basi per cercare di capire, per così dire, da
dove l’helpee proviene.

Mentre osserviamo, noi raccogliamo le informazioni non verbali che gli helpee ci forniscono.
Impariamo a conoscere le altre persone facendo attenzione al loro aspetto esteriore e, in
particolare, alla loro posizione, alla loro corporatura e a come hanno cura della propria
persona. Possiamo raccogliere informazioni anche osservando i loro comportamenti e,
soprattutto, le espressioni del loro viso ed i movimenti del corpo. Dal loro aspetto e dai
loro comportamenti è possibile fare alcune inferenze riguardo al loro livello di energia, alla
loro situazione emotiva ed alla loro disponibilità all’aiuto.

Osservare i movimenti del corpo

Osservare le espressioni del viso

Osservare la cura di sè

Osservare la corporatura

Osservare la postura

Il grado di energia

Il livello di energia è la quantità di "sforzo" fisico che si è in grado di investire nello


svolgimento di un compito. Sapere quanto a lungo le persone sono in grado di mantenere
degli alti livelli di funzionamento è essenziale per capire che tipo di vita le persone
conducono. Solo le persone con alti livelli di energia possono sperimentare la pienezza
della vita. Chi dispone di bassi livelli di energia, ha una grande difficoltà a far fronte anche
alle più semplici esigenze quotidiane.

La più ricca fonte di informazioni riguardo al livello di energia è rappresentata dalla


"dinamicità" delle posture dell’helpee. In particolare, nell’osservare l’helpee, si dovrebbe
tener conto di quegli stessi elementi che abbiamo discusso in precedenza a proposito del
prestare attenzione, e cioè se la persona mantiene una posizione eretta (in piedi o seduto)
o si inclina in avanti mantenendo lo sguardo fisso sull’helper. Un helpee che siede
scomposto, con le spalle curve, ha una posizione che suggerisce un basso livello di energia.
Il livello di energia può anche essere dedotto da caratteristiche "corporee" della persona.
Ad esempio, helpee che sono in sovrappeso o sottopeso, o che hanno un tono muscolare
ridotto, tenderanno ad avere bassi livelli di energia. Indici del livello di energia degli
helpee sono anche la cura che essi hanno della propria persona e le espressioni non verbali.
È necessaria, infatti, una discreta quantità di energia per mantenere un aspetto pulito ed
ordinato.

Oltre che dall’aspetto della persona, si può desumere il livello di energia anche dal
comportamento dell’helpee. Ad esempio, dei movimenti lenti possono suggerire un basso
livello di energia.

Osservare la postura

Osservare la cura di sè

Osservare la corporatura

Inferire i sentimenti

Le espressioni del viso rappresentano la fonte più ricca di informazioni sui sentimenti
dell’helpee. Anche altri aspetti come la posizione del corpo, possono essere di aiuto nel
comprendere le esperienze dell’helpee. Come detto, valide deduzioni sui vissuti possono
essere fatte anche in base ai movimenti del corpo, dove i movimenti lenti indicano il
sentirsi "giù" e i movimenti troppo rapidi suggeriscono tensione o ansia. Da questi indizi
possiamo desumere lo stato emotivo dell’helpee. Ad esempio, la fronte corrugata, lo
sguardo corrucciato, l’atteggiamento scomposto, gli occhi bassi, l’aspetto trascurato e dei
movimenti lenti, sono tutti segni del sentirsi "giù". Un sorriso aperto, le sopracciglia
sollevate, una posizione vigile, il contatto degli occhi, un aspetto curato, dei movimenti
rapidi e reattivi, si possono associare al sentirsi "su".

Osservare le espressioni del viso

Osservare le posture

Osservare i movimenti

Disponibilità all’aiuto

Dalle nostre osservazioni sull’aspetto e sul comportamento dell’helpee, possiamo desumere


una generale disponibilità "intellettuale" a ricevere aiuto. Anche in questo caso, la
posizione del corpo è il segno più eloquente di una disponibilità a lasciarsi coinvolgere in
una relazione di aiuto.

Altre informazioni le possiamo trarre osservando i movimenti del corpo e le espressioni del
viso. Così, l’helpee che ha un basso livello di energia e si senta "giù", avrà di solito una
scarsa disponibilità all’aiuto. Un helpee con alta energia, che si sente "su", è più facilmente
pronto al processo di aiuto.

Trarre inferenze dalle osservazioni

Attraverso l’osservazione possiamo ottenere delle informazioni di grande importanza, che


riguardano l’esperienza interiore degli helpee. Un modo per organizzare la nostra
osservazione è quello di osservare se gli helpee utilizzano le stesse posture che in
precedenza abbiamo indicato come appropriate per gli helper. Partendo dalle nostre
osservazioni sull’aspetto e sul comportamento, possiamo fare delle deduzioni sul livello di
funzionamento degli helpee. Possiamo inferire il livello di energia fisica, lo stato emotivo e
la disponibilità intellettuale all’aiuto di un helpee.
È importante ricordare che le osservazioni devono sempre essere considerate come ipotesi
che, col tempo, possono venire confermate o smentite dai comportamenti verbali o non-
verbali dell’helpee. Le osservazioni, quindi, non dovrebbero mai costituire una base
sufficiente su cui costruire giudizi affrettati nei confronti di una persona.

Osservare le incongruenze

Forse una delle osservazioni più importanti che possiamo fare è quella di individuare
discrepanze ed incongruenze presenti nel comportamento o nell’aspetto delle persone.
Incongruenza significa semplicemente che una persona non dimostra coerenza nei diversi
aspetti del proprio comportamento e del proprio aspetto esteriore. Ad esempio, una
persona è incongruente se afferma di sentirsi bene, ma è pesantemente accasciata sulla
sedia, con gli occhi bassi e appare agitata.

L’incongruenza è un segno caratteristico delle persone con problemi. Invariabilmente gli


helpee desiderano diventare più congruenti. Forse il più significativo aspetto del
comportamento al quale è opportuno rispondere fin dall’inizio è il desiderio degli helpee di
riuscire ad essere più coerenti. Più di ogni altra cosa al mondo, gli helpee desiderano essere
capaci di funzionare efficacemente senza quelle evidenti incongruenze nel loro modo di
agire.

Osservare noi stessi

Nella stessa maniera in cui osserviamo gli altri, possiamo osservare anche noi stessi. Cosa ci
possono "dire" di noi, come helper, il nostro aspetto e il nostro comportamento? Siamo in
grado di esprimere un alto livello di energia, sensibilità e determinazione ad aiutare? Siamo
congruenti nel nostro comportamento e nel nostro desiderio di aiutare?

Possiamo anche utilizzare le osservazioni che abbiamo svolto su noi stessi e sui nostri
helpee per coinvolgere gli helpee. Nell’aiuto, è nostro dovere concentrarci completamente
sugli helpee e sul modo in cui essi esprimono la loro esperienza. In questo modo, riusciamo
a comunicare, in maniera non verbale, che siamo attenti a loro e che il nostro interesse è
incentrato sul modo in cui essi fanno esperienza di sé. Così facendo, aumentiamo negli
helpee il senso di fiducia e di sicurezza di star ricevendo veramente aiuto.

Ascoltare

Gli input maggiormente utili nella relazione di aiuto ci giungono dalle espressioni verbali
degli helpee. Ciò che le persone dicono e il modo in cui lo dicono, ci fa capire molto su
come queste persone vedono se stesse e su come vedono il mondo intorno a loro. In
definitiva, le espressioni verbali degli helpee sono, per l’helper, la più ricca fonte di
comprensione empatica.

Noi diamo agli helpee la nostra piena e incondizionata attenzione solo se siamo pronti ad
ascoltare le loro espressioni verbali. Quanto più stiamo attenti agli indizi esterni che le
persone ci presentano, tanto più siamo in grado di dare ascolto ai messaggi interni che
riflettono le loro esperienze interiori. Vi sono molti modi in cui è possibile migliorare le
nostre abilità di ascolto. Tra questi: avere un motivo per ascoltare, sospendere il nostro
giudizio, concentrarci sull’helpee e sul contenuto, ricordare le espressioni usate
dall’helpee, e prestare attenzione a quelle che sono le tematiche ricorrenti. Ascoltare ci
prepara a rispondere empaticamente ai nostri helpee.

Un motivo per ascoltare

Prima di tutto, per ascoltare bene, dobbiamo sapere perché stiamo ascoltando. Dobbiamo
avere un motivo per ascoltare. L’obiettivo della relazione di aiuto è, in realtà, il motivo per
il quale ogni helper deve impegnarsi ad ascoltare: raccogliere tutte le informazioni possibili
collegate ai problemi o agli obiettivi presentati dagli helpee.

Come nell’osservare, dovremmo ascoltare le indicazioni che ci vengono dai diversi livelli di
funzionamento degli helpee: fisico, emotivo ed intellettuale. Per far questo, dobbiamo
concentrarci non solo sulle parole, ma anche sul tono della voce e sul modo con cui le
persone si presentano. Le parole ci diranno del contenuto intellettuale delle esperienze che
l’altra persona sta vivendo. Il tono della voce ci dirà dei sentimenti presenti negli helpee.

Il modo di esprimersi ci dirà qual è il livello di energia degli helpee. Ad esempio, un


contenuto espresso in un tono di voce opaco e in modo svogliato, suggerisce un helpee
depresso, con un basso livello di energia.

Modo di presentarsi

Tono della voce

Parole dell'helpee

Sospendere i giudizi personali

È poi importante, almeno in un primo momento, che noi sospendiamo il nostro giudizio
personale mentre ascoltiamo. Se intendiamo veramente ascoltare ciò che gli helpee dicono,
dobbiamo momentaneamente mettere da parte le cose che diciamo a noi stessi. Dobbiamo
lasciarci penetrare dai messaggi degli helpee senza voler cercare di esprimere un giudizio
su di essi.

Sospendere il giudizio significa sospendere i nostri valori e le nostre opinioni rispetto al


contenuto di ciò che le persone ci dicono. Ad esempio, può darsi che noi non approviamo il
comportamento degli helpee, o il modo in cui essi vivono la loro vita. Ma, nonostante ciò,
dobbiamo aver ben presente che le nostre sensazioni non c’entrano con le esperienze degli
helpee e che il nostro scopo è quello di facilitare la crescita e lo sviluppo degli helpee. È
inoltre

importante essere molto prudenti nell’offrire consigli o soluzioni premature, anche se


pensiamo di sapere cosa è bene fare, perché magari abbiamo già affrontato lo stesso tipo di
problema con molte altre persone. Ogni helpee vive un’esperienza unica, ed è nostro
compito permettere che emerga l’originalità di questa esperienza.

Sospendere le soluzioni premature

Sospendere le nostre opinioni personali

Sospendere i nostri valori personali

Concentrarsi sulla persona

Forse la cosa più importante nell’ascoltare è concentrarsi sugli helpee. Riusciamo a


concentrarci sugli helpee se riusciamo a resistere alle distrazioni. Nella stessa maniera in
cui abbiamo resistito alla voce "giudicante" dentro di noi, così dobbiamo anche resistere
alle tentazioni esterne. Vi saranno sempre un sacco di cose che ci renderanno difficile
l’ascolto.

Dobbiamo cercare di metterci in posti tranquilli, in modo da poterci concentrare sulle


esperienze interiori degli helpee. Nei limiti del possibile, dobbiamo scegliere un ambiente
in cui siano assenti rumori, persone e distrazioni (qualsiasi cosa o chiunque possa distogliere
la nostra attenzione dagli helpee che stiamo ascoltando). Dobbiamo raccogliere tutte le
nostre energie, emotive ed intellettuali, per essere in grado di concentrarci sulle
esperienze interiori e sui comportamenti esteriori degli helpee, per poter poi rispondere
con accuratezza a queste esperienze e a questi comportamenti.

Concentrarsi sulle esperienze interiori degli helpee

Concentrarsi sui comportamenti esteriori degli helpee

Resistere alle distrazioni

Concentrarsi sul contenuto

Nell’ascoltare gli helpee, ci concentriamo inizialmente sul contenuto oggettivo di ciò che
l’altro dice. Concentrandoci sul contenuto, vogliamo essere certi di aver colto tutti i
dettagli "concreti" delle esperienze degli helpee. Se così non fosse, non saremmo in grado
di aiutarli a comprendere le loro esperienze. Possiamo concentrarci sul contenuto di ciò
che esprimiamo ponendoci le sei domande chiave.

 CHI?
 COSA?
 PERCHÉ?
 QUANDO?
 DOVE?
 COME?

Se siamo in grado, ogni volta, di rispondere a queste domande, possiamo essere certi di
aver colto gli ingredienti fondamentali che compongono il contenuto delle esperienze degli
helpee. Se, viceversa, non siamo in grado di rispondere a queste domande, vuol dire che è
necessario continuare ad ascoltare: a mano a mano che le persone, parlando,
condivideranno con noi le loro esperienze, completeranno le informazioni che ci mancano.

Quando? Dove? Come?

Cosa? Perchè?

Chi?

Ricordare

Per essere in grado di fissare in memoria e richiamare di volta in volta alla mente il
contenuto di ciò che le persone stanno dicendo, ma anche il sentimento che lo
accompagna, dobbiamo concentrarci piuttosto intensamente sulle espressioni degli helpee.

Inoltre, faremo anche attenzione ad eventuali "buchi" o informazioni mancanti. Per


esercitare le vostre abilità di ascolto e di memoria, provate a ripetere - nel caso di
espressioni brevi - un’intera frase parola per parola. Nel caso di espressioni più lunghe,
provate a ripeterne il senso. Riportiamo di seguito l’espressione di un giovane con dei
problemi: leggetela e provate a ripeterne il contenuto, il sentimento ed eventuali "buchi" di
informazione.

"Le cose non mi stanno andando molto bene. Né a scuola, né con la mia ragazza. Mi sento
come bloccato. Cerco di far finta di niente, ma dentro mi sento molto giù perché non sono
sicuro di cosa vorrei fare o dove vorrei andare".

"Buchi"
Sentimento

Contenuto

Cogliere i temi ricorrenti

Dobbiamo anche imparare a cogliere ciò che le persone ci stanno dicendo a "lungo termine",
cioè per un certo arco di tempo. Per far questo, un utile accorgimento è quello di cercare
di individuare i temi o gli argomenti ricorrenti nelle esperienze degli helpee. Le tematiche
importanti (ciò che veramente sta a cuore alle persone) è probabile che vengano ripetute e
ripetute, più volte. Di solito, gli helpee sono anche emotivamente coinvolti con maggiore
intensità in queste tematiche, dal momento, appunto, che cercano di comunicarcele
continuamente.

In realtà, sono proprio questi temi ricorrenti a farci capire quello che veramente gli helpee
cercano di dirci di loro stessi e del loro mondo. Se solo gliene daremo l’opportunità, questi
temi ci diranno da "dove" (da quali esperienze) le persone provengono. Dobbiamo solo
ricevere i messaggi che essi ci mandano e decodificarli, cercando di riconoscere quali sono i
temi ricorrenti. Questa percezione ci metterà in condizione di rispondere agli helpee con
accuratezza. È possibile esercitarci nell’ascolto cercando di "cogliere" le tematiche
ricorrenti presenti nelle nostre conversazioni di tutti i giorni.

Temi ricorrenti

Intensità

Ripetizione

Ascoltare è senza dubbio un compito molto impegnativo. Richiede una grande


concentrazione. È comunque vero che, come vi sono differenti velocità di lettura, così vi
possono anche essere differenti velocità di ascolto. La maggior parte delle persone parla ad
una velocità che va da 100 a 150 parole al minuto. Eppure noi siamo perfettamente in
grado di ascoltare ad una velocità 2 o 3 volte maggiore. Possiamo quindi utilizzare questo
tempo in più, per pensare o riflettere istantaneamente su ciò che gli helpee vanno via via
dicendo.

Alla maggior parte di noi è sempre stato "insegnato" a non stare a sentire, a non ascoltare.
Anni di condizionamenti hanno portato a questo. Siamo distratti perché non vogliamo stare
a sentire. Travisiamo le espressioni degli altri per evitare eventuali conseguenze spiacevoli
di una vera comprensione. Sono soprattutto le conseguenze che vi possono essere sulla
propria intimità che spaventano le persone. Così come siamo stati condizionati a non
ascoltare ed a non sentire, per essere helper efficaci dobbiamo "decondizionarci", ovvero
dobbiamo abituarci ad ascoltare e sentire attivamente le espressioni degli helpee.

Sentire

Riflettere

Ascoltare

Riepilogo

Un modo per "strutturare" le abilità di ascolto è quello di saggiare la nostra capacità di


memorizzazione ripetendo le espressioni degli helpee parola per parola. Semplicemente,
ascoltare delle espressioni e provare a ripetere parola per parola ciò che abbiamo sentito.
Questo esercizio lo si può fare sia in interazioni "dal vivo", sia con espressioni scritte o
registrate. Possiamo valutare l’accuratezza della nostra memoria in questo modo:
 Accuratezza alta. Ripetizione letterale dell’espressione
 Accuratezza media. Ripetizione del senso dell’espressione
 Accuratezza bassa. Ripetizione scarsa o nulla dell’espressione

In conclusione, l’intero processo di aiuto verbale dipende dalla nostra abilità di ascoltare e
di decodificare il contenuto ed il sentimento delle molteplici espressioni che le persone
tentano di "inviarci".

Scala dei livelli di aiuto: abilità di attenzione

Possiamo ora iniziare a costruire una scala di valutazione cumulativa delle varie abilità che
compongono la relazione di aiuto. Se l’helper è attento alla persona, osserva e ascolta gli
helpee, possiamo valutarlo come pienamente attento (livello 2.0). Se l’helper è solamente
attento alla persona, può essere valutato ad un livello inferiore rispetto al precedente
(livello 1.5). Se l’helper non è attento alla persona, allora non lo possiamo considerare in
relazione con l’helpee (livello 1.0)

Livelli di aiuto

 5.0
 4.5
 4.0
 3.5
 3.0
 2.5
 2.0 Osserva e ascolta
 1.5 Presta attenzione alla persona
 1.0 Non attento

Se abbiamo veramente ed efficacemente prestato attenzione agli helpee, allora è probabile


che saremo riusciti a coinvolgerli nella relazione di aiuto: essi sperimenteranno un senso di
fiducia scaturita dal lavoro di preparazione che abbiamo svolto per loro. Si sentiranno sicuri
della nostra capacità di attenzione e avranno fiducia nelle nostre osservazioni. Essi
inizieranno a condividere con noi le loro esperienze; avviandosi la comunicazione, avremo
così l’opportunità di ascoltare e registrare le loro espressioni.

Ma quello che più conta è che gli helpee, da parte loro, incominceranno a lasciarsi
coinvolgere nel processo di aiuto. Si prepareranno alle sedute o agli incontri con noi.
Diverranno attenti ed impareranno ad osservare se stessi e gli altri. Incominceranno a
condividere le loro esperienze e ad ascoltare, a loro volta, le esperienze degli altri. In
questo modo, gli helpee dimostreranno di essere pronti ad entrare nella fase successiva
della relazione di aiuto: la fase dell’esplorazione della loro esperienza.

Come per ogni altro tipo di abilità, sarà necessario che vi esercitiate nelle abilità di
attenzione, fino a che non le avrete integrate nella vostra personalità e nel vostro stile di
aiuto, come dimostra di aver fatto l’helper nel caso che ora presentiamo.

Caso n. 2: Prestare attenzione efficace

Alberto è un ragazzo di 23 anni, alto, robusto, spalle larghe. Appariva agitato e arrabbiato.
Paola, la terapista, incontrò per la prima volta Alberto nel proprio studio. L’unico preavviso
era stata una telefonata da parte della ditta in cui Alberto lavora (e con la quale Paola
aveva un contratto come consulente), in cui le veniva richiesto un appuntamento urgente
per Alberto nel pomeriggio.
Quando Paola entrò nella sala d’aspetto, fu sorpresa. Alberto non aveva affatto l’aspetto di
un suo tipico cliente: era alto, muscoloso e si muoveva velocemente. Indossava indumenti
da lavoro, puliti, ma evidentemente usati. Ed era in collera. Camminava avanti e indietro,
con una smorfia sul viso nel tentativo di controllare la propria rabbia. Dopo aver esitato una
frazione di secondo, Paola gli si avvicinò.
Paola: (ricordandosi di rimanere rilassata) "Buon giorno. Lei deve essere il signor Masoni".
Alberto: "Sì".
Paola: (allungando la mano) "Il mio nome è Paola Rante". (Alberto le stringe la mano in una
morsa che rischia di schiacciarle le dita, ma che subito si trasforma in una energica stretta
di mano). "Prego, si accomodi nel mio studio. Prenda quella sedia vicino alla finestra: è più
comoda". (Non appena Alberto si siede, Paola gli offre una tazza di caffè, che egli rifiuta.
Paola si siede su una sedia di fronte ad Alberto, piegandosi leggermente in avanti). "Allora,
mi pare di capire che lei desiderava vedermi per qualcosa che la disturba".
Alberto: "... Esattamente! Ho appena perso il lavoro perché ho colpito il caporeparto! Se
non imparo a controllare il mio carattere, tutta la mia vita andrà a p..!"
(Paola si piega leggermente più in avanti e guarda Alberto con franchezza). "Non so cosa
possa fare una ragazza come lei per aiutarmi, ma sono disposto a provare qualsiasi cosa!"
Parlò quindi per altri 15 minuti, senza mai interrompersi. Ad un certo punto saltò anche in
piedi di scatto e si mise a camminare, battendo ripetutamente il pugno nel palmo della
mano, mentre parlava. Paola rimase seduta sulla sua sedia, voltandosi verso di lui che
camminava avanti e indietro. Quando si rese conto di cosa stava facendo, egli sorrise
imbarazzato e tornò a sedersi. Alla fine concluse la sua invettiva e, seduto sulla propria
sedia, si rivolse a Paola che sedeva di fronte a lui.
Alberto: "Lo sa che lei ha del fegato? Un’altra donna al suo posto avrebbe già tagliato la
corda o avrebbe cercato di farmi stare seduto e tranquillo. Perché lei no?"
Paola: (con calma, guardando Alberto) "Lei, in questo momento non ha certo bisogno di una
persona che abbia paura di lei, né di una mamma che le faccia delle raccomandazioni. Lei
mi ha appena detto che ha bisogno di una persona che sia in grado di aiutarla: se voglio
essere io quella persona, devo scoprire prima di tutto chi è lei. E non vi è alcuna possibilità
che io ci riesca scappando o costringendola a fare quello che voglio io".
Alberto: (per un istante è perplesso, poi sorride) "Lei certamente sa quello che fa, non c’è
dubbio".
Paola: (sorride anche lei) "Lei è troppo forte per lasciarsi trattare come un bambino. Lei è
troppo forte per permettersi un comportamento infantile".
Alberto: "Lo sa che ha proprio ragione? Io non voglio perdere il controllo. Quando mi
succede, questo non fa che crearmi dei guai".

Sono state necessarie a Paola tutte le sue abilità di attenzione per mantenere un contatto
con Alberto. Ha dovuto essere attenta al contesto, preparando se stessa, l’ambiente e
Alberto all’interazione. È riuscita in questa impresa tenendo sotto controllo la propria
tensione, mettendo Alberto a suo agio e rendendo il proprio studio quanto più confortevole
possibile in funzione della sua interazione con Alberto. Ha fatto in modo di poter
mantenere il contatto oculare. Si è piegata in avanti e si è sempre rivolta verso Alberto,
anche mentre lui camminava avanti e indietro nella stanza. Ha fatto delle osservazioni che
la hanno aiutata a capire che Alberto era sì in grado di controllare la sua rabbia, ma solo a
fatica. Ed ha ascoltato quello che egli le diceva, cercando di ricavarne delle informazioni
utili. I suoi sforzi sono stati premiati. Il suo corretto uso delle abilità di attenzione ha fatto
sì che Alberto si impegnasse a parlare con lei, ammettendo che avrebbe potuto aiutarlo a
crescere.

Tratto da Carkhuff R.R. (1993), L’arte di aiutare. Manuale, Trento, Erickson, pp. 63­89.

Esercizio 1. Abilità personali

Considerate l'elenco seguente di abilità e capacità e indicate quelle che: (a) avete bisogno
di migliorare; (b) possedete in modo soddisfacente.

 incontrare estranei
 iniziare una conversazione
 accettare complimenti
 rispondere alle critiche
 delegare
 prendersi cura degli altri
 dare incoraggiamento
 scusarsi
 esprimere sentimenti negativi
 esprimere sentimenti positivi
 chiedere aiuto
 fare complimenti
 fare lamentele
 prendere decisioni
 accettare responsabilità
 rilassarsi
 porsi degli obiettivi
 gestire lo stress
 gestire il fallimento

Discuti quanto è emerso con gli altri che hanno fatto l'esercizio e considerate meglio le
aree che risultano problematiche per la maggior parte di voi.

Esercizio 2. La comunicazione personale

Lavorando da soli, completate le frasi seguenti:

 La mia migliore abilità di comunicazione è...


 Mi piacerebbe comunicare con...
 Troverei difficile comunicare con...
 La comunicazione per me significa...
 Parlo meglio con le persone quando...
 Ascolto meglio quando...
 Le cose che interferiscono con le mie abilità di ascolto sono...
 Non riesco a parlare veramente quando gli altri...
 Le migliori condizioni per la comunicazione sono...
 Le cose che migliorano le abilità di comunicazione sono...

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, 1999, pp. 30 e 57.

Quali sono le qualità di un buon counselor?

Oltre alle abilità pratiche essenziali ci sono altri prerequisiti — ugualmente importanti —
per l’efficacia di un counselor. Essi comprendono quelle a cui Carl Rogers si riferiva
definendole le condizioni chiave dell’empatia, del rispetto e della congruenza, che
considerava i principali attributi di un counselor efficace (Rogers, 1991a).

È difficile immaginare come un counselor potrebbe essere efficace senza l’abilità di


provare empatia per i suoi clienti. La parola "empatia" si riferisce a una particolare
caratteristica che, quando è presente, rende una persona capace di comprenderne un’altra
in modo molto profondo. Ciò può avvenire soltanto quando c’è una comunicazione
veramente stretta fra due persone, e quando si fa uno sforzo particolare per mettersi nei
panni dell’altro allo scopo di riuscire a percepire la realtà dalla prospettiva dell’altro. È
questa la base dell’insight e della vera comprensione.

È parimenti difficile immaginare come un counselor potrebbe essere efficace senza il


rispetto per i clienti. L’espressione "considerazione positiva incondizionata" è quella che
Rogers usava spesso in relazione al rispetto, e anche la parola "valorizzazione" viene usata
dall’autore dell’approccio centrato sulla persona (Rogers, 1991b).

Rispettare e valorizzare i clienti significa accettarli in modo totalmente non giudicante,


perfino se le loro azioni o i loro sistemi di valori fossero molto differenti da quelli del
counselor. Accettare e rispettare i clienti tuttavia non sarebbe possibile senza un pieno
autosviluppo del counselor, che in genere viene acquisito nella formazione. Sono
necessarie l’accettazione dei propri difetti e limiti e la volontà di lavorare per una
maggiore consapevolezza prima che possa esistere una vera accettazione degli altri.

