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Nihil obstat quominus imprimatur

Carpi, die 5 februarii a. 1940


Sac. ALDUS VALENTINI, Revisor
Imprimatur
Carpi, die 5 februarii a. 1940
C. SILVIO SABBADINI Vic. Gen.
Prima edizione: 1940 - Opera Piccoli Apostoli
S. Giacomo Roncole (MO)
Seconda edizione: 1982 - Nomadelfia, Grosseto
Terza edizione: 1994 - Nomadelfia, Grosseto
Edizione fuori commercio
“TRA LE ZOLLE” è il primo libro pubblicato da don Zeno, al sorgere dell'Opera Piccoli Apostoli, come si chiamava
allora Nomadelfia.
Scritto negli anni 1937 - 1939, fu stampato per la prima volta a S. Giacomo Roncole, in provincia di Modena, dalla
tipografia dei Piccoli Apostoli nell'aprile 1940.
AL LETTORE
Ti ho preparato questo libro. È il primo che pubblico nella mia vita, e non è improbabile che sia anche l'ultimo.
Se ti piace, leggilo penetrando l'intimità che mi ha animato.
Puoi bene immaginare che non ho voluto parlare di me stesso, né di qualcosa di mio. Finirai per comprendere di Chi ho
parlato, e a chi ho parlato.
Certe notti, pensando a tutte le persone che difficilmente potrò avvicinare, prendevo la penna e, mentre i miei figlioli
dormivano, ho scritto anche per te, quasi conversando amichevolmente e familiarmente.
La conversazione comunemente non segue le regole della stilistica scrupolosa, della cronologia dei fatti e nemmeno il
tormentoso controllo dei puristi. Corre così come nasce dal cuore di chi sa di parlare tra amici, e segue un filo
misterioso che spesso sfugge a qualunque indagine; perciò se non vorrai perderti in inutili e aride critiche, non
dimenticare questa caratteristica.
Quindi vorrei che ogni pensiero, ogni episodio, ogni squarcio d'amore che leggerai ti andasse al cuore, lo lasciassi
andare al cuore, fino a sentirti mio caro amico, fino ad amare con me una Vitalità che ti faccia provare quanto bella e
quanto buona sia l'esistenza vissuta sotto questa Luce.
Ti sia dunque questo libro un santo dono, un'affettuosa gentilezza.
Don Zeno Saltini
I IN CASERMA
Mi trovavo, richiamato, sotto le armi nel Terzo Telegrafisti a Firenze, essendo della classe 1900. Eravamo nel 1920.
Le strade, le case, le città, le stesse caserme rosseggiavano di socialismo, la stampa era un caos, la scuola un contrasto
di idee, i divertimenti poco ricreativi perché sempre qualche prepotenza li alterava. Tristi tempi.
La religione veniva presa in dispregio da una massa informe che voleva ignorare e che finì per ignorare il Vangelo; la
politica era una diatriba; alla Camera volavano persino le sedie: tutto segnava divisione e pareva terribile preludio di
una catastrofe. Nei miei vent'anni soffrivo immensamente per quel disordine.
RIMPIANTO AMARO
In caserma ero tra i soldati forse il più allegro. Strimpellavo il mandolino, la chitarra, il pianoforte.
Il mio carattere gioviale mi circondava di amici. La mia branda era sede di lieti cori, di canzoni amorose, di serenate, di
briscole, di scherzi di ogni genere.
Ma la nostra giovinezza era un tormento. Appena ci mettevamo a discutere si accendeva una lite. Mio intimo compagno
era un anarchico il quale sempre mi attaccava con le sue idee.
Egli leggeva tutti i giorni l'Avanti ed io l'Avvenire d'Italia. Egli era istruito ed io avevo lasciato la scuola a tredici anni.
Egli era furibondo contro Cristo, la Chiesa, la proprietà, lo Stato, l'ordine, la purezza.
Io avevo vissuto una vita allegra, ma anche di intimità spirituale: stavo volentieri con le giovinette però odiavo
l'impurità, disprezzavo il libertinaggio, sognavo la famiglia cristiana, l'amore sano.
Eppure ci volevamo bene. E quando andavamo fuori in libera uscita, se egli non aveva in programma ambienti
equivoci, veniva con me ed insieme andavamo nei primi teatri, al cinema o all'opera.
Sentivo in me stesso che possedevo idee buone; intuivo la Vita vera, intuivo in confuso che il mondo non doveva, non
poteva continuare così, ma ci capivo poco.
La storia non la conoscevo, la lingua non la possedevo, leggendo non capivo tutto: a volte leggevo e rileggevo un
articolo e poi non potendone afferrare il senso preciso, rimanevo triste.
Quando era suonato il silenzio, nella quiete della camerata, ripensando alle discussioni della giornata, alla miseria di
quella giovinezza, alla materialità rovinosa di tanti giovani di vent'anni, sentendo in me stesso che avrei potuto fare più
bene se avessi studiato, pregavo, ma poi finivo per piangere. Quante volte quei capezzali di caserma si sono bagnati
delle mie lacrime nel silenzio della notte, quando tutti dormivano!
Piangevo gli otto anni passati occupato nel semplice lavoro dei campi, mentre tanto mia madre e mio padre, quanto il
parroco, don Sisto, non cessavano di insistere perché continuassi gli studi.
Era tutto un mondo che in me reagiva, mi tormentava; e non lo capivo: erano la Fede, la giovinezza, la freschezza del
cuore, la lontananza della casa paterna, il ricordo delle belle serate, delle festicciole, delle serenate, delle liete brigate,
di contrasti di spirito, di amori ideali, insomma un accavallarsi di mille cose che mi tenevano desto e che a volte (quasi
acque di ruscello tra precipitose valli) mi trasportavano nell'abisso, nel vuoto, nella cascata verso l'ignoto. Un giovane,
in simili casi, non poteva che scoppiare in pianto, quasi bambino che nel pericolo o nello smarrimento per la sua
impotenza - agnello sperduto - singhiozza, si arresta, si guarda attorno... Poi piange ancora.
Era una vita di sogni che culminava in un contrasto. Dicevo tra me: perché vivere? Perché non darmi ad una vita più
benefica? Se io fossi istruito, se sapessi spiegare al popolo le idee che sento e che non so afferrare, se non facessi altro
che del bene, non sarei forse più tranquillo? Se oggi avessi saputo divertire di più quei giovani a me cari, forse non
sarebbero andati incontro a certi pericoli, forse qualcuno non piangerebbe per tutta la vita le conseguenze del male che
avrà commesso questa sera in libera uscita. Forse tutti, in pochi mesi, stando con me, tornerebbero a casa con belle e
sante idee. Invece essi dormono nella loro materialità ed io rimpiango un passato di anni preziosi quasi vissuti nel
vuoto.
Loro ignari del male che li avvinghia, ed io triste per un bene perduto.
UN GIORNO
Lo ricordo sempre al vivo: erano le 16 circa; in molti attorniavano la mia branda, parte giocando a carte, parte
cantando.
Il mio amico anarchico interruppe tutti e tutto con una notizia delle sue. Io lo riprovai, egli mi riattaccò con parole
violente, io non cedetti: nella camerata si fece d'un tratto gran silenzio. Noi due ci alzammo dalla branda su cui
eravamo seduti, e in mezzo alla stessa camerata con una foga, con un accanimento, con un entusiasmo febbrile
(insomma una cosa che ora al riviverla mi commuove) ciascuno difendeva le proprie idee, la propria educazione, le più
sacre cose della vita; figuratevi un duello spirituale all'ultimo sangue tra due povere e, diciamolo pure, esasperate
esistenze! Ma ahimè - egli istruito, io non istruito - fui sopraffatto.
Mi assalì finalmente con scherno, con offese; mi vomitò le più orrende bestemmie, maledisse tutto quanto mi stava più
a cuore.
Come in una bolgia infernale quasi tutti i soldati presenti cominciarono ad esaltarsi in favore del mio avversario: fischi,
sgarberie, urla mi costrinsero al silenzio.
Forse la mia difesa non poteva essere stata che inadeguata, chissà!
Io ricordo solo che avrei voluto dire quanto non sapevo esternare.
Vi è mai capitato di sognare un pericolo, di dover correre per salvare qualcuno e di sentirvi pesanti, incapaci di fare un
passo? Che pena, che orrore! Spesso ci si sveglia spaventati, ma subito ci si sente sollevati al trovarci nella nostra
stanza, nel letto, al sicuro in casa nostra... Invece quella pena per me non fu un sogno, fu una dura realtà. Tra i fischi mi
allontanai da quei poveri amici e mi ritirai da solo in una stanzuccia dove dormiva un sergente a me affezionato, quasi
compaesano. Di là udivo le trionfali canzoni della camerata. Mi sedetti ad un tavolo; non so quanto tempo restassi lì
immobile con lo sguardo fisso nel vuoto: sentivo che amavo quei giovani, sentivo che avevo ragione.
Una sintesi di dolore, una voce insistente pareva mi dicesse nel fondo dell'anima: non puoi, non devi più vivere così!
Presi la penna, un foglio di carta e scrissi: “Carissimo don Sisto, da questo momento mi metto a studiare legge e
teologia. Voglio conoscere il diritto e la religione”.
Andai in libera uscita, solo, per le vie di Firenze; chiesi di un professore dal quale mi recai subito; comperai i libri che
egli mi suggerì e la sera stessa ero già studente.
Allora ero ben lungi dal pensare di farmi sacerdote, ma tuttavia decisamente mi ponevo sul piano di un disinteressato
apostolato sociale.
Quanto è preziosa, penso ricordando, quanto è profondamente santa l'anima del giovane che getta a mare il fardello
dell'egoismo per darsi con slancio d'affetto al bene dell'umanità!
Dimentica generosamente se stessa e ricorda tutti; abbandona un inferno di materialità per volare sulle stesse ali di Dio
a portare la pace; rinnega se stessa predisponendosi a risollevare le miserie altrui.
II UNA PUGNALATA SULLA VIA
Appena tornato dalle armi nel 1920, essendo stato congedato in anticipo perché passato di terza categoria, andai a casa,
vi restai alcune ore, feci su due fagotti, presi una bicicletta, salutai mamma, babbo, fratelli e sorelle, e andai carico
carico alla volta di Fossoli.
Arrivai che già calava la sera, entrai sempre in bicicletta nella canonica muovendo a velocità inalterata contro don Sisto
che stava leggendo; gli feci paura come se gli corressi addosso, ma frenai di colpo! Egli esclamò: “Sei sempre quel
matto!”. Ed io: “Al staga bein”. Questa fu la cerimonia dell'incontro e del saluto.
Mi domandò: “Che fai con quei fagotti?”. Io gli risposi: “Sono venuto qui da lei perché vi rimarrò a studiare e lei mi
deve insegnare senza tante storie”. Egli (che in fondo non desiderava altro di meglio): “Che bazza!”.
Io: “A gh'è poc ed baza! An n'iva pieser che a studiis? Al ciapa mò su! (C'è poca bazza! Non aveva piacere che
studiassi? Ne subisca le conseguenze!)”. Andammo poi insieme a dire una preghiera in chiesa, salimmo insieme le
scale della canonica, mi assegnò la stanza che più mi andava a genio, lavorò da bagnarsi di sudore per aiutarmi a
preparare tutto: uno scaffale per i libri, uno scrittoio, ecc.
Cenammo con la stessa intimità come se fosse aumentata la famiglia di un figliolo, la sera andammo a letto tardi perché
facemmo una meravigliosa conversazione, e l'Erminia (della quale parlerò poi) non sapeva nascondere la sua gioia,
tanto presentiva il trionfo di don Sisto su di me. Povero don Sisto! Quanto l'ho fatto tribolare e soffrire!
Mio babbo di santa memoria diceva spessissimo ai suoi amici, a quanti aveva occasione di parlare: “An gh'è peder egh
voia bein a un fiol cumè al prit ed Fosel a mè fiol Zeno (Non esiste padre che voglia tanto bene ad un figlio quanto il
parroco di Fossoli a mio figlio Zeno)”.
Era proprio così.
Restai presso don Sisto poco più di due anni. Ivi ho agitato in me i più appassionanti problemi, ivi ho imparato ad
amare in Cristo i fanciulli del popolo da un punto di vista soprannaturale, ivi ho imparato a trovare nei libri le nozioni
che mi occorrevano, lasciando in disparte il superfluo; ivi ho insomma vissuto una vita di lacrime, di fatiche, di
apostolato, di vittorie, di sconfitte, di generosità e di ingratitudini.
“Fossi un santo”, vado spesso ripetendomi, quando mi accorgo che non sempre sono pronto a tuffarmi nel mare delle
mie accettate procelle per salvare i naufraghi. “Fossi un santo!”, vado esclamando tra me quando mi accorgo che
perdo... In piccole sfumature tutto quello che tra le pareti di quella benedetta canonica ho sognato come immensamente
bello. “Sangue, sangue, sangue di anima”, sussurro spesso nel mio spirito quando il mondo che è in me e nei miei
confratelli, nel popolo stesso mi sbarra la via e tenta di farmi perdere di vista il divino ed infallibile orizzonte intravisto
in quella canonica di Fossoli.
Tu che leggi, di' per me una preghiera a Gesù, perché mi sopporti e mi ami fino al punto da rendermi idoneo a morire
ogni giorno in me stesso, rinascendo in Lui per la vita dei miei poveri bambini.
LA PUGNALATA
Io non vi posso raccontare la fatica che mi costava lo studio. Mi sembrava a volte di essere una lepre dei campi legata
ad una sedia, gli occhi e la mente sui libri, costrettovi tenacemente dalla mia stessa volontà, che alle volte odiavo,
perché troppo violenta.
Nel 1922 tentai un esame, la licenza di quinta ginnasiale.
Non dissi a nessuno il mio proposito, tranne che a don Sisto. Mi iscrissi ed andai al Muratori di Modena. Un disastro.
Un fallimento. Alcuni giorni dopo gli esami, rifeci quei ventidue chilometri in bicicletta solo soletto con il cuore
trepidante. Arrivai al Ginnasio Muratori, mi avvicinai all'albo, non volevo guardare, e guardai i voti: zero, due, tre, due,
quattro, zero, due, tre, quattro... Più di quattro non ricordo di aver meritato. Arrossii davanti all'albo, mi guardai attorno
nella speranza che nessuno mi riconoscesse, me ne andai con la bicicletta a mano. La gente mi sembrava tutta più
fortunata di me.
C'erano in una via dei fanciulli che giocavano; mi fermai a guardarli, li guardai ancora, poi ancora, poi ancora.
Passavano dei giovanetti in bicicletta fischiettando: li seguivo con lo sguardo del cuore infranto fin che li vedevo, fin
che li udivo. Le case, i palazzi, l'aria, tutto pareva mi dicesse: “Ti siamo assenti”. Ma perché, pensavo, ma perché tanto
dolore su questa mia povera e giovane esistenza?
Uscito di città camminai ancora a piedi così senza una meta voluta, diretto quasi per forza di inerzia verso il nido della
mia fanciullezza, Fossoli, nido mio nel quale un cuore amico avrebbe accolte e baciate le mie lacrime. La vita pareva
mi volesse ricacciare nel nulla. Salii poi in bicicletta e, appena solo nell'assolata e deserta strada Modena-Carpi,
finalmente scoppiai in un dirotto pianto.
“Ventidue anni!”. Pareva un'eco del mondo che mi prendesse in giro. “Ventidue anni”.
Appoggiai la bicicletta contro un tavolo nella sala della canonica. Ero arrivato a Fossoli passando davanti a casa mia
senza entrare. Andai nell'orto, accesi una sigaretta, mi sedetti ai piedi di un albero, appoggiandovi la schiena, voltato
verso la campagna. Non volevo vedere nessuno. Don Sisto, poveretto, stava peggio di me, mi si accostò e disse: “Ti è
andata male. Povero Zeno!”.
Mi conosceva tanto da capire che non era il caso di parlare troppo, avrei sofferto di più.
Se ne andò non so dove, forse davanti al tabernacolo. Dopo parecchio mi trovò in piedi contro un roseto: avevo in
mano un giornale, ma non leggevo. Mi posò paternamente le mani sulle spalle e mi domandò: “Che cosa stai pensando
con tanta mestizia?”. Io, mentre lacrime abbondanti mi calavano sul volto e sulla giacca, lo guardai forse con due occhi
da bambino ponendogli sotto gli occhi il giornale, e risposi: “Don Sisto caro, vorrei poter scrivere qualche cosa di santo
su queste pagine... Devo, voglio riuscire”.
Povero mio amato sacerdote! Non pronunciò parola, solo abbassò gli occhi e se ne andò, le mani penzoloni,
mormorando sommessamente: “Mah, che belle idee!”.
III ORIZZONTI LONTANI
Superato nel 1923 la licenza liceale, mi ero iscritto alla facoltà di giurisprudenza presso la R. Università di Modena.
Non avrei mai creduto di ripiombare in crisi di spirito.
Eppure, andavo a scuola qualche volta ma ero stanco; più che studiare, o ascoltare i professori, leggevo per mio conto,
mi interessavo di tutto fuorché della scuola.
Un fatto più importante e più urgente mi creava una situazione di spirito che nessuna scuola avrebbe potuto propormi.
