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Vasto, 20 marzo 2004

Brevi considerazioni sull’edilizia dell’Ordine dei Templari sino al XIV secolo.

Anni addietro due illustrissimi studiosi di storia dell’architettura medievale,


Angela Maria Romanini e Renato Bonelli, si sono posti la domanda se, e come, fosse
possibile definire la categoria critica “architettura mendicante” distinguendone le
specificità rispetto ad altre forme ed espressioni architettoniche. Mentre molto più
facile sembrava loro far ricorso alla categoria storiografica “architettura
mendicante”. Non era, questa, soltanto una sottile e bizantinistica questione
terminologica da addetti ai lavori, cioè una delle tante erudite (qualche volta inutili)
diatribe che deliziano (si fa per dire) o dilaniano (si fa per avere: prestigio, potere,
allievi, ecc.), il mondo accademico. Perché, invece, la domanda sottendeva non
secondari problemi di ordine metodologico; cui i due illustri storici, proprio perché
illustri, non potevano non cercare di dare una risposta. Se infatti è vero che gli
“Ordini Mendicanti” sono una realtà storicamente riconoscibile (però
pluralisticamente articolata sul piano sincronico non meno che su quello diacronico),
molto meno riconoscibili sono le specifiche, e soprattutto peculiari, modalità ed
intenzionalità architettoniche (formali, linguistiche, simboliche: cioè comunicative o,
con termini attuali, “mediatiche”) che, volta a volta, sono state alla base delle loro
molteplici e multiformi scelte e realizzazioni edilizie (chiesastiche, conventuali,
ospitaliere, universitarie, ecc.) nei confronti dei diversi contesti ambientali (urbani e
no) nei quali ciascuno di quegli Ordini ha svolto la propria funzione (spirituale,
sociale, economica, fondiaria) ed ha imposto la sua specifica presenza. Riassumo
“imbreviando”. E’ problematico, se non per via di un procedimento di forte
astrazione, tale che il concetto risulti comprensibile quando adottato
convenzionalmente dagli addetti ai lavori ma di per sé ambiguo ed impreciso, poter
parlare di “architettura mendicante”. E’ più logico, ed al riparo da ogni possibile
ambiguità concettuale, indagare invece sulle “architetture degli ordini mendicanti”.
La forma plurale chiarisce infatti che ci si occupa di “fabbriche” (realizzate o anche
solo progettate): non di una “categoria” univocamente definita, ma di una “classe” di
oggetti edilizi; eventualmente tra loro ulteriormente distinguibili in sottoclassi.

Riflessioni metodologiche simmetriche mi si sono andate proponendo alla mente


quando, sotto l’impulso fornitomi dal cortese invito rivoltomi dal Rotary di Vasto,
sono andato riesaminando quanto, in tema di architettura dell’Ordine dei Templari,
sia in tempi meno vicini, sia, soprattutto negli ultimi decenni, è stato scritto da già
noti studiosi italiani e stranieri; ed anche, lo dico con soddisfazione, da molti
esponenti delle nuove e nuovissime leve scientifiche. In particolare mi sono apparsi
particolarmente sollecitanti i corposi e spesso innovativi studi che figurano negli atti
dei vari congressi dedicati al tema dei Templari che si sono tenuti in questi ultimi
anni in varie sedi italiane. Riflessioni simmetriche, dicevo, le mie, relativamente al

