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OSCAR MEO
PAROLE IN IMMAGINE.
A PROPOSITO DELL’INTERSEMIOSI NELLE ARTI VISIVE
1
Cfr. per es., in Mitchell W.J.T., Picture Theory. Essays on Visual and Verbal Representation, Univ. of. Chicago
Press, Chicago-London 1994, p. 28 (tr. del cap. 1 in Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, :due punti, Palermo
2008, pp. 19-49), la proposta di un’«iconologia critica», che tenga conto della resistenza dell’immagine al potere del
lógos e si differenzi perciò radicalmente dall’iconologia nel senso di Panofsky, in cui l’«icona» è subordinata alla
razionalità del linguaggio. Per il rapporto con la semiotica, cfr. pure la difesa di Peirce e Goodman contro le critiche di
Boehm, Id., «Pictorial Turn. Eine Antwort», in Belting H. (Hrsg.), Bilderfragen. Die Bildwissenschaften im Aufbruch,
Fink, München, 2007, pp. 43-44.
2
Cfr. la critica di Mitchell a Barthes in Iconology. Image, Text, Ideology, Univ. of Chicago Press, Chicago-London
19872, p. 56, e al secondo Wittgenstein in Picture Theory, cit., p. 12.
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Cfr. Boehm G., Wie Bilder Sinn erzeugen. Die Macht des Zeigens, Berlin Univ. Press, Berlin 2007.
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Studi come quelli di M. Schapiro e L. Marin, ma anche – più indirettamente – di V. Stoichita e di G. Didi-
Huberman, testimoniano la proficuità della collaborazione fra semiotica e storia dell’arte, purché si rinunci a proclamare
il primato della linguistica fra le discipline semiotiche.
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Rifacendosi a un ingenuo paradigma referenziale, Boehm (op. cit., p. 44) giunge a sostenere che il linguistic turn
deve sfociare in un iconic turn perché la verità delle proposizioni poggia su un fondamento extralinguistico.
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Cfr. Boehm G., «Iconic turn. Ein Brief», in Belting H. (Hrsg.), Bilderfragen, cit., p. 33: l’immagine avrebbe
2
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Palese, come spesso in Magritte, il richiamo ad Alberti, ma anche al tema barocco del quadro nel quadro.
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Cfr. per es. Foucault M., Questo non è una pipa, tr. it., SE, Milano [1988]. La vitalità dell’interesse filosofico nei
confronti di Magritte è bene mostrata da Brandt R., Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, tr. it., B.
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figurativo e salva veritate (ossia senza cambiare i criteri in forza dei quali l’espressione dovrebbe
risultare vera nel quadro della teoria corrispondentista della verità), Magritte ripropone il paradosso
del mentitore e denuncia la fallacia che induce l’osservatore (ma anche qualche pittore) a proferire
l’enunciato «questo è x» a proposito della rappresentazione più o meno realistica dell’oggetto x:
poiché l’enunciato ceci n’est pas une pipe funge da iscrizione metafigurativa nei confronti della
figura-oggetto denominata «pipa» dai parlanti normali (ma non da Magritte), l’oggetto
bidimensionale costruito da Magritte nel suo «mondo possibile» non è – per adottare l’utile
distinzione ontologica di Goodman – una «figura di pipa», ma una «figura-di-pipa». A questo punto,
però, proprio perché lo spettatore vede innanzi a sé la Gestalt di un oggetto, vacilla anche la
certezza che l’immagine sia un non-essere che non è; si ripropone insomma quello stesso dubbio
che nel Sofista, prendendo le mosse dalla discussione dello statuto ontologico dell’eikón, conduce
Platone al «parricidio» di Parmenide13.