Avevo una buona motocicletta, andavo anche a svolgere un entusiastico apostolato tra le organizzazioni della Gioventù
Cattolica. Pensavo di studiare poi nei due ultimi anni; tanto avrei avuto meno da faticare che al liceo. Per quello che
cercavo io e di cui avevo prepotente bisogno, anche l'università aveva per me una tara di programma del novanta per
cento. Tu che hai la pazienza di leggere queste povere righe, hai la sensazione di ciò che può essere un giovane? Io
l'ebbi, questa sensazione, tanto che mi conquise. Cercare degli amici, stare in loro compagnia, divertirmi con loro,
migliorarli, amarli molto, fino al punto di volerli santi nello spirito, compiangerli nelle loro miserie morali, incitarli alle
più belle opere di carità.
Questo diventò per me un tormento.
Povera gioventù! È l'età più infelice, è un vivaio continuamente calpestato, invaso dal nemico. I giovani sanno molto
meno di quanto dovrebbero sapere, soldati che nella gran massa spesso sono dal nemico disarmati e umiliati.
I giovani sembrano allegri, sembrano robusti, invece sono infelici, infelicissimi perché nel mondo d'oggi pochi li
comprendono.
Quanto meschini sono quegli uomini che dicono con palese malizia ai giovani: “Divertitevi finché siete in tempo”.
Questi vecchi maligni ormai logorati dalla passione, ormai ciechi nell'anima, ormai incapaci di amare seriamente una
sola donna; questi rimbambiti che quando girano per le vie ad ogni sottana che vedono, nello sguardo, nel contegno si
trasformano in serpenti avvelenati, hanno anche la crudeltà di eccitare la gioventù a fare quanto per loro non sarebbe
più che bestialità senza il più attenuante filo d'amore.
IN TRENO
Venivo appunto, una sera, dall'università. Salii in treno, mi sedetti in uno scompartimento dove erano quattro uomini
che stavano parlando di affari, e mi misi senz'altro a leggere una rivista.
Proprio prima che partisse il convoglio passò per il corridoio una figura di donna, certamente una sgualdrina. Questi
quattro signori, questi quattro poveri di mente e di costumi, troncarono d'improvviso i loro ragionamenti sugli affari,
chiamarono con le parole più frivole la disgraziata giovane... Bisognava vederli... Mi facevano pensare al seguente
passo dantesco: “La bufera infernal che mai non resta, mena gli spirti con la sua rapina: voltando e percotendo li
molesta”.
Capirete, non che io a vedere una donna diventassi rosso o mi confondessi, ma per l'anima mia di giovane, di studente,
di figlio di famiglia, di cristiano, di apostolo volontario tra i giovani ed i fanciulli, anima tormentata giorno e notte dal
desiderio di vedere la gioventù migliorare, trovarmi in quella terribile scena, vedere quegli uomini e quella disgraziata
diciottenne... Due idee mi ferirono il cuore: se fossero mio padre? Se quella fosse mia sorella?
Scattai in piedi, gettai sul sedile la rivista che tenevo in mano, guardai quella giovane con compassionevole affetto,
presi la parola. La ragazza arrossì al solo mio sguardo: credo che avesse letto nei miei occhi forse l'affetto di un fratello
accorato; se ne andò subito. Quegli uomini rimasero come costernati. Io dissi pressappoco così: “Perdonate se mi
permetto di parlarvi. Potreste essere ciascuno di voi il mio babbo. Come vedete io tremo quasi a farvi un affronto... Se
quella ragazza fosse vostra figlia, che ne pensereste? Eppure non avrà essa una mamma, un babbo, un fratello? Siete
crudeli, eppure mi fate compassione, e vorrei dirvi tutto il dolore che fate provare a me, povero giovane, al solo
pensiero che avrete anche voi una famiglia”.
Nessuno dei quattro resistette al mio sguardo forte, autorevole, di quella autorità che Iddio direttamente posa sui figli
quando i padri la bistrattano, di quella autorità, appunto perché del tutto divina, che arresta, confonde, domina senza
coercizioni di sorta. Abbassarono pian piano la testa, rimasero muti: io ebbi per loro le più dolci, filiali parole
esprimendo i più alti pensieri; mi sarei buttato finalmente tra le loro braccia, li avrei baciati e pregati di capire tutta la
loro aberrazione.
Rimasi anch'io poi senza parola; il treno col suo caratteristico rumore solcava veloce la buia notte. Uno di essi verso la
fine della corsa alzò il capo, ebbe il paterno coraggio di guardarmi in volto e con affetto mi disse: “La ringrazio, caro
giovane. Ci ha dato una terribile lezione che non dimenticheremo mai, scampissem mill ann, anche se vivessimo mille
anni”. Si fece di nuovo silenzio. Ci salutammo alla stazione, ciascuno andò verso casa: si divisero l'uno dall'altro subito
nei viali della stazione stessa.
Iddio solo sa che cosa ne sarà stato, dopo, di ciascuno di essi.
Quanto a me, mi rimase un solco di dolore; cenai, uscii, andai al cinematografo, stetti un po' in compagnia di alcuni
amici; ma il mio cuore, il mio essere era tutto pervaso dal quel ricordo. Finalmente salutai i compagni, ma non andai a
letto, mi avviai solo per le vie di campagna, per viottoli e sentieri che portavano a Fossoli; mi sedevo di quando in
quando, pensavo, non so neanch'io dire che facessi.
Ero solo, ma non ero solo; il mondo mi appariva in quella notte di quiete campestre sempre più triste, sempre più
infelice.
Albeggiava già quando arrivai dal mio vecchio amico, da don Sisto, che da parecchio tempo non avevo veduto.
Quella mattina era come al solito giù nell'orto in preghiera recitando l'uffizio o meditando.
Al vedermi arrivare così presto a piedi, e sapendo anche che al mattino mi piaceva stare a letto, penso che sarà rimasto
molto sorpreso, anzi turbato. Fece finta di niente, mi trattò come sempre. Io pure tentavo di essere indifferente,
facendolo un po' tribolare con i miei soliti scherzi, eppure già presentivo che un nuovo cambiamento sarebbe avvenuto
nel corso della mia vita.
Andai alla sua Messa, stetti presso di lui tutto il giorno, riposai. Egli immaginava che una crisi di spirito, tra le tante, mi
aveva preso. Avrei voluto dirgli tutto, ma non lo feci perché temevo di sentirmi ripetere un ritornello che mi tornava
molesto, mi avrebbe detto: “Vedi, tu sei chiamato a diventare sacerdote”. E quando mi dava questa sentenza io mi
irritavo, e alle volte gli rispondevo: “Mi scusi, ma questa volta lei non capisce niente! Non sa proprio dire altro? Vuole
che tutti si facciano preti? Che mania!”. Egli, poveretto, mi compativa e aspettava così l'ora di Dio.
L'ERMINIA
Era la perpetua di don Sisto. Vecchia, brutta, gobba, o meglio, attorcigliata; pettegola come quasi tutte le perpetue, ma
molto buona.
Quando andavo là, mi serviva come una mamma, mi sopportava come una santa, mi consigliava il bene come un
angelo. Mi teneva sempre pronto il mio letto, mi cercava i cibi che sapeva da me preferiti, mi metteva sempre sul
comodino qualche libro di santi. Lo credereste? Io di notte li leggevo qua e là, poi al mattino glieli buttavo sulla tavola
in cucina, fingendo di non averli letti e avvertendola: “Si ricordi bene che se mi torna a mettere di queste robe da frati
sul comodino non vengo a Fossoli”.
Ma lei taceva; e la sera dopo ne trovavo uno fresco.
A volte le domandavo: “Erminia, perché non si è sposata?”. Lei mi rispondeva: “Mi sono sposata al Signore”. Io mi
mettevo a ridere e a dirle: “Va mò là che il Signore s'è preso un bel tipo di sposa!”. Lei se ne aveva a male e con forza
mi spiegava che il corpo non ha a che fare, che davanti a Dio la bellezza che vale è quella dello spirito. Certo, aveva
ragione, ma io continuavo a tormentarla; lei, quando non poteva più, finiva col dirmi: “Insomma, in Paradiso saremo
tutti belli”.
Quella mattina come si alzò e mi vide, intuì che nel mio spirito soffrivo molto. Mi offrì un caffè, mi domandò se
desideravo un po' di frutta, andò a raccogliermi alcune buonissime prugne. Povera Erminia! Le donne non sono sempre
capaci di tacere.
Si sforzò parecchio, ma finalmente mi disse una frase che oggi posso anzi dire sia stata una specie di profezia. Non la
scrivo su queste modeste pagine, ma rimane ancora impressa nel mio cuore, mi è ancora guida nelle aspre difficoltà del
mio apostolato di Ministro di Gesù Redentore.
***
Quanta distanza tra quei disgraziati signori che la sera avanti venivano in treno, e quella donna che sì e no sapeva
viaggiare! Lei un tesoro di bontà e di gentilezza, loro un insieme di nefandezza; lei povera di oro, ma ricchissima di
spirito, loro pieni di soldi, ma spogli di ogni tesoro di santità; lei umile, ma grande nella sapienza che la rendeva un
angelo di carità, loro sfarzosi nel vestire, ma piccoli, anzi schiavi delle più basse passioni; lei possedeva Cristo Gesù e
loro l'avevano perduto; lei faceva con Fede il suo dovere ogni giorno, e loro tradivano le più sacre funzioni di genitori,
di sposi, di cittadini, di cristiani.
Don Sisto nell'orto pregava, l'Erminia in casa che mi preparava con affetto e con premura un caffè; il ricordo di quei
poveri signori che vedevo lì presenti nel mio stesso spirito, la frase scultorea dell'Erminia... Tutto suscitava in me non
so quali dolci note d'amore verso l'umanità traviata.
Don Sisto là seduto tra le pianticelle di quell'orto a me care per mille ricordi; l'Erminia sollecita e buona per ristorare il
mio stanco corpo di giovane certo sofferente; l'immagine di quei cari babbi incatenati dalle folli passioni... Pareva sulle
prime un labirinto, poi un'armonia, poi un'ondata di Amore Divino, poi una corrente d'inferno, poi un bisogno di
affratellarci in “un solo”, poi una tristezza... Non avevo voglia di dormire, nemmeno di ristorare il corpo, solo mi
sentivo piccolo al contatto di così misteriosa grandezza.
IV FOSSOLI
È una frazione del Comune di Carpi, un centro di operai braccianti.
C'erano allora a Fossoli due ricchi, pochi piccoli proprietari, un prete povero, caritatevole, molto istruito.
La grande maggioranza della popolazione poverissima; poverissima in tutto, si capisce: miserabile nelle idee, nella
mentalità generale; fanciulli trascurati, genitori inesperti, poca religiosità; le loro abitazioni erano catapecchie, nidi di
pulci e di malattie; lavoravano in gran parte nelle valli. Povera gente, di molto cuore, ma niente più.
LA GRANDE SCUOLA
Io sono nato tra quel popolo, fortunatamente da genitori cristiani. Vivevo con tutti, lavoravo i campi con quegli operai,
mi divertivo con loro, questionavo con loro, passavo delle serate nelle osterie lietamente con loro, nei momenti di
febbre politica eravamo in perenne lotta, ma amici, mai separati.
Non erano infrequenti là anche le liti violente. Nel breve tratto della mia giovinezza sono stato quasi spettatore di due
omicidi.
L'arma dei fossolesi era il coltello. Un mio compagno una volta mi assalì con una roncola; dopo esserci un po' arrotolati
nel prato (io quasi incolume, solo appena graffiato un braccio), eravamo più amici di prima.
Mi accorgo ora che in quegli anni nei quali crescevo alla vita ho imparato molte cose.
Fossoli è stato per me un gran libro, dopo il Vangelo.
Quel popolo nel quale io stesso mi confondevo era stato trascurato, era stato dimenticato; quel popolo soffriva; quelle
madri non sapevano come scaldare e nutrire i loro piccini nella crudezza dell'inverno; molti miei compagni delle scuole
elementari portavano sul volto le stigmate della sofferenza... I ricchi non sapevano crederlo; il cristianesimo di fatto
non era praticato che da pochissimi; i cattolici in gran parte avevano molte parole, ma poca carità, poca premura per
quella moltitudine di miserabili... E se non ci aiutiamo nella miseria a che cosa si riduce il nostro cristianesimo?
Io non posso ricordare la mia giovinezza di fossolese senza pensare con ribrezzo e con indignazione a tutta quella filza
di farisei, fatte le debite eccezioni, che si spacciavano per religiosi, ma che erano gretti, freddamente indifferenti alle
miserie così palesi dei loro fratelli in Cristo.
FOSSOLI UNIVERSALE
Quando venni chiamato alle armi in tempo di guerra andai in treno per la prima volta.
Fui a Mantova, a Brescia, nella Val del Chiese, sul lago di Garda; fui congedato, fui richiamato a Firenze, poi vissi di
nuovo a Fossoli, poi a Modena, poi a Carpi, poi a Verona, poi all'università di Milano; ho girato un po' tutta l'Italia, ho
studiato con interesse la storia, la vita dei popoli di tutto il mondo, dal 4 gennaio 1931 sono sacerdote... Ebbene, tutto il
mondo, tutti gli ambienti si chiamano Fossoli.
Ho imparato che non ho imparato niente di nuovo, ho imparato che le miserie, dopo venti secoli di cristianesimo, sono
troppe, e proprio tra i cristiani, perché di Cristo in molti non c'è che il nome e il Battesimo mille volte sepolto
dall'egoismo e da un tenore di vita praticamente pagano.
Ho imparato che l'insuccesso attuale del cristianesimo nelle folle, e le miserie di un popolo sono dovute al fatto che -
come pressappoco dice Giovanni Papini - tutti parlano di Cristo, pochi Lo conoscono e pochissimi Lo seguono... Come
accadeva a Fossoli quando ero fanciullo.
Tutte le cose che già si erano impresse in me vivendo in quel piccolo territorio tra il canale e Fossa Nuova, tra Cibeno e
il Cavone, in una chiesa senza campanile, dove viveva un sacerdote esemplare che è morto poi poverissimo, perché
ogni giorno si faceva in Cristo povero con i poveri, per i poveri.
Tutte cose che sentivo già e vivevo a tredici anni quando andavo alla mia chiesa a ricevere il Re dell'Amore, quando
don Sisto mi leggeva la carità del Curato d'Ars, di don Bosco, di S. Filippo Neri, di S. Paolo, di S. Giovanni
Evangelista, di S. Stefano, di Cristo stesso.
TORNASSI FANCIULLO NELLA MIA FOSSOLI!
Sì, tra quei campi, scalzo, scherzoso, intimo amico di altri fanciulli, anche dei più poverelli; tra quei fanciulli con i
quali andavo a cercar rane, a pescare nelle valli, con i quali, seduto sotto gli alberi, dividevo un grappolo d'uva senza
bisogno del piatto elegante, vicino al mio povero don Sisto... Passate pure voi cittadini vestiti bene, in macchine di
lusso, raccontatemi pure le meraviglie della città. Non mi movereste ad invidia o a stupore. Vi sorriderei di
compassione in faccia e vi direi contristato: e perché anche voi tra così bei doni che Iddio vi concede siete rimasti
infelici e divisi, e senza carità come siamo noi di Fossoli?
Voi vi commovete se il cagnolino di razza che portate in automobile prende il raffreddore, e non avvertite che nei
tuguri, nelle soffitte delle vostre belle città migliaia di fratelli piangono per le più aspre sofferenze; voi sperperate
capitali preziosi nel lusso e nella lussuria e non avvertiti i vagiti di corpicini innocenti di poveri bambini raggrinziti dal
freddo; voi custodite ed educate le vostre figliole, ma troppo spesso non vi commuove la rovina di povere giovanette
che voi stessi traviate; voi siete egoisti come anche noi siamo egoisti... Sapete far tutto, ma come noi anche voi non
sapete amarvi l'un l'altro come Cristo ci ha amati.
E non sapendo far questo, il vostro progresso è un'illusione; anzi una specie di vipera che esce dal letargo per
avvelenare ancora più celermente lo spirito della creatura umana.
V LA CARNE
Chi mai non è spesso alle prese con la carne? Alle volte pare proprio essa la signora del mondo. Imperatori, uomini
illustri, santi, giovani, sposi, vecchi, fanciulli si sono visti apparire la maligna sotto mille aspetti affascinanti, ora come
generosa espressione d'amore che si trasformava poi in tiranna passione, ora come passeggero capriccio che non
avrebbe dovuto lasciar traccia... Ma sempre catastrofica.
Essa ha visto precipitare per le sue gesta le più agguerrite fortezze; ha potuto crudelmente e freddamente vantare di aver
superate e varcate le soglie più custodite; ha fatto cadere sanguinose rivoluzioni; ha avuto al suo servizio le più alte
personalità... E ne sanno qualche cosa in proposito le corti, la diplomazia, lo spionaggio; ha potuto vedere le più tenere
esistenze - bambini innocenti - senza tetto, senza mamma, senza pane; ha potuto e può ostentare le più orrende malattie,
ha potuto ascoltare dall'alto del suo impero i pianti degli innocenti, le accorate lacrime delle povere madri abbandonate
dal folle marito; ha potuto sghignazzare allo spettacolo di ospedali rigurgitanti, sui quali il mondo può con spavento
scrivere: “I trionfi terrorizzanti della carne”.