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tema storiografico Ordine dei Templari; però non propriamente analoghe a quelle a
suo tempo proposte dalla Romanini e da Monelli sugli Ordini mendicanti. Principale
differenza è il fatto che il soggetto storiografico “Ordini mendicanti”, pur costituendo
un campo di indagine unitario, sottende invece una realtà pluralistica: vi sono infatti
più e differenti Ordini mendicanti. Invece al soggetto storiografico “Ordine dei
Templari” è sottesa una realtà unitariamente definita. Dell’Ordine è conosciuto il
momento ufficiale di fondazione (un po’ meno accertato il suo originario fiorire); ne
sono ben note le battaglie vinte e perdute; altrettanto ben note e documentate sono le
vicende relative ai molteplici rami dei differenti processi aperti in varie nazioni
europee e le corrispettive diversificate risoluzioni; ancor più noti e conosciuti sono gli
esiti del processo principale tragicamente conclusosi con il rogo. E’ infine del tutto
precisa la data della soppressione ufficiale dell’Ordine; anche se, poi, esso in alcune
zone europee ha avuto sviluppi con altre denominazioni o filiazioni più o meno vere
o presunte, ed anche se, inoltre, se ne è voluta prospettare la vita e la sopravvivenza
sotto forma di sette segrete poi confluite nelle componenti massoniche: mito ed
argomento, quest’ultimo, analizzato da Partner in un libro del 1982 (vedi Dumerger,
pag.8-9). Dell’Ordine sono infine ben noti anche sia i molteplici aspetti della cultura
religiosa, sia quelli dell’organizzazione statutaria e dell’attività militare. Mentre, al di
là delle linee principali, ne dovranno e potranno essere meglio indagati molti aspetti
dell’agire economico-finanziario e patrimoniale. Ma se questi sono gli elementi che
definiscono in modo unitario il campo di conoscenze e di ricerche relative alla
Milizia del Tempio, d’altra parte l’Ordine, a sua volta, in quanto
contemporaneamente “militia” e struttura monastica, è partecipe della multipla realtà
costituita dall’insieme degli altri ordini monastico-militari sorti o parallelamente o
con breve scarto cronologico: dagli Ospitalieri, anche con le successive forme e
denominazioni, ai Teutonici ecc. Si tratta di una compartecipazione spesso di natura
anche aspramente conflittuale: ci si combatte proprio perché, e quando, si agisce nel
medesimo contesto. Quando la “torta”, cioè il potere politico, territoriale, economico,
di cui ci si intende gloriare ed appropriare è sostanzialmente la stessa (ne
conseguiranno però, anche scelte geo-strategiche e “missionarie” differenti). Né si
può non tener conto di una certa contiguità, o di una vera e propria affinità di azione,
tra l’Ordine dei Templari ed alcuni altri ordini monastici. In special modo,
ovviamente, quello cistercense; i cui componenti, considerato che almeno nei primi
due secoli di riferimento essi provenivano in genere dalla classe dei cavalieri,
condividevano con i Templari non pochi elementi del sentire religioso (lo dimostra lo
stesso Bernardo di Chiaravalle) e soprattutto del pensiero culturale, tecnico,
economico. Ne è un esempio emblematico quanto scrive Goffredo di Auxerre a
proposito della tonaca di S. Bernardo conservata, quasi come reliquia miracolosa, dai
“Fratres… Gerosolimitani Templi”(Libro IV della Vita prima, cit. da Ciammaruconi
in L’ord. Templ. p.46 e da Pistilli ibidem, p.162) nella loro nuova sede romana. Ma il
quadro delle affinità tra realtà pur tra loro diverse si estende ulteriormente. L’Ordine