La terza condizione rogersiana, della congruenza o genuinità, si riferisce all’abilità del


counselor di essere realmente una persona aperta rispetto al cliente. Tale apertura si basa
sull’onestà e su una comunicazione — sia verbale che non verbale — chiara, ma ciò non
significa che ogni suo pensiero debba essere espresso automaticamente. È ovvio che sono
soltanto gli aspetti della comunicazione rilevanti e utili per ciascun particolare cliente a
dover essere espressi direttamente.

Fra le altre qualità che sono auspicabili in un counselor vi sono un interesse genuino per le
altre persone e interessi che esorbitino dal contesto del counseling. Possono sorgere
problemi scottanti quando un counselor investe tutto se stesso nella professione con il
risultato che i clienti diventano necessari per il suo senso di benessere. Senza contare che
esiste l’ulteriore pericolo di un attaccamento emozionale inappropriato ai clienti, se la vita
personale e le relazioni del counselor sono prive di altri reali interessi e impegni. I
counselor devono essere consapevoli del fatto che i clienti, i quali sono spesso
emozionalmente vulnerabili, possono essere sfruttati, anche senza rendersene conto, dai
counselor quando i loro bisogni emozionali non vengano soddisfatti in altra sede.

Va da sé che chiunque si proponga di aiutare altre persone che fanno esperienza di


problemi dovrebbe essere capace di gestire efficacemente i problemi che sorgono nella
sua vita personale. Ciò non vuol dire, naturalmente, che i counselor dovrebbero vivere vite
perfette e esenti da problemi, poiché una cosa del genere è impossibile per qualunque
essere umano. Ma vuol dire senz’altro che un counselor dovrebbe identificare i suoi
problemi personali e impiegare strategie di fronteggiamento che comprendano anche una
terapia di counseling, se necessario. I counselor devono sapersi prendere cura di se stessi e
ciò significa che innanzitutto devono avere una buona autostima.

Un’altra caratteristica del counselor efficace è quella di imparare qualcosa dai propri
errori e quindi impegnarsi nel processo spesso difficile del cambiamento. È di grande aiuto
avere un buon senso dell’umorismo ed è importante la capacità di ridere delle
contraddizioni e delle incongruenze della vita in generale. Anche la flessibilità di
pensiero, la creatività e le abilità di problem solving sono essenziali, come pure la capacità
di rilassarsi e di godere di attività culturali, artistiche, ecc.

I counselor devono essere obiettivi e privi di pregiudizi nei loro atteggiamenti ed essere
consapevoli e rispettosi di diverse culture — inclusa la loro. L’accettazione delle altre
persone, prescindendo dalla loro razza o religione o dal loro orientamento sessuale, è
un’esigenza fondamentale del counseling, come lo è l’accettazione delle persone dei più
diversi gruppi sociali.

È necessario che i counselor facciano chiarezza sulle loro priorità e sui loro obiettivi, e
che comprendano la natura della loro ambizione e come essa possa influenzare il loro
lavoro e le loro relazioni. Un corollario di ciò è che sarebbe auspicabile un certo equilibrio
nel rapporto fra se stessi e gli altri. La sovrastima di se stessi rovina quanto la tendenza a
sottovalutarsi, poiché quando le persone cominciano a vedere se stesse e il proprio
contributo come indispensabili il burnout diventa una possibilità tangibile.

Ecco un elenco delle qualità di un counselor efficace (vedi anche la figura 1):

 Buona autostima di base. Interesse per la gente.


 Competenza in relazione alle abilità di counseling.
 Comprensione della teoria e del processo del counseling.
 Comprensione di sé.
 Rispetto sia per le diversità culturali sia per la propria cultura.
 Accettazione per le persone di gruppi razziali e religiosi diversi dal proprio.
 Rispetto per le persone con un orientamento sessuale diverso dal proprio.
 Capacità di prendersi cura di se stessi.
 Creatività e flessibilità di pensiero.
 Senso dell’umorismo.
 Capacità di godersi la vita.
 Capacità di formare e mantenere relazioni.
 Capacità di sentire e comunicare empatia.
 Capacità di gestire problemi personali e di chiedere aiuto se necessario.
 Capacità di imparare dai propri errori e di cambiare se necessario.
 Un senso di equilibrio circa la propria importanza rispetto agli altri.
 Vari interessi culturali e artistici.
 Chiari limiti emozionali rispetto a se stessi e ai clienti.
 Un atteggiamento non giudicante rispetto agli altri.
 Insight sulle proprie ambizioni e sui propri obiettivi personali.
 Valori personali che non vengono travasati a forza negli altri.
 Capacità di essere onesti e genuini in relazione a se stessi e agli altri.

Figura 1. Le qualità necessarie per un counseling efficace.


Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, 1999, pp. 22-25.

Le abilità di counseling: quando è il caso di usarle, e quando no?

È importante decidere di volta in volta se sia il caso, in una certa conversazione, di fare
uso delle proprie abilità di counseling. Vale la pena riportare, a questo riguardo, un
esempio tratto dalla nostra esperienza di vita quotidiana.

Davide e la vicina di casa

La settimana scorsa Davide ha incontrato una nostra vicina di casa, Giulia. Abbiamo tutti e
due un buon rapporto di amicizia con Giulia. Ci capita spesso di fermarci a chiacchierare
con lei: sul tempo che fa, gli amici, i parenti, le cose che stiamo facendo. Quella volta
però, non appena Giulia cominciò a parlargli del figlio e della nuora, Davide avvertì in lei
un profondo turbamento. Si trovò quindi a decidere se fosse il caso — oppure no — di
attingere alle sue abilità di counseling, per aiutare quella donna a sentirsi meglio. Doveva
anche tenere conto dei suoi rapporti di buon vicinato con Giulia, del tempo disponibile,
della situazione in cui si trovavano, delle sue stesse energie emotive.
Proviamo a metterci nei panni di Davide: era senz’altro possibile che fosse di fretta, che si
fosse reso conto di essere in un ambiente pubblico e poco "protetto", o — magari — che
scoprisse di non avere, in quel momento, energie emotive a sufficienza per ascoltare un
problema altrui. Se avesse considerato l’uno o l’altro di questi fattori, avrebbe forse deciso
che non era il caso, date le circostanze, di impiegare le sue abilità di counseling.
Si sarebbe così trovato a dire a Giulia una frase del tipo: "Mi dispiace davvero sapere che
tuo figlio e tua nuora, Giulia, abbiano dei problemi. I giovani hanno spesso l’impressione di
trovarsi in difficoltà, nella vita matrimoniale, specialmente all’inizio. Spero che le cose
migliorino al più presto, sia per loro sia per te". Si sarebbe trattato, da un certo punto di
vista, di una risposta impeccabile: rispettosa, amichevole, perfino affettuosa. Non era,
tuttavia, una risposta che attingesse alle abilità di counseling: anziché invitare la vicina a
raccontargli come si sentisse, Davide, così facendo, avrebbe finito col disinteressarsi della
sua sfera emotiva, chiudendo la conversazione con un semplice augurio di "pronto
miglioramento".
Le cose, tuttavia, non andarono così. Davide non rispose con una frase come quella
riportata, ma decise di fare uso delle sue abilità di counseling, per aiutare la vicina a
esprimere meglio le sue emozioni sull’accaduto, e — di conseguenza — a sentirsi un po’
meglio di prima. Con un uso appropriato del counseling, Giulia fu quindi invitata a
raccontare l’oggetto delle sue preoccupazioni. Libera di sfogarsi, continuò a parlare per un
po’. Mano a mano che parlava dei suoi problemi, cresceva in lei la convinzione di poterli
affrontare positivamente.

È importante che riconosciamo il fatto che, quando scegliamo di impiegare certe abilità di
counseling, stiamo anche invitando il nostro interlocutore — in modo più o meno
esplicito e diretto — a parlarci di sé. La persona che abbiamo di fronte potrebbe trovarsi a
rivelare delle cose molto private e personali, che vorrebbe mantenere nella massima
riservatezza. Occorre quindi una grande sensibilità, da parte nostra, rispetto a questa
esigenza di riservatezza.

La decisione di impiegare certe abilità di counseling, oppure no, può dipendere da diversi
fattori. È sempre meglio riflettere con calma, di volta in volta, sugli elementi che
potrebbero influenzare questa nostra decisione.
Potrebbe essere opportuno soppesare alcuni interrogativi, come quelli che seguono:

 Sono in grado di instaurare un rapporto di fiducia?


 L’ambiente in cui ci troviamo è adatto? Garantisce, cioè, una riservatezza
sufficiente?
 Sarò in grado, visto il mio ruolo sociale o professionale, di rispettare la sua esigenza
di riservatezza?
 Mi sento abbastanza "solido", dal punto di vista emotivo, per ascoltare i problemi
degli altri?
 Le mie aspettative sono sufficientemente chiare, rispetto ai rapporti che ho con
quella persona, e alle possibili ripercussioni di questa nostra conversazione?
 Sono effettivamente in grado di invitare la persona a discutere, insieme con me,
del suo problema?

Adesso che avete letto questo elenco di domande, vi sarete probabilmente resi conto che
l’uso delle abilità di counseling, anche nella sfera della vita di tutti i giorni, non è
un’opzione neutra, o priva di implicazioni. Ciascuno di noi si assume un obbligo morale
verso la persona che vorrebbe aiutare. Se questa decide di confidarci certi suoi problemi
personali, magari anche molto delicati, siamo tenuti a rispettare la sua riservatezza; nessun
altro dovrà sentire questa nostra conversazione. La persona con cui parliamo deve potersi
fidare di noi. Deve confidare nel fatto, cioè, che non faremo nessun utilizzo improprio delle
informazioni che ci consegna.

Nell’esempio che abbiamo riportato, vista l’importanza della riservatezza, Davide fece la
massima attenzione a non forzare la mano: a non spingere la conversazione al di là di quel
che Giulia, la nostra vicina, avrebbe potuto desiderare. Giacché Davide aveva saputo
rispettare questi confini, Giulia diede l’impressione di avere avuto un’esperienza positiva,
dalla conversazione con lui. Era inoltre probabile, visto che Davide era stato ben attento a
non forzarla a toccare gli aspetti più dolorosi del problema, che Giulia si sarebbe sentita
sicura, e a proprio agio, nel conversare con lui anche in futuro.

Dovrebbero essere abbastanza chiare, a questo punto, le differenze tra l’uso delle abilità di
counseling in una normale conversazione e una semplice relazione d’amicizia, senza nessun
riferimento al counseling. Quando decidiamo di usare le abilità di counseling, invitiamo il
nostro interlocutore a parlarci di più dei suoi pensieri e delle sue esperienze emotive,
al fine di aiutarlo a sentirsi meglio. In una normale conversazione, facciamo uso di
"abilità" più semplici, che non richiedono nulla di tutto questo. Si tratta di scegliere, di
volta in volta, se sia il caso di puntare sulle abilità di counseling, o se non sia meglio,
piuttosto, continuare a fare gli amici "normali", come al solito.

Potete scegliere se utilizzare certe abilità di counseling, oppure no, tenendo conto di
una serie di fattori: il tipo di relazione, il tempo disponibile, la situazione, le risorse
personali di cui disponete.

Va da sé che un corretto utilizzo delle abilità di counseling aiuterà gli altri ad "alleggerirsi"
del loro fardello emotivo, condividendo con voi determinati problemi, fino a riuscire ad
affrontare meglio certe questioni "emotivamente cariche", a prendere le decisioni, a
sentirsi meglio. Impiegare bene le abilità elementari di counseling, oltretutto, può essere
molto gratificante anche per la persona che decide di utilizzarle.

L’impatto emotivo dell’uso delle proprie abilità di counseling

Utilizzare in modo appropriato le abilità elementari di counseling, nella vita di tutti i


giorni, può essere senz’altro gratificante. Occorre considerare, però, le possibili
conseguenze emotive che queste possono provocare. Se imparate ad ascoltare bene gli
altri, mentre questi vi raccontano problemi, sensazioni o emozioni, è probabile che voi
stessi vi scopriate "colpiti", in un modo o nell’altro, nella vostra sfera emotiva.

Ritorniamo per un attimo all’esempio di Giulia, la nostra vicina di casa. Quando Giulia
cominciò a raccontare a Davide ciò per cui era preoccupata, entrò in contatto con alcune
sue emozioni profonde e dolorose. Come ci si poteva attendere — essendo il suo
interlocutore una persona di grande sensibilità emotiva — tali emozioni, mano a mano che
ne parlava, inducevano in Davide delle emozioni non dissimili, benché più attenuate.
Quella conversazione, oltretutto, gli aveva riportato alla mente certi momenti dolorosi del
suo passato. Anche per lui, doveva essere impegnativo — o addirittura doloroso —
ascoltarla mentre narrava, con vivida tristezza, i suoi problemi familiari.

Impiegare le proprie abilità di counseling, quindi, può essere una scelta costosa: è
probabile che ritornino a galla anche in noi, nostro malgrado, certe esperienze o problemi
irrisolti del passato. Se Davide avesse deciso di comportarsi da normale vicino di casa (o da
amico), avrebbe potuto semplice mente dire: "Mi dispiace davvero che tuo figlio e tua
nuora, Giulia, abbiano dei problemi… Spero che le cose migliorino al più presto", per poi
cambiare argomento di conversazione. Così facendo, avrebbe potuto evitare di ascoltare la
sofferta esperienza della vicina, e si sarebbe risparmiato, a sua volta, il "richiamo emotivo"
di certe sue esperienze dolorose del passato.

Se decidete di fare uso di queste abilità di counseling, dovete essere consapevoli che state
deliberatamente invitando un’altra persona a parlare dei suoi problemi, e magari delle sue
emozioni più sofferte. Dovrete essere pronti, di conseguenza, a fronteggiare anche le
vostre reazioni emotive, dinanzi a quel che vi racconterà. Riteniamo che sia proprio
questa una delle ragioni per cui tante persone — la maggior parte di noi — utilizzano le
proprie abilità di counseling (comprese quelle più spontanee e naturali) molto meno di
quanto potrebbero. Siamo tutti abituati a deviare la conversazione, in modo più o meno
elegante, quando si affacciano alla ribalta argomenti imbarazzanti e dolorosi. Così facendo,
ci possiamo proteggere dalla sofferenza che si accompagna, molte volte, all’ascolto dei
problemi degli altri. Invece di invitarli ad andare avanti, tendiamo spesso a liquidare la
faccenda sul nascere: "Beh… è così che va, nella vita"; "Pazienza, da adesso in poi le cose
potranno soltanto andare meglio". Più semplicemente ancora, cambiamo argomento.

Quante volte vi sarà capitato di sentire dire, da qualcuno: "Ho tanti di quei problemi per
conto mio, non è il caso che mi preoccupi per i problemi degli altri". A prima vista, un
atteggiamento di questo tipo parrebbe, quanto meno, poco condivisibile. A nostro giudizio,
tuttavia, si tratta di un atteggiamento comprensibile e legittimo, soprattutto da parte di
chi, con una vita difficile o stressante alle spalle, ha dei gravi problemi personali da
risolvere. Detto questo, non si può negare che dare una mano agli altri con queste piccole
abilità di counseling — nella misura in cui ci si sente di farlo — sia un’attività ricca di
gratificazioni. Ci auguriamo che lo possa essere anche per voi, così come lo è stata per noi.

I risvolti positivi di un buon utilizzo delle abilità di counseling

Mettere in pratica certe semplici abilità di counseling per dare una mano agli altri, lo
abbiamo detto, può essere davvero gratificante. Dalla disponibilità di offrire agli altri
un’occasione per parlare dei loro vissuti emotivi (e per ciò stesso affrontarli), e per
discutere delle soluzioni dei loro problemi (e magari trovarle insieme), è possibile ricavare
anche una notevole soddisfazione personale. Non ci possiamo che augurare che anche voi
possiate sperimentare esperienze positive in tal senso, come le nostre.

Vale la pena notare che un atteggiamento rispettoso verso gli altri, e un utilizzo
appropriato di certe abilità di counseling, serviranno anche a migliorare — a rendere più
profondi — i nostri rapporti con gli altri; costoro scopriranno nuove opportunità di
relazionarsi con noi, in modi significativi e gratificanti tanto per loro, quanto per noi.

Le aspettative personali

Perché possiate fare un utilizzo positivo delle vostre abilità di counseling, occorre che
abbiate un’idea ben chiara delle vostre personali aspettative. Per aiutarvi a riflettere su
questo aspetto, vi proponiamo un esempio operativo. Ipotizziamo che una persona, tale
Michele, si rivolga a voi, raccontandovi di un suo recenteproblema.

La settimana scorsa Michele ha perso il lavoro, che per lui era qualche cosa di molto
importante. Ci sarebbe un’altra proposta di lavoro che fa al caso suo, ma viene da una
cittàche è a sei ore di viaggio da quella in cui vive attualmente,con la compagna.
Quest’ultima, se lui accettasse quel lavoro, non si potrebbe comunque trasferire; di qui il
dilemma sul da farsi. Michele si sente davvero angosciato, anche perché ci teneva
tantissimo al lavoro che ha appena perduto.

Ipotizziamo che Michele sia un vostro vecchio compagno di scuola, e che vi troviate ancora
per giocare a tennis insieme. Finita la partita, state bevendo un tè o un caffè, quando
Michele vi racconta di questo suo problema. Vi chiede un consiglio: dovrebbe accettare il
nuovo lavoro, o rimanere lì dov’è, senza lavoro, per continuare a vivere con la sua
compagna?

Provate a fermarvi a riflettere un minuto su quali potrebbero essere le vostre aspettative


personali, se voleste aiutare Michele. Vi proponiamo una lista di ipotesi possibili, dopodiché
si tratterà di valutare, caso per caso, se siano realistiche oppure no.

1. Gli darò una mano a trovare un lavoro vicino alla città in cui vive, con la sua
compagna.
2. Parlerò anche con lei e vedrò se riesco a convincerla a trasferirsi con lui.
3. Cercherò di fargli cambiare idea: non è così necessario, dopo tutto, che trovi subito
un nuovo lavoro.
4. Gli dirò di accettare la nuova proposta di lavoro, aggiungendo che, se la sua
compagna lo ama davvero, non c’è dubbio che alla fine lo seguirà.
5. Gli dirò che la sua relazione sentimentale è più importante del lavoro, per cui
dovrebbe rimanere con la sua compagna.

Che cosa pensate di questo tipo di aspettative? A rischio di cogliervi di sorpresa, ci tocca
dirvi che tutte le aspettative che vi abbiamo elencato sono, a nostro giudizio,
inappropriate e irrealistiche. Sapreste dire il perché?

Usare le abilità di counseling con aspettative irrealistiche

Aspettative come quelle che abbiamo appena descritto sono irrealistiche, per tutta una
serie di ragioni.

1. Se pensiamo che sia possibile, per noi, risolvere i problemi degli altri, partiamo già
con un’aspettativa irrealistica, condannata a essere smentita dai fatti. Il più delle
volte, infatti, è semplicemente impossibile risolvere i problemi di qualcun altro.
Ogni persona deve attivarsi per risolvere i problemi che ha. L’utilizzo di alcune
semplici abilità di counseling, però, può facilitare il percorso di ricerca di una sua
personale soluzione.
2. È estremamente difficile, se non impossibile, cambiare le convinzioni o gli
atteggiamenti di una persona nel modo in cui vorremmo noi, a meno che la
persona stessa non sia d’accordo. Tentare di convincerla a pensare in un altro
modo, o a fare qualche cosa che non ha alcuna intenzione di fare, non servirà a
nulla.
3. In molti casi è opportuno evitare di dare consigli, anche quando ci chiedono di
farlo. Va da sé che questa regola conosce non poche eccezioni, nella vita
quotidiana di ciascuno di noi.

Dare consigli, oppure no?

Alla questione del dare (o del non dare) consigli non è facile trovare una risposta, anche
perché molto dipende dal contesto in cui ci si trova. Ci sono tante situazioni, nella vita di
tutti i giorni, in cui dare consigli è cosa ragionevole e appropriata. Pensiamo ad alcuni casi
esemplari.

 Se avete un ruolo aziendale direttivo, e sapete che uno dei vostri collaboratori si
sta comportando in modo da danneggiare l’interesse dell’azienda, avrete la precisa
responsabilità di dargli un certo tipo di indicazioni.
 Se siete insegnanti e uno studente vi domanda quali siano i possibili sbocchi
occupazionali di un certo corso di studi, cercherete senz’altro di dargli informazioni
obiettive — per quanto possibile — e di consigliarlo, di conseguenza, rispetto al
proseguimento degli studi.

Gli esempi, come è evidente, potrebbero proseguire all’infinito. Ci sono anche tante
situazioni della vita quotidiana, tuttavia, in cui è meglio non dare consigli. Spiegheremo
subito il perché, ma prima vi proponiamo un’altra breve pausa di riflessione, per capire
perché il "dare consigli" risulti spesso inopportuno. Che idee vi siete fatti in merito? Sono
idee che assomigliano a quelle che vi proponiamo in questo elenco, oppure no?

 Se provate a dare un consiglio, mentre cercate di utilizzare la abilità di base del


counseling, rischierete di dire delle cose che vanno bene per voi, ma non per il
vostro interlocutore. Questi potrebbe benissimo rifiutare il consiglio o, magari, non
essere in grado di seguirlo (pur avendone il desiderio). In entrambi i casi, la persona
non si sentirà meglio dopo aver parlato con voi.
 Mettiamo anche che il vostro interlocutore accetti il consiglio, e che ne tragga
beneficio. In questo caso, vi sentirete probabilmente meglio, ma correrete il rischio
di creare un rapporto di dipendenza con quella persona: questa si potrebbe
convincere che siate delle persone sagge, che andranno assolutamente consultate,
ogni volta che c’è da prendere una decisione difficile. A lungo andare, la persona
potrebbe perdere ogni fiducia nella propria capacità di assumere delle decisioni da
sola.
 Poniamo, infine, che la persona accetti il vostro consiglio, con risultati negativi.
Non ci sarà da stupirsi, in tal caso, se avrà di che essere arrabbiata con voi!

È anche vero che chi ha un qualche tipo di problema è incline a chiedere un qualche
consiglio, specie alle persone di cui si fida di più. La richiesta potrebbe assumere la forma,
ad esempio, del: "Che cosa faresti tu, se fossi al mio posto?"; oppure: "Non so che fare. Che
cosa pensi che dovrei fare?". Di fronte a domande di questo tipo, riteniamo sia il caso di
rispondere, in modo chiaro ed esplicito, perché è più importante che la persona in
questione faccia quel che è giusto per lei, anziché ciò che ritenete giusto voi. Una
risposta potrebbe essere, ad esempio:

 Credo che la cosa più importante, per te, sia fare quel che ritieni giusto fare tu.
Quali sono le possibilità di scelta che hai?
Al che il vostro interlocutore potrebbe anche rispondere: "Non lo so… è proprio per questo
che ti sto chiedendo che cosa potrei fare". A questo punto, la vostra risposta potrebbe
essere:

 Non lo so proprio, quale sia la soluzione migliore per te. Se continuiamo a parlarne,
però, ci potrebbe venire in mente qualche possibilità.

Può anche essere utile ammettere, con il nostro interlocutore, che il problema che sta
cercando di risolvere è proprio difficile; al punto, magari, che siamo un po’ disorientati
anche noi.

Dare dei consigli può servire a risolvere i problemi degli altri, o ad aiutarli a prendere
una decisione, solamente nel caso in cui si sappiano offrire loro delle informazioni
corrette e aggiornate, che riguardano direttamente la situazione in cui si trovano.

Aspettative realistiche

Quando facciamo uso delle abilità di base del counseling, nella vita di tutti i giorni,
dobbiamo anche sincerarci del fatto che la persona che vorremmo aiutare non nutra, nei
nostri confronti, delle aspettative irrealistiche. Noi per primi, come si è visto, dobbiamo
guardarci dal rischio di darci delle aspettative eccessivamente elevate.

Riconoscere i propri limiti

Occorre essere onesti con se stessi, rispetto all’aiuto che si può effettivamente offrire agli
altri. Capita a tutti di domandarsi, di tanto in tanto: "Posso davvero aiutare quella
persona?". Se non ne siete sicuri, ricordatevi che potrete sempre suggerirle di rivolgersi a
qualcuno più esperto e qualificato per aiutarla. Ciascuno di noi è limitato, nell’aiuto che
può offrire agli altri. È fondamentale essere ben consapevoli dei limiti oltre i quali, anche
con le migliori intenzioni, non ci potremo spingere. Ci saranno sempre delle circostanze in
cui avvertiremo l’esigenza di una "fonte d’aiuto" più esperta e specializzata; è altamente
raccomandabile, in tali casi, che la persona che state cercando di aiutare si rivolga subito a
un counselor professionista.

Consigliare di rivolgersi a un professionista qualificato, quando ci rendiamo conto che non


abbiamo le competenze necessarie, è senz’altro una scelta ragionevole e, anzi,
responsabile. Il riconoscimento dei nostri limiti è un passaggio essenziale, se vogliamo
aiutare gli altri in modo maturo e responsabile. Occorre essere sempre consapevoli dei
nostri limiti, in modo da saper consigliare al nostro interlocutore, se necessario, di
rivolgersi a un professionista qualificato

Fissare delle aspettative realistiche

Riteniamo che tra le aspettative realistiche che è possibile coltivare, usando le abilità di
counseling nella vita di tutti i giorni, vi siano le seguenti:

1. Cercare di dare vita a una relazione emotivamente intensa, e ricca di fiducia, con
la persona che è in cerca d’aiuto.
2. Ascoltare in modo attivo la sua storia, così da restituirle la sensazione di essere ben
compresa.
3. Sforzarsi di riconoscere, e di prendere atto, dei sentimenti e delle emozioni di
quella persona; farla sentire a proprio agio, perché ne possa parlare.
4. Cercare di aiutare la persona a districarsi, in una situazione di confusione, e quindi
a risolvere questioni problematiche.
5. Offrirle un’opportunità per passare in rassegna le possibili soluzioni ai suoi
problemi, le alternative di cui dispone, e quindi per prendere le decisioni che le
sono più congeniali.

Quali ulteriori aspettative potrebbero essere aggiunte, da ciascuno di noi, a questo elenco?
Si tratta di aspettative realistiche?

Auspicabilmente, la scelta di dare una mano a qualcuno, con un corretto utilizzo delle
abilità di counseling, dovrebbe servire a farlo stare meglio di prima, almeno sotto il profilo
emotivo. Potrebbe anche servire a facilitare la risoluzione dei problemi, la scoperta di
nuove soluzioni, l’assunzione di decisioni positive. Sarebbe bello, in verità, se le cose
andassero sempre così. Nei fatti però, è irrealistico aspettarsi un risultato di questo tipo.

Capita di scoprire, certe volte, che invitando qualcuno a parlarci di sé si finisce per indurlo,
suo malgrado, a riprendere contatto con emozioni forti, e magari dolorose, che lo
turberanno non poco. Quando ciò avviene, è senz’altro il caso di suggerirgli di fare
riferimento a un professionista, con le qualifiche del caso.

