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OSCAR MEO

PAROLE IN IMMAGINE.
A PROPOSITO DELL’INTERSEMIOSI NELLE ARTI VISIVE

1. Immagini senza parole?


Negli ultimi venti anni si sono affermate, nell’ambito dei visual e dei media studies, due proposte
di approccio all’immagine: il pictorial turn di William J. Thomas Mitchell e l’ikonische Wende (o
iconic turn) di Gottfried Boehm. Mentre Boehm separa drasticamente le due sfere del linguaggio
verbale e della produzione immaginale, Mitchell (che, pur fra oscillazioni e incertezze, si fonda su
un supporto filosofico più robusto e variegato ed è meglio disposto verso l’approccio semiotico)
cerca di operare fra di esse una mediazione1. Su un punto si può indubbiamente concordare con i
due approcci: il rifiuto di considerare la struttura della realtà come ultimamente linguistica, secondo
un modello «imperialista» e «riduzionista» comune al linguistic turn di Rorty e allo strutturalismo,
in particolare francese2. Tuttavia, la pertinente domanda di Boehm wie erzeugen Bilder Sinn?, che
funge da guida per la sua indagine e dà il titolo a un suo volume3, contiene un rinvio al problema
semantico tanto evidente, che sembra impossibile gli siano sfuggiti i punti di convergenza fra la
ricerca ermeneutica del senso, mutuata dal suo maestro Gadamer, e l’indagine semiotica sul
significato del messaggio visivo4. Il nodo teoretico essenziale è però: pur riconoscendo che
l’approccio testuale e quello immaginale intenzionano in modo diverso il «rappresentato» assente
(sia esso parte della realtà o di un altro mondo possibile, come accade non solo nella fiction in
generale, ma anche nell’arte astratta), fino a che punto si può difendere l’autonomia dell’immagine
dal riferimento a testi esterni a essa e dalla logica della predicazione5? fino a che punto si può
considerare, alla maniera di Boehm, un’immagine come autoevidente, quasi fosse sui ipsius
interpres?6 Contro questa soluzione, che – più che rinverdire l’antico «paragone» – rischia di essere

1
Cfr. per es., in Mitchell W.J.T., Picture Theory. Essays on Visual and Verbal Representation, Univ. of. Chicago
Press, Chicago-London 1994, p. 28 (tr. del cap. 1 in Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, :due punti, Palermo
2008, pp. 19-49), la proposta di un’«iconologia critica», che tenga conto della resistenza dell’immagine al potere del
lógos e si differenzi perciò radicalmente dall’iconologia nel senso di Panofsky, in cui l’«icona» è subordinata alla
razionalità del linguaggio. Per il rapporto con la semiotica, cfr. pure la difesa di Peirce e Goodman contro le critiche di
Boehm, Id., «Pictorial Turn. Eine Antwort», in Belting H. (Hrsg.), Bilderfragen. Die Bildwissenschaften im Aufbruch,
Fink, München, 2007, pp. 43-44.
2
Cfr. la critica di Mitchell a Barthes in Iconology. Image, Text, Ideology, Univ. of Chicago Press, Chicago-London
19872, p. 56, e al secondo Wittgenstein in Picture Theory, cit., p. 12.
3
Cfr. Boehm G., Wie Bilder Sinn erzeugen. Die Macht des Zeigens, Berlin Univ. Press, Berlin 2007.
4
Studi come quelli di M. Schapiro e L. Marin, ma anche – più indirettamente – di V. Stoichita e di G. Didi-
Huberman, testimoniano la proficuità della collaborazione fra semiotica e storia dell’arte, purché si rinunci a proclamare
il primato della linguistica fra le discipline semiotiche.
5
Rifacendosi a un ingenuo paradigma referenziale, Boehm (op. cit., p. 44) giunge a sostenere che il linguistic turn
deve sfociare in un iconic turn perché la verità delle proposizioni poggia su un fondamento extralinguistico.
6
Cfr. Boehm G., «Iconic turn. Ein Brief», in Belting H. (Hrsg.), Bilderfragen, cit., p. 33: l’immagine avrebbe
2

tanto riduzionista e imperialista quanto quella giustamente combattuta, stanno le testimonianze


storico-artistiche di connessione fra i sistemi verbale e visivo, come mostra l’attenzione di Mitchell
verso un tema classico delle indagini sulla loro interazione produttiva: l’ékphrasis7. Mi occuperò in
questa sede di una forma particolare, e alquanto trascurata, di «descrizione» intersemiotica: il modo
in cui il linguaggio verbale può essere tradotto in immagine.