dei Templari condivide infatti con altri ordini (militari e no, ed a partire dal XIII
secolo anche con gli Ordini mendicanti) l’atteggiamento di diffidente rivalità che, per
motivi giurisdizionali (ma non solo), a tali ordini riservava qualche frangia del clero
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secolare periferico. Infatti, seppure nei primi tempi segmenti di tali frange avevano
bene accolto la Militia Templi, tuttavia in seguito la situazione cambia e si
diffondono atteggiamenti di ostilità. Cito in proposito due esempi nei quali appare
evidente la sovrapposizione o sostituzione giurisdizionale dell’Ordine rispetto ad altre
componenti del sistema religioso locale. Il primo è quello cui fa cenno la tesi di
Coletta (che ringrazio) che cioè (pagg. 41- 42), in base alla Bolla del 1145, veniva
consentito ai Templari, in aree o momenti speciali, di svolgere funzioni di cura
animarum ed anche attività cimiteriali. Entrambe prerogative non soltanto di carattere
strettamente religioso, ma anche di ritorno economico. Il secondo è quello, studiato
da Romalli ( Ord. Templ. Nel Lazio ecc. pp. 295 e segg.), di S. Maria in Capita in
prossimità di Bagnoregio: una proprietà “scelleratamente” ceduta ai Templari (tra XII
e XIII secolo) da un certo vescovo Rustico; proprietà fondiaria la quale, nel 1321,
dopo la soppressione dell’Ordine, viene poi vibratamente reclamata (per la verità
senza successo) alla mensa vescovile dal vescovo Simone di Bagnoregio. E’ un
episodio, questo, che a me sembra emblematico. Se, come voleva Dupré-Theseider,
specialmente in Italia la “territorialità” era alla base del sistema di potere vescovile, i
privilegi e le esenzioni di cui godevano i Templari, in virtù della Bolla di Innocenzo
II, li sottraevano invece a tale principio. Erano cioè aperti ai Templari, che potevano
avvalersi di una condizione che definirei di “extraterritorialità” rispetto ai sistemi
diocesani od anche di altra natura, gli strumenti e le occasioni per rendere operative le
proprie opzioni, insediative, produttive, economiche: intese, queste, anche nel senso
di accumulazione di beni e di attività e procedure di scambi finanziari tra Terrasanta
ed Europa (fino alla caduta dei regni Latini) e comunque tra varie aree europee. Con
esiti che in Europa si andavano appunto a sovrapporre alle preesistenti e consolidate
logiche locali perché mirati a porsi in rapporto ad interessi dei grandi giochi di potere
di più vasta scala. Partecipando cioé attivamente sia alle grandi lotte istituzionali tra
papato e corona, e, in questo ambito anche alle lotte scismatiche nel seno stesso del
soglio pontifico, sia ad interventi di ordine politico-militare. Come nel quadro della
Reconquista cristiana della penisola iberica, o come, in area francese, in rapporto alle
lotte contro centri “eretici”. Il tutto utilizzando accortamente e con lungimiranza,
volta per volta e luogo per luogo, le circostanze favorevoli e significanti e, non meno
accortamente, le peculiari condizioni (geo-topografiche, politiche, sociali, religiose)
delle singole aree. Nell’intento, quasi sempre raggiunto in tutte le prime fasi di vita
dell’Ordine, di ottenere sostegno, consenso e fiducia di numerosi centri o figure di
potere; e di poter così profittare di ogni possibile occasione per l’ottenimento dei
propri fini e vocazionalità di varia natura. Che è però il comportamento che in
seguito produrrà la rivolta contro l’Ordine da chi ne paventava l’eccessivo e
progressivo accrescersi del potere.

