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tema storiografico Ordine dei Templari; però non propriamente analoghe a quelle a
suo tempo proposte dalla Romanini e da Monelli sugli Ordini mendicanti. Principale
differenza è il fatto che il soggetto storiografico “Ordini mendicanti”, pur costituendo
un campo di indagine unitario, sottende invece una realtà pluralistica: vi sono infatti
più e differenti Ordini mendicanti. Invece al soggetto storiografico “Ordine dei
Templari” è sottesa una realtà unitariamente definita. Dell’Ordine è conosciuto il
momento ufficiale di fondazione (un po’ meno accertato il suo originario fiorire); ne
sono ben note le battaglie vinte e perdute; altrettanto ben note e documentate sono le
vicende relative ai molteplici rami dei differenti processi aperti in varie nazioni
europee e le corrispettive diversificate risoluzioni; ancor più noti e conosciuti sono gli
esiti del processo principale tragicamente conclusosi con il rogo. E’ infine del tutto
precisa la data della soppressione ufficiale dell’Ordine; anche se, poi, esso in alcune
zone europee ha avuto sviluppi con altre denominazioni o filiazioni più o meno vere
o presunte, ed anche se, inoltre, se ne è voluta prospettare la vita e la sopravvivenza
sotto forma di sette segrete poi confluite nelle componenti massoniche: mito ed
argomento, quest’ultimo, analizzato da Partner in un libro del 1982 (vedi Dumerger,
pag.8-9). Dell’Ordine sono infine ben noti anche sia i molteplici aspetti della cultura
religiosa, sia quelli dell’organizzazione statutaria e dell’attività militare. Mentre, al di
là delle linee principali, ne dovranno e potranno essere meglio indagati molti aspetti
dell’agire economico-finanziario e patrimoniale. Ma se questi sono gli elementi che
definiscono in modo unitario il campo di conoscenze e di ricerche relative alla
Milizia del Tempio, d’altra parte l’Ordine, a sua volta, in quanto
contemporaneamente “militia” e struttura monastica, è partecipe della multipla realtà
costituita dall’insieme degli altri ordini monastico-militari sorti o parallelamente o
con breve scarto cronologico: dagli Ospitalieri, anche con le successive forme e
denominazioni, ai Teutonici ecc. Si tratta di una compartecipazione spesso di natura
anche aspramente conflittuale: ci si combatte proprio perché, e quando, si agisce nel
medesimo contesto. Quando la “torta”, cioè il potere politico, territoriale, economico,
di cui ci si intende gloriare ed appropriare è sostanzialmente la stessa (ne
conseguiranno però, anche scelte geo-strategiche e “missionarie” differenti). Né si
può non tener conto di una certa contiguità, o di una vera e propria affinità di azione,
tra l’Ordine dei Templari ed alcuni altri ordini monastici. In special modo,
ovviamente, quello cistercense; i cui componenti, considerato che almeno nei primi
due secoli di riferimento essi provenivano in genere dalla classe dei cavalieri,
condividevano con i Templari non pochi elementi del sentire religioso (lo dimostra lo
stesso Bernardo di Chiaravalle) e soprattutto del pensiero culturale, tecnico,
economico. Ne è un esempio emblematico quanto scrive Goffredo di Auxerre a
proposito della tonaca di S. Bernardo conservata, quasi come reliquia miracolosa, dai
“Fratres… Gerosolimitani Templi”(Libro IV della Vita prima, cit. da Ciammaruconi
in L’ord. Templ. p.46 e da Pistilli ibidem, p.162) nella loro nuova sede romana. Ma il
quadro delle affinità tra realtà pur tra loro diverse si estende ulteriormente. L’Ordine
dei Templari condivide infatti con altri ordini (militari e no, ed a partire dal XIII
secolo anche con gli Ordini mendicanti) l’atteggiamento di diffidente rivalità che, per