Essa è la signora delle carceri; scorrazza nella città, nella grande città... Ha al suo servizio la musica, l'arte, le macchine
di lusso, i palazzi, i castelli, i laghi, l'oro a profusione anche quando non ce n'è per chi ha fame, anche quando non ce
n'è per salvare la patria in pericolo.
Essa ha persino saputo vantare dai suoi sudditi i più inauditi atti di eroismo; un padre nega ai figli un pane per darlo alla
carne, una madre non sa più ascoltare le lacrime e apprezzare lo sguardo innocente e costernato della piccina
abbandonata, per seguire gli inviti della carne; essa si è sbizzarrita anche stroncando col suicidio le più preziose e
giovani esistenze. Ha saputo vuotare le chiese; fa girare le grandi rotative per le sue pornografiche riviste; ottenere di
tener deste nel tormento chissà mai quante vittime, far stupidi anche quando si direbbero esperti; incretinire anche i
professori più acclamati; dominare con un filo di ragnatela persino i più forti guerrieri; ha saputo spesso essere padrona
dei più assoluti e crudeli padroni.
Tra i suoi più grandi successi può annoverare il paradosso di molti filosofi, letterati, teologi, i quali, non sapendo
liberarsi dalla schiavitù della carne, hanno piegato anche la ragione fino al punto da giustificare i più crudeli delitti.
Le leggi stesse non si sono sempre mantenute autonome dalla carne . Anzi spesso proprio la legge ha reso i più grandi
servigi a questa riverita e maledetta signora della terra, regina della terra.
E la civiltà moderna si risolve in due concetti: asseconda in tutto la carne, ne piange le conseguenze ed organizza le
grandi opere di assistenza alle vittime.
La civiltà moderna si è resa un mostruoso esercito che passa sull'innocenza come un Attila, solo differisce per il fatto
che ha al suo seguito, in coda, le ambulanze per raccogliere tra le fumanti rovine i frantumi di ciò che era e non sarà più
purezza: orfanotrofi, ospedali, carceri, case di cura, sanatori, ecc.
Insensata gente moderna; se non previeni, a che serve la tua filantropia?
Stando nascosta getti nel turbine folle la bella e fiorita fanciulla, poi ti fai avanti sotto falsa bandiera di filantropo o di
giudice a raccoglierne delicatamente uno straccio.
VI LA COESIONE
Noi guardiamo e maneggiamo i corpi, e mai o quasi mai pensiamo che essi sono perfusi da una grande legge: la
coesione. Appena due corpi sono perfettamente aderenti si attaccano purché siano di natura omogenea o almeno non
contraria.
La colla non è altro che un corpo il quale aderisce perfettamente ad altri corpi tanto che la coesione può agire secondo
la sua legge. Gli atomi, le molecole aderiscono l'uno all'altro e formano tanto un granellino di sabbia quanto un enorme
elefante.
Il tuo naso è attaccato alla faccia, la tua testa sta attaccata al corpo, il tuo piede sta attaccato alla gamba non per la sua
volontà, perché tu abbia saputo attaccarli, e nemmeno per un'intelligente e consapevole abilità di tua madre, ma perché
c'è una legge nel tuo corpo: la coesione. Se fosse ciò in tuo potere, chissà mai quante volte alzandoti avresti dimenticata
la testa sul cuscino.
Ebbene ciò significa che i corpi si amano persino nelle loro parti più piccole, nelle molecole, negli atomi.
Se non si amassero così, poveri noi...
Ecco un eloquente esempio di ciò che può essere l'amore: una forza, una perfetta aderenza, una legge santa, una divina
coesione degli spiriti umani.
TESTARDAGGINI
Ma sapete che noi creature umane spesso siamo dei bei testardi?
Siamo fior di egoisti, siamo gli sterminatori dell'amore.
Due stupidi giovanotti, uno maschio e l'altro femmina si abbagliano, e mentre bestemmiano dicendo di amarsi,
commettono un reato contro la legge dell'amore e della moralità, contro un comandamento di Dio. Se non siete sposati,
qualunque atto sensuale tra voi non è amore, ma lesione alla legge dell'amore.
Argomento difficile questo, perché agli ubriachi è quasi inutile dire che l'alcoolismo è un male. Come può un uomo
amare la sposa di un altro?
È una passione sregolata, è un delitto, altro che l'amore!
Lasciala stare, pensa ad altro, incretinito che sei: se tu veramente l'amassi non penseresti neanche a lei, ma godresti al
saperla sposa fedele ed amorosa di suo marito.
Ebbene, ma pensate che aberrazione! Quegli illanguiditi scalfarotti o pettirossi libertini moderni hanno rubato alla
parola amore il suo senso e adesso per amore si intende purtroppo anche la follia di ogni aberrazione passionale.
“T'amo”, dicono alla prostituta.
“T'amo”, dicono alla giovinetta; loro che hanno moglie o che non intendono sposarla.
“T'amo”, esclamano all'adultera che è ai bagni per cure, mentre il marito le guadagna faticosamente a casa o all'ufficio i
soldi che pagano la pensione.
“T'amo, t'amo, tu sei la mia vita”, e dire che lui in quel momento tradisce e moglie e figli e famiglia, e lei, facendosi
così vipera, lo avvelena.
Si amano, dicono, e questo cosiddetto amore li rende inferiori ad un qualsiasi ciottolo che tranquillo sta insieme in
rispettoso ossequio alla legge della coesione, sta a terra in ossequio alla legge della gravitazione universale; mentre
quegli sciocchi stanno insieme contro, pazzescamente contro, la divina legge dell'amore. E pretendono di essere civili,
si credono moderni e si dicono emancipati!
VII LE LUCCIOLE
Durante la buia notte vedete nei campi tanti pallidi lumicini volanti che si accendono e si spengono. Sono le lucciole,
piccoli insetti luminosi nella notte, che di giorno non si avvertirebbero. Fanno la loro figura di notte. La notte, la
mancanza del sole favorisce quel debole sfarzo di una ben debole illuminazione.
I FUOCHI ARTIFICIALI
Di notte fanno un effetto imponente e fugace; di giorno sono insignificanti.
LA LUCE ELETTRICA
Pur essa di notte è dominatrice, ma di giorno non ha effetto. Se osservate un'illuminazione sfarzosa, di quelle che si
fanno nelle grandi occasioni sulle facciate delle basiliche e sulle torri, di sera quando è accesa, vi par quasi che superi
ogni sorgente luminosa; ma, come arriva la luce del sole, tutte quelle incandescenti lampadine ingialliscono e perdono
ogni valore, anzi rendono più brutta la facciata del tempio; si vedono i cordoni che le collegano, si vedono i trucchi
dell'artificiosità che le organizza.
LA LUCE DEI SECOLI
Noi amiamo il sole.
Il sole è sempre di moda, è meraviglioso.
Quando sorge tutte le creature, gli uccellini, l'umanità lo guardano e lo godono in una pace di sollievo. Si alza
sull'orizzonte, scalda e vivifica mentre la terra tutta si rende laboriosa; al tramonto saluta in un arrivederci le creature
che si muovono alla sua presenza, le quali, quando se ne è andato, chiudono gli occhi per riaprirli al suo ritorno.
Se l'umanità non avesse mai visto il sole, si accontenterebbe delle lucciole, delle illuminazioni artificiali e si illuderebbe
di vivere il massimo della vita.
IMMERSO NELLA MENZOGNA
Il mondo è un labirinto pericoloso. La vita moderna poi è un massacro di anime. La buia notte regna sulla stragrande
maggioranza dei viventi.
Avevo circa tredici anni. Mi pareva che avessero ragione tutti coloro che godevano la vita in ogni sua espressione
materialistica.
I giovanotti che ballavano meglio mi parevano più degni di invidia che gli altri, le giovani che erano vestite meglio e
che disinvolte familiarizzavano con quei giovanotti mi sembravano le più ammirevoli. Non tenevo in troppa
considerazione i miei coetanei, ma l'occhio del mio animo osservava i giovani liberi e fecondi di avventure amorose e
di gaie imprese.
Invidiavo i ricchi, e, giacché anch'io appartenevo ad una famiglia benestante, aderivo ad un sogno nascosto di lavorare
per aumentare la ricchezza ed essere anch'io un giorno ricco. La ricchezza concepita come il mondo la concepisce è un
castello di incantesimi nell'anima del giovanetto. Con la ricchezza tutto sarà possibile.
Sarà possibile mangiar bene, comandare sui dipendenti, sposare una donna ricca, entrare nelle classi agiate, essere
rispettati dai poveri e accettati nell'alta società; sarà possibile avere un'automobile, viaggiare, godere ciò che ai pezzenti
non è dato di godere; sarà possibile fare chissà quanto di più bello può concedere il mondo.
Così la fantasia lavora; e nell'animo adolescente si radicano sogni che finiranno per creare una concezione tutta
materialistica della vita.
Si finisce per amare solo se stessi e i pochi amici che possono assecondare praticamente quelle aspirazioni.
Così, quasi come immersa in una notte, l'anima mia veniva offuscata, ed ogni lucciola, ogni artificiosa attrazione mi
conquideva e mi adagiava nel mondo. Accettavo quella vita con tale e tanto entusiasmo da sentirmi veramente
contento.
Illusione fatale che soggioga più anime di qualunque altra forma di schiavitù.
Mi pareva che tutto il mondo la pensasse così, ad eccezione del prete e di qualche altra persona che giudicavo bigotta e
che non aveva per me nulla di attraente. Mi pareva che se tutti la pensavano così andasse bene così, fosse giusto così.
Anche quei pochi giovani che frequentavano la chiesa, gli uomini stessi mi pareva la pensassero così; infatti spesso
ragionavano così nelle loro conversazioni; e nelle loro opere praticamente troppo agivano secondo quella mentalità.
Mi ricordo che la frequenza alla S. Chiesa, che fin da piccino avevo osservato, chissà per quali motivi, poco aveva
influito sul mio animo.
Le prediche mi annoiavano, non capivo le funzioni sacre; eppure avevo l'abitudine di dire qualche preghiera, abitudine
buona sì, anzi ottima, ma abitudine superficiale.
Dalla gente ero considerato un buon ragazzo.
Infatti non mordevo nessuno come fanno invece i cani idrofobi; non rubavo, non bestemmiavo, non bisticciavo fino alla
crudeltà, ecc.
Alla gente che vive in questo secolo basta così per essere considerati addirittura santi!
Eppure tra me e Cristo Gesù, tra la mia mentalità ed il Vangelo esisteva la stessa differenza che passa tra il no ed il sì;
tra la notte ed il giorno.
E per la gente ero un bravo ragazzo!
Povera gente! Povera massa brancicante nel buio in perfetto e stridente contrasto con la luce del S. Vangelo! Non
conosce la verità, per questo si accontenta della menzogna.
UN INCONTRO
Venne a Fossoli in quei tempi don Sisto che fu nominato parroco. Era un pescatore di anime tra i più zelanti che mi
abbia conosciuto.
Io, geloso della mia mentalità, non mi risolvevo ad avvicinarlo, avendo saputo da diversi miei amici che mi cercava e
domandava di me.
Un giorno di festa mi avvicinò e mi trattò con molta gentilezza. In sei o sette mesi diventammo ottimi amici.
Il suo zelo, la sua erudizione, la sua povertà, la semplicità della sua vita, la sua canonica aperta a tutti, i suoi pochi soldi
a disposizione dei fanciulli, dei giovani e dei poveri; la sua parola di Vita dal pulpito, dall'altare, nelle conversazioni;
era tutta una pioggia dolce e benefica che delicatamente penetrava le più recondite radici del mio spirito sanandole,
vivificandole, irrobustendole. Caro don Sisto! Forse aveva intuito che anch'io un giorno avrei seguito le sue apostoliche
orme.
IN GINOCCHIO
Dopo sei o sette mesi di ministero pastorale, don Sisto organizzò una bella festa per i giovani.
La sera della vigilia la sua canonica era tutta fervente di preparativi, affollata di giovani che spadroneggiavano in ogni
ambiente, nella cucina, nella sala, nella sala da pranzo.
C'erano anche dei confessori, ma (strana attrattiva) volli confessarmi per la prima volta da don Sisto.
Si trovava nello studiolo. Entrai timido nel segreto dell'anima, ma chiassoso esternamente. Finalmente: “Don Sisto,
viene a confessarmi?”.
Mi rispose: “Mettiti qui in ginocchio”.
Bella confessione, santa confessione, punto di partenza nella vittoria di quell'anima paterna di Sacerdote che,
penetrando nei più reconditi rifugi del mio spirito, tra il mio pianto che aveva più del divino che dell'umano, dopo avere
balbettato alcune formule sacre, di vita, mi segnava col segno della croce cadenzando le parole: “Ego te absolvo a
peccatis tuis, in Nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”. Uscii dallo studio senza salutarlo, presi la bicicletta e credevo
che Satana e il mondo fossero da quel momento definitivamente vinti e schiacciati. Poco dopo a qualche amico
raccontavo la mia vittoria; altri sono andati in cerca di quella pace dell'anima.
Comunque fu per me un “dietro front” dalla notte al giorno, dalla mondanità al Vangelo.
VIII L'AMORE
Pensando alle bizzarrie della carne si rimane come spaventati sapendo che noi tutti siamo sempre in pericolo di esserne
mortalmente morsicati.
Ma non confondiamo le idee e meno ancora le basi della vita umana.
La carne non è una forza; è una debolezza.
C'è invece una forza, una grande forza che opera prodigi, che non conosce abissi insormontabili, che non ha nulla di
impossibile, ed è l'Amore.
Dice un proverbio: “A nave rotta ogni vento è contrario”.
Chi non ama è una nave rotta.
PRIMO DARDO AL CUORE
Ho preso una cosiddetta cottina a quattordici anni per una fanciulla. Vorrei sapervela descrivere. Da anni la conoscevo
e mi sembrava come tutte le altre bambine; ma quando - ella era nel tredicesimo anno - la vidi, non ricordo bene in
quale occasione, ben vestita, la guardai, mi guardò o mi parve che mi guardasse con affetto: insomma ne fui preso.
Tacete voi vecchi stupidi e libertini smidollati! Beati i giovani! Ricordo quell'età, ricordo quella tuffata d'amore.
Pensavo a lei, parlavo con gli amici di lei. Chi mi diceva d'averla vista e d'averle parlato mi diventava amico; ascoltavo
con riconoscenza chi me ne diceva bene. Nel mio spirito, nella mia fantasia, giorno per giorno mi diventava più bella.
Mi bastava incontrarla e capire che anche per lei l'incontrarmi era un dono, per essere tanto, tanto contento. Quando
pensavo a lei, me la vedevo quasi dinanzi agli occhi sorridente, buona, quasi profumato fiore di profumata gentilezza,
bella di una bellezza immagine viva della mia stessa anima; ormai vivevo di lei perché dov'era lei ivi era primavera, ivi
era la festa per me, ivi era il sogno dolce della giovinezza mia.
Quanto è possente l'amore! Vivevo in mezzo al mondo, ne sentivo e ne vedevo di tutti i colori; ma come mai quella
creatura per me diventò così candida e pura da sembrarmi un angelo? Se mi fosse venuta vicino a sussurrarmi in un
orecchio: ti voglio tanto, tanto bene; poi mi avesse guardato negli occhi e mi avesse suggerito, sii buono, puro, gentile,
generoso, perché io sono tutta tua... Capisco proprio che avrei fatto atti eroici pur di renderla felice.
Saperla felice di me, sapermi felice di lei.r
Perdonatemi, miei cari lettori, proprio per quanto mi sforzi, non so dire, non so pensare quello che sentivo tanto bello,
tanto puro, tanto irradiato di sogni che vanno espressi con la parola: amore.
Chi può cantar l'amore? Nessuno. Sono vuote le espressioni umane, mentre l'amore è una cosa del Dio infinito ed
eterno.
Dice la Sacra Scrittura che è più facile conoscere per dove sia passata una barca sul mare, un uccello nell'aria, un serpe
sul sasso, che conoscere l'anima di un giovane.
Ricordo al vivo quel mio stato d'animo e se fossi un musicista forse ve ne saprei dare l'immagine con espressioni
melodiose. Ma non dite voi freddi filosofanti o guasta-mestieri, voi pedagoghi delle estorsioni cervellotiche, voi
psicologi che pretendete di mettere l'anima al microscopio, non dite sciocchezze.
Quella non era in me né fantasia, né poesia, e nemmeno la cosiddetta inclinazione dell'uomo verso la donna: questa
certamente ne sarà stata occasione. No, no, ve lo potrei giurare. Era un raggio d'amore, era una di quelle correnti di vita
che solo in cielo ci sapremo spiegare.
E così la carne taceva, e il cuore viveva sotto l'ebbrezza di un'immagine che mi colpiva: immagine buona, bella,
armoniosa, gentile, generosa, che mi capiva, che mi sentiva, che mi guardava, che mi rifletteva. Ma sentite un po':
ricordate le prime pagine della Genesi? Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Amando intensamente
quel fiore di bambina, proprio amando ho penetrato senza avvedermene la sua realtà: l'immagine vivente del Dio
vivente in noi. Ho così sorvolato la carne, ho distrutto i bacilli delle umane passioni, ho visto un'anima. Sì, l'amore è
una forza divina che vede e vive, distrugge e vince.