Conviene, a questo punto, avanzare l’osservazione di carattere generale,


ovviamente presente negli scritti e nel pensiero di molti specialisti dell’argomento,
che Dumerger riesce a formulare con speciale efficacia ed icasticità: “Le Temple,
comme les ordres militaires ultérieurs, unit l’idéale du moine à celui du chevalier. Ce
n’est pas loin d’être un scandale, au moment où le schéma trifonctionnel des trois
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ordres – ceux qui prient, ceux qui combattent, ceux qui travaillent – s’impose à la
société chrétienne” ( Vie et mort ecc. pag 17). Agli inizi del XII secolo
l’impostazione concettuale del nuovo ordine era effettivamente, “quasi uno
scandalo”: perché, con la fusione dei due livelli gerarchici superiori, veniva posta in
crisi la ideologica struttura piramidale della società occidentale cristiana che si
riassumeva appunto in quei tre ordini (oggi forse diremmo classi sociali). Ma le
nuove correnti spirituali (principale quella cluniacense ma ve ne erano anche altre),
che nel mondo cristiano occidentale ed orientale da tempo si diffondevano un po’
dovunque, e la riforma gregoriana, che si innestava sulle nuove realtà del pensiero
religioso e politico, avevano cambiato gli assetti e le regole dando luogo alla lunga e
centrale vicenda delle lotte per le investiture. Mentre, anche sotto altri profili, ed in
specie quelli delle strutture, produttive, insediative, istituzionali e politiche, così
come per quanto attiene al rivivacizzarsi dei traffici e degli scambi commerciali ed
economici lungo itinerari anche di ampio raggio, nell’Europa continentale e
nell’intero bacino mediterraneo si andavano sempre più acceleratamente
configurando nuove realtà (nuovi e più antichi centri urbani di terra e portuali in via
di approdo a futuri sistemi comunali, nuovi centri monarchici, e via elencando) e
nuovi scenari ed orizzonti. Non sarà inutile sottolineare che da molti medievisti il
secolo XII viene considerato infatti uno dei tanti momenti di “rinascita” (culturale,
artistica, oltrechè politica, giuridica, economico-sociale). Tra l’altro, quello è anche il
secolo nel quale prende a svilupparsi il sistema degli “studia generalia” cioè delle
grandi università. L’autorevolezza ed anche la relativa autonomia delle quali sarà
infatti sancita da Federico Barbarossa (con la promulgazione della Habita) nella
seconda metà del secolo. Né sarà inutile sottolineare che certe confusioni tra Ordine
dei Templari e Tempio di Salomone (ivi compresi i supposti segreti di varia
misterica e simbolica aggettivazione) talvolta traslatamene inteso come entità
simbolica di riferimento e non come fisico sottostrato del primo nucleo insediativo
del nuovo Ordine, hanno a lungo pesato non solo sulle molte leggende e sulla
iniziaticità misterica (presentata, ed addirittura talvolta pensata, come blasfema od
immorale) delle ritualità di quei monaci-guerrieri, ma anche, talvolta, sui percorsi di
analisi delle loro realizzazioni architettoniche. Fortunatamente, soprattutto a partire
dagli ultimi decenni del secolo appena trascorso (ma ve ne erano state importante
avvisaglie anche prima), tale errore metodologico è stato definitivamente corretto da
una autorevole, vivace, nutrita schiera di studiosi di varia formazione, di varia
provenienza, e di varia specializzazione anche appartenenti a generazioni diverse. I
quali (per brevità non posso indicare i nomi; ne sono qui fortunatamente presenti
alcuni esponenti), hanno spazzato via ogni fumosità, dimostrando che è possibile
pervenire a risultati e formulazioni storiograficamente e criticamente accertate quindi
sostenibili: tali, cioè, da costituire a loro volta i punti fermi e le tracce-guida per
ulteriori studi ed approfondimenti. E, se del caso, per arricchirne od eventualmente
modificarne spunti e suggerimenti.

Un primo auspicio che mi sento di poter formulare è che quanto sta già accadendo
in questi ultimi tempi, cioè l’analisi a tappeto di singole aree regionali di studio (e
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questa stessa occasione ne è testimonianza), si trasformi in un progetto sistematico
che possa produrre una mappatura storiografica il più completa ed estesa possibile.
Anche riprendendo ed ampliando, sotto altra luce e, all’occorrenza, con nuovi mezzi
di indagine (mi riferisco sia alle varie forme di rilevazione superficiale e profonda
oggi possibili, sia ai metodi informatici e ad altre forme di conoscenza e di incrocio
delle risultanze), l’importante ed ancora utile lavoro che proprio in questo senso ( ma
con i più limitati mezzi e strumenti allora disponibili) aveva iniziato Silvestrelli nel
secondo decennio del secolo appena trascorso. Analisi da condursi anche osservando
le caratteristiche e le sequenzialità cronologiche dei vari insediamenti e prodotti
dell’attività dei Templari guardata a tutto campo: militare, religiosa, assistenziale,
produttiva, tecnica, artistica, artigianale. Non molto studiate, ad esempio, se non per
quanto documentato da Houben (convegno “Mezzogiorno normanno-svevo e le
Crociate” Bari 2000; atti Dedalo 2002), sono le attività e la presenza dei Templari in
Puglia ed in Sicilia. E, sempre a questo proposito, cito anche quanto Romalli
comunica in tema di ricerche sugli insediamenti rurali fortificati in Italia centrale
coordinate in un dottorato di ricerca in Storia dell’Arte dell’Università “La Sapienza”
(p. 323 in nota). Perché, dunque, non pensare ad un più ampio coordinamento di tali
ricerche sistematiche dando corpo ad appositi e finalizzati “centri di eccellenza” in
essenziale ed ovvio rapporto con le istituzioni regionali e locali e con le istituzioni
pubbliche e private di tutela? Ne conseguirebbero risultati di rilevanza nazionale (con
articolazione regionale e subregionale) che potrebbero essere poi proiettati alla
dimensione europea e mediterranea per utili confronti ed integrazioni. Programma di
ricerca che, magari, potrebbe trovare ulteriore sponda proprio anche nel Rotary ( ne è
un importante segnale quanto oggi qui avviene), tenendo conto delle opportunità in
tal senso offerte dalla sua capillare organizzazione e strutturazione territoriale di
livello nazionale ed internazionale.