motivi giurisdizionali (ma non solo), a tali ordini riservava qualche frangia del clero
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secolare periferico. Infatti, seppure nei primi tempi segmenti di tali frange avevano
bene accolto la Militia Templi, tuttavia in seguito la situazione cambia e si
diffondono atteggiamenti di ostilità. Cito in proposito due esempi nei quali appare
evidente la sovrapposizione o sostituzione giurisdizionale dell’Ordine rispetto ad altre
componenti del sistema religioso locale. Il primo è quello cui fa cenno la tesi di
Coletta (che ringrazio) che cioè (pagg. 41- 42), in base alla Bolla del 1145, veniva
consentito ai Templari, in aree o momenti speciali, di svolgere funzioni di cura
animarum ed anche attività cimiteriali. Entrambe prerogative non soltanto di carattere
strettamente religioso, ma anche di ritorno economico. Il secondo è quello, studiato
da Romalli ( Ord. Templ. Nel Lazio ecc. pp. 295 e segg.), di S. Maria in Capita in
prossimità di Bagnoregio: una proprietà “scelleratamente” ceduta ai Templari (tra XII
e XIII secolo) da un certo vescovo Rustico; proprietà fondiaria la quale, nel 1321,
dopo la soppressione dell’Ordine, viene poi vibratamente reclamata (per la verità
senza successo) alla mensa vescovile dal vescovo Simone di Bagnoregio. E’ un
episodio, questo, che a me sembra emblematico. Se, come voleva Dupré-Theseider,
specialmente in Italia la “territorialità” era alla base del sistema di potere vescovile, i
privilegi e le esenzioni di cui godevano i Templari, in virtù della Bolla di Innocenzo
II, li sottraevano invece a tale principio. Erano cioè aperti ai Templari, che potevano
avvalersi di una condizione che definirei di “extraterritorialità” rispetto ai sistemi
diocesani od anche di altra natura, gli strumenti e le occasioni per rendere operative le
proprie opzioni, insediative, produttive, economiche: intese, queste, anche nel senso
di accumulazione di beni e di attività e procedure di scambi finanziari tra Terrasanta
ed Europa (fino alla caduta dei regni Latini) e comunque tra varie aree europee. Con
esiti che in Europa si andavano appunto a sovrapporre alle preesistenti e consolidate
logiche locali perché mirati a porsi in rapporto ad interessi dei grandi giochi di potere
di più vasta scala. Partecipando cioé attivamente sia alle grandi lotte istituzionali tra
papato e corona, e, in questo ambito anche alle lotte scismatiche nel seno stesso del
soglio pontifico, sia ad interventi di ordine politico-militare. Come nel quadro della
Reconquista cristiana della penisola iberica, o come, in area francese, in rapporto alle
lotte contro centri “eretici”. Il tutto utilizzando accortamente e con lungimiranza,
volta per volta e luogo per luogo, le circostanze favorevoli e significanti e, non meno
accortamente, le peculiari condizioni (geo-topografiche, politiche, sociali, religiose)
delle singole aree. Nell’intento, quasi sempre raggiunto in tutte le prime fasi di vita
dell’Ordine, di ottenere sostegno, consenso e fiducia di numerosi centri o figure di
potere; e di poter così profittare di ogni possibile occasione per l’ottenimento dei
propri fini e vocazionalità di varia natura. Che è però il comportamento che in
seguito produrrà la rivolta contro l’Ordine da chi ne paventava l’eccessivo e
progressivo accrescersi del potere.
Un primo auspicio che mi sento di poter formulare è che quanto sta già accadendo
in questi ultimi tempi, cioè l’analisi a tappeto di singole aree regionali di studio (e
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questa stessa occasione ne è testimonianza), si trasformi in un progetto sistematico
che possa produrre una mappatura storiografica il più completa ed estesa possibile.