Sarete curiosi di sapere come è andata a finire. Le ho parlato una volta tutto confuso, poi un'altra volta sulla strada... Mi
vide la mamma, mi venne vicina con una stroppa... Io capii che mi avrebbe fatta una scenetta, me ne andai, e tutto finì
così. Infatti mi fu facile comprendere che eravamo troppo giovani.
L'ho amata, e l'ho amata di un amore così profondo da rimanerne estasiato. L'ho amata nell'anima che le scoprii
attraverso gli occhi e il gentile aspetto. L'ho amata né più né meno, né in modo diverso di quanto ora amo fanciulli,
orfanelli, popolazioni, amici, nemici.
L'amore soprannaturale, cioè l'amore concepito e vissuto nell'atmosfera di spiritualità cristiana, è il più potente dei
disinfettanti, è il più benefico dei soli: illumina, riscalda, vivifica; è la grande forza, è l'espressione di Dio, è Dio stesso
in noi.
Chi non ama può illudersi di essere saggio, ma non può essere che un miserabile.
Dice S. Giovanni Evangelista: “Qui non diligit manet in morte”. Chi non ama è nello stato di morte.
IX IL COCCODRILLO
È una brutta bestiaccia. Dicono che quando ha mangiato membra umane o altra preda vistosa, piange.
Piange come piange tanta gente che al momento di un'indigestione di misfatti si prostra in lacrime, frutto del malessere
naturale e susseguente ad ogni atto di incoscienza. Può arrivare fino all'eroismo di offrire un mozzicone di candela alla
Madonna, e basta; anzi, passata l'indigestione, riprenderà da capo.
Gente pericolosa è quella; l'umanità viaggia in compagnia di questi coccodrilli ora in lacrime ed ora in assalto.
“HOMO HOMINI LUPUS”
Ecco una zona della psicologia umana tra le più grigie.
Non siate faciloni a credere troppo alle parole degli uomini “et dona ferentes”: anche quando vi fanno dei favori; ma
giudicateli dalle loro opere. Non esaltate mai fuori luogo gli uomini: potreste cadere in gravissimi inganni. Affidatevi
con tutta l'anima solo a Cristo.
Anche in coloro che noi chiamiamo buoni, spesso c'è qualche germe di cattiveria o di inesattezza per cui potrebbero in
buona o mala fede farvi vittime.
E quanti uomini rivestiti di autorità hanno ecceduto fino ad atti crudeli! La storia è spesso una spaventosa visione di
babbi, di mamme, di superiori che hanno abusato della loro posizione per soddisfare ad aberrazioni personali addirittura
diaboliche.
Chi varcasse la soglia di molte case e avesse l'occhio sano del giudizio, assisterebbe all'abuso ripugnante dell'autorità
dei genitori sui figli innocenti che, ignari delle finalità della loro esistenza, sono costretti a subire un regime di vita del
tutto contrario allo spirito di Cristo.
Perversi loro, educano perversamente i figli; egoisti loro, abituano all'egoismo i figli; indifferenti loro, trasmettono
l'indifferenza religiosa ai figli; atei loro, trasmettono l'ateismo ai figli; uccisori di prole nascente loro, trasmettono il
sistema della limitazione della prole ai figli; traboccanti di odio verso il prossimo loro, trasmettono nell'anima dei figli
il veleno dell'odio.
Non siate poeti delle nuvole nel giudicare la famiglia moderna; ormai essa in gran parte è inquinata fino al midollo di
egoismo, tant'è vero che tra famiglia e famiglia c'è sempre un abisso di distanza. La famiglia ricca alleva la prole
noncurante delle miserie dei vicini, spende, spande, banchetta, passa di villeggiatura in villeggiatura; al figlio che è
stato promosso a scuola offre mille premi, e viaggi, e gite, mentre non si adatta a pagare un quaderno al figlio di un
disgraziato vicino, forse più intelligente e più volonteroso del proprio. Se parlate loro di queste dure realtà possono
anche arrivare a darvi ragione. Piangono le loro malefatte, ma, veri coccodrilli, continueranno a sbranare i diritti del
popolo e i doni di Dio per crepare di indigestione dei loro errori sociali.
Guardatevi dal confidare solo negli uomini; “Maledictus homo qui confidit in homine”, dice la Sacra Scrittura,
maledetto l'uomo che confida nell'uomo.
Siate liberi, di quella libertà della quale avete assoluto diritto: la libertà dei figli della luce.
Anche i genitori non possono oltrepassare certi limiti.
Onorare i genitori non significa aderire ai loro eventuali misfatti. Se nella tua famiglia ci fosse abuso di autorità, se ti si
vietasse di santificare la festa, di istruirti in religione, se ti si comandasse di partecipare a cose contrarie alla legge di
Dio, non mancherai di rispetto, ma neppure potrai aderire. Quando poi si esamina la storia dei popoli è un orrore vedere
come l'uomo sia riuscito a commettere tanti abusi.
Lotta di classe, divisione di caste, delitti sociali esaltati ad eroismi, sangue di martiri, sfacelo di costumi, parassitismi
protetti dai vili, inganni programmatici, false dottrine, ostacoli al bene, licenziosità al male, incoscienza dei prepotenti
che ascendono facendosi sgabello della credulità degli ignoranti, della pusillanimità degli imbecilli.
La storia ci insegna che molte volte le più grandi sciocchezze vengono prese sul serio, e che le più lampanti verità
vengono umiliate e represse.
Quante volte si piangono gli errori di ieri, ma si vuole puntare verso nuovi disastri!
È una commedia! Si passa dalla tirannia all'anarchia, dall'anarchia alla tirannia... Si vuole soffrire mille crudeltà, mentre
parrebbe così semplice prendere in mano un Vangelo, un catechismo, seguire Cristo, sola guida, sola luce, sola verità
dei secoli, sola mèta cui tutti dal povero al ricco, dal mendicante al Re, al Papa, tutti dobbiamo tendere se non vogliamo
cadere in quella miserabile turba di stolti che hanno abusato dei loro talenti per diventare ripugnanti fedeli servitori di
Satana.
Guardatevi dunque dai coccodrilli e prima di tutto non siatelo voi.
X LE CAVALLETTE
Avete mai sentito parlare di una grande disgrazia che capita alle volte a povere popolazioni specialmente nell'Africa e
nell'Asia in modo tutto terroristico: l'invasione delle cavallette?
Si tratta di un nero e popolatissimo nuvolone di insetti grossi, che oscura il cielo e copre regioni intere, discende a terra
investendo alberi, prati, raccolti; ed in poco tempo trasforma le più ubertose campagne in deserti addirittura. Per quei
popoli non c'è tempesta, non c'è terremoto, non c'è nessuna disgrazia più grave di quella delle cavallette. Dicono che
alcuni giorni prima se ne vedono apparire qua e là sparpagliate come le staffette del terribile esercito preannuncianti,
con la loro presenza tranquilla, la vicina sventura dell'avanzata senza ostacoli del nuvolone micidiale. Fino ad ora il
mondo non ha saputo trovare un rimedio contro l'invasione delle cavallette.
SIAMO IN DISGRAZIA
Altro che le cavallette! Purtroppo sui popoli bianchi una crudele invasione di false idee, di incontrollabili passioni, di
sensualità sfacciate, di avarizie e di prodigalità, di egoismi multiformi, di irregolarità, di religiosità alterate, di
superstizioni, di ignoranza e di goffaggini ideologiche, di sistemi abbaglianti ma vuoti, hanno annerito il cielo della
civiltà, hanno avvelenato le idee basilari della vita, hanno spento le fiaccole della Fede vera e dei costumi sani nella
famiglia, nella società; hanno fatto dei popoli, chiamati ad una vita superiore, un marasma di materialisti. Disgrazie,
doppiamente disgrazie perché ormai pochi sentono o vedono la gravità della micidiale invasione. I campi dello spirito
dei popoli sono ormai uno spettacolo di aridità e di sabbie infeconde. Mancata così l'unità delle idee e scartata l'unità di
religione o anche in gran parte trascurato il problema religioso cattolico, quello cioè che Iddio vuole domini e regoli
ogni manifestazione umana, fate conto che sia stata tagliata la radice di una pianta viva. Il mondo non corre verso la
divisione e la confusione, ma cade con schianto ruzzolando nella polvere, per confondersi nella polvere, per inorridire
nella polvere, per ridiventare polvere.
Noi non assistiamo oggi ad un cozzo di interessi, saremmo troppo superficiali a pensare questo; noi oggi assistiamo ad
una conseguenza logica di premesse diaboliche accettate e volute da troppi nemici di Dio e permesse da troppi
fannulloni inerti e comodi, i quali, per non mettersi in urto con il nemico, hanno preferito non scendere in battaglia.
Fate pure a meno della Messa la domenica, fate pure a meno del catechismo alla domenica, lavorate pure nei giorni di
festa, lasciate pure le vostre figliole abbracciare tutti anche i più libertini nelle sale da ballo, lasciatele pure in giro di
giorno e di sera in compagnia soltanto del loro fidanzato o di chi dice di sposarvele, lasciate pure che i vostri fanciulli
non vadano in chiesa, lasciate pure correre tra le mani dei vostri figli le riviste scandalose, passionali, cosiddette
d'amore: lasciate pure che in casa vostra si sperperino ricchezze e non si senta il bisogno della carità per chi
strettamente ha bisogno; lasciate pure che si trascurino i Sacramenti, che si bestemmi, che si parli male sul lavoro e nei
ritrovi, lasciate pure che i più stupidi abbiano libero passo per pronunciare discorsi sempre dannosi alla formazione
spirituale delle nuove generazioni.
Siate pure grossolani fino a dire che basta non ammazzare e non rubare per essere galantuomini. Continuate pure a dire
tutti gli spropositi che vi passano per la mente su ciò che è religione e vita morale. Siete tutti diventati maestri, date tutti
sentenze, secondo voi, sapienti. Il maestro è uno solo ed è Cristo, la morale è una sola e non è la vostra, né la mia, ma
quella che voi ed io dobbiamo rispettare e seguire: la morale cattolica che viene da Cristo. Continuate pure di questo
passo a credere che l'oro, la ricchezza, la comodità, il quieto vivere sono la soluzione. Vi ingannate: di questo passo
andate verso la rovina vostra e la micidiale neutralizzazione della Fede e dell'anima dei vostri piccini.
Il soggettivismo delle dottrine moderne è una mostruosità. La dottrina e la morale vengono da Dio. Come mai potete
credere che le leggi e le verità della vita umana possono liberamente formarsi e scaturire dai vostri cervelli? L'uomo
non crea né verità né leggi; ma solo le deve studiare, conoscere, applicare, sanzionare se ha il potere, seguire se ne ha il
dovere.
Verità e leggi sono già scritte a caratteri indelebili nella natura e nella Rivelazione.
Chiunque si scosta da questa realtà o è un cervello vuoto, o è un illuso, o è uno stolto, o è un empio.
Sì, altro che le cavallette! Siamo invasi, mortalmente invasi da una specie di filossera che divora inesorabilmente le
radici della vita, della vera vita.
“QUID PRODEST...”
Dice Cristo stesso: “Quid prodest homini si mundum universum lucretur, animae suae vero detrimentum patiatur?”.
Significa: che giova all'uomo guadagnare, lucrare anche tutto il mondo, se poi corrode, rovina la propria vita?
Ma se avrete Fede, ma se agirete secondo la Fede, anche questo spaventoso flagello moderno sarà scongiurato.
Poveri popoli moderni!
Siete stati avvelenati.
XI AL S'CIFEL
C'era a Fossoli una donna che, non so per quale motivo, era soprannominata “al S'cifel” il fischio. Partecipava anch'essa
a cortei socialisti e cantava con gli altri:
Anderemo sul Monte Calvario
Dove è nato Gesù Cristo,
L'era un vero socialista
Predicava la libertà.
E noi siam nati socialisti
E noi vogliamo la libertà.
Un giorno domandai ad una donna già anziana: “Perché non avete battezzati i figli?”. Mi rispose: “Sgnor, i in né quand
l'era ed moda al sucialisum (signore, sono nati quando era di moda il socialismo)”.
Per molta povera gente il socialismo era una moda come tutte le altre. Anche “al S'cifel” andava alla moda.
Povera gente, che colpa ne avesse, io proprio non lo saprei, e credo che sarebbe molto superficiale chi volesse attribuire
ad essi gravi responsabilità.
“A LA RAMSÉINA”
La Remigina è una strada di Fossoli che si incrocia all'osteria della Giardiniera con la Streda basa e sul crocevia stava
la Casa del popolo, tempio al mondo dei ribelli e dei confusi, rimprovero ai fannulloni che mai avevano seriamente
affrontato con l'esempio i gravi problemi delle masse operaie.
Era una domenica di estate, avevo da pochi mesi intrapreso gli studi. In quella festa nella casa del popolo c'era una
conferenza dell'on. ... In occasione di un convegno scomposto e rumoroso di giovani, cosiddetti socialisti, indetto in
antitesi ad un convegno di giovani cattolici.
Terminate le nostre manifestazioni a carattere religioso in difesa dei santi principi che ci animavano, mi accompagnai
ad un mio vecchio amico lavoratore dei campi, ed andai a confondermi nel grosso della folla, alla volta della casa del
popolo.
Il mio compagno di avventura era un certo Dante Lugli, cattolico fino al midollo, battagliero fino all'importunità.
Credo che non avesse fatto più della terza elementare, ma di religione ne sapeva abbastanza per difendersi dai suoi pari
in erudizione.
Arrivati al crocevia, vicino all'osteria della Giardiniera, eccoci alle prese. Fummo circondati da un gruppo di giovani
avversari che cominciarono a deriderci: noi li guardammo con disinvolta fermezza, pronti ad entrare in discussione.
L'attacco fu facile. Ci fermammo, ed incominciai io a rispondere alle invettive pressappoco così: “Sentite: se avrete
ragione voi, non c'è bisogno di scaldarsi tanto, e se abbiamo ragione noi, il vostro urlare non conta proprio nulla”.
Si fece silenzio attorno proprio per merito dal S'cifel, una mia vecchia conoscenza, che quand'ero bambino forse mi ha
portato tra le braccia e che io amavo come si amano le creature che ci hanno accarezzato da piccini. Dominando quella
che era una folla di giovani pronti a gridare al crucifige, con un tono energicamente materno esclamò: “Tasì tut
ragazam c'a s'ì, lasel descòrer! sintèm c's'al dis. (Tacete tutti, ragazzacci che siete, lasciatelo parlare, sentiamo che cosa
dice)”.
Aribitra autorevole della situazione, al S'cifel, con la sua presenza, intervenendo di tanto in tanto nel calmare qualche
scatto di troppo calore, ci rese possibile una bella ed interessante discussione.
Dante, gongolante di gioia all'insperato successo, mi stava vicino limitandosi solo a confermare il mio dire con qualche
esclamazione: “Sicura! L'è vera. Ma per baco! L'è propria acsé!”. Durante il lungo dibattito di quasi due ore, godevo
nel vedere Dante così stranamente e con tanto accanimento a me aderente. Al S'cifel con gesti seguiva la discussione,
meravigliosa per il vivo interessamento con cui imponeva l'ordine.
Tutti giovani, ormai presi in affannosa disamina di gravi problemi, eravamo un mondo di anime divise dalla febbre dei
tempi, vittime ed attori di quella tragedia alla quale si danno mille denominazioni, ma che si può definire: tradimento
fatto a Cristo Redentore, oscuramento della Verità, pugnalata mortale alla legge dell'amore cristianamente fraterno.
Dice il poeta: “Spesse volte pianser li figli per le colpe dei padri”.
Noi giovani che avevamo diritto di crescere educati insieme, religiosamente e lietamente in santa compagnia, ci
guardavamo invece con occhi di febbre, ci assalivamo e ci difendevamo gli uni contro gli altri in un tormento che tutto
feriva di intenso ed anche spesso di inspiegabile dolore la nostra povera giovinezza.
Pochi avevano compassione di noi, molti eccitavano giovani contro giovani, quasi schiavi del triste secolo ventesimo.
Gli uni in difesa della religione, gli altri sotto pretesti fuori luogo contro la religione, contro Gesù Redentore. Questi
erano evidentemente più che altro al servizio di quei bellimbusti che dalle nostre lacrime e dalle nostre graffiature
traevano oro e posizioni, veri vampiri ipocriti che nulla avevano da invidiare ai Farisei della legge sociale e ai
Sadducei, contro i quali Cristo Gesù ebbe tanto da lottare e dai quali fu crocifisso. Gente venduta a Satana, gente senza
cuore.
Sui mille visi giovanili puntati su me come uno solo, cari e poveri avversari, leggevo un'onestà naturale sia pure in
isfacelo. Infatti, se non fossero stati, in fondo, onesti non avrebbero accettata, e, con tanto interessamento, seguita la
discussione che fu possibile perché non erano presenti i maligni caporioni. Tanto io, quanto gli altri giovani
rispettavamo le insistente e zelanti preghiere di non farci del male tra noi, rivolteci da quella povera donna, al S'cifel,
che ci manifestava alla sua maniera un grande affetto proprio maternamente protettivo.