2. Un sole in frantumi e altri oggetti.


È arcinoto che le opere di arte visiva a impianto narrativo possono costituire l’equivalente di
storie o della loro «immagine», il testo scritto8. Vi è però un’altra questione, più sottile e di più
difficile soluzione: come si traducono nel medium visivo, da un lato, un’espressione del lógos
semantikós, una negazione, una citazione e, dall’altro, una metafora, un proverbio? Per denotare le
prime il linguaggio verbale ha a propria disposizione opportuni segnali metalinguistici (i cosiddetti
segnali «suprasegmentali» e le loro «immagini» iscrizionali)9, che fungono da «etichette», ossia da
commento sull’enunciato all’interno della sequenza, mentre per i secondi esso può fare riferimento
all’enciclopedia condivisa e alle convenzioni retoriche proprie di una determinata cultura. Ma come
è possibile etichettare questi fatti linguistici nell’ambito dell’arte figurativa (o anche della musica),
dove non è possibile l’uso di virgolette citazionali, di segni di negazione, di segnali paralinguistici
in generale? Se intende attirare l’attenzione sui problemi che l’intersemiosi pone alla teoria
tradizionale della rappresentazione, un pittore «figurativo» può seguire l’esempio di Magritte, che
lavora dall’interno della «forma-rappresentazione» (ossia del modello formale che funge da veicolo
del significato mediante il ricorso a specifiche convenzioni) con il duplice intento di indurre a
riflettere sull’equivocità semantica del linguaggio verbale e di scardinare il concetto tradizionale di
rappresentazione10. Proprio partendo da Magritte, dunque, si può tentare di riflettere sull’ékphrasis
«inversa».
Come primo esempio della sua vocazione intersemiotica possiamo prendere in considerazione Le
Soir qui tombe (1964). Dall’interno di una stanza si vede, attraverso un vetro rotto incorniciato da

un’«evidenza intuitiva e dotata di forza enunciativa».


7
Cfr. i capp. 4 e 5 di Picture Theory, cit., dedicati rispettivamente all’intersemiosi in William Blake e alla
discussione del concetto di ékphrasis.
8
Se ne mostrava già consapevole Gregorio Magno nella lettera a Sereno in cui giustificava la presenza delle
immagini nei luoghi di culto.
9
È difficile non concordare con Saussure (Corso di linguistica generale, tr. it., Laterza, Bari 19703, pp. 35-36) nel
considerare la scrittura come «immagine» o «rappresentazione» (in un senso opportunamente ampio del termine) del
linguaggio verbale, sebbene Derrida (Della grammatologia, tr. it., Jaca Book, Milano 19982, p. 71) obietti – in nome
dell’arbitrarietà del segno linguistico e concependo l’immagine esclusivamente come «simbolo naturale» – che il segno
non è un’immagine.
10
L’operazione di Magritte si pone dunque agli antipodi rispetto a quella di Duchamp, che scardina dall’esterno la
«forma rappresentazione».
3

un telaio11, un sole rosso, che sovrasta un paesaggio piuttosto convenzionale e convenzionalmente