Anche riprendendo ed ampliando, sotto altra luce e, all’occorrenza, con nuovi mezzi
di indagine (mi riferisco sia alle varie forme di rilevazione superficiale e profonda
oggi possibili, sia ai metodi informatici e ad altre forme di conoscenza e di incrocio
delle risultanze), l’importante ed ancora utile lavoro che proprio in questo senso ( ma
con i più limitati mezzi e strumenti allora disponibili) aveva iniziato Silvestrelli nel
secondo decennio del secolo appena trascorso. Analisi da condursi anche osservando
le caratteristiche e le sequenzialità cronologiche dei vari insediamenti e prodotti
dell’attività dei Templari guardata a tutto campo: militare, religiosa, assistenziale,
produttiva, tecnica, artistica, artigianale. Non molto studiate, ad esempio, se non per
quanto documentato da Houben (convegno “Mezzogiorno normanno-svevo e le
Crociate” Bari 2000; atti Dedalo 2002), sono le attività e la presenza dei Templari in
Puglia ed in Sicilia. E, sempre a questo proposito, cito anche quanto Romalli
comunica in tema di ricerche sugli insediamenti rurali fortificati in Italia centrale
coordinate in un dottorato di ricerca in Storia dell’Arte dell’Università “La Sapienza”
(p. 323 in nota). Perché, dunque, non pensare ad un più ampio coordinamento di tali
ricerche sistematiche dando corpo ad appositi e finalizzati “centri di eccellenza” in
essenziale ed ovvio rapporto con le istituzioni regionali e locali e con le istituzioni
pubbliche e private di tutela? Ne conseguirebbero risultati di rilevanza nazionale (con
articolazione regionale e subregionale) che potrebbero essere poi proiettati alla
dimensione europea e mediterranea per utili confronti ed integrazioni. Programma di
ricerca che, magari, potrebbe trovare ulteriore sponda proprio anche nel Rotary ( ne è
un importante segnale quanto oggi qui avviene), tenendo conto delle opportunità in
tal senso offerte dalla sua capillare organizzazione e strutturazione territoriale di
livello nazionale ed internazionale.
Ma passo ora ad altro genere di valutazioni. La prima, del tutto ovvia, è che sotto
il profilo delle componenti formali e simboliche, o, più in generale “comunicative”, i
vari campi di indagine presentano loro specificità e peculiarità; le quali, in parte, ne
possono differenziare gli strumenti di ricerca, e, forse, i risultati ed i conseguenti
giudizi di valore: per lo meno sotto il profilo dei nuovi ambiti contestuali entro i quali
collocare, e giudicare, i risultati ottenuti. Così non solo è importante, ma anche
giusto, leggere ed interpretare tutti i fattori di continuità, di innovazione, di
peculiarità, in tema di decorazione (più frequente quella grafica o pittorica ma anche
quella scultorea, araldica, simbolica; quest’ultima sia criptica che no: labirinti,
quadrati magici, figurazioni grafiche forse metrico-proporzionali [vedi esempio in
EAM], la rosa e la croce dell’Ordine, la presenza del nodo di Salomone in taluni
intrecci decorativi, ecc.) che compaiono in più luoghi di speciali ed importanti edifici
chiesastici (oltrechè nei noti esempi di ambito cistercense italiano, anche in alcune
cattedrali francesi alla cui edificazione non sarebbe estranea la componente
finanziaria dell’Ordine), così come in edifici di versa natura funzionale [inserire qui
alcune altre illustrazioni], dei quali è documentata la presenza, l’appartenenza, o
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addirittura l’origine, templare (e sono importanti, in tal senso, i saggi pubblicati da
Curzi in più occasioni).
Il tempo concessomi si sta esaurendo. Per concludere passo quindi ad alcune brevi
considerazioni: che tradurrò anche in interrogativi e (forse un po’ troppo
presuntuosamente; magari c’è già chi ci ha pensato e già ci sta lavorando), ed anche
nel suggerimento di ulteriori possibili piste di ricerca.
Un tema su cui molto si è insistito è quello del cosiddetto arco-diaframma.