Ma passo ora ad altro genere di valutazioni. La prima, del tutto ovvia, è che sotto
il profilo delle componenti formali e simboliche, o, più in generale “comunicative”, i
vari campi di indagine presentano loro specificità e peculiarità; le quali, in parte, ne
possono differenziare gli strumenti di ricerca, e, forse, i risultati ed i conseguenti
giudizi di valore: per lo meno sotto il profilo dei nuovi ambiti contestuali entro i quali
collocare, e giudicare, i risultati ottenuti. Così non solo è importante, ma anche
giusto, leggere ed interpretare tutti i fattori di continuità, di innovazione, di
peculiarità, in tema di decorazione (più frequente quella grafica o pittorica ma anche
quella scultorea, araldica, simbolica; quest’ultima sia criptica che no: labirinti,
quadrati magici, figurazioni grafiche forse metrico-proporzionali [vedi esempio in
EAM], la rosa e la croce dell’Ordine, la presenza del nodo di Salomone in taluni
intrecci decorativi, ecc.) che compaiono in più luoghi di speciali ed importanti edifici
chiesastici (oltrechè nei noti esempi di ambito cistercense italiano, anche in alcune
cattedrali francesi alla cui edificazione non sarebbe estranea la componente
finanziaria dell’Ordine), così come in edifici di versa natura funzionale [inserire qui
alcune altre illustrazioni], dei quali è documentata la presenza, l’appartenenza, o

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addirittura l’origine, templare (e sono importanti, in tal senso, i saggi pubblicati da
Curzi in più occasioni).