dipinto. Ai piedi della finestra giacciono frammenti di vetro di varia grandezza, sui quali sono
riprodotti il sole rosso e lacerti di paesaggio. Il fatto che sul vetro, ormai in frantumi, siano
raffigurati un sole rosso e un paesaggio non stupisce: nulla vieta di decorare una lastra trasparente
come se fosse una tela, fissando magari su di essa un’immagine momentanea, come quella di un
sole rosso sovrastante un paesaggio. L’espediente ci invita però a riflettere sull’ambiguità
percettiva: fino a che punto saremmo in grado di distinguere l’immagine del sole nel cielo dalla sua
riproduzione sul vetro attraverso cui la osserviamo? In altri termini: la sensazione di vedere il sole
nel cielo corrisponde a una percezione o è piuttosto l’effetto illusorio di un abile trompe-l’œil? Se
poi, prima dell’incidente che ne ha provocato la rottura, quel vetro era al suo posto all’interno del
telaio e, dalla prospettiva dell’osservatore, il sole su di esso dipinto coincideva perfettamente con
l’immagine attualmente sospesa nel finto cielo del quadro, che cosa davvero «imitava» quel sole?
Se rispondiamo che la sua immagine si sovrapponeva a un’altra imitazione, dovremo concludere
che esso si colloca tre grandi lontano dalla realtà e che, in fatto di teoria dell’arte, Magritte è un
platonico. Tuttavia il reciproco rinvio dei due soli dipinti impedisce di concepire una connessione
referenziale. L’interruzione nella catena delle relazioni segniche che ne deriva fa emergere non solo
la difficoltà, ma addirittura il fallimento della semiosi, cui per altro allude simbolicamente il crollo
del vetro: grazie a questo paradigma della fragilità del rimando, non si accede a un mondo vero
situato dietro l’illusorio mondo bidimensionale dipinto sulla lastra, ma soltanto a un altro simulacro
di realtà. Se vengono meno il correlato referenziale e il rinvio rappresentazionale, diventa
impossibile salvaguardare il paradigma corrispondentista della verità; ma, al tempo stesso, la
separazione della sintassi e della semantica dalla referenzialità non consente neppure di rifugiarsi in
quello coerentista: il crollo del vetro rinvia simbolicamente anche, con buona pace di Boehm, al
naufragio dell’idea secondo cui il quadro costituisce un sistema autonomo e autofondantesi, perfetto
e compiuto nella sua autarchica autosufficienza.
Poiché la rinuncia al legame con il referente accomuna Magritte all’arte aniconica, anche nel suo
caso si può parlare di arte di pura presentazione. Inoltre, per sottolineare l’interruzione del rimando
segnico, Magritte introduce la negazione all’interno della stessa figurazione: il sole che «cade» è, e
al tempo stesso non è, il sole che continua a «splendere» sulla superficie del quadro, al di là
dell’illusoria finestra. Il gioco è noto: si tratta di una particolare versione della situazione originata,
in altro contesto iconico, dall’enunciato ceci n’est pas une pipe, ampiamente citato e discusso in
ambito filosofico12. Con esso, avvalendosi del duplice registro del codice linguistico e del codice

11
Palese, come spesso in Magritte, il richiamo ad Alberti, ma anche al tema barocco del quadro nel quadro.
12
Cfr. per es. Foucault M., Questo non è una pipa, tr. it., SE, Milano [1988]. La vitalità dell’interesse filosofico nei
confronti di Magritte è bene mostrata da Brandt R., Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, tr. it., B.
4