Riteniamo che l’aspettativa più importante, che potrà senz’altro essere realizzata, sia
quella di ascoltare l’altra persona in modo attento e rispettoso, così che questa sappia
che c’è qualcuno che ha ascoltato la sua storia, senza giudicarla e ha avvertito appieno
il carico di emozioni e di sofferenze che, tante volte, ne deriva. Se riuscirete in questo,
farete una cosa di grande utilità per quella persona, e ne trarrete voi stessi un senso di
legittima soddisfazione personale.

Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Counselling Parlami, ti ascolto. Le abilità di


counseling nella vita quotidiana, Trento, Erickson, pp. 21-32.
Possibili ostacoli all'esplorazione del problema: 
GLI ATTEGGIAMENTI SPONTANEI

Finora ci siamo concentrati su tutti quegli aspetti dell'atteggiamento di comprensione che, potremmo 
dire, sono propedeutici ai fini del nostro colloquio. 

Entriamo ora nell’oggetto più specifico del nostro corso on line, ovvero gli aspetti verbali con cui 
sviluppare un colloquio. Apprenderemo delle tecniche – studiate e consolidate – che permettono di 
raggiungere il nostro obiettivo: far sentire la persona compresa e rimandarle questa comprensione 
affinché possa aprirsi e quindi guardare la situazione in cui si trova, fare chiarezza dentro se stessa e 
provare a capire come muoversi.

Le parole di Carkhuff ci spiegano bene questo punto:

“…gli helper devono essere in grado di rispondere alle esperienze comunicate dagli interlocutori, per 
facilitare la loro esplorazione. Gli helper cercano di comunicare con accuratezza quanto essi, di 
queste esperienze, hanno percepito. Una risposta accurata servirà a facilitare o a stimolare negli 
interlocutori una ulteriore esplorazione del loro vissuto.” (Carkhuff, 1993, p. 55)

Come abbiamo visto, non tutte le risposte dell’helper sono in grado di stimolare questo obiettivo. 
Mucchielli ci indica i cinque tipi di risposte che, pur desiderando dare aiuto, di fatto possono 
ostacolare l’esplorazione della situazione da parte del nostro interlocutore. 

Risposte di valutazione, interpretazione, sostegno, indagine, soluzione possono rendere difficile per 
l’interlocutore l’esplorazione ampia e serena della sua situazione o del suo problema, soprattutto se 
utilizzate all’eccesso; tutte, infatti, hanno una caratteristica determinante: sono centrate sull’helper e si 
riferiscono a ciò che lui pensa rispetto alla situazione o all’interlocutore. Si dice anche che 
sottintendono un atteggiamento direttivo da parte dell’helper, perché egli induce il colloquio verso 
direzioni che è lui a scegliere, invece di accompagnare la persona ad esplorare ciò che emerge da lei.

Studiamo ciascun atteggiamento aiutandoci con la sintesi qui proposta e poi direttamente con le parole 
di Mucchielli Atteggiamenti che non facilitano l'espressione del soggetto.

Proveremo poi ad esercitarci nel riconoscerle, sia rivedendo le risposte del test proposto nel modulo 
precedente, sia con l’esperienza di ciascuno, per capire perché possono essere di ostacolo per 
l’interlocutore.
1. Atteggiamento di valutazione

Consiste nel fare riferimento a norme e a valori, indicando ciò che è bene o male. L’helper trasmette 
più o meno apertamente il messaggio “ti dico io cosa/come fare”, “offrendo” un consiglio morale o 
moralistico: messa in guardia, approvazione, disapprovazione, invito a pensare in una certa maniera, 
allusione a criteri ritenuti validi da chi aiuta.

Potenziali effetti dannosi

L’interlocutore può sentirsi in una posizione di ineguaglianza morale e quindi in uno stato di 
inferiorità, specie se disapprovato con frasi come: fai attenzione a.., (non) bisognerebbe/(non) si 
dovrebbe, non si può…

Anche quando il giudizio emesso dall’helper è positivo – hai ragione, fai bene, è giusto – c’è 
comunque un giudizio che può dissuadere la persona dall’aprirsi con fiducia. Rogers stesso afferma: 
“E’ curioso ma una valutazione positiva è, a lungo andare, altrettanto minacciosa che una valutazione
negativa poiché dire a qualcuno che è buono implica che si ha anche il diritto di dirgli che è cattivo” 
(Rogers, La terapia…, op. cit, p. 83)

Tra le possibili reazioni innescate dall’atteggiamento valutativo, a seconda della personalità 
dell’interlocutore, ci possono essere:

 inibizione (freno, reticenza, blocco);
 colpa (sensazione di essere in errore o colpevole);
 ribellione;
 dissimulazione;
 angoscia.

2. Atteggiamento di interpretazione

L’atteggiamento interpretativo si può verificare in vari modi: 

­ a volte l’helper pone l’accento su uno tra gli elementi espressi dall’interlocutore che a lui pare 
essenziale e quindi fa un riassunto parziale e orientato; 

­ altre volte deforma il significato di quello che è stato detto partendo da proprie categorie di 
interpretazione; 

­ in altri casi ancora l’helper dà una propria spiegazione della situazione che la persona gli riporta.

In tutti i casi l’helper proietta il proprio modo di comprendere e quindi provoca una inevitabile 
distorsione del pensiero dell’interlocutore. Inoltre egli trasmette il messaggio di essere lui a dover 
rivelare il perché stanno succedendo alla persona quegli eventi, restituendo la sensazione che l’altro 
non possa arrivare a comprendere da sé.
Potenziali effetti dannosi

L’interlocutore può sentirsi frainteso e quindi costretto a rettificare. Se però l’atteggiamento si 
prolunga, esso produce:

 il disinteresse dell’interlocutore nel proseguire l’esplorazione della sua situazione: egli 
deciderà se cambiare argomento o mostrare un accordo solo di cortesia;
 un’irritazione sempre maggiore;
 un blocco difensivo (resistenza).

3. Atteggiamento di sostegno

La risposta di sostegno mira a dare supporto, incoraggiamento, consolazione. A volte fa riferimento a 
una comunanza di esperienze tra interlocutore ed helper e comunque serve a evidenziare come 
quest’ultimo comprenda la situazione del primo. Spesso il pensiero e le emozioni dell’altro vengono 
lette come naturali e si cerca di rassicurare la persona sdrammatizzando e minimizzando.

L’essenza della risposta di sostegno è un atteggiamento materno, a volte paternalistico, utilizzato di 
frequente nella vita quotidiana nelle espressioni di rassicurazione come “coraggio, vedrai, capita a tutti,
è capitato anche a me, è normale, sei una persona forte e ce la farai…”.

Nel contesto del counseling può essere utile non tanto a chi lo riceve quanto piuttosto a chi lo usa, per 
allontanare l’ansia che deriva dal “toccare” la difficoltà dell’altro.

Potenziali effetti dannosi

L’interlocutore potrebbe, a lungo andare:

 sentirsi portato a mantenere una certa dipendenza dal counselor per non perderne la vicinanza 
emotiva, accettando di essere guidato, di rimanere in attesa delle sue proposte e dei suoi 
suggerimenti;
 restare passivo per la sensazione di aver “sbagliato” a preoccuparsi della questione (ansia, 
vergogna per effetto della sdrammatizzazione);
 rifiutarsi di essere trattato con pietà paternalistica o di veder minimizzate questioni per lui così
importanti.

4. Atteggiamento di indagine

La risposta investigativa consiste nel porre domande per ottenere indicazioni aggiuntive 
dall’interlocutore su aspetti che l’helper ritiene importanti per comprendere la situazione. Non lascia 
esplorare alla persona la sua situazione e i suoi sentimenti, ma guida il colloquio in una precisa 
direzione. Il messaggio sotteso è “io ho bisogno di informazioni per diagnosticare il tuo problema”.
Potenziali effetti dannosi

L’indagine può provocare, a seconda della personalità dell’interlocutore:

 un orientamento del colloquio in una direzione, desiderata dall’helper, che può non 
corrispondere a ciò che l’interlocutore vorrebbe esplorare; quest’ultimo quindi assumerà 
l’atteggiamento di colui che risponde a un interrogatorio e interromperà la riflessività interna;
 una reazione ostile a quello che può essere percepito come una curiosità inquisitrice o, 
all’estremo, come un giudizio implicito sulla volontà dell’interlocutore di tenere nascosti certi 
dettagli;
 messa in allarme delle “difese sociali” per dare di sé la migliore immagine possibile.

5. Atteggiamento di soluzione

In questo caso l’helper propone chiaramente all’interlocutore una soluzione per uscire dalla situazione: 
può indicare di rivolgersi a qualcuno che, si pensa, può risolvere i problemi oppure suggerire quale fine
perseguire e quale sia il mezzo adeguato. Un simile atteggiamento, specie se il consiglio arriva troppo 
presto, impedisce al soggetto di sentirsi protagonista della soluzione e quindi difficilmente produce una
sua soddisfazione. Anche laddove la soluzione potrebbe essere effettivamente quella efficace per la 
persona, se non è lei a sentirla come sua, non la accetterà o comunque difficilmente ne beneficerà.

Potenziali effetti dannosi

Due possono essere le possibili conseguenze di questo atteggiamento:

 l’interlocutore si sente sminuito per non aver pensato da sé alla soluzione e quindi è portato ad
accettarla anche se non la ritiene appropriata. Molto probabilmente ciò induce una 
passivizzazione e il rimando di responsabilità per la sua esecuzione all’helper, senza 
protagonismo attivo;
 l’interlocutore non accetta la soluzione e quindi tronca il colloquio con una totale 
insoddisfazione.

Come si vede tutti questi atteggiamenti, pur avendo per obiettivo l’aiuto all’interlocutore, nascondono 
degli effetti non voluti:

 dal punto di vista psicologico tendono a svalutare l’interlocutore e quindi finiscono per 
compromettere, se usati alla lunga, il rapporto interpersonale tra helper e persona;
 dal punto di vista funzionale, ovvero per la dinamica del colloquio, compromettono 
l’esplorazione del problema a causa dell’intervento direttivo dell’helper.

Peraltro essi sottintendono una precisa distinzione di ruoli tra chi ha il problema e chi ha la soluzione, 
sminuendo il protagonismo della persona che invece è centrale per la soluzione dei suoi problemi. 
Vedremo di qui in avanti che l’atteggiamento di comprensione stravolge questa logica e trae la sua 
forza dall’idea che la soluzione emerga nella relazione, se l’helper sa creare un clima di fiducia e cerca 
di entrare nell’“orizzonte di senso” del suo interlocutore. 

Per un ulteriore chiarimento sulla differenza tra counseling e dare consigli, rimando a Hough 
Differenza fra counseling e dare consigli. 

Atteggiamenti che non facilitano l’espressione del soggetto

Seguendo le ricerche di E.H. Porter riprese da Carl Rogers, definiremo ora cinque
atteggiamenti o tipi di intervento verbale dell’intervistatore che innescano induzioni e che
hanno in comune il fatto di non facilitare l’espressione del soggetto (e, nello stesso tempo,
nemmeno la comprensione di ciò che egli ha da dire).

Per maggiore comodità noi chiameremo "risposta dell’operatore" il suo intervento verbale
(che concretamente manifesta il suo atteggiamento) dopo che l’intervistato ha esposto una
parte di ciò che egli vuole dire. Si distingueranno:

1. La risposta di valutazione o di giudizio morale.


2. La risposta interpretativa (interpretazione personale o spiegazione).
3. La risposta di supporto affettivo (sostegno/consolazione).
4. La risposta inquisitiva (investigazione/richiesta di ulteriori informazioni).
5. La risposta "soluzione del problema".1

La risposta di valutazione o di giudizio morale

Consiste nel fare riferimento a norme, a valori. Essa "offre" un consiglio morale o
moralistico: messa in guardia, approvazione, disapprovazione, invito a pensare in questa o
in quest’altra maniera, allusione a criteri considerati come veri dall’intervistatore. Questa
risposta induce nell’altra persona una sensazione d’ineguaglianza morale, ponendola in uno
stato d’inferiorità. Non abbastanza "morale" o non abbastanza razionale, o al contrario
lodato e approvato, in tutti i casi il cliente si sente giudicato da un censore.

La disapprovazione moralistica innesca una delle seguenti reazioni:

 inibizione (freno, reticenza, blocco)


 colpa (sensazione di essere colpevole o in errore)
 ribellione
 dissimulazione
 angoscia

Si produce l’una o l’altra di queste sensazioni a seconda della personalità dell’intervistato.


La risposta moralistica innesca sia un’ulteriore ricerca di accordo a tutti i costi o un
orientamento tendenzioso del prosieguo del colloquio, sia una reazione paradossale dello
stesso tipo della disapprovazione.

La risposta interpretativa (interpretazione personale o spiegazione)

In questo genere di risposta, l’intervistatore pone l’accento su questo o quel punto


(dell’insieme delle informazioni che gli sono state fornite) da lui giudicato come essenziale.
Questa interpretazione può avvenire in tre maniere: o la risposta è un riassunto di ciò che è
stato detto ma parziale, orientato, che trova essenziale un determinato aspetto a
detrimento di altri, o è una deformazione del significato complessivo di ciò che è stato
detto, una distorsione, una traduzione poco fedele o tendenziosa; o, ancora, questa
risposta può giungere a un’interpretazione, nel senso della spiegazione. In tutti e tre i casi,
l’intervistatore proietta il proprio modo di comprendere, la sua scelta personale o la sua
teoria e attraverso ciò si produce necessariamente una distorsione del pensiero del
soggetto che ha parlato.

Questa risposta induce nel soggetto la sensazione di essere stato frainteso, quasi un senso
di stupore, poiché egli non si ritrova esattamente nella risposta ricevuta. Generalmente,
soprattutto all’inizio, una simile risposta provoca una rettifica ("Non è proprio questo che
volevo dire..."). Ma se questo tipo di interpretazione continua, l’intervistato reagisce con:

 un disinteresse per il colloquio stesso, che si manifesta con un accordo in punta di


labbra per fare piacere, o con risposte a caso, o cambiando argomento;
 un’irritazione sorda sempre più evidente e che può manifestarsi per vie indirette;
 un blocco difensivo (resistenza).

La risposta di supporto (sostegno/consolazione)

Questo genere di risposta apporta o vuole apportare un incoraggiamento, una consolazione,


una comprensione. Essa propone una riflessione in comune, fa allusione a una comunanza di
esperienze tra l’operatore e l’altra persona, manifesta un interesse personale
dell’operatore per il suo interlocutore per dimostrargli che lo comprende. Si accetta
naturalmente il punto di vista dell’altro, si trova che sia molto naturale pensare ciò che
egli pensa. Si cerca di fornire rassicurazioni, di consolare l’altro, minimizzando
l’importanza della situazione, tentando di evitare, nell’altro, delle reazioni eccessive
(sdrammatizzazione). L’essenza della risposta di supporto è un atteggiamento materno o
paternalistico.

Le reazioni indotte nel soggetto sono:

 il desiderio di mantenere questa amicizia e questa benevolenza, il che comporta


atteggiamenti di dipendenza (attesa di essere guidato, attesa di proposte
dall’operatore, accettazione dei suggerimenti);
 rifiuto ostile di essere trattato con pietà o di essere trattato in questa maniera
paternalistica (reazione di controdipendenza);
 atteggiamento che consiste nell’aspettare che il seguito venga dall’operatore; il
soggetto non continua l’esplorazione della situazione nel suo insieme; diventa
passivo.

La risposta inquisitiva (investigazione/richiesta di ulteriori informazioni)

Questa consiste, da parte dell’operatore, nel porre domande per ottenere risposte
supplementari da lui giudicate indispensabili per poter comprendere la situazione. In
questo modo, insistendo su un particolare dettaglio che gli sembra essere stato
"dimenticato" dall’intervistato, l’intervistatore fa "apparire" la sua personale opinione di ciò
che è importante. D’altronde, questo atteggiamento tende a mostrare all’intervistato che il
problema non è ancora stato esaminato in tutta la sua ampiezza, che dovrà considerare più
approfonditamente questo o quest’altro aspetto, orientando così la sua ricerca e la sua
memoria.

Il fare domande è una delle abitudini più inveterate negli operatori sociali. Fa parte sia
della preoccupazione per la "diagnosi", sia del bisogno d’iniziativa/superiorità. Un solo tipo
di domanda si rende opportuna: la cosiddetta domanda semantica ("Che cosa … significa per
Lei?").
L’investigazione provoca nell’intervistato reazioni diversificate a seconda della sua
personalità:

 Essa orienta verso i dettagli desiderati dall’intervistatore. Perciò l’intervistato


interrompe l’esposizione della sua situazione per assumere l’atteggiamento di colui
che risponde a un interrogatorio.
 Reazioni ostili a ciò che viene percepito come una curiosità inquisitrice da parte
dell’intervistatore, o come un giudizio implicito: "Lei non mi dice l’essenziale!" o
"Lei è poco sincero o non se ne rende conto" (reazioni allora che possono diventare
inibizione o chiusura).
 Messa in stato di allarme delle "difese sociali" tese a dare di sé la migliore
immagine possibile.

La risposta "soluzione del problema"

Essa consiste nel proporre all’intervistato un’idea per uscire dalla situazione.
Quest’intenzione può avere i seguenti sbocchi: rinviare il soggetto a qualcun altro che, si
pensa, lo tirerà fuori dal problema; suggerirgli il metodo da seguire per risolvere il suo
problema; indicare la meta o la strada che porta alla soluzione; dargli un consiglio, ritenuto
definitivo, che mette fine al problema e, allo stesso tempo, al colloquio.

Atteggiamenti indotti nel cliente a causa di questo comportamento dell’intervistatore:


molto spesso si tratta di una soluzione "applicata sopra il problema", ossia non dovuta a
un’iniziativa responsabile del soggetto, non promossa da lui, ma imposta dall’esterno. E, in
generale, la soluzione personale che sarebbe stata scelta dall’operatore se si fosse trovato
nella situazione di cui parla il suo cliente.

La soluzione proposta non soddisfà di solito l’altro o in qualche modo lo obbliga ad


adottarla in quanto gli è stata suggerita. Il risultato può essere di due tipi:

 l’impressione di essere messo alla porta, rottura implicita del colloquio; perciò,
praticamente, nessun aiuto ricevuto e insoddisfazione;
 l’impressione che egli debba scegliere questa soluzione, anche se non la ritenga,
personalmente, appropriata; da cui dipendenza (desiderio di conservare la
protezione di un intervistatore che trova le soluzioni al posto suo) e possibilità di
rinviare ulteriormente la responsabilità di questa soluzione a colui che gliel’ha data
o suggerita.

Per concludere: in questa sezione abbiamo voluto sottolineare le pesanti conseguenze


dell’induzione degli atteggiamenti dell’intervistato e perciò degli ostacoli
involontariamente posti dall’operatore sulla via dell’espressione e della comprensione
dell’interlocutore.

Il colloquio, in tutti questi casi "sfavorevoli", risulta orientato dall’intervistatore. È


l’intervistatore che dà, impone o suggerisce la direzione che deve assumere il colloquio.
Lungi dal trovarsi di fronte a ciò che il cliente vive realmente, nella situazione particolare
che è la sua, l’operatore si trova davanti le influenze indotte dai suoi atteggiamenti (dal
suo "metodo" o dalla sua assenza di metodo) e i tentativi di espressione personale del
cliente (si vedano le figure 1 e 2).

Figura 1
E1: Inizio dell’espressione della sua opinione da parte del cliente. R1, R2, R3, R4, ...
Interventi verbali dell’intervistatore che provengono da uno stesso atteggiamento
sfavorevole, che si mantiene cronicamente. E2, E3, E4, E5, ... Espressioni successive del
cliente, indotte dall’atteggiamento dell’intervistatore, che deviano progressivamente nella
direzione degli interventi dell’intervistatore. Caso in cui il cliente segue i suggerimenti
impliciti senza reazioni negative o blocchi.

Figura 2
E1: Inizio dell’espressione della sua opinione da parte del cliente. R1, R2, R3, R4:
Interventi verbali dell’intervistatore che provengono da atteggiamenti diversi e tutti
"sfavorevoli". E2, E3, E4, E5: Espressioni indotte nel cliente. Nella figura 1, come nella
figura 2, aumenta lo scarto tra l’espressione virtuale completa (Ec) e il contenuto effettivo
di ciò che dice il soggetto (E2 a E5 ecc.). Caso in cui il cliente segue i diversi suggerimenti
impliciti, senza reazioni negative o blocchi.

1
Nel 1950, E.H. Porter aveva opposto alla "comprensione" i seguenti 6 atteggiamenti: 1.
Valutazione-giudizio; 2. Interpretazione; 3. Sostegno affettivo; 4. Ricerca di informazioni-
esplorazione; 5. Suggerimento; 6. Informazioni e possibilità. Rogers ha raggruppato le
ultime due in "soluzione del problema".

Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al


colloquio di aiuto, Trento, Erickson, 1987, pp. 60-63.

In che cosa il counseling è diverso dal dare consigli?


Le definizioni date dal dizionario della parola "counseling" non sono di alcun aiuto perché
tendono a enfatizzare il significato di "consiglio" e in qualche caso il counselor
("consulente") viene definito come un "consigliere" (The Concise Oxford Dictionary of Words
Origins, vol. III). La parola counsel deriva dal latino consilium che nel suo significato
traslato significa consiglio, giudizio o consultazione. È ovvio, perciò, che il termine
counseling tradizionalmente si riferiva alla pratica di dare consigli o di pronunciare giudizi.
Ciò spiega probabilmente perché un numero così grande di persone creda che il ruolo
principale del counselor debba adempiere alle due funzioni gemelle di consigliere e
giudice.

La situazione è complicata ulteriormente dal fatto che molte persone, impegnate a


svolgere le più svariate occupazioni, descrivono tutte se stesse come counselor
("consulenti") anche se non sono coinvolte in alcuna forma di lavoro psicoterapeutico in
senso stretto. Così abbiamo counselor del colore, counselor di istituti di bellezza, counselor
finanziari, counselor degli oroscopi, del design da interni, del lavoro — giusto per
menzionarne alcuni. Non vi è qui la minima intenzione di svalutare il lavoro svolto da
queste persone, ma semplicemente il desiderio di porre in risalto che tutte queste figure
professionali hanno, fra i loro compiti, quello di dare consigli. La confusione da parte di
tante persone rispetto al counseling di cui si parla qui è perciò facile da capire. Il
counseling psicologico o psicoterapeutico si riferisce all’aiuto offerto ai clienti per una
vasta gamma di problemi psicologici e emozionali: in questo tipo di aiuto non vengono dati
consigli, per lo meno non in modo diretto o esplicito.

Certo, sarebbe ingenuo sostenere che i counselor non influenzino mai i loro clienti
indirettamente. Naturalmente, lo fanno. Infatti, il counselor ovviamente è tenuto a
influenzare il cliente che, in fin dei conti, è venuto per ricevere un aiuto. Inoltre, i
counselor spesso incoraggiano i clienti a riesaminare la loro vita e le loro relazioni per
chiarificare questioni che risultano problematiche. Nel corso di questa fase di "riesame",
possono essere discusse varie opzioni di cambiamento. Quindi si può star certi che, anche
quando non vengono forniti consigli diretti, i clienti sono spesso influenzati dalle idee, dagli
atteggiamenti e spesso anche dai punti di vista inespressi del counselor.

Ecco alcune ragioni per le quali è meglio astenersi dal dare consigli:

 Molto spesso le persone non desiderano consigli. Vogliono invece essere ascoltate e
comprese.
 È raro che le persone accettino consigli, specialmente quando pensano che non
siano i consigli giusti.
 Se il consiglio si rivela sbagliato, la persona che lo ha accettato potrà abdicare alla
responsabilità personale: dopo tutto, non era stata un’idea sua.
 È necessario che i clienti nel counseling sentano che le loro abilità ed esperienze
sono ritenute e trattate come valide. Qualunque consiglio da parte di un counselor
metterebbe in discussione questo principio basilare.
 L’equità è vitale nella relazione di counseling. Se vengono dati consigli il ruolo di
esperto del counselor viene rinforzato e l’equità viene negata.
 Dare consigli può essere offensivo e intrusivo, specialmente quando la persona che
li riceve è sconvolta e vulnerabile.
 Non ci sono due sole persone al mondo che abbiano la stessa esperienza di vita,
quindi un consiglio si addice di più a chi lo fornisce che a chi lo riceve.
 I consigli tendono a considerare soltanto gli aspetti più superficiali di un problema,
aggirando o ignorando le questioni più profonde che spesso sono quelle nodali.
 Dare consigli è un sistema di comunicazione a una sola via. Nel counseling il cliente
dovrebbe essere coinvolto attivamente nell’intero processo.
 È difficile che i consigli aiutino i clienti a cambiare.

Tenute presenti tutte queste critiche che possono essere mosse al fatto di dare consigli,
sorge spontanea la domanda "Perché alcune persone chiedono e si aspettano di ricevere
consigli, specialmente quando cominciano un counseling?".
Come abbiamo visto prima, il più delle volte i clienti considerano il counselor come un
"esperto". Di solito quindi abbisognano di un certo tempo prima di familiarizzarsi con la
vera natura di questo tipo di relazione. In ogni caso, le richieste di consiglio dovrebbero
sempre essere gestite con sensibilità e rispetto, guidando il cliente verso una
partecipazione più attiva al processo di counseling.

Proponiamo di seguito un esempio del modo in cui i clienti talvolta chiedono consiglio, e
riportiamo la risposta data dal counselor a una cliente di nome Patrizia. Quest’ultima, una
donna di trent’anni, era preoccupata dalla recente rottura del suo rapporto matrimoniale e
dagli effetti che avrebbe avuto sul suo figlio Gianni di sei anni. Avrebbe voluto trasferirsi in
una nuova casa per ricominciare un’altra vita da zero, ma era preoccupata che il trasloco
causasse troppo stress a Gianni. Patrizia continuava a soppesare i pro e i contro del suo
proposito, e a un certo punto disse al counselor:

Cliente:
Mi preoccupa questo nuovo grande cambiamento nella vita di mio figlio. Di cambiamenti
ne ha già avuti a sufficienza. Che cosa pensa che dovrei fare?

Counselor:
È preoccupata dei cambiamenti che si sono prodotti recentemente nella Sua vita, e adesso
si ritrova a dover prendere un’altra importante decisione. Forse potremmo esaminare un
po’ più profondamente i Suoi sentimenti e vedere che cosa pensa veramente sia meglio per
Lei.

I clienti talvolta chiedono consigli per sottrarsi al bisogno di fare cambiamenti importanti.
Ricevere un consiglio è molto più semplice che imbarcarsi nel processo — spesso doloroso —
di autoesaminarsi e cambiare. Altre volte i clienti chiedono un consiglio semplicemente
perché desiderano parlare. Non sapendo come avviare la conversazione, vedono nella
richiesta di consiglio un modo per riuscirci o comunque un modo per attirare l’attenzione
del counselor.