Indicandone l’eventuale rapporto con alcuni aspetti dell’edilizia cistercense e con i
suoi ulteriori presunti sviluppi in alcune realizzazioni di edilizia mendicante (in altra
occasione ho però dato una diversa interpretazione; sottolineando piuttosto, un po’ in
controcorrente rispetto alle convenzioni, le differenze tra architettura cistercense e
mendicante). E’ stato anche proposto di individuarne i lontani precedenti in alcuni
esempi dell’edilizia tardoantica occidentale ed orientale, oppure, limitatamente all’età
medievale (Savi, in << Architettura Medievale>>), ad opere architettoniche italiane
del secolo XI circa. Di massima leggendo comunque tali dati in una larga chiave
“tipologico-formale”, nella quale confluirebbero realtà architettoniche che a me
sembrano tra loro differenti (non ho il tempo di discutere questo punto) [eventuali
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altre immagini]; oppure interpretando la sequenza di archi-diaframma come scelta di
cadenzamento ritmico dello spazio interno. A me sembra che il problema possa
essere posto in modo diverso. Mi preme ciuoè sottolineare che l’arco-diframma non è
tanto una cifra “stilistica”, quanto, invece, una soluzione primariamente tecnica: la
risposta alla duplice esigenza di realizzare da un lato una facile ed economica
(tenendo in conto molti risvolti del parametro economicità) struttura a tetto ligneo a
due falde; e, dall’altro lato, e ciò in riferimento ai casi di vani di una certa lunghezza,
assicurare la stabilità (come nelle “costruzioni” con le carte da gioco!) di sistema
dell’insieme edilizio: che è antichissima sapienza di mestiere. Così l’arco-diaframma
è stato impiegato ogni qual volta è sembrato parametro prioritario la maggiore
semplicità ed economicità costruttiva, e la facilità di sostituzione (per sostituzione di
parti ammalorate, per crolli conseguenti ad incendi, od altro) della struttura del tetto.
E ciò indipendentemente sia dalla funzione cui il vano debba esser destinato (aule di
varia funzionalità: chiesastica, assembleare, conviviale, ospedaliera, produttiva, di
magazzinaggio ed anche, in età moderna e contemporanea, di carattere industriale,
ecc.). Sono peraltro ben conscio che in architettura ogni soluzione viene adottata
cogliendone anche le molte ulteriori opportunità; vale a dire sfruttando sapientemente
la capacità, insita in quella soluzione, di dare risposte a più di un ordine di problemi.
Così è certamente vero che la sequenza degli archi-diaframma costituisce anche una
cadenza ritmica dello spazio architettonico: per lo meno, a livello generale, delle sue
zone alte. Anche se, almeno nel già citato esempio di S. Maria in Capita gli archi
diaframma si appoggiano a sostegni laterali che giungono sino a terra (è forse, come
anche in casi stranieri, una semplificata applicazione alla copertura lignea del sistema
a volta cerchiata?). Comunque è piuttosto nel sottile gioco strutturale-decorativo delle
componenti fisiche dell’arco-diaframma (profilature dell’arco, forma di appoggio-
mensole od altro- alla muratura, ecc.) presente in un determinato edificio, dunque non
nell’arco-diaframma in sé e per sé, che è possibile coglierne le valenze stilistiche; e,
conseguentemente, il gioco delle assonanze e dei rimandi stilistici e cronologici. Di
qui una riflessione ed un interrogativo. Tanto l’edilizia templare quanto quella
cistercense (ma anche di altra natura e committenza) hanno dato luogo alla
realizzazione di aule ed edifici destinati all’accoglienza ed al lavoro (grangie,
magazzini agricoli e portuali, ecc.).
Secondo le risultanze (documentario-statistiche) di vari storici dell’architettura
medievale (vedi Romalli, in L’ordine ecc, pp 310-11 e relativa bibliografia in nota a
p. 311), l’uso dell’arco-diaframma compare in ambito laziale-abruzzese all’incirca
alla metà del XIII secolo. Cosicché, e proprio rifacendosi a questa datazione, Romalli
conclude che quella soluzione tecnica deve esser posta in rapporto con il diffondersi
dell’attività edilizia degli ordini mendicanti (da alcuni storici stranieri talvolta
definita, ma per me impropriamente, come “gotico ridotto”). Ma proprio tenendo
conto di quelle risultanze e dell’interpretazione che, con intelligenza critica e
correttezza di metodo, ne dà appunto Romalli, riterrei necessario aprire anche una
diversa pista di ricerca; che espongo sotto forma di domanda. Perché sino a quel
momento non si era adottata la soluzione dell’arco-diaframma o delle sue prossime
varianti strutturali? Forse perché solo in quella fase era apparso utile e necessario
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ampliare la dimensione dei vani da realizzare, aumentandone la lunghezza e dunque
rendendo necessario il ricorso a strutture di controventamento interno e di sostegno
ritmico della copertura? E conseguentemente, qualora questa ipotesi fosse
confermata, perché ciò è accaduto allora e non prima?
Grazie!
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