figurativo e salva veritate (ossia senza cambiare i criteri in forza dei quali l’espressione dovrebbe
risultare vera nel quadro della teoria corrispondentista della verità), Magritte ripropone il paradosso
del mentitore e denuncia la fallacia che induce l’osservatore (ma anche qualche pittore) a proferire
l’enunciato «questo è x» a proposito della rappresentazione più o meno realistica dell’oggetto x:
poiché l’enunciato ceci n’est pas une pipe funge da iscrizione metafigurativa nei confronti della
figura-oggetto denominata «pipa» dai parlanti normali (ma non da Magritte), l’oggetto
bidimensionale costruito da Magritte nel suo «mondo possibile» non è – per adottare l’utile
distinzione ontologica di Goodman – una «figura di pipa», ma una «figura-di-pipa». A questo punto,
però, proprio perché lo spettatore vede innanzi a sé la Gestalt di un oggetto, vacilla anche la
certezza che l’immagine sia un non-essere che non è; si ripropone insomma quello stesso dubbio
che nel Sofista, prendendo le mosse dalla discussione dello statuto ontologico dell’eikón, conduce
Platone al «parricidio» di Parmenide13.
La contaminatio fra sistemi semiotici diversi fa sì che quello linguistico, che anche nel
saussuriano Magritte è il dominante, funga da etichetta nei confronti di quello visivo, ponendosi
però al tempo stesso come elemento pittorico all’interno dell’opera, ossia come immagine
dell’immagine grafica di una stringa verbale. Ora, se l’iscrizione è interpretata come commento
sulla «figura-di-pipa» (la quale a sua volta, seguendo la suggestione metonimica proposta dalla
presenza della lavagna, potrebbe servire a denotare, come nei vecchi alfabetieri, la lettera «p» o il
fonema /p/), è chiaro che l’attenzione si concentra sulla funzione che la pipa dipinta svolge nei
confronti della pipa reale. Vi sono effettivamente alcuni aspetti in forza dei quali una pipa dipinta è
simile (grazie alle convenzioni figurative) a una pipa reale, e tuttavia non ne condivide tutti i
predicati. Questa differenza è indubbiamente sufficiente a separare rigorosamente sia la classe delle
pipe reali dalla classe di quelle dipinte sia lo «stereotipo» distributivo della pipa reale dallo
stereotipo di quella dipinta. Ma separazione delle classi e degli stereotipi comporta pure separazione
semiotica e ontologica fra i due mondi di riferimento, giacché in essi – per quanto siano entrambi
attuali – non valgono le stesse regole. Per altro verso nulla vieta di far leva non su ciò che distingue
le pipe dipinte da quelle reali, ma su ciò che le accomuna a esse. Diventerebbe allora possibile
costruire un’enciclopedia sulla falsariga di quella cinese menzionata da Borges, che non a caso
tanto piaceva a Foucault: in tale «mondo possibile» coesisterebbero e si intersecherebbero esseri
reali e fittizi, naturali e fattizi. Che un’operazione del genere sia perfettamente legittima lo

Mondadori, Milano 2003, pp. 403-425. Il quadro è discusso anche da Mitchell in Picture Theory, cit, pp. 64-73. Ma cfr.
soprattutto p. 98: poiché anche l’immagine della pipa è inserita in un contesto socio-culturale, fatto di «storie» e
«discorsi», si potrebbe considerarla come un imagetext.
13
Cfr. la difficile domanda di Soph., 240 b 12: Ouk òn ára ouk óntos estìn óntos hèn légomen eikóna? Per una
discussione: Meo O., «Sul significato dell’icona», in Busetto L. (a cura di), «Weithin klar ist die Nacht, die linde, und
windlos». Saggi in onore di Anna Lucia Giavotto [«Quaderni di Lingua e Storia», 4], Qu.a.s.a.r, Milano 2012, pp. 89-
104.
5

testimoniano i mondi narrati dai mitografi e dagli artisti figurativi, semifigurativi e criptofigurativi,
cui aggiungerei i paesaggi e gli oggetti possibili delle opere aniconiche.
È tuttavia legittimo proporre un’interpretazione dell’enunciato che eluda la facile tentazione di
insistere su una lettura di Magritte esclusivamente in chiave di «criptoplatonismo». Non solo esso
non ha referente alcuno all’esterno dell’opera, ma si presenta come iscrizione vergata sulla
superficie del quadro, vi si inserisce come elemento pittorico al pari degli altri. In virtù della
strutturale ambiguità della deissi (e coerentemente con la nota vena ironica di Magritte), è lecito
interpretare il pron. neutro ceci non in senso esoforico (ossia riferendolo all’oggetto che compare
nel dipinto), ma endoforico (ossia riferendolo all’enunciato stesso). Non si può cioè escludere che
esso sia autoreferenziale14 e, al pari delle tautologie, galleggi in un limbo di indeterminatezza
semantica. Si avrebbe così un’analogia con l’indeterminatezza letterale della pipa che – nella
versione dell’opera intitolata I due misteri (1966) – è sospesa a mezz’aria e instaura un gioco di
allusioni reciproche con la pipa disegnata sulla lavagna, proprio come i due soli di Le Soir qui
tombe. Ancora una volta il puro rimando interno fra significanti non garantisce alcun valore
semantico-rappresentazionale, sicché ci si trova di fronte a quello stesso Nominalisme pictural che
Duchamp programmaticamente proclama nella Boîte blanche15: come già nel Velázquez di Las
Meninas, ad essere affrontato è il problema, metapittorico, dell’essenza della pittura.