Meno semplice mi appare invece applicare, senza opportuni correttivi e


prudenze, questi medesimi principi all’analisi dei manufatti architettonici intesi nel
loro aspetto di “fabbriche”. E non solo perché, come hanno documentato ed
autorevolmente affermato Cadei, Dumerger ed altri prima e dopo di loro, molte delle
componenti morfologiche che nel passato venivano considerate specificamente
templari sono invece riscontrabili in opere architettoniche di varia origine, epoca e
committenza; ma anche perché risulta ormai evidente che i Templari, nella loro
attività edilizia, hanno adottato più, e non ad una o due soltanto, configurazioni
morfologiche (uso questo termine perché non mi piace parlare di “tipologie”: un
concetto che a me sembra in parte suscettibile di ambiguità). E ciò tanto per quanto
attiene agli schemi delle piante, quanto, anche, per quanto concerne le concezioni
strutturali e funzionali d’insieme. Appare anzi sempre più chiaro che la
configurazione più frequentemente adottata dai Templari nella loro edilizia
chiesastica sia quella della aula unica coperta con tetto a spioventi: la soluzione più
semplice, ovvia, e diffusa che sia dato conoscere ed applicare. Dunque è certamente
utile studiare, in riferimento ai singoli edifici e complessi edilizi, i possibili metodi di
tracciamento geometrico e proporzionale che ne relazionano le parti e l’insieme. Ciò,
infatti getta ulteriore luce sulle conoscenze e sui saperi più o meno “segreti” sui quali
si fondava la cultura tecnica (teorica e materiale) degli architetti e capimaestri
dell’epoca. Però, almeno a mio parere, va molto diminuito il valore, talvolta
considerato essenzialmente “templare”, di alcuni aspetti e formulazioni geometriche
e metrologiche delle opere edilizie realizzate dall’Ordine. Proprio perché da un lato
quegli aspetti e quelle caratteristiche sono largamente riscontrabili, come detto, nella
cultura di mestiere del tempo; e perché, dall’altro essi sono presenti in opere anche di
differente committenza ed intenzionalità anche simbolica. Mi riferisco in primo luogo
alle caratteristiche di ordine numerologico. Fatto salvo, forse, l’uso di sei colonne a
sostegno della parte centrale dell’edificio, qui mi riferisco a numeri di preteso valore
simbolico “assoluto”, o allusivi a speciali riferimenti alla storia ed all’architettura
della prima età cristiana. Quali il numero di colonne o dei pilastri – 4; 8; 12; ecc. - a
sostegno della copertura cupolata; o, tenuto conto dell’unità di misura localmente in
uso, riferiti all’adozione di speciali lunghezze ed altezze od altro. Ed in secondo
luogo alludo alle caratteristiche di ordine geometrico-proporzionale (rapporti
“musicali” tra l’insieme e le sue parti, la pianta ottogonale o circolare- figure in parte
considerate equivalenti- od altro) riscontrabili in alcune loro emblematiche
architetture chiesastico-religiose (inserire illustrazioni). E, in questo senso, è
possibile che, come hanno rilevato molti studiosi, il tema della cappella-torre abbia
contenuti identitariamente peculiari dell’Ordine: ma ne va comunque interpretato il
senso e la motivazione. Anche perché situazioni analoghe potrebbero essere
individuate in altre situazioni e committenze. Mi riferisco all’interpretazione
funzionale a cappella (per esempio ad Orvieto) di parti a torre dei palazzi papali
medievali. Ma considerazioni analoghe potrebbero essere proposte anche per
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l’adozione, nell’edilizia dei Templari, di aule a due navate. Soluzione, questa, di cui
si hanno esempi tanto nell’edilizia ospedaliera in generale, quanto in taluni edifici
chiesastici germanici. Ma, per tornare al tema, é noto a tutti gli storici
dell’architettura che già Krautheimer aveva sottolineato come tutta la concezione
architettonica medievale sia fortemente proiettata a proporre concetti di
“similitudine” di ordine mentale ed intellettuale (dunque percepibile a livello colto)
mentre appaia invece molto meno interessata a proporre somiglianze figurali dirette:
come invece oggi ci sembra logico secondo il nostro moderno pensiero occidentale.
Ed è altrettanto noto che egli aveva anche già dimostrato come esistesse un vivace
gioco di sponda che collegava tra loro più esperienze formali e spaziali anche
connesse a matrici culturali e simboliche tra loro assai differenti. Come, nei casi che
qui interesano ed ai quali accennano tutti gli studiosi del tema, le assonanze formali
con edifici cristiani di Terrasanta (La Chiesa della Natività a Betlemme, o, in ambito
gerosolimitano, la Chiesa del S. Sepolcro, l’Anastasi, la Cupola della Roccia, od
altro. I cui “modelli” non solo sono stati prescelti da molte altre categorie e tipi di
“committenza laica” e “committenza religiosa” (però va detto che questa distinzione,
se intesa nel senso odierno, non può sempre essere applicata al Medio Evo), ma
anche adottati in opere architettoniche di diversificata intenzione e destinazione
funzionale: per fare un solo esempio l’ottagono cupolato (con differenziate
risoluzioni tecniche) oltreché riferito alla Chiesa della Natività, è stato adottato nelle
cappelle palatine (per esempio ad Aquisgrana), nei battisteri (dall’età costantiniana in
poi), nei mausolei, e così via [ altre immagini]. Ma non si deve poi nemmeno
sottacere che anche questi speciali modelli figurali, tra i quali appunto quelli che si
richiamano alle tappe simboliche dell’architettura paleocristiana, erano a loro volta
già stati già adottati non solo in episodi architettonici che in Terrasanta ed in Europa
precedono l’età paleocristiana; ma, sia prima che dopo, anche in ambiti geo-culturali
diversi da quelli sui quali si è innestata appunto tale tradizione. E qui si porrebbe il
problema dei rapporti con architetture di matrice arabo-islamica per esempio
guardando a speciali configurazioni di coperture voltate: non è possibile parlarne.
Voglio dire, e lo ripeto da più anni, che le somiglianze figurali, e persino tecniche, tra
due opere architettoniche (ma ciò vale in generale: anche per i tessuti urbani), se
intese di per sé stesse, sono elementi di giudizio ovviamente utili e necessari, però, a
meno di eccessive ed astratte categorizzazioni, fattori certamente non sufficienti per
definirne anche le affinità concettuali, né, tanto meno, l’eventuale, presunto,
significato di effettiva appartenenza di ciascuna di tali opere ad una od altra categoria
di riferimento.