La contaminatio fra sistemi semiotici diversi fa sì che quello linguistico, che anche nel
saussuriano Magritte è il dominante, funga da etichetta nei confronti di quello visivo, ponendosi
però al tempo stesso come elemento pittorico all’interno dell’opera, ossia come immagine
dell’immagine grafica di una stringa verbale. Ora, se l’iscrizione è interpretata come commento
sulla «figura-di-pipa» (la quale a sua volta, seguendo la suggestione metonimica proposta dalla
presenza della lavagna, potrebbe servire a denotare, come nei vecchi alfabetieri, la lettera «p» o il
fonema /p/), è chiaro che l’attenzione si concentra sulla funzione che la pipa dipinta svolge nei
confronti della pipa reale. Vi sono effettivamente alcuni aspetti in forza dei quali una pipa dipinta è
simile (grazie alle convenzioni figurative) a una pipa reale, e tuttavia non ne condivide tutti i
predicati. Questa differenza è indubbiamente sufficiente a separare rigorosamente sia la classe delle
pipe reali dalla classe di quelle dipinte sia lo «stereotipo» distributivo della pipa reale dallo
stereotipo di quella dipinta. Ma separazione delle classi e degli stereotipi comporta pure separazione
semiotica e ontologica fra i due mondi di riferimento, giacché in essi – per quanto siano entrambi
attuali – non valgono le stesse regole. Per altro verso nulla vieta di far leva non su ciò che distingue
le pipe dipinte da quelle reali, ma su ciò che le accomuna a esse. Diventerebbe allora possibile
costruire un’enciclopedia sulla falsariga di quella cinese menzionata da Borges, che non a caso
tanto piaceva a Foucault: in tale «mondo possibile» coesisterebbero e si intersecherebbero esseri
reali e fittizi, naturali e fattizi. Che un’operazione del genere sia perfettamente legittima lo
Mondadori, Milano 2003, pp. 403-425. Il quadro è discusso anche da Mitchell in Picture Theory, cit, pp. 64-73. Ma cfr.
soprattutto p. 98: poiché anche l’immagine della pipa è inserita in un contesto socio-culturale, fatto di «storie» e
«discorsi», si potrebbe considerarla come un imagetext.
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Cfr. la difficile domanda di Soph., 240 b 12: Ouk òn ára ouk óntos estìn óntos hèn légomen eikóna? Per una
discussione: Meo O., «Sul significato dell’icona», in Busetto L. (a cura di), «Weithin klar ist die Nacht, die linde, und
windlos». Saggi in onore di Anna Lucia Giavotto [«Quaderni di Lingua e Storia», 4], Qu.a.s.a.r, Milano 2012, pp. 89-
104.
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testimoniano i mondi narrati dai mitografi e dagli artisti figurativi, semifigurativi e criptofigurativi,
cui aggiungerei i paesaggi e gli oggetti possibili delle opere aniconiche.
È tuttavia legittimo proporre un’interpretazione dell’enunciato che eluda la facile tentazione di
insistere su una lettura di Magritte esclusivamente in chiave di «criptoplatonismo». Non solo esso
non ha referente alcuno all’esterno dell’opera, ma si presenta come iscrizione vergata sulla
superficie del quadro, vi si inserisce come elemento pittorico al pari degli altri. In virtù della
strutturale ambiguità della deissi (e coerentemente con la nota vena ironica di Magritte), è lecito
interpretare il pron. neutro ceci non in senso esoforico (ossia riferendolo all’oggetto che compare
nel dipinto), ma endoforico (ossia riferendolo all’enunciato stesso). Non si può cioè escludere che
esso sia autoreferenziale14 e, al pari delle tautologie, galleggi in un limbo di indeterminatezza
semantica. Si avrebbe così un’analogia con l’indeterminatezza letterale della pipa che – nella
versione dell’opera intitolata I due misteri (1966) – è sospesa a mezz’aria e instaura un gioco di
allusioni reciproche con la pipa disegnata sulla lavagna, proprio come i due soli di Le Soir qui
tombe. Ancora una volta il puro rimando interno fra significanti non garantisce alcun valore
semantico-rappresentazionale, sicché ci si trova di fronte a quello stesso Nominalisme pictural che
Duchamp programmaticamente proclama nella Boîte blanche15: come già nel Velázquez di Las
Meninas, ad essere affrontato è il problema, metapittorico, dell’essenza della pittura.