3- Titoli e titoli non-titoli.


Nell’arte contemporanea un sintomo della divaricazione fra l’oggetto artistico e il referente
oggettuale è dato dalle soluzioni linguistiche che gli artisti adottano nell’assegnare un titolo alla
propria opera. Come è noto, il titolo, che è un’etichetta metafigurativa al pari della firma, dei
cartigli, ecc., ha enorme importanza nell’ambito della teoria della mímesis, giacché, agevolando il
riconoscimento dell’oggetto rappresentato, costituisce un’istruzione semantica. Che questa catena
possa essere spezzata, ossia che in qualche modo il titolo possa negare il valore rappresentazionale
dell’opera, appare assai chiaro dalla frequenza con cui le opere aniconiche sono munite
dell’etichetta Senza titolo, oppure hanno per titolo indicazioni piuttosto generiche e astratte esse
stesse: numeri (quasi si trattasse di reperti inventariati), cataloghi cromatici, ossia elenchi dei colori
fenomenici di cui l’autore fa uso (come in Rothko), termini tecnici tratti da altre arti (in Kandinsky
e Moholy-Nagy, per es.). Ciò indica che gli artisti desiderano che l’attenzione del destinatario si
concentri esclusivamente sull’opera ut sic, nella sua pura valenza pittorica. È tuttavia evidente che

14
Da questo punto di vista, l’operazione di Magritte è accostabile alla riflessione di Jasper Johns (e di Kosuth) sul
paradosso dell’autoreferenzialità.
15
Cfr. Duchamp M., «À l’infinitif (Boîte blanche)», in Id., Scritti, tr. it., Abscondita, Milano, 2005, p. 94. Sul tema:
Duve T. de, Nominalisme pictural. M. Duchamp, la peinture et la modernité, Minuit, Paris 1984.
6

scegliere l’etichetta Senza titolo significa negare non la validità della convenzione culturale che
impone comunque l’assegnazione di un commento metacomunicativo, ma l’adeguatezza di
qualsiasi commento che non sia semplicemente negativo: la denotazione apofatica ha la funzione di
separare rigidamente i due mondi della realtà e della possibilità artistica, di porsi come indice
grafico di una differenza ontologica.
Torniamo a questo punto a Le Soir qui tombe. Il titolo è fortemente ambiguo sotto il profilo
semantico e si spiega soltanto con la doppia «realtà» descritta dal quadro. Ad essere rappresentati
sono al tempo stesso quel particolare momento della giornata che un pittore tradizionale avrebbe
forse intitolato Tramonto, Al cadere della sera, o simili, e il precipitare a terra di un sole dipinto su
vetro. In questo modo Magritte esplicita una nota caratteristica della pittura: l’impossibilità di
rappresentare in immagine una metafora linguistica se non mediante l’azione letterale
corrispondente16. Un titolo come quello assegnato da Magritte ripristina forse il carattere
rappresentazionale dell’opera? Certamente no, e per due motivi: 1) perché l’opera vive
ironicamente dell’ambiguità semantica di fondo fra il registro metaforico (che è anche simbolico,
giacché il tramonto fisico del sole allude ad altre forme di decadenza) e quello letterale (in forza del
quale il comportamento del sole è tanto conforme alle leggi della fisica, che va addirittura in pezzi);
2) perché l’affermazione del valore letterale disorienta l’interprete e fa cadere l’opzione legata alla
lettura metaforica del titolo. A ciò occorre aggiungere che non è affatto chiaro se sia il titolo a
fungere da commento metafigurativo e a definire il contenuto semantico o se invece sia l’evento che
accade sulla tela a rappresentare iconicamente il titolo. Nulla vieta infatti di ipotizzare che Magritte
sia partito da un problema così formulato: dare soluzione pittorica alla metafora verbale «il cadere
della sera», ossia – per usare una sua definizione della pittura, nota e di antica ispirazione – fare
della «poesia visibile».
Come trasferire dunque le proprietà di un codice in un altro codice? E quale dei due si pone sul
piano metacomunicativo: il titolo o la rappresentazione iconica? Quale è la chiave di lettura
adeguata di questi testi compositi e naturalmente complessi: quella letterale o quella metaforica? In
generale, nel passaggio da un sistema notazionale a uno non notazionale è impossibile conservare la
naturale ellitticità dell’espressione metaforica. A ben vedere, la letteralità della traduzione iconica di
un messaggio verbale è la conseguenza dell’impossibilità di violare la regola ferrea della