Cosicché, secondo il mio punto di vista, mi appaiono più interessanti i percorsi di


ricerca intrapresi nei più recenti congressi, tra i quali si inscrive autorevolmente
anche questo, intesi a definire le caratteristiche delle iniziative edilizie intraprese dai
Templari in determinati ambiti territoriali italiani. Con particolare attenzione al senso
ed alla sequenza cronologica delle scelte di localizzazione dei loro impianti. E non
solo pensando al rapporto con le direttrici (viarie, fluviali, ecc.) di pellegrinaggio e
traffico commerciale, ed alle strutture di varia destinazione funzionale e religiosa che
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vi si riferiscono, ma anche tenuto conto del grado di ruralità, o, se in aree cittadine,
della preferenza per le parti meno abitate e periferiche, entro cui si andavano ad
inserire quegli impianti. Come nel caso dell’insediamento romano sull’Aventino e
del suo privato porticciolo fluviale lungo il Tevere ( a valle del centro più densamente
abitato), o nel caso del borgo fortificato della Magione di Bagnoregio; di cui danno
rispettivamente notizie sia Pistilli e Cristino, sia Romalli.

In parte diverso, ma sostanzialmente analogo, é il ragionamento che hanno svolto,


assai meglio di me e di questi miei frettolosi appunti, molti studiosi di storia
dell’architettura militare medievale. Che, cioè, le configurazioni e concezioni delle
strutture fortificatorie (ed il loro progressivo evolversi alla luce delle esperienze
maturate nei diversi conflitti) che sino al XIII ed anche XIV secolo presidiavano vari
luoghi di aree europee e non europee, cristiane e no, hanno tra loro molti punti in
comune. Sembra anzi esservi stato (e ciò mi sembra del tutto ovvio) un gioco di
sponda (alludo, per esempio, all’impianto quadrangolare con torri- che però potrebbe
addirittura rifarsi a precedenti tardo o post ellenistici- oppure alla sostitutiva
introduzione del mastio) tra le varie origini e committenze; un gioco nel quale molto
contava la specifica condizione (strategica, tecnica, topografica) dei luoghi ove
erigere queste strutture e dei materiali ivi più facilmente ed utilmente impiegabili.
Rimandando la funzione della comunicazione simbolica, cioè la dichiarazione della
propria “appartenenza” a questo od a quell’altro campo, ad ulteriori aspetti,
certamente significanti, ma di secondo livello. Quali, ad esempio, taluni dettagli od
elementi architettonici e “decorativi”, o talune figurazioni scultoree ed araldiche, od
anche, sotto altro profilo,il ricorso a speciali “apparecchi murari”, ecc. Era cioè
diffuso e condiviso (in una “guerra” di conoscenze: oggi diremmo in una guerra di
“know-how”), il livello evolutivo delle conoscenze tecniche specialistiche, salvo
aggettivarne, se del caso, la “facies”.