Va poi considerato che la maggior parte delle persone che iniziano un counseling lo fanno di
propria volontà, ma ci sono casi in cui si ricevono pressioni per sottoporvisi. Quando si è
stati indotti a iniziare un counseling, c’è un naturale risentimento — spesso nascosto — da
parte del cliente, e chiedere un consiglio è un modo di stare al gioco. Va detto che in
genere le persone non dovrebbero essere "mandate" a fare un counseling.

Ecco cosa disse uno studente sedicenne che aveva fissato un appuntamento con il counselor
dell’università:

Be’, la signora Mariani ha detto che avrei dovuto vedere un counselor perché ritiene che io
abbia dei problemi. Sono stato bocciato tre volte a scuola e faccio fatica a preparare gli
esami. In realtà anche se ci metto un po’ di tempo in più mi sembra di non avere
particolari problemi e... se il counseling mi aiuterà, vada per il counseling. Ma non voglio
venire da Lei tutte le settimane. (Bruce, 1995)

Il counselor dell’università dovette trascorrere un po’ di tempo con lo studente per riuscire
a spiegargli che lui e soltanto lui avrebbe dovuto decidere se desiderava o voleva un
counseling. Alla fine risultò chiaro che lo studente non lo voleva e tornò dalla signora
Mariani per spiegarglielo.

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento, Erickson,
pp. 11­13.

In che cosa il counseling è diverso dal dare consigli?


Le definizioni date dal dizionario della parola "counseling" non sono di alcun aiuto perché
tendono a enfatizzare il significato di "consiglio" e in qualche caso il counselor
("consulente") viene definito come un "consigliere" (The Concise Oxford Dictionary of Words
Origins, vol. III). La parola counsel deriva dal latino consilium che nel suo significato
traslato significa consiglio, giudizio o consultazione. È ovvio, perciò, che il termine
counseling tradizionalmente si riferiva alla pratica di dare consigli o di pronunciare giudizi.
Ciò spiega probabilmente perché un numero così grande di persone creda che il ruolo
principale del counselor debba adempiere alle due funzioni gemelle di consigliere e
giudice.

La situazione è complicata ulteriormente dal fatto che molte persone, impegnate a


svolgere le più svariate occupazioni, descrivono tutte se stesse come counselor
("consulenti") anche se non sono coinvolte in alcuna forma di lavoro psicoterapeutico in
senso stretto. Così abbiamo counselor del colore, counselor di istituti di bellezza, counselor
finanziari, counselor degli oroscopi, del design da interni, del lavoro — giusto per
menzionarne alcuni. Non vi è qui la minima intenzione di svalutare il lavoro svolto da
queste persone, ma semplicemente il desiderio di porre in risalto che tutte queste figure
professionali hanno, fra i loro compiti, quello di dare consigli. La confusione da parte di
tante persone rispetto al counseling di cui si parla qui è perciò facile da capire. Il
counseling psicologico o psicoterapeutico si riferisce all’aiuto offerto ai clienti per una
vasta gamma di problemi psicologici e emozionali: in questo tipo di aiuto non vengono dati
consigli, per lo meno non in modo diretto o esplicito.

Certo, sarebbe ingenuo sostenere che i counselor non influenzino mai i loro clienti
indirettamente. Naturalmente, lo fanno. Infatti, il counselor ovviamente è tenuto a
influenzare il cliente che, in fin dei conti, è venuto per ricevere un aiuto. Inoltre, i
counselor spesso incoraggiano i clienti a riesaminare la loro vita e le loro relazioni per
chiarificare questioni che risultano problematiche. Nel corso di questa fase di "riesame",
possono essere discusse varie opzioni di cambiamento. Quindi si può star certi che, anche
quando non vengono forniti consigli diretti, i clienti sono spesso influenzati dalle idee, dagli
atteggiamenti e spesso anche dai punti di vista inespressi del counselor.

Ecco alcune ragioni per le quali è meglio astenersi dal dare consigli:

 Molto spesso le persone non desiderano consigli. Vogliono invece essere ascoltate e
comprese.
 È raro che le persone accettino consigli, specialmente quando pensano che non
siano i consigli giusti.
 Se il consiglio si rivela sbagliato, la persona che lo ha accettato potrà abdicare alla
responsabilità personale: dopo tutto, non era stata un’idea sua.
 È necessario che i clienti nel counseling sentano che le loro abilità ed esperienze
sono ritenute e trattate come valide. Qualunque consiglio da parte di un counselor
metterebbe in discussione questo principio basilare.
 L’equità è vitale nella relazione di counseling. Se vengono dati consigli il ruolo di
esperto del counselor viene rinforzato e l’equità viene negata.
 Dare consigli può essere offensivo e intrusivo, specialmente quando la persona che
li riceve è sconvolta e vulnerabile.
 Non ci sono due sole persone al mondo che abbiano la stessa esperienza di vita,
quindi un consiglio si addice di più a chi lo fornisce che a chi lo riceve.
 I consigli tendono a considerare soltanto gli aspetti più superficiali di un problema,
aggirando o ignorando le questioni più profonde che spesso sono quelle nodali.
 Dare consigli è un sistema di comunicazione a una sola via. Nel counseling il cliente
dovrebbe essere coinvolto attivamente nell’intero processo.
 È difficile che i consigli aiutino i clienti a cambiare.
Tenute presenti tutte queste critiche che possono essere mosse al fatto di dare consigli,
sorge spontanea la domanda "Perché alcune persone chiedono e si aspettano di ricevere
consigli, specialmente quando cominciano un counseling?".

Come abbiamo visto prima, il più delle volte i clienti considerano il counselor come un
"esperto". Di solito quindi abbisognano di un certo tempo prima di familiarizzarsi con la
vera natura di questo tipo di relazione. In ogni caso, le richieste di consiglio dovrebbero
sempre essere gestite con sensibilità e rispetto, guidando il cliente verso una
partecipazione più attiva al processo di counseling.

Proponiamo di seguito un esempio del modo in cui i clienti talvolta chiedono consiglio, e
riportiamo la risposta data dal counselor a una cliente di nome Patrizia. Quest’ultima, una
donna di trent’anni, era preoccupata dalla recente rottura del suo rapporto matrimoniale e
dagli effetti che avrebbe avuto sul suo figlio Gianni di sei anni. Avrebbe voluto trasferirsi in
una nuova casa per ricominciare un’altra vita da zero, ma era preoccupata che il trasloco
causasse troppo stress a Gianni. Patrizia continuava a soppesare i pro e i contro del suo
proposito, e a un certo punto disse al counselor:

Cliente:
Mi preoccupa questo nuovo grande cambiamento nella vita di mio figlio. Di cambiamenti
ne ha già avuti a sufficienza. Che cosa pensa che dovrei fare?

Counselor:
È preoccupata dei cambiamenti che si sono prodotti recentemente nella Sua vita, e adesso
si ritrova a dover prendere un’altra importante decisione. Forse potremmo esaminare un
po’ più profondamente i Suoi sentimenti e vedere che cosa pensa veramente sia meglio per
Lei.

I clienti talvolta chiedono consigli per sottrarsi al bisogno di fare cambiamenti importanti.
Ricevere un consiglio è molto più semplice che imbarcarsi nel processo — spesso doloroso —
di autoesaminarsi e cambiare. Altre volte i clienti chiedono un consiglio semplicemente
perché desiderano parlare. Non sapendo come avviare la conversazione, vedono nella
richiesta di consiglio un modo per riuscirci o comunque un modo per attirare l’attenzione
del counselor.

Va poi considerato che la maggior parte delle persone che iniziano un counseling lo fanno di
propria volontà, ma ci sono casi in cui si ricevono pressioni per sottoporvisi. Quando si è
stati indotti a iniziare un counseling, c’è un naturale risentimento — spesso nascosto — da
parte del cliente, e chiedere un consiglio è un modo di stare al gioco. Va detto che in
genere le persone non dovrebbero essere "mandate" a fare un counseling.

Ecco cosa disse uno studente sedicenne che aveva fissato un appuntamento con il counselor
dell’università:

Be’, la signora Mariani ha detto che avrei dovuto vedere un counselor perché ritiene che io
abbia dei problemi. Sono stato bocciato tre volte a scuola e faccio fatica a preparare gli
esami. In realtà anche se ci metto un po’ di tempo in più mi sembra di non avere
particolari problemi e... se il counseling mi aiuterà, vada per il counseling. Ma non voglio
venire da Lei tutte le settimane. (Bruce, 1995)

Il counselor dell’università dovette trascorrere un po’ di tempo con lo studente per riuscire
a spiegargli che lui e soltanto lui avrebbe dovuto decidere se desiderava o voleva un
counseling. Alla fine risultò chiaro che lo studente non lo voleva e tornò dalla signora
Mariani per spiegarglielo.
Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento, Erickson,
pp. 11­13.

Rispondere ai clienti: un esempio

La signora Bignardi ha 75 anni e frequenta un day hospital tre giorni la settimana. Viene seguita in
quella sede da un terapista occupazionale che desidera farsi un’idea della sua vita a casa in termini
globali. 

Signora Bignardi: Riesco senz’altro a occuparmi di me stessa, tranne che per fare le scale il
bagno. Sono sempre stata molto indipendente e cerco di arrangiarmi da sola.

Terapista occupazionale: Ha sempre attribuito importanza alla Sua indipendenza e alla Sua
capacità di gestire le situazioni.

Signora Bignardi: Sì, ho... vado piano... non faccio le cose troppo in fretta. In ogni caso
entrare e uscire dalla vasca da bagno è un problema.

Terapista occupazionale: Benché se la cavi benissimo il più delle volte, ci sono alcune cose
per le quali potrebbe aver bisogno di aiuto...

Signora Bignardi: Non mi piace chiedere aiuto, ma qualche volta è frustrante essere da
soli.

Terapista occupazionale: Essere soli presenta qualche svantaggio per Lei... il fatto di non
poter ricevere aiuto quando ce ne sarebbe bisogno.

Signora Bignardi: Non è solo per l’aiuto... talvolta è proprio la sensazione di solitudine a
pesarmi, specialmente da quando mia figlia si è trasferita in un’altra città. Prima veniva
spesso a trovarmi.

Terapista occupazionale: Quindi il fatto che Sua figlia si sia trasferita significa che adesso
Lei ha meno compagnia... e ciò rende più difficile gestire la Sua vita da sola.

Signora Bignardi: Sì, è così. È più difficile andare avanti, e non mi piace assillare altre
persone con i miei problemi. Anche gli altri hanno i loro problemi.

Terapista occupazionale: Lei non sente di poter chiedere aiuto ad altre persone perché
anche loro potrebbero aver bisogno di aiuto.

Signora Bignardi: Sì.

Terapista occupazionale: Le persone hanno bisogno di aiuto in momenti diversi. È corretto


chiedere aiuto, specialmente se tale aiuto è disponibile.

Signora Bignardi: [Assentendo con la testa.] Sì, mi ricordo quando la signora Settembrini si
fece aiutare. Misero un ascensore, e dei corrimano e altri congegni in cucina se ricordo
bene... Probabilmente ci sono delle cose che mi aiuterebbero.

Sandro, il terapista occupazionale che ha parlato con la signora Bignardi, voleva


trasmettere interesse e calore con le risposte che dava alla donna. Sandro desiderava
anche comprendere pienamente quel che la signora Bignardi stava vivendo a casa. Per
riuscirvi, Sandro ha ascoltato accuratamente il contenuto emozionale delle risposte che gli
dava la sua interlocutrice. In questo caso, infatti, gli elementi emozionali e quelli
circostanziali delle risposte erano strettamente legati.

La signora Bignardi ha detto di essere sempre stata indipendente e capace di farcela da


sola. Dietro queste parole ci sono chiari messaggi di fiducia in se stessa, libertà e
autonomia. Nelle risposte di Sandro, questi messaggi sono stati recepiti e riconosciuti, e la
riflessione/riformulazione e il riconoscimento hanno incoraggiato la signora Bignardi a
descrivere le sue condizioni di vita a casa in maggior dettaglio.

Nel corso di tutto l’interscambio con la signora Bignardi, Sandro è stato attento a restare
nell’ambito della struttura interna di riferimento del cliente. Per riuscirvi, aveva bisogno
di non uscire dallo sfondo delle affermazioni della signora e di restare nei confini delle sue
risposte che l’avrebbero posta in grado di considerare meglio la sua situazione reale e i suoi
concreti bisogni. A un certo punto della conversazione, però, Sandro ha detto qualcosa di
personale affermando che è giusto chiedere aiuto quando se ne ha bisogno. Ma tale parere
personale è stato espresso solo verso la fine del colloquio, quando Sandro era convinto che
la signora Bignardi fosse pronta a riceverlo.

Nell’interazione con la signora Bignardi, Sandro ha usato buone abilità interpersonali,


comprese quelle di riflettere sia il contenuto sia il significato delle parole della donna.
Rispondendo in questo modo, Sandro ha mostrato di accettare il punto di vista della signora
Bignardi rispetto alla propria situazione. Un altro modo di descrivere questo tipo di risposta
è dire che esso riconosce la validità, la verità, l’accuratezza e l’importanza del punto di
vista dell’altro. Quando viene effettuata correttamente, la riflessione dovrebbe affermare
chiaramente quel che il cliente trasmette della sua situazione, dei suoi problemi e delle
sue reazioni emozionali a tali problemi. Il cliente che si rende conto che il suo punto di
vista è stato percepito con accuratezza dall’helper si sentirà valorizzato e compreso e, ciò
che più conta, si sentirà incoraggiato a esplorare più in profondità tutti gli aspetti della sua
situazione.

Comunicando chiaramente la sua volontà di ascoltare e capire, l’helper mette il cliente in


grado di parlare apertamente di sentimenti, difficoltà e bisogni significativi e spesso prima
non identificati. La riflessione mostra che l’helper sta prestando grande attenzione al
cliente e che sta ascoltando in modo attivo — cioè badando non soltanto alle parole
pronunciate, ma anche al significato che c’è dietro le parole (vedi figura 1).

Figura 1. Le abilità di riflessione.


Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, pp. 61-63.

Ascolto attivo: un esempio

Il vero ascolto attivo si sintonizza sempre sul contenuto sia emozionale che fattuale di quel
che dicono i clienti. Una riflessione sensibile delle risposte del cliente, perciò, implica un
buon ascolto, buone abilità di parafrasi e la capacità di trasmettere la comprensione dei
contenuti emozionali e fattuali espressi dal cliente.

Stefano aveva 34 anni ed era stato inviato per il counseling a causa della depressione che lo
aveva colpito dopo la rottura del suo matrimonio. Era sposato da dieci anni, ma aveva
sempre avuto liti frequenti con sua moglie. Nonostante questi attacchi spesso violenti e
dolorosi, Stefano amava ancora sua moglie e gli doleva moltissimo la loro separazione.
Tuttavia, era chiaro che lei voleva il divorzio e lui sentiva di non avere alternativa: doveva
acconsentire. La sua preoccupazione principale era che lui e Lisa (sua moglie) facessero le
cose più opportune per i figli.

Stefano: Lisa ha riparlato della cosa sabato... sa... di noi, del divorzio. Abbiamo avuto una
lite, come al solito. Così come mi sento adesso, non sono in grado di prendere una
decisione.

Counselor: Trova difficile pensare chiaramente alla Sua relazione con Lisa in questo
momento, e ciò aumenta la tensione fra voi.

Stefano: Sì, sembra che la situazione vada di male in peggio. Più lei ne parla, più mi sento
depresso. Semplicemente non voglio farlo.

Counselor: Prendere la decisione!

Stefano: No, beh, sì. So che devo giungere a una decisione prima o poi. Se non lo faccio,
Lisa procederà in ogni modo. Ma ho bisogno di poter dire la mia su quello che sta
accadendo, per via di Rosa e Guglielmo [i figli].

Counselor: Quindi, per un verso, Lei sa di aver bisogno di parlare con Lisa di questo poiché
lei potrebbe avviare la procedura di divorzio comunque.

Stefano: Sì... [pausa].

Counselor: E sa di aver bisogno di esercitare qualche influenza sugli eventi a causa dei Suoi
figli...

Stefano: Sono assolutamente determinato ad aver voce in capitolo su questo. E ci sono


tutti gli altri aspetti pratici su cui ho bisogno di dire la mia. Ma ciò mi rende così stanco e
depresso, solo a pensarci mi sento stanco.

Counselor: La prospettiva del divorzio, e tutto quanto implica, La logora dal punto di vista
emotivo. È estenuante per Lei venire alle prese con questa situazione.

Stefano: Forse se riuscissimo a parlarne senza litigare, la cosa non mi abbatterebbe così
tanto.
Counselor: Quindi il fatto di riuscire a discutere in modo più calmo La aiuterebbe a sentire
di esercitare un maggiore controllo e ad affrontare meglio le questioni pratiche che sono
implicate nella faccenda.

Stefano: Sì, se solo ci riuscissimo...

Counselor: Lei, per lo meno, sa che un approccio più calmo sarebbe d’aiuto... quindi Lei
direbbe che è il caso di provarci.

Ascoltando attentamente quel che diceva Stefano, e focalizzandosi sulle sue parole e sui
suoi sentimenti, il counselor è riuscito a formulare delle risposte riflessive appropriate.
Queste risposte riflessive erano prevalentemente parafrasi di quel che Stefano aveva detto,
ma erano riformulate in modo un po’ diverso e accentuavano gli elementi affettivi o
emozionali delle sue affermazioni. Sembra che Stefano abbia trovato utile questo approccio
perché lo ha aiutato ad andare avanti nella discussione fino al punto in cui è riuscito a
rendersi conto di quel che gli occorreva per avere maggiormente il controllo della
situazione.

Il counselor è stato attento a non rivolgere domande, benché in un caso ("prendere una
decisione") lo abbia fatto. Nel contesto della riflessione e della parafrasi, comunque,
dovrebbe essere ben chiaro che le domande dirette aiutano raramente i clienti a sentirsi
compresi o a chiarire i problemi che li preoccupano.

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento, Erickson,
pp. 64­66.

La riformulazione: tecnica base del counseling

Abbiamo visto fin qui, trattando degli atteggiamenti e degli interventi non appropriati, quanto siano
importanti le "risposte" dell’operatore nella dinamica del colloquio e a che punto esse possano creare
fenomeni di "induzione". 

La conclusione logica di questo esame critico è che sarebbe opportuno poter mettere in
atto un modo di intervenire che faciliti un’espressione sempre più completa da parte
dell’altro e una formulazione di ciò che ha da dire sempre più chiara. Se ci si rifà agli
schemi visti in precedenza, si tratterebbe di riuscire a delineare una tecnica che,
inglobando gli atteggiamenti di accoglienza, di focalizzazione sul vissuto e sulla persona, di
rispetto del soggetto e di facilitazione della comunicazione, "spinga" o "attiri" l’espressione
del soggetto verso il suo spontaneo completamento, rendendo più probabile allo stesso
tempo una corrispondente comprensione da parte dell’operatore. Questa tecnica è la
riformulazione.

Teoria generale della riformulazione

Si chiama "riformulazione" un intervento dell’operatore che consiste nel ridire con altre
parole, e in maniera più concisa o più chiara, ciò che l’altro ha appena detto, e questo in
modo tale che l’operatore ottenga l’accordo da parte del cliente.

Così facendo si ottengono subito tre primi risultati molto importanti:


 L’operatore è sicuro di non "introdurre" niente di estraneo, di "interpretativo", ecc.
nella comunicazione che ha appena ascoltato.
 Il soggetto è sicuro, se egli si riconosce nella riformulazione, di essere sulla buona
strada nel farsi comprendere ed è così portato a esprimersi ulteriormente.
 L’operatore ha la prova di avere ascoltato e compreso ciò che gli è stato
comunicato.

Principi della riformulazione dal punto di vista dell’operatore

1. È necessario riconoscere, in qualche modo, i sentimenti o i significati che il


soggetto va formulando.
2. È necessario lasciar esprimere al soggetto il suo punto di vista allorché lo si è
accolto nel colloquio o allorché gli è stato indicato l’oggetto del colloquio.
3. È necessario accettare il contenuto soggettivo di ciò che il soggetto va dicendo,
ossia accettare di considerare che egli sta esprimendo un punto di vista soggettivo,
punto di vista che deve essere compreso.
4. È necessario definire la situazione descritta dal soggetto in termini di responsabilità
da parte sua, ossia non accusandolo della situazione descritta ma facendogli capire
che sta esprimendo il suo punto di vista e che noi lo comprendiamo come tale.

Una possibile obiezione può venire dal fatto che la riformulazione può indurre in errore.
Cosa succede quando l’operatore "si sbaglia", la qual cosa viene immediatamente
evidenziata dal disaccordo del soggetto sulla riformulazione? Risposta facile: il cliente si
spiega di nuovo e l’intervistatore ha di nuovo la possibilità di riuscire nel suo tentativo di
comprensione.

Principi della riformulazione dal punto di vista della psicologia generale

Riformulare, basandosi sull’accordo del soggetto per valutare se la riformulazione è buona


o insufficiente, presuppone una concezione generale della coscienza e degli atteggiamenti
umani.

1. La riformulazione suppone che il cliente sia considerato realmente come la persona più
"al corrente" del problema, la più informata della situazione, e praticamente la sola a
"sentire" il caso in tutta la sua profondità esistenziale; perciò lui solo sa esattamente di che
cosa parla. Questa affermazione ha l’aria di una "verità di La Palisse". È tuttavia una
concezione rivoluzionaria in confronto alla concezione corrente (e fino ai nostri giorni
indiscussa) sostenuta dalla psicoanalisi, secondo la quale il soggetto non sarebbe cosciente
della vera natura del suo problema.

È su questa concezione ereditata dalla psicoanalisi che si innesta l’idea della perspicacia
onnipotente dello psicoterapeuta che considera ciò che viene detto come un insieme di
"simboli" e che interpreta l’informazione (ricevuta dal soggetto) grazie alla sua "chiave
simbolica". Niente di simile si verifica nella tecnica della riformulazione. L’operatore con
un buon atteggiamento (ascolto attento, assenza di idee preconcette, desiderio sincero di
comprendere) dà fiducia al soggetto per quel che riguarda il modo in cui lui stesso vive
soggettivamente la sua situazione. Non esiste un’altra maniera per sapere in che modo un
soggetto umano vive un fatto, una situazione, una difficoltà esistenziale, che chiedergli di
esporre e tentare di ricostruire, nel modo più completo possibile, il suo punto di vista. A
parte il caso in cui non sia possibile ottenere qualche cosa di intelligibile (persone con
ritardo mentale o psicotici in fase di delirio), questa fiducia nell’altro (riguardo alla
capacità di conoscere il suo problema) è più che giustificata. In effetti, pensate ai numerosi
casi in cui, tentando di esporre la vostra opinione o le motivazioni di una decisione a un
interlocutore, avete rilevato, come principale ostacolo, la difficoltà di essere ascoltati ma
certo non "l’incoscienza" di quel che avevate da dire.

2. La riformulazione suppone che il comportamento umano abbia un senso e una logica


specifici. Le reazioni affettive, comportamentali, verbali, sono in stretta connessione con i
significati vissuti e questi significati si organizzano in sistema nell’"universo privato" di
ciascuno di noi. Quindi, comprendere un comportamento è comprendere i significati che
questo sottende a livello della percezione delle cose, degli esseri e dei fatti; è ricostituire
questi significati nell’insieme del vissuto del soggetto.

3. La riformulazione suppone che il soggetto sia capace di riconoscere il "riflesso" di ciò che
sta dicendo; in effetti è essenzialmente questo il senso della riflessione messa in atto dalla
tecnica della riformulazione, che deve essere riflessione attiva da parte dell’operatore ma,
contemporaneamente, riflessione altrettanto attiva anche da parte del cliente.
L’importanza della capacità di prendere coscienza di sé è dunque fondamentale. Se questa
capacità esiste nel soggetto, il colloquio non potrà che essere efficace, come vedremo.

4. La riformulazione suppone una concezione dell’uomo alla base della quale non vi è
soltanto la fiducia nelle sue capacità di razionalità e di relazione sociale, ma anche la
fiducia nella capacità autonormativa (autodeterminazione) del soggetto stesso.

La riformulazione secondo Carl Rogers

La riformulazione rogersiana comprende tre procedure principali, ordinate secondo livelli


progressivi di "complessità".

La riformulazione-riflesso

Consiste nel parafrasare, o "riflettere", la comunicazione appena ricevuta dal soggetto. Si


approfitterà del momento in cui il soggetto è alla fine di un "periodo" (nel corso del quale
egli ha espresso qualche cosa), per riprendere l’idea o le idee appena emesse,
riformulandole in maniera tale che il soggetto possa riconoscerle.

Non basta dare un segno di approvazione dicendo "sì" di tanto in tanto, ma bisogna fare in
modo che il soggetto comprenda che l’intervistatore ha capito. In questo modo gli si
dimostra concretamente che si è pensato "con lui" e non soltanto "a lui".

La maniera più semplice di riformulare consiste nella cosiddetta risposta-eco (in cui
l’operatore ripete semplicemente le ultime parole del soggetto). Non si dovrebbe abusare
di questa tecnica in quanto il soggetto verrebbe sollecitato da una semplice ripetizione, e
in fin dei conti non vi scorgerebbe il segno di un reale tentativo di comprenderlo. La
riformulazione-riflesso che utilizza altre parole, considerate come equivalenti per il
soggetto, è invece una tecnica "superiore", nella misura in cui evidenzia meglio il tentativo
di comprensione.

Risposte di questo tipo cominciano in genere con le seguenti formule:

 Così, secondo Lei …


 Lei vuole dire che …
 In altre parole …
 A Suo avviso, perciò …

La formulazione come nuova formulazione

Una maniera un po’ più complessa di riformulazione-riflesso è la riformulazione-riassunto,


che tende a riformulare ciò che è essenziale per il soggetto. Questo tipo di riformulazione
suppone che si sia colta l’essenza di ciò che il soggetto voleva dire; è necessario,
evidentemente, operare questa riformulazione a partire da ciò che è fondamentale per il
soggetto stesso. È qui d’altra parte che la riformulazione-riflesso si differenzia
dall’"interpretazione" o dallo "spostamento dell’essenziale".

Esempio 1 "Sono completamente scoraggiato e non ne posso più."


Possibili risposte:

 "Lei si sente a terra."


 "Lei non ce la fa più: ecco che cosa prova in questo momento."
 "Non è un fatto momentaneo, non si tratta di una sensazione passeggera."
 "Non è, secondo Lei, un brutto momento passeggero, si tratta di qualcosa di più
serio."
 "Lei pensa che questa sensazione non La abbandonerà, che non riuscirà più a
risollevarsi."

Esempio 2 "Mio marito lavora in un’officina, ha un buon posto. Quanto a me, io mi occupo
della casa e dei figli e questo mi va molto bene."

Possibili risposte:

 "Dal punto di vista dei ruoli e del reddito, secondo Lei non c’è alcun problema."
 "Da questo punto di vista la situazione Le sembra del tutto normale."