16
È quanto emerge dalla riflessione metaretorica che ispirò Pieter Bruegel il Vecchio in un’opera complessa,
articolata e ricca di trovate come i Proverbi fiamminghi, ove diversi dei 126 episodi e simboli raffigurati non sono di
facile decodificazione. Per un’interpretazione del quadro come denuncia dell’aspetto perturbante del linguaggio: Kayser
W., Das Groteske in der Malerei und Dichtung, Rowohlt, Reinbek b. Hamburg 1960, pp. 26-27. Per la sua collocazione
nel contesto dell’opera complessiva di Bruegel: Grosshans R., Pieter Bruegel d. Ä. Die niederländichen Sprichwörter,
Gemäldegalerie, Staatlische Museen zu Berlin, Preußischer Kulturbesitz 2003. Per i suoi aspetti comici e grotteschi e
per i legami con lo stoicismo: Meo O., «Rappresentazioni della follia. Un itinerario nella pittura europea da Bosch a
Soutine», Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Serie VI – vol. XI, 2008, pp. 125-130,.
7

somiglianza fra il rappresentato e ciò che lo rappresenta, sulla quale si fonda la differenza radicale
fra segno linguistico e segno iconico e che fa sì che quest’ultimo appaia dotato di una letteralità
primaria ignota all’altro.
È ancora un quadro di Magritte a fornirci un esempio: La Durée poignardée (1938). Il paradosso
più evidente sta nel fatto che i singoli oggetti sono rappresentazioni, ma l’insieme – sebbene possa
essere assunto come illustrazione per il concetto espresso dal titolo – non lo è. La scena è statica e
deserta di vita. Il colpo inferto alla logica e alle convenzioni rappresentazionali è denunciato dal
titolo, violento, come è violenta la lotta fra il movimento e la stasi. Il riferimento è evidentemente
alla filosofia di Bergson, per il quale la Durée è il simbolo stesso del trascorrere attraverso il senso,
del continuo cambiamento delle cose (ivi compresa la mia soggettività, immersa in un continuo
flusso di coscienza)17 nel permanere dell’elemento tempo. Magritte pone in contrasto dialettico uno
dei simboli moderni del movimento, del meccanismo, della vitalità e dell’ebbrezza della velocità da
un lato e il congelamento del tempo, la pietrificazione del movimento, la desertificazione della
scena dall’altro: la «Durata pugnalata», appunto18. La locomotiva è conficcata nel muro, immette il
proprio fumo direttamente nella canna del camino da cui fuoriesce, sbuffa, ma è sospesa nel vuoto,
le ruote sono ferme; assomiglia più a un modello afunzionale in scala, a uno strumento di gioco, che
a un mezzo di trasporto, a simboleggiare, di nuovo, lo iato fra rappresentazione e realtà. Il camino è
vuoto, privo della vita che sembra animare il fuoco e il fumo che fuoriescono dai ceppi accesi.
Come quelli di De Chirico, l’orologio (metonimicamente collegato con la locomotiva, giacché è
esso a segnare l’ora di partenza e arrivo di un treno) ha le lancette congelate in eterno sull’ora che
Magritte ha scelto. Nello specchio sul camino si riflettono solo l’orologio e due candelieri, ma
vuoti, privi del loro duttile contenuto che – fondendo e colando (come gli orologi «molli» di Dalí) –
darebbe l’immagine del tempo che scorre19. Il resto della stanza, in parte visibile e in parte riflesso
nello specchio, cui gli artisti del passato attribuivano un’importante funzione narrativa, è deserto di
cose e di uomini. Poiché, giocando sui paradossi della vita e del linguaggio, Magritte non lascia mai
«parlare» le sole immagini, sembra lecito applicare anche ai suoi titoli il carattere di «colore
invisibile» attribuito da Duchamp ai propri20: al pari dei colori, essi denotano l’opera e ne sono al
tempo stesso parte integrante, come lo sarebbero una vernice trasparente o anche una lastra di vetro,
che non disturbano la percezione, ma la indirizzano. E un esempio di trasparenza semanticamente