IL PRIMO
La discussione si svolse pressappoco così:
Io domando: “Con chi l'avete?”.
Il primo (un giovanotto) risponde: “Con i preti e con voi cattolici”.
Io: “Avete sbagliato indirizzo”.
Qui un coro di fischi e di urla.
Al S'cifel: “Tasì. Finìla. Sintèm. (Tacete, finitela, sentiamo)”.
Io: “Voi non conoscete la religione”. (Fischi solenni).
“La religione insegna ad aiutarci e amarci come fratelli, e se ci sono dei preti e dei cattolici che non vi amano, essi sono
falsi preti e falsi cattolici. Voi gridate sempre in piazza: abbasso i preti, abbasso i cattolici! Ma io se fossi in voi direi
piuttosto: abbasso quei preti e quei cattolici che non vogliono fare il loro dovere, cioè abbasso i traditori di Cristo, i
farisei del nostro secolo”.
Al S'cifel: “Bouna” (Bene).
“I falsi preti, i falsi cattolici, i falsi industriali, i falsi ricchi, i falsi operai, i falsi poveri, sono tutti una masnada di
disgraziati malfattori, sono tutti i vostri ed i nostri nemici”.
Dante, alzando energicamente la destra con il dito verso l'alto: “L'è giusta”.
Gli altri stettero zitti di un silenzio di attesa.
Il primo giovanotto interlocutore non proferì parola.
IL SECONDO
Spingendo amichevolmente ed energicamente in disparte il primo con un: “Bèda c'a végna me (fatti in là che vengo
io)”, con foga mi sputò in faccia mille spropositi concludendo: “Dio non esiste”. Gli altri: “Bene! Bravo!”.
Io: “Chi te l'ha detto? Sai chi non crede in Dio? Chi non ci pensa. Ma le persone intelligenti e sapienti ci pensano,
studiano la religione e si mettono energicamente a viverla; e allora ci credono. Se ha creduto Dante Alighieri,
Alessandro Manzoni e quasi tutti gli uomini che voi stessi dite uomini grandi... Ma tu, hai studiato e vissuto la
religione?”.
Lui: “Ma che religione, faccio senza”.
Io: “Allora è chiaro che non ci hai pensato. Il tuo dire che Dio non esiste non vale proprio nulla. Ti do un consiglio:
prova ad osservare l'erba del prato, la foglia ed il fiore di una pianta, il mondo delle stelle ed il loro movimento, la
meravigliosa varietà dei viventi. Leggi la vita e la storia dei Santi, di S. Paolo, S. Agostino, di S. Tommaso, di S.
Francesco, di S. Filippo Neri, di don Bosco. Prova a leggere con serietà il Vangelo.
Se tu lo facessi, arrossiresti poi di avere osato affermare tra noi giovani che Dio non esiste.
Ditemi piuttosto: che interesse avete a dire che Dio non esiste?”.
IL TERZO
Ed ecco un terzo dei “compagni lavoratori” che risponde: “Perché chi crede in Dio deve avere pazienza e non sa fare le
rivoluzioni contro i nemici dei poveri; sopporta tutto e finisce per lasciarsi sfruttare. I preti predicano la pazienza e così
fanno degli stupidi”.
***
Come rispondere?
Che i preti predichino la pazienza è verissimo, ma non è quella predica che fa gli stupidi; sono gli stupidi che
l'intendono e l'applicano stupidamente!
Anche qui è l'ignoranza religiosa che trionfa con gli annessi e connessi.
Su questo punto ci fu molto da discutere.
A quel giovane socialista che si poteva rispondere? Come confutare in quell'atmosfera la sua obiezione che di vero non
aveva che il falso?
Per pazienza intendeva viltà, per preti intendeva i Giuda, per forza intendeva forza bruta, per religione intendeva una
corrente politica, per cattolici intendeva un partito, per rivoluzione intendeva massacro.
Mi sforzai così di dargli qualche buon lume per seminargli nel cuore l'evangelico “grano di senape” senza
menomamente pretendere risultati immediati, anzi prevedendo maggiori reazioni.
COME PRESSAPPOCO RISPOSI
“Non confondiamo le idee e la storia. Sopportare le persone moleste non significa dar ragione alle persone moleste e
meno ancora rinunciare al diritto dell'uomo.
Non può esistere vera fraternità se non ci sopportiamo a vicenda.
Se tuo padre e tua madre non ti avessero alle volte sopportato, povero te!
Se tu non sopportassi tuo fratello o tua sorella, come potreste vivere insieme?
Se non vi perdonaste i reciproci torti, che fratelli sareste? È giusto?”.
Egli: “Va bene ma...”.
Io: “Aspetta, abbi pazienza che possa anch'io parlare liberamente”.
Molti in coro: “Lasé ch'al diga, sintèm”.
Io: “Vedete dunque che in questo caso la pazienza è una gran bella cosa. Ma non solo è una bella cosa, bensì voi stessi
capite che è indispensabile come il pane. E se per vivere in famiglia ci si sopporta a vicenda, così non è possibile vivere
in società umana senza sopportarci spesso. Il padrone ha dei difetti, l'operaio ne ha anche lui. Può darsi questo?”.
Egli: “Si capisce”.
Io: “Ebbene, se egli ti paga secondo la tua giusta mercede, non lo sopporterai se alle volte è anche prepotente? Se tu sei
un bravo operaio e fai il tuo dovere perché il padrone non dovrebbe sopportarti se alle volte manchi? Fin qui è doverosa
la pazienza.
Ma se il padrone ti sfrutta o tu non fai il tuo dovere, cessa il dovere della pazienza; bisogna mettere fuori il coraggio dei
santi i quali pur dando la vita hanno rispettosamente e tenacemente protestato contro gli sfruttatori, e ciò precisamente
nel nome di Dio.
Sai perché i pagani hanno ucciso tanti martiri?
Sai perché Cristo è stato messo in Croce?
Sai perché S. Antonio da Padova ebbe il coraggio eroico di presentarsi ad Ezzelino da Romano e rimproverarlo della
sua crudeltà? Sai perché S. Ambrogio ebbe la forza di rimproverare l'imperatore Teodosio davanti al tempio? Lo sai?”.
Egli: “Sentiamo, perché?”.
Io: “Perché Gesù Cristo ha insegnato che siamo tutti uguali davanti a Dio, e che è crudele chiunque sfrutti o calpesti
una persona qualsiasi.
Perché nel nome di Cristo stesso gli apostoli ed i cristiani buoni e santi dicevano che siamo tutti uomini; perché
predicavano ai padroni che bisogna amare i servi come se fossero fratelli; perché predicavano che l'operaio ha diritto
alla giusta mercede; perché insegnavano all'operaio a lavorare e guadagnarsi la vita senza spidocchiare all'elemosina;
perché insegnavano con l'esempio, che se c'è un povero disgraziato che non può guadagnarsi la vita, tutti siamo
obbligati ad assisterlo.
Sono cose queste che potresti e dovresti sapere se fossi stato al catechismo ed avessi conosciuta e vissuta la religione
cattolica.
E così voi combattete contro un'idea e contro una Fede, contro una civiltà che, al contrario, proprio voi operai dovreste
difendere ed amare con eroismo.
Vi par giusto che per aumentare i salari o le vostre condizioni sociali la prendiate contro Dio, le sue leggi, la sua
religione?
Ma non capite che la religione stessa vi dà ragione quanto ai vostri diritti sacrosanti sul lavoro e sul miglioramento
delle vostre condizioni familiari?
Che sproposito! Vi lanciate contro quella Fede che vi ha sempre difesi e ciò perché alcuni preti falsi e alcuni cattolici
indegni non vi hanno aiutati!
Con il vostro andare contro Dio avete scatenato nel mondo un putiferio che produrrà lacrime e disordini terribili.
Ascoltatemi! Perché non date retta ai vecchi sapienti i quali sempre vanno dicendo: contro Dio non si può e non si deve
andare?”.
***
A questo punto, mentre buona parte degli interlocutori mi aveva seguito con interessamento sul filo della ricerca della
verità, altri mi avevano seguito nella speranza che inciampassi nelle loro reti per più umiliarmi e vilipendermi.
Visto che il mio dire faceva breccia sull'animo di molti, non fosse altro per farli più pensare, ne rimasero talmente
offesi che cominciarono a mormorare alla periferia, a sollevare un po' di rumore: “Dag un tai”, poi qualche offesa
banale, poi un fischio che provocò l'attacco del concerto. Pareva giunta la fine del simpatico contraddittorio.
IL QUARTO
Non ricordo come, ma sta di fatto che un quarto giovanotto prese la parola con tutta l'aria di saperla lunga, con tutto il
favore dei compagni.
Evidentemente questi speravano anche in un trionfo finale più decoroso a loro vantaggio.
Dante in quel trambusto era riuscito a rimanermi a fianco; al S'cifel si era agitata, ma invano.
La voce di quel giovanotto profeta, riconosciuto tale ed ammirato tra le file rosse, bastò da sola perché tutto tacesse.
Ricordate l'arrestarsi momentaneo del vento e dei tuoni di un imminente temporale? È un fenomeno forse dovuto al
neutralizzarsi di venti contrari, tutti però in movimento per seminare strage; ma presto riprenderanno ancora più
violenti fino allo scatenarsi della tempesta, poi tornerà il sole e la bonaccia sulla campagna martoriata. Io ebbi per un
momento la sensazione intima di tutta la rovina di quegli spiriti.
Non più uomini ragionevoli, ma anime avvelenate nelle quali l'istinto della belva che è in tutti gli uomini aveva preso il
sopravvento.
Non esagerai pensando al martirio di S. Stefano e di S. Tarcisio.
Pregai, o meglio, guardai con l'anima pacifica e serena il cielo e ricordai la preghiera di Gesù al Getsemani: “Padre... Si
faccia non la mia volontà, ma la tua”.
Mentre l'anima mia era più in cielo che in terra, quel silenzio improvviso mi fece trovare lo sguardo mio nello sguardo
del nuovo duellante il quale era già in posizione di darmi l'assalto.
Ormai ero fisicamente stanco, ma lo spirito era più pronto di prima, più fresco di cielo.
Io: “Che cosa hai da dire che già non sia stato detto dagli altri?”.
Egli: “Ho da dire che non avete parlato di un punto del quale anche voi cattolici vi siete resi responsabili. Ho da dire
che mentre l'operaio lavora tutto il giorno per guadagnare miseria, altri invece non lavorando diventano ricchi e vivono
di rendita alle spalle di chi lavora. La proprietà è un furto”.
Tutti, un coro di voci, di grida: “Bene! Abbasso la borghesia! Bisogna annegarli quei ladri! Evviva la Russia!”.
Qualche voce più violenta: “Tirg'al col a chi lèder!”.
Io tacevo e aspettavo nel Signore che impostassero liberamente la loro tesi.
Egli: “Noi abbiamo ragione, siamo stanchi di essere così oppressi. Noi vogliamo più giustizia. Voi non dite che siamo
tutti figli dello stesso Dio?
E allora perché permettere che dal sudore della nostra fronte altri abbiano a gozzovigliare, a mantenere i figli
nell'abbondanza e nello sperperio, mentre i nostri genitori, le nostre mamme, i nostri fratelli sono spesso affamati o
malnutriti; anche se siamo intelligenti non possiamo studiare; le nostre case sono tane, i nostri letti sono di pagliericcio,
la nostra vita è tutta una sofferenza, una lotta, mentre altri buttano nel lusso e nei bagordi il frutto delle nostre fatiche?
Come possono guadagnare da spendere tanto mentre noi lavorando tutto l'anno non riusciamo a procurarci il necessario
alla vita?
Ma che ci credono, cani?
Con tutte le vostre belle parole essi continuano a succhiarci il sangue.
Bisogna rompere loro il muso, bisogna bruciarli nelle loro ville, bisogna metterli al lavoro con noi e come noi. È ora di
finirla, ci vuole una rivoluzione”.
E qui un prolungatissimo applauso generale.
***
Io non avevo trovato nulla di nuovo in tutta quell'esposizione di fatti e di idee.
Quanto aveva detto quel giovanotto, in gran parte, rispondeva a verità.
Se io avessi avuto solo la mira di superarli e di riuscire vittorioso anche a costo di sostenere una menzogna, avrei
risposto con le solite balle di non pochi sociologi che vanno anche per la maggiore, ma ho ricordato il “chi non lavora
neppure mangi” di S. Paolo.
Certi ricchi che sfruttano ogni occasione per continuare a mangiare sui poveri, salutavano con ipocrita adesione tutti
coloro che si opponevano al movimento comunista, ma il lucchetto al portafoglio mai lo hanno aperto per nessuno.
Quasi tutto quello che il popolo lavoratore ha ottenuto, lo ha strappato a denti stretti e con il sangue.
“Guai ai ricchi”, esclamò Gesù. Infatti molti di essi non mai hanno saputo sapientemente e coscienziosamente
dimostrare con i fatti la funzione della ricchezza nella vita collettiva.
Si credono padroni, mentre di fronte a Dio e al popolo intelligente non sono che amministratori.
Ci sono alcuni che favoriscono la religione e pagano anche un candelotto, partecipano anche a qualche funzione
religiosa nella stolta mentalità di servirsi della religione per tenere il popolo addormentato e schiavo.
Il popolo, dicono essi, ha bisogno di credere in un Dio, in caso contrario chi lo dominerebbe? Disgraziati.
Chi la pensa così è il più degno successore di Giuda.
Povero Cristo! Quante volte purtroppo è stato tradito dal contegno del signorotto o dalla signora che il popolo ignaro e
ignorante in certi paeselli, ritiene un buon signore ed una buona signora, solo perché vanno a Messa e perché non
bestemmiano.
Le parole di quel giovane erano la voce dei secoli, il rimprovero del fratello contro il fratello, la più semplice
espressione di un fatto che da venti secoli ha da solo sconvolto intere civiltà e rovinate le più generose iniziative dei
santi stessi.
Non esiste santo che non abbia usato delle ricchezze per soccorrere le miserie e le necessità dei fratelli, della povera
gente, di quanti avevano bisogno di essere soccorsi. Non esiste un santo che non abbia collaborato con chiunque avesse
voluto indirizzare la ricchezza a queste alte funzioni sociali; non c'è parola nell'Evangelo, che giustifichi lo
sfruttamento dell'operaio e che non rimproveri a morte chiunque negherà la giusta mercede all'operaio stesso.
Non c'è trattato, enciclica e insegnamento della Chiesa che giustifichi il contegno dei prepotenti usurpatori delle
funzioni sociali della ricchezza; c'è al contrario tutta una luminosa storia di esempi, di encicliche, di dottrine cattoliche,
che confermano l'assoluta e doverosa necessità di rispettare i diritti della ricchezza in tutte le sue funzioni.
È suggestivo parlare di un Crocifisso, di un S. Paolo che per vivere faceva anche le sporte, di milioni di martiri che per
la redenzione del popolo davano non solo la ricchezza, ma anche la vita... è suggestivo parlare di santi e di santità
mentre si spolpa un pollo arrosto e si prende la magnesia bisurata per eccitare il sacco digestivo che non ne può più,
tanto lo si fa lavorare... è la falsa poesia di un falso cristianesimo, è quella riluttante poesia che genera le rivoluzioni e
che miete vittime, vittime, vittime, sempre vittime.
Hanno un bel dire certuni che il decoro, la posizione sociale esigono, esigono; ma di fronte alla fame e all'oppressione
dei fratelli, quel benedetto decoro e quella posizione sociale impallidiscono a volte fino al punto da chiedere decise
limitazioni. Troppo spesso in nome del decoro e della posizione sociale si sono calpestate le masse; né si è avvertito il
lacrimevole lamento dei sofferenti e nemmeno la divina minaccia delle spaventose ed incomposte ribellioni.
E sentendo quelle masse rumoreggiare nelle piazze protestando gran parte dei loro diritti, questi tali si affacciano alla
finestra, si fanno un segno di croce e scandalizzati esclamano: “Che mascalzoni! Che la Vergine, che Iddio ci salvino!”.
L'eco di quelle imprecazioni si annida nel cuore dei figlioli o dei familiari, e così anch'essi credono che si tratti di veri
mascalzoni.
Si tira avanti così di padre in figlio, di educatore in discepolo l'errore e l'orrore dell'abuso della ricchezza, del decoro,
delle posizioni sociali.
IL VANGELO
Se volete una nozione precisa sul diritto di proprietà non avete che da leggere il Vangelo.
ECCO L'AVARO
Un uomo ricco, a cui la campagna aveva fruttato copiosamente andava ragionando tra sé: “Che farò? Perché io non ho
più posto dove riporre il mio raccolto”. E disse: “Ecco quel che farò: demolirò i miei granai, ne fabbricherò di più vasti,
dove raccoglierò tutti i miei prodotti e i miei beni; e dirò alla mia anima: o anima mia, tu hai messo in serbo molti beni
per parecchi anni; riposati, mangia, bevi e godi”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa l'anima tua ti sarà
ridomandata, e quanto hai preparato di chi sarà?”. Così è di chi tesoreggia per sé e non arricchisce presso Dio.