Esempio 3 "Il guaio con questo tipo di sensazioni piacevoli è che mi sento triste poiché so
che, dopo questi momenti di straordinaria forma, ricadrò nella mia depressione."

Risposta: "Lei crede che queste reazioni toniche siano passeggere e questo Le toglie ogni
soddisfazione".

Reazioni del soggetto alla riformulazione

È raro, quando si interloquisce con qualcuno, sentire l’interlocutore assumere un


atteggiamento che non sia né una valutazione, né un sostegno, né una discussione, né un
suggerimento, ecc. Quindi, quando il soggetto si imbatte in un operatore che adotta la
tecnica della riformulazione, la prima sensazione sarà di conseguenza quella di sorpresa,
associata generalmente a quella di sollievo. Questo sollievo è di stimolo per quanto
riguarda l’autoconsapevolezza del soggetto; esso fa sì che il soggetto stia concentrato sul
problema e su come lo vive, piuttosto che concentrarsi sulla persona dell’intervistatore o
sullo sforzo di seguire argomenti estranei sollecitati dalle domande dell’intervistatore.
Rispondendo alla riformulazione e prima di lanciarsi in un nuovo periodo per continuare a
esprimersi, il soggetto sperimenta spesso il bisogno di ratificare il "riflesso" che gli è stato
fornito dall’operatore utilizzando espressioni come: "è così; proprio; assolutamente; sì;
ecc.", risposte che l’intervistatore aspetta come segni della qualità della sua
riformulazione.

La riformulazione: rovesciamento del rapporto figura-sfondo

La situazione rogersiana della "ristrutturazione del campo" si situa proprio qui. Uno dei
modelli preferiti da Rogers per spiegare la modalità operativa della riformulazione è la
famosa immagine presa dalla teoria della forma (Gestalt), nella quale "la figura" si stacca
su uno "sfondo" ma lo sfondo può a sua volta diventare figura.
Il cambiamento figura-sfondo non aggiunge né toglie nulla, perciò, a ciò che viene dato o
presentato, ma, di colpo, fa apparire qualche cosa che fino a quel momento era rimasto
latente. Questa metamorfosi permette di apportare qualche cosa di nuovo: essa dà al
soggetto la possibilità di "vedere" in un altro modo la propria percezione. Molto spesso, in
effetti, il soggetto è come prigioniero di un aspetto dominante del proprio pensiero, quasi
come se nell’immagine che ha davanti fosse condannato a non vedere che il calice e a non
vedere mai i profili, benché egli abbia sotto gli occhi, allo stesso tempo, sia i profili che il
calice. L’intervento dell’operatore produce un certo effetto di choc e accentua una
consapevolezza più riflessiva e già più oggettiva della situazione. Ecco un esempio tipico di
questo fenomeno, secondo Rogers.

Il cliente: "La città in cui vivo è proprio un buco. Tra quasi centomila abitanti, si possono
contare sulle dita quelli con i quali è possibile sostenere una conversazione semplicemente
intelligente. Osservi bene che non dico: una conversazione "interessante", ma,
semplicemente, "intelligente".

Risposta: "Da un certo punto di vista, come quello dell’intelligenza, Lei si trova, perciò,
praticamente da solo nella Sua città".

È molto importante, qui, evitare l’effetto "choc", poiché il carattere penetrante della
procedura, se questa non è rigorosamente "esatta", rischia d’essere traumatizzante. È per
questo che qui il tono della risposta deve più che mai essere "empatico".

La riformulazione-chiarificazione

Il racconto del soggetto è l’espressione diretta di ciò che egli vive, con tutto quello che c’è
di incerto, disorganico e confuso. La chiarificazione è, in una volta, l’obiettivo più difficile
e più efficace della riformulazione; essa consiste nel mettere in luce e nel "rinviare" al
soggetto il "senso" di ciò che ha detto.

Esempio (il cliente): "Mio cognato è un tipo che ha la pretesa di sapere letteralmente tutto.
Secondo lui, non c’è che lui che conti. Non c’è che lui che abbia qualcosa da dire. Non
appena entra in scena, la conversazione viene monopolizzata da lui. Posso dire buona sera
a tutti e andarmene".
Risposta: "Il nocciolo del problema non è presentato tanto dal modo di fare di Suo cognato,
è il fatto che questo, in una maniera o nell’altra, La tocca sfavorevolmente, La esclude
sempre".

Qui, la difficoltà sta nel partire dall’essenziale così come viene percepito dal soggetto.
Esiste il grande rischio di sconfinare, invece, in un’interpretazione. La chiarificazione deve
rimanere strettamente ancorata al livello dell’essenziale; suppone, di conseguenza, una
sottile intuizione da parte dell’intervistatore, una capacità di porre in luce ciò che il
soggetto, spesso, dice in maniera confusa e disorganica.

Risposte ad alcune domande e obiezioni

Il maggior numero di obiezioni e di domande di chiarimento, che vengono poste riguardo


alla procedura della riformulazione, possono essere ricondotte alle seguenti.

Domanda: Quali sono esattamente i casi e le situazioni che richiedono il colloquio centrato
sul soggetto?

Risposta: Rispetto al metodo: il colloquio d’aiuto, il colloquio di ricerca psicosociale, il


colloquio di ricerca di motivazioni, il colloquio clinico, ecc. Può accadere, nel corso di un
colloquio qualsiasi, che si sviluppi una fase durante la quale, al fine di comprendere un
problema, una situazione o una persona sia utile assumere l’atteggiamento di centrarsi sul
soggetto, salvo riprendere in seguito un altro "stile" di colloquio.

Domanda: Il soggetto si aspetta qualche cosa di concreto dall’operatore; quindi si sentirà


spiazzato o frustrato se l’atteggiamento di quest’ultimo non corrisponde alla sua attesa.

Risposta: Il problema sotteso a questa domanda è quello della paura (da parte
dell’operatore) di perdere l’autorità. Invece l’operatore non deve aver paura di spiegare
all’intervistato che egli sta semplicemente cercando di comprendere ciò che sta capitando
al cliente, in modo che quest’ultimo percepisca il meglio possibile la sua situazione-
problema. L’esperienza indica che, in realtà, è facile rispondere a un cliente che "aspetta"
qualche cosa: "Mi rendo conto che Lei si aspetta che io … Tuttavia, prima di tutto, devo
comprendere la Sua situazione, la Sua esistenza, il Suo problema. Perciò, dapprima
cercherò solamente di comprenderLa".

Domanda: Cosa bisogna fare quando il soggetto comincia con il parlare per dieci minuti
senza mai interrompersi?

Risposta: Prima di tutto bisogna capire perché l’intervistato parli per dieci minuti.
Generalmente egli reagisce alla situazione; l’operatore deve ricondurre questo
atteggiamento, e cercare di comprenderlo, nel quadro di percezione che abbiamo chiamato
la "dinamica del colloquio". Per esempio, il soggetto non vuol cedere la parola all’operatore
per timore che costui prenda una decisione affrettata o dia un giudizio prematuro. Ad ogni
modo, anche dopo dieci minuti, sta all’operatore fare la sintesi di ciò che è stato detto e
presentare al cliente un riassunto dell’essenziale.

Domanda: Caso opposto. Come fare quando il dialogo non è fluido o si interrompe?

Risposta: Qui il problema è duplice: da un lato, vi è da considerare l’eventuale paura del


silenzio da parte dell’operatore e, dall’altra, quest’ultimo deve essere in grado di avere
una percezione esatta della dinamica della situazione. Il soggetto può essere bloccato,
inibito o essere in situazione di attesa. L’operatore deve superare la propria paura del
silenzio e saper aspettare. Se il soggetto è imbarazzato o bloccato, l’operatore, dopo
qualche istante, può fare constatare questo imbarazzo o questo blocco. Questo,
generalmente, serve a dare avvio al colloquio. Un caso particolare è la lentezza dell’avvio o
il blocco che sopraggiunge all’inizio del primo colloquio o dei primi colloqui. Ciò è dovuto
generalmente al fatto che l’operatore non ha detto con chiarezza ciò che intendeva fare
(comprendere) e ciò che si aspettava (che il cliente esponesse la sua situazione). Perciò è
utile ribadire che, fin dall’inizio del primo colloquio, l’operatore deve dire chiaramente
queste due cose (e ripeterle se necessario).

Domanda: C’è qualche cosa di artificiale nella procedura di riformulazione; si perde la


spontaneità e l’intervistatore non si comporta con naturalezza.

Risposta: Quest’obiezione è la più corrente. La risposta è semplice: lo scopo non è quello di


utilizzare la procedura per la procedura, ma di utilizzarla come un metodo nel sincero
tentativo di comprendere. È la sincerità dell’operatore che salva la procedura dal suo
aspetto ridicolo o machiavellico.

Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al


colloquio di aiuto, Trento, Erickson, 1987, pp. 71-79.

LA RIFORMULAZIONE A SPECCHIO E LA RIFORMULAZIONE ESPLICITANTE

Già nella definizione di riformulazione, nonché con la lettura di Mucchielli, abbiamo


compreso che non esiste un solo tipo di riformulazione, dal momento che gli obiettivi
dell’helper possono essere diversi.

Una prima distinzione importante riguarda ciò che potremmo definire diversi “gradi” di
riformulazione, in relazione ai contenuti espliciti o impliciti del messaggio
dell’interlocutore.

Possiamo utilizzare:

La riformulazione a specchio: un rimando puntuale di ciò che la persona ha


effettivamente comunicato, sia verbalmente sia attraverso il suo atteggiamento non
verbale (per esempio un’evidente preoccupazione o irritazione…)

La riformulazione esplicitante: un rimando ipotetico di ciò che la persona forse voleva


dire o di ciò che si può dedurre dalle sue affermazioni. L’helper cerca di chiarire, senza
deformare, l’essenza di ciò che l’interlocutore vuole esprimere esplicitamente o
implicitamente; non vuole fornire un’interpretazione (come uno degli atteggiamenti
spontanei) ma far emergere ciò che sembra latente. La riformulazione esplicitante può
essere seguita da una forma interrogativa (E’ così? Ho capito bene?) che trasmette la
cautela dell’helper e la ricerca di conferma.

Esempio 1

Un uomo afferma con voce provata: “Mia moglie mi lasciò un anno fa. Si limitò a portare via
i suoi vestiti e partì senza dire una parola.”

Riformulazione a specchio: “Non le diede alcuna spiegazione…”

Riformulazione esplicitante: “L’abbandono così improvviso fu davvero traumatico per lei. E’


così?”

Esempio 2
Una giovane donna afferma: “Ho deciso di accettare quella proposta di lavoro. Sarà
impegnativo ma è un’opportunità da non farsi sfuggire. ”

Riformulazione a specchio: “Ha valutato la situazione e ha deciso di lanciarsi.”

Riformulazione esplicitante: “Mi pare che quel lavoro sia talmente interessante per lei che i
sacrifici passano in secondo piano…”

L’helper deve decidere che tipo di riformulazione è più adeguata al momento in cui
l’interlocutore esprime la sua affermazione. In una fase iniziale probabilmente si limiterà a
una riformulazione a specchio, ricordando di non fare un’inutile ripetizione a pappagallo
ma cercando di creare il clima di fiducia necessario perché la persona si apra.

A mano a mano che il colloquio prosegue, l’helper può utilizzare riformulazioni esplicitanti,
più deduttive, se ritiene che possano essere utili all’interlocutore per meglio comprendere
alcuni aspetti della questione di cui sta parlando.

A questo proposito leggi Oltre la riformulazione semplice di Mucchielli.

Vale la pena di segnalare un’ulteriore distinzione, propedeutica agli approfondimenti


successivi, che riguarda la dicotomia esterno/interno:

Si parla di riformulazione centrata sull’esterno quando vengono messi in evidenza fatti


oggettivi, oppure azioni, opinioni, sentimenti di terze persone – diverse dall’interlocutore
ma di cui l’interlocutore sta parlando (stai dicendo che…, in altre parole…).

Si definisce riformulazione centrata sull’interno quella in cui si mettono in evidenza


azioni, opinioni, sentimenti o vissuti dell’interlocutore (stai dicendo che tu…, mi sembra di
capire che tu…).

Esempio

Una donna afferma: “Guardi, io non mi considero più come parte dell’azienda. Sento che
non sono stata in grado di rispondere a ciò che si attendeva da me…”

Riformulazione centrata sull’esterno: “I suoi superiori si aspettavano da Lei qualcosa di


più.”

Riformulazione centrata sull’interno: “Ha la sensazione di non essere riuscita nel suo
compito.”

Oltre la riformulazione semplice

Alcuni operatori inesperti osservano spesso che la riformulazione sembra loro una
procedura inconcludente, una sorta di "segnare il passo". Lo è senza dubbio se questa
procedura si limita a essere un’eco, una ripresa pura e semplice dell’espressione del
soggetto ma, come abbiamo già visto, ciò sarebbe ridurla a una procedura impersonale
mentre essa deve essere il segno concreto del tentativo sincero di comprensione. È questo
tentativo che risulta utile ed efficace, non il suo simulacro.

Dalla riformulazione del primo tipo alla riformulazione del terzo tipo vi è un netto
progresso nella comprensione
Il semplice "riflesso" è insufficiente, benché sia già qualche cosa. In effetti, questa
testimonianza ha la focalizzazione sul cliente e in più, in quanto specchio, si connota come
riflessione oggettiva. Ciò che il soggetto ha detto, tratto dal proprio vissuto, gli ritorna
dall’esterno e, se la riformulazione è buona, egli è obbligato a riconoscersi. Ciò produce un
impatto in chiave di riflessione razionale, che rende più chiaro il suo grado di
autocoscienza; allo stesso tempo, egli si sente rassicurato dall’ascolto comprensivo.

La riformulazione come "nuova formulazione" (riformulazione del secondo tipo) ha un


effetto di choc più notevole. Senza che il cliente possa contestare il contenuto della sintesi
presentata (che è, in sostanza, un rovesciamento del rapporto figura-sfondo), il soggetto
vede apparire un nuovo significato dagli stessi dati soggettivi; lui stesso poi si ritrova al
centro di questo significato.

Infine la "riformulazione-chiarificazione", semplicemente attraverso un riassunto più chiaro,


tende già a trarre dall’insieme dei dati espressi un essenzialevissuto che il soggetto
riconosce come fondamentale per sé, benché egli non l’abbia mai formulato, prima, in
maniera così sintetica.

Dall’"eco" alla "chiarificazione", il progresso risulta evidente; è opportuno precisare in che


cosa consiste questo progresso, sia dal punto di vista del cliente, sia dal punto di vista
dell’operatore.

Dal punto di vista del cliente

Il primo tipo di riformulazione gli "rimanda" la sua immagine come in uno specchio, ed egli
ha la possibilità di potersi guardare con un po’ di "distacco". Il terzo genere di
riformulazione gli offre di più: questa pone in evidenza un "essenziale" soggettivo che il
cliente sperimentava come tale (ed è per questo che egli può riconoscervisi) ma che non
riusciva a esprimere chiaramente.

Da questo punto di vista, la formulazione-chiarificazione può sembrare, a prima vista,


soprattutto quando la si legge o la si sente al di fuori della situazione stessa di colloquio,
come un’interpretazione. È questo il rischio maggiore di ogni formulazione di questo tipo,
rischio che consiste nello sbagliarsi su ciò che è essenziale o su ciò che è accessorio dal
punto di vista del soggetto. Tuttavia, se è proprio l’essenziale-vissuto che viene colto dalla
riformulazione-chiarificazione, allora sicuramente non si può parlare di "interpretazione". Il
cliente si sente veramente compreso e già aiutato. Il primo effetto è un effetto di rilancio,
chiamato effetto-trampolino; il cliente è come condotto a esplicitare ulteriormente ciò che
ha da dire, partendo da questa nuova chiarezza. D’altra parte, essendo "riconosciuto" e
accettato dall’altro, il cliente impara a riconoscersi e ad accettarsi. Si difende meno verso
ciò che sente, ammette ciò che avviene in sé e per sé. Si comprende meglio e già inizia a
integrarsi.

Dal punto di vista dell’operatore

Lo sforzo di penetrare nell’universo del soggetto è più difficile a mano a mano che si passa
dall’"eco" alla "chiarificazione"; lo spirito di sintesi, così come l’intelligenza dell’operatore,
vengono sottoposti a dura prova. Ciò perché è quasi impossibile, all’inizio di un colloquio o
durante un primo colloquio, fare qualche cosa che vada oltre la riformulazione semplice.
Quando la massa dei dati aumenta, la chiarificazione diventa più accessibile. Comprendere
non significa spiegare, nemmeno spiegare a se stessi e segretamente ciò che avviene per il
soggetto. La comprensione diventa meno difficile a mano a mano che emerge il contesto
esistenziale del soggetto.
Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al
colloquio di aiuto, Trento, Erickson, 1987, pp. 79-80.

ALTRI INTERVENTI DI FACILITAZIONE

Oltre a riformulare, che rimane il nucleo centrale di un buon colloquio di comprensione,


l’helper può avvalersi di una serie di altre tecniche utili a confermare l’obiettivo della
comprensione e ad avviare, se la persona lo desidera, il processo di cambiamento.

Queste tecniche, di cui qui diamo solo breve indicazione, sono:

Interiezioni di conferma

Si tratta di cenni di ascolto attivo (“Ah, ah. Certo. Sì. Sicuro“…) che hanno lo scopo di far
capire all’interlocutore che lo stiamo ascoltando, senza interrompere il suo discorso.

E’ evidente che il loro utilizzo va calibrato a seconda della situazione e della persona che
abbiamo di fronte, per non correre il rischio di infastidirla, provocando l’effetto opposto di
ostacolare la sua espressione.

Riassunti

Nel corso del colloquio può essere utile, di tanto in tanto, fare sintesi degli elementi più
importanti emersi fino ad allora, per dare lo stimolo a proseguire sui temi che la persona
stessa ha messo a fuoco.

Leggiamo a questo proposito approfondimenti ed esempi su La capacità di riassumere


(Geldard e Geldard, Hough).

Chi lo desidera, può esercitarsi a riassumere come proposto da Hough Riassumere:


esercizio.

Domande aperte

Le domande aperte sono quelle che lasciano all’interlocutore la libertà di esporre la sua
situazione come desidera, senza doversi concentrare su questioni specifiche scelte
dall’helper.

Per quanto le domande non siano di per sé necessarie in un colloquio, il loro utilizzo può
essere vantaggioso soprattutto nella fase iniziale per aprire lo spazio dell’ascolto e aiutare
la persona a sentirsi accolta. Nelle fasi successive, se si decide di utilizzare qualche
domanda per orientare la persona verso il nucleo problematico che ha espresso, vanno
usate sempre parsimonia e cautela.

Esempi di domande aperte possono essere:

«Di cosa vuole parlarmi?»


«Com’è, per lei, tutto questo?»
«Come vede la situazione?»

Sia Geldard e Geldard sia Hough dedicano ampio spazio ad approfondire quali tipi di
domande, quando è opportuno utilizzarle, a che scopo (Fare domande e aiutare i clienti a
esplorare i problemi).
La capacità di riassumere

Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling nella


vita quotidiana, Trento, Erickson, pp. 121-123.

Proviamo a descrivere lo svolgimento del colloquio d’aiuto, appoggiandoci a una metafora.


Poniamo che il vostro interlocutore, invece di mettersi a parlare, cominci a dipingere su
una tela bianca, proponendovi una rappresentazione visiva dei suoi problemi. Mano a mano
che procede, la tela si riempirà di colori e forme, linee e immagini, che sarete voi i primi a
osservare, pennellata dopo pennellata. Allo stesso modo, in una conversazione d’aiuto,
potete comunicare all’altra persona che la state ascoltando con cura, utilizzando brevi
risposte o interiezioni.

Con il procedere delle pennellate, quanto più si delinea un’immagine riconoscibile, potrete
far sapere all’artista che riconoscete l’oggetto del suo quadro. Allo stesso modo, nel
counseling, potrete confermare la vostra comprensione di quel che vi viene detto, con la
tecnica della riformulazione. Altrettanto potrete fare rispetto alle emozioni che vi
comunica l’altra persona, se riuscite a rispecchiarle in maniera adeguata.

Più si va avanti nell’esecuzione del quadro, più le diverse forme al suo interno
cominceranno a collegarsi l’una all’altra, a sovrapporsi, a interagire. Se questo accade,
ancora una volta, potrete far sapere all’autore del quadro che riconoscete la sua opera, e
ne comprendete abbastanza bene i contenuti. Per fare questo, però, dovrete cominciare a
descrivere ciò che intravedete in essa. Fuori di metafora, dovrete far capire alla persona
che comprendete la sua situazione, offrendole un breve riassunto (ossia una descrizione
sintetica) di una parte rilevante delle cose che vi ha raccontato.

Un buon riassunto dovrebbe fare sintesi di tutte le cose più importanti che vi sono state
dette, e potrebbe anche fare riferimento ai vissuti emotivi dell’altra persona. Nel corso di
una conversazione, è possibile fare anche più di un riassunto, ogni qualvolta risulti utile
riepilogare le principali idee che sono emerse. Grazie anche al vostro riassunto, la persona
avrà davanti a sé un’immagine più chiara e definita della propria situazione, da cui
emergeranno solo le "sfaccettature" più rilevanti della sua esperienza narrata: quelle, cioè,
che andranno affrontate in modo prioritario.

Un buon riassunto aiuta la persona a concentrare l’attenzione sugli aspetti più


importanti.

Nell’arco di una conversazione, come abbiamo detto, può anche essere utile fare molteplici
riassunti. Ogni volta che ne fate uno, il vostro interlocutore potrà più facilmente ricostruirsi
un’"immagine d’insieme" della sua esperienza vissuta; gli risulterà quindi più facile
proseguire nella narrazione, puntando direttamente sugli aspetti giudicati più importanti.
Certe volte, il riassunto potrebbe innescare ulteriori reazioni emotive o riflessioni, di cui la
persona si sentirà più portata a parlare. Alla fine, varrà comunque la pena che proponiate
un riassunto complessivo, come una specie di mosaico in cui ricollocherete, uno dopo
l’altro, i riassunti intermedi.

Vi proponiamo a questo punto, per rendere il tutto più comprensibile, un esempio pratico
di riassunto. Come vedrete, il riassunto viene utilizzato solo dopo un ripetuto impiego delle
risposte brevi, delle interiezioni, delle riformulazioni.

Esempio 1

Questa conversazione si eà svolta in un circolo tennistico, subito dopo la fine di


una partita di tennis.
Dennis: Mi dispiace davvero, Mara, per tutto il rumore e il trambusto che ha fatto Gianni, mentre giocavamo. Ormai ha 
anni, e dovrebbe anche essere in grado di compor tarsi un po’ meglio. Sono veramente preoccupato per lui. Ogn
che gli dico una cosa, si mette a fare tutt’altro.

Mara: Sembri veramente preoccupato per come si comporta. [Riformulazione del vissuto emotivo e del contenuto]

Dennis: Sì, sono preoccupato per il suo comportamento, non so veramente più che cosa fare. Mi sta causando un sacco d
problemi, è una preoccupazione continua. Come tu ben sai, l’anno scorso mi sono risposato, e Vera — la mia nu
moglie — fa una fatica tremenda a controllare il comportamento di Gianni.

Mara: Vera fatica a gestire i modi in cui si comporta Gianni. [Riformulazione del contenuto, che si sarebbe rivelato 
impreciso, ma è comunque servito per incoraggiare Dennis a procedere nella conversazione]

Dennis: Beh, a dir la verità non è proprio così. È che questa situazione ci fa un po’ litigare, Vera e io. Lei pensa che dov
essere molto più severo con Dennis, e che gli lascio fare tutto quello che vuole.

Mara: Vera si aspetterebbe che tu, come genitore, fossi molto più severo. [Riformulazione del contenuto]

Dennis: Sì, Vera crede che io sia troppo accomodante. Finisce che si arrabbia in continuazione con me, e mi dà la colpa 
tutto quello che fa Gianni, a casa. Insomma, non so proprio che cosa dovrei fare.

Mara: Se capisco bene, tu e Vera avete idee diverse rispetto al modo migliore di trattare Gianni; sei preoccupato, perch
dovete trovare insieme una soluzione. [Riassunto]

Avete notato come il riassunto punti, in definitiva, alle differenze di "stile genitoriale" tra
Dennis e Vera? Il vero focus non è sul comportamento del bambino, ma su quello che è, a
ben guardare, il vero motivo della preoccupazione di Dennis: il suo rapporto con Vera.
Nell’esempio Mara è riuscita, grazie alle sue abilità di ascolto attivo e di riformulazione, ad
aiutare Dennis a mettere a fuoco il problema che lo preoccupa di più, anziché limitarsi al
problema da cui era partita la conversazione (ossia il cattivo comportamento del piccolo
Gianni).

Il riassunto nel counseling

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, pp. 66-69.

Riassumere è un’abilità interpersonale che viene usata dalle persone in numerose


occupazioni. Gli insegnanti usano spesso i riassunti per passare brevemente in rassegna
contenuti didattici già trattati, mentre gli intervistatori, i medici, gli infermieri e i giudici
abbreviano di routine le informazioni ricevute per dare risalto ai punti più importanti.

Il riassunto è molto usato nel counseling ed è particolarmente utile come risposta-ponte o


"di collegamento" (Egan, 1990). Il riassunto può essere usato anche per legare fra loro le
sedute di counseling. In questo senso, è particolarmente efficace quando viene fatto alla
fine di una seduta e all’inizio della successiva. Quando riassume, il counselor deve
parafrasare e riflettere una serie estesa di affermazioni fatte dal cliente nel corso di una
seduta. È raro che i clienti parlino in modo totalmente strutturato, e anzi, quando sono
sconvolti — e lo sono spesso —, le loro affermazioni possono apparire incoerenti, slegate e
frammentate. Riassumere, perciò, richiede disciplina e, ancora una volta, un ascolto attivo
da parte del counselor. Quando viene fatto accuratamente, un riassunto offre al cliente
l’opportunità di passare in rassegna quanto è stato detto e, attraverso questo processo, di
identificare e soffermarsi su alcune aree di preoccupazione che sono prioritarie in un
certo momento. Non sempre è possibile memorizzare e tenere presenti tutti gli aspetti
della storia di un cliente, ma quando riassume il counselor offre al cliente l’opportunità di
aggiungere dettagli che possono essere andati perduti o che non avevano ricevuto l’enfasi
necessaria. Questo processo aiuta a garantire che cliente e counselor siano veramente
"insieme" nel corso delle sedute.

Il riassunto (come la riflessione e la parafrasi) permette ai clienti di rendersi conto che le


loro esperienze, le loro emozioni e i loro pensieri sono stati riconosciuti e valorizzati dal
counselor. Anche tutte le incoerenze che i clienti possono ritrovarsi a dire verranno messe
in luce da un riassunto accurato. È comunque necessario che i counselor siano
particolarmente attenti al modo in cui identificano le incoerenze e le contraddizioni dei
clienti. Un modo per evitare affermazioni insensibili o giudicanti nel corso di un riassunto è
quello di rimanere coscienziosamente nei confini della struttura interna di riferimento del
cliente. Quella che potrebbe sembrare una contraddizione al counselor avrà talvolta un
significato completamente diverso per il cliente.