17
Cfr. Bergson H., La pensée et le mouvant, in Œuvres, PUF, Paris 19703, p. 1396.
18
È interessante confrontare la complessa operazione di mascheramento e smascheramento di Magritte con la
drastica semplificazione cui, nella rappresentazione «scultorea» di Bergson, Tinguely sottopone il concetto centrale
della sua filosofia.
19
Il riferimento è al rapporto, etimologico e paronomastico, fra couler (= «colare») e s'écouler = («scorrere»), che in
Bergson indica il movimento continuo del tempo e della coscienza.
20
Cfr. Duchamp M., «M.D., criticavit», in Id., op. cit., p. 189. Commento in: Lyotard J.-F., I TRANSformatori
DUchamp. Studi su Marcel Duchamp, tr. it., Hestia, Cernusco L. 1992, pp. 91-92.
8

piena ce lo offre il Grande vetro dello stesso Duchamp, ma anche, perché no?, Le soir qui tombe.

4- Il valore immaginale dell’iscrizione.


Ci sono esperimenti artistici che operano un altrettanto efficace ripensamento semiotico del
rapporto immagine-parola. Caso tipico è la contaminatio fra un sistema notazionale come
l’iscrizione e uno non notazionale come la forma iconica, ove il problema non è propriamente
quello della traduzione intersemiotica, ma quello della loro coesistenza e armonizzazione a fini
estetici. Come è noto, l’utilizzo dei due codici nell’ambito di una stessa struttura visiva ha una lunga
storia: dai cartigli apposti sulla superficie dell’opera o sorretti dai personaggi al rinvio fra testo e
illustrazioni, dai calligrammi ai fumetti. Si può aggiungere a questa incompleta rassegna anche la
firma apposta dall’autore, che non solo funge da commento metatestuale, ma soprattutto viene
inglobata nell’opera, divenendo a tutti gli effetti elemento pittorico21. L’interazione fra i due sistemi
avviene dunque sia sul piano semantico sia sul piano sintattico, costituendo un pattern visivo a
valenza estetica. Ma vi sono anche altri casi di uso delle iscrizioni in funzione puramente pittorica.
Un esempio classico è quello dei ricami che i decoratori delle moschee riuscirono a realizzare
sfruttando a fini religiosi la fluidità e il rigore geometrico della scrittura araba: la calligrafia «ben
proporzionata» celebra nell’Islam il Verbo nella sua Lettera, è – per così dire – l’espressione
plastica del sacro22. Che la calligrafia possa assumere (sia presso i musulmani sia presso gli Ebrei)
valore iconico, lo mostra anche la cosiddetta «micrografia», che consiste nel disegnare utilizzando
le linee della scrittura come linee grafiche. Si tocca così il limite estremo, in cui la scrittura stessa,
con la sua struttura semantica e sintattica, si fa segno grafico, dando luogo a uno slittamento verso
un altro piano sintattico e semantico. Ma si deve osservare che la notazione in generale (sia esso
l’alfabeto occidentale o la fluida forma della scrittura araba o ebraica, il cruciforme, il sistema
pittorico egizio o cinese) è a un tempo allosemantica, ossia veicolo per la trasmissione di un testo
(religioso, come nel caso citato, letterario o semplicemente informativo, come la firma, il titolo di
un’opera, i cosiddetti «titoli» di testa o di coda di un film, la headline in un messaggio
pubblicitario) e autosemantica, ossia testo autonomo, rinunciando al proprio ruolo esclusivamente

