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MATTEO
IL VANGELO
DELLA COMUNITÀ
INTRODUZIONE
La Sacra Scrittura è come uno spartito, la cui musica esiste solo dove e come
sentimenti e i pensieri del cuore, e tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (Eb
4,12s).
narrato: la Parola fa quello che dice, per chi l’accoglie con fede (cf 1Ts 2,13).
Può essere rivolto al testo, per vedere come esattamente è, qual è la sua
storia, la sua struttura, il suo stile, ecc. È un passo previo. Chi però si ferma
qui è come uno che vuol mangiare la parola “pane” invece del pane. Non sazia
molto!
Può essere anche rivolto a cosa dice il testo: qual è il suo messaggio, come
non sufficiente. Chi si ferma qui è come un figlio che mangia del pane senza
Può essere infine rivolto al Signore: oltre al testo e a ciò che dice, si è attenti
a colui che dice quel testo. Tutta la Scrittura è una lettera che il Padre ha
inviato a ciascuno dei suoi figli; dietro ogni parola c’è chi parla, e il suo dirsi è
un darsi. Chi raggiunge questo terzo livello, ha trovato ciò di cui ha fame.
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Matteo, chiamato ad essere discepolo mentre stava seduto al banco delle
Escludendo i due capitoli iniziali, Matteo usa per lo più lo stesso materiale di
Marco e Luca, riportando parole e azioni compiute da Gesù nel breve periodo
che va dal suo battesimo alla sua pasqua. La sua particolarità è aver
Israele; il discorso in parabole (c.13) mostra come essa agisce nel mondo; il
Figlio che ci rende figli del Padre facendoci fratelli tra di noi. La fraternità è la
realizzazione del nostro essere figli: nel rapporto con l’altro viviamo quello con
l’Altro. Anche per questo è stato il più letto nella Chiesa. Oggi, in un’epoca in
Questo libro vuol essere un manuale per la lectio del vangelo di Matteo.
Come nei precedenti commenti a Marco e a Luca, di ogni singolo passo, dopo
seguono una lettura del testo e indicazioni per pregare il testo (vedi il metodo
Come si vede, al centro sta il testo, che non è solo un pretesto, ma un modo
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Il lavoro che offriamo è il frutto di una lectio continua settimanale, tenuta in
questi anni nella chiesa di S. Fedele (Milano), insieme a Filippo Clerici, con il
Un vivo ringraziamento a lui, dopo che a Dio, come pure a quanti con la loro
Spero vivamente che questo lavoro sia utile per conoscere di più il Signore e
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METODO PER PREGARE IL TESTO
a. Entro in preghiera
pacificandomi
• con un momento di silenzio
• respirando lentamente
• pensando che incontrerò il Signore
• chiedendo perdono delle offese fatte
• e perdonando di cuore le offese ricevute
b. Mi raccolgo
immaginando il luogo in cui si svolge la scena da considerare.
e. Concludo
con un colloquio col Signore, da amico ad amico su ciò che ho meditato
finisco con un Padre nostro
esco lentamente dalla preghiera.
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• se ho osservato il metodo
• se è andata male, perché
• quale frutto o quali mozioni spirituali ho avuto.
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1. GENESI DI GESÙ CRISTO
1,1-17
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lo sposo di Maria,
attraverso la quale fu generato Gesù,
chiamato Cristo.
17 Tutte dunque le generazioni:
da Abramo a Davide
quattordici generazioni,
da Davide fino alla deportazione di Babilonia
quattordici generazioni,
e dalla deportazione di Babilonia fino a Cristo
quattordici generazioni.
“Libro della genesi di Gesù Cristo” è il titolo del vangelo di Matteo, che ci
racconta la nascita nel tempo del Figlio eterno del Padre che si fa nostro
fratello. Gesù è visto come la nuova genesi dell’uomo, principio e fine del
Matteo qui però non commenta un testo biblico con episodi della vita di Gesù,
cristologici.
Davide secondo la carne (vv. 1-17) e Figlio di Dio secondo lo Spirito (vv. 18-
Maria, da cui riceve il Figlio di Dio come proprio figlio (vv. 18-25).
non dai vicini (2,1-12), ripercorre il destino del popolo, che scende nella
schiavitù d’Egitto e ascende alla terra dei padri (2,13-23). Nel “Nazoreo” si
In questi primi due capitoli, per ben 5 volte su un totale di 11, Matteo parla
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punto d’arrivo del disegno divino, colui del quale tutta la Scrittura parla.
Tenendo lo sguardo puntato su ciò che lui ha fatto e detto, la storia d’Israele è
costruire questi racconti, è costituito, oltre che dalle citazioni bibliche, dalle
genealogie, dai nomi dei genitori di Gesù, dalla sua ascendenza davidica, dalla
fede nella sua divinità, dalla concezione verginale per opera dello Spirito
Santo, dalla sua nascita ai tempi di Erode e dalla sua permanenza a Nazareth.
Questo primo brano è una lista di nomi, divisi in tre periodi, che vanno da
Abramo a Gesù: la “carne” del Figlio di Dio passa attraverso coloro che l’hanno
preceduto. Di ognuno si dice due volte “generare”, una volta come figlio e
l’altra come padre. Lo schema costante si interrompe con Giuseppe, per aprire
Del primo patriarca, Abramo, non si dice chi l’ha generato, e dell’ultimo,
Gesù, non si dice né chi lo genera né chi a sua volta egli genera. Si allude al
3.5a.5b.6), anticipo della quinta, Maria, di cui si parlerà nel racconto seguente.
una tensione, quasi l’attesa della novità promessa nel primo versetto, che
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ossia sei volte sette. Con lui, primogenito di una numerosa schiera di fratelli
(Rm 8,29), la storia della promessa raggiunge sette volte sette, la perfezione.
Per noi questa interminabile lista di nomi può risultare arida. Ma ogni persona
destino di libertà. Ogni nome ha valore assoluto, come il Nome da cui viene e
verso cui va. Può essere ignoto a noi; ma sempre vive nella memoria di Dio e
che divora i suoi figli. Da tragico dominio del fato, diventa libero dialogo tra
tra i due fa nascere una novità che costituisce il senso della creazione: il dono
Il Signore la sposa così com’è, con la sua gloria e le sue miserie, facendo
cardo” (la carne è cardine della salvezza), e “quod non est assumptum, non
est redemptum” (ciò che non è assunto non è redento), sono le due
La Chiesa ha in Israele la sua radice santa e nel Figlio il frutto che contiene
ogni benedizione.
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2. Lettura del testo
1,1. Libro della genesi. Matteo sta scrivendo un libro, come quelli dell’AT ,
che narra la “genesi” del mondo nuovo. Questo libro è il “vangelo”, che ricorda
Gesù. Significa “Dio-salva”. Salverà il popolo dai suoi peccati (v. 21). Il nome
indica l’identità di una persona nella sua “vocazione” e nella sua “missione”:
Cristo. In greco, significa “unto”, come “Messia” in ebraico: è il re, che veniva
Quando Israele voleva farsi un re per essere come tutti i popoli, la cosa
monarchia (Gdc 9,7-15!): ricordano che l’unico re è Dio, e non c’è dio o re in
dell’uomo, perché l’unica immagine di Dio è l’uomo libero, suo figlio che ne
ascolta la parola. Di quasi ogni re si dice nella Bibbia: “Fece peggio di tutti i
produce né possiede il suo Messia: viene da lui, ma è anche per lui un dono (cf
2Sam 7,11).
per tutte le genti. Abramo, pagano e primo depositario della promessa, è colui
nel quale sarà benedetto ogni figlio di Adamo (Gen 12,3). Abramo è la
compimento.
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v. 2 Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe. Sono i tre padri di
Israele. Mancano le quattro madri: Sara, Rebecca, Lia e Rachele - tutte sterili,
tranne Lia, la non desiderata! Sono sostituite da quattro straniere, che entrano
renderla madre - lei, vedova trascurata di due suoi figli e senza discendenza. Il
primo marito, Er, era “odioso” agli occhi del Signore. Il secondo, Onan, “fece
terzo figlio, la mandò via per paura che anche questo morisse (Gen 38,1-30).
Messia. Dio non è schizzinoso! Ama questa umanità, non una migliore. Perché
è sua!
esploratori clandestini della terra promessa (Gs 2,1-21). Entra nella storia
regno (21,31)!
casa per condividere la sorte della suocera ebrea. Il libro di Rut ne racconta la
Davide, ucciso da lui che ne desiderava la moglie (2Sam 11-12; Sal 51). È la
alla fine.
L’azione divina passa attraverso il gioco della storia così com’è, estranea e
adulteri e omicidi.
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La prima serie di nomi parte da Abramo, che crede alla promessa, e si chiude
denuncia dei profeti. Da qui l’esilio, dispersione dei figli che non hanno vissuto
la fraternità.
Gesù. Il Figlio è da accogliere: è il dono che il Padre gli fa attraverso Maria. Qui
sottolinea che, attraverso Maria, colui che genera è Dio stesso. Tutto il fare
dell’uomo è attesa dell’accadere di Dio. Non può essere che così, perché ogni
Gesù. Ogni nome della lista è nominato come generato e generante: riceve
dal progenitore la sua identità che trasmette al figlio, arricchita dalla propria.
rispettivamente chi lo genera e chi genera. Il primo, che per fede abbandona
padre e terra, ha come Padre Dio; l’ultimo, che è il Figlio unigenito, creato
come uomo ed increato come Dio, compie ogni paternità e racchiude ogni
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v. 17 tutte le generazioni dunque, ecc. Gesù è la pienezza di vita: il “dunque”
paragoni la storia di Israele a quella della luna, testimone in cielo della propria
infedeltà che sempre la fa scomparire, e della fedeltà di Dio, il sole che sempre
la ravviva (cf Sal 89,38), con due emicicli di 14 giorni. Come la luna, così anche
il popolo, nato dalla fede di Abramo, cresce nel suo pieno fulgore fino a Davide
Oltre a ciò, tre volte quattordici è uguale a sei volte sette. Sette è il numero
raggiungere il suo riposo nel sette. La storia umana è solo sei volte sette,
Se uno osserva bene, per fare il numero indicato da Matteo mancano due
Dio e quello di ciascuno di noi. Dio è per fede padre di Abramo, e ciascuno di
noi, accogliendo Gesù, diventa figlio di Dio (Gv 1,12). Il generare umano ha
come radice il Padre e come frutto il Figlio. La storia è un inno alla vita,
trasmessa da padre in figlio, che riceve dal Padre la sua paternità e dal Figlio
la sua filialità, nell’unica vita che è il loro amore reciproco, lo Spirito Santo.
che è tutto in tutti (1Cor 15,28), il corpo del Figlio, pienezza di colui che si
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3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come suggerito a p. 5
b. mi raccolgo immaginando tutte le generazioni del mondo, che hanno il
Padre come principio e il Figlio come fine, chiamate in lui a diventare suo
corpo mediante la fede di Abramo e di Giuseppe
c. chiedo ciò che voglio: capire il mistero divino nella storia
d. recito ogni nome, come una litania: è una persona come me, che riceve e
trasmette il mistero di Dio
da notare:
il libro della genesi
Gesù
Cristo
generò
Abramo, Davide
Tamar, Racab, Rut, la moglie di Uria
la deportazione in Babilonia
Giuseppe, lo sposo di Maria, attraverso la quale fu generato Gesù.
4. Testi utili: Gen 49,2.8-10; Sal 72; 89; Gdc 9,7ss; 1 Sam 8; 2 Sam 7; Gen
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2. NON TEMERE DI PRENDERE CON TE MARIA
1,18-25
16
“Non temere di prendere con te Maria”, dice l’angelo a Giuseppe. Da lei
infatti riceverà Gesù, il Figlio generato dallo Spirito, il Dio con noi.
Questo racconto risponde con chiarezza alle due domande che apre il brano
precedente: chi è il Padre di Gesù, e come Giuseppe entra nella sua parentela?
Il Cristo è il Figlio stesso di Dio, generato per opera dello Spirito e nato dalla
ciò che è ben più grande di lui, anche se per questo è fatto.
La fede nella Parola stabilisce la parentela tra noi e Dio. Per essa, come
Giuseppe, accogliamo colui che ha il potere di farci figli (Gv 1,12). Tutto è
lasciato alla nostra responsabilità, alla nostra capacità di rispondere alla parola
ascoltarlo e di rispondergli.
Il brano precedente dice come Dio entra nella nostra storia, questo come noi
entriamo nella sua: lui assume la nostra carne così com’è, noi assumiamo lui
com-promesso in ogni sua promessa. Il figlio di Davide sarà non solo il Messia
Il Figlio non nasce da noi: viene dallo Spirito, perché Dio è Spirito. Giuseppe
colui che non è suo: è altro, è l’Altro stesso, che attende il suo “sì” per essere
suo figlio, il Dio-con-lui, colui che salva lui e ogni “generare” dalla solitudine
Gesù è il Figlio di Dio, generato nell’eternità dal Padre nello Spirito, e nato
nel tempo dalla carne di Maria, per opera dello stesso Spirito.
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La Chiesa, come Giuseppe “il sognatore”, realizza il sogno di Dio: in silenzio
Giuseppe. Come diventa la stessa di Gesù, che è Figlio di Dio? Dio non può
“Giuseppe” (in ebraico = Dio-aggiunga) entra nella genesi del Figlio di Dio
l’umile figlia di Sion. Egli è figura di ogni uomo che, “troppo grande per
Dio stesso.
aspetta solo che ci sia uno disposto a riceverlo. Il dono già è fatto, per Israele
racconto è fatto per il lettore, perché avvenga a lui ciò che è avvenuto a
Giuseppe. L’“angelo” per noi è il testo stesso, che ricorda la sua esperienza
così era. La genesi di Gesù così “era”: fu, è e sarà, come viene narrato qui.
“fidanzata” Maria, madre del Figlio. Sta a lui accoglierla, con “fidanza” in lei e
in ciò che di lei la Parola gli comunica. Dicendo “sì” a lei, dice “sì” al dono di
Dio.
Maria è la prima credente: in lei la Parola si è fatta carne. Chi sposa lei,
accoglie il Figlio, che per la potenza dello Spirito in lei è generato dal Padre.
Entrando in comunione con lei, accetta Dio stesso, che attraverso lei è entrato
mediazione storica di chi l’ha già accolto. Solo lì, nel vero Israele, l’uomo trova
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a Giuseppe. Giuseppe, come detto, significa: “Dio-aggiunga!” È il nome
segreto di ogni uomo, finito che desidera all’infinito, anzi l’Infinito - aperto a
ciò che lo trascende e solo può colmarlo. L’uomo è fatto per tale aggiunta
divina: “Ci hai fatti per te, Signore, ed è inquieto il nostro cuore fino a quando
prima che si mettessero insieme. Si sottolinea che Giuseppe non c’entra con
la nascita di Gesù. Non lui, ma Dio stesso lo generò attraverso Maria. Giuseppe
si trovò incinta. Luca 1,26-38 racconta come; Matteo dice semplicemente che
suo Creatore.
per opera dello Spirito Santo. Spirito significa “vita”, Santo “di Dio”. La vita di
produce nulla, ma può accogliere tutto: è quel vuoto assoluto che solo è
v. 19 Giuseppe, suo sposo. L’uomo è fatto per “sposare” colei che gli
poiché era giusto e non voleva, ecc. Giuseppe, sapendo che il dono non gli
rifiutare ciò che non ci spetta di diritto. L’amore non è mai meritato;
dono dell’altro.
19
v. 20 mentre stava rimuginando (cf 9,4; 12,25). Giuseppe non sa che fare;
inquieto.
un angelo del Signore gli apparve in sogno. Quando l’uomo dice: “Ora basta”
(1Re 19,4ss), Dio fa i suoi doni (cf Sal 127,2). Nel sonno lui incontrò Giacobbe,
lui in fuga (1Re 19,1ss). Nel sonno di suo Figlio raggiungerà ogni uomo che
dorme. I sogni interessano giustamente gli psicologi: uno agisce in base a ciò
che ha dentro. Nella veglia ci si difende, censurando ciò che non si vuole. Nel
sonno invece esce tutto in libertà. Il giusto, che ha il cuore puro, ha i sogni
stessi di Dio: la sua parola parla nel sonno delle altre parole, il suo angelo si
Il pericolo è dar credito a sogni che sono semplici bisogni. Ma la parola di Dio,
se entra nel cuore, risveglia nel profondo quel sogno segreto, che è lo stesso
di Dio.
non temere. Le prime parole dell’uomo a Dio sono: “Ho avuto paura” (Gen
3,10). Per questo “Non temere” è la prima parola che il Signore rivolge
della fede.
di prendere con te Maria. Maria media a tutti il dono di Dio. In questi primi
due capitoli “il Figlio” è sempre presentato con sua madre. Chi rifiuta la Madre,
cristianesimo diventa ideologia, “gnosi”, che ha nulla a che fare con il Cristo
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Israele no; Cristo sì, ma Chiesa no; Cristo sì, e mondo no”, rifiuta Cristo stesso
La storia non è qualcosa di passato che non c’è più; è come le radici per
l’albero: gli danno linfa e gli permettono di innalzarsi al cielo senza crollare al
primo vento.
ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo. Ciò che è in Maria viene da Dio:
entri in relazione con lui e lui con te. Questa è la dignità sublime dell’uomo:
chiamare per nome il “Nome”, essere suo interlocutore, parlare con lui da
amico ad amico.
Gesù. Significa “Dio-salva”. È il nome di Dio, la sua realtà per chi lo chiama.
“Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato” (At 2,21). In nessun
altro nome c’è salvezza (At 4,12), perché è il nome dal quale ogni nome
prende vita. Può essere invocato da chiunque, per quanto perduto: è “Dio-
salva”.
salverà il suo popolo dai suoi peccati. “Tutti mi conosceranno, dal più piccolo
al più grande, perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più del
loro peccato”(Ger 31,34). Chiamiamo Dio per nome proprio in quanto perduti
che vengono salvati. Dio è amore senza limiti: lo conosciamo come tale solo
nel perdono.
continuità con quella di Israele, come compimento della promessa a lui fatta.
un figlio, garanzia della fedeltà di Dio. È un segno che il re non osa chiedere, e
che Dio invece vuol dargli. Quanti altri segni invece chiediamo, che lui non ci
vuol dare!
“Dio-con-noi”. E se Dio è con noi e per noi, chi sarà contro di noi? (cf Rm
21
8,32ss). “Con” significa relazione, intimità, unione, consolazione, gioia, forza,
scambio. Lui è sempre con noi, in nostra compagnia (28,20), fino a quando
anche noi saremo sempre in compagnia di Gesù (cf 1Ts 4,17). Con lui, il Figlio,
fece, ecc. Giuseppe “ascolta e fa” la Parola - quella che viene non dalle sue
incubi della menzogna antica, e si ritrova davanti la “sua sposa”, e con essa il
donna secondo la carne, è figlio di Dio secondo lo Spirito, perché ogni carne
dice chi è: è il Cristo, l’atteso figlio di Davide, punto d’arrivo della promessa,
salva, il Dio-con-noi, il Figlio, il dono di Dio, Dio stesso come dono, che
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come suggerito a p. 5
b. mi raccolgo immaginando la perplessità e il sonno di Giuseppe
c. chiedo ciò che voglio: non temere di prendere il dono di Dio in Maria
d. contemplo la scena, immedesimandomi in Giuseppe
da notare:
Maria si trovò incinta per opera dello Spirito Santo
Giuseppe, suo fidanzato, cosa pensa e perché
il sonno di Giuseppe e il suo sogno
le parole dell’angelo a lui
il nome di Gesù, Dio-salva
Emmanuele, Dio-con-noi.
cosa fa Giuseppe.
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4. Testi utili: Is 62,1-5; Sal 89; 72; 127; 2Sam 7,4-16; Is 7,10-14; Ger 23,5-8;
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3. DOVE È IL RE DEI GIUDEI CHE FU PARTORITO?
(2,1-12)
24
il bambino
con Maria sua madre,
e, prostrati,
adorarono lui;
e, aperti i loro tesori,
offrirono a lui doni,
oro e incenso e mirra.
12 Ammoniti in sogno
di non tornare da Erode,
per altra via si ritirarono nella loro regione.
tra questi anche noi, rappresentati dai Magi, devono fare un cammino, guidati
Signore.
Il cap. 1 parla delle origini di Gesù e di come Israele lo accoglie; il cap. 2 parla
del suo futuro e di come tutti lo incontrano. Anche lui farà un cammino, lo
stesso del suo popolo: la discesa in Egitto con la shoà degli innocenti e
l’ascesa con il ritorno alla “terra”. Il Nazoreo, nella sua discesa e ascesa, nella
La storia dei Magi ha sempre colpito la pietà popolare. Sono diventati “re”, su
suggerimento di Is 60,3 e del Sal 72,10s. Il loro numero nella nostra tradizione
Jafet, i figli di Noè, tutta l’umanità, primizia della Chiesa. Le loro reliquie si
25
divennero Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, che in certe regioni, all’inizio
La loro fortuna è legata al fatto che noi, venuti alla fede dal paganesimo, ci
I temi principali del racconto sono due: la sapienza che guida alla rivelazione
brano traccia il percorso per incontrarlo. Essendo già nato, si tratta di scoprire
del cuore infine indica con precisione “dove” lui si trova. È lì che lo si adora e
alla-bocca), nel bacio di comunione con lui, e nel tesoro di chi dona come lui si
(1Cor 15,28).
nasce “dove” si compie questo cammino. La prima parola che Dio disse ad
Adamo è: “Dove sei?” (Gen 3,9), perché anche lui gli chiedesse a sua volta:
nascita del credente in Dio e di Dio nel credente. È una generazione graduale,
apre a de-siderare e seguire la propria stella, la Scrittura che svela colui che
desideriamo, la gioia del cuore che mostra dove lui è, l’adorazione e infine il
26
Anche se noi sappiamo il luogo materiale “dove” è nato, non basta.
scompare. Diversamente siamo come Erode, che vuole ucciderlo, o come gli
S. Agostino dice: “L’anima è più presente dove ama che nel corpo che
sé. In questo gesto noi nasciamo in lui e lui in noi. Il suo dove diventa il nostro
dove!
Nel brano c’è una divisione drammatica che ognuno si ritrova dentro: giocarsi
o non giocarsi nel seguire i desideri profondi del cuore? Il lontano cerca e
interroga, e così trova e dona con gioia; il vicino sa dove è il Signore, ma non
Ambedue saranno assunte nella storia della salvezza. Proprio il rifiuto, che lo
porterà sull’albero della croce, farà compiere al Figlio che adoriamo il cammino
Gesù è il re dei giudei, il Cristo, luce per le genti, nato per tutti in Bethlem di
Giudea. La luce della ragione e della rivelazione porta a lui l’umanità, che in lui
La Chiesa, oltre che da giudei, è fatta anche da pagani che, come i Magi,
fanno il cammino di ricerca fino a trovarlo, baciarlo e aprire a lui il loro tesoro.
2,1 Nato Gesù. Il-Dio-che-salva c’è già. Matteo descrive come trovare “dove”
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in Bethlem. È la città di Davide. Luca racconta anche come, a causa del
e vassallo dei romani. È il “re di Giudea”, della terra che possiede; non è “re
dei giudei”, delle persone che vi abitano. Loro re è il Cristo, che libera!
dei Magi. Mago denota un appartenente alla casta sacerdotale di Persia. Più
dall’oriente (Nm 23,7, LXX) e annuncia la stella che sorgerà su Israele (Nm
24,17).
Gli ebrei hanno sempre avuto un’allergia contro il “magico”, così comune
mentalità infantile anche in uno solo dei due ambiti, dimenticando che il
magico si fa sempre tragico! Cristo è visto come la luce, la Parola che pone
In questo racconto i Magi sono visti in termini positivi. Non sono dei “maghi”,
scandisce il succedersi delle stagioni, dei mesi, dei giorni e delle ore, ne
far lutto e il far festa. Misurare il tempo è la scienza prima dell’uomo, cosciente
28
osservare le stelle nel loro apparire, permanere e scomparire: per loro la
scienza non è solo l’osservazione di ciò che c’è, ma anche il chiedersi che cosa
significa.
L’oriente è l’origine del sole e della sapienza, della natura e della cultura.
Tutto ciò che Dio ha fatto, anche l’oriente, trova in Gerusalemme la sua
definito dal tempo e dallo spazio, dal quando e dal dove. Il tempo è la vita; lo
sempre e solo ora - il resto non c’è più o non ancora. Il problema aperto resta
quello del dove. Per questo l’uomo è pellegrino, in cerca del suo “dove”, che lo
centro del popolo depositario della promessa e della Scrittura. La ragione, nel
cercare salvezza, si apre alla rivelazione, là dove essa è data. È in Israele che
si trova il Cristo, per tutti e per sempre. Perdere questa radice, è perdere il
esempio, New age. Chi non riconosce Gesù “nella carne”, non ha lo Spirito di
nuovo, da Maria e dalla Chiesa, è perdere “il vangelo”: la carne del Dio-con
noi. La salvezza viene dai giudei (Gv 4,22); è una persona e ha un nome: Gesù
(1,25).
il re dei giudei. C’è Erode, re di Giudea, e Gesù, re dei giudei. Il primo tiene in
mano tutti; il secondo si mette nelle mani di tutti. Quegli sarà persecutore, e
re. Come in Giudea, così in ogni angolo della terra, ci sono due modi opposti di
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essere re: uno potente che opprime, l’altro umile, che salva (Mt 20,24-28). I
due stanno tra loro come tenebre e luce. I Magi cercano il re dei giudei, non il
modello di uomo, l’immagine di Dio. Quale re e quale uomo, quale Dio e quale
salvezza cerchiamo?
la sua stella. Ognuno ha una stella, che con lui nasce e si spegne, pensavano
sabato, festa dei giudei. Inoltre apparve la cometa di Halley. Qualunque sia
scrive per giudeo-cristiani, pensa alla stella vista dal pagano Balaam (Nm
24,17).
luce nella notte, è la ragione umana, che, mai soddisfatta di ciò che sa e
aperta a ciò che ignora, guida l’uomo verso una verità sempre più grande.
La Sapienza conduce anche i pagani (cf At 17,26s) nel loro esodo, come “luce
certezze. Chi, come Erode e gli scribi, sta nel palazzo dei propri interessi o
nella città delle sue persuasioni - anche giuste! - non incontra la verità. Anzi, la
per adorare lui. Adorare è il desiderio che muove ogni cammino fin dal
comunione di amore e di respiro. Quanto qui i Magi fanno, faranno alla fine
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v. 3 avendo udito, il re Erode fu turbato. Erode e tutta Gerusalemme
Erode, uguale a quello che hanno tutti, oppure quello che Dio ha promesso.
v. 5 in Bethlem (Mi 5,1). Costoro hanno la risposta esatta. Muovono gli occhi
sulle Scritture, ma queste non muovono i loro piedi verso il Signore. Sanno la
verità, ma ne stanno lontani. Quante volte il sapere serve per difendersi da ciò
che si sa! Dovrebbero “uscire” per andare incontro al Signore. Chi non esce
di Dio che si restringe per lasciare spazio e vita a tutti. Dio sceglie Israele
come suo popolo perché è il più piccolo tra i popoli (Dt 7,7). Così sceglie come
re Davide, il più piccolo tra i suoi fratelli (1 Sam 16,11). Dio sceglie le cose che
non sono “per ridurre a nulla quelle che sono” (1Cor 1,28). Per questo nessuno
dei potenti e dei sapienti di questo mondo può riconoscerlo (1Cor 2,8).
Per trovare “dove” è il Signore, bisogna guardare nella direzione in cui lui è.
E lui, “il più piccolo tra i fratelli” (cf 25,40.45), è tra i piccoli. La ragione fa
cercare il Salvatore, la rivelazione dice dove trovarlo: la prima dice che c’è, la
seconda chi è - dando alla prima nuovi criteri di valutazione, gli stessi di Dio.
davanti alla rivelazione, come le stelle davanti al sole -, ma poi riappare con
Giudea è nemico del re dei giudei. Utilizza per i suoi piani sia la scienza
serve il male, soprattutto del bene! Può sempre considerare a suo servizio gli
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“indifferenti”, e fare degli “impegnati” i suoi alleati più pericolosi, perché
Comunque il Signore resta l’unico Signore della storia, e tutto alla fine esegue
esplorate con cura, ecc. Li vuol coinvolgere nelle sue trame, senza che se ne
accorgano.
segno della Presenza. Dove c’è lui, c’è gioia; la tristezza è segno della sua
chi incontra il Vivente (28,8s). La gioia del cuore indica “dove” sta colui che
cerchi: è dentro di te. Colui che già era presente nel cammino come desiderio
e tensione, nella gioia del cuore si offre come appagamento e distensione. Qui
sua madre. La madre è il cuore di chi già prima l’ha accolto e generato, e
diventa il nostro stesso cuore che gli dà la sua carne. Il Figlio lo trovi in Israele,
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oro, incenso e mirra. I Magi aprono il loro cuore e offrono ciò che contiene.
L’oro, ricchezza visibile, rappresenta ciò che uno ha; l’incenso, invisibile come
Dio, rappresenta ciò che uno desidera; la mirra, unguento che cura le ferite e
mortalità propria della creatura, tutto ciò che l’uomo ha, ma soprattutto ciò
che desidera e ciò che gli manca, è il suo tesoro. Apre a Dio i suoi averi, i suoi
desideri e le sue penurie. E Dio entra nel suo tesoro. Qui è il “dove” il Figlio è
generato dal Padre. La carne del nostro cuore gli è madre. Dando ciò che sono,
i Magi ricevono colui che è, e diventano essi stessi simili a lui. Dio nasce
messaggio di Dio. Il sogno di Dio influisce sulla storia più del potere di ogni
potente, e lo beffa.
si ritirarono nella loro regione. Tornano dov’erano partiti. Ma “per altra via”:
non più quella di chi cerca uno che non conosce, ma quella di chi ha trovato
colui che cerca. Infatti non sono più quelli di prima; hanno trovato “dove” è
Dio. Si ritirarono da “anacoreti” - dice il testo greco - nella loro stessa terra.
Hanno con sé ormai un nuovo cielo e una nuova terra, seme che porteranno
ovunque andranno.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come suggerito a p. 5
b. mi raccolgo immaginando il cammino dei Magi: da oriente a Gerusalemme,
da qui a Bethlem
c. chiedo ciò che voglio: trovare il “dove” è generato il Signore, e chiedo
l’aiuto di Maria
d. traendone frutto, ripercorro il cammino dei Magi
da notare:
la stella: i desideri che muovono la ricerca della ragione
l’arrivo a Gerusalemme: la ragione che porta alla fede
le indicazioni degli scribi: la Scrittura che dà nuova luce alla ragione
Bethlem, da te uscirà il capo
l’atteggiamento di Erode, sacerdoti e scribi
33
la gioia grande
nella casa videro il bambino con Maria sua madre
adorarono lui
offrirono a lui i doni
si ritirarono.
4. Testi utili: Is 60,1-6; Sal 72; 87; At 17,24-29; Rm 1,18-23; Sap 13,1-9.
34
4. NAZOREO SARÀ CHIAMATO
2,13-23
35
al posto del padre Erode,
temette di andare là.
Ammonito in sogno,
si ritirò nelle parti della Galilea;
23 e, venuto, fece casa in una città
detta Nazareth.
In questo modo si compì ciò che fu detto dai profeti:
Nazoreo
sarà chiamato.
per mezzo dei profeti. Accolto da Giuseppe e dai Magi (2,1-12), rifiutato dai
sapienti e dai potenti, egli rivive la storia del suo popolo: attraverso l’Egitto e
l’esilio - con l’uccisione degli innocenti, anticipo della sua - torna alla terra
Ogni quadro termina con una citazione biblica, che interpreta il fatto alla luce
della Parola: la storia di Israele è profezia di Gesù. Lui, che scende e risale
dall’Egitto, è il Figlio che realizza il nuovo esodo definitivo (Os 11,1). La shoà
degli innocenti, preludio di quella del Giusto, è vista come il male supremo
causata l’una dal peccato altrui e l’altra da quello proprio: da ambedue libera il
dei pagani, sarà luce per ogni uomo che dimora nelle tenebre e nell’ombra di
morte (4,15s).
Il “Nazoreo” è, allo stesso modo del popolo d’Israele, il Figlio liberato dalla
mano d’Egitto e l’esule che ritorna alla terra. Il male, sia subìto che fatto -
36
promessa di Dio. Anzi, la realizza nel Giusto che non lo fa e lo porta su di sé,
perdente, il male sempre più forte. Ma alla fine vince l’innocente, proprio con il
suo sangue.
del Figlio prediletto, che salva i fratelli che l’hanno venduto (cf Gen 50,20). Le
macchinazioni del male, alla fine, senza saperlo eseguono ciò che la sua mano
e la sua volontà aveva preordinato che avvenisse (At 4,28; Ap 17,17). Dio è
Dio della storia: pur rispettando la nostra libertà, onora divinamente anche la
sua!
2,13 Ora, ritiratisi essi. Viene ripreso il tema “anacoretico” del ritiro (cf v. 12).
venduto dai fratelli, è “sognatore”: nella profondità del suo cuore puro, vede
Dio (cf 5,8). Il sogno a noi sembra irreale; invece è il principio di ogni realtà.
Uno, anche se non lo sa, realizza sempre i suoi sogni. Ma sono quelli di un
cuore puro o impuro? I sogni di Dio alla fine sempre si compiono, anche se a
risvegliati, ecc. L’angelo dice la Parola che ci “risveglia” alla vita con il sogno
di Dio. Giuseppe non risponde alla Parola con parole, ma con la carne. La
risposta è lui stesso, che la esegue alla lettera (vedi v. 14; vv. 20-21; cf 1,21-
24): le dà corpo offrendole il suo corpo. Questo è l’amore coi fatti e nella verità
(1Gv 3,18), il culto gradito a Dio (Rm 12,1). Obbedire (ob-audire) significa
37
ascoltare stando davanti, rivolto all’altro. Chi obbedisce è come il Figlio,
Giuseppe (1,18); poi si parla del “bambino e sua madre” (vv. 11.13.14.20.21),
portano al centro, che è lui! Ma sia lui che la madre sono affidati alle mani di
fuggi in Egitto. Il re dei giudei fugge in Egitto a causa del re di Giudea - come
Erode sta cercando. Erode è figura del Faraone all’interno di Israele, della
Chiesa e di ciascuno di noi. Nella nostra “paganità”, come c’è la ricerca dei
Magi per adorare il Signore, così c’è la ricerca di Erode, che, come il Faraone,
ucciderà i figli. Gesù, miracolosamente salvato come Mosè, entra in Egitto per
si ritirò. Vivrà in Egitto da forestiero (cf vv. 12.13), solidale con la solitudine
v. 15 sino alla fine di Erode. Erode, come il Faraone, finisce; il Figlio, come
Israele, ne vede la fine. Dio dall’alto ride sui potenti e le loro trame (Sal 2,4).
dall’Egitto chiamai mio figlio (Os 11,1). L’uscita dall’Egitto è vista come la
nascita del Figlio dal ventre oscuro della schiavitù. Osea, qui citato, parla del
l’inizio di una nuova primavera tra Dio e il suo popolo, che fiorirà nel deserto
38
v. 16 si adirò molto. È l’impotenza del potente beffato dal riso di Dio (Sal
sangue di tutti i giusti, da Abele a Zaccaria (Lc 11,51), dal primo all’ultimo
innocente di ogni shoà. Prefigurano il sangue del Servo, il Figlio che salverà i
fratelli. Il destino dei giusti - e dei peccatori - è lo stesso dell’unico Giusto che
come dalla madre Rachele, così anche dal Padre. Dio piange per l’esilio
dell’uomo.
perché non sono più. L’esilio è la morte del Figlio: l’infedeltà lo riduce a non
essere più. Io-Sono, nel suo amore, lo ricondurrà all’esistenza; ma non più con
Il cammino del Figlio passa attraverso la solidarietà coi fratelli nella loro
oppressione e nel loro peccato, fino alla maledizione del loro non-essere-più,
facendosi lui stesso abbandono, maledizione e peccato (27,46; Gal 3,13; 2Cor
39
5,21), perché ogni abbandono non sia più abbandonato, neanche l’abbandono
v. 19 finito Erode (v. 15). Erode finisce; il disegno di Dio dura in eterno, e
un angelo del Signore, ecc. È la terza volta che il Signore parla a Giuseppe in
definitiva sarà il sonno stesso del Figlio dell’uomo, “la parola della croce”
(1Cor 1,18).
v. 20s risvegliati, prendi il bambino e sua madre, ecc. Per la terza volta
v. 22 udito che Archelao, ecc. Entrato nella “terra”, rimane aperto al sogno di
“casa” e “nome” nella “terra!” Le quattro tappe del suo ascoltare/fare sono le
stesse di ogni uomo: prendere in sposa Maria, la madre del Figlio di Dio e
chiamarlo per nome (1,24s), compiere con loro sia l’entrata che l’uscita
si compì ciò che fu detto dai profeti: Nazoreo sarà chiamato. Nessun profeta
infatti: “Ciò che fu detto dal profeta” bensì “Ciò che fu detto dai profeti”. Tutta
prima di ogni creatura, nel quale, attraverso il quale e per il quale tutto è stato
fatto (cf Col 1,15-17). Gesù, chiamato dai giudei “il Nazoreo”, che viene da
Nazareth, è colui di cui tutto parla e che tutto definitivamente dice (Gv 1,18).
colui che salva il popolo dai peccati, colui che ripercorre la storia umana per
40
farla uscire dalla tenebre della schiavitù (Egitto) e della morte (esilio),
come veramente Dio compie in lui ogni sua parola, senza lasciarne andare a
assonanza con Is 11,1, in cui si parla di “Neser” il “germoglio” che spunta dal
tronco di Jesse. Sono assonanze sulle quali l’autore ebreo può giocare. Non
solo perché scrive senza vocali, ma soprattutto per ciò che sa di Gesù.
Ciò che conta è che “il Nazoreo” - qui associato da Matteo a Nazareth - è “il
quotidianità - ogni riposo e fatica, ogni gioia e dolore, ogni amore e timore,
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il cammino da Bethlem all’Egitto e dall’Egitto a
Nazareth
c. chiedo ciò che voglio: accogliere il Nazoreo come il tutto della mia vita: in
lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), in lui sono
nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3)
d. traendone frutto, contemplo le varie scene: la discesa in Egitto, la shoà dei
bimbi/servi, l’ascesa alla terra, la casa a Nazareth
da notare:
i sogni di Giuseppe: cosa dicono e come li esegue
la fuga in Egitto
dall’Egitto ho chiamato mio figlio
mandò ad uccidere tutti i bambini
il pianto di Rachele per i suoi figli che non sono più (l’esilio)
Nazoreo sarà chiamato
il mistero della quotidianità di Nazareth.
4. Testi utili: Sir 3,2-6; Sal 128; 1Gv 1,5-2,2; Sal 124; Sal 2; Os 11,1ss.
41
5. IO VI BATTEZZO CON ACQUA PER LA CONVERSIONE
3,1-12
42
Il suo ventilabro ha in mano
e pulirà la sua aia:
e raccoglierà il suo grano nel granaio,
ma la pula brucerà
con fuoco inestinguibile.
“Io vi battezzo con acqua per la conversione”, dice Giovanni a quelli che
vanno da lui. È l’ultimo profeta, l’Elia che deve tornare, per chiamare alla
condotto il peccato - riceveremo il fuoco dello Spirito, la vita nuova dei figli di
Dio.
senza uomo ed infine senza Dio. Dietro la Parola, c’è colui che parla. Non c’è
colui che nella sua parola comunica se stesso. Per questo il profeta chiama “a
guardare in alto” (Os 11,7), a levare lo sguardo dalle cose alla mano e al volto
Il pericolo di una religione della Parola è ridurre questa a feticcio, come nelle
può fare ciò che i pagani fanno con gli altri doni di Dio: dimenticare il rimando
a lui. Al pollo interessa il becchime, non chi glielo dà, se non nella misura in cui
Giovanni è il profeta che sta sulla soglia tra il passato e il futuro. Per lui la
promessa non è la tomba, ma il grembo della novità. Icona dell’AT che passa
43
al suo compimento, è l’Elia che deve venire (Ml 3,23), che anzi è già venuto,
Signore che ha promesso. Non è solo l’asceta o il mistico che incontra Dio nella
solitudine del deserto: è l’apostolo, che vuol aprire tutti ad accogliere colui che
Messia (Gv 1,19s). Marco lo presenta come l’angelo di Ml 3,1s, che prelude la
venuta del Signore (Mc 1,2). Qui Matteo lo presenta come colui che annuncia
la fine dell’esilio (3,3; Is 40,3). Egli, come Elia, è l’uomo davanti a Dio, pronto
rispetto a loro, ha una coscienza nuova. Sa che arriva colui che ha promesso.
Questi ci battezzerà, invece che nell’acqua della morte, nel fuoco del suo
amore.
apre al desiderato che viene, porta che si spalanca al Signore che bussa.
colui che è “avvento”: noi tendiamo a lui, perché lui viene a noi.
Il brano si articola in tre parti: l’apparire di Giovanni nel deserto che annuncia
la venuta del regno e la fine dell’esilio (vv. 1-6), il suo appello alla conversione
(vv. 7-10), l’annuncio del Messia che viene col fuoco del suo Spirito (vv. 11-
12).
Gesù è il Figlio che il Padre manda ai fratelli per ricondurli dall’esilio a casa. È
colui che “deve venire”. E viene per chi lo attende, come il Battista.
44
2. Lettura del testo
3,1 Ora, in quei giorni. È il primo inizio con queste parole. La liturgia ogni
volta che legge il vangelo, comincia così: “In quel tempo, ecc. ”. Quei giorni, o
a ciò che accade, perché accada anche a lui. L’ascolto introduce nell’oggi
immerge l’uomo nella sua verità, perché possa aprirsi alla verità di Dio.
nel deserto. Il deserto, posto tra l’Egitto e “la terra”, è per Israele il luogo del
già e non-ancora: già fuori della schiavitù, non ancora nella libertà. È il luogo
del cammino e del dubbio, dell’ascolto e della ribellione, della fiducia e della
caduta. Nel deserto non c’è nulla, e si va verso il tutto. La solitudine mette
ognuno davanti a sé, agli altri e all’Altro, senza via di scampo. Lì fu data la
una volta passato, ricorda il deserto come il tempo del fidanzamento, in cui
Dio e popolo “si parlavano”. E attende un nuovo deserto, un rifiorire del primo
con-vertirsi a lui, e non “per-vertirsi” in altre direzioni. L’uomo, che fin dal
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pensare e di agire. La conversione più difficile è quella “religiosa”: cambiare il
modo di pensare Dio e di rapportarsi a lui, volgersi dalla nostre idee su di lui - i
nostri idoli! - a lui come si rivela: “Guardate a lui e sarete raggianti” (Sal 34,6).
perché è qui il regno dei cieli (cf 4,17!). È il motivo della conversione. Il regno
di Dio è Dio stesso che regna e libera l’uomo da ogni schiavitù, rendendolo a
sua immagine e somiglianza. Ciò per cui Dio è Dio è la sua libertà. E vuol
è colui che fu detto per mezzo del profeta Isaia (Is 40,3). Giovanni è visto
alla terra. L’esilio è l’esperienza fallimentare del popolo di Dio. I profeti hanno
consumate a partire dal primo re - voluto contro il volere di Dio (1Sam 8,1ss) -
possibile nei confronti di chi riconosce il proprio peccato. Il “ritorno alla terra”,
voce di uno che grida. Giovanni è la voce, Gesù la Parola. Non può esserci
l’uno senza l’altro: senza voce la parola non può esprimersi, senza parola la
annuncio suscita il desiderio del dono impossibile che il Signore sta per fare.
Lo scarto tra la nostra realtà di male e la verità della promessa è il luogo del
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fate diritti i suoi sentieri. È un cammino diritto, sul quale si intrecciano i
vestito di Elia, padre dei profeti (2Re 1,8). Richiama le tuniche di pelle che Dio
aveva fatto ai nostri progenitori (Gen 3,21), in attesa di rivestirci del suo Figlio
stesso (Gal 3,27, Rm 13,14; Ef 4,24; Col 3,10), che resterà nudo per noi sulla
croce (27,35).
I suoi fianchi sono cinti, pronti per l’esodo (Es 12,11; cf Lc 12,35). Suo
nutrimento sono locuste e miele selvatico, cibi del deserto, dove il popolo visse
vittoriosa sulla menzogna del serpente che uccise l’uomo. Anche il miele
richiama la Parola, più dolce del miele al palato (Sal 19,11; 119,103).
Giovanni è l’uomo nuovo, profeta rivestito di Cristo, che della Parola fa il suo
cibo.
Giudea verso il deserto. Anche chi crede di essere in patria deve uscire dai
luoghi sacri e dalle proprie immagini di Dio, per incontrare lui stesso che ci
dono di Dio.
Prestiamo orecchio non alla parola del Padre della luce che dà vita, ma a
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Non basta andare dal Battista - e neanche ricevere i sacramenti cristiani -, se
l’ira imminente. L’ira di Dio non è mai contro di noi, ma contro il nostro male,
perché ci fa male. Quando Dio si adira, l’uomo è salvo. Con essa egli opera il
suo giudizio: la fine del male ed il trionfo del bene, la morte del peccato e la
v. 8 fate dunque frutto (7,15ss). È il frutto dello Spirito (Gal 5,22): la vita
nuova di Dio, in contrapposizione alle opere vecchie della carne (cf Gal 5,19-
21).
Abramo sono quelli che, come lui, ascoltano la parola di Dio, ed entrano nella
sua benedizione mediante la fede (Gal 3,14). C’è una falsa sicurezza data
del regno, perché non vive da figlio e da fratello (7,15-20). Per questo sarà
colui che viene. Il Signore è “colui che viene”. Ma non può arrivare se non
non sono degno, ecc. Giovanni si ritiene meno di un servo che porta i sandali!
nell’acqua, simbolo di morte, bensì nello Spirito, nella vita di Dio. Lo Spirito
Santo è il fuoco del suo amore che tutto purifica, illumina e vivifica. Nulla di ciò
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il ventilabro. Il nostro giudizio è fatto col setaccio: trattiene la crusca e lascia
uscire il grano. Quello di Dio è fatto col ventilabro: trattiene il bene e disperde
suo giudizio sarà la croce, dove brucia ogni nostro male e ci dà la sua vita.
3 Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Giovanni nel deserto e sulle rive del Giordano
c. chiedo ciò che voglio: convertirmi al giudizio di Dio
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
convertitevi, perché il regno di Dio è qui
voce di uno che grida
il luogo, il vestito e il cibo di Giovanni
il battesimo in acqua e quello in Spirito Santo e fuoco.
4. Testi utili: Is 11,1-10; Sal 72; 51; Is 40,1 ss; Ml 3,1ss; Ez 36,22-36; 37,1-
14.
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6. QUESTI È IL FIGLIO MIO, L’AMATO,
3,13-17
3 13 Allora compare Gesù
dalla Galilea al Giordano
davanti a Giovanni
per essere battezzato da lui.
14 Ora Giovanni lo impediva,
dicendo:
Io ho bisogno
di essere battezzato da te,
e tu vieni da me?
15 Ora, rispondendo, Gesù
gli disse:
Lascia per ora,
poiché così conviene a noi
che compiamo ogni giustizia.
Allora lo lasciò.
16 Ora, battezzato, Gesù
subito salì dall’acqua;
ed ecco si aprirono (a lui) i cieli,
e vide lo Spirito di Dio
scendere come colomba
e venire su di lui.
17 Ed ecco una voce dai cieli
che dice:
Questi
è il Figlio mio,
l’amato,
nel quale mi sono compiaciuto!
compiace del Figlio che ha fatto la scelta di immergersi tra i fratelli peccatori.
È la prima volta che parla, confermando Gesù come il Figlio. La seconda volta
aggiungerà per noi: “Ascoltate lui” (17,7). E non dirà più niente. Gesù, Verbo
unico del Padre, con ciò che fa e dice rivela quel Dio che nessuno mai ha
È il Figlio che, conoscendo l’amore del Padre per i suoi figli, si fa loro fratello: si
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mischia tra i peccatori, si immerge nella loro realtà, solidale con loro in un
amore più grande della morte. È necessario per il Figlio è farsi fratello.
Il brano è una miniatura che contiene tutto il vangelo e rivela il mistero più
profondo di Dio: la Trinità, come Amore tra Padre e Figlio, offerto da questo a
tutti i fratelli.
come può essere diversamente, se vuole essere con noi? L’immagine che Dio
come qui nelle acque, là si squarcerà il velo del tempio come qui il cielo, là
darà a tutti lo Spirito che qui riceve, là si rivolgerà al Padre che qui lo chiama,
là sarà riconosciuto Figlio dal fratello più lontano come qui dal Padre (27,51-
che questo modo, il più adeguato ai nostri bisogni e alla sua natura. Il
introduce nella casa di Dio. Non è lui tutto una porta spalancata all’uomo?
scandaloso che il più forte sia battezzato dal più debole, che l’innocente e il
51
giusto si metta dalla parte dei peccatori. Poi ci si presenta Gesù che si
immerge ed esce dall’acqua (v. 16a), il cielo che si apre e lo Spirito che scende
(v. 16b), e infine la voce del Padre che si compiace della scelta del Figlio ( v.
17).
Il Figlio si è fatto con noi e per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor
5,21), perché noi partecipassimo alla benedizione della sua vita. Non si è
vergognato di chiamarci suoi fratelli (Eb 2,11), per ricondurci nell’amore suo
In questo suo immergersi, in cui si fa solidale con noi nel nostro limite, il
stessi.
Gesù nel battesimo si rivela Figlio di Dio, e rivela chi è Dio: è Padre suo e vuol
3,13 Allora compare Gesù dalla Galilea, ecc. È l’inizio del suo ministero. Gesù
fa battezzare confessando i propri peccati (v. 6). Perché viene anche lui? Che
Nel Giordano, sulla soglia della terra promessa, tutti riversano i loro peccati:
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lordure, uscendone purificati; lui vi si immerge, uscendone carico della nostra
immondezza.
Questa scelta di Gesù, che si mette in fila coi peccatori e si immerge nel
nostro male, rivela Dio come simpatia piena per ogni sua creatura. È la
vuole battezzarlo perché vuole il suo battesimo. Ignora che il suo battesimo
viene proprio dal suo battezzarsi in noi. Noi siamo battezzati nella sua
solidarietà con noi, nella sua morte (Rm 6,3). Se lui, il Giusto, non muore per
ma non riceviamo lo Spirito. Se lui invece si immerge e muore con noi, noi non
siamo più soli: sia che vegliamo sia che dormiamo, siamo sempre con lui (1Ts
bisogno di essere battezzati da Gesù, ma in Gesù che si battezza con noi - lui
non battezzava, precisa Giovanni (Gv 4,2)! È necessario che lui si battezzi
nella nostra morte, perché in essa noi non affoghiamo più nel nostro peccato,
ma veniamo alla luce del suo amore. “Bisogna” che il Figlio dell’uomo riceva
da noi il nostro battesimo (16,21), perché ogni uomo nel proprio battesimo
incontri lui, Signore della vita. Ha scelto di venire nel gorgo del nostro abisso,
perché il fuoco del suo Spirito creatore entri nell’acqua della nostra morte e ci
risusciti.
v. 15 lascia per ora. Gesù chiede a me, come a Giovanni, che non gli
impedisca di entrare nella mia morte. Diversamente non può darmi la sua vita,
così conviene a noi. Così conviene “a noi”, a te e a me, dice Gesù. Conviene a
perché diversamente non sarei l’Emmanuele, il Dio amore. Ciò che per te è
53
conveniente, per me è necessario! In questo modo, non in altro, sei salvato. Tu
avresti fatto diversamente. Questo modo invece ho scelto io, perché è l’unico
che conviene a me, l’Emmanuele, per essere-con-te, e a te, perché tu sia con
me.
compiamo ogni giustizia. Così sia io che tu compiamo ogni giustizia. Nel fatto
che io, il Figlio, sono solidale con i fratelli, tutti si riconoscono figli. La giustizia
è ciò che Dio vuole. E Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati mediante la
conoscenza della loro verità di figli nel Figlio (cf 1Tm 2,4). L’Unigenito, che
conosce la volontà del Padre, viene sulle rive del Giordano per comunicarla a
Mentre tu sei qui per riconoscere il tuo limite e il tuo male, io sono qui per farti
allora lo lasciò. Chi ti ha fatto senza di te, non può salvarti senza di te (S.
Agostino). È necessario il tuo permesso. Perché lui è libertà e non può non
v. 16 battezzato. La sua immersione nelle acque della nostra morte è per lui
Gesù subito salì. Il suo immergersi è anche il suo emergere: il suo essere
ecco si aprirono (a lui) i cieli. Nella sua morte si squarcerà il velo del tempio
(27,51). Dio non è più nascosto; il cielo, prima chiuso, si è aperto. Si compie il
lo Spirito di Dio. Dove c’è solidarietà, il cielo è in terra, il Figlio tra i fratelli! Lo
Spirito che ora scende su di lui, sarà consegnato a noi nella sua umanità a tutti
sul Giordano ricorda lo Spirito di Dio che aleggiava sulle acque e trasse il
cosmo dal caos (Gen 1,2): il battezzarsi del Figlio nel nostro abisso è un nuovo
54
atto creatore. Richiama anche la fine del diluvio (Gen 8,11s): il battesimo di
Gesù è una creazione nuova che porta la pace definitiva - una vita al di là e al
di sopra di ogni male, che non sarà più distrutta (Gen 8,21; 9,8-17). Allude
pure all’Esodo: Dio, come aquila potente, portò il suo popolo oltre le acque del
mar Rosso (Es 19,4); ora, come mite colomba, lo porta alla libertà del Figlio. La
Spirito di misericordia del suo Signore. Ed è infine la sposa del Cantico dei
cantici, il popolo che risponde all’amore del suo Signore per lui (Ct 2,14.16),
Questo Spirito, che da sempre è la vita di Dio, ora è finalmente tra noi nel
v. 17 una voce. Dio non ha volto; non bisogna farsi immagini di lui, come
pure dell’uomo. Perché lui è voce, che esprime la Parola, e il suo volto è il
Figlio, che la realizza. Se ascoltiamo lui (17,5), anche noi diventiamo come lui.
è il Figlio mio, l’amato. Il Figlio è il volto stesso del Padre: chi ha visto me, ha
visto il Padre (Gv 14,9). È la sua parola, perfettamente ascoltata, fatta carne.
re, uomo ideale e ideale di ogni uomo, perché è come Dio - amore che si fa
servo di tutti. L’espressione, presa con ciò che segue, richiama Is 42,1ss, il
“amato”, o prediletto, allude al sacrificio del figlio Isacco (Gen 22,2). Proprio
nella morte del Figlio si rivela sulla terra Dio e la sua regalità di servizio per
ogni uomo.
“Bravo! Sei mio figlio, uguale a me: fai ciò che a me piace fare”. Anche Adamo
voleva essere uguale a Dio; ma non conosceva ciò che a Dio piace.
55
Il Padre in tutto il vangelo parla solo due volte: qui e nella trasfigurazione.
Qui per confermare il Figlio nella sua scelta di servo; là per rivelare a noi la
gloria di questo Figlio, perché lo ascoltiamo e diventiamo anche noi come lui.
Se noi accettiamo che lui si battezzi con noi e ci battezziamo in lui, siamo
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo sulle rive del Giordano, dove tutti, e anche Gesù, si fanno
battezzare
c. chiedo ciò che voglio: la scelta e lo Spirito del Figlio
d. traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono,
che fanno
da notare:
Gesù in fila coi peccatori al Giordano
la protesta del Battista
la risposta di Gesù
così conviene a noi che compiamo ogni giustizia
Gesù battezzato
salì dall’acqua
si aprirono i cieli
lo Spirito di Dio scendere come colomba
la voce del Padre
questi è il Figlio mio l’amato
nel quale mi sono compiaciuto.
4. Testi utili: Is 42,1ss; Sal 2; Gen 1,1ss; Gen 8-9; Gen 22,1ss; Gal 4,4-7; Rm
8,15-17.
56
7. VATTENE, SATANA!
4,1-11
57
11 Allora lo lasciò il diavolo;
ed ecco: angeli si avvicinarono
e lo servivano.
“Vattene, satana!”, dice Gesù a chi gli prospetta un modo di essere figlio che
L’uomo è relazione con cose, con persone e con Dio, che rispettivamente gli
assicurano la vita animale, umana e spirituale. Questi sono gli ambiti della
tentazione, con possibilità di vittoria o di caduta, secondo che siano vissuti con
lo Spirito del Figlio che tutto riceve in dono e dona, o con quello del vecchio
lo stesso di Israele, della Chiesa e di ciascuno di noi: rubare ciò che è donato.
di tutti i mali.
Le tentazioni di Gesù corrispondono alle tre concupiscenze (1Gv 2,16) e ai tre
aspetti seducenti del frutto proibito (Gen 3,6): il possesso delle cose è buono
desiderabile per essere autosufficienti in tutto. Gli idoli dell’avere, del potere e
alla quale Dio risponde rispettivamente con il dare e servire in amore e umiltà.
Gesù ha compiuto la scelta del Figlio: la solidarietà con i fratelli. Ora c’è uno
scontro tra due vie di salvezza: la sua, che porta a unirsi agli altri, e quella
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satana, che è egoismo e divisione. È un’opposizione interna che attraversa il
conseguire meglio l’obiettivo: mostrare che Gesù è “il Figlio di Dio”. Il male è
sempre a fin di bene. Ma non basta agire a fine di bene: i mezzi devono essere
umiliazione e umiltà.
Gesù rifiuta i messianismi correnti della sua e di ogni epoca. Sono i tre idoli
che dominano l’uomo, proiezione dei suoi bisogni: l’idolatria delle cose, con un
Le cose, le persone e Dio sono i tre bisogni vitali: l’uomo può soddisfarli in
del Padre. Questo brano ci svela come noi ci perdiamo nell’illusione di salvarci,
attese.
59
Gesù smaschera satana e gli dice: “Vattene!”. In Pietro, che gli prospetterà
“Satana”. Ma non gli dirà: “Vattene”, bensì: “Va’ dietro di me” (16,23).
ingresso. Sono la lotta che Gesù continuerà tutta la vita, nella fatica di vivere il
Gesù è il Figlio: tutto riceve dal Padre e tutto dà ai fratelli. Il suo rapporto con
le cose non è di rapina, ma di dono - fino al dono di sé, quando si farà pane
per tutti in obbedienza alla Parola del Padre -; il suo rapporto con Dio non è la
suo peccato peggiore: pur amando Gesù, non pensa e non agisce come lui,
come fece anche Pietro (16,23!). Deve sempre stare attenta a non considerare
4,1 Gesù fu portato su nel deserto. Lo Spirito ricevuto nel battesimo lo porta
non in un luogo privilegiato, bensì nel deserto montagnoso che sta sopra il
Giordano. Nel deserto si trovò Adamo dopo il peccato e Israele dopo l’uscita
all’ascolto, per ricondurci alla “terra”. Il Figlio, dopo il battesimo, è portato nel
perduti.
60
dall’Egitto e dalle mani del Faraone; gli sarà più difficile liberarlo dall’Egitto e
dal Faraone che è in lui stesso. Non gli basteranno quarant’anni di paziente
lavoro.
ci si oppone a lui. Fino a quando si è con altri, si può sempre pensare che
In greco “tentare” (peiràzo) viene da “peîro” (da cui “punta”), che significa
che impedisce il guado. Tutte queste parole italiane hanno la stessa radice
alla vita filiale, la purificazione della fede (Gc 1,2s; 1 Pt 1,6), la “prova” che
siamo figli e non bastardi (Eb 12,8). Per questo le tribolazioni, invece di
abbatterci, ci danno gioia (cf 5,11; At 5,41; Gc 1,2; 1Pt 1,6). Paolo si vanta di
esse (Rm 5,3-5), sapendo che producono la speranza contro ogni speranza
(Rm 4,18), la sola che non delude. Noi pensiamo che, se non ci fossero, tutto
quale ci opponiamo!
dal diavolo. Diavolo (vv. 1.5.8.11) in greco significa “divisore”: è colui che ci
divide da Dio e ci lascia soli. È chiamato anche il “tentatore “(v. 3): tenta di
farci cadere. È chiamato pure “satana” (v. 10), l’accusatore: una volta che
v. 2 dopo aver digiunato. Considerare il cibo come vita è causa di bulimia nel
riconoscimento che la vita è dono, e viene non dal cibo, bensì dal Padre. Il
digiuno è associato alla preghiera e allo studio della Torà, proprio perché la
61
“simbolico”: non è dieta o controllo sul cibo, ma segno che si riconosce Dio
in cammino verso l’Oreb (Es 34,8; Dt 9,9.18; 1Re 19,1-8). Il numero allude
anche agli anni di Israele nel deserto: è una vita! Tutta la vita è “deserto”,
quaranta notti. Anche nel Ramadan si digiuna quaranta giorni; di notte però
si mangia.
varie fami: di vita animale, garantita dal cibo, di identità personale, garantita
cercare in modo sbagliato. La prima è del principiante, che dice: “Il bene non è
esce contento chi lotta con coraggio. La seconda è dei “perfetti”, che vi
scarso il discernimento.
Le tentazioni hanno sempre l’apparenza del bene: “Se sei Figlio di Dio!” È
quanto Gesù è venuto a provare. Il male peggiore è fatto per i fini migliori. Per
questo gli amici di Dio nuocciono al suo regno più di qualunque nemico! A chi
prima.
È grave usare “a fin di bene” ciò che Gesù rifiutò come male. Quale uomo di
62
Gesù fu non compreso e abbandonato da giudei e da romani, da nemici e da
amici - passati e presenti, e così sarà anche in futuro - solo perché ebbe la
la salvezza è la salute mia e tutto ciò che la può garantire. Il mio corpo è il mio
assolutizzazione del proprio benessere fisico, senza sapere che questo non è il
fine, bensì un mezzo che ha un fine e una fine. La brama di ricchezza, che
dovrebbe esserne garanzia, è vera idolatria (Ef 5,5), radice di tutti i mali (1Tm
6,10).
sta scritto. Alla prospettiva ovvia e naturale dell’uomo, Gesù risponde con la
prospettiva di Dio: “Sta scritto”. Rifarsi alla sua parola è l’unica possibilità per
non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio
tentazione dell’uomo, che consiste nel porre la falsa alternativa tra pane e
Parola, materia e Spirito, uomo e Dio. Questo capita quando si fa delle proprie
fami l’assoluto. L’assoluto non è la vita materiale, ma “il modo” con cui la vivo.
Se ascolto la parola del Padre, vivo da figlio e da fratello. Questo assicura già
63
v. 5 sul pinnacolo del tempio, ecc. È la tentazione centrale: un messianismo
che risponda alle attese religiose, garantendo il “possesso” di Dio con segni
visibili (“Gott mit uns”). La sete del religioso è un’ansia di sicurezza che fa
Dio e alla perversione della fede: si cercano i doni invece del Donatore, si
pretende di essere ascoltati da lui invece di ascoltarlo, si vuole che lui faccia
ciò che piace a noi invece di fare noi ciò che piace a lui. Su questa via non si
arriverà mai al Signore. Non conoscerà mai l’amore dei genitori chi ne cerca
seconda: cerco di garantirmi lui, per avere ogni pane. Senza sapere che il pane
nella sua parola (v. 4). Ora il diavolo, facendosi sottile teologo, cita a proposito
il Sal 91: Gesù si fida davvero della parola del Padre, e questa merita fiducia?
che lui è il Figlio, che si fida del Padre! Se non lo fa, non ha fiducia in lui, e
l’inganno?
v. 7 sta scritto anche. Non si può isolare un aspetto della Parola da un altro: è
una “eresia”, con cui scelgo ciò che Dio dovrebbe fare a mio vantaggio,
I doni sono segno del suo amore; pretenderli, significa non credere al suo
amore. A chi li pretende non sono dati (16,4); chi ama non li richiede e ne
scopre in abbondanza.
64
non tenterai il Signore Dio tuo (Dt 6,16; Es 17,1-7). Gesù risponde
a noi, di comperarlo. Povero Dio, che è amore! Questo è il peccato più grave
essere ascoltato da noi. La sua parola ci è data perché noi, e non lui,
obbediamo ad essa.
v. 8 tutti i regni del mondo e la loro gloria. Il Messia deve dominare da mare
a mare (Sal 2,6.8; 72,8; 110,1s); a lui è stato dato ogni potere, in cielo e sulla
grottesco di Dio e del suo regno. Tolgono la libertà invece di darla, cercano il
“Gloria”.
adora satana, a chi lo ritiene come valore assoluto. Vorremmo che il Messia
fosse il garante divino del potere dell’uomo sull’uomo. Ma Dio non conferma il
Gesù sarà re, ma sulla croce. Lì si rivelerà come libertà assoluta, mettendo la
di questo tipo, e non il crocifisso (16,23). Quanti cristi satanici che rispondono
ai nostri deliri di potenza! La croce è la distanza infinita che Dio ha posto tra se
65
Il potere di satana sul mondo si farà sempre più forte. Cristo lo vincerà sulla
il Signore Dio tuo adorerai. Gesù risponde con Dt 6,13 (cf Es 32,1s), in cui si
richiama il vitello d’oro. Qui c’è la vera alternativa: tra ciò che è e ciò che
coi piedi di argilla (cf Dn 2,31-33) - è spazzato via dal “sassolino” della
debolezza di Dio.
nostra. Tutti, come siamo caduti nella sconfitta di Adamo, siamo vincitori nel
suo trionfo.
ora anche del Figlio dell’uomo. Infatti la sua obbedienza di Figlio lo restituisce
Marco parla anche di fiere (Mc 1,13). Bestie selvagge in noi sono le fami, i
bisogni, gli impulsi. Se li viviamo in modo filiale, anche con esse possiamo
Dio. Il creato torna alla sua purezza originaria, prima della caduta. Se invece li
suo emissario (Ap 13,1ss), che vuol divorarci. La stessa realtà di limite può
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il deserto dove Gesù si trova
c. chiedo ciò che voglio: discernere le suggestioni del nemico “a fin di bene”
d. traendone frutto, considero Gesù portato nel deserto e le tre diverse
tentazioni
da notare:
fu portato su nel deserto dallo Spirito
diavolo (= divisore), tentatore, satana (= accusatore)
66
“se sei Figlio di Dio”/“sta scritto”
pietre/pane/parola
il diavolo cita le Scritture “a proposito”
“sta scritto”/“sta scritto anche”
non tenterai il Signore Dio tuo
tutti i regni del mondo e la loro gloria
vattene, satana
adorerai solo il Signore
gli angeli lo servivano.
4. Testi utili: Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 51; 91; Sir 2; Es 16,2ss (Dt 8,3); Es 17,1-7
67
8. IL REGNO DEI CIELI È QUI.
4,12-17
“Il regno dei cieli è qui”, suona il proclama di Gesù. Vinto satana, arriva il
regno. C’è una contrapposizione tra i regni prospettati dal nemico e quello
voluto dal Signore: la stessa che c’è tra cielo e terra, tra uomo e Dio. I regni
della terra sono quelli di Adamo, che pone come principio di vita le proprie
paure - e le realizza -; il regno dei cieli è Gesù, che ha come principio il Padre
Il brano segna il passaggio tra l’attività del Precursore e quella del Messia.
Dopo il ritiro nel deserto e l’arresto del Battista, Gesù torna in Galilea; non va
però al suo paese, bensì a Cafarnao. L’inizio del suo ministero è visto come il
destino del suo Signore. È profeta non solo con la parola, ma anche con la vita.
68
Gesù si “ritira” dalla Giudea in Galilea per non fare subito la stessa fine, e da lì
centro sul lago, via di comunicazione, è più adatta per il suo ministero.
Nei vv. 14-16, Matteo risponde all’obiezione di chi sa che il Messia viene da
Giuda (cf 2,6), mostrando che la sua “fuga tattica” è compimento della
profezia di Isaia, che aveva previsto il sorgere della luce proprio nella Galilea
dei pagani. Il regno è visto come luce che vince le tenebre e la morte.
Il v. 17 è il proclama di Gesù, identico a quello del Battista. Ciò che prima era
attraverso i fatti e i detti di Gesù, mostrerà il cammino della vita nuova del
regno.
Gesù è la luce promessa a Israele e, per mezzo di lui, a tutti gli uomini. In lui
si realizza il passaggio dalla nostra notte al giorno di Dio, dalla morte alla vita,
dai vari regni della terra che uccidono, all’unico regno dei cieli che fa vivere.
La Chiesa ha in Israele la sua radice santa (Rm 9-11; Sal 87). L’inserimento in
3,7-10).
Infatti è “consegnato”, come Gesù. Questa parola indica sia l’azione degli
uomini, che consegnano il Figlio dell’uomo, sia quella del Padre che lo
consegna a noi, sia quella di Gesù che si consegna nella mani dei fratelli come
senza aggiungervi altro, realizza in essa la sua libertà di donarsi. Con lo stesso
69
atto con cui noi gli togliamo la vita, lui ci dà la sua vita: nel nostro furto, lui si
dona! Per questo la storia ha comunque ormai un esito positivo (Rm 8,28).
Con la sua fine, Giovanni non è finito, ma raggiunge il suo fine: diventa
testimone con la vita di ciò che prima aveva detto con la parola. Il martire non
muore, ma è ucciso; così ricorda anche con la sua morte che ciò per cui vive
Gesù si ritirò in Galilea. Gesù passa dal deserto di Giuda alla Galilea. Lì
Battista ne segna l’inizio: quel regno che si realizzerà sulla croce, si compie e
galilaica”. Si trova in un luogo fertile e piano, ricco di villaggi, il più piccolo dei
quali conta 15.000 abitanti - dice Giuseppe Flavio, con evidente esagerazione
regione. Qui nacque il moto messianicoo degli Zeloti, in gran parte galilei.
70
v. 15 Galilea delle genti. Le genti sono i pagani. La Galilea, luogo di
controllo del Tempio, zona di confine, piena di pagani, fa da ponte naturale tra
volge alle genti, le genti alla Giudea (cf Sal 87; Is 2,1-5), perché la salvezza è
per tutti.
v. 16 il popolo che sedeva nelle tenebre, ecc. Nella profezia di Isaia si parla di
Adamo, ebrei e non, che, con o senza legge, sono schiavi del male, privi della
Le tenebre sono il caos primordiale dal quale Dio creò il cosmo con la sua
parola, sono l’oscurità d’Egitto dal quale Dio fece venire alla luce della libertà il
creazione. La sua venuta è “il giorno di Dio”, previsto dai profeti, che pone fine
alla notte del mondo. Anche i pagani hanno visto la luce della sua stella (2,2),
Come la tenebra è simbolo del male e della morte, così la luce è simbolo del
La luce è grande, e si leva nel cuore delle tenebre. La lotta tra luce e tenebre
71
ciascuno in privato, un fatto atteso da sempre: è venuto il giorno di Dio, di cui
il Battista è stato, con gli altri profeti, la stella del mattino (2Pt 1,19).
convertitevi. Convertirsi, volgersi alla luce, aprire gli occhi, è ormai l’unica
condizione per entrare nel giorno che già c’è. È un cambio di mente e di cuore,
di occhi e di vita. “Sentinella, quanto resta della notte?”, chiediamo con ansia
(Is 21,11). Resta ormai solo il tempo del nostro svegliarci dal sonno (cf Rm
13,11).
convertirci a lui. Da sempre lui è rivolto a noi: attende solo che noi ci volgiamo
il regno dei cieli è qui. Se Dio regna sulla terra, comincia la libertà dell’uomo.
Il regno, prima atteso e ora presente in Gesù, è quello del Padre, in cui viviamo
In genere noi viviamo nei ricordi del passato o nella speranza del futuro, nel
“già” che non c’è più o nel “non-ancora” che ancora non c’è. Gesù ci richiama
a vivere “ora”, il tempo tra il già e il non-ancora: è l’unico che c’è, il solo in cui
incontriamo colui che è. Infatti ciò che desideriamo è “qui”, non altrove. Basta
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando la Galilea e Cafarnao, sul lago, dove Gesù inizia
il suo ministero
c. chiedo ciò che voglio: volgermi, qui e ora, a Gesù e alla sua parola
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
la consegna di Giovanni Battista
Gesù lascia Nazareth e va a Cafarnao
il ministero di Gesù come luce nelle tenebre
convertitevi
72
il regno dei cieli è qui.
4. Testi utili: Is 8,23b-9,3; Sal 27; At 4,24-30; Sap 1-5; Ap 5; Sal 87; Is 2,2-5;
73
9. VENITE QUI, DIETRO DI ME
4,18-25
4,18Ora, camminando sulla riva
del mare di Galilea,
vide due fratelli,
Simone chiamato Pietro
e Andrea, suo fratello,
gettare il giacchio nel mare;
erano infatti pescatori.
19 E dice loro:
Venite dietro di me,
e vi farò pescatori di uomini!
20 Ora essi, subito,
lasciate le reti,
seguirono lui.
21 E, andato oltre,
vide altri due fratelli,
Giacomo di Zebedeo
e Giovanni, suo fratello,
nella barca con Zebedeo, loro padre,
a rassettare le loro reti,
e li chiamò.
22 Ora essi, subito,
lasciata la barca
e il loro padre,
seguirono lui.
23 E girava per tutta la Galilea,
insegnando nelle loro sinagoghe
e proclamando l’evangelo del regno
e curando ogni malattia
e ogni infermità del popolo.
24 E uscì la sua fama
per tutta la Siria,
e portarono a lui
tutti i malati,
oppressi da molteplici malattie e tormenti,
e indemoniati e lunatici e paralitici,
e li curò.
25 E lo seguirono numerose folle
dalla Galilea e dalla Decapoli,
da Gerusalemme e dalla Giudea
e da oltre il Giordano.
74
Dio-con-noi, entrare nel regno dei cieli, che già è qui: è lui. Si segue lui per
diventare come lui, figli e fratelli, che vivono il regno del Padre.
personale con Gesù, il mio Signore, che amo perché lui per primo mi ama.
L’amore per lui, che si esprime inorecchi che ascoltano, occhi che guardano,
piedi che seguono, mani che toccano, fiuto che sente, bocca che assapora e
“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo” ( Ger 17,5). L’uomo può seguire
solo Dio e la sua parola, che è “la via”. Seguiamo Gesù perché è Dio, Parola
fatta carne. Il cammino del Figlio dell’uomo tra gli uomini è come l’ordito
attorno al quale cresce la trama del cammino dei fratelli, che, pur errando qua
e là, lo seguono.
vocazione, una chiamata dal nulla. Il suo chiamarmi per nome è il mio stesso
esistere nella mia verità: il mio io è il mio nome detto da Dio! Conoscere come
“Il popolo che camminava nelle tenebre vide una luce grande” (v. 16). Come
al principio “Dio disse”, e dal caos fu la luce, così il Signore dice il mio nome, e
sono due le chiamate, perché due è il principio di molti. Oltre la prima, ce n’è
i fratelli dall’abisso delle loro perdizioni (vv. 23-24). Pescati da lui, diventano
come lui: figli che si fanno fratelli di tutti i perduti. A loro, immediatamente
loro e del Padre. Capiranno meglio la loro chiamata quando, a loro volta,
75
Le due scene di chiamata (vv. 18-20.21-22) sono gemelle. I diversi dettagli
“lasciano reti”, “barca” e “padre”, e “seguono lui”. Sono gli elementi di ogni
vocazione, che comincia con i piedi di Gesù che cammina per venirci incontro
e termina coi nostri che camminano dietro di lui per seguirlo. Il principio è il
“vedere” e “chiamare” suo, che ci fa “lasciare tutto” e “seguire lui”, per essere
I vv. 23-25 ci presentano Gesù che pesca gli uomini. Il tema verrà ripreso in
9,35, alla fine del discorso sul monte e dei miracoli: il suo dire e fare “pesca”
Gesù è la parola del Padre, il Figlio, che ci guida nel cammino verso la libertà,
come la nube che guida il popolo verso la terra promessa (Nm 9,15-23).
I discepoli sono chiamati a fare il suo stesso cammino, luminoso per chi va
verso la libertà e oscuro per gli altri (Es 14,20). È il passaggio dalle tenebre
alla luce (4,16), il venire alla luce dell’uomo nuovo. Tutto il vangelo racconta
sulla riva del mare. L’acqua richiama sia la Genesi che l’Esodo, la creazione
nuova e la liberazione.
76
vide. L’occhio va dove porta il cuore e porta al cuore ciò verso cui va.
L’occhio di Dio, il suo vedermi, è il mio stesso esistere. Io sono in quanto visto
Come mi vede Dio? Gesù dice di ciascuno di noi al Padre: “Li hai amati come
hai amato me” (Gv 17,23). Vedere come lui mi vede, conoscere come sono da
lui conosciuto, è felicità senza fine (1Cor 13,12; 1Gv 3,2). Sono prezioso ai suoi
occhi, degno di stima, perché mi ama (Is 43,4) di amore eterno (Ger 31,3).
Sono un prodigio per lui che mi è più madre di mia madre (cf Sal 139,13s). Lui
mi turba”, e: “Tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo” (Ct 6,5; 4,9).
Capire la sua “passione per me” - “mi ha amato e ha dato se stesso per me”,
dice Paolo (Gal 2,20) - è capire chi è lui, amore assoluto “per me”, e chi sono
due fratelli. Quattro volte esce la parola “fratello”. La mia chiamata è alla
fraternità, perché sono figlio. In relazione al fratello realizzo il nome datomi dal
Simone chiamato Pietro. Il primo chiamato sarà anche il primo degli apostoli
Andrea, suo fratello. Secondo Giovanni (1,40s) è Andrea che conduce Pietro
gettare il giacchio. È una piccola rete che si getta attorno a forma di cerchio
e si chiude sul fondo come una nassa, nella speranza di pescare qualcosa. È la
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La chiamata avviene nella quotidianità, per quanto profana (pescare) o
chiamata di Paolo). Nulla resiste alla voce di Dio. Infatti egli svela la nostra
inautenticità.
v. 19 dice loro. Nel racconto della creazione (Gen 1,1ss) Dio “dice” e poi
sceglie per essere con lui. La sua parola, come un seme, genera secondo la
sua specie: a quanti l’accolgono ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv
1,12).
toglierlo dall’abisso, farlo vivere. I discepoli, pescati alla vita dal Figlio,
decisione avviene solo quando si decide. Questo istante, come ogni inizio,
“nome”. Quando uno sente il proprio nome, anche l’animale, “subito” si volge
a chi lo chiama.
lasciate le reti. Lasciano tutto, anche i mezzi di lavoro, dai quali, per quanto
di chi ha trovato il tesoro (13,44). Non è privazione, ma scelta di ciò che più di
78
Decidere è un tagliare via tante possibilità, per realizzarne una che dà più
è la conferma che la scelta è stata buona. La firma di Dio circa la bontà di una
da Dio e inizia il ritorno. Il tempo del verbo greco (aoristo) indica l’inizio
Si segue chi si ama e si diventa chi si ama! “Sono stato conquistato da Cristo
Gesù, per questo corro anch’io per conquistarlo”, dice Paolo (Fil 3,12). La fede
è essere innamorato di Gesù, come lui lo è di me, per vivere come lui, anzi di
lui, nella reciprocità d’amore: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.
Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e
ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Lui è per me e io per lui (Ct 2,16; 6,3).
v. 21s andato oltre, vide altri due fratelli, ecc. La scena ripete la precedente,
alla prima, con le sue peculiarità. Qui si parla anche di barca, di padre, di reti
v. 23 girava per tutta la Galilea (9,35). Gesù itinerante, il Figlio in pesca dei
Il ministero di Gesù inizia in Galilea e poi si espanderà per tutte le strade del
mondo (28,19s).
79
insegnando. Lui è la Parola fatta carne: ciò che fa e dice è la verità del Figlio,
proclamando. Gesù bandisce la buona notizia del regno. Nei cc. 5-7 dirà
origine degli altri è l’ignoranza della verità sua e di Dio. Tutta l’attività di Gesù
discepoli, quanti saranno chiamati all’ascolto della Parola, esposta nei cc. 5-7.
la Palestina, per estendersi alla fine del Vangelo a tutti i popoli. Gli uomini
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginandomi sulla riva del “mare” di Galilea
c. chiedo ciò che voglio: non essere cieco al suo sguardo, non essere sordo
alla sua voce, sentire il “mio” nome dalla sua bocca
d. traendone gusto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che fanno
da notare:
il mare
Gesù cammina
vede
chiama
venite qui dietro di me
vi farò pescatori di uomini
subito
lasciare reti, barca, padre
seguire lui
Gesù che insegna e cura.
80
4. Testi utili: Sal 23; Sal 119: sostituendo con “Gesù” il termine “Parola” o
81
10. BEATI I POVERI
5,1-10
“Beati”, dice Gesù di quelli che noi consideriamo infelici. Per noi è beato il
ricco, il potente e l’onorato: vale chi ha, può e conta. Per Gesù è beato il
povero, l’umile e il disprezzato: vale chi non ha, non può e non conta. È un
sbagliamo noi, o si sbaglia lui! Per lui sono benedetti quelli che riteniamo
L’inizio del discorso della montagna, che si estende per tre capitoli ( cc. 5-7),
costituisce il manifesto, la “magna charta” del regno: dice chi sono i suoi
cittadini, qual è la loro condizione. I criteri con i quali Dio giudica e agisce sono
oppongono come due modi contrari di valutare e di vivere. Sono due modi
82
opposti di essere: quello di Gesù, Figlio del Padre e fratello di tutti, e quello di
Possiamo usare sette chiavi di lettura per entrare nel mistero di questo testo.
fallimento.
cristiana: la regola di vita del Figlio. Ma non è una nuova legge, più impossibile
dell’antica. È il cuore nuovo, promesso dai profeti. Infatti quanto Gesù qui
afferma è quanto lui vive, e con la sua carne comunica ad ogni carne. Le sue
parole non sono legge, ma vangelo; non sono esigenze nobili e difficili, ma il
dono sublime e bello che ci offre, facendosi nostro fratello. Senza il dono del
Gesù non solo dice: dà a noi ciò che dice. L’inclusione 4,23 = 9,35 fa del
discorso sul monte e dei dieci prodigi (nove miracoli e un esorcismo) successivi
un’unità. La parola dei cc. 5-7 ha il potere di farci uomini nuovi: come si
racconta nei cc. 8-9, ci purifica la vita, ci dà la fede, ci rende atti a servire, ci
83
libera dalla paura, dal male, dal peccato, dalla malattia e dalla morte, ci fa
essere ciò che siamo: figli; dobbiamo quindi diventare fratelli. L’uomo non ha
altro dovere che diventare ciò che è. È importante innanzitutto cogliere “la
bellezza” di questo discorso, che ci ridona nel Figlio il vero volto nostro e del
Padre.
Queste parole non sono rivolte solo ai discepoli, o addirittura a quelli più
volonterosi. Sono per ogni uomo che cerca la propria verità; gli restituiscono la
5,1 Viste le folle. Il discorso è destinato alle “folle”, all’umanità oppressa dal
male che accorre a lui dai quattro punti cardinali (4,23ss). Le parole che
seguono sono la terapia che li fa uomini nuovi, con la stessa sapienza del
Figlio.
salì sul monte. Dio sul Sinai rivelò la Parola. Qui si manifesta il Figlio,
84
messosi a sedere. Gesù “cammina” quando insegna con la vita (cf 4,18);
gli si avvicinarono i suoi discepoli. Sullo sfondo c’è la folla anonima. Discepolo
v. 2 aperta la sua bocca. Apre la bocca per rivelarci se stesso, Verbo eterno
del Padre. Gesù è colui che dice e che è detto, colui che parla e la Parola
stessa.
ci istruisce, e noi siamo da lui istruiti. L’essenza del discepolo (= colui che
v. 3 beati. Per otto volte più una (v. 11) Gesù ripete il ritornello, perché si
Le sue parole hanno una carica eversiva unica: capovolgono il mondo e i suoi
principi. Gesù si congratula con gli svantaggiati, perché hanno “il grande
vantaggio”: Dio è per loro, con loro, uno di loro! La radice della beatitudine,
che viene dal fatto che noi consideriamo beato chi è ricco, possiede e domina.
i poveri. In greco non è scritto: “povero”, che indica uno che ha poco e con
pena, a differenza del ricco, che ha tanto e senza fatica. È scritto: “pitocco”,
sì dono di Dio, ma la povertà è colpa del ricco, che ruba o non condivide col
fratello.
85
in spirito. L’espressione per noi è strana. Si tratta degli anawim ruah di
Qumram, i “piegati nello spirito”, gli umili, quelli che hanno il cuore del povero
Il povero è necessariamente umile: vive di ciò che l’altro gli dà. Questa è la
condizione del Figlio, che tutto riceve dal Padre, anche l’essere se stesso.
ha gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (cf Fil 2,5-11). Dio è
essere è essere del Figlio, se è il Padre; essere del Padre, se è il Figlio; essere
di Dio è già dei poveri e dei perseguitati (v. 10). Ma rimane la tensione verso
dandole una meta, che il futuro rende evidente. La pianta viene dal seme che
(Gal 6,7); e chi semina nel pianto, mieterà con giubilo (Sal 126,5). Contro ogni
il regno dei cieli. Il regno di Dio è Dio stesso che regna. Dio è Padre: il suo
v. 4 beati gli afflitti. Il povero è afflitto: a lui va male. Infatti piove sempre sul
86
saranno consolati. Il presente di afflizione ha un futuro diverso (cf Is 61,1ss).
“Consolazione” indica la gioia del mondo nuovo, in cui non ci sarà più il male.
Esso c’è ancora, ma non è più la parola definitiva: si può e si deve sperare e
guardando alla gloria che gli era posta innanzi, e ora siede alla destra di Dio.
per questo “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla
v. 5 beati i miti. Mite è chi non fa valere i propri diritti e cede piuttosto che
“grinta”, non vuole dominare, non sopraffà nessuno. Chi ama è sempre mite. Il
dello Spirito, che è vita. La terra promessa è la promessa dello Spirito. Chi ha
Mite è Mosè (Nm 12,3), colui che porta il regno (Zc 9,9), Gesù (11,29; 21,5).
miti.
v. 6 beati quelli che hanno fame e sete di giustizia (Sal 107,5.8s). Fame e
sete sono bisogno di vita - e la vita è “la giustizia”, la volontà di Dio, il suo
amore per tutti. Beato chi ha fame e sete di vivere sulla terra il suo amore di
saranno saziati. La sazietà è pienezza di vita. Gesù, che compie ogni giustizia
facendosi solidale coi fratelli perduti (3,15), è il Figlio, pieno della vita stessa
87
del Padre (3,15-17). Da lui, fatto pane, anche noi prendiamo forza e sazietà
filiali.
v. 7 beati i misericordiosi. Sono coloro il cui cuore si lascia toccare dal male
Mt 5,48). È l’unica beatitudine dove uno trova nel futuro ciò che già ora ha!
v. 8 beati i puri di cuore (Sal 24,4; 73,1). Il cuore, centro della persona,
contiene “l’uomo nascosto” (1 Pt 3,4): il Figlio, che per la fede abita nel nostro
cuore (Ef 3,17). Chi ha il cuore puro, non ottenebrato da tanti desideri e paure,
lo trova.
vedranno Dio. Il cuore puro è un occhio trasparente che vede Dio. E lo vede
si ottiene con la retta intenzione: chi in tutto cerca solo Dio, trova lui, che è
v. 9 beati i pacificatori. Fare pace tra gli uomini significa renderli fratelli.
saranno chiamati figli di Dio. Rendere fratelli è l’opera del Padre e di chi già è
figlio.
v. 10 beati i perseguitati a causa della giustizia (1Pt 3,14; 2,19). Chi ama il
fuori di sé. La pace non è mai pacifica: costa la croce del pacificatore (cf Ef
2,13s) - come a Gesù, così ai suoi discepoli, che ritengono una “dignità”
di essi è il regno dei cieli. Il regno dei cieli, qui sulla terra, permane sotto il
segno della croce. La vita del discepolo è “sotto il vessillo della croce”, luogo
d’incontro tra l’ingiustizia dell’uomo e la giustizia di Dio, amore per tutti gli
88
Dio” (At 14,22). Noi pensiamo che le contrarietà lo ostacolino. Ma la nostra è la
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte sul quale Gesù parla alle folle
c. chiedo ciò che voglio; capire il mistero del Signore che pensa il contrario di
me e perché
d. sosto su ogni parola, ne vedo la bellezza e considero come Gesù l’ha
vissuta.
4. Testi utili: Sof 2,3; 3,12-13; Sal 146; 126; Is 55; Sap 3-5; Lc 1,46-55.
89
11. BEATI SIETE, QUANDO VI INSULTERANNO
5,11-16
“Beati siete”, dice Gesù rivolgendosi personalmente a quelli che hanno udito
ascoltano, diventano un “voi” rispetto a lui che parla: è il “voi” della Chiesa,
I vv. 11-12 sono uno sviluppo della precedente beatitudine sui perseguitati
per la giustizia (v. 10). Questa persecuzione fa nascere il “voi” della Chiesa, in
90
proclama l’identità dei discepoli perseguitati: sono “sale della terra”, che
“luce del mondo”, “città posta sul monte”, “lucerna accesa sul lucerniere”.
loro Signore: con gioia vivono la beatitudine di essere con lui e come lui. La
croce li rende conformi a lui, con il suo stesso amore per il Padre e i fratelli. Li
fa “sale della terra”: dà ad Adamo, che è terra, il suo sapore, la sua “identità”
di figlio. E questa si fa “rilevanza”, luce del mondo, che conquista anche gli
quello che ancora manca alla passione del Figlio in favore dei fratelli (Col 1,24)
Gesù, Sapienza di Dio, è il Figlio che dà la vita per i fratelli. Per questo è sale
Cristo. Partecipa del suo destino di passione in quanto sale della terra e di
gloria in quanto luce del mondo - senza dimenticare che è luce solo in quanto
è sale.
5,11 Beati siete. Ora Gesù si rivolge a chi si è lasciato generare dall’ascolto
della Parola. È il “voi” dei fratelli, che gli somigliano in ciò che ha di più
91
perso la faccia e la vita per noi. Per questo gli apostoli, dopo aver per la prima
povertà con Cristo povero, piuttosto che onori, umiliazioni con Cristo umiliato,
e desiderio di essere considerato stolto e pazzo per Cristo, che per primo fu
ritenuto tale, piuttosto che saggio ed accorto secondo il giudizio del mondo”, e
questo “solo per imitare e somigliare più strettamente a Cristo nostro Signore”
(Esercizi spirituali n. 167). Non che uno ami gli insulti - non bisogna darne
rivestire “la sua livrea” (ivi, n. 102), essere con lui e come lui.
prove sono la prova che siamo figli (Eb 12,8), causa di “perfetta letizia” (Gc
diffuso: è la cattiva fama, l’essere “annoverato tra i malfattori” (Lc 22,37), che
mentendo. Non bisogna dare motivo di biasimo, “perché nel momento stesso
in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla
essere non giusti: solo allora sono testimonianza del “Giusto”. Per questo “è
una grazia, per chi conosce Dio, subire afflizioni soffrendo ingiustamente; che
dire che ciò è giusto, e riconoscere così la vicinanza del Giusto che
92
ingiustamente è lì per offrirci il regno (Lc 23,41). Anche la sofferenza ingiusta e
meritata - e come tale riconosciuta - unisce alla grazia del Giusto sofferente.
ricompensa, la più grande che ci sia: “nei cieli” - in Dio! - siamo generati figli, a
così infatti perseguitarono i profeti prima di voi. Non siamo soli, ma in buona
compagnia: innanzi tutto con Gesù, e poi con il “nugolo di testimoni” che ci
della terra. La nostra identità è “sale della terra”: dà senso non solo alla
è per tutti il sapore stesso della vita. Se uno non è figlio e fratello di nessuno,
semplicemente non è.
ma qualora il sale sia scipito. È facile perdere il sapore di Cristo, che è saper
raffredderà” (24,12). Il seme della Parola che ci fa figli può non attecchire, può
a nient’altro vale, ecc. Il discepolo che non ha il sapore di Cristo non vale
93
v. 14 voi siete la luce. Chi “sa” di Cristo, è luce: l’identità è rilevanza. La luce
è il principio della creazione (Gen 1,3). Gesù è visto da Matteo come il sorgere
(4,12-17). In lui siamo illuminati, veniamo alla luce della nostra realtà,
nasciamo come figli. E chi è illuminato, a sua volta fa luce agli altri.
del mondo. Ciò che dà sapore alla terra, illumina il mondo, facendone vedere
strutturato sulla brama di avere, di potere e di apparire (1Gv 2,16), con il suo
La vita filiale fa cadere l’inganno, e gli ridà la verità del suo splendore.
una città. La comunità è una città, la città santa, il luogo in cui si vivono le
posta su un monte. La città santa è sulla cima dei monti, come il tempio del
Signore, che essa è (Is 2,2). Tutti la vedono e dicono: “Venite, saliamo sul
monte del Signore, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i
L’identità non può restare nascosta, anche se non fa nulla per farsi vedere: il
sale non può non salare, e la luce non illuminare. Il problema non è salare o
come la rana che si gonfia per diventare bue. Nessuno dà ciò che non ha: ciò
emerge dall’olio. Solo se è accesa, fa luce. Così anche noi facciamo luce solo
94
sotto il moggio/sopra il lucerniere. Si mette la lampada sotto il moggio per
rivelazione.
quelli di casa. I fratelli si accorgono del fuoco che è in me, se c’è, e ne sono
v. 16 davanti agli uomini, perché vedano, ecc. Gesù dirà subito dopo di non
agire “davanti agli uomini” (6,1) per avere gloria da loro. Qui dice che le
nostre opere buone edificano i fratelli, che nella nostra vita fraterna avvertono
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12. NON VENNI PER ABOLIRE, MA PER COMPIERE
5,17-20
“Non venni per abolire, ma per compiere” la legge e i profeti, dice Gesù. La
legge infatti è buona: comanda ciò che fa crescere la vita e vieta ciò che la
diviene infine un’abitudine, quasi un imperativo, una coazione a fare ciò che è
96
vietato e a vietarsi ciò che è comandato: è la schiavitù del vizio, tanto difficile
ultima analisi a stuzzicare l’appetito del peccato e far uscire il veleno che c’è in
noi.
Gesù è venuto a liberarci dalla schiavitù della legge non abolendola - sarebbe
superiore, divino.
Infatti dietro la legge, che vieta ciò che sa di morte, c’è il Signore che dà la
vita e risuscita dai morti; dietro la parola che condanna la trasgressione, c’è il
Gesù è il primo che vive l’amore. La sua giustizia non è quella degli scribi e
dei farisei: è quella “eccessiva” del Figlio, uguale a quella del Padre, che fa
Gesù non è la fine, bensì il fine della legge e dei profeti: non l’abolizione, ma
La Chiesa non annuncia la legge, ma il vangelo. “Mosè infatti, fin dai tempi
antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle
eccessiva” del Figlio, che ama come il Padre. Non per questo trasgredisce la
legge. L’amore infatti non fa male a nessuno: pieno compimento della legge è
97
2. Lettura del testo
5,17 Non venni per abolire la legge o i profeti. La legge propone il bene e
ma per compiere. Nessuno fa il bene, neppure uno (Sal 14): tutti, credenti e
non credenti, siamo peccatori, privi della gloria di Dio (Rm 3,23). La Parola,
compie “ogni giustizia” (3,15). Per questo il Padre dice di ascoltarlo (17,5): è il
Verbo fatto carne, venuto tra gli uomini per dare corpo alla legge e ai profeti,
compimento.
v. 18 neppure un solo iota o una sola virgola passerà dalla legge, senza che
tutto sia compiuto. Gesù compie la volontà del Padreamando i fratelli. L’amore
Chi non ama vede le norme come impossibili da osservare o come occasione
per trasgredire. Chi ama compie liberamente tutto, ma non in forza della
proporzionale alla capacità di assolvere quei debiti che solo l’amore conosce.
v. 20 se la vostra giustizia non sarà eccessiva, più degli scribi e dei farisei. Gli
scribi insegnano la giustizia della legge; i farisei la fanno. Gesù dice che per
entrare nel regno non basta conoscere ed eseguire la legge. È necessaria una
giustizia che ecceda i limiti della legge: è quella del Padre, che ama, perdona e
salva gratuitamente i suoi figli. È una giustizia “eccessiva”, perché l’amore che
98
non entrerete nel regno dei cieli. Il regno dei cieli è quello di Dio Padre: vi
entrano i figli - quelli che amano gli altri come fratelli, al di là di ogni bontà o
qualità. Se la nostra salvezza consiste nell’essere perfetti come Dio (v. 48), la
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù sul monte che parla
c. chiedo ciò che voglio: accogliere la “giustizia eccessiva”, pieno
compimento della legge
d. prendo il Sal 119, sostituendo in ogni versetto il termine “parola” (o
“legge”, “precetto” e sinonimi) con “Gesù”, Parola eterna di Dio fatta carne. È
una bellissima contemplazione su Gesù, compimento della legge, rivelazione
piena di Dio.
4. Testi utili: Dt 4,1.5-9; Sal 147b; 119; Ef 1,3-14; Col 1,12-20; Fil 3,1-15.
99
13. IO PERÒ VI DICO
5,21-48
100
31 Ora fu detto:
Chi ripudia sua moglie
le dia l’atto di allontanamento.
32 Io però vi dico:
Chiunque ripudia sua moglie,
eccetto il caso di concubinato,
la espone ad adulterio,
e chi sposa una ripudiata
fa adulterio.
101
e odierai il tuo nemico.
44 Io però vi dico:
Amate i vostri nemici
e pregate per quanti vi perseguitano,
45 perché diventiate figli
del Padre vostro nei cieli,
che il suo sole leva
su cattivi e buoni,
e pioggia dà
su giusti e ingiusti.
46 Infatti se amate quanti vi amano,
che ricompensa avete?
Non fanno così anche i pubblicani?
47 E se salutate solo i vostri fratelli,
cosa fate di più?
Non fanno così anche i pagani?
“Io però vi dico”, dice Gesù dichiarando la giustizia “eccessiva” del Figlio che
Questa sezione, introdotta dal brano precedente, ci spiega in che modo Gesù
compie tutta la legge. Norma del nostro agire è diventare come il Padre (v.
48). Sii ciò che sei: sei figlio, sii dunque figlio, uguale al Padre che ama tutti. Il
discorso sulla montagna rivede, a questa luce, le nostre relazioni coi fratelli
(vv. 21-48). Seguirà l’esposizione dei tre “pilastri del mondo” - l’elemosina, la
Questo brano è strutturato su sei antitesi: “fu detto/io però vi dico”. In realtà
non sono antitesi: Gesù non propone una legge diversa, come appare chiaro
legge non è nuova, ma antica. Il compimento però è nuovo: nessuno mai l’ha
102
proposta e osservata in questo modo, che è quello del Figlio. Principio della
Gesù parla con autorità pari a colui che diede le Dieci Parole. “Io però vi dico”
suona concessione, e passa dalle semplici azioni ai desideri del cuore, da cui
tutto promana. Ma ciò che dice non è un’imposizione legalistica, ancor più
intenzioni. È invece la “buona notizia” di ciò che Dio opera in noi mediante
queste stesse parole, che hanno l’autorità di compiere ciò per cui sono
Alla luce del regno del Padre, proclamato nelle beatitudini, si rivedono ora i
rapporti con gli altri e con l’Altro. Le due tavole del decalogo vengono rivisitate
“Voi”, che avete la sapienza delle beatitudini, siete sale della terra e luce del
mondo proprio perché vivete con gli altri da fratelli, che conoscono il Padre
comune.
I vv. 21-26 riguardano il rispetto dell’altro nella sua vita. Non basta non
ucciderlo: anche l’ira, l’insulto e il disprezzo sono forme di uccisione (vv. 21-
precedenza su ogni culto religioso (vv. 23-24); il non accordo con il fratello è la
I vv. 27-30 riguardano il rispetto dell’altro nel suo bene fondamentale: la sua
relazione di coppia che lo realizza come persona, a immagine di Dio. Non c’è
solo l’adulterio del corpo, ma anche quello del cuore (vv. 27-28). Bisogna
essere decisi nel recidere ciò che induce al male (vv. 29-30)
I vv. 31-32 riguardano il divorzio, concesso dalla legge mosaica; Gesù riporta
103
I vv. 33-37 riguardano il giuramento e la parola, forma fondamentale di
relazione umana, che media e dà senso a ogni altra: il parlare della bocca sia
sostituita da quella della misericordia, che sola vince il male e riscatta chi lo fa.
I vv. 43-47 riguardano l’amore del prossimo (= fratello), che va esteso anche
come la cima più alta da cui si gode tutto il panorama. Ci dice di essere
perfetti come il Padre, perché siamo figli: è l’essenza del vangelo, ciò che Gesù
è venuto a parteciparci.
Gesù qui dice ciò che nel seguito del vangelo puntualmente realizza.
La Chiesa è fatta da uomini peccatori, come tutti. Però si sanno figli del
5,21 Udiste. Israele è la religione dell’ascolto e del dialogo tra Dio e uomo.
fu detto. Il passivo è per non dire il Nome. YHWH parla: l’uomo ascolta, e
non uccidere. È la quinta delle Dieci Parole (Es 20,13; Dt 5,17). Fondamento
chiunque si adira col proprio fratello, ecc. L’ira è omicidio del cuore, moto
104
fraternità, uccido la mia identità di figlio. Per questo l’ira dell’uomo non compie
denigratoria del nemico, come fosse non uomo. Solo allora è possibile
ucciderlo! La stima che devo aggiudicare all’altro è la stessa di Dio, che non ha
oltre che disprezzato, va anche demonizzato, come fosse il male. Così diventa
“bene” eliminarlo!
Gesù per tre volte parla dell’altro come “fratello”: negargli la fraternità è
c’era una volta un altare al dio Moloch, dove si sacrificavano vittime umane.
nell’immondizia.
Padre, devi non solo perdonare il fratello contro il quale hai qualcosa, ma
hai nulla contro di lui. Non puoi celebrare la paternità, se prima non cerchi di
ristabilire la fraternità.
v. 24 va’ prima a riconciliarti col fratello. Se non ti riconcili con il fratello che
ha qualcosa contro di te, sei in colpa tu, anche se hai nulla contro di lui. Non
puoi dire che hai ragione o non ti importa. Il non essere d’accordo è già “il
male”; e se non ti importa di lui, hai già ucciso lui come fratello e te stesso
come figlio.
v. 25 sii d’accordo con il tuo contendente subito. L’altro è sempre colui che
105
perché non ha ciò che vorresti da lui, o perché ti prende ciò che tu vorresti
fin che sei con lui nel cammino. La vita è un cammino di riconciliazione con
l’altro: ha come meta la tua verità di figlio nel tuo vivere da fratello. Se non fai
perché non ti consegni al giudice, ecc. Non importa se hai torto o ragione: se
non vai d’accordo con il fratello, non sei figlio. Con la tua vita scrivi la sentenza
che alla fine il giudice leggerà. Gesù te la legge già ora, perché cambi ciò che
stai scrivendo!
v. 26 non uscirai di lì, ecc. Se non passi dalla logica del debito a quella del
dono e del perdono, perdi la vita di figlio del Padre (cf 18,21-35).
dei cui beni la donna fa parte. L’adulterio è un furto nei confronti del padre, se
più di questo: è appartenenza mutua tra femmina e maschio, che fa dei due
una carne sola, a immagine di Dio. Gli sposi sono l’uno dell’altra e viceversa,
106
adulterio nel suo cuore. L’occhio che desidera per possedere è già adulterio.
cuore ciò che interessa; e al cuore interessa ciò che l’occhio cattura e gli mette
dentro. Una fedeltà che non sia dell’occhio e del cuore è un sepolcro
imbiancato.
v. 29s se il tuo occhio ecc. L’occhio per desiderare e la mano per prendere
sono all’origine di ogni bene e di ogni male, non solo dell’adulterio. Perché
l’occhio e la mano non siano per la morte, bisogna de-cidere (= tagliare) ciò
Gli antichi conoscevano la necessità di una custodia dei sensi (la scimmia con
sei mani!), indispensabile per la custodia del cuore. Se il cuore di chi ama è un
80,14).
v. 31s chi ripudia, ecc. Si tratta del divorzio, fallimento di un’unione. La legge
la buona notizia della vittoria sul male e della possibilità del meglio.
delle regole per tutelare la donna dall’arbitrio del maschio (Dt 24,1). Ai tempi
(Shammai), o qualunque motivo, anche il più futile, che potesse rivelare una
discorso, non come legge, ma come dono del cuore nuovo: in quanto amati
con fedeltà e senza condizioni, possiamo amare con lo stesso amore con cui
siamo amati.
107
Come educare all’amore, come mantenerlo e farlo crescere - se non cresce,
erano veri matrimoni “nel Signore”? E che fare con i risposati, che hanno
soprattutto gli uomini, che sono sempre peccatori e perdonati. Una volta la
Guai al pastore dal cuore duro, legalista e punitivo, che ignora la misericordia
e spegne il lucignolo fumigante. Deve discernere, qui e ora, cosa più aiuta il
principi, non per questo ha imparato come bisogna usarli (cf 1Cor 8,11).
greco c’è porneîa, che può significare sia prostituzione che adulterio. In questo
caso Gesù sarebbe dell’opinione del rigorista Shammai, e non avrebbe senso
dire: “Io però vi dico “. È più probabile che si tratti di unioni tra consanguinei,
usuali nell’antichità e illegittime per gli ebrei (cf Lv 18,16-18; anche in 1Cor 5,1
non è per breve tempo e motivi precisi (1Cor 7,5), è occasione di adulterio:
“espone ad adulterio”. Non si può infatti imporre la verginità a chi non è stata
concessa in dono.
anche al femminile.
108
“Giurare in-vano”, giurare nel nulla, invece che in Dio (Lv 19,12; Es 20,7). È
v. 34 non giurare affatto. Gesù vieta di giurare, perché la parola deve essere
come il cielo!
profani il nome, se dici la verità, lui è già presente in ogni parola vera, senza
alcun giuramento.
testimoni Dio. Sia come il suo: sempre vero, trasparenza del cuore.
sì, sì! no, no! Il nostro parlare sia sì se è sì, no se è no. In mezzo ci può essere
solo il “non so” - ma non come furbizia o pigrizia, bensì come impegno di
ricerca della verità o silenzio di carità. Non dobbiamo fare come lo stolto, che
ha il cuore sulla bocca, ma come il saggio, che ha la bocca sul cuore (Sir
21,26).
un grande incendio (Gc 3,5). Può condurre in porto, oltre ogni burrasca; può
anche distruggere ciò che già è nel porto. Ne uccide più la lingua che la spada
109
(Pr 18,21; Sir 28,13-26; 37,17s). “Se uno non manca nel parlare, è un uomo
Gesù prende occasione dal divieto di spergiurare per dire di non giurare
affatto e per restituire alla parola il suo valore. La menzogna del serpente
se è no al sì e sì al no.
Dio, infinito, è tutto e solo “sì” (2Cor 1,19); l’uomo, finito, conosce anche il
ridarà vita?
v. 38 occhio per occhio e dente per dente (Es 21,24; Lv 24,20; Gen 9,6). È la
selvaggia del più forte (cf Gen 4,23) e ristabilimento di una certa parità. Si
110
suppone il male, e si cerca di contenerlo con il terrore di una pena
corrispondente, o addirittura maggiore (cf Gen 4,15). A noi sembra una forma
che ha rubato miliardi, vediamo che, per certi aspetti, è ancor oggi
speranza, per lo più vana, che ciò serva da deterrente. Infatti aiuta il male a
“eccessiva” del Padre. Solo questa vince il male. Sullo sfondo c’è la croce del
Figlio dell’uomo che si carica del male dei fratelli (8,17; 26,67; Is 53,1ss), e
dell’egoismo. Seguono cinque esempi, che sono anche cinque regole con cui si
non opporti al malvagio. La prima regola per vincere il male è opporsi al male
malvagio, prima vittima del male, è un mio fratello, che va amato con più
cuore. In genere mi oppongo a lui perché mio concorrente: amo il male e odio
chi lo fa come mio antagonista. Il mio odio verso di lui fa da spia alla mia
connivenza col male; il mio amore verso di lui fa da spia alla mia libertà da
esso.
Gesù ama i peccatori perché odia il peccato; io odio i peccatori perché amo il
farsene carico, di patire-con l’altro, come l’Agnello di Dio che porta e toglie il
111
se uno ti colpisce la guancia destra, tu porgigli anche l’altra. Se la prima
rinunciare al tuo diritto, cosciente del tuo dovere di figlio, quello di non opporti
al fratello. Piuttosto che rivendicare senza amore la tua tunica, sii disposto a
v. 41 se uno ti angarierà per un miglio, va’ con lui per due. La quarta regola
chiunque per portare i suoi pesi. Ogni uomo è figlio di Dio, il gran re, ed tu hai
il dovere di aiutarlo a portare i suoi pesi. I bisogni dell’altro son tuoi doveri. E
La comunione tra tutti viene proprio dal Corpo del Figlio, dato per noi.
112
È raro l’amore gratuito, con cui uno accoglie l’altro così com’è. Tutti ne
abbiamo bisogno - chi non è amato e accolto da nessuno non esiste!- per
contro”, comune anche tra i delinquenti: “cane non mangia cane”. Nella stessa
Bibbia è lenta la comprensione dell’amore di Dio per tutti. Già implicito nel
libro della Genesi, dove Dio è creatore di tutti e Abramo, di origine pagana,
sarà benedizione per tutti, l’amore di Dio per il nemico diviene il tema
4,2).
falci (Is 2,4). Allora anche il lupo dimorerà con l’agnello, e la saggezza del
Signore riempirà il paese come le acque riempiono il mare (Is 11,6-9). Con
Con la ragione si può concludere che è bene amare il nemico e forse anche
amare alcuno, tanto meno il nemico. Al massimo può generare ulteriori sensi
di colpa.
L’amore del nemico è l’essenza del cristianesimo. Amare il nemico vuol dire
aver conosciuto Dio nello Spirito. Dio infatti non ha nemici, ma solo figli, che
113
Come tutti gli imperativi di Gesù, non si tratta di oneri impossibili, ma di doni
liberanti. Chi non ama il nemico, non ha ancora lo Spirito del Signore, che
proprio qui rivela l’infinità e gratuità del suo amore (Rm 5,6-11). Una religione
che non arriva a questo, ha ancora molta strada da fare per capire Dio! Le
guerre sante, chi le vuole se non il nemico? Bisogna dire con chiarezza e forza,
che chi uccide in nome di Dio (o per una causa buona) è doppiamente
prima vista non pare. Un dio che ordina di uccidere, è certamente satanico -
anche se al povero Dio abbiamo potuto attribuire ogni perversità, almeno fino
alla sua morte in croce, che liquida ogni immagine perversa su di lui.
L’amore del nemico è indice della libertà dal male. Se amo la torta, odio il
fratello che l’ha mangiata. Se amo il fratello, mi dispiace per lui, soprattutto se
so che è avvelenata.
L’amore del nemico sa distinguere tra bene e male. Solo non fa l’errore di
dividere tra buoni e cattivi, e sa operare la verità nella carità (Ef 4,15).
lo uccidono: fa suo il perdono del Padre (Lc 23,34). Così rivela chi è lui: il Figlio,
uguale al Padre. I martiri cristiani non danno la vita “per la causa” contro i
cattivi che li uccidono, ma per i fratelli che li uccidono: non invocano per loro
v. 45 perché diventiate figli del Padre. “Diventa quel che sei” è l’imperativo
etico. Ora amando i nemici e pregando per i persecutori, divento ciò che sono:
figlio del Padre. Se non amo il nemico, sono nemico di Dio - non mi considero
il suo sole leva su cattivi e buoni, ecc. Dio non taglia la luce e l’acqua a chi
non paga la bolletta. Il suo sole e la sua pioggia, il suo amore e la sua
misericordia sono per tutti, perché tutti riconosce come figli, in attesa che
114
v. 46 se amate quanti vi amano, ecc. L’amore o è gratuito o non è. L’amore
“grazia” (Lc 6,32 ss). Matteo non usa mai questo termine, per altro implicito
non fanno così anche i pubblicani? Amare con interesse è affare di tutti,
versetto è il punto d’arrivo più alto, la vetta panoramica da cui si vede tutto.
Matteo usa volentieri dei versetti sintetici che chiudono quanto detto e aprono
quanto si dirà.
indicativo: sii quel che davvero sei! Ma chi è l’uomo? È figlio di Dio, chiamato a
è aperto all’Infinito.
perfetti. Significa “compiuto”, che non manca di nulla. “Siate santi perché io
sono santo” (Lv 11,44.45; 17,1; 19,21) è il principio della legge. L’uomo è a
attributo esclusivo di Dio: solo lui è Dio, santo, altro da ogni altro. La sua
“alterità” ci è nota attraverso Gesù: è quella del Padre, che ama giusti e
peccatori. Sulla croce, dove tutto sarà compiuto (Gv 19,30) e lui sarà
115
riconosciuto come il Figlio (27,54), vediamo la “santità” del Padre, della quale
lui è realizzazione perfetta. Questa santità non separa dal mondo e dal
Il cristianesimo non è una religione della legge, ma della libertà: della libertà
di amare come si è amati. In essa si compie “ogni giustizia”. Chi ama è libero e
non fa male a nessuno. Chi fa il male, è ancora schiavo della legge che
trasgredisce.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte delle beatitudini
c. chiedo ciò che voglio: diventare perfetto come il Padre; chiedo in
particolare di comprendere e vivere quanto Gesù dice sulla nuova giustizia del
Figlio
d. Medito su ogni parola di Gesù; vedendo come lui l’ha vissuta e la vive nei
miei confronti.
4. Testi utili: Sir 15,15-20; Sal 119; Lv 19,1-2.17-18; Sal 103; Ez 18,21-28;
39.
116
14. QUANDO TU FAI L’ELEMOSINA
6,1-4
“Quando tu fai l’elemosina,” dice Gesù, non sappia la tua sinistra ciò che fa la
tua destra. L’elemosina, come ogni pratica religiosa, va fatta nel segreto,
L’elemosina, con la preghiera e il digiuno (Tb 12,8), sono i tre pilastri della
religione: definiscono il nostro rapporto con gli altri, con l’Altro e con le cose.
Qualunque nostra azione può essere fatta in due modi opposti: per
Uno vive o muore dello sguardo altrui. Chi non è visto da nessuno, non
vede. Da qui l’ophtalmodoulía (Ef 6,6), la “schiavitù degli occhi” che lo rende
117
servo dello sguardo altrui, della vana-gloria. Solo chi sa di essere figlio di Dio,
non può credere in Dio chi cerca la gloria degli uomini (Gv 5,44).
Le opere, anche quelle “per sé” buone, sono buone “per me” solo se fatte
Dopo aver detto di essere perfetti come il Padre (5,48), Gesù ci fa entrare nel
segreto del suo cuore di Figlio. La sua relazione con il Padre è la sorgente del
suo essere e agire, della giustizia eccessiva che apre la porta del regno
(5,17.20).
Ciò che qui si dice per l’elemosina, verrà ripetuto anche per la preghiera e il
Se lo cerco negli altri, non ne avrò mai abbastanza; resterò sempre schiavo e
del giudizio altrui e del mio tentativo di dare una buona immagine di me; avrò
lo cerco nell’Altro, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore
(Ger 31,3; Is 43,4; Sal 139,14). Dio ama ciascuno come figlio, come il Figlio. “Li
hai amati come hai amato me” (Gv 17,23), dice Gesù al Padre di ciascuno di
noi.
Padre. Esso mi rende già ora contento di me e di lui, capace di amare come
sono amato.
Gesù è il Figlio, splendore della gloria del Padre, impronta della sua sostanza
La Chiesa è fatta di figli, che sanno come il Padre li ama: questa è la loro
118
2. Lettura del testo
6,1 Attenti a non fare, ecc. Noi facciamo grande attenzione al contrario:
agiamo solo se visti ed approvati. Anche chi si nasconde, è per farsi notare.
davanti agli uomini, ecc. L’uomo è sempre “davanti agli occhi”, “di faccia” a
suo primo specchio ( importante che sia buono!). A noi scegliere davanti a che
libero da ogni schiavitù. “Tanto è uno quanto è ai tuoi occhi, e nulla di più”,
v. 2 quando dunque fai l’elemosina, ecc. Fare l’elemosina, dare del proprio a
chi è figlio, è anche fratello. Nessuno può dire di amare Dio che non vede, se
non ama il fratello che vede (1Gv 4,20). Il Figlio ci riconoscerà davanti al Padre
Nella Bibbia la terra e quanto contiene è di Dio (Sal 24), dono del Padre ai
119
padroni, inizia l’esilio - “la terra” da giardino si fa deserto, da paradiso inferno.
La prima comunità cristiana è vista da Luca come Israele quando entrò nella
terra promessa: non c’è nessun bisognoso, ognuno dà quello che può e riceve
secondo la sua necessità (At 2,42-48; 4,32-35). Addirittura si vende “la terra”,
Nella tradizione biblica i beni del mondo sono destinati al “bene comune”. La
di nazione, di chiesa. Senza tale fraternità sarà sempre più impossibile la vita
sulla terra. Fede e giustizia, paternità di Dio e fraternità tra gli uomini sono
come lo Spirito e il corpo del cristianesimo. Non c’è l’uno senza l’altro. Senza
Nel rapporto con l’altro si gioca quello con l’Altro, da cui ogni alterità prende
nome.
avvenivano col tempo, in Israele venivano spianate con l’anno giubilare, in cui
della giustizia. Oggi da noi è un cardo spinoso che spunta nel deserto
dell’ingiustizia, come alibi a una vera solidarietà. Non si può andare avanti
così!
120
non suonare la tromba davanti a te. In tutte le “Opere Pie” c’è una quadreria
con l’immagine dei benefattori. Se il bene non fosse pubblicizzato con trombe,
come fanno gli ipocriti. È una parola molto usata da Matteo. L’ipocrita è un
litiga con l’altro per primeggiare. Non è un bel vedere né un bel vivere.
ciò che appare, e ciò che appare non esiste affatto! Si ha spesso l’impressione
per essere glorificati dagli uomini. Il fine del mio agire è il riconoscimento
cui si fa di tutto per dare una buona immagine di sé, pur di essere accettati.
amen, vi dico, ecc. Uno trova quanto cerca. Chi cerca di apparire, ha
stesso.
v. 4 la tua elemosina sia segreta, e il Padre tuo, che vede nel segreto. Il
segreto, la parte più intima che nessuno vede, è il tuo cuore, dove tu sempre
sei davanti a Dio e Dio è davanti a te. Lì Dio ti è Padre e tu gli sei Figlio. Lì il
“Restituire” si dice di un debito: Dio, essendo Padre, è con noi in debito della
nostra filialità.
121
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte da cui Gesù parla
c. chiedo ciò che voglio: agire non per essere visti dagli uomini, ma solo
davanti a Dio
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
agli occhi degli uomini / agli occhi di Dio
essere ammirato
suonare le trombe
essere glorificato
fare l’elemosina
non sappia la sinistra ciò che fa la destra
il Padre tuo che vede nel segreto.
4. Testi utili: Sal 51; 41; 146; Gl 2,12-18; Lv 25,1ss; Is 1,10-20; Lc 12,33s;
122
15. QUANDO PREGHI
6,5-8
“Quando preghi,” volgiti al Padre tuo nel segreto, dice Gesù. Il brano insegna
come pregare (v. 6) e come non pregare, per essere notato dagli uomini (v. 5)
È l’atto fondamentale con cui riconosco il mio principio come mio fine; è
l’atto “razionale” più alto, con il quale, esplorati i miei confini, conosco me e
l’Altro da cui vengo, accetto me come dono dell’Altro e l’Altro come amore per
me.
123
umano, e solo umano. Può quindi anche essere disumano, maldestro o
lui sono ciò che sono; lontano da lui non sono ciò che sono - sono lontano da
me. Non è un optional per anime devote: è la salvezza dell’uomo come uomo,
me stesso.
Pregare non è parlare di Dio, ma parlare con lui; non è leggere un menu di
Pregare è dialogare: rispondo “tu” a colui che dice il mio nome; esco dal mio
guscio, per realizzarmi nel dono all’Altro; dimentico me per ri-cordare, avere-
nel-cuore lui. Pregare è gioire di Dio che amo. Lui diventa la mia vita: vivo, in
perdono.
La preghiera non autentica, fatta per apparire “davanti” agli uomini o a Dio,
necessario pregare sempre (1Ts 5,17; cf Lc 18,1ss), in ogni tempo (Ef 6,18) e
La preghiera va fatta con insistenza (7,7-11 e par), con fede (21,22 e par),
nel nome di Gesù (18,19s; Gv. 14,13; 15,16; 16,24.26), con familiarità filiale
(v. 8).
124
Noi non sappiamo cosa chiedere (Rm 8,2): lo Spirito prega in noi (Rm
La preghiera, unione con il Padre nel Figlio, è anche solidarietà con i fratelli,
intercessione dell’unico Giusto che salva tutti (cf Gen 18,16-33); è lotta in cui
si vince il male (Es 17,8-15; Rm 15,30; Col 4,12), si riceve il proprio nome (Gen
32,23ss) e Dio stesso riceve il suo vero nome: “Abbà” (Mc 14,36 e par).
ottiene tutto (7,7), perché fa volere ciò che Dio vuole dare, e solo allora può
immagine di Gesù, ci fa vivere la sua stessa vita e portare lo stesso frutto (cf
Gal 5,22). Ci incorpora a lui, dandoci come principio vitale il suo amore
reciproco col Padre (cf 11,25-27). Così il nostro essere, pensare e agire
Dio.
Credere in Dio senza pregare è solo fede demoniaca (cf Gc 2,19). Conoscerlo
La preghiera non è fare qualcosa: è quel “far niente”, quel riposo sabbatico
che ci concede di essere fatti dal Signore e ci fa abitare “la terra” (cf Is
58,13s). Gli empi, al contrario, sono sempre inquieti, come un mare agitato
amore.
La Chiesa è la comunità dei fratelli di Gesù: uniti a lui, vivono il suo stesso
6,5 E quando pregate, non siate come gli ipocriti. L’ipocrita cerca se stesso.
Chi cerca il proprio io, non trova Dio. Solo chi si svuota di sé, si riempie di lui.
125
L’ipocrita si serve di tutto, anche di Dio, per apparire davanti agli uomini. Ma,
c’è un’ipocrisia ancor più profonda: voler apparire davanti a lui. Nella
preghiera non siamo protagonisti. È lui che agisce. Per questo si passa
superbi (Gc 4,6; 1Pt 5,5) e ricolma di grazia gli umili, come Maria. La preghiera
dell’umile penetra le nubi (Sir 35,17) e il suo cuore è il tempio dove Dio fissa il
amano pregare. L’ipocrita “ama” pregare. Ovviamente davanti agli altri, agli
per apparire agli uomini. Questa preghiera è una epifania dell’io, non di Dio.
Invece di stare davanti a lui e rifletterne la gloria, si sta davanti agli uomini per
entra nella tua dispensa. La dispensa è una stanza interna senza finestre,
scaturisce il mio io. Lì io sono me stesso, e Dio è più me di quanto lo sia io. In
quel luogo “segreto” io sono ciò che sono, perché davanti a “Io-sono”; lì
attingo quanto serve per vivere, anzi la sorgente stessa della vita.
dove io sono me stesso, in comunione con Dio e con tutti, presente alla
126
In questa dispensa ricevo la manna nascosta e il segreto del nome mio e di
Dio (Ap 2,17; 3,12). Qui sono figlio; e lo Spirito, con gemiti ineffabili, nel
grande silenzio della notte luminosa, grida: “Abbà, Padre” (Rm 8,15; Gal 4,6).
Questa è la Parola, che rivela il Padre e il Figlio nello Spirito. Detta da noi nel
Figlio, ci introduce in seno alla Trinità: riporta il mondo in Dio portando Dio nel
mondo.
Questa dispensa, in cui si prega, è il nostro cuore, dove sta l’uomo nascosto
del cuore (1Pt 3,4a), l’uomo interiore, il Cristo, che per la fede dimora nei
chiusa a chiave la tua porta. Bisogna chiudere a chiave la porta, dopo esservi
entrati. Ci si entra con l’amore per Gesù, che sta alla porta e bussa, perché gli
apriamo e ceniamo con lui e lui con noi (Ap 3,20). Il chiavistello è dalla nostra
parte: beato chi gli apre, entra, chiude e resta lì, facendo del suo dimorare in
lui la propria dimora. Noi entriamo e usciamo di continuo, senza mai fermarci.
stessi, strattonati qua e là dalle molte occupazioni, come Marta (Lc 10,41). Una
l’uomo nascosto del cuore in uno Spirito incorruttibile, mite ed “esicasta” (cf
il Padre tuo che guarda nel segreto. Il suo occhio è sempre dove è il suo
sguardo - un vedere come Dio mi vede, eternamente amato dal Padre nel
Figlio.
che il Padre gli fa di se stesso, rendendolo figlio, colmo della sua Gloria, perché
vuoto di vanagloria.
127
Uno può ripetere, ritmando sul respiro e sul battito del cuore, una sola
sillaba, e andare in estasi e avere visioni. Uno può anche dire: “Ohm”, e
vibrare in tutto il corpo. Queste tecniche possono servire per avere sensazioni
Il ripetere parole può anche essere una forma di magia o un fatigare deos,
uno “stancare la divinità” per estorcere ciò che vogliamo, un farci notare da
realtà siamo noi che dobbiamo ascoltare lui. Desideriamo che lui ci dia qualche
v. 8 il Padre vostro sa. Dio è Padre e sa. In quanto Dio, vede e può; in quanto
Tuttavia gli faccio le mie richieste, sapendo però che, al di là di ciò che
Questo rivolgersi a lui con fiducia è la sostanza della preghiera, sempre gradita
al suo cuore.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte dal quale Gesù parla
128
c. chiedo ciò che voglio: pregare nel segreto
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
pregare
per apparire davanti agli uomini
entra nella tua dispensa
chiudi a chiave la tua porta
prega il Padre tuo nel segreto
ti restituirà
pregando non blaterate
il Padre vostro sa.
14,32-42.
129
16. COSÌ DUNQUE PREGATE VOI
6,9-15
parole per farmi ascoltare da Dio e piegarlo ai miei desideri, ma è ascolto del
facoltà più alta dell’uomo: produce niente, ma accoglie tutto. Tutto ciò che c’è
130
Dunque. Il “Padre nostro” è il “dunque”: la preghiera davanti al Padre che
modo della volontà, e riguarda un’azione libera. Vogliamo che il Padre ci dia
ciò che lui ci vuol dare. L’imperativo nasce da un indicativo: Dio è Padre, sia
dunque per noi Padre! Lui vuole e noi vogliamo che sia così, per “noi”, per me
e per tutti.
Le prime tre domande (vv. 9-10) riguardano il bisogno che noi qui in terra
abbiamo del Padre celeste; le altre quattro (vv. 11-13) il bisogno che abbiamo
dei suoi doni per vivere il suo dono. Segue un’aggiunta sul perdono (vv. 14-
Esprimiamo i suoi desideri, che sono come un comando interiore dello Spirito
che in noi grida la necessità d’amore che è in Dio: avvenga in noi ciò che da
siamo: uguali a lui, figli nel Figlio, che si rivolgono al Padre con il suo stesso
Spirito.
richieste del Padre Nostro si trovano sparse nel vangelo, particolarmente nella
131
scena del Getsemani (Mc 14,32-42) In Giovanni il cap. 17 può essere
Questa preghiera, pur nella sua novità, ha profonde radici ebraiche nel
col Padre.
La Chiesa è la comunità dei fratelli che nel Figlio conosce il Padre e lo ama a
nome di tutti.
6,9 Padre. In aramaico si dice: “Abbà”. È il grido dello Spirito che Dio ha
mandato nei nostri cuori, la prova che non solo siamo chiamati, ma siamo
si sente figlio di Dio, erede dei suoi beni e della sua stessa vita - l’amore
Nell’AT “padre” è poco usato per indicare Dio, e sottolinea il suo ruolo di
creatore, conservatore e restauratore della vita (cf Dt 32,6; 2Sam 7,14; Sap
14,3; Sir 23,1-4; 51,10; Is 63,16; 64,7; Ger 31,9). Nei vangeli Dio è chiamato
La preghiera cristiana è dire “tu”, chiamando per nome colui che per primo
alla verità sua e mia. In Gesù, nel suo stesso Spirito, conosco Dio come padre
mio e me come figlio suo, e partecipo al dialogo d’amore tra Padre e Figlio,
che è la loro vita. La mia esistenza non è dal nulla e per il nulla, ma dall’amore
132
e per l’amore del Padre. Volgendomi a lui, continuamente attingo da lui me
nostro. Il Padre di Gesù diventa “nostro” - di noi con lui e tra di noi. La
Figlio.
che sei nei cieli. Dio è vicinanza e familiarità, tenerezza e protezione, ma sta
nei cieli: è altro, grande, splendido. Se Dio è mio papà, mio papà è Dio, non un
“paternità del cielo” (Iuppiter = Dio Padre) è comune a molte religioni. Quello
di Dio come principio personale di vita, amore e libertà. L’opinione che uno
avrà di Dio è fortemente condizionata dai suoi genitori; e sarà alla fine quella
che uno ha di sé. La carne di Gesù, il Figlio che si fa fratello di tutti con un
amore senza condizioni, liquida ogni cattiva immagine che di lui ci siamo fatti.
La santità del nome di Dio è riconosciuta quando noi, suoi figli, diventiamo
v. 10 venga il tuo regno. Il regno del Padre è la fraternità tra i figli. È il regno
dello Spirito, il cui frutto è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà,
133
Il regno non è di questo mondo (Gv. 18,36): è in questo mondo, come i
(Gv 17,11.15s).
La venuta del regno sulla terra “santifica il nome” di Dio: la vita fraterna
sia fatta la tua volontà. L’espressione “volontà di Dio” ricorre 6 volte in Mt, 1
stesso del Figlio. Gesù compie pienamente la volontà del Padre nel Getsemani
come in cielo, così in terra. L’amore che è in cielo tra Padre e Figlio, sia in
terra tra gli uomini, e così siano fratelli fra di loro. In questo modo si compie la
volontà del Padre, viene il suo regno, è santificato il suo nome, e tutti
passaggio alla seconda, in cui “il cielo” scende sulla terra come pane e
v. 11 il pane. Il pane è vita. Ma non di solo pane vive l’uomo. Il suo primo
fatta fiorire dallo Spirito sulla nostra bocca, ci fa esistere nella nostra realtà di
figli e di fratelli.
Il “pane di vita”, Parola del Padre fatta carne, è il grande dono: in esso,
prefigurato nella manna e in ogni altro dono, Dio ci fa dono di se stesso nel
Figlio. Anche il pane materiale, come ogni altra cosa necessaria o utile per
134
nostro. Il pane non è “mio”, ma nostro. Se non è condiviso coi fratelli, non è
pane del Padre della vita: è l’idolo che ci avvelena l’esistenza, dividendoci da
lui, tra noi e da noi stessi. L’unica volta in cui Gesù dice di se stesso: “mio”, è
del suo corpo “dato per voi”. Mio è realmente solo ciò che dono.
alla manna, data ogni giorno solo per un giorno, per insegnare che non è
Il pane è solo per oggi, ma è disponibile ogni giorno; fino al giorno senza fine,
vivo l’amore del Padre che dona e quello dei fratelli con cui condivido - e
dacci. Chiedo il dono non solo per me, ma per “noi”, per i fratelli, perché è il
vita è sempre e solo “oggi”. Non può essere accumulata! Se respiro oggi l’aria
stanno addosso come peso gravoso che impedisce di vivere, sono allontanati
dello Spirito. L’amore vive di dono e di perdono: se nel bene è dono, nel male
a noi. Chiedo il perdono non solo per me, ma anche per i fratelli.
Diversamente non raggiungo la fonte del perdono, che è l’amore del Padre per
tutti.
i nostri debiti. Il termine traduce una parola ebraica che significa debito o
peccato. A Dio noi “dobbiamo” tutto ciò che abbiamo e siamo: tutto è ricevuto
135
invece un dono da accogliere e da vivere con gratitudine. Il peccato è
dalla logica del debito e della colpa a quella del peccato e del perdono.
come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori. Si suppone che, quando
preghiamo il Padre, ci siamo già riconciliati con i fratelli (vv. 14s; 18,21-35). Se
non perdono il fratello, non sono figlio! Perdonare il fratello non è un dono che
a lui faccio, ma che da lui ricevo: perdonando, ricevo lo Spirito del Padre. Per
v. 13 fa’ che non cadiamo in tentazione. Dio non tenta e non induce in
tentazione (Gc 1,13); è invece colui che dà la forza di non cadere (26,41). Le
tentazioni fanno parte del nostro cammino. Dio non ce ne preserva; ma in esse
perdono se cadiamo.
ma liberaci dal maligno. Il maligno (26 volte in Mt, 2 in Mc, 13 in Lc) è colui
con cui ci tenta perché cadiamo nelle sue mani, e vi restiamo. L’opera di Dio è
vv. 14s ma se voi non avrete rimesso, ecc. (cf 18,21-35). Queste parole,
non ho perdonato al fratello, non riconosco Dio come Padre, e non accetto il
suo perdono per me! Giusto non è chi non pecca - tutti pecchiamo - ma chi
Il perdono del fratello è visto con enfasi come il luogo in cui riconosco
davvero Dio come Padre (vedi Lc 15,11-32). Se non perdono, ho pregato con
136
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo unendomi al Figlio, rivolgendomi al Padre con il suo amore
c. gli chiedo ciò che voglio: chiedo e voglio con tutto il cuore tutto ciò che
Gesù mi ha insegnato a chiedere e a volere con questa preghiera: il dono del
suo Spirito di figlio
d. prego lentamente, sul ritmo del respiro, ogni singola parola, sostando su
essa finché trovo pace.
4. Testi utili: Is 55,10-11; Sal 34; 103; 139; Os 11,1-9; Gal 4,1-7; Rm 8,14-
39.
137
17. QUANDO DIGIUNI, PROFUMATI IL CAPO
6,16-18
nei propri confronti: fa accettare se stessi come figli e il proprio limite come
principio di vita.
conversione. È spesso associato alla preghiera e allo studio della Torà (Dt 8,3).
fariseo al tempio, di cui parla Gesù nella parabola, digiuna ben due volta la
138
pia. Ognuno cerca di primeggiare, scegliendo l’ambito dove meglio riesce. Non
politica o la malavita: tutto serve per essere “qualcuno” davanti agli altri.
L’apparire agli occhi degli uomini è il DNA di ogni male, che ha la sua radice
Come in tutte le opere, Gesù guarda l’intenzione. Il cuore del Figlio è puro, e
vede Dio (5,8), perché lui solo cerca. L’ipocrita cerca la propria reputazione, e
Stare davanti agli uomini o al Padre, è l’alternativa del nostro modo di essere
Il digiuno, come ogni opera buona, può essere esibizione davanti agli uomini,
digiuno, gradito a Dio: operare con giustizia e dividere i propri beni coi poveri
(Is 58,1ss).
Gesù ha digiunato nel deserto. Anche per lui “la fame” è stato luogo di
tentazione.
ridotta a bocca che tutto divora, a tubo digerente che tutto assimila, il digiuno
riacquista la sua attualità. E c’è anche un digiuno della mente e del cuore,
dell’orecchio e dell’occhio.
139
6,16 Ora, quando digiunate. Mangiare è alimentare la vita, digiunare
perderla. Il digiuno ha molti aspetti: riguarda le relazioni con l’altro, con l’Altro,
comunicazione e comunione.
propria vita e la propria morte: si accetta quello che c’è come dono di Dio, e lo
servirsi delle cose tanto quanto sono utili per amare Dio e il prossimo. Ciò che
non è utile a tale scopo, serve a odiare e morire. Nella nostra società
cinque canali dei sensi, il digiuno ha un particolare valore. Oltre la sobrietà nel
cibo, c’è quella nell’odorare, gustare, toccare, udire, vedere, e, soprattutto, nel
comunione con l’altro; e non sono regolati dall’istinto. Sono fame infinita, che
si sazia solo trovando il cibo per cui sono fatti - l’altro e l’Altro.
140
restituisce loro la propria funzione. Non tocco e non gusto tutto, non ascolto e
Scelgo di toccare, gustare, ascoltare e vedere nella misura in cui ciò mi aiuta
ad amare l’altro.
Oltre la sobrietà dei sensi c’è anche quella, più difficile, della mente e del
soprattutto, queste facoltà superiori sono per l’altro. Per questo non cerco di
L’uomo o impara a essere signore dei suoi sensi e delle sue facoltà,
ordinandoli al fine, o è schiavo del loro appetito. Lo stimolo del piacere di ogni
tipo, come una droga, lo depossessa della libertà, portandolo a fare ciò per cui
non è fatto e che, in fondo, neanche vuole, e che comunque non lo sazia mai.
bello e desiderabile, ciò che in realtà non lo è (Gen 3,6). Il digiuno, inteso a
l’assolutizzazione del cibo e del corpo. (Ma c’è anche una bulimia e anoressia
niente! Carne senza proteine, latte senza panna, dolce senza zucchero, pasta
senza amido - dove l’importante è l’essere sempre più “senza”, puro apparire -
sono i nuovi idoli, che rendono simili a loro quelli che li adorano (Sal 115,8).
Tanta fame è fame non di pane, ma di vita; non di cibo, ma di affetto. Uno
vive dell’amore che riceve, della parola che gli comunica l’altro. Una società
141
senza amore e senza parola, senza madre e senza padre, sarà sempre più
non siate come gli ipocriti. Ogni azione buona può essere stravolta nel suo
dal volto tetro. Il viso e l’occhio, invece di diffondere la luce del cuore,
farsi vedere, ci si oscura per apparire! L’intento è che gli altri notino che
hanno già la loro ricompensa. Ottengono ciò che vogliono: una bella
profumo di vita. Inoltre non ci si lava, perché lavarsi è rigenerarsi. Gesù ordina
v.18 perché non figuri agli uomini che digiuni, ma al Padre tuo. Davanti agli
uomini ricevo l’immagine, l’idolo del mio io; davanti a Dio ricevo il mio essere
che tutto riceve da lui, anche me stesso e addirittura lui stesso. Il mio digiuno
definitivo - la mia morte - sarà il saziarmi pienamente della sua presenza. Già
fin d’ora, grazie a questo digiuno, sono libero di camminare verso quella
felicità alla quale sento di essere destinato. Perché ho detto a Dio: “Sei tu il
il Padre tuo, che guarda nel segreto, ti restituirà. Il Padre mi restituirà la mia
142
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginandomi nel mio digiuno ultimo
c. chiedo ciò che voglio: capire cos’è la vita e tutto ciò che contiene: non
sono idoli, ma doni di Dio da vivere con libertà e gratitudine di figli
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
significato del cibo e del digiuno
come vivere i miei bisogni e i miei limiti, il mio bisogno di vita e la mia
morte
consumismo ed edonismo: faccio ciò che mi piace
“sobrietà” dei sensi, della mente e del cuore.
143
18. NON POTETE ESSERE SERVI DI DIO E DI MAMMONA
6,19-24
“Non potete essere servi di Dio e di mammona”, dice Gesù. I nostri rapporti
con le cose devono essere da figli di Dio: lui è il nostro tesoro, e le cose non
unica: non si possono avere due padri o due madri. Così Gesù dice che la
nostra vita o dipende da Dio, e allora siamo suoi figli, o dipende da mammona,
Inizia in questo brano la conclusione del corpo del discorso della montagna,
che culmina con il comando dell’amore, sintesi della legge e dei profeti (7,12).
144
sono e dall’ansia quando non ci sono (6,9-24.25-34), e in rapporto alle persone
sia il rapporto quotidiano con le cose e le persone. Chi non si sa figlio di Dio e
fa dipendere la sua vita dalle cose, accumula tesori sulla terra; il suo occhio è
accumula tesori in cielo; il suo occhio è puro e in tutto vede colui che lo ama e
che vuol amare. La fede in Dio si gioca concretamente nel rapporto con le
creature, che può essere filiale e fraterno, oppure padronale e diabolico (cf Lc
12,13-34; 16,1-13).
(13,44ss). Vive ogni cosa come eucaristia: dono ricevuto dal Padre e condiviso
con i fratelli.
6,19 Non tesorizzate per voi tesori sulla terra. L’uomo non è la vita: l’ha
accorgersi che così la immola per procurarsi ciò che dovrebbe garantirla.
Infatti chi fa delle cose il suo dio, le stacca dalla loro sorgente, che è Dio, e dal
pratico, origine di tutti i mali (1Tm 6,10), vera idolatria (Ef 5,5). Nega il valore
quotidiano”. Il pane non è più dono del Padre, ma sostituto del Padre.
dove tignola e ruggine fanno scomparire. I beni in natura, cibo e vestito, col
tempo saranno divorati dalla tignola - e lo stesso corpo dai vermi. I beni in
145
metallo perdono il loro splendore. Ciò che serve per vivere, muore; ciò che
fratelli; presto o tardi, verrà sottratto a chi l’ha rubato. O il dono resta tale e si
fratello.
v. 20 tesorizzate invece per voi tesori nel cielo. Accumula tesori eterni colui
che riceve ringraziando e usa condividendo. In questo modo i beni del mondo
alimentano non solo la vita materiale che perisce, ma anche quella spirituale:
La dimora eterna, il vero tesoro, si gioca qui nel tempo con l’uso corretto dei
beni, dei quali bisogna essere non stolti possidenti, ma amministratori sapienti
almeno quando si chiuderanno gli occhi. L’amore del Padre e per i fratelli
invece accende nell’uomo la gloria eterna di Dio. Non l’oro che ha, ma quello
dove i ladri non scassinano né rubano. Il dono resti sempre tale - e, chi ne è
derubato, non lo richieda indietro (Lc 6,30). Così diventa figlio del Padre, che
tutto dona e perdona. In questo modo il suo tesoro non sarà mai rubato:
v. 21 dove è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. Una persona abita più
dove è col cuore che con il corpo. Se ami le cose che periscono, sei nella
attraverso cui entra ciò che è fuori. È anche lucerna: la luce che è nel cuore,
146
esce da esso e si proietta sulla realtà. Uno vede con la luce del suo cuore, con
se dunque il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo sarà luminoso. Il modo di
dal cuore, che rende luminosa o oscura non solo la persona, ma anche la
cuore/occhio puro riflette la luce di Dio e porta il frutto dello Spirito (cf Gal
Gal 5,19-21).
diffonde tenebra invece di luce, quanto buio deve avere nel cuore! La luce,
principio della creazione e della vita, esce dalla bocca di Dio, che dice: “Sia la
luce” e la luce fu (Gen 1,3). La tenebra è la bocca del nulla, che tutto mangia e
v. 24 nessuno può essere servo di due padroni, ecc. Nessuno può cavalcare
zoppicando da due parti (1Re 18,21). Dio tollera di essere anche ignorato, ma
non di essere secondo: non sarebbe Dio! Qualunque idolo gli metti davanti,
distrugge. Al bivio non si possono seguire due vie. Bisogna decidere se seguire
Dio o gli idoli (Gs 24,14ss). Se il tuo fine è Dio, diventi come lui; se è l’idolo,
diventi come l’idolo, che ha volto oscuro, bocca muta, occhio spento, orecchio
sordo, naso insensibile, mano chiusa, piede paralizzato, gola serrata e senza
suono. Il fabbricatore di idoli, diventa come loro (Sal 115,4-8). Invece di essere
147
figlio del Dio vivente, diventa una statua morta e fredda: monumento funebre,
Sulla fronte porteremo il numero 666, il marchio della bestia (Ap 13,16-18), o
il nome del Signore (Ap 22,4)? Attenti al pericolo di servire l’idolo, senza
durante tutta la vita, con il culto diretto nel lavoro per produrlo e quello
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte delle beatitudini dove il Signore parla
c. chiedo ciò che voglio: scegliere il Signore come mio tesoro
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
non tesorizzare sulla terra
tignola, ruggine, ladri
dove è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore
l’occhio lampada del tuo corpo
occhio puro/occhio malato
luce/tenebra
nessuno può essere servo di due padroni
o Dio o mammona.
4. Testi utili: Sal 49; Sal 115; Sal 16; 23; Gs 24,14-28; Lc 12,13-21; 16,1-13.
148
19. NON PREOCCUPATEVI
6,25-34
149
e tutte queste cose vi saranno aggiunte.
34 Ora dunque non preoccupatevi del domani,
perché il domani si preoccuperà di sé!
Basta al giorno la sua pena!
“Non preoccupatevi”, è il ritornello che Gesù ripete sei volte. Porre la vita
nelle mani del Padre significa essere liberi dall’affanno. Ciò che ne garantisce il
mantenimento è lui, che, come la dà, così la alimenta. L’ansia della previdenza
Gesù non dice di non lavorare; dice di non fare del lavoro l’idolo che toglie il
però che tutto dipende da Dio. È un atteggiamento che toglie l’ansia - tutto
noi! Il fatto che tutto sia dono non è alibi all’impegno, ma antidoto alla
preoccupazione.
nella natura il cibo. Deve necessariamente lavorare. Ma non deve fare dei suoi
sono il mezzo che mette in comunione con Dio e con gli uomini.
e fraterna, la uccidono.
La nostra fede in concreto è riposta o nel Padre che tutto dona, o nell’idolo
Gesù è il Figlio che tutto riceve dal Padre e spezza coi fratelli: la sua
150
La Chiesa vive allo stesso modo: libera dall’ansia di vita, che è paura di
morte - e spesso paura di vivere e ansia di morire -, cerca in tutto il regno del
Padre e la sua giustizia. Invece di tanti ansiolitici (l’attivismo, fin che regge, è il
che c’è, per proiettarsi nel futuro, che ancora non c’è. La preoccupazione ci
faceva vermi per chi l’accumulava (Es 16,17-20). È metafora della vita: ogni
proprio la memoria della morte, che ognuno ricorda come sua eredità, sua
sorte.
L’affanno prende chi, venuto dal nulla e votato al nulla, si sente destinato
alla morte. Unico suo assillo costante è rimandare questo increscioso ritorno.
Se uno sa che viene da Dio e torna a lui, il presente diventa gioia, anticipo di
ciò che sarà anche domani e sempre: comunione con il Padre e i fratelli.
dell’uomo che si chiude in se stesso, senza aprirsi al settimo giorno, a Dio, suo
151
cibo che vita, anzi l’accorciano con lo stress e l’obesità. Il nutrimento è solo
né per il vostro corpo cosa vestirete. Il vestito, oltre e più che per difendersi
d’amore.
che, volente o nolente, mandi all’altro: rende noto ciò che vuoi, devi, o puoi
ricevimento! Senza vestito uno non può presentarsi in pubblico, se non per
v. 26 osservate gli uccelli del cielo. Per il cibo Gesù dice di osservare gli
uccelli del cielo, che non compiono i cosiddetti lavori maschili, quali arare,
il Padre vostro li nutre (Gb 38,41; Sal 147,9). Il Padre, che è “vostro” e non
“loro”, nutre anche loro. La sua tenerezza si espande su tutte le sue creature
(Sal 145,9). Se provvede il cibo ai piccoli del corvo che gridano a lui (Sal
Dio è al lavoro non solo nel dare, ma anche nel mantenere la vita: dà il seme
55,10). Lui, amante della vita (Sap 11,26), desidera solo che i suoi figli
voi forse non contate più di loro? Chi si preoccupa e accumula tanto, in realtà
v. 27 chi di voi, preoccupandosi, può aggiungere una spanna alla sua età? Lo
stesso termine indica in greco sia età che statura. Chi può, preoccupandosi,
aumentare di un solo palmo la sua età o la sua statura, vivere un po’ di più o
152
essere un po’ più alto? La preoccupazione, invece che allungare rattrappisce il
campo, ecc. Faticare e tessere è il lavoro della donna, che fatica per tessere il
I fiori hanno una veste che cresce con loro e li ricopre di splendore. La loro
4,5; 6,2).
v. 30 ora se l’erba del campo che oggi è e domani è gettata nel forno, ecc. Se
Dio fa così con l’erba del campo, che al mattino germoglia e alla sera dissecca
(Sal 90,6), ed è usata per accendere il forno e cuocere il pane, quanto più si
o gente di poca fede. È la definizione del discepolo, che si fida poco del suo
Signore (8,26; 14,31; 16,8; 17,20). Per questo prega, con il padre del
sordomuto: “Credo, ma vieni in aiuto alla mia incredulità” (cf Mc 9,24), e dice
con gli apostoli: “Aumenta la nostra fede” (Lc 17,5). Il discepolo crede e
insieme sempre non crede. La fede non è stabile: è un dono, che cessa quando
vera fede non si fida di sé e della propria certezza, ma di lui e della sua fedeltà
continua.
v. 32 infatti tutte queste cose i pagani ricercano. Il pagano non crede che Dio
è suo padre, e deve pensare a se stesso. Suo fine non è la comunione col
153
sa il Padre vostro celeste che avete bisogno di tutto quanto questo. Il Dio che
È vero che, a differenza degli uccelli e dei gigli del campo, dobbiamo anche
peccato, il sudore della fronte condisce il nostro pane (Gen 3,19). Ma il solo
che sazia è l’amore del Padre, dato nel sonno ai suoi figli (Sal 127,2).
tutto: il regno di Dio e la sua giustizia, l’amore verso il Padre e verso i fratelli.
così, nessuno sarà privo del necessario e nessuno immolerà la vita ai suoi
Ma se non te ne carichi già ora, sperimenterai che sai portare quelle di oggi. E
basta al giorno la sua pena. Ogni giorno ha la sua dose di fatica, sopportabile
in quel giorno, senza aggiungere quella del giorno dopo. Ciò che rende
impossibile vivere qui e ora è l’ansia del dopo. Il male di domani è sempre
154
insopportabile, soprattutto perché ancora non c’è. Normalmente sprechiamo il
novanta per cento delle energie nel cercare di evitare ciò che comunque
Dio, come la manna quotidiana, ci dà ogni giorno la forza per i pesi di quel
scavare cisterne screpolate, che non tengono acqua (Ger 2,13), possiamo
sempre attingere ogni giorno con gioia al Padre, sorgente di vita sempre
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che parla sul monte
c. chiedo ciò che voglio: trasformare le mie ansie e paure in fiducia e
coraggio
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
non pre-occupatevi
per la vita, cosa mangerete
per il corpo cosa vestirete
osservate gli uccelli del cielo
imparate come crescono i gigli del campo
gente di poca fede
come fanno i pagani
cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia
basta al giorno la sua pena.
4. Testi utili: Sal 62; Is 9,14-15; Sal 33; 107; 117; 127; 136; 147; Sap 1,12-
155
20. NON GIUDICATE
7,1-6
coi fratelli la paternità di Dio. Non devo giudicare per due motivi. Primo,
vedo l’altro.
fratello. La mia disistima nei suoi confronti è grave per lui e per me: nega a lui
Dopo aver visto come si vive la “giustizia eccessiva” del Figlio uguale al
Padre nelle opere religiose (6,1-18), nell’uso dei beni (6,19-34), ora vediamo
156
come la si vive in relazione all’altro (7,1-6). Il principio di tutto è la preghiera,
comunione col Padre che concede ogni bene (7,7-11), in particolare quel bene
sommo, che è fare all’altro ciò che voglio che l’altro faccia a me (7,12).
per impadronirmi della sua. Cerco la superiorità per non cadere in inferiorità,
il dominio per non essere dominato. Ogni uomo diventa lupo per l’altro,
confronti del padre, il primo altro, e di ogni “altro” da me. In realtà il volto
dell’altro è quello dell’Altro: nel rapporto con lui, vivo quello con l’Altro, e
viceversa.
Le ultime battute del discorso sul monte richiamano ciò di cui già si è parlato
giudizio buono o cattivo sull’altro è la misura del mio essere figlio o meno del
Padre. Anzi, il giudizio futuro che Dio darà su di me non sarà altro che il
giudizio presente che io do sul fratello. Dio lo lascia scrivere a me; lui alla fine
I vv. 3-5 esortano a giudicare me stesso invece dell’altro. Uno vede l’altro
con il suo occhio, con il suo cuore: l’altro è colui che rispecchia me stesso. Se
autocritica inconsapevole: il piccolo male che vedo in lui è spia del grande che
è in me.
157
Il v. 6 mostra come il non giudicare non tolga il discernimento. Ne è anzi il
dare la vita per coloro che gliela tolgono! La croce è il suo giudizio sul mondo:
sua stessa simpatia illimitata per ogni alterità. Sempre tentata di compiere il
altro, è misurarlo col nostro metro. Quando parliamo con lui, invece di
ascoltarlo, filtriamo ciò che dice con i nostri pregiudizi. Quando poi parliamo di
ricordiamo il male, crocifiggendo l’altro al palo dei suoi errori. Il giudizio di Dio
invece è fatto con il vaglio: trattiene il bene e lascia perdere il resto. Il suo
a noi il suo bene come nostro. Il vento del suo Spirito disperde il nostro male e
Ogni mio giudizio sull’altro è corto: non vede nell’altro ciò che vede Dio.
158
L’uomo vive o muore del giudizio altrui. Uno è come è visto: l’occhio buono è
una porta di luce che accoglie e fa vivere, l’occhio cattivo una lama di ferro
che penetra e uccide. Dio, bontà infinita, con il suo occhio che tutto vede
il mio io al posto di Dio. Se giudico il fratello, giudico la legge, e non sono più
uno che la osserva, ma che la giudica. Ora uno solo è il legislatore e il giudice,
colui che può salvare e rovinare; e chi sono io da farmi giudice del mio
prossimo (Gc 4,11s)? Il mio giudizio contro il fratello è sempre un mio male:
Il Signore ha detto di non giudicare perché lui non giudica, ma giustifica. Lui
è amore infinito per tutti e il suo giudizio è il contrario del mio: ogni uomo ai
suoi occhi riveste il valore dell’amore che ha per lui. Noi abbiamo lo stesso
Ognuno vede con il suo occhio: anzi, nell’occhio dell’altro vede la propria
immagine riflessa. Dio vede l’uomo molto buono (Gen 1,31), perché lui è
Non bisogna giudicare nessuno, neanche se stessi (1Cor 4,3). Chi giudica non
conosce Dio, e non ama né sé né altri! Chi non giudica è come Dio: amore
verso tutti.
lancia. Ogni mio giudizio contro l’altro, è contro di me! Se non stimo l’altro
come fratello, non stimo me come figlio di colui che ama me e l’altro come
Non devo giudicare, non solo per non sbagliare. Anche se ho ragione,
Chi non giudica, salva l’altro come fratello e se stesso come figlio.
159
v. 2 poiché con il giudizio con cui giudicate, sarete giudicati. Dio mi giudica
come voglio io: mi rispetta e lascia ogni libertà - anche quella di scrivere il mio
con il metro con cui misurate, sarà misurato a voi. In questa vita Dio mi lascia
decidere il metro con cui voglio essere misurato: con il suo o con il mio? Se
accetto il suo, scelgo lui e la sua misericordia per me e per l’altro. Se lo rifiuto,
scelgo la condanna. Lui rimane però sempre con il suo giudizio: la sua croce in
pagliuzza nel suo occhio - conficca nel mio una trave. Con una trave
figlio.
è proprio doveroso per me e necessario per l’altro; sempre però devo scusare
il peccatore.
Il mio giudizio su una persona è sempre più grave del suo peccato,
v. 4 come potrai dire a tuo fratello: lascia che tolga, ecc. Come posso
misericordia di Dio!
v. 5 ipocrita! Togli prima dal tuo occhio la trave, ecc. Prima di fare una
correggo, ma lo fisso nel suo male: la mia offesa costringe lui all’autodifesa. Se
160
devo innanzitutto accettarlo incondizionatamente, come anch’io sono
Alla critica devo sostituire l’autocritica. Non quella a buon mercato, con la
conoscenza sofferta del mio male e mi mette sotto il giudizio di Dio, con la sua
stessa tolleranza verso i miei simili, che sono proprio simili a me! La coscienza
rende solidali con i fratelli e con il Padre, che tutti ama e perdona.
v. 6 non date ciò che è santo ai cani, ecc. Ciò che è santo, le perle, sono i
doni di cui vive la comunità: il Pane e la Parola. C’è una “disciplina dell’arcano”
che serve a introdurre nel mistero. “Cani” e “porci” per gli ebrei sono i pagani.
Questi devono essere preparati a ricevere i doni. La proposta della verità deve
essere graduale. Puntare la luce negli occhi non fa vedere, anzi accieca!
l’accoglie. Fare così non è rispetto né per la verità né per l’altro! Gli spots, gli
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte da cui parla Gesù
c. chiedo ciò che voglio: voglio e chiedo di smettere di giudicare gli altri, e di
tener sempre ben
presenti i miei peccati
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
smettetela di giudicare
con il giudizio con cui giudicate, sarete giudicati
guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello
161
non consideri la trave che è nel tuo occhio
non date ciò che è santo ai cani.
162
21. CHIEDETE
7,7-12
“la regola d’oro” sull’amore. Il contesto mostra la cosa da chiedere, che Dio
del Padre che ci fa figli: il dono del suo Spirito (Lc 11,13).
(18,21ss).
163
Nella preghiera la sua vita diventa nostra vita. L’unica condizione per
riceverla è volerla e chiederla; volerla perché nessuno può darmi ciò che non
vogliamo ciò che non è bene. In sintesi S. Agostino dice che non otteniamo
perché chiediamo mali, vel male, vel mala, ossia con il cuore cattivo, o senza
S. Giacomo dice: “Se qualcuno manca di sapienza, la domandi a Dio che dona
con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e
agitata dal vento, e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha
“Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete
con una fiducia che tutto desidera e nulla ritiene impossibile, con una umiltà
importunare Dio per estorcergli ciò che vogliamo. È invece l’atteggiamento del
figlio: sa che il Padre dà e sa cosa vuol dargli - e questo lui stesso vuole e
chiede. Chiediamo non per forzare la sua mano, ma per aprire la nostra al suo
Il mio chiedere, come è l’unica misura del suo dare, è l’unica misura del mio
nella misura del mio desiderio, io sono me stesso - dono di “colui che in tutto
3,20).
164
I vv. 3-8 dicono di chiedere, cercare e bussare. I vv. 9-11 illustrano
Gesù è il primo che ha fatto agli altri ciò che ognuno vuole che gli altri
essere amato. Questo scaturisce dalla sua unione col Padre, dal quale riceve
La Chiesa è fatta da coloro che, in lui, sono come lui: figli uniti al Padre e
donati ai fratelli.
senza mai stancarsi (cf Lc 18,1). Non perché Dio non doni, ma perché del dono
Non si dice cosa chiedere, perché è da chiedere tutto, anzi il Tutto. Dio non
L’uomo diventa ciò che desidera; se desidera Dio, diventa come lui.
Si chiede ciò che non si può avere se non come dono dell’altro. Infatti
chiediamo l’Altro stesso che si dona: l’uomo è richiesta di Dio, e Dio è dono per
l’uomo.
e vi sarà dato. Non si dice chi dona e cosa è donato: è Dio che ci dona la sua
e la nostra verità - il suo esserci Padre nel nostro essergli figli e diventare
cosa. Chi lo cerca in tutte le cose, trova lui, che è tutto in tutti (1Cor 15,28).
bussate e vi sarà aperto. Si bussa a una porta chiusa. Dietro c’è la sala del
165
perdono. “Dopo” è inutile bussare: resta chiusa (cf 25,1-12). Questa porta è
quella della “dispensa”, la profondità del nostro cuore (6,6), dove lui sta e da
dove noi siamo fuori, ricacciati dalle nostre paure. Bussiamo al nostro cuore fin
chiede con desiderio al Padre, si cerca con amore lui, si bussa per incontrarlo.
v. 9 quale uomo c’è tra voi, che al figlio che gli chiede un pane, ecc. Spesso
abbiamo la sensazione di avere pietre invece di pane (cf 4,3!). Dio sembra
duro d’orecchio! Ma, se tarda ad esaudirci nelle cose buone, è solo per darci la
Noi abbiamo cuori di pietra (pietra e figlio in ebraico si scrivono con le stesse
consonanti). Il dono che lui vuol farci è trasformare il nostro cuore di pietra in
Nella preghiera esce la nostra ostilità verso Dio, che consideriamo nemico. E
v. 10 se gli chiederà un pesce, gli darà una serpe. Nella preghiera noi, figli
del serpente (3,7), otteniamo il pesce, il Figlio che vive nell’abisso e muore
sulla terra per darci vita. Ma, prima di ricevere questo dono, escono dal cuore i
nostri serpenti velenosi. Chi prega scopre in sé il male del mondo, e lo scarica
v. 11 se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare doni buoni ai vostri figli.
Non lui, ma noi siamo cattivi! Eppure nei confronti dei nostri figli brilla in noi
166
un raggio indelebile della bontà del Padre: desideriamo dare loro con gratuità
quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone. A maggior ragione
Dio, che è perfetto nella sua maternità/paternità, darà cose buone ai suoi figli.
Queste “cose buone” sono da Luca sostituite con “Spirito Santo” (Lc 11,13), la
cosa buona per eccellenza, la vita stessa di Dio, il suo amore. Dio non vuole e
non può donarci meno di se stesso. Anche nel minimo dono il donatore si
dona.
La preghiera dunque ci trasforma in figli: è il nostro “sì” che accoglie ciò che
la Parola promette. Solo alla luce della preghiera, che ci dà il cuore nuovo, si
può comprendere il discorso della montagna. Non è una legge nuova, ancor
più esigente dell’antica. È invece il “vangelo”, la buona notizia di ciò che Dio ci
vuol dare, perché noi lo possiamo desiderare e ottenere. Tra il dire e il fare c’è
di mezzo il pregare, che è il mare senza fine del desiderare. Questo realizza in
a coloro che gli chiedono. Si ripete alla fine la parola dell’inizio: “il chiedere”
v. 12 tutto quanto dunque volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi
diventiamo figli, perfetti come il Padre, che è amore per tutti. L’amore si
esprime nel “fare”. L’egoista fa per sé e pretende che gli altri facciano per lui:
pone il proprio io al centro di tutto, come un buco nero che tutto fagocita. Chi
ama fa per l’altro, che ha posto al centro di sé - è come il sole, che diffonde
luce e vita.
verso di lui. Per chi ama i bisogni dell’amato diventano suoi impegni.
167
Questo versetto inverte la tendenza egoistica di porre sé al centro di tutto.
L’uomo è già al centro di Dio. Diventa come lui se, come lui, pone al proprio
profeti (5,17; cf Rm 13,8-10). Lui stesso, che ha portato i nostri pesi sulla
6,2.14), la regola d’oro. Infatti ci lascia come testamento di amarci come lui ci
ha amati (Gv 13,34; cf 1Gv 4,10s). Chi fa come lui, diventa figlio: vive l’amore,
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte da dove Gesù parla
c. chiedo ciò che voglio: saper chiedere, cercare e bussare con fiducia, senza
stancarmi
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
chiedere/essere dato-ricevere
cercare/trovare
bussare/essere aperto
cosa fa un padre con i figli?
pane/pietre
pesce/serpe
fa’ agli altri ciò che vuoi che gli altri facciano a te.
Sulla “regola d’oro”: Gal 6,2; Rm 13,8-10; 1Cor 13,1ss; 1Gv 3,11-4,21; Lc 6,27-
38.
168
22. ENTRATE PER LA PORTA STRETTA
7,13-20
“Entrate per la porta stretta”, dice Gesù. Dopo il v. 12 - vetta da cui si gode il
“porta” d’ingresso al regno, la “via” che conduce alla vita, il “frutto bello”
dell’albero buono.
albero/frutto.
169
La parola di Gesù è la “porta” stretta che ci fa entrare nella vita filiale e
fraterna, la “via” angusta che ci conduce alla vita piena (vv. 13-14). Quanti la
conoscono e non la praticano sono “falsi profeti”. Per loro la dissonanza tra il
loro azioni li rivelano, come il frutto mostra la qualità dell’albero (vv. 15-20).
Molte sono le porte, ma una sola quella di casa; tante le vie per perdersi, ma
una sola quella che porta alla meta; mille gli alberi, ma uno solo dà il frutto di
vita.
Come Mosè (Dt 30,15-20), Gesù ci pone davanti al bivio: ci apre la via della
oltre il male che già conosciamo e facciamo - e che la legge denuncia - c’è il
Il brano richiama il Salmo 1, che presenta la via “beata” del giusto e quella
in riva al fiume, e alla pula dispersa dal vento. Fare o meno queste parole, è
Gesù è il Figlio, porta d’accesso alla comunione con il Padre e i fratelli, via
che conduce a una felicità sempre maggiore, albero che porta il dolce frutto,
La Chiesa è la comunità dei figli e dei fratelli che ascoltano la parola che lui
porta (Gv 10,7), l’apertura tra l’uomo e Dio, dove Dio entra nella casa
dell’uomo e l’uomo nella casa di Dio. Essendo insieme Dio e uomo, Gesù è la
170
stretta. Gesù dice così non per scoraggiare, ma per esortare all’impegno.
Dopo il peccato, è facile fare il male, difficile fare il bene. Il male è largo
ma poi si allarga sempre di più all’amore e alla vita. La porta sembra stretta a
dell’amore di Cristo per noi (cf Ef 3,18): è il suo costato aperto sulla croce (Gv
19,34ss).
larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione. Ogni altra
porta e via, che non sia l’amore del Padre e dei fratelli, conduce alla
perdizione. Non basta pensare: abbiamo la sana dottrina, Dio è con noi! Noi
Alla “porta” qui si associa “la via”, che indica il modo concreto di vivere. La
porta larga e la via spaziosa, in termini laici consiste nel fare quello che piace,
ricerche del sensazionale e del prodigioso. C’è una religiosità che non passa
attraverso il cuore del Figlio, la conoscenza del suo amore, la sua carne
molti sono quelli che entrano per essa. Molti, troppi entrano per questa porta
o prendono questa via, che soddisfa solo il loro egoismo materiale e spirituale.
171
pochi quelli che la trovano. La trovano quelli che cercano innanzitutto il
v. 15 guardatevi dai falsi profeti. Nel contesto non sono quelli che dicono
cose sbagliate, ma quelli che non fanno ciò che dicono. È tipico di Matteo
quelli che vengono a voi in vesti di pecora. Parlano come il Cristo, ma non
fanno come lui. Gesù dice di loro: fate ciò che dicono, ma non ciò che fanno
(23,3).
dentro sono lupi rapaci. Sono sepolcri imbiancati: l’interno non è come
Hanno la bocca, ma non il cuore del Figlio. Sono pronti ad accettare il suo
messaggio, ma non amano e non seguono lui, il Signore. Quindi non entrano
eccessiva” di cui si è parlato nel discorso sul monte: le azioni di una vita filiale
e fraterna.
si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi? L’uva richiama Israele, vigna
di Dio, il cui frutto è l’osservanza della Parola (cf Is 5,1-7; Sal 80). Il fico,
gustoso e dolce, che porta frutto in ogni stagione, è segno della perennità
172
dell’amore, compimento della legge. Sono i frutti che germogliano dal cuore
v. 17 ogni albero buono fa frutti belli, ecc. L’albero, che si innalza dalla terra
“molto” bello e buono (Gen 1,31): è immagine di Dio. Ma può essere malato,
guasto e imputridito, senza linfa vitale, senza amore. Allora fa frutti cattivi.
dolce dell’amore di Dio e dell’uomo. Inseriti in lui, albero della vita, anche noi
diamo il suo frutto (cf Gv 15,1-17). L’albero secco germoglia perché l’albero
v. 18 non può un albero buono fare frutti cattivi, ecc. La bontà o meno del
frutto non dipende dalla buona volontà, ma dalla qualità dell’albero. Una vite
sforzi, non farà mai uva! Potrà comunque coronare di spine il suo Signore
(27,29).
v. 19 ogni albero che non fa frutto bello è tagliato, ecc. Spini e rovi devono
essere tagliati e bruciati nel fuoco d’amore del Crocefisso, legno verde che
Io di che legno sono? Che frutto faccio? Se mi scopro spina o rovo, non mi
resta che vedermi conficcato sul capo di Cristo, il Figlio crocifisso dal mio male.
È il mio modo di inserirmi in lui, albero buono, che dalla croce mi dà il suo
Spirito (27,50).
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte da cui il Signore parla
c. chiedo ciò che voglio: entrare per la porta stretta, fare la sua parola, avere
il suo Spirito
d. traendone frutto, medito sul testo
173
da notare:
porta stretta/larga
via angusta/spaziosa
vita/perdizione
falsi profeti
dai loro frutti li riconoscerete
quali sono i miei frutti.
174
23. CHIUNQUE ASCOLTA QUESTE MIE PAROLE E LE FA
7.21-29
175
1. Messaggio nel contesto
“Chiunque ascolta queste mie parole e le fa”, dice Gesù, compie la volontà
del Padre mio: edifica qui in terra la sua dimora eterna, costruita su quella
stabile roccia che è Dio stesso. Chi invece le ascolta e non le fa - Matteo si
rivolge a credenti, che ascoltano ma non sempre fanno -, per quanto faccia
cose buone, non fa la volontà di Dio: costruisce sulla sabbia del proprio io la
rovina di se stesso.
dichiarando la sua importanza per il destino dell’uomo. Sono due metafore sul
giudizio (vv. 21-23.24-27), visto prima da parte del Signore che ci riconosce o
“giudizio” sulla nostra vita di credenti è lasciato non all’arbitrio di Dio, ma alla
Ma questo non basta. Infatti, senza l’amore, tutto è nulla (cf 1Cor 13,1-3). E
volontà del Padre”, amando e servendo i fratelli nelle piccole cose di ogni
giorno.
Nel primo quadro (vv. 21-23) Gesù dice che si possono compiere opere
cuore del Figlio. Si può agire nel nome del Signore, ma ancora per amore del
proprio io, senza l’amore del Padre e dei fratelli. In “quel giorno” ognuno
mieterà ciò che ha seminato (Gal 6,7). Se avrà seminato amore, sarà
Nel secondo quadro (vv. 24-27) si ribadisce la stessa cosa con una
176
guarda alla meta dal cammino: la casa che noi ora costruiamo resisterà o
meno “in quel giorno” secondo che avremo fatto o meno “queste parole”. Chi
cade. Il saggio costruisce nel tempo la dimora eterna, che resiste a ogni
avversità; lo stolto invece si costruisce la propria rovina, che gli crolla addosso.
insegnamento: la sua parola non solo spiega, come gli scribi, ma ha l’autorità
di Dio stesso.
entrerà nel regno dei cieli. Non basta la fede e la celebrazione liturgica. La
fede è anche vita quotidiana - la liturgia si celebra nel nostro corpo (cf Rm
12,1s). Anche i demoni credono, ma tremano (Gc 2,19). Una fede e una
preghiera che non fiorisce in vita concreta, non giova a nulla: è morta (Gc
2,24.26).
Richiama Geremia, che parla contro chi si ritiene salvo dicendo: “Tempio del
Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo!”, riponendo in esso
la propria fiducia, senza convertirsi dalle proprie azioni malvagie (Ger 7,3s). La
177
fiducia nel Signore non deve fare da paravento all’iniquità né la sua
ma chi fa la volontà del Padre mio. Gesù chiama Dio: “Padre mio”, perché è il
Figlio che fa la sua volontà e la manifesta a noi, in attesa che noi possiamo
non abbiamo profetato nel tuo nome, ecc. Neanche le profezie, gli esorcismi
e i miracoli fanno entrare nel suo regno. Posso operare nel suo nome cose
buone per gli altri, come gli esorcisti di Efeso, ma senza che questo giovi alla
mia salvezza (cf At 19,11ss). Ciò che mi salva non è fare miracoli, ma fare la
Figlio non riconosce quelli che non vivono da fratelli. Sono “operatori di
iniquità”: sono dei “senza legge”, che ignorano nel loro operare la legge
dell’amore. La fede, la speranza e gli altri doni alla fine cessano; rimane solo
l’amore, che non ha fine (1Cor 13,8ss). Perché Dio è amore, e solo chi ama
sarà simile a un uomo saggio. Saggio è chi edifica sulle parole di Gesù,
edificò la sua casa sulla pietra. La “casa” non è semplicemente la tana dove
La pietra è Dio, stabile come roccia. La differenza tra sapienza e stoltezza sta
nel fare le parole del Signore o le proprie, nello scegliere come fondamento del
proprio agire quella roccia che è Dio, o la sabbia dei propri idoli.
178
v. 25 scese la pioggia e vennero i fiumi, ecc. Le difficoltà, le acque travolgenti
e le bufere della vita, fino alla strettoia finale della morte, non possono
spegnere l’amore (Ct 8,7.6). Questo è la dimora eterna di Dio, del Padre nel
Figlio e del Figlio nel Padre, aperto da Gesù a tutti i fratelli. Alla dogana della
morte nulla passa di ciò che hai: sei ricco solo dell’amore che hai dato. Questo
è il tesoro nel cielo che puoi accumulare sulla terra, che nulla può consumare e
nessuno rapire.
non è sull’ascoltare, ma sul fare! La differenza tra i credenti sta non nella fede,
menzognero.
errato affermare - come spesso si fa - che per lui non conta la fede, ma solo i
fatti! L’eresia prima è staccare il dire dal fare, il pensiero dalla realtà: nega la
edificò sulla sabbia. Chi non fa le parole di Gesù, fa altre parole. Invece di
costruire su Dio, costruisce sugli idoli, i suoi piccoli dèi del momento. La sua
Dio, crolla davanti alle difficoltà. La sua vita si sfascia come una ruota i cui
fu la sua caduta grande. Chi non costruisce sull’amore, viene sepolto proprio
179
v. 28 avendo Gesù compiuto queste parole. Con il termine “compiere, finire”
si concludono i cinque discorsi di Gesù in Matteo (11,1; 13,53; 19,1; 26,1). Lui
nascosta, quella del Figlio. Le sue parole non cadono a vuoto, perché la sua
l’autorità, il potere stesso di Dio, che opera ciò per cui l’ha mandata (Is 55,11).
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il monte sul quale Gesù parla
c. chiedo ciò che voglio: fare queste sue parole che ho udito sul monte
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
non chi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno
nel tuo nome abbiamo profetato, cacciato demoni, fatto miracoli
mai vi conobbi
l’uomo saggio: ascolta e fa “queste” parole
l’uomo stolto: ascolta e non fa
casa sulla roccia/casa sulla sabbia
piogge, fiumi e venti: esito diverso.
4. Testi utili: Sal 31; Dt 11,18-28; Sal 1; Is 55,1ss; Ger 7,1ss; Sap 1-5.
180
24. SE VUOI PUOI MONDARMI
8,1-4
“Se vuoi, puoi mondarmi”, è la richiesta del lebbroso; “Voglio! Sii mondato”,
è la risposta di Gesù.
I cc 5-7 riferiscono ciò che la Parola dice; i cc 8-9 ciò che essa dà: rifà l’uomo
nuovo, a immagine del Figlio, vittorioso su ogni male, sulla malattia e sulla
stessa morte.
Gesù fa quello che dice: Verbo del Padre, nel quale, attraverso il quale e per
181
formano un tutt’uno, incorniciato dall’attività guaritrice di Gesù (4,23=9,35): i
prodigi sono frutto dell’ascolto della Parola, che fa nuove tutte le cose. E sono
dieci (nove miracoli più un esorcismo), numero di totalità, per dodici persone!
I cc 8-9 costituscono una “treccia” di vari filoni. Dei due principali il primo
Lo stile del racconto di Matteo, rispetto agli altri sinottici, è più sobrio ed
Nella prima parte, inquadrata in una giornata (8,1-17), si dice in sintesi cosa
questo. Quello del lebbroso mondato è segno del dono della vita nuova del
Figlio che ha vinto la morte (8,1-4); quello del servo del centurione guarito è
segno della fede nella sua parola, sorgente della vita nuova (8,5-13); quello
della suocera di Pietro, che serve, è segno del contenuto di questa vita nuova:
amare e servire come Gesù il Servo (8,14-17). Chi legge i miracoli fermandosi
al segno è come lo stolto che, se gli indichi la luna, ti guarda la punta del dito.
Noi ci siamo allontanati da Dio. Ci siamo volti verso gli idoli e siamo diventati
come loro: vacuità di vita, con il corpo segnato dalla morte (= lebbra) e le
varie membra - piedi, occhi, mani, bocca, orecchi ecc. - che ne sono infette e
servono solo a diffonderla (cf Sal 115,4-8). Non può essere che così, e
mostra che il bene, per cui siamo fatti, è possibile, reale e donato.
Gesù come Mosè scende dal monte. Ma non più con una parola da osservare
perfetto come il Padre (5,48), che fa grazia ai fratelli. Quanto ha detto non è
182
fa venire la lebbra, come a Maria che invidia il fratello Mosè (Nm 12,1-10) -, la
parola di Gesù è un fiume di acqua viva: chi si immerge e “si battezza” in essa,
ne esce purificato, mondo dalla lebbra, dal peccato e dalla morte, con la carne
Guarire dalla lebbra è azione esclusiva di Dio, padrone della vita e della
morte (2Re 5,7): Gesù, con la Parola appena detta sul monte, rigenera a vita.
uomo che accorre da Gesù per ricevere il dono di una vita finalmente libera
dalla morte. Tutti morti a causa del peccato, “privi della gloria di Dio” (Rm
Gesù è stato prefigurato in Mosè. Per mezzo di questi fu data la legge, per
mezzo suo la grazia della verità, dalla cui pienezza tutti abbiamo ricevuto
8,1 Sceso lui dal monte. Gesù scende dal monte, come Mosè. Non per dare al
la Parola stessa, perfettamente compiuta, che scende per dare la vita a tutti e
dell’anno!).
183
lo seguirono molte folle. Sono coloro che sul monte hanno ascoltato la Parola.
È l’inizio della Chiesa, che, insieme al Figlio, scende con lui verso i fratelli, per
incurabile, anzi mortale. Il lebbroso è il morto civile e religioso, che non può
aver parte con gli altri, per non infettarli (Lv 13,45). Solo dopo la guarigione,
mediazione (cf invece Nm 12,11s, dove Aronne intercede per Maria presso
Mosè, che pure è il più mansueto di ogni uomo che è sulla terra). Titolo
inizia con l’adorazione dei Magi e termina con quella dei discepoli (2,2.11;
28,17). Adorare significa “portare alla bocca, baciare”. Si adora l’oggetto del
Signore. Gesù è il Signore. Infatti può dare la vita: stende la mano e monda
dalla morte.
se vuoi, puoi mondarmi. L’uomo tante cose vuole e non può - e altre può e
non vuole. Solo in Dio volere è potere. E il suo volere è dare la vita. “Sono
forse Dio per dare la morte o la vita?” (2Re 5,7), dice Eliseo a chi pretende che
184
v. 3 tesa la mano. La “mano tesa” indica l’intervento di Dio per salvare
l’uomo. Egli aspetta solo di essere richiesto: è dono che attende la mano che
lo accolga.
toccò. Il Signore tocca l’intoccabile. Dio è Dio proprio per la sua misericordia
(Os 11,9; Gn 4,15), che tocca la nostra miseria - questa è la sua santità. Dio
non è legge che vieta il male e divide buoni da cattivi. Non è neanche la
coscienza che rimprovera. È invece madre e padre, vicino a ogni bisogno del
figlio.
l’altro solo nel proprio limite, così tocchiamo Dio non nella nostra bontà, ma
nella nostra miseria: tutti lo conosciamo, dal più piccolo al più grande, nel
anche tu lo tocchi. Oltre il tocco esteriore, c’è quello interiore, molto più forte e
sensibile. Ciò che ti tocca dentro, ti cambia l’esistenza. Il Signore con la sua
voglio. Da sempre il Signore vuole: aspetta solo che anche noi vogliamo.
“Vuoi guarire?” domanda Gesù al paralitico (Gv 5,6). Noi non vogliamo, per
paura che sia impossibile o che lui non voglia. Arriviamo addirittura a ritenere
che il male sia l’unica realtà. I miracoli mostrano che Dio può e vuole darci ciò
che non abbiamo e neppure osiamo sperare. Il racconto ci apre alla meraviglia
e libera i nostri desideri perché chiediamo ciò che lui ci vuol dare: la nostra
sii mondato! Con la sua parola il Signore creò l’universo. Ora lo ricrea simile a
sé.
morte - non è più immonda: non esclude dalla vita. Non insidia più col suo
185
Il tocco interiore della sua parola ci libera dalla morte: ci guarisce e ci fa figli
e fratelli. È un processo che dura tutta la vita e si compie nella morte. Quando
la lebbra ha fatto il suo corso, allora non c’è più. Ma già ora la morte non è più
Parola ci libera dal suo veleno, che è il peccato (1Cor 15,55ss), nella certezza
che, sia che vegliamo sia che dormiamo, siamo in comunione con lui (1Ts
5,10). Non siamo più schiavi della paura della morte che domina la vita (Eb
2,15).
non si può conoscere il Signore prima della croce. In Matteo, che si rivolge a
credenti, sottolinea solo l’ordine che segue: non fare altro, se non andare
in testimonianza per loro. Il lebbroso testimonia ai sacerdoti che c’è uno che
in Matteo c’è una polemica, essa è da leggere alla luce del tentativo della
non può essere contro la madre, ma neanche può identificarsi con essa.
Purtroppo noi, Chiesa delle genti, abbiamo ripetuto nei confronti di Israele lo
morte, gli abbiamo rubato il dono che lui ci ha offerto. Dopo l’olocausto siamo
186
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b mi raccolgo immaginando il monte dal quale Gesù scende
c. chiedo ciò che voglio: essere liberato dalla paura della morte e
dall’egoismo che ne deriva
d. contemplo la scena, immedesimandomi nel lebbroso: vedo, dico, ascolto e
tocco ciò che lui ha visto, detto, udito e toccato.
187
25. TROVAI TALE FEDE
8,5-13
188
“Presso nessuno in Israele trovai tale fede”. Gesù costata che solo un pagano
crede senza esitazione al potere della Parola (cf 27,54). E si stupisce! Di due
cose il Signore si meraviglia: della nostra fede (v. 10; 27,54) e della nostra
mancanza di fede (Mc 6,6). Ambedue sono per lui qualcosa di inedito, con il
pone infatti qualcosa di imprevedibile, nuovo anche per lui. Dio non ce la toglie
mai, neanche quando è contro di lui e contro di noi - il che per lui è peggio. È il
dono più bello del creato, che rende la creatura simile al suo Creatore.
Siamo al secondo dei dieci prodigi. Il primo rivela il risultato ultimo della sua
parola: guarire la nostra vita dalla lebbra che la avvelena di morte. Questo
I miracoli sono dei segni naturali che hanno un significato spirituale. Il segno
ciò che conta è leggere cosa è scritto. Noi, feticisticamente, diamo importanza
come non bastasse la crudeltà di vivere e morire una volta! Ciò che vale non è
Una rosa rossa per una capra è semplicemente qualcosa da mangiare; per una
189
A una prima lettura è un portento, qualcosa di insolito che richiama
soprannaturale nel naturale, segno del divino che si manifesta nella storia.
A una seconda lettura è segno del mondo nuovo, raggio anticipato del sole
trasformazione a sua immagine: Gesù sana i nostri piedi per camminare come
lui, le nostre mani per accoglierlo, i nostri sensi per ascoltarlo, vederlo,
A una terza lettura è segno dell’amore di Dio che interviene in nostro favore.
A una quarta lettura il miracolo è segno della nostra fiducia: Dio è per noi, e
tutto vuol donarci, anche se stesso. Aspetta solo che noi lo chiediamo con
fede. Questa è alla fine il vero miracolo, che ci porta ad accogliere i doni di
Dio, e Dio stesso come dono. Essa ci guarisce dalla diffidenza di Adamo.
A una quinta lettura, più profonda, propria di chi è illuminato, ogni creatura,
Creatore.
credenti, figura della Chiesa, che, a distanza di spazio e di tempo, per la fede
Sia per Israele che per gli altri, è il credere alla promessa di Dio che viene
accreditato a giustizia (Gen 15,6) e rende figli di Abramo, eredi della promessa
Essa è coscienza del male che non cede né alla delusione dell’impotenza né
all’impossibile.
190
Gesù, oltre che lodare la fede del pagano, rimprovera chi ha ridotto la fede di
per la Chiesa. Non basta appartenere ad essa per entrare nel banchetto (cf
Gesù è la Parola di Dio viva ed efficace (Eb 4,12). Per questo le sue parole sul
Parola.
8,5 Entrato lui in Cafarnao. È il luogo dove ha iniziato la sua attività (4,12).
guarnigione che presidia Cafarnao, città di confine. È pagano di origine (v. 10).
Come il pagano Abramo, entra nella storia della salvezza per la sua fede.
Signore, la cui parola ha l’autorità di Dio. La fede, prima che in ogni nostro
atto, sta nel credere all’efficacia della sua parola in nostro favore. Chi crede
questo, accetta che Dio è suo padre. È quanto fece Abramo, a differenza di
Adamo.
4,7.52).
diniego, se letta in forma interrogativa. Può infatti anche significare: io, che
191
risposta di Gesù alla nostra preghiera è sempre insieme affermativa e
v. 8 Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto. Sono le parole
del nostro rapporto con Dio: il centurione sa di ricevere per dono e non per
dono.
ma solo di’ una parola, e sarà guarito il mio servo. La falsa umiltà di chi spera
v. 9 anch’io infatti sono un uomo sotto potere, e ho soldati sotto di me, ecc. Il
centurione si rifà alla sua esperienza di ufficiale subalterno, che alla parola
potere. Quella di Dio è viva ed efficace, più penetrante di una spada a doppio
taglio (Eb 4,12): è come un soldato che esegue la volontà del suo comandante,
come uno schiavo che esegue gli ordini del suo padrone. Non può essere
bella sorpresa per lui! Grande cosa la nostra libertà di dirgli di sì, invece di no.
giustizia più che della benevolenza di Dio, della propria bontà più che della sua
presso nessuno in Israele trovai tale fede! La fede del pagano Abramo, padre
di Israele, si ritrova in questo estraneo più che nei suoi figli. È un rimprovero,
192
comune nei profeti, alla presunzione di chi pensa sempre di avere un credito
ecc. Il regno dei cieli è quello del Padre. Vi entrano solo i figli - quanti, come
Abramo, hanno fiducia nella sua parola. La fede estende a tutte le famiglie
della terra la benedizione promessa al patriarca (Gen 12,3; Gal 3,8). La fiducia
v. 12 figli del regno. Qui si intende quelli che in Abramo hanno ricevuto la
promessa, ma, come Adamo, rapinarono il dono. Sono quelli che l’ultimo dei
profeti, sulla scia dei suoi predecessori, chiama: “Figli del serpente” (3,7).
Sono quelli dei quali Gesù dice: “Mai vi conobbi”, perché dicono: “Signore,
di Paolo, è mossa da amore (Lc 13,35s; 19,41 ss; 23,27ss; Rm 9,1-3), ed è solo
in vista della misericordia (Rm 11,32). Per altro si tratta di una profezia
saranno gettati nelle tenebre esteriori. Chi non crede nell’amore del
Padre/madre, non è ancora venuto alla luce come figlio. È ancora nelle
gioia, stridore di denti invece che sorriso: tristezza e rabbia di una vita fallita.
Grande è il potere della nostra libertà: decide per la vita o per la morte!
la tua parola” (Lc 1,38). Al centurione, come lei prototipo del credente, il
Signore può dire altrettanto: avvenga secondo la tua parola. La volontà del
Signore e del credente diventano una sola per la fede. La creatura entra
193
liberamente in dialogo col suo Creatore, nell’unica parola e nell’unico amore.
Nella storia tutto avviene secondo la fede del credente nella Parola.
fu guarito il servo in quella stessa ora. La fede è l’“ora” in cui si passa dalle
tenebre alla luce: è la guarigione del centurione stesso, che da schiavo diventa
figlio.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che entra in Cafarnao
c. chiedo ciò che voglio: il dono della fede nella parola di Gesù
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
gli venne incontro un centurione
la sua umiltà: Signore non sono degno, ecc.
Gesù si meraviglia della sua fede nella Parola
gli estranei sederanno con i Patriarchi
i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori
come hai creduto, avvenga a te.
194
26. EGLI PRESE SU DI SÉ LE NOSTRE INFERMITÀ’
8,14-17
“Egli prese su di sé le nostre infermità”. Con queste parole del quarto canto
nuovo! Sorgente del suo agire è il suo com-patire - e “la compassione uccide”.
Ogni azione che non nasce da qui non libera l’uomo: è solo esercizio di potere
su di lui.
serve (v. 14s), un sommario dell’attività di Gesù che di sera guarisce tutti (v.
16) e l’interpretazione della sua attività come compimento della profezia sul
Il primo miracolo, quello del lebbroso, è segno della vita nuova che Gesù
porta; il secondo, quello del centurione, è segno della fede, che l’accoglie;
195
questo terzo, con il sommario che segue, mostra l’origine e il fine dei miracoli:
male; e noi a nostra volta, serviti da lui come la suocera di Pietro, diventiamo
comando “nuovo” di Gesù. Il dono dello Spirito del Figlio ci dona di fare agli
altri ciò che vorremmo che gli altri facessero a noi. Questa è la legge e i profeti
(7,12).
per noi: il principio è lui stesso, che è amore, compassione e servizio; il fine è
quindi principio, mezzo e fine di ogni miracolo, che ci rende simili a lui, liberi di
e servire con il servizio della sua croce, dove tutto è compiuto (Gv 19,30).
perché è amata. Si lascia lavare i piedi da Gesù, e così ha parte con lui (Gv
13,8).
8,14 Venuto Gesù nella casa di Pietro. Siamo a Cafarnao, dove Gesù venne
vive da figli e da fratelli, è immagine della Chiesa. In essa noi siamo come la
“vede e provvede”.
196
la sua suocera. Pietro era sposato. Accanto a Paolo, che ha scelto il celibato
per il regno (1Cor 7,1.7s; cf Mt 19,12), c’è pure chi è sposato, e testimonia il
regno nel matrimonio, con quell’amore e quella fedeltà che era “al principio”,
a letto con febbre. Ci sono molte febbri che tengono a letto e servono a farsi
servire. Nella casa di Pietro, come pure per strada, si litiga sempre su chi è il
più grande, su chi deve dominare (cf 18,1ss; 20,20ss; cf Mc 9,33-37). Tutti
siamo peccatori, privi della gloria di Dio (Rm 3,23): nessuno sa amare e servire
v. 15 e toccò la sua mano. Toccò il lebbroso per dargli la vita nuova. Ora con
la propria mano tocca la mano di lei per comunicarle la sua capacità di servire.
La mano significa l’azione: con essa l’uomo può afferrare e divorare, oppure
energia. Al suo tocco si spegne la nostra febbre, guariamo dal nostro egoismo
e diventiamo capaci di servire. La sua mano, che è la stessa del Padre (Gv
“risuscita”. In lei avviene il risveglio dalla morte dell’egoismo alla libertà nel
servizio. È passato l’incubo della notte e viene la luce: “Noi sappiamo che
siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14).
uomini che servono delle donne! Gesù stesso si definisce “come colui che
serve” (Lc 22,27), ed esorta colui che vuol diventare grande a farsi servo, e chi
vuol essere primo ad essere schiavo, perché il Figlio dell’uomo “non è venuto
197
per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per le
moltitudini” (20,26ss).
si realizza non tanto con le parole, quanto con i fatti e in verità (1Gv 3,18).
Servire è la qualità più profonda di quel Dio che è amore (1Gv 4,18). Gesù,
lavando i piedi, rivela la “Gloria”, la sua essenza di Figlio uguale al Padre (Gv
13,1ss). Dio non è padrone, ma servo delle sue creature - come una madre è a
infinita tra Dio e tutti gli idoli: a differenza di loro che esigono la vita e danno
la morte, lui serve e dà la vita. Per questo il simbolo del messianismo di Gesù
Nella casa di Pietro solo una persona per ora è guarita. Non è Pietro né
alcuno degli altri apostoli, così importanti. È una donna, malata, vecchia e
suocera! Sarà seguita dalla schiera di quanti faranno la sua stessa esperienza,
l’umanità nuova, prototipo a immagine del Figlio/Servo, che gli altri sono
chiamati a imitare.
La suocera di Pietro è il nostro modello. È lei, e quanti sono come lei, che
porta avanti nella Chiesa e nel mondo la storia della salvezza. Ciò che conta
Signore: è “costretto” a servire, come lui. Dio realizza il suo regno servendosi
di ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono (1Cor 1,28). Il povero
serve, come il suo Signore; gli altri sono ancora a letto con la febbre - e più
“Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi”, dice Gesù (28,20). È
con noi nei poveri, che sempre avremo con noi (26,11). E ogni cosa che
198
facciamo a uno dei più piccoli, l’avremo fatta a lui (25,40). Per questo si dice
che la suocera serviva lui: ogni nostro servizio all’altro è fatto al Signore, che
all’azione, destinato alla passione. Venuta la sera, simbolo della morte (27,57;
26,20; cf 14,15.23), l’uomo non fa più nulla: tocca il suo limite, la sua notte.
portarono a lui molti indemoniati; e scacciò gli spiriti con la Parola, ecc.
(27,45). Ma, invece della fine, sarà il principio della sua attività: sarà l’entrata
di lui, luce del mondo (cf 4,16), in tutte le nostre tenebre. E allora ci sarà la
“Parola” - la parola della croce. Se durante il “giorno” della sua vita Gesù fece
qualche esorcismo e miracolo, nella sera della sua morte visitò tutti i perduti e
v. 17 perché si adempisse ciò che fu detto, ecc. Gesù, che con la sua notte
mortali, tutto ciò che in noi c’è di debole, fragile e inaccettabile, lui sulla croce
lo prende su di sé. È il dono che noi facciamo a lui, che in cambio ci dona se
stesso. Come dal Padre “prende” la propria vita, così da noi “prende” la nostra
morte. Nella sua debolezza sulla croce ogni debolezza è accolta nella forza di
Dio.
tutto e solo amore. Portare, in greco bastàzo da cui la parola italiana “il
basto”, è l’azione dell’asino, il somaro che porta “la soma”. Gesù che muore in
croce porta su di sé il peso dei nostri mali. Insieme all’agnello, l’asino è uno dei
primi simboli di Cristo - vedi il crocifisso con la testa d’asino nelle Catacombe.
199
Le nostre infermità e malattie diventano il luogo di comunione con lui, che
con la sua croce si prende cura di noi. Si fa nostro servo perché noi otteniamo
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginandomi nella casa di Pietro
c. chiedo ciò che voglio: guarire dalla “febbre” dell’egoismo per amare e
servire
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
la suocera
la febbre
Gesù tocca la sua mano
fu risvegliata
serviva
la sera
prese su di sé le nostre infermità.
4. Testi utili: Sal 147,1-11; Gal 5,13s; Mt 20,20-28; 1Cor 1,18-31; Is 53,1ss;
Mt 21,1-11.
200
27. SEGUIRÒ TE
SEGUI ME
8,18-22
“Seguirò te”, dice uno scriba a Gesù; “Seguimi”, dice Gesù a un discepolo. Le
mette liberamente a scuola del maestro che lui stesso sceglie per imparare la
tutto. Ciò che per lo scriba è Dio e la sua legge, per il discepolo è Gesù e il suo
201
Matteo è uno scriba diventato discepolo: ha trovato la novità assoluta, il
tesoro, la perla preziosa, e con gioia vende tutto per entrarne in possesso
(13,52.44-46).
Il tema del brano è seguire Gesù. I tre miracoli precedenti ci mostrano ciò
che in noi opera la sua parola. Tutto questo si realizza nel seguire lui: la fede
nella sua Parola ci libera dalla lebbra e ci rende capaci di fare il suo stesso
velleitarismo, amando lui, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la
mente (22, 37s; Dt 6,4s). Questa è la vita (Dt 30,20), il dono che lui fa al suo
discepolo.
Gesù è il Signore.
La Chiesa lo riconosce come unico bene e lo vive come suo primo e unico
amore.
8,18 Vedendo Gesù folla attorno a sé, ordinò di passare all’altra riva. Gesù
discepoli? “Passare all’altra riva”, vincendo il mare che inghiotte (vv. 23-27), il
male che devasta (vv. 28-34), il peccato che paralizza (9,1-8), la malattia e la
questo si cerca maestri o signori tra quanti gli promettono aiuto in questa
v. 19 uno scriba gli disse: Maestro. Non è ancora discepolo di Gesù. Questi è
per lui un maestro, non la Parola stessa, il Signore (v. 21) da seguire.
202
seguirò te. Lo scriba si sceglie lui il maestro da seguire, per imparare la
Parola e diventare a sua volta maestro. Gesù invece dice: “Non voi avete
scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv. 15,16), e: “Uno solo è il vostro maestro”
più di ogni parola. Ma questo scriba ignora dove Gesù va, perché non sa da
dove viene. Ignora che è il Figlio che viene dal Padre e a lui fa ritorno.
v. 20 le volpi hanno tane, gli uccelli del cielo nidi. Tana e nido sono il luogo
da cui ciascuno viene. Sono immagini della madre - casa, vita, cibo, sicurezza,
il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. Gesù non ha tesori sulla terra:
dove è il suo tesoro, lì è anche il suo cuore (6,19.21). Fuori da ogni tana e
nido, è povero e libero. La povertà, facendoci riporre ogni fiducia nel Padre, ci
genera suoi figli. Solo se la povertà è nostra madre, Dio è nostro Padre: la vita
La libertà dalle cose e dal piacere che procurano è il primo dono che Gesù fa
al suo discepolo: lo fa uscire dalla madre, lo fa venire alla luce come figlio del
giudizio. La sua povertà, che lo fa figlio che tutto riceve dal Padre, allora come
adesso è il suo giudizio sul mondo; e rimane il criterio per riconoscerlo come
salvatore presente nella storia: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno
solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me! ” (25,40). Nel povero
203
gli disse: Signore. Per il discepolo Gesù non è solo il maestro (v. 19), ma il
Signore. Non ha alcun bene al di sopra di lui (Sal 16,2). Come Paolo, è stato
conquistato da lui (Fil 3,12), fino a dire che lui è la sua vita (Fil 1,21; cf Gal
2,20)
permettimi prima di andare a seppellire mio padre. Anche chi ha capito che
Gesù è il Signore, ha resistenze che vengono dal cuore, affetti che vengono
“prima” di lui. Ma il Signore non può essere secondo a nessuno: non sarebbe
più il Signore. Ciò che viene prima di lui, è praticamente il tuo Signore. Come
la madre, raffigurata dalle tane e dal nido, rappresenta i beni che garantiscono
del dovere.
Come bisogna essere liberi dalla madre per nascere alla vita biologica, così
bisogna essere liberi dal padre per nascere alla vita adulta. Ogni cosa e
relazione, ogni piacere e dovere che si pone come assoluto, “prima” di Dio, ci
toglie la libertà. Solo l’amore per il Signore sopra tutto ci rende liberi davanti
relativizza.
Il discepolo quindi esce dalla madre (tana, nido, piacere) e dal padre
(relazione, realizzazione, dovere), per nascere come uomo libero, figlio di Dio.
v. 22 Gesù gli dice: seguimi! Seguire lui non è pretesa e volontà mia, ma
chiamata e dono suo per me. E la chiamata e il dono di Dio sono irrevocabili
(Rm 11,29), radicati nel suo amore forte e fedele in eterno (Sal 117,2).
lascia i morti seppellire i loro morti. Sono i vivi che seppelliscono i morti! Ma
chi pone un affetto “prima” del Signore, è già morto: manca dell’altra sua
parte, che lo fa vivere. Ogni sua relazione avrà sempre il sapore della morte.
Pur con il colore della “pietas”, la sua vita non sarà che un seppellire morti.
3. Pregare il testo
204
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù sul lago, che comanda di compiere la
traversata
c. chiedo ciò che voglio: la libertà dalle cose e dalle persone, perché Gesù sia
il mio affetto primo, il mio Signore
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
passare all’altra riva
maestro, seguirò te
il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo
Signore, permettimi prima
segui me
lascia i morti seppellire i morti
4. Testi utili: Sal 16; 23; Dt 6,4ss; 30,15-20; Mt 13,44-46; Fil 3,1ss; Gal 2,20.
205
28. PERCHÉ SIETE PAUROSI, O VOI DI POCA FEDE
8,23-27
“Perché siete paurosi, o voi di poca fede!”, dice Gesù ai discepoli che
cala l’altra e viceversa. Sta a noi favorire la fiducia e tenere a bada la paura.
Questa viene dalla coscienza del limite e conta su ciò che noi possiamo, quella
viene dalla conoscenza che Dio ci è Padre e conta su ciò che lui può.
I discepoli lo hanno seguito, ma non sanno ancora che devono posare il capo
La barca è la comunità, dove lui sta con noi. Deve passare difficoltà, burrasche
206
e tempeste. Prima o dopo tutti andiamo a fondo. È l’unica certezza. Numerosi
della fede. I momenti di crisi - fino a quella crisi ultima - sono il luogo stesso
della fede. Diversamente non serve per vivere una vita libera dalla paura della
Una fede che non si misura con la morte, non passa per la verità dell’uomo
Signore che “dorme” e “si sveglia”, che muore e risorge, per rompere
definitivamente il muro che separa la nostra realtà di morte dal suo desiderio
di vita.
sempre più nel Signore, fino a quando, alla fine, ci fa entrare, con lui che
“dorme”, nella sua stessa morte per uscirne con la sua stessa vita (cf Rm 6,1-
11).
noi e si è “risvegliato” per noi. Il suo sonno è la fiducia di chi posa il capo in
seno al Padre. Per questa sua fede “si risveglia” nella potenza di Dio,
dominatore del mare. Anche noi possiamo avere fiducia in lui: è il Signore che
mortali!- bensì “nella” morte, offrendoci il risveglio a una vita nuova che va
La Chiesa è la comunità di coloro che sono battezzati nella sua morte, per
aver parte alla sua medesima vita (cf Rm 6,3-11). Lo seguono e sono con lui
sulla stessa barca: sia che veglino sia che dormano, vivono ormai sempre con
207
2. Lettura del testo
8,23 Salito lui sulla barca. Non è “una”, bensì “la” barca, dove Gesù sta con i
dall’acqua, la barca è il luogo della vita salvata. È immagine della Chiesa, nata
dal legno della croce, dove Gesù per lei e con lei ha dormito e si è risvegliato.
La croce è il legno con cui lui stesso ha compiuto, in solidarietà con tutti e una
volta per tutte, la “traversata” dalla morte alla vita - desiderio impossibile e
lo seguirono i suoi discepoli. I discepoli ora vedono dove lui posa il capo: si
abbandona al Padre della vita oltre la stessa morte. Anche la folla sulla riva è
passaggio. I discepoli sono i primi che lo compiono: con lui, che dorme e si
nelle traversie della vita, vincendo le tempeste della paura della morte. Sono i
primi che, “pescati” dal Figlio, sono chiamati a diventare, come lui, “pescatori
di uomini” (4,19).
loro. Così sarà anche quando Gesù sarà ghermito e poi restituito vittorioso dal
sepolcro (27,54; 28,2). Il mare, simbolo della morte, si leva per inghiottire
tutto e tutti - come sarà alla fine del mondo (24,7). È ciò che temiamo.
Sappiamo che avverrà, anche se ignoriamo il quando. Tutto ciò che noi
la barca era ricoperta dalle onde. La barca è invasa dai flutti, preda della
208
ma egli dormiva. Il suo è l’atteggiamento del bimbo in braccio a sua madre
(Sal 131), che gli permette di abbandonarsi e sperare anche nelle difficoltà
fiducia nel Padre della vita: vive il limite assoluto come comunione con
creature limitate per farsi vicino a noi. Il nostro farci vicini a lui segna il suo
risveglio per noi, ed è principio della nostra salvezza. Nel suo sonno ha vinto la
vicini a lui è invocarlo come “Signore” - e chiunque avrà invocato il nome del
Signore, sarà salvo (At 2,21). Per essere salvati, nessun altro nome è stato
siamo perduti! Dopo il nome di Gesù, ecco quello dei discepoli: “siamo
non era, è sempre sotto la minaccia del non esserci. Ma sulla barca siamo con
il Figlio, che è fin dal principio e sempre sarà. Egli è venuto a condividere il
nostro sonno perché noi potessimo godere del suo riposo, a gustare della
o voi di poca fede. È quasi il soprannome dei discepoli (cf 6,30; 14,31; 16,8;
17,20). La fede è vittoria sulla paura della morte: permette di accoglierla come
Pur paurosi e di poca fede, i discepoli hanno nel Signore quella fede che li fa
209
42,3). È di grande valore anche quella “poca fede” che esce nelle situazioni
L’uomo è coscienza di morte, anche se per lo più rimossa. Essa pone a tutti,
in modo radicale, il problema della fede. Fin che viviamo e ci sentiamo forti,
fede e non fede sono in noi sempre mischiate, come l’oro e la pietra. Le
renderla come l’oro puro (cf 1Pt 1,6ss). Per questo Paolo si vanta delle
Una fede che trascura la realtà della morte, non serve né per vivere né per
la morte”.
allora, risvegliatosi. Dal testo sembra che Gesù abbia parlato prima di
svegliarsi. Ed è vero! Infatti la sua parola di vita è “la parola della croce” (1Cor
La morte non è più vissuta come minaccia della vita. Il mio limite non è il
Il mio limite assoluto non è il nulla di me, ma il contatto con colui che da
riconoscerci figli.
210
e vi fu grande bonaccia. È la grande calma che viene dalle ferite di Cristo
quella pace e gioia che “nessuno può rapire” (Gv. 16,23), e mi permette di
“dormire” in comunione con lui che è morto e risorto per me. È il dono del suo
Spirito. Nella sua forza posso affrontare “la traversata”, sicuro di arrivare nel
porto.
anche gli altri sono colti da meraviglia. Per tutti e per sempre il mare è
placato.
La testa del Figlio già è venuta alla luce. Il resto del corpo sta nascendo,
maledizione della morte, ma sotto il segno della creazione nuova che sta
nascendo. I gemiti del tempo presente sono le doglie del parto (cf Rm 8,18-
30). L’ultimo nostro giorno sarà il “dies natalis”, il nascere alla nostra verità di
da dove è costui? Non viene da nessuna parte a noi nota. Viene dall’ignoto,
dal sonno: emerge addirittura dalla morte quale Signore della vita,
primogenito di coloro che risuscitano dai morti, primo di una numerosa schiera
Lui sa da dove viene e dove va: è il Figlio che viene dal Padre e va verso i
fratelli. Lui, che ha potere sui venti e sul mare, sulla vita e sulla morte, è con
noi sulla nostra stessa barca, e “dorme” per dare anche a noi la fiducia del
Questo è l’atteggiamento del “Figlio”, che compie “la traversata”, ormai non
211
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando la barca in mezzo al mare in tempesta
c. chiedo ciò che voglio: la fede nel Signore che per me ha dormito e si è
svegliato
d. contemplo le persone: chi sono, che dicono, che fanno
da notare:
Gesù in barca coi discepoli
la tempesta che ricopre la barca
Gesù dorme
Signore, salva!
siamo perduti
perché siete paurosi?
o gente di poca fede
Gesù risvegliato minacciò i venti e il mare
ci fu grande bonaccia
da dove è costui?
4. Testi utili: Sal 107; 131; Gn 2,3-10; Sap 2,1ss; Eb 2,14s; Rm 6,1-11; 8,18-
29. ANDATE
8,28-34
212
ed ecco si gettò tutta la mandria
giù dal dirupo nel mare,
e morirono nelle acque.
33 Ora i mandriani fuggirono,
e, andati in città, raccontarono
ogni cosa e il fatto degli indemoniati.
34 Ed ecco tutta la città uscì
per venire incontro a Gesù,
e vedendolo lo supplicarono
di andarsene dai loro confini.
“Andate!”, dice Gesù ai demoni, che entrano nei porci e finiscono nell’abisso.
discepoli, Gesù vince la radice stessa della paura: riduce all’impotenza colui
che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e libera così quelli che per timore
della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Eb 2,14s). Il Signore
che “dorme e si risveglia” quieta il mare: placa il terrore della morte e fa finire
Diavolo significa “divisore”: con la menzogna divide l’uomo dalla sua verità di
figlio e di fratello. Gli indemoniati sono “posseduti”, non padroni di sé, in balìa
“assatanati”, pure noi siamo posseduti dall’ignoranza della verità, divisi dalla
nostra libertà.
Gli esorcismi sono parte essenziale dell’attività di Gesù. Il male non è più
uccisi.
Il brano ci presenta prima l’incontro di Gesù con gli indemoniati (vv. 28-29),
poi la richiesta dei demoni e il loro precipitare nel mare (vv. 30-32) e infine
213
L’esorcismo è compiuto mediante la Parola: la semplice verità sbugiarda la
menzogna. Se l’incredulità ci fa figli del padre della menzogna, omicida fin dal
principio (Gv 8,44) - per sua invidia è entrata la morte nel mondo (Sap 2,24) -,
Nella misura in cui abbiamo fede, non siamo schiavi della paura. La nostra
lotta tra diffidenza e fiducia, che dura tutta l’esistenza; si concluderà alla fine,
luce che sconfigge le tenebre, la fiducia nel Padre che toglie la paura della
8,28 Venuto lui all’altra riva, nel territorio dei Gadareni. È un territorio
l’azione del nemico. Gesù porta anche lì la vittoria compiuta nel suo
sonno/risveglio.
gli vennero incontro. Il male non solo non può vincere, ma neanche fuggire.
due. Matteo reduplica volentieri i personaggi (cf i due ciechi di 9,27ss; i due
secondo cieco è colui che legge, chiamato a identificarsi col primo e fare la sua
è per tutti.
214
“Impuro” è ciò che sa di morte; “spirito” significa respiro, vita. “Spirito impuro”
significa una vita di morte, il contrario dello Spirito Santo, che è la vita di Dio.
Dio e nel cuore la sfiducia verso di lui. Come può vivere uno che considera
vita” - il ricordo del Signore che ha dormito e si è svegliato con noi e per noi.
L’uomo, unico animale cosciente di morire, è angosciato dalla sua fine; a meno
che sappia che, proprio in essa, entra in comunione con il suo stesso principio.
tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada. Chi sta nella
diventata pericolosa, così che nessuno, tranne il Signore della vita, può
passare indenne.
che tra noi e te, Figlio di Dio? Non c’è nulla in comune tra menzogna e verità:
dove c’è l’una, l’altra scompare. La prima reazione davanti alla Parola è di
dolorosa estraneità, come quella dell’occhio che si apre al sole. È una tortura:
non è per me! Eppure il sole è per l’occhio come la musica per l’orecchio!
Gli uomini si chiedevano: “Da dove mai è costui?” (v. 27). I demoni lo sanno:
è il Figlio di Dio! Essi credono, ma tremano (Gc 2,19). La fede infatti non è solo
sapere chi è lui, ma affidarsi a lui. Vedere il cibo e non mangiarlo è il supplizio
di Tantalo: la “pena del danno”, privazione di ciò che sazia la mia fame!
Ma può non affidarsi al Signore chi lo conosce? Può la volontà, fatta per
amare, non acconsentire a ciò che l’intelligenza le fa vedere come bene? Non
215
volontà. Il Signore è venuto a liberare la nostra libertà, a farci aprire gli occhi
della mente e del cuore, che, dilatati nella notte, si chiudono alla luce.
sei venuto qui prima del tempo per tormentarci? La vittoria definitiva sul
male sarà alla fine del mondo - come alla fine della nostra esistenza, che ne è
1,15): finisce il regno di satana e inizia quello di Dio (4,17). Per i demoni il
tempo è finito prima della fine del tempo: già ora la fede in Gesù ci dà la
vittoria su di loro.
La presenza del bene è avvertita con tormento dal male - e dal malato
stesso, che gli presta voce. Il male infatti tende a identificarsi col suo ospite,
che diventa indemoniato, paralitico e cieco, di modo che avverte il bene come
minaccia. Il Signore separa il malato dal suo tumore, il peccatore dal suo
v. 30 c’era lontano da loro una mandria di molti porci. I porci, per gli ebrei,
sono animali immondi, dimora più opportuna per lo spirito impuro che non
abbrutisce.
diffidenza, lascia libero l’uomo, che torna ad essere figlio di Dio. Però, prima di
finire nell’abisso nel quale voleva sommergerci, rimane ancora per un po’ nei
temporanea presenza tra noi? Perché c’è ancora incredulità in noi e attorno a
noi? Perché il male nella nostra storia, piccola e grande? Dio lo lascia per farne
nelle nostre miserie la sua misericordia. Il male c’è ancora; ma ha perso il suo
216
potere di incanto.
usciti, andarono nei porci, ecc. Le onde, con le quali i demoni volevano
della morte, causano sempre in noi paura; ma questa è il luogo della fiducia.
del male è ancora nei mandriani che si allontanano da Gesù, come pure nei
Gadareni che lo allontanano (v. 34). Però c’è un fatto nuovo, che per i due ex
indemoniati è “buona notizia” e per gli altri cattiva: la liberazione dal male.
Il male negli ossessi toglie la maschera e può essere facilmente vinto; negli
Il male, per essere capito come tale, deve aver raggiunto la fase acuta. Esce
allo scoperto ed è vinto di sicuro nella morte. Per questo le situazioni limite,
come quella dei discepoli nella barca e degli indemoniati nei sepolcri, sono le
comodi” - che rivelano il loro aspetto demoniaco solo nel loro risvolto estremo:
v. 34 tutta la città uscì per venire incontro a Gesù. Esattamente come gli
indemoniati .
Davanti a Dio il male non ha nessuna libertà. L’uomo invece può anche
che i mandriani e tutta la città giungano allo stremo, come i discepoli in barca
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando i sepolcri nel dirupo sul lago
217
c. chiedo ciò che voglio: liberami dalla paura della morte
d. traendone frutto, contemplo la scena
da notare:
due indemoniati gli vennero incontro
uscendo dai sepolcri
che tra noi e te?
andate!
entrarono nei porci e morirono nelle acque
i mandriani fuggirono
lo supplicavano di andarsene.
4. Testi utili: Sal 49; Sap 1,12-2,24; Eb 2,14s; Rm 6,1-11.12-23.
218
30 IL FIGLIO DELL’UOMO HA POTERE SULLA TERRA
DI RIMETTERE I PECCATI
9,1-8
9,1 E, salito in barca,
passò all’altra riva;
e venne nella sua città.
2 Ed ecco gli portavano un paralitico
che giaceva a letto.
E, vedendo Gesù la loro fede,
disse al paralitico:
Coraggio, figliolo,
ti sono rimessi i tuoi peccati.
3 Ed ecco alcuni degli scribi
dissero tra sé:
Costui bestemmia!
4 E, vedendo i loro pensieri,
Gesù disse:
Perché pensate cose cattive
nei vostri cuori?
5 Cosa è più facile:
dire:
Ti sono rimessi i tuoi peccati,
o dire:
Sorgi e cammina?
6 Ora perché sappiate
che il Figlio dell’uomo ha potere
sulla terra di rimettere i peccati,
allora dice al paralitico:
Sorgi,
leva il tuo letto
e va’ a casa tua.
7 E, sorto,
andò a casa sua.
8 Ora, visto ciò, le folle temettero
e glorificarono Dio
che aveva dato tale potere agli uomini.
“Il Figlio dell’uomo ha potere sulla terra di rimettere i peccati”. Gesù dice
espressamente per l’unica volta il “perché” dei suoi miracoli: sono un segno
219
mummie.
Quando pensiamo a Dio, subito pensiamo a una legge che giudica e punisce
di espiare. Dovere, colpa ed espiazione sono tipici di ogni re-ligione, che lega e
Ma Dio non è legge, e noi non abbiamo debiti con lui: è lui che ne ha con noi.
Ci ha fatti per amore, e ogni nostro male è un “suo” fallimento, di cui soffre.
Come i genitori con i figli, lui si mette in questione se noi stiamo male o
come diritti suoi e doveri propri. Gesù, il Figlio che conosce il Padre, “deve”
dare la vita per questo mondo di peccato: è venuto sulla terra per portare ai
Questa è una bestemmia. Gesù si fa uguale a Dio, l’unico che perdona. E per
convertirci a lui perché lui per primo si converte a noi - anzi, con mitezza
condannare perdona, invece di punire espia per gli altri. Proprio per questo
(5,20), che è quella del Padre che fa piovere la sua luce e la sua benedizione
I miracoli rifanno l’uomo nuovo (8,1-4: il lebbroso), vengono dalla fede (8,5-
fonte nel “Servo” (8,17) che dorme e si risveglia per vincere la nostra paura
della morte (8,23-27: la tempesta sedata), affogando il male che con essa ci
tiene schiavi per tutta la vita (8,28-34: l’esorcismo). Ora il vangelo mostra
220
come la vita nuova è essenzialmente perdono: la legge ci crocifigge al nostro
Perdonare è miracolo più grande che risuscitare un morto. Lazzaro, una volta
rivela insieme l’identità di Dio, che ama senza misura, e quella dell’uomo, suo
è il significato (Lc 24,46s). La prova che Cristo è risorto, per Paolo consiste
Le prime parole che Dio disse ad Adamo sono: ”Dove sei?” L’uomo non era
più al suo posto, perché si era nascosto da lui. Lontano da lui, è lontano da sé
e dagli altri, estraneo a tutto. Perché “Dio è il suo posto”. Nel perdono ritrova
bestemmia, che sblocca l’uomo dalla sua paralisi, inchioderà il Figlio dell’uomo
sulla croce.
agli altri: sono figli che vivono la misericordia del Padre, suoi ambasciatori
9,1 Venne nella sua città. Cafarnao è ormai la “sua” città adottiva, dove
221
raggiungere Gesù, addirittura calandolo dal tetto (cf Mc 2,1-12 e Lc 5,17-26).
un paralitico. L’uomo è viator. Non è mai di casa dove sta; ovunque si sente
estraneo, perché abita altrove. Non è questa la sua città: è in cerca di quella
futura (Eb 13,13s), perché è della famigli di Dio (Ef 2,19). Chiamato a
diventare perfetto come il Padre (5,48), solo in lui raggiunge la sua casa,
nell’amore reciproco che è la dimora dell’uno nell’altro (cf Gv 14,23s). Fine del
suo cammino è essere in Dio come Dio è in lui, fatti casa l’uno dell’altro.
a letto. L’uomo sta a letto quando soffre o si riposa, quando sta male e
quando muore. La paralisi fissa il paralitico a letto. Questo può essere simbolo
della legge. Buona in sé, è però luogo di contenzione per chi la trasgredisce.
grado di adempiere la legge. Infatti chi è perdonato di più, amerà di più (Lc
vedendo la loro fede. La fede è l’origine dei miracoli: è comunione con Dio,
figliolo. In greco c’è: “genito”. Anche se non lo sai e non lo accetti, Dio ha nei
via da te i tuoi fallimenti di cui fai sempre ri-cordo, quel male che ti aderisce e
mangia come un tumore. Tutto il negativo che hai fatto e che ti porti dentro
222
come una massa oscura, è gettato lontano da te.
l’azione più grande dell’uomo: ci fa essere ciò che siamo - figli del Padre,
può essere ristabilita dal perdono. Se lo accetto, conosco Dio come Padre e me
stesso come suo figlio. Non siamo amati perché bravi - allora saremmo odiati
grazia (Rm 5,20). Non per questo dobbiamo peccare (Rm 6,1.15; 3,8); ma,
lunghezza, l’altezza e la profondità (Ef 3,18) dell’amore del Padre in Cristo per
noi, dal quale nulla ci potrà mai più separare (Rm 8,39). Veramente tutto,
anche il male, coopera al bene (Rm 8,28), per coloro che hanno accolto il suo
amore.
v. 3 alcuni degli scribi dissero tra sé. Parlare tra sé è aborto di dialogo,
difendersi o attaccare.
espiazione (cf Lv 4-5). Gesù perdona, quindi è Dio; e perdona senza espiazione
doppia: che l’uomo Gesù sia Dio, e che Dio sia Dio, altro e santo, proprio
fine della legge e principio del vangelo (5,20-48). Sarà la causa della condanna
223
di Gesù (26,65); ma la sua stessa morte sarà rivelazione di questo Dio che
nessuno ha mai visto, e che il Figlio ha rivelato (Gv 1,18), proprio attraverso la
croce (27,54).
v. 4 vedendo i loro pensieri. Il Signore vede e scruta i pensieri dei cuori (Sal
139,1ss).
perché pensate cose cattive nei vostri cuori? Il cuore cattivo dà frutti cattivi.
( 5,45; cf Lc 6,36).
v. 5 cosa è più facile dire, ecc. Per noi è impossibile sia far camminare il
paralitico che perdonare. Per Gesù il primo miracolo, esterno, è segno del
secondo, interno.
v. 6 perché sappiate. Il motivo del miracolo è render noto “il potere” di Gesù
e di Dio, che è lo stesso. Solo qui Gesù dice il “perché” dei suoi miracoli.
dice secondo che uno è in grado di comprendere del suo mistero. Può
porta il giudizio di Dio (Dn 7,14): ha ogni potere in cielo e in terra (28,18).
l’onnipotente.
sulla terra. Gesù, il Figlio dell’uomo, porta sulla terra il potere stesso di Dio in
rimettere i peccati. Dio non ha altro potere che quello di perdonare, che è il
suo dovere nei nostri confronti - “dovere” che lo porterà alla croce. Dio è dono
e per-dono. La legge, che pure è dono suo, indica il cammino della vita. Ma se
amore assoluto, che assolve da ogni male. Il potere, l’onore e la gloria di Dio si
224
rivelano sulla croce, dove lui, nel perdonare, mostra l’onnipotenza del suo
amore.
leva il tuo letto. Ciò che prima lo portava da malato, ora lui stesso lo porta da
va’ a casa tua. Finalmente l’uomo può giungere a casa: è quella del Figlio, la
stessa del Padre. Il perdono sblocca la sua paralisi: non guarda più il suo
peccatore perdonato che va a casa sua, dove può finalmente mangiare col
Dio che aveva dato tale potere agli uomini. Il Figlio dell’uomo è venuto per
dare agli uomini il potere di Dio: nel perdono vicendevole tra i fratelli, circola
come siamo perdonati, di amare come siamo amati. La storia cessa di essere
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù circondato dalle folle, con il paralitico
davanti
c. chiedo ciò che voglio: conoscere il Figlio dell’uomo e il suo potere di
perdonare
225
d. traendone frutto, contemplo la scena
da notare:
gli portavano un paralitico
giaceva a letto
coraggio
ti sono rimessi i tuoi peccati
costui bestemmia
perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha potere sulla terra di rimettere i
peccati
leva il tuo letto
va’ a casa tua
glorificarono Dio che aveva dato tale potere agli uomini.
4. Testi utili: Sal 103; 130; Is 54,1 ss; Ger 31,31-34; Lc 15,1ss; Mt 18,21-35;
2 Cor 5,14-6,2.
226
31. NON SONO VENUTO A CHIAMARE I GIUSTI,
MA I PECCATORI
9,9-13
Rimesso in piedi dal perdono, può entrare in casa sua e accogliere chi lo ha
sensi: Dio ama di più il peccatore, perché ha più bisogno, e anche il peccatore
227
lo amerà di più, perché ha ricevuto maggiore amore (Lc 7,36-50). Il malato, più
è grave, più ha diritto del medico e maggiori sono i doveri di questi nei suoi
maggiori sono i doveri di Dio nei suoi confronti. Inoltre il suo peccato non gli
impedisce l’esperienza di Dio: anzi, proprio in esso lo chiama per il suo vero
con Matteo; nel v. 10 Gesù, con i suoi discepoli, entra in casa sua e si fa
commensale con lui e con altri suoi colleghi; nei vv. 11-13, all’obiezione dei
invece accetta quelli non ancora convertiti. Non perdona il peccatore perché si
riconosce, perché ne ha bisogno. Il giusto invece gli resiste con tutte le forze.
Deve prima accettare il peccatore come suo fratello, suo gemello, anzi come
per lui (Gal 3,13; 2 Cor 5,21); solo allora conosce Dio e si converte alla
clemente, longanime, che si lascia impietosire (Gn 4,2). Se esclude dal suo
peccatori.
perdizione.
Gesù chiama tutti, ed è commensale con i peccatori non solo convertiti, come
228
Matteo, ma anche con gli altri. Anche Matteo non fu chiamato perché
della sua “grazia”: graziati dal Signore, usano grazia gli uni verso gli altri (Ef
4,32).
9,9 Andando via di là. Gesù aveva guarito il paralitico facendolo camminare
verso casa sua. Ora chiama il peccatore a seguirlo, a essere con lui e come lui.
vide. Il suo occhio, come raggio che fende le tenebre, si volge al peccatore,
di Gesù, come fascio di luce, alza di sorpresa Matteo, sollevandolo dal tavolo
paralitico nel suo letto, ora un uomo seduto al suo banco a contare soldi -
creazione: “Disse, e vide che era buono” (Gen 1,3.12.18.21.31). Ora sguardo e
segui me! Seguire lui è il senso della vita nuova: significa essere figlio. È il
229
alzato. Avrebbe detto: non sono degno di seguirlo! Levarsi è una delle due
Rispondere alla sua chiamata è passare dalla morte alla vita, miracolo
invitandolo in casa sua, come dicono chiaramente Marco e Luca (Mc 2,15; Lc
5,29). Come il paralitico guarito, va a casa sua; e qui accoglie il Signore che lo
ha accolto.
insieme.
considera suoi fratelli sia Pietro e Andrea che Giacomo e Giovanni, sia Matteo il
peccatore appena convertito che gli altri peccatori. La Chiesa non è fatta di
il Signore si è fatto loro fratello, così a loro volta si fanno fratelli degli altri
cattolica (= universale), perché tutti sono figli di Dio, cominciando dagli ultimi.
dicendo: “Signore, non sono degno!” Se fossi degno, non andrei a ricevere il
sono da levare di mezzo a noi! Non dice la Scrittura di non stare in compagnia
degli empi (cf Sal 1,1) e di eliminare ogni mattina tutti gli empi del paese (cf
230
Sal 101,8)?
La commensalità con gli empi fa sempre problema. Gesù invece sta con noi,
senza vergognarsi di chiamarsi nostro fratello (Eb 2,11). Egli odia il peccato e
sa. Noi al contrario siamo duri coi peccatori perché teneri con il male, che
male essere affamati. Ma proprio questo pensa chi affama, e per questo
affama! (Dovremmo pregare più per gli infelici affamatori che per gli affamati,
come tale e alla libertà da esso. Finché sono duro con i peccatori, sono ancora
perché i suoi fratelli sperimentino la stessa accoglienza del Padre che lui ha
Appena il mio peccato non mi sta dinanzi (Sal 51,5), invece di ringraziare Dio,
tra noi e in noi? non è contro la volontà di Dio? non bisogna strappare le
zizzanie (13,24-30) ?
v. 12 egli, udito, disse. La domanda è fatta sempre dal fratello maggiore, che
è in ciascuno di noi; la risposta viene da Gesù, con ciò che lui ha fatto e detto
(At 1,1). Per risolvere i problemi all’interno della Chiesa, il criterio è lasciare la
non hanno bisogno del medico i sani, ma quelli che stanno male. Il medico è
Dio, che cura le ferite del suo popolo (Sal 147,3; Is 61,1). Uno ha il raffreddore,
Gesù è il medico, e privilegia chi sta peggio. Misura alla grazia di Dio non è la
bontà, ma la cattiveria nostra. Il suo amore gratuito è per noi l’unica cura e
231
Il male non è la sconfitta del bene, ma, paradossalmente, luogo di un bene
maggiore. “Perfetto come il Padre” non è chi sbaglia di meno, ma chi ama di
più. E certamente ama di più colui al quale è stato perdonato di più (Lc
7,41.43).
ritorno a colui che grazia e fascia le ferite, e ridà vita al terzo giorno! Bisogna
amore ci guarisce.
La giustizia di Dio non esige il nostro sacrificio: è misericordia, che porterà lui
a sacrificarsi sulla croce. Alla religione della legge e del sacrificio subentra
quella della libertà e dell’amore, che viene dalla conoscenza di questo Dio.
Nessun giusto è salvato, perché nessuno è giusto (Sal 12,2; Rm 3,23) - tranne
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come il solito
b. mi raccolgo immaginandomi a mensa in casa di Matteo
c. chiedo ciò che voglio: convertimi, o Signore, e sarò convertito (Ger 31,18)
d. traendone frutto, contemplo la scena
da notare:
andando via da lì
Gesù vide
un uomo seduto al banco delle imposte
gli dice: segui me!
levatosi
lo seguì
Gesù a mensa in casa di Matteo
232
molti pubblicani e peccatori giacevano a mensa con Gesù
perché il Maestro mangia coi peccatori?
l’obiezione dei farisei ai discepoli trova risposta direttamente in Gesù
non hanno bisogno del medico i sani ma i malati
misericordia voglio e non sacrificio
non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.
4. Testi utili: Sal 12; 50; 51; Os 6,3-6; Giona; Lc 7,36-51; 15,1ss; Rm
233
32. LO SPOSO È CON LORO
9,14-17
“Lo sposo è con loro” , risponde Gesù: per questo i suoi discepoli non
i farisei (cf brano precedente) e i discepoli di Giovanni: tutti sono presenti alle
nozze dell’Agnello, che porta su di sé il peccato del mondo (Gv 1,29). Nessuno
è escluso dalla festa, perché egli è il principio e il fine della creazione: per lui e
in vista di lui tutto è stato fatto e tutto sussiste in lui (Col 1,16s), vita di quanto
esiste (Gv 1,3b-4). Il Signore che mangia con tutti, peccatori convinti o meno,
è il riposo di Dio nella sua creazione e della creazione nel suo Dio. Nascono i
cieli nuovi e la terra nuova, dove ha stabile dimora la giustizia di Dio (2Pt
234
3,13).
il digiuno, l’amore e il vestito, il vino e gli otri. Con Gesù è finito il digiuno, e
digiuno attraverso cui passare per giungere alla meta (v. 15b). La vita nuova
che lui porta non è un aggiustamento di quella vecchia (v. 16); c’è finalmente
qualcosa di nuovo sotto il sole (Qo 1,9): il vino nuovo (v. 17), lo Spirito nuovo
promesso dai profeti (Ez 36,26), effuso nei nostri cuori (Rm 5,5), che esige e
quanti siedono alla mensa del Figlio, si riversa ogni dono di Dio. L’uomo
di amore, vestito, ebbrezza, novità e vita. La venuta del Signore sazia questa
Gesù è il cibo, lo sposo, il vestito nuovo, il vino migliore riservato alla fine. In
La Chiesa non digiuna: fatta di peccatori, fa eucaristia per il dono del perdono
noi e i farisei digiuniamo. I suoi discepoli digiunano: per loro la vita è attesa
del futuro. Anche i farisei, fedeli alla tradizione, digiunano: per loro la vita sta
digiuno: la vita è nel futuro o nel passato, desiderio di ciò che sarà o nostalgia
235
i tuoi discepoli non digiunano. Dio non è uno che era o sarà: egli è. Per
questo i discepoli di Gesù non digiunano: vivono la gioia dell’incontro con lui.
indica gli invitati. Con Gesù partecipiamo al banchetto del Messia, pienezza di
elimina la morte per sempre e asciuga le lacrime su ogni volto (Is 25,8; Ap
7,17).
lo sposo è con loro. Ecco il nostro Dio (Is 25,9): è lui lo sposo, l’Emmanuele,
che è sempre con noi (1,23; 28,20). Il rapporto sposo/sposa, alterità che si
è la realtà più indicata per alludere al rapporto Dio/uomo (cf Is 61,10s; 62,1-5;
Gen 1,27; Os 2,16-25; Cantico dei Cantici; Ap 21-22). In Gesù uomo e Dio sono
una carne sola: l’uno è l’altra parte dell’altro, e nessuno potrà più separare ciò
che fu unito.
lui è anche lo sposo, amore libero e corrisposto che ci rende simili a lui, suoi
partners.
banchetto nuziale: vivere nella pienezza di quell’amore che è Dio stesso, suo
sposo.
Il “principio dei segni” di Gesù è dare l’ebbrezza del vino all’acqua incolore e
(11,18s). Matteo sottolinea anche altrove l’aspetto nuziale del regno (22,1-14;
25,1-13).
quando sarà tolto loro lo sposo, allora digiuneranno. Lo sposo sarà tolto
236
quando sarà elevato sulla croce e levato in cielo. La vita cristiana conosce una
pienezza che però non è ancora compiuta. Le nozze già ci sono state: l’unione
con Dio, già perfetta in Gesù, è l’anticipo di ciò che sarà per ciascuno di noi
alla fine. Ora c’è un’assenza per giungere alla presenza, un digiuno non ancora
sazio, un venerdì santo che introduce alla pasqua. Il suo essere-con-noi, per il
momento, resta sotto il segno della croce: la sua presenza è nei piccoli - negli
situazioni di digiuno che la nostra storia conoscerà sino alla fine (25,35ss). Lì
lui è presente al nostro amore. Il nostro digiuno si sazia, per ora, incontrando
compimento dei tempi (28,10), quando entreremo con lui nelle nozze (25,20),
In questo detto si allude al digiuno del venerdì santo in ricordo della croce.
Ma si allude soprattutto al digiuno che lui desidera da noi: dividere il pane con
catene, spezzare ogni giogo (Is 58,6s). Così incontriamo lo sposo, che si è fatto
è la visibilità della persona, che insieme la vela e rivela - è come un corpo che
237
vecchio. Non si può mischiare luce e tenebra, vita e morte, amore ed egoismo.
morte.
ci riveste giorno dopo giorno. Se il vestito è l’uomo nella sua relazione con
il “di più” necessario per essere felici. L’uomo non è fatto solo per mangiare
come l’animale. È fatto per amare: solo questo lusso gli dà gioia.
Il vino è simbolo del sangue, della vita, dello Spirito. Gesù ha bevuto il vino
acido della nostra morte (27,48), per darci alla fine il vino migliore (Gv 2,10):
beve il nostro calice di morte (26,42), perché noi beviamo il suo calice di vita
(26,27).
Non ubriacatevi di vino, ma siate ricolmi dello Spirito (Ef 5,18). Questo
amore, “sobria ebbrezza dello Spirito”, è l’alleanza nuova ed eterna tra noi e lo
in otri vecchi. L’otre è un sacco di pelle per custodire bevande. L’otre vecchio
non può contenere il vino nuovo: il cuore di pietra non può contenere lo Spirito
d’amore.
si rompono gli otri. Lo Spirito nuovo rompe l’otre vecchio: l’uomo vecchio, il
mettono vino giovane in otri nuovi. I discepoli di Gesù sono otri nuovi, e
vivono nella gioia perché hanno questo vino nuovo: è una gioia che nessun
digiuno può oscurare e nessuna potenza rapire (Gv 16,23), perché nulla ormai
li può separare dall’amore che Dio ha per loro in Cristo (Rm 8,38s). Lo Spirito
238
fa l’uomo nuovo: l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno proprio con la
“tempio dello Spirito”: noi glorifichiamo Dio nel nostro corpo (2Cor 6,19.20; cf
Rm 12,1)
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il banchetto in casa di Matteo
c. chiedo ciò che voglio: dammi Signore, la sorgente d’acqua che zampilla per
la vita eterna (Gv 4,14)
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
i discepoli di Giovanni digiunano
i farisei digiunano
i discepoli di Gesù non digiunano
lo sposo è con loro
quando sarà tolto lo sposo
toppa grezza e vestito vecchio
vino giovane e otri vecchi
vino giovane e otri nuovi.
4. Testi utili: banchetto: Is 25; 55; Pr 9,1-6; nozze: Cantico dei Cantici; Is
Gv 2,1-12; Ez 36,24-37,14.
239
33. LA TUA FEDE TI HA SALVATA
9,18-26
240
“La tua fede ti ha salvata”, dice Gesù alla donna che lo tocca e guarisce.
Subito dopo, lui stesso tocca la fanciulla e la risuscita. Sono due miracoli a
della donna, posto nel mezzo, dice che cos’è la fede: toccare Gesù; il racconto
della fanciulla morta e risorta, posto all’inizio e alla fine, dice cosa dà la fede:
Signore della vita, che a sua volta ci “tocca” - e il suo tocco è il dono stesso
della vita. Non si evita la morte - siamo mortali! - , ma, proprio in essa, si è
presi per mano da colui che ci risveglia: “Io sono la risurrezione e la vita; chi
crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25). Infatti “chiunque vive e crede
in me, non morirà in eterno” (Gv 11,26). La salvezza del Cristo risorto è già
presente nella comunità come vita affrancata dalla paura della morte e libera
dall’egoismo.
Gesù. Questo “tocco” è lo Spirito Santo, dito di Dio, che scrive nel nostro
cuore il suo nome e lo ferisce col suo amore: è la fede che ci fa amare come
siamo amati, ci fa vivere in comunione con lui, sia che vegliamo sia che
La salvezza dalla morte è “il problema” dell’uomo. Ogni suo sapere e agire
tutto e di tutti.
Il Signore, che con noi sulla barca ha dormito e si è svegliato, placa il mare e
la nostra paura di andare a fondo. Ora, con lui risorto, sciolti dallo spirito del
male, dalle nostre paralisi e peccati, siamo chiamati a mangiare con lui, lo
sposo; anzi, a toccarlo e a vivere del suo tocco. Così, con-morti, con-sepolti e
con-risorti con lui, possiamo già ora vivere la stessa vita nuova di colui che è
morto, sepolto e risorto per noi (cf Rm 6,1-11; Col 2,12-15). “Toccando” lui che
241
“prende” la nostra mano, usciamo dal lutto del digiuno ed entriamo nel
Matteo, come al solito più sobrio di dettagli rispetto agli altri sinottici, rileva
con essenzialità i temi connessi del morire, del toccare (fede), del salvare e del
risorgere.
Gesù libera quelli che abitano nelle tenebre e nell’ombra di morte (4,16; Is
La Chiesa è raffigurata dalle due donne, figlie di Sion, delle quali una tocca il
9,18 Mentre diceva loro queste cose. Gesù sta parlando delle nozze, del
vestito nuovo, del vino giovane, in casa di Matteo il peccatore. Ciò che lui dona
non è un semplice palliativo ai nostri mali, quasi una pezza su vecchi strappi; è
ecco venire uno dei capi. È Giairo, capo delle sinagoga di Cafarnao. La cura di
lo adorava. Adorare Gesù è il fine del vangelo di Matteo: i Magi lo fanno fin
vita. La giovane figlia del capo della sinagoga, come quella di chiunque altro, è
da sempre appena morta: l’uomo non genera che vita per la morte. Ogni
vieni, imponi la tua mano su di lei e vivrà. Questa è la fede del capo della
242
v. 19 risvegliato. Gesù è già risorto. Ma prima di risvegliarsi, anche lui ha
con i suoi discepoli. Con lui sono quelli che già hanno ascoltato la Parola, che
v. 20 ecco una donna che perdeva sangue da dodici anni. Il sangue è la vita.
al Signore. Ma proprio per questo siamo ancor più bisognosi di lui, come il
malato del medico. Ciò che ci manca per guarire è proprio lui, fonte della vita.
sua veste. La veste del Signore è la sua umanità, della quale si è rivestito;
l’orlo della sua veste è la Parola, attraverso la quale noi, ancora oggi,
ogni carne. Nella sua umanità abita tutta la pienezza della divinità (Col 1,19), e
la sua parola è viva ed efficace (Eb 4,12), capace di compiere ciò per cui fu
inviata (Is 55,11). Dio, come ogni persona, lo tocchiamo e ci tocca con la sua
Signore nella sua parola, che opera in chi l’accoglie come parola di Dio (cf 1Ts
2,13).
se solo toccherò il suo mantello, sarò salvata. Non dice: guarita, ma, salvata.
spalle, l’orlo del mantello: gli parla faccia a faccia, bocca a bocca. La sua
parola gli mostra il Volto e gli tocca il cuore penetrandolo con il suo Spirito.
243
dialogo con il Signore, è la fede che salva. La salvezza infatti è il parlare ed
entrare in comunione con lui. Allora la paura della morte lascia il posto al
Signore. La donna constata, come ciascuno di noi, che la sua parola è vera:
opera ciò che promette. Ma solo in colui che crede. In colui che non crede,
manca proprio ciò che solo la Parola accolta può dare. L’ora della salvezza è
Il problema non è che Dio salvi o che la sua parola sia efficace. Lui vuole tutti
salvi e la Parola fa quello che dice. Ma nessun dono può essere fatto a chi non
v. 23 giunto Gesù nella casa del capo, ecc. Nella casa del capo della sinagoga
regna la morte, c’è lamento e strepito. È il lutto con cui chi è ancora vivo
La morte dei genitori è “normale”: la vita continua nei figli. Ma la morte della
già morto.
risveglio nella nuova luce. La morte non è più senza ritorno. Al tocco del
beffardo della morte, che per noi è l’ultima parola. Se la morte produce pianto,
244
la prese per mano. Lo sposo prende per mano la sposa, unito con lei nella
buona come lo fu nella cattiva sorte. La vita strappa alla morte la sua preda, e
la veste di sacco è mutata in abito di danza (cf Sal 30,12). La ragazza, morta
fremito di vita la sconvolge. Ormai è con-sorte del suo Signore, unita a lui in un
terra” giunge fino a noi, perché in essa, - lembo del suo mantello - tocchiamo
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginandomi nel tragitto dalla casa di Matteo alla sinagoga
c. chiedo ciò che voglio: toccare lui, essere preso per mano da lui. Chiedo la
fede nella sua parola
d. traendone frutto, contemplo la scena
da notare:
mia figlia è morta
vieni, imponi la mano su di lei e vivrà
risvegliato, Gesù lo seguiva
ecco una donna che perdeva sangue
tocca di dietro il lembo del suo mantello
diceva: se toccherò, sarò salva
coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata
ritiratevi: la fanciulla non è morta, ma dorme
la prese per mano
fu risvegliata la fanciulla
questa fama uscì.
4. Testi utili: Sal 16; 23; 1Cor 15,1ss; Rm 6,1-11; Col 2,1-15; Mt 22,23-33;
Gv 11,1-44.
245
34. AVVENGA A VOI SECONDO LA VOSTRA FEDE
9,27-34
“Avvenga a voi secondo la vostra fede”, dice Gesù ai due ciechi, guarendo
subito dopo il muto. La fede è vista, l’incredulità cecità. In forza della fede,
colui che, come Zaccaria, era rimasto muto a causa dell’incredulità, può
246
I due miracoli, ultimi della serie dei dieci prodigi e punto di arrivo dell’attività
Così si compie la missione del Figlio, primo apostolo inviato ai fratelli. Quelli
che a loro volta sono illuminati, la continuano nei confronti degli altri.
“Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti, e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14).
ma di occhi nuovi; non consiste nel vedere cose nuove, ma nel vedere nuove
tutte le cose, con gli occhi del Figlio. Chi ha il cuore del Figlio, ovunque vede
l’amore del Padre. Invece delle proiezioni delle proprie paure, scorge ovunque
la bellezza del suo volto: si sveglia dall’incubo della notte e viene alla luce.
“correttamente” (Mc 7,35). Guarito dalla cecità e dall’afasia, può dire, con
gioia sua e altrui, ciò che ha udito, visto e toccato dal Verbo della vita (1Gv
1,2-4).
I ciechi, illuminati dalla Parola, saranno a loro volta luce del mondo (5,14).
Subito dopo, al c. 10, ci sarà la missione dei Dodici, i primi che hanno avuto
occhi nuovi e bocca nuova per proclamare le meraviglie di Dio (At 2,11).
Il brano si articola in due parti: i vv. 27-31 raccontano la guarigione dei due
ciechi, i vv. 32-34 quella del muto e il diffondersi della Parola, che porta
cuore. Lui è venuto per fare un giudizio: perché chi è cieco veda, e chi crede di
Gesù, luce del mondo (Gv 8,12), Parola eterna del Padre, è il Figlio,
primogenito di una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29) illuminati alla sua
luce.
La Chiesa, accesa dal fuoco che lui ha donato il giorno di Pentecoste, è luce
247
del mondo (5,14), e trasmette ai fratelli la Parola che guarisce e rigenera a
9,27 Andando via Gesù di là (cf v. 9). Gesù ha appena risvegliato la fanciulla.
Ora il vangelo mostra come la risurrezione sia la stessa fede, che fa passare
possiamo e dobbiamo seguire Gesù. “Chi segue me, non cammina nelle
tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12b). L’illuminazione inizia col
desiderio di seguirlo - tenue luce che brilla nella notte. Chi poi lo segue, giunge
ciechi. Il cieco è nelle tenebre: non è ancora venuto alla luce. La prima
essere cieco. Un sasso non è cieco! Sapere di essere ciechi significa capire di
non essere fatti per le tenebre, come sapere di essere mortali è capire di non
essere fatti per la morte. La coscienza della cecità e della morte viene dalla
nostra dignità: siamo figli, poema di Dio, creati nel Figlio, destinati a
essere le cose quello che sono. La cecità si oppone alla vista come la tenebra
alla luce, il non-senso al senso, la morte alla vita. La realtà è uguale sia per il
disagio per il male come bisogno del bene. A questo punto del vangelo il grido
sa ciò che desidera e vuole: la luce della fede. La fede stessa è il grande
248
miracolo.
abbi pietà di noi. La fede è chiedere a Dio di vedere lui come pietà e amore
Cristo (1,1).
Infatti consiste nel vedere se stesso come figlio e lui come Padre - il che è
possibile solo nella fraternità. Chi ama il fratello è figlio ed è passato dalla
morte alla vita (cf 1Gv 3,14). L’illuminazione cristiana è per tutti, non per
se ne ascolta la parola.
credete che posso fare questo? Gesù chiede se crediamo che lui può darci la
vista. La fede non è un dono, ma il dono: ci mette in comunione con lui! Come
ogni dono, può essere data solo a chi la desidera e la chiede. Il ritenere che ce
la possa dare e il chiederla, è atto della nostra libertà. Anche l’ateo può e deve
sì, Signore. Il loro “sì” al dono della fede è il semaforo verde alla sua potenza.
In questo “sì” Gesù è il Signore - l’eterno “sì” per noi che attende il nostro “sì”
v. 29 toccò i loro occhi. Il suo “tocco” ci dà occhi nuovi: i suoi stessi di Figlio.
v. 30 si aprirono i loro occhi. Adamo aprì gli occhi sulla sua nudità, e si
nascose alla luce. Gesù ci apre gli occhi sulla nostra gloria di figli, e ci fa
aperto gli occhi per vedere ciò che occhio umano mai non vide (1Cor 2,9).
249
L’illuminato potrà raccontare la sua esperienza ad altri (vedi miracolo
seguente); ma l’illuminazione stessa rimane “il” segreto che conosce solo chi
lo sperimenta.
v. 31 diffusero la sua fama in tutta quella terra. La fama di Gesù esce dalla
casa e si diffonde per tutta la terra, conducendo a lui altri desiderosi di vedere
gli porta un muto. La parola è ciò che dà senso alla realtà: tutto senza di essa
resta assurdo. L’uomo riceve luce dalla parola, e diventa la parola che ascolta.
Il muto è l’uomo in cui si arresta il circuito della parola: per lo più non la può
parlò il muto. Anche lui può dire ciò che ha udito e visto e toccato dal Verbo
della vita (1Gv 1,1). Nel discorso sulla missione, che immediatamente segue,
della promessa.
v. 34 con il capo dei demoni scaccia i demoni. Davanti alla Parola - al muto
La storia della salvezza è uno scontro tra fede e incredulità, fra luce e
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che esce dalla casa di Giairo e torna alla
casa di Pietro
250
c. chiedo ciò che voglio: che io veda! chiedo il dono della fede nella sua
Parola
d. traendone frutto, contemplo la scena
da notare:
lo seguirono
due ciechi
gridando e dicendo
abbi pietà di noi
entrato nella casa, i ciechi gli si avvicinarono
credete voi che posso fare questo?
sì, Signore!
avvenga secondo la vostra fede!
un uomo muto
scacciato il demonio, parlò il muto
mai apparve cosa simile in Israele
con il capo dei demoni scaccia i demoni.
4. Testi utili: Sal 27; 34; Is 42, 7; 60,1 ss; Gv 8,12; 9,1ss; Ef 5,14.
251
35. SUPPLICATE DUNQUE IL SIGNORE DELLA MESSE
9,35-38
“Supplicate dunque il Signore della messe, perché getti fuori operai nella sua
messe”, dice Gesù ai suoi discepoli prima di inviarli a continuare la sua stessa
opera.
Il discorso sulla missione è introdotto allo stesso modo del discorso sul monte
dell’azione dei suoi fratelli: ciò che lui ha detto e fatto, è quanto i discepoli
continueranno a dire e a fare. Unica è la missione: quella del Padre che manda
il Figlio ai fratelli, perché nella fraternità sua e tra di loro diventino figli. I
discepoli, dopo di lui, sono chiamati a trasmetterla nello spazio e nel tempo.
“Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi” (Gv 20,21).
Padre verso il Figlio e il Figlio verso il Padre. Ma il Figlio non può amare il
Padre, se non ama come lui i fratelli. Per questo va verso di loro, per ricondurli
dall’esilio alla casa paterna. L’apostolo, a sua volta, è spinto dal medesimo
252
amore (2Cor 5,14). Mediante la fraternità ognuno diventa figlio: amando i
fratelli, ama il Padre, il cui amore è amare il Figlio e in lui tutti i suoi figli. La
Trinità, che è in cielo, si realizza sulla terra nell’amore reciproco, fino a quando
Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Allora il Signore sarà “uno” su tutta la terra
Matteo riunisce nel discorso sulla missione anche quanto gli altri sinottici
esplica nell’annuncio del regno e nella cura dell’uomo (v. 35), e ha nella
siano operai a raccoglierla, perché non vada rovinata (v. 37). Bisogna pregare,
entrare in comunione col Padre, per diventare figli ed essere inviati verso i
Padre.
figli che si sentono inviati ai fratelli. Come Paolo, ogni credente è spinto verso i
lontani dallo stesso amore di Cristo, che ha dato la vita per tutti (2Cor 5,14).
porta verso i fratelli. Lui stesso è la via che va in cerca dei perduti per
ricondurli alla verità e alla vita. Gesù che cammina è modello del discepolo,
253
pellegrinaggio verso la casa del Padre, che si realizza perdendosi in cerca di
ogni fratello.
gratuità e povertà (cf 10,1-15). Prima di istruirli con le parole, li addestra con
l’esempio.
per tutte le città e i villaggi. In ogni luogo, grande o piccolo, ovunque c’è un
insegnando nelle loro sinagoghe. Gesù, come poi anche Paolo, inizia il suo
apostolato nella sinagoga. Da lì la Parola esce per le strade del mondo, fino
il vangelo del regno. È la buona notizia che è giunto il regno del Padre, dove
tutti siamo figli e ci amiamo come fratelli. È quanto Gesù ha proclamato sul
curando. È quanto Gesù ha fatto scendendo dal monte (cc. 8-9). La Parola è
sempre connessa con la “terapia”, che vuol dire: “rispetto, venerazione, cura”.
ogni malattia e ogni morbo. L’uomo ha molte malattie che lo fanno stare
eretto.
v. 36 vedendo le folle. L’occhio del Signore è il suo giudizio, molto diverso dal
muove le sue viscere, fino a com-patire, a patire-con noi il nostro stesso male.
254
come pecore senza pastore. Il pastore conduce ai pascoli e alle sorgenti (Sal
23; Ez 34,1ss; Gv 10,1ss). Senza di lui la pecora muore. Nella Bibbia il gregge è
il popolo e il pastore Dio stesso, oltre che i capi del popolo come suoi
v. 37 allora dice ai suoi discepoli. Gesù rende partecipi della sua compassione
la messe è molta. Il male non è il luogo della disperazione, bensì della gioia
del raccolto! Infatti proprio nella miseria si vive la misericordia - il grande dono
di Dio che è Dio stesso. Il giudizio finale è visto come la mietitura (3,12;
è salvezza nostra, ma anche sua, perché lui non può accettare che i suoi figli si
perdano. Esso si compie nella storia mediante la missione del Figlio e di coloro
che la continuano.
miete (Gv 4,35-38): infatti chi semina misericordia ottiene misericordia (5,7).
ma gli operai pochi. Gesù è il primo operaio, che opera verso i fratelli con la
stessa misericordia del Padre. Attende collaboratori (1Cor 3,9). Dio si serve di
noi per due motivi. Primo, perché, collaborando con lui, diventiamo come lui:
facendoci fratelli, siamo salvi, perché diventiamo figli (per questo ognuno
fraternità gli altri accolgono lo Spirito del Padre, e possono a loro volta farsi
suoi collaboratori nei confronti di altri, e così di seguito fino a quando tutti gli
255
non conclude: “Datevi quindi da fare!”. Chiede invece che si supplichi il Padre,
Signore della messe. Solo la comunione con lui e il dono del suo Spirito (Lc
11,9-13) ci fanno figli come il Figlio, liberi dalle nostre false sicurezze (Lc 9,57-
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che va attorno, in cerca delle pecore
perdute
c. chiedo ciò che voglio: sentire la sua compassione e farmi suo compagno e
collaboratore
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
Gesù andava attorno per tutte la città e i villaggi
insegnando, proclamando il regno e curando ogni male
ebbe compassione
pecore senza pastore
la messe è molta, gli operai pochi
supplicate.
4. Testi utili: Sal 23; 80; 100; Ez 19,2-6a; 34,1ss; Gv 10,1-18; Lc 9,57-62;
10,25-37; 11,9-13.
256
36. CHIAMATI, LI INVIÒ
10,1-15
257
la vostra pace scenda su di essa;
ma se non ne sarà degna,
la vostra pace torni a voi.
14 Se qualcuno poi non vi accoglierà
e non ascolterà le vostre parole,
uscendo da quella casa o da quella città,
scuotete la polvere dai vostri piedi.
15 Amen vi dico:
più accettabile sarà
per la terra di Sodoma e di Gomorra
nel giorno del giudizio
che per quella città.
Gesù chiama a sé operai, che continueranno a fare e a dire quanto lui, prima
di loro, ha fatto e detto. Nasce la Chiesa, che ha nei Dodici la radice che li
unisce alla terra promessa, a Cristo. Essa è apostolica non solo perché fondata
“salvato dalle acque”, salverà dalle acque i fratelli; Elia, “il mio Dio è HYWH”
testimonierà a tutti che solo HYWH è Dio; Gesù, “Dio salva”, salverà il popolo
dai suoi peccati!
mandati a due a due (Mc 6,7). La comunità è punto di partenza e d’arrivo della
missione: realizza la filialità nella fraternità. Solo chi è fratello è figlio, e solo
I Dodici, come sono i depositari del discorso sul monte - tranne Matteo il
peccatore, che ha accolto Gesù in casa sua -, sono i destinatari del discorso
apostolico: sono inviati a portare alle dodici tribù la Parola del Figlio, che poi
258
Nei vv. 1-4 c’è la vocazione dei Dodici e i loro nomi, nei vv. 5-15, le istruzioni che Gesù dà loro:
rivolgersi alle pecore perdute d’Israele (vv. 5-6), annunciare il regno (v. 7), restituire l’uomo a se
stesso (v. 8a) in gratuità e povertà (vv. 8b-10); la loro accoglienza porta la pace messianica (vv. 11-
10,1 Chiamati innanzi. L’uomo è come è chiamato. L’Altro dice il mio nome,
la mia identità. Il mio nome, detto da lui ancora prima che io nascessi, sono io:
i suoi dodici discepoli. Gli apostoli sono discepoli che, in quanto “discepoli”
diede loro potere. È il suo stesso potere, quello di vincere il male col bene.
inviati.
per scacciarli. Fine della missione è liberare dallo spirito immondo e dare lo
259
vv. 2-4 i nomi dei dodici apostoli sono, ecc. La lista dei Dodici è costituita da
sei coppie di nomi. Due è il principio della fraternità. Chi non ha fratelli,
Simone, chiamato Pietro, è “primo”, non solo della lista, ma per il suo ruolo di
pietra (16,18), che confermerà nella fede i fratelli (Lc 22,32). Matteo è il
Zeloti più spinti, che nei tumulti pugnalavano i nemici del popolo.
scribi né a quella dei farisei, non sono dotti che conoscono la legge né pii che
hanno studiato teologia né diritto canonico! Ciò che li unisce è la chiamata del
Matteo, al quale dovevano pagare le tasse, e per di più per conto dell’odiato
tra di loro. È gente la più diversa, che sempre resterà tale, eppure chiamata
alla fraternità nel Figlio. Dio non seleziona secondo criteri di bravura, cultura o
culture (o inculture!) diverse, anche se sempre tentata del contrario. Gesù non
poteva prendere uomini più disparati; e ognuno è rispettato per quello che è,
260
v. 5 Gesù li inviò. Sono inviati a “pescare uomini” (4,19). I pescatori, pescati
dal Figlio alla fraternità, sono chiamati a fare altrettanto coi propri fratelli.
Gesù, gli apostoli e la prima Chiesa sono giudei. Attraverso loro la salvezza
seno a Israele.
v. 6 rivolgetevi alle pecore perdute della casa d’Israele (cf 15,24). La prima
Signore viene a salvare. Ciò che dicono non lo dimostrano con argomenti, ma
coscienza.
il regno dei cieli. È Dio Padre che regna nell’amore tra i suoi figli. Il suo è
con la Parola nei cc. 5-7 e con l’azione nei cc. 8-9.
v. 8 curate infermi. “Infermo” è colui che non sta in piedi: è l’uomo che perde
la sua posizione eretta, prono sotto il giogo della legge o carponi sotto il peso
nell’altro. Sappiamo infatti che siamo passati dalla morte alla vita perché
mondate lebbrosi (cf 8,1-4). L’amore è una vita nuova, libera dalla lebbra
261
scacciate demoni (cf 8,28-34; 9,32s). Lo Spirito di verità scaccia quello di
così donare a chi lo accoglie il grande tesoro: diventare come Dio che accoglie.
la sicurezza del povero, che in essa ripone le sue provviste. L’apostolo invece
né due tuniche. La seconda non è tua: è del fratello che non ce l’ha (Lc 3,11).
Se vuoi andare in missione, devi averla già data; diversamente puoi essere
né sandali. I sandali sono dell’uomo libero. Tu sei schiavo della Parola (cf Lc
potere di chi ha più mezzi, è anche scettro di dominio sugli altri. Il bastone di
Dio è la croce, che lo rende vicino a tutti e servo di tutti, nessuno escluso.
l’operaio è degno del suo cibo. L’apostolo, che dà in dono come in dono
riceve, mette chi l’accoglie in grado di fare altrettanto ed entrare così nel
262
dell’apostolo, il cibo che lo sazia.
v. 11 fatevi indicare se c’è una persona degna. L’annuncio è per tutti - città e
lì dimorate. L’apostolo dimora presso chi lo accoglie. Come il Figlio, anche lui
si fa piccolo, perché il fratello che lo accoglie sia accolto nel regno del Padre
messianica del regno entra nella casa di chi accoglie il fratello piccolo, che è lo
indietro la terra degli infedeli. Con esso l’apostolo evidenzia che chi non
non aver accolto gli inviati di Dio (Gen 19,24ss). Non accogliere il fratello
piccolo è rifiutare il dono del Padre: è perdere la promessa, essere privi del suo
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che va per città e villaggi proclamando il
vangelo
c. chiedo ciò che voglio: andare ai fratelli in gratuità e povertà, testimone
dell’amore del Padre
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
chiamati innanzi i suoi discepoli
il potere di scacciare gli spiriti immondi
curare ogni malattia e infermità
il “collegio apostolico”: come è formato
le istruzioni di Gesù: camminare, annunciare, fare ciò che lui ha fatto,
prendendosi cura di ogni debolezza, in gratuità e povertà per essere accolti
accogliere il fratello apostolo è diventare figlio: rifiutarlo è non accettare
la propria verità.
263
4. Testi utili: Sal 146; 1Sam 17,32-51; 2Re 5,1ss; Mc 3,13-19; 6,6b-13; At
264
37. IO MANDO VOI COME PECORE IN MEZZO AI LUPI
10,16-25
“Ecco, io mando voi come pecore in mezzo a lupi”, dice Gesù agli apostoli.
265
ferocia del lupo. L’aggressività del male si scarica su di lui, “che porta il
La legge fondamentale della storia è questa: il male lo porta chi non lo fa; e
Servo dalle cui ferite siamo guariti (Is 53,5; 1Pt 2,24s): percosso dalle nostre
addossato le nostre malvagità (Is 53,11). Così compie la volontà di Dio (Is
53,10), che è la salvezza dei peccatori (Is 53,12). Il Signore infatti vuole che
L’Agnello immolato è il solo capace di aprire i sette sigilli del rotolo scritto
Dio e del mondo - è quanto spiegherà ai due di Emmaus il Gesù risorto (Lc
la porta su di sé.
Per questo Paolo condensa la sapienza nella “parola della croce”, e ritiene di
non sapere altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso (1Cor 1,18; 2,2). In lui
vediamo sia la nostra realtà di male - cosa c’è di peggio che crocifiggere il
Signore della gloria, uccidere l’autore della vita? -, sia la verità di Dio, amore
assoluto per noi, che si fa carico del nostro male. La croce, sapienza di Dio e
potenza del suo amore, è la Gloria che entra nel mondo e lo salva.
Il discepolo deve comprendere che il mistero del Maestro è anche il suo. Noi,
facendo male a noi e agli altri. Quando capiremo che il male non è soffrire e
Il male che uno fa “pro-voca” (chiama-fuori) quello latente nell’altro, con una
reazione a catena, che si arresta dove c’è uno tanto forte da non restituirlo. La
che ci fa simili a Dio, capaci di rispondere alla provocazione del male col bene.
266
Gli apostoli testimoniano nel mondo la vittoria dell’Agnello. Le difficoltà, le
lotte e le persecuzioni non devono spaventare: sono i costi della vittoria del
bene, segno della distruzione del male, che esce allo scoperto ed è sconfitto.
Gesù è il Figlio che vince l’inimicizia: come Giuseppe, salva con la sua
simbolo di Dio che, dopo aver dato esistenza e splendore a ogni creatura, sulla
cibo che prende. Alla fine il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera con il
capretto, il vitello con il leone, la mucca con l’orsa, il leone si ciberà di paglia
come il bue, e il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide (Is 11,6-8). Sarà il
regno dei fanciulli e dei figli, dove nessuno agirà più iniquamente, “perché la
saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare” (Is
11,9). Tutto questo porterà lo Spirito di sapienza del virgulto di Jesse - l’agnello
267
di chi si espone al pericolo, ma la fiducia del bambino che si affida alla madre.
a causa mia. Non perché malfattori, ma perché giusti, a causa del Giusto.
Compiono così in sé quello che ancora manca alla sua passione, per amore suo
colomba.
sarà dato a voi in quell’ora. All’agnello in mezzo ai lupi sarà dato cosa dire in
vendetta. In lui parla lo Spirito del Padre e del Figlio: l’amore verso i fratelli,
terminale, tocca i legami più stretti, raggiungendo le radici della vita (Mi 7,6).
268
ogni affetto e pietà - è il male sommo, preludio del giudizio di Dio.
v. 22 sarete odiati da tutti, ecc. Chi porta amore, riceve odio. Perché in lui
chi sopporterà sino alla fine, costui sarà salvato. La vita è dono: è salvata
sarebbe masochismo! Martire non è colui che cerca la morte, propria o altrui,
ma colui che vuole la vita e l’amore, qualunque sia il costo che deve pagare.
Se si può, è bene fuggire; ma il bene nella fuga si diffonde (At 8,4; 11,19),
non avrete finito le città d’Israele prima che arrivi il Figlio dell’uomo. Il Figlio
dell’uomo comparirà nella gloria (26,64) per il “suo” giudizio, con il “suo”
segno (24,30), proprio sulla croce (27,51-54). E sarà sempre presente in ogni
sofferenza giusta e ingiusta come colui che offre salvezza (cf 25,31ss). Al
discepolo, come a Stefano, svela la sua gloria nell’ora del martirio (cf At 7,56).
Con queste parole l’evangelista allude, oltre che alla croce del Messia, a
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che invia i suoi discepoli
c. chiedo ciò che voglio: capire e amare la missione dell’agnello immolato e
vittorioso
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
agnelli/lupi
serpenti/colombe
269
il discepolo perseguitato come il suo maestro
lo Spirito del Padre parla in voi
l’odio di tutti a causa del suo amore
il discepolo, mediante la persecuzione, diventa come il suo maestro e
Signore.
4. Testi utili: Sal 131; Is 11,1-9; 53,1ss; Mt 5,11s; 2Cor 11,1-12,10; 4,7-6,10;
Ap 5,1-14.
270
38. NON TEMETE
10,26-31
“Non temete”, dice Gesù agli apostoli, dopo averli mandati come pecore in
oltre i dittatori e i pazzi, non hanno paura; ma c’è d’aver paura per loro e di
loro!
271
Fiducia e paura sono due principi antagonisti, ambedue necessari. Il secondo
fiducia in lui che ci libera dalla paura della morte, con la quale il nemico ci
Siamo mortali; ma il nostro limite non è la fine di noi stessi, come teme il
nostro egoismo, bensì l’inizio dell’Altro e della nostra comunione con lui.
Principio e fine della nostra vita non è il nulla che temiamo, ma il Padre che ci
ama e che amiamo. Il perfetto amore scaccia ogni timore (1Gv 4,18). Finché
viviamo, il nostro amore non è ancora perfetto. Per questo abbiamo anche
L’apostolo, pur sentendo timori e incertezze (1Cor 2,3), non si lascia guidare
da questi, ma dallo Spirito di colui che ha dato la vita per tutti (cf 2Cor 5,14).
La paura della morte non diventi una filosofia di vita. Nostra “filosofia” sia
“l’amore della sapienza” del Padre. L’uomo è sempre conteso tra due amori:
quello della sapienza della carne, che chiude nella paura della morte, e quello
della sapienza dello Spirito, che apre alla fiducia e alla vita. Ogni volta deve
significa innanzitutto che noi siamo effettivamente in preda alla paura. Questo
La Chiesa ha come principio di vita il battesimo, che ci immerge nel Figlio, nel
272
2. Lettura del testo
10,26 Non temete. La situazione di chi annuncia è quella di pecora tra lupi. Il
peggiore è sapere di essere sulla strada giusta e vedere gli altri che vanno
contromano. Il bene non resta mai impunito, o, nella migliore delle ipotesi,
testa e ginocchia? Per una causa vincente si è disposti anche a dare la vita -
tanto la si perde comunque - ma per una causa perdente, vale la pena? Questi
nulla di velato che non sarà svelato. Il fallimento del bene è il grande mistero
nascosto alla sapienza del mondo (1Cor 2,6-16). Ciò che impedisce di vederlo
è il velo della croce, propria del Dio amore, che in essa si rivela. La sua
guarito dalla cecità, vede ciò che occhio umano mai non vide: il dono che Dio
futuro: ciò che è (stato) velato e lo è ancora, proprio questo sarà svelato. Il
e di nascosto, che non sarà conosciuto. “La sapienza divina, misteriosa, che è
rimasta nascosta e che Dio ha preordinato nei secoli per la nostra gloria,
stata rivelata per mezzo dello Spirito di Dio (1Cor 2,8.10). Tutta la storia è
compimento.
v. 27 ciò che vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce. Gesù è la luce venuta
273
Mediante il loro annuncio, il mondo verrà alla luce della verità.
L’apostolo proclama il mistero che per primo lui stesso ha messo nell’orecchio:
presenta sotto il segno del suo contrario, perché contraddice ogni nostra
mistero della croce, rivelazione della gloria di Dio nella storia di contraddizione
dell’uomo.
La nostra paura di fallire nel bene nasconde la paura che abbiamo di fallire
noi stessi. Temiamo la morte del seme, anche se sappiamo che solo così porta
frutto; non ci piace la sorte dell’agnello tra i lupi, anche se sappiamo che è la
sua vittoria.
v. 28 non temete quelli che uccidono il corpo, ecc. I lupi possono uccidere il
corpo. Ma il corpo non è la vita: viene dalla terra e torna ad essa. La vita che
non può essere uccisa è lo Spirito, amore che sa dare anche la vita.
temete piuttosto colui che può e vita e corpo distruggere nella Geenna. Il
timor di Dio, Signore di tutto, è principio di sapienza (Sal 111,10): scaccia ogni
paura. Chi ha paura di perdere la vita animale, non solo la perde, ma ha già
vivere in esso l’amore filiale e fraterno, che è vita eterna. Chi non vive così, è
già morto!
v. 29 due passeri non si vendono per un soldo? Un passero vale ben poco. È
ciò che l’uomo pensa di se stesso. La sua vita passa come un soffio (Sal 90,9),
eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia.
274
Anche la vita e la morte di un passero non sono trascurabili per Dio. Eppure
non è padre loro, ma “vostro”, dice Gesù. Noi, suoi figli, ci consideriamo meno
Siamo nelle sue mani, ben riposti. È inutile che ci preoccupiamo per la morte
e siamo in ansia per la vita: la morte comunque viene, la vita comunque va.
La morte è un fatto biologico. Che non sia la seconda morte, frutto ultimo
della nostra paura, ma un nascere a vita nuova. Nostro pastore non sia la
v. 30 anche i capelli del capo, sono tutti contati. Il capello è parte del corpo
stessa non sa quanti ne ha, né avverte di perderli. Eppure, colui che chiama le
stelle per nome (Sal 147,4), ha contato anche i capelli del tuo capo! Se si
prende cura dei dettagli minimi dei suoi figli, come non si prenderà cura di loro
continuare a temere”. Se non altro, perché pesate più di due passeri: il vostro
“peso” è la “gloria” stessa di figli del Padre. Non siete passeri, ma ben più che
subito.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il Signore che manda in missione i Dodici
c. chiedo ciò che voglio: la fiducia nel Padre che vince la paura
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
non temete
velato/svelato
nascosto/conosciuto
nelle tenebre/nella luce
udito all’orecchio/proclamato sui tetti
275
gli uomini uccidono il corpo, ma non la vita
distruggere vita e corpo nella Geenna
neanche un passero cade a terra senza che il Padre vostro lo voglia
i capelli del vostro capo, sono tutti contati
valete più di molti passeri.
4. Testi utili: Gen 20,10-13; Sal 69; 23; 33; 49; 131; 139; Is 57,20; 30,15; Es
14,13; Mt 6,25-34; Eb 2,14s.
276
39. DEGNO DI ME
10,32-11,1
277
di dare questi ordini
ai suoi dodici discepoli,
partì di là
per insegnare e proclamare nelle loro città.
“Degno di me”, è il ritornello che Gesù ripete, completando il ritratto del suo
apostolo: inviato come lui in gratuità e povertà (vv. 1-15) - agnello in mezzo a
lupi (vv. 16-25), forte solo della sua fiducia nel Padre (vv. 26-31) -, è chiamato
(vv. 32-33). Con lui è giunto sulla terra il giudizio divino (vv. 34-36): la salvezza
è un amore per lui più grande di qualunque affetto (vv. 37-39), che assimila a
lui, il Figlio affidato nelle mani dei fratelli come in quelle del Padre. Chi lo
accoglie, accoglie il Figlio, e si fa lui stesso figlio che accoglie il Padre (vv. 40-
42). Dopo queste parole, Gesù continua la sua missione ormai non più solo,
il Padre ha mandato lui a testimoniare il suo amore verso i fratelli, allo stesso
modo lui manda quelli che già si sanno figli verso gli altri fratelli, fino a quando
Gesù è il Figlio inviato ai fratelli per testimoniare nella sua carne l’amore del
La Chiesa è fatta da coloro che già l’hanno accolto, e, uniti a lui nell’unico
compio io stesso qui in terra: se, nella quotidianità delle azioni e nella
278
Lo riconosco per riconoscenza d’amore. Lui per primo mi ha amato e ha dato
se stesso per me (Gal 5,20); e io, nel fratello più piccolo, riconosco lui (18,5;
25,40.45) che, per riconoscere tutti, si è fatto ultimo e servo di tutti (Mc 9,35).
Il mio futuro eterno davanti al Padre dipende dal mio riconoscere ora davanti
agli uomini il Figlio, che, nella carne dell’ultimo, sarà presente fino alla fine del
mondo per salvarci (28,20). Il “tremendo” giudizio di Dio, l’unica cosa che
conta e resta della storia, è posto nelle mie mani, affidato alla mia
con la vita.
Pietro (26,70.72.74). Chi rinnega il Figlio, non è suo fratello e rinnega di essere
figlio: perde se stesso! “Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo
anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo
è colui che ha dato la vita per noi peccatori (Rm 5,6-11), dal cui amore nulla
può separarci (cf Rm 8,38s). Infatti “ se noi manchiamo di fede, egli però
rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,13). Lui è il Figlio:
possibile, perché lui è solo “sì” (2Cor 1,19s), come il Padre. La sua fedeltà
senza fine è il motivo per cui sale a Dio il nostro Amen (2Cor 1,20). Anche se lo
rinneghiamo, come Pietro possiamo sempre contare sulla sua fedeltà a noi,
v. 34 non crediate che sia venuto a portare pace sulla terra, ecc. Gesù è
venuto a portare la pace dei figli di Dio (5,9). Ma non è una pace pacifica. Sfida
ben diversa dalla “pace perniciosa” di chi si adegua al male. È la pace del
279
La spada che Gesù userà non sarà quella che estrae Pietro (26,51s), ma la
fiducia nella parola del Padre, spada a due tagli (Sal 149,6).
v. 35 venni infatti a separare, ecc. La Parola è spada affilata (Eb 4,12): entra
nel caos del peccato, che pervade e perverte ogni relazione (cf Mi 7,6), e lì
Come il maestro, anche il discepolo entra nel male del mondo, cominciando
v. 36 nemici dell’uomo, quelli di casa sua. Gesù è venuto tra i suoi, e non
insieme ai capi suoi, in alleanza coi pagani. È stato respinto da tutti quelli che
v. 37 chi ama padre o madre più di me, non è degno di me (cf Lc 14,26s).
Gesù può non essere amato. Ma non può essere amato meno di un altro: non
sarebbe il Signore, da amare con tutto il cuore (Dt 6,5ss). Dio è amore. Amato
non in se stesso, non sarebbe Dio e non sarebbe amore. Amo Cristo, mia vita
(Fil 1,21), perché lui per primo mi ha amato e ha dato se stesso per me (1Gv
4,9; cf Gal 2,20). Alla sua passione per me rispondo con la mia per lui: sono
stato conquistato, e anch’io corro per conquistarlo (Fil 3,12). L’amato diventa
la vita di chi lo ama: gli amanti si conferiscono reciprocamente ciò che hanno e
ciò che sono. Se “sono per lui, come lui è per me” (Ct 2,16; 6,3; 7,11), sono
davvero “degno di lui”, fatto una sola carne con lui nell’unico amore.
v. 38 chi non prende la sua croce (cf 16,24). Ognuno ha la “sua” croce, che
può essere solo sua: la lotta contro il male che è in lui. Solamente Gesù,
l’unico senza colpe, ha portato non la sua, ma la nostra croce. Ciascuno di noi,
dietro di lui, come il Cireneo, porta la croce di Gesù, che è in realtà la nostra,
sulla quale egli morirà al posto nostro. E quando noi siamo incapaci di portarla,
280
e non segue me. Quando portiamo la nostra croce non siamo soli. Lui sta
davanti, portando la parte più pesante, sulla quale sarà innalzato. Noi, dietro,
portiamo la parte leggera, che sarà confitta a terra e su cui scenderà il suo
sangue.
non è degno di me. In questo modo collaboriamo liberamente alla sua lotta e
alla sua vittoria, diventando simili a lui, con la stessa dignità di Dio che è
v. 39 chi avrà trovato la sua vita, la perderà ( cf 16, 25). Ogni uomo vuol
possedere la propria vita. Ma, nella misura in cui ci riesce, diventa egoista, e la
chi avrà perso la sua vita per causa mia, la troverà. La vita è da perdere. Non
solo perché, come ogni animale, siamo mortali; ma soprattutto perché vivere è
amare, e amare è far dono della vita. La vita non si può trattenere: vivere è
riceve.
per causa mia. La vita non è buttata via per disprezzo, ma donata per amore
di Gesù.
v. 40 chi accoglie voi, accoglie me, ecc. L’inviato è uguale al Figlio, che per
L’apostolo si mette come Gesù nelle mani degli uomini che faranno quello
che vorranno. Vive con i fratelli la stessa fiducia che ha con il Padre, e
riconosce a ciascuno la dignità di figlio. Uno, presto o tardi, vive la dignità che
gli è riconosciuta!
281
v. 41 chi accoglie un profeta, ecc. Chi accoglie, più che dare, riceve: riceve la
dignità stessa di chi è accolto. Per questo il Signore si è fatto il più piccolo di
Signore. Di essi è il regno dei cieli (18,3-5). Chi li accoglie, entra nel regno:
11,1 quando Gesù ebbe finito, ecc. Come dopo ogni discorso, Gesù “finisce”:
non solo “termina”, ma “compie” ciò che ha detto (7,28; 11,1; 13,53; 19,1;
26,1).
di dare questi ordini ai suoi discepoli. Sono ordini, non optionals: ciò che lui
partì di là per insegnare, ecc. Gesù continua la sua missione insieme ai suoi
discepoli: lavora dove ancora essi non lavorano, li aspetta nei poveri, nei
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che invia i suoi apostoli
c. gli chiedo ciò che voglio: essere degno di lui, amarlo con tutto il cuore
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
chi mi riconoscerà davanti agli uomini, lo riconoscerò davanti al Padre
chi mi rinnegherà, lo rinnegherò
sono venuto a portare la spada
chi ama padre o madre più di me, non è degno di me
chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me
chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me
chi avrà trovato la sua vita, la perderà
chi avrà perso la sua vita per causa mia, la salverà
chi accoglie voi, accoglie me, accoglie il Padre
chi avrà dato anche un solo bicchiere d’acqua fresca.
282
40. SEI TU?
11,2-6
Signore. Gesù risponde rimandando alle sue opere, come se dicesse: “Io sono
colui che vedi attraverso ciò che faccio”. La salvezza è accogliere lui che viene
Il c. 11 chiude la prima e apre la seconda parte del vangelo. Dopo ciò che
del Battista e la risposta di Gesù (vv. 2-6), continua con l’elogio del Battista da
parte di Gesù (vv. 7-15) e con il suo lamento sulla sua generazione (vv. 16-19)
e sulle città che lo rifiutarono (vv. 20-24), per concludere, in contrappunto, con
i piccoli che accolgono il suo mistero (vv. 25-27) e in lui trovano la gioia e il
283
Il c.11 parla del rapporto dell’uomo con il Figlio dell’uomo: inizia col dubbio, si
Si apre così una nuova sezione, che mostra come il regno si incontra e
con una beatitudine che contiene le nove precedenti (5,3-11): “Beato chi non
come messa in questione delle proprie attese per aprirsi all’ascolto di ciò che
l’altro dice. Giovanni è l’uomo che si fa domanda per ricevere dal Signore la
risposta.
Gesù è il promesso dai profeti, che ci fanno traghettare dalle attese nostre a
quelle di Dio.
con la verità di Dio. Il quale, per fortuna, compie le sue promesse e non le
nostre attese.
11,2 Giovanni in carcere (cf 14,11-12). Giovanni prepara la via del ritorno
venuta del regno (3,2=4,17). Ora è in carcere. Con lui, ultimo dei profeti che
avendo udito le opere del Cristo. Giovanni ha ascoltato il racconto di ciò che
ha detto e fatto colui che nel Battesimo gli era stato rivelato come il Figlio
(3,13-17).
284
mandandogli i suoi discepoli. Gesù ha appena inviato a Israele i suoi apostoli;
Giovanni dal carcere manda i propri discepoli da Gesù, per fargli la domanda
decisiva.
v. 3 sei tu il Veniente? Giovanni annunciò “colui che viene”, il più forte, che
compie il giudizio di Dio tagliando ogni albero cattivo e bruciando ogni male
Giovanni poteva mettere in crisi l’atteso invece della propria attesa. Invece è
restare aperti con una domanda che metta in questione le nostre sicurezze. “I
miei pensieri non sono i vostri pensieri. Le mie vie non sono le vostre vie”, dice
Questa domanda è la radice della fede, che affida a lui la risposta. È l’atto più
alto della ragione - quello che non fecero i nostri progenitori quando, invece di
chiedere a lui, si fidarono di fantasie proprie e suggestioni altrui (cf Gen 3).
Giovanni è sulla soglia della tentazione radicale: credere alle proprie certezze,
non vuol ridurre Dio alle proprie idee su di lui, ingenuamente accettate o
respinte.
Giovanni è il profeta della verità, oltre che di Dio, anche dell’uomo che si
285
domanda che attende risposta. È il più grande tra i nati da donna (v. 11),
perché fa tacere le sue parole e chiede: “Sei tu?”, facendosi ascolto della
Come Dio è infinito, così sono infinite le nostre idee su di lui. Dio è tutto, ma
nulla è Dio. Davanti a lui ogni idolo cade come Dagon davanti all’arca (1Sam
5,1ss). Regge solo la domanda, vuota di risposta: ”Sei tu?”. Ad essa può
interroga su tutto, sino a farsi pura domanda. Il profeta non dà risposte, tanto
meno sul futuro; è invece domanda che apre il presente alla novità di Dio.
c’è un altro da attendere: è l’attesa che deve essere altra, attesa d’altro, anzi
dell’Altro.
domanda “Sei tu?”, il Signore, come con Giobbe (Gb 38-41), risponde
ricordandogli le sue opere. Ciò che si vede di lui è la risposta alla domanda.
Qui si fa la sintesi della sua azione, che continua negli apostoli (10,7s)
v. 5 ciechi vedono (9,27-31; cf Is 29,18; 35,5). Venire alla luce è il primo dei
miracoli. Noi siamo ciechi, perché vediamo le nostre attese, non la realtà.
sordi odono (9,32-34). L’uomo, da Adamo in poi, è sordo alla Parola, abitato
286
poveri sono evangelizzati (5,3). Tutte le situazioni di povertà ricevono la
beatitudine, sintesi delle altre, è accogliere lui, povero, afflitto, mite, puro di
regno.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il carcere da cui Giovanni attende la risposta
c. chiedo ciò che voglio: mettere sempre in questione le mie attese e pretese
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
Giovanni in carcere
sei tu?
dobbiamo attendere un altro?
annunciate ciò che udite e vedete
beato chi non si scandalizza di me.
4. Testi utili: Is 35, 1-10; Sal 146; Is 55,1ss; 61,1 ss; Mt 3,1-17.
287
41. COSA USCISTE A VEDERE NEL DESERTO?
11,7-15
“Cosa usciste a vedere?”, domanda Gesù alle folle sul Battista. Cerca di far
loro capire l’importanza della sua figura: egli rappresenta il mistero dell’uomo
288
La vita del Precursore è inseparabilmente intrecciata con quella del
Salvatore, come la voce alla Parola, l’attesa all’Atteso, l’acqua allo Spirito, la
diverso dai mezzi busti che si mettono in mostra: è il più grande tra i nati da
donna (vv. 7-11a) - anche più dei patriarchi e dei profeti. Infatti il suo farsi
domanda: “Sei tu?”, lo pone sulla soglia del Veniente, pronto ad accoglierne la
risposta. Però il più piccolo nel regno è più grande di lui: se lui è il punto
d’arrivo della promessa, il più piccolo nel regno è l’inizio del compimento. E
davanti al Volto (Ml 3,1), l’Elia redivivo che ne prepara l’accoglienza (Ml 3,23s).
La Chiesa è fatta dai piccoli che trovano nel più grande tra i nati da donna il
loro patriarca: sono generati dalla sua domanda, vertice di quell’attesa alla
11,7 Gesù cominciò a dire alle folle su Giovanni. Il Battista aveva elogiato
Gesù già prima di conoscerlo (3,11-14). Ora Gesù lo elogia a sua volta. È
l’unica persona di cui parla così a lungo, e in termini così positivi. I due sono
cosa usciste a vedere nel deserto? (3,5s). Attorno a Giovanni si era formato
accogliere il Veniente.
289
una canna sbattuta dal vento? Giovanni non è una banderuola, un
Nessun vento lo muove, se non lo Spirito di Dio. Infatti, come ogni profeta,
“sta” davanti al Signore (cf 1Re 17,1; Gv 1,35). Chi non sta davanti a lui, è
categoria appartieni, che livello occupi in essa e che buon gusto hai. Notifica
nelle case dei re. Il Battista nel deserto ha un altro vestito (3,4). Cristo, il re,
“vedere”: bisogna uscire per vedere il più grande tra i nati da donna. Nei
palazzi del potere ci sono gli aborti di donna, ridicole e tragiche maschere
umane.
un profeta? Giovanni ha la divisa di Elia, padre dei profeti (3,4 = 2Re 1,8). Il
guidò Mosè dall’Egitto (Es 23,20), condusse il ritorno da Babilonia (Is 40,3), e
precederà, come Elia redivivo, la venuta del Signore nel suo tempio (Ml 3,1).
ingiustizia, perché accolga la venuta del Signore. I primi due esodi sono
290
v. 11 tra i nati da donna. Giovanni è il più grande tra i mortali, più di Abramo,
di Mosè e di Elia. In lui la storia precedente confluisce per sfociare nel suo
compimento. I suoi occhi hanno visto, i suoi orecchi udito e le sue mani toccato
colui che gli altri, solo da lontano, hanno desiderato, sognato e annunciato.
il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui. Chi sta sulla cima del
monte, è più in alto del monte stesso. Il Battista rappresenta il termine del
cammino dell’uomo; ma il più piccolo nel regno sta già in casa come figlio di
Dio. Lui battezza con acqua; ma il più piccolo nel regno ha già ricevuto lo
Spirito che gli fa gridare: “Abbà”. Questa è la dignità dell’uomo nuovo, rinato
dall’acqua e dallo Spirito (Gv 3,5): non solo è chiamato, ma è in realtà figlio di
v. 12 dai giorni di Giovanni il battezzatore fino ad ora il regno dei cieli patisce
regno patisce violenza, nel senso che subisce la violenza del male che si
come accadde a tutti i giusti, da Abele, il primo, a Zaccaria, l’ultimo, ucciso tra
l’altare e il santuario (Lc 11,51). I giusti, con la loro violenza subìta, sono
i violenti ne fanno preda. I regni della terra sono predati dai più violenti:
emergono i peggiori tra gli uomini (Sal 12,9). Il regno dei cieli invece è dei
Gesù stesso sarà re sulla croce (27,37): lì “dei potenti egli farà bottino” (Is
53,12). Il bene è più “violento”, più forte del male. Paolo dice: “Non lasciarti
291
v. 13 tutti i profeti e la legge fino a Giovanni. Con Giovanni termina l’attesa.
Dopo di lui non c’è più profezia, ma la Parola compiuta; non c’è più legge, ma
la libertà del figlio - il suo Spirito d’amore è effuso nei nostri cuori (Ez 36,27;
Rm 5,5).
lui è l’Elia che sta per venire. Gesù è il Veniente, Giovanni colui che sta per
venire per preparare un popolo ben disposto ad accoglierlo (Ml 3,23). Non si
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che parla alle folle
c. chiedo ciò che voglio: capire il mistero di Giovanni, il più grande tra gli
uomini, e il mistero del più piccolo nel regno
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
cosa usciste a vedere?
una canna sbattuta dal vento?
un uomo avvolto in morbide vesti?
un profeta; più che un profeta
mando il mio angelo davanti al tuo volto
il più grande tra i nati da donna
il più piccolo nel regno è più grande di lui
il regno patisce violenza
i violenti ne fanno preda
i profeti e la legge fino a Giovanni
Giovanni è l’Elia che sta per venire.
292
42. A CHI PARAGONERÒ QUESTA GENERAZIONE
11,16-19
generazione, prototipo di ogni altra. Essa rifiuta il gioco di Dio, che invita con
buono si contrista del male e gioisce del bene. Quello cattivo invece gode del
Dopo il peccato - diversamente non sarebbe così - il primo gioco che Dio
l’incisione di un ascesso, anzi una trafittura del cuore malvagio (cf At 2,37),
resistiamo dicendo: “Fa male. È una esagerazione! Dio non ci ha fatto per la
gioia?”
293
Il secondo gioco, riservato a chi ha accettato il primo, è quello di Gesù: la
“Che c’entra con noi?” oppure come le persone pie, che dicono: “Non è giusto,
il gioco di Dio, e alla fine, se stessi (cf vv. 20-24)! Gesù smaschera le nostre
Questo brano ci chiama al discernimento: c’è una tristezza che viene da Dio e
una che viene dal nemico, una gioia autentica e un’altra che ne è la
scegliere ciò che ci rende felici, e respingere ciò che ci rende infelici.
segni con cui Dio parla: il lutto per il male e la gioia per il bene. Il nemico
morte dal profumo di vita. Eppure basta poco perché l’odorato si anestetizzi.
Gesù ci offre la gioia delle nozze tra uomo e Dio. Per accettare la sua danza,
discernimento.
ascoltati.
294
“Questa generazione” ha un significato negativo. Il presente infatti è sotto
“responsabilità” nei confronti del passato, per dargli una nuova direzione, e
nei confronti del futuro, perché non sia tragica ripetizione di ciò che è stato.
gioco di bambini, che mima le realtà fondamentali della vita: la danza per le
nozze e il lutto per la morte. Questi bambini, quando si decide di giocare alle
nozze, per dispetto piangono; quando si decide di far lutto, allora ridono. Così
non riesce nessuno dei due giochi. Invece di giocare, stanno seduti; loro unico
fatto più per stupidità che per cattiveria: è più infantilismo e ripicca che atto di
libertà. Il male non è mai fatto bene! Anche quelli che crocifiggono Gesù, lo
fanno senza saperlo (Lc 23,34; At 3,17; 1Cor 2,8). Ma, anche se infantile, il
lutto. Sono i due giochi dell’esistenza: danza e gioia per l’amore, lamento e
Fin dal principio Dio ci aveva dato di mangiare e godere di ogni albero,
compreso quello della vita - che era nel mezzo -, vietandoci l’albero della
morte. Noi invece, subito, abbiamo messo al centro della nostra attenzione
Allora Dio, con i suoi profeti, viene a rilanciare il gioco della vita, dandoci
295
ha un demonio. Significa : “È pazzo”. A chi dice di convertirsi, si risponde che
la vita è bella e buona, fatta tale da Dio fin dal principio (Gen 1,1ss); non c’è
veleno di morte nelle creature (Sap 1,14), Dio ci ha fatti per la gioia, ecc. Tutto
della morte credendo che dia vita. Noi invece perseveriamo nell’inganno con
Il Battista ci richiama alla “tristezza che viene da Dio” e produce frutto di vita
(2Cor 7,8-10). Ma, mentre lui ci invita al pianto, facciamo una macabra danza
piangere e un tempo per ridere (Qo 3,4). Chi non piange su ciò di cui bisogna
male e dà infelicità.
imbandisce la sua mensa e invita i peccatori: “Non pensate più alle cose
antiche. Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne
accorgete?”(Is 43,19). Al suono del flauto del Figlio dell’uomo, siamo invitati a
ecco un uomo mangione e beone. Per non uscire dal male, prima dicevamo:
“C’è pure il bene: bisogna godere”. Per non gioire del bene, ora diciamo: “C’è
pure il pericolo di restare intrappolati in una tristezza che non viene da Dio:
quando si desidera il bene, ogni tristezza che blocca il cammino, non viene da
296
“Mangione e beone” è la definizione del figlio ribelle, da lapidare (Dt 21,18-
convertirsi dal male sia quando chiama a gioire del suo dono e del suo
perdono.
Questa sapienza sarà accolta da coloro che sono piccoli (vv. 25-27) - ma non
quanto a giudizio, come questi, bensì quanto a malizia (cf 1Cor 14,20).
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che si lamenta di questa generazione
c. chiedo ciò che voglio: avere lacrime e confusione per il male, gioia e
riconoscenza per il dono di Dio
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
bambini seduti che si rimproverano a vicenda
il lutto che propone Giovanni
la danza che offre Gesù.
3. Testi utili: Sal 51; Gen 3,1ss; Is 61-62; Rm 7,14-25; 2Cor 7,8-10.
297
43. GUAI A TE!
11,20-24
“Guai a te!”, sono le dure parole per chi rifiuta il gioco di Dio, nonostante che
luogo di corruzione, che avranno sorte migliore di loro nel giorno del giudizio,
298
responsabilità e colpa, tra colpa e punizione. Si tratta di un’invettiva di stampo
Gesù condanna il male, non chi lo fa. Infatti ha detto di amare i propri nemici,
sé, il Signore lo libera, restando lui stesso inchiodato alla croce, cifra di ogni
Questo testo consente di vedere il tema fondamentale, non solo del vangelo,
Gesù, dando la vita per i peccatori, rivela nella sua misericordia di Figlio il
volto di Padre, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa
lui?
Le minacce di Dio sono come quelle di una mamma. Inducono con autorità un
primo livello di avvertenza per chi ancora non capisce che il male fa male, al di
là delle apparenze.
299
la prima auto che passa - anche se saggiamente può punirlo perché il fatto
non si ripeta.
apparenze.
che, se facciamo il male, Dio ci punisce. Occhio che scruta e giudica, egli è
Tuttavia è positivo pensare che a punire sia chi dà la norma - Dio o genitori.
Ciò fa intendere che la punizione non è fatale, lasciata al male stesso. Spetta
pienezza che gli manca e per la quale si sente fatto. Anche quando sbaglia,
non cerca mai il male: desidera un bene maggiore, una felicità più grande.
300
Tutti sappiamo che cosa significa: basta aprire il giornale, per vedere l’abisso
come Dio non è peccato, ma un sentire profondo inciso a fuoco nel cuore
dall’egoismo e dall’infelicità.
punizione pedagogica.
D’altra parte l’inferno, inteso come perdizione totale, è il luogo unico dove ha
senso parlare di salvezza. Dio ci salva non solo dall’Egitto (male subìto) ma
anche dall’esilio (conseguenza del male fatto da noi), a una sola condizione:
esso. Infatti lo raddoppia nel caso del taglione, o lo moltiplica senza fine nel
Certo Dio è giusto; ma non come noi. La sua è una giustizia “eccessiva”,
quella del Padre che ama i suoi figli (cf 5,20.45ss). Dire che Dio giudica
significa che è bene lasciare che sia lui a fare giustizia, non noi. E della sua
giustizia, l’unica cosa sicura che possiamo comprendere è che non fa e non
abbondantemente.
301
La croce infatti è il suo giudizio, dove lui si rivela Dio, così diverso da noi. Lì
vince il male portandolo su di sé, e salva ogni malvagio. Se fosse giusto come
noi, avrebbe giustiziato tutti. Ma allora non sarebbe buono o non sarebbe
fallimento e un odio eterno dal quale lui non vorrebbe o non potrebbe
riscattare.
Quando parliamo di Dio, ogni nostro concetto è analogico. Significa che lui è
semplicemente diverso da ciò che diciamo - che ha con lui solo un certo
aspetto di somiglianza. Dicendo che è giusto, affermiamo che non vuole, non
tollera e non fa l’ingiustizia, che pure c’è; ma dobbiamo anche dire che la sua
immerso nel nostro peccato, e proprio così compie la volontà del Padre (cf
3,15), la giustizia superiore (5,20). Sulla croce Dio è Dio, tutto e solo amore,
onnipotente, capace di portare amore e vita là dove c’è odio e morte. Lì lui
Giusto, l’uccisione dell’autore della vita (At 3,14s), il non senso assoluto,
del suo amore per colmare tutto e tutti della sua grazia.
La libertà di Dio è amare così, e così salvare tutti. La libertà dell’uomo è dire
“sì” a questo amore. Può dire no, ma solo per ignoranza e schiavitù, cioè per
non libertà.
La mia libertà non è libera fino a quando non conosco l’amore infinito di un
Dio crocifisso per me che lo crocifiggo: sono libero solo quando so di essere
quando non lo soddisfa, resta schiavo del suo bisogno insoddisfatto. Chi fa il
male non è ancora libero. Non conosce l’amore: è ancora nell’inferno dei suoi
302
In noi c’è sempre insieme intelligenza e ignoranza, libertà e schiavitù, amore
nostra esistenza terrena è sotto il segno del giudizio eterno. Tutto si semina
Noi costruiamo nel tempo la nostra dimora eterna (Lc 16,9-12). Il fondamento
di questa casa è già posto, e nessuno può porne un altro: è Cristo, il Figlio. Alla
stesso della croce: l’amore infinito di Dio - brucerà ciò che è da bruciare.
Resterà solo ciò che è eterno e prezioso: l’amore che mai viene meno, e arde
senza consumarsi. Questa sarà la nostra verità di figli simili al Padre - e più
avremo costruito in amore, che mai tramonterà, più la nostra opera resterà, a
gloria sua e nostra. Tutto il resto di ciò che siamo e abbiamo fatto, sarà
distrutto. Noi però, con quel tanto o poco di buono che avremo fatto, saremo
salvati, appunto come attraverso il fuoco (1Cor 3,15). Per questo S. Ambrogio
dice che nel giudizio finale “lo stesso uomo in parte sarà salvato e in parte
La nostra libertà può opporsi a Dio, ma solo finché non lo conosce - finché
non è libera. Alla fine, quando lo conosceremo, saremo liberi solo di amare e di
ovunque. Alla fine del mondo, quando apparirà il “segno” del Figlio dell’uomo -
brucerà dalla vergogna per la sua empietà, e così potrà gioire della grazia del
suo Signore - piangerà il lamento del Battista per danzare al flauto del Figlio
dell’uomo. Che questo non avvenga solo al momento della morte, altrimenti si
può dire che è perfettamente inutile vivere: tanto varrebbe essere nati già
303
È importante parlare dell’inferno. Innanzitutto perché è reale: è il male in cui
Dio, da vivere in questo mondo e sempre. Bisogna però parlarne in modo tale
che chi ascolta non fraintenda Dio e non si chiuda a lui - come per lo più
avviene.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo davanti alla croce, giudizio di Dio
c. gli chiedo ciò che voglio: capire la sua giustizia e la sua misericordia che in
lui sono la stessa cosa
d. rifletto sull’inferno, fatto dall’uomo: lo vedo nella croce e in tutte le croci, e
considero il giudizio di Dio e la sua giustizia.
4. Testi utili: Sal 51; 103; Mt 25,1ss; 1Cor 3,10-20; le sette parole di Gesù in
304
44. TI BENEDICO, PADRE
11,25-27
“Ti benedico, Padre”: dopo il lutto per chi non accoglie la Parola, c’è la danza
gioisce della stessa gioia del Padre perché i suoi fratelli partecipano del loro
mistero.
La conoscenza che c’è fra il Padre e il Figlio, l’amore mutuo che è la loro vita,
è donato anche agli “infanti”. Ciò che Dio è per natura, noi lo siamo per grazia.
Lo Spirito fa zampillare nel nostro cuore e fiorire sulle nostre labbra la stessa
parola per cui il Verbo è Verbo: “Abbà”. Entriamo nella Trinità, partecipando al
La creazione raggiunge il suo fine, che è il suo principio: al suono del flauto di
Gesù, Figlio di Dio e dell’uomo, danziamo le nozze fra Dio e uomo. Accogliere
lui è la salvezza: nella sua carne ogni carne è unita ormai alla gloria. Beato chi
non se ne scandalizza!
305
I sapienti e i furbi cercano un dio sapiente e potente. I piccoli invece
Il fine della missione del Figlio è aprire ai fratelli e condividere con loro il suo
tesoro, la sua vita di Figlio del Padre. E la nostra salvezza è diventare ciò che
siamo: figli!
Creatore, fra il Padre e i suoi figli; è la scala di Giacobbe, che unisce cielo e
La Chiesa è fatta dai piccoli ai quali è rivelata la loro realtà, che è la stessa
del Figlio.
Gesù partecipa al duplice gioco di Dio: il lamento e la danza. Odio del male e
amore del bene, tristezza per il primo e gioia per il secondo, vanno sempre
contemporaneo all’evento.
altra, non esprime più, a differenza del grido o del pianto, solo paura o disagio,
parola piena di amore, con la quale il Figlio dice il Padre. La sua dolcezza la
capisce solo chi la dice e chi l’ascolta: esprime il mistero di Dio, che è Padre e
306
Questa parola è il centro del cristianesimo. Lo Spirito del Figlio, effuso nei
nostri cuori, grida in noi: “Abbà!” (Rm 5,5; 8,15). Il credente è colui che ha
conosciuto e creduto l’amore che Dio ha per lui (1Gv 4,16; Gv 17,21). Ciò che
Dio è, anche noi lo siamo; per il dono del Figlio, siamo davvero figli di Dio (1Gv
3,1). È il grande mistero, già ora rivelato, anche se come in uno specchio e in
modo enigmatico (1Cor 13,12). Soltanto alla fine lo vedremo faccia a faccia, e
Quando il figlio nasce, si stacca dalla madre e gli pare di morire; invece viene
alla luce e vede il suo volto. Quando ci staccheremo dalla vita terrena,
verremo alla luce del volto del Padre e saremo simili a lui, perché lo vedremo
come egli è (1Gv 3,2). Già ora però, riflettendo la gloria del Signore, veniamo
Signore del cielo e della terra. Il nostro papà, così vicino e tenero, è il Dio
altissimo e onnipotente, Signore del cielo e della terra! Di Dio si parla solo per
misericordioso e giusto. Perché lui è tutto e niente: tutto perché niente di ciò
perché nascondesti. Ciò che è rivelato agli infanti, è nascosto agli altri. La
condizione.
Padre e Figlio.
ai sapienti e agli intelligenti. Sapienti sono coloro che sanno come vanno le
cose, intelligenti coloro che le dirigono come vogliono. La sapienza del Figlio è
307
e le rivelasti. Il privilegio di conoscere Dio è riservato agli ultimi. È un dono
senza. La privazione, il nostro non essere, il nostro essere nulla, è il luogo dove
I sapienti e gli intelligenti si negano ciò che non possono produrre loro stessi,
agli infanti. Diceva Hillel: “Un ignorante non evita il peccato, un analfabeta
non può essere pio”. E il Talmud recita: “Non vi è altro povero, se non chi è
povero di sapere”. Gli infanti non solo ignorano e sono poveri: neanche
Anche in noi, oltre le tante parole, c’è una sapienza silenziosa, propria del
(5,8), ben diversa dalla sapienza ignorante del furbo, al quale Dio resiste. Lui
non è oggetto di rapina della nostra intelligenza, ma principio e fine del nostro
amore: non si affaccia alla finestra della nostra mente, ma bussa alla porta del
nostro cuore.
v. 26 sì, Padre. Gesù è contento di questo: è “sì” non solo al Padre, ma anche
ai fratelli.
così piacque a te. Il piacere del Padre è amare i figli. Il piacere del Figlio è
v. 27 tutto. Tutto quanto il Padre è, è dono al Figlio: il Padre gli dona la sua
natura, il suo amore e se stesso, in unione indissolubile con lui nella sua
mi fu dato. Tutto quanto il Figlio è, è dono del Padre: da lui riceve la sua
natura, il suo amore e se stesso, in unione indissolubile con lui nella sua
Il dare e ricevere reciproco è la loro vita. Ciò che Adamo volle prendere
308
dal Padre mio. Gesù è “il” Figlio, che chiama Dio: “Padre mio”. Se siamo in
Figlio, propria del Padre: l’essere del Figlio è questa conoscenza del Padre nei
suoi confronti.
Padre, propria del Figlio: l’essere del Padre è questa conoscenza del Figlio nei
suoi confronti.
e colui al quale il Figlio lo vuole rivelare. Quel Dio, che nessuno mai ha visto,
ce l’ha rivelato proprio il Figlio unigenito, che è rivolto verso il grembo del
mutua fra Padre e Figlio, il loro amore, il loro unico Spirito che è la vita di
3. Pregare il testo.
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginandomi nel “mio luogo” vero: sono “nel” Figlio, e, in
lui, in seno al Padre, col loro stesso amore.
c. chiedo ciò che voglio: il dono dello Spirito, che mi mette nella conoscenza e
nella comunione tra Padre e Figlio
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
ti benedico
Padre
nascondesti queste cose ai sapienti e agli intelligenti
le rivelasti agli infanti
sì, Padre, perché così piacque a te
nessuno conosce il Figlio se non il Padre
né il Padre alcuno conosce se non il Figlio
e colui al quale il Figlio lo vuole rivelare.
4. Testi utili: Sal 103; 8; Dt 7,6-11; 1Cor 1,17-2,16; Gal 4,1-7; Rm 8,1-39.
309
45. VENITE A ME
11,28-30
“Venite a me voi tutti”. Gesù, offrendoci di entrare con lui nell’amore del
conoscere Dio come Padre e se stessi come figli: è il dono dello Spirito, che fa
godere di una vita filiale e fraterna. Questa è la nuova legge, il giogo di libertà
del Figlio.
Anche la legge data a Mosè è per la vita; ma non dà la vita. È solo un pesante
fardello che ordina, denuncia, giudica e condanna ciò che è contro di essa.
L’amore invece è pieno compimento della legge (Rm 13,8.10; Mt 7,12; 22,34-
Il brano precedente rivela la proposta di Dio: il dono della sua vita nel Figlio.
Prima ci è stato detto ciò che siamo, ora cosa dobbiamo fare. La legge dice: sii
ciò che sei! Il dovere consegue l’essere. Ora il nostro “dovere” è vivere il
La grazia non abolisce il nostro agire; anzi lo rende possibile in modo che
realizziamo ciò che siamo. Il vangelo è dono, quindi gratuito. Ma l’amore vive
salvezza; l’amore non amato è perdizione, dramma di Dio, prima che nostro.
310
All’etica di norme e divieti succede quella della libertà, alla legge subentra il
vangelo!
spiegazione non farà mai fiorire una gemma. Inoltre nessuna legge è in grado
di prescrivere e far eseguire ciò che una madre per amore fa per il figlio.
schiavo ribelle -, ma perché da esso germina tutto. Chi ama è suddito non più
In Gesù, “sì” dell’uomo a Dio e di Dio all’uomo (cf 2Cor 1,20), c’è il passaggio
dalla lettera che uccide allo Spirito che dà vita, dalla legge alla libertà (2Cor
Gesù, il Figlio, è per noi sapienza nuova e riposo. La sua mitezza e umiltà è la
La Chiesa in lui è libera dal fardello pesante delle prescrizioni e sta sotto il
11,28 Venite a me. È l’invito a seguire lui (4,19), a partecipare alle nozze
(22,2-4), a entrare nel regno preparato per noi prima della fondazione del
eterno!
Gesù fa suo l’invito della Sapienza: “Avvicinatevi, voi che siete senza
istruzione, prendete dimora nella mia scuola. Fino a quando volete rimanerne
accogliete l’istruzione. Essa è vicina e si può trovare. Vedete con gli occhi che
poco faticai e vi trovai per me una grande pace” (Sir 51,23-27). Lui stesso è la
311
Sapienza, offerta ai semplici e agli inesperti: è gratuita e soave, facile da
Nella carne di Gesù noi accediamo allo Spirito e attingiamo grazia su grazia
(Gv 1,17). In lui il Verbo si è fatto carne, è venuto ad abitare fra noi e ci ha
aperto l’ingresso all’unica gloria del Padre e dell’Unigenito Figlio (Gv 1,14). La
nella storia, nella legge e nella promessa, ora toglie il velo: è accessibile a
tutti, come amore tra Padre e Figlio offerto a noi nel Figlio.
Attingiamo con gioia alle sorgenti della salvezza (cf Is 12,3), celebriamo le
Non ha detto anche Gesù che la legge è da insegnare e compiere, fin nel
dell’amore, che fa vivere ciò che la legge dice, ma non dà. Ciò che prima era
nuova, che ci fa “mangiare di sabato”, vivere la vita stessa di Dio (cf brano
seguente).
di Dio nella creazione. Il riposo è Dio stesso, vera casa dell’uomo, alla quale
ognuno è invitato a tornare dopo l’affanno delle sue fughe. L’uomo sta di casa
sua forza in modo utile. È come la legge per l’uomo: dura ma necessaria
312
disciplina, canalizza le sue energie perché possa guadagnarsi il “pane di
del Padre, che elargisce doni ai suoi diletti nel sonno (Sal 127,2b). È un giogo
dolce: l’amore con il quale lui mi ha amato e ha dato se stesso per me, diventa
poiché sono mite (cf 21,7). Gesù è il mite, colui che eredita la terra (5,5). La
l’umile, il servo, l’ultimo. Ed è il più grande, perché chi è umile sarà innalzato
(23,12). L’umiltà, per i greci come per noi, non è una virtù: è la condizione
è umile.
troverete riposo per le vostre vite. Così dice il Signore: “Fermatevi nelle
strade e guardate, informatevi circa i sentieri del passato, dove sta la strada
buona e prendetela, così troverete pace per le vostre vite” (Ger 6,16). La pace
sta nel trovare questa strada, la più antica: quella eterna del Figlio, la via della
mitezza e dell’umiltà, che conduce al riposo del Padre, che è anche il nostro.
v. 30 il mio giogo giova. Altri gioghi sono pesanti ed inutili, anzi dannosi.
un paio di ali che portano. È un peso che non pesa, un carico che scarica e
rende leggeri. L’amore infatti è forza interiore divina: è lo stesso Spirito di Dio,
“grazia” del Signore che salva (At 15,10s). È la legge di libertà (Gc 2,12),
313
quella della nuova alleanza, che ci dà un cuore nuovo (Ger 31,31-34; Ez 36,26-
28).
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando di trovarmi davanti al Figlio che mi invita ad
essere con lui e come lui
c. chiedo ciò che voglio: la conoscenza del suo amore impregni il mio cuore e
che io risponda con lo stesso amore
d. traendone frutto, medito sul testo
da notare:
venite a me
voi affaticati e oppressi
io vi darò riposo
imparate da me
mite e umile di cuore
il mio giogo giova
il mio peso non pesa.
4. Testi utili: Sal 145; 95; Sir 51,23-27; Ger 31,31-34; Ez 36,24-28; Gv 1,1-
314
46. IL FIGLIO DELL’UOMO È SIGNORE DEL SABATO.
12,1-8
“Il Figlio dell’uomo è Signore del sabato”. Gesù, sapienza e forza di Dio, è lo
315
Il c. 12 è un conflitto fra sapienza vecchia e nuova, fra carne e Spirito, fra
sono nel “riposo” di Dio: possono, senza colpa, fare di sabato ciò che è
sacerdotale.
Signore del sabato (v. 8). Chi viene a lui, è come lui: figlio e libero.
altri sinottici: il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato. È il senso di
cibarsi del sabato, di vivere la vita di Dio stesso! Mangiare è vivere; il grano, il
cibo, è la conoscenza del Figlio offerta agli infanti; il sabato è Dio stesso,
Davide è figura del Messia; i discepoli, che mangiano di sabato, non mangiano
il frutto proibito - lo fanno senza colpa, perché compagni del Messia, sacerdoti
che mangiano il pane dell’offerta, che li rende simili a Dio, che vuole
Gesù, Figlio dell’uomo e Signore del sabato, è il nostro pane, la nostra vita.
La Chiesa è fatta da coloro che lo mangiano, vivendo la libertà dei figli che
amano i fratelli. Non sono più schiavi, ma signori della legge, perché vivono la
316
12,1 In quel momento (cf 11,25). La scena è collegata con la precedente, che
parla della rivelazione del Padre e del giogo soave del Figlio. Quando leggiamo
al suo banchetto. Ora il Signore del sabato - è giunto finalmente il suo giorno! -
la nostra terra ha dato il suo frutto (Sal 85,13b; 67,7). “Le valli si ammantano
i suoi discepoli ebbero fame. Fin dall’inizio l’uomo ebbe fame di questo frutto.
L’uomo è fame di vita, a tutti i livelli. Solo il sabato, la vita di Dio, è cibo
degno del figlio. Per questo il cibo che sazia è la parola che esce dalla sua
quel grano che è il Figlio dell’uomo; prendono la sua vita e il suo vigore,
l’amore del Padre. È il banchetto messianico, che elimina la morte per sempre
(Is 25,8). “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Chi ne mangia, non morrà”
(Gv 6,51.50).
solo conoscono la legge come gli scribi, ma anche la fanno. Ma chi conosce e
i tuoi discepoli fanno ciò che non è lecito di sabato. I discepoli fanno una delle
non può normare la vita: è la vita a normare la legge. Chi assume come
principio la legge, sacrifica la vita e muore. Chi assume come principio l’amore
317
Quella dei discepoli non è “una” trasgressione, ma “la” trasgressione, per la
quale l’uomo è fatto: passare dal sesto al settimo giorno, vivere di colui del
Principio nuovo di vita non è più la legge, ma l’amore che è vita e legge a se
stesso. Così era fin dal principio, prima che Adamo fosse ingannato.
v. 3 disse loro: non avete letto. Gesù cita le Scritture per mostrare che la
legge, anche la più sacra come quella del sabato (cf Es 20,8-11; Dt 5,12-15), è
per l’uomo. Qui ricorda a conferma un fatto che riguarda Davide, e un altro
cosa fece Davide e quelli con lui (1Sam 21,7). Gesù paragona se stesso a
Davide, figura del Messia che deve venire. Anche Gesù, a quelli “con lui”,
abitando nella casa del Signore, per gustare la sua dolcezza (Sal 27,4). Di lui
ha fame la mia vita, come la terra riarsa ha sete d’acqua (Sal 63,2).
mangiarono i pani dell’offerta. Il pane è vita. Qui si tratta del pane che sta
che non era lecito a lui mangiare né a quelli con lui, ma ai soli sacerdoti. La
trasgressione di Davide è anticipo di ciò che avverrà col Messia: ciò che fecero
v. 5 non avete letto nella legge che i sacerdoti, ecc. I sacerdoti hanno libero
accesso al tempio. Come Davide è figura di Gesù, i sacerdoti sono figura dei
Questa trasgressione non è una colpa, come quella di Adamo: infatti non è
318
v. 6 qualcosa più grande del tempio c’è qui. Più grande del tempio è solo
Dio, il Santo per il quale il tempio è santo. Gesù è il Figlio, gloria del Padre,
pieno di grazia e verità (Gv 1,14), in cui abita corporalmente la pienezza della
divinità (Col 2,9). È venuto a dimorare tra noi, perché dalla sua pienezza
attingiamo grazia su grazia (Gv 1,16), e diventiamo familiari di Dio (Ef 2,19),
v. 7 se aveste compreso cosa significa. I farisei non hanno colto il senso delle
codice di norme cultuali o morali. È il racconto della “passione folle” di Dio per
l’uomo (Kabasilas), della sua tenerezza che si espande su tutte le sue creature
(Sal 145,9). Tutto ciò che c’è nella natura e nella storia, ha un solo “perché”: la
sua eterna misericordia, come proclama il ritornello del grande Hallel (Sal
136), che Gesù cantò con i suoi dopo aver dato loro in cibo il vero pane, il suo
corpo (26,30).
La “santità”, ciò per cui solo Dio è Dio, diverso da tutti, è la sua misericordia
(cf Os 11,8s). La norma fondamentale: “Siate santi perché io sono santo” (Lv
del tempio: è Signore del sabato, giorno del Signore. Il Gesù di Matteo si
del sabato. Egli è l’Emmanuele, il Dio con noi (1,23), per sempre (28,20), colui
che i Magi sono venuti ad adorare (2,2.11) e che alla fine anche i discepoli
319
adoreranno (28,17). È il Signore che viene nel suo tempio a fare il suo giudizio
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando il campo di grano in cui passò Gesù con i suoi
c. chiedo ciò che voglio: comprendere il dono che Dio mi fa di sé
d. traendone frutto, medito e contemplo
da notare:
Gesù passa di Sabato tra le messi, e i discepoli ne mangiano
il significato di ciò che fece Davide
il significato di ciò che fanno i sacerdoti
mangiare di sabato senza colpa!
qualcosa più grande del tempio c’è qui
misericordia voglio e non sacrificio
il Figlio dell’uomo è Signore del sabato.
4. Testi utili: Sal 63; 136; Es 20,8-11; Dt 5,12-15; 1Sam 21,2-7; Lv. 24,5-9;
Mt 5,17-48.
12,9-14
320
14 Ora, usciti, i farisei
tennero consiglio contro di lui
come toglierlo di mezzo.
“Stendi la tua mano!”, ordina Gesù all’uomo che aveva la mano rattrappita.
In Africa talora si vede uno che, morso da un serpente, rimane con il braccio
rimase con la mano senza linfa. Gesù è venuto a guarirla: chiusa nel tentativo
accoglierlo. Un dono senza una mano aperta a riceverlo, è come la luce senza
l’occhio.
poterlo accogliere.
definitivo tra la lettera che uccide e lo Spirito che dà la vita (2Cor 3,6).
La domanda dei farisei è provocatoria (v. 10). Per loro non è lecito curare in
giorno di sabato, se non in caso di pericolo mortale. Già sanno cosa farà:
secondo la lettera, ma del fare il bene o il male (vv. 11-12). Ciò che lui compie
non è solo un “curare”, ma “salvare la vita”, dice Mc 3,4. Infatti aprire la mano
perché ogni giorno possiamo agire da figli di Dio, nell’amore e nella cura dei
321
fratelli. Questa è la norma suprema di colui che misericordia vuole, e non
Proprio per questo giungerà al sacrificio della croce; lì le sue mani inchiodate
La mano è per l’uomo ciò che è il morso per l’animale: gli media la realtà.
quanto lavora è potenza dello Spirito, in quanto dona è come quella del Padre:
la mano del Figlio dell’uomo, che “prende, spezza e dà”, realizza la vita di Dio
passaggio dalla natura alla cultura. La sua storia è la stessa dell’uomo: può
essere divina e realizzare il sabato di Dio, può essere bestiale e far regredire
tutto al caos.
Gesù pone come principio della legge la misericordia. Non ciò che è lecito o
322
11,9 Venne nella loro sinagoga. La sinagoga è chiamata “loro”. I discepoli di
Gesù, ai quali Matteo si rivolge, ne sono già esclusi. Gesù ci tornerà ancora, a
scandalizzati di lui.
come un ramo secco all’albero; il veleno del serpente la rese arida, senza vita,
anzi seminatrice di morte! Il bene e il male non sta nelle cose, ma nella nostra
è lecito. Il problema dei farisei è cosa vieta la legge. Al centro della loro
attenzione non c’è più l’albero della vita, ma quello del divieto. Un’azione non
morte. Dio ha posto al centro del giardino non l’albero del divieto, ma quello
il sabato.
per accusarlo. Sono sicuri che Gesù trasgredisce; ma, invece di capire perché,
v. 11 quale uomo tra voi, ecc. Se una pecora cadeva nel fosso, il proprietario
v. 12 quanto dunque vale di più un uomo di una pecora! Gesù, il buon pastore
(Gv 10,1-18), si preoccupa dei figli di Israele almeno quanto un pastore delle
sue pecore. L’uomo, immagine di Dio, è ben più di una pecora! Essere legato a
norme e divieti che non sono per la vita, è davvero un pericolo di morte: è la
stesso, con gli altri e con l’Altro: invece di “prendere, benedire, spezzare e
323
dare”, resta chiusa nella maledizione del possesso. Gesù è venuto a restituirci
è lecito di sabato fare il bene. Non la legge è criterio del bene, ma il bene è
criterio della legge. Il sabato stesso, giorno di Dio, celebra la sua misericordia
per l’uomo (cf Es 20,8-11; Dt 5,12-15). Noi siamo chiamati a diventare come
Gesù, che faceva tali cose di sabato dicendo: “Il Padre mio opera sempre, e
anch’io opero”. È il Figlio, che fa ciò che vede fare dal Padre (Gv 5,17.19), fino
a poter dire: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), perché la mia è la
sua stessa mano, e noi siamo uno (Gv 10,28-30). Gesù non solo viola il sabato,
la stese, e fu rifatta, sana come l’altra. L’uomo, anche dopo il peccato, rimane
figlio di Dio. Una sua mano resta sana; ma usa sempre l’altra. Ora anche
restituita alla sua integrità originaria. Diventa la mano di Adamo prima del
peccato, quella del figlio, che “prende-bene”(eulàbeia) tutto, come Gesù (Eb
5,7).
La creazione torna ad essere bella e buona come Dio l’aveva vista fin dal
principio.
suo sangue, versato su di noi e sui nostri figli (27,25). Dove la mano secca
esalterà il suo potere di dare la vita. Il dono della vita, gli costerà la vita. A
324
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù di sabato nella sinagoga
c. chiedo ciò che voglio: aprire la mano al dono che Dio mi fa di sé
d. traendone frutto, medito e contemplo
da notare:
la mano inaridita
quanto più vale l’uomo di una pecora
è lecito curare di sabato?
è lecito di sabato fare il bene
stendi la tua mano !
fu rifatta sana come l’altra
tennero consiglio contro di lui come toglierlo di mezzo.
4. Testi utili: Sal 103; 107; Mt 5,17-7,12 ci mostra la “mano del Figlio”: come
325
48. PERCHÉ SI COMPISSE QUANTO FU DETTO
12,15-21
un’attività più segreta. Non si tratta, come pare a prima vista, di un fallimento,
bensì del compimento della Scrittura. Attraverso la figura del “Servo” descritta
da Isaia, Matteo ci aiuta a capire ciò che sta accadendo. La medesima realtà
può avere molte interpretazioni, che alla fine si riducono a due: quella
modo più efficace, anche se nascosto: cura “tutti” e impone che non lo si dica
Gesù è il Figlio del Padre in quanto servo dei fratelli; è l’eletto, perché ha il
326
alle persone, alle loro fragilità e incertezze. Così fa trionfare sulla terra la
Questa lunga citazione di “compimento”, presa dal primo Canto del Servo (Is
che interpreta l’azione di Gesù come quella del capro espiatore, che porta su
Dopo la condanna appena decisa, tutto è chiaro. Il bene non resta mai
“tutti” - anticipo di ciò che avverrà nel suo ritiro ultimo (vv. 15-16); così
compie la Scrittura che presenta il Salvatore come il misterioso Servo (vv. 17-
giustizia superiore (5,20), quella del Padre, che fa piovere la sua misericordia
su tutti (5,43-48): è il giogo dolce e soave del Figlio, offerto a tutti i piccoli,
conflitto, finché può. Quando sarà inevitabile, berrà il calice, chiedendo che
Gesù non lotta contro nessuno. Ha altra occupazione: fare il bene, sia di
sabato che in ogni altro giorno (v. 12). Il suo potere non entra in competizione
327
lo seguirono molte folle. Sono le pecore senza pastore, stanche e sfinite
(9,36), che trovano in lui il pastore della vita. Sono gli affaticati e oppressi che
12,32).
e li curò tutti. Ora la sua cura si rivolge a “tutti”. Se nella sua azione si limitò
è dominante: non si può conoscere Dio prima della croce. Matteo, che si
Gesù.
v. 18 ecco il mio Servo, ecc. Colui che nel battesimo fu chiamato il Figlio, ora
è chiamato Servo: infatti è Figlio in quanto è servo dei fratelli. Questi è l’eletto,
l’amato, in cui il Padre si compiace: ciò che il mondo scarta, odia e disprezza,
porrò il mio Spirito su di lui (cf 3,16). Gesù ha lo Spirito di Dio, l’amore tra
annuncerà il giudizio. Gesù porta il giudizio di Dio, crisi di ogni nostro giudizio.
alle genti. Il rifiuto dei capi del popolo, invece che vanificare il giudizio di Dio,
lo estende ai pagani.
v. 19 non litigherà. Gesù si ritira per non contendere. Non fa valere il proprio
restituisce.
328
né griderà. Chi grida di più, si impone e domina. È una legge antica, che oggi
né alcuno udrà la sua voce nelle piazze. Non cerca rilevanza, non si fa
pubblicità. Anche ciò che poi sarà annunciato sui tetti (10,27), sarà sempre
canna mossa dal vento (11,7): è uno che “sta”, davanti a Dio. Gesù è benevolo
però anche con le “canne”, non solo mosse dal vento, ma anche infrante. Si
prende cura di loro, e ne fa l’appoggio della sua attività (11,5), fino a bucarsi
la mano (Is 36,6). Sulla punta di una canna berrà in croce l’aceto della nostra
lo stoppino fumigante non spegnerà. Lui, che è luce del mondo (Gv 8,12), non
finché non porti a vittoria il giudizio. Il suo giudizio di salvezza sarà portato
(alla lettera: “scagliato”) alla vittoria proprio dalla croce, dove tutto sarà
Dio-con-noi (1,21-23). “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome
dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati”
(At 4,12). “Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato” (Gl 3,5= At
2,21).
spereranno le genti. Non solo il popolo dei credenti, ma anche i pagani, “le
riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non
3. Pregare il testo
329
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che si ritira
c. chiedo ciò che voglio: conoscere lo Spirito di Gesù, il Figlio servo dei fratelli
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
si ritirò
lo seguirono molte folle e li curò tutti
Gesù, il Servo, l’eletto, l’amato e approvato dal Padre
il mio Spirito è su di lui
il giudizio di Dio
non litiga, non grida
non spezza la canna infranta
non spegne lo stoppino fumigante
così vince e porta speranza a tutti.
4. Testi utili: Sal 22; i Canti del Servo: Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-
53,12; 1Cor 1-2; Fil 2,5-11.
330
50. CHI NON È CON ME È CONTRO DI ME
12,22-37
331
ma chi dirà
contro lo Spirito Santo,
non gli sarà perdonato,
né in questo secolo
né in quello a venire.
33 Se prendete un albero buono,
anche il suo frutto è buono;
se prendete un albero cattivo,
anche il suo frutto è cattivo.
Dal frutto infatti si conosce l’albero.
34 Progenie di serpenti,
come potete dire cose buone
se siete cattivi?
Infatti dall’abbondanza del cuore
parla la bocca.
35 L’uomo buono
dal tesoro buono
tira fuori cose buone,
e l’uomo cattivo
dal tesoro cattivo
tira fuori cose cattive.
36 Ma vi dico che di ogni parola inutile
che gli uomini diranno,
renderanno conto
nel giorno del giudizio.
37 Poiché sulle tue parole sarai giustificato
e sulle tue parole sarai condannato.
“Chi non è con me, è contro di me”, dice Gesù. Il Signore del sabato si offre: o
Essere con lui, il Figlio, è essere se stessi. Non essere con lui, è perdere se
Questo brano segna l’apice della crisi tra Gesù e i farisei. Appena guarito un
meraviglia (v. 23), e i farisei lo accusano di connivenza col capo dei demoni (v.
24). Gesù risponde con sei argomentazioni progressive: è assurdo che satana
sia contro se stesso (vv. 25-26); inoltre anche i giudei, come lui, fanno
esorcismi (v. 27); il fatto che lui scacci gli spiriti immondi nella potenza dello
Spirito, segna l’inizio del regno di Dio (v. 28); lui è il più forte, che vince la
332
forza del nemico (v. 29): essere con lui o meno è la salvezza o la perdizione
dell’uomo (v. 30); chi lo accusa, mente contro la verità e pecca contro lo
Spirito (vv. 31-32); i farisei sono un albero cattivo che dà frutti cattivi: la loro
(vv. 33-37).
che hanno dentro. Non sono figli di Abramo, ma del serpente (3,7),
Il loro peccato è il peccato: la resistenza alla verità. È più grave del peccato
stesso di Adamo. Come lui, non prestano ascolto a Dio; ma, a differenza di lui,
non lo fanno per errore: coscienti della menzogna, la difendono, come satana,
Con la sua forte denuncia, Gesù cerca di convincerli della loro cecità, per
guarirli (cf Gv 9,39-41). Hanno già deciso di uccidere il Signore del sabato (v.
14). Il loro è il peccato contro lo Spirito: l’indurimento nel male di un cuore che
Gesù porta il giudizio di Dio: essere con lui è la salvezza. Chi è contro, lo
uccide. Ma a chi gli toglie la vita, il Signore la dona, e proprio così compie il
giudizio di Dio - che è amore assoluto per tutti, senza condizioni (cf At 4,28).
12,22 Un indemoniato cieco e muto. Richiama i due ultimi miracoli: quello dei
noi: ciechi, non ancora venuti alla luce della nostra verità, e incapaci di
333
verità, ma le nostre paure. Il Signore del sabato è venuto per guarirci, perché
v. 23 non sarà costui il figlio di Davide? Come in 9,33, la folla si apre alla
così, non può essere il Messia! Dovrebbe essere diverso! La domanda del
Battista è aperta a ogni risposta (11,2); quella della folla rischia di chiudersi
ripetono l’accusa di 9,34. Hanno già deciso di eliminarlo. Per questo, anche
sempre la libertà di pensare il contrario di ciò che capisce. Mistero del cuore! Il
peccato contro lo Spirito è l’uso della libertà per negare la verità, perché
contro i propri presunti interessi. Chi non vuole respingere da sé il male, rifiuta
v. 25s ogni regno diviso contro se stesso va in rovina, ecc. Gesù mostra
non va contro se stesso. Il male ha una sua coesione interna, spesso più del
v. 27 i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Gli stessi farisei si tirano la
v. 28 se per mezzo dello Spirito di Dio io scaccio i demoni, ecc. Gesù scaccia i
demoni, nella forza dello Spirito, ricevuto nel battesimo, che l’ha condotto nel
deserto (4,1), per incontrare e vincere satana. Con lui inizia e si diffonde il
334
ora anche nel cuore dei farisei. La loro resistenza alla verità è satanica. Gesù
ribalta l’accusa dei suoi accusatori: lui effettivamente libera dai demoni,
v. 29 come può uno entrare nella casa del forte, ecc. Il demonio è il forte che
ha preso dimora nell’uomo, facendolo suo schiavo. Ora è giunto il più forte
v. 30 chi non è con me, è contro di me. “Beato chi non si scandalizza di me”
(11,6)! Essere con lui, il Figlio, è accogliere il Padre e la propria identità. Non
essere con lui, è essere ancora posseduti dall’avversario, contro di sé, contro il
Figlio, contro il Padre e contro tutti; è restare ciechi e muti, preda delle proprie
chi non raccoglie con me, disperde. Gesù è venuto a raccogliere le pecore
perdute d’Israele (15,24). In lui, il Figlio, si realizza l’unione dei fratelli. Fuori di
coloro che accusano Gesù di scacciare i demoni in nome del capo dei demoni:
lo Spirito, che è verità (1Gv 5,6). È il peccato di Anania e Saffira, che porta alla
morte (At 5,3.9). Il diavolo, fin dal principio, coscientemente parla contro la
Questo è il male che non può essere perdonato: può solo essere bruciato. Da
vita nostra. E ci riuscirà con la croce, proprio là dove il male raggiungerà la sua
forza estrema.
335
Pecco contro lo Spirito quando so di avere torto e non voglio ammetterlo, o
in mala fede. Solo l’altro può dichiararmi in buona fede, per la mia ignoranza o
che mi chiama alla libertà. Pecco contro lo Spirito anche quando voglio avere
peccato! Ma la stampa è l’esempio più evidente di una realtà molto più grande
v. 32 chi dirà una parola contro il Figlio dell’uomo, gli sarà perdonato; ma chi
dirà contro lo Spirito, ecc. Il Figlio dell’uomo, nella sua carne, è scandalo
come la parola al cuore. Dal cuore cattivo nasce la parola cattiva, e ciò che ne
consegue: “Ciò che esce dalla bocca, proviene dal cuore. Questo rende
immondo l’uomo. Dal cuore infatti provengono i propositi malvagi, gli omicidi,
(15,18s). Il male peggiore è mentire alla verità che sempre parla nel cuore.
v. 34 progenie di serpenti (cf 3,7). Uno è generato dalla parola che ascolta. Se
è quella di Dio, è figlio di Dio, come Abramo, padre nella fede; se è quella del
336
v. 35 l’uomo buono dal suo tesoro buono tira fuori cose buone, ecc. (cf
13,52). Uno vede con il suo occhio, anzi con il suo cuore, che è il suo tesoro. Il
cattiva.
Gesù denuncia il male del nostro cuore per bruciarlo. La sua è una cura per
cauterizzazione.
v. 36 ogni parola inutile, ecc. La parola non è tutto, ma tutto è parola per
l’uomo. Essa produce verità, offre comunione, genera gioia e vita; oppure,
converte, lo giustifica.
Le parole vere, dove il “sì” è “sì” e il “no” è “no” (5,37), ci salvano. Il “sì” che
non è “sì” e il “no” che non è “no” viene dal maligno e ci condanna.
La mia salvezza è dire: “Sì, è vero, la menzogna è in me. No, non è vero, la
verità non è in me. Mi lascerò convertire”. Vedendo la trave che è nel mio
occhio (7,3), sono salvo: non giudico più nessuno e accetto per tutti la
misericordia di Dio.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù davanti alle folle e ai farisei
c. chiedo ciò che voglio: conoscere e riconoscere davanti a lui le mie resistenze
alla verità
d. traendone frutto, medito e contemplo
da notare:
un indemoniato cieco e muto
337
la reazione della folla e dei farisei
chi non è con me, è contro di me
chi non raccoglie con me, disperde
qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata
la bestemmia contro lo Spirito Santo
la bocca parla dalla pienezza del cuore
sulle tue parole sarai giustificato o condannato.
338
50. Il SEGNO DI GIONA
12,38-42
“Il segno di Giona”, che sta tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, è
profezia del Figlio dell’uomo, che entrerà nel sepolcro. Chi non crede a lui, chi
non apre la mano per accogliere il dono, chi non vuol riconoscerlo contro ogni
evidenza, lo toglie di mezzo (v. 14) e commette il peccato contro lo Spirito (v.
339
31s). Ma proprio per lui, che non accetta nessuno dei suoi segni, Gesù dà il
Il male provoca (chiama-fuori) ciò che è dentro: in noi provoca altro male, e
brano precedente (vv. 22-32). Chi sceglie contro di lui, conoscendolo, ha scelto
per satana, contro Dio. Ma questo, che è “il” male, pro-voca il Figlio dell’uomo
a entrare per tre giorni nel cuore della terra, in solidarietà assoluta con l’uomo
che lo rifiuta. Segno più grande neppure Dio può dare. In esso rivela la sua
Altro segno non sarà dato, perché questo è il segno dell’Altro, rivelazione
Gesù, con il “suo” segno, è ben più di Giona profeta: ci fa vedere Dio nella
suo banchetto.
dal cielo (Mc 8,11), divino e inequivocabile, che costringa a credere. Dio non lo
farà mai: non costringe nessuno, perché la fede è un atto di libertà. Inoltre,
per chi sa leggere, tutto è segno di Dio; per chi non sa leggere, la Scrittura è la
340
sua paziente scuola di lettura; per chi poi non vuol leggere, nessun segno è
sufficiente.
Anche Israele nel deserto chiede un segno, per sapere se “il Signore è in
moltiplicazione non basta per uscirne. Le azioni e le parole di Gesù sono chiare
per chi è ben disposto. Chi chiede un crescendo di segni, senza accettare ciò
seguirne le indicazioni.
infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non
ricusano di credere in lui” (Sap 1,2). E i suoi gesti non sono di potere e di
alle sue attese sbagliate. Deve “con-vertirsi”, volgersi-a Dio, e allora ne coglie
i segni. Inoltre ogni generazione è “adultera”: non ama il suo sposo, ma segue
altri amori (Dt 6,6ss; Ez 16). Deve tornare ad amare colui che la ama di amore
compreso! A chi non accetta il suo dono e gli toglie la vita, il Signore dà come
341
segno il dono di sé e la sua vita. La croce è il suo segno, che lo rivela come
v. 40 come infatti rimase Giona nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, ecc.
Matteo centra l’attenzione sul fatto che Giona rimase tre giorni e tre notti nel
ventre del pesce. Come lui, Gesù entrerà per tre giorni e tre notti nel cuore
della terra. È l’unico segno che può guarire dalla cecità questa generazione
adultera e perversa. Il Signore crocifisso, morto e sepolto con noi e per noi
nelle nostre notti e abissi, è rivelazione indubitabile del Dio amore. Chi lo
vede, non può non battersi il petto e tornare a lui (24,30). Volgendo lo sguardo
a colui che abbiamo trafitto (Gv 19,37), anche il nostro cuore è trafitto (At
attirati a lui (Gv 8,28; 12,32). Entrando nel cuore della terra, il Figlio dell’uomo
v. 41 gli uomini di Ninive sorgeranno nel giudizio con questa generazione ecc.
l’incredulità.
Questa minaccia di Gesù contro i suoi ascoltatori, come già quella di Giona
contro quelli di Ninive, è “profetica”: è un avviso perché non si avveri allora ciò
che, purtroppo, ora è vero. La denuncia del male che fanno è invito pressante
a uscirne.
ecco più di Giona qui. Giona, contro la sua volontà, fu profeta della
lontani, sia mal disposti come quelli di Ninive che ben disposti come la regina
342
Giona: non si vogliono convertire a quel Dio misericordioso che invece i lontani
accolgono.
ma il fratello maggiore, che gli sta vicino e non lo conosce (cf Lc 15,1ss!). Per
Dio, il Figlio che invita al banchetto della sua conoscenza col Padre (11,25-30).
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che parla davanti a quelli che hanno deciso
di ucciderlo
c. chiedo ciò che voglio: comprendere il “segno” di Giona
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
vogliamo vedere un segno
generazione perversa e adultera
non sarà dato se non il segno di Giona
il Figlio dell’uomo nel cuore della terra per tre giorni e tre notti
quelli di Ninive si convertirono
la regina di Noto venne dai confini della terra per ascoltare
ecco più di Giona qui
ecco più di Salomone qui.
343
51. COSÌ SARÀ ANCHE PER QUESTA GENERAZIONE PERVERSA
12,43-45
“Così sarà anche per questa generazione perversa”, dice Gesù ai suoi
ascoltatori, allora come adesso. La sua venuta segna l’inizio del regno e la
sarebbe meglio per lui non averla conosciuta: si è vaccinato contro di essa. Per
lui si verifica il proverbio: “Il cane è tornato al suo vomito, e la scrofa lavata è
ricadere nelle sue mani. E ciò avviene quando, invece di convertirci e seguire i
La nostra lotta contro il male dura tutta la vita: è una colluttazione non contro
creature fatte di carne e di sangue, ma contro gli spiriti cattivi, che abitano
quella regione celeste (Ef 6,12) che è il nostro cuore. È una battaglia interiore
vogliamo fare il bene, il male è accovacciato alla nostra porta - anche dopo il
344
battesimo, come attesta Paolo (Rm 7,21.17). Non siamo del mondo, ma
restiamo nel mondo (Gv 17,6.11): anzi, il mondo resta sempre in noi. Siamo
chiamati a vivere da figli della luce proprio nella notte, che non è solo attorno
a noi (1Ts 5,1-11): il sole è sorto, ma la tenebra del dubbio, delle passioni e
contro, anche lui è contro di noi. Le difficoltà e le tentazioni sono la prova che
gli resistiamo. Come sono lo spurgarsi del male che abbiamo subìto e anche
Sia Israele dopo il Mar Rosso che Gesù dopo il battesimo subirono le
tentazioni del deserto. Così anche noi, dopo la nascita nello Spirito, se
impunemente ciò che vorremmo (Gal 5,16s). Dentro di noi c’è sempre una
stare in piedi, stia attento a non cadere (1Cor 10,12). Una volta liberati dal
6,4-6).
Gesù, il più forte che ha vinto il forte, ci ha liberati perché restassimo liberi
(Gal 5,1).
sua stessa lotta contro il male fino alla fine, stando attenta ai colpi di coda del
345
rimane sempre in lui, anche se sepolto tra le immondizie. Anche nel cuore più
perverso c’è nascosto il tesoro: l’amore inalienabile che Dio ha per lui rimane
senza acqua, senza vita. Sia Israele che Gesù l’hanno attraversato. È anche
per noi il passaggio obbligato del ritorno al giardino promesso. Per questo
incontriamo maggiori difficoltà nel deserto che non in Egitto: il cammino verso
abituato al male noto, teme il bene ancora ignoto. Per questo Dio, che in una
notte fece uscire Israele dall’Egitto, non riuscì in quarant’anni a far uscire
riposo. Gli affaticati e oppressi lo trovano nel Figlio (11,28-30). Il nemico non lo
trova, perché non accoglie il Figlio - e così resta inquieto e agitato, nemico di
sé e di tutti.
v. 44 tornerò nella mia casa, dalla quale sono uscito. Invece di tornare a Dio,
sua vera casa, vuol tornare nell’uomo, per renderlo alienato come lui. Chi sta
venuto, la trova libera, pulita e bella. Senza il nemico, l’uomo è libero, non
occupato. Ogni pratica ascetica e mistica è ricerca di questo vuoto, che lascia
spazio allo Spirito, al riposo del settimo giorno. Chi si è svuotato dal male, è
anche pulito: i suoi sensi, la sua mente e il suo cuore sono purificati e
sgomberi. Ed è bello, ornato della bellezza nella quale Dio l’ha fatto - la sua
stessa.
L’uomo che prima era occupato, immondo e orribile, ora è libero, pulito e
bello!
v. 45 prende con sé altri sette spiriti più cattivi di lui, ecc. Se vai di bene in
attacchi, tanto più forti e repentini quanto più sei in armonia con te e con
346
tutto. Arrivi addirittura a pensare che era meglio quando era peggio. Non ti
questo perché tu acquisti pazienza più grande, speranza più pura, gioia più
spaventarti, e metti in conto che sempre senti più forte lo spirito che combatti
e più debole quello che segui. Ma è normale. Non avverti la corrente d’acqua
chiudi fuori casa, forza la porta e fa rumore per entrare; quello che ospiti, sta
la fine di quell’uomo è peggiore di prima. È peggio cadere dalla cima che star
seduti ai piedi del monte. Chi non è disposto a continuare la lotta contro il
purifichi la nostra speranza e raffini il nostro amore (Rm 5,3-5). Dice il Signore:
“Chi persevererà sino alla fine, sarà salvato” (24,13), e: “Con la vostra
lo Spirito. Al Figlio dell’uomo, che sempre è nel profondo del cuore dell’uomo,
347
non resterà che entrare nel cuore della terra, e dare così il “suo” segno, quello
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando la mia verità: sono tempio del Signore, dimora del
suo Spirito, libero, pulito e bello.
c. chiedo ciò che voglio: il dono della pazienza e della perseveranza nelle
difficoltà
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
lo spirito immondo è uscito dall’uomo
se ne va per luoghi senza acqua, cercando riposo
tornerò nella mia casa dalla quale sono uscito
la trova libera, pulita e bella
prende con sé sette spiriti più cattivi di lui
la fine di quell’uomo è peggiore di prima
così accadrà a questa generazione perversa.
4. Testi utili: Sal 95; 106; Dt 8-9; Gal 5,1ss; Eb 6,4-6; 10,26-39; 2Pt 2,20-22;
348
52. ECCO MIA MADRE E I MIEI FRATELLI
12,46-50
“Ecco mia madre e i miei fratelli”, dice Gesù, stendendo la mano su coloro
che hanno steso la mano per mangiare il suo cibo, che è fare la volontà di Dio
(Gv 4,34).
In ognuno di questi versetti si parla di madre e fratello - alla fine anche di
Marco riferisce l’episodio con un’altra intonazione: è l’apice della crisi (Mc
dono sublime spiazza ogni attesa, anche quella del Battista (11,2-15). La sua
349
tralasciando questo particolare negativo, mostra ora chi è il discepolo di Gesù:
I due capitoli si chiudono così con un’apertura positiva: Gesù non è più solo.
Alla parentela nella carne, succede quella nello Spirito. Dice Paolo: “Anche se
abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così”
(2Cor 5,16). Nasce la famiglia del Figlio, con madre, sorelle e fratelli.
C’è una parentela con Dio - “di lui stirpe noi siamo” (At 17,28)! - aperta a ogni
uomo, vicino e lontano: si fonda sul fare la volontà del Padre, che si esprime
nella parola del Figlio. Uno diventa la parola che ascolta e fa: essa è un seme
che genera secondo la propria specie (cf 13,1ss). Quella di Dio ci genera della
specie di Dio, partecipi della sua natura divina (cf 1Pt 1,23; 2Pt 1,4). Chi
di aver parte con colui che è con noi per sempre (28,20). Vero discepolo non è
chi dice: “Signore, Signore!” (7,21), come neppure chi ha la sua carne, ma
colui che ha lo Spirito del Figlio e fa la volontà del Padre. Da questo dipende la
Gesù è il Figlio perché compie la volontà del Padre: ha il suo stesso amore
12,46 Mentre egli parlava alle folle. È la cerchia anonima attorno a lui,
chiamata a decidersi per lui o contro di lui. Non può restare neutrale.
350
Queste folle siamo noi, i lettori, chiamati a diventare come i discepoli che
uccidono.
suoi gli vogliono bene, ma lo ritengono fuori di sé; vanno per prenderlo,
portarlo a casa e curarlo. Anche se lo amano, per loro - come per Pietro e gli
altri - c’è un lungo cammino di conversione per giungere alla sapienza di Dio.
Non accettano il suo modo di pensare e di agire. La sapienza di Dio è follia per
l’uomo (1Cor 1,17-2,16)! Matteo utilizza l’episodio con un’altra ottica: dice
come la famiglia di Gesù è costituita da coloro che fanno, come lui, la volontà
“fuori” dalla casa. Uno può essere parente stretto del Signore - appartenere al
suo popolo da generazioni!- ma non per questo è “dentro” la sua casa. Deve
cercando di parlargli. Non è tanto il parlare con lui che ci fa suoi, quanto
l’ascoltarlo. Il parlare con lui può essere il primo passo, ma non basta.
v. 47 qualcuno gli disse, ecc. Dai suoi che cercano di parlargli, si passa a
questo anonimo che gli parla: è uno della folla, uno di noi. Ma il suo parlargli
v. 48 rispondendo, disse a chi gli parlava. A chi gli parla, Gesù risponde,
chi è mia madre, chi sono i miei fratelli? Gesù mette in questione ogni
ovvietà. Tutto il vangelo, dal principio alla fine, è uno “scrolla-certezze”: toglie
problematizzando un’evidenza scontata: chi sono i suoi? Lui è nato non dalla
carne, ma dallo Spirito (1,20). Sua madre gli è madre perché ha detto “sì” alla
volontà del Padre (Lc 1,38). Chi, come lei, accoglie la Parola, è sua madre: gli
351
dà vita nella propria vita, gli dà carne nella propria carne. Il grande destino
dell’uomo è diventare madre del Signore: dare corpo al Figlio di Dio, fino alla
v. 49 stesa la sua mano sui suoi discepoli. Non è un semplice gesto per
indicare i suoi discepoli. La sua mano è la stessa del Padre, dalla quale
ecco mia madre e i miei fratelli. Il discepolo è in comunione con lui, suo osso
d’amore.
dipendenza. La vita del Verbo incarnato dipende dall’uomo. Come gliela può
togliere, così gliela può dare. Chi chiude la mano, lo uccide; chi la apre al suo
dono, lo fa vivere in sé. Lui si consegna nelle nostre mani: il suo corpo e il suo
sangue sono per noi. L’eucaristia è il luogo pieno della familiarità con lui.
v. 50 colui che avrà fatto la volontà del Padre mio che è nei cieli. La volontà è
sempre in connessione con il Padre: è il suo amore per il Figlio, che gli
Gesù, attraverso il “sì” di una donna, è venuto nella nostra carne per dirci e
questi è mio fratello. Fare la volontà del Padre è la mia identità: mi fa suo
sorella. In Israele la donna non poteva essere discepolo. Per Gesù non c’è
maschio e femmina; tutti in lui siamo uno (Gal 3,28). Chi lo ama e lo ascolta è
originaria di ogni uomo: dire “sì” al Padre, farsi risposta alla sua proposta.
352
Come Dio è Padre del Verbo nei cieli, così in terra gli è madre chi dice “sì” al
Padre.
Come il precedente (11,25-30), anche questo capitolo si chiude con la più alta
prospettiva concessa all’uomo: egli è per grazia ciò che Dio è per natura. La
sua bellezza, sublime e incredibile, è aver parte del segreto di Dio: entrare
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù in casa coi suoi discepoli
c. chiedo ciò che voglio: compiere la volontà del Padre, per essere madre,
sorella/fratello del Figlio.
d. traendone frutto, medito e contemplo
da notare:
le folle
la madre e i fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli
uno lo informa
Gesù risponde
Gesù stende la mano sui suoi discepoli
chi fa la volontà del Padre mio, questi è per me fratello/sorella e madre.
1Gv 3,1-24.
353
53. USCÌ IL SEMINATORE A SEMINARE
13,1-9
spiega il mistero della sua vita: è lo stesso del regno, lo stesso della sua parola
in noi.
La parabola dice qualcosa di noto per far capire qualcosa di ignoto fin dalla
fondazione del mondo (v. 35). Dio nessuno mai l’ha visto (Gv 1,18). La sua
354
(1Cor 2,11). Gesù, quando la comunica ai piccoli (11,25), non può che usare un
Con le parabole illustra l’enigma della storia sua e nostra, che presenta un
duplice scandalo. Primo: il male sembra bene e riesce bene, mentre il bene
Secondo: il bene, anche quando c’è, è sempre frammisto al suo contrario. Che
Gesù con le parabole ci vuol far vedere più in profondità. La crisi, che lui
trova qui una lettura diversa, divina: il bene è vittorioso nella propria sconfitta
Sono parabole di discernimento, che rivelano il modo con cui Dio legge la
realtà: ci danno luce su ciò che avviene in questo nostro tempo pieno di
contraddizioni. Infatti il regno c’è, ma non è ancora compiuto: siamo alla fatica
della semina e della pesca, non ancora nella gioia del banchetto.
stesso entra di nascosto nel regno, che sembra fallire. Eppure - questa è la
sorpresa! -, l’esito positivo è sicuro. Solo Dio è Dio, e alla fine vince, e vince
divinamente.
355
proprio il rovescio di ciò che vorremmo è il segno stesso del Figlio dell’uomo,
(12,14). I miracoli che fa possono anche piacere; ma ciò che dice non piace a
degli altri?
confermando la scelta fatta nel battesimo e corroborata nel deserto. Egli getta
“il seme della parola del regno” con la certezza del contadino, che ne conosce
potenzialità. Che il seme non attecchisca, che se attecchisce non cresca, che
se cresce sia soffocato (vv. 4-7), è la condizione normale di ogni semina, che
poi sarà fruttuosa. Il seme, ora sacrificato, garantisce la vita per il futuro (v. 8).
Gesù spiega il mistero suo e della storia: è quello del seme nella terra.
La Chiesa è la barca dalla quale Gesù parla alle folle: posta sopra l’abisso, è il
semina.
356
13,1 Uscito di casa. “La casa” è dove Gesù dimora con i suoi discepoli. Come
è uscito dal Padre per venire verso i fratelli, così esce di casa per dimorare
presso tutti.
v. 2 si raccolsero attorno a lui molte folle. Lui è la Parola, attorno alla quale si
dalla marea delle folle persone libere, che conoscono e fanno la volontà di Dio.
lui, entrato in barca, si sedette, e tutta la folla stava in piedi sulla spiaggia. La
barca diventa la casa dell’esodo: fragile legno sospeso tra cielo e abisso,
affronta e attraversa le acque fino al termine del viaggio. È l’arca di Noè, che
salva dalla morte l’umanità. Da essa si rivolge alle folle, perché lo seguano nel
nuovo esodo.
La nostra vita è un enigma, una parabola dalla nascita alla morte, del cui
Padre a seminare la fraternità tra gli uomini. Ed è pure il seme, il Verbo eterno
dell’uomo in tutto simile a noi, che finirà nel sepolcro. Ed è il raccolto: in lui la
terra ha dato il suo frutto (Sal 67,7). E sarà sempre seminatore, seme e terra
con l’aratro a chiodo, si ricopriva il seme perché la terra lo custodisse fino alle
357
anche su rovi, che poi sarebbero stati levati. Non è un seminatore stolto che
butta il suo seme su strade, sassi e rovi, ma un seminatore saggio, che con
generosità semina tutto il campo, sapendo per esperienza antica che questo
controllare dove cade ogni seme, non mieterebbe che le proprie ansie.
Così Gesù semina ovunque. Non sceglie terreni, non scarta persone: tutti
parte cadde lungo la strada, ecc. I semi caduti sul sentiero sono visibili, facile
v. 5 un’altra cadde su luogo sassoso, ecc. Il sottile strato di terra con sotto un
v. 7 un’altra cadde sulle spine, ecc. I rovi, anche se tolti nell’aratura, tendono
a invadere e soffocare il resto. Non a caso il rovo si propose “re” tra gli alberi
Gesù descrive con cura le difficoltà, per quattro lunghi versetti. La semina
sembra un fallimento, come il suo ministero. C’è chi non accoglie la parola, chi
l’accoglie senza lasciarla crescere, chi la lascia crescere per poi soffocarla. Il
male richiama l’attenzione più del bene. Ma Gesù, come il contadino, conosce
358
subito come una goccia di rugiada mattutina davanti al sole (Os 6,4). Ma è
sempre figlio di Dio, fatto da lui, in lui e per lui: è sempre terra adatta per
queste ci esasperano.
v. 8 un’altra cadde in terra bella. Il Figlio dell’uomo è gettato nel cuore della
Un seme, anche dopo migliaia d’anni, come quello ritrovato nelle piramidi
l’uomo non perde mai la sua identità di figlio: al di là dei sentieri che lo
attraversano, delle pietre che nasconde e dei rovi che lo dominano, è sempre
terra bella, madre che accoglie il seme. Come la terra è sposa del seme, così
Palestina un sacco dava 7/8 sacchi, al massimo 11/12 - oggi, con i fertilizzanti,
quale il cento, quale il sessanta, quale il trenta. Per mal che vada, la semina
assoluta nel Padre e nella sua parola. Nei momenti di crisi Gesù vede nella
croce la gloria, nella fatica il risultato. Seminare è sempre un atto di fede nel
seme e nella terra, come vivere è sempre un atto di fede in Dio e nell’uomo.
l’accoglie: l’orecchio sia orecchio, la terra sia terra, l’uomo sia uomo!
Anche la parabola appena narrata è seme: il seme stesso della fede e della
359
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che parla dalla barca
c. chiedo ciò che voglio: avere orecchi che odono al di là di ciò che appare
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
Gesù esce di casa e siede lungo il mare
Gesù sale sulla barca e parla alle folle
il seminatore esce a seminare il suo seme
parte cade lungo la strada: gli uccelli la divorano
parte cade su terreno sassoso: subito germoglia, ma subito secca
parte cade tra i rovi: cresce, ma viene soffocata
parte cade su terra bella, e continua a dare il suo frutto
il cento, il sessanta, il trenta per uno.
chi ha orecchi, ascolti!
4. Testi utili: Sal 65; 67; 85;126; Is 55; Gv 1,1-18; 1Ts 1,6-2,13; Eb 4,12s.
360
54. PERCHÉ PARLI LORO IN PARABOLE?
13,10-17
361
“Perché parli loro in parabole?”, chiedono i discepoli a Gesù. “Loro” sono le
Dio”: i loro orecchi e i loro occhi si saziano e si beano di quanto profeti e giusti
“Loro” invece non si avvicinano a lui, non lo seguono, non gli parlano, non ne
ascoltano la risposta: non sono entrati nel mistero della conoscenza del Figlio,
non fanno parte della sua famiglia, non sono ancora con lui, ma contro di lui
(12,30).
gran parte del popolo di Dio. Ma non si tratta di un fallimento, bensì del
compimento di quanto predetto dai profeti. Dio l’ha previsto, facendo di esso il
La durezza di cuore di chi lo rifiuta e uccide alla fine non fa che compiere ciò
che la mano e la volontà del Signore avevano preordinato che avvenisse (At
4,28). Il male estremo dell’uomo sarà il luogo del dono estremo di Dio!
vuole che tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (1Tm 2,4).
Ma chi non lo accetta, non è abbandonato a sé, perduto per sempre. Per lui la
Parola è in parabole. Queste offrono il seme che germinerà quando chi non
362
beatitudine di chi vede il compimento della promessa: bisogna aprire il cuore,
avvicinano a Gesù: sono i destinatari dei misteri del regno. I vv. 13-15 parlano
13,10 Avvicinatisi, i discepoli gli dissero. I discepoli sono sua madre, fratelli e
volontà del Padre suo. Non “stanno fuori” (12,46), ma si lasciano coinvolgere
da lui.
perché parli loro in parabole? “Loro” sono gli altri, ai quali Gesù offre il seme
della Parola, anche se ancora non sanno sgusciarlo dalla pula della parabola. I
non parlare loro. Chi non vuole ascoltare, non è meglio inchiodarlo alla sua
discrezione propongono, in modo che chi vuol capire, se e quando vuole, può
363
chiedere spiegazioni. Chi non vuole, è libero di farlo. Ma gli è sempre aperto lo
v. 11 a voi. Sono i discepoli, che hanno deciso di essere “con lui” (12,30).
conoscere i misteri del regno dei cieli. È la conoscenza della volontà del
“mistero” esce solo qui nei sinottici, e significa il disegno di Dio nella storia
viverne, provocano il segno di Giona invece di seguire i segni che già hanno
ricevuto.
v. 12 a chi ha, sarà dato. I discepoli hanno fede: sono disposti ad accogliere.
Dio è dono senza fine: l’unica misura al suo dono smisurato è l’apertura del
nostro desiderio.
è una sazietà che non dà nausea né toglie appetito. Più uno desidera, più
a chi non ha, anche ciò che ha sarà tolto a lui. Chi non ha desiderio, non
ogni tenebra.
chiuso non desidera, è sordo e cieco; vede solo la proiezione delle sue
denunciare il peccato del popolo che non vuole convertirsi al Signore (Is 6,9-
364
10). C’è però un termine ad ogni male: la grande devastazione! Sarà quella
che toccherà in sorte a Gesù, “il legno verde” che porta su di sé la maledizione
di quello secco (Lc 23,31). Lui sarà il ceppo, la “progenie santa”, dalla quale
con l’udito udrete e non comprenderete, ecc. (Is 6,9-10). C’è un udire che non
perché il sordo non ode e il cieco non vede. Si tratta di chi ode e vede, ma non
cuore torpido e intontito, affogato nei propri interessi, che rendono gli orecchi
tardi all’ascolto e gli occhi chiusi alla luce. Il “cuore”, messo all’inizio e alla fine
Questa diagnosi che Gesù fa del nostro male è l’inizio della terapia.
v. 16s beati i vostri occhi perché vedono, ecc. A chi si avvicina a Gesù è dato
salutato solo da lontano (Eb 11,13). “Abramo, vostro padre, esultò nella
Gli occhi dei discepoli vedono perché riconoscono la propria cecità, i loro
orecchi odono perché avvertono le proprie sordità, il loro cuore capisce perché
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù con i suoi discepoli
c. chiedo ciò che voglio: la guarigione del cuore, degli occhi e dell’udito
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
i discepoli si avvicinano a Gesù
perché parli “loro” in parabole?
365
“a voi” è stato dato conoscere i misteri del regno di Dio.
a chi ha, sarà dato e sovrabbonderà
a chi non ha, anche ciò che ha sarà tolto
Gesù parla loro in parabole perché guardando non guardino, udendo non
odano né comprendano
così si compie la profezia di Isaia: il cuore grasso, gli orecchi pesanti, gli
occhi chiusi
convertirsi e guarire
beati i vostri occhi e i vostri orecchi.
366
55. UDITE VOI DUNQUE LA PARABOLA DEL SEMINATORE
13,18-23
“Udite voi dunque la parabola del seminatore”, ordina Gesù ai suoi discepoli.
Parola.
Gesù ha appena proclamato beati i discepoli perché odono e vedono (v. 16).
allegoria, l’impatto fortunoso e fortunato della Parola con il nostro cuore. Dopo
la parabola e i criteri per leggerla, ora c’è la lettura di essa nella propria vita.
367
“La parabola del seminatore” descrive l’avventura della Parola in ciascuno di
noi. È la stessa di Gesù, il Figlio dell’uomo che entra nel cuore della terra. La
terra è per il seme ciò che l’uomo è per la Parola: è madre, che l’accoglie e gli
dà vita.
I quattro tipi di terreno, più che quattro tipi di uomo, sono i quattro livelli di
sempre ci invadono. In parte però siamo anche terra bella, che produce frutto.
paure che pietrificano il cuore, gli egoismi che soffocano l’amore della verità e
Questa spiegazione va letta alla luce della parabola: come Gesù, nonostante
le difficoltà della semina, afferma la certezza del risultato, così noi siamo sicuri
del frutto sorprendente della Parola. Essa deve entrare e passare attraverso lo
368
Questa spiegazione non è “una scivolata moralistica” rispetto alla parabola
evangelica, quasi che il risultato dipendesse dal nostro sforzo. Il frutto è dono
di Dio - Dio stesso che si dona. Lui è il seme, e noi il suo campo. Siamo
da esse, e così accogliere ciò che lui ci vuole dare. In particolare chiediamo il
dono di quella fede che vince il mondo (1Gv 5,4), di quella speranza che non
delude (Rm 5,5), di quell’amore, effuso nei nostri cuori, che ci fa essere figli ed
Gesù è il seme seminato nell’uomo così com’è, per produrre ciò che lui stesso
è.
Chi non capisce questa, non può intendere le altre (cf Mc 4,13). È chiamata “la
parabola del seminatore”, che è Cristo: illustra la vicenda della sua parola in
noi, l’avventura sorprendente del Figlio dell’uomo nel cuore della terra, nel
v. 19 quando uno ode la parola del regno. L’espressione “la parola del regno”
ovvietà di cui viviamo. Il “si” dice, il “si” pensa (ma si pensa?) e il “si” fa - il
pensiero comune e gli infiniti sentieri del buon senso -, sono refrattari alla
Adamo in poi, non è secondo Dio, ma secondo satana, dirà Gesù a Pietro
dalla paura.
369
giunge il maligno e ruba ciò che è seminato nel suo cuore. Il maligno,
menzognero e omicida fin dal principio (Gv 8,44), impedisce l’ascolto della
parola di verità e di vita (Gv 8,43s). È chiamato anche “diavolo”, che significa
“divisore”: allontana il seme dalla terra, l’uomo da Dio. Fin dal principio, con la
sua menzogna, separò Adamo dalla Parola. Rubare la Parola è la sua attività
con la sua accoglienza di esso. L’uomo infatti si identifica con la Parola che
ascolta, non con le difficoltà che oppone. Si può dire che uno è l’accoglienza
credere. E proprio qui afferma il senso della parabola del seminatore: la fiducia
che il frutto verrà sicuramente. Infatti tutto ciò che viene da Dio vince il
5,4).
assedio di inviti. Proprio qui chiede a Dio il dono di una fede che cresca in
v. 20s quello su terreno sassoso, ecc. Il terreno sassoso, su cui cade il seme,
è il cuore del discepolo ancora pietrificato da varie paure. Accoglie con gioia la
370
Fatta la scelta di libertà, c’è la lotta di liberazione. Le difficoltà fanno uscire le
paure nascoste, costringendo a vincerle. Per questo Paolo si rallegra delle sue
una forza a tutta prova, e questa forza quella speranza che non viene mai
meno (Rm 5,3-5). Cadono le false speranze, e resta la sola che non illude né
Le difficoltà, alla fine, stanano le paure e frantumano ogni falsa speranza, per
v. 22 quello seminato tra le spine, ecc. Le spine sono la mondanità, che pur
vincere i falsi amori. Cristo, per il dono dello Spirito, diventa per lui la
v. 23 quello seminato sulla terra bella, ecc. Il dono della fede fa ascoltare la
permette che fruttifichi. I tre doni fanno del nostro cuore, lastricato di viottoli,
Adamo è molto bello (Gen 1,31): è la sposa di Dio, terra fatta per accogliere il
seme della sua parola. E il frutto sarà insperato: la terra germinerà la sua
verità (Sal 85,12), l’uomo sarà come il suo Signore, a immagine e somiglianza
sua. Per questo siamo fatti, e questo è venuto a portarci Gesù, il Figlio che con
3. Pregare il testo
371
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù solo con i suoi discepoli, che spiega la
parabola del seminatore
c. chiedo ciò che voglio: il dono della fede che mi fa accogliere la Parola, il
dono della speranza che la fa custodire, il dono dell’amore che la fa fruttificare
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
la parabola del seminatore
il seme è la parola del regno
il seme caduto sulla strada, e sua sorte
il seme caduto su terreno sassoso, e sua sorte
il seme caduto tra i rovi, e sua sorte
il seme accolto in terra bella, e suo frutto.
30; 9,9.
372
56. LASCIATE CHE CRESCANO AMBEDUE INSIEME
13,24-30
“Lasciate che crescano ambedue insieme”, dice il Signore a chi gli propone di
373
da una pianticella di frumento; poi si radica così bene che, strappandola, si
sviluppo (vv. 20-22). Il bene deve fare i conti con un parassita ineliminabile: il
male. Esso non solo è fuori, ma anche dentro la comunità e nel cuore di
ciascuno.
semina con cura il bene, il nemico con astuzia semina il male. Per questo c’è
Il trionfo del bene sarà solo alla fine, e per opera di Dio. Prima è il tempo
della pazienza, nostra e sua, che vede il male nostro e altrui come luogo di
misericordia diventiamo figli del Padre, che fa piovere sugli ingiusti e sui giusti
e fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni (5,45.48). Dio, se nel bene si
rivela come dono, nel male si rivela nella sua essenza più intima e propria:
Il male non guasta il bene, ma collabora al suo pieno trionfo: non è per la
tutti Dio vuol usare misericordia (Rm 11,32). E, dove abbonda il peccato, lì
374
Dio lascia le zizzanie perché conosciamo lui come grazia, diventando noi
sua vittoria, nel pieno rispetto della libertà nostra, ma anche della sua.
La parabola non è da leggere alla luce della spiegazione che segue (vv. 36-
Questa a sua volta va vista nel contesto immediato, in cui si parla delle
difficoltà che incontra il bene (in particolare cf vv. 18-22) e della piccolezza e
male (cf Rm 7,14-25). Il popolo di Dio è sempre santo e peccatore - anzi più
peccatore che santo! Eppure è “questo” il mondo che Dio ha tanto amato da
La parabola si divide in tre parti. I vv. 24-26 parlano della doppia semina,
prima del bene e poi del male. I vv. 27-28a contengono la domanda dei
discepoli e la risposta di Gesù: le zizzanie sono seme del nemico (cf Gen 3). I
13,24 Un’altra parabola propose loro, ecc. Nella parabola precedente aveva
parlato del seme buono, che incontra difficoltà. Ora parla del seme cattivo, dal
quale esse provengono. Se prima ha detto che nel bene inevitabilmente c’è il
male, ora dice da dove esso viene e come atteggiarsi nei suoi confronti. La
375
v. 25 mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico, ecc. Il “nemico”
subdolo e inavvertito.
egoismo. Nella stessa terra ( = Adam = homo!), oltre il seme del regno, c’è
Il male costituisce da sempre problema: da dove viene, e che fare con esso?
Non è solo nel campo accanto, ma anche nel “nostro”, addirittura dentro di
me. Proprio quando cerco il bene, lo trovo accovacciato alla mia porta, e si
sembra addirittura buono, bello e desiderabile (Gen 3,6). Solo dopo si svela
v. 27 Signore, non hai seminato seme bello nel tuo campo? Il male è una
sorpresa negativa, della quale si incolpa un altro, l’Altro. Già Adamo fin
dall’inizio incolpò Eva e Dio stesso (cf Gen 3,12). Perché il male? Dio è forse
dalla croce.
domanda: da dove viene? Qual è la sua origine? Come mai la realtà non è
376
v. 28 un uomo nemico fece questo. Il male non ha come principio Dio: non
sarebbe Dio. Né si può negarlo, perché c’è. Né si può identificarlo con l’uomo:
non c’è, o che è un gradino verso un bene maggiore. Altre volte si cerca di
male stesso.
v. 29 no! È la risposta del Signore alle nostre proposte. I nostri limiti e i nostri
radici delle zizzanie sono così forti e diffuse che, chi le sradica, sradica il grano.
longanime e di grande amore, che si lascia impietosire (Gn 4,2). Chi è spietato,
Dio, davanti al male, si rivela per quello che è: amore senza condizioni. La
sua compassione è l’unico “solvente” utile. Non interviene con ira, perché è
Dio e non uomo (Os 11,9). La collera dell’uomo non compie la sua giustizia (Gc
diventare “grano”, simili a Dio che non giudica, non condanna, ma assolve,
fatto il mondo bello, il male, alla fine, è l’occasione per renderlo migliore. O
377
felix culpa! Non per questo dobbiamo peccare (Rm 3,8; 6,1s.15); dobbiamo
però conoscere nel peccato la sovrabbondanza della sua grazia (Rm 5,20).
al momento della mietitura, ecc. Solo alla fine il male sarà tolto, ma dal
giudizio di Dio, così diverso dal nostro! Il presente è lasciato a noi per
anticipare, nella nostra, la sua misericordia. Questo è il senso della nostra vita
e della nostra storia. Alla fine Dio brucerà il male, salvando tutti attraverso il
fuoco del suo amore (cf 1Cor 3,13-15). E noi saremo giudicati dal nostro stesso
giudizio, misurati col nostro metro: la misericordia che avremo usata sarà la
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che parla ai discepoli
c. chiedo ciò che voglio: diventare misericordioso come il Padre
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
mentre gli uomini dormivano
venne il nemico
seminò zizzanie in mezzo al grano
apparvero le zizzanie
Signore, non hai seminato seme bello?
da dove le zizzanie?
un nemico fece questo
vuoi che andiamo a raccoglierle?
no! raccogliendo le zizzanie si strappa il grano!
lasciate che ambedue crescano insieme!
solo alla fine il male sarà bruciato.
4. Testi utili: Sal 130; 136; Rm 7,14-25; 11,11-36; Mt 5,43-48; 6,14s; 7,1-5;
18,21-35; Lc 6,36-38.
378
57. APRIRÒ LA MIA BOCCA IN PARABOLE TIRERÒ FUORI
13,31-35
“Tirerò fuori cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”, dice Gesù
concludendo le parabole per la folla, prima di entrare in casa coi suoi discepoli
(v. 36). I misteri nascosti da sempre, che Gesù rivela con la vita ed espone con
32), anzi “immondo” (v. 33), perché il regno, che con lui è iniziato, ha raccolto
379
attorno a sé poca gente, e che gente - una insignificante cerchia di persone,
Padre si realizza nella storia del Figlio che passa attraverso il male dei fratelli,
immolato, predestinato prima della creazione del mondo (cf 1Pt 1,20).
Attraverso di lui Dio compie la salvezza degli uomini, eletti ed amati già prima
della creazione del mondo (Ef 1,4) con un amore che nessuna acqua può
Il brano presenta due parabole simmetriche, quella della senape e quella del
lievito (vv. 31-32.33), con una interpretazione generale delle parabole (vv. 34-
In questo brano Gesù gioca sul contrasto tra la piccolezza del seme e la
Le due immagini, forse usate con ironia dagli avversari di Gesù, sono da lui
fermenterà il mondo.
gloria futura. Ma tra le due c’è continuità misteriosa e vitale, come tra seme e
pianta, tra fermento e pasta viva. “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile
e disprezzato e ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor
380
1,28). Israele stesso fu scelto non per sue qualità presunte o reali, ma perché
“è il più piccolo tra i popoli della terra” (Dt 7,7). Non è un capriccio di Dio. È
invece una necessità sia per noi che per lui. Per noi, perché siamo piccoli; e
così veniamo liberati dal delirio di grandezza. Per lui, perché è amore; e
infine, come la storia presente, ancora sotto il segno del male, avrà un esito
ora e sempre, il “suo” segno (cf 24,30). I trionfalismi, che contrappongono gli
Gesù è il chicco di senape, preso e gettato sotto terra, il più piccolo dei semi,
che germinerà nel grande albero della croce. È il lievito, preso e nascosto nella
piccolezza e impurità della croce: legge in essa l’arcano di Dio, ora e sempre.
13,31 Simile è il regno dei cieli a un chicco di senape. Il regno dei cieli è
che un uomo prese e seminò nel suo campo. Il mondo è campo di Dio, e il
381
v. 32 è il più piccolo tra tutti i semi. Non c’è piccolezza maggiore di quella di
Dio: è tanto piccolo e invisibile che uno può anche dire che non c’è. Il “tsim-
tsum” è la caratteristica del Creatore che si restringe per fare spazio alla sua
creatura. Dio non è come l’idolo - grande, fascinoso e tremendo (Dn 2,31).
quando è cresciuto, è più grande degli altri ortaggi. La grandezza del regno
non è un trionfo futuro che rimedia alla piccolezza presente: è quella della
regno, che tutti alla fine, battendosi il petto, vedranno (24,30): il più grande è
proprio colui che si è fatto il più piccolo di tutti (cf Lc 9,48; 22,26s). E così sarà
sempre: il Signore è con noi fino alla fine del mondo (28,20) nella carne del
del regno, preparato per noi “fin dalla fondazione del mondo” (25,34).
Se, mentre leggiamo il vangelo, lui si presentasse a noi così com’è, non ci
accorgeremmo che quel disgraziato che ci disturba è lui, il più piccolo di tutti!
Gli diremmo con disappunto: “Torna un’altra volta!” Forse per questo non è
ancora tornato?
diventa albero, così che vengono gli uccelli del cielo, ecc. È l’albero della
trovano casa gli uccelli del cielo, simbolo dei popoli. Il centurione pagano sarà
separazione tra Dio e uomo e degli uomini tra loro (Ef 2,14-18): fa di tutti un
La forza di Dio non è quella del destriero, gettato nel mare col suo cavaliere
(Es 15,1): è quella dell’asinello (21,5; Zc 9,9), che porta i nostri pesi (cf Gal
6,2). La sua gloria non è quella dell’aquila superba e predatrice (Dt 32,11): è
quella umile della gallina che cova i pulcini (Lc 13,34). La sua grandezza non è
382
quella dei più alti cedri (Ez 17,22s): è quella del legno della croce, dove gli
uccelli trovano nido. Così tutti gli alberi della foresta conoscono “chi” è il
Signore - colui che umilia l’albero alto e innalza l’albero basso, fa seccare
l’albero verde e fa germogliare l’albero secco (Ez 17,23s). Lui stesso è il legno
verde che si fa secco per bruciare le nostre iniquità e comunicare a noi la sua
Rispetto alle attese dell’uomo, il regno di Dio suona sempre in tono minore -
è il suo!
v. 33 simile è il regno dei cieli a del lievito. Il regno di Dio è libero da ogni
Nella Pasqua del Signore, chi non mangia pane azzimo, sia fatto scomparire
di Dio è quella dell’amore: misericordia che si mischia con ogni miseria. La sua
di ogni debolezza e colpa (8,17). Cristo, nostra pasqua (1Cor 5,7), si è fatto per
noi lievito, maledizione e peccato (cf Gal 3,13; 2Cor 5,21): è l’Agnello che
che una donna prese e nascose in tre misure di farina. Prima un uomo che
albero della croce, quel pugno di impasto andato a male, preso e nascosto in
tre misure di farina, è il Cristo sepolto: nascosto per tre giorni nel cuore della
terra, la lieviterà di vita nuova, libera dal vecchio lievito di malizia e perversità
(1Cor 5,7s).
preso, gettato e nascosto - esposto sulla croce e deposto nel sepolcro. La sua
383
v. 34 tutte queste cose raccontò Gesù in parabole alle folle, ecc. Riprende il
compie quanto è scritto nel Sal 78,2. Anche i Salmi sono citati come i Profeti:
aprirò la mia bocca in parabole, tirerò fuori cose nascoste, ecc. Sotto il velo
delle parabole Gesù esprime il mistero, nascosto a tutti, della passione di Dio
per l’uomo. In lui esce allo scoperto il segreto del cuore di Dio, perché chi
E chi non vuole intendere? L’uomo è di sua natura “ascoltatore della Parola”.
fondazione del mondo, e ora rivelata in Gesù per la nostra gloria (1Cor 2,7). In
lui vedremo ciò che mai entrò in cuore d’uomo (1Cor 2,9): proprio ciò per cui il
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù che parla alle folle
c. chiedo ciò che voglio: capire il mistero della “minimità” e dell’“impurità” di
Dio
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
chicco di senape
un uomo prese e nascose nel suo campo
il più piccolo fra tutti i semi
più grande di tutti gli ortaggi
albero dove vengono a nidificare gli uccelli del cielo
lievito
una donna prese e nascose in tre misure di farina
fermenta tutto
senza parabole non parla alle folle
con esse rivela a tutti le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.
4. Testi utili: Sal 27; Ez 17,22-24; Dn 2,31-35; 4,1-34; 1Cor 1,22-31; Fil 2,5-
11
384
58. COSÌ SARÀ AL COMPIMENTO DEL MONDO
13,36-43
“Così sarà al compimento del mondo”, dice Gesù: brilleranno due fuochi,
quello delle zizzanie che bruciano come immondizie, e quello dei giusti che
Il giudizio di Dio è solo alla fine, non ora, ed è fatto da lui, non da noi. Il
385
La spiegazione della parabola, richiesta dai discepoli (v. 36), si divide in due
parti: i vv. 37-39 sono un vocabolario dei sette elementi simbolici; i vv. 40-43
La comunità, dopo aver capito che bisogna avere comprensione con tutti (v.
29), avverte un problema: con questa “legge di libertà” (Gc 2,12) non si rischia
il disimpegno? Se Dio perdona comunque, si può fare ciò che pare e piace,
insensato. Sarebbe come dire: “Mia madre mi vuol bene e non si vendica.
Questi versetti, come poi i vv. 48-50, sono un richiamo alla responsabilità
personale: dobbiamo non giudicare gli altri per non essere giudicati, usare
comunità cristiana non è una setta di giusti, non è neppure una banda di
legge. Non c’è posto per lassismo o immoralità, torpore o tiepidezza. Ogni
Nella Chiesa, come nel mondo, ci sono sempre le zizzanie col buon seme: al
presente il regno del Figlio dell’uomo resta aperto a tutti gli uomini, suoi
fratelli. Ma, nel futuro definitivo, il regno del Padre sarà solo per i figli, quelli
parte della Chiesa non creda di essere già nel regno del Padre: lo è solo nella
386
Grazia e libertà, dono e responsabilità, azione di Dio e dell’uomo, non vanno
regno, quello del Figlio, sono accolti tutti così come sono, perché fratelli.
regno del Figlio, non ancora quello del Padre. Per entrare in questo bisogna
proprie!
spiegata a quelli che sono “in casa”, nella Chiesa. Questa è esposta a due
pericoli opposti: diventare una setta di giusti che non ha misericordia verso gli
propria impunità.
costante con quanto lui ha detto e fatto, ci preservano dal duplice pericolo.
Non basta l’intimità di chi dice: “Signore, Signore”, ma non conosce e non fa la
spiega a noi, ecc. Gesù è l’unico maestro (23,8). A noi spetta essere discepoli
che ascoltano, capiscono e fanno quanto lui dice e spiega. La parola che
del regno (v. 19). La Parola è lui stesso, che diventa segno definitivo nel suo
farsi seme, sepolto per tre giorni nel cuore della terra (12,40).
387
v. 38 il campo è il mondo. Tutto il mondo, non solo la comunità (cf 1Cor 3,9),
è campo di Dio.
il seme bello sono i figli del regno. I figli del regno sono quelli che ascoltano
le zizzanie sono i figli del maligno. L’uomo diventa figlio di colui che ascolta.
diventa figlio del maligno. Costui non “fa” qualcosa: semplicemente “ruba” la
Parola (v. 19) con una parola veri-simile, simile al vero ma non vera. In noi c’è
Fin dal principio divide l’uomo dalla Parola: gli sottrae la sua verità con la
menzogna.
mietitura, il tempo in cui il seme diventa pane e gioia. Sarà quando Dio avrà
compiuto nel mondo l’opera sua, il suo capolavoro: il volto del Figlio. Solo
termine. Alla fine resisterà solo l’amore, che mai ha fine (1Cor 13,8). Il fuoco di
Dio renderà allora manifesta l’opera di ciascuno: la paglia del nostro egoismo
sarà bruciata, e ciò che è prezioso resisterà (cf 1Cor 3,12-14). È un richiamo a
vivere il presente con responsabilità: per non essere zizzanie, bisogna usare
388
raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli operatori di iniquità. Nel
“suo” regno ci sono scandali e iniquità. La Chiesa è il regno del Figlio, non
ancora quello del Padre (v. 43). Abbraccia necessariamente insieme grano e
zizzanie, pesci buoni e cattivi. Chi non è misericordioso coi cattivi, è lui stesso
cattivo, scandalo per gli altri, operatore di iniquità, che non fa la volontà del
Padre.
v. 42 li getteranno nella fornace ardente (Dn 3,6). I tre giovani, che non si
fuoco alla fine brucerà il nemico, che lo aveva preparato per i giusti (Dn 3,22).
Il compimento del mondo sarà con un fuoco: il fuoco dello Spirito di Dio, amore
lì sarà pianto e stridore di denti (8.12; 22,13). Il male non trionfa: finisce in
Chi ascolta la Parola diventa come il Padre (5,48): riluce della sua gloria, come
il Figlio trasfigurato.
nel regno del Padre loro. Se il regno del Figlio necessariamente accoglie tutti
come fratelli, quello del Padre raccoglie solo i figli - quanti si saranno fatti
fratelli di tutti.
Ciò che in noi non sarà filiale e fraterno, scomparirà. Allora ci copriremo di
chi ha orecchi, continui ad ascoltare (cf v. 9). A chi ascolta sarà dato
conoscere i misteri del regno; e più ha, più gli sarà dato (vv. 11s).
3. Pregare il testo:
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù in casa con i discepoli
c. chiedo ciò che voglio: vivere ora ciò che alla fine vorrei aver vissuto
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
Gesù è in casa e i discepoli gli si avvicinano e lo interrogano
il seme bello, il Figlio dell’uomo, i figli del regno
389
le zizzanie, il diavolo, i figli del maligno
la mietitura, il compimento del mondo, gli angeli
i giusti nel regno del Padre.
4. Testi utili: Sal 97; 94; 96; Sap 1-5; 1Cor 3,12-15; Gc 2,14-26; 2Pt 3,1ss.
390
59. PER LA GIOIA DI ESSO, VA E VENDE TUTTO QUELLO
13,44-52
“Per la gioia di esso, va e vende tutto quello che ha e compera quel campo”.
391
la forza per decidersi per il regno, tesoro da vivere con coerenza e da
trasmettere adeguatamente.
differenze che illuminano aspetti diversi dell’unico tema: decidersi per ciò che
della bellezza del regno - e pongono l’accento sul “vendere tutto” per
Non basta cercare o trovare: occorre decidere. Chi vuol tenere il piede in due
finalmente verso la felicità. Chi si sposa, non è preso da tristezza per i possibili
Per questo Dio ci dà gioia: per farci decidere. E per questo il nemico fa di
Ognuno è chiamato a vivere in prima persona il tesoro della vita filiale (cf vv.
intelligente e completo.
È vero che la Chiesa non è una setta di giusti: è la grande rete, gettata nel
mare, che pesca i fratelli dall’abisso. Guai se non fosse così! Ma chi ha
ottenuto misericordia, la vive con impegno nei confronti degli altri. La bontà di
come lui!
392
compimento. È quanto fa con scrupolo Matteo: scrivendo il suo vangelo,
tolto solo da Cristo (2Cor 3,14-16). La Bibbia è il tesoro di famiglia, dal quale, a
tempo debito, lo scriba, amministratore fedele dei misteri del regno (24,45),
distribuisce a ciascuno la sua razione di cibo. Beato quel servo che il Signore,
numero di quelli che chiudono il regno dei cieli davanti agli uomini: non vi
trova, sia che non lo cerchi come il contadino, sia che lo cerchi come il
mercante. Il Signore, come si fa trovare da chi lo cerca (cf Is 66,6), così dice:
“Eccomi!”, facendosi trovare anche da chi non lo cerca (cf Is 65,1). Lui è la
perla preziosa; del resto si servono tanto quanto piace a lui. Ognuno è
13,44 Simile è il regno dei cieli a un tesoro. Ogni uomo ha nel cuore la luce di
un desiderio, una promessa di felicità che lo tiene vivo. Lo sappia o no, è alla
Sapienza, la parola di Dio che gli dice cosa fare per avere pienezza di vita (Pr
2,4; 3,14; 8,11.18s.21; Gb 28,15-19). “La legge della tua bocca mi è preziosa
più di mille pezzi d’oro e d’argento” (Sal 119,72). Di essa “gioisco come uno
393
che trova grande tesoro (Sal 119,162). Il grande tesoro, Sapienza perfetta del
nascosto nel campo. Il campo è il mondo intero (v. 38), la nostra storia, il
nostro cuore. Ogni uomo è figlio nel Figlio: in ognuno c’è l’uomo nascosto del
perderlo: non è suo fino a quando non ha investito in esso quanto possiede.
per la gioia di esso. La tristezza blocca, la gioia muove ogni decisione. Essa è
L’amore porta a de-cidere: taglia via ciò che non conta per amore di ciò che
conta. Solo una grande passione rende indifferenti al resto. Non perché tutto
perda significato, ma perché tutto finalmente ha il suo senso. Ciò che prima
era una palla al piede, ora serve per conseguire ciò che sta a cuore.
campo c’è da vendere tutto. Non che venga buttato via: viene investito per
acquistare ciò che vale. Uno non “perde” niente; anzi guadagna tutto.
fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù, suo Signore, Paolo considera
perdita quanto prima vedeva come affare: è stato conquistato da lui e corre
contadino che fa il suo lavoro quotidiano, qui un intenditore che sa quello che
cerca, anche se non l’ha mai visto. L’ha solo intravisto nel brillare di ogni luce,
394
Il tesoro è dato a tutti, come al contadino. Ma anche tutti, come il mercante,
meno, una bellezza unica che ha stregato da sempre il suo cuore: “Ci hai fatti
per te, Signore, ed è inquieto il nostro cuore fino a quando non riposa in te”.
L’insaziabilità del nostro desiderio - fame che niente placa - testimonia che il
nostro appetito è infinito, è dell’Infinito. “Colui che è capace di Dio, non può
essere riempito da nulla che sia meno di Dio stesso”. L’uomo è desiderio.
appaga.
v.46 trovata una perla di grande valore, andò e vendette, ecc. Qui i verbi
sono al passato. Si sottolinea il fatto più che l’azione: c’è già chi ha deciso. Chi
parla l’ha fatto: la sua gioia non si è tramutata in lutto, e invita alla stessa
v. 47 è simile il regno dei cieli a una rete, ecc. Il regno è simile, oltre che a un
seme che germina, anche a una rete che tira fuori l’uomo dall’abisso e lo porta
pescatore (4,19): pescando i fratelli dalla morte, diventa lui stesso figlio,
Chiesa non sceglie chi è bravo, bello e buono: accoglie tutti nel suo seno. Non
può essere che così (cf vv. 24-30.36-43). Se nego la fraternità a un figlio di
v. 48 quando fu riempita. La rete è piena solo alla fine, non prima. E la fine
avrà “pescato” tutti gli uomini. Allora il Figlio, che sarà l’ultimo ad essere
pescato, consegnerà il regno al Padre, e Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,24.28).
395
stesso, qui e ora: sarò misurato secondo la misericordia che avrò accordato
agli altri. Se ho capito la misericordia, non mi prendo gioco della bontà di Dio
(Rm 2,4), non ne faccio il paravento della mia malizia (1Pt 2,16), pretesto alla
mia empietà (Gd 4). Il Signore usa pazienza e aspetta che tutti ci convertiamo
per avere verso gli altri la stessa pazienza di Dio, parlando e agendo come uno
che deve essere giudicato secondo una “legge di libertà” - dove il giudizio sarà
v. 49s così sarà al compimento del mondo, ecc. (cf vv. 30.40-42). Allora ci
sarà la “separazione”, e saremo misurati con il metro che avremo usato verso
gli altri, giudicati col nostro stesso giudizio (7,2). Se avremo avuto
misericordia, splenderemo come il sole nel regno del Padre (v. 43). Allora in
Tutto ciò che non è misericordia, sarà bruciato nel fuoco del giudizio di Dio -
queste cose” vanno capite, nessuna esclusa, sia la grazia che la libertà, sia il
che deve, eliminando uno dei due aspetti della realtà ( essere semplici non è
cose” sono i vari aspetti del mistero della croce - tesoro e perla in cui investire
396
intelligenza e completezza. Responsabilità, in misura diversa, comune a
ciascuno: volesse il cielo che tutti fossimo scribi nel popolo di Dio (cf Nm
11,29)!
tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Il tesoro è Cristo. In lui è
nascosto ogni tesoro della sapienza e della scienza, abita corporalmente tutta
novità, che è lui, il “nuovissimo”, l’Omega perché l’Alfa di tutto. Alla sua luce
le Scritture! È lui che toglie il velo alla lettura dell’AT (2Cor 3,14).Le cose
di Gesù.
C’è inoltre sempre una novità, che germoglia proprio ora, non te ne accorgi
(25,40.45). Lo scriba, alla luce di ciò che sa, lo riconosce e aiuta gli altri a fare
altrettanto.
La tradizione di ciò che è antico vive per l’interpretazione di ciò che è nuovo.
3. Pregare il testo
a. entro in preghiera come al solito
b. mi raccolgo immaginando Gesù in casa che parla ai suoi discepoli
c. chiedo ciò che voglio: la gioia di decidere per lui, di vivere la sua
misericordia e di trasmetterla agli altri
d. traendone frutto, medito il testo
da notare:
tesoro nascosto nel campo
per la gioia, va, vende tutto quello che ha e compera quel campo
397
il mercante che cerca perle belle
la perla di grande valore
la rete gettata in mare, che mette insieme tutti
il compimento del mondo come distinzione e trionfo del bene
avete capito tutte queste cose?
lo scriba discepolo tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
4. Testi utili: 1Re 3,5-12; Sal 119,65-80; Pr 1-4; 8-9; Mt 9,9; 15,16-30; Lc
“Non c'è profeta disprezzato se non nella patria e nella casa sua”, dice
Gesù constatando l'incredulità di quelli di Nazareth.
398
Il rifiuto di parte dei suoi apre una nuova sezione (13,53-17,27), nella
quale si traccia l’itinerario dall’incredulità alla fede, con il passaggio obbligato
attraverso il dubbio, che sempre accompagna sia l'una che l'altra.
Il succedersi dei fatti è sostanzialmente uguale a Mc 6,1-9,32, con un
rilievo maggiore dato a Pietro. La cosa è comprensibile se si pensa che Marco
si rifà alla sua predicazione (la modestia è una virtù, tanto rara quanto
difficile da contraffare).
Si approfondisce sempre di più il solco che divide la folla dai discepoli: c’è chi rifiuta e chi si lascia
coinvolgere nel cammino di Gesù. La fede cristiana consiste nell’accettare non solo il suo messaggio
e la sua opera, ma soprattutto la sua persona. Gesù non è il fondatore di una religione, come Mosè,
Budda o Maometto; non è il maestro di una dottrina o di una morale che può stare anche senza di
lui. Lui è il Signore, la vita e la sapienza: il racconto della sua storia ce lo rivela e ce lo offre da
amare e da seguire. Accettare lui, nella sua umanità, è avere lo Spirito di Dio: “Ogni spirito che
riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio, e ogni spirito che non riconosce Gesù,
non è da Dio” (1Gv 4,2s). La fede cristiana non è un'idea o una legge, ma un individuo concreto:
Gesù. Questo è lo scandalo e beato chi non si scandalizza di lui (11,6).
Gesù non fu accettato dai suoi a causa della sua carne. La prima eresia, sempre latente nella
Chiesa, è lo gnosticismo, che non accetta la debolezza della sua umanità, e della sua umanità
crocifissa. Questa è la radice stessa della fede, sempre insidiata, al presente come al passato. Le
prime eresie sono anche le eresie prime di ogni epoca. Anche oggi varie forme di misticismo e di
teologie sincretistiche si scandalizzano del fatto che l’Onnipotente parli ed entri nella storia di tutti
attraverso la storia singola e personale di Gesù. Svuotano così la salvezza di Dio, non riconoscendo
la sua carne e la sua croce, salvezza di ogni carne e di ogni croce. “Ciò che non è assunto, non è
redento”, suona fin dall'inizio il principio di ogni teologare cristiano. “Cardo salutis caro”: la sua
carne è il cardine della salvezza.
Il cristianesimo è amore per Gesù, il Crocifisso, sapienza e potenza di Dio (cf. 1Cor 1-3).
“Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato” (At 2,21). “In nessun altro nome c'è
salvezza” (At 4,12), neanche per i teologi più illuminati o abbagliati. Solo in lui, il Figlio,
diventiamo ciò che siamo: figli che entrano a far parte della famiglia del Padre. Altre figure insigni,
idee brillanti o ascesi allucinanti, giovano se aiutano a conoscere e amare lui. Altrimenti non
giovano a nulla, se non a perdersi. Noi vogliamo essere come Dio; ma rifiutiamo un Dio che sia
come noi. Ed è proprio questo che ci salva!
Il rifiuto di Nazareth, dietro il quale si profila quello di parte di Israele,
rimane profezia perenne per la Chiesa (cf. Rm 11,10s): ciò che è capitato ai
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nostri padri, è per noi un esempio da non dimenticare, perché non ci avvenga
di peggio (cf. 1Cor 10,6).
Gesù crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani, è sapienza
e potenza di Dio (1Cor 1,23s) che salva tutti. Tutto infatti, creato per mezzo di
lui e in vista di lui (Col 1,16), trova la propria identità in lui, vita di ciò che è
(cf. Gv 1,3b-4).
La Chiesa non divida ciò che Dio ha unito (cf. 19,6). La prima tentazione
“diabolica” è dividere la Parola dalla carne, ottenendo una parola vuota e una
carne senza senso.
v. 53: E, quando Gesù finì queste parabole, ecc. È il finale stereotipo dei
discorsi di Gesù. Lo scenario delle parabole è il lago di Galilea, nei dintorni di
Cafarnao, centro della sua attività prima del viaggio a Gerusalemme.
v. 54: venuto nella sua patria. Gesù torna a Nazareth, dove Giuseppe si
era ritirato al suo ritorno dall'Egitto (2,23). Qui sperimenterà un paradosso più
frequente di quanto pare: proprio i suoi lo rifiutano (cf. Mc 6,1-6a; Lc 4,16-30).
li ammaestrava nella loro sinagoga. Nella sinagoga di Nazareth Gesù
aveva imparato la Parola; ora insegna come persona nota per ciò che ha
compiuto altrove (Lc 4,23). La sinagoga è “loro”: ormai la chiesa di Matteo si
è distanziata da essa.
così che erano colpiti. C’è uno stupore iniziale che, invece di aprirsi al
mistero, si chiuderà nel pregiudizio. La meraviglia è principio di sapienza. Chi
non si stupisce, non capisce nulla di nuovo, ossia non capisce.
donde a costui questa sapienza e i miracoli? Quelli di Nazareth si fanno la
domanda giusta. Ma non sono disposti ad accettare una risposta, che metta
in questione quanto sanno. Riconoscono la sapienza e i miracoli; sono un dato
di fatto. Ma escludono a priori che la sapienza e la potenza di Dio possa
essere in “costui”, che conoscono bene!
Se fosse uno che ha studiato o praticato particolari ascesi, se fosse un
sapiente o un santone, non si sarebbero meravigliati: avrebbe le carte in
400
regola e l'avrebbero accolto. Ma come può Dio manifestarsi in questo uomo,
normale e ordinario, in tutto simile agli altri.
Noi vorremmo essere simili a Dio, come lo immaginiamo noi; ma non
accettiamo un Dio simile a noi. Vorremmo lui e noi diversi da quello che
siamo – e l’origine del male è proprio non accettare la realtà.
Noi, per lo più, crediamo in lui perché non lo abbiamo visto, e lo pensiamo
come più ci piace. Ma se lo vedessimo così com'era, gli crederemmo? Se
venisse ora qui, mentre leggo il vangelo, lo riconoscerei (cf. 25,40-45)? I
sapienti cercano la sapienza e i religiosi la potenza; ma lui è un uomo che
finirà in croce! Quel Dio che ognuno pensa sapiente e potente a modo suo, e
che nessuno mai ha visto, si è manifestato proprio nella carne di Gesù, unica
“notizia di Dio” che lo rivela pienamente a tutti.
v. 55: non è costui il figlio del falegname? In realtà non lo è (cf. 1,18-25).
Si danno per ovvie cose che non sono vere. Per la mentalità comune, se Gesù
fosse figlio di un qualche personaggio insigne, sarebbe più credibile. Ma è
figlio di un falegname, falegname lui stesso (Mc 6,3): cosa pretende di
essere?
sua madre non si chiama Maria? Si possono conoscere cose vere, senza
capirne il mistero.
i suoi fratelli, ecc. La tradizione cristiana ha ritenuto che questi fratelli
sono cugini, usualmente chiamati con tale nome, o, al massimo, i figli di un
precedente matrimonio di Giuseppe. Nel secolo scorso, per pregiudizio contro
la verginità, si fece strada l’opinione che Maria avesse avuto altri figli. La
ricerca della verità, come si sa, è sempre pregiudicata dai propri interessi.
v. 56: donde a costui dunque tutte queste cose? Si ribadisce
l’interrogativo, che non trova risposte plausibili, perché inciampa contro la
carne di Gesù, che si può conoscere solo nello Spirito (cf. 2Cor 5,16). Si
scandalizzano che “queste cose” divine siano in “costui”, che conoscono. Se
fossero in un altro, ci si potrebbe pensare! Lo scandalo è l'umanità di Gesù!
Ma l'incarnazione, principio di salvezza, è il centro della nostra fede.
v. 57: si scandalizzavano di lui. Accettare o meno la sua umanità è
accogliere o meno il dono di Dio. In lui abita corporalmente tutta la pienezza
della divinità (Col 2,9)!
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non c’è profeta disprezzato se non nella patria. È forse un proverbio col
quale Gesù cerca di “giustificare” il rifiuto dei suoi. Si tende a svalutare ciò
che si conosce: si concede margini di mistero solo a ciò che si ignora! La
persona religiosa, in modo particolare, è propensa a volare verso un finto
ignoto, pur di non scomodarsi a mettere in questione il già noto. Per pigrizia
mentale è facile ridurre tutto a ciò che già si sa.
v. 58: non fece lì molti miracoli a causa della loro incredulità. Il miracolo è
connesso con la fede, che addirittura lo strappa (cf. il centurione: 8,10.13; il
paralitico: 9,2; l'emorroissa: 9,22; la cananea: 15,28). Essa, mettendoci in
contatto con il Signore, provoca lo “scambio” tra lui e noi. Dove manca,
manca il contatto. Si tratta di un atto libero, che suscita la meraviglia del
Signore. Il nostro “sì”, come pure il nostro no, produce qualcosa di inedito e
meraviglioso anche per lui: ha il potere di stupirlo (cf. 8,10; Mc 6, 6). Il
miracolo avviene in ultima istanza per la nostra fede; essa stessa è il grande
miracolo, principio di salvezza.
3. Pregare il testo
Da notare:
• Gesù viene nella sua patria e insegna nella sinagoga
• donde a costui questa sapienza e miracoli?
• il figlio del falegname,
• sua madre Maria, i suoi fratelli e le sue sorelle
• si scandalizzavano di lui
• non c'è profeta disprezzato se non nella patria a casa sua
• non fece molti miracoli a causa della loro incredulità.
4. Testi utili
Sal 119 (sostituendo “Gesù” dove si trova “parola, legge, precetto, decreto,
ecc.); Mc 3,20-34; 6,1-6a; Lc 4,16-30; 1Cor 1-3; Rm 11,1ss.
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61. I SUOI DISCEPOLI LEVARONO LA SPOGLIA
E LA SEPPELLIRONO
14,1-12
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“I suoi discepoli levarono la spoglia e la seppellirono”. È la sorte del
profeta in patria. Ma la sua storia non finisce nel sepolcro. Giovanni precede
Gesù di un passo. Come ne ha anticipato il messaggio (3,12=4,17), ora ne
prefigura il martirio. I due hanno lo stesso amore, gli stessi nemici e lo stesso
destino.
Il brano è un flash-back, che partendo dalla risurrezione, racconta la
passione del Battista. Egli, anche dopo la morte, è vivo più che mai, in tutto
simile al Signore che ha preannunciato. La sua vita ne è profezia compiuta:
nel martirio il profeta si identifica con la Parola di cui è testimone.
Il racconto è posto dopo il rifiuto di Gesù da parte dei suoi (13,57) e prima
del fatto dei pani (vv.13-21): il banchetto della morte precede quello della
vita. Come Giovanni, anche Gesù sarà rifiutato, ucciso e nascosto nel cuore
della terra. Proprio lì il suo “corpo dato per noi” sarà seme che germoglierà
pane per tutti.
Il banchetto di Erode, che termina con la deposizione del giusto nel
grembo della terra, è visto come la semina del seme di vita..
Siamo all'interno della sezione che porta a riconoscere il Cristo, Figlio di
Dio (16,16). I due banchetti, uno nel palazzo, riservato ai potenti, e l'altro nel
deserto, aperto agli umili, rappresentano due modi opposti di vivere. Uno
taglia la testa a chi dice la Parola, l'altro vive di essa; il primo festeggia la vita
con una danza macabra di morte, il secondo fa fiorire il deserto e riempie la
notte della fragranza del pane.
Gli ingredienti del banchetto di Erode sono quelli della nostra storia che
ben conosciamo: adulterio, prepotenza e violenza. La bellezza, il senso
dell'onore e della fedeltà servono a condire il pasto, il cui dessert è un piatto
insospettato e crudele: l’ultima movenza di questa danza è una fanciulla con
in mano una testa mozzata!
“Il profeta è uno che soffre di una malattia professionale: il taglio della
testa”. La sua uccisione rappresenta l'apice del male: invece di ascoltare il
Signore, si taglia la gola a chi ne dice la Parola. Ma la Parola di Dio non è
legata (2Tm 2,9): la testa del Battista parla più forte di prima, con una
potenza che nessuna violenza, neanche la morte, può far tacere. Erode la
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risente come incubo e appello costante. A lui la responsabilità di ascoltarla,
ripudiando la donna che non è sua e tornando al primo amore.
La causa di tutto infatti è una moglie non propria. La donna è simbolo della
sapienza (Sofia) o della stoltezza (Moría). L'uomo è fatto per sposare Sofia, e
non Moría. L'una imbandisce il banchetto di morte, l'altra quello di vita; l'una
fa del palazzo un sepolcro, l'altra del deserto un giardino.
Erode ha scelto di sposare la stoltezza, che lo travolge nella morte. In
realtà lui è un re fantoccio, che non è padrone neanche di sé. Sente Giovanni
e sente Erodiade, ode la sapienza e l’insipienza. Ma, legato a questa e
depossessato della sua libertà, non riesce a fare ciò che vuole. È preso in un
gioco dove ogni bellezza e armonia, il nascere e il mangiare, lo stare insieme
e il danzare, tutto si riduce ad un vorticoso movimento sotto la regia della
morte. Il potente, guidato da Moría, è in realtà impotente: giocato dal gioco
che crede di tenere in mano, è schiavo del suo potere che è più immaginario
che reale - anzi si fonda su immagini truci e si mantiene alimentandole.
Il suo banchetto, oltre che il prezzo, è il contrappunto di quello che Gesù
imbandisce subito dopo nel deserto: alla nausea vomitevole dei potenti,
segue la sazietà piacevole per tutti.
Gesù, profeta rifiutato in patria, avrà la stessa sorte del Battista. Con la
sua morte diventerà pane di vita.
La Chiesa ascolta la Parola invece che tagliare la testa a chi la dice. Per
questo passa dal banchetto di Erode a quello di Gesù. Solo così riceve il pane
della sapienza e riconosce il Vivente.
v. 1: In quel tempo Erode udì la fama di Gesù. Dopo l'invio dei Dodici, si
diffonde la fama di Gesù. Anche Erode, come pure noi a distanza di venti
secoli, ne viene a conoscenza. L'ascolto è principio della fede (Rm 10,17). Ma
la verità non può brillare nel cuore di chi la soffoca nell'ingiustizia (Rm 1,18):
il modo di vivere determina quello di pensare. In questo racconto si vede ciò
che impedisce all’uomo di aderire al pensiero di Dio: è il banchetto della
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stoltezza, che non conosce e non fa la Parola - è anzi l'esecuzione capitale di
chi la testimonia.
v. 2: disse ai suoi servi. Sono i servi di Erode, asserviti alla brama di avere,
di potere e di apparire (cf. 1Gv 2,16), le tre maschere allettanti di cui si serve
la morte per adescare l’uomo. Ben diversi dal “Servo” che ne fa le spese,
sono gli schiavi del male. Erode, loro capo, è il loro ideale, il servo più schiavo
di tutti nel tragico gioco che domina il mondo.
costui è Giovanni il Battista. Anche dopo morto il profeta è vivo. La sua
uccisione ne fa un martire, testimone con la vita della verità che dice.
lui è risorto dai morti. Il martirio è già risurrezione: testimonia un amore
più forte della morte. La “ buona notizia” che è vinta la morte, per Erode è un
incubo: minaccia ciò a cui ha sacrificato la propria vita.
v. 3: Erode infatti si era impadronito di Giovanni, ecc. Come poi Gesù,
anche Giovanni è fatto oggetto di possesso, legato e custodito nel carcere
dell'ingiustizia.
a causa di Erodiade, ecc. L'adulterio del re è simbolo di quello del popolo.
Adultero è chi tradisce la sua altra parte. Ma l'altra parte dell'uomo è Dio! La
Parola dice infatti: “Amerai il Signore tuo Dio” (Dt 6,5). Erode non ama Dio e
non si lascia guidare dalla sua parola; sposa invece Moría, la quale sarà la
protagonista del tragico banchetto che lo porterà a festeggiare il giorno della
nascita con l'uccisione di chi offre la vita.
v. 4: non ti è lecito tenerla. Giovanni, come tutti i profeti, ci pone al bivio
tra vita e morte; ci chiama a sposare la sapienza e lasciare la stoltezza. Non ci
è lecito tenerla: noi non siamo suoi e lei non è nostra!
v. 5: benché volesse ucciderlo. Chi è nel male sente come un guastafeste
chi lo richiama al bene. Ne vuole la soppressione.
temeva il popolo, perché lo teneva come profeta. Matteo ci tiene a
distinguere tra i potenti e i poveri - dei quali è il regno dei cieli (5,3). La
ricchezza accieca nella stoltezza; la povertà apre ad accogliere il dono della
sapienza.
v. 6: venuto il genetliaco, ecc. Al centro della festa di Erode c’è una danza.
Bellezza e piacere sono ingredienti fondamentali di ogni banchetto. Nulla di
male, se la fanciulla non fosse figlia di Moría, che si serve di lei per propinare
406
il veleno. La stoltezza si serve di tutto come esca: ciò che è buono, bello e
piacevole è sostituito da ciò che pare tale (cf. Gen 3,6), ma che in realtà è
velenosamente cattivo, brutto e disgustevole. Tolto il velo dell’apparenza, la
bella fanciulla diventa un piatto con una testa insanguinata
v. 7: promise con giuramento. Ci sono promesse cattive, giuramenti che
sono obbligo d’incoscienza.
v. 8: indotta da sua madre. Come Erode sbaglia partner, così la ragazza
sbaglia madre: la bellezza, sotto il dominio dell’insipienza, si trasforma in
orrore di morte. Il male è sempre fatto col bene; anzi distruggendo il bene,
perché lo usa con stoltezza invece che con sapienza.
dammi qui, su un piatto, la testa di Giovanni. La stoltezza vuole la testa
della verità. C’è un “dare” ben diverso da quello del brano seguente!
v. 9: contristato il re, per i giuramenti e i commensali. C’è un momento in
cui il male toglie la maschera della bellezza e del piacere: sotto i veli della
fanciulla c’è lo scheletro della morte. Ma Erode non può sottrarsi: è giocato
dalla sua immagine, schiavo degli altri che lo osservano. La sua tristezza
viene da Dio, che lo chiama a conversione (cf. 2Cor 7,8-10).
ordinò che le fosse data. La parola “dare” è fondamentale in questo
banchetto, come nel successivo (vv. 8.9.16.19). Qui si dà la testa della voce,
che così testimonia la Parola; là si dà la Parola fatta pane. Lo stesso cibo,
velenoso per chi se ne impossessa, è vivificante per chi lo riceve in dono. Ma
chi se ne impadronisce, non fa altro che ciò che Dio aveva preordinato (cf. At
4,28): confeziona il dono.
v. 10s: mandò a decapitare, ecc. Epilogo della festa è una testa data e
consegnata di mano in mano. È il “dies natalis”, ma non di Erode, bensì del
Battista, che viene alla luce come testimone della verità.
In questa corsa dalla sala al carcere, dal carcere alle mani della fanciulla,
da queste a quelle della madre, finisce la danza della stoltezza, che ottiene
ciò che vuole: la morte.
v. 12: i suoi discepoli levarono la spoglia e la seppellirono. Giovanni
anticipa il cammino di Gesù: è il discepolo che lo segue precedendolo di un
passo. Per questo Erode dice fin dall’inizio, e giustamente: Giovanni è risorto!
Infatti è vivo più che mai, come la verità che è diventata sua vita.
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vennero ad annunciare Gesù. Ciò che avvenne a Giovanni è un annuncio
per Gesù, presagio del suo “ritiro” nel deserto, dove darà il suo pane.
3. Pregare il testo
Da notare:
• Giovanni è risorto
• Erode si era impadronito di Giovanni a causa di Erodiade
• gli ingredienti del banchetto
• la testa di Giovanni.
4. Testi utili
Sal 49; 73; Pr 1,20-2,22; 9,1-6. 13-18; Ger 1,17-19; 1Gv 2,16; 2Cor 7,8-10.
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62. DATE LORO VOI STESSI DA MANGIARE
14,13-21
409
“Date loro voi stessi da mangiare”: è l’imperativo del Signore ai suoi
discepoli. Lui stesso è il corpo dato per noi (cf. 26,26), cibo che riceviamo e
offriamo a tutti.
Dopo la sepoltura del profeta c’è il pane del deserto. La sua uccisione lo
rende seme nascosto nel cuore della terra – è il segno di Giona (12,40)! - che
germoglia in pane di vita per tutti. L’uomo è ciò che mangia. Al di là delle sue
intenzioni, il banchetto di Erode, con i suoi idoli morti che danno morte,
prepara quello del Figlio che dà la vita di figli e di fratelli.
Gesù, profeta e Messia rifiutato, sfama il suo popolo nel deserto. Più
grande di Mosè (Es 16,3-4), è il Signore stesso che dona la sua carne come
vero cibo (Gv 6,55); più grande di Eliseo (2Re, 4,42ss), è la Sapienza che offre
sovrabbondanza di vita.
Il racconto, a sfondo messianico, richiama l’eucaristia, cibo del nuovo popolo. La comunità
cristiana ha al suo centro il Figlio, ricevuto in dono e comunicato ai fratelli. Quanto qui Gesù fa è
l’anticipo di quello che compirà nell’ultima cena (v. 19=26,26), e che i discepoli sempre faranno in
memoria di lui (1Cor 11,23s).
Il racconto si divide in tre scene: Gesù, pieno di misericordia, guarisce le
folle (vv.13-14); i discepoli hanno un programma sul cibo diverso dal suo (vv.
15,18); lui prende il pane, benedice e lo dà a loro perché ne offrano a tutti
(vv. 19-20).
Il v. 21 conclude con una nota del redattore sul numero delle persone
sfamate. Il centro del brano è la benedizione sul pane del tipo delle berakot
(benedizioni) ebraiche. È lo stile di vita del Figlio che si fa fratello. Come il
banchetto di Erode nel palazzo conduce a uccidere chi dice la Parola, questo
di Gesù nel deserto la realizza come vita e sazietà per tutti.
Gesù anticipa quello che farà l’ultima sera: il pane è il mistero del suo
corpo, tutto dono del Padre e tutto dono ai fratelli.
La Chiesa ha Gesù al suo centro: ascolta il suo comando e offre quanto ha
ricevuto.
410
v. 13: Gesù si ritirò da lì in barca, ecc. Ciò che è accaduto al Battista è
premonizione del suo ritiro ultimo, in solitudine, nel deserto della morte,
quando darà il suo pane.
Il palazzo è apparentemente luogo di vita, come il deserto è apparentemente invivibile. Ma
proprio qui Dio porta il suo popolo fuori dalla schiavitù. Chi non esce dal palazzo nel deserto, non
incontra il dono di Dio.
le folle lo seguirono a piedi dalle città. Il ritiro di Gesù, e di quelli con lui
nella barca, non è una fuga, ma l’inizio del nuovo esodo. Il popolo esce dalla
città di Caino per fondare una nuova convivenza. È l’esodo definitivo. Dove
approda la barca di Gesù e dei suoi, anche le folle dei poveri arrivano a piedi,
anzi li precedono (Mc 6,33). Ognuno ha bisogno di questo pane.
v. 14: vide molta folla ed ebbe compassione di loro. Principio dell’azione di
Gesù è la sua compassione (cf. 8,17). Ogni azione che non nasce da essa
partecipa al banchetto di Erode. Compassione in greco richiama la parola
“viscere” (utero materno): è la qualità fondamentale del Dio amore, che è
Padre in quanto materno (cf. Lc 6,36).
curò i loro infermi. Gesù ha “cura” (= venerazione, rispetto!) degli in-fermi,
di coloro che non stanno in piedi. La debolezza, che noi sfruttiamo per
asservire, è per lui oggetto di servizio. La medicina con cui ci cura sarà il suo
pane, “rimedio” di vita eterna.
v. 15: giunta la sera (cf. 26,20). La sera è la fine del giorno, tempo
disponibile all’uomo. Inizia la notte, e le tenebre si mangiano la creazione
scaturita dalla luce. Immagine della “fatal quiete”, in cui tutto ritorna al caos
primitivo, rimanda all’ultima sera, nella quale Gesù ci diede il suo pane
(26,20), per consegnare poi il suo corpo al cuore della terra (27,57). Il suo
ultimo giorno sarà tutto oscurità dall’inizio alla fine; anche il sole meridiano si
offuscherà nel suo splendore (27,45). Sarà la notte in cui lui, luce del mondo,
entrerà in tutte le nostre notti per illuminarle. Ora, come anticipo, la notte del
deserto profumerà della fragranza del pane.
deserto è il luogo e l’ora già è passata. I discepoli notano il deserto intorno
e la notte che incombe. Nel deserto non si può mangiare, ed è passata l’ora in
cui si può fare qualcosa: non si può vivere, e non c’è più nulla da fare.
congeda le folle, perché vadano nei villaggi e si comprino cibi. Davanti al
deserto e alla notte, la proposta dei discepoli è uscire dal deserto, tornare al
411
villaggio da cui erano partiti, e “comperare” qualcosa. Ma il suo pane è
proprio nel deserto e nella notte, e non è da comperare (cf. Is 55,1s).
Comperare e vendere, a fine di lucro, è ciò che aggrega in villaggi e porta al
banchetto di Erode. Gesù stesso sarà comperato e venduto per danaro
(26,15)!
v. 16: non hanno bisogno di andare. Per Gesù la soluzione non è da
cercare fuori, in un ritorno a ciò da cui si è usciti. È a portata di mano, qui ed
ora, ed è gratis! Bisogna solo affrontare la situazione in modo diverso.
date loro voi stessi da mangiare. Il pane che sazia nel deserto e nella notte
non è quello che si compera, oggetto di sudore. Viene “dato “ agli amici nel
sonno (Sal 127,2). Nel sonno suo e nostro.
v. 17: non abbiamo qui se non cinque pani e due pesci. È quanto basta a
malapena per loro e per il momento. La comunità ritiene sempre poco quello
che c’è. Non si accorge che cinque più due fa sette, numero perfetto, divino.
È sazietà piena per tutti se è vissuto come dono; è fame se è trattenuto per
sé.
v. 18: portateli qui a me. La nostra insufficienza va portata a Gesù, riposta
nelle sue mani. Ciò che ho e sono, poco o tanto che sia, è sempre
sovrabbondante se ricevuto, spezzato e dato da mani di figlio.
v. 19: ordinato alle folle di sdraiarsi. È l’inizio della festa. Se il banchetto
del primo Esodo fu in fretta e in piedi, quello del secondo si prolunga nella
notte, e si sta sdraiati in compagnia con i familiari. Non è più la fuga dalla
schiavitù, ma l’ingresso nella libertà.
sull’erba. Il deserto si rallegra e la terra arida esulta e fiorisce: il Signore
viene a salvarci (cf. Is 35,1-4). È la pasqua definitiva: il passaggio dal
banchetto di Erode a quello della Sapienza (cf. Pr 9,1-6.13-18). Il Signore
eliminerà la morte per sempre, e si dirà in quel giorno: “Ecco il nostro Dio”
(cf. Is 25,6-9).
prese. Gesù è il Figlio: riceve dal Padre tutto ciò che ha ed è. Ma, a
differenza di Adamo, non prende come rapina, bensì in dono (cf. Fil 2,6).
Prende per la morte chi chiude la mano per possedere e divorare; prende per
la vita chi apre la mano per ricevere in dono e per donare. La mano chiusa
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avvelena ogni dono; la mano aperta ne fa comunione di vita col Padre e coi
fratelli.
i cinque pani. Non è frumento, ma pane, frutto di lavoro e relazioni: è
cultura, non solo natura. Tutto è da prendere e vivere come dono. I cinque
pani sono da Agostino messi in relazione ai cinque libri della legge, per
significare che “ l’uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla
bocca del Signore” (Dt 8,3).
i due pesci. I due pesci sono simboli di Cristo, che realizza il duplice
comando della legge che è uno solo: l’amore del Padre e dei fratelli. Per
questo amore il Figlio, come pesce che vive nell’abisso, venne a morire sulla
terra e per dare a noi in cibo la sua vita.
alzò gli occhi al cielo. Adamo prese dalla mano, ma non alzò gli occhi verso
il volto del Padre. Fuggì da lui.
benedisse. Adamo non benedisse colui che dà ogni bene, e si nascose
nella maledizione. Gesù invece riceve tutto, anche se stesso, dal Padre. Ogni
briciola di pane è dono, segno di amore infinito. In ogni dono c’è il Donatore
che si dona.
Chi bene-dice Colui che bene-dà, riconosce in ogni goccia la sorgente, in
ogni raggio il sole, in ogni frammento il tutto. Prendere benedicendo è
nascere, venire alla luce come figli, vedendo sé e tutto ciò che c’è come
segno dell’amore del Padre.
spezzò e diede. Gesù, in quanto prende benedicendo, è il Figlio, in quanto
spezza e dà ai fratelli è uguale al Padre. Egli ama con il medesimo amore con
cui è amato - tutto sa dare come tutto riceve. Lo Spirito “spira” insieme dal
Padre e dal Figlio: hanno un unico amore, che è la vita di ambedue. La forza
per “dare” gli viene dal suo levare gli occhi al cielo, dal suo essere tutto verso
il Padre come il Padre è tutto verso di lui.
ai discepoli e i discepoli alle folle. Lo stesso unico pane passa dalle mani
del Figlio a quelle dei discepoli, e da queste alle folle, fino a giungere nelle
mani di tutti i fratelli che così diventano figli. Il dono fa circolare di mano in
mano il pane: riprende il flusso della vita, che la rapina aveva interrotto.
v. 20: mangiarono tutti e furono saziati. Questo pane è vita e sazietà per
tutti. L’altro è per pochi, e dà morte a tutti.
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Questa è la mensa che prepara il Signore, mio pastore (Sal 23), dove i
poveri mangiano e sono sazi (Sal 22,27). Solo questo pane condiviso è
benedizione e sazietà. Dell’altro possiamo averne fino alla nausea, come
Erode; ma non sazia: aumenta solo la fame.
dodici ceste piene. Di questo pane, mangiato da “tutti” e a “sazietà”, ne
avanzano dodici ceste, una per ogni tribù, una per ogni mese. Ne rimane per
tutti e per sempre! È quanto sperimenta la Chiesa, allora e ancora adesso.
v. 21: cinquemila uomini. Il numero è quello della prima comunità di
Gerusalemme (cf. At 4,4), che viveva l’insegnamento di Gesù mettendo in
comune i beni, spezzando il pane e pregando con gioia (At 2,42). Nessuno
diceva sua proprietà ciò che aveva; ogni cosa era fra loro comune, e nessuno
era bisognoso (At 4,32.34). Chi aveva beni ne faceva parte a tutti, secondo il
bisogno di ciascuno (At 2,45). E tutto questo in piena libertà (cf. At 5,4)!
senza le donne e i bambini. Esplicitamente si nominano le donne e i
bambini, quelli che “non contano”.
3. Pregare il testo
Da notare.
• Gesù si ritirò nel deserto, in privato
• le folle accorrono dalle città
• la compassione e la cura di Gesù per le folle
• la proposta dei discepoli: comperare
• la risposta di Gesù: date!
• i cinque pani e i due pesci
• Gesù prese il pane
• alzò gli occhi al cielo
• benedisse
• spezzò
• diede
• i discepoli ricevono e danno
• tutti mangiarono e furono sazi
• dodici ceste piene
414
• erano in cinquemila.
4. Testi utili
Sal 23; 145; Es 16,1ss; 2Re 4,42-44; Is 25,1ss; 35,1ss; 55,1-3; Gv 6,26-66.
415
63. O TU DI POCA FEDE, PERCHÉ DUBITASTI?
14,22-36
416
35 E, riconosciutolo, gli uomini di quel luogo
mandarono in tutta quella regione
e gli portarono tutti i malati,
36 e lo pregavano anche solo di toccare
la frangia del suo mantello;
e quanti lo toccarono
furono salvati.
417
8,14ss). Questo non è un fantasma, ma “Io sono”, la potenza salvifica di Dio
stesso.
Le tre scene “tempestose” in barca sono da vedere in connessione tra
loro. Nella prima lui è presente come colui che “dorme e si risveglia” (8,23-
27): è il Gesù terreno, presente tra i discepoli “così com’era” (Mc 4,36), morto
e risorto, che ci ha lasciato il suo pane. In questa seconda lui non è più con noi
se non come l’assente, che ha vinto la morte e cammina sulle acque; è
presente però con la sua parola e il suo pane che ci fanno camminare come lui
ha camminato. Nella terza (16,5-12) lui stesso scatena una tempesta di
domande ai discepoli che non capiscono il pane e si lamentano di non averne.
Hanno infatti il lievito “dei farisei e dei sadducei” (16,12), fermento ben
diverso dal suo!
La barca è simbolo della comunità, luogo della fede. Non ci sono
scappatoie sulla barca: o si arriva a terra, o si va a fondo! La prima scena in
barca corrisponde al tempo di Gesù che, in barca con i suoi, muore e risorge,
dandoci il suo pane. La seconda corrisponde al tempo della Chiesa, dove la
sua presenza come pane è ritenuta un fantasma, fino a quando non ci fidiamo
della sua parola e non facciamo come lui ha fatto - “fate questo in memoria di
me” (1Cor 11,24). La terza ci dice perché abbiamo difficoltà a riconoscerlo:
diamo corpo alle nostre cattive fantasie - i vari lieviti che muovono la nostra
vita, che riducono a fantasma la realtà di Io-Sono.
Gesù, ormai assente, è presente come il Vivente che ha camminato sul
mare e che, con la sua parola, ci chiama a fare altrettanto.
La Chiesa accoglie l’invito, con tante paure e perplessità. Se guarda lui e la
sua promessa, cammina. Se guarda le proprie difficoltà, affonda. Le rimane
però sempre il grido di invocazione al Signore, il cui nome è “Gesù”, che
significa “Dio-salva”. L’avventura di Pietro è quella di ogni uomo.
418
devono “ascoltarlo” (17,4.5b)! Il pane che ci ha dato è, come per Elia, la forza
per camminare quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio (cf. 1Re
19,1-9). Gesù li “costringe” al santo viaggio perché preferirebbero restare sul
posto, trasformando lo stesso pane in lievito di Erode. Le folle infatti volevano
farlo re (cf. Gv 6,15); mentre lui è il “Servo” che dà la vita.
Dopo la notte del pane viene un nuovo giorno - quello dei discepoli da soli
sulla barca - in cui Gesù è presente in altro modo, con la sua parola che ordina
di fare il suo stesso cammino, affrontando la stessa notte che lui ha vinto.
v. 23: congedate le folle. I discepoli, prima del pane, volevano congedarle;
ora invece vogliono trattenerle. Gesù fa il contrario: prima dà il pane e poi le
congeda con il suo “viatico”. Non si serve del pane per trattenerle e
dominarle, ma si fa servo del pane per farle camminare.
salì sul monte in privato a pregare. Dopo il dono del suo corpo, Gesù è
salito sul monte, in comunione col Padre, inviando i suoi discepoli in tutto il
mondo, promettendo di essere sempre con loro (28,16-20). Lui è il pontefice,
che dall’alto li assiste, vicino al Padre e ad ogni fratello.
venuta la sera, se ne stava da solo lassù. Lui è già nella luce del Padre; per
noi invece viene ancora la sera, la stessa che anche lui incontrò quando ci
diede il suo pane (26,20-29). Lui è lassù sul monte da solo a pregare, noi nella
notte, qui, giù nel mare, da soli a remare. È la nostra condizione normale,
dopo che lui si è fatto pane.
v. 24: la barca distava da terra molti stadi. Avvolti dal buio, sospesi tra
cielo e abisso, i discepoli sono lontani dal punto di partenza e da quello di
arrivo. La situazione è angosciante.
tormentata dalle onde. Il “tormento” è indicato con un termine che
richiama la “pietra di paragone”, che serve per provare l’oro, graffiando ciò
che non è prezioso. Le tribolazioni ci purificano: macinano la nostra durezza di
cuore, per ricavarne l’oro prezioso della fede (cf. 1Pt 1,6-9; Rm 5,3-5).
il vento contrario. Il vento solleva il mare: lo spirito contrario agita contro
l’uomo lo spettro della morte.
v. 25: alla quarta veglia della notte. È la veglia dalle tre alle sei del
mattino, carica del buio di tutta la notte – la luce sembra lontanissima! -,
piena di fatica e di angoscia. È notte fonda; eppure preludio del nuovo sole. In
419
quest’ora Dio interviene a salvare (cf. Es 14,24; Sal 46,6; Is 17,14). Sarà l’ora
della risurrezione di Gesù (28,1).
venne da loro camminando sul mare. Nella prima tempesta Gesù dormì e
si svegliò: entrò nella notte e la vinse, dandoci il pane di vita. Ora, risorto,
cammina sulle acque: la morte non ha più potere su di lui.
Non essere inghiottiti dall’abisso è il sogno impossibile di ogni uomo, superamento della realtà
che ben conosce, fatta di notte, solitudine, lontananza, fatica, tormento, angoscia, terrore e
sprofondamento. Camminare sul mare è il tema del brano, ripetuto quattro volte (vv. 25.26.28.29).
È quanto il discepolo è chiamato a fare, sulla parola del suo Signore.
v. 26: furono spaventati. Il discepolo è colto da terrore: camminare sulle
acque è eccessivo, impossibile, divino!
è un fantasma. Chi è giocato dalla paura scambia le proprie fantasie per
realtà e la realtà per fantasia. I discepoli pensano che il Vivente in mezzo a
loro sia un fantasma, un morto (cf. Lc 24,37). Il pane - il suo corpo dato per
noi - non è l’incontro con lui che salva, ma è ridotto a pio ricordo di un evento
passato che non si vive al presente. È il rimprovero di Paolo a quelli di Corinto,
quando dice che la loro eucaristia non è un mangiare la cena del Signore, ma
un mangiare la propria condanna, perché fanno il contrario di ciò che
celebrano (cf. 1Cor 11,17-34!).
gridarono dalla paura. È la stessa paura di andare a fondo che li colse nella
prima tempesta, quando il Signore dormì (8,24ss).
v. 27: coraggio! Io-Sono! Non temete! La paura è pochezza di fede (8,26;
9,22). La fede invece è il coraggio di credere e osare l’impossibile - impossibile
all’uomo, ma non a Dio. Colui che cammina sulle acque non è un fantasma,
ma Io-Sono, Gesù in persona. “Io-Sono” richiama la rivelazione del Dio
dell’Esodo. La salvezza attraverso l’acqua non è un’illusione: è la paura che fa
loro ritenere illusione la realtà di Dio.
v. 28: se sei tu, comanda a me di venire a te sulle acque. La prova che
davvero è Gesù, il Signore-che-salva, è che io stesso sia salvo: che sulla sua
parola vada da lui camminando come lui sull’abisso. La prova è chiesta dal
dubbio: “Se sei tu!”. Il “se”, che esprime il dubbio, è parola divina quando
serve ad aprire all’impossibile.
v. 29: vieni! È la vocazione definitiva: sulla sua parola, siamo chiamati da
lui a camminare come lui e con lui sull’abisso.
420
Pietro camminò sulle acque e venne da Gesù. In obbedienza a lui, Pietro
riesce a fare come lui ha fatto. Deve affidarsi all’acqua, fuori dalla barca ( la
fede e il battesimo è l’esperienza personale che introduce nella barca!). Non si
vince la morte se non attraverso l’affidarsi a lui nella sua morte.
v. 30: vedendo il vento forte, ebbe paura. Lo spirito contrario spaventa
Pietro. Se guarda Gesù, cammina; se guarda le sue paure, sprofonda. La
paura che fa sprofondare è il luogo stesso nel quale il Signore ci chiama a una
fede maggiore; diversamente siamo colti da angoscia e disperazione. Per
questo “tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio
piede” (Sal 25,15).
cominciando a sprofondare. Sulla barca che andava a fondo, Gesù
“dormiva” (8,25). Ora cammina sulle acque proprio perché è andato a fondo
tranquillo e sereno come un bimbo in braccio a sua madre (cf. Sal 131,2).
Signore, salvami. Mentre affoga nel mare, Pietro grida a Gesù, che
significa: il-Signore-salva (cf. 8,25). Nella distretta finale, a tutti è dato questo
nome, nel quale a ogni uomo è data salvezza (cf. At 2,21; 4,12).
v. 31: Gesù, tendendo la mano. Il “braccio teso” indica l’intervento di Dio,
che afferra e salva dalle grandi acque chi lo invoca.
o tu di poca fede (cf. 8,26). La fede c’è, ma è poca, insufficiente davanti a
prove dure come questa. Il cammino di affidamento e di riconoscimento dura
tutta la vita. La tribolazione finale sarà il compimento del battesimo, che ci
farà conoscere chi è il Signore.
v. 32: saliti sulla barca, cessò il vento. La calma viene sulla barca solo
dopo che ciascuno ha fatto in prima persona l’esperienza battesimale, che
consiste nell’ascoltare il Signore, camminare sulle acque, andare a fondo,
invocare il suo nome ed essere salvati. Solo allora nella barca riconosciamo il
Signore e viviamo del suo pane: siamo passati dalla morte alla vita perché
amiamo i fratelli (1Gv 3,14).
v. 33: quelli nella barca lo adorarono. La salvezza porta all’adorazione, al
bacio del Signore, fine del vangelo (28,17).
veramente sei Figlio di Dio! È l’anticipo della professione di 16,16. Ciò non
impedisce che Pietro, anche più avanti, non lo capisca e lo rinneghi,
sperimentando sempre più a fondo la salvezza.
421
Qui Pietro fa la professione di fede pasquale. La Chiesa sa che il suo corpo dato per noi non è
un fantasma, ma il pane di vita che fa vivere e morire camminando come lui ha camminato.
vv. 34-36: compiuta la traversata, ecc. Colui che non fu riconosciuto dai
suoi, ora lo è dalle folle, mentre è presente in mezzo a loro che hanno ormai
compiuto la traversata. Il semplice contatto con lui è salvezza per tutti.
3. Pregare il testo
Da notare:
• costrinse i suoi discepoli a entrare in barca
• Gesù da solo sul monte a pregare
• i discepoli da soli sul mare, nella notte, a remare
• il vento contrario
• distavano molti stadi
• la barca tormentata dalle onde
• la quarta veglia della notte
• Gesù che cammina sulle acque
• un fantasma
• coraggio, Io-Sono, non temete
• comanda a me di venire a te sulle acque
• vieni!
• Pietro cammina sulle acque
• la paura e l’andare a fondo
• Signore, salvami!
4. Testi utili
422
64. QUESTO POPOLO MI ONORA CON LE LABBRA, MA IL LORO
CUORE È LONTANO DA ME.
15,1-20
423
disse loro:
Ascoltate e comprendete!
11 Non ciò che entra nella bocca
contamina l’uomo,
ma ciò che esce dalla bocca,
questo contamina l’uomo.
12 Allora vengono i discepoli
e gli dicono:
Sai che i Farisei
udendo la parola
furono scandalizzati?
13 Ora egli, rispondendo, disse:
Ogni pianta che non piantò
il Padre mio celeste,
sarà sradicata.
14 Lasciateli;
sono cieche guide di ciechi:
ora se uno cieco guida un cieco,
ambedue cadranno nella fossa.
15 Ora, rispondendo,
Pietro gli disse:
Spiegaci questa parabola!
16 Ora egli disse:
Anche voi siete ancora senza intelletto?
17 Non sapete che tutto ciò che entra nella bocca, va nel ventre
ed è espulso nella fogna?
18 Invece ciò che esce dalla bocca
proviene dal cuore,
e questo contamina l’uomo.
19 Dal cuore infatti escono
cattivi pensieri,
omicidi, adulteri,
fornicazioni, furti,
false testimonianze, bestemmie.
20 Queste sono le cose che contaminano l’uomo;
424
ma il mangiare
con mani non lavate
non contamina l’uomo.
425
che ingessa la persona. Allora c’è un tradizionalismo che butta via l’anima
della tradizione: dimentica il senso di ciò che trasmette - la volontà di Dio
significata dalla sua parola – e riduce la pratica religiosa a ritualismo.
In questo caso la tradizione diventa strumento di oppressione e di morte:
un cumulo di formule vuote, con un cuore lontano da Dio e dagli uomini.
Il puro e l’impuro, il lecito e l’illecito, il bene e il male, ciò che mette in
comunione o divide dalla vita, ciò che dà felicità o infelicità, dipende in ultima
istanza non dalla tradizione o da regole che classificano cose o azioni, ma dal
cuore stesso: tutto è buono nella misura in cui è vissuto con un cuore puro. Il
cuore puro vede Dio (5,8): libero dall’egoismo, riflette la sua bontà, e fiorisce
in ogni frutto buono. Un cuore impuro, lontano da Dio, produce opere di
morte. Il bene viene da un cuore vivificato dallo Spirito d’amore; il male da un
cuore posseduto dallo spirito immondo.
Non solo il mondo religioso, ma anche quello laico vive di tradizioni e riti,
di comandi e divieti. Oggi più che mai siamo amministrati da infinite norme -
tanto più subdole quanto meno dichiarate - che si impongono, in modo
inavvertito e arbitrario, come “moda”. Il lavoro, le relazioni, lo stile di vita e,
soprattutto, gli stessi valori - bevuti acriticamente da tutti i pori grazie ai
mass-media - costituiscono un campo di leggi ferree, da osservare con rigore
per non essere emarginati.
È necessario misurare tutto questo sulla Parola e sul Pane, sulla Parola che
si fa Pane: aiutano o meno ad amare i fratelli, producono frutti velenosi o
buoni?
Tutto il brano è sul cibo. L’uomo è ciò che mangia attraverso i canali dei
suoi sensi e assimila attraverso le sue facoltà; o, meglio, è come mangia. Con
che cuore, con che spirito mangia? È da verificare se mangiamo o meno
secondo la tradizione che Gesù ci ha lasciato, se viviamo o meno della
memoria di lui che ha dato il suo corpo per noi.
Gesù è la nostra tradizione fondamentale, misura di ogni altra.
La Chiesa ha al suo centro l’eucarestia: sa che il vero culto spirituale,
gradito a Dio, è il nostro stesso corpo (Rm 12,1) che mangia e vive di questa
tradizione, che è quella del Figlio.
426
3. Lettura del testo
427
ne può usufruire solo l’interessato finché vive, e poi passano al tempio.
Bellissima invenzione dell’egoismo, che si serve anche di Dio!
v.6: vanificaste la parola di Dio per la vostra tradizione. Questa tradizione
è in netto contrasto con il comando di Dio. C’è quindi tradizione e tradizione:
bisogna vedere se è conforme o no al comando dell’amore. Ogni legge,
consuetudine o moda, va valutata con discernimento, e osservata solo se
serve a ”mangiare pane”, a promuovere la vita. Diversamente è perversione
istituzionalizzata, e va rifiutata. Anche tradizioni che all’origine erano giuste,
possono diventare perverse in situazioni nuove.
v. 7: ipocriti. Ipocrita è colui che si serve di tutto, anche di Dio, per il
proprio io.
v. 8: questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da
me (Is 29,13; Sal 78,36s). C’è una religiosità esteriore, fatta di parole,
preghiere e riti – sempre più corretti e solenni! - ma che ignora la “tradizione
del pane” e non vive in concreto l’amore del Signore, scambiando per realtà i
fantasmi delle proprie devozioni. Non bisogna amare a parole, ma coi fatti e
nella verità (1 Gv 3,18). Anche in campo non religioso rischiamo di osservare i
protocolli sempre più esigenti del puro apparire! Ma che ne è del nostro
cuore?
v. 9: invano mi venerano ecc. È un culto del vuoto. I precetti che ne
derivano svuotano l’uomo, vanificando la parola di vita. Gran parte della
predicazione profetica è contro questo culto (cf. Is 1,10-20; 58,1-12; Ger 7,1-
15).
v. 10: ascoltate e comprendete. Gesù ora si rivolge alle folle, chiamate a
comprendere ciò che dice.
v. 11: non ciò che entra nella bocca, ecc. Nella bocca entra il cibo, dalla
bocca esce la parola. Tutto ciò che c’è, è buono, dono di Dio (cf. At 10,11-15).
Questa affermazione di Gesù è principio di libertà da ogni tabù culturale. Di
tutto l’uomo può liberamente disporre. È come lui ne dispone che lo fa morire
o vivere. E ne dispone secondo ciò che esce dalla sua bocca, secondo la
parola d’amore o d’egoismo che ha dentro. Qual è la parola che governa l’uso
che faccio di ogni cosa? È parola di libertà o di dominio, di dono o di possesso,
di comunione o di separazione?
428
v. 12: i farisei furono scandalizzati, ecc. I discepoli notano che i farisei si
scandalizzano. Ma è uno scandalo positivo, che vuol toglierli dall’ipocrisia.
Tutto al mondo è puro: solo un cuore immondo lo rende immondo.
v. 13: ogni pianta, ecc. Il Padre ha piantato l’albero della vita, che porta il
frutto dello Spirito (cf. Gal 5,22). Ogni albero che non porta questo frutto non
è suo: è cattivo (7,15-20), e sarà sradicato (cf. 3,10).
v. 14: lasciateli. I discepoli sono chiamati a lasciare i farisei : non sono
maestri da imitare, ma da evitare.
cieche guide di ciechi. Non sono guide illuminate, ma cieche. Il loro cuore
impuro non vede Dio, ma solo il proprio io. Chi li segue cade nella fossa (cf.
23,16).
v. 15: Pietro disse. Nel brano ci sono progressivamente farisei, scribi, folle,
discepoli e anche Pietro. Il problema riguarda tutti. In particolare Pietro, che
ha un ruolo di guida. Che anche lui non sia cieco! E lo sarà ogni volta che non
avrà lavato gli occhi nel pianto del proprio peccato riconosciuto (26,74s).
v. 16: anche voi siete ancora senza intelletto? Nonostante il loro: "Sì” (cf.
13,51), non hanno ancora capito (cf. 16,5-11). Anche in loro c’è il lievito dei
farisei oltre che dei sadducei (16,12).
v. 17: ciò che entra nella bocca, ecc. Ciò che entra nella bocca serve per
vivere - e ciò che non serve si elimina!
v. 18: invece ciò che esce dalla bocca, proviene dal cuore. La bocca parla
dall’abbondanza del cuore (12,34). Un cuore che ha dentro la Parola di vita,
rende tutto puro; un cuore che ha dentro parole di morte, rende tutto impuro.
Il bene e il male non sta nelle cose, ma nelle nostre azioni; e ancor prima
nelle nostre intenzioni, nella parola di sapienza o di stoltezza che il nostro
cuore ha sposato.
v. 19: dal cuore escono, ecc. È una lista di azioni malvagie, quelle che
Paolo chiama opere della carne (Gal 5,19-21). Sono il veleno che esce da un
cuore lontano da Dio, centrato su se stesso.
v. 20: cose che contaminano. Il male e la morte vengono dal cuore,
dall’intenzione con cui si vive ogni realtà. Il mondo non è né da idolatrare né
da demonizzare, né da adorare né da disprezzare. Il suo valore o meno
dipende dalla parola non detta che esce dal cuore.
429
mangiare con mani non lavate non contamina l’uomo. Noi mangiamo il
Pane, anche se indegni. Questo pane ci fa vivere il frutto dello Spirito (Gal
5,22).
3. Pregare il testo
Da notare:
• farisei e scribi
• mangiare il pane con mani immonde
• trasgredire le tradizioni degli antichi
• trasgredire il comando di Dio
• annullare la parola di Dio con la nostra tradizione
• culto di labbra, con il cuore lontano da Dio
• ciò che entra e ciò che esce dalla bocca.
4. Testi utili
Sal 78; Is 29,13-24; At 10,1ss; Mt 7,12; 22,34-40; Gal 5,19-22; 1Cor 13,1ss.
430
65. O DONNA, GRANDE È LA TUA FEDE:
SIA FATTO A TE COME VUOI
15,21-28
431
O donna, grande è la tua fede:
Sia fatto a te come vuoi!
E fu guarita sua figlia da quell’ora.
432
Il dialogo tra Gesù e la donna riguarda “il pane dei figli”, e a chi spetta.
Matteo scrive per i giudei cristiani, per aprirli alla missione verso i pagani (cf.
28,20). Inoltre vuol stimolare la gelosia di quei figli che ancora non accolgono
quel pane del quale invece i cani (i pagani) per la loro fede si saziano (cf. Rm
11,14).
La distinzione cani/figli è quindi abbattuta dalla fede: già Abramo, padre di Israele, era
pagano, e divenne erede della promessa e patriarca del nuovo popolo per la sua fede. “Quelli che
hanno fede sono benedetti insieme ad Abramo che credette”; suoi figli “sono quelli che vengono
dalla fede”, perché lui stesso fu il primo che “ebbe fede in Dio, e gli fu accreditato a giustizia” (Gal
3, 9.7.6).
Gesù è il Messia promesso e inviato a Israele. Dall’Israele che lo accoglie
sorge la luce per tutte le genti (Lc 2,32): i suoi discepoli saranno dopo di lui
inviati per tutto il mondo ( 28,20). La missione del Messia verso di loro è la
loro stessa verso tutti.
La Chiesa è fatta innanzitutto da giudei e poi da quanti, per la loro fede,
diventano figli di Abramo, il primo che dà credito a Dio e alla sua promessa.
v. 21: E, uscito di là, Gesù si ritirò, ecc. Gesù esce dal luogo dove i farisei
e gli scribi onorano il Signore con le labbra, ma con il cuore lontano da lui. Si
ritira in zona pagana, verso Tiro e Sidone.
È un’allusione al passaggio della salvezza ai pagani (At 13,46ss). Se il
rifiuto di parte del popolo fu salvezza per tutte le genti, cosa sarà mai quando
tutto Israele accoglierà il suo Messia? “Se infatti il loro rifiuto ha segnato la
riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non
una risurrezione dai morti?”(Rm 11,15).
v. 22: ecco una donna cananea che usciva, ecc. La mancanza di fede fa
uscire Gesù dalle sue regioni; la fede a sua volta fa uscire anche la pagana
dalle sue regioni, per incontrarlo.
gridava dicendo. La sua preghiera ha la forza del grido, ma anche la
sapienza di una parola precisa.
433
abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. È la preghiera fondamentale.
Abbi pietà significa: “Fammi grazia”. La cananea non pretende e non accampa
diritti: chiede il dono a colui che è tutto e solo dono, riconoscendo in lui il
Signore e il Messia (figlio di Davide).
Questa pagana fa sua la professione di fede in Gesù: lo riconosce come
figlio di Davide secondo la carne e come Signore, Figlio di Dio, secondo lo
Spirito (1,1.18; cf. Rm 1,3s), e ne invoca la salvezza.
mia figlia è malamente indemoniata. La figlia della pagana rappresenta
tutti i figli di Adamo: preda della diffidenza, sono invasati di menzogna,
posseduti dal male.
v. 23: non le rispose una parola. Gesù, nella sua missione storica, rispose
solo a Israele, che lo attendeva. Sarà questo poi a trasmettere il dono agli
altri.
Forse meraviglia che Dio abbia parlato ad alcuni dei suoi figli e non ad
altri. Certo che Dio parla nel cuore di tutti. Ma, per parlare umanamente, ha
assunto le condizioni del parlare umano, nel quale si parla a qualcuno per il
quale si è qualcuno. È lo “scandalo” dell’incarnazione, centro della fede (cf.
13,53ss).
i suoi discepoli gli chiedevano. Alla domanda della donna toccherà
rispondere proprio ai discepoli, non a Gesù, quando saranno inviati a tutte le
genti (28,19s). Sarà una risposta travagliata (cf. At 10,1ss; 15,1ss e la lettera
ai Galati!). La difficoltà del rapporto tra giudei e pagani all’interno della Chiesa
si rovescerà purtroppo nel peccato dei cristiani di origine pagana contro i
giudei.
mandala via, ecc. Questa donna richiama i dieci pagani che cercheranno
di afferrare il mantello di un Israelita (cf. Zc 8, 20-23). Ma la cosa non è senza
difficoltà. “Mandala via”, dicono i discepoli (versione migliore di:
“esaudiscila”). Nella loro missione verso i pagani, i missionari saranno tentati
di essere dimissionari. Pietro stesso ad Antiochia si ritirerà dai fratelli pagani
per ipocrisia, e ci vorrà un Paolo che gli resiste a viso aperto (cf. Gal 2,11s),
con la stessa forza di questa donna. A Pietro non bastò né la prima né la
seconda pentecoste (cf. At 2,1ss; 4, 23-31), né l’intervento diretto dal cielo,
che gli impose di non chiamare immondo ciò che il Signore aveva purificato
434
(At 10,15). È costante nella chiesa la tentazione di “confiscare” il Signore,
sottraendolo alle attese di chi lo desidera. Ma escludere il fratello dall’eredità,
è rinnegare il proprio essere figlio.
v. 24: non fui inviato se non per le pecore perdute, ecc. Gesù limitò la
sua missione all’Israele perduto. Sarà l’Israele ritrovato dal suo Signore a
diventare luce per tutte le genti (Lc 2,32; cf. Is 42,6; 49,6: Rm 15,8-12). La
missione universale di salvezza passa attraverso la carne d’Israele e del suo
Messia.
Quando Gesù, compiuta la sua missione, si assenterà sul monte, i suoi
discepoli saranno inviati a continuarla verso tutte le genti. È la prospettiva con
cui Matteo chiude il suo vangelo (28,16-20). Prima anche loro limiteranno
come lui la propria missione (cf. 10,6).
Solo in Israele che riconosce il suo Messia, tutte le genti riconoscono le
proprie sorgenti (Sal 87,5). La salvezza del Figlio è mediata dal fratello
(maggiore) che si fa servo degli altri.
v. 25: lo adorava. Come i Magi, anch’essi pagani (2,2.11), questa donna
adora il Signore.
Signore, aiutami. La donna chiede aiuto, nonostante il silenzio del Signore
e la resistenza dei suoi discepoli.
v. 26: prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. La risposta di Gesù
è la più dura che possa aspettarsi un pagano. Gli ebrei chiamavano “cani” i
pagani. Il pane dei figli sarà dato proprio a loro. Non per merito - è grazia e
dono! - ma per la grande fede (v. 28).
v. 27: Sì, Signore. Per la donna è tre volte Signore (vv. 22.25.27) proprio
quel Gesù che, dopo il fatto dei pani, i discepoli avevano scambiato per
fantasma (14,26).
anche i cagnolini mangiano, ecc. Il cane vive delle briciole che cadono
dalla tavola del padrone, l’uomo del pane che viene a lui dalla mano del
Signore.
v. 28: o donna, grande è la tua fede. La fede di questa donna è grande, a
differenza di quella dei discepoli, che è poca (8,26; 14,31); è grande come
quella del soldato pagano, che suscita la meraviglia di Gesù (8,10). Per questa
fede molti verranno da oriente e da occidente, e sederanno a mensa con
435
Abramo, Isacco e Giacobbe (8,11), sazi della beatitudine di chi mangia il pane
del regno (Lc 14,15).
sia fatto a te come vuoi. Il Signore è venuto in terra per fare la volontà di
questa donna: è la stessa del Padre nei cieli (6,10s), che vuol dare il suo pane
a tutti i suoi figli.
fu guarita sua figlia da quell’ora. L’ora della fede è la stessa della
salvezza, come per il figlio del centurione (8,13).
3. Pregare il testo
Da notare:
• Gesù si ritira in zona pagana
• la donna pagana
• pietà di me, Signore, figlio di David
• Gesù non risponde
• i discepoli dicono di mandarla via
• non fui inviato se non alle pecore perdute d’Israele
• Signore, aiutami
• il pane dei figli è per i cagnolini
• donna, grande è la tua fede
• la guarigione avviene in assenza di Gesù per la fede della donna.
4. Testi utili
436
Sal 67; 87; Is 56,1.6-7; Mt 8,1-13; 28,16-20; Lc 14,15-24; Gal 3,6-9. Rm 15,8-
12; At 19,1ss.
437
66. HO COMPASSIONE DELLA FOLLA
15,29-39
438
35 E, ordinato alla folla di sdraiarsi per terra,
36 prese i sette pani e i pesci
e, rendendo grazie,
li spezzò
e li dava ai discepoli
e i discepoli alle folle.
37 E mangiarono tutti
e furono saziati.
E levarono sette ceste piene
dai pezzi che sovrabbondarono.
38 Ora quanti mangiarono
erano quattromila uomini,
senza donne e bambini.
39 E, congedate le folle,
salì sulla barca
e venne nei confini di Magadan.
“Ho compassione della folla”, dice Gesù ai suoi discepoli, che dovranno
ricevere e dare il suo pane. È una folla composta da zoppi, ciechi, storpi, sordi
e malati di ogni tipo. Gesù si prende cura di loro, e comunica ai discepoli la
sua compassione e il suo proposito di sfamarli, ripetendo il gesto di 14,13-21.
Il pastore riunisce attorno a sé le pecore oppresse e sfinite (9,35s; cf.
4,23s ); il popolo dei poveri riceve “il pane dei figli” di cui, per la fede, si erano
saziati anche i cagnolini (15,27).
Il Signore torna in mezzo al suo popolo: “Io sarò il loro Dio, ed essi il mio
popolo” (Ger 31,33). Per questo si aprono gli occhi dei ciechi, lo zoppo salta
come un cervo, grida di gioia la lingua del muto (Is 35,5s). Tutti vedono il
lavoro delle sue mani e glorificano il suo nome: gli spiriti traviati apprendono
la sapienza e i brontoloni la lezione (Is 29,23s).
Siccome è una lezione difficile da imparare, il Maestro comincia daccapo,
ripetendo con pazienza quanto già ha fatto. Del suo pane infatti abbiamo
439
bisogno non una sola volta, ma sempre ancora una volta, ogni giorno. Questo
pane è il cibo che sazia le nostre fami, la compassione che guarisce i nostri
mali.
Per noi la vita è possibile nella ripetizione del respiro e del battito del
cuore, della veglia e del sonno, del cibo e delle solite parole scambiate - le
fondamentali sono sempre le stesse! Ma nessun giorno è come l’altro. Nel
ritmo l’uomo cresce fino alla sua maturazione intellettuale e spirituale.
Ripetere è la condizione per ricordare, portare al cuore. Uno vive dei suoi
ricordi: la sedimentazione di esperienze successive e ripetute diventa la
“memoria”, il programma di vita. Il credente fa memoria del corpo del Signore
dato per lui, ricorda la sua compassione: mangia e rimangia di questo pane,
fino a quando tutta la sua vita è eucaristia - donata dal Padre e ai fratelli.
Il brano ci presenta Gesù sul monte che realizza il regno per i poveri: le
folle di malati accorrono a lui per essere curate (vv. 29-31) e ricevere il pane e
la sazietà che viene dalla sua compassione (vv. 32-39).
La comunità che spezza il pane continua la sua opera, vivendo del
banchetto della Sapienza. Non solo fa un rito, ma vive nella quotidianità ciò
che celebra.
Questo racconto ha somiglianze e differenze con il precedente. Ogni
ripetizione è una variazione sul tema: la realtà è una, ma ogni volta ne colgo
un aspetto complementare e più profondo.
Qui si evidenzia maggiormente la compassione di Gesù e
l’incomprensione dei discepoli direttamente interpellati, che pure dovrebbero
aver capito qualcosa dall’esperienza precedente.
Nonostante che ripetiamo l’eucaristia, fatichiamo ad entrare nella
compassione di Gesù. Per questo, direbbe Paolo, molti tra noi sono malati e
infermi, e un buon numero morti. Perché mangiamo questo pane senza
riconoscere il corpo del Signore (1Cor 11,30.29).
Ma proprio questa ripetizione, giorno dopo giorno, ci guarisce. Il Signore è
paziente: sempre, ogni volta, riprende a dirci la sua parola e a darci il suo
pane.
Gesù è il maestro che ricomincia sempre la sua lezione, e a sue spese; è
il Signore che di continuo ci offre la sua eterna compassione.
440
La Chiesa, come i discepoli, non comprende: tuttavia esegue l’ordine del
Signore, dando a tutti il pane che riceve. Chi capisce il dono, entra nel regno.
v. 29: salito sul monte, Gesù stava lì seduto. È lo stesso scenario delle
Beatitudini (5,1). Qui realizza quanto là ha detto: i poveri, gli affamati e gli
afflitti hanno la sazietà e la consolazione del regno.
v. 30: vennero da lui molte folle. Là si avvicinano i discepoli (5,1), qui
una folla oppressa da ogni tipo di male. È quasi un mare di sofferenza che si
riversa addosso a lui, seduto sul monte.
zoppi, ciechi, storpi, sordi, ecc. Si nominano quattro forme di male. Sono
le quattro “fami” dell’uomo, di cui il Signore ha compassione e si prende cura.
Quattro - numero dominante nel racconto con il tre e il sette - indica
totalità: quattro sono gli elementi dell’universo, quattro i punti cardinali. Tutto
il male si riversa su Gesù da ogni parte.
Zoppo è l’uomo che non cammina, incapace raggiungere la sua casa.
Cieco è l’uomo che non vede, non ancora venuto alla luce della sua verità.
Storpio è l’uomo ricurvo su di sé, che non riesce a stare dritto di fronte al
volto dell’altro che gli dà la sua identità. Sordo è l’uomo che non può udire la
parola, escluso dal dialogo con l’altro che lo fa essere se stesso.
li gettarono ai suoi piedi e li curò. L’umanità, diventata come i suoi idoli
che hanno piedi e non camminano, occhi e non vedono, mani e non toccano,
orecchi e non odono, bocca e non parlano (Sal 115,4-8), è gettata ai piedi di
Gesù. Davanti a lui torna ad essere ciò che è, ricostituita a immagine del
Vivente.
v. 31: la folla si meravigliava, ecc. È lo stupore di chi vede l’uomo
restituito al suo splendore di immagine di Dio.
muti che parlano. Sono i sordi del v. 30: essendo sordi alla Parola, erano
anche muti, incapaci di esprimerla.
storpi guariti. L’uomo recupera il suo star ritto, la sua posizione di
interlocutore dell’altro.
441
ciechi che vedono. La vista è il miracolo definitivo: è l’illuminazione della
fede, che ci fa nascere alla nostra vita di figli e di fratelli.
glorificavano il Dio d’Israele. Le folle riconoscono che non si è accorciato il
braccio di Dio (Is 50,2), e gli rendono gloria.
v. 32: Gesù, chiamati innanzi i suoi discepoli, ecc. Nel primo racconto
furono i discepoli a venirgli innanzi (14,15) per fargli la loro proposta. Ora si fa
innanzi lui, per proporre loro la sua compassione.
ho compassione. La compassione è il principio di ogni sua azione: è
l’amore, che sente l’altro come se stesso.
da tre giorni dimorano presso di me. È misterioso questo dimorare tre
giorni, senza cibo, presso di lui. Anche lui ha dimorato nel digiuno tre giorni e
tre notti nel cuore della terra (cf. 12,40), per essere presso tutti noi.
Nell’ascolto c’è un dimorare suo presso di noi e nostro presso di lui, nel
mistero dell’unica Parola.
non hanno che mangiare. Si sottolinea la mancanza di cibo.
perché non vengano meno per strada. È troppo lungo il cammino (1Re
19,1-8). È necessario proprio quel pane che viene dal suo digiuno di tre giorni
sotto terra. La sua stessa parola in noi è seme che diventa pane.
v. 33: da dove per noi nel deserto tanti pani? Nonostante la lezione
precedente, ancora i discepoli non sanno da dove viene il pane.
v. 34: quanti pani avete? La soluzione non è da cercare fuori, ma dentro
la comunità, nel modo di vivere il pane che già hanno.
sette. È il numero perfetto. Richiama il settimo giorno della creazione, il
compimento suo e il riposo di Dio. Questo pane infatti è il compimento della
creazione: ci introduce nel settimo giorno, nel riposo di Dio.
v. 36: Gesù prese (cf. 14,19). Il Figlio “prende”: la sua vita è ciò che gli è
dato.
i sette pani. Sudore e cibo, dolore e speranza, gioia e angustia, giustizia e
ingiustizia, divisione e comunione, morte e vita: tutta la nostra esistenza è
contenuta nel pane di cui viviamo. È tutto da “prendere”; ma non come
Adamo, bensì come Gesù.
rese grazie. Significa: “fece eucaristia” (in 14,19 “levò gli occhi al cielo e
benedisse”). È il modo di vivere del Figlio. Tutto ciò che è, è gioia, gratitudine
442
ed amore verso il Padre. Anche noi siamo chiamati a fare in tutto e sempre
eucarestia: questa è la volontà di Dio (1Ts 5,18), la nostra santità (1Ts 4,3) - il
nostro modo “altro”, divino, di vivere.
li spezzò. Chi vive nella gioia del dono e dell’amore sa amare fino al dono
di sé.
li dava. In 14,19 c’è: “li diede”; qui: “li dava”. L’imperfetto indica
un’azione che non è ancora finita: Gesù continua sempre a dare ciò che allora
diede, fino a quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).
ai discepoli. Discepolo è colui che riceve questo pane che lo fa come il
suo Maestro.
e i discepoli alla folla. Il discepolo, in forza di questo pane, può fare come
il suo Maestro: darlo a tutti, perché ciascuno diventi discepolo come il
Maestro.
v. 37: tutti mangiarono e furono sazi. È la beatitudine di 5,6. Questo
“pane dei figli” è per “tutti” i fratelli. E solo questo pane sazia la fame
dell’uomo: contiene ogni delizia (Sap 16,20). Altri pani affamano.
levarono sette ceste piene. Nel primo racconto (14,20) erano dodici, una
per ogni tribù d’Israele e per ogni mese. Ora sono sette, numero del
compimento. Prima si sottolineava la quantità del pane: basta per tutti e per
sempre. Ora la qualità: è il pane perfetto, che ci rende figli, perfetti come il
Padre (5,48).
Qualcuno vede in questo numero l’allusione ai sette diaconi che
presiedevano le mense dei cristiani di origine non giudaica (cf. At 6,1ss).
v. 38: quattromila uomini. In 14,21 erano cinquemila, con richiamo alla
prima comunità di At 4,4. Qui sono quattro volte mille. Quattro significa
totalità, mille quantità innumerevole: è la folla di tutta l’umanità, fatta di figli
chiamata a vivere da fratelli. Le sette ceste piene sovrabbondanti sono a
disposizione, perché tutti possano mangiare dei sette pani, che saziano la
vera fame dell’uomo, il suo desiderio di essere come Dio (Gen 3,5s).
v. 39: congedate le folle, ecc. Con questo viatico Gesù ci consegna al
nostro cammino: ormai possiamo “camminare come lui ha camminato”, senza
venir meno per strada (v.32).
443
3. Pregare il testo.
Da notare:
• salito sul monte
• zoppi, ciechi, storpi, sordi
• li gettavano ai suoi piedi
• li curò
• ho compassione della folla
• da tre giorni dimorano presso di me
• da dove per noi nel deserto tanti pani da saziare tanta folla?
• quanti pani avete?
• sette
• prese i sette pani
• rese grazie
• li spezzò
• li dava ai discepoli
• e i discepoli alle folle
• mangiarono tutti e furono sazi
• sette ceste
• quattromila uomini.
4. Testi utili
444
Sal 23; Es 16,1ss; 2Re 4,42-44; Is 25,1ss; 35,1ss; Gv 6,26-66.
445
67. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI E DEI SADDUCEI
16,1-12
446
12 Allora compresero che non disse
di guardarsi dal lievito dei pani,
ma dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei.
“Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei”, ripete Gesù ai discepoli
che si lamentano di non aver pane. Anche qui, come dopo il primo fatto dei
pani, li chiama “voi di poca fede” (v.8; 14,31).
Il “pane” non è mai sufficiente (15,33; cf. 14,17). Eppure c’è, e in
sovrabbondanza (cf. 14,20; 15,37; 16,9-10), se è vissuto secondo la parola di
Gesù: è la vita stessa del Figlio offerta a tutti i fratelli. Ma c’è qualcosa che lo
insidia: è il lievito dei farisei e dei sadducei, come qui si dice.
I farisei sono gli osservanti della legge; i sadducei sono i ricchi proprietari.
Legge e danaro sono rispettivamente il mezzo per possedere Dio e le cose. Ma
il possesso è un fermento micidiale, che distrugge l’essenza del vangelo: si
oppone al dono.
Il pane - la vita del Figlio - non è salario del nostro sudore, frutto del
nostro accumulare ricchezza religiosa o mondana: è dono gratuito del Padre.
Legge e potere sono il lievito che impediscono di vivere da figli e da fratelli.
In barca i discepoli hanno sempre tempesta (8,23-27; 14,22-33). Questa
terza volta la burrasca non è più esterna, ma interna. Si lamentano di non
avere pane, mentre Gesù li rimprovera di avere lieviti diversi da quello del
regno. Il problema reale del discepolo è sempre la “poca fede” in Gesù e nella
sua parola (v.8; 8,26; 14,31).
Il brano è diviso in due parti. Nella prima Gesù risponde ai farisei e ai
sadducei che chiedono un segno dal cielo, invitandoli a leggere i segni dei
tempi e riproponendo loro il segno di Giona (vv.1-5; i vv. 2b-3, simili a Lc
12,54-56, mancano in importanti manoscritti). Nella seconda parte Gesù dice
ai discepoli, preoccupati di non aver pane, di guardarsi dal lievito dei farisei e
dei sadducei (vv.6-12): è questo che impedisce loro di capire e vivere il pane -
il segno di Giona.
447
In questo brano si nomina sette volte il pane e tre volte il lievito; inoltre
per quattro volte si parla di farisei e sadducei. Essi rappresentano quel lievito
che mette alla prova il Signore, e impedisce al discepolo di vivere del suo
pane.
Gesù richiama tutti, e in particolare i discepoli, a saper leggere il segno
definitivo, quello di Giona, in cui si fa nostro pane.
La Chiesa capisce e vive questo segno nella misura in cui è libera dal
lievito della legge e del potere: sono i due nemici che stanno sempre dentro le
mura di ogni città e di ogni cuore, per quanto santi siano.
448
Dopo il dono del pane - il segno di Giona - il Signore non ha più segni. Con
esso ha detto tutto: ha dato se stesso!
v. 2s: venuta la sera, dite, ecc. I segni delle cose che ci stanno a cuore,
sappiamo discernerli bene, anche dai più piccoli indizi. Il segno del Figlio
dell’uomo che entra nel cuore della terra non ci interessa, e non lo vogliamo
comprendere. Eppure, se uno non mente a se stesso, da ciò che Gesù fa
dovrebbe capire chi è.
Il discernimento nelle cose di Dio è difficile, perché cerchiamo segni che confermino le nostre
attese, che sono opposte alle sue. I farisei vorrebbero un Messia zelante della legge, sterminatore
degli empi e salvatore dei buoni; i sadducei vorrebbero un Messia potente e vittorioso che assicuri
benessere e dominio. Il Signore invece è mite e umile di cuore (11,29).
v. 4: una generazione perversa e adultera, ecc. Come in 12,39, a chi non
vuol leggere i suoi segni, il Signore darà “il suo” segno, quello di Giona: il suo
corpo dato per noi. Questo sarà un lievito di vita, nascosto nella pasta del
mondo (cf. 13,33).
lasciatili, se ne andò. Non li abbandona: li lascia con la promessa del
“suo” segno.
v. 5: dimenticarono di prendere pani. Nessuna dimenticanza è mai a
caso! Nel loro viaggio in barca i discepoli si trovano senza pane. Normalmente
ne hanno (cf. 14,17; 15,34); anche se insufficiente per gli altri, è quanto basta
per loro. Ora invece non basta neanche a loro stessi. L’unico pane che,
secondo Mc 8,14 hanno, non è riconosciuto; è scambiato per fantasma (cf.
14,26). Infatti anche loro non sanno leggere il segno di Giona.
v. 6: attenti a guardarvi dal lievito dei farisei e dei sadducei. Invece di
sadducei, Marco parla di Erode (8,14-21), più comprensibile ai suoi lettori non
giudei. È ovviamente il lievito del v.1: vogliono un segno dal cielo che
confermi le loro attese.
Il segno del pane, appena dato, può essere letto anche dai discepoli al
contrario: può suscitare la pretesa di un intervento prodigioso, invece che la
volontà di condivisione e di dono, fino al dono di sé. Il pane che dà vita filiale e
fraterna è sempre insidiato dal lievito dei farisei e dei sadducei - e poco
fermento lievita tutta la pasta (1Cor 5,6; Gal 5,9)! I discepoli “in barca”, nella
loro traversata verso l’altra riva, possono ridurre l’eucaristia a un bel rito che
non diventa concreta vita fraterna, senza riconoscere il corpo del Signore (cf.
449
1Cor 11,17-34) e scambiandolo per un fantasma (14,26). Gesù ha insegnato a
prendere, benedire, spezzare e dare, condividendo la propria vita! Ha rifiutato
di far delle pietre pane, come voleva il tentatore (4,3)!
v. 7: non abbiamo preso pani. Dopo il fatto dei pani, pensano di viaggiare
senza provviste per provocare un segno dal cielo? Ma il suo pane non è un
segno dal cielo, bensì dalla terra: è il Figlio dell’uomo che si consegna
all’uomo, in una vita filiale e fraterna. Il problema non è provocare il Signore a
darci altro pane, ma vivere quanto abbiamo e siamo in obbedienza a lui, che
ha detto: “Date loro voi stessi da mangiare” (14,16). In questo modo il pane
materiale diventa cibo spirituale, sazietà di figli e di fratelli.
v. 8: o voi di poca fede. È l’appellativo del discepolo (6,30; 8,26; 14,31;
17,20). La fede c’è, ma insufficiente e sempre malsicura. Anche il discepolo,
invece di fidarsi, preferisce chiedere segni. Invece di dire: “Sia fatta la tua
volontà” (6,10), vuole che il Signore soddisfi le sue brame (cf. Sal 78,18). Si
lamenta di non aver pane, perché non mangia e non vive del suo pane. Non è
che gli manchi il cibo, ma la fede che porta a condividere.
v. 9: ricordate i cinque pani, ecc. La via alla guarigione è il ricordo del
fatto dei pani, che vince in noi il lievito dei farisei e dei sadducei. Esso ci
insegna non a chiedere segni dal cielo, ma a vivere secondo la volontà del
Padre celeste il nostro pane quotidiano.
v. 10: i sette pani, ecc. Il ricordo del dono e il suo ripetersi – come
facciamo nella celebrazione della cena del Signore - ci guarisce lentamente
dal lievito dei farisei e dei sadducei. Il suo corpo dato per noi è antidoto al
nostro egoismo e partecipazione al suo Spirito, anche se sempre rimane il
pericolo di ridurre l’eucaristia a semplice rito.
v. 11: come mai non capite che non vi ho parlato di pani? Gesù
sottolinea con sorpresa l’incomprensione. Non parla di pane materiale, ma del
modo con cui si vive. Si può vivere con il lievito del regno, che porta al dono di
sé o con il lievito dei farisei e dei sadducei, che porta a garantirsi il possesso
di tutto, fino a mettere le mani sul Signore stesso.
v. 12: non disse di guardarsi dal lievito dei pani, ma dall’insegnamento,
ecc. Non è problema di pane o lievito materiale, ma di Spirito: con quale
spirito viviamo il “pane nostro quotidiano”? Che uso facciamo dei beni e della
450
vita? Secondo la tradizione degli uomini, farisei o sadducei che siano, che
annullano la parola di Dio (cf. 15,6), o secondo il comando del Signore?
Cerchiamo di dar gloria a Dio o a noi stessi, di possedere o di condividere, di
togliere o di dare ai fratelli? Abbiamo il lievito di vita o quello di morte, del
dono o del possesso, spirituale o materiale che sia?
3. Pregare il testo
Da notare:
• gli chiesero di mostrare un segno dal cielo
• non sapete discernere i segni dei tempi?
• a questa generazione perversa non sarà dato alcun segno, se non il
segno di Giona
• i discepoli dimenticarono di prendere pane
• attenti a guardarvi dal lievito dei farisei e dei sadducei
• non abbiamo pane
• non avete ancora capito né ricordate i cinque pani per i cinquemila?
• i sette pani per i quattromila?
• come mai non capite?
• guardarsi dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei.
4. Testi utili
451
Sal 78; 95; Es 17,1-7; Mc 8,14-21; 1Cor 11,17-34; Fil 3,1ss. In particolare: il
lievito dei farisei cf. Lc 7,36-50; 15,1ss; 18,9-14; il lievito dei sadducei: Lc
12,13-21; 16,1-13; 18,18-30; 19,1-10.
452
68. MA VOI CHI DITE CHE IO SIA?
16,13-20
453
1. Messaggio nel contesto
“Ma voi chi dite che io sia?” Io-Sono chiede con umiltà ai discepoli: “Chi
sono io?”, per introdurli nel suo mistero. Non è una crisi di identità sua: è in
gioco l’identità loro. Gesù rivolge loro la domanda con trepida attesa: essere
riconosciuto è il desiderio fondamentale dell’amore che si rivela. La risposta
personale a questa sua domanda costituisce il discepolo. Il cristianesimo non è
un’ideologia, una dottrina o una morale, ma il mio rapporto con Gesù, il “mio”
Signore che amo come lui mi ama (cf. Gal 2,20).
Ai discepoli si chiede prima cosa dicono gli uomini e poi cosa dicono loro,
per suggerire che la loro risposta non deve essere come quella degli altri. Né
la carne né il sangue, ma solo il Padre può rivelare chi è il Figlio.
Siamo alla svolta decisiva del vangelo: finalmente Pietro e quelli con lui lo
riconoscono come il Messia e il Figlio di Dio. Avvinti a lui, d’ora in poi potranno
ricevere il dono di quella conoscenza di lui che può essere fatta solo a chi lo
ama.
Il brano è un dialogo tra Gesù e i discepoli: i vv. 13-16 contengono le due
domande sulla identità sua e le due risposte dei discepoli, la seconda delle
quali è riservata a Pietro. Nei vv. 17-19 Gesù proclama beato Pietro perché ha
accolto la rivelazione (v.17), e per questo gli dà la funzione di “pietra” per la
Chiesa (v.18), insieme al suo stesso potere di legare e sciogliere (v.19). Il v.
20 conclude con l’ordine di tacere.
Il brano presenta il riconoscimento di Gesù e il conferimento del primato a
Pietro. Riconoscere Gesù come il Cristo e il Figlio di Dio è il centro della fede. Il
ruolo di Pietro è quello della “pietra” su cui si edifica la comunità che professa
tale fede.
Il primato di Pietro fu occasione di tante separazioni, antiche e recenti,
prima in Oriente e poi in Occidente. Il servizio dell’unità nella fede e nella
carità è stato spesso “scandalo”, motivo di divisioni e odi. Non è sempre facile
vedere in quale misura ciò sia dovuto al cattivo modo di servire, e in quale,
invece, all’inevitabilità dello scandalo stesso della verità, che è sempre segno
454
di contraddizione (cf. Lc 2,34). Anche l’identità di Gesù, vero uomo e vero Dio,
è stata ed è occasione di tutte le eresie!
Questo brano è un contrappunto al precedente: al dialogo di
incomprensione, succede il riconoscimento. Chi è libero dal lievito dei farisei e
dei sadducei, vede nel pane il Cristo, il Figlio di Dio dono del Figlio dell’uomo a
ogni uomo.
Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Questa è la fede cristiana che i
discepoli hanno maturato e ci hanno trasmesso.
La Chiesa ha la beatitudine di vivere questa fede, direttamente rivelata dal
Padre. Pietro ha la funzione di “pietra”, di fondamento su cui il Signore edifica
la sua Chiesa; a lui inoltre è confidato il servizio delle chiavi del regno, la
funzione di interpretare autenticamente ciò che è conforme a tale fede e ciò
che è difforme da essa.
455
Lasciarsi interrogare da lui e rispondergli secondo lo Spirito è l’arte e
l’avventura di essere uomo. Dio è l’eterna domanda; l’uomo ne è la risposta,
nella misura in cui ne ascolta la Parola e la incarna nella propria vita.
chi dicono gli uomini che sia il Figlio dell’uomo? C’è un “si dice”, un parlare
generico e irresponsabile che non corrisponde mai a verità. In esso ciò che è
già noto, o si presume tale, diventa misura di tutto. L’ignoto è ridotto
all’ovvio, che è come il letto di Procuste, che adatta tutto alle proprie
dimensioni. Le nostre convinzioni ci velano la realtà del Figlio dell’uomo e
dell’uomo stesso, che è sempre più grande di quanto possiamo già sapere.
Gesù con questa domanda fa uscire allo scoperto le risposte scontate che
spontaneamente diamo.
v. 14: alcuni Giovanni Battista, altri Elia, ecc. Sono le figure religiose più
eminenti del passato, con una storia di azione e di passione per la Parola.
Hanno in comune il non essere state capite in vita e l’essere già morte.
Scambiare il Vivente per un morto è il modo più elegante per ucciderlo. Lo
si riduce a un monumento funebre che non scomoda più che tanto; richiede
solo un po' di venerazione.
v. 15: ma voi chi dite che io sia? La risposta dei discepoli è un “ma”
rispetto a quella della gente, come il pensiero di Dio è un “ma” rispetto a
quello dell’uomo: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non
sono le mie vie” (Is 55,8). La risposta del discepolo alla domanda di Gesù è
diversa, altra e santa: è suggerita dal Padre che il Figlio rivela. Il “voi” è la
comunità di chi ascolta la domanda del Figlio, Parola del Padre.
v. 16: tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Pietro per primo risponde
personalmente alla domanda. Lo riconosce come il Cristo e il Figlio del Dio
vivente: è il salvatore atteso che compie ogni promessa del cielo e desiderio
della terra, è l’inatteso Figlio di Dio, che in ogni promessa si compromette,
dono oltre ogni desiderio.
Il mistero del Figlio dell’uomo è quello di essere il Figlio di Dio che si
comunica ad ogni uomo. Gesù è venuto a portarci il dono del Padre, il Padre
come dono, in modo che tutti siamo figli e fratelli.
Quella di Pietro è la professione di fede cristiana: Gesù è il Cristo, l’unico
Cristo, è il Figlio, il Figlio unigenito del Padre della vita (cf. 14,33; 26.63;
456
27,40.43. 54; cf. 28,18s). Vedere nella carne di Gesù il Cristo il Figlio di Dio è il
centro della rivelazione: è entrare nella conoscenza del mistero del rapporto
Padre/Figlio, rivelato ai piccoli (cf. 11,25-27).
Da questa risposta Pietro è generato uomo nuovo, partecipe del segreto di
Dio. Con ulteriore sorpresa dovrà capire in seguito che “il” Cristo non è quello
che lui pensa, ma un Cristo che lui non si aspetta; scoprirà anche che “il”
Figlio di Dio è un Figlio che lui neanche sospetta, e che il Dio vivente è altro da
quello che lui immagina.
Spontaneamente riduciamo a “carne e sangue” anche la rivelazione di Dio
(cf. vv. 21-23).
v. 17: beato te Simone, figlio di Giona. Quella di Pietro è la beatitudine
suprema: accogliendo il Figlio, entra nel regno del Padre. Lui è il primo che
riceve la rivelazione di ciò che è nascosto ai sapienti e agli intelligenti. A chi gli
dice: “Tu sei”, lui risponde: “Beato te”, e comincia il dialogo tra i due.
né carne né sangue ti rivelarono, ma il Padre mio, ecc. Pietro vede quanto
occhio umano mai non vide: ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano
nella carne del Figlio (cf. 1Cor 2,9). Il figlio di Giona legge nel Figlio dell’uomo
il segno di Giona - la rivelazione di Dio. Il cristianesimo è conoscere e amare la
persona di Gesù. Credere al suo messaggio non è apprezzare o adottare la
sua dottrina: è conoscere e amare lui come il Figlio di Dio, che si è fatto mio
fratello per darmi il suo stesso rapporto col Padre. Se lui non fosse Dio,
sarebbe il più grande mistificatore della storia. Chi lo conosce, sa che non è
così: è il Signore, che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).
v. 18: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa. Pietro
diventa “pietra”, attributo di Dio (Dt 32,4; Is 17,10), come lo fu anche di
Abramo, padre dei credenti (cf. Is 51,1s). La fede nel Figlio gli dona la
prerogativa di Dio stesso. La chiesa si costruisce su questa pietra come la
casa di coloro che sono ormai familiari di Dio (Ef 2,19-22).
le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Ogni potere di morte
si infrangerà contro il Dio vivente e quelli di casa sua. La sua fedeltà ha
l’ultima parola su ogni nostra infedeltà, al di là di ogni nostra fragilità e
peccato, che pure Pietro sperimenterà (14,29-31; 26,32-35.69-75; 28,7.10).
Ciò che vale per Pietro, vale per tutta la Chiesa.
457
v. 19: darò a te le chiavi del regno dei cieli. La fede di Pietro è la chiave
che apre il regno. “Darò” è al futuro: la promessa vale per il tempo che segue.
La fedeltà di Dio garantisce la fede di Pietro, nella quale poi egli confermerà i
fratelli (Lc 22,32).
ciò che legherai sulla terra. Legare e sciogliere significa proibire e
permettere, interpretando autenticamente la Parola. Inoltre significa
ammettere ed escludere dalla comunità. In base al dono della fede, a Pietro è
dato il pegno/impegno di dire ciò che è conforme o meno ad essa e, di
conseguenza, dichiarare chi appartiene o meno al regno.
In questo testo si fonda il “primato di Pietro”. Nel corso dei secoli è stato
variamente esercitato e inteso, frainteso e malinteso, con o senza colpa.
L’autorità nella chiesa non è certo come quella dei capi delle nazioni, ma la
stessa del Signore, che è venuto per servire e dare la vita (Mt 20,24-28). Si
tratta di un servizio nella fede e nell’amore, principio di unione e di vita.
Bisogna non dimenticare che ogni autorità può degenerare da servizio che
fa crescere a potere che distrugge la verità e la libertà, l’amore e la
comunione (cf. 20,24-28).
La fatica che tutti hanno nell’accettare l’autorità è la stessa che tutti
hanno nell’accettare la diversità, da quella di Dio a quella dei genitori e di
ogni altro, riflesso dell’Altro. La diversità può essere vissuta con amore; allora
è principio di unione e di vita. Ma può anche essere vissuta con conflitto;
allora è principio di divisione e di morte.
Il servizio di Pietro, come ogni altro, deve cambiare secondo le diverse
situazioni storiche. Fa parte della legge dell’incarnazione assumere
responsabilmente i condizionamenti della propria epoca. Occorre sempre
chiedersi quale sia il modo più adatto di esercitare “oggi” tale servizio. Non
bisogna dare nulla per scontato, ma tutto esaminare, e ritenere ciò che è
buono (1Ts 5,21).
Si discute tra gli esperti il senso originale del testo, cosa intendesse
Matteo e cosa intendesse Gesù. Certamente è importante saperlo, perché ciò
che è stato “allora” è qualcosa di unico che vale sempre, anche “ora”: è
normativo per la comunità che cerca di camminare ora, come lui ha
camminato allora.
458
Non basta però riprodurre “il senso originale del testo”. Occorre anche
vedere la “produzione di senso” che il testo ha originato nella vita dei
discepoli, ai quali il Signore ha promesso di essere sempre vicino, sino alla
fine del mondo (28,20). In situazioni nuove e inedite, lo stesso testo produce
sensi nuovi e inediti. La parola di Dio non è un feticcio morto, ma vive e opera
nella storia per la potenza dello Spirito.
La “domanda” che si pone a un testo è determinante per la risposta che se
ne ottiene. Oggi, la nostra epoca, che è contrassegnata dal compimento della
libertà, che domande pone all’esercizio del servizio di Pietro? La risposta che
si dà è d’importanza decisiva non solo per l’ecumenismo, ma anche per il
mondo intero, davanti al quale siamo posti come segno di unità, senza che ciò
sia mai a discapito della verità e della libertà.
v. 20: non dire a nessuno che lui è il Cristo. Infatti il Figlio dell’uomo non è
il Cristo che pensa Pietro, ma quello che si rivelerà subito dopo, e che Pietro
non vorrà accettare (vv.21-23).
3. Pregare il testo
Da notare:
• Gesù interroga
• chi dicono gli uomini che io sia?
• ma voi chi dite che io sia?
• tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente
• beato te, Simone
• tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa
• le porte degli inferi non prevarranno contro di essa
• a te darò le chiavi del regno
• ciò che legherai sulla terra, sarà legato in cielo
• ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto in cielo.
459
4. Testi utili
460
69. DIETRO DI ME
16,21-28
“Dietro di me”, dice Gesù a Pietro e a tutti i discepoli. Dopo essere stato
riconosciuto, gioca a carte scoperte: mostra che il Cristo e il Figlio del Dio
461
vivente non è quello che pensiamo noi. La sua salvezza non consiste nella
soddisfazione delle nostre brame di avere, di potere e di apparire, ma nella
povertà, nel servizio e nell’umiltà. Questa è la via di quel Dio che è amore,
attraverso la quale “deve” passare il Figlio dell’uomo per vincere il male
dell’uomo.
Siamo a una svolta decisiva del vangelo: Gesù fa il primo annuncio della
sua morte-risurrezione. Per la prima volta parla della croce, e mostra l’abisso
che c’è tra Dio e tutte le nostre immagini su di lui. Essa ci fa vedere chi è il
Figlio a immagine del Padre, l’uomo pienamente realizzato.
Il brano presenta in un quadro sintetico l’identità di Gesù, il Crocifisso
risorto (v. 21), e quella del discepolo, specchio della sua (vv. 24-26); al centro
c’è la reazione di Pietro e la controreazione di Gesù (vv. 22-23) e, alla fine,
troviamo il richiamo alla sua venuta nella gloria (vv. 27-28).
La croce è scandalo per tutti (1Cor 1,23). Davanti ad essa anche Pietro, la
“pietra”, diventa scandalo, inciampo per il Signore stesso.
La reazione di Pietro è di capitale importanza: svela la nostra lontananza
da Dio. Pietro vuol bene a Gesù: gli vuole il bene che vuole a se stesso. In
questo è umano, molto umano, anzi diabolico: ritiene che il bene sia quello
che pensa lui. Dovrà scoprire che il bene che il Signore gli vuole è ben altro.
Lo scontro tra il pensiero di Dio e quello dell’uomo è ineludibile: fa uscire allo
scoperto l’inganno che è nascosto nel nostro cuore. Il volto del Figlio
dell’uomo illumina progressivamente le nostre oscurità, fino a farci riflesso
della sua gloria. Andando dietro di lui, diventiamo come lui: il nostro non è più
un cammino dalla vita alla morte, ma di vittoria sulla stessa morte, per
giungere a quella pienezza di vita che da sempre desideriamo.
Pietro, pur avendo ricevuto la rivelazione del Padre sull’identità di Gesù,
non per questo ha capito chi lui è: è vero che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio,
ma la verità di Cristo e di Dio non è quello che lui intende. È costante il
pericolo di ridurre a “ovvietà” umana anche la rivelazione di Dio - facendo di
Gesù l’attaccapanni delle nostre fantasie religiose. Questo avviene ogni volta
che la nudità della croce non ci scandalizza.
462
Il seguito del vangelo mostrerà chi veramente è il Cristo e il Figlio di Dio: il
mistero di Gesù, che Pietro ha appena intuito, sarà proclamato senza equivoci
solo sul Calvario (27,54).
Il Figlio dell’uomo deve andare a Gerusalemme: lì, con le sue ferite, sanerà
le nostre ferite (cf. Is 53, 5.6; 1 Pt 2,25). Proprio così è il Cristo che salva, il
Figlio di Dio che rivela il Padre della vita.
La “passione” del Signore manifesta la vera e profonda identità sua e
nostra: lui è amore infinito per noi, e noi siamo amati infinitamente da lui. La
sua gloria diventa la nostra stessa gloria.
La giustapposizione tra l’identità di Gesù e la nostra mostra come la
cristologia è ecclesiologia: il discepolo è specchio del suo maestro e Signore.
La rivelazione di chi è lui è anche rivelazione di chi siamo noi. Inoltre la
“rivelazione” diventa “etica”: siamo chiamati a diventare ciò che siamo -
fratelli che rispecchiano di gloria in gloria il volto del Figlio, trasfigurati a sua
immagine per l’azione del suo Spirito (2Cor 3,18) .
Gesù, il Figlio dell’uomo, proprio in quanto crocifisso è il Risorto, il Cristo
salvatore, il Figlio del Dio vivente, vero volto dell’uomo e di Dio.
La Chiesa è costituita non solo dalla professione di fede di Pietro, ma
anche dal suo confronto con Gesù. Continuamente deve essere purificata dal
suo modo satanico di intendere l’uomo e Dio attraverso l’incontro/scontro con
la parola della croce.
463
dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi. Sono rispettivamente i
ricchi, i
potenti e i sapienti, coloro che puntano, e con successo, la propria
esistenza sulla brama di avere, di potere e di apparire. Sono le tre maschere
del male, sul quale si struttura l’ordinamento del mondo (1Gv 2,16).
Rappresentano l’aspirazione di ciascuno di noi, che riteniamo bene ciò che in
realtà è egoismo e morte. Gesù deve entrare in questo male in cui ci
troviamo, per salvarci e mostrarci il vero volto dell’uomo che è lo stesso di
Dio.
essere ucciso. Gesù non muore: è ucciso a motivo di ciò per cui vive. Con
la sua morte diventa martire, testimone di un amore più forte della stessa
morte.
e il terzo giorno risuscitare. La sua uccisione è vittoria sul potere della
morte: è risurrezione.
v. 22: Pietro cominciò a rimproverarlo. Gesù comincia a rivelarsi
apertamente, e Pietro a ribellarsi duramente. “Rimproverare” in greco è la
stessa parola che indica quanto Gesù fa con i demoni. È quanto Pietro fa con
Gesù. Chi evita questo scontro, non capirà mai il pensiero di Dio. Lo scontro
può essere evitato in buona o in malafede, per dabbenaggine o per astuzia -
o, più facilmente, per inavvertenza e cecità.
Pietro prende Gesù in disparte per rimproverarlo: gli vuole bene, e non
vuole umiliarlo davanti agli altri! Si sente comunque in dovere, per il suo
affetto, di riprenderlo. Certe cose non si dicono neanche per scherzo! Che ne è
del Cristo e del Dio vivente se è un perdente? È bestemmiare contro (ciò che
Pietro pensa essere) la Gloria.
Dio te ne scampi, ecc. Pietro è sicuro che Dio non vuole così! Per lui Dio è
la realizzazione suprema delle aspirazioni dell’uomo: il sommamente ricco,
onnipotente e glorioso. Se Dio fosse la proiezione dei nostri desideri, sarebbe
il sommo male più che il sommo bene! La falsa immagine che abbiamo di lui
corrisponde al falso ideale che abbiamo dell’uomo, sua immagine. E proprio
per questo facciamo il male, con cecità ostinata nonostante i risultati.
464
v. 23: voltatosi. Pietro non stava parlando faccia a faccia con Gesù. Questi
si gira, e gli mostra il suo volto. In lui c’è affetto per l’amico, ma durezza
contro il nemico che si cela in lui.
mettiti dietro di me. Pietro si era messo “davanti” a Gesù per condurlo a
fare la propria volontà, come satana. Gesù non lo respinge lontano. Lo rimette
nella sua posizione giusta: “dietro” di lui. Noi chiediamo al Signore che lui ci
faccia ciò che noi vogliamo (cf. Mc 10,35); la salvezza è invece chiedere che
noi facciamo ciò che lui vuole. Lui vuole aprirci gli occhi sulla vera gloria, come
ai ciechi di Gerico (20,32s), perché lo seguiamo nel suo cammino verso
Gerusalemme.
La salvezza non è che lui segua noi - cosa che già ha fatto, a costo della
sua vita! - ma che noi seguiamo lui, fino al dono della vita.
satana. Pietro, anche se con amore, e quindi in modo più accattivante,
presenta in buona fede le stesse tentazioni di satana, che Gesù già ha
incontrato nel deserto (4,1ss). Qui è più difficile riconoscerle!
mi sei di scandalo. “A fin di bene”, la pietra della Chiesa si fa pietra
d’inciampo, che vuol far cadere il Figlio dell’uomo.
non pensi come Dio, ma come gli uomini. “I miei pensieri non sono i vostri
pensieri, le vostre vie non solo le mie vie”, dice il Signore (Is 55,8). Lui infatti è
“santo”, diverso da noi: è amore. Noi, anche quando lo riconosciamo,
proiettiamo sempre su di lui i nostri desideri, per noi sono più sicuri di
qualunque verità. Anche per chi ha ricevuto la rivelazione di Dio, è costante il
pericolo di ridurre questo a misura d’uomo (v.13). La nostra conoscenza
secondo lo Spirito è sempre mischiata a tanta carne! Ce ne libera solo
quell’incontro costante col vangelo che ha l’onestà di farsi scontro con Gesù.
Pietro è “pietra” non solo in quanto riconosce Gesù, ma anche in quanto si
misura drammaticamente con lui, riconoscendosi pietra d’inciampo.
La fede non è un pacchetto di certezze a buon mercato. È un’acquisizione
progressiva, in un faticoso misurarsi con la parola della croce. Quelle certezze
che non si sanno mettere in discussione, ci allontanano dalla verità.
Lo scandalo di Pietro davanti allo scandalo della croce - pietra contro
pietra - è ineludibile, segno del divino.
465
v. 24: se uno vuole. Ciò che Gesù propone è un atto libero di volontà: la
massima libertà dell’uomo è fare lo stesso cammino del Signore.
venire dietro a me. Andare dietro a lui è il cammino dell’esodo, la
realizzazione piena dell’uomo, la vittoria sull’egoismo e sulla morte. Lui è la
nube e il fuoco che ci guida verso la libertà (cf. Nm 9,15-23).
rinneghi se stesso. Rinnegare il falso io, deformato dalla menzogna e dalla
paura, è far nascere il proprio vero io. La morte dell’egoismo è la nascita
all’amore. Uno, se vuole essere se stesso, deve smettere di pensare a se
stesso: solo allora ha il suo “volto”, rivolto all’altro.
porti la sua croce. La croce di ciascuno è lottare con il male che è in lui: è
la lotta contro il proprio egoismo, che solo lui può fare.
segua me. In questa lotta però non è solo: è in compagnia del suo Signore,
che lo ha preceduto e accompagna.
v. 25: chi vorrà salvare la propria vita. Scampare dalla minaccia
incombente della morte è l’intento primo di ogni pensare e agire. Per questo
diventiamo egoisti, e, invece di salvarci, ci perdiamo.
la perderà. Una vita ispirata all’egoismo è già morta, perduta per sempre.
chi invece perderà la propria vita per me. La vita è amare fino a dare la
vita per colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). La vita è
lo Spirito Santo, l’amore tra Padre e Figlio, dono reciproco dell’uno all’altro.
Chi ama è passato dalla morte alla vita (1Gv 3,14): ha già ora la vita che non
muore.
v. 26: che gioverà infatti all’uomo, ecc.? L’uomo vorrebbe possedere tutto
per garantirsi la vita. Ma proprio così anticipa con l’affanno la morte fisica e
con l’egoismo quella spirituale.
o cosa darà l’uomo in cambio della propria vita? La vita non si può
comperare con denaro, né barattare con beni: è dono, e solo in quanto donata
resta viva. A chi la vuole pagare, non resta che restituirla, dandosi la morte.
v. 27: il Figlio dell’uomo sta per venire. Il mondo è sotto il giudizio di Dio:
la croce del Figlio dell’uomo che dà la vita per gli uomini. Ogni azione ha
valore o meno secondo che è conforme al suo giudizio. La salvezza eterna è
appesa alla mia decisione presente di vivere il giudizio di Dio.
466
renderà a ciascuno secondo l’opera sua. Non chi dice: “Signore, Signore”,
ma chi fa la Parola entra nel regno, diventa figlio e riceve la gloria del Padre
(cf. 7,21-23): costruisce la sua casa che resiste ad ogni intemperia (7,24-27).
v. 28: alcuni dei qui presenti non gusteranno la morte, ecc. Ascoltare e
fare le parole che Gesù ha appena detto è vivere, già qui in terra, da figlio di
Dio: questa è ”la vita eterna”, che vince la morte.
La gloria del Figlio dell’uomo, che alla fine del tempo apparirà come è
apparsa sulla croce (24,34; 26,64; 27,54), traspare già ora nella vita del
discepolo. La trasfigurazione, che immediatamente segue (17,1-9), è l’anticipo
terrestre della gloria celeste riservata al Figlio e a chi lo ascolta. Uno è più
dove ama che dove abita! Chi ama Gesù, come già è unito a lui nella morte,
così è consepolto e conseduto con lui nella gloria. La sua vita è ormai nascosta
con lui in Dio (cf. Rm 6,4; Ef 2,6; Col 2,12; 3,3).
3. Pregare il testo
4. Testi utili
Sal 1; 63; Is 52,13-53,12; Ger 20,7-9; Fil 1,21; 2,5-11; 3,7-14; Gal 2,20; Rm
6,1-11. Ef 2,1-10.
70. ASCOLTATE LUI
17,1-13
467
2 E si trasformò davanti a loro,
e brillò il suo volto come il sole
e le sue vesti divennero bianche come la luce.
3 Ed ecco fu visto da loro
Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
4 Ora rispondendo Pietro
disse a Gesù:
Signore,
è bello per noi essere qui.
Se vuoi, farò tre tende,
una per te, una per Mosè e una per Elia.
5 Mentre lui stava ancora parlando,
ecco una nube luminosa li ricoprì;
ed ecco una voce dalla nube
che diceva:
Questi è il Figlio mio,
l’amato,
in cui mi compiacqui.
Ascoltate lui!
6 E udendo i discepoli
caddero sul loro volto
e temettero molto.
7 E si avvicinò Gesù
e toccandoli disse:
Risvegliatevi,
e non temete!
8 Ora, levati i loro occhi,
non videro nessuno,
se non lui, Gesù, solo.
9 E, scendendo dal monte,
Gesù ordinò loro dicendo:
Non dite a nessuno questa visione,
fino a quando il Figlio dell’uomo
non sia risvegliato dai morti.
468
10 E lo interrogarono i discepoli
dicendo:
Perché dunque gli scribi dicono
che prima deve venire Elia?
11 Egli rispondendo disse:
Sì, Elia viene,
e ristabilirà ogni cosa.
12 Ma vi dico che Elia già è venuto,
e non lo riconobbero,
ma gli fecero quello che vollero.
Così anche il Figlio dell’uomo
sta per soffrire per opera loro.
13 Allora compresero i discepoli
che aveva parlato loro di Giovanni il Battista.
“Ascoltate lui!”, dice la voce dal cielo. Infatti “Questi è il Figlio mio, l’amato,
in cui mi compiacqui!”
Il Padre parla solo due volte dicendo e ribadendo la stessa cosa: proclama Gesù come Figlio una
prima volta dopo il battesimo (3,17) e una seconda qui (v. 5), dopo la predizione della sua morte e
risurrezione (16,21). La trasfigurazione è la conferma della via intrapresa nel battesimo, anticipo
della gloria di Pasqua. Alla sua luce “il Servo” inizia il cammino verso Gerusalemme.
Il racconto è carico di reminiscenze bibliche. Nel Nazoreo infatti si compie
ogni profezia (2,23). La scena richiama Mosè che sale sul monte con Aronne,
Nadab e Abiu, e che al settimo giorno è chiamato da Dio nella nuvola (Es
24,1.9.15s). Ancora ricorda Mosè che scende dal monte con il volto splendente
(Es 39,29-35), e che promette alla fine un profeta del quale dice: “Ascoltate
lui”! (Dt 18,15). Le parole della “voce” riecheggiano il Salmo 2,7, che parla
dell’intronizzazione del Messia; alludono inoltre al sacrificio di Isacco (“il figlio
amato”: Gen 22,2.12.16) e al primo canto del Servo (“in cui mi compiacqui”: Is
42,1). Proprio in quanto servo dei fratelli, il Figlio dell’uomo è il Figlio amato, la
469
Parola stessa da ascoltare, l’irradiazione della gloria del Padre, il Messia che ci
salva.
Il Padre conferma così quanto Gesù ha appena detto: riconosce colui che accetta di essere
riconosciuto da Pietro come il Cristo e il Figlio di Dio (16,16), colui che afferma di essere il Servo
sofferente che Pietro non accetta (16,21-23), colui che chiama al suo stesso cammino (16,24) e si
dichiara il giudice del mondo (16,27). Davanti a tre uomini, il Figlio dell’uomo è proclamato dal
Padre come suo Figlio. È la fine del dibattito su chi è Gesù, e l’inizio del suo cammino verso
Gerusalemme.
Il Padre ha una sola Parola, che lo rivela pienamente: il Figlio. A noi dice di
ascoltarlo, perché, ascoltando lui, diventiamo come lui, figli.
La trasfigurazione è l’esperienza fondamentale della vita di Gesù: la scelta
fatta nel battesimo, che ora si concreta nella prospettiva della croce, è
confermata come la via alla libertà e alla gloria di Dio. È una illuminazione
interiore tanto forte che “trasforma” il suo stesso corpo in sole e luce. È
importante anche per i discepoli averlo visto: quando sarà risorto, potranno
capire che il Risorto è lo stesso Gesù che fu crocifisso.
La trasfigurazione del Figlio rappresenta anche l’anticipo di ciò che saremo.
Il seme della nostra gloria divina è gettato quando decidiamo veramente di
“ascoltare” lui e di fare la sua parola: questa è la “forma” che trasforma la
nostra vita a immagine della sua, fino alla sua misura piena.
Il brano presenta la salita sul monte dove avviene la trasfigurazione (vv.1-
8) e la discesa dove la si interpreta come anticipo della risurrezione che passa
attraverso la croce (vv.9-13).
Gesù, nella sua umanità, mostra la divinità: i discepoli vedono il suo corpo
che riluce della gloria del Figlio nel quale il Padre si compiace, raggio
anticipato della risurrezione.
La Chiesa è rappresentata dai tre apostoli che, a viso scoperto, riflettono
come in uno specchio la gloria del Signore, e vengono trasformati in quella
medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del
Signore (cf. 2Cor 3,18).
470
v. 1: E dopo sei giorni. È il settimo giorno, compimento della creazione che
tutta geme e soffre le doglie del parto in attesa di essere liberata dalla
schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio (Rm 8,22.21).
Questa indicazione di tempo dice che il fine della creazione non è la sua fine:
essa non è destinata alla “sfigurazione” della morte, ma alla trasfigurazione.
Nel Figlio dell’uomo, il creato è destinato ad assumere la forma del Figlio di
Dio. La divinizzazione è il senso della creazione, fino a quando Dio sarà tutto in
tutti (1Cor 15,28).
Gesù prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni. Mosè prese con sé
Aronne, Nadab e Abiu, e salì sul monte, dove Dio rivelò la sua gloria (Es
24,9ss). Questi tre discepoli, che ora sentono il Padre che chiama il Figlio, nel
Getsemani sentiranno il Figlio che chiama il Padre (26,37.39). Monte degli Ulivi
e Tabor si richiamano a vicenda: qui l’umanità di Gesù rivela la sua divinità, là
la divinità mostra la sua umanità.
v. 2: si trasformò davanti a loro. In greco c’è “metamorfosi”, che significa
cambiar forma, trasformarsi. Nelle metamorfosi pagane la divinità assume
corpo e sembianze umane. Qui l’umanità assume forma e splendore divino:
lascia trasparire la Gloria del Figlio. Questa è la destinazione di ogni uomo nel
Figlio dell’uomo.
brillò il suo volto come il sole, ecc. In Luca l’aspetto del suo volto si “alterò”:
diventò altro, il volto dell’Altro (Lc 9,29). In Matteo diventa raggiante come il
sole, che “de te, Altissimo, porta significatione”. Per Marco 9,3 le sue vesti
diventano bianche in modo sovrumano, per Lc 9,29 risplendenti come folgore,
per Matteo bianche come la luce. La luce è il simbolo più appropriato di Dio:
principio di creazione e conoscenza, fa essere ogni cosa quello che è e la fa
vedere per quello che è. Ma è anche sorgente di gioia, segno dell’amore che
rende luminosi. Il Figlio brilla della luce stessa di Dio, primizia della creazione
nuova: come tutto è fatto attraverso lui, in lui e per lui, così tutto partecipa
della sua medesima sorte nella luce (cf. Col 1,16.12).
Noi pure siamo chiamati a vedere il Signore faccia a faccia (1Cor 13,12), e
riflettere “a viso scoperto” la sua gloria, fino ad essere trasformati in lui (cf.
2Cor 3,18), configurati all’icona del Figlio, il primogenito tra molti fratelli (Rm
471
8,29). Siamo chiamati a rivestirci di luce e ad essere luce: “Sorgi, sii luce,
perché viene la tua luce e la gloria del Signore brilla su di te” (Is 60,1).
L’amore si realizza nello scambio di ciò che si ha e si è, così che l’amato
diventa la forma di chi lo ama. L’incarnazione, che porta alla croce (battesimo),
rende Dio uguale a noi; la trasfigurazione, caparra della risurrezione, rende noi
uguali a lui.
Non solo il nostro spirito, ma anche il nostro corpo è per il Signore,
destinato alla risurrezione (1Cor 6,13s).
v. 3: Mosè ed Elia che conversavano con lui. Il mediatore della legge e il
padre dei profeti conversavano con lui: anzi, parlano di lui, Parola stessa di Dio.
Inoltre Mosè ed Elia non gustarono la morte: l’uno fu trasportato in cielo su un
carro di fuoco (2Re 2,1ss); l’altro, che parlò con Dio faccia a faccia, secondo la
tradizione fu rapito da un suo bacio sulla bocca.
v. 4: è bello per noi essere qui. Pietro ha capito che è bello! Sul volto del
Figlio appare la bellezza originaria nella quale Dio ha creato il mondo. Qui è
bello “essere”. Altrove è brutto e non possiamo stare, perché non siamo ciò
che siamo. Per questo l’uomo è viator, pellegrino in cerca del Volto, davanti al
quale solo sta di casa e può sostare, perché ritrova il proprio volto. Altrove si
sente fuori posto, come un osso slogato.
farò tre tende. È un’allusione alla festa delle capanne, in cui si commemora
il dono della Parola (cf. Lv 23,27-34; Dt 16,13).
una per te, una per Mosè e una per Elia. La legge, data tramite Mosè, è la
prima tenda di Dio tra gli uomini. La parola “tenda” in greco si dice skenè, che
richiama l’ebraico: shekinà, che è la gloria di Dio tra gli uomini. La profezia,
iniziata con Elia, è la seconda tenda di Dio tra gli uomini. La carne di Gesù è la
tenda definitiva di Dio in mezzo a noi (Gv 1,14). In lui vediamo la sua gloria,
come di unigenito dal Padre (ivi). Infatti “chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv
14,9).
v. 5: una nube luminosa. Di Dio non conosciamo il volto, ma la Parola. Non
bisogna farsi immagini né di lui né dell’uomo, perché l’unica sua immagine è
l’uomo stesso che ne ascolta la Parola. Chi lo ascolta infatti diventa suo figlio,
col suo medesimo volto. La nube luminosa richiama Dio stesso che guidò
Israele nel deserto (Es 14,20) ed è segno della sua presenza (Es 19,16; 24,15s;
472
40,34s; 2Mac 2,7s; 1Re 8,10-12). La manifestazione di Dio è sempre oscura per
eccesso di luce accecante - quasi che rivelandosi Dio si veli, e velandosi si
riveli, come sulla croce.
La nube inoltre è principio di vita: la pioggia è benedizione e fecondità.
una voce dalla nube (cf. 3,17). Dio è voce: la sua Parola è nota a noi nel
Verbo incarnato. Chi ascolta Gesù, trasforma il suo volto nel Volto, splendente
come il sole (v. 2), “irradiazione della gloria” (Eb 1,3).
questi. È l’uomo Gesù, che Pietro ha riconosciuto come il Cristo e il Figlio di
Dio, ma non ancora come il Figlio dell’uomo sofferente.
è il Figlio mio (cf. 3,17). Richiama il Salmo 2,7, che parla dell’intronizzazione
regale. Gesù, che va a Gerusalemme e sarà crocifisso, è il Messia, il Figlio del
Dio vivente.
l’amato. Richiama il sacrificio di Isacco (Gen 22,2.12.16). Gesù è il Figlio in
quanto sarà sacrificato: conoscendo l’amore del Padre, darà la vita per i fratelli.
in cui mi compiacqui (cf. 3,17). Richiama il Servo di YHWH (Is 42,1). Il Padre
riconosce Gesù come figlio, proprio perché si fa servo dei fratelli.
ascoltate lui! “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi
fratelli, un profeta pari a me”, disse Mosè: “Ascoltate lui!” (Dt 18,15). Gesù è il
nuovo Mosè, che dà la Parola definitiva. Anzi: è lui stesso la Parola fatta carne,
volto del Padre rivolto ai fratelli. Chi ascolta lui diventa come lui, figlio.
Cosa sia la trasfigurazione, è difficile descriverlo, anche per i discepoli che
l’hanno vista. Due cose però sono chiare: il fine e il principio. Il fine è dire: ”È
bello per noi essere qui!”. Il principio è: “Ascoltate lui”. La Parola dà forma al
nostro corpo. Chi ascolta Gesù, diventa come lui, l’albero bello che fa il frutto
bello (7,18). L’ascolto della sua parola è l’accoglienza del seme, che cresce in
noi e ci genera secondo la sua specie (cf. 1Pt 1,23), partecipi della natura
divina (cf. 2Pt 1,4).
La trasfigurazione comincia quando, invece di pensare e ascoltare noi
stessi, ascoltiamo lui e pensiamo a lui. È la morte dell’uomo vecchio e la
nascita dell’uomo nuovo. Questo ascolto fa passare dalle opere della carne al
frutto dello Spirito (cf. Gal 5,19-22).
Il Padre ha una sola Parola: il Figlio. Quanto lui ha detto e fatto è l’esegesi
del Padre (Gv 1,18), il racconto nel tempo del suo amore eterno. La “carne “ di
473
Gesù è il compimento della legge e dei profeti (7,12); la sua storia è la
manifestazione sulla terra del Dio amore, che mai nessuno ha visto (Gv 1,18).
Non possiamo e non dobbiamo conoscere nulla di più di lui, il Verbo del Padre.
v. 6: i discepoli caddero sul loro volto, ecc. È l’eccesso del divino.
v. 7: risvegliatevi, e non temete. Sono le parole di Gesù ai discepoli. Colui
che hanno visto nella gloria, si avvicina a loro e li “risveglia”. Quanto hanno
visto non è un sogno, ma ciò che li risveglia da una vita morta: è la promessa
della risurrezione, come dopo capiranno (v. 9).
v. 8: non videro nessuno, se non lui, Gesù, solo. Colui che si è trasfigurato,
il Figlio amato da ascoltare, è il “Gesù solo”, in cammino verso Gerusalemme,
che invita a seguirlo. Il Padre conferma la sua scelta: è il Figlio in quanto non si
vergogna di chiamarsi nostro fratello (Eb 2,11), e, reso perfetto dalle cose che
patì, diventerà causa di eterna salvezza per tutti coloro che gli obbediscono
(Eb 5,8s).
v. 9: non dite a nessuno questa visione, ecc. Prima che Gesù sia
“risvegliato dai morti”, i discepoli non possono parlare della trasfigurazione. La
Gloria infatti resta segreta prima della croce (16,28), che a sua volta è
incomprensibile prima della risurrezione.
v. 10: prima deve venire Elia. L’AT si chiude con l’attesa di Elia che
precede la venuta del Signore (Ml 3,23). Anche la vita di Gesù si chiude con
l’attesa di Elia da parte di chi sta ai piedi della croce (27,49).
v. 11s: Elia viene e ristabilirà ogni cosa. Gesù conferma la venuta di Elia.
Ma, come tutti i profeti, non è riconosciuto: ha la stessa sorte del Figlio
dell’uomo che deve soffrire per opera degli uomini. Proprio di lui, il Nazoreo,
parlano con la voce e la vita i profeti ( cf. 2,23).
v. 13: compresero i discepoli che aveva parlato loro di Giovanni il Battista. I
discepoli capiscono che Elia, il profeta ultimo, è lo stesso Giovanni, che lancia
l’appello definitivo alla conversione prima della venuta del Signore, di cui
anticipa il destino di passione.
3. Pregare il testo
474
b. mi raccolgo immaginandomi sul monte con i tre apostoli.
c. chiedo ciò che voglio: ascoltare il Gesù solo.
d. traendone frutto, contemplo la scena.
Da notare:
• dopo sei giorni
• li porta su un monte alto in disparte
• brillò il suo volto come il sole, le sue vesti divennero bianche come la
luce
• Mosè ed Elia conversano con lui
• è bello per noi esser qui
• farò tre tende
• una nube, una voce
• questi è il Figlio mio, l’amato, in cui mi compiacqui
• ascoltate lui
• non videro nessuno, se non il Gesù solo
• Elia è già venuto
• Il Figlio dell’uomo sta per soffrire.
4. Testi utili
Sal 34; 67; Gen 12,1-4;Es 34,29-35; Dn 7,9-14; Rm 8,18-39; 2Cor 3, 18; 2Pt
1,16-21.
475
71. NIENTE VI SARÀ IMPOSSIBILE
17,14-21
476
e niente vi sarà impossibile.
21 (Questo genere di demoni
“Niente vi sarà impossibile”, dice Gesù ai discepoli che non avevano potuto
scacciare il demonio. La fede è la possibilità dell’impossibile: dà all’uomo il
potere del Figlio di Dio.
Mentre Gesù è sul monte con il Padre nella gloria, i discepoli sono al piano
tra i fratelli nella fatica. Cercano di continuare la loro missione, che è la sua
stessa. Ma inutilmente: non riescono ad averla vinta sul male.
Il brano risponde alla domanda fondamentale della Chiesa dopo Pasqua:
come continuare la sua missione ora che lui è definitivamente assente?
Il brano ha come ritornello il non-potere (vv. 16.19.20) del discepolo, che non riesce ad
esercitare quel potere sul male affidatogli dal suo Signore (cf. 10,1), che gli ha garantito di essere
sempre con lui (28,20). Il tema è la “non-fede” e la “poca-fede”, causa di quest’impotenza; per la
“fede” invece nulla è impossibile. Il problema è far sì che la nostra “poca-fede” davanti al male non
ripieghi nella “non fede” che nulla può, ma diventi quella fede che tutto può.
In concreto la fede è obbedire al Padre che dice di ascoltare il Figlio sul
monte (v. 5). Questa fede sposta ovunque “questo monte” (cf. v. 20), che è
quello della trasfigurazione, della gloria di Dio sulla terra. Chi ascolta Gesù ha
già vinto il male: la sua parola ha il potere di generarlo figlio di Dio (Gv 1,12).
Il racconto, come al solito più sintetico e meno pittoresco che negli altri
sinottici, si articola in due parti: la richiesta del padre e la guarigione del figlio
(vv. 14-18), la domanda dei discepoli sulla loro incapacità e la catechesi di
Gesù sul potere della fede (vv. 19-21). L’accento è posto sulla fede, che
conferisce all’uomo il potere stesso di Dio.
Nell’epoca della Chiesa, contrassegnata dall’assenza del Figlio, solo chi ha
la fede vince il male. Essa rende presente l’Assente, e consiste nell’ascoltare e
fare le sue parole (7,21.24).
Gesù sarà tolto dal mondo: la sua azione di Figlio continuerà in quella dei
suoi fratelli (cf. 21,18-20).
477
La Chiesa mediante l’ascolto di Gesù diventa come lui, capace di vincere il
male. Il discepolo è rappresentato sia dal padre che dal figlio: come il figlio
non sa vincere il male perché ne è ancora posseduto; come il padre desidera
la guarigione e invoca con fede il Signore. In Mc 9,21-24 si mostra come il
padre, nel dialogo con Gesù, passi dalla poca-fede alla richiesta di una fede
incondizionata.
v. 14s: Signore, abbi pietà di mio figlio, ecc. È la preghiera di un padre che
esce dalla folla e si avvicina a Gesù che scende dal monte. Suo figlio è
gravemente ammalato. Il suo male è descritto con dovizia di particolari e a più
riprese in Mc 9,14-29. Matteo dice solo che è “lunatico” - è l’epilessia, che si
riteneva in connessione con le fasi della luna -, soffre tremendamente e cade
spesso nel fuoco e nell’acqua; alla fine aggiunge anche che è indemoniato (v.
18). Gli antichi vedevano in certi tipi di malattie l’influsso degli spiriti cattivi.
v. 16: l’ho portato dai tuoi discepoli, ma non hanno potuto curarlo. Mentre
lui è sul monte, in basso i discepoli hanno tentato di guarirlo, ma non hanno
potuto. Eppure hanno ricevuto il potere di scacciare i demoni e di curare ogni
malattia e infermità (10,1). Come mai non hanno potuto esercitarlo? Come
faranno a continuare, senza di lui, la missione che lui ha loro affidata? È una
esperienza di fallimento: non sanno fare ciò che sono chiamati a fare, non
sanno compiere il loro lavoro. È in crisi la loro identità. Questa incapacità è la
più grande afflizione. Le infinite e accurate analisi sulle cause non sono in
grado di guarirla!
v. 17: o generazione senza-fede e perversa (cf. 12,39!). È la diagnosi di
Gesù. L’impotenza è dovuta alla mancanza di fede e alla perversione che ne
consegue. La fede è ascoltare Gesù (v. 5), il quale dice che chi ascolta e fa le
sue parole fa la volontà di Dio, e chi fa la volontà del Padre è suo fratello,
sorella e madre (cf. 7,24.21; 12,50). Chi lo ascolta diventa come lui, e può
compiere le sue stesse opere, la prima delle quali è proprio vincere lo spirito
di incredulità, radice di ogni perversione e male. Chi invece non si fida di Dio,
si perverte volgendosi ai vari idoli: pone fiducia in ciò che non dà salvezza.
478
fino a quando sarò con voi? Verrà il momento in cui sarà tolto lo sposo, e
allora digiuneranno (9,15). Gesù, sul monte della Galilea, li invierà in tutto il
mondo, e lui sarà assente come lo è stato ora sul monte della trasfigurazione.
Sarà sempre con loro (28,20) mediante la fede nella sua promessa, che
sposterà ovunque il monte della sua gloria.
fino a quando vi sopporterò? La nostra incredulità fa soffrire il Signore. Alla
nostra fatica nel combattere inutilmente il male corrisponde la sua nel
sopportare la nostra mancanza di fede, che lo porterà in croce!
portatemelo qui! La fede è portare a Gesù il proprio male invincibile, anche
la propria incredulità e perversione!
v. 18: lo minacciò Gesù e uscì da lui il demonio. Gesù è duro con il male,
perché è misericordioso col malato. Cura il malato, non il male. Noi rischiamo
spesso, per falsa bontà, di coccolare il male e maltrattare il malato.
Qui si parla di “demonio”, origine del male. Certamente il male
dell’incredulità e della perversione è prodotto dallo spirito di menzogna e di
schiavitù. Ma anche tanti mali non vengono da uno spirito cattivo? Non c’è il
demonio della violenza e della depressione, dell’alcool e della droga, del cibo e
dell’immagine, del danaro e del sesso? Tutto ciò che porta all’autodistruzione
e toglie la libertà, ha certo a che fare con lo spirito del male.
v. 19: perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? È il nostro problema:
perché non riusciamo a vincere il male?
v. 20: per la vostra poca-fede. Se la folla è senza-fede (v. 17; 12,39), i
discepoli sono di poca-fede. La poca-fede è insufficiente davanti a un grande
male; se non diventa “grande-fede” (cf. 8,10; 15,28a), ripiega nella sfiducia e
fa andare a fondo (8,26; 14,31). Il Signore agisce con noi secondo la nostra
fede: questa è il semaforo verde che dà via libera alla sua potenza: “Sia fatto
secondo la tua fede”, dice al centurione (8,13); “Ti sia fatto come desideri”,
dice alla cananea (15,28b) ambedue pagani! La poca-fede, caratteristica del
discepolo (6,30; 8,26; 14,31, 16,8; 17,20), è sempre in pericolo di cadere
nell’incredulità.
se avrete fede come un chicco di senape, ecc. La senape è un seme
piccolissimo, pressoché invisibile (cf. 13,32). Gesù non dice ai discepoli che
basta pochissima fede; li ha appena rimproverati di poca-fede. Mediante il
479
contrasto chicco/monte vuol mostrare la potenza infinita della fede, capace di
spostare i monti.
direte a questo monte, ecc. “Questo monte” è quello della trasfigurazione,
dal quale è appena sceso incontro ai suoi (vv. 1.9). Sul monte Gesù dice la
Parola (5,1), il Padre dice di ascoltarlo (17, 5) e alla fine il Risorto darà inizio
alla Chiesa (28,18-20). La fede sposta ovunque “questo monte”: la gloria della
trasfigurazione si trova ovunque c’è fede. Questa infatti consiste nel fare la
volontà del Padre, che ha appena detto sul monte di ascoltare il Figlio. Questo
è il grande miracolo: la fede stessa, che trasporta ovunque “questo monte”
della trasfigurazione. La fede è proprio il miracolo che ci trasfigura in figli,
ascoltatori della parola del Padre.
La parola del Signore, viva ed eterna, è un seme incorruttibile e immortale
che ci rigenera a sua immagine (cf. 1Pt 1,23). Chi l’accoglie, è generato figlio
di Dio (Gv 1,12), consanguineo di Gesù (12,50). Anche se avessi profetato,
scacciato demoni e compiuto miracoli nel suo nome, se non ho questa fede
che mi fa ascoltare e fare la sua parola, lui mi dirà: “Non ti conosco”(cf.
7,22ss).
niente vi sarà impossibile. La fede ci dona tutto: ci fa ascoltare e fare la
parola di Dio, ci mette in comunione di intelletto e di volontà con lui.
Queste parole di Gesù non sono un invito a spostare monti o trapiantare
alberi nel mare (cf. Lc 17,6), ma un appello a convertirci a lui, ad ascoltarlo e
seguirlo nel suo cammino verso Gerusalemme, dove si consegnerà nelle
nostre mani e pagherà dall’abisso il tributo che ci fa liberi (vv 22-27)! Questo è
il miracolo che vince il male.
v. 21: questo genere di demoni non esce che con la preghiera. Questo
versetto (cf. Mc 9,29) manca in molti manoscritti. Il demonio dell’incredulità si
vince con la preghiera, che ci dà lo spirito del Figlio (Lc 11,13). Chi non crede,
chieda con insistenza il dono della fede. E chi ne ha poca, come gli apostoli, ne
chieda un aumento (cf. Lc 17,5) Alla preghiera del figlio è sempre accordato
l’esaudimento del Padre (7,7-11; 18, 19s; cf. Mc 11,20-26; Lc 11, 9-13).
e il digiuno. Il digiuno è come la preghiera del corpo che accompagna
quella dello spirito: riconosce che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni
parola che esce dalla bocca di Dio.
480
3. Pregare il testo
Da notare:
• Signore, abbi pietà di mio figlio
• i tuoi discepoli non hanno potuto curarlo
• generazione perversa e senza fede
• perché non abbiamo potuto scacciarlo?
• per la vostra poca-fede
• un briciolo di fede sposta le montagne
• alla fede nulla è impossibile
• questo genere di demoni non esce che con la preghiera e il digiuno.
4. Testi utili
Sal 91; Mt 8,5-13; 15,21-28 (la grande fede di due pagani); 8,23-27;14,22-33 (la poca-fede dei
discepoli); 7,21-27;12,46-50 (cos’è la fede); 7,7-11 e par (potenza della preghiera).
481
72. I FIGLI SONO LIBERI
17,22-27
482
e prendi il primo pesce che viene,
aprigli la bocca,
e troverai uno statere.
Prendilo,
e dàllo per te e per me.
“I figli sono liberi”, dice Gesù a Pietro. Liberi davanti a Dio e agli uomini. La
libertà è il grande tema, mai abbastanza capito, del cristianesimo; è anche il
punto d’onore della nostra epoca, più che mai proclamato e insidiato. Non c’è
nulla di più bello: ci rende come Dio. I cristiani sono liberi: il loro unico tributo
al tempio e al re è quello di un rapporto filiale con il Padre e fraterno verso
tutti.
Tuttavia per non scandalizzare, si sentono liberi di pagare quei tributi che
anche gli altri pagano. La loro libertà infatti è quella di amare: sono tanto liberi
da saper rinunciare ai propri diritti, se questi vanno contro i fratelli.
Il danaro che essi usano per pagare il tributo viene dalla bocca di un pesce
pescato dall’abisso! Dio stesso provvede ai suoi figli ciò di cui hanno bisogno;
e in modo misterioso, attraverso l’acqua, simbolo della morte.
La seconda predizione della passione, che immediatamente precede senza
alcun nesso, fa vedere da dove viene la libertà dei figli e il tributo che pagano:
dal Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini. È il prezzo che il Figlio
offre liberamente per sé e per i fratelli. Seguirà il c.18 che parla della
comunità: essa è il nuovo tempio in spirito e verità (Gv 4,24), costituito da
quelle pietre vive (1 Pt 2,5) che sono i figli del Padre, perché fratelli tra di loro.
Nella comunità di Matteo, di origine giudaica, c’era la tentazione di
osservare rigorosamente le leggi e le tradizioni, rischiando di dimenticare la
verità del vangelo e la libertà dei figli. Nelle altre comunità, di origine pagana,
c’era la tentazione di vivere la libertà propria senza rispettare quella altrui (cf.
1Cor 8,1ss). Qui troviamo una soluzione “cattolica”, aperta sia ai giudei
cristiani della Chiesa di Matteo che ai cristiani di provenienza pagana delle
chiese paoline.
483
I cristiani per sé sono liberi dal tributo al tempio, come dalle leggi
giudaiche. Tuttavia, per non scandalizzare i fratelli giudei, limitano questa
libertà per rispettare i loro correligionari. Allo stesso modo Paolo, che si sente
libero di mangiare la carne immolata agli idoli, per non scandalizzare i fratelli
pagani da poco convertiti, rinuncia a questa sua libertà, disposto a non
mangiar carne in eterno (1Cor 8,13).
La libertà cristiana infatti non è né l’osservanza della legge, propria dei
religiosi e degli stoici, né la sua trasgressione, propria dei libertini. È la libertà
di amare il fratello, pieno compimento della legge (7,12; Rm 13,10): è la legge
di libertà (Gc 2,12), che ha come criterio ciò che giova all’altro. Il vero tributo
al tempio, che ci dà accesso a Dio, Gesù l’ha pagato con la sua libertà di Figlio
che dà la vita per i fratelli.
I due brani, accostati senza apparente collegamento, si illuminano a
vicenda: il consegnarsi del Figlio dell’uomo nella mani degli uomini è il riscatto
di tutti gli uomini. Nella sua fraternità essi diventano figli di Dio. Liberati
finalmente dal demonio invincibile della diffidenza (cf. brano precedente!),
costituiscono una comunità di fratelli (cf. capitolo seguente), dove ognuno è
debitore all’altro del perdono fraterno, vero tributo da pagare al Padre (cf. Rm
13,8).
I vv. 22-23 sono l’annuncio più sintetico della passione-risurrezione di
Gesù, tributo che Dio stesso paga al suo amore per l’uomo; segue la reazione
dei discepoli. I vv. 24-25a contengono la domanda degli esattori a Pietro e la
sua risposta. I vv. 25b-27 presentano il dialogo tra Gesù e Pietro sulla libertà
dei figli e su come trovare il tributo da pagare all’amore verso i fratelli, per
non scandalizzarli. La libertà vera infatti è quella di edificare l’altro, non di
farlo cadere. Il pagamento avviene in modo prodigioso, con una moneta
pescata dal mare - allusione alla morte del Figlio dell’uomo, principio di libertà
per ogni uomo.
Gesù è il Figlio. La sua libertà è la stessa di Dio: amare e dare la vita,
consegnandosi nelle mani dei fratelli come in quelle del Padre. Questo è il
tributo al tempio: fa dell’uomo il vero tempio di Dio.
484
La Chiesa, riscattata da questo tributo, libera come il Figlio, vive la
fraternità. La sua libertà è quella di amare e servire il fratello. Questo è il suo
tributo al Padre.
485
furono rattristati molto. In Mc 9,32 i discepoli neanche intendono ciò che
Gesù dice; qui intendono, ma non comprendono. Capiranno solo dopo la
risurrezione, e la loro tristezza si tramuterà in gioia.
v. 24: venendo essi in Cafarnao, ecc. Quelli che raccolgono la tassa del
tempio si rivolgono a Pietro. Si tratta di un obolo annuale, prescritto per tutti i
maschi sopra i venti anni (Ne 10,33; cf. Es 30,11-16). Serviva per le spese del
culto, e doveva essere pagato in moneta giudaica. Per questo c’erano
cambiavalute negli atri del tempio (21,12; Gv 2,15). L’ammontare era di una
didracma - ossia due dracme, corrispondenti a due salari quotidiani.
il vostro maestro non paga la didracma? La domanda, rivolta a Pietro,
riguarda la comunità chiamata a comportarsi come il suo Maestro nei confronti
delle autorità, sia religiose che civili.
v. 25: sì. Pietro è in genere conciliante tra le posizioni opposte, anche in
modo addirittura ipocrita, come lo rimprovererà Paolo (cf. Gal 2,11-13). Pietro
ha inteso che Gesù è il Figlio del Dio vivente (16,16), e quindi non sarebbe
tenuto a pagare la tassa. Comunque pagherà, e il suo tributo al Padre sarà
quello di consegnarsi nelle mani dei fratelli. È quanto Pietro non ha capito (cf.
16,22).
mentre veniva in casa, Gesù lo prevenne. Come ha previsto il suo futuro,
Gesù legge con chiarezza anche il presente.
i re della terra da chi prendono tasse e tributi? Il tributo è segno di
sudditanza.
dai figli o dagli estranei? Al figlio non si chiede, ma si dà! È il suddito che
paga.
v. 26: quindi i figli sono liberi. Gesù è il Figlio, quindi è libero. E come lui
diventano quelli che sono con lui. Ricevono infatti il suo stesso Spirito di Figlio
che grida in loro: “Abbà” (cf. Rm 8,15). Sono chiamati a libertà, liberati per
restare liberi (cf. Gal 5,13.1), proprio per il tributo che lui ha pagato col suo
sangue.
v. 27: perché non li scandalizziamo. Chi ama sta attento a non
scandalizzare i fratelli. Il massimo della libertà è sapervi rinunciare, se nuoce
all’altro. La sovranità non è della libertà, ma dell’amore; solo questo è libero e
rende liberi. È vero che la verità fa liberi (Gv 8,32), ma la verità ha come
486
misura la carità (cf. Ef 4,15). Non basta sapere: bisogna anche “sapere come
sapere”. La scienza da sola gonfia: è la carità che edifica (1Cor 8,2). L’amore
sa limitare i propri diritti, perché ha un solo e preciso “dovere”: lo stesso del
Figlio dell’uomo che “deve” consegnarsi nelle mani dei fratelli. Il debito
dell’amore è il dono di sé all’altro.
Nella Chiesa di Matteo è importante non scandalizzare i giudei, come in
ogni società è doveroso rispettarne gli ordinamenti (Rm 13,1-7). Nella Chiesa
di Corinto Paolo starà attento a non scandalizzare i fratelli più deboli che
vengono dal paganesimo (cf. 1Cor 8,1ss;10,23-30; Rm 14,1ss). In casi più
complessi, come ad Antiochia, dove convivono cristiani di diversa provenienza,
sarà importante non cadere nell’ipocrisia e non tradire comunque la “verità
del vangelo” (cf. Gal 2,1-14).
va’ al mare, ecc. Il mare è l’abisso che minaccia i discepoli (8,23-27; 14,22-
33), immagine della morte in cui si immerge il Figlio dell’uomo. Il suo
consegnarsi nelle mani dei fratelli sarà la sorgente del nostro essere figli.
In modo prodigioso Pietro trova quell’unica moneta con cui il Signore paga
il tributo per sé e per lui. La comunità trova sempre in Cristo morto e risorto,
raffigurato dal pesce che vive nell’abisso, la sorgente della propria libertà di
amare.
Il capitolo seguente mostrerà la comunità che è il nuovo tempio, al cui
centro sta il bambino/servo, che è il Signore Gesù (18,3-5). Essa vivrà la libertà
dei figli pagando al Padre il vero tributo, che è l’amore fraterno, pieno
compimento della legge.
3. Pregare il testo
487
Da notare:
• il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini
• il vostro maestro paga il tributo?
• i figli sono liberi
• perché non li scandalizziamo, ecc.
• la moneta in bocca al pesce.
4. Testi utili
Sal 103; At 15,1ss; Gal 5,1ss; Rm 14-15; 1Cor 8,1ss;10,23-30; Gal 2,1-14; Rm 13,1-7.
488
73. SE NON VI CONVERTIRETE E NON DIVENTERETE COME I BAMBINI NON
ENTRETE NEL REGNO DEI CIELI
18,1-5
489
La comunità cristiana non è formata da persone esemplari o eccezionali,
ma di piccoli (vv. 1-11) e perduti (vv. 12-14), da peccatori (vv. 15-18) perdonati
che a loro volta perdonano (vv. 21-35). La sua forza è la preghiera rivolta al
Padre nel nome di Gesù, sempre presente in mezzo ai suoi (vv. 19-20). Le
parole chiave del cap. 18 sono: il bambino (vv.1-5) - il piccolo che si
scandalizza, si disprezza, si smarrisce e non va perduto (vv.6-14) - e il fratello
che pecca, che va ammonito e perdonato (vv.15-18.21-35).
Questa comunità, dove ci si accoglie come lui ci ha accolti, è il vero tributo che dobbiamo e
possiamo rendere a Dio: è la fraternità, presenza del Figlio e del Padre nello Spirito, salvezza di ogni
uomo.
In questo c.18 ci sono i cardini dello stare insieme. Ciò che unisce non è la
bravura reale o presunta, ma la “piccolezza” accolta nel Figlio. Ciò che
mantiene l’unione non è l’accordo impeccabile e perfetto, ma il perdono
costantemente ricevuto e accordato.
Il fine dell’azione del Figlio è la comunità, dove siamo fratelli perché figli e figli perché fratelli.
Essa è il regno stesso di Dio in terra: la fraternità aperta a tutti mostra al mondo che Dio è Padre.
Nella comunità è impegnato cielo e terra. Da una parte c’è il Padre con i
suoi angeli e il Figlio con il suo Spirito, dall’altra gli uomini, così come sono, con
le loro piccolezze, scandali, smarrimenti e peccati. In essa c’è di tutto; non si
presuppone né persone migliori né un mondo migliore. Il male non ostacola il
bene; ne esplica anzi tutta la potenzialità: ogni miseria si fa luogo della
misericordia.
I vv. 1-5 costituiscono il principio e fondamento del nuovo modo di stare
insieme: l’obiettivo da perseguire è, paradossalmente, diventare bambini. Chi
è piccolo ha bisogno di essere accolto per crescere, chi è grande deve farsi
piccolo per accogliere - e il più piccolo è il più grande.
La comunità ha al suo centro, come valore assoluto, colui che si è fatto
ultimo e servo di tutti: il Signore crocifisso, rivelazione del Dio amore che si è
fatto piccolo per accogliere i piccoli.
I limiti propri e altrui, dove non sono accettati, diventano luogo di difesa e
attacco, di violenza e divisione; dove vengono accettati, diventano invece
luogo di gioia e di amore, di intesa e comunione. Tutto può essere vissuto con
antagonismo e conflittualità o, al contrario, con rispetto e accettazione, a
seconda che lo si vive con lo spirito di morte o con lo Spirito di Dio.
490
In ultima analisi possiamo dire che sempre l’altro mi fa da specchio. Per
questo è l’inferno o la salvezza mia. Ma non posso farne a meno: “Non è bene
che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). Senza l’altro, non sono me stesso: sono infatti
a immagine di Dio, che è trinità d’amore.
Gesù è il Figlio che vive verso i fratelli lo stesso amore del Padre.
La Chiesa è fatta di piccoli, smarriti, perduti e peccatori, che in forza della
preghiera sono perdonati e perdonanti. Nel perdono è vinta la morte e si
risorge alla vita di Dio. Nella fraternità brilla la gloria del Figlio: il volto del
Padre.
v. 1: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?” Questa domanda dei
discepoli dà occasione al discorso sulla comunità.
Lo stare insieme, necessario all’uomo per realizzarsi, è sempre sotteso dalla domanda: “Chi è
il più grande?”. Si cresce nell’imitazione e nel confronto, nell’emulazione e nel tentativo di adeguarsi
a un modello sempre più alto.
In Mc 9,33-37 la domanda è in un contesto di lotta tra i discepoli. Questi,
come tutti, pensano che realizzarsi sia passare in testa, costruendo una
gerarchia tra dominati e dominatori. Il risultato è che si sta insieme press’a
poco come i polli, il cui ordine stabilito si vede bene la sera quando vanno sul
trespolo a dormire: in alto sta il gallo maggiore e sotto, via via, l’altro pollame,
ognuno al suo posto in ordine rigoroso, fino all’ultimo che sta sotto tutti… e
riceve, a suo discapito, il dono di tutti! La competitività, teorizzata non solo da
oggi, è vecchia quanto il mondo “animale”.
In Matteo la domanda riguarda semplicemente qual è il criterio di misura
per dire chi è “più grande”. L’uomo ha questo desiderio proprio perché è a
immagine di Dio, che è grande, sempre più grande. Per questo punta alla
“maestà” (maius = più grande), sempre proteso a un di “più” (magis!), che
rompe ogni limite e lo tiene aperto all’infinito. Ha bisogno di essere sempre
“più” grande e di essere riconosciuto come tale. La comunità e la società
nascono da questo bisogno di grandezza e di riconoscimento.
491
v. 2: chiamato innanzi un bambino. Il termine indica un piccolo, sotto i
sette anni. Per noi il bambino evoca tenerezza, innocenza, semplicità e
spontaneità - l’eterno bambino nascosto in ogni cuore, l’uomo paradisiaco, che
poi l’educazione e la società avrebbe reso cattivo. Per i greci la stessa parola
significa anche servo o schiavo. Il che fa capire in che considerazione era
tenuto il bambino. Per gli ebrei di quell’epoca è un’appendice della donna, che
è possesso del maschio: il bambino è niente e fa niente; è bisogno di tutto e
diventa ciò che gli altri fanno di lui. Esiste solo se “è di” qualcuno: appartiene
all’altro, vive della sua cura ed è ciò che riceve.
lo pose in mezzo a loro. La comunità ha al suo centro il limite, l’indigenza
e il bisogno, la piccolezza, la fragilità e la vulnerabilità, l’insufficienza propria e
il bisogno dell’altro - come al suo centro sta il Signore (v. 20!). C’è
un’“autoinsufficienza” radicale che è divina: Non è bene che l’uomo sia solo
(Gen 2,18), perché è troppo grande per bastare a se stesso (Pascal). Il
bambino, a differenza dell’adulto, vive la sua insufficienza come la sua vera
forza: è il suo essere figlio!
Tutto il discorso di Gesù si svolge con al centro questo bambino, con il
quale lui stesso si identifica (v. 5).
v. 3: amen, vi dico. Gesù parla con autorità divina, stabilendo il criterio di
realizzazione.
se non vi convertirete. C’è da invertire il modo di pensare e di vivere.
Invece di guardare e agire secondo i grandi della terra, che soddisfano il loro
bisogno in modo “diabolico”, opponendosi all’altro, siamo chiamati ad avere gli
stessi sentimenti di Gesù, il Figlio (Fil 2, 5ss). Lui è il più grande, perché è il più
piccolo tra tutti noi (Lc 9,48), e ciò che facciamo al più piccolo tra i fratelli,
l’abbiamo fatto a lui, il Figlio (25,40.45).
diventerete come i bambini. Gesù non dice di essere bambini, ma di
diventare come i bambini. Anche un vecchio può tornare in seno a sua madre e
rinascere (Gv 3,1ss): è quel nascere alla propria verità di figli che è la nostra
grandezza.
L’uomo adulto è quello che si riconosce figlio: è (stato) accolto, si accoglie e accoglie,
sapendo che tutto quanto ha è ricevuto (1Cor 4,7). Non si è fatto da sé, né dice: “Sono mio, e mi
gestisco io”, o: “La vita è mia”. La vita gli è stata data, e la perderà: suo sarà il modo di viverla e
farla fruttare nell’amore dell’altro (cf. 25,14-30).
492
Il suo stesso io è il primo dono che l’Altro gli fa, e solo come dono dell’altro
e all’altro è vivo.
Il Sal 131 parla del credente come di un bimbo “svezzato” in braccio a sua
madre. Il bimbo svezzato non brama più il seno materno, ma la sicurezza dolce
dell’abbraccio. Come il latte è il cibo del piccolo, così il cibo dell’adulto è potersi
abbandonare con fiducia a un amore da cui si sente accolto e avvolto. Solo così
vive in pace, e si realizza. Diversamente il suo cuore si inorgoglisce, il suo
sguardo si leva con superbia, in cerca di cose sempre superiori alle sue forze,
inquieto e angosciato come un vecchio pieno di desideri insoddisfatti in braccio
alla morte, che dispera ora e sempre. Così, capovolgendo il Sal 131, si può
descrivere la situazione di chi non è diventato come un bimbo svezzato!
Bambini a questo modo non si nasce, ma si “diventa”, con una lenta
maturazione psicologica e spirituale. Mentre il piccolo cresce, invecchia e
muore, Gesù ci propone di crescere in piccolezza, di ringiovanire e rinascere
alla vita di figli, nelle braccia del Padre che è Madre. Questo ci rende possibile
essere fratelli.
L’illuminazione consiste nel “diventare bambini”: nel vedersi figli. Questo
ci fa venire alla luce nella nostra verità. Chi si sente un padreterno, non è figlio
né fratello di nessuno.
non entrerete nel regno dei cieli. Nel regno di Dio Padre entrano i figli.
Questi sono quanti vivono da fratelli.
v. 4: chi dunque si farà piccolo, ecc. Piccolo qui in greco è “tapino”. Indica
l’umiltà in senso etimologico: essere in basso, a terra. Chi si innalza sarà
abbassato; chi si abbassa sarà innalzato (23,12). Il più grande è il più piccolo,
perché la grandezza dell’uomo è quella del Figlio (cf. Fil 2,8s). Se uno si sente
amato e accolto nella sua piccolezza, diventa capace di amare come il Padre.
Paradossalmente uno diventa adulto diventando piccolo. Diversamente
invecchia insoddisfatto, restando eterno bambino in senso negativo. Cercherà
di riempire il suo bisogno di amore col possesso di cose e persone; sarà
sempre infelice e vuoto, come un sacco senza fondo che nulla può riempire. La
sua vita sarà non un diventare bambino, ma un regredire allo stato di un
bambino non accolto e frustrato, depresso e violento, che vuol avere tutto in
mano perché ha paura che tutto gli venga meno.
493
costui è il più grande nel regno dei cieli. Gesù risponde alla domanda
iniziale dei discepoli. Il più grande nel regno del Padre è quello che più somiglia
a lui, il Figlio, che tutto riceve in dono e tutto dona, fino al dono di sé.
v. 5: chi accoglie. Il bambino è bisognoso di accoglienza, atto fondamentale dell’amore. È
quanto fa la madre, che gli permette di vivere in sé. Dio è innanzitutto madre, e ciascuno di noi è
chiamato a diventare come lui, “materno” nei confronti dell’altro (cf. Lc 6,36). Accogliere è
“concepire” l’altro: è una vita in più che do a lui e che ho dentro di me. Uno è in quanto è accolto, e
in quanto accolto diventa accogliente: esiste nella sua forma piena e divina in quanto fa vivere
l’altro. Accogliere è la vera grandezza di chi si fa piccolo per lasciare in sé spazio all’altro: è un
restringersi, che in realtà è un dilatarsi.
nel mio nome. Il Figlio è colui nel quale siamo ciò che siamo. Al di fuori di
lui nulla c’è di quanto esiste (Gv 1,3b): c’è il nulla. La fraternità fuori del suo
nome resta un’ideologia vuota.
accoglie me. Lui, il più grande, si è fatto il più piccolo di tutti in modo che,
accogliendo l’ultimo, accogliamo lui, il Signore che ci salva. Il nostro accogliere
i più piccoli è salvezza nostra perché accoglienza del Figlio.
3. Pregare il testo
Da notare:
• chi è il più grande?
• Gesù pone un bambino in mezzo ai discepoli
• se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete
nel regno
• chi si farà piccolo, sarà il più grande
• chi accoglie uno di questi bambini accoglie me.
494
4. Testi utili
495
74. GUAI AL MONDO PER GLI SCANDALI
18,6-9
496
diffonde per induzione. L’uomo spontaneamente si comporta secondo i modelli
che ha davanti. Questi creano un “costume”, una moda, un consenso implicito
che regola l’agire comune, sia nel bene che nel male. Oggi i mass-media fanno
da cassa di risonanza immediata e di dimensione universale.
Originariamente “scandalo” indica una trappola per far cadere la preda.
Scandalizzare è il contrario di accogliere: se questo è il miglior servizio, quello
è il peggiore che si possa fare al prossimo.
Il mondo è pieno di scandali, come il campo di zizzanie: è inevitabile che
ci siano, anche all’interno della comunità. Il male che uno fa, pro-voca,
chiama-fuori e fa uscire quello che c’è nell’altro.
Gli scandali, come le zizzanie, non si possono eliminare: sarebbe contro la
misericordia. Guai a me però se li produco. Non posso estirpare il male dagli
altri; devo però estirparlo in me. È questo il miglior servizio che posso rendere
agli altri: mi fa capace di accoglierli e di non scandalizzarli.
Qui si passa dal tema del “bambino” a quello dei “piccoli”. I piccoli sono
quelli immaturi nella fede: non sono ancora diventati “bambini”, e la loro
fiducia facilmente si incrina; per questo corrono il pericolo di smarrirsi e
perdersi.
I vv. 6-7 parlano della gravità degli scandali e della loro inevitabilità. Il
fatto che siano inevitabili non toglie la responsabilità di chi li compie! L’uomo
ha sempre la libertà di non fare il male, anche se tutti lo fanno.
I vv. 8-9 parlano della necessità di togliere ciò che è occasione di caduta
non solo per l’altro, ma anche per se stessi. Bisogna togliere il male nella sua
radice, tenendo presente che ogni caduta personale ha sempre anche una
ricaduta sull’altro.
Gesù, con la sua croce, è scandalo. Ma scandalo di salvezza e non di
perdizione: è sapienza e potenza del Dio amore che fa cadere la sapienza e la
potenza dell’uomo.
La Chiesa vive dello scandalo della croce, che vince in sé ogni male.
497
Il primo è quello di usare la propria libertà per andare contro la verità e l’amore, dando cattivo
esempio (cf. 1Cor 5,1-13; 6,4-11.12-20). Lo scandalo agisce come il lievito: ne basta poco per
fermentare tutta la pasta (1Cor 5,6; Gal 5,9). La libertà alla quale il Signore ci ha chiamati non è
quella del libertino, che segue gli impulsi del suo egoismo: non è per l’impurità e il libertinaggio,
l’idolatria e le stregonerie, le inimicizie e le discordie, le chiusure e le invidie, le ubriachezze e le orge
- tutte cose che escludono dal regno. È invece quella di chi ama e pone la propria vita a servizio degli
altri, con amore e gioia, pace e pazienza, benevolenza e bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé (cf.
Gal 5,13-23).
Il secondo modo di scandalizzare l’altro è quello di usare la propria libertà
rispettando la verità senza però rispettare la carità. Si possono infatti
compiere azioni in sé buone, che però fanno cadere il fratello perché le
interpreta male. L’esempio tipico è quello delle carni sacrificate agli idoli (1Cor
8,1ss; 10,23-30; Rm 14-15). Chi sa che gli idoli non esistono, ne può mangiare
tranquillamente. Uno però che si è convertito da poco tempo ed è debole nella
fede, può intendere questo come idolatria e restarne scandalizzato. Anche con
il bene si può provocare la caduta del fratello! Puntare i fari negli occhi a uno,
non lo aiuta certo a vedere meglio la strada. Buttare addosso la verità a chi
non è preparato ad accoglierla, è indurlo a respingerla. La libertà cristiana non
consiste solo nel seguire la verità, ma nel fare la verità nella carità (Ef 4,15).
La scienza da sola “gonfia”, mentre la carità “edifica”. Chi crede di sapere, non
ha ancora imparato come sapere (1Cor 8,2)! La libertà ha come regola
l’amore, unico sovrano a se stesso: e l’amore è sempre verso l’altro, il più
debole. La libertà dell’amore è libera anche da se stessa: sa limitarsi,
addirittura rinunciare ai propri diritti, per non ledere quelli dell’altro ed
edificarlo. Paolo non vuole che per la sua scienza vada in rovina il fratello per il
quale Cristo è morto (1Cor 8,11). Anche se lui, secondo la sua coscienza, può
mangiare la carne sacrificata agli idoli, non ne mangia per rispetto della
coscienza altrui, anche se errata (1Cor 10,28). Il rispetto della coscienza altrui
è per lui un dovere di coscienza, per non trasgredire il comando dell’amore.
Il terzo modo di scandalizzare l’altro è quando, facendo una cosa in sé
buona o indifferente, si scandalizza qualcuno, e, non facendola, si scandalizza
altri. È quanto capitò ad Antiochia in una comunità composta di ex-pagani e di
giudei convertiti, dove, dopo l’arrivo di giudaizzanti, Pietro si trova in
imbarazzo: se va a mensa con gli ex-pagani, mangiando come loro cibi
498
“impuri” per i giudei, scandalizza i giudaizzanti; se non ci va, costringe gli ex-
pagani a “giudaizzare” (cf. Gal 2,1-14 e la soluzione in At 15,1ss). In questo
caso ci vuole un discernimento molto accurato, sia per vedere qual è il male
minore, sia per vedere se c’è qualche male maggiore che a prima vista non
appare. In questo caso Paolo, a viso aperto, rimprovera Pietro di ipocrisia,
denunciando il suo modo di agire come non corretto secondo la verità del
vangelo. Infatti con il suo atteggiamento, data la sua influenza, può indurre a
credere che la salvezza derivi non dalla grazia di Cristo, ma dalla osservanza
delle leggi giudaiche. È in questione non l’ortodossia, ma l’ortoprassi o
l’“ortodopedia” evangelica di Pietro, come si dice nel testo (cf. Gal 2,14), che
mette in gioco l’ortodossia altrui.
Questo terzo caso è più comune di quanto pare, soprattutto per chi ha
responsabilità pastorale: qualunque cosa faccia o non faccia, scandalizza
inevitabilmente qualcuno. È innanzitutto da scartare ciò che compromette la
verità del vangelo, scegliendo poi ciò che più giova ai deboli nella fede.
Pietro, per avere questa intelligenza della verità nella carità, dovrà
sempre andare al mare e pescare nell’abisso: lì il Figlio dell’uomo, che si è
consegnato nelle mani degli uomini, gli farà trovare il tributo da pagare alla
carità fraterna senza scandalizzare nessuno (17,27).
Qui si parla dello scandalo in senso generale: riguarda tutto ciò che
distoglie dal fare ciò che Gesù ha detto, e che costituisce la volontà del Padre.
Scandalo è quindi ciò che impedisce a uno di agire secondo la propria
coscienza di credente. La coscienza altrui, anche se erronea, va rispettata con
carità, anche se va illuminata con la verità. È quanto fa Paolo in 1Cor 8,1ss:
secondo carità si dichiara disposto a non mangiare carne per non
scandalizzare i deboli, secondo verità dice che è libero di farlo, e non lo fa per
amore verso il fratello. Come si fa la verità nella carità (Ef 4,15), così la carità
resta sempre aperta alla verità. Il primato però è sempre della carità, fintanto
che non è in gioco la verità del vangelo, che è la carità stessa di Dio per
l’uomo.
uno di questi piccoli che credono in me. I “piccoli” sono i credenti chiamati
a diventare come bambini (vv. 3-4). In particolare sono piccoli i più deboli nella
fede, gli smarriti e i peccatori (cf. vv. 10-14.15-18).
499
è meglio per lui, ecc. Gesù non esorta a uccidere o a uccidersi. Mostra la
gravità dello scandalo, che può passare inosservato a chi lo fa. In realtà
scandalizzare è uccidere l’altro come fratello e se stesso come figlio.
v. 7: guai al mondo per gli scandali. Questo “guai al mondo”, come poi
“guai all’uomo”, si può tradurre anche: “Ahimè per il mondo, ahimè per
l’uomo”. Non è un modo di dire. Lo scandalo della croce è l’“ahimè” di Dio per
il male del mondo: lui, che si è fatto ultimo di tutti, porta su di sé ogni male,
fino a farsi maledizione e peccato per noi (Gal 3,13; 2Cor 5,21).
Il “mondo” è l’ambiente, con le sue strutture. Può indurre al male più di
qualunque decisione personale. I mali più grossi non hanno mai “un”
responsabile: è un fatto d’irresponsabilità generale, di condizionamento di
massa. L’effetto gregge - tutti corrono dove corre uno - è tipico anche
dell’agire umano. Nel male c’è una solidarietà negativa che induce al peggio,
dove la gravità peggiore sta nel togliere la stessa coscienza del male.
è inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo, ecc. Il male del mondo deve venire a
suppurazione. Lc 17,1 dice che “è inaccettabile che non ci siano scandali”: dobbiamo accettare che ci
siano, come le zizzanie nel campo. Ma guai a provocarli. Non dobbiamo eliminarli negli altri, ma
dobbiamo non darli noi stessi (“guai all’uomo” che li provoca), eliminando da noi ciò che fa cadere
noi e gli altri. Dobbiamo usare tanta indulgenza verso gli altri quanta intransigenza verso di noi, per
non cadere e far cadere nel male (vedi vv. 8-9).
Sradicare la zizzania è sradicare il grano (13,28-30). I peccati e gli scandali saranno tolti e
bruciati solo alla fine, e solo da Dio (13,41), che lo farà in modo divino. Per ora dobbiamo lasciarli,
con grande carità verso chi li compie. Fa però parte della carità anche il dire la verità e mostrarne la
gravità, come qui Gesù fa. Fa parte della ricerca del fratello smarrito anche la correzione fraterna
(vv 10-14.15-18).
v. 8: se la tua mano o il tuo piede ti scandalizza. L’uomo ha cento mani
per prendere e nessuna per dare, mille piedi per le sue perversioni e nessun
piede per camminare dietro al Signore. La mano ci serve per agire, il piede per
raggiungere ciò su cui si vuol agire.
Se con l’altro devo essere tollerante, con me devo essere determinato nel
togliere da me quanto fa cadere me e sarà occasione di caduta per l’altro. Non
si tratta di automutilazione sacra, ma di eliminare ciò che è male per “entrare
nella vita”, e non buttar via la mia esistenza nell’immondizia. È necessaria
500
un’ascesi per essere liberi: bisogna sacrificare il proprio egoismo per amarsi ed
amare veramente.
v. 9: se il tuo occhio ti scandalizza, ecc. L’occhio è il desiderio, che mi
porta verso tutto e mi porta dentro tutto: è la finestra del cuore. Abbiamo mille
occhi per vedere le nostre paure e nessun occhio per contemplare il Signore e
la sua promessa. Dobbiamo cavarci i mille occhi che ci perdono, e restare con
quell’unico che vede ciò che ci rende liberi per amare e servire.
Non solo dobbiamo padroneggiare le mani e i piedi: ci è necessaria anche
la custodia degli occhi, per dominare i nostri impulsi. I puri di cuore vedranno
Dio (5,8). L’ascesi non è una mutilazione, ma un diventare sempre più se
stessi, simili a colui di cui siamo immagine.
3. Pregare il testo
Da notare:
• chi scandalizza uno di questi piccoli
• meglio per lui, ecc.
• guai al mondo per gli scandali
• è inevitabile che avvengano gli scandali
• guai all’uomo, ecc.
• se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizza, ecc.
• meglio entrare nella vita monchi, zoppi e orbi, ecc.
4. Testi utili
501
Sal 1; libertà Gal 5,1ss; libertà e libertinismo: 1Cor 5,1-13; 6,4-20; libertà e
carità: 1Cor 8,1ss; 10,23-30; Rm 14-15; libertà e discernimento: Gal 2,1-14; At
15,1ss.
502
75. NON È VOLONTÀ DAVANTI AL PADRE VOSTRO NEI CIELI CHE SI PERDA UNO
SOLO DI QUESTI PICCOLI
18,10-14
“Non è volontà davanti al Padre vostro nei cieli che si perda uno solo di
questi piccoli”, dice Gesù. Lui stesso è venuto a salvare ciò che era perduto.
Così mostra l’amore del Padre verso tutti i suoi figli, cominciando dagli ultimi,
dai piccoli.
503
Il giusto non siede in compagnia dei peccatori (cf. Sal 1); si sente anzi in
dovere di sterminare ogni mattina tutti gli empi del paese (Sal 101,8). Gesù, al
contrario, si fa loro compagno e commensale. È chiamato “mangione e beone,
amico di pubblicani e peccatori” (11,19), e sarà alla fine annoverato tra gli
empi (Lc 22,37; Is 53,12).
In Luca questa parabola è diretta a scribi e farisei, perché, invece di brontolare contro di lui
che accoglie i peccatori e mangia con loro, gioiscano con lui per il loro ritorno (Lc 15,1-7). In
Matteo è posta all’interno del discorso sulla comunità, perché essa abbia verso i piccoli, i fratelli
deboli e smarriti, lo stesso atteggiamento di Gesù che, invece di emarginarli, li pone al centro della
sua attenzione. Dio non vuole che si perda nessuno dei suoi figli. La preoccupazione del Pastore
supremo è regola prima di ogni sollecitudine pastorale.
Sullo sfondo della parabola c’è Ez 34,1ss. Contro i capi, che non fanno il loro dovere di
pastori, il Signore dice: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Andrò in cerca della
pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata”(Ez
34,11.16).
La comunità è fatta di piccoli che facilmente si smarriscono: se nessuno li cerca, sono perduti.
Il piccolo non è solo da accogliere; è anche da non scandalizzare se è debole, da cercare se è
smarrito, da correggere se è deviato, da perdonare settanta volte sette se ha peccato. Questo
significa accogliere veramente l’altro nella sua dignità di figlio. Cemento della comunità è vivere i
limiti propri e altrui come luogo di comunione, di aiuto e di perdono reciproco.
L’ammonimento a non disprezzare il debole, perché prezioso agli occhi del
Padre e del Figlio (vv. 10-11), introduce l’esortazione a cercarlo quando è
smarrito, perché non si perda (vv. 12-14). Siamo chiamati ad avere verso di lui
la stessa cura del Padre e del Figlio.
Gesù è il Figlio, che è “sceso dal monte della Trinità” e si è fatto nostro
fratello per cercare i fratelli perduti.
La Chiesa non è una setta di giusti che si separano dai peccatori; è una
comunità di giustificati che giustificano, di graziati che graziano, di perdonati
che perdonano. Il centro di ogni cura pastorale è la ricerca del fratello smarrito.
504
v. 10: Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli. La comunità
è sempre tentata di considerare come zavorra i suoi membri più fragili e
instabili. Distingue tra quelli che contano, perché ricchi di doni, buoni ed
esemplari, e quelli che non contano, perché sprovveduti, deboli ed esposti.
Questi facilmente restano indietro e si smarriscono, proprio perché li mettiamo
da parte e li lasciamo perdere. C’è una forma di competitività spirituale
peggiore di quella economica! Noi apprezziamo i primi e facciamo leva su di
loro, disprezzando gli ultimi. Il Signore invece mette al centro della comunità il
più piccolo, con il quale si identifica (25,40.45)! È una tragedia stare insieme
dove si vive la piccolezza come disprezzo subìto e la grandezza come disprezzo
perpetrato.
Contraria al disprezzo è la stima, caratteristica dell’amore. Chi ama stima
l’amato superiore a sé (cf. Fil 2,3), perché l’amato è la vita di chi ama. Se ci
deve essere una competizione tra i cristiani, sia quella di gareggiare nello
stimarsi a vicenda (Rm 12,10). Chi più stima l’altro, è più simile a Dio, che vide
tutto buono, e l’uomo molto buono (Gen 1,31). L’ultimo degli uomini è oggetto
di stima infinita da parte del Signore: l’ha riscattato a caro prezzo, a prezzo
della sua stessa vita (1Cor 6,20).
Disprezzare il piccolo e il peccatore è disprezzare il Signore, che si è fatto
per noi ultimo di tutti (Mc 9,35ss), diventando addirittura maledizione e
peccato (Gal 3, 13; 2Cor 5,21).
i loro angeli nei cieli sempre guardano il volto, ecc. Il messaggero buono,
che custodisce, ispira e incoraggia l’uomo al bene, è già presente nella
tradizione più antica di Israele: è l’aiuto che Dio concede ai patriarchi, a Mosè,
ai giudici e ai profeti. Nel NT gli angeli hanno un ruolo particolare, soprattutto
nei vangeli dell’infanzia e della risurrezione, oltre che nell’Apocalisse.
Questo testo, insieme ad At 12,15, è fondamentale per la fede cristiana
nell’“angelo custode”, che si prende cura di ogni singola persona. Ogni
terrestre ha un protettore celeste! Questa fede, scomparsa tra le brume del
razionalismo, ricompare e torna di moda come credenza in forze positive, alate
o meno. Cosa buona, se non sostituisce la fiducia nel Signore e non insidia il
primato di Cristo e la nostra libertà di seguirlo.
505
v. 11: venne infatti il Figlio dell’uomo a salvare ciò che era perduto. Il
versetto, mancante in molti manoscritti, proviene probabilmente da Lc 19,10.
Ma si inserisce bene qui.
v. 12: che ve ne pare? Una domanda che ci interpella e introduce la
parabola che vuol indurre in noi l’atteggiamento contrario al disprezzo.
se un uomo ha cento pecore. Il pastore porta il gregge dove c’è acqua e
cibo; inoltre lo difende da fiere, briganti e intemperie. Tra gregge e pastore si
stabilisce un rapporto di conoscenza e affetto reciproco: la vita dell’uno
dipende dall’altro, e viceversa, soprattutto in zone desertiche.
Il pastore è immagine di Dio in rapporto al popolo che egli ama. Pastore è
chiamato anche il re che lo rappresenta. Il Sal 23 è la presentazione classica
del Signore come re-pastore. Motivo ispiratore di questa parabola è Ez 34,11-
22, dove il Signore dice ciò che lui fa, a differenza dei capi del popolo.
Gesù si paragona al pastore (Lc 15,1-7; Gv 10,1ss) che sarà “percosso”
nella sua passione (26,31) e sarà giudice nella sua gloria (25,32). Pastori sono
anche quelli che, dopo di lui e come lui, avranno cura del gregge (cf. Gv 21,15-
17). Ma ognuno è a suo modo pastore dell’altro, come ogni figlio è
responsabile del fratello. Chi dice con Caino: “Sono forse io il guardiano di mio
fratello ?” (Gen 4,9), l’ha già ucciso.
non lascerà le novantanove sui monti. Luca parla dei novantanove giusti
abbandonati per cercare il peccatore (Lc 15,7). Per sé il pastore non
abbandona il gregge, se non quando è al sicuro e custodito. Questo pastore
invece ha come primo interesse la pecora smarrita, e per questa abbandona le
altre sul monte. Solo quando si perde una cosa, si vede con chiarezza il suo
valore, pari all’amore che si ha per essa. Come un membro dolorante richiama
tutta l’attenzione, così l’amore di Dio è concentrato sul peccatore perduto. Gli
fa un male da morire, da morire in croce!
I peccatori sono realmente più amati da Dio, perché ne hanno più bisogno.
va a cercare quella smarrita. Il Signore lascia tutto per cercare la pecora
smarrita, quella che per noi non conta!
v. 13: se capita di trovarla, ecc. È la gioia di chi ha scoperto il tesoro,
trovato la perla preziosa (13,44s). Il fatto di lasciare le altre per cercare la
506
smarrita e di rallegrarsi per il suo ritrovamento più che per le altre, indica
quanto essa vale agli occhi del pastore.
Il fratello che noi disprezziamo sta a cuore al Padre: è il centro dei suoi
pensieri e delle sue cure. Dio è amore, la cui misericordia è proporzionale alla
miseria dell’amato. Il Padre ama tutti i suoi figli. Il perduto da ritrovare è il suo
stesso Figlio unigenito, che si è perduto perché in lui ogni perduto fosse
ritrovato. In ogni smarrito il Padre vede il Figlio crocifisso e noi vediamo il
Signore.
Per questo amiamo gli smarriti e i perduti, i peccatori e i nemici. C’è un
divino in ogni creatura: l’amore del Padre per il Figlio. La più lontana da Dio è il
Figlio stesso di Dio (27,46.54), che si è abbandonato in ogni abisso di male,
perché nessun abbandono di Dio fosse più abbandonato da Dio.
L’amore per l’ultimo riscatta tutto il creato nel Figlio e costituisce la gioia
di Dio, finalmente tutto in tutti (1Cor 15,28). Per questo il Figlio si è incarnato,
ha lasciato la corte celeste, è sceso dal monte della Trinità ed è venuto sulla
terra. In questo modo salva i peccatori - dei quali io sono il primo (1 Tm 1,15),
dice Paolo. E lo stesso posso dire anch’io, di me e di qualunque altro. Infatti mi
ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).
più che per le novantanove che non si sono smarrite. La cura pastorale ha
come obiettivo non i vicini, ma i lontani - soprattutto se i lontani sono
novantanove! Solo così la Chiesa è quella del Figlio che ha lo stesso amore del
Padre. La comunità, come al suo interno ha al centro il piccolo, così è tutta
proiettata all’esterno verso il lontano (28,19).Per questo l'Apostolo si farà un
punto d’onore di annunciare il vangelo dove non è ancora giunto il nome di
Cristo (Rm 15,20). L’immagine più bella della Chiesa, inviata a tutte le nazioni,
ci è offerta nel finale degli Atti: è una casa in affitto, a Roma, nel cuore della
paganità, dove Paolo, prigioniero, accoglie tutti e con libertà e franchezza
proclama il regno, insegnando chi è il Signore (At 28,30s).
v. 14: non è volontà davanti al Padre vostro nei cieli che si perda, ecc. È
un’espressione di rispetto, per dire che il Padre non vuole che si perda nessuno
degli smarriti. È la sua volontà in cielo, che noi siamo chiamati a compiere qui
in terra.
507
Il modello del nostro agire è Gesù, il Figlio che compie la volontà del Padre
cercando il fratello smarrito (v. 11). Noi lo destiniamo a perdersi se verso di lui
nutriamo disprezzo invece di stima.
Anche il giusto del Sal 119 alla fine si riconosce come una pecora smarrita
che va errando, bisognosa di essere ricercata dal suo Signore (Sal 119,176).
3. Pregare il testo
Da notare:
• non disprezzare uno solo di questi piccoli
• i loro angeli nei cieli sempre guardano il Volto
• il Figlio dell’uomo venne a salvare ciò che era perduto
• il pastore
• la pecora smarrita
• lascia le novantanove
• va a cercare quella smarrita
• se capita di trovarla
• gioisce per essa più che per le novantanove
• è volontà del Padre non perdere nessuno dei suoi piccoli.
4. Testi utili
508
76. AVRAI GUADAGNATO IL TUO FRATELLO
18,15-20
509
La verità va fatta nella carità (Ef 4,15); ma la carità non è mai disgiunta dalla verità. Il primato
è sempre dell’amore; ma questo si manifesta sia nel cercare lo smarrito che nell’illuminarlo nel suo
smarrimento - e alla fine nel perdonarlo comunque (vv. 21-35).
Quanto si dice sulla correzione fraterna sembra in contrasto con il non
giudicare (7,1ss), con la ricerca della riconciliazione (5,23-26), con la parabola
delle zizzanie (13,24-30.49). In realtà la correzione fraterna è segno di grande
amore: è possibile in una comunità dove ognuno è accolto nei suoi limiti, non
è giudicato se sbaglia, è assolto se è colpevole, è ricercato se si smarrisce, è
perdonato se pecca. Senza accettazione incondizionata, non esiste correzione
fraterna: c’è semplice contrapposizione tra critica malevola e indurimento
difensivo. Una persona, solo se è accolta e nella misura in cui è accolta, è
disposta ad accettare eventuali osservazioni senza avvertirle come
aggressione.
La correzione fraterna è indispensabile perché il nostro stare insieme sia per il meglio, e non
per il peggio (cf. 1Cor 11,17). Essa è un modo concreto per cercare chi è smarrito, perché non si
perda: è l’espressione più alta della misericordia. La correzione fraterna è l’esatto contrario dello
scandalo. Se questo trascura il fratello e lo induce al male, la correzione ha cura di lui e lo deduce dal
male. Se lo scandalo perde, la correzione guadagna il fratello.
Il peccato infatti rompe la fraternità. Se perdoni, la ristabilisci solo a metà:
tu sei fratello, ma l’altro non ancora, fino a quando non riconosce l’errore e
accetta il perdono. La correzione, quando riesce, ristabilisce la fraternità da
ambo le parti.
Bisogna tentare tutte le vie per ricondurre lo smarrito a casa. Prima a tu
per tu, poi con la mediazione di altri e, se necessario, della stessa comunità.
Chi non vuol ricredersi, verrà ritenuto come pagano e peccatore. Non si tratta
di eliminare la mela marcia per preservare le altre; è un rendere noto la
situazione di fatto: il peccato ha rotto la fraternità. Non è giudizio o condanna,
ma medicina perché lo smarrito riconosca il suo male e possa ravvedersi.
Solo se il bene è buono e il male è cattivo, si può parlare di riconciliazione
e di perdono. Render nota la verità è grande servizio di carità. Trattare uno
come pagano e pubblicano non significa escluderlo dal proprio amore: Gesù è
amico di pubblicani e peccatori (11,19), è venuto a salvare ciò che è perduto
(v. 11) e invierà i suoi discepoli verso tutti i pagani (28,19).
510
La comunità ha lo stesso potere di Pietro (16,19), che è il medesimo del
suo Signore: rendere presente sulla terra il giudizio del Padre che è nei cieli, il
quale non vuol perdere nessuno dei suoi piccoli (v. 14). Per avere questo
spirito è necessaria la preghiera fraterna, rivolta al Padre che ci garantisce la
presenza del Figlio.
Il testo contiene quattro detti di Gesù: i vv. 15-16 sulla correzione
fraterna, i vv. 17-18 sul potere della comunità di legare e sciogliere, il v. 19
sull’efficacia sicura della preghiera fraterna e il v. 20 sulla presenza del
Signore in mezzo ai suoi.
Gesù, come è il buon pastore, è anche il Figlio: guadagna i fratelli alla
misericordia del Padre accogliendo i peccatori e convincendo di peccato quelli
che si ritengono giusti.
La Chiesa ha ricevuto lo stesso potere di Gesù, e deve usarlo allo stesso
modo. La preghiera comune, che le garantisce la presenza del Figlio, ottiene
dal Padre la forza per vivere il dono di aiutarsi a stare insieme per il meglio.
Una comunità cristiana è spiritualmente matura nella misura in cui è capace di
esercitare la correzione fraterna. È utile tener presente che essa è proposta al
centro del discorso sulla comunità, dopo ben diciotto capitoli di istruzione. Noi
siamo tentati di porla all’inizio del capitolo primo!
v. 15: ora se pecca (contro di te) il tuo fratello. Il “contro di te” di alcuni
manoscritti è preso da Lc 17,4, dove Gesù dice di perdonare senza condizione i
torti subiti. Oggetto di correzione fraterna non è l’offesa personale - comunque
sempre da perdonare e dimenticare (vv. 21ss) - ma il peccato in quanto nuoce
a chi lo fa. A chi mi offende sono in debito del perdono. A chi pecca non ho
nulla da perdonare; gli sono però in debito della correzione fraterna.
Nel testo si parla di quei peccati gravi che escludono dal regno (cf. Gal
5,19-21). Chi li commette è uno smarrito che, se non è riguadagnato alla
fraternità, rischia di essere un perduto.
va’ e ammoniscilo fra te e lui solo. L’ammonimento è senza odio, spirito di
critica, vendetta o rancore; anzi, amando il fratello come te stesso, lo
511
rimproveri apertamente per non caricarti di un peccato di omissione nei suoi
confronti (cf. Lv 19,17s.).
Il fratello peccatore è come un tuo membro malato: sei in pericolo di
perderlo. Tu ne senti il dolore, e cerchi di curarlo perché è parte del tuo corpo.
Come primo passo, richiamalo in privato, per rispetto verso di lui - e non
apertamente, come dice invece Levitico 19,17.
se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. L’obiettivo della
correzione fraterna non è il condannare, ma il “guadagnare il tuo fratello” che
ha peccato. Non si tratta di riconciliarsi con lui (5,23-26!), ma qualcosa di più:
portarlo a ravvedersi e riconciliarsi con gli altri, perché sia figlio e fratello.
Solo in spirito di riconciliazione (5,23s), di perdono (6,14s), di non giudizio
(7,1-5), di tolleranza (13,24ss) e di cura per chi sbaglia (18,10-14), c’è
correzione fraterna che può essere efficace.
“Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo
riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore,
salverà la sua vita dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Gc
5,19s).
v. 16: se non ti ascolterà, ecc. In Israele il procedimento giudiziario era
fatto sulla parola di due o tre testimoni. Qui però non si tratta di un processo,
ma di un tentativo per recuperare il fratello alla verità. Dove non riesci da solo,
forse per limiti tuoi, puoi riuscire con la mediazione di altri.
v. 17: se non presterà loro ascolto, dillo alla Chiesa. Dopo aver tentato
prima a quattr’occhi e poi con la mediazione di altri, lo si presenti
all’assemblea, perché il suo amore per i fratelli lo stimoli a reagire
positivamente. Ovviamente si tratta di un peccato grave e pubblico. Il fine,
anche nella “scomunica”, è sempre e solo “guadagnare il fratello”.
se non presterà ascolto neppure alla Chiesa, sia per te come il pagano e il
pubblicano. La comunità non “scomunica” il peccatore, ma gli fa capire che si
è già posto fuori dalla comunione, in modo che possa ritornare. La
“scomunica” ha sempre e solo valore illustrativo e pedagogico, mai punitivo.
Mostra la gravità del male che uno fa, talora a cuor leggero, perché si ravveda
(vedi come agisce Paolo in 1Cor 5,1-5 e 1Tm 1,20, e cosa consiglia in 2Ts
3,14s e Tit 3,19s).
512
Trattare uno da pagano e da peccatore non significa escluderlo: i nemici
sono da amare, ed è possibile riguadagnarli solo dando loro un maggior amore
(5,38-48). È tragico dare allo “scomunicato” l’impressione di essere escluso.
Tende già lui stesso a escludersi. Deve invece conoscere una maggior cura da
parte dei fratelli.
v. 18: tutto quello che legherete sulla terra, ecc. La comunità ha lo stesso
potere di Pietro (16,16): quello del Figlio, che è venuto a cercare ciò che era
perduto (v. 11). È il medesimo del Padre che non vuol perdere nessuno (v. 14).
È grande la responsabilità della comunità, chiamata a continuare sulla terra la
missione del Figlio dell’uomo. Non deve agire arbitrariamente, ma
conformemente alla volontà del Padre. Uno avrà con il Padre
quell’atteggiamento positivo o negativo che avrà prodotto in lui il nostro modo
di essergli fratello: questo lo scioglie o lo lega nei confronti del Padre.
v. 19: se due di voi uniranno la voce, ecc. Si è già parlato dell’efficacia
della preghiera (7,7-11), in un contesto analogo, tra il divieto di giudicare e il
comando di amare (7,1-6.12).
I fratelli che uniscono la voce per pregare sono una dolce “sinfonia” (=
unione di voce!) agli orecchi del Padre. Il contesto ci suggerisce cosa chiedere
al Padre e cosa lui concede: vivere sulla terra il suo stesso potere, che è la
capacità di accogliere e non scandalizzare i suoi piccoli (vv. 1-5. 6-11), di
ricercare gli smarriti (vv. 12-14), di riguadagnare i perduti (vv. 15-20) e di
perdonare tutti (vv. 21-35).
v. 20: dove infatti sono due o tre riuniti nel mio nome, ecc. Così Gesù
traduce un detto rabbinico che dice: “Se due si uniscono per applicarsi alla
parola della legge, la Shekinà è nella loro adunanza”. Dove i fratelli si
uniscono, è presente il Figlio. Per questo la preghiera dei fratelli rivolta al
Padre nel nome del Figlio è infallibile: il Signore è “in mezzo a loro”, come il
bambino che Gesù ha posto “in mezzo a loro” (v. 2).
Le lettere “polemiche” di Paolo sono un modello interessante di
correzione fraterna, fatta con amore, verità e grande discernimento.
3. Pregare il testo
513
a. mi metto in preghiera come al solito.
b. mi raccolgo immaginando la casa di Cafarnao, con i discepoli e Gesù in mezzo a loro insieme con
un bambino.
c. chiedo ciò che voglio: la difficile arte di riguadagnare il mio fratello.
d. traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.
Da notare:
• ammonisci tuo fratello fra te e lui solo
• avrai guadagnato il tuo fratello
• prendi con te due o tre
• dillo alla Chiesa
• sia per te come il pagano e il pubblicano
• ciò che scioglierete nella terra, sarà sciolto in cielo
• se due di voi uniranno la voce, ecc.
• io sono in mezzo a loro.
4. Testi utili
Sal 95; 133; Ez 33,7-9; prima di correggere il fratello, vedi: Mt 5,23-26; 6,14s;
7,1-5; 13,24-30; 18,10-14; Gc 5,19s.
514
77. NON BISOGNAVA CHE ANCHE TU AVESSI COMPASSIONE DEL TUO
COMPAGNO
COME ANCH’IO HO AVUTO COMPASSIONE DI TE?
18,21-35
515
29 Rendimi ciò che mi devi!
Allora, gettatosi a terra, il suo compagno lo supplicava
dicendo:
Abbi pazienza con me,
e ti risarcirò!
30 Ora egli non voleva,
e andò a gettarlo in prigione,
finché non l’avesse risarcito del debito.
31 Vedendo dunque i suoi compagni l’accaduto,
furono molto addolorati
e andarono a riferire al loro signore
quanto era accaduto.
32 Allora, chiamatolo innanzi,
il suo signore gli dice:
Ministro cattivo,
tutto quel debito ti ho rimesso
perché mi hai supplicato.
33 Non bisognava che anche tu
avessi compassione del tuo compagno
come anch’io ho avuto compassione di te?
34 E, adirato, il suo signore
lo consegnò agli aguzzini
fino a che non lo avesse risarcito
di tutto quanto gli era debitore.
35 Così anche il Padre mio nei cieli farà con voi,
se non perdonerete al fratello dai vostri cuori.
“Non bisognava che anche tu avessi compassione del tuo compagno come
anch’io ho avuto compassione di te?” Il fondamento del mio rapporto con
l’altro è l’imitazione del rapporto che l’Altro ha con me: quanto il Signore ha
fatto con me è principio di quanto io faccio col fratello. Gesù dice di amarci a
516
vicenda con lo stesso amore con il quale lui ci ha amati (Gv 13,34); e Paolo
dice di graziarci l’un l’altro come il Padre ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32).
La giustizia del Figlio, che introduce nel regno del Padre, non è quella che
ristabilisce parità, secondo la regola: chi sbaglia paga. È una giustizia
superiore, propria di chi ama, che è in debito verso tutti: all’avversario deve la
riconciliazione, al piccolo l’accoglienza, allo smarrito la ricerca, al colpevole la
correzione, al debitore il condono. È la disparità della giustizia divina, che è
misericordia, dono e perdono.
Alla giustizia della legge che uccide, succede quella dello Spirito che dà la
vita (cf. 2Cor 3,6). In quanto figlio sono chiamato ad avere verso i fratelli gli
stessi sentimenti. Le colpe altrui nei miei confronti mi permettono di perdonare
come sono perdonato: mi fanno figlio perfetto come il Padre (5,43-48)!
Ciò che mi dà tanto fastidio e mi fa dire: “Sarebbe bello se non ci fosse!”,
è paradossalmente ciò che mi aiuta a diventare come Dio. Verrebbe da dire:
“Meno male che c’è il male!”. Non per questo devo farlo (Rm 3,8; 6,1.15);
tuttavia è vero che, dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia (Rm 5,20).
Il male che faccio è l’occasione che, facendomi sentire perdonato di più, mi
farà amare di più il Signore (cf. Lc 7,42s); il male che subisco è, a sua volta,
l’opportunità di perdonare e amare di più i fratelli, diventando sempre più
simile al Signore. Il male mio diventa perdono di Dio, quello dell’altro perdono
mio, che mi fa come Dio! Il perdono che ricevo e che accordo è il respiro stesso
di Dio, lo Spirito Santo, che diventa mia vita. Il perdono è il cuore della vita
cristiana: mi rende figlio del Padre e fratello dei miei simili, in comunione con
Dio e con gli uomini. Il perdono non nega la realtà del male. Lo suppone; ma
proprio in esso si celebra il trionfo dell’amore gratuito e incondizionato. Un
amore che non perdona, non è amore.
Il brano si divide in due parti: i vv. 21-22 contengono il dialogo tra Pietro e Gesù sul perdono
illimitato, i vv. 23-35 contengono una parabola che ne mostra il motivo. Essa è costruita sul
contrappunto tra la magnanimità del Signore che perdona il debito incalcolabile di un servo (vv. 23-
27), e la spietatezza di questo che non perdona a un suo compagno un piccolo debito (vv. 28-30).
Conclude la dichiarazione che chi non perdona non è perdonato (vv. 31-35). Il perdono che accordo
scaturisce dal perdono che ho ricevuto. Il ricordo di questo è non solo principio di tolleranza, ma
sorgente della capacità di perdonare.
517
Questa parabola propria di Matteo, posta a conclusione del discorso sulla
comunità, è un’esortazione al perdono. Si può stare insieme non perché non si
sbaglia o non ci si offende, ma perché si è perdonati e si perdona. Il male,
invece di dividere e isolare l’uno dall’altro, unisce e rinsalda nel perdono
reciproco. Proprio nella comunità esce il male - e dove potrebbe uscire se non
in essa, dal momento che tutta la legge si compendia nell’amore del fratello?
Il perdono è la vittoria costante dell’amore.
È utile tener presente che si può perdonare all’altro solo se si sa
perdonare a se stessi. E si perdona a se stessi se si accetta di essere perdonati
da Dio.
Gesù è il Figlio che ama i fratelli come è amato dal Padre.
La Chiesa riceve la vita dal perdono e la mantiene perdonando: l’amore
ricevuto e accordato, come la fa nascere, così la fa vivere.
v. 21: Allora si fece innanzi Pietro. Pietro è figura preminente nella Chiesa,
testimone verso i fratelli dell’amore incondizionato del suo Signore che lui ha
tradito (cf. Gv 21,15-17; Lc 22,32). È pastore perché pecora smarrita e
ritrovata!
quante volte peccherà contro di me mio fratello, ecc. Pietro sa già che il
Padre ci perdona come noi perdoniamo (6,12.14s). Per questo sa che deve
perdonare sette volte, cioè sempre. La sua domanda serve per introdurre la
parabola sul perdono.
v. 22: non ti dico fino a sette volte, ma a settanta volte sette. “Sette volte
sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,24). Gesù dice di
perdonare non sette, non settantasette, ma settanta volte sette! Alla vendetta
sproporzionata contrappone il perdono illimitato.
Luca 17,4, nel passo parallelo, parla di perdono “quotidiano”.
Combinandolo con Matteo, risulterebbe che dobbiamo perdonarci settanta
volte sette al giorno. Un fondamentalista direbbe che ci si perdona ogni tre
minuti circa. Ed è vero! Il perdono è il respiro dell’uomo, che vive perché
518
inspira ed espira, riceve e dà perdono. Chi solo inspira, esplode; chi solo espira,
implode. La vita è proprio il circolare del perdono ricevuto e dato.
v. 23: un re volle fare i conti con i suoi ministri. Il re è chiaramente il
Padre nei cieli (v. 35). Suoi ministri siamo noi, ai quali è affidato il suo tesoro, la
sua vita: l’amore. Ognuno di noi è ministro del re, anzi suo figlio, nella misura
in cui riceve e dà questo amore. Per noi la magnanimità è onorare la nostra
origine.
v. 24: un debitore di diecimila talenti. Diecimila è la cifra più grossa in
lingua greca, e il talento la misura più grande (36 Kg circa). È quanto ciascuno
di noi ha da Dio. Da lui ci viene quanto siamo e abbiamo: ce l’ha donato
all’inizio e ce l’ha perdonato quando gliel’abbiamo rapito. È impossibile
restituirlo: se lo consideriamo un debito è impagabile. Per vivere è necessario
passare dalla logica del debito a quella dell’amore gratuito.
Diecimila talenti è una cifra sproporzionata che solo un re può possedere.
Per dare un’idea: un talento è pari a 6.000 giornate lavorative; 10.000 talenti è
pari a 60.000.000 di salari quotidiani. Per pagare questo debito uno dovrebbe
lavorare circa 200.000 anni senza mangiare. Ancora: se un talento è 36 Kg.,
10.000 talenti è pari a 360 tonnellate di metallo prezioso; per trasportarlo
occorrerebbero 360 furgoni - una fitta colonna di circa 3 Km.
La cifra, esagerata, è in realtà una pallida idea di ciò che Dio mi ha dato.
Mi ha creato suo figlio, a sua immagine e somiglianza; quando gli ho rapito il
dono, mi ha perdonato dandomi molto di più: il suo medesimo Figlio, nel quale
mi condona se stesso!
Con Dio ho il debito di me stesso e di lui stesso! Solo che non è un debito
ma un dono infinito che lui ha fatto, senza calcolare. Infatti l’unica misura
dell’amore è il non aver misura. Noi al contrario continuiamo a calcolare con lui
e con tutti!
v. 25: non avendo di che risarcire, il Signore ordinò, ecc. Chi stabilisce con
Dio un rapporto di giustizia, resta sempre insolvente, chiuso nella gabbia dei
suoi debiti. La legge, giusta, non fa altro che farlo sentire in colpa.
v. 26: abbi pazienza con me. È la preghiera del debitore. La legge, che ci
accusa, ci porta a invocare la magnanimità di Dio.
519
ti risarcirò tutto. È l’illusione di chi crede di poter saldare il suo debito.
Finché non scopre la grazia e il perdono, non c’è alternativa.
v. 27: mosso a compassione. La nostra condizione commuove il Signore:
ne muove le viscere materne. Gli facciamo una pena infinita con i nostri sensi
di colpa e di espiazione. La sua passione si fa compassione.
lo liberò e gli rimise il debito. Il Signore mi ha amato e ha dato se stesso
per me (Gal 2,20), liberandomi da ogni colpa e peccato. Mi vuol far capire che il
mio rapporto con lui non è di schiavo/padrone, ma di figlio/padre. Il credente si
sa amato e perdonato gratuitamente da Dio, che lo considera figlio. Lo Spirito
glielo testimonia , facendogli gridare: “Abbà!”. Non è in debito, ma in credito
nei confronti di Dio; gli è Padre infatti, ed è con lui in debito del suo amore.
La fraternità scaturisce da questa esperienza filiale.
v. 28: quel ministro trovò uno dei suoi compagni il quale gli era debitore
di cento danari. Cento danari sono altrettante giornate lavorative. Cifra
discreta, ma trascurabile rispetto al debito appena condonato.
lo strozzava dicendo: Rendimi ciò che devi. Il Signore si commuove, lo
libera e gli condona il debito; lui invece afferra il suo compagno, lo soffoca e
vuole che lo paghi. Quanto Dio è magnanimo con noi, altrettanto noi siamo
meschini con gli altri. Come pensiamo di dover restituire al Padre, così
pensiamo che i fratelli devono restituire a noi. Con l’altro viviamo lo stesso
rapporto che abbiamo con il primo Altro, e viceversa.
v. 29: abbi pazienza con me, e ti risarcirò. Il fratello gli fa la stessa
preghiera che lui ha fatto al Signore. Lo chiama ad avere nei suoi confronti gli
stessi sentimenti del suo Signore.
v. 30: egli non voleva, e andò a gettarlo in prigione. Fa al suo compagno il
contrario di quanto il suo Signore ha fatto con lui.
v. 31: vedendo dunque i suoi compagni l’accaduto, furono molto
addolorati. Anch’io resterei addolorato di questo atteggiamento. Mi
immedesimo facilmente con il misero, perché mi può capitare la stessa sorte.
Potrei essere io quel debitore. Quando però, per caso, sono creditore, allora mi
sembra naturale far valere i miei diritti. Mi è facile essere tollerante con chi
pesta i piedi al vicino, finché non li pesta a me!
520
v. 32: ministro cattivo. La sua malvagità non consiste nel debito che
aveva, ma nel credito che realmente ha e fa valere! Il peccato più grave è
sempre quello di non perdonare il fratello: è l’unico che esclude dal Padre,
perché distrugge il mio essere figlio. Se non perdono, ritorno alla logica del
debito: non accetto il perdono. Se caccio in prigione l’altro, caccio in prigione
me.
v. 33: non bisognava che anche tu avessi compassione, ecc. È l’apice
della parabola. Ho pietà del mio simile perché il Signore ha pietà di me. Solo
così ho gli stessi sentimenti del Padre e divento suo figlio. Se non perdono,
muore in me il perdono che ho ricevuto: non ne vivo!
La comunità fraterna nasce dal perdono reciproco: ognuno perdona come è perdonato.
L’unico debito che abbiamo gli uni verso gli altri è l’amore vicendevole (cf. Rm 13,8), Come il mio
peccato mi fa conoscere il Padre e mi fa nascere come figlio, così il peccato del fratello, nel mio
perdono, mi fa vivere da figlio simile al Padre! Se non vivo da figlio, sono morto. Per questo
“perdonare è un miracolo più grande che risuscitare un morto”.
Pensare al proprio debito condonato, non solo rende tolleranti verso gli
altri, ma addirittura magnanimi. In genere però non accettiamo davvero il
perdono; infatti non perdoniamo a noi stessi, e abbiamo sempre stizza, rancore
e vergogna dei nostri peccati.
v. 34: lo consegnò agli aguzzini ecc. Chi non perdona non è perdonato
(6,15). Infatti il Padre ci perdona come noi perdoniamo. Per questo la
riconciliazione col fratello è più importante di ogni culto (5,23s). Senza di essa
finiamo in prigione noi stessi, pagando fino all’ultimo spicciolo (5,25s).
v. 35: così anche il Padre mio nei cieli farà con voi, ecc. La parabola è
un’esortazione al perdono. Il peccato dei peccati è il non perdono: è uccidere in
me l’amore del Padre.
Nel perdono salvo il fratello offrendogli l’amore del Padre, e salvo me
stesso, vivendo di questo amore. Al di fuori di questo amore ricevuto e donato
- che è lo Spirito Santo - non c’è che la morte.
Il discorso sulla comunità, cominciato con il piccolo, finisce col peccatore: il
piccolo è accolto in ogni limite, il peccatore è perdonato di ogni debito. Da me,
come dal Signore.
se non perdonerete ciascuno al fratello dai vostri cuori. Perdonare è un
fatto di cuore. È non ri-cordare, non tenere nel cuore il male del fratello,
521
ricordando invece l’amore che il Padre ha per me e per lui. Se continuamente
ricordo all’altro il suo errore, il perdono è davvero la peggior vendetta. Se il
Signore ricorda le colpe, chi potrebbe più respirare (Sal 130,3)?
Se non riesco a perdonare, cosa devo fare? Invece di prendermela con l’altro, considero che è
un peccato mio di cui chiedo perdono a Dio. Sapere questo cambia già il mio atteggiamento con
l’altro: penso ai miei 10.000 talenti di debito di cui Dio mi fa grazia, non ai 100 danari che l’altro mi
deve.
3. Pregare il testo
Da notare:
• perdonare settanta volte sette
• il mio debito col Signore è di 10.000 talenti
• ma non è un debito: è un dono e un per-dono
• il mio credito col fratello è di 100 denari
• dammi ciò che devi
• lo gettò in prigione
• non bisognava che tu avessi compassione del tuo compagno, come io
ho avuto compassione di te?
• il perdono di cuore ai fratelli.
4. Testi utili
Sal 103; 130; Sir 27,33-28,9; Lc 6,36-38; Mt 5,23-26; 6,12. 14s; Rm 13,8-10; Ef
4,20-32.
522
78. COLUI CHE CREÒ,
DA PRINCIPIO MASCHIO E FEMMINA LI FECE
19,1-12
523
e ne sposa un’altra,
commette adulterio.
10 Gli dicono i discepoli:
Se è questa la situazione dell’uomo con la donna,
non conviene sposarsi.
11 Ora dice loro:
Non tutti capiscono questa parola,
ma coloro ai quali è dato.
12 Ci sono infatti eunuchi
524
vicendevole, che fa sì che uno diventi la vita dell’altro e si possa trasmettere
una vita sensata ad altri.
La sessualità indica l’insufficienza radicale dell’uomo nei confronti della
vita: il limite di un sesso è rimando all’altro, diverso. Questa alterità può essere
vissuta come minaccia e aggressione, in difesa e in attacco, o come attrazione
e cura, in comunione e dono reciproco. Nel primo caso c’è la distruzione della
vita; nel secondo la divinizzazione dell’uomo. Nel rapporto con l’altro, diverso
da sé, si riflette e concreta il rapporto stesso con il primo Altro e diverso, con il
Santo.
Nella cultura antica la donna era considerata possesso dell’uomo. Così era
di fatto anche in Israele, nonostante Gen 1,27 e Gen 2,18-25, che prospettano
ben altra cosa. Infatti, se non “da principio”, subito dopo intervenne il peccato,
che alterò il rapporto che ognuno ha con l’Altro, guastando ogni altro rapporto
(cf. Gen 3,1ss). Tuttavia la coppia è sempre rimasta un’alleanza tra due che sta
a principio della società e della trasmissione della vita.
La coppia monogamica è frutto di evoluzione culturale, possibile come
libera scelta d’amore: due estranei lasciano padre e madre per formare tra loro
un’intimità più grande di ogni vincolo. L’amore, che riporta all’unità
l’estraneità, è un “grande mistero” (Ef 5,32), un fatto divino! Ma proprio
l’amore, sorgente di ogni desiderio e promessa di ogni gioia, sta all’origine di
tante paure e pene. Constatiamo un’incapacità ereditaria di amare, che ci
viene dal trauma di non essere stati adeguatamente amati dalla coppia di
origine. La relazione di coppia è determinante per il bene e il male della società
umana: nella famiglia vengono al pettine i nodi e le contraddizioni di tutti i tipi.
La fedeltà indissolubile nel matrimonio che Gesù propone non è da
intendere come legge, ma come vangelo. Lui è il Dio che salva, e risana in
radice il nostro male che è la chiusura egoistica in noi stessi e la non
accettazione dell’altro.
La proibizione del divorzio e le affermazioni di principio non servono molto
per vivere bene il matrimonio. È necessaria una formazione che ne faccia
scoprire la bellezza e le difficoltà, unita a una determinazione nel creare
condizioni adatte alla vita di coppia in una società sempre più complessa e
frammentata, che tende a dividere più che a unire. Normalmente uno
525
condivide più tempo, raggiungendo più familiarità, con altre persone di sesso
diverso che con il proprio partner. Nessun divieto può tenere insieme una
coppia; solo una libertà educata ad amare e affrontare le difficoltà è in grado di
realizzare il disegno originario di Dio.
Il matrimonio, oggi, non è né migliore né peggiore di una volta - quando
era tenuto assieme da leggi repressive e le notizie negative erano amplificate
solo dal pettegolezzo e non dai mass-media. Oggi, con una maggior libertà, il
matrimonio può diventare ciò che veramente è: dono d’amore reciproco e
fedele tra uomo e donna, riflesso in terra del “mistero grande” di Dio (Ef 5,32).
Ciò che più impressiona non è il numero di matrimoni che falliscono, quanto la
sfiducia che il matrimonio possa riuscire. Si tende a mettersi insieme con la
prospettiva di stare in compagnia fin che va e di lasciarsi quando non va più. Il
che significa stravolgere l’amore nel suo contrario, riducendolo a convenienza
propria. I limiti reciproci non sono più luogo di accettazione e comunione, ma di
rifiuto e divisione.
La proposta di Gesù punta in alto. La relazione di coppia è rivelazione e
partecipazione alla vita di Dio. Dal punto di vista pastorale è necessario oggi
più che mai educare all’amore coniugale e cercare le condizioni concrete che lo
favoriscono. In caso di fallimento - l’uomo è sempre peccatore !- con il perdono
e la misericordia bisogna fare del male il luogo di conoscenza ed esperienza
più profonda di Dio.
In questo testo, oltre il matrimonio, si considera anche il celibato per il regno, che è un’altra via
per realizzare l’unico amore, che è Dio. È lui il nostro vero partner, la nostra altra parte. Il
comandamento primo infatti è quello di amare il Signore con tutto ciò che abbiamo e siamo (22,37;
cf. Dt 6,5ss).
Il celibato, come alternativa al matrimonio, è una via eccellente. Ma si
tratta di un carisma, che è dato a qualcuno per testimoniare a tutti ciò che
appaga il cuore di ciascuno: è l’anticipo della vita futura, dove non si prende né
moglie né marito (22,30).
Dopo l’introduzione (vv. 1-2), c’è la discussione sul divorzio e la posizione
di Gesù che restituisce il matrimonio al suo stato originario (vv. 3-9). Conclude
la proposta del celibato, per coloro ai quali è dato (vv. 10-12).
Gesù è colui nel quale divinità e umanità sono indissolubilmente unite, in
una sola carne. È il mistero stesso di Dio che si offre a ogni uomo. In lui è
526
possibile vivere con fedeltà l’amore per l’Altro, sia direttamente sia per mezzo
di un altro, secondo che a ciascuno è dato.
La Chiesa è quella parte di umanità che, in Cristo, si riconosce come l’altra
parte di Dio, il suo partner che l’ha amata e ha dato se stesso per lei, l’ha
purificata e unita a sé, perché viva la sua stessa vita (cf. Ef 5,25-33).
527
Adamo addormentato nasce l’umanità nuova, sua sposa. Come ogni animale
nasce dalla femmina, così ogni persona nasce come tale dalla ferita del cuore
che lo ama, lo concepisce, lo genera e lo fa vivere.
v. 5: l’uomo abbandonerà il padre e la madre, ecc. (Gen 2,24). È una
traccia di matriarcato nella tradizione più antica di Israele: l’uomo lasciava la
sua famiglia per aderire a quella della moglie. Nel rapporto di coppia una
persona estranea diviene più intrinseca del padre e della madre. Da questi ci si
distacca, al partner ci si attacca, come alla propria altra metà. Padre e madre
sono all’origine di un’esistenza nuova, che viene da una coppia e va a formare
un’altra coppia, capace di essere a sua volta madre o padre. Ogni persona
viene da due che sono diventati “uno” ed è destinata a diventare “uno” col suo
partner: la vita viene dall’amore e si mantiene per l’amore che fa di due uno.
v. 6: non sono più due, ma una carne sola (Gen 2,24). L’indissolubilità è
un dato “fisico” dell’amore, che fa di due uno. E dividere è uccidere! Rompere
l’unione d’amore è distruggere il principio e il fine della vita.
ciò che dunque Dio congiunse, uomo non separi. Nell’unione d’amore tra
due di sesso diverso il Creatore pone il suo sigillo divino sulla creazione.
Questa unità è la realizzazione dell’opera di Dio, che è amore e dono. La
comunione è l’albero della vita; la separazione quello della morte. Ma quale
unione è fatta da Dio e in Dio, e quale no? Sembra che molti matrimoni, per
leggerezza o incapacità, intrinseca o “ambientale”, non siano congiunti da Dio!
v. 7: Mosè ordinò di dare, ecc. La prescrizione di Mosè (Dt 24,1ss) non
rappresenta la volontà di Dio, ma una concessione. La legge non solo prescrive
il bene; regola anche il male, per limitarne i danni a tutela del più debole. Una
legislazione sul divorzio, come sull’aborto, non dice che il divorzio e l’aborto
siano leciti, tantomeno buoni. La legge riconosce realisticamente che il male
c’è, ed è buona nella misura in cui ne contiene gli effetti negativi.
v. 8: Mosè per la durezza del vostro cuore vi permise, ecc. Il divorzio non
è una “missio”, ma una “per-missio”, una perversione della missione originaria,
concessa a certe condizioni per limitarne i danni. La causa di questa
“permissio” è la nostra durezza di cuore. La legge regola il male, ma non
trasforma il male in bene.
528
Gesù si pone a un altro livello rispetto a Mosè. Va oltre la prospettiva della
legge, per offrire il vangelo. Per lui il male diventa l’occasione per un bene
maggiore, che è la misericordia e il perdono. Tutto il c.18, sulla comunità, parla
di questo. Ciò vale a maggior ragione per la coppia, nucleo originario della
comunità. Dopo il peccato, solo nella misericordia e nel perdono si può
realizzare ciò che era “al principio”. Solo questa giustizia “eccessiva” dà
accesso al regno (5,20).
v. 9: se uno ripudia la sua donna, eccetto il caso di fornicazione, e ne
sposa un’altra, ecc. (cf. 5,32). Il testo di Matteo, come tutta la Bibbia, riflette la
cultura maschilista della sua epoca. È chiaro che il discorso vale anche al
femminile.
È un versetto difficile da interpretare. Cosa significa “fornicazione?”. Se,
come nella Bibbia C.E.I., significa “concubinato”, tutto è chiaro e coerente. Così
anche se indica quelle unioni fra consanguinei, usuali tra i pagani e illecite per
Lv 18,6-18. Se fornicazione significa “adulterio”, Gesù sarebbe dell’opinione di
Shannai e contro Hillel, e non si capirebbe il “Ma io vi dico” di 5,32, che
contiene il detto parallelo, né la reazione immediata dei discepoli, che dicono
che a queste condizioni non conviene sposarsi.
Gesù e la Chiesa primitiva proponevano la “santità” del matrimonio come
era al principio, prima del peccato. Si può al massimo ripudiare la moglie
adultera, perché ha profanato la santità del matrimonio, ma non si può passare
a nuove nozze.
Il matrimonio è visto come l’alleanza tra Dio, sempre fedele, e il suo
popolo. Chi tradisce il matrimonio, rompe la santità dell’alleanza. Ma Dio,
anche se tradito, resta fedele oltre ogni tradimento. E noi siamo abilitati ad
essere come lui.
Gesù ci toglie il cuore di pietra e ci dona un cuore nuovo: ci dà il suo Spirito, perché possiamo
vivere la sua legge di amore (Ez 36,26s).
La condanna del divorzio è da intendere alla luce di tutto il messaggio
evangelico, che fa di ogni male e fallimento umano il luogo della misericordia e
del perdono. Se di fatto c’è una rottura del matrimonio, bisogna trovare
soluzioni pratiche che non intacchino il principio, ma che aiutino l’uomo a
viverlo come può, da peccatore com’è, senza spegnere il lucignolo fumigante.
529
Già nella Chiesa antica è attestato il permesso di divorziare dalla moglie
adultera e di risposarsi, come ancora adesso fa la Chiesa d’oriente e fanno le
chiese non cattoliche d’occidente. Inoltre i divorziati risposati, dopo congrua
penitenza, erano riammessi alla comunione mantenendo il nuovo coniuge (cf.
G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Bologna
1998). Ogni affermazione evangelica va letta nel contesto del Vangelo, e non
come lettera che uccide; diversamente resta un velo che impedisce di
comprenderla (cf. 2Cor 3,14-16).
Il “Privilegio paolino” di 1Cor 7,12ss (scioglimento di un matrimonio
contratto prima del battesimo), il “Privilegio petrino” (scioglimento da parte del
Papa di un matrimonio tra un battezzato e un non battezzato), come pure le
varie cause per dichiarare nullo un matrimonio tra credenti, indicano come la
pratica dell’indissolubilità del matrimonio non è un capestro. Anche se non si
deve mettere in discussione ciò che era “da principio”, si deve tener presente
che il principio di tutto è l’eterna misericordia di Dio per chi è fragile e
peccatore.
L’indissolubilità del matrimonio è incomprensibile come legge - l’hanno
capito anche i discepoli (cf. v. 10). È invece quel dono di un amore fedele che
perdona, il quale costituisce l’essenza stessa del vangelo.
Nella nostra società complessa con tendenza “diabolica” (= che divide) e che rischia la “perdita
di umanità”, è da chiedersi e ricercare con cura come vivere un matrimonio evangelicamente
significativo e come ci si debba comportare nei numerosi casi di naufragio. È chiaro che chi ha
sbagliato, e riconosce con umiltà il suo errore, non può essere escluso dalla comunità. È piuttosto
questa che deve crescere per accogliere chiunque soffre.
v. 10: se è questa la situazione con la donna, non conviene sposarsi. I
discepoli hanno capito che Gesù non ammette il divorzio. Non hanno però
capito la proposta positiva che fa del matrimonio.
v. 11: non tutti capiscono questa parola. Capire (in greco: choréo)
significa “fare spazio”. Non tutti hanno lo spazio, la libertà interiore necessaria
per capire che può non valere la pena sposarsi. Ma non per il motivo inteso dai
discepoli, bensì per uno più profondo e bello. È quello per cui Paolo vorrebbe
che tutti fossero celibi come lui (1Cor 7,7ss): per occuparsi con cuore indiviso
di piacere al Signore ed essere uniti a lui senza distrazioni (1Cor 7,32-35). In
530
questo “breve tempo” siamo chiamati a testimoniare l’amore per lo sposo che
viene: “Maranà tha: vieni, o Signore” (1Cor 16,22).
Lo stesso amore che uno testimonia mediante la fedeltà e l’appartenenza
a un partner, si può vivere e testimoniare in modo diretto e assoluto nel
celibato. Comunque, celibi o sposati, siamo chiamati tutti ad amare il Signore.
ma coloro ai quali è dato. Il celibato per il regno non è una legge, ma un
dono - un carisma personale a servizio della comunità. È una scelta che può
fare liberamente solo chi è stato liberamente scelto dal Signore: è una risposta
a una proposta d’amore, e non deve essere imposto a nessuno, né
direttamente né indirettamente.
v.12: ci sono eunuchi ecc. Origene, dopo aver applicato alla lettera questo
versetto, capì meglio il valore dell’interpretazione allegorica! C’è chi non può
sposarsi perché sessualmente incapace dalla nascita. C’è chi non potrà
sposarsi perché condizionamenti profondi o circostanze avverse glielo
impediscono (oggi capita sempre più spesso). C’è chi non si sposa per libera
scelta d’amore. Questo “eunuco per il regno” mostra ad ogni eunuco che può
vivere la sua situazione di povertà come rivelazione di grazia, di scelta per il
Signore. Allo stesso modo mostra ad ogni sposato che è chiamato a scegliere
anche lui il Signore.
Matrimonio e celibato testimoniano lo stesso amore, ma per due vie diverse: con o senza la
mediazione di un partner, secondo il diverso dono di Dio. Infatti la vera altra parte dell’uomo è
sempre e comunque l’Altro.
chi può capire, capisca. Lo “spazio” per comprendere il celibato non c’è in
tutti: è la padronanza di sé e delle proprie passioni, di chi è arbitro della
propria volontà (1Cor 7,37). Ognuno ha un dono diverso dall’altro.
3. Pregare il testo
531
Da notare:
• è lecito a un uomo ripudiare la propria donna?
• colui che creò, da principio maschio e femmina li fece
• i due saranno una carne sola
• ciò che Dio congiunse, uomo non separi
• la durezza di cuore
• non vale la pena di sposarsi
• eunuchi per nascita, eunuchi per crescita (mancata), eunuchi per il
regno
• chi può, capisca.
4. Testi utili
Sal 45; Gen 1,27; 2,18-25; Os 1-2; Cantico dei Cantici; Ez 16; Is 62; Ef 5,25-33;
1Cor 7; Ap 21-22.
532
79. DI QUESTI È IL REGNO DEI CIELI
19,13-15
“Di questi è il regno dei cieli”, dice Gesù dei bambini che vengono da lui.
Tutto il c.18, che parla della comunità, si svolge nella casa dove lui sta con i
suoi discepoli. Al centro ha posto lui stesso un bambino con il quale si identifica
(18,1-5). Questo brano è un richiamo dell’episodio; ne è una ripetizione, fatta a
poca distanza.
Si è tentati di sorvolarla con un “già visto”, “niente di nuovo”. La ripetizione invece è una
sottolineatura, un sostare voluto sull’argomento, di particolare significato. Quanto è già detto deve
penetrare, trapassare il cuore ed essere ribadito, perché non ne esca mai più.
Qui si ribadisce che il regno dei cieli è dei bambini: invece di impedirne
l’accesso a Gesù, bisogna diventare come loro per accedere a lui.
Dopo aver parlato di matrimonio, si parla di bambini. Non solo perché dal
matrimonio nascono i figli, ma anche perché il riconoscersi figli rende possibile
diventare madre/padre. Infatti chi non accetta di essere figlio, non ha la propria
identità, ed è incapace di relazioni.
In questo brano si dice del rapporto che l’uomo ha con il “primo Altro”, con Dio, e quindi con
se stesso come suo figlio – presupposto di un corretto rapporto con gli altri e con le cose.
533
Il breve racconto ha fatto da supporto teologico alla pratica del battesimo dei bambini. Non è
chiaro se già in Matteo fosse questo il senso del testo. Certamente è una suggestione sul significato
profondo del battesimo che ci fa figli, e rende possibile la comunità di fratelli.
Questa scena ripropone la centralità del bambino all’interno della vita
nuova del credente. Colui che nella tradizione giudaica ed ellenistica era
considerato una semplice appendice della donna – a sua volta possesso del
maschio – sta al centro della fede cristiana. È il Signore stesso. La sapienza del
Figlio - il mistero che Dio è Padre!- è nascosta ai sapienti e agli intelligenti, ma
è rivelata agli infanti. A questi il Figlio fa fiorire sulle labbra la Parola, il grido
che esprime il Padre e genera il Figlio nell’unico amore: “Abbà” (cf. 11,25-27).
Nel bambino si manifesta l’essenza dell’uomo: egli esiste in quanto accolto
e amato, e diventa adulto quando accetta di essere accolto e amato nella sua
piccolezza. Solo allora sa accogliere ed amare i piccoli: è figlio e si fa fratello!
Il brano, parallelo a Mc 10,13-16, è incorniciato dal gesto importante
dell’“imporre le mani” da parte di Gesù sui piccoli.
Gesù è il più piccolo tra tutti: è il Figlio che acconsente al dono del Padre ed è dono ai fratelli. Egli è
il “sì”, l’Amen di Dio rivolto agli uomini (2Cor 1,20).
La Chiesa è fatta dai suoi fratelli che, come lui, sono dei piccoli che amano
e accolgono come sono amati e accolti.
v. 13: Allora furono portati a lui. Non si dice da chi. Ovviamente non dai
discepoli, ma dalle madri. O forse addirittura dal Padre (passivo divino?), che
desidera che i suoi figli siano con il Figlio?
dei bambini. Non si tratta di ragazzi (paîs) ma di piccoli (paidíon), sotto i
sette anni. Non fanno parte della comunità, perché ancora non sono in grado di
conoscere e osservare la Parola. Non avrebbero la facoltà di intendere e di
volere, si dice. Sarebbero una “tabula rasa”, sulla quale si scriverà a tempo
opportuno ciò che si deve. Il bambino nell’antichità non era al centro
dell’attenzione come lo è per noi. Che contava era il maschio adulto, al cui
servizio era la donna; il bambino ne avrebbe continuato il nome.
534
perché imponesse loro le mani. Si imponevano le mani sulla testa della
vittima sacrificale (Lv 1,4); Mosè le impose su Giosuè per trasmettergli il suo
spirito di saggezza e la sua autorità (Dt 34,9); Israele pose le mani su Efraim e
Manasse per benedirli (Gen 48,14-19). La mano indica il potere: è simbolo
regale, di colui che può! Imporre le mani è segno di trasmissione di ciò che si è:
induce continuità e identificazione tra sé e l’altro.
Gesù trasmette ai bambini la sua benedizione di Figlio, il suo Spirito. Forse è un’allusione al
battesimo. Certamente indica il diritto che i bambini hanno di partecipare all’assemblea dei figli di
Dio, alla quale tutti apparteniamo per grazia e non per merito. Il battesimo dei bambini sottolinea
l’aspetto di dono, quello degli adulti a sua volta ne evidenzia la responsabilità che ne consegue. La
“confermazione” ha per noi questo senso: l’adulto conferma, coscientemente e liberamente, il suo
impegno a vivere il pegno che nel battesimo ha ricevuto. Il diventare adulti non è altro che
riconoscere la “grazia” del nostro essere piccoli: siamo figli che vivono dell’amore gratuito del
Padre.
La “piccola via”, l’infanzia spirituale di S. Teresa di Gesù Bambino,
dottoressa della Chiesa, è una intuizione potentemente evangelica in un’epoca
di positivismo razionalistico.
e pregasse. Che preghiera avrà fatto con loro e per loro se non la sua
stessa di Figlio, che dice sì al Padre e ai fratelli (cf. 11,25ss)?
i discepoli li minacciarono. Minacciare o sgridare è la stessa parola usata
negli esorcismi per indicare ciò che Gesù fa con i demoni. Esce anche nello
scontro con Pietro (16,22; cf. Mc 8,32.33). Secondo i discepoli i bambini non
possono aver parte con loro, perché non solo disturbano, ma anche non
possono né capire né osservare la Parola. Solamente a tredici anni, dopo un
apprendistato riservato a loro, possono diventare “bar-mizwà”, figli del
precetto.
v. 14: Gesù disse. Marco 10,14 sottolinea che Gesù “si adirò”.
L’atteggiamento dei discepoli suscita in lui uno sdegno analogo a quello che
provò davanti alla durezza di cuore di chi lo vuol uccidere (Mc 3,5s). Ciò che
facciamo a uno di questi piccoli, in realtà lo facciamo a lui (25,40.45). Se i
piccoli disturbano, sappiano i discepoli che a lui dà fastidio il loro
atteggiamento, non quello dei bambini.
535
lasciate i bambini e non impedite loro. I bambini non vanno impediti.
Queste parole di Gesù sono da intendere contro chi vuol “impedire” loro il
battesimo (cf. At 8, 36; 10,47; 11,17)?
venire a me. “Venite a me” (11,28), dice Gesù a tutti, invitandoli al
banchetto della sapienza del Figlio, riservato ai piccoli (11,25-27). Non solo
non dobbiamo impedire ai piccoli l’accesso al Signore, ma dobbiamo diventare
e fare come loro. Solo così accogliamo il suo giogo leggero e soave, siamo
liberi dalle fatiche e dall’oppressione della legge, giungiamo all’eredità piena
dei figli (11,28-30).
di questi è il regno dei cieli. In 11,25-27 Gesù dice che la sapienza del
Figlio – la conoscenza del Padre – è rivelata agli infanti. In 18,3 dice di
convertirsi e diventare come bambini per entrare nel regno. Ora dice che il
regno è dei bambini. A differenza degli adulti, che sono anche sposi, padri e
madri, e fanno tante cose, i bambini sono solo figli, e tutto ricevono. Il regno è
loro, proprio perché il regno del Padre sono i figli, i suoi piccoli.
Il bambino vive in quanto riconosciuto, accolto ed amato. Non è vero che il
bambino non può aver fede. Al contrario: vive di fiducia assoluta nell’amore di
chi lo accoglie. Se resta deluso in questa, non può vivere, se non male. Ognuno
di noi respira nella misura in cui la sua fiducia è corrisposta da un sorriso
materno, che non delude. L’uomo è bisogno assoluto di fiducia, perché
cosciente di essere “relativo”. E uno non può essere relativo al nulla, ma a Dio,
suo partner: diversamente è dal nulla, per il nulla, ed è nulla! La coscienza di
essere relativi è il nostro marchio divino: il desiderio di assoluto.
Si dice che il bambino non usa la ragione e quindi non può credere in Dio
(la fede è assenso razionale!). Al contrario: ha sempre ragione, e vive di pura
fede. L’uomo diventa adulto quando accoglie il bambino che è anche in lui, che
è lui – che è il Figlio stesso. Allora conosce se stesso come è conosciuto (1Cor
13,12). Il figlio esiste in quanto termine di dono gratuito; solo così è se stesso,
libero e capace di volersi bene e di voler bene. Chi è di nessuno, non amato né
accettato, si sente in colpa di vivere; schiavo della mancata accettazione, è in
lotta perenne con sé e con tutti. La dignità dell’uomo è quella di Gesù, il Figlio,
che dice di ognuno di noi al Padre: “Li hai amati come hai amato me” (Gv
17,23).
536
Il bambino vive spontaneamente ciò che l’adulto dovrà realizzare
liberamente.
Il nostro rapporto con l’altro e con il mondo dipende dal nostro rapporto
con l’Altro e con noi stessi. Se l’Altro è Madre/Padre, noi abbiamo la nostra
identità di figli. Se non accettiamo questa, rifiutiamo noi stessi, e avremo un
rapporto di rapina con madre e padre, con il partner e col mondo intero. Da
amore, dono e comunione, tutto diventa egoismo, possesso e morte.
v. 15: imposte loro le mani. I bambini hanno lo stesso potere di Gesù (cf.
18,59), che in loro si rispecchia nella propria realtà di Figlio.
andò via di là. Gesù sta andando dalla Galilea a Gerusalemme (19,1), dove
compirà la sua missione di Figlio, facendosi ultimo e servo di tutti.
3. Pregare il testo
Da notare:
• furono portati a lui dei bambini
4. Testi utili
537
E AVRAI UN TESORO NEI CIELI,
E VIENI, SEGUI ME
19,16-30
538
23 Ora Gesù disse ai suoi discepoli:
Amen vi dico,
che un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli.
24 Di nuovo vi dico,
è più facile
che un cammello passi per la cruna di un ago
che un ricco entri nel regno di Dio.
25 Ora, udito, i discepoli furono molto scossi,
dicendo:
Chi dunque può salvarsi?
26 Ora, guardando dentro,
Gesù disse loro:
Presso gli uomini questo è impossibile,
ma presso Dio tutto è possibile!
27 Allora, rispondendo, Pietro gli disse:
Ecco, noi lasciammo ogni cosa
e ti seguimmo;
che sarà dunque di noi?
28 Ora Gesù disse loro:
Amen, vi dico,
voi che mi avete seguito,
nella nuova creazione,
quando il Figlio dell’uomo sederà
sul trono della sua gloria,
sederete anche voi su dodici troni
per giudicare le dodici tribù d’Israele.
29 E chiunque avrà lasciato
case, fratelli e sorelle
e padre e madre e figli e campi
a causa del mio nome,
riceverà il centuplo
ed erediterà la vita eterna.
Ora molti primi saranno ultimi,
30 e ultimi, primi.
539
1. Messaggio nel contesto
“Va’, vendi ciò che hai e da’ ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; e vieni,
segui me!”. È la proposta di Gesù a chi gli chiede “che fare per avere la vita
eterna”. È una proposta oltre la giustizia; realizza quella “giustizia eccessiva”
che introduce nel regno (5,20). È rivolta a ogni uomo, chiamato ad essere
discepolo di Gesù, Figlio perfetto come il Padre (5,48).
Per un figlio i beni sono dono del padre da condividere con i fratelli. Chi li
accumula rende se stesso schiavo dell’egoismo e i fratelli schiavi della miseria.
Libero è colui che è capace di usarli a servizio degli altri.
L’attaccamento ai beni è il grande inganno, la seduzione che soffoca la
Parola (13,22). La brama di ricchezze è principio di tutti i mali (cf. 1Tm 6,10),
vera idolatria (Ef 5,5; Col 3,5), che esclude dal regno, che è per i “poveri in
spirito” (5,3).
Gesù ci offre di vivere come “da principio” non solo il rapporto con l’altro e
con noi stessi, ma anche con i beni del mondo. Questi non sono il fine a cui
sacrificare la vita propria e altrui, ma il mezzo da usare “tanto-quanto” serve
per vivere da figli e da fratelli, con piena libertà, senza lasciarci condizionare.
Ciò che teniamo in proprio, ci divide dagli altri; ciò che doniamo, ci unisce. I
beni materiali sono quindi benedizione e vita se liberamente condivisi,
maledizione e morte se compulsivamente accumulati.
Gesù ci dona di essere uomini liberi, che sanno servirsi di tutte le cose
invece di servirle ed esserne asserviti come schiavi. Siamo figli, signori e non
servi del creato, proprio in quanto con esso serviamo i fratelli.
“Da principio” tutto è dono. Possedere e accumulare è distruggere la
radice stessa della creazione: la violenza per appropriarsi delle cose distrugge,
non solo la fraternità, ma anche i beni stessi di cui viviamo. La cacciata
dall’Eden, come l’esilio dalla terra promessa, è conseguenza amara del voler
“rapire” ciò che è donato. Il senso dell’anno santo in Israele è ristabilire la
condivisione dei beni (Lv 25, 8-17), che inevitabilmente tendono ad
accumularsi nelle mani di pochi a svantaggio di tutti. Questa è la condizione
“per abitare la terra” (Lv 25,18s). Diversamente la terra è inabitabile: diventa
un deserto dove regna l’ingiustizia e la violenza dei potenti.
540
Nudi siamo usciti dal ventre materno; nudi torneremo alla terra (cf. Gb
1,20s). Ogni uomo, almeno alla fine, compirà il precetto del Signore di lasciare
tutto e tornare bambino. Ciascuno porterà con sé il suo tesoro vero: non
saranno le ricchezze possedute e accumulate, ma quelle vendute e condivise.
Di queste nulla andrà perduto; tutto il resto sarà bruciato come paglia al fuoco
(cf. 1Cor 3, 12-15).
Quanto Gesù dice al giovane ricco (v. 21) non è “un consiglio evangelico” per qualcuno che
vuol essere più bravo: è la perfezione che il vangelo di libertà offre a tutti. Uomo perfetto, maturo e
completo, è colui che concretamente vive tutto come dono ricevuto e donato. Così diventa figlio, e
realizza il comando di amare gli altri con lo stesso amore con il quale Gesù lo ha amato (cf. Gv
13,34).
L’interpretazione di queste parole di Gesù ha una lunga e varia storia.
L’evangelista Luca le prende alla lettera: Gesù realizza “oggi” l’anno santo
(vedi il suo discorso programmatico in Lc 4,18-21). La Chiesa, dopo di lui, porta
avanti la sua salvezza di Figlio, vivendo concretamente la fraternità (At 2,42-
48; 4,32-35; cf. Lc 3,11; 5,11.28; 6,30; 7,5; 11,41; 12,33s; 14,13.33; 16,9;
18,22; 19,8). Ma è un gesto di libertà, al quale nessuno è costretto (cf. At 5,4!).
Origene dice ai ricchi di far parte dei beni materiali coi poveri per aver
parte ai loro beni spirituali. S. Giovanni Crisostomo avvisa che la povertà
interiore è necessaria, ma non sufficiente: occorre aiutare i poveri con le
proprie ricchezze. S. Basilio richiama anche i padri di famiglia a disfarsi della
ricchezza - intesa come il superfluo - per non andare contro il comando
dell’amore, che esige una certa uguaglianza tra gli uomini. La sollecitudine per
i figli non deve essere un pretesto per trascurare l’ordine del Signore!
I credenti hanno cercato di comprendere, interpretare e vivere secondo le
diverse circostanze queste parole di Gesù con maggiore o minore difficoltà -
sempre comunque rigettando, almeno a parole, l’amore per la ricchezza e il
possesso che danneggia i fratelli.
Il “consiglio evangelico” - che diventa poi il voto di povertà dei religiosi - è
valido solo nella misura in cui è inteso come segno profetico di ciò che tutti
sono chiamati a vivere. I voti di povertà, castità e obbedienza sono una
testimonianza radicale e visibile di quella libertà evangelica nei confronti delle
cose, delle persone e di noi stessi, che tutti dobbiamo avere per amare Dio e
servire i fratelli. La testimonianza radicale è però riservata a qualcuno come
541
dono particolare. Ma non tutti capiscono questa parola: chi può capire, capisca
(vv. 11s). Dio fa un dono diverso a ciascuno: “Ciascuno ha il proprio dono da
Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1Cor 7,7). Ma ogni dono è per il bene
comune (1Cor 12,7), manifestazione dell’amore, che è per tutti e mai
tramonterà. Non tutti faremo come Madre Teresa di Calcutta; ma nessuno di
noi può trascurare di vivere, come può, quell’amore per gli ultimi che essa ha
così mirabilmente testimoniato.
Per tutti la via della vita passa attraverso la povertà, l’umiltà e il servizio.
Possesso e ricchezza, orgoglio e dominio sono le armi con le quali il nemico ci
tiene in schiavitù. Il povero a sua volta stia attento a non avere il cuore del
ricco. Oggi i mass-media propongono anche a lui un modello che gli aliena la
sua vera ricchezza: quella povertà che apre al regno!
Ciò che vale dei beni materiali, vale di ogni altro bene, intellettuale,
morale e spirituale: è un dono da ricevere come figli e da donare ai fratelli, per
il servizio comune.
Il brano si articola in tre parti: la necessità di essere liberi dai beni per
realizzarsi (vv. 16-22); la ricchezza, reale o desiderata, non è aiuto, ma
impedimento ad entrare nel regno (vv. 23-26); al discepolo è donato al
presente questa libertà che gli dischiude il futuro (vv. 27-29). Per questo molti
dei primi saranno ultimi e viceversa (v. 30).
Gesù è il povero, ultimo e servo di tutti, perché è il Figlio (Fil 2,6-11).
La Chiesa segue lui, diventando sale della terra e luce del mondo (5,13ss):
conosce la grazia di colui che da ricco si fece povero per arricchirla con la sua
povertà (2Cor 8,9).
v. 16: Maestro, che farò di buono per avere la vita eterna? Ogni uomo si
chiede: "che fare” per ottenere la felicità che desidera? Si interroga da dove
partono e dove portano le sue azioni, per indirizzarle liberamente all’obiettivo
che coscientemente si propone come sua realizzazione. Non programmato
dall’istinto, sa per esperienza che può fallire: la sua mente debole è facilmente
ingannata, il suo cuore pavido è subito piegato alla schiavitù.
542
v. 17: perché mi chiedi circa ciò che è buono? Uno solo è buono! Gesù lo
mette sulla strada: il suo Dio è Dio, l’unico buono, o mammona (6,24)? Dio è
buono perché è amore umile e servizievole, che dà la vita. Mammona è l’idolo
dell’egoismo, arrogante e schiavizzante, che dà la morte.
se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti. La vita nostra è la
stessa di Dio: amare! E l’amore, più che nelle parole, sta nel condividere ciò
che si ha e ciò che si è. L’amore del Padre si vive nell’amore dei fratelli,
compimento della legge (cf. 22,37-40; 7,12; Rm 13,8-10).
v. 18s: non uccidere, non commettere adulterio, ecc. Gesù enumera i
doveri verso il prossimo, dei quali però ha già detto che sono da vivere in
modo nuovo, con il cuore del Figlio (cf. 5,21-48). Non parla dell’amore del
Signore, perché ormai si realizza in pienezza nel seguire Gesù (v. 21).
v. 20: tutte queste cose le ho custodite. Questo giovane è “irreprensibile”
nell’osservanza della legge, come Paolo (Fil 3,6).
cosa ancora mi manca? Per essere perfetto come il Padre, bisogna essere
fratello e seguire il Figlio. Per questo gli manca la sublimità della conoscenza
dell’amore del Figlio per lui (Fil 3,8). Non ha ancora il cuore nuovo, libero di
amare come è amato: gli manca il passaggio dalla legge al vangelo.
v. 21: se vuoi essere perfetto. “Perfetto” significa “compiuto”. Ciò che non
è compiuto non è ancora realizzato. Un’azione incompiuta, è “fallita”. La
perfezione di cui parla Matteo non è quindi un consiglio, ma il passo necessario
per essere davvero figli (cf. 5,48).
va’, vendi ciò che hai e da’ ai poveri I beni, fino a quando non sono
condivisi coi fratelli, sono la nostra lontananza dal Padre e dal Figlio. Bisogna
allontanare da sé ciò che allontana dal Dio della vita.
avrai un tesoro nei cieli. Solo così uno ha il suo cuore dove è il suo tesoro.
e vieni, segui me! Chi si fa fratello, viene verso il Figlio e segue il suo
cammino. Dare ai fratelli e seguire il Signore è il pieno compimento del
comando dell’amore di Dio e del prossimo.
v. 22: il giovane se ne andò triste; aveva infatti molti beni. Per lui il suo
bene sono ancora i suoi beni. Non li ha come benedizione: ne è
maledettamente “avuto”. Non è ancora libero: è schiavo di mammona.
543
Il vangelo apocrifo degli Ebrei dice che il giovane comincia a grattarsi la
testa, perché la proposta lo preoccupa. E Gesù gli dice: “Come puoi dire di
osservare la legge e i profeti, se nella legge è scritto di amare il prossimo come
te stesso, ed ecco, molti tuoi fratelli sono vestiti di sterco e morti di fame,
mentre la tua casa è piena di molti beni, e non ne esce nulla per loro?”
v. 23: un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli. Il regno è dei
poveri in spirito (5,3). Per questo i ricchi difficilmente vi entrano: devono prima
diventare poveri!
v. 24: è più facile che un cammello entri, ecc. Ciò che è appena stato
dichiarato difficile, ora è detto impossibile. Può forse un cammello passare per
la cruna di un ago?
v. 25: i discepoli furono molto scossi. Ritengono che le ricchezze siano un
aiuto, non un impedimento. Sono ancora vittime dell’inganno della ricchezza
(13,22): non sanno che il cuore, schiavo dell’egoismo, volge in male ogni bene.
All’improvviso sono colpiti al vedere come sia impossibile la libertà che fa
entrare nel regno.
chi dunque può salvarsi? Se la condizione per la felicità è questa libertà,
chi la conseguirà?
v. 26: guardando dentro. Gesù entra con il suo sguardo nel cuore dei
discepoli. È quell’occhio che li ha visti e sedotti fin dal principio (4,18).
presso gli uomini questo è impossibile. Gesù conferma che è vero quanto
hanno capito. Nessuno è libero, nessuno può salvarsi!
ma presso Dio tutto è possibile. La liberazione della libertà dell’uomo è
azione divina per eccellenza. È data a chi incontra lo sguardo del Signore Gesù,
che gli risveglia nel cuore la sua verità che era fin dal principio - e che
dall’inizio finì sepolta da menzogne e paure.
v. 27: allora, rispondendo, Pietro disse. Pietro scopre con sorpresa che ciò
che è impossibile agli uomini, già è stato donato da Gesù ai suoi discepoli.
noi lasciammo ogni cosa e ti seguimmo (4,18-22). Come Paolo, i discepoli
hanno visto in Gesù il loro Signore (Fil 3,8) il sommo bene, il tesoro nascosto
della loro vita, la perla preziosa di cui andavano in ricerca (13,44ss).
che sarà a noi? Pietro è meravigliato per il dono ottenuto, e si chiede cosa
mai sarà la felicità che ne consegue.
544
v. 28: voi che mi avete seguito, ecc. Nella nuova creazione
(“palingenesi”), nel giorno senza tramonto che già ora è cominciato, i discepoli
parteciperanno alla regalità, alla gloria, alla ricchezza del Figlio. I poveri
regneranno per sempre con lui.
v. 29: chiunque avrà lasciato, ecc. Chi, per amore di Gesù (“nel mio
nome”) ha lasciato tutto, non perde nulla: ottiene tutto, ed eredita la felicità
senza fine. La pienezza del dono si manifesterà dopo; ma già ora il regno è suo
(5,3). Per questo il suo futuro sarà diverso (cf. 5,4-12). Il presente rimane il
luogo per decidere il passaggio dall’egoismo all’amore: è lo spazio della
liberazione della nostra libertà.
v. 30: molti primi saranno ultimi, e ultimi, primi. I nostri modi di pensare e
di agire sono capovolti. Il nostro giudizio è “perverso”: manca di verità. Primo
non è il ricco, ma il povero, del quale è il regno (5,3).
3. Pregare il testo
Da notare:
• che farò per ereditare la vita eterna?
• uno solo è buono
• osserva i comandamenti
• tutto questo ho custodito, cosa ancora mi manca?
• va’, vendi ciò che hai e da’ ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli
• e vieni, segui me
• se ne andò triste perché aveva molti beni
• un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli
545
• è più facile per un cammello entrare per la cruna di un ago
• chi può salvarsi?
• presso gli uomini questo è impossibile; ma presso Dio tutto è possibile
• lasciammo ogni cosa e ti seguimmo
• che sarà dunque di noi?
• i primi saranno gli ultimi, gli ultimi i primi.
4. Testi utili
546
81. IL TUO OCCHIO È CATTIVO
PERCHÉ IO SONO BUONO?
20,1-16
547
pensarono che avrebbero ricevuto di più,
e ricevettero un denaro ciascuno anche loro.
11 Ora, ricevendolo,
brontolavano contro il padrone di casa
12 dicendo:
Questi ultimi fecero un’ora sola,
e li facesti pari a noi
che abbiamo portato il peso della giornata e la calura!
13 Ora egli, rispondendo a uno di loro,
disse:
Amico, non ti faccio ingiustizia:
non hai forse concordato con me per un danaro?
14 Prendi il tuo e vattene!
Ora voglio dare a questo ultimo
come anche a te.
15 Non mi è lecito
fare ciò che voglio delle mie cose?
O il tuo occhio è cattivo
perché io sono buono?
16 Così gli ultimi saranno primi,
e i primi ultimi.
“Il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?”, chiede a quelli che
vorrebbero essere primi, colui che presta attenzione agli ultimi.
I primi sono ultimi e gli ultimi primi anche nei beni spirituali. Chi lascia tutto per lavorare nella
vigna, come Pietro e compagni, riceve una grande ricompensa, come appena detto (19,27-29).
Questa parabola ci mostra che essa è un dono di grazia accordato a tutti, cominciando dagli ultimi
arrivati. Il Signore, il solo buono (19,17), fa alla perfezione ciò che dice al giovane ricco: dà tutto
ciò che è suo ai poveri (v. 21).
La vigna è il popolo, chiamato a portare i frutti del regno, che sono l’amore di Dio e del
prossimo. Il Signore esce di continuo, a tutte le ore, per chiamarci e richiamarci. Tutta la nostra
giornata - la storia di ogni singolo e di tutti - non è che una chiamata costante a fare frutto.
548
Questa parabola distrugge alla radice la logica del possesso e della
pretesa: nessuno può vantare titoli di credito per ciò che è puro dono di grazia.
I primi chiamati, sia in Israele che nella Chiesa, sono come Giona: si
incupiscono nel vedere che Dio è “misericordioso, clemente, longanime e di
grande amore” (Gn 4,2). Sono attaccati ai loro beni spirituali, come il giovane
ricco a quelli materiali. Sono simili a Paolo, che si gloriava della sua
irreprensibilità nella giustizia della legge (Fil 3,3-6); sono come il fratello
maggiore, che si adira nel vedere che il Padre è buono con il fratello minore (Lc
15,28).
Questa parabola è un vangelo “in nuce”, simile a Luca 15,1ss. È in
contrasto con l’etica del capitalismo, materiale o spirituale che sia. Non è
contro la legge o la giustizia - agli operai della prima ora è dato quanto è giusto
-; accentua però la grazia. La legge e la giustizia di Dio è quella dell’amore e
della liberalità; la sua retribuzione eccede ogni merito: è un premio, dato per
misericordia a tutti.
I primi chiamati al lavoro nella vigna rischiano di rifiutare il Signore,
perché è magnanimo verso gli ultimi. Per tutti la salvezza è l’amore gratuito
del Padre. Non si può rapirlo con astuzia o guadagnarlo con sudore: è grazia.
La vita eterna, che il giovane ricco vuole avere (19,16), si può ottenere
non facendo qualcosa di più, ma lasciando tutto. Bisogna lasciare, oltre i beni
materiali, anche quelli spirituali. Il regno è dei poveri in spirito (5,3), di chi è
diventato come un bambino e lo accoglie come dono del Padre ai figli nel
Figlio. Il privilegio dei piccoli e degli ultimi è che, non meritandolo, capiscono
che è un dono. Gli altri - i ricchi in spirito - lo accoglieranno solo se, a differenza
del fratello maggiore, accetteranno il minore; solo se, a differenza di chi ha
lavorato dall’alba, saranno contenti che i loro fratelli dell’ultima ora, abbiano il
loro stesso stipendio di figli.
Questa parabola, insieme a quella dell’amministratore di Lc 16,1ss, è
anche più irritante di Lc 15,1ss perché usa un linguaggio economico: è una
stoccata al nostro modo mercantilistico di concepire l’amore.
Il brano si divide in due parti: ci sono cinque diverse chiamate dall’alba
fino a un’ora prima del tramonto (vv. 1-7): al calar del sole c’è la ricompensa,
cominciando dagli ultimi che ricevono lo stesso compenso pattuito con i primi,
549
che, ovviamente, si lamentano (vv. 8-16). Il fulcro è il rimprovero a uno degli
operai della prima ora, che non accetta che il Signore tratti come lui quelli
dell’ultima ora.
Gesù riporta sulla terra ciò che era al “principio”: il modo di agire del
Padre, che è benevolo con tutti i suoi figli, anche con chi non lo merita (cf.
5,45).
La Chiesa, se cerca salvezza dalle proprie opere, sa che non ha più nulla a
che fare con Cristo: è decaduta dalla grazia (Gal 5,4). I cristiani, consci di
essere stati salvati per grazia (cf. Ef 2,5), deponendo asprezza, sdegno, ira,
clamore, maldicenza e ogni genere di malignità, sono benevoli gli uni con gli
altri: si fanno vicendevolmente grazia come Dio li ha graziati in Cristo (Ef
4,31s).
v. 1: Il regno dei cieli è simile a un uomo, un padrone di casa, che uscì all’alba per assoldare
operai per la propria vigna. La vigna è simbolo del popolo infedele all’alleanza, perché non dà il suo
frutto (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 8,13; Ez 19,10-14). Anche nel cap. seguente ci saranno due
parabole sulla vigna e sui lavoratori (21, 28-31. 33-41).
Destinatari della parabola sono gli operai della prima ora, assoldati all’alba: non devono
incattivirsi se il padrone dà agli altri sopra i meriti. Gesù giustifica con queste parole la sua
disponibilità con gli ultimi e i peccatori. Il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che ha perduto
(18,11). La salvezza non è un pane di sudore, ma dono del Padre ai suoi figli (Sal 127,2); ne mangia
chi, come lui, è contento che tutti i fratelli, cominciando dagli svantaggiati, siano salvati.
Chi, come il giovane ricco, ha da sempre osservato la legge, ha ancora una cosa da fare:
sbarazzarsi della propria giustizia per godere della retribuzione di Dio, che è lui stesso, amore
gratuito per tutti e per ciascuno.
v. 2: accordatosi con gli operai per un danaro, ecc. Solo con i primi c’è un patto, che
comunque sarà rispettato. Il Signore rispetta le sue promesse fatte ad Israele, il primogenito, anche se
per grazia le estende agli altri.
Cos’è che promette Dio all’uomo se non se stesso, “com-promesso” in ogni sua promessa? Un
danaro è la paga quotidiana necessaria per vivere. Nel contesto richiama la ricompensa di cui si parla
nel brano precedente. Che cosa è necessario per vivere una vita umana, da figlio di Dio (cf. 19,13s) -
550
quella vita “perfetta” proposta al giovane ricco (19,21) –, se non amare Dio e il prossimo,
compimento della legge e dei profeti (22,40)?
v. 3: uscito all’ora terza. Sono le nove del mattino. I primi operai hanno già lavorato tre ore
con lena, al fresco del mattino, e cominciano a sentire la fatica.
vide altri che stavano sulla piazza inoperosi. Le varie ore della chiamata sono riferite da antichi
commentatori alle varie età in cui ogni persona è chiamata o alle varie epoche del genere umano - da
Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da Abramo a Mosè, da Mosè a Gesù. L’“ultima ora” è quella
presente che comincia con Gesù e terminerà al suo ritorno. Poi ci sarà la fine del giorno e la
ricompensa. La giornata, che termina con la sera e la retribuzione, è immagine della vita di ciascuno e
della storia umana nel suo insieme.
v. 4: andate anche voi alla vigna. In ogni momento della vita personale, come in ogni epoca
storica, c’è una chiamata del Signore. Ogni momento è l’“oggi” dell’ascolto di Dio, che ci invita a
lavorare la vigna. Questo padrone sta probabilmente vendemmiando, e ha urgenza di raccogliere i
frutti perché non si perdano. Il tempo è compiuto (Mc1,15): con Gesù è iniziato il tempo del
raccolto. Il Padre ha urgenza di raccogliere tra i suoi figli il frutto dell’amore filiale e fraterno - a
qualunque ora - perché è la loro stessa vita.
vi darò ciò che sarà giusto. Con i primi fu pattuito un danaro, stabilito come giusta paga
quotidiana. Con questi si impegna, dicendo che darà ciò che è giusto, senza pattuire la cifra. E qual è
la giustizia di Dio, se non quella “eccessiva” che introduce nel regno (5,20)?
v. 5: di nuovo, uscito alla sesta e alla nona ora, fece altrettanto. A mezzogiorno e alle tre del
pomeriggio ci sono altre due chiamate di disoccupati, analoghe alla seconda.
v. 6: all’undicesima ora. Sono le cinque del pomeriggio: i primi lavorano già da undici ore.
Manca un’ora alla sera.
perché state qui inoperosi? Con questi c’è un dialogo in forma diretta. Più
che un rimprovero, è un incoraggiamento a lavorare, anche se ormai resta
poco tempo. Non è mai troppo tardi per convertirsi e portare frutti. Proprio
questi avranno la sorpresa di una grazia sovrabbondante.
v. 7: nessuno ci ha assoldati. Le circostanze (non si sa quali) hanno loro
impedito di lavorare. La colpa non è loro; sembra addirittura del padrone della
vigna, che non li ha chiamati prima. Certamente il Padre si sente in colpa verso
i suoi figli che rischiano di fallire l’esistenza.
andate anche voi nella vigna. Con i primi è pattuito un salario preciso; con
gli altri ciò che è giusto; con questi niente. Sono affidati alla pura benevolenza
del vignaiolo.
551
v. 8: venuta la sera. È la fine della fatica, del giorno dell’uomo e della sua
storia. Inizia il riposo e il godimento: la ricompensa.
chiama gli operai. Tutti insieme, alla sera, assistiamo all’ultima chiamata
per la retribuzione del Signore.
da’ loro la paga, cominciando dagli ultimi, fino ai primi. Se avesse
cominciato dai primi, questi non avrebbero visto la scena e non avrebbero
ricevuto la lezione. Comincia invece dagli ultimi, che sono i primi a ricevere la
paga. Cosa riceveranno?
v. 9: quelli dell’undicesima ora ricevettero un danaro ciascuno. Ecco la
meraviglia. Il Signore è misericordioso: dà agli ultimi quella paga che è
necessaria per vivere. Ma di cosa vive l’uomo, se non dell’amore del Padre? E
cosa può dare lui di meno di se stesso, se è tutto amore? Ognuno ne riceve
secondo la sua capacità. E la capacità di ricevere è proporzionale al bisogno –
mani vuote stringono più che mani piene! Chi amerà di più, se non colui al
quale è stato perdonato di più (Lc 7,42s)?
L’inferno del giusto è vedere che Dio è misericordia con gli ingiusti!
La retribuzione è certamente giusta secondo la nostre opere - come è
chiaro per gli operai della prima ora. Ma è anche giusta secondo la giustizia
eccessiva di Dio. E la ricompensa, giusta per lui e per noi, è farci conoscere lui
come Padre di amore e noi come suoi figli amati.
Che vantaggio c’è allora per chi ha lavorato fin dal mattino? Chi si chiede
questo, fa una grave offesa a Dio. “Duri sono i vostri discorsi contro di me”,
dice il Signore: “Che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi
comandamenti, ecc.?” (Ml 3,13s). Il vantaggio dei primi è quello di aver amato
il Signore, di essere sempre stati con lui (cf. Lc 15,31; Sal 73,23). Se non
capiscono questo, amano ciò che il Signore dà più del Signore stesso. Si sono
serviti di lui per raggiungere qualcosa che interessa più di lui. Lo amano non
per amore di lui che è l’amore, ma per amore della propria ricompensa.
Il privilegio degli ultimi fa capire chi è lui e chi siamo noi: lui è amore per
tutti, e noi tutti siamo da lui gratuitamente amati. Le prostitute e i peccatori,
che ci precedono nel regno (21,31), mostrano che siamo salvati dall’amore del
Padre per noi. Questo non è da comperare o da meritare (= meretricio), ma da
accogliere e vivere con gioia. Chi ne fa oggetto di guadagno e di pretesa, lo
552
tramuta in ricchezza che allontana dal Signore. Per entrare nella vita gli
manca, come al giovane ricco, una sola cosa: lasciare ciò che possiede
(19,20s). Altrimenti il suo bene sono i suoi beni, anche spirituali, e non più il
Signore. Come il fratello maggiore, non entra nel banchetto, perché vuol stare
con i suoi meriti, non con il Padre (Lc 15,28ss). Come Giona, rifiuta il Signore
stesso, che riconosce come amore gratuito (Gn 4,1ss).
v. 10: i primi pensarono che avrebbero ricevuto di più. Il Signore chiama
prima gli ultimi, per sorprendere i primi. Questi ragionano in termini di merito.
Se gli ultimi hanno ricevuto per grazia oltre ogni merito, essi vogliono ricevere
più di loro, ma per merito e non per grazia. Riducono a merito anche la grazia!
Vanno direttamente contro Dio: pretendono di comperare il suo amore. Il
nostro stesso lavoro - l’amare Dio e il prossimo - è già dono di grazia: è premio
a se stesso, “merito secondo le opere”.
ricevettero un danaro anche loro. Il Signore è giusto: dà secondo la
promessa. E questo danaro è lui stesso, che dirà: “Entra nella gioia del tuo
Signore” (25,21. 23). Lui non può però accettare che il dono sia rapina, la
grazia merito, l’amore interesse.
v. 11: brontolavano. È il brontolio dei farisei e degli scribi contro Gesù che
accoglie i peccatori e mangia con loro (Lc 15,1s), è il rancore di Giona contro il
Signore che salva quelli di Ninive (Gn 4,1ss), è l’ira del fratello maggiore contro
il Padre che fa festa per il minore (Lc 15,28), è la stizza di Marta contro Gesù
che non la privilegia rispetto a Maria (Lc 10,40). Ma né Marta accoglie lo sposo,
né il figlio maggiore il Padre, né Giona Dio, né i giusti il Figlio. Il fatto che il
Signore sia buono con gli ultimi, fa incattivire contro di lui i primi.
v. 12: questi ultimi fecero un’ora sola e li facesti pari a noi, ecc. È il
malumore dei giusti contro il Signore che è amore e grazia! Non accettano che
Dio sia Dio! Lo vorrebbero a loro immagine e somiglianza, piedistallo del loro
orgoglio.
v. 13: amico, non ti faccio ingiustizia, ecc. Infatti gli dà ciò che gli spetta.
Non gli fa torto se dà lo stesso anche agli altri. Anzi, dovrebbe gioire al vedere
quanto lui è buono con i suoi fratelli.
v. 14: prendi il tuo e vattene. Se uno vuole come ricompensa non il
Signore, ma la propria giustizia, è perduto, fuori dalla grazia. Vuole il salario
553
della propria fatica, non il pane della sua grazia. Solo se si libera da questa
ricchezza, facendosi fratello degli ultimi, ai quali riconosce la sua stessa dignità
di figlio, solo allora può gustare la ricompensa del Figlio.
voglio dare a questo ultimo, come a te. Ciò che tu pretendi come diritto,
sono io stesso, che per amore mi voglio dare a tutti.
v. 15: non mi è lecito fare ciò che voglio delle mie cose? Il Signore vuol far
parte dei suoi beni ai poveri - anzi dà loro il suo regno (5,3). Così mostra il suo
amore. Chiama il giovane ricco a fare altrettanto. Anche gli apostoli devono
considerare la loro ricompensa non come un bottino conquistato dai loro
meriti, ma come un dono da condividere senza invidia con tutti, cominciando
dagli ultimi. Diversamente rifiutano il Padre e il proprio essere figli suoi.
o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono? L’occhio è la finestra del
cuore, da cui procede il sentire e l’agire. Il nostro cuore è cattivo se non
accetta l’amore gratuito di Dio verso tutti, in particolare verso gli ultimi. Ogni
dono del Padre non è dato per distinguersi dai fratelli, ma per servirli e farli
partecipi di esso. Questa parabola fa uscire dal nostro cuore il “segreto
rancore” che il giusto cova contro Dio e gli uomini.
v. 16: così gli ultimi saranno i primi. Gli ultimi sono i primi a capire e
accettare la “ricompensa” del regno: i poveri accolgono il dono, i bambini
accettano di essere figli.
i primi ultimi. Anche i primi, diventati ultimi, parteciperanno della sorte di
questi che sono i primi. Tutti saremo salvati per grazia!
3. Pregare il testo
Da notare:
554
• uscì all’alba
• operai per la vigna
• il compenso pattuito: un danaro
• uscì alla terza, alla sesta e alla nona ora
• il compenso pattuito: ciò che sarà giusto
• uscì all’undicesima ora
• perché siete qui inoperosi?
• nessun compenso pattuito
• venuta la sera, c’è la paga, cominciando dagli ultimi
• gli ultimi ricevono lo stesso compenso pattuito con i primi
• la reazione dei primi
• il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?
4. Testi utili
555
82. SALIAMO A GERUSALEMME
20, 17-28
556
spadroneggiano su di loro
e che i grandi li opprimono.
26 Non così è tra voi;
ma chi vuol diventare grande tra voi,
sarà vostro servo;
27 e chi vorrà essere primo tra voi,
sarà vostro schiavo;
28 come il Figlio dell’uomo non venne
per essere servito,
ma per servire
e dare la sua vita
in riscatto per tutti.
557
Il racconto è un dialogo di equivoci tra Gesù e i discepoli che, come tutti,
sono ciechi proprio davanti alla “Gloria”. Ciò che la madre dei figli di Zebedeo
vuole da Gesù è la vana-gloria, che pure gli altri dieci desiderano.
Tutti dovranno capire di essere ciechi e invocare con i ciechi di Gerico che
si aprano i loro occhi (v. 33), per vedere la gloria di Dio. Solo così verranno alla
luce del Volto, ritrovando la salvezza del proprio volto. Saranno illuminati:
nasceranno come uomini liberi, figli del Padre e fratelli degli altri.
Siamo al passo decisivo per l’illuminazione: riconoscere la propria cecità è
la condizione per invocare la luce. Gesù è venuto per compiere un giudizio, in
modo che coloro che non vedono vedano, e chi crede di vedere sappia di
essere cieco. Il nostro male non è tanto essere ciechi, quanto credere di vedere
(Gv 9,39ss).
Il racconto è un dialogo serrato, che si articola in tre parti: la vera gloria
del Figlio dell’uomo (vv. 17-19), la cecità dei discepoli che la scambiano con la
gloria degli uomini (vv. 20-24) e il confronto tra le due glorie (vv. 25-28).
Questo brano ci prepara al successivo, con il quale fa tutt’uno: l’illuminazione dei ciechi di
Gerico sarà la caduta della vana-gloria, il muro che ci impedisce di ricevere la Gloria. È la
conversione radicale, che ci introduce nella terra promessa della nostra identità: ci fa uscire dalle
tenebre e venire alla luce come figli di Dio, sua immagine e somiglianza. Senza questa conversione
non siamo ancora nati come uomini: restiamo nel sonno delirante della morte.
La rivelazione del Figlio dell’uomo che sale a Gerusalemme è luce che
squarcia violentemente le nostre tenebre. Dopo la prima predizione della
passione/risurrezione ci fu la reazione “satanica” di Pietro e la controreazione
di Gesù (16,22-23). Dopo la seconda i discepoli reagirono con incomprensione
e tristezza (17,22-23; in Mc 9,31-34, addirittura litigando su chi fosse il più
grande); dopo questa terza lo scontro si fa generale e dichiarato. Siamo ormai
prossimi a Gerusalemme, dove la “Gloria” si rivelerà dall’alto della croce.
Gesù è il Figlio dell’uomo che svela a ogni uomo la propria verità: il volto
del Figlio uguale al Padre, la cui gloria è amare, servire e dare la vita.
La Chiesa di nient’altro si vanta, se non della croce (Gal 6,14): ha capito la
“Gloria”, anche se sempre è insidiata dalla vana-gloria.
558
v. 17: E salendo Gesù a Gerusalemme, ecc. Gesù si trova vicino a Gerico
(cf. brano seguente), da dove comincia la salita a Gerusalemme. Manca una
giornata di cammino per giungere alla città santa, dove presto si rivelerà la
gloria di Dio. Ora, in privato, ripete ai suoi discepoli, per la terza volta e in
modo più dettagliato, il mistero del Figlio dell’uomo.
v. 18: Il Figlio dell’uomo sarà consegnato. Il Figlio dell’uomo non prende
né possiede alcuno: è dato e consegnato per tutti. Il suo potere è lo stesso di
Dio, che nulla possiede, ma tutto dà, anche se stesso.
ai sommi sacerdoti e agli scribi. Precedentemente ha detto che sarà
consegnato nelle mani degli uomini (17,22). I sommi sacerdoti e gli scribi,
rappresentanti del potere religioso e culturale, sono ciechi davanti alla
“Gloria”, che pur dovrebbero conoscere.
lo condanneranno a morte. Chi dovrebbe riconoscere il Signore della vita,
lo giudica reo di morte!
v.19: lo consegneranno ai pagani. La “Gloria” passa di mano in mano: dai
capi di Israele ai pagani. È per tutti!
perché sia schernito. La sapienza di Dio è derisa come stoltezza dalla
nostra stupidità.
flagellato. La forza di Dio è percossa come debolezza dalla nostra
infermità.
crocifisso. La libertà di Dio è inchiodata come infamia dalla nostra
schiavitù.
e il terzo giorno risusciterà. A ciò che fanno le mani degli uomini segue, in
continuità, ciò che fa Dio. Egli, pur coordinandosi alla nostra azione, si riserva
l’ultima parola, la sua: ne sovverte il risultato a nostro vantaggio. L’uomo è
libero di fare ciò che vuole, anche contro il Figlio dell’uomo; Dio ne assume
l’azione, dandole un compimento insospettato: il dono della vita oltre la morte.
Anche Dio è libero!
v. 20: la madre dei figli di Zebedeo, ecc. La domanda viene dalla madre di
Giacomo e Giovanni. In Marco sono i figli stessi che dicono a Gesù: “Noi
vogliamo che tu ci faccia quello che noi ti chiederemo” (Mc 10,35). È il tenore
normale delle nostre preghiere: vogliamo che Dio faccia ciò che noi gli
559
chiediamo, invece di chiedergli di fare ciò che lui vuole. Se ci ascoltasse, poveri
noi! Grazie a Dio, lui compie le sue promesse di amore, non i nostri desideri di
egoismo.
Questa donna adora e chiede. Anche una preghiera devota e ossequiosa
nella forma può essere perversa nel contenuto. L’involucro della religiosità può
nascondere qualcosa di poco divino e molto umano, addirittura diabolico (cf.
16,23): un tentativo di ridurre Dio a mediatore dei nostri fini egoistici. Questo
capita quando non siamo disposti a mettere in questione le nostre idee e le
nostre attese, soprattutto religiose.
v. 21: che vuoi? Il Signore vuole che esprimiamo i nostri desideri, anche
sbagliati, in modo che possiamo confrontarli con i suoi. Molte volte non
conosciamo o non osiamo rivelare neppure a noi stessi le intenzioni malvagie
che si nascondono anche nelle nostre buone azioni. Il Signore desidera che noi
sappiamo ciò che vogliamo, perché alla fine possiamo volere ciò che lui stesso
vuol darci, e che solo allora ci può dare.
questi miei due figli siedano uno alla tua destra, ecc. È cosa buona
desiderare e chiedere di essere vicini al Signore nel suo regno. Ogni desiderio
contiene un fondo di bontà. L’uomo non può desiderare che il bene, anche se
poi si sbaglia nel valutarlo e nel conseguirlo. Questa donna però ignora, come
tutti, qual è il “suo” regno, che si realizzerà sulla croce. Lì sarà intronizzato; ma
con altri due suoi fratelli, uno a destra e l’altro a sinistra (27,38).
v. 22: non sapete ciò che chiedete. Sia la donna che gli altri ignorano che
il suo regno è quello del Figlio perfetto come il Padre, che ama e serve i fratelli,
e sa dare loro la vita.
potete bere il calice che io sto per bere? È il calice della passione, che
Gesù stesso sarà tentato di non bere. Nel momento decisivo chiederà al Padre:
“Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (26,39). Gesù è il primo uomo che
chiede a Dio di non fare ciò che la sua volontà umana desidera, ma ciò che la
volontà del Padre nel suo amore desidera per lui. Per questo restituisce
all’uomo il suo volto di figlio.
possiamo. I due apostoli desiderano stare con il Signore e regnare nella
sua gloria. Gesù esaudirà la parte positiva della loro richiesta.
560
v. 23: il mio calice lo berrete. Anche se non sanno ancora che calice sia, lo
berranno, ricevendo il suo stesso battesimo (cf. Mc 10,39). È consolante la
promessa di Gesù: accetta il loro desiderio di essere con lui e come lui, anche
se ignorano cosa significa. Di fatto Giacomo sederà alla sua destra: sarà il
primo tra gli apostoli a bere il calice di Gesù, martirizzato nell’anno 42 (At
12,2)! Giovanni, a sua volta, sederà alla sua sinistra: secondo la tradizione,
sarà l’ultimo a testimoniare il suo Signore.
sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo, ecc.
Essere associato alla gloria del Figlio è dono del Padre, preparato fin dalla
fondazione del mondo (25,34) per tutti gli uomini, creati appunto nel Figlio per
essere figli.
Non è che Gesù sia inferiore al Padre. Dice infatti: “Io e il Padre, siamo
uno” (Gv 10,30), e ancora: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Lui è
l’unigenito del Padre (Gv 1,14), il Figlio al quale il Padre dà tutto (11,27). Ma
l’essere figlio è e resta sempre dono del Padre.
v. 24: i dieci si sdegnarono. Quando si litiga, è perché si desidera la stessa
cosa. Anche gli altri dieci apostoli intendono la gloria in modo umano. Sono
mossi da rivalità contro i due, perché vogliono la stessa cosa. In Luca
litigheranno sul primo posto proprio nell’ultima cena, mentre lui, come Figlio, si
mette nelle loro mani, poco raccomandabili, di fratelli (Lc 22,24-27).
v. 25: chiamatili innanzi. È l’ultima chiamata del discepolo: conoscere la
gloria del suo Signore, così diversa da quella che l’uomo suppone. Amare il
mondo è odiare Dio (Gc 4,4) perché “il mondo”, per inganno, pensa di
realizzarsi facendo ciò che lo distrugge. “La gloria di Dio è l’uomo vivente”, non
quello che si perde dietro il proprio egoismo. “Vedere Dio è la vita dell’uomo”,
perché, vedendo lui, riceve la realtà di cui è immagine.
sapete che i capi dei pagani. Anche i discepoli conoscono e vogliono la
stessa gloria dei capi delle nazioni. In Israele non dovrebbe essere così, anche
se fin dall’inizio ha voluto essere come tutti i pagani: avere un re che
tiranneggi e schiavizzi (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,8-15).
i capi spadroneggiano, i grandi opprimono. Il potere dei potenti non è
servizio e liberazione, ma dominio e schiavitù. Il loro modello di gloria, che tutti
invidiano, è il contrario di quello di Dio,
561
v. 26: non così è tra voi. È il monito costante del Signore, rivolto a quanti
salgono con lui a Gerusalemme. Il vero potere, che sviluppa le possibilità
dell’uomo e lo rende simile a Dio, è l’amore, che serve tutti e non opprime
nessuno. È importante che l’autorità nella Chiesa non sia esercitata secondo i
criteri, evangelicamente stupidi, della vanagloria.
chi vuol diventare grande tra voi, sarà vostro servo. La vera grandezza è
quella di Dio, la cui gloria è servire (cf. Gv 13,1ss). Asservire gli altri è proprio
dell’uomo fallito. È giusto essere grandi, anzi perfetti, come colui del quale
siamo figli (5,48)! Servire, nel NT, esprime la concretezza dell’amore.
v. 27: chi vorrà essere primo tra voi, sarà vostro schiavo. Non solo
dobbiamo essere grandi, ma anche primi. Il primo è colui che si è fatto ultimo
per amore. Servo è uno il cui lavoro appartiene all’altro; schiavo è uno che
appartiene lui stesso all’altro. La perfezione dell’amore consiste nell’“essere
dell’altro”, come Dio.
È il capovolgimento della vana-gloria dell’uomo, che destina tutto al vuoto
del nulla. La gloria non è servirsi dell’altro, ma servirlo; non è possederlo, ma
appartenere a lui per amore. La libertà è essere nell’amore “schiavi” gli uni
degli (Gal 5,13).
v. 28: come il Figlio dell’uomo non venne per essere servito, ma per
servire. Il Figlio dell’uomo, il Signore stesso, sta in mezzo a noi come colui che
serve (Lc 22,27; cf. Gv 13,1-17): è la più bella definizione del Signore.
dare la vita. Chi ama dà la vita: fa vivere l’altro, realizzando così
pienamente se stesso a immagine di Dio, datore di vita.
in riscatto per tutti. Dal dono del Figlio dell’uomo viene il riscatto di ogni
figlio d’uomo, che torna ad essere figlio di Dio.
3. Pregare il testo
562
Da notare:
• saliamo a Gerusalemme
• cosa capita al Figlio dell’uomo
• cosa chiede la madre di Giacomo e Giovanni
• non sapete ciò che chiedete
• il mio calice lo berrete
• gli altri si sdegnarono
• i capi dei pagani spadroneggiano e i grandi opprimono
• non così tra voi
• il grande sia servo
• il primo schiavo
• il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la vita.
4. Testi utili
Sal 21; 32; Is 55; Gdc 9,8-15; 1Sam 8,10-22; Lc 22,24-27; Gv 13,1-17; Fil 2,5-
11.
563
83. COSA VOLETE
CHE IO FACCIA PER VOI ?
20,29-34
564
“Cosa volete che io faccia per voi?”, chiede Gesù ai due ciechi. Questi, a
differenza di Giacomo e Giovanni, sanno di essere ciechi e sanno cosa
chiedere: che si aprano i loro occhi.
Il vangelo è un’educazione dei desideri, perché arriviamo a chiedere ciò
che lui ci vuole dare: vedere lui e seguirlo nel suo cammino.
È l’ultimo dei miracoli di Gesù, al quale seguirà il contro-miracolo del fico sterile. Chi non
apre gli occhi sulla gloria del Signore, non viene alla luce: non è ancora nato alla propria identità,
perché non vede il Volto, di cui è immagine e somiglianza. A lui avverrà come al fico: aprirà gli
occhi sulla propria nudità (cf. 21,18ss).
Gesù è la luce non solo di Israele, ma anche del mondo: illumina ogni
uomo (Gv 8,12; 1,4.9). Alla sua luce vediamo la luce (Sal 36,10); anzi ci
accendiamo e diventiamo noi stessi luce (5,14).
L’illuminazione, punto di arrivo del vangelo, è vedere nel Figlio dell’uomo
che sale a Gerusalemme la gloria del Figlio di Davide che, come la luna, giunge
al suo pieno splendore; ma, ancor di più, vedere in lui il Signore stesso, il sole
che la illumina.
Questo miracolo è il capolavoro di Gesù. La vista e la sequela costituiscono
il dono della fede. Qui se ne tracciano le tappe: ascoltare Gesù che passa,
gridare il Nome, invocare la luce, vedere il Signore e seguirlo fino a
Gerusalemme. La fede coinvolge tutte le facoltà dell’uomo: è orecchio che
ascolta, cuore che grida, bocca che invoca, occhio che vede e piede che segue
il Signore.
Il brano precedente evidenziava la cecità dell’uomo davanti al volto del
Figlio dell’uomo, gloria di Dio e vita di ogni uomo. È una cecità invincibile,
come le mura di Gerico. Nessuna forza umana è in grado di abbatterle. Anzi,
tende a ricostruirle. Infatti, nonostante le parole di Giosuè: “Maledetto chi
ricostruirà Gerico” (Gs 6,26), risulta che questa antichissima città fu riedificata
sei volte. Solo il grido è capace di far crollare le mura delle tenebre e farci
venire alla luce di Dio.
Dopo questo miracolo possiamo entrare a Gerusalemme con il figlio di
Davide intronizzato sull’asinello e vedere il Volto che si rivela - riconosciuto
addirittura dai pagani (27,54).
Gesù è la luce del mondo.
565
La Chiesa è fatta di persone illuminate dalla sua luce, perché ne ascoltano
la parola, vedono la propria cecità, gridano a lui, invocano la sua misericordia,
aprono gli occhi sul suo volto e lo seguono nel suo cammino.
566
ciechi. Cieco è chi non ha aperto gli occhi. Tutto è per lui senza luce e
senza senso, imprevedibile ostacolo e inciampo. Il non-vedente spesso è un
“veggente”, perché, non distratto da ciò che appare, coglie la realtà, che è
invisibile agli occhi. Normalmente uno non vede che la proiezione delle proprie
paure che si fanno desideri (distruttivi!).
La vera cecità è quella di chi non vede la “Gloria”, il Volto, e non è ancora
venuto alla luce della propria verità. Solo chi “vede” l’amore infinito di Dio per
lui, nasce alla propria identità di figlio e vede finalmente la realtà com’è, non
come la teme o la suppone.
La luce per vedere la nostra verità è Gesù, il Figlio dell’uomo consegnato
nelle mani degli uomini. Il suo amore umile che si fa servizio e dono della vita,
è il Volto, luce del nostro volto. Il bimbo viene alla luce quando vede il volto
della madre; l’uomo viene alla luce del proprio volto di figlio quando vede il
volto di Dio. Allora è illuminato: “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti, e
Cristo ti illuminerà”(Ef 5,14).
ciechi, seduti, fuori dal cammino. Sono le qualità del discepolo. Anche se
crede di essere ricco, è in realtà infelice, miserabile, povero, cieco e nudo - non
cammina dietro al suo Signore e ignora la sua via che porta a Gerusalemme.
Deve comperare da lui oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti
bianche per coprirsi e nascondere la sua nudità, collirio per ungersi gli occhi e
recuperare la vista (Ap 3,17s).
Il discepolo, da presunto ricco, si scopre mendicante, invitato a chiedere
ciò di cui ha bisogno. Principio della fede è il desiderio di luce, proprio di chi si
conosce cieco.
gridarono. (cf. Es 2,23). Non è un suono inarticolato quello dei due ciechi.
La loro invocazione ha la forza del grido e la sapienza della parola che esprime
ciò di cui hanno bisogno.
abbi pietà di noi. Invocano pietà per la loro condizione di ciechi, seduti e
fuori strada. La miseria chiama misericordia, la tenebra luce, la morte vita. Il
nostro grido ha sempre un orecchio attento che lo ascolta.
Signore. Gesù che passa è riconosciuto come l’eterno che sta, il Signore,
ricco di misericordia, padre della luce, datore di vita.
567
figlio di Davide. È il Messia (1,1; 9,27). Il grido, che si leva incessante nella
notte, squarcia le tenebre della nostra cecità, aprendoci l’ingresso alla terra
promessa.
v. 31: la folla li minacciò perché tacessero. La folla non si associa
all’invocazione. Cerca anzi di spegnerla. Sono ciechi che credono di vedere,
come i discepoli. I due, invece sanno di non vedere. Per questo gridano alla
luce. Il verbo “minacciare” è lo stesso che esprime l’atteggiamento di Gesù
contro i demoni. La tenebra si difende dalla luce: è la sua fine!
ancor più gridarono. Nella notte il grido si alza ripetuto e instancabile,
nonostante le varie voci che vogliono zittirlo. L’ostilità ne accresce l’intensità.
Una forma antica di preghiera - la preghiera del nome di Gesù - è modulata su
questa richiesta. Si ripete l’invocazione non per stancare Dio che sempre ci
ascolta, ma per abbattere il muro del nostro oblio: ogni invocazione è un colpo
d’ariete che ne abbatte una pietra.
v. 32: fermatosi. Davanti alla miseria si arresta la misericordia, pronta ad
intervenire. La luce non attende che una breccia per entrare con i suoi raggi
nella tenebra. I due ciechi hanno udito di lui, il Signore e figlio di Davide: lo
invocano e gli chiedono di vederlo con i loro occhi.
Gesù chiamò. Al grido di invocazione risponde la voce del Signore, potente
sopra tutte le voci contrarie. Il rumore della folla non impedisce che il grido
dell’uomo e la voce di Dio si incontrino.
cosa volete che io faccia per voi? (cf. v. 21) Al Signore devo chiedere ciò
che voglio che lui mi faccia. Ma prima bisogna che io sappia ciò che è bene
volere. Giacomo e Giovanni non lo sapevano (v. 22). Ciò che voglio è quanto lui
stesso mi vuol dare: la luce del suo volto. Giacomo e Giovanni, senza saperlo,
gli chiedevano esattamente il contrario: la vana-gloria.
v. 33: Signore, che si aprano i nostri occhi. I due sanno di essere ciechi,
seduti e fuori strada. Per questo sanno finalmente cosa chiedere: che si aprano
i loro occhi, per poterlo seguire nel suo cammino di Figlio dell’uomo che va a
Gerusalemme.
v. 34: commosso. Gesù è commosso non solo per la loro cecità, comune a
tutti, ma anche perché, per la prima volta, qualcuno gli chiede ciò che lui
desidera donare.
568
toccò i loro occhi. La guarigione avviene per contatto. È la comunione con
lui che guarisce.
subito guardarono in alto. I due levano gli occhi verso il Figlio dell’uomo:
con meraviglia vedono per la prima volta il suo viso e in esso il proprio. E per la
prima, come Dio, vedono che è bello, “molto bello” (Gen 1,31). Escono dalla
tenebra alla luce, nascono alla propria sorprendente verità. Riflettendo a viso
scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore, sono trasformati in quella
medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del
Signore - che è libero e datore di libertà (cf. 2Cor 3,18. 17).
Ora sono “illuminati”; vedono ciò che occhio umano mai non vide, né mai entrò in cuore di
uomo: il dono di sé che Dio aveva predestinato prima dei secoli per la nostra gloria (1Cor 2,9.7). I
loro occhi sono nuovi: hanno lo stupore mattinale del primo giorno della creazione, quando tutte le
cose fluiscono dalla mano e dal cuore di Dio. Hanno una visione diversa di sé e del mondo; ogni
cosa e ogni avvenimento, tutto ha un’unica fonte ed è un’unica acqua di vita: l’eterna misericordia di
Dio che è tutto in tutte le cose (cf. 1Cor 15,28).
L’occhio nuovo dà il cuore nuovo, e fa l’uomo nuovo - che conosce se
stesso: sa da dove viene e dove va. Non solo sa perché vive, ma “per chi” vive:
per colui che è tutto per lui in ogni cosa.
L’uomo non è più nella notte e della notte, ma è del giorno, figlio della
luce (1Ts 5,4ss).
e lo seguirono. Su quelli che sedevano nelle tenebre e nell’ombra di
morte, una luce si è levata (4,16; Is 9,1). Ora si alzano e camminano verso
Gerusalemme, dove vedranno la Gloria.
3. Pregare il testo
569
Da notare:
• Gerico
• due ciechi
• seduti
• fuori dal cammino
• odono che Gesù passa
• gridano
• Signore, figlio di Davide, abbi pietà di noi
• la folla che zittisce e i ciechi che insistono
• Gesù si ferma e li chiama
• cosa vuoi che io faccia per te?
• Signore, che si aprano i miei occhi!
• commosso
• toccò gli occhi
• subito guardarono in alto
• lo seguirono.
3. Testi utili
Sal 146; Gs 6,1ss; Gv 9,1ss; Ap 3,14-22; 2Cor 3,17s; Ef 5,14; 1Ts 5,1-11.
84. IL SIGNORE NE HA BISOGNO
ECCO IL TUO RE VIENE A TE
21,1-17
570
Andate nel villaggio
che sta di fronte a voi
e subito troverete
un’asina legata
e un puledro con essa;
slegate
e conducete da me.
3 E se qualcuno vi dice qualcosa,
rispondete:
Il Signore ne ha bisogno;
ma subito li invierà.
4 Ora questo avvenne
perché si compisse ciò che fu detto
dal profeta che dice:
5 Dite alla figlia di Sion:
Ecco il tuo re
viene a te,
mite e seduto su un’asina
e su un puledro, figlio di chi sta sotto il giogo.
6 Ora i discepoli, essendo andati ed avendo fatto
quanto ordinò loro Gesù,
7 condussero l’asina e il puledro,
e gettarono su di essi i mantelli,
e vi si sedette sopra.
8 Ora le folle numerosissime
stesero i loro mantelli sul cammino,
altri tagliavano rami dagli alberi
e li stendevano sul cammino.
9 Ora le folle che lo precedevano e che seguivano
gridavano dicendo:
Osanna al Figlio di Davide!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Osanna negli altissimi!
10 Ed entrato lui in Gerusalemme,
si scosse tutta la città dicendo:
571
Chi è costui?
11 Ora le folle dicevano:
Costui è il profeta Gesù
da Nazareth di Galilea!
12 Ed entrò Gesù nel tempio
e scacciò tutti quelli che vendevano e compravano nel tempio
e rovesciò le tavole dei cambiavalute
e le sedie dei venditori di colombe,
13 e dice loro:
È scritto:
la mia casa sarà chiamata
casa di preghiera,
ma voi ne fate una spelonca di ladri.
14 E si avvicinarono a lui ciechi e storpi nel tempio,
e li curò.
15 Vedendo i sommi sacerdoti e gli scribi le meraviglie che fece
e i fanciulli che gridavano nel tempio e dicevano:
Osanna al Figlio di Davide!
si adirarono.
16 E gli dissero:
Senti cosa dicono questi?
E Gesù dice loro:
Sì. Non avete mai letto:
Dalla bocca di infanti e lattanti
ti procurasti lode?
17 E, lasciatili, uscì dalla città verso Betania
e pernottò lì all’aperto.
572
L’ultima domanda dei discepoli al Maestro, immediatamente prima del suo ritorno al
Padre, suona: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno d’Israele?” (At 1,6). Da sempre
il credente si chiede: “Quando viene il regno di Dio?”, e invoca: “Maranà tha: vieni, o Signore!”
(1Cor 16,22). È l’invocazione dello Spirito che, con la sposa, grida: “Vieni!” (Ap 22,17).
Questo brano risponde alla domanda; ma sposta il problema dal
“quando” al “come”, dal tempo al modo in cui il Signore viene. Il tempo infatti
è sempre “ora”, a condizione che lo si accolga così come lui è venuto allora e
viene ogni ora, fino all’ultima: in umiltà e mitezza.
Il regno eterno di Dio è vivere con lo stesso Spirito del Figlio, che ha
promesso di essere con noi fino al compimento del tempo (28,20). Di questo
nuovo modo di vivere noi siamo testimoni davanti al mondo intero: la sorte del
Figlio è affidata ai fratelli (At 1,8). Il corpo del Signore è ormai, per sempre,
consegnato nelle mani degli uomini.
Protagonista del brano non è, come al solito, Gesù, bensì un’asina con il
suo puledro. Sono “legati”, e Gesù “invia” i discepoli a “slegarli” perché “il
Signore ne ha bisogno”.
L’asina è simbolo di Cristo e del suo messianismo. Lui non è come il re,
che detiene il potere e va a cavallo; neppure è come chi aspira ad esso ed usa
il carro da guerra. Viene su un’asina, umile animale da servizio. Ma proprio
così fa scomparire carri e cavalli, potenti e prepotenti (Zc 9,9s)! Lui è venuto
per servire e dare la vita (20,28), ponendo fine al dominio di chi schiavizza e
dà la morte. Questa è la “sua” gloria, vittoriosa su ogni altra, che davanti a lui
si rivela come vana-gloria. In lui si arresta il sistema di violenza sul quale si
basano i rapporti umani. Da Caino in poi la città nasconde, sotto le mura, il
cadavere del fratello più debole. Il Figlio dell’uomo, che offre la sua fraternità
indifesa, fa la stessa fine. In questo modo viene alla luce il mistero nascosto fin
dalla fondazione del mondo (13,35): la malvagità e prepotenza dell’uomo che
costruisce Babele, incontra l’umiltà e la mitezza di Dio che fonda una città
fatta di figli e di fratelli - il mondo nuovo, che fin da principio il Padre aveva
creato nel Figlio. Il mysterium iniquitatis si trova faccia a faccia con il
mysterium amoris, e la sua ultima vittoria ne è la sua sconfitta definitiva.
Il brano descrive il viaggio di Gesù da Betfage a Gerusalemme, fin dentro il
tempio: il Signore prende possesso della città santa e del tempio, come dice
573
l’ultima pagina dell’AT (Ml 3,1ss). Viene per il “suo” giudizio, che si compirà sul
Golgota. Malachia si chiede: “Chi resisterà al suo apparire?” (Ml 3,2).
Il “tremendo”, attribuito a Dio da ogni religione e ateismo, è distrutto
definitivamente dalla rivelazione del Figlio dell’uomo mite ed umile di cuore
(11,29). Con Gesù è per sempre distrutta la falsa immagine di uomo e di Dio
che tutti abbiamo. Il vero re non ha nulla di arrogante e violento, non domina
né opprime nessuno: libera e serve tutti con amore.
La scena dell’asina è narrata due volte, prima come predizione e poi
come evento (cf. anche 26,17–19). Si sottolinea così l’importanza dell’episodio:
quanto Gesù ha fatto è profezia di quanto il discepolo sarà chiamato a fare,
perché anche per lui possa venire “colui che viene nel nome del Signore”. La
missione costante dei discepoli è quella di “slegare” l’asina, liberando in
ognuno la capacità di amare.
Il Messia fu ed è rifiutato per la sua scelta di essere servo. Il nostro rifiuto
non ha però vanificato il suo piano; l’ha anzi rivelato e realizzato al grado
estremo: egli ha posto a nostro servizio, oltre la sua vita, la sua stessa morte,
facendo anche di essa un atto d’amore.
Il brano, che ha come sottofondo di contrappunto Ml 3,1ss, è molto
articolato: la missione dei due a liberare l’asina con la citazione di Zc 9,9 sulla
venuta del Signore (vv. 1-5); l’ingresso trionfale in Gerusalemme con la
citazione del Sal 118 sulla fine dell’esodo e l’ingresso nella terra promessa (vv.
6-11); infine l’entrata del Signore nel suo tempio con altre due citazioni (vv.
12-17), la prima sulla sua restituzione a luogo di comunione con Dio (Is 56,7) e
la seconda sui piccoli che riconoscono la grandezza di Dio (Sal 8,3).
Il racconto è posto subito dopo la guarigione del cieco: l’uomo
finalmente viene alla luce e vede il Volto, salvezza del suo volto e suo Dio (Sal
43,5). Anche lui ora esclama: “È molto bello” (Gen 1,31). Guarito l’occhio (cf.
20,29ss), può vedere la luce, principio della creazione nuova. L’episodio segna
il primo giorno della settimana santa, che ci mostrerà il Signore della gloria.
Gesù è il re promesso, il Messia che viene nel nome del Signore. La sua
umiltà e mitezza purifica noi e Dio stesso: noi dall’arroganza e dalla violenza, e
lui dalla cattiva immagine che ce ne siamo fatti. Muore il mondo vecchio e
574
nasce quello nuovo: termina la schiavitù e inizia la libertà. Al dio fatto a
immagine dell’uomo, succede l’uomo fatto a immagine di Dio.
La Chiesa riconosce Gesù sull’asina come Cristo e Signore, colui che ci
libera dalla falsa immagine di uomo e di Dio, presentandoci colui la cui gloria è
amare e il cui regnare è servire.
575
Questa scena non ha avuto grandi interpretazioni teologiche, nonostante la
sua posizione di rilievo nei vangeli. Forse perché c’è poco da dire: c’è solo da
contemplare con amore, fino a lasciarsi cambiare il cuore.
Matteo qui parla di un’asina e del suo puledro, come è scritto nel testo
che cita (Zc 9,9). C’è chi ha visto nei due, rispettivamente, la sinagoga e i
pagani, Israele e la Chiesa, i due discepoli inviati o i due ciechi del brano
precedente. La reduplicazione è cara a Matteo. Due è il principio del
molteplice: ciò che è accaduto a uno, accade in seguito un altro – chi ascolta il
racconto ripete l’esperienza di cui si parla. Per questo nel v. 7 si dice che Gesù
sembra cavalcare su ambedue!
slegate. La libertà di servire fin dall’inizio fu legata. Da Adamo in poi,
ignari dell’amore di Dio per noi, timorosi di lui e di tutto, siamo incapaci di
amare. La missione di Gesù, che i discepoli sono invitati a continuare, è quella
di liberare la libertà dell’uomo.
v. 3: se qualcuno vi dice qualcosa. Questo qualcuno siamo tutti noi, che
ci chiediamo: a che pro slegare l’asina, a che serve servire? Cambia forse
qualcosa? Tutta qui la libertà che Dio ci propone?
il Signore ne ha bisogno. In tutto il vangelo è l’unica cosa di cui il Signore
abbia bisogno! In questo, e non in altro modo, lui entra nel mondo e fa
dell’uomo il tempio della sua gloria.
ma subito li invierà. Questa cavalcatura, dopo essere servita al Signore,
sarà inviata a noi. Sarà sempre a nostra disposizione: ogni giorno torneremo a
legarla, e saremo chiamati a slegarla!
v. 4: perché si compisse ciò che fu detto. Matteo interpreta la scena
come il compimento di Zc 9,9 (cf. Is 62,11), che parla del Signore che viene a
regnare sul suo popolo.
v. 5: il tuo re viene a te, mite. Il re promesso è diverso da come ognuno
l’attende: viene per servire e dare la vita, non per spadroneggiare e opprimere
(20,24ss). Così porta il giudizio di Dio: non sono i violenti, ma i miti a ereditare
la terra (5,5) e a godere di una grande pace (Sal 37,11). Quelli che prima
soccombevano ai prepotenti e non avevano altra terra che quella che ricopriva
il loro corpo martoriato, ora regnano, liberi come il loro Signore.
576
seduto su un’asina e su un puledro. Il trono del Signore è l’asina: regna
dalla croce, dove porterà ogni nostro peso e offrirà la sua vita a servizio di
tutti. Nessuno mai è salito né vuol salire su questa cavalcatura, tranne lui (Mc
11,2b).
v. 6: i discepoli, essendo andati, ecc. I discepoli vanno ad eseguire
l’ordine di Gesù. Anche in seguito, ovunque andranno, troveranno l’asina
legata, e la slegheranno.
v. 7: condussero l’asina e il puledro. Da sempre il Signore, che è amore
e servizio, ha desiderato che noi fossimo come lui. L’incontro tra lui e l’asina
segna l’inizio del regno di Dio in terra.
gettarono su di essi i mantelli. Il mantello è vestito, giaciglio, coperta e
casa: per il povero è tutto! Per questo non si può trattenerlo in pegno (Dt
24,12). La folla lo getta sull’asina e sull’asinello: investe nel servizio ogni sua
ricchezza.
e vi si sedette sopra. Il Signore è Signore in quanto è servo: sull’asina si
manifesta tale e fa scomparire cavalli e carri (Zc 9,10)! È da notare che Gesù
si siede su tutti e due gli asini, sulla madre e sul figlio. Infatti ovunque c’è
amore, lui regna.
v. 8: le folle numerosissime. È l’anticipo di ciò che sarà alla fine, quando
tutti, dalla croce riconosceremo chi è il Signore.
stesero i loro mantelli sul cammino. La via regale è tappezzata di
mantelli gettati via. Su di essa viene il re, e cammina chiunque si libera dal
mantello.
altri tagliavano rami. Richiama il salmo citato subito dopo: “Ordinate il
corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare” (Sal 118,27). È l’inno della festa
delle capanne.
v. 9: le folle che lo precedevano e che seguivano. Chi tra costoro lo
seguirà sino alla fine (27,55s), e chi invece griderà: “Sia crocifisso!” (27,22s)?
gridavano. Ora tutti gridano, come i due ciechi (20,30s). Le parole sono
dal Sal 118,15, che canta la fine dell’esodo, l’ingresso nella terra e il dono
della legge. Chi accoglie il Messia povero e umile, vede compiuto il cammino di
liberazione e gode del frutto della terra perché vive pienamente la parola del
Signore.
577
osanna! Significa: “salva, prego!”. Originariamente è un grido di
invocazione, che poi diventa di acclamazione.
Figlio di Davide. Le folle lo invocano come i due ciechi (20,23s). È il
Messia promesso, che salva il popolo e regna in eterno.
benedetto colui che viene nel nome del Signore. Il Figlio di Davide è
benedetto e viene a salvarci nel nome del Signore, proprio perché viene così.
Chi viene sui carri e sui cavalli, non viene nel nome del Signore: è maledetto e
non ci salva.
v. 10: si scosse tutta la città. Succede come all’arrivo dei Magi, che
cercano il re dei giudei (2,3). Alla sua morte si scuoterà la stessa terra, e i
sepolcri aperti restituiranno alla vita i loro morti (27,51s).
chi è costui? La domanda sulla identità di Gesù si pone davanti alla sua
umiltà e mitezza. Infatti si rivelerà quando sarà condannato - sarà anzi
condannato perché si rivela (26,60)! -, e sarà riconosciuto solo sulla croce
(27,54).
v. 11: è il profeta Gesù da Nazareth. È il Nazoreo, come la gente chiama
lui, e dopo di lui i suoi discepoli. In lui si compie ogni profezia (cf. 2,23).
v. 12: entrò Gesù nel tempio. Il tempio è il centro della vita: è il luogo
del rapporto con Dio, davanti al quale l’uomo ritrova se stesso. La Gloria
prende possesso della sua abitazione e scaccia chi ne aveva usurpato la
dimora (cf. Ml 3,1ss). Venendo sull’asina, Gesù distrugge il tempio -
l’immagine di Dio che noi abbiamo - per mostrare il vero tempio: il corpo del
Figlio dell’uomo, che dà la vita per ogni figlio d’uomo.
scacciò tutti quelli che vendevano e comperavano. Il tempio è ridotto a
mercato. Dio è diventato mezzo, se non addirittura oggetto, di compravendita,
usato dai furbi per guadagnarci e dai pii per guadagnarlo! La croce è la
Presenza, davanti alla quale crolla ogni idolo (cf. 1Sam 5,1ss): è la distanza
infinita che il Dio della misericordia ha posto tra sé e ogni nostra idea su di lui.
Sulla croce muore il dio oggetto e soggetto di rapina, e nasce sulla terra il vero
Dio, mite e umile.
rovesciò le tavole dei cambiavalute, ecc. Nell’atrio del tempio c’erano i
cambiavalute, perché le offerte e il prezzo per le vittime dovevano essere in
moneta nazionale, non pagana - ottima fonte di guadagno! Con Gesù cessa la
578
religione del sacrificio dell’uomo a Dio e della violenza che esso implica:
misericordia io voglio, e non sacrificio (9,13; 12,7). La misericordia, essenza di
Dio, porterà lui stesso ad essere preda dell’uomo - ultimo e definitivo
sacrificio, che ci svela la mostruosità della nostra violenza.
v. 13: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera (Is 56,7). Il tempio è
ridotto a ricettacolo di chi, da Adamo in poi, vuol rapire la “Gloria”. L’azione di
Gesù, chiamata giustamente “purificazione del tempio”, fu intesa come azione
politica (il tempio è il centro del potere), segno profetico (il nuovo tempio sarà
l’uomo libero di amare), restaurazione del vero culto (non più sacrifici, ma
misericordia), distruzione del tempio (altrove si adora in spirito e verità!). Sono
tutte interpretazioni vere nella misura in cui si tiene presente che Gesù compie
tutto questo sull’asina. La violenza che qui usa, puramente simbolica, allude a
quella che lui subirà sulla croce. Il suo corpo crocifisso sarà il nuovo tempio,
nel quale Dio si offre a ogni uomo. Nell’uccisione dell’innocente che porta su di
sé il peccato del mondo, è distrutto il vecchio tempio con i suoi padroni ed è
creato l’uomo nuovo, tempio dello Spirito, in comunione con il Padre. Il nuovo
culto sarà l’amore del Figlio verso i fratelli, pieno compimento della volontà del
Padre.
ne fate una spelonca di ladri (Ger 7,11). Il tempio è diventato il luogo
dove l’uomo è derubato della sua immagine di Dio, e Dio della sua realtà di
amore.
v. 14: si avvicinarono a lui ciechi e storpi nel tempio. Gli esclusi hanno
accesso al nuovo tempio; nessuno più dice: “Certo il Signore mi escluderà dal
suo popolo” (Is 56,3). In esso Dio si prende cura di ogni debolezza dell’uomo.
v. 15: i sommi sacerdoti e gli scribi, ecc. I potenti e i sapienti si adirano
nel vedere queste meraviglie; i fanciulli invece gridano l’osanna! Ciò che i
grandi ignorano, è donato ai piccoli (cf. 11,25).
v. 16: dalla bocca di infanti e lattanti ti procurasti lode (Sal 8,3). A chi
obietta, Gesù risponde che la grandezza di Dio e dell’uomo, suo figlio, è
proclamata dai più piccoli. Solo questi accolgono l’amore del Padre, e colgono
la grandezza del nome di Dio.
v. 17: lasciatili, uscì dalla città, ecc. Cala la sera su tutto. Calerà presto
anche su Gesù. La Gloria abbandona il tempio e i suoi padroni.
579
3. Pregare il testo
Da notare:
• inviò due discepoli
• troverete un’asina legata
• slegatela e conducetela da me
• ecco il tuo re viene, mite
• gettano i mantelli
• benedetto colui che viene nel nome del Signore
• chi è costui?
• entra nel tempio
• scaccia tutti quelli che comprano e vendono
• casa di preghiera/spelonca di ladri
• l’osanna dei piccoli e l’ira dei grandi
• la lode di Dio viene dalla bocca di infanti e lattanti.
4. Testi utili
Sal 118; 8; Zc 9,9s; Is 56,1ss; Ger 7,1ss; Gv 2,13-22; 13,1-17; Fil 2,5-11; 1Pt
2,4-10.
580
85. NON NASCA MAI PIU’ DA TE
FRUTTO IN ETERNO
21, 18-22
“Non nasca mai più da te frutto in eterno”, dice Gesù al fico, pieno di
foglie ma privo di frutti. Dopo averci istruito con l’asina, ora ci istruisce con
581
una pianta (cf. anche 24,32 - 35!). Asina e fico sono due grandi maestri, come
il Signore e la croce. L’asina ci insegna come è lui e dovremmo essere noi; il
fico; come siamo noi e dovrà essere lui.
Dopo il dono della vista, l’ultimo miracolo è un contro-miracolo, l’unico del vangelo. Chi
non viene alla luce, rimane nella morte; chi non accoglie la benedizione, resta nella maledizione.
La vigna è il popolo di Dio (cf. vv. 33ss); il fico è l’albero che produce quel frutto dolce e gustoso,
di cui il Signore ha fame: l’amore di Dio e del prossimo. Questo si realizza pienamente nel Figlio
dell’uomo che entra in Gerusalemme sull’asina per finire sull’“albero”.
Il fico è la prima pianta a fruttificare: di primavera, in anticipo sulle stesse foglie, dal legno
germina i primi frutti, che tengono il posto dei fiori; e continua a produrne senza interruzione, dalla
primavera all’autunno. Anche d’inverno, chi cerca tra i rami, trova almeno un fico secco. Il detto:
”Non c’è un fico secco” significa che non c’è proprio nulla, al di là di ogni legittima aspettativa.
Marco sottolinea che non era ancora la stagione dei frutti (Mc 11,12ss). Gesù li cerca
ugualmente perché, come il fico ha sempre qualche frutto - e quello secco è ancor più saporito! -,
così è sempre tempo di amare Dio e il prossimo. Il tempo infatti è compiuto (Mc 1,15): ogni istante è
il momento opportuno, senza aspettarne uno migliore.
Questo fico sterile rappresenta l’antico e il nuovo popolo di Dio, come anche ciascuno di
noi - il primogenito è il prototipo degli altri fratelli! La nostra infruttuosità deriva dalla mancanza di
fede: chi non accoglie l’umiltà del Figlio dell’uomo, scopre la propria nudità di uomo.
Ma anche questo contro-miracolo è positivo: a chi crede di vedere e di essere vestito, fa
vedere che è cieco e nudo, perché chieda luce per gli occhi e veste per la sua nudità (cf. Ap 3,17s).
Nel contesto immediato il fico è il tempio. In esso, invece dell’amore, fiorisce il
commercio degli uomini tra loro e con Dio. Tante belle liturgie, ma nessun ascolto di Dio; tanto
frascame, ma nessun frutto! Ognuno di noi, da Adamo in poi, è ricco di foglie, ma povero di
comunione con il Padre e con i fratelli.
Ma perché Gesù se la prende con un albero? Sono forse le piante colpevoli come gli
uomini? (cf. Dt 20,19). Stia tranquillo chi ama la natura: questa pianta maledetta si sentirà per
sempre onorata: porterà frutti dodici mesi all’anno, e le sue foglie serviranno non a nascondere le
vergogne, ma a guarire le nazioni (cf. Ap 22,2). È infatti figura dell’albero della croce, carico di ogni
maledizione e peccato (cf. Gal 3,13; 2Cor 5,21). Da esso penderà colui nel quale la terra darà il suo
frutto (Sal 67,7). Lui, legno sempre verde, avrà la sorte di noi, legno secco (Lc 23,31): bruciato e
consumato dal nostro male, ci darà il fuoco del suo Spirito (27,50).
582
Il brano si divide in due parti: la fame del Signore e la maledizione del fico seccato
all’istante (vv. 18-19), la sorpresa dei discepoli e la catechesi di Gesù sul potere della fede (vv. 20-
22).
La fede serve non a seccare piante, ma a produrre il frutto di vita; non fa spostare
montagne nel mare, ma a seguire il Signore fin sul Golgota, monte della sua gloria. Questa fede si
ottiene “guardando” colui che viene sull’asina e finisce sull’albero.
Al posto di questo racconto, Lc 13,6-9 riporta una parabola sul dialogo tra giustizia e
misericordia: ogni anno che viene è un ulteriore tempo accordatoci dalla pazienza di Dio, il quale
attende la nostra conversione.
Gesù è il Figlio, pieno di fiducia nel Padre e carico di amore per i fratelli.
Lui, albero fruttuoso, porterà su di sé la nostra sterilità e nudità. Sul monte
Calvario si getterà nel mare della morte, per portare la luce del Padre in ogni
perdizione.
La Chiesa, innestata sull’albero della croce, porta il suo stesso frutto (Gv
15,1-17). Quando non accoglie l’umiltà e la mitezza del suo Signore, sta
ancora sotto la maledizione della sterilità.
583
compreso, hanno fame: l’amore per il Padre e per i fratelli. L’uomo è fatto per
questo (cf. 22,37-39). Nel suo cammino Gesù, come tutti i profeti, viene a
vedere se c’è il frutto desiderato (cf. vv. 34ss).
non vi trovò niente, se non solo foglie. Da Adamo in poi, Dio non ha mai
trovato risposta al suo amore: la sua fame rimase insoddisfatta. Da sempre
l’uomo è valido produttore e vorace consumatore di foglie: vuole nascondere i
propri limiti che più non accetta, celare la propria identità che più non
conosce. La storia delle foglie di fico è la stessa dell’uomo e della sua cultura.
Dio fin dal principio le sostituì con tuniche di pelle, per offrire alla fine le vesti
del Figlio (Gen 3,21; Mt 27,35).
non nasca mai più da te frutto in eterno. La parola profetica di Gesù
svela la maledizione, tremenda ma nascosta, dell’uomo: più si riveste di foglie,
più è morto. Per mancanza di fede, la stessa religiosità si riduce a copertura di
iniquità, come il tempio.
e si seccò all’istante. L’albero resta senza linfa, come la mano dell’uomo
che Gesù aveva guarito di sabato (12,10). Si sottolinea l’istantaneità per
indicare il mistero che tra poco sta per compiersi a Gerusalemme.
v. 20: i discepoli si meravigliarono. Sono meravigliati per il prodigio che
hanno visto; ma non hanno capito cosa significa.
come mai all’istante si è seccato il fico? L’albero serve loro da specchio,
perché vedano nel fico sterile se stessi, ancora vittime della vanagloria e
ciechi davanti al Figlio dell’uomo.
v. 21: se avete fede e non dubitate. Gesù riprende la stessa lezione
sulla fede data dopo la trasfigurazione (17,20). Là ne mostrava l’efficacia: un
granellino di senape basta per spostare i monti. Qui ne mostra la qualità: è
una fiducia alla quale tutto è possibile, perché riposta in colui al quale nulla è
impossibile.
farete ciò che è accaduto al fico. La prima opera della fede è farci vedere
la nostra condizione di poveri, ciechi e nudi, proprio per mancanza di fiducia: ci
fa cadere le foglie come al fico sterile. La seconda è farci vedere la realtà del
Signore: il fico è l’albero stesso della croce, sul quale vediamo la Gloria.
L’albero seccato svela la verità nostra e di Dio: la maledizione del nostro
peccato e la benedizione del suo amore che se ne fa carico.
584
se direte a questo monte, ecc. “Questo monte” è lo stesso della
trasfigurazione (17,20), che deve camminare e cambiare posto, sino a finire
nel mare. La fede infatti fa vedere la Gloria nell’abisso sul Calvario, il monte
dove Dio sprofonda nel gorgo del male per incontrare ogni perduto.
v. 22: quanto chiederete nella preghiera con fede, lo otterrete (cf. 7,7-
11). “Con fede”, senza dubitare, chiediamo davanti all’albero della croce il
dono della fede stessa, per uscire dai nostri dubbi: chiediamo di vedere Dio
rivestito della nostra nudità e noi rivestiti della sua gloria. Questa è l’opera di
Dio: la nostra fede in Gesù (Gv 6,29).
Pregare il testo
Da notare:
• ebbe fame
• il fico è ricco di foglie ma senza frutti
• il fico resta spoglio
• come mai il fico è seccato all’istante?
• se avete fede e non dubitate farete ciò che è accaduto al fico e
sposterete questo monte nel mare!
• quanto chiedete con fede, lo otterrete!
4. Testi utili
Sal 65; 67; Is 1,10-31; Is 53,1-12; Ger 3,1ss; Ger 7,1-15; Mt 7, 7-11;
17,19ss; 18,19s; Rm 11,16-24; Gv 15,1-17.
585
86. IL BATTESIMO DI GIOVANNI DA DOVE VENIVA:
DAL CIELO O DAGLI UOMINI?
21, 23-27
586
“Il battesimo di Giovanni da dove veniva?”, chiede Gesù a chi lo interroga. Per
conoscere il suo potere bisogna prima ascoltare il Battista. Giovanni, come tutti i profeti, annuncia la
conversione (3,2). Riconoscere la malvagità delle proprie azioni, è la condizione per chiedere e
ottenere il perdono. Questo arresta il potere di male, ed è il potere stesso del Figlio dell’uomo - dato
agli uomini (9,6), perché si riconcilino e inizino una vita nuova.
Tutti gli uomini, con o senza legge, sono peccatori, privi della Gloria (cf. Rm 3,23). È
necessario ammettere questo per conoscere il potere di Gesù. Il brano ripete quattro volte la parola
“potere” (exousía, in ebraico shaltan, parola imparentata con “sultano”, che deriva dall’arabo). È un
attributo di Dio in quanto creatore del cielo e della terra. Il “potere” è la possibilità di agire, propria a
ciascuno secondo la sua natura: da ciò che uno fa, si capisce chi è. Il potere di Dio, misterioso come
lui stesso, si rivela nel perdono, dove tutti, dal più piccolo al più grande, conosciamo chi lui è (Ger
31,34). Il suo potere, radicalmente diverso dal nostro, ha come simbolo l’asina, che fa vedere la
nudità di ogni altro potere. Per capirlo è necessario rispondere al Battista. Proprio su questo il
Signore ci interroga: ascoltiamo il suo appello a cambiar direzione al nostro pensare e agire?
Chi pone interrogativi senza lasciarsi interrogare, chi desidera sapere senza cambiar
parere, chi cerca la verità senza rinunciare alle certezze, chi vuole la giustizia senza rinunciare ai
privilegi, non otterrà risposta alla sua sete di conoscenza, di verità e di giustizia. Cercherà solo di
salvar la propria faccia davanti agli uomini e la propria facciata davanti a Dio, senza ammettere che
dietro c’è un vuoto di morte sempre maggiore; resterà “schiavo degli occhi altrui”
(ophthalmodoulía: Ef 6,6; Col 3,22), “idolatra” allo stato puro, vittima del “culto dell’immagine” del
proprio io, invece che adoratore di Dio. Il culto dell’immagine - oggi facilitato dai mass-media - è il
principio di ogni perversità nei rapporti fra gli uomini. Rovina tutto ciò che c’è di buono: il sapere è
in funzione del possedere, il possedere del distruggere, il distruggere dell’apparire…potente! In
questa situazione la verità cede il posto alla prevaricazione, la giustizia alla difesa e all’attacco per
soddisfare i propri, spesso inconfessati, interessi. La persona è ridotta a maschera funebre di se
stessa, a sepolcro, imbiancato o abbronzato! E il Signore tace! L’uomo stesso, suo tempio, è ridotto
a una spelonca di ladri, dove Dio è defraudato della paternità e l’altro della fraternità.
Il messianismo di Gesù sull’asina purifica la nostra idea di uomo e di Dio, restituendo
l’uomo alla sua libertà e Dio alla sua verità. Ma per capire il suo “potere” è necessario convertirci.
Davanti al Figlio dell’uomo che si mette nelle mani di tutti, il nostro tentativo di mettere le mani su
tutto, si rivela come sommo male e somma di ogni male, nostro e altrui.
A quanti rifiutano di convertirsi, Gesù non risponde. Ma non li abbandona: li fa
rispecchiare nella vicenda dei due fratelli (vv. 28-32), dei vignaioli omicidi (vv. 33-46), dell’invitato
587
al banchetto privo di veste nuziale (22,1-14). Saranno racconti che, anche chi non vuol capire,
capirà.
Gesù è la Parola. La capisce chi si stupisce e si converte. Davanti
all’indurimento essa si fa silenzio. È il maestoso e misericordioso silenzio di Dio
che rispetta la nostra libertà, riflesso della sua, e porta su di sé la condanna
della nostra schiavitù.
La Chiesa, quando ascolta la Parola e si converte, sperimenta e
testimonia il potere di perdono e di libertà; quando invece la considera ovvia e
scontata, si indurisce. Allora la Parola tace: il Signore non le dice più nulla, e lei
non dice più nulla al mondo.
v. 23: Entrato lui nel tempio. Il giorno prima era già entrato per
“purificarlo”. Dai capi sarà interrogato proprio su questo gesto.
mentre insegnava. La Parola sta ora al centro del tempio purificato.
i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo. Sono i detentori del potere
religioso, politico ed economico. Il popolo è dominato da essi. Sono suoi
rappresentanti perché rappresentano ciò che ognuno vorrebbe essere!
L’ingresso di Gesù sull’asina li mette radicalmente in questione. Il potere
di Dio è diverso da quello degli uomini: il Pastore, con il suo atteggiamento
mite e umile, esautora i pastori prepotenti e arroganti (cf. Ez 34,1ss). Egli
viene a strappare le pecore dalle loro mani: spezza le spranghe del loro giogo
e le libera da chi le opprime, perché possano conoscere chi è il Signore (Ez
34,27b).
con quale potere. Il potere è attributo di Dio, che tutto può perché tutto
è. Gesù sull’asina ci ha mostrato il suo potere: è santo, totalmente altro dal
nostro.
fai queste cose. La domanda sul potere di “fare queste cose” sta
all’inizio, al centro e alla fine della discussione (vv. 23. 24. 27). “Queste cose”
sono l’ingresso messianico e la purificazione del tempio, di cui si è appena
raccontato. I capi hanno intuito che è finito il loro dominio sul popolo e sul
tempio.
588
chi ti ha dato questo potere? Se il potere di Gesù viene da Dio, il loro è
falso e perverso!
v. 24: anch’io vi chiederò una parola, e, se mi dite, anch’io vi dirò, ecc.:
Gesù risponde alla domanda con un’altra domanda. La sua non è la furbizia di
chi non vuol esporsi! Una risposta può essere data solo a chi vuol intenderla -
diversamente è inutile, comunque falsa perché fraintesa! Una domanda che
non si lascia interrogare non avrà mai risposta. Un vero interrogare è sempre
un farsi interrogare!
C’è un chiedere per carpire e possedere, un altro per capire ed
accogliere. Il primo ha come risultato il prendere e uccidere, il secondo il
concepire e generare.
v. 25: il battesimo di Giovanni da dove veniva? Il battesimo di Giovanni
è il punto d’arrivo della predicazione profetica, che denuncia il male e
annuncia il perdono. Solo così è possibile la “conversione”: conoscendo di
andare, inconsapevolmente o meno, verso la morte, possiamo cambiare
direzione al nostro cammino. Solo la vergogna di ciò di cui stoltamente ci
vantiamo, ci toglie dal male. E il male peggiore è considerare onore ciò che in
realtà è infamia!
dal cielo o dagli uomini? La domanda di Gesù è se Giovanni è vero o
falso profeta, se la sua parola è da Dio oppure no.
ragionavano tra sé. Il loro è un monologo, aborto di dialogo. Cercano una
via d’uscita da ciò che li condurrebbe alla verità. È un ragionare che sragiona:
vuol giustificare dei privilegi. Non vogliono scoprire di avere torto. È quanto
normalmente facciamo quando discutiamo.
se diciamo: dal cielo, ecc. Non possono dire che la parola di Giovanni è
giusta, per non condannare se stessi come ingiusti. Crollerebbe il loro prestigio
religioso: dovrebbero sfrondarsi di tutte le foglie e mostrare la loro sterile
nudità.
Dal loro ragionare si capisce che non sono interessati a cercare la verità,
ma a eluderne le conseguenze.
v. 26: se diciamo: dagli uomini, ecc. Non possono dire che Giovanni è un
falso profeta: perderebbero il favore del popolo, che lo considera un uomo di
Dio.
589
Il dilemma posto da Gesù è senza scampo. Proporre la verità in modo
interrogativo e rispettoso, ma chiaro, è un grande atto di misericordia. È
quanto il Signore fa perché possano scegliere; se non sono liberi di scegliere,
possono almeno rendersene conto e, nonostante le resistenze contrarie,
chiedere con insistenza: “Convertimi, Signore, e sarò convertito!”.
Diversamente restano nel drammatico vicolo cieco che sarà descritto nella
parabola successiva: si oppongono alla verità con una violenza pari
all’evidenza con cui essa si propone.
v. 27: non sappiamo. Non è la risposta di chi ignora, ma di chi non vuol
rispondere per non compromettersi. L’ultimo baluardo della menzogna davanti
alla verità è aggiudicarsi la buona fede dell’ignorante.
C’è una “dotta ignoranza”, propria di chi sa di non sapere e si apre
all’ignoto. C’è una “sapienza stolta”, propria di chi sa, ma finge di non sapere,
perché ciò che sa lo mette in questione. Non riconoscere la verità, che si
conosce, è resistenza allo spirito, a quello di Dio e al proprio – anche se
nessuno può veramente mentire al suo cuore!
neppure io vi dico. La risposta a chi non vuol rispondere è il silenzio di
Dio, rispettoso della maestà sua e della dignità nostra. La sua maestà è
misericordia che non vuol condannare; la nostra dignità è la libertà anche di
rifiutare la verità. Questa situazione però è tremenda: mostra che usiamo la
libertà contro la verità, distruggendo in noi ambedue.
Il silenzio di Dio è il dramma nostro. Ma anche il suo. La croce sarà la sua
unica risposta al nostro silenzio. Infatti Dio è parola, e muore se non trova
ascolto.
Il suo tacere non è una ripicca contro chi mente sapendo di mentire.
Anche davanti alla sua condanna, lui tacerà (26,62s; 27,14). Così fa davanti a
ogni shoà. Ma il suo silenzio è la massima rivelazione sua e interpellazione
nostra. “Rispondimi, e io ti risponderò!”, ci dice lui.
Se lui tace, noi siamo come chi scende nella fossa (Sal 28,1). Il silenzio di
Dio è anche la morte dell’uomo. Perché lui è il nostro interlocutore, e noi la
risposta che a lui diamo. Cercare la parola di Dio e non trovarla, è la più
grande maledizione (cf. Am 8,12), propria di chi soffoca la verità
nell’ingiustizia (Rm 1,18).
590
3. Pregare il testo
Da notare:
• Gesù nel tempio che insegna
• i sommi sacerdoti e gli anziani lo interrogano
• con quale potere fai queste cose?
• vi chiederò anch’io una parola, e, se mi dite, anch’io vi dirò
• il battesimo di Giovanni è da Dio o dagli uomini?
• se è da Dio, perché non ci crediamo?
• non sappiamo!
• neppure io vi dico qual è il mio potere.
4. Testi utili
21, 28-32
591
e, andato dal primo, disse:
Figlio,
va’ oggi
a lavorare nella vigna.
29 Egli, rispondendo, disse:
Non voglio!
Ma poi, pentitosi, andò.
30 Ora, recatosi dal secondo,
gli disse lo stesso.
Egli, rispondendo, disse:
Sì, signore!
Ma non andò.
31 Chi dei due
fece la volontà del padre?
Dicono:
Il primo.
Dice loro Gesù:
Amen, vi dico, che i pubblicani e le prostitute
vi precedono nel regno di Dio.
32 Venne infatti Giovanni da voi
nella via della giustizia,
e non gli credeste;
mentre i pubblicani e le prostitute
gli credettero.
Voi, pur avendo visto, neppure vi pentiste per credergli.
“Voi, pur avendo visto, neppure vi pentiste per credergli”, dice Gesù ai capi del popolo
che gli chiedono qual è il suo potere. Non può rispondere alla loro domanda, perché non sono
disposti a riconoscere il loro errore e tirarne le conseguenze.
Chi non vuol cambiare, non può capire chi gli propone il contrario di quanto lui fa. Gesù non
è un dispettoso che si diverte a capovolgere le nostre idee: le capovolge solo per raddrizzarle: “I miei
pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8).
592
Chi non vuol convertirsi non è però abbandonato a se stesso: il Signore gli parla in
parabole, perché, vedendo di non vedere, si converta e sia guarito (cf. 13,13-16). Gesù si rivela con
chiarezza a chi lo ama, anche se non lo capisce come Pietro; a chi lo capisce, ma non lo ama, parla
prima con il suo silenzio, e poi con parabole. Si tratta di un modo di parlare che insieme tace e dice:
esprime qualcosa di comprensibile, che allude a qualcos’altro che, quando uno vuole, può capire.
Questa parabola svela la situazione dell’ascoltatore che non vuol convertirsi: è come il
fratello che dice sì, ma non fa. Quando è cosciente di questo, può diventare come l’altro, che dice
no, ma poi cambia parere.
La parabola è costruita sul confronto tra due fratelli. Il confronto diventa paradossale,
addirittura scandaloso, nella conclusione, dove si afferma che le persone palesemente ingiuste sono
da preferire a quelle ritenute giuste. Queste infatti non sentono alcun bisogno di conversione.
I sacerdoti e i notabili del popolo sono come il fico, che ha tante foglie e nessun frutto;
sono come il tempio, che è spelonca di ladri e non casa di preghiera. Ma non si convertiranno mai,
fino a quando si credono giusti. I peccatori al contrario, almeno quelli pubblicamente indicati come
tali, hanno un vantaggio. Ovviamente non fanno la volontà di Dio; ma non possono fingersi giusti, se
non altro perché tutti ricordano loro ciò che sono.
“Fare la volontà del Padre” è il centro del vangelo di Matteo: significa riconoscersi figlio e
vivere da fratello. Questo è possibile a chi si converte; ma si converte solo chi sente disagio del
proprio male. Vero cieco è chi crede di vedere (cf. Gv 9,41), vero peccatore chi si crede giusto (cf.
Lc 18, 9-14). E il suo peccato non ottiene perdono perché neppure lo vuole.
La parabola mette in evidenza questo grave peccato, perché non si consumi
nell’inavvertenza di una sorda resistenza allo Spirito. Il racconto successivo mostrerà come esso
agisce nella storia passata e presente.
Nel contesto “far la volontà di Dio” è conoscere e accogliere il giudizio compiuto sui capi
e sul tempio dal Signore che viene sull’asina. La parabola (vv. 28-30), perché sia capita senza
equivoci, è anche spiegata agli interlocutori, direttamente coinvolti (vv. 31-32).
Gesù è venuto per compiere un giudizio: perché chi è cieco veda e chi
crede di vedere veda la propria cecità (cf. Gv 9,39).
La Chiesa, come Israele, si riconosce in coloro che dicono: “Signore, Signore!”,
ma non fanno la volontà del Padre (7,2ss). È la casta meretrix, meretrice che
diventa casta sposa in quanto si riconosce prostituta; diventa “sì” ogni
qualvolta riconosce il proprio “no” e si converte. La stessa lettura che fa della
Parola può essere profetica o apologetica: la prima la dichiara ingiusta e la
593
chiama a conversione, la seconda è un tentativo di autogiustificazione, che
indurisce nella cecità.
594
v. 29: non voglio. In certi manoscritti, che noi seguiamo, è invertito
l’ordine rispetto a quello che usualmente viene presentato. Fin dall’inizio
Adamo ha detto di no al Padre: ingannato dal serpente, fa la volontà di questi,
nell’illusione di agire per il proprio bene (cf. Gen 3,1ss). Uno è figlio di colui del
quale ascolta la parola. L’uomo, che non ascolta Dio, perde la somiglianza con
lui e si ingorga nello svuotamento progressivo della propria umanità, fino a
distruggersi. Il veleno della parola cattiva, cui ha dato ascolto, lo rende
“progenie di vipere” (3,7; 12,34; 23,33), figlio del serpente, menzognero e
omicida fin dal principio (Gv 8,44). La menzogna è sempre omicida: uccide
perché toglie all’uomo la Parola che lo fa tale.
poi, pentitosi. Non si racconta come avviene questo cambiamento. Da
sempre i profeti hanno cercato di far vedere l’orrore di aver abbandonato il
Signore, fonte di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono
l’acqua (cf. Ger 2,13).
andò. Il frutto del pentimento è la “con-versione”: il ritorno a colui dal
quale si è fuggiti.
Il fine di questa parabola, come di ogni parola profetica, è rivelare il
nostro no perché passiamo al sì verso colui che da sempre è tutto e solo “sì”
(cf. 2Cor 1,19s). Il nostro primo “sì” sarà dire innanzitutto: “Sì, è vero, dico no
al sì!”.
v. 30: recatosi dal secondo, disse lo stesso. La proposta del Padre ai figli
è identica: è il comando dell’amore, che li realizza rendendoli simili a lui!
sì, signore. Questo secondo figlio guarda il padre come un padrone al
quale non può dire di no - anche se questo è il suo desiderio, che poi di fatto
segue. La persona religiosa si sente in obbligo di compiacere a Dio: è un
dovere! Ma per dovere nessuno mai saprà amare!
ma non andò. Anche questo figlio, come l’altro, non vuole ascoltare il
Padre. Tuttavia, mentre chi dice no ci ripensa e cambia parere, chi dice sì per
forza, necessariamente non fa. È diviso: dice sì perché non può dire no, ma
non fa perché non può fare diversamente. La paura di mettersi contro il
padre/padrone gli vieta di riconoscere il proprio no. Esprimere apertamente il
proprio rifiuto è già un segno positivo: suppone che il padre rispetti la libertà
del figlio. Dire sì per paura suppone invece che il padre non tolleri la libertà e
595
schiacci chi si ribella. Un vero sì passa sempre attraverso il no. Il no è
importante in ogni relazione. Anche il bambino passa al sì attraverso la fase
ostinata del no: è la condizione necessaria per essere se stessi e riconoscersi
altro dall’altro.
v. 31: chi dei due, ecc. Gesù esplicita la domanda iniziale: “Che ve ne
pare?” (cf. v. 28), chiedendo il parere dei suoi ascoltatori.
dicono: il primo. Gli ascoltatori capiscono e rispondono correttamente.
Ma solo perché, come noi che leggiamo, pensano di identificarsi con un terzo
fratello, che fa come il primo e parla come il secondo. Ma questo fantomatico
fratello non esiste: chi dice sì, non fa; chi dice no, può convertirsi.
amen vi dico, che i pubblicani e le prostitute. È la parola più dura - e più
consolante - che Gesù abbia detto direttamente ai suoi interlocutori, dopo aver
loro fatto ammettere ciò che mai avrebbero ammesso (cf. anche v. 41). Ma
questo è il “trucco” delle parabole: fanno capire, come detto di un altro, ciò
che mai si vorrebbe capire di se stessi.
Noi, che siamo giusti e saggi, ovviamente benpensanti perché
benestanti, davanti a Dio siamo molto più indietro dei furfanti e delle
prostitute. Siamo noi i veri briganti, che derubano i fratelli e impongono loro
balzelli insopportabili (cf. Mt 23,1ss), percependo la “tangente del pio”; siamo
noi le vere prostitute che riducono l’amore di Dio a un rapporto di interesse,
senza accorgerci che è in pura perdita (cf. Ez 16,33s). Pubblicani e prostitute
hanno la patente di peccatori riconosciuti. Noi, fin che non ci identifichiamo
con loro, non abbiamo neanche la dignità di sapere che siamo tali.
vi precedono nel regno di Dio. Noi li seguiamo a nostra volta, quando
accettiamo di essere peggio di loro. Il figlio, che considera il padre come
padrone, è certamente peggiore di quello che si ribella. Questi intuisce che
almeno gli è concessa la libertà, l’altro no!
v. 32: venne infatti Giovanni da voi nella via della giustizia. Giovanni,
come tutti i profeti, chiedeva la conversione (3,1-12).
non gli credeste. Anzi, l’hanno ritenuto un indemoniato (11,18!) Come
osa mettere in questione i giusti?
596
i pubblicani e le prostitute gli credettero. Per questo il Figlio dell’uomo
mangia e beve con loro (11,19): sono suoi fratelli, perché si convertono e
fanno la volontà del Padre (7,21).
voi, pur avendo visto. I capi hanno visto non solo Giovanni, ma anche
l’ingresso di Gesù a Gerusalemme e nel tempio. Lo vedranno tra pochi giorni
in croce, dove sarà legno secco e tempio distrutto - lui, albero della vita e
Figlio di Dio! Il segno definitivo con cui si rivelerà, a conversione di noi tutti,
sarà il prodotto ultimo della nostra violenza cieca.
neppure vi pentiste per credergli. La fede è la grande conversione: è il
passaggio dalla propria presunta giustizia alla giustificazione di Dio. Essa ci fa
vedere - la fede è illuminazione! - sia la realtà del nostro no a Dio che quella
del suo sì a noi. Quando vedremo il segno del Figlio dell’uomo, in cui si compie
il sì di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio, allora ci batteremo il petto (24,30).
Ma la salvezza del giusto sarà solo alla fine, o anche prima?… Sarà
quando riconoscerà in sé il peccato che rimprovera agli altri. Allora, e non
prima, gli sarà possibile convertirsi.
3. Pregare il testo
Da notare:
• che ve ne pare?
• un uomo aveva due figli
• figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna
• non voglio
• poi, pentitosi, andò
597
• sì, Signore
• non andò
• chi dei due fece la volontà del Padre?
• i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno di Dio
• i giusti non capiscono il loro peccato
• i peccatori si convertono.
4. Testi utili
598
88. LA PIETRA CHE I COSTRUTTORI HANNO SCARTATO,
QUESTA È DIVENTATA TESTATA D’ANGOLO
21, 33-46
599
43 Per questo vi dico
che sarà levato loro il regno di Dio
e sarà dato a un popolo (pagano)
che ne faccia i frutti.
44 E chi cade su questa pietra
sarà sfracellato,
e colui sul quale cadrà
sarà stritolato.
45 E i sommi sacerdoti e i farisei,
ascoltando la sua parabola,
capirono che parlava di loro.
46 E, cercando di impadronirsi di lui,
temettero la folla,
perché lo ritenevano un profeta.
600
vista di lui, e tutto in lui sussiste (Col 1,16s). Ma noi, per ignoranza,
strutturiamo tutto sul nostro egoismo, che ci uccide come figli e come fratelli.
Due cose occulte stanno quindi ora all’origine del mondo: il Corpo del
Figlio e il cadavere del fratello. E Dio ne fa una sola: il fratello, al quale
togliamo la vita, è il Figlio che dà la vita per noi. La storia è un libro sigillato
che solo l’Agnello immolato è in grado di aprire e leggere (Ap 5,9). Dio ha
voluto fin dall’inizio un mondo bello, riflesso della sua gloria; ma noi ne
abbiamo fatto un mondo brutto, pieno di violenza, che uccide il fratello. Al
Signore, che rispetta la nostra libertà, non rimane che diventare lui stesso il
fratello su cui si scarica la nostra violenza, per restituirci nel suo amore la
nostra verità di figli. È una soluzione veramente divina: anche chi si oppone a
lui, non fa che eseguire il suo disegno. La storia è una progressiva
manifestazione del mistero di un Dio che vince il nostro male portandolo su di
sé, e fa del nostro sommo misfatto la sua mirabile opera di salvezza per tutti.
Il racconto narra l’intreccio tra la nostra infedeltà e la sua fedeltà. Il suo
venirci incontro e il nostro rifiuto. È una passione infelice, senza sbocco. La
nostra è una provocazione sorda e continua, con una perversità latente che
solo alla fine si esprime. Il brano presenta il braccio di ferro tra il potere
dell’uomo, che è violenza distruttiva e autodistruttiva, e quello di Dio, che è
amore più forte della morte.
Nell’uccisione del Figlio si compie tutto, sia la nostra perversità sia la sua
bontà. Il nostro male esaurisce la sua carica negativa, togliendo la vita
all’autore della vita; e Dio si manifesta tale, donando la sua vita a noi che
gliela rubiamo. Nell’uccisione del Figlio otteniamo davvero la sua eredità:
abbiamo tra le mani il frutto che ci fa simili a Dio (Gen 3,5)! Il Figlio, che nella
sua mitezza si fa oggetto di prepotenza, eredita da noi la nostra nudità, e noi
da lui la sua veste di figlio (27,35).
Il racconto inizia descrivendo la cura che Dio ha per la sua vigna:
manifesta il suo amore con i fatti, perché lo comprendiamo e possiamo fare
quel frutto che ci rende simile a lui (vv. 33-34).
Al moltiplicarsi dei suoi gesti di bontà corrisponde un crescendo della
nostra cattiveria: percuotiamo e uccidiamo sistematicamente i profeti che ci
richiamano a produrre il frutto desiderato (vv. 35-36). La nostra risposta alle
601
sue premure è un’automatica e monotona reazione. Non c’è via d’uscita.
All’ostinazione del suo amore, corrisponde il muro sempre più spesso del
nostro rifiuto!
Alla fine il Padre manda “il” Figlio. Proprio davanti a lui esce allo scoperto
l’intenzione che covavamo nei suoi confronti: ucciderlo per rapirne l’eredità
(vv. 37-39). Gli ascoltatori, interpellati da Gesù, rispondono dicendo che il
delitto è degno della più severa condanna (vv. 40-41). Ma il Signore dà
un’altra interpretazione: il rifiuto dei capi sarà l’inizio di un nuovo popolo, e la
pietra scartata sarà testata d’angolo del nuovo tempio (vv. 42-44). I capi del
popolo capiscono finalmente che si parla di loro, e si accingono a fare ciò che
Gesù ha appena detto (vv. 45-46).
Si dice giustamente che la storia è rivelazione. In essa infatti la violenza
toglie sempre più la maschera del suo potere mortifero. Non è un caso, se
proprio oggi qualcuno scrive un “Elogio della mitezza” e un “Elogio della
solidarietà”. Sarebbe però fuori luogo un “Elogio del nostro tempo”, se non si
fa prima un elogio dell’asina e del fico, per ridare all’uomo la sua umanità e a
Dio la sua realtà.
Gesù, il Figlio dell’uomo disprezzato e ucciso fuori le mura, è la pietra
scartata che diventa pietra angolare: è il Figlio che ci dà l’eredità, è il Pontefice
che unisce il Padre ai fratelli e questi tra di loro. La sua croce svela la
distruttività della nostra violenza e la forza del suo amore. Questa è l’opera
meravigliosa di Dio: la nostra miseria fa uscire la sua misericordia.
La Chiesa riconosce in Gesù l’Agnello, immolato e vittorioso (Ap 5,6.13),
che vince il male con il bene (Rm 12,21), spegnendo in sé la nostra potenza di
morte. Uniti a lui, israeliti e pagani, siamo figli nel Figlio, albero fruttifero e
tempio dello Spirito.
602
fino a dare se stesso. Il nostro errore, fin dall’inizio, fu pensarlo diverso da
quello che è; noi poi, essendo figli e volendo diventare simili a lui (Gen 3,5), ci
siamo efficacemente dati da fare per diventare come l’avevamo immaginato.
piantò una vigna. La vigna è Israele (Is 5,1-7), il primogenito, scelto da
Dio tra tutti i popoli come sua proprietà (Es 19,5). Non perché è il più
numeroso o forte; è anzi il più piccolo tra tutti i popoli (cf. Dt 7,7). In lui ha
voluto far brillare il suo amore di Padre per i suoi figli, in modo che diventi luce
per i fratelli.
“Piantare la vigna” è un lavoro paziente e intelligente, che esige
impegno e fatica. Bisogna cercare il terreno giusto, adeguatamente solatio,
scavarlo profondamente e drenarlo, scegliere e piantare ogni vitigno. Il
contadino fa questo con gioia, pensando al frutto. “Piantare la vigna”
sintetizza l’azione di Dio per il popolo eletto, dai patriarchi ai Giudici, dalla
promessa all’eredità della terra, attraverso la liberazione dall’Egitto e il dono
della Parola.
Questa vigna è fatta per rispondere all’amore del Padre con l’amore
verso i fratelli (7,12; 22,36-40; Dt 4,6s e Lv 19,18). Se non lo fa, è come il fico
sterile.
la circondò con una siepe. La siepe delimita e protegge la proprietà da
ciò che la danneggia, ladri o bestie. È simbolo della legge, che caratterizza il
popolo nella sua diversità: lo rende simile a Dio, indicandogli il bene e
proteggendolo dal male.
vi scavò un torchio. Il torchio, posto al centro della torre per spremere il
frutto della vigna, è l’altare da cui sale quel sacrificio gradito a Dio che è la
misericordia dell’uomo (9,13; 12,7). Se non c’è questo, le foglie, anche se
rigogliose, sono segno di sterilità e maledizione (vedi le critiche profetiche al
culto del tempio, ad es.: Is 1,10-20; 58,1ss; Ger 7,1ss; Am 5,21-27; Ml 3,1-5).
costruì una torre. La torre richiama il tempio, che serve a custodia della
vigna e deposito dei frutti. Non dovrebbe essere pieno di mercanti e briganti,
ma casa di comunione con il Padre e con i fratelli, aperta a tutte le genti.
la affidò a dei coltivatori. Sono gli ascoltatori di Gesù, i capi del popolo, e
quanti con loro si identificano. Dovrebbero, come Adamo, collaborare
603
all’azione di Dio coltivando e custodendo il giardino (Gen 2,15), e non
distruggerlo per possederlo.
emigrò. Dio non è impiccione. All’uomo fa dono di tutto. Soprattutto della
libertà di agire come lui! Fatto al sesto giorno, ha il compito di portare la
creazione al settimo, al riposo di Dio. Per questo lui è assente: la sua presenza
di Padre è affidata alla responsabilità di figli adulti, che vivono da fratelli.
Addirittura emigra all’estero: si fa estraneo, e lo incontriamo in ogni straniero
che cerca accoglienza (cf. 25,31-46).
In questo versetto si sottolinea, con verbi di azione, la fatica di quel Dio
che con la semplice parola ha creato tutto: è la cura del suo amore per
formarsi un figlio adulto, il primogenito. Non è un padrone che fa lavorare altri
per rapirne i frutti - come fanno i padroni di questo mondo. Lavora
personalmente, a sue spese, e senza vantaggio; l’unica ricompensa per il
padre è la felicità del figlio. “Pianta” con cura la vigna, vitigno per vitigno,
perché ognuno fruttifichi secondo il suo cuore; la “cinge” di una siepe , che la
protegga come le sue braccia; vi “scava” un torchio nella roccia, perché possa
godere del proprio frutto; “costruisce” una torre, perché vegli su di lei e la
custodisca; “emigra” altrove, per darle la libertà di essere come lui.
v. 34: il tempo dei frutti. La vigna è coltivata in vista di quel frutto che
rallegra Dio e l’uomo (Gdc 9,13; cf. Sal 104,15): è l’amore per i fratelli, di cui
ha fame tanto il Figlio quanto il Padre.
inviò i suoi servi. Invece di “servo”, in greco c’è “schiavo”. Lo schiavo è
proprietà del suo signore. Schiavi sono i profeti, che appartengono a Dio, come
Dio appartiene a loro (cf. Ct 2,16; 6,3; 7,11). Essere l’uno dell’altro per amore,
è la vita stessa del Padre e del Figlio, e di chiunque ha il suo Spirito. I profeti
vivono il medesimo dramma del loro Signore che li manda. Vedi in particolare
Elia, Geremia e il Battista (cf. 16,14). Sono inviati ai fratelli come testimoni,
martiri dell’amore che chiama a conversione.
Oltre l’istituzione del tempio e della monarchia, comune a tutti i popoli -
il re rappresenta Dio in terra e il tempio gli garantisce la protezione di Dio - in
Israele c’è un’anti-istituzione: il profetismo. Il profeta è contro ogni
sacralizzazione e assolutizzazione del tempio e della legge, e, a maggior
ragione, del re, che dovrebbe rispettarla. Egli è contro la violenza religiosa e
604
politica: richiama alla fraternità, ricordando al re l’osservanza della legge, e
agli osservanti della legge l’amore di Dio e del prossimo.
per prenderne i frutti. Il Signore ha “fame” del frutto della vigna (21,18),
come ha “bisogno” dell’asina (21,3). Egli desidera che l’uomo, suo figlio, si
realizzi nell’amore e nella libertà di servire, come lui.
v. 35: presi i suoi servi, ecc. È la sorte dei profeti (cf. 23,29-32):
portando la mitezza del Padre, sono preda della violenza dei fratelli. Sono
martiri, testimoni insieme del nostro male e del suo amore: sono i giusti,
prefigurazione del Giusto, sul quale ricade l’ingiustizia (cf. Sap 2,12-20). Nelle
loro ferite si spurga la virulenza della nostra cattiveria (cf. Is 53,1-12); nel loro
silenzio si spegne la nostra menzogna. Chi opera il bene - può parere
scandaloso - non resta mai impunito!
Noi, invece di ascoltare la voce dei profeti, tagliamo loro la gola. Più il
Signore ci chiama con la loro parola e il loro esempio, più ci allontaniamo da
lui. Chiamati a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo! Ma Dio è Dio,
e non uomo. Per questo freme; ma non di ira, bensì di compassione, e viene a
noi nella sua misericordia (cf. Os 11,2.7.9).
v. 36: di nuovo inviò altri servi, più numerosi dei primi. Dio non si
stanca; moltiplica con generosità i suoi appelli. E noi ripetiamo,
autisticamente, con violenza sempre più folle, il nostro rifiuto. Sordi alla
Parola, uccidiamo chi la dice, facendo monumenti a quelli che i nostri padri
hanno ucciso. Ma questo non ci dissocia dalla loro colpa; ci serve solo da alibi
per continuare le loro malefatte, testimoniando così di essere loro degni figli
(23,29-32). Circa la sorte dei profeti, vedi anche Eb 11,32-40.
v. 37: alla fine inviò loro il Figlio suo (cf. Eb 1,1s). Dio non ha nulla di più
da dirci che la sua stessa Parola, nulla di più da darci che il suo stesso Figlio. Il
quale non si vergogna di chiamarsi nostro fratello (cf. Eb 2,11s)!
v. 38: i coltivatori, visto il Figlio. È il Figlio perfetto come il Padre (5,48),
irradiazione della sua gloria, impronta della sua sostanza, che tutto sostiene
con la sua Parola (Eb 1,3). È il Figlio che fa la volontà del Padre, il quale fa
sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e
sopra gli ingiusti (5,45).
605
è l’erede: venite, uccidiamolo, e avremo la sua eredità. Davanti al Figlio
si svela l’intenzione perversa dei fratelli: la sua diversità manifesta la nostra.
Noi vogliamo la morte del Padre e del fratello, per impadronirci dell’eredità;
vogliamo possedere in proprio ciò che è donato (Gen 3; Ez 16). Questo è il
movente della violenza che consuma la nostra storia: appropriarci del dono,
non accorgendoci che così lo distruggiamo. E siccome tutto è dono - il mondo,
il mio io e Dio stesso - tutto è travolto nelle fauci della morte.
Noi vogliamo l’eredità del Figlio, il tesoro del Padre, ignorando che essa è
lo Spirito d’amore, vita di ambedue. Ma proprio uccidendo il Figlio, ne
otteniamo l’eredità: a noi, che gli togliamo la vita, egli dona la sua vita.
In questo modo il bene trionfa di ogni male!
v. 39: presolo, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. È la storia
che sta accadendo a Gesù, della quale gli ascoltatori (allora come adesso!)
sono attori. Tra due giorni lo prenderanno nell’orto, lo cacceranno fuori le
mura e lo uccideranno sul Golgota.
v. 40: il Signore della vigna cosa farà a quei coltivatori? Gesù domanda
agli ascoltatori il giudizio su ciò che stanno facendo. La loro risposta, senza
pietà, è la stessa di Davide a Natan, che gli sta parlando del suo peccato (cf.
2Sam 12,5s). Gesù dice in anticipo ciò che essi intendono fare. Quando sarà
accaduto, sapranno almeno che “c’è un profeta”, che ha predetto il loro male
e l’ha portato su di sé, coscientemente e liberamente. Solo allora potranno
dire: “Ho peccato contro il Signore” (2Sam 12,13) e capire che “davvero costui
era Figlio di Dio” (27,54).
v. 41: sterminerà malamente quei malvagi. È la lettura della storia che
facciamo noi: pensiamo che Dio sia più violento dei cattivi, e li ripaghi con la
stessa moneta. La condanna che, senza saperlo, pronunciamo su di noi, sarà
portata dal Signore stesso, che per noi si è fatto maledizione e peccato, perché
noi diventassimo giustizia di Dio (Gal 3,13; 2Cor 5,21).
affiderà la vigna ad altri coltivatori, ecc. Questi coltivatori “altri” saranno
quanti, vedendo il segno del Figlio dell’uomo, si batteranno il petto (24,30),
riconoscendo il proprio no e il suo eterno sì. Essi porteranno frutto, accettando
il dono che il Messia crocifisso fa a quanti glielo rapiscono. Tra questi “altri” c’è
606
la Chiesa di Matteo, composta da giudei che hanno ascoltato i profeti e
riconosciuto, nel perdono, il loro Signore (cf. Ger 31,31-34).
v. 42: la pietra che i costruttori hanno scartato, ecc. (Sal 118,22s).
Questo stesso salmo, citato anche nell’ingresso messianico (21,9), offre a
Gesù un’altra interpretazione del fatto, veramente divina. “Pietra” e “il Figlio”
in ebraico si richiamano (′eben e haben): colui che abbiamo disprezzato,
proprio questi è il Figlio che, in quanto ucciso, dà la vita per tutti. Così diviene
pietra angolare del nuovo tempio, che unisce cielo e terra, divinità e umanità,
giudei e pagani, formando di tutti un solo popolo, annullando ogni inimicizia e
condanna tra gli uomini (cf. Ef 2,14-18).
dal Signore venne questo, ed è una meraviglia. Questa è l’opera del
Signore, la meraviglia da lui compiuta davanti ai nostri occhi. Noi, del bene che
lui ci dà, ne facciamo del male; lui, del male che noi gli diamo, ne fa un bene.
Con l’uccisione del Figlio noi abbiamo usato la nostra libertà - massimo
bene che ci rende simili a lui - per compiere il massimo male, addirittura
impensabile: uccidere l’autore della vita (At 3,15). E lui ne fa il sommo bene,
per tutti: il dono di sé. Come Giuseppe ai suoi fratelli, Gesù dice: “Se voi
avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un
bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso”
(Gen 50,20).
Davvero tutto, anche il male, coopera al bene (cf. Rm 8,28). Tutti si sono
riuniti contro il Cristo, per compiere ciò che la mano e il cuore di Dio aveva
preordinato che avvenisse (At 4,28), per realizzare il suo disegno e la sua
parola (cf. Ap 17,17). Con i perversi, Dio è astuto (Sal 18,27), divinamente
astuto: noi facciamo dei suoi doni un furto, e lui fa del nostro furto il suo dono!
Il risultato ultimo della nostra violenza - oltre l’uccisione della vita non
può andare nessun potere di morte! - non è la distruzione di tutto. Come dal
caos primitivo la Parola creò il mondo, ora lo ricrea nuovo, pieno della sua
gloria. Veramente grande e santo è Dio!
v. 43: sarà levato loro il regno e dato a un popolo (pagano) che ne
faccia i frutti. Nel regno ci precedono pubblicani e prostitute (v. 31), quelli che
hanno dato frutti di conversione. Il nuovo popolo è fatto da quanti, giudei o no,
si riconoscono peccatori e accettano nel Figlio crocifisso l’eterno sì del Padre a
607
tutti i suoi figli. Costoro conoscono l’amore del Padre, e possono portare il
frutto di una vita fraterna.
v. 44: chi cade su questa pietra, sarà sfracellato, ecc. È un versetto
misterioso, che allude a Dn 2,31-45. Il sasso che frantuma il gigantesco
colosso e diventa una grande montagna, la forza di Dio che fa crollare l’idolo
grande, splendido e terribile che l’uomo si è costruito, è la debolezza della
croce. Gesù crocifisso è la pietra di scandalo per tutti, il giudizio di Dio su
Israele, sulla Chiesa e su ogni uomo, perché ormai tutti siamo un solo popolo,
uniti nella colpa e nel perdono. Queste parole non sono da leggere in senso
antigiudaico, ma universale. La storia di Israele è profezia di ogni altra: ciò che
è accaduto al primogenito, è ammonimento per noi (1Cor 10,11). Coloro sui
quali la pietra è caduta, sono i giudei che per primi hanno ricevuto il Figlio
della promessa. Coloro sui quali cade, siamo noi, partecipi della stessa
promessa (cf. Gen 12,3).
Il Messia crocifisso, pietra di scandalo - presto o tardi tutti cadiamo su di
lui come lui è caduto sui nostri padri -, sfracella e stritola la nostra immagine di
Dio e di uomo, per restituire a Dio la sua gloria e all’uomo la sua libertà.
v. 45: i sommi sacerdoti e i farisei. Agli anziani, che c’erano all’inizio (v.
23), succedono i farisei, ai quali sarà dedicato in particolare il c. 23. La
parabola è diretta a loro e a noi, a chiunque non riconosce il potere del Figlio,
che è quello dell’asina e del suo asinello.
v. 46: cercando di impadronirsi di lui. I nemici stanno eseguendo alla
lettera ciò che Gesù ha appena detto. Lo faranno tra due giorni (cf. 26,2). È
chiaro anche a chi ascolta che si parla di lui: è un racconto che gli svela ciò che
sta facendo! Ma la grande sorpresa è vedere come l’azione dell’uomo esegua
e riveli sempre il mistero nascosto - quello della nostra violenza e della vittoria
dell’Agnello. Grande è la potenza di Dio: la malvagità nostra, alla fine, non fa
che compiere la sua bontà nei nostri confronti.
temettero la folla, ecc. La folla l’ha osannato poco prima. Tra due giorni,
quando vedrà che il potere del Figlio è quello della pietra scartata, tutto il
popolo dirà: “Sia crocifisso”, e invocherà su di sé il suo sangue, la sua eredità
(27,22.23.25). I dei sudditi sono come i capi, che in loro si riconoscono; per
questo li vogliono e li scelgono così (cf. Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1ss).
608
3. Pregare il testo
Da notare:
• cosa fa il Signore con la sua vigna
• i servi mandati per chiedere i frutti
• cosa facciamo dei profeti
• il crescendo della sua fedeltà e della nostra resistenza
• alla fine inviò il Figlio
• costui è l’erede, uccidiamolo, e l’eredità sarà nostra
• cosa farà il Signore della vigna?
• cosa dice Gesù sulla pietra scartata?
• la meraviglia operata da Dio
• il popolo che porta frutto
• chi ascolta esegue ciò che Gesù sta dicendo.
4. Testi utili
609
89. AMICO, COME ENTRASTI QUI
SENZA VESTE NUZIALE?
22, 1-14
610
ma i chiamati non erano degni.
9 Andate dunque sino alla fine delle vie,
e quanti trovate,
chiamate alle nozze.
10 E usciti quei servi per le vie
raccolsero tutti quelli che trovarono,
buoni e cattivi,
e fu pieno di commensali il banchetto nuziale.
11 Entrato il re per vedere i commensali,
vide lì un uomo
che non vestiva la veste nuziale,
12 e gli dice:
Amico,
come entrasti qui
senza veste nuziale?
E quello ammutolì.
13 Allora il re disse agli inservienti:
Legategli i piedi e le mani
e gettatelo nelle tenebre di fuori;
lì sarà pianto
e stridore di denti!
14 Molti infatti sono chiamati,
ma pochi eletti.
“Amico, come entrasti qui senza veste nuziale?”, chiede il re a uno che
ha risposto all’invito per le nozze, ma non ha la veste nuziale. Coloro che
partecipano alle nozze del Figlio sono i cristiani, che hanno accolto il Messia.
Non basta però aver detto sì (21,28-30): non chi dice “Signore, Signore”
entrerà nel regno, ma chi fa la volontà del Padre (7,21). In mezzo a noi, come
anche in noi, oltre il grano c’è sempre la zizzania. Ciò che si è appena
raccontato sui vignaioli omicidi, vale anche per noi.
611
Le narrazioni bibliche non sono una finestra sul cortile del passato, per
vedere cosa è accaduto allora. Sono piuttosto uno specchio, che fa vedere ciò
che accade ora in chi legge. Particolarmente efficaci sono le parabole che,
parlando d’altro, più facilmente spiazzano. L’ascoltatore presta loro orecchio
senza eccessive difese, come se non lo riguardassero, per capire, alla fine, che
parlano di lui. Il racconto, come uno specchio appunto, ci permette di vedere
ciò che diversamente mai vedremmo: il nostro volto (cf. Gc 1,23-25)!
Questa parabola è uno sviluppo della precedente, in particolare di 21,44,
dove si dice che la stessa sorte tocca a chiunque si confronti con la pietra
scartata. Quanto ha fatto Israele, lo fa pure la Chiesa. È un richiamo alla
responsabilità: far parte del popolo di Dio, non era, non è e non sarà mai un
talismano di salvezza (3,8s; 7,21-23; 13,24-30. 36-43. 47-50). Al contrario: la
salvezza viene dal riconoscere che noi siamo uguali ai nostri padri. Non basta
dire: “Abbiamo Abramo per Padre”; dobbiamo fare frutti degni di conversione,
sapendo che il Signore può fare del nostro cuore di pietra un cuore di figlio (cf.
3,8s). A una condizione però: che riconosciamo di essere come il fratello che
dice sì e non fa, per diventare come quello che sa di dire no, e poi si pente.
Questa parabola vuol compiere in noi ciò che è accaduto al fico, perché
scopriamo la nostra sterile nudità. La pietra di scandalo è caduta sui
contemporanei di Gesù; ma anche noi, che ne ascoltiamo l’annuncio, cadiamo
su di essa. Ciò che hanno fatto gli ascoltatori di Gesù, è quanto continuiamo a
fare noi, che ne ascoltiamo il racconto. La storia dei vignaioli omicidi è
parabola di ogni storia: ciò che avvenne in quel tempo, avviene in ogni tempo
(cf. 1Cor 10,11).
Esser chiamati e aver risposto non significa essere automaticamente
salvati. Tutti siamo chiamati; “eletto” è chi sceglie liberamente di rispondere
alla chiamata non a parole, ma con i fatti e in verità.
Dopo l’introduzione, che rivolge la parabola agli stessi ascoltatori della
precedente (v. 1), c’è una prima parte (vv. 2-10) in cui si paragona il regno
alle nozze del Figlio (v. 2) e si parla di tre successivi inviti. C’è un invito prima
della festa, rinnovato quando il banchetto è pronto, seguito dal rifiuto (v. 3): è
la sintesi del racconto precedente, che narra la storia di Israele dall’esodo fino
ai tempi del suo Messia. C’è un ulteriore invito, fatto ancora ad Israele, che è
612
quello degli apostoli dopo la morte di Gesù: in esso si ripete il rifiuto,
indifferente o violento (vv. 4-7). Questo rifiuto di una parte d’Israele diventa
occasione di salvezza per gli altri: l’invito è rivolto a tutti, finché la sala del
banchetto è piena (vv. 8-10). Questi commensali costituiscono la Chiesa, dove
però, come ovunque, ci sono buoni e cattivi.
La seconda parte (vv. 11-14) ricorda a noi che, per far parte del popolo
che accoglie la pietra scartata, bisogna che prima accettiamo di essere tra
quelli che la rifiutano: siamo come quello senza la veste nuziale. Solo così
possiamo essere tra quelli che, ascoltando Pietro che dice: “Quel Gesù che voi
avete crocifisso è Cristo e Signore”, si sentono trafiggere il cuore e si
convertono (At 2,36s). Dobbiamo sperimentare che il Signore è venuto a
salvare i peccatori, “dei quali io sono il primo”, come dice Paolo (1Tim 1,15).
Allora conosciamo l’amore del Figlio che è morto per noi, perché noi viviamo di
lui: partecipiamo al banchetto con la veste nuziale.
Gesù, il Figlio, in quanto pietra scartata è diventato testata d’angolo: è lo
sposo, dove uomo e Dio si congiungono nell’unico amore, e la creazione
raggiunge il settimo giorno. Il re invita tutti i suoi figli alle nozze del Figlio.
La Chiesa si riconosce partecipe non solo della chiamata, ma anche del
rifiuto di Israele. È costituita da coloro che sanno di rifiutare i profeti, e si
riconoscono in chi ha ucciso il Figlio. Quell’Israele che si sa peccatore è la
Chiesa stessa di Matteo, che così diventa luce per le nazioni, compiendo la
promessa fatta ad Abramo (Gen 12,2s).
613
fece le nozze per suo figlio. Il Figlio, l’erede che i vignaioli hanno ucciso,
è ora lo sposo (9,15!). Infatti li ha amati e ha dato se stesso per loro, quando
ancora erano suoi nemici (cf. Rm 5,6-11). È lo sposo di sangue (cf. Es 4,25),
nel quale si consuma l’alleanza tra creatura e Creatore. In lui, amore pieno e
reciproco tra Dio e uomo, si celebrano le nozze tra cielo e terra.
Le nozze sono la più bella immagine del nostro rapporto con Dio:
nell’amore uno diventa vita dell’altro, e viceversa. Sull’immagine nuziale,
ripresa in 25,1-13, vedi in particolare il Cantico dei Cantici, Osea 2,16-25,
Ezechiele 16, Ap 19-21.
v. 3: inviò i suoi servi. Questo primo invio corrisponde all’intero racconto
precedente: i profeti, e da ultimo il Battista, furono inviati per preparare un
popolo ben disposto ad accogliere il Signore che viene (Lc 1,17).
a chiamare i chiamati alle nozze. Israele già è stato chiamato: è il
depositario della Parola. I profeti hanno richiamato i chiamati a partecipare al
banchetto della Sapienza (Pr 9,1-6), che è l’amore reciproco tra Padre e Figlio
aperto ai fratelli (11,25-30).
non vollero. È la sintesi di 21,33ss: il rifiuto dei profeti e di colui che fu
profetato, il Figlio.
v. 4: di nuovo inviò altri servi. Questo secondo invio a Israele è quello
degli apostoli dopo Pasqua. Fino al c. 15 degli Atti degli Apostoli si parla
soprattutto della loro missione ai giudei di Palestina e dintorni. La chiamata e i
doni di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). Anche l’Apostolo dei pagani, ovunque
e sempre, si rivolgerà innanzitutto ai giudei. La prima comunità cristiana,
madre di tutte le altre, è costituita da giudei che hanno accolto il loro Messia.
v. 5: non se ne curarono. L’invio degli apostoli fu accolto come quello
dei profeti prima di loro.
andarono chi al suo campo, chi ai suoi affari. Si rifiuta il Signore
semplicemente perché si va dietro al dio mammona - il possesso di terra e di
denaro.
v. 6: gli altri poi. Grammaticalmente non ci si aspetterebbe “gli altri”,
ma eventualmente “altri ancora”. Sono quelli che trascurano l’invito alle
nozze, non per altri interessi, ma per qualcosa di più profondo: sono le persone
religiose, tutte intente alla loro osservanza, che non accettano il dono della
614
pietra scartata. Degni figli dei loro padri, come hanno trattato i profeti e Gesù,
così trattano anche i suoi discepoli.
presero i suoi servi, ecc. Questi servi sono beati, perché hanno la stessa
sorte dei profeti (5,12), anzi, del loro Maestro (10,16-25).
v. 7: il re si adirò. Si comprende bene questo versetto alla luce di ciò
che è accaduto a Gerusalemme, distrutta e incendiata dai Romani nel 70 d.C.
Il destino della città e del popolo è lo stesso del suo Messia e dei suoi inviati, i
profeti prima e i discepoli poi. Questo però non segna la fine della promessa di
Dio, ma la sua realizzazione piena: apre il banchetto del Figlio a tutti i popoli.
Se così grandi doni ci ha procurato il rifiuto di una parte d’Israele, cosa sarà la
sua accoglienza, se non la risurrezione dei morti, il compimento del disegno di
Dio (cf. Rm 11,15)?
v. 8: dice ai suoi servi, ecc. Al rifiuto di una parte dei giudei, la parola di
salvezza passa ai pagani (cf. At 13,44-52). La loro caduta è causa
dell’annuncio alle genti (cf. At 13,46) e della loro conversione. Alla fine Israele
stesso, mosso da santa gelosia, accoglierà colui che gli fu promesso (Rm
11,25ss).
Nel primo rifiuto ci fu data l’eredità del Figlio; nel secondo fu aperta la
fraternità a tutti. Ci sarà anche un terzo rifiuto: quello del cristiano che, pur
accettando l’invito, viene scacciato dal banchetto, perché senza veste nuziale
(vv. 11-14).
le nozze sono preparate. Da quando il Figlio è stato ucciso fuori le mura,
sono giunte le nozze dell’Agnello: all’uomo è data l’eredità di Dio, alla sposa è
data una veste di lino puro (Ap 19,7s).
i chiamati non erano degni. Non lo erano perché si ritenevano ricchi e
sicuri, senza accorgersi di essere infelici, miserabili, poveri, ciechi e nudi (Ap
3,17). Non si sono riconosciuti in chi dice e non fa: non hanno ancora visto la
loro realtà e non si sono convertiti.
v. 9: andate dunque sino alla fine delle vie. I discepoli sono inviati non
agli incroci, ma al capolinea di ogni via, fino agli estremi confini della terra (At
1,8), perché ogni uomo sia immerso e battezzato nell’amore del Padre e del
Figlio (cf. 28,19s).
615
quanti trovate, chiamate alle nozze. Tutti hanno la stessa vocazione di
Israele, il primogenito, luce delle genti (Is 49,6).
v. 10: usciti quei servi per le vie, raccolsero. La predicazione alle genti
“raccoglie” (in greco suona come “sinagoga”!) in un solo popolo tutte le genti.
buoni e cattivi. Questa annotazione serve a introdurre la seconda parte
della parabola, la quale mostra come pure noi, che abbiamo accolto la
chiamata, facciamo come i primi chiamati. La Chiesa non è ancora il regno del
Padre, dove i giusti splenderanno come il sole: è il regno del Figlio dell’uomo,
in cui ci sono scandali e iniquità (cf. 13,43.41).
fu pieno di commensali il banchetto. La volontà del Padre è che la casa
sia piena (cf. Lc 14,23). E come è piena, se manca anche un solo figlio (cf. Lc
15)?
v. 11: entrato il re. Quando il re entra, è il regno definitivo: nel regno del
Padre stanno solo i figli, quelli che vivono da fratelli.
vide lì un uomo che non vestiva la veste nuziale. Partecipare a un
banchetto senza veste adeguata, è come trovarsi nudi. La veste nuziale è
quella del Figlio, che compie la volontà del Padre.
v. 12. amico. Il re ci chiama amici, e ci mostra la nostra nudità. Non
abbiamo il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli. Anche se diciamo di sì
(21,31), non diamo uva come la vigna, e non vogliamo riconoscerci in chi
rapisce l’eredità. La veste del Figlio è data proprio a chi lo crocifigge (27,35).
Questa veste è di chi si scopre peccatore e accoglie l’invito alla conversione: è
di chi si sente perdonato e vive di perdono. Allora è un graziato che grazia gli
altri (18,21-35). Solo chi si riconosce sterile fa frutto, chi si sa omicida del
Figlio è suo erede, chi si sa nudo è rivestito! Perché conosce l’amore con cui è
amato, e con esso può amare se stesso, gli altri e l’Altro. Questa è la veste
nuziale, che ci riveste di Cristo (cf. Gal 3,27; Rm 13,14).
v. 13: disse agli inservienti. Gli inservienti sono gli angeli, esecutori dei
suoi comandi (Sal 103,20), che compiono il suo giudizio (13,39ss. 49s).
legategli, ecc. È il destino della zizzania (13,42), dei pesci cattivi (13,50),
di chi non perdona (18,34; cf. 5,25s). Chi non ha la veste, anche se è “dentro”
la sala del banchetto, in realtà è fuori: non è nella luce, ma nelle tenebre
esteriori. Gesù ci rivela ciò che siamo ora - e che alla fine sarà svelato -, non
616
per terrorizzarci, ma per convertirci. Vuole mostrarci che anche noi siamo
come i primi chiamati che non accettano l’invito, come i secondi chiamati che
lo rifiutano. Questa è la nostra condizione, che nascondiamo con tante foglie.
La fede, principio d’illuminazione, compie in noi il “miracolo” del fico: ci spoglia
e ci fa vedere la nostra sterilità, perché possiamo accogliere la benedizione del
suo amore che si getta nel mare della nostra maledizione. Solo così ci
convertiamo e portiamo la veste nuziale: siamo eletti in quanto reprobi
confessi.
v. 14: molti sono chiamati. Prima Israele e poi ogni popolo della terra
(Gen 12,2s), tutti siamo chiamati alle nozze del re.
pochi eletti. Dio chiama tutti i suoi figli perché li ama. Gli eletti, di cui si
parla, sono quei chiamati che sanno di aver rifiutato, di essere fuori, di non
avere la veste nuziale: per questo scelgono di convertirsi e di rispondere alla
misericordia di Dio, usando misericordia verso gli uomini.
3. Pregare il testo
Da notare:
• le nozze per il Figlio
• la prima chiamata e il primo rifiuto
• la seconda chiamata e il secondo rifiuto
• la terza chiamata, ai pagani
• quanti trovate, chiamate!
• raccolsero buoni e cattivi
• la sala è piena
617
• uno è senza veste nuziale
• molti sono chiamati, ma pochi eletti.
4. Testi utili
22, 15 - 22
618
21 Dicono:
Di Cesare.
Allora dice loro:
Rendete dunque ciò che è di Cesare a Cesare,
e ciò che è di Dio a Dio.
22 E, udito, si meravigliarono
e, lasciatolo, se ne andarono.
“Ciò che è di Cesare a Cesare, e ciò che è di Dio a Dio”, risponde Gesù
alla domanda-trappola che gli hanno fatto. Qualunque risposta “scontata”
avesse dato, si sarebbe tirato la zappa sui piedi. Se avesse detto che
bisognava pagare il tributo agli oppressori romani, si sarebbe messo contro il
popolo; se avesse detto di non pagarlo, si sarebbe messo contro l’autorità.
La sua risposta non è un modo elegante di eludere la domanda. Sposta
invece il problema a un altro livello. Cosa significa dare a Cesare ciò che è suo
e a Dio ciò che gli spetta? In che rapporto sta il potere dell’“asina” con quello
dei “carri e dei cavalli”, il potere del Figlio dell’uomo con quello dei potenti del
mondo? Cosa spetta a Cesare, se tutto è di Dio?
È importante tenere presenti due cose. Primo: Dio non esautora l’uomo dalle
sue responsabilità, ne è invece l’origine. Secondo: il suo potere non entra in
concorrenza con il nostro: è dono, amore e servizio, non appropriazione,
violenza e dominio.
Il rapporto tra l’autorità di Cesare e quella di Dio è da sempre un campo
minato, mai pacifico: è lo stesso rapporto non facile che i profeti hanno avuto
con le istituzioni. La diffidenza tra stato e Chiesa - lei pure istituzione, anche se
profetica - viene da vari motivi, più o meno nobili, che vanno dalla
persecuzione per la fede alla lotta per la giustizia e la libertà, ma anche dalla
lotta per difendere propri interessi all’alleanza per mantenere privilegi,
dall’estraniazione per comodità alla subordinazione alterna tra i due, nociva a
tutti.
619
Solo chi dà a Dio ciò che è di Dio, sa cosa dare a Cesare. Ciò che è di Dio,
il frutto di cui il Padre ha fame, è la libertà dei figli e l’amore dei fratelli. Chi
cerca questo, trova risposta anche al resto.
Il brano, secondo le varie situazioni, fu interpretato diversamente, con
valutazioni non sempre facili da dare. Fu letto come “separazione” tra sfera
temporale e spirituale senza interferenza tra le due, come “alleanza” di trono
e altare a reciproco sostegno, come “confusione” con sacralizzazione dello
stato o con dominio temporale della Chiesa, come “dipendenza” dello stato
dalla Chiesa o della Chiesa dallo stato, rispettivamente in forma di
integralismo o di strumento di dominio. La storia è complessa. Ed è maestra di
vita solo se, invece di condannare gli errori passati, comprendiamo in essi la
radice dei nostri.
L’uomo è relazione: è “animale” sociale e politico, che si realizza
organizzandosi in società. Riconosce l’autorità in un capo che lo rappresenta. Il
re non è altro che l’uomo ideale, immagine di Dio, ideale di ogni uomo.
Ma chi è Dio? È dono, libertà e servizio; oppure possesso, dominio e
violenza?
Da Caino in poi la città si fonda sul cadavere del fratello. Essa vive nella
violenza che la legge denuncia e vuol contenere. Il sangue, rimosso e nascosto
sotto le mura, con il passare del tempo cresce e trasuda da tutte le parti: la
storia è il venire alla luce di un male segreto, da cui la società nasce e di cui
vive. Oggi, grazie alla tecnologia, esso è in grado di esplicare tutta la sua
potenzialità. L’economia, sotto la sovranità universale del dio mammona, è
una e assoggetta tutto e tutti nell’ingiustizia perpetrata e/o subita; il disastro
ecologico compromette i precari equilibri della vita; il potere bellico
incontrollabile minaccia la distruzione di tutto. Mai come oggi la storia ha
rivelato il mistero di iniquità che cela. Ciò che è stato seminato sotto terra dà il
suo frutto maturo, che non è né buono, né bello, né desiderabile. È chiaro che
si impone un cambio di modello. Oggi comprendiamo il valore delle beatitudini
come magna charta del convivere. Esse presentano i valori del figlio che vive
da fratello. Sono l’unica alternativa sensata a una situazione di rapina e
violenza.
620
È utile tener presente che per la Bibbia il “paradiso”, il giardino sognato
dell’infanzia, è la “polis” (da cui politica), la città in cui si vivono relazioni filiali
e fraterne.
Il credente, con lucidità e coraggio, deve impegnarsi con tutti gli uomini
di buona volontà, per impostare relazioni nuove e costruttive a tutti i livelli. La
“carità politica” è la forma più alta e urgente di azione, intesa a cercare e
promuovere ciò che più fa crescere la solidarietà e la libertà tra gli uomini.
Gesù è venuto a rendere a Dio ciò che è di Dio: a restituire all’uomo la sua libertà di figlio.
Il suo potere non lotta con quello di Cesare. È semplicemente diverso, come la mitezza
dalla violenza. Accetta di vivere “in” questo mondo, riconosce ogni autorità nel suo
servizio alla società, senza però accettarne il modello di base, che è violento e distruttivo.
La forza dell’asina e del suo asinello, pacificamente, farà scomparire carri e cavalli (Zc
9,10).
La Chiesa, senza integralismi e fondamentalismi, è luce di un mondo
riscattato dalla morte. Riconosce l’indipendenza e la laicità dello stato, ma
pone nella società il lievito e il sale evangelico delle beatitudini. Oggi deve
tenere gli occhi aperti per non allearsi con il Cesare di turno, che è il potere di
omologare tutti a pensare e agire allo stesso modo. Deve testimoniare e
favorire la libertà, la verità e la diversità delle persone, in spirito di reciproco
servizio.
621
maestro, sappiamo che sei veritiero, ecc. È il più bel complimento fatto a
Gesù: conosce e dice la verità al di là di ogni opportunismo, disposto a pagare.
È un’esca, se ci fosse bisogno, perché non se la cavi con una mezza verità o
con un elegante: “Non so”, come avevano fatto loro alla sua domanda sul
Battista (21,27). Lo elogiano, sottolineando due volte la sua conoscenza della
verità e la sua franchezza nel dirla, sperando che anche con lui funzioni la
tattica della volpe con il corvo.
v. 17: è lecito dare il censo a Cesare. Il censo è il tributo che ogni
suddito, esclusi bambini e vecchi, deve pagare all’occupante romano. Il
popolo, simpatizzante del movimento indipendentista degli Zeloti, è
ovviamente contrario al tributo: pagarlo significa accettare la sudditanza allo
straniero. In questione non è riconoscere l’autorità del re, ma di uno straniero.
Da sempre il popolo, contro il volere di Dio, ha voluto un re che lo governi,
come gli altri popoli (cf. Gdc 9,8-15; 1Sam 8). Dio non vorrebbe un’autorità
che domini e spadroneggi su tutti, ma una che serva alla fraternità comune.
Tuttavia concede il re, in attesa che cambino parere. E promette loro un re
diverso, che porterà la giustizia e la pace sulla terra (2Sam 7).
Il Dio di Israele è molto diverso dai re di questa terra, e così vuole che
siano i suoi figli. Già fin dall’inizio prende la difesa di Abele: il più debole ha
ragione, non il più forte. Ma anche Caino è suo figlio, e sarà protetto dalla sua
stessa violenza, finché durerà il potere della violenza. Il re che Dio promette
non reprimerà la violenza con una violenza maggiore - emergono i peggiori tra
gli uomini (Sal 12,9)! -, ma con la forza della mitezza porterà la giustizia di Dio
sino agli estremi confini della terra (Is 42,1-4).
Se Gesù è favorevole a pagare il tributo, perde il favore del popolo;
questo infatti lo considera il Messia, che li avrebbe liberati da ogni schiavitù.
o no? Se Gesù nega il tributo, gli Erodiani, appositamente invitati, lo
denunceranno all’autorità come sovversivo. I romani, abbastanza tolleranti su
tutto, non erano teneri su questioni di potere. Per mantenerlo, da sempre è
necessario avere “della volpe e del leone”.
v. 18: conosciuta la loro malizia. Ci sono domande buone e cattive.
Buone sono quelle pronte ad ascoltare la verità e compromettersi per essa;
cattive quelle che usano qualunque verità o menzogna per incastrare l’altro.
622
perché mi tentate? Gesù ha già vinto nel deserto le tentazioni di opporsi
al potere con il potere. Ora è tentato di rispondere con mezze verità, per non
esserne schiacciato?
ipocriti. L’ipocrisia sarà il ritornello del cap. 23, dedicato a chi si serve
della verità invece di servirla. Conoscere ciò che pensa l’altro è utile per averlo
in mano!
v. 19: mostratemi la moneta. Il potere di un re è circoscritto al
perimetro di circolazione della sua moneta. Gesù non ce l’ha! È povero; quindi
sovrano! Ha sempre dato a Dio ciò che è di Dio; è il Figlio che dà se stesso,
immagine perfetta del Padre.
gli presentarono un denaro. Nonostante gli scrupoli a parole, i suoi
avversari hanno un denaro - e desidererebbero averne tanti!
v. 20: di chi è l’immagine. Il denaro rappresenta l’imperatore Tiberio da
una parte e sua madre Livia dall’altra, come dea della pace. Nella Bibbia c’è il
divieto di raffigurare sia l’uomo che Dio, perché l’unica immagine di Dio è
l’uomo libero, suo figlio.
l’iscrizione. Sulla moneta c’è scritto: “Tiberio Cesare, figlio augusto del
divino Augusto” da una parte, e dall’altra: “Pontefice Massimo”. Sulla croce del
Figlio, che congiunge terra e cielo, sarà scritto: “Questi è Gesù, il re dei giudei”
(27,37).
v. 21: ciò che è di Cesare a Cesare. È chiaro: se hai la moneta di Cesare,
ne riconosci l’autorità e gli devi il tributo. Il cristiano riconosce l’autorità civile,
e la rispetta con lealtà in ciò che fa di bene, organizzando la convivenza degli
uomini. Il suo servizio è da Dio (Rm 13,1-7), anche se il modo non lo è proprio.
Ma non si faccia illusioni Cesare. il cristiano non è mai un alleato del potere,
ma solo dell’uomo. Quando il potere si propone come assoluto e impone un
gioco contro coscienza, troverà il rifiuto.
Oggi questo si avvera, più che con persone, con un sistema di consenso
che l’immagine, simulacro della bestia, ottiene da tutti, grazie alla tecnologia,
che lo rende onniinvasivo e onnidistruttivo - soprattutto delle stesse coscienze,
alle quali toglie avvertenza e libertà.
Quando piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi devono avere il
marchio della bestia sulla fronte e sulla mano per accedere al mercato, è il
623
momento della resistenza e della testimonianza, della perseveranza e del
martirio (Ap 13,15-17.9s). Qui sta la sapienza. Chi è intelligente calcoli il
numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo (cf. Ap 13,18).
ciò che è di Dio a Dio. Tutto è di Dio. Non nel senso che lui se ne
appropria, ma che lo dona a tutti. Per questo è Dio! Il suo potere lo conosce il
Figlio - colui che ha verso i fratelli lo stesso atteggiamento di amore e rispetto
che il Padre ha verso di lui. È un potere di mitezza, dono e servizio: convive
con il potere di violenza, possesso e dominio, e lo vince senza combatterlo,
come la luce vince la tenebra, il dono la rapina, l’amore l’egoismo.
Alla fine si forgeranno le spade in vomeri e le lance in falci (Is 2,4): non ci
sarà più violenza e regnerà l’armonia con tutto e tra tutti (Is 11,6-9). La città,
fondata da Caino sulla fraternità uccisa - da sempre Romolo uccide Remo! -
diventerà la Gerusalemme celeste. Ma il suo trionfo sarà il medesimo
dell’Agnello: la sorte della sposa sarà condividere la passione del suo con-
sorte.
La nostra storia, prima di giungere alla vittoria sul male, sarà sempre
segnata dalla croce del Giusto. Ma qui, già ora, sta la vita eterna: essere figlio
che vive da fratello.
Dare a Dio ciò che è di Dio significa vivere la libertà e la fraternità possibile qui e ora. Le
condizioni più impossibili portano alla testimonianza più pura e assoluta: il martirio. Lo Spirito ci
suggerirà, di volta in volta, cosa dire e fare (cf. 10,19s). Allora sapremo cosa dare o non dare a
Cesare.
v. 22: si meravigliarono. La risposta di Gesù li sorprende. Oltre
l’alternativa posta da loro, c’è un’altra possibilità. La trappola, che hanno teso
a lui, è in realtà la trappola nella quale loro stessi si trovano.
3. Pregare il testo
624
Da notare:
• i farisei vogliono coglierlo in fallo sulla parola
• maestro buono, insegni la verità e non guardi in faccia agli uomini
• è lecito o no pagare il censo?
• la malizia della loro domanda
• mostratemi la moneta
• di chi è l’immagine e l’iscrizione
• rendere a Cesare ciò che è di Cesare: lealtà e fedeltà nei confronti della
società
• a Dio ciò che è di Dio: lealtà e fedeltà all’uomo
• si meravigliarono
4. Testi utili
Sal 72; Is 45,1.4-6; Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1ss; 2Sam 7,1ss; Rm 13,1ss; Ap
13,1ss; Gv 18,33-40; Mt 20,24-28.
625
91. NON È IL DIO DEI MORTI
MA DEI VIVENTI
22, 23 - 33
626
32 Io sono il Dio di Abramo
e il Dio di Isacco
e il Dio di Giacobbe?
Non è il Dio dei morti,
ma dei viventi.
33 E, ascoltando, le folle erano colpite
dal suo insegnamento.
“Non è il Dio dei morti, ma dei viventi”. Il nostro Dio non è un necrofilo,
come Ades che regna sui morti: è il Dio vivente, datore e amante della vita
(Sap 11,26). Principio di tutto, ha nulla a che fare con la morte. Questa è
entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24), che, mediante la paura di
essa, tiene l’uomo schiavo per tutta la vita (Eb 2,14s).
Ma noi si nasce, si vive, si invecchia, si muore. E poi?… È la parabola
dell’esistenza terrena.
L’uomo è “humus”: viene dalla terra e ad essa ritorna. Ha la vita, ma non
è la vita: è la sua condizione creaturale. Ha però nel cuore la nozione di
eternità (Qo 3,11), appunto perché “sa” di dover morire. La coscienza di
essere mortali e il desiderio di immortalità costituiscono la scintilla divina che
è in lui: “ troppo grande per bastare a se stesso” (Pascal), è insieme limitato e
oltre il proprio limite. Se non ci fosse il “pungiglione” del peccato, che gli
avvelena l’esistenza (1Cor 15,56), accetterebbe di ricevere la vita in dono,
vivendo il limite come comunione con la propria origine. Il peccato invece gli fa
mettere le mani sulla propria sorgente, rimuovere la propria nascita,
considerare l’esser figlio come limitazione mortale: vuol possedere la vita,
senza accorgersi che così la distrugge. Il peccato è, in fondo, non acconsentire
alla propria realtà di figli; e viene dall’inganno di pensare il padre come
antagonista e geloso, invece che come principio di vita e libertà. Per questo è
doloroso il nascere, drammatico il vivere e tragico il morire.
La morte, come noi la sperimentiamo, è l’ultimo atto violento del male
che tutto vuol possedere e rapire: ci strappa la vita. Proprio così ci libera
627
dall’inganno di possederla, e ci fa comprendere che l’abbiamo solo in quanto
donata: possiamo viverla solo se ci accettiamo come figli, in distinzione e
comunione con il nostro principio.
La risurrezione è il centro della fede cristiana: è il dono della vita che il
Padre fa al Figlio e, in lui, a tutti i suoi fratelli. È la restituzione a Dio di ciò che
è di Dio – e l’uomo tutto è di Dio. “Se i morti non risorgono, neanche Cristo è
risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede”, come “è vana la
nostra predicazione”, dice Paolo ai Corinzi che mettono in dubbio la
risurrezione dei corpi (1Cor 15,16s.14). L’esperienza del Cristo risorto e il
nostro essere in lui (“in Cristo” è l’espressione più ricorrente in Paolo), con il
dono del suo Spirito, è il fondamento della vita del credente. Questa unione è
così forte che il destino dell’uno è quello dell’altro.
La vittoria della vita sulla morte, pur essendo il sogno dell’uomo, è
indeducibile da ogni premessa e improducibile da ogni forza umana. La
conosciamo solo dalla promessa di Dio ed è opera sua. Chi non conosce le
Scritture e la potenza dello Spirito, si inganna. Il desiderio di vita che è in lui si
fa violenza distruttiva, per il tentativo di possederla.
In Israele la fede nella risurrezione è maturata lentamente, attraverso
l’esperienza della fedeltà di Dio: se io sono mortale e lui, mio alleato e amico
fedele, può dare la vita, non mi lascerà preda della morte. Chi ama, infatti,
dona ciò che ha e ciò che è.
Il racconto dei sadducei è inteso a mettere in ridicolo la fede nella
risurrezione (vv. 23-28). Gesù risponde che questo è l’inganno di chi non
conosce la promessa e la potenza di Dio (v. 29) e mostra come la risurrezione
sia una vita nuova, “celeste” (v. 30). La prova scritturistica che porta è
desunta dall’Esodo: il Signore si rivela come il Dio “di” Abramo, Isacco e
Giacobbe, ed è il Dio dei viventi, non dei morti (vv. 31-32).
La risposta biblica al desiderio di vita non è l’immortalità, perché siamo
mortali. Non è neppure la reincarnazione, perché la vita non è una maledizione
da estinguere fino all’annullamento. È invece la risurrezione dei corpi -
suppone la morte! - a una condizione di vita piena, che ha vinto la morte.
Nell’uomo, creato il sesto giorno, tutta la creazione raggiungerà il settimo
giorno. Ora essa geme nelle doglie del parto nella speranza di essere liberata
628
dalla schiavitù della corruzione ed entrare nella libertà della gloria dei figli di
Dio (cf. Rm 8,21s).
Sull’argomento è utile riferire un racconto, preso da Nouwen, che parla
della conversazione di due gemelli nell’utero materno. «La sorella diceva al
fratello: “Io credo che vi sia una vita dopo la nascita”. Il fratello protestava
violentemente: “No, no, è tutto qui, questo è un luogo oscuro e intimo e non
abbiamo altro da fare che restare attaccati al cordone che ci nutre”. La
sorellina insisteva: “Dev’esserci qualcosa di più che questo luogo oscuro. Deve
esserci qualcos’altro, un luogo di luce. dove c’è la libertà di muoversi”. Ma non
riusciva a convincere il fratello.
Dopo un momento di silenzio la sorella disse esitante: “Ho qualcos’altro
da dire, e ho paura che non crederai nemmeno a questo, ma penso che vi sia
una madre”.
Il fratello si infuriò: “Una madre?”, gridò. “Ma di che cosa parli? non ho
mai visto una madre, e nemmeno tu. Chi ti ha messo in mente quest’idea?
Come ti ho detto, questo posto è tutto quello che abbiamo. Perché vuoi sapere
qualcosa di più? Non è un posto tanto male, dopotutto. Abbiamo tutto quello di
cui abbiamo bisogno, accontentiamoci, dunque”. La sorella fu ridotta al
silenzio dalla risposta del fratello e per un po’ di tempo non osò dire più nulla.
Ma non riusciva a liberarsi dai suoi pensieri, e dato che aveva soltanto il
fratello gemello con cui parlare, alla fine disse: “Non senti ogni tanto degli
spasimi? non sono piacevoli e qualche volta fanno male”. “Sì”, rispose lui.
“Che cosa c’è di particolare in questo?”. “Bene”, disse la sorella, “io penso che
questi movimenti ci siano per prepararci a un altro luogo, molto più bello di
questo, dove vedremo nostra madre faccia a faccia. Non ti sembra
meraviglioso?”. Il fratello non rispose. Era stanco di tutto quello sciocco
parlare della sorella e sentiva che la cosa migliore da fare era semplicemente
ignorarla e sperare che l’avrebbe lasciato in pace.
Questa storia può insegnarci a pensare alla morte in modo nuovo.
Possiamo vivere come se la vita fosse tutto ciò che abbiamo, come se la morte
fosse assurda e noi faremmo meglio a non parlarne; oppure possiamo
scegliere di reclamare la nostra divina infanzia e figliolanza e confidare che la
629
morte è il passaggio doloroso, ma benedetto che ci porterà faccia a faccia col
nostro Dio».
Gesù è risuscitato dai morti, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor
15,20), “primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18), primo di
una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29).
La Chiesa è costituita da coloro che sono battezzati nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo (28,19). Solidali con Gesù, il Figlio solidale con
noi, partecipiamo alla sua condizione. Con-morti e con-sepolti con lui quanto
alla vita-per-la-morte, camminiamo in novità di vita, perché già ora, mediante
il battesimo, siamo pure con-risorti e con-seduti con lui nella gloria (cf. m 6,3-
11; Col 2,12; Ef 2,6). In lui riconosciamo di essere figli del Padre e amiamo
come lui stesso ama. Questo è già ora il passaggio dalla morte alla vita (cf.
1Gv 3,14), perché ci fa partecipare della vita stessa del Dio amore.
630
sadducei pensano che la vita si chiude con la morte, e si aggrappano a ciò che
comunque sfugge. In questo sono assai simili a noi!
v. 24: se uno muore senza figli, ecc. È la legge del “levirato” (levir in
latino significa cognato), secondo la quale uno sposa la moglie del fratello
morto senza discendenza, per dargli posterità (cf. Dt 25,5-10). Non aver figli è
una maledizione: interrompe la benedizione della vita. Nessuno ha potere di
darsi la vita; può però almeno trasmetterla ad altri: nessuno è madre/padre di
sé, ma può esserlo di altri! Questa legge era importante per i ricchi, per
questioni ereditarie. Non a caso la storia di Israele, da Abramo e Sara a
Zaccaria ed Elisabetta, passa attraverso la sterilità. La vita è dono di Dio, non
possesso illusorio dell’uomo; non consiste nel mangiare e riprodursi per
conservare l’individuo e la specie, ma nell’amare il Signore con tutto il cuore, e
il prossimo come se stessi (vv. 35-40).
vv. 25-27: c’erano tra noi sette fratelli, ecc. La vicenda richiama Sara e
Tobia (Tb 3,8). È raccontata per ridicolizzare la risurrezione. Per non piangere,
si tende a deridere l’impossibile che pur si desidera (cf. 9,24!). La donna è
considerata solo in funzione di perpetuare il nome del maschio. Siamo lontani
dalla concezione del rapporto uomo/donna come immagine di Dio (19,1-12; cf.
Gen 1,27).
v. 28: nella risurrezione di chi sarà la donna? Si suppone che la
risurrezione sia un prolungamento della vita terrena. Questa non è letta come
luogo di significati ulteriori, e responsabilità conseguenti. È solo da mantenere,
quella individuale con l’alimentazione e quella collettiva con la riproduzione.
L’uomo è ridotto a animale, governato dall’istinto di conservazione
dell’individuo e della specie.
v. 29: voi vi ingannate. L’uomo si distingue dall’animale perché fa una
lettura delle cose materiali: sono segni che rimandano ad altro. L’intelligenza è
intus-legere (leggere dentro!). Il primo inganno è rinunciare a decifrare la
realtà, per capirne il senso.
non conoscete le Scritture. La Parola ci fa leggere il creato come dono
del Padre, da vivere come figli suoi e fratelli degli altri. Non capire questo è
l’inganno che ci impedisce di essere ciò che siamo e ci fa cercare altrove la
nostra identità.
631
né la potenza di Dio. Dio è sempre all’azione per l’uomo: in ogni dono lui
stesso si dona. La risurrezione, comunione piena con lui, è il compimento di
ogni dono.
v. 30: nella risurrezione né ci si sposa, né si è sposati (cf. 19,10-12).
Nella risurrezione arriva la realtà di cui il matrimonio è segno: l’unione
d’amore reciproco con l’Altro, il vero partner da amare con tutto il cuore (Dt
6,4s). L’amore, dove non trova, rende uguali: chi ama comunica all’altro ciò
che ha ed è, pur nella distinzione (l’alterità è necessaria: si ama l’altro, non lo
si mangia!).
La risurrezione è il venire alla luce di ciò che siamo: figli di Dio, con cieli
e terra nuova, dove avrà stabile dimora la sua giustizia (cf. 1Pt 3,13). La vita
terrena è una gestazione del Figlio, fin che giunge alla sua misura piena (Ef
4,13), propria di ciascuno. “È per nascere che si è nati”.
La risurrezione è la “nascita” dell’uomo maturo: si unisce a colui che lo
ama e che ama, per essere sempre con lui, sua vita (1Ts 4,17; Fil 1,21).
come angeli nel cielo. Il risorto è come “angelo” (= colui che annuncia):
esprime in pienezza la parola divina, di cui il suo corpo è portatore.
La medesima materia, inanimata nella terra, diventa vita vegetale
nell’erba, animale nella mucca e umana nell’uomo: ha organizzazione e
possibilità diverse secondo la forma che l’assume. Nella risurrezione la nostra
materia è assunta dal Figlio di Dio, e ha forma divina. Il corpo del Cristo
risorto, nei racconti evangelici, ha le proprietà di Dio stesso: è presente come
luce, parola e gioia, senza limitazioni di spazio e di tempo.
Come esiste un uomo terrestre, che è icona del vecchio Adamo fatto di
terra, esiste anche l’uomo celeste, che è icona del nuovo Adamo datore di vita
(cf. 1Cor 15,48s). Tra il nostro corpo attuale e quello futuro c’è discontinuità e
continuità insieme: la pianta viene dal seme, ma non è il seme! Il corpo si
semina corruttibile, ignobile, debole e “animale”, ma risorge incorruttibile,
nobile, forte e spirituale, a immagine del Figlio, uguale al Padre (1Cor 15, 42-
45).
v. 32: Io sono il Dio di Abramo, ecc. (Es 3,6.15s). Dio si rivela a Mosè
come “di” Abramo, Isacco e Giacobbe. Lui è relativo a loro, appartiene loro
come loro a lui: Dio “è mio, come io sono suo” (cf. Ct 2,16; 6,3; 7,11). Noi
632
moriamo, perché mortali. Ma Dio è il vivente, datore di vita: chi è in relazione
con lui, avrà da lui la vita.
v. 33: le folle erano colpite. È lo stupore del mattino di pasqua, per il
grande dono fatto da Dio agli uomini nel Figlio dell’uomo.
3. Pregare il testo
Da notare:
• i sadducei che negano la risurrezione
• avere discendenza
• senso della vita terrestre, mortale
• conoscere le Scritture e la potenza di Dio
• la vita nuova nella risurrezione, come condizione filiale piena
• il Dio “di” Abramo, Isacco e Giacobbe
• il Dio dei viventi, non dei morti
• la meraviglia della risurrezione.
4. Testi utili
Sal 16; Dn 12,2; 2Mac 7,14-23; Ez 37; Rm 6,1-11; 8,18-39; 1Cor 15; Col
3,1-4; Gv 11.
633
92. AMERAI
22,34-40
634
Il desiderio di essere come Dio non si realizza nell’avere in mano tutto,
ma nel mettersi nelle mani del Padre e dei fratelli, per amore! Nell’amore non
c’è bene e male: c’è solo il Bene.
Dio non si può carpire con la mente o con le mani, ma “capire” (= contenere)
nel cuore. Amare è avere l’altro nel cuore. Siamo fatti per amare, perché Dio ci
ha fatti a sua immagine e somiglianza. Conoscere serve per amare: non si ama
se non ciò che si conosce. E amare a sua volta serve per capire: non si capisce
se non ciò che si ama. Amore e intelletto si alimentano reciprocamente: è la
tensione dinamica tipica dell’amore (epéktasis!), per il quale la sazietà
accresce il desiderio di una sazietà sempre più grande, e la sazietà maggiore
un desiderio maggiore, e così via, in un circolo virtuoso senza fine.
L’amore riguarda non solo il cuore e la mente, ma anche la vita. L’amore
è innanzitutto gioia del cuore per il bene dell’altro (il contrario è l’invidia); si
esprime con la bocca come lode (il contrario è la critica), e si realizza con le
mani, poste a servizio dell’altro come di me stesso. Si manifesta più nei fatti
che nelle parole: amiamoci non a parole ma con i fatti e in verità (1Gv 3,18).
L’amore porta a comunicare ciò che si ha e si è, fino all’unione di intelletto, di
volontà e di azione. La diversità e i limiti - pure quelli negativi - non sono luogo
di nascondimento e aggressione, perpetrata o subíta, ma di accoglienza e
servizio reciproco.
Il comando è duplice, amare Dio e il prossimo, perché noi, solo amando il
Padre e i fratelli, diventiamo ciò che siamo: figli. Così raggiungiamo la nostra
identità, sanando la rottura originaria con l’Altro, con noi stessi e con gli altri.
Il potere di Gesù (cf. 21,23ss), il Messia che slega l’asina e l’asinello, di
cui “il Signore ha bisogno” (21,3), è quello di amare. L’amore ci fa tempio di
Dio (cf. 21,12-17), albero buono che fa frutti buoni (cf. 21,18-23). Questa
meraviglia è compiuta dalla pietra scartata (cf. 21,28-45), che ci rende capaci
di dare a Dio ciò che è di Dio (cf. 22,15-22) e ci fa partecipare alla vittoria sulla
morte (22,23-33). Infatti chi ama è già passato dalla morte alla vita (1Gv
3,14).
L’amore è il compimento della legge (Rm 13,10), perché ci rende simili a
Dio, figli perfetti come il Padre (5,48).
635
La domanda dei farisei riguarda il principio che ispira la legge (vv. 34-
36). La risposta di Gesù è già contenuta in testi separati dell’AT (Dt 6,5 e Lv
19,18); la sua novità sta nell’averli uniti dichiarandoli simili e fonte di ogni
norma (vv. 37-40).
L’amore infatti è uno, come Dio stesso è uno. Amo il fratello e il Padre
con lo stesso amore con cui il Padre ama me come suo figlio. Questo amore, e
non altro, è principio e fine di tutto. Rispetto ai 248 precetti e alle 365
proibizioni che i farisei osservano, Gesù proclama la legge della libertà (Gc
1,25): quella del Figlio che ama come vuol essere amato, perché di fatto così è
amato. In questo si compie la legge e i profeti (7,12). Dove c’è lo Spirito del
Signore, c’è libertà (2Cor 3,17), che è la capacità di appartenersi e servirsi
reciprocamente (Gal 5,13). L’amore è legge di libertà.
Si capisce ciò che si è da ciò che si fa (agere sequitur esse). Amare rivela
l’essere profondo dell’uomo: è Dio stesso. Questo brano è l’antecima, dietro
cui sta l’enigma che Gesù pone al brano seguente: chi è il Signore da amare?
Solo chi ama, perché scopre come è amato, capisce chi è il Signore.
Gesù è il Signore che si fa mio prossimo e mi ama con tutto il cuore,
perché anch’io possa fare altrettanto. Con lo stesso amore amo lui e il fratello,
perché lui si è fatto mio fratello; amo Dio e l’uomo, perché Dio si è fatto uomo!
Ogni volta infatti che amo l’ultimo dei fratelli, amo lui (25,40-45), che si è fatto
ultimo di tutti.
La Chiesa è la sposa: Cristo l’ha amata e ha dato se stesso per lei (Ef
5,25). Per questo lo ama. I due diventano una carne “una”, e l’uomo non
separi ciò che Dio ha unito (cf. 19,6). L’amore dello sposo la chiama al giogo
soave e leggero (cf. 11,30), dove la libertà stessa di amare è legge. È questo il
suo comandamento (Gv 13,34), che vieta solo ciò che toglie la libertà di
amare.
L’amore reciproco è il distintivo del cristiano: “Da questo tutti sapranno
che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
636
v. 34: Ora, udito che aveva zittito i sadducei, i farisei, ecc. Dopo i
sadducei, ricchi e potenti, entrano in scena i farisei, pii e osservanti. I primi
sono invidiati dal popolo; i secondi sono ammirati.
v. 35: uno di loro, esperto della legge. È uno scriba dei farisei: un fariseo
dotto, che sa e fa ciò che la legge prescrive.
lo interrogò per tentarlo. Una domanda “onesta” esige disponibilità ad
ascoltare la risposta e cambiar parere (cf. 21,23-27). Altrimenti si tratta di una
domanda non per conoscere e fare la verità, ma per scoprire l’altro e averlo
dalla propria parte.
v. 36: qual è il comandamento grande? Dio per sé ci co-manda solo di
mangiare dell’albero della vita: vivere del suo amore verso di noi, rispondendo
ad esso con l’amore verso di lui, verso noi stessi e verso gli altri. L’unico
divieto è quello di considerarci padroni della vita nostra e altrui, perché siamo
figli e fratelli. Dio vuole che noi siamo ciò che siamo, e non vuole altro. Essere
ciò che non si è, significa non esistere!
Oltre alle dieci parole del Sinai, i farisei conoscono numerosi precetti e
divieti, per un totale di 613. È importante sapere qual è il principio di tutte le
leggi, altrimenti, invece di favorire, soffocano la vita.
v. 37: amerai il Signore Dio tuo. Per Israele il grande comando è amare
il Signore, come risposta al suo amore (Dt 6,5). In concreto significa osservare
le parole che lui ci ha dato per indicarci come vivere felici e abitare la terra (Dt
6,1-3). Queste devono essere fisse nel cuore, ripetute ai figli, ricordate in casa
e fuori casa, impresse sulla mano e sulla fronte (Dt 6,6ss).
Con questa citazione di Dt 6,5, Gesù richiama l’essenza della legge.
L’amore non è solo il mezzo per custodire la vita: è il fine, la stessa vita.
Amare Dio è unirsi a lui. L’amore è principio di trasformazione, anzi di
divinizzazione: chi ama vive dell’amato, che si fa sua vita.
È sorprendente, e bello, il comando di amare Dio. Non avremmo mai
osato farlo! Fa tenerezza un Dio che insegue l’uomo per dirgli: “ Ti do un
ordine, grande e terribile: per favore, voglimi bene, perché anch’io ti voglio
bene!”. Questo comando implica una concezione sublime di Dio e dell’uomo:
Dio è amore, e l’uomo è fatto per amare lui. Il desiderio dell’uomo di essere
simile a Dio (Gen 3,6), è lo stesso di Dio, che l’ha creato come sua altra parte
637
(cf. Gen 1,27). Ciò che Dio è per natura, noi lo diventiamo mediante l’amore
suo per noi, che è anche il nostro per lui.
Per sé la legge tutto può imporre, fuorché di amare. Inoltre si comanda
ciò che è bene fare, ma non si farebbe. Questo comando, quindi, ci fa capire
che noi non sappiamo amare. Ma chi non ama è nella morte! La legge, anche
quella dell’amore, è per noi un certificato di morte! Possiamo vivere il
comando dell’amore solo se scopriamo e accettiamo di essere amati. Questo è
il dono dello Spirito, che sarà effuso su tutti dalla croce, dove nessuno potrà
più dubitare dell’amore di un Dio che dà la vita: “Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici”(Gv 15,13).
con tutto il cuore. L’amore sgorga dall’intimo della persona. Il cuore è
desiderio, affetto, passione. Uno agisce secondo ciò che gli sta-a-cuore. Chi
ama ri-corda l’amato: l’ha sempre nel cuore, in memoria indelebile. Ogni
circostanza glielo richiama, così che diventa principio del suo sentire, pensare
e agire.
Come posso amare Dio con tutto il cuore, se il mio cuore è pieno di tanti
altri interessi? Lo amo con la totalità che mi è possibile oggi: domani sarà
sempre più grande!
con tutta la vita. La vita è tutto ciò che ho. Ogni energia disponibile è per
amare, ed è da usare tanto-quanto serve a questo fine.
con tutta la mente. L’amore è cieco, perché il suo occhio è la mente.
Questa tutto valuta in funzione del fine. Il sapere o serve per amare o non fa
che nuocere; o crea relazione e libertà o distrugge l’uomo, riducendolo in
schiavitù.
v. 38: questo è il grande e primo comandamento. Gesù risponde alla
domanda su qual è il grande comandamento, aggiungendo che è il “primo”,
rispetto a un secondo.
v. 39: il secondo è simile a questo. Dopo il grande e primo, non ci sono
infiniti e minuti comandi, ma solo un secondo che gli è “simile”. L’amore con
cui amo il prossimo è lo stesso con cui amo Dio, ed è lo stesso col quale Dio mi
ama! In Cristo uomo e Dio sono “uno”, grazie al fatto che lui “per primo” ci ha
amati (cf. 1Gv 4,10 vg.) e, nella libertà sovrana del suo amore necessario, si è
unito a noi.
638
Questa è la novità della risposta di Gesù, che porta il sesto giorno della
creazione al riposo di Dio.
amerai il prossimo tuo. Prossimo è superlativo di vicino: il più vicino. Il
prossimo è il primo altro da me, che mi fa prendere conoscenza della finitezza
mia e sua. Per questo è il mio “contendente”, il nemico da cui mi difendo e che
attacco. L’amore fa del confine col prossimo il luogo divino dell’accoglienza.
come te stesso. Chi ama se stesso, ama tutti; chi non ama se stesso, non
ama nessuno. Ma posso amarmi solo se sono amato. Il Figlio, facendosi mio
fratello, è venuto ad offrirmi lo stesso amore che il Padre ha per lui.
Il prossimo non va amato come assoluto. Ogni assolutizzazione del
relativo è schiavizzante: va amato come me stesso, che mi realizzo amando
Dio con tutto il cuore. Quindi amo veramente il prossimo se lo aiuto ad amare
Dio, ad essere se stesso, libero.
D’altra parte l’amore, anche quello apparentemente più banale, ha
sempre un carattere di assolutezza. Non perché è assoluta la persona, ma
perché l’amore è da Dio e per Dio - è Dio stesso! Amando lui come assoluto,
sono libero di amare gli altri per quello che sono - relativi a lui.
v. 40: da questi due comandamenti dipende tutta la legge. Ogni legge
che non mantiene e non fa crescere l’amore e la libertà - necessaria all’amore
- è dannosa. I comandamenti hanno un unico contenuto: amare sia Dio che
l’uomo. Sono due, perché l’amore è sempre tra due: non distrugge, ma fa
esistere l’altro come altro, facendo dei due “uno”. L’amore è la vita unica che
unisce Padre e Figlio, senza confonderli né sopprimerli, ma facendoli esistere
come distinti in unità.
Attraverso l’amore, ciò che è in cielo, avviene anche in terra: l’uomo
entra nella vita stessa di Dio, nella Trinità.
e i profeti. I profeti hanno sempre richiamato alla conversione del cuore,
ad amare Dio e i fratelli, a non cadere nel feticismo di una legge senza amore.
3. Pregare il testo
639
b. Mi raccolgo immaginando Gesù sulla spianata del tempio, due giorni prima
di pasqua.
c. Chiedo ciò che voglio: amare lui con tutto il mio cuore, vita, mente; e amare
me stesso e gli altri con il suo stesso amore.
d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù, vedendo come lui le vive nei
miei confronti.
Da notare:
• il comandamento grande della legge
• amerai il Signore Dio tuo
• con tutto il tuo cuore
• con tutta la tua vita
• con tutta la tua mente
• il secondo è simile al primo
• amerai il prossimo tuo come te stesso
• l’amore come criterio di valore della legge
4. Testi utili
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Di Davide.
43 Dice loro:
Come dunque Davide,
nello Spirito, lo chiama Signore
dicendo:
44 Disse il Signore al mio Signore:
Siedi alla mia destra
finché io ponga i tuoi nemici
sotto i tuoi piedi?
45 Se dunque Davide lo chiama Signore,
come è suo figlio?
46 E nessuno poteva rispondergli una parola ,
né alcuno osò più interrogarlo da quel giorno.
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donato dalla carne e dal sangue del Figlio, che rivelerà chi e come è il Signore
(cf. 27,54).
Comprendere che il Cristo e il Figlio di Dio è Gesù, costituisce il centro
della fede cristiana: è quanto Matteo dichiara sin dall’inizio (cf. 1,1-17.18-25)
La promessa di Dio a Davide si compie in modo divino. Chi promette si com-
promette, chi dona si con-dona: la promessa e il dono di Dio a Davide è Dio in
persona, che promette e dona se stesso.
La domanda di Gesù è troppo esplicita per non essere colta. Il sommo
sacerdote stesso, davanti al Sinedrio, gli chiederà tra poco se è lui “il Cristo, il
Figlio di Dio” (26,63). E Gesù risponderà: “Tu l’hai detto” (26,64). Questa sarà
la bestemmia che lo porterà alla croce (26,65s), dove finalmente verrà
riconosciuto (27,54).
Il vangelo vuol portare il lettore a una presa di posizione nei confronti di
Gesù, come il Cristo e Signore. La provocazione è esplicita: chi è il Cristo se
Davide, nello Spirito, lo chiama Kyrios? Il Cristo e il Signore che Dio ha
promesso è l’uomo Gesù. Lo riconosceremo rispondendo a questa domanda, e
soprattutto a quella che ci porrà tra poco con la croce - interrogativo di Dio a
tutte le domande degli uomini.
Gesù è figlio di Davide secondo la carne e Figlio di Dio secondo lo Spirito
(1,1-17.18-25; cf. Rm 1,3). Non è solo un uomo straordinario con una dottrina
sublime: è “il” Figlio di Dio, che ci rivela quel Dio che nessuno mai ha visto (Gv
1,18). Chi non lo riconosce come tale, deve dire che lui è il più grande
imbroglione della storia e la sua parola la più sublime menzogna, che dura
ancora dopo duemila anni. Il “suo” segno è la croce, dove si rivela come “il”
Figlio, l’unico, l’amato, perfetto nell’amore come il Padre, perché dà la vita per
i fratelli.
La Chiesa riconosce il Figlio di Dio, il Signore e il Cristo, nella “carne” di
Gesù, nella sua persona storica, concreta e unica. Chi non lo riconosce così,
non ha lo Spirito di Dio (1Gv 4,3). La sua umanità non è un simbolo
fantasmatico del “divino” nell’uomo, apparso qua e là nei vari budda o
illuminati; la sua divinità non è una nebulosa energetica del cosmo. Gesù di
Nazareth è nato da Maria per opera dello Spirito Santo, vero uomo e vero Dio.
In lui umanità e divinità sono unite in una persona sola; anche se distinte, non
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sono divise: il suo corpo è l’epifania di Dio sulla terra. Più precisamente
diciamo che il Crocifisso è la “theoria” (cf. Lc 23,48): mostra chi è e come è il
Signore.
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gli dicono: Di Davide. Secondo la promessa (cf.2Sam 7,1ss ),il Cristo è
figlio di Davide. Così è nominato da Matteo 8 volte: oltre che nel titolo (1,1),
così è chiamato con speranza dai malati (9,27; 15,22; 20,30.31), con dubbio
dalla folla (12,23), con giubilo dal popolo (21,9) e dai fanciulli (21,15). Il primo
capitolo di Matteo mostra che lui non solo è figlio di Davide secondo la carne
(1,1-17), ma è Figlio di Dio, il Dio-con-noi, secondo lo Spirito (1,18-25).
v.43: come dunque Davide, nello Spirito, lo chiama Signore. Gesù è un
Cristo diverso dagli altri re, perché è il santo, altro da ogni altro: è il Signore,
come già Davide lo chiamò, pur essendo suo discendente. Gesù vuol far
intendere che lui è il Signore stesso, come lo invocano i malati e i discepoli in
difficoltà (cf. 8,26; 8,29; 15,22-27; 20,30-33). Sarà ucciso perché si proclama
Signore, uguale a Dio, il Figlio di Dio. Questa sua pretesa è una bestemmia;
ma questa bestemmia è “la buona notizia” che ci salva. O accetto Gesù come
“il” Signore o lo uccido. Ma proprio uccidendolo, lui rivela che e chi è il
Signore!
Il Signore è principio e fine di tutto: quanto è attribuito a Dio, è attribuito
a Gesù stesso. In modo sorprendente, egli porta sulla terra l’attributo esclusivo
di Dio, la sua diversità unica: è Signore perché perdona (9,6), dà la vita
(20,28), viene sull’asina (21,2ss) e si perde sulla croce per noi (27,54).
v. 44: disse il Signore al mio Signore (Sal 110,1). Il Signore è Dio, che
parla al Messia, che Davide chiama: “Mio Signore”. Il Salmo parla del Messia
che il Signore intronizza alla sua destra (cf. 26,64). Sotto i suoi piedi sono posti
i nemici, dei quali l’ultimo ad essere annientato sarà la morte (1Cor 15,25-28).
I nemici sono l’inimicizia degli uomini tra di loro e con Dio, che lui sulla croce
ha distrutto in se stesso, per annunciare, a vicini e lontani, la pace (Ef 2,14-
16). I nemici più temibili sono i nostri falsi modi di concepire Dio e il suo Cristo,
l’uomo e la sua salvezza!
v. 45: se dunque Davide lo chiama Signore, come è suo figlio? È la
domanda fondamentale del cristiano, giudeo o meno che sia. Il Figlio di Davide
non è solo un uomo: è il Figlio di Dio, riconosciuto nello Spirito da chiunque si
rivolge a Dio con il suo vero nome: Abbà (cf. Gal 4,6; Rm 8,15). Il Figlio di Dio,
il Signore, è Gesù, il Nazareno crocifisso e risorto!
644
v. 46: nessuno poteva rispondergli. Gesù non ha ancora “dato lo Spirito”
(cf. 27,50), e nessuno può dire chi è il Signore. Né carne né sangue possono
rispondere a questa domanda che la Scrittura pone. Infatti, alla sua lettura,
rimane un velo non rimosso, perché solo in Gesù è eliminato (cf. 2Cor 3,14).
Questo velo però non è tanto sulla Scrittura, quanto sul cuore di chi legge, fino
a quando si converte al Signore (cf. 2Cor 3,14s). Questa conversione sarà
possibile quando, sulla croce, lo vedremo come egli è. Allora potremo dire, con
il centurione e i suoi compagni: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”
(27,54).
né alcuno osò più interrogarlo da quel giorno. Gesù si presenta come “il
Figlio”. E noi concluderemo: è l’erede, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra
(21,39)! È quanto avverrà tra pochi giorni, quando sulla croce ci darà il suo
Spirito e noi lo riconosceremo.
Il nostro silenzio alla sua domanda provoca la sua Parola, ultima e
definitiva: la croce. È “la Parola” che rivela Dio, il segno di Giona (16,4) che lo
manifesta come amore e misericordia per tutti.
Questo brano viene subito dopo la disputa sul comandamento dell’amore
(vv. 34-40). Se “osiamo interrogare” Gesù sull’amore, sentiremo la sua
risposta: la croce. Allora conosceremo chi è il Signore da amare con tutto il
cuore: è colui, che mi si è fatto prossimo e per primo mi ha amato, perché
anch’io possa amarlo e diventare come lui.
3. Pregare il testo
Da notare:
• Gesù interroga
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• che vi pare del Cristo?
• di chi è figlio?
• Davide nello Spirito lo chiama Signore
• siedi alla mia destra
• i nemici sotto i piedi
• nessuno poteva rispondere
• il nostro silenzio e la sua parola
• l’interrogativo della croce.
4. Testi utili
Sal 110; Gdc 9,7-15; 1Sam8; 2Sam7; Mt 20,24-28; 21,1-17; Fil 2,5-11;
Col 1,15-20.
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94. IL PIÙ GRANDE TRA VOI
SARÀ VOSTRO SERVO
23, 1-12
647
12 Ora chi innalzerà se stesso
sarà abbassato,
e chi abbasserà se stesso
sarà innalzato.
“Il più grande tra voi sarà vostro servo”. Con queste parole di Gesù si
conclude la prima parte del c. 23, rivolto alle folle e ai discepoli - alle folle di
discepoli di tutti i tempi -, per metterli in guardia dagli scribi e dai farisei. Ogni
pagina del vangelo è scritta per la Chiesa. Gli scribi e i farisei, di cui si parla in
tutto il discorso, siamo noi, chiamati a riconoscerci in loro. Essi hanno usurpato
il posto di Mosè, che liberò il popolo dalla schiavitù e trasmise loro le dieci
parole di vita. Prenderanno anche il posto di Gesù, il Figlio di Dio mite e umile
di cuore, dal giogo soave e leggero, per imporre alla comunità dei fedeli
insopportabili fardelli.
Gesù ha cambiato l’acqua in vino: alle purificazioni esteriori della legge
ha sostituito il dono dello Spirito, che ci dà un cuore nuovo, quello del Figlio
che ama come è amato. Ma noi, inavvertitamente, siamo come il cane che
torna al suo vomito, come la scrofa lavata che si riavvoltola nel fango (2Pt
2,22): cambiamo il vino in acqua, sostituendo il vangelo con la legge o
imponendolo come legge!
Questa è e resta la prima tentazione della Chiesa, come testimonia in
particolare la lettera ai Galati (cf. anche At 15). È un tornare dallo Spirito che
dà vita alla lettera che uccide (2Cor 3,6), pervertendo lo stesso vangelo (cf.
Gal 1,7). È facile scambiare, o almeno offuscare, il vangelo con la legge! Lo ha
fatto anche Pietro ad Antiochia, come apertamente lo rimprovera Paolo (cf. Gal
2,11ss). Non certo per cattiveria o stupidità, ma, come dice Paolo, per
“ipocrisia”, ovviamente travestita di bontà e premura pastorale. Pietro
pensava di garantire una miglior gestione della comunità, senza avvertire che
in questo modo non camminava secondo la verità del vangelo (Gal 2,14).
Questa perversione del vangelo in legge è un ritorno dallo Spirito alla carne,
che taglia fuori dalla grazia di Cristo (Gal 5,4).
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Le leggi sono certamente necessarie. L’uomo senza di esse non vive, né
tantomeno convive con gli altri. Sono positive se nascono dallo Spirito di
libertà (Gal 5,1s), se vengono dall’amore e portano all’amore, pieno
compimento della legge (Rm 13,10). Diversamente distruggono la vita filiale,
sopprimendo diversità e alterità.
Ogni istituzione, spontaneamente, tende ad autoconservarsi, centrandosi
su di sé. Ma chi vuol salvare la propria vita, la perde; solo chi perde la sua vita
per amore del Signore la salva!
I vv. 1-4 presentano gli scribi e i farisei nel loro atteggiamento di fondo:
legiferano per gli altri, ma non fanno quello che dicono. Sono pseudodiscepoli
(cf. 7,21-23). I vv. 5-10 indicano il motivo del loro agire: l’ipocrisia, il desiderio
di apparire grandi, intelligenti e stimati. Al centro pongono ancora il proprio io
invece di Dio. Ma non può credere in Dio chi cerca la gloria dagli uomini (Gv
5,44), perché la sua gloria è diversa. I vv. 11-12 dicono qual è la grandezza e
la gloria di Dio: la sua grandezza è l’essere piccolo, la sua gloria il servire in
umiltà.
Prima del suo ultimo discorso (cc. 24-25), Gesù mette in guardia contro il
pericolo che il vangelo sempre corre nella storia, mostrando che, ciò che è
capitato a Israele, è profezia costante di ciò che capita a noi (cf. 1Cor 10,11).
Gesù ha sostituito il fardello pesante della legge con il giogo soave e
leggero del Figlio che ama il Padre e i fratelli (cf. 11,25-30; 22,34-40).
La Chiesa è chiamata a riconoscere il suo peccato di fondo. È lo stesso di
Israele e di ogni uomo: impadronirsi della Parola, invece di accettare colui che
parla. La Parola diventa “legge”, invece che comunicazione e comunione con
colui che parla. Questo atteggiamento, che sembra zelante, è in realtà rifiuto
di Dio come Padre e di se stessi come figli. Solo chi cerca di fare ciò che dice si
accorge che le leggi sono impossibili da osservare e danno morte, e può capire
che soltanto l’amore, lo Spirito del Padre, è datore di vita. Senza questo, la
stessa legge resta inevasa, e ogni osservanza non è che una vernice di
perbenismo. Convertirsi significa innanzitutto vedere in sé questo peccato di
“ipocrisia” di cui parlerà tutto il cap. 23. Diversamente, anche con il pretesto di
“migliorare” l’osservanza del vangelo, lo si perverte. Il vino nuovo non può
stare in otri vecchi. Non si può combinare vangelo e legge, Spirito che dà la
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vita e lettera che uccide. La “nuova” legge è il cuore nuovo: l’amore è legge a
se stesso, e compie pienamente la volontà di Dio. Il ruolo della legge è preso
dal “discernimento” dello Spirito, che mette a nudo il cuore e fa vedere quanto
ancora è schiavo dell’egoismo. I puri di cuore vedono Dio (5,8) e sanno capire
ciò che qui e ora aiuta a vivere concretamente l’amore del Padre verso i
fratelli.
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la posizione “intellettualistica” di chi studia e di mestiere dice ciò che “gli altri”
devono osservare. Ma il vangelo non è qualcosa che si dice per gli altri, bensì
la testimonianza di ciò che si vive in prima persona. Colui che parla è il primo
ad essere interpellato da ciò che dice; altrimenti deve tacere, o dire
solamente: “Signore, pietà!” Il pastore è innanzitutto come il grande Pastore
che si è fatto agnello: è il primo che vive da figlio, cercando di fare ciò che
raccomanda - a sé più che agli altri. Non è un generale che manda allo
sbaraglio gli altri: combatte lui stesso la buona battaglia (2Tm 4,7),
comportandosi non come padrone della fede altrui, ma come collaboratore
della sua gioia (2Cor 1,24).
v. 4: legano fardelli pesanti e insopportabili, ecc. Impongono sugli altri
un carico oneroso che loro neppure toccano con un dito, o che comunque non
li tocca. Questo capita non solo quando si danno norme per gli altri, ma anche
quando si annuncia il vangelo con grande enfasi, compiaciuti della propria
oratoria, mostrandolo come un dovere esigente, e non come il dono d’amore
che il Signore fa a ciascuno!
Gesù ci invita al “suo giogo”, che lui porta con noi, rendendolo leggero e
soave (11,29s); noi invece proponiamo “fardelli pesanti e insopportabili” da
chiunque. Il “giogo” è ciò che unisce a Gesù: il suo amore per noi e il nostro
per lui, che è lo stesso che c’è tra Padre e Figlio! Questo ci libera dalla fatica e
dall’oppressione, facendoci trovare “riposo”.
È triste vedere come il vangelo non è annunciato come il dono della
conoscenza del Padre nel Figlio! Proprio come gli scribi e i farisei,
dimenticando la persona di Gesù, lo riduciamo a una dottrina o a una morale
impossibile! Per legge nessuno può amare - tantomeno i nemici. Solo il dono
dell’amore rende capaci di amare. Se il Signore a Cana ha trasformato l’acqua
in vino, noi rischiamo di trasformare il vino buono in acqua o, peggio, in aceto!
Proporre il vangelo come legge che uccide, invece che come Spirito che
dà vita, è la tentazione più terribile della Chiesa. Invece di accogliere il Figlio e
il Padre, ci costruiamo la nostra (finta) giustizia dimenticando il Padre e il
Figlio, a dispetto dei fratelli!
v. 5: fanno per essere visti dagli uomini (cf. 6,1-4.5s.16-18). L’annuncio
della Parola e la funzione pastorale sono usati come “mezzo di scambio”, per
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ottenere buona fama dagli altri. Chi agisce per turpe motivo di lucro (2Cor
2,17), ha già la sua ricompensa (6,2.5.16): la vanagloria invece della gloria!
ampliano i loro filatteri e allungano le frange. I filatteri sono scatolette,
fissate con strisce di cuoio, che si mettono sul braccio sinistro e sulla fronte,
contenenti parole importanti della Bibbia. I farisei le rendono ben visibili, a
differenza di altri. Dovrebbero essere segno di amore alla Parola, che occupa
l’agire e il pensare. Ma non è proprio ciò che avviene! Ogni segno può
facilmente essere scambiato per amuleto, dimenticando il suo significato. La
parola “filatterio” significa “luogo in cui si conserva”. Ma conserva la memoria
della Parola, o solo di se stesso?
Il termine ebraico “frange” (tefillin) significa “preghiere”. Infatti Mc 12,40
dice che fanno lunghe preghiere per apparire pii, e, così, imbrogliare meglio il
prossimo.
Una forma analoga sono i bei discorsi, frangiosi e paludati, dotti e
suasivi, che svuotano la parola della croce (cf. 1Cor 1,17), e servono solo per
edificare un piedistallo al predicatore!
v. 6: il primo posto nei banchetti, ecc. Il “protagonismo” fa occupare il
primo posto (cf. Lc 14,7-11). Ma Gesù è ultimo e servo di tutti (cf. 20,26-28).
Per questo i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi (19,30; 20,16). Il
“banchetto” per il cristiano è l’eucaristia, la “sinagoga” la comunità.
Cerchiamo il primo o l’ultimo posto? Il nostro è un vero servizio agli altri, o un
servirci dei nostri doni per primeggiare su loro?
v. 7: i saluti nelle piazze. Essere primi e riveriti, in chiesa e sulla piazza,
nella comunità e nella società! Chi non si accorge di questo desiderio, è cieco.
Invece di dire col peccatore: “Abbi pietà di me!”, trasforma la preghiera del
fariseo, dicendo: “Ti ringrazio, o Signore, che non sono come quel fariseo” (cf.
Lc 18,9-14): un doppio salto mortale, nel vuoto e senza rete. In questo siamo
abilissimi!
essere chiamati rabbì. Rabbì significa: “mio grande!” È il titolo di
riverenza riservato ai saggi dai loro ammiratori, ai maestri dai loro discepoli.
Gesù, nel vangelo di Matteo, è chiamato con questo nome solo da Giuda
(26,25.49)! Negli altri vangeli è invece un titolo di affetto.
652
v. 8: non fatevi chiamare rabbì: uno solo infatti è il vostro maestro. Il
maestro interiore che Gesù ci ha lasciato è lo Spirito Santo, che ci guida nella
verità tutta intera (Gv 16,13ss): è il suo Spirito di Figlio, che ci fa conoscere lui
e amare come lui il Padre e i fratelli. Questo maestro ci rende “teodidatti”,
ammaestrati da Dio (Gv 6,45, cf. Is 54,13); ci fa conoscere lui come Padre e
noi come suoi figli. Dove c’è questo Spirito, c’è libertà (2Cor 3,17). Chi segue
altri maestri o guru, rinuncia alla sua dignità di figlio di Dio: la libertà!
voi siete tutti fratelli. Lo Spirito, che grida con noi nel nostro cuore:
“Abbà!” (Gal 4,6; Rm 8,15), ci rende figli nel Figlio e fratelli tra di noi, tutti
uguali e ognuno diverso! Nella Chiesa tutti abbiamo pari dignità, dal Papa al
bimbo appena nato. Ma il più grande tra noi è proprio il più piccolo, che è il
Signore stesso (18,1ss). Per questo, se non diventiamo come bambini, non
entreremo nel regno del Padre (18,1-5). La nostra differenza non sta nella
grandezza, ma nel servizio che reciprocamente ci rendiamo, ognuno secondo il
suo dono particolare (1Cor 12,4-13,13), tenendo presente che si deve
conferire maggior onore a ciò che ne manca (1Cor 12,22-24)!
v. 9. non chiamate nessuno vostro Padre sulla terra. Il Padre è il
principio della vita, ed è solo uno. Noi tutti siamo figli: ciò che siamo e
abbiamo, è ricevuto (1Cor 4,7). È imbarazzante, per un religioso, sentirsi
chiamare: “Reverendo Signor Padre!”. A ragione S. Francesco voleva che tutti
si chiamassero frati e sorelle, addirittura anche le cose! Il peccato
fondamentale del figlio è volere il posto del Padre: è il parricidio originario che,
da Adamo in poi, ci impedisce di accettare noi stessi come figli e gli altri come
fratelli. Principio di ogni nostro male, distrugge la nostra essenza di figli nel
Figlio.
uno solo è il Padre vostro. L’unico Padre è colui che fa piovere il suo
amore sui cattivi e sui buoni (5,45), il Padre delle misericordie (2Cor 1,3). Non
è un padre antagonista, come ce lo presentò il nemico