ECCO IL RICCO EPULONE:
C'era un ricco il quale vestiva porpora e bisso e tutti i giorni dava grandi banchetti. C'era anche un mendico, chiamato
Lazzaro, il quale, pieno di piaghe, giaceva alla porta di lui, bramoso di sfamarsi con le briciole che cascavan dalla
tavola del ricco, ma nessuno gliene dava; soltanto i cani andavano a leccargli le piaghe. Il mendico morì e fu portato
dagli angeli in seno ad Abramo; morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno.
Alzando questi gli occhi, mentre era nei tormenti, vide da lungi Abramo, e Lazzaro nel suo seno. Allora ad alta voce
esclamò: padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del suo dito per rinfrescare la
mia lingua; perché io spasimo in questa fiamma. Ma Abramo gli rispose: figliolo, ricordati che tu ricevesti la tua parte
di beni durante la vita, mentre Lazzaro ebbe nel medesimo tempo la sua parte di mali; perciò ora questi è consolato e tu
sei tormentato. Oltre a ciò una grande voragine è posta fra noi e voi, in modo che chi vuol passare da qui a voi non può,
né da codesto luogo si può passare a noi.
Quegli replicò: io ti prego dunque, o padre, che tu lo mandi a casa di mio padre perché ho cinque fratelli, per avvertirli
di queste cose, affinché non abbiano anch'essi a venire in questo luogo di tormento. Abramo rispose: hanno Mosè e i
Profeti, ascoltino quelli.
E l'altro replicò: no, padre Abramo, ma se un morto andrà a loro, faranno penitenza. Ma Abramo rispose: se non
ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno nemmeno ad un morto risuscitato.
ECCO ZACCHEO:
Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco che un uomo, per nome Zaccheo, che era un capo dei pubblicani e
ricco, cercava di vedere chi fosse Gesù, ma non ci riusciva, perché era piccolo di statura.
Allora corse avanti e montò sopra un sicomoro per vederlo, perché egli doveva passare di là. Gesù, arrivato in quel
luogo, alzò gli occhi, lo vide e gli disse: Zaccheo, scendi presto, perché oggi devo fermarmi in casa tua. Egli si affrettò
a scendere e lo accolse con gran gioia. E tutti, visto ciò, cominciarono a mormorare, dicendo: è andato in casa di un
peccatore!
Zaccheo si presentò al Signore e gli disse: ecco, o Signore, la metà dei miei beni la dono ai poveri; e se ho frodato
qualcuno gli rendo il quadruplo. Gesù gli replicò: per questa casa oggi è venuta la salvezza, perché egli pure è figliolo
di Abramo. Il Figlio dell'Uomo infatti è venuto a cercare ed a salvare ciò che era perduto.
Quei disgraziati non hanno mai letto, o saputo leggere, o voluto saper leggere il Vangelo.
Una proprietà può essere alle volte anche parzialmente o totalmente un furto; ma è sempre il proprietario che può essere
o un ladro o un bravo amministratore dei beni di Dio.
Se il padrone ha dei beni ottenuti legittimamente e frutto di onesti commerci, diventerà senz'altro un ladro qualora terrà
per sé ciò che appartiene alla collettività, qualora non farà della proprietà un mezzo per la sua santificazione e per la
santificazione della collettività stessa.
Il ricco è un amministratore, come tutti gli altri uomini sono amministratori del Creatore; se usurpa e abusa è un ladro
condannabile, almeno al tribunale di Dio, per appropriazione indebita o per abuso delle sue funzioni sociali.
Il ricco è persona di fiducia del Creatore e del popolo. Se abusa della fiducia che ha ottenuto, la pagherà a caro prezzo.
Guarda: se tu hai un pane in mano, ti si presenta una mamma che ha i bambini affamati, ti chiede quel pane, e tu
anziché darglielo lo getti al cane, sei un mascalzone. Ti pare? Qui ce ne sarebbe da dire! Ma tiriamo avanti.
Ecco perché Cristo dice: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco vada in Paradiso”.
È evidente che Cristo parla del ricco ladro e non già di colui che saggiamente e santamente amministra i beni che Iddio
gli ha concessi. Infatti quando Zaccheo ebbe rinunciato alla parte che aveva rubato al popolo e promesso di usare le sue
ricchezze secondo la legge di Dio, Gesù lo ha lodato, lo ha consolato con la sua stessa presenza, lo ha elevato con la sua
stessa amicizia.
E se vogliamo essere un po' profondi, pensiamo che Zaccheo prima era un ladro, ma dopo, pur rimanendo ricco, è stato
onorato nei secoli fino al punto che la sua casa è diventata nella stessa liturgia della Chiesa il simbolo della casa di Dio,
del tempio, del nuovo tempio della Cristianità (leggete la S. Messa della dedicazione delle chiese).
IL QUINTO
Io avevo risposto a quel quarto interlocutore esponendo queste idee, con foga e con entusiasmo giovanile, sicuro di
smantellare preconcetti che troppo corrono tra la gente.
Quegli ne rimase talmente sbalordito che ammutolì. Stava egli stesso in confuso per riprendere la parola, quando un
altro si fece di scatto avanti. Questi si era accorto che nonostante la verità di quei giudizi sulla funzione della ricchezza,
non avevo ancora risolto praticamente la loro tesi.
Messo così di colpo il piede su terreno solido, addirittura trionfante e violento disse: “Perché ci lasciamo imbottigliare
da questo fanatico? Lui sa ragionare, ma adesso lo metto a posto io”.
***
Non vi dico tutta la gazzarra che provocò.
Ebbe fine anche quella.
Ormai erano avidi di insaccarmi a parole, per cui ancora si intrattenevano da una violenza finale.
La massa degli uditori si era talmente ingrossata che già centinaia e centinaia di occhi infocati mi erano puntati
addosso. Io stavo nel mezzo.
Per un senso di psicologia collettiva già con evidenza sentivo che l'anima di quel complesso ormai era una sola con
un'istintiva direzione: trionfare a parole sul mio dire e darmi in punizione una scarica di pugni, di calci o di legnate.
Quando sta per piovere, le anitre, le oche, le galline e simili animali si agitano con movimenti tutti strani ed insoliti. Ci
avete mai fatto caso? Il contadino a quello spettacolo dice: “A momenti piove”.
Ed io, vedendo quella singolare conformazione psichica della pressante folla di giovani che mi attorniavano compatti,
pensai ed esclamai tra me: “A momenti piove”.
***
Io dissi con forza: “Parla dunque”.
Egli: “Cun dal ciàcri as mor ed fam (con le chiacchiere si muore di fame). Perché non hai risposto al mio compagno
sulla necessità di fare una rivoluzione? Se abbiamo dei diritti perché non ci sono riconosciuti?”.
Io: “Perché l'egoismo è la marca dei tempi”.
Al S'cifel: “L'è vera, l'è l'eguìsum la r'vèina dla gint (è vero, è l'egoismo la rovina della gente)”. Egli: “E allora si deve o
no fare la rivoluzione?”.
Io: “Siamo già nel 1920, si sono fatte tante rivoluzioni, ma la storia ci insegna che molte di esse hanno finito per
rovinare di più la gente. Nelle rivoluzioni si uccidono anche le canaglie, ma molto spesso se ne preparano delle altre. E
tu che fai la rivoluzione finirai per cambiare padrone, ma difficilmente starai meglio”.
Egli: “Non è vero”.
Io: “Come non è vero? Indicami una rivoluzione che abbia ottenuto quello che tu vuoi ottenere”.
Il mio interlocutore rispose: “Io non conosco la storia perché non ho studiato”.
Io: “Non c'è bisogno di aver studiato. Perché vuoi fare la rivoluzione? Ti rispondo io: vuoi fare la rivoluzione perché
tutte quelle che sono state fatte hanno concluso ben poco. Sai come si fanno le rivoluzioni, cioè come si cambiano le
condizioni sociali del popolo?”. Egli: “Sentiamo”.
Io: “Bisogna fare come i contadini fanno a migliorare i loro poderi. Coltivano meglio la terra senza creare danni,
seminano nuovi raccolti, rispettano le piante vecchie, formano e coltivano accuratamente un grande vivaio, poi
piantano le nuove e utilizzano in altri lavori le vecchie quando le nuove saranno già in perfetta efficienza.
Così bisogna fare le rivoluzioni. Bisogna educarci meglio, bisogna affratellarci di più, bisogna abituare tutto il popolo
ad una vita più onesta e più coscienziosa, bisogna condurre le masse ad una vita più sana e più sapiente, bisogna
formare l'operaio, il lavoratore in genere, così pure lo studente ed il professionista, ad una vita più giusta.
Quando avremo un popolo bene educato, ecco la nuova piantagione.
Vedrai che anche al governo un popolo sano manderà uomini sani. Allora le leggi cambieranno perché comunemente
ogni popolo ha il governo che si merita.
Solo così ci sarà la vera libertà, ma se andate su voi la libertà non la darete a nessuno, la terrete solo per voi.
Infatti, guarda in Russia: c'è più servilismo che tra noi. Là bisogna dire quello che dicono i capi e se uno protesta lo
fucilano o lo impiccano.
Ma voi non andreste al potere neanche con la rivoluzione: vi andrebbero i vostri capi, i quali anche ora hanno i quattrini
e a voi non ne danno”.
E qui gli feci una lunga disamina dei loro capi.
“Se domani quella gente ha in mano il governo e se la roba anziché dei privati diventa tutta dello Stato comunista, quei
capi diventano i padroni e guai a chi li contraddice. Se un privato ti fa un'ingiustizia potrai protestare presso lo Stato,
ma se l'ingiustizia te la farà lo Stato, a chi andrai per protestare? Chi ti proteggerà? Vi tirate la zappa sui piedi”.
L'ambiente era diventato calmo e pensieroso. Di fatto avevo toccato argomenti che per quella povera gente erano vitali.
La paura che non facessero altro che cambiare padrone li rese tutti un po' confusi, tanto più che già avevano
esperimentato l'ascesa e l'egoismo di molti loro capi.
Essendo poi in gran parte di campagna, rimasero un po' presi dalla similitudine dei campi.
Approfittai dell'occasione per soggiungere: “Ma non avete mai sentito parlare della schiavitù? Forse io e voi siamo figli
di antichi schiavi. Chi ha liberato il mondo dalla schiavitù? Gli schiavi erano trattati come le bestie, li vendevano e li
comperavano, li adoperavano con tanta inumanità da far inorridire al solo pensarci. Quelli stavano molto peggio di noi
tutti. Ebbene chi li ha salvati?
Il cristianesimo.
Solo i veri cristiani, i quali senza fare le violenze ed i delitti che volete fare voi, ossequienti e rispettosi verso le autorità
costituite, hanno dato il sangue, hanno aiutati gli schiavi, li hanno educati, hanno convertito molti padroni, hanno
istruito le masse in modo che lentamente e, come vedete, totalmente sono riusciti a spazzare via la schiavitù.
E se oggi i poveri sono ancora trascurati, bisogna fare come facevano i primi cristiani. Infatti se facessimo così, devi
ben capire che come è scomparsa la schiavitù, con più facilità scomparirebbero le ingiustizie attuali sulla povera gente.
Miglioriamoci, se vogliamo migliorare le condizioni del popolo. Bisogna non deviare, bisogna continuare la strada
faticosa sì, ma trionfante e sicura di quel sano cristianesimo che dolcemente ha saputo migliorare le leggi, che ha
saputo perfezionare la famiglia, che ha saputo mitigare i barbari oppressori, che ha saputo insegnare con l'esempio che
siamo tutti fratelli e che la schiavitù ed il vile servilismo sono un'ingiustizia sociale.
Ma voi non mi potete capire perché di cristianesimo non sapete nulla”.
IL SESTO - SCARICA FINALE
Si fa avanti un altro giovane con tutta l'aria di tentare la rivincita, ma un fatto strano cambia la situazione.
Dante, ormai fuori di sé per il successo ottenuto, cominciò senza tanto ritegno a ridere, a sghignazzare vittorioso
addirittura, poi esclamò ad alta voce: “Ghivn di èter di vòster campion da fruster? Tant hin vin, tant a hin spassém via
(ne avete degli altri dei vostri campioni da frustare? Tanti ne arrivano, tanti ne spazziamo via)”.
Immaginate una bastonata in un nido di vespe. Fu un fragoroso scoppio di grida, un saltarsi addosso, un confondersi tra
di loro perché volando su noi, ed essendo tutti rivolti al centro finirono per saltarsi l'uno contro l'altro: fu un attimo.
Io tra quella rissa sbucai, non senza prendermi qualche scappellotto e spintone, lungo la Strada Bassa.
Di Dante seppi il giorno dopo che si era anche egli trovato lungo la Remigina pagato come me. Potei raggiungere la
casa di un mio cugino, mentre sulla strada una nuvoletta di giovani “compagni lavoratori”, staccatasi da quel temporale,
urlava ancora contro di me per alcuni minuti davanti alla casa stessa finché non mi vide scomparire.
L'on. ... Passava poco dopo trionfante per la Strada Bassa. Ormai, davanti a tanto luminare il nostro episodio si
inabissava nel dimenticatoio.
Ma Gesù cammina nel tempo.
***
Che avessi ragione io è evidente, ma tuttavia il Signore me lo ha voluto confermare con i fatti.
Se passate per S. Giacomo Roncole e domandate dei Piccoli Apostoli, molti con singolare interessamento come se
domandaste di qualche cosa loro familiare, uomini, donne, vecchi e fanciulli del popolo vi additeranno il palazzo nel
quale il sottoscritto seguendo, pur indegnamente, la via del Signore, ha potuto sollevare mille miserie ed ospita come
figli i più infelici giovanetti che il mondo ha saputo soltanto rattristare.
Forse tra questi cari miei ragazzi ve ne sarà qualcuno figlio di quei tali disgraziati e confusi giovanotti che mi hanno
percosso e che mi avrebbero voluto sbranare.
Se mi avessero ucciso, oggi non avrebbero ricevuto la cristiana ricompensa che ho creduto di fare alle loro violenze,
rispondendo con un'Opera così bella e così socialmente santa.
Io non ho fatto altro che continuare nel mio piccolo la Redenzione del mondo, una specie di vera rivoluzione che è
l'attuazione del cristianesimo nel popolo, mentre quei fanatici senza istruzione religiosa e senza Fede avranno finito per
rimanere pressappoco i disorientati di prima.
XII LO CHIAMAVANO BARILE
Facciamo questa premessa:
Altra cosa è vivere, altra cosa è saper vivere.
Ancora: altra cosa è l'essere stolti, altra cosa è l'essere sapienti.
Anche questa: l'uomo non è una bestia, ma l'uomo può anche degenerare fino a imitare la bestia, ed anche più in là.
Infatti è più difficile che un leone ammazzi un altro leone, che non un uomo ammazzi un altro uomo; fra le bestie non
esiste la prostituzione...
Eh! Non c'è niente da dire: “Viva la chiocciola, bestia esemplare”.
Ma noi brulicante formicolio di esseri minuscoli vaganti e bisticcianti su questo piccolo globo terrestre, noi
commettiamo certi spropositi, veri spropositi, degni del più sincero disprezzo.
Quale differenza nella Fede e nella ragione illuminata dalla Fede, quale differenza ci può essere tra un fanciullo ed un
altro? Tra il bambinetto figlio di un delinquente e il figlio di un santo? Tra il figlio di una prostituta ed il figlio della più
buona mamma? Tra il figlio del servo e l'accarezzato bambino dla sgniora padruna?
Nessuna, ricordiamolo bene, nessuna davanti a Dio.
E davanti agli uomini? Ecco il grande guaio: davanti agli uomini questi poveri piccini si trovano come davanti ad un
caos. Un bambino è accarezzato, curato, amato, allevato con sapiente e diligente premura; l'altro è lasciato in disparte
come un cane.
Più tardi, dopo vent'anni, l'uno sarà giudicato saggio, buono, sapiente, cittadino onorato, ecc. con tutti i vantaggi che ne
derivano; l'altro sarà giudicato imbecille, sovversivo, ladro, delinquente, brutta persona, tipo vagabondo, carattere
perverso ed impossibile, fannullone, parassita della società, ecc. con tutti gli svantaggi che ne derivano.
Che avete dunque fatto di quei fanciulli?
Povera umanità, quanto ti sei resa miserabile! Sei tu che sfregi te stessa; sei tu che vomiti sul volto di quell'innocente
fanciullino il suo doloroso ed indecoroso avvenire! E mentre ti costruisci le galere, sei tu che prepari senza pietà la più
gran parte dei galeotti. Quando li avrai finalmente rinchiusi vivi in quelle tombe, tu potrai, naturalmente, gozzovigliare
più tranquilla!
Ma perché non vuoi amare come Cristo ci ha amato? Il tuo “luccicante” raziocinio è proprio come un maledetto rasoio
affilato che taglia senza pietà le corde vitali dell'innocenza abbandonata.
Quando guardo il mondo sotto questo aspetto sento un fremito di nausea infinita.
Povera umanità, che cosa mai starai combinando ancora per la tua rovina?
Non dite che il male è necessario per conoscere il bene, e nemmeno dite che certe esperienze finiscono per tornare utili.
Il male fa male a tutti.
Per essere un eroe non hai bisogno che un tuo amico cada nell'acqua e tu lo salvi. Basterà che tu non cada nel fiume e
che cerchi di evitare tale disgrazia anche al tuo amico. La scena sarà meno impressionante all'occhio grossolano del
gran pubblico, ma davanti a Dio ed alla tua coscienza sei più eroe nel secondo caso che nel primo.