Per riassumere efficacemente al counselor sono necessarie tre cose particolarmente


importanti (vedi anche figura 1):

 una comprensione accurata di quel che è stato detto;


 un’accurata selezione degli elementi e dei temi chiave;
 l’espressione verbale di tali elementi e temi chiave in un modo chiaro, diretto ed
empatico.

Riassumere, quindi, è qualcosa di più del fatto di ripetere quel che il cliente ha detto con
un numero inferiore di parole. Per riassumere bene, è necessario cogliere il filo del
pensiero e dell’espressione dei sentimenti del cliente, e quindi enucleare il messaggio o i
messaggi nodali che vi sono sottesi. Bisognerebbe stabilire connessioni fra le idee, i
pensieri e i sentimenti espressi, e il counselor deve farlo usando parole sue. Non è
sufficiente ripetere quel che il cliente ha detto in forma abbreviata, quantunque sarebbe
irrealistico aspettarsi di trovare sinonimi appropriati per tutte le parole usate dal cliente.
Anche la sequenza di una storia o di un’esposizione è importante, e per fare un riassunto
accurato i counselor devono ricordare l’ordine degli eventi.

La scelta del momento in cui fare un riassunto è cruciale nel counseling, poiché qualunque
interruzione prematura del racconto di un cliente potrebbe inibirlo o imbarazzarlo.
Bisognerebbe dare ai clienti l’opportunità di correggere qualunque errore nel riassunto,
e quando il riassunto viene usato per concludere una seduta bisogna che cliente e counselor
siano d’accordo nel definirlo accurato.

Di seguito forniamo un esempio di come si possa usare il riassunto per concludere una
seduta.

Corinna era stata inviata per il counseling dal suo medico di base e fornì la seguente
descrizione della sua situazione e dei problemi che vi erano legati. Si era appena trasferita
con suo marito e un figlio piccolo in una casa in campagna. In passato, avevano sempre
abitato in città. Il trasferimento in campagna le causava ansia perché non le piaceva stare
così lontano dai suoi familiari e amici. Aveva trovato difficile farsi dei nuovi amici
nell’ambiente rurale, e l’isolamento e la solitudine le avevano fatto soffrire attacchi di
depressione. Ultimamente provava riluttanza a uscire per fare la spesa, e anche i lavori di
casa o la preparazione dei pasti risultavano gravosi e opprimenti.

Suo marito, poiché il trasferimento era legato a una promozione nel lavoro, era ansioso di
intrattenere i colleghi e le persone con cui faceva affari invitandoli a cena di tanto in
tanto, ma Corinna si sentiva incapace di coadiuvarlo. Peraltro, non riteneva giusto che lui
la coinvolgesse in cene diplomatiche dato che aveva già un bambino piccolo di cui occuparsi
e talvolta si sentiva assolutamente prosciugata di ogni energia. Suo marito mostrava
apparentemente di andarle incontro, ma Corinna era persuasa che lui non capisse
realmente la sua situazione. Quando si recò dal suo medico di base e parlò dei sintomi di
spossatezza, ansia e agorafobia, lui le chiese se avrebbe gradito andare da un counselor e
lei aveva accettato.

Il counselor (Anna) ascoltò Corinna per tutta la prima seduta dandole risposte appropriate.
Prima di salutarla, fece il seguente riassunto: "Visto che ci stiamo avvicinando alla fine di
questa seduta, vediamo un po’ di riassumere quel che mi ha detto fino ad ora. Ha iniziato
dicendomi di essersi trasferita con la Sua famiglia in questa zona di campagna e che il
trasferimento è risultato traumatico per Lei. Sono sopraggiunti alcuni problemi di salute, e
si sente sola lontano dalle Sue conoscenze e dai Suoi amici. Adesso Suo marito vorrebbe che
Lei intrattenesse a cena i suoi colleghi di lavoro e questa sembra proprio essere la goccia
che fa traboccare il vaso, specialmente se si pensa che Lei ha un bambino da seguire e che
si sente così stanca. Suo marito La sostiene in parte, ma non sembra comprenderLa
completamente. Lei sente che le cose potrebbero andare meglio se potesse comunicare di
più. Quel che ho detto fino adesso Le sembra giusto?"

La cliente rispose al riassunto della counselor insistendo sull’ansia che provava al pensiero
di dover cucinare per i contatti di lavoro del marito. Generalmente i clienti scelgono un
aspetto di un riassunto per discuterne ulteriormente, e ciò aiuta a focalizzare
l’attenzione sugli argomenti che risultano per loro particolarmente problematici. Un
riassunto accurato dà sia al counselor sia al cliente l’opportunità di selezionare i problemi o
di dare a uno di essi la priorità. Inoltre, spesso i clienti aggiungono qualcosa al riassunto
del counselor, il più delle volte qualcosa che avevano dimenticato di menzionare quando
avevano parlato.

Figura 1. Riassumere in modo accurato.


Riassumere: esercizio

Lavorando individualmente, leggete il seguente ipotetico resoconto di un cliente che è


venuto a parlarvi dei suoi problemi. Scrivete un riassunto di quel che ha detto, in un modo
che glielo rifletta adeguatamente. In seguito, discutete il vostro riassunto con altri membri
del gruppo in formazione.

Proprio non riesco a sopportare il mio capo. E' proprio il tipo di uomo da cui staresti alla
larga se potessi. Da quando è venuto a lavorare nella nostra azienda, l'atmosfera è
cambiata completamente. Non ci si sente più sicuri come prima, e nessuno va più a genio a
nessuno. E' un'atmosfera terrribile. I livelli di stress sono veramente alti, e la gente si
ammala sempre più spesso. Anch'io sono dovuto andare dal medico; mi sono fatto
prescrivere qualcosa che mi aiuti a dormire. Mi ha dato alcune compresse che dovrò
prendere per due settimane, ma ha anche detto che devo cercare di comprendere quali
siano le cause del mio stress. Ecco perchè mia moglie mi ha suggerito di parlare con
qualcuno, e voglio farlo certamente se può aiutarmi. Badi però che non sono io la persona
con un problema. E' il mio capo che ha tutti i problemi. Quando il mio collega gli ha chiesto
se potessimo dare un diverso indirizzo al lavoro che stavamo facendo, lui non lo ha neppure
ascoltato. Pensa che nessuno tranne lui sia degno di fiducia e non delega mai niente. Il
nostro capo precedente era una gran persona. Era il tipo di uomo che ti induce a lavorare
bene anche perchè non ti guardava dall'alto verso il basso. Quando se ne andò rimanemmo
tutti male. Adesso non mi sembra che valga più la pena di sforzarsi nel lavoro, perchè tanto
non si viene nè ringraziati nè apprezzati.

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, p. 81.

Formulare domande e aiutare i clienti a esplorare i problemi

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, pp. 85-102.

Il processo del counseling consiste in qualcosa che va ben oltre il mero scambio di informazioni fra due
persone;   implica   infatti   un   vasto   repertorio   di   abilità   fra   cui   una   delle   più   importanti   è   quella   di
rivolgere   domande.   Negli   scambi   quotidiani   formuliamo   domande   soprattutto   per   sollecitare
informazioni dagli altri, e possiamo farlo sia per semplice curiosità sia per conoscere più pienamente le
altre persone. Ecco un elenco delle principali ragioni per cui si pone una domanda:
 chiedere informazioni
 soddisfare una curiosità
 manifestare interesse
 incoraggiare un’ulteriore conversazione
 facilitare la comprensione
 scoprire quel che gli altri sentono o pensano
 chiarire questioni
 identificare e dare risalto ad aree di preoccupazione
 controllare e confermare risposte già date
 aumentare l’intimità
 avviare una conversazione
 mettere altre persone a proprio agio
Quando le persone sono sconvolte, infelici o disperate, allora le domande irrilevanti o per
le quali non esiste risposta sono non solo inutili ma spesso anche dannose. Ecco un esempio
dell’uso di questo tipo di domande inutili:

Susanna: Da ieri sono così depressa. Sembra semplicemente che non riesca a togliermela di dosso questa cappa.

Giuseppe: Perché sei depressa?
In questo caso la domanda formulata è inutile perché è alquanto probabile che Susanna non sappia 
perché si sente in quel modo; del resto, quand’anche sapesse perfettamente la ragione della sua 
depressione, la domanda è troppo dura e cruda nel modo in cui è stata espressa. Giuseppe 
probabilmente ha fatto la domanda per acquisire informazioni di interesse per lui e per soddisfare la sua
personale curiosità. Idealmente, dovrebbe invece aiutare Susanna a guardare più da vicino i suoi 
problemi. Nell’esempio sopra riportato, è senz’altro possibile che Susanna si senta sotto 
interrogatorio a causa della formulazione della domanda, anche se ciò dipende in qualche misura dal 
tono della voce e dal contegno generale di Giuseppe. In altre parole, il modo in cui si risponde alle 
domande dipende da una varietà di fattori (vedi figura 1). Ecco alcuni di tali fattori:
 la persona che rivolge la domanda
 il tono di voce, il linguaggio corporeo e il contegno generale della persona
 quando la domanda viene formulata
 il tipo di domanda fatta
 il contesto in cui la domanda è stata posta

Figura 1. Il modo in cui le persone rispondono alle domande dipende da una varietà di
fattori.

Nella situazione del counseling, la persona che rivolge la domanda è, generalmente, il


counselor, benché frequentemente anche i clienti ne pongano quando cercano di chiarire i
loro problemi. È importante ricordare che molte persone sono incapaci di dare
informazioni spontaneamente, senza l’aiuto di un uso accorto delle domande. Ciò è in
parte legato alle esperienze della prima infanzia e della scuola, dove perlomeno un tempo i
bambini erano tenuti a parlare soltanto quando li si interrogava.

Un’altra ragione di questa iniziale passività dei clienti che vengono in counseling,
specialmente quelli che non ne hanno mai fatto esperienza prima, è che spesso sono
convinti che sia strutturato come un’intervista. Di conseguenza, rispettano questo copione
finché non si rendono effettivamente conto che il counselor è lì per ascoltarli e per aiutarli
a esplorare i loro problemi.

Tipi di domande

L’abilità di formulare domande in modo tale da incoraggiare i clienti a esplorare i propri


problemi, senza sentirsi sotto interrogatorio o sotto pressione, richiede pratica. I tipi di
domande rivolte, oltreché il modo in cui vengono formulate, sono fattori che hanno
un’enorme influenza in ogni interazione ma che hanno un’importanza particolare nel
contesto del counseling. Nella figura 2 viene fornita una panoramica dei diversi tipi di
domande usate nelle comunicazioni quotidiane.

Figura 2. Tipi di domande.


Domande Le domande chiuse

Questo tipo di domanda richiede generalmente una risposta che consiste in un semplice sì o
no o in una risposta molto specifica. Le domande chiuse danno poche opportunità o libertà
nella scelta delle risposte. Vengono usate quando si cerca o si ha bisogno di informazioni
specifiche. Le domande chiuse, perciò, dovrebbero essere evitate nel counseling, poiché un
obiettivo fondamentale di questa procedura di aiuto è quello di rendere i clienti capaci di
esplorare aree di preoccupazione in modo riflessivo, ponderato e approfondito.

Esempi di domande chiuse:

 Le piace quel colore?


 Quanto tempo abitò in quel posto?
 Vuole andare?
 Ha capito quel che ho detto?
 È felice?
 Manterrà il Suo lavoro?
 Vuole fissare un appuntamento?
 Ha chiesto di parlarmi?
 Qual è il nome di Suo marito?
 Sa nuotare?

È probabile che la risposta a ciascuna delle domande sopra riportate sia monosillabica e
chiunque le riceva non avrà la sensazione di essere stato invitato a dilungarsi o a discutere.

Formulare domande è una delle abilità più difficili da padroneggiare per gli studenti di
counseling. La tendenza è sempre, perlomeno all’inizio della formazione, quella di
rivolgere troppe domande generali e di articolarle in modo chiuso anziché aperto.
Giuseppina, una studentessa, descrisse nel modo seguente la sua reazione quando visionò la
sua prima seduta nel video:

Prima di tutto mi accorsi di odiare il suono della mia voce, e non mi ero mai accorta di
quanti manierismi avessi. Dopo aver superato lo shock iniziale di vedermi in quel modo,
notai quante domande facevo. Povera Viviana (la cliente), non le lasciavo la possibilità né
di pensare né di fare una pausa. Ne discutemmo in seguito con il nostro formatore, e credo
che una delle cose di cui avevo paura fosse il silenzio. Pensavo solo che se fosse calato il
silenzio fra noi ciò avrebbe significato che avevo fallito. L’altra cosa a cui continuai a
pensare era che avevo bisogno di aiutare Viviana a risolvere i problemi che aveva, e dunque
dovevo incalzarla. Ma potei rendermi conto dal video che la mia tecnica di formulare le
domande non avrebbe potuto dare il minimo aiuto.

Visionando il suo video e discutendolo con il suo formatore, Giuseppina riuscì a identificare
i due problemi principali nel suo approccio alla seduta di counseling. Al pari di molti altri
studenti lei aveva paura del silenzio e faceva ogni cosa in suo potere per essere certa che
non si verificasse. Ma i clienti spesso ne hanno bisogno e vogliono stare in silenzio durante il
counseling, perché dà loro l’opportunità di raccogliere i pensieri, di esaminare alcuni
problemi con più accuratezza, o semplicemente di vivere una forte emozione alla presenza
di qualcuno che sia empatico e comprensivo.

Il secondo problema identificato da Giuseppina era quello di voler risolvere i problemi della
cliente in sua vece; in altre parole, rivolgeva domande per mitigare le sue ansie
sull’andamento della seduta di counseling, non per facilitare la cliente. Queste sono due
trappole del counseling, ma attraverso la pratica possono essere evitate.

Le domande aperte

Ecco alcuni esempi di domande aperte:

 Dunque, come si può paragonare questo alla vecchia routine?


 Potrebbe dirmi qualcosa di più sulla faccenda?
 Che cosa significa questa situazione per Lei?
 Forse potrebbe cercare di identificare le cose che innescano questo sentimento?
 Come si sente riguardo a ciò?
 Quali altri aspetti potrebbe considerare?
 È qualcosa che potrebbe guardare più da vicino?
 Come si sente adesso che è andato via di casa?
 In che modo è cambiata la situazione da allora?
 Come si è sentito quando l’ha rivista?

Le domande aperte, come quelle negli esempi forniti, possono offrire ai clienti
l’opportunità di rispondere con i loro tempi e di espandere e chiarificare aree significative
di preoccupazione che è forse necessario considerare più in profondità.
Le domande "Perché?"

Le domande che iniziano con la parola "Perché" sono problematiche nel contesto del
counseling, dato che è spesso difficile o impossibile darvi risposta. Suonano inoltre
talvolta come un’accusa, e ciò ha l’effetto di mettere i clienti sulla difensiva. Un esempio
di domanda "Perché" è stato fornito all’inizio quando alla cliente è stato chiesto dal
counselor perché fosse depressa.

Oltre a mettere la cliente sulla difensiva, la domanda può aver avuto l’effetto di farla
sentire inadeguata perché non era in grado di rispondere, il che, a sua volta, può aver
indotto la situazione in cui la cliente abbia delegato tutto al counselor in quanto
depositario di conoscenza e esperto dell’argomento. Questo è un tipico modo in cui i clienti
possono essere spossessati della loro capacità innata di chiarire, discutere e comprendere i
propri problemi. Le domande "Perché" possono essere utili in alcune situazioni, per
esempio, in un’intervista, ma perfino in quei casi, se insistite, sono limitanti perché
tendono a inibire la reale comunicazione invece di aprirla.

Se consideriamo ancora la domanda e la risposta fornite all’inizio, è chiaro che avrebbero


potuto essere formulate numerose altre risposte aperte più appropriate.

Susanna:
Da ieri sono così depressa. Sembra semplicemente che non riesca a togliermela di dosso
questa cappa.
Giuseppe:
Dici di sentirti così da ieri; puoi dirmi qualcosa di come è cominciato?

Questa risposta, una delle tante possibili, invita Susanna a guardare più da vicino all’origine
della sua depressione. In questo modo, può cominciare a capire i suoi sentimenti e che cosa
li abbia originati.

Le domande che aiutano i clienti a guardare più da vicino ai propri sentimenti

Le domande che invitano i clienti a discutere i sentimenti vengono talvolta chiamate


"domande affettive". Sono particolarmente utili nel counseling perché facilitano
l’identificazione e l’espressione dei sentimenti e stimolano la riflessione e il pensiero. I
clienti che vengono in counseling trovano spesso difficile identificare e riconoscere in
particolare i sentimenti forti. Ciò è talvolta legato al fatto che hanno in qualche modo
preso le distanze dai loro sentimenti o alla convinzione irrazionale che riconoscere i
sentimenti forti sia un segno di debolezza. Alcuni clienti, specialmente quelli che per il
lavoro che svolgono o il ruolo che rivestono sono coinvolti nell’assistenza quotidiana di altre
persone, raramente riconoscono o affrontano loro bisogni affettivi.

Marina, una cliente, descrive la sua esperienza di counseling e il modo in cui l’ha
aiutata a identificare alcuni dei suoi bisogni:

Marina: Tutto accadde quando Franco, il mio piccolino, venne portato in ospedale. Fu tutto così inaspettato perché 
mai stato ammalato prima, ma quasi subito parlarono della necessità di un intervento chirurgico e il mondo
letteralmente fra le mani. C’era Laura a casa, la mia figlia maggiore, e cercavo disperatamente di immagin
avrebbe fatto mentre ero in ospedale con Franco. Laura era così sconvolta e non voleva stare con nessun al
marito è lontano e così dovevo cavarmela da sola. Non ho nessun familiare qui. Ci siamo trasferiti due mes
conosco a malapena i miei vicini.

Counselor: Quindi dev’essere stato un periodo carico di ansia e persino di terrore per Lei.

Marina: Sì, davvero. Continuavo ad andare avanti ma… sì [pausa] è stato terribile
Counselor: Non c’era nessuno che potesse sostenerLa o aiutarLa?

Marina: Esatto. Prima, non avrei neppure pensato di poter chiedere aiuto a Elena [una vicina]. Pensavo che ciò sare
equivalso ad ammettere di non riuscire a farcela da sola, e del resto la conoscevo appena

Counselor: Ma adesso Lei sa che è giusto chiedere aiuto quando se ne ha bisogno, specialmente quando il peso che si 
insostenibile.

Marina: Sì. Non esiterei più.

Non è sempre così facile per i clienti fronteggiare la situazione e identificare sentimenti di
infelicità, inadeguatezza, paura o rabbia. Ecco perché è essenziale che i counselor
formulino le domande con accuratezza e sensibilità, e in questo senso anche la scelta del
momento è importante. Chiedere a qualcuno di guardare in faccia emozioni forti e talvolta
soverchianti quando non è ancora pronto a farlo può causare ancora più dolore e ansia.

Le domande allusive

Ci sono domande che vengono poste in un modo tale da indurre una particolare risposta.
Ecco alcuni esempi semplici di domande allusive:

 Non è una buona idea?


 Sua moglie è sconvolta dal Suo comportamento?
 È un buon piano d’azione, no?
 L’insegnante lo sa meglio di tutti, non è vero?

La persona che debba rispondere a domande del genere può sentirsi obbligata a dirsi
d’accordo con quanto è stato detto, ma spesso le domande allusive sono ancora più sottili e
la risposta è suggerita solo vagamente. Talvolta viene usata una parola emotiva per
indicare il tipo di risposta richiesta, e in tal caso la domanda non è più soltanto allusiva, ma
anche emozionalmente carica.

Le domande allusive pongono la persona a cui sono rivolte sotto la pressione di dichiararsi
d’accordo, e se ciò si verifica nel contesto del counseling vuol dire che il counselor sta
imponendo le sue opinioni, i suoi valori, le sue convinzioni al cliente. Ciò va contro
l’etica della relazione di counseling, e pone il counselor nella posizione dell’autorità o
dell’esperto che dice ai clienti cosa sentire e cosa pensare. Per questa ragione, le domande
allusive dovrebbero essere sempre evitate nel counseling. L’unico modo sicuro per gli
studenti di superare qualunque tendenza a usarle è quello di esercitarsi con frequenza e
regolarità con i membri del loro gruppo e con un formatore.

Le domande multiple

Talvolta le persone fanno numerose domande tutte in una volta. Queste domande multiple
sono imbarazzanti e inopportune, e molto spesso hanno l’unico risultato di confondere i
clienti, specialmente quelli i cui processi di pensiero sono stati disturbati dallo
sconvolgimento emozionale e dal dolore. Gli anziani, in particolare, possono trovare
difficile seguire il filo di una domanda multipla. Molto spesso si riesce a rispondere soltanto
a una parte della domanda (generalmente l’ultima). Le domande multiple hanno anche
l’effetto di far sentire sotto interrogatorio e tendono a far assumere una atteggiamento
difensivo. È vero che qualche volta i clienti chiedono che la domanda venga ripetuta, ma il
più delle volte si limitano a dare una risposta vaga.

Ecco un esempio di domanda multipla che non può avere alcuna utilità per il cliente:
Counselor:
Quando decise di partire? Dove andò? Era lontano?
Cliente:
Beh no, non molto.

Non è difficile accorgersi che qualunque comunicazione reale collasserà in fretta quando
viene usato questo tipo di domanda. Infatti, la risposta abituale è la confusione, e spesso
in seguito ci vuole un bel po’ di lavoro perché la comunicazione si ristabilisca.

Nicola, uno studente di counseling, descrisse una seduta di esercizio effettuata con un
compagno che entrambi passarono poi in rassegna guardando il video che ne era stato
girato:

Non riuscivamo a credere quanto fosse brutta all’inizio. Sparavo le domande a


Davide una dietro l’altra, con una velocitaà tale che non riusciva a rispondermi. Poi
ne parlammo e lui mi disse che si sentiva sotto pressione e come minacciato dalla
velocitaà e dal numero di domande che gli rivolgevo. Sapevo che si trattava della
nostra prima seduta ripresa dalla videocamera, eppure non riuscivo a rendermi
conto di come avessi potuto fare tante domande.

Nicola: Quando il tuo capo si ammalò ti venne chiesto di sostituirlo. Per quanto tempo occupasti il suo posto? Qu
ritornò?

Davide: Penso sia stato un mese, no, forse un mese e mezzo.

Nicola: Hai detto che non eri sicuro di farcela. Come andò? Come ti senti adesso che è finita e che l’hai fatto?

Davide: Non lo so.

Nicola: Sembra che sia andato tutto bene, comunque.

Davide: Sì.

Si rileva molto bene dall’interscambio sopra riportato che a Davide non è stata offerta
alcuna reale opportunità di esplorare questioni relative ai suoi sentimenti riguardo alla
situazione lavorativa e alla sua capacità di cavarsela in assenza del suo capo. Al contrario,
è stato confinato a dare risposte fattuali riguardanti l’ultima domanda di ciascuna serie.
Quando gli è stato chiesto direttamente dei suoi sentimenti, ha dovuto rispondere che non
lo sapeva, e ciò è comprensibile se si riflette che non gli è stata offerta alcuna possibilità di
considerarli.

Spesso è solo all’ultima parte di una domanda multipla che viene data risposta, e la
risposta data è generalmente sia vaga sia tale da scoraggiare ulteriori domande.

Le domande retoriche

Si tratta di quelle domande che non richiedono una risposta. Eccone alcuni esempi:

 Chi non vorrebbe avere una vita familiare felice?


 Che senso avrebbe lavorare se non ci si potesse divertire spendendo quel che si è
guadagnato?
 Qual è il valore della vita se non ci si diverte un po’?

È raro che domande simili da parte del counselor possano essere utili nella situazione di
counseling, perché esse sono generalmente un’espressione delle opinioni personali del
counselor, e se le si usa troppo liberamente si può indurre il cliente ad accettare i punti
di vista che contengono. Spesso sono gli stessi clienti a fare uso di domande
retoriche, talvolta come modo indiretto per sollecitare consigli o opinioni.
Quando cioà avviene, una risposta utile da parte del counselor puoà essere quella di
invitare il cliente a considerare in modo piuà approfondito il significato di quel che
ha detto. Per esempio:

Cliente: Che senso avrebbe lavorare se non ci si potesse divertire spendendo quel che si è guadagnato?

Counselor:  Quindi forse Lei sente di aver bisogno di ricompensarsi per il fatto che lavora e si occupa anche della cas

Cliente:  Sì, perché in realtà nessun altro mi ringrazia veramente. Mi ricompenso da sola e so che talvolta esagero
m’indebito.

Counselor: E ciò Le crea ulteriori problemi?
Quando una domanda retorica è affrontata in questo modo, il cliente ha la possibilità di considerare 
quegli aspetti che gli creano ansia o preoccupazione ma che sono difficili da esprimere direttamente. 
Anche l’amarezza, il sarcasmo o la rabbia possono essere sottesi all’uso di una domanda retorica da 
parte di un cliente; anche in questo caso, il counselor può rispondere sollecitando un esame più 
minuzioso del sentimento reale che è stato espresso in modo indiretto. Si ricordi comunque che le 
domande retoriche dei clienti non dovrebbero mai essere ignorate, perché sono pressoché 
invariabilmente generate dal bisogno di discutere o considerare ulteriormente certi temi.

Le domande di scandaglio che incoraggiano l’elaborazione

Spesso i clienti descrivono le loro situazioni problematiche in modi tali che, se si desidera
giungere a un vero insight, necessitano di un’ulteriore elaborazione. Anche l’uso delle
domande di scandaglio aiuta i clienti a guardare al di là delle ovvietà che hanno detto e a
considerare le varie dimensioni e implicazioni nascoste. Nel suo libro The skilled helper,
Gerard Egan precisa che queste domande di scandaglio possono assumere la forma della
comunicazione sia verbale che non verbale, e che perfino un cenno del capo o
un’espressione di interesse da parte del counselor può dare al cliente un incoraggiamento
sufficiente per andare avanti (Egan, 1990). Una stimolazione o una guida troppo
pronunciata, tuttavia, sia verbale che non verbale, rischia di esercitare un’indebita
pressione sul cliente. È pure importante ricordare che i clienti hanno bisogno di tempo per
riflettere prima di passare a una fase successiva. Se gli si mette fretta, un cliente può
facilmente perdere la linea di pensiero che stava seguendo, e ciò può voler dire sabotare e
rendere vano il lavoro svolto fino ad allora.

Ecco un cliente che trovoà difficile chiarire i suoi problemi a causa del dolore
emozionale e della confusione che quei problemi gli avevano creato:

Cliente: Non era il lavoro in realtà, il lavoro mi piaceva. È solo che la pressione che mi causava… [lunga pausa]

Counselor: [fa un cenno d’incoraggiamento col capo] La pressione?

Cliente: Era una combinazione della pressione del lavoro e dell’incidente automobilistico: le due cose insieme era
troppo. E tuttavia…

Counselor: E tuttavia?