14
Da questo punto di vista, l’operazione di Magritte è accostabile alla riflessione di Jasper Johns (e di Kosuth) sul
paradosso dell’autoreferenzialità.
15
Cfr. Duchamp M., «À l’infinitif (Boîte blanche)», in Id., Scritti, tr. it., Abscondita, Milano, 2005, p. 94. Sul tema:
Duve T. de, Nominalisme pictural. M. Duchamp, la peinture et la modernité, Minuit, Paris 1984.
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scegliere l’etichetta Senza titolo significa negare non la validità della convenzione culturale che
impone comunque l’assegnazione di un commento metacomunicativo, ma l’adeguatezza di
qualsiasi commento che non sia semplicemente negativo: la denotazione apofatica ha la funzione di
separare rigidamente i due mondi della realtà e della possibilità artistica, di porsi come indice
grafico di una differenza ontologica.
Torniamo a questo punto a Le Soir qui tombe. Il titolo è fortemente ambiguo sotto il profilo
semantico e si spiega soltanto con la doppia «realtà» descritta dal quadro. Ad essere rappresentati
sono al tempo stesso quel particolare momento della giornata che un pittore tradizionale avrebbe
forse intitolato Tramonto, Al cadere della sera, o simili, e il precipitare a terra di un sole dipinto su
vetro. In questo modo Magritte esplicita una nota caratteristica della pittura: l’impossibilità di
rappresentare in immagine una metafora linguistica se non mediante l’azione letterale
corrispondente16. Un titolo come quello assegnato da Magritte ripristina forse il carattere
rappresentazionale dell’opera? Certamente no, e per due motivi: 1) perché l’opera vive
ironicamente dell’ambiguità semantica di fondo fra il registro metaforico (che è anche simbolico,
giacché il tramonto fisico del sole allude ad altre forme di decadenza) e quello letterale (in forza del
quale il comportamento del sole è tanto conforme alle leggi della fisica, che va addirittura in pezzi);
2) perché l’affermazione del valore letterale disorienta l’interprete e fa cadere l’opzione legata alla
lettura metaforica del titolo. A ciò occorre aggiungere che non è affatto chiaro se sia il titolo a
fungere da commento metafigurativo e a definire il contenuto semantico o se invece sia l’evento che
accade sulla tela a rappresentare iconicamente il titolo. Nulla vieta infatti di ipotizzare che Magritte
sia partito da un problema così formulato: dare soluzione pittorica alla metafora verbale «il cadere
della sera», ossia – per usare una sua definizione della pittura, nota e di antica ispirazione – fare
della «poesia visibile».
Come trasferire dunque le proprietà di un codice in un altro codice? E quale dei due si pone sul
piano metacomunicativo: il titolo o la rappresentazione iconica? Quale è la chiave di lettura
adeguata di questi testi compositi e naturalmente complessi: quella letterale o quella metaforica? In
generale, nel passaggio da un sistema notazionale a uno non notazionale è impossibile conservare la
naturale ellitticità dell’espressione metaforica. A ben vedere, la letteralità della traduzione iconica di
un messaggio verbale è la conseguenza dell’impossibilità di violare la regola ferrea della
16
È quanto emerge dalla riflessione metaretorica che ispirò Pieter Bruegel il Vecchio in un’opera complessa,
articolata e ricca di trovate come i Proverbi fiamminghi, ove diversi dei 126 episodi e simboli raffigurati non sono di
facile decodificazione. Per un’interpretazione del quadro come denuncia dell’aspetto perturbante del linguaggio: Kayser
W., Das Groteske in der Malerei und Dichtung, Rowohlt, Reinbek b. Hamburg 1960, pp. 26-27. Per la sua collocazione
nel contesto dell’opera complessiva di Bruegel: Grosshans R., Pieter Bruegel d. Ä. Die niederländichen Sprichwörter,
Gemäldegalerie, Staatlische Museen zu Berlin, Preußischer Kulturbesitz 2003. Per i suoi aspetti comici e grotteschi e
per i legami con lo stoicismo: Meo O., «Rappresentazioni della follia. Un itinerario nella pittura europea da Bosch a
Soutine», Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Serie VI – vol. XI, 2008, pp. 125-130,.