21
Cfr. Schapiro M., «Parole e immagini: letterale e simbolico nell’illustrazione del testo», in Id., Per una semiotica
del linguaggio visivo, tr. it., Meltemi, Roma 2002, pp. 120-191. Sulla firma come «pittura di un nome»: Fraenkel B., La
signature. Genèse d’un signe, Gallimard, Paris 1992, p. 173. Cfr. inoltre: Chastel A., «Signature et signe», Revue de
l’Art, n. 26, 1974, pp. 8-14; Kooper E.S., «Art and Signature and the Art of the Signature», in Burgess G.S. (Ed.),
Selected Proceedings of the Third Congress of the International Courtly Literature Society, Cairns, Liverpool 1980, pp.
223-231; Calabrese O. – Gigante G., «La signature du Peintre», La part de l’œil, 5, 1989, pp. 27-43; Stoichita V., «Nomi
in cornice», in Winner M. (Hrsg.), Der Künstler über sich in seinem Werk, Acta Humaniora, Weinheim 1992 [Intern.
Symposium der Bibl. Hertziana, Rom 1989], pp. 294-315.
22
Sul carattere semantico della «decorazione» araba: Belting H., I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva
tra Oriente e Occidente, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2010, cap. 2 e pp. 121-130.
9

iscrizionale23. Un bell’esempio è costituito dalle didascalie inserite entro cornicette dei film muti,
che non rappresentano solo un omaggio al gusto del tempo, ma fanno soprattutto apparire
l’iscrizione come un’immagine, e dunque – al tempo stesso – come commento metafigurativo e
come parte integrante del film. Ma si può anche menzionare un caso di utilizzo iconico della
notazione musicale: il modo in cui, nell’incipit del Sanctus della Messa in si minore, Bach
visualizza letteralmente sullo spartito la levità del coro dei serafini disponendo le note in forma di
coppia di ali e, nel ricalcare lo stilema della visione di Isaia, costruisce un vero e proprio
calligramma.
In conclusione, dunque, è da respingere la tesi secondo cui la critica all’imperialismo della
semiotica testocentrica e del modello linguistico debbano sfociare nel rifiuto di un approccio in cui
linguaggio verbale e immagine si pongano, in rinnovata versione dell’ut pictura poesis e del
chiasmo simonideo, su un piano paritetico di scambio e collaborazione. In una prospettiva in cui i
media sono assai più mixed di quanto sospetti qualcuno, assumere un atteggiamento antisemiotico
tout court equivarrebbe a gettare il bambino insieme all’acqua del bagno.

23
Anche nella tradizione giudaico-cristiana spesso la scrittura non ha un ruolo semplicemente iscrizionale, come
mostra l’interpretazione del tetragramma che rappresenta il nome di Dio come vera e propria «icona grafica» da parte
degli Ebrei. L’idea del valore immaginale della parola scritta emerge anche dalla figura con la quale i primi cristiani
sostituivano l'acronimo IXTHYS (cfr. Fraenkel, op. cit., p. 57). Ma di icone grafiche, senza dubbio legate con la
tradizione ebraica, è ricco il repertorio manoscritto dei testi sacri: sia sufficiente menzionare i cosiddetti nomina sacra,
il cui valore estetico ed emblematico è testimoniato dal fatto che in alcuni testi sono vergati in oro e che sono utilizzati
anche in quei manoscritti più lussuosi in cui mancano le altre abbreviazioni di solito usate in quelli di minor pregio
(ibid., pp. 58-59).

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