Cliente: Ho avuto altre volte eventi stressanti quasi altrettanto brutti e sono sempre sopravvissuto. Stavolta è dive
sto cercando di capire perché.
In questo interscambio il counselor si è confinato in un ruolo molto marginale, limitandosi a
ripetere interrogativamente le ultime parole pronunciate dal cliente, per dargli
affermazione e incoraggiarlo a esplorare ulteriormente ciò di cui stava parlando. Oltre a
dargli incoraggiamento, comunque, le sottolineature del counselor hanno avuto l’effetto
aggiunto di aiutare il cliente a focalizzare l’attenzione sulle ragioni reali che si trovano
dietro la sua depressione, dandogli così una reale comprensione di se stesso e del modo in
cui reagisce quando è sotto stress.

Formulare le domande troppo presto

All’inizio abbiamo considerato i fattori che influenzano il modo in cui le persone rispondono
alle domande, e abbiamo notato che la scelta del momento ne è un elemento importante.
Benché alcuni clienti vengano in counseling aspettandosi che vengano loro rivolte delle
domande, ce ne sono altri che desiderano e pretendono di parlare in prima persona delle
questioni e dei problemi che li concernono. Spesso buona parte di quel che i clienti dicono
all’inizio può sembrare incoerente e pieno di circostanziati dettagli non necessari. Dal
punto di vista del cliente, tuttavia, ciò è perfettamente logico perché il counselor è, dopo
tutto, un estraneo la cui attendibilità, credibilità e rispetto non sono ancora stati stabiliti o
confermati.

Un modo per mettere alla prova questi aspetti è quello di rivelare molto poco all’inizio, e
poi aprirsi a mano a mano di più via via che la fiducia aumenta. Quando i clienti parlano a
ruota libera, sarebbe sbagliato e inopportuno interromperli per far loro domande; se
vengono fatte interruzioni del genere, è probabile che il cliente se ne senta irritato e perda
il filo di quel che stava dicendo.

Dunque, nella fase iniziale è necessario che il counselor si concentri sull’abilità di ascolto,
anche se talvolta gli stessi clienti, e specialmente quelli ansiosi che non sanno cosa
aspettarsi, vorranno formulare domande. Queste domande spesso si riferiscono a dettagli
fattuali che hanno bisogno di chiarire, per esempio quanto dureranno le sedute, quale sarà
la loro frequenza e così via. Anche quando questi dettagli sono stati stabiliti in anticipo
(come dovrebbe sempre avvenire), può darsi che i clienti abbiano bisogno di riascoltarli.

Talvolta i clienti arrivano alla prima seduta con un elenco di domande già pronto: in questo
caso il counselor dovrebbe passare un po’ di tempo su queste cose con il cliente per
facilitare la comprensione e costruire un rapporto. La cosa più importante da ricordare
circa lo stadio iniziale del counseling è che i clienti dovrebbero essere autorizzati a
procedere con il loro ritmo e i loro tempi e a rivelare le informazioni gradualmente se lo
desiderano. Inoltre, il counselor dovrebbe evitare di formulare domande in questa fase
perché esse tendono a incoraggiare la dipendenza e potrebbero perfino far prendere alla
seduta una direzione di maggiore interesse per il counselor che per il cliente.

Le domande di apertura

Gli studenti di counseling sono spesso preoccupati rispetto al modo corretto di salutare i
clienti, specialmente la prima volta che li vedono a una seduta. In tale contesto, la cosa
migliore è usare una breve domanda come modo per riconoscere la presenza del cliente e
stabilire un contatto. Ecco alcune possibili domande/affermazioni di apertura che possono
servire allo scopo:

 Vorrebbe cominciare dicendomi a che cosa sta pensando in questo momento?


 Abbiamo cinquanta minuti a disposizione oggi. Come Le piacerebbe usare questo
tempo?
 Prego, mi dica come posso aiutarLa.
 Vorrebbe dirmi del problema che ha menzionato quando abbiamo fissato
l’appuntamento?
 Come Le piacerebbe cominciare?
 C’è qualcosa di specifico che vorrebbe considerare prima di tutto?
 Forse potremmo parlare delle questioni che La preoccupano di più adesso?

L’affermazione o la domanda iniziale dovrebbe essere aperta quanto basta per incoraggiare
il cliente a parlare liberamente. Si tratta di una sorta di autorizzazione a parlare, e
segnala al cliente che il counselor è là per ascoltarlo e aiutarlo.

Altre modalità di formulare domande

Le domande che incoraggiano il pensiero critico

Nel counseling, i clienti possono essere incoraggiati ad autoformularsi le domande per


migliorare le loro abilità innate di discriminare fra varie possibilità o corsi di azione. Alcuni
modelli teorici del counseling pongono maggiore enfasi di altri sull’autoformulazione di
domande da parte del cliente. Il counseling razionale emotivo di Albert Ellis è un esempio
di modello che valorizza tale abilità. In particolare, Ellis fa riferimento alle convinzioni
irrazionali delle persone che causano problemi emozionali. Secondo Ellis, queste
convinzioni irrazionali devono essere identificate e messe in discussione (Ellis, 1992).

L’abitudine al pensiero critico e all’autoformulazione di domande rende i clienti capaci di


acquisire fiducia e indipendenza, due dei più importanti obiettivi del counseling. I clienti
possono essere incoraggiati a guardare più da vicino alcune delle loro credenze e a stabilire
se siano vere sul serio. Per esempio, una delle convinzioni irrazionali più diffuse è che si
debba sempre essere perfetti e non commettere mai errori: si può insegnare ai clienti che
la possiedono a metterla in discussione e sfatarla da soli. In ogni caso, è evidente che per
aiutare i clienti a sviluppare abilità di pensiero critico i counselor devono possedere
qualche competenza in proposito o svilupparla nel corso della loro formazione.

L’ambito della formulazione di domande richiede molta sensibilità e insight, oltreché l’uso
appropriato di abilità di messa in discussione.

Le domande che si riferiscono al passato e al futuro

Ci sono alcuni modelli di counseling che pongono l’accento sull’importanza di passare in


rassegna le esperienze passate del cliente per mettere in luce le origini degli attuali
problemi e difficoltà. Nel modello psicodinamico del counseling, l’attenzione è focalizzata
sulle esperienze infantili e i clienti possono essere incoraggiati, attraverso la formulazione
di domande, a esaminare episodi remoti della loro vita, comprese le relazioni con genitori e
fratelli. In ogni caso, anche il modello psicodinamico, al pari degli altri modelli, sottolinea
l’importanza del rispetto per i clienti, il che significa fra le altre cose stare attenti a non
farli sentire sotto interrogatorio o sotto pressione attraverso un malaccorto e invadente uso
delle domande. Per questo motivo, le domande devono essere formulate soltanto quando
sono rilevanti e suscettibili di far avere al cliente un insight. Si applica naturalmente anche
in questo caso il principio di rivolgere domande aperte, e l’empatia è considerata una
componente essenziale di ogni stadio del processo di counseling.

Occasionalmente, è necessario che i clienti considerino le conseguenze dei cambiamenti


che stanno preparandosi a effettuare. Questo tipo di domande generalmente trova spazio in
fasi avanzate del counseling, quando i clienti stanno ponendosi obiettivi per il futuro. Un
cliente potrebbe per esempio sentirsi chiedere di considerare che cosa potrebbe accadere
se un certo piano venisse tradotto in realtà. Esaminare le varie possibilità in questo modo
può aiutare i clienti a fare scelte migliori e più avvertite.

Creare la giusta atmosfera emozionale

Il calore e l’empatia del counselor sono due caratteristiche, ritenute importanti da Rogers,
necessarie se si desidera che il cliente faccia progressi nel counseling (Rogers, 1991). È
difficile dire esattamente come questi attributi possano essere acquisiti, ma la maggior
parte della gente non ha assolutamente dubbi sulla loro esistenza quando li percepisce in
un’altra persona. Dal punto di vista dello studente di counseling, il prerequisito più
importante per lo sviluppo dell’empatia è costituito dall’autosviluppo e
dall’autoconsapevolezza, processi che devono essere affrontati nel corso della formazione.

Attraverso questi processi, che possono anche rivelarsi dolorosi, gli studenti sviluppano una
più profonda comprensione dei clienti e dei loro problemi, coltivando in tal modo le loro
innate riserve di empatia. Un ulteriore sviluppo può essere raggiunto grazie alla formazione
in servizio e alla supervisione, oltreché al contatto con i clienti nella pratica professionale.

L’esperienza emozionale che i clienti percepiscono quando vengono in counseling per la


prima volta è uno dei fattori che determineranno il loro futuro impegno nel processo di
autoesplorazione. Non c’è bisogno di dire che i clienti non saranno affatto incoraggiati a
continuare il counseling se avvertono che il counselor non comprende né loro né i loro
problemi. Una comprensione reale naturalmente si sviluppa dopo un certo periodo di
tempo. Ma fin dalle battute iniziali del counseling, il counselor deve dimostrare la volontà
di prestare al cliente tutta l’attenzione necessaria a far sì che questa comprensione
profonda venga alimentata.

Uno dei modi di favorire tale processo è quello di formulare domande, ma abbiamo visto
che è necessario considerare con accuratezza sia la scelta del tempo sia la struttura e
l’articolazione delle domande. Va altresì considerata la ragione per la quale si rivolgono
domande. Forniamo di seguito una sorta di scheda di valutazione per gli studenti di
counseling che hanno difficoltà a stabilire quando e con quale frequenza porre domande.

 È troppo presto per formulare questa domanda?


 Perché voglio una risposta alla domanda che sto rivolgendo al cliente?
 La domanda aiuterà il cliente?
 La domanda ha l’obiettivo di soddisfare qualche mia curiosità?
 La domanda aiuterà il cliente a essere più aperto?
 La domanda aiuterà il cliente a esplorare ulteriormente la situazione?
 Quante domande ho fatto in questa seduta?
 Ho dato al cliente tempo sufficiente per considerare la domanda precedente e
darvi risposta?
 Che cosa non ha detto il cliente nel rispondere a una specifica domanda?

È inoltre opportuno che gli studenti divengano consapevoli del proprio linguaggio corporeo,
del proprio tono di voce e del loro contegno generale quando formulano una domanda. Se
queste aree vengono osservate e monitorate, è molto meno probabile che le sedute siano
simili a un interrogatorio o rimangano in superficie. Quando vengono rivolte troppe
domande, c’è il rischio reale che le sedute siano superficiali perché al cliente non è offerta
la reale opportunità né il tempo per esplorare approfonditamente i problemi.

Studio di caso: Giulia

Giulia aveva 16 anni e viveva a casa con i nonni e un fratello piuà grande. Venne in
counseling dapprincipio percheé suo fratello aveva atteggiamenti da bullo ed era
verbalmente aggressivo nei suoi confronti. I nonni non erano in grado di aiutarla
(o non erano disposti ad aiutarla) a gestire la situazione. A causa della
depressione che provava, il lavoro scolastico di Giulia ne risentiva, la ragazza
trovava sempre piuà difficile concentrarsi e aveva problemi di socializzazione con
gli amici. Il suo rapporto con il fratello era la maggior preoccupazione di Giulia,
ma era anche abbattuta a causa degli scambi interpersonali deteriorati e delle
molte piccole liti che continuava ad avere con gli amici. Durante la prima seduta
di counseling, Giulia descrisse i suoi problemi in questo modo:
Giulia: Mi prendono tutti in giro, non solo mio fratello, proprio tutti quanti. Vanessa, la mia amica, ha iniziato ad
andarsene in giro con una brutta ciurma. O almeno, penso che sia una brutta ciurma, e ieri quando salii 
sull’autobus per andare a casa sapevo che stavano ridendo di me. Ero veramente imbarazzata e ho chiesto
smettessero, soprattutto a Vanessa. Non riesco a credere che stia agendo così. È stata la mia migliore am
tutto il periodo della scuola. E non è tutto. Ho questi stupidi dolori alle gambe e alle braccia. Gliene ho p
[Non aspetta la risposta.] Questi dolori aumentano d’intensità di notte, e tutto quel che ha saputo dirmi il
è stato che dovrei tornare dal medico, cosa che ho fatto. Mi sembra che il nonno prenda un po’ sottogam
questa faccenda, ha detto che ho avuto un sacco di grane nell’ultimo periodo e che dovrei prendermi un p
tempo. [Pausa.]

Counselor: Hai dovuto affrontare un sacco di cose in quest’ultimo periodo, tuo fratello, Vanessa, il fatto di non senti
fisicamente. È stato un periodo molto stressante.

Giulia: Sì, stressante è la parola giusta. Non riesco a credere di avere avuto tutti questi guai dopo quello che già 
successo.

Counselor: Tutto quello che già era successo?

Giulia: Sì. La mia mamma è morta dieci mesi fa. [Scende una pausa di silenzio.] … Aveva il cancro.

Counselor: Così avevi tutta questa tristezza da sopportare, e anche le altre cose sono diventate un peso.

Giulia: Sì, è vero. Tutte le altre cose sembrano assumere un’importanza sproporzionata. Trovo difficile andare a
specialmente da quando Vanessa ha smesso di prendersi cura di me. Era la mia migliore amica.

Counselor: Era una persona a cui sentivi di poter parlare a cuore aperto?

Giulia: Sì.

Counselor: Forse adesso potremmo parlare di alcune delle cose di cui avresti voluto parlare con Vanessa. Della tua m

Giulia: Sì, mi piacerebbe.

Si può notare dall’interscambio sopra riportato che il counselor formulò molte domande a
Giulia nella prima parte della seduta. Può sembrare eccessivo all’inizio, ma le domande
furono rivolte a scopo esplorativo con grande sensibilità. Come molti altri clienti che
vanno in counseling, Giulia era preoccupata da numerosi problemi, ma il problema
principale non venne menzionato fino a che non ebbe parlato dettagliatamente degli altri
eventi che la assillavano. Questi eventi erano il suo rapporto con il fratello, il
comportamento bullistico di lui, la convinzione di Giulia che gli altri la prendessero in giro,
il comportamento apparentemente lesivo di Vanessa, i suoi dolori fisici e la sua incapacità
di assicurarsi il sostegno o l’aiuto dei nonni. Soggiacente a tutto questo, c’era il problema
fondamentale del lutto e della perdita.

Sua madre era morta dieci mesi prima e Giulia non aveva avuto la possibilità di parlarne
con nessuno. Come tanto spesso avviene, i suoi nonni tendevano a evitare l’argomento e
Giulia si sentiva sempre più isolata e sola. Dapprima, Giulia era riluttante a parlare della
morte di sua madre, per paura che il counselor facesse marcia indietro (come altri avevano
fatto) o non riuscisse a capire il significato o la profondità dei sentimenti della ragazza. Il
counselor riuscì a manifestare empatia a Giulia e prima di tutto le diede un feedback sugli
argomenti che aveva menzionato facendo anche riferimento allo stress che aveva
accompagnato quegli eventi. Giulia, a sua volta rispose affrontando gradualmente il tema
della morte di sua madre. In seguito, il counselor rivolse domande che mostravano come
fosse realmente interessato, e la ascoltò attivamente. Ciò incoraggiò Giulia ad aprirsi
ulteriormente e a parlare diffusamente di sua madre.
Per quanto attiene alla reazione che Vanessa aveva avuto alla sua perdita, Giulia era
particolarmente sconvolta. Quando ebbe discusso di questo con il counselor durante le
sedute successive, comunque, la ragazza giunse a comprendere che Vanessa mancava
dell’esperienza e della confidenza necessarie per aiutarla. Anche Vanessa era stata
sopraffatta e spaventata da quel che era accaduto, e quando Giulia se ne rese conto il suo
rapporto con l’amica migliorò notevolmente.

Domande utili
Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling nella
vita quotidiana, Trento, Erickson, pp. 129-136.

Quand’è che una domanda è utile?

Nel colloquio d’aiuto, una domanda si può considerare "utile" se risponde a uno dei seguenti
obiettivi:

1. aiutare la persona a concentrarsi sul "nocciolo" del suo problema;


2. aiutarla a proseguire nella narrazione della sua esperienza;
3. aiutare noi a comprendere meglio l’esperienza stessa.

Utilizzare le domande per aiutare la persona a concentrarsi sul "nocciolo" del problema

Dopo aver insistito tanto sull’importanza di non eccedere nelle domande, dobbiamo anche
riconoscere l’altra faccia della medaglia: se le si formula con cura, nei momenti giusti, le
domande possono servire tantissimo per aiutare la persona a individuare quali siano, tra
tutti i suoi problemi, quelli che veramente la preoccupano di più. Proveremo a spiegarci
meglio, al solito, con alcuni esempi pratici.

Lorenzo e la responsabile delle risorse umane

Lorenzo lavora, come quadro intermedio, in una grande azienda multinazionale. È


considerato da tutti un manager capace, molto bravo nel motivare il suo staff. Ha appena
preso un appuntamento con la responsabile delle risorse umane di tutta l’azienda, Chiara.
Questa, sin dall’inizio del colloquio, ha percepito chiaramente che Lorenzo è un po’ diverso
dal solito. Mano a mano che lo ascolta, attingendo dalle sue abilità di counseling, si rende
conto che evita sistematicamente di entrare nel merito di una particolare questione. Nel
corso della conversazione ha fatto cenno più volte, con tono infastidito, ai suoi cattivi
rapporti con Carlo, un altro quadro intermedio, che occupa una posizione analoga alla sua.
Ogni volta che ne parla, però, si fa improvvisamente ansioso, e di lì a poco cambia
argomento, di punto in bianco. Chiara comincia a sospettare che il vero problema di
Lorenzo stia proprio nei suoi rapporti con Carlo. Decide quindi di domandargli: "Ho notato
che hai accennato più volte al tuo rapporto con Carlo, Lorenzo. Non ti andrebbe di dirmi
qualche cosa di più al riguardo?".

Di fronte a questa sollecitazione, Lorenzo ammette che fa parecchia fatica a parlarne,


perché, nonostante i problemi che ha attualmente con Carlo, sente comunque di dover
essere leale nei suoi confronti. Con la sua capacità di ascolto attivo, però, Chiara è riuscita
ad aiutarlo a riconoscere quel particolare vissuto emotivo, che gli impediva di esplicitare il
vero "nocciolo" del suo problema, legato — per l’appunto — al rapporto con Carlo.
Come potete vedere, Chiara ha ottenuto questo risultato rivolgendo a Lorenzo un feedback,
a cui è seguita una domanda che lo invitava esplicitamente a parlare del problema che lo
turbava di più.

Lisa e la signora Rossi

Lisa fa l’infermiera in una struttura residenziale sanitaria. Una delle sue pazienti, la signora
Rossi, è una donna ormai anziana, che non può più alzarsi dal letto, per via di una malattia
cronica. Deve cambiarsi spesso i vestiti, ed è Lisa che se ne deve occupare. Nell’ultima
settimana, mentre svolgeva le sue solite mansioni, l’infermiera si è resa conto che la sua
paziente, di solito abbastanza serena, appariva scossa e preoccupata. La ha quindi invitata
a parlare, secondo le modalità che abbiamo più volte descritto; a quel punto, la signora ha
cominciato a raccontarle di tutta una serie di problemi, che la stavano davvero
preoccupando. Nella conversazione, Lisa ha attinto a piene mani dalle sue abilità
elementari di counseling: interiezioni, risposte brevi e riformulazione. Alla fine, inoltre, ha
provato a riassumere le cose principali che le erano state dette: "Mi ha parlato di Suo figlio,
che è disoccupato; di Sua figlia, che fa molta fatica a stare dietro ai bambini; dei problemi
con l’alcol di Suo fratello; delle difficoltà che sta incontrando Suo marito, per via di quelle
riparazioni che deve fare in casa".

La signora Rossi, a sentire questo riassunto, ha confermato tutto: c’erano un sacco di


motivi per cui era preoccupata. A quel punto, Lisa avrebbe anche potuto interrompere la
conversazione. Ha percepito, però, che c’era ancora qualche cosa che non quadrava: la
signora aveva deliberatamente evitato di parlare del vero "nocciolo" del problema. Aveva
parlato dei problemi degli altri, ma non delle sue reazioni, rispetto ai problemi stessi.
L’infermiera ha quindi deciso di proseguire, rivolgendole una ulteriore domanda: "Com’è
che si sente, a livello emotivo, quando parla di tutti questi problemi?".

Grazie a questa domanda esplicita sull’esperienza emotiva della signora, Lisa la ha aiutata
a riconoscere il suo senso di impotenza e di disperazione: il profondo sconforto che
avvertiva per il fatto di essere lì, incapace di dare una mano alle persone che amava. È solo
così che è riuscita a mettere a fuoco il vero problema. Vale la pena, a rileggere il caso, di
guardare non solo quel che Lisa ha fatto, ma anche ciò che ha evitato di fare. Ha evitato,
ad esempio, di invitare la signora a continuare il racconto dei problemi degli altri: così
facendo, infatti, avrebbe distolto l’attenzione dai suoi problemi. Si è sforzata, piuttosto, di
invitare l’anziana signora a parlare di sé: di come si sentisse lei, a raccontare delle
difficoltà dei suoi parenti. In questo modo, la ha messa nelle condizioni adatte per
esplorare i suoi problemi, e non solo per parlare di quelli degli altri.

Utilizzare le domande per aiutare la persona a proseguire

Possiamo anche fare uso di alcune domande mirate per aiutare la persona a proseguire,
soprattutto se ci sembra in difficoltà nel farlo da sola. Un buon modo per incoraggiarla ad
andare avanti, di fronte a una questione importante e delicata, potrebbe ad esempio
essere il seguente:

 Ti andrebbe di raccontarmi ancora un po’ [dei tuoi familiari, o di un altro


argomento di conversazione]?

Il più delle volte, sono sufficienti domande di questo tipo:

 C’è qualche cos’altro che avresti voglia di dirmi?


 Ti andrebbe di dilungarti ancora un po’ sulle cose che mi hai detto?

Naturalmente, prima di fare domande del genere dovremo esserci "accordati" con i vissuti
emotivi di quella persona. Una volta riusciti a creare una relazione di empatia, capiremo
facilmente se sia il caso di invitarla ad andare avanti, o se sia meglio desistere. Nel secondo
caso, potremmo ricorrere a qualche forma di riformulazione:

 Mi sembra fin troppo difficile, in questo momento, che andiamo avanti.

Utilizzare le domande per comprendere meglio l’esperienza dell’altro

In certi casi è semplicemente impossibile comprendere la situazione vissuta da una


persona, o i problemi che ha, se non si raccolgono ulteriori informazioni. In queste
circostanze, fare qualche domanda può anche essere appropriato, giacché ci permetterà di
capire meglio e di esserle maggiormente d’aiuto.

Talvolta, è anche possibile che la storia di quella persona vi lasci imbarazzati, disorientati o
confusi. Per quanto vi sforziate, faticherete a capire che senso abbia. Se ciò accade, è
opportuno che facciate qualche altra domanda, quanto basta per comprendere meglio la
situazione, e aiutare quella persona a cogliere — ancora una volta — il "nocciolo" del
problema. Poniamo, ad esempio, che vi stiate rivolgendo a una ragazza che vi ha dato
l’impressione — pur senza esplicitarlo — che il suo attuale fidanzato sia il padre del suo
bambino. Va da sé che, in un caso del genere, sarebbe appropriato porre una domanda del
tenore della seguente:

 Perdonami, ma non capisco bene; il papà del tuo bambino è una persona diversa dal
tuo compagno?

Notate che la domanda, in questo caso, parte dall’esplicita ammissione del proprio
disorientamento. Ciò serve a far capire all’altra persona che le ponete quella domanda per
uno scopo ben preciso — capire meglio la sua storia — e non soltanto per una vostra
curiosità.

Come "convertire" le domande chiuse in domande aperte? Alcuni esempi pratici

1. Hai dei figli?


2. Litigate spesso, tu e il tuo fidanzato?
3. La tua mamma è ancora autosufficiente, pur essendo così anziana?
4. Ti piace prenderti cura di tuo padre?
5. Sei stato bene al lavoro, questa settimana?
6. Tuo figlio continua a disobbedire da mattino a sera?
7. Ti senti triste, se pensi a tua zia?

Le domande del "chi", del "cosa" e del "come"

Le domande che ci capita di usare più spesso, nella vita di tutti i giorni, sono
probabilmente quelle che cominciano con "chi", "che cosa" e "come". Vale la pena riflettere
su come sia possibile utilizzare questi diversi tipi di domande, in un colloquio d’aiuto.

Le domande che iniziano con "perché?" non sono, il più delle volte, granché utili. Di fronte a
domande di questo tipo, molti tendono a dare delle spiegazioni, più che a comunicare ciò
che pensano, o che provano. Pensate — per ipotesi — di trovarvi a domandare a qualcuno
(che conoscete): "Perché hai lasciato tuo marito?". Piuttosto che cominciare una domanda
con un "perché", è di solito meglio ricorrere a un "che cosa", o magari a un "come".
Nell’esempio appena citato, avremmo potuto riformulare la domanda nel modo seguente:

 Com’è che ti senti, adesso che hai lasciato tuo marito?

Oppure:

 Che cos'è che provi tu, adesso, dopo che hai lasciato tuo marito?
Notate che, nella seconda versione, abbiamo fatto esplicito riferimento — con il «tu» — alla
persona che abbiamo davanti a noi. È importante, infatti, che la persona concentri
l’attenzione sul suo vissuto emotivo, anziché parlare a titolo generale. In entrambi i casi,
inoltre, le domande alludono a come si sente la persona hic et nunc; non a come si sentiva,
in passato, con il suo partner. Anche questo particolare ha la sua importanza: perché un
colloquio sia davvero «d’aiuto», occorre che la persona sia incoraggiata a parlare delle sue
esperienze di vita attuali. È nell’attualità, infatti, che si colloca il suo problema, o la sua
situazione di disagio.

Vi proponiamo, a questo punto, alcuni esempi di domande impostate nella logica del «che
cosa», o del «come»:

 Che cos’è che senti, dal punto di vista emotivo, quando parli di quella cosa lì?
 Che cos’è che potrebbe succedere, se tu facessi quella cosa?
 Quali possibilità di scelta pensi che avresti?
 Com’è che ti senti, a livello emotivo, quando mi dici che…?
 Com’è che ti fa sentire quella cosa…?
 E adesso, com’è che ti senti?
 Come faresti a sapere se…? [ad esempio: se tua madre è preoccupata]
 Come pensi che potresti fare, per cambiare questa situazione?

Rispondere all’interlocutore: i livelli della riformulazione

Finora abbiamo visto che il colloquio può ottenere un buon esito – ovvero che il nostro
interlocutore si senta fiducioso e compreso e sviluppi così il desiderio di approfondire la sua
situazione problematica per cercare una soluzione – se siamo capaci di assumere un
atteggiamento comprensivo e di manifestarlo attraverso (anche) le nostre parole.

Ecco perché utilizziamo la riformulazione, un rimando intelligente a quello che ci è stato


espresso, per facilitare nuovi insight nel nostro interlocutore.