“Vita communis maxima poenitentia mea”, dice un santo. Capisci? I santi non solo dicono quello che sanno, ma sanno
quello che dicono.
Io tradurrei: la vita comune, cioè la vita di tutti i giorni, o meglio ancora, l'adempimento del dovere cristiano di tutti i
giorni, anche nelle cose meno appariscenti, è il massimo degli onori, il massimo dei meriti che un cristiano possa avere
al cospetto di Dio nel cammino dell'esistenza terrena.
Quando ho potuto vedere finalmente la vita sotto questo aspetto ho anch'io, nel mio piccolo, cercato di camminare su
quella strada maestra, e tutto ciò che ho fatto in vent'anni, da quando mi diedi allo studio, non fu per me un preteso
eroismo, né ho creduto di fare un gran che. Ho amata e curata la fanciullezza traviata, amo e curo la fanciullezza
traviata ritenendolo un dovere.
Un contadino (entusiasta del bene che l'Opera Piccoli Apostoli fa a quanti può avvicinare ed ospitare) mi disse l'anno
scorso: “Quand un hom al pol fer dal bèin al là da fer”.
Bella e giusta sentenza, la ricordo sempre.
Mai nessun uomo mi aveva detto questa verità addirittura evangelica con tanta efficacia.
“Quando un uomo può fare del bene, lo deve fare”.
***
Già studente universitario fui scelto a presidente della Federazione Giovanile Cattolica della diocesi di Carpi.
“Noi siamo voi, voi siete noi” disse un giorno il Papa Pio XI ai giovani cattolici. Quell'intima e filiale compenetrazione
dei giovani cattolici alla gerarchia di Santa Madre Chiesa, potete immaginare quanto anch'io la sentissi viva e palpitante
nel mio spirito.
Eccone la sintesi: collaboratori di Cristo Gesù nella redenzione del genere umano.
Vi assicuro che per nessun altro motivo avrei dato mano ad una forma di apostolato così penoso, se non per la Fede che
mi dava la certezza assoluta che con ciò avrei reso un servigio grato a Dio.
Non le vostre miserabili retribuzioni, non i vostri evanescenti plausi, non le vostre troppo umane onorificenze, non la
nostra passeggera approvazione possono, o signori mondani di poca o senza Fede, avermi lusingato; bisogna essere
veramente conigli per mettersi al vostro servizio.
Dio solo, ed in Dio ogni atto, ogni dovere trova la sua spiegazione, la sua ragion d'essere.
TRA LE VITTIME
Mi era, in quella carica di presidente, toccata la felice sorte di essere spesso a contatto con S. E. Mons. Giovanni
Pranzini di santa memoria, allora Vescovo della diocesi di Carpi. Veramente finimmo per diventare nelle debite
proporzioni, intimi amici.
La sera, quando avevamo tempo, rimanevo per un'ora circa nella quiete del suo studiolo, ed ivi egli mi illuminava sulle
più alte verità e mi permeava delle più squisite direttive spirituali.
Un giorno andai in episcopio, entrai, lo guardai, gli diedi una notizia: “Eccellenza, alcuni ragazzi della città sono stati
arrestati per un reato”. Poi: “Eccellenza, ma io voglio salvarli”.
Scoppiai subito in un dirotto pianto fino al singhiozzo. Non ero più capace di proferire parola; finii per appoggiarmi
alla parete e piansi forte per lungo tempo. Mi venne delicatamente vicino, quasi angelo di divino consiglio, rimase
parecchio in piedi poi mi posò la mano, quella mano che benediceva le folle, sulla spalla sinistra e disse: “Io capisco
tutto il tuo dolore, caro Zeno, è anche il mio dolore, tu lo sai. Che cosa pensi di fare?”.
“Ma, eccellenza, io voglio salvarli. La loro vita non vale come e più della mia? Mi butto come uno straccio nelle mani
di Gesù: li salverò, bisogna, è tempo di finirla con simili disgrazie che spezzano così preziose esistenze. Eccellenza, li
prendo con me. Finché sarò vivo io vivranno anche loro, e se c'è da morire di fame sarò il primo, ma li salverò”.
Il Vescovo sapeva meglio di me che quella era la mia missione o, in altre parole, la mia vocazione.
“Penso, eccellenza, di andare subito dai Reali Carabinieri a farmeli consegnare; cercherò di difenderli a fondo nel
processo, li terrò come figlioli, vedrà che saranno perdonati”.
Egli non si scompose, fissò lo sguardo nel Crocifisso, stette lì immobile per un po' mentre io, ancora appoggiato alla
parete, forse davo l'impressione di un ragazzo percosso a morte dal nemico, ma salvo, anzi pronto a discendere
definitivamente sul campo di battaglia per combattere con armi decisive, per dare la vita, in sangue goccia a goccia fino
all'esaurimento, se ciò fosse stato necessario.
Mons. Vescovo mi benedisse, mi accompagnò con lo sguardo paternamente sorridente fino all'uscita, mi formulò un
augurio tanto espressivo.
Discesi lo scalone a tre o quattro gradine per volta, andai in caserma dai Reali Carabinieri, ottenni la consegna dei
brigantelli, fui accompagnato da un carabiniere alla camera di sicurezza, guardai per il finestrino... Ed ecco farsi avanti
per primo un faccione che sembrava luna piena, con il berretto tutto sgualcito e la visiera sconquassata: lo chiamavano
Barile. Fu una grande esclamazione: “Ih! A ghè Zeno”.
Io: “Ragazzi, volete venire con me? Basta che facciate a modo vi prendo”.
Immaginate la festa. Appena il carabiniere tirò via il catenaccio, la porta si spalancò e scapparono fuori trascinandomi
con uno slancio, una snellezza, un volare che sembravano lepri fuggite dalla gabbia.
Li portai all'oratorio dove già da alcuni mesi io stesso abitavo, collaboratore di quel pio sacerdote, di don Armando
Benatti, il quale da tempo aveva organizzato un convitto per seminaristi poveri.
Procurai alcuni letti, un po' di pane e di minestra, li sfamai, li vestimmo; ed ebbe così inizio una serie di episodi e di
peripezie che vi assicuro mi fanno ancora tremare al pensarci, mentre praticamente tuttora faccio la stessa opera.
Dire di amare è una cosa, amare è ben diverso. Dal dire al fare c'è proprio di mezzo il mare.
Ho voluto amare quei birichini. Per dirvene una tra le tante, un mattino mi sono alzato e non ho potuto vestirmi e
nemmeno procurare il necessario alla famigliola, perché qualcuno di essi mi aveva rubato i pantaloni e il portafoglio
che mai più ho potuto ritrovare.
Rompevano tutto, bisticciavano spesso fino ad avere bisogno di medicature; scappavano, commettevano qualche
marachella, poi inseguiti dalla polizia, correvano da me e di nuovo facevano buoni propositi. Gli avvocati miei amici
avevano spesso da lavorare, da far difese in tribunale per salvarli dalla galera.
SENTITENE DI CURIOSE...
I
Un pomeriggio, verso sera, arriva tutta preoccupata una signorina nel mio studio.
Mi avverte: “Venga subito, Zeno, venga subito. Hanno chiuso in un pollaio uno dei suoi ragazzi. Credo che sia andato a
bervi le uova. Mi hanno promesso che se va subito lei a prenderlo non lo denunciano ai Carabinieri”.
Andai in bicicletta: che scena! Uno spettacolo addirittura.
Mi aprono il pollaio, prendo il marmocchione per un braccio, lo sculaccio sonoramente, anche a soddisfazione del
padrone, che fu veramente gentile, lo metto sulla canna della bicicletta e lo riporto con me.
II
Passavano essi una mattina in tre o quattro per il portico della città. Era il tempo dei meloni. In un abbondante e ben
assortito negozio di verdure, frutta, ecc. ecco la tentazione. Alcune grosse ceste di meloni erano lì davanti, in terra e in
bella vista. “Che fare?”, avranno pensato i birichini. Un'idea balza loro addirittura affascinante, invincibile. Fingono di
bisticciare, mentre nel parapiglia, gettano il berretto di uno in un cestone: questo, piangendo, corre a prendere il berretto
(dentro il berretto naturalmente c'era rimasto un melone)... Egli fa l'occhiolino agli altri e continuando il bisticcio si
allontanano. Finalmente al parco delle rimembranze, tranquilli, mangiano il melone.
III
Una bella mattina d'agosto, una di queste brigate di birichini (certa gente li chiamava delinquenti) gironzolavano per i
dintorni della città.
Un profumo irresistibile di gnocco fritto li ammanta. “Seint, seint, i frizen dal gnoc in cla cà là (senti, senti, friggono
del gnocco in quella casa)”.
Un'idea delle loro. Combinato, ed ecco ai fatti. I contadini stavano lavorando ancora là un po' lontani.
Uno dei ragazzi entra nel cortile e guarda dalla finestra della cucina dove scorge la massaia al focolare che volta nella
padella i gnocchetti. Una terrina larga larga era biondeggiante di gnocchi già fritti, una fascina sotto la padella faceva
una vampa abbondante.
Egli corre dietro l'uscio, e gli altri dalla strada cominciano a gridare: “Rasdòra, rasdòra, curì, curì fora: a brusa al
camèin! (massaia, massaia, correte, correte fuori: brucia il camino)”.
La donna molla tutto e corre a guardare dalla strada per vedere meglio.
Il ragazzo intanto corre dentro, scappa con la terrina per altra via, e si nasconde tra il granoturco nella campagna (luogo
di appuntamento).
Gli altri intanto chiacchieravano e tenevano in tempo la massaia.
“Capirete”, le dicevano, “abbiamo visto delle fallistre e, temendo una disgrazia, vi abbiamo avvertita”. La buona
massaia li ringrazia con un “brèv ragazòi”. Rientra, la donna, in casa e quelli scappano tra il granoturco.
Mentre la massaia corre fuori di nuovo, chiama a casa i contadini, racconta la vicenda, cercano i piccoli ladri; questi
mangiavano il gnocco fritto, e, visto tra i filari del granoturco che i contadini finalmente si erano acquietati rincasando
per fare colazione, se ne andarono frettolosi e svelti in città lasciando la terrina tra il frumentone, nel luogo
dell'avventurosa consumazione.
Tornarono così in città, come dicevano ai loro compagni, leccandosi i baffi.
***
Da questi episodi che hanno una superficie di allegria, voi potete immaginare quanto di ben più grave già avessero
commesso quei poveri ragazzi, e quale fosco avvenire li avrebbe attesi.
“Nec nominentur in nobis”, non ne parliamo, direbbe S. Paolo.
Solo vi dirò che ho fatto una diuturna profonda meditazione, che ho pregato molto; che ho sofferto tanto, tanto,
insomma quanto non l'augurerei nemmeno ad un cane.
Ed ho sofferto non solo per l'enorme fatica di rieducare quei poveri giovanetti, che in fondo quasi nulla avevano
formalmente di male, ma perché li vedevo vittime delle nostre signore trascuratezze.
Ho sofferto un mare di dolori perché chi poteva non ha voluto saperne di aiutarmi, fino al punto di ridurmi a doverli
riabbandonare alla strada. Quanto tristi furono per me e per loro quegli anni di sosta!
Le critiche sono state molte e apparentemente profonde, invece la realtà fu una sola. Ci pensi Iddio a farvela capire.
Grazie a Dio non fui vinto.
Arrivai alla laurea, poi al sacerdozio, e nel giorno stesso della prima S. Messa accettai la festa dei parenti e degli amici
nel mio spirito ad un solo patto: che il cosiddetto Barile fosse chiamato e messo tra le persone più autorevoli e più
vicine.
E da queste povere pagine ringrazio i miei carissimi amici Odoardo Focherini e Carlo Ganassi, perché ebbero la
gentilezza santa di prevenire il mio inconfondibile desiderio.
Infatti me lo vidi tra le autorità rispettato ed amato. Con la potenza soprannaturale del sacerdozio ormai ero certissimo
che più nulla mi avrebbe fermato.
Innalzando l'ostia bianca, Gesù, chiaramente contemplavo in lui la fanciullezza traviata e potevo meditare la sua voce
evangelica: qualunque cosa farai per essi sarà come fatta a me.
Nel mio spirito era chiara questa idea: quei giovanetti hanno bisogno di una cosa sola: una famiglia santa, opera di Dio,
che li accolga come figli, li ami come figli, non chiuda mai loro la porta in faccia, li tenga come figli per tutta la vita,
anche quando saranno sposati, anche se andassero in galera, sempre, nelle gioie e nelle tristezze, nel trionfo e nel
disordine: una famiglia il cui vincolo sia la stessa vita divina che anima la santità.
È la tesi che mi anima e alla quale credo tanto da darvi la vita nel Signore, più che fiducioso di potervene offrire un
esempio di indiscutibile efficacia.
Intanto il cosiddetto Barile ora è chiamato con il suo vero nome: Danilo. Nell'autunno dell'anno 1939 ha sposato una
giovane che sinceramente amava e che spero amerà per tutta la vita: Rosina.
Tutti e due sanno benissimo che la loro casa paterna è la mia casa; sanno che questa porta per loro in qualunque
evenienza rimane aperta con tanta paterna cordialità da rendere tranquilli loro e i loro figli.
Chiunque vorrà criticare questo atteggiamento o creda di trovare esagerata questa affermazione, non ha che da
attendere i fatti che nel tempo il Signore, ad uno ad uno, spero proprio mostrerà con la più generosa e reale evidenza.
Potrei anche sbagliare, ma tutto mi dice che sarà così.
Se scorgete le foglie degli alberi agitarsi tutte in una sola direzione, voi stessi d'accordo dite: è il vento.
Ebbene, io vedo un agitarsi di cose nel mondo delle sventure umane che mi dice: è giunta l'ora anche di questa opera
del Signore.
Pregate dunque per me e per i miei figlioli che si chiamano Piccoli Apostoli.
Pregate, ma se avete mezzi aiutatemi, perché quando il Signore vi domanda un pane, e voi l'avrete è perfettamente da
stolti volergli dare, anziché il pane, solo una preghiera, che egli non accetterebbe.
XIII L'UMANITÀ TORNA A CRISTO
Al momento l'umanità sta per attraversare le ore della prova. Ogni idea sbagliata dovrà imbattersi nella sua condanna.
Le anime robuste resisteranno alle crudeltà che si avvicinano, e resisteranno sorrette dalla luce della verità e del bene.
Diamo uno sguardo penetrante non solo sull'Europa, ma anche oltre gli oceani.
Siamo al tracollo di quel caos di idee che la storia contemporanea ha abbracciate, adattandovi quasi tutta la tonalità
della vita.
Siamo alla tragica catastrofe di tutta quell'idealità che ha preteso di tirare avanti il mondo senza Dio, contro Dio.
Un pallone gonfio che si spacca, un fantoccio che cade ridicolo a terra, un colossale monumento di neve che si scioglie
all'arrivo del primo raggio primaverile, un pazzesco aggregato di spropositi che verrà cestinato.
“SINE ME NIHIL POTESTIS FACERE”
Senza di me, dice Gesù, nulla potete fare.
Ma queste divine parole non sono oggi comprese dalle masse, perché serpeggia in esse quel veleno per cui credono
ancora alle chimere che le abbagliano, loro presentate dal mondo sotto apparenze di vere conquiste di felicità.
Del resto non c'è da meravigliarsi. Le masse, nella storia, spesso hanno fatto la pessima figura delle rane che perdono la
libertà e la vita quando si lasciano ipnotizzare e divorare dalle bisce.
E l'hanno fatto in questi ultimi tempi fino al punto di credere al divorzio, al comunismo ateo, all'esclusione di Cristo
dalla vita pubblica e familiare, alla licenziosità del pensiero, al dio dell'oro, al rispetto della pornografia e delle riviste
scandalose, agli spettacoli libertini, alla felicità terrena.
Niente Vangelo, niente Dio, niente vita eterna: fanno ormai tutto da sé.
Quelle idee le aveva, tanto per fare un nome popolarissimo, anche un certo Stefano Peloni, senza bisogno di studiare
tanto, con questa sola differenza, che Stefano Peloni sapeva di essere un brigante.
Però non c'è da perdersi d'animo. Nello spirito di tutti i popoli cristiani c'è un filo d'oro che ci ricollega ai santi, alle alte
idealità, alle norme rette della vita cristiana, ai principi cristiani fondamentali che hanno condotto gli eroi di venti secoli
di luce evangelica alle più alte vette della bontà e del vero progresso.
Quando saranno cadute le foglie di questo sanguinante autunno dell'età moderna, passerà il Potatore, scarterà ogni
tralcio morto e mortifero.
L'umanità, nauseata fino allo spavento delle idee che l'avranno portata allo sterminio, si volgerà al Vangelo nel quale
troverà finalmente ciò che invano è andata cercando nel fango delle passioni terrene.
Anche dopo questo ritorno ci saranno egualmente i cattivi, i perversi, i subdoli persecutori di Cristo; ma la tonalità
generale del mondo civile sarà il ritorno a Dio, al santo Vangelo, alla cristianità cattolica apostolica romana.
Da parecchi secoli si discende, ma ormai, mentre tutto attorno suona strage, il grave fardello sta per frantumarsi a valle,
già si segnalano a occhio nudo i sintomi del ritorno.
“È in mezzo a voi uno che non conoscete”, direbbe Giovanni Battista.
La scure è veramente alla radice di questo mondo, o meglio di questa decrepita civiltà moderna; la vita vincerà sulla
morte, quella vita che oggi alle masse sembra morta, e che invece è freschissima e pronta a dare al mondo le
chiarissime linee dei futuri secoli.
Ma non vi siete ancora accorti che l'umanità attualmente si agita e soffre più per la mancanza di questa vita che per tutte
le guerre micidialissime che la dilaniano?
Ecco dove appunto Iddio paternamente sta piazzando il fulcro, su cui agirà la taumaturga leva che risolleverà i popoli
alla vera civiltà: sulla sete, ormai infocata di verità. Cercando la verità gli uomini troveranno Cristo. Infatti: “Ego sum
veritas. Io sono la verità”.
In Cristo si riorienteranno alla vera giustizia, alla vera pace, al vero ordine, all'amore infinito.
IN ALTRE PAROLE
La nostra generazione è come immersa ancora nell'intossicante polverume tormentata, infelice, dalla grandine di
schegge che producono ovunque gravi ferite, generate dall'ultimo balzo di un macigno, tanto eterogeneo quanto
malefico, che ad un certo punto della storia, e precisamente poco dopo S. Domenico, S. Francesco, Dante, si è staccato
dalle Dolomiti della sapienza e della santità per ruzzolare nei secoli successivi travolgendo con Boccaccio, Machiavelli,
Lutero, Carlo Marx gran parte della vita pubblica fino alle paludi di un neopaganesimo.
Tutti spiriti unilaterali, che hanno puerilmente creduto ad un mondo o a una civiltà non cattolica. Hanno deviato chissà
per quali abbagli, hanno finito per sfregiare le più sacre conquiste del vero cristianesimo.
Se siamo uomini elevati allo stato soprannaturale, come potremo accettare una vita da rettili per strisciare a terra, per
essere condannati alla morte, quando abbiamo la possibilità acquistataci da Cristo stesso di volare con tutte le nostre
espressioni vitali, e volteggiare nella purissima atmosfera del regno della grazia? Pazzie delittuose. Eppure quanti
hanno creduto!
Ai superbi fanno comodo quelle dottrine; ai ladri sono scudo efficace; agli imbroglioni servono da specchietto per le
allodole ingenue; agli egoisti possono tornare tranquillizzanti alla stessa guisa che l'alcool può momentaneamente far
dimenticare di essere uomini; ai libertini possono essere giustificanti almeno nelle ore della passione e del delitto; ai
prepotenti possono essere un codice lineare per imporre non la legge, ma l'abuso della legge. Naturalmente a tale
scempio si associano molti o per agire o per evitare le cosiddette noie della resistenza.
I vili aprono la porta e i falsi profeti entrano sotto l'apparenza dei salvatori, poi fanno strage. In pochi secoli è avvenuto
tutto questo.
Eredi di tanti malanni, abbiamo asservito tutto il progresso delle macchine per realizzare tecnicamente il mostruoso
mondo moderno.
Ci illudiamo ancora di non aver fatto un gran male. Poareti, esclamerebbe Papa Sarto, Pio X; veramente siamo una
povera generazione apparentemente in progresso.
Troppa gente è presa nelle reti dell'incanto tiepido e sfocato del materialismo.
Basta essere un po' sereni nelle esplorazioni di questo panorama per prevedere che ormai la giustizia divina ha messo
mano al capestro per impiccare nelle pubbliche piazze ogni sfrenatezza ed ogni fallace dottrina.
Questo spettacolo di somma giustizia sociale, naturalmente, crea un periodo di disorientamento e di orrori.
Sarebbe troppo da ingenui credere che i briganti mollino a terra le pistole cariche.
Ma la nostra generazione pare proprio abbia il tanto sospirato compito che, indotta dall'apologia dei fatti, non mancherà
di assolvere: additerà alle nuove generazioni il ritorno a Cristo.
Brillerà ancora sulla faccia della terra la luce della fede dei padri, penetrando e vivificando le linee fondamentali della
struttura sociale.
XIV IL MAESTRO
Io non ho mai visto Gesù in persona.
Fu molto familiare agli apostoli, i quali hanno vissuto con lui, hanno mangiato con lui, lo hanno sentito, e lo hanno
veduto parlare alle folle, lo hanno baciato diverse volte, gli sono stati intimi collaboratori: “amici” e ministri; hanno
assistito ai suoi strepitosi e chiarissimi miracoli; ne hanno assorbita la dottrina e accettata la grazia, ne hanno imitato
l'esempio; e, dopo la sua ascesa al cielo, si sono sparsi nel mondo a testimoniarne la divinità con miracoli, esempio,
dottrina, con la stessa vita.
Prima di salire al cielo, Gesù risorto spiegò alla Chiesa nascente che egli sarebbe stato in mezzo a noi sino alla fine del
mondo; che noi non abbiamo nulla da temere per causa dei nemici di Dio perché in lui tutto possiamo; e che nessuno
mai la vincerà contro la sua Chiesa, la quale nemmeno cadrà in inganno perché egli stesso la rende infallibile in materia
di fede e di costume.
Si vede che preferisce si creda senza sofisticare. Infatti comunemente è apparso a coloro che avrebbero creduto
egualmente anche senza vederlo in persona.
Io direi così, e lo direi perché la storia lo dimostra, che chi per credere vuole proprio vederlo in persona, comunemente
fa la figura dello stolto.
Voi sapete infatti che a Gesù non può piacere chi, per credere, vuole toccarlo materialmente con i sensi; difatti S.
Tommaso che disse ai compagni: “Se non vedo nelle sue mani i fori dei chiodi, non metto il mio dito nel posto dei
chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo”, si prese da Gesù stesso una lavatina di capo che avrebbe
preferito evitare.
Continua il Vangelo: “Venne Gesù a porte chiuse e stette in mezzo e disse: pace a voi. Poi disse a Tommaso: metti qua
il tuo dito, e guarda le mie mani; appressa la tua mano e mettila nel mio costato, e non essere incredulo, ma cresente”.
Povero S. Tommaso! A tale rimprovero si buttò a terra, ai piedi del risorto maestro, esclamando: “O mio Signore e mio
Dio!”. (“Csòia mai dit”, avrebbe amaramente in tale situazione aggiunto uno dei nostri onesti contadini. “Al scusa
Sgniòr, a soun propria stè 'na bèstia”).
COME L'HO VISTO IO
Io ho visto Gesù sotto mille aspetti e nella stessa identica luce. E, se vi piace seguirmi ancora per alcune pagine,
eccovene qualche sprazzo:
I
Era morto all'ospedale di Carpi un giovane socialista di Fossoli.
Io ero allora già studente da alcuni mesi.
Le organizzazioni giovanili socialiste approfittarono dell'evento per fare un'imponente affermazione pubblica contro la
religione: un solenne funerale civile.
Già l'interminabile corteo spuntava alla ferrovia che una massa di Fossolesi attendeva sulla strada presso l'osteria della
Maratona.
Una folla di monelletti correva qua e là giocherellando, mentre altri stavano a gruppetti in ascolto dei commenti degli
adulti.
Io venivo in bicicletta dalla chiesa, diretto a Carpi, quindi verso il funerale “rosso”.
Arrivato tra quella gente, suono il campanello per passare.
Mi guardano, mormorano, chissà che cosa, rumoreggiano un po', ma tutto pare vada liscio; invece non faccio in tempo
ad allontanarmi prima che i più adulti mi lancino contro i fanciulletti incitandoli a prendermi a sassate.
Non un adulto tirò un sasso, ma i fanciulli saltarono sui mucchi di ghiaia che affiancavano la strada, e con una
fulmineità da innocenti selvaggi, scelti tiratori, tra le risate di quella massa di uomini, mi avvolsero come in una
vigliacca tempesta.
Proprio non vi so dire quante decine di sassi mi colpissero e che male mi abbiano fatto al corpo; solo so dirvi che quei
sassi venivano da mani innocenti che io amavo, solo so dirvi che mi piangeva il cuore; solo so dirvi che ho continuato
senza scompormi il mio cammino. Uscii dalla tempesta, incontrai poco dopo il funerale del disgraziato giovane amico,
osservai tutti quei volti che in fila ad uno ad uno mi fissavano; poi piansi tanto.
Di primo acchito si potrebbe pensare che io vedessi Gesù in me stesso.
No.
Ho pianto perché l'ho visto in quei fanciulletti, buttato con brutalità nella melma schifosa dell'odio e della passione.
Ho pianto perché l'ho visto in quegli uomini, poveri operai, che, in fondo, soffrivano la febbre della secolare sete di una
giustizia.
Ho pianto perché l'ho visto in quel feretro sconsacrato e sfregiato dall'ateismo.
Ho pianto perché l'ho visto in quella lunga teoria di giovani e di ragazze che nel lento cammino verso il cimitero
parevano il meditato rimprovero ai pusillanimi che non vollero in tempo prevenire tanta rovina. Solo per questo ho
pianto, cercando in me stesso il coraggio di una più completa dedizione.
II
Non ne potevo più, chissà quale profondo mistero mi avvolgeva. Dicevo tra me: “Ma che ho? Sono pazzo?”. Allora
volevo tranquillamente rispondere a tale domanda. “I pazzi, consideravo, sono malati, non vedono le cose nel loro
giusto aspetto, ma io so che nulla di anormale vedo intorno a me, né in me stesso. Ragiono come i miei più cari amici,
non sogno cosa alcuna che sia megalomania... Ma perché dunque soffro tanto?”.
Se ne parlavo con don Sisto o con mons. Pranzini, mi assicuravano che Iddio voleva da me tante belle cose. Ed io
pensavo: “Ma se il Signore si decidesse una buona volta, a farmelo capire con chiarezza!”.
Per alcuni mesi il mio cuore, la mente, l'esistenza tutta di quando in quando precipitavano in tale e tanta sofferenza da
rendermi necessario l'isolamento e, nel silenzio, la penetrazione delle stesse ragioni della vita.
Ma ad un certo punto il vuoto dell'anima mi ammantò: era notte avanzata di avanzata primavera.
Presi la mia Norton, la motocicletta; un Vangelo in tasca e via... Arrivai ai piedi del monte Cimone, a Sestola, che già
albeggiava. Depositai la macchina da un meccanico, comperai in un forno molto pane, mi feci uno zaino con la tuta da
motociclista, arrotolai due coperte di lana, mi feci insegnare la via del Cimone e senz'altro mi diedi a scalarla.
Mi era stato accertato che lassù avrei trovato la quiete assoluta perché non era ancora giunto il tempo delle escursioni.
Di quando in quando mi abbattevo in qualche gregge, finalmente arrivai ad una valle, attraversata la quale, eccomi ai
piedi dell'ultima cima.
Un silenzio profondo, un'assenza assoluta di viventi, una brezza satura di accarrezzante bontà mi si associarono
nell'ultima ascesa della quasi brulla e ripida cima.
Volli arrivare fino là in alto, volli cercare il punto più alto della più alta cima; un sasso sporgeva più alto di tutti e sopra
questo finalmente mi fermai.
Era il tramonto.
Non parlavo neppure in me stesso per non profanare di pallide espressioni ciò che tanto cristallino mi brillava
nell'anima. Non ero né stanco e nemmeno distratto.
Là in piedi, prima guardai attorno, a lungo; poi in basso giù per le vicine e lontane valli fino alla pianura, a lungo; poi la
limpida volta celeste.
Mi misi finalmente in ginocchio, e pregai a lungo; ma senza articolare una sillaba.
Avrei potuto cantare la bella canzone che imparai da giovanetto: “Tempio sacro è l'universo”. Ma in quello stato
d'animo la poesia non poteva che irritarmi.
Non mi sentivo insomma di cantare colui e le cose di colui che con tanta pena e affanno volevo conoscere meglio per
mettermi d'accordo e dirgli che ero stanco, infinitamente stanco di sentirmi ancora affamato di verità.
Andai a sedermi, col dorso appoggiato alle fondamenta esterne della torre-osservatorio che si erge lassù, al riparo dal
vento, dandomi pacificamente a leggere il Vangelo dalla prima pagina.
Già il cielo si trapunta di bianche stelle quando sento dei passi lenti.
Spunta sulla cima un vecchietto con un bastone di appoggio, mi si avvicina, ci scambiamo la buona sera, parliamo un
po', poi egli si mette a sedere accanto a me appoggiandosi al comune schienale. Era il custode della torre.
Mio padre mi avrebbe trattato come lui fece, mia madre mi avrebbe trattato così, don Sisto pure, mons. Pranzini anche.
Mi domandò dove avrei dormito la notte se non fosse capitato lui. Io gli additai una specie di grotta. Non me lo
permise, mi volle vicino al suo lettuccio in una brandina e ne fu tanto contento.
Al mattino se ne andava salutandomi con mille auguri; la sera tornava usandomi mille gentilezze.
La quarta mattina mi salutò per sempre, mentre una lacrima che gli scendeva sul rugoso e paterno volto volle dirmi Chi
viveva nell'anima di quel vecchierello buono.
Rimasi ancora lì fino a mezzodì, poi ripresi la via del ritorno.
In quei giorni di amore nutrivo il corpo con pane di frumento e acqua di sorgente viva; sfamavo l'anima contemplando
Gesù nella lettura dei quattro Evangeli e nell'evangelica semplicità di quel caro custode.
III
A Carpi quando curavo quei fanciulli, feci il seguente sogno: in un vasto cortile prospiciente una nota contrada, stavo
seduto in maniche di camicia e scalzo sotto una colossale quercia verdissima. Molti filari di giovani e ubertose piante
rendevano pittoresco il bel cortile.
Un gruppo di fanciulli pacificamente schiamazzanti giocavano mentre io, pur assistendoli, pensavo per mio conto a
cose diverse.
Un mio amico, tipo un po' corrotto, entra con una sgualdrina e davanti a me e a quei fanciulli, con evidente intenzione
di disturbare il mio apostolato e di scandalizzare i fanciulli, scherza e si comporta male con la ragazza sghignazzando di
me nel contempo.
Io mi alzai di scatto, lo assalii, lo presi per il collo, lo buttai a terra, e stavo per dargli un pugno sulla faccia, ma mi
arrestai con il pugno in alto perché, con la coda dell'occhio, avvertii un mutamento di cose del tutto strano: avvertii
infatti che i fanciulli, anziché applaudire, erano corsi tutti mesti attorno, dritti a fissarmi nella contesa, ma il loro
sguardo era una disapprovazione evidente; osservai più in alto e intorno.
La quercia, come candela bruciata, era quasi scomparsa lasciando solo sporgere un mozzicone dal suolo. Tutte le altre
piante avevano subita la stessa sorte.
Capii fulmineamente la ragione di tutto ciò: un profondo dolore mi attraversò la coscienza e l'anima tutta. Lacrimante
abbraccia il mio amico, lo rialzai, con squisita ed appropriata gentilezza gli ripulii il vestito dalla polvere della quale si
era sporcato; poi lo guardai negli occhi, lo accarezzai e finalmente mi buttai al suo collo singhiozzando ed esclamando:
“Perdonami, non avrei mai dovuto comportarmi in questo modo. Gesù in te mi domanda bontà, compatimento, potente
e taumaturgo amore. Abbi pietà di me, mio caro, abbi pietà di me che così malamente ti ho rappresentato Gesù
redentore”.
Mentre eravamo presi da quell'atto di squisita bontà, la quercia diventava più alta e più rigogliosa di prima; così pure le
altre piante ringiovanivano moltiplicandosi a migliaia, l'una più bella dell'altra.
Tutto questo ci inondò di immensa gioia, e, consapevoli della nostra vittoria, sorridenti guardammo i fanciulli e la
giovane che già poteva comprenderci essendosi trasformata in un'innocente compagna.
Tutti insieme poi, posando le mani l'uno sulle spalle dell'altro, ci demmo a contemplare lieti quel miracoloso rigoglio di
piante.
Quel tanto espressivo spettacolo, stimolava in noi ancora più affetto fraterno in Cristo Gesù; e, di riflesso - crescendo e
raffinandosi l'affetto - si moltiplicava e si ingentiliva quella divina vitalità di piante, che si estendeva avanzando
vigorosissima, mentre il muro di cinta del cortile, poi la casa, poi la città offrivano spazio scomparendo.
Finalmente tutta la terra aveva accettata quella santa rinnovazione trasformandosi in un magnifico giardino, quando mi
svegliai esclamando: “Iddio è amore”.
FINE
INDICE
Al lettore pag. 7
I In caserma ” 9
II Una pugnalata sulla via ” 17
III Orizzonti lontani ” 25
IV Fossoli ” 37
V La carne ” 43
VI La coesione ” 47
VII Le lucciole ” 51
VIII L'amore ” 61
IX Il coccodrillo ” 67
X Le cavallette ” 73
XI Al S'cifel ” 79
XII Lo chiamavano Barile ” 117
XIII L'umanità torna a Cristo ” 135
XIV Il Maestro ” 143
Finito di stampare nell'ottobre 1994
dalla tipografia di Nomadelfia - Grosseto

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