Il tempo concessomi si sta esaurendo. Per concludere passo quindi ad alcune brevi
considerazioni: che tradurrò anche in interrogativi e (forse un po’ troppo
presuntuosamente; magari c’è già chi ci ha pensato e già ci sta lavorando), ed anche
nel suggerimento di ulteriori possibili piste di ricerca.
Un tema su cui molto si è insistito è quello del cosiddetto arco-diaframma.
Indicandone l’eventuale rapporto con alcuni aspetti dell’edilizia cistercense e con i
suoi ulteriori presunti sviluppi in alcune realizzazioni di edilizia mendicante (in altra
occasione ho però dato una diversa interpretazione; sottolineando piuttosto, un po’ in
controcorrente rispetto alle convenzioni, le differenze tra architettura cistercense e
mendicante). E’ stato anche proposto di individuarne i lontani precedenti in alcuni
esempi dell’edilizia tardoantica occidentale ed orientale, oppure, limitatamente all’età
medievale (Savi, in << Architettura Medievale>>), ad opere architettoniche italiane
del secolo XI circa. Di massima leggendo comunque tali dati in una larga chiave
“tipologico-formale”, nella quale confluirebbero realtà architettoniche che a me
sembrano tra loro differenti (non ho il tempo di discutere questo punto) [eventuali
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altre immagini]; oppure interpretando la sequenza di archi-diaframma come scelta di
cadenzamento ritmico dello spazio interno. A me sembra che il problema possa
essere posto in modo diverso. Mi preme ciuoè sottolineare che l’arco-diframma non è
tanto una cifra “stilistica”, quanto, invece, una soluzione primariamente tecnica: la
risposta alla duplice esigenza di realizzare da un lato una facile ed economica
(tenendo in conto molti risvolti del parametro economicità) struttura a tetto ligneo a
due falde; e, dall’altro lato, e ciò in riferimento ai casi di vani di una certa lunghezza,
assicurare la stabilità (come nelle “costruzioni” con le carte da gioco!) di sistema
dell’insieme edilizio: che è antichissima sapienza di mestiere. Così l’arco-diaframma
è stato impiegato ogni qual volta è sembrato parametro prioritario la maggiore
semplicità ed economicità costruttiva, e la facilità di sostituzione (per sostituzione di
parti ammalorate, per crolli conseguenti ad incendi, od altro) della struttura del tetto.
E ciò indipendentemente sia dalla funzione cui il vano debba esser destinato (aule di
varia funzionalità: chiesastica, assembleare, conviviale, ospedaliera, produttiva, di
magazzinaggio ed anche, in età moderna e contemporanea, di carattere industriale,
ecc.). Sono peraltro ben conscio che in architettura ogni soluzione viene adottata
cogliendone anche le molte ulteriori opportunità; vale a dire sfruttando sapientemente
la capacità, insita in quella soluzione, di dare risposte a più di un ordine di problemi.
Così è certamente vero che la sequenza degli archi-diaframma costituisce anche una
cadenza ritmica dello spazio architettonico: per lo meno, a livello generale, delle sue
zone alte. Anche se, almeno nel già citato esempio di S. Maria in Capita gli archi
diaframma si appoggiano a sostegni laterali che giungono sino a terra (è forse, come
anche in casi stranieri, una semplificata applicazione alla copertura lignea del sistema
a volta cerchiata?). Comunque è piuttosto nel sottile gioco strutturale-decorativo delle
componenti fisiche dell’arco-diaframma (profilature dell’arco, forma di appoggio-
mensole od altro- alla muratura, ecc.) presente in un determinato edificio, dunque non
nell’arco-diaframma in sé e per sé, che è possibile coglierne le valenze stilistiche; e,
conseguentemente, il gioco delle assonanze e dei rimandi stilistici e cronologici. Di
qui una riflessione ed un interrogativo. Tanto l’edilizia templare quanto quella
cistercense (ma anche di altra natura e committenza) hanno dato luogo alla
realizzazione di aule ed edifici destinati all’accoglienza ed al lavoro (grangie,
magazzini agricoli e portuali, ecc.).
Secondo le risultanze (documentario-statistiche) di vari storici dell’architettura
medievale (vedi Romalli, in L’ordine ecc, pp 310-11 e relativa bibliografia in nota a
p. 311), l’uso dell’arco-diaframma compare in ambito laziale-abruzzese all’incirca
alla metà del XIII secolo. Cosicché, e proprio rifacendosi a questa datazione, Romalli
conclude che quella soluzione tecnica deve esser posta in rapporto con il diffondersi
dell’attività edilizia degli ordini mendicanti (da alcuni storici stranieri talvolta
definita, ma per me impropriamente, come “gotico ridotto”). Ma proprio tenendo
conto di quelle risultanze e dell’interpretazione che, con intelligenza critica e
correttezza di metodo, ne dà appunto Romalli, riterrei necessario aprire anche una
diversa pista di ricerca; che espongo sotto forma di domanda. Perché sino a quel
momento non si era adottata la soluzione dell’arco-diaframma o delle sue prossime
varianti strutturali? Forse perché solo in quella fase era apparso utile e necessario
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ampliare la dimensione dei vani da realizzare, aumentandone la lunghezza e dunque
rendendo necessario il ricorso a strutture di controventamento interno e di sostegno
ritmico della copertura? E conseguentemente, qualora questa ipotesi fosse
confermata, perché ciò è accaduto allora e non prima?
Grazie!

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