Durante il colloquio possiamo scegliere – anzi dobbiamo sempre scegliere – che tipo di
riformulazioni utilizzare, a seconda di come procede l’esplorazione del problema.
Faremo riformulazioni a specchio, centrate sull’esterno, senz’altro nella fase iniziale o
laddove riteniamo che vi possa essere una resistenza della persona ad entrare
nell’argomento in modo troppo personale.
Sceglieremo riformulazioni esplicitanti quando invece riteniamo opportuno aiutare la
persona a mettere a fuoco contenuti non espressi chiaramente, che possono riguardare i
fatti, ma anche i sentimenti – magari ambivalenti – o l’immagine di sé della persona.

A questo punto ci può venir utile la distinzione operata da Carkhuff, che focalizza i livelli
della riformulazione a seconda che vogliamo mettere in luce e rimandare alla persona i
fatti (contenuti), i sentimenti legati ai fatti, i vissuti.
Possiamo distinguere allora: la riformulazione del contenuto, del sentimento, del
significato e di personalizzazione. Lasciamo quest’ultima al prossimo modulo e
concentriamoci sulle prime tre, alle quali ci introduce lo stesso Carkhuff:

Chi dà aiuto può rispondere a tre differenti livelli. Gli helper rispondono al contenuto delle
espressioni dell’altro, e lo fanno “riflettendo” (cioè riformulando in altre parole) quel che
effettivamente l’interlocutore sta dicendo. Inoltre, rispondono ai sentimenti, ovvero agli
aspetti emozionali e affettivi, e lo fanno “riflettendo” come l’interlocutore si sente
rispetto agli eventi e situazioni che sta esponendo. Alla fine, gli helper possono unire
sentimenti e contenuti in un’unica risposta che rifletta il significato complessivo che queste
esperienze hanno per l’interlocutore. (p. 55)

1. La riformulazione del contenuto

La riformulazione del contenuto coglie, in tutto o in parte, gli eventi e i fatti narrati
dall’interlocutore; potremmo dire il contenuto fattuale espresso.

Struttura sintattica tipo: “Lei mi sta dicendo che…”, “In altre parole…”, “Dunque…”.

A un’adolescente che afferma: “I miei genitori mi trattano come se avessi dodici anni! Ma
ne ho già sedici e sono grande ormai! La devono proprio smettere…”,
una risposta al contenuto sarebbe: “I tuoi genitori non si accorgono che sei cresciuta”.

Vedi "Rispondere al contenuto" (Carkhuff).

2. La riformulazione del sentimento

La riformulazione del sentimento coglie l’emozione o il sentimento espressi – più o meno


apertamente - dall’interlocutore nel riferire i fatti. Quest’operazione richiede una certa
abilità percettiva perché non sempre il sentimento è esplicitato o abbastanza evidente; vi
sono situazioni, anzi, in cui la persona tende a nascondere le sue emozioni, oppure
addirittura il suo messaggio verbale è in netto contrasto con l’atteggiamento non verbale
(rivedi Hough: “Elementi della comunicazione”).

Gli stati emozionali sono molteplici e hanno intensità diverse. In questo modulo è proposta
un’esercitazione per organizzare e sviluppare il proprio vocabolario emozionale. Va tenuto
sempre presente, tuttavia, che emozioni e sentimenti hanno un alto grado di soggettività e
quindi possono ricoprire significati e intensità parzialmente diversi a seconda della persona
che li esprime e di quella che li recepisce. Inoltre, non è da sottovalutare nemmeno il
contesto in cui l’emozione si esprime, che può esacerbarne o moderarne l’intensità così
come modificarne le caratteristiche. Pensiamo, in questo senso, a quanto può incidere il
contesto di gruppo.

Struttura sintattica tipo: “Lei è/si sente…”.

All’adolescente che afferma: “I miei genitori mi trattano come se avessi dodici anni! Ma ne
ho già sedici e sono grande ormai! La devono proprio smettere…”,
si potrebbe rispondere: “Sei proprio arrabbiata”.

Vedi “Rispondere al sentimento” (Carkhuff).

3. La riformulazione del significato

La riformulazione del significato mette in relazione il fatto narrato dalla persona con il
sentimento legato al fatto. Si tratta di un’operazione meno immediata perché tenta di
cogliere lo stato d’animo della persona di fronte a ciò che le accade e in questo senso di
cogliere il significato che il fatto riveste per la persona stessa.

Struttura sintattica tipo: "Lei è/si sente…(sentimento) perché…(fatto).”

Alla nostra adolescente che afferma: “I miei genitori mi trattano come se avessi dodici
anni! Ma ne ho già sedici e sono grande ormai! La devono proprio smettere…”,
potremmo rispondere: “Sei arrabbiata per come ti trattano i tuoi genitori”.
Vedi “Rispondere al significato” (Carkhuff).

Inoltre, prova l’“Esercizio: prestare attenzione e rispondere” (Carkhuff) e approfondisci con


“Dimostrare alla persona ascolto e comprensione” (Geldard e Geldard).

L'espressione dei sentimenti

Tratto da Mucchielli R. (1987), Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al


colloquio di aiuto, Trento, Erickson, p. 39.

Gli stati affettivi (il "vissuto") si esprimono direttamente e ogni modalità "interna" ha le sue
espressioni immediate che si offrono alla vostra percezione. Un sorriso trionfante significa
molto semplicemente la soddisfazione della vittoria. Se un cliente vi dice con quel sorriso:
"Il medico ha detto che mia moglie era matta e l’ha fatta ricoverare", voi dovete vedere il
sorriso e comprendere ciò che questo fatto significa per il cliente. Può darsi che lui,
dicendo ciò, non si renda conto che allo stesso tempo ha mostrato un sorriso trionfante.

Se la signora che sta seduta di fronte a voi tiene la sua borsetta e il suo ombrello ben
stretti a sé o annoda le sue caviglie attorno ai piedi della sedia, occorre percepire questa
espressione di inquietudine, di insicurezza; il suo essere contratta ha valore di
un’espressione diretta, anche prima che apra bocca. Se qualcuno se ne sta zitto, si può
vedere in questo silenzio l’espressione di una inibizione, di un fastidio o di un blocco
qualsiasi. Se qualcuno cambia bruscamente argomento nel corso del colloquio, bisogna
vedervi un tentativo di scansare (o di fuggire) qualche cosa.

Tutti gli atteggiamenti hanno un significato diretto, esprimono qualcosa. Lo stupore, la


collera, l’aggressività, la paura, l’angoscia, il fastidio, l’esasperazione, il panico, il piacere-
soddisfazione, il dispiacere, la vergogna, la tristezza, ecc. si traducono non soltanto in
parole ma più sovente, oltre le parole, attraverso il tono, la mimica, le "posture"
osservabili.

È perciò importante saper utilizzare le conoscenze psicologiche provenienti dalla vostra


autointrospezione e dalla vostra esperienza delle realtà umane per cogliere le espressioni
dirette del vissuto, attraverso le parole e, se è possibile, al di là delle parole, sempre a
condizione che questo sia il frutto di un’osservazione e non di una supposizione. Detto per
inciso: c’è una grande legge psicologica che può essere applicata in questo caso: tutte le
volte che si "suppongono" le sensazioni degli altri, che si attribuiscono loro delle intenzioni
o dei secondi fini, con 95 probabilità su 100 si sta proiettando la propria soggettività e non
si sta osservando. Così, allorché qualcuno suppone che un altro nutra dei sentimenti
malevoli nei suoi confronti (senza possedere dei fatti derivanti da un’oggettiva osservazione
psicologica, avendo fatto una supposizione), si può dedurre che questa supposizione
significa una diffidenza nei confronti dell’altro; attribuire idee malevole agli altri non è il
risultato di un’intuizione ma l’espressione diretta della diffidenza nei confronti di questi
altri.

Perciò, se qualcuno vi dice: "Sebbene non mi abbia mai detto nulla, ho l’intima certezza
che il mio vicino mi vuole male", potete rispondere senza alcun rischio di sbagliarvi: "Voi
nutrite una certa sfiducia nei confronti del vostro vicino".

Elementi della comunicazione

Tratto da Hough M. (1999), Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento,
Erickson, p. 38-39.
Una notevole quantità di informazioni può essere ottenuta prestando attenzione sia alla
maniera in cui le cose vengono dette che all'effettivo contenuto del discorso. La voce, il
tono, il volume, l’intensità, il ritmo, le informazioni che vengono date, sono tutti aspetti
della comunicazione verbale che di solito ci dicono di più, riguardo a ciò che una persona
sente, che non le parole stesse che sceglie di adoperare. Quando le persone sono infelici o
tristi, tali sentimenti si riflettono nella loro voce e quando si provano sentimenti positivi
come la gioia, anche questi vengono facilmente individuati. Un cliente che stia descrivendo
un episodio traumatico o infelice può riuscire a nascondere, per esempio, qualcuno dei
sentimenti a esso associati, ma a un certo punto questi sentimenti sono destinati a
interferire e alterare la descrizione che sta facendo.

Un’anziana donna, a cui era accaduto di perdere molti dei suoi effetti personali e delle sue
cose durante un’alluvione, descrisse ciò che provava nel modo seguente:

Penso siano solo cose materiali, per cui non sono importanti, sento che dovrei ringraziare il
Signore per ciò che mi ha donato. C’erano delle fotografie... [pausa] ...erano della mia
famiglia [silenzio]. Ma sono molto contenta. Certe persone non sono così fortunate, e io
veramente ringrazio il Signore per i doni che ha voluto farmi.

Il counselor che assisteva la cliente era ben cosciente della tristezza presente nella voce
della donna, dell’esitazione che aveva avuto nel corso della descrizione e del lungo silenzio
di riflessione occorso proprio prima che lei usasse la parola "fortunate" riferita a se stessa.

Non sono unicamente gli episodi traumatici che i clienti possono cercare di minimizzare o
mascherare. A volte si verifica l’esatto contrario ed eventi felici vengono descritti in
termini che non lasciano dubbi sul significato che hanno in realtà per il narratore. Quando
Viviana, una donna di quarantasei anni, parlava dell’imminente matrimonio della sua unica
figlia, appariva intenta a esprimere, quantomeno esteriormente, la sua felicità e la sua
approvazione, dato che la figlia era palesemente contenta. Parlava dei buoni rapporti che
aveva sempre avuto con lei, del ricevimento che stava aiutandola a organizzare e della casa
che aveva acquistato di recente con il futuro sposo.

Si trova proprio qui, dalla parte opposta della città, così non è troppo lontana. Sono proprio
contenta per lei. Non avrei mai pensato di potermi sentire così quando la mia unica figlia se
ne fosse andata di casa, ma è proprio così. [Ride.]

Il counselor si era accorto che la risata di Viviana suonava piuttosto forzata. Notò anche
l’espressione triste che per un momento aveva oscurato il suo volto. Quando ebbe finito di
parlare, Viviana rimase in silenzio per un po’, fino a che quell’espressione malinconica
riapparve sul suo viso. Sebbene avesse manifestato gioia riguardo al matrimonio della figlia,
Viviana era incapace di nascondere, anche a se stessa, i sentimenti contrastanti che
ovviamente provava.

Esercizio: prestare attenzione e rispondere

prestare attenzione e di rispondere. Potete esercitarvi formulando voi


stessi delle risposte all’helpee protagonista del Caso che ora vi
presentiamo. Potete anche fare pratica con compagni ed amici. Dovreste
però cercare di continuare a esercitarvi su queste abilità fino a che non
le avrete assimilate nella vostra personalità di aiuto.

Caso: Rispondere in modo efficace


Carol Lewis è una donna di 34 anni. È madre di tre bambini: due gemelli
maschi di 4 anni, Adam e Aron e una bambina di 6 anni, Nancy. Carol è
rimasta vedova da quando suo marito Mark è morto per un tumore
maligno al cervello. Durante le sue ultime settimane di vita, Mark si
trovava ricoverato in un ospedale. Gli ultimi 4 giorni era in coma. Carol
era rimasta all’ospedale con lui gli ultimi 5 giorni, lasciando i bambini
con i nonni. I Lewis furono seguiti da David Biloxi, un assistente sociale
dell’ospedale. Presentiamo qui l’estratto di una conversazione tra David
e Carol, avvenuta il giorno prima della morte di Mark. Il colloquio ebbe
luogo in un salottino privato all’interno del reparto.

David:
"Sediamoci qui" (indica il divano) "Vuoi del succo di frutta o qualcosa da mangiare?" 
Carol:
(sedendosi) "No, non ho fame". 
David:
"Sembri piuttosto stanca". 

Carol: "Non sono riuscita a dormire molto".


David:
"È veramente un brutto momento per te". 

Carol: "Non riesco ancora a rendermi conto di quello che sta succedendo. Voglio dire, un mese fa pensavamo
una nuova casa. Mark aveva appena avuto una promozione. E adesso, da un momento all’altro sarà ...
andato. Morto".
David:
"È una situazione ancora irreale. Poche settimane facevate progetti insieme per il futuro. Ora, Mark sta
Carol: "È così incredibilmente ingiusto!
(scuotendo la testa e stringendo i pugni). 
David:
"Sei veramente arrabbiata per tutto questo". 
Carol: "Sono così furiosa! Furiosa! Santo Dio... io proprio non capisco".
David:
"Sei furibonda perché la morte di Mark è un’ingiustizia". 

Carol: "E la cosa peggiore è che ce l’ho con Dio, con i medici, con tutti".
David:
"Sei così arrabbiata per quello che sta succedendo che tutti diventano un bersaglio". 
Carol: "Sì. E quello che è orribile...
(inizia a piangere) ... è che ce l’ho con Mark perché mi sta lasciando. A volte mi domando se potrò perd
David:
"Sei arrabbiata anche con Mark perché ti sta lasciando sola, perché ti abbandona". 

Carol:
(piangendo più forte) "È vero. Non so come potrò fare senza di lui... lo amo tantissimo... Mark... Mark...

David: (prendendo Carol tra le braccia e stringendola mentre singhiozza) "


È terribile vederlo morire, perché lui è troppo importante per te". 
Carol: "È stato tutta la mia vita... più importante anche dei bambini. Quando se ne sarà andato, tutto sarà così
così ... sola."
David:
"Sei spaventata perché tra poco sarai sola. Dovrai vivere senza Mark". 
Carol: "È questo! È per questo che sono così arrabbiata. Ho paura di essere lasciata sola. Come può farmi un
David:
"Hai paura perché dovrai ricominciare da capo". 

Tratto da Carkhuff R.R. (1993), L’arte di aiutare. Manuale, Trento, Erickson, p. 110.

Dimostrare alla persona ascolto e comprensione

Rispecchiare le emozioni e i contenuti della conversazione

La riformulazione è legata alla capacità di ascoltare con cura quel che ci viene detto, ma anche di 
osservare il modo in cui ci viene detto. Poniamo che qualcuno vi confidi: "Avrò dei grossi problemi 
con il mio capo, se mi prendo un’altra giornata di malattia". A sentire queste parole, potreste 
riconoscere almeno un paio di elementi:

1. Quella persona è preoccupata. 
2. Il suo problema è legato al rischio di una reazione negativa del suo capo, qualora si prenda 
un’altra giornata di malattia.

Avete fatto caso alla differenza tra il punto 1 e il punto 2? Il primo elemento che viene messo in luce 
— la preoccupazione di quella persona — ha a che fare con la sua sfera emotiva; il secondo elemento 
— il fatto che il problema dipenda dal giorno di malattia — riguarda invece il contenuto del 
messaggio. Quando ci occupiamo di rispecchiare, è importante che sappiamo cogliere la differenza tra 
emozioni e contenuto. Potremo quindi imparare a riformulare l’uno e/o l’altro di questi elementi, a 
seconda di quale sia, caso per caso, la soluzione più appropriata. 

Che cosa significa rispecchiare?

Ogni volta che vi guardate allo specchio, e vi vedete riflessi, scoprirete qualche cosa di importante su 
di voi. Quando aiutate qualcuno in un colloquio d’aiuto, e fate uso della riformulazione, svolgerete 
proprio la funzione di uno specchio. Nella fattispecie, "restituirete" a quella persona non le sue 
sembianze fisiche, bensì ciò che essa dice, o che prova a livello emotivo. Nell’esempio che vi abbiamo 
appena presentato, potreste rispecchiare il vissuto emotivo di chi vi sembra preoccupato, dicendo: 

Sei preoccupato.

O magari, potreste rispecchiare il contenuto di ciò che quella persona vi ha appena detto:

Prenderti un’altra giornata di malattia ti potrebbe creare dei problemi.

Avete notato, anche da questi semplici esempi, la differenza tra riformulazione delle emozioni e 
riformulazione dei contenuti? Nel primo caso, si è rispecchiato quel senso di preoccupazione che 
trapelava dalle parole del nostro interlocutore; nel secondo caso, si è rispecchiato il contenuto della 
conversazione, ossia i fatti concreti di cui si parla. In alternativa, sarebbe stato anche possibile 
rispecchiare sia i vissuti emotivi, sia i contenuti, con la medesima formulazione:

Sei preoccupato delle conseguenze che potrebbe avere il fatto di prenderti un’altra giornata di malattia.

Una cosa importante: in ciascuno degli esempi, la riformulazione non si è mai tradotta nella mera 
ripetizione, parola per parola, delle cose che vi sono state dette. Tali cose vengono sempre espresse in 
forma leggermente diversa: con le vostre parole, più che con quelle della persona che state aiutando. È 
un passaggio essenziale, per mettere la persona nelle condizioni di sentirsi capita e rispettata. Se così 
non fosse, infatti, questa potrebbe vedere in voi dei semplici pappagalli!

 Nel riformulare dovete usare parole vostre

Consideriamo un altro esempio pratico di riformulazione. Poniamo che qualcuno vi dica: "Mio 
figlio non mi telefona da tanto di quel tempo. Pensavo che mi avrebbe telefonato, dopo che gli 
avevo mandato un regalo di compleanno, la settimana scorsa". Un buon modo di rispecchiare, in 
questo caso, potrebbe essere del tenore seguente:

 Sembri deluso. [Riformulazione dei vissuti emotivi] 
 Ti aspettavi che tuo figlio ti facesse avere notizie. [Riformulazione dei contenuti] 
 Sembri deluso, perché non hai avuto più notizie di tuo figlio. [Riformulazione dei vissuti 
emotivi e dei contenuti] 

Può essere interessante notare che rispecchiare i vissuti emotivi richiede di soppesare 
ogni singola parola con grande cura. Ci siamo resi conto che si tende spesso a confondere
la riformulazione delle emozioni e quello dei contenuti; o, comunque, che non si 
riconosce abbastanza la differenza tra il primo e il secondo caso. Se dite, ad esempio: 
"Ho la sensazione che oggi pioverà", avrete espresso un pensiero, più che un vissuto 
emotivo. Sarebbe stato anzi più corretto dire, nella fattispecie: "Penso che oggi pioverà".
Se invece diceste: "Mi sento terrorizzato", rispecchiereste senz’altro un vissuto emotivo. 
Fateci caso: "terrorizzato" è una parola sola. È eloquente, per capire la differenza, il 
confronto con tutta la sequela di parole della frase precedente: "… la sensazione che 
oggi pioverà".

Vi proponiamo una lista di parole a elevata "valenza emotiva", che vi potrebbero 
risultare utili per rispecchiare dei vissuti emotivi. 
A rileggere questa ipotetica lista, confrontandola con i vostri vissuti emotivi, è probabile 
che vi siano venute in mente anche altre parole. Volete provare ad annotarle? 

Parole ulteriori:

_____________________________________________

_____________________________________________

_____________________________________________

Se ci fate caso, per ciascuna delle parole che vi abbiamo proposto è possibile formulare 
una frase compiuta, limitandosi ad aggiungere "mi sento" prima della parola in 
questione. Così facendo, darete vita a una frase che potrà senz’altro essere utilizzata, 
laddove opportuno, per rispecchiare sentimenti o altri vissuti emotivi. In pratica, non è 
nemmeno necessario utilizzare l’espressione "mi sento…". Si possono rispecchiare i 
sentimenti dicendo anche cose del tipo: "Sei triste", "Sei deluso", "Sei felice" e via 
discorrendo. 

Una pausa prima di riformulare

Avete mai notato che, nelle conversazioni normali, capita spesso di interrompersi gli uni 
con gli altri? È quel che succede ogni volta che siamo impazienti di dire qualche cosa. 
Anche quando non si interrompe l’altro, poi, si tende spesso a rispondere nel più breve 
tempo possibile, non appena questi abbia smesso di parlare. Un comportamento di 
questo tipo, così comune nelle chiacchierate di tutti i giorni, non giova, se vogliamo 
cercare di aiutare qualcuno. Per aiutare una persona, infatti, non potremo fare a meno 
di osservarla, mentre ci parla. Guardandone gli occhi o l’espressione facciale, 
scopriremo probabilmente che, anche dopo averci detto qualche cosa, continuerà a 
ripensarci su. Se non la interrompiamo, a questo punto, è probabile che continui a 
parlarci di tutte le cose che le vengono in mente. 

È quindi importante, in queste situazioni, saper gestire un attimo di pausa, prima di un 
eventuale riformulazione: grazie a questa pausa, il nostro interlocutore avrà 
l’opportunità di riflettere un po’. A quel punto, avrà anche il tempo necessario per 
proseguire, se lo vorrà. Ci sono tante persone che, soprattutto all’inizio, faticano a 
gestire questo momento; dopo tutto, nelle conversazioni normali non c’è nessuno che sia 
abituato a fare pause di questo tipo. In ogni pausa, inoltre, si viene inevitabilmente a 
creare una fase di silenzio. E molti di noi, come è noto, faticano parecchio a sopportare il
silenzio; è come un vuoto che si crea all’improvviso, e che si sente il bisogno di riempire 
nel più breve tempo possibile. Per una conversazione d’aiuto efficace, comunque, non 
potremo non dare al nostro interlocutore il tempo necessario per riflettere e completare 
quel che intende dire, prima di una nostra eventuale interruzione.

 Lasciate alla persona il tempo che le serve; rispettate le pause; non interrompetela.

Che cosa speriamo di ottenere, con la riformulazione?

La riformulazione è utile a realizzare tre ordini di obiettivi: 

1. permette a chi ci sta di fronte di riconoscere che lo ascoltiamo con attenzione, e 
comprendiamo quel che intende dire; 
2. la aiuta a riconoscere meglio il proprio vissuto emotivo, o il senso delle parole 
che ha appena formulato; 
3. la incoraggia ad andare avanti nella conversazione.

Vi potreste forse chiedere, a questo punto, perché insistiamo così tanto sulla differenza 
tra riflettere emozioni e contenuti. La ragione è la seguente: ci sono delle circostanze in 
cui è più utile rispecchiare solo i vissuti emotivi. Se rispecchiate con cura una 
determinata emozione, senza entrare nel merito dei contenuti, la persona potrebbe fare 
molta meno fatica nel riconoscere, e nel riformulare, i propri vissuti emotivi. Ad 
esempio, se rispecchiate un sentimento di tristezza dicendo: "Sei molto triste"; o magari:
"Sembri triste, quando mi dici che…", la persona con cui parlate avvertirà più 
chiaramente la propria tristezza, e magari scoppierà addirittura in lacrime. Potrete, 
cioè, offrirle uno spazio per sfogare i propri sentimenti negativi, anziché tenerli sempre 
repressi. È chiaro peraltro che, se tentate una riformulazione di questo tipo, dovrete 
essere pronti alla reazione emotiva di quella persona, che potrebbe anche mettervi a 
disagio. 

Dovrete anche tenere conto, ancora una volta, del contesto in cui vi trovate. In un 
ambiente in cui sono presenti anche altre persone, una forte reazione emotiva potrebbe 
risultare inappropriata, oltre che imbarazzante per il diretto interessato. Può essere più 
opportuno, in questi casi, rispecchiare soltanto i contenuti, in modo che la persona possa 
proseguire nella sua narrazione, senza eccessivi "rimestamenti" emotivi. In altri casi, 
può essere utile rispecchiare sia i vissuti emotivi, sia i contenuti. Questa soluzione può 
aiutare la persona a riconoscere meglio le proprie emozioni, ma anche a rivolgersi 
prevalentemente al livello, più neutro, dei contenuti.

Con l’esperienza, riuscirete comunque a riconoscere quando sia il caso di rispecchiare i 
vissuti emotivi, o i contenuti, o entrambi i livelli. Non esiste nessuna "formula astratta" a
cui fare riferimento: occorre puntare sull’intuito e sull’esperienza che ciascuno di voi, 
nella pratica, saprà maturare.

Esempi pratici

Vi proponiamo alcuni esempi, tra gli infiniti possibili, delle cose che vi potrebbe dire 
qualcuno che sta vivendo una situazione di disagio. Per ogni esempio, potreste forse 
pensare alle risposte che vi paiono più appropriate:

o per rispecchiare i vissuti emotivi; 
o per rispecchiare i contenuti; 
o per rispecchiare gli uni e gli altri.

L’importante, nelle risposte, è che vi sforziate di non ripetere alla lettera le parole del 
vostro interlocutore. Dovreste cercare, inoltre, di essere quanto più brevi possibili. Non è
necessario che rispecchiate tutte le cose che vi vengono dette; basteranno quelle che 
ritenete più importanti.

È probabile che le affermazioni del vostro interlocutore siano suscettibili di 
interpretazioni ben diverse, specie se sono espresse in forma scritta. Se si tratta di un 
colloquio, basta fare caso al tono di voce, in molti casi, per capire se la persona che vi 
parla sia triste, allegra, o magari frustrata; il che è impossibile quando le parole sono 
solo lette.

Esempio 1
"Mia madre è una signora ormai anziana. Ieri sera mi ha telefonato per dirmi che era 
scivolata per terra. Da quello che ho capito, deve essersi rotta un ginocchio, cadendo 
mentre faceva le scale. Magari non vivessi così lontano da lei!". 

Esempio 2
"Mia figlia è davvero disobbediente, continua a comportarsi in malo modo. È una 
continua fonte di tensioni, perché si mette sempre a litigare con suo fratello e con il 
padre".

Esempio 3
"Questo contratto, per me, è fondamentale. È veramente strano: ho mandato un fax 
all’azienda la settimana scorsa, e non mi è arrivata nessuna risposta. E sì che, fino 
adesso, sembrava che ci tenessero molto anche loro a mettersi d’accordo con me, sui 
contenuti del contratto".
Esempio 4
"Mio figlio si sposerà a Birmingham. La sua futura moglie è proprio una bella persona, 
non vedo l’ora di andare al matrimonio".

Esempio 5
"Il mio capo ha veramente delle grandi idee. Un progetto come questo andrà bene di 
sicuro. Dovrebbe andare bene anche per me, visto che mi ha affidato l’incarico di 
coordinare il lavoro".

Esempio 6
"Il mio professore mi ha dato questa tesina da fare. È tutto il giorno che cerco materiali 
e informazioni, per avere qualche idea, ma non ho trovato proprio niente".

Tratto da Geldard K. e Geldard D. (2005), Parlami, ti ascolto. Le abilità di counseling 
nella vita quotidiana, Trento, Erickson, 2005, pp. 89­95.

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