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somiglianza fra il rappresentato e ciò che lo rappresenta, sulla quale si fonda la differenza radicale
fra segno linguistico e segno iconico e che fa sì che quest’ultimo appaia dotato di una letteralità
primaria ignota all’altro.
È ancora un quadro di Magritte a fornirci un esempio: La Durée poignardée (1938). Il paradosso
più evidente sta nel fatto che i singoli oggetti sono rappresentazioni, ma l’insieme – sebbene possa
essere assunto come illustrazione per il concetto espresso dal titolo – non lo è. La scena è statica e
deserta di vita. Il colpo inferto alla logica e alle convenzioni rappresentazionali è denunciato dal
titolo, violento, come è violenta la lotta fra il movimento e la stasi. Il riferimento è evidentemente
alla filosofia di Bergson, per il quale la Durée è il simbolo stesso del trascorrere attraverso il senso,
del continuo cambiamento delle cose (ivi compresa la mia soggettività, immersa in un continuo
flusso di coscienza)17 nel permanere dell’elemento tempo. Magritte pone in contrasto dialettico uno
dei simboli moderni del movimento, del meccanismo, della vitalità e dell’ebbrezza della velocità da
un lato e il congelamento del tempo, la pietrificazione del movimento, la desertificazione della
scena dall’altro: la «Durata pugnalata», appunto18. La locomotiva è conficcata nel muro, immette il
proprio fumo direttamente nella canna del camino da cui fuoriesce, sbuffa, ma è sospesa nel vuoto,
le ruote sono ferme; assomiglia più a un modello afunzionale in scala, a uno strumento di gioco, che
a un mezzo di trasporto, a simboleggiare, di nuovo, lo iato fra rappresentazione e realtà. Il camino è
vuoto, privo della vita che sembra animare il fuoco e il fumo che fuoriescono dai ceppi accesi.
Come quelli di De Chirico, l’orologio (metonimicamente collegato con la locomotiva, giacché è
esso a segnare l’ora di partenza e arrivo di un treno) ha le lancette congelate in eterno sull’ora che
Magritte ha scelto. Nello specchio sul camino si riflettono solo l’orologio e due candelieri, ma
vuoti, privi del loro duttile contenuto che – fondendo e colando (come gli orologi «molli» di Dalí) –
darebbe l’immagine del tempo che scorre19. Il resto della stanza, in parte visibile e in parte riflesso
nello specchio, cui gli artisti del passato attribuivano un’importante funzione narrativa, è deserto di
cose e di uomini. Poiché, giocando sui paradossi della vita e del linguaggio, Magritte non lascia mai
«parlare» le sole immagini, sembra lecito applicare anche ai suoi titoli il carattere di «colore
invisibile» attribuito da Duchamp ai propri20: al pari dei colori, essi denotano l’opera e ne sono al
tempo stesso parte integrante, come lo sarebbero una vernice trasparente o anche una lastra di vetro,
che non disturbano la percezione, ma la indirizzano. E un esempio di trasparenza semanticamente
17
Cfr. Bergson H., La pensée et le mouvant, in Œuvres, PUF, Paris 19703, p. 1396.
18
È interessante confrontare la complessa operazione di mascheramento e smascheramento di Magritte con la
drastica semplificazione cui, nella rappresentazione «scultorea» di Bergson, Tinguely sottopone il concetto centrale
della sua filosofia.
19
Il riferimento è al rapporto, etimologico e paronomastico, fra couler (= «colare») e s'écouler = («scorrere»), che in
Bergson indica il movimento continuo del tempo e della coscienza.
20
Cfr. Duchamp M., «M.D., criticavit», in Id., op. cit., p. 189. Commento in: Lyotard J.-F., I TRANSformatori
DUchamp. Studi su Marcel Duchamp, tr. it., Hestia, Cernusco L. 1992, pp. 91-92.
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piena ce lo offre il Grande vetro dello stesso Duchamp, ma anche, perché no?, Le soir qui tombe.
21
Cfr. Schapiro M., «Parole e immagini: letterale e simbolico nell’illustrazione del testo», in Id., Per una semiotica
del linguaggio visivo, tr. it., Meltemi, Roma 2002, pp. 120-191. Sulla firma come «pittura di un nome»: Fraenkel B., La
signature. Genèse d’un signe, Gallimard, Paris 1992, p. 173. Cfr. inoltre: Chastel A., «Signature et signe», Revue de
l’Art, n. 26, 1974, pp. 8-14; Kooper E.S., «Art and Signature and the Art of the Signature», in Burgess G.S. (Ed.),
Selected Proceedings of the Third Congress of the International Courtly Literature Society, Cairns, Liverpool 1980, pp.
223-231; Calabrese O. – Gigante G., «La signature du Peintre», La part de l’œil, 5, 1989, pp. 27-43; Stoichita V., «Nomi
in cornice», in Winner M. (Hrsg.), Der Künstler über sich in seinem Werk, Acta Humaniora, Weinheim 1992 [Intern.
Symposium der Bibl. Hertziana, Rom 1989], pp. 294-315.
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Sul carattere semantico della «decorazione» araba: Belting H., I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva
tra Oriente e Occidente, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2010, cap. 2 e pp. 121-130.
9
iscrizionale23. Un bell’esempio è costituito dalle didascalie inserite entro cornicette dei film muti,
che non rappresentano solo un omaggio al gusto del tempo, ma fanno soprattutto apparire
l’iscrizione come un’immagine, e dunque – al tempo stesso – come commento metafigurativo e
come parte integrante del film. Ma si può anche menzionare un caso di utilizzo iconico della
notazione musicale: il modo in cui, nell’incipit del Sanctus della Messa in si minore, Bach
visualizza letteralmente sullo spartito la levità del coro dei serafini disponendo le note in forma di
coppia di ali e, nel ricalcare lo stilema della visione di Isaia, costruisce un vero e proprio
calligramma.
In conclusione, dunque, è da respingere la tesi secondo cui la critica all’imperialismo della
semiotica testocentrica e del modello linguistico debbano sfociare nel rifiuto di un approccio in cui
linguaggio verbale e immagine si pongano, in rinnovata versione dell’ut pictura poesis e del
chiasmo simonideo, su un piano paritetico di scambio e collaborazione. In una prospettiva in cui i
media sono assai più mixed di quanto sospetti qualcuno, assumere un atteggiamento antisemiotico
tout court equivarrebbe a gettare il bambino insieme all’acqua del bagno.
23
Anche nella tradizione giudaico-cristiana spesso la scrittura non ha un ruolo semplicemente iscrizionale, come
mostra l’interpretazione del tetragramma che rappresenta il nome di Dio come vera e propria «icona grafica» da parte
degli Ebrei. L’idea del valore immaginale della parola scritta emerge anche dalla figura con la quale i primi cristiani
sostituivano l'acronimo IXTHYS (cfr. Fraenkel, op. cit., p. 57). Ma di icone grafiche, senza dubbio legate con la
tradizione ebraica, è ricco il repertorio manoscritto dei testi sacri: sia sufficiente menzionare i cosiddetti nomina sacra,
il cui valore estetico ed emblematico è testimoniato dal fatto che in alcuni testi sono vergati in oro e che sono utilizzati
anche in quei manoscritti più lussuosi in cui mancano le altre abbreviazioni di solito usate in quelli di minor pregio
(ibid., pp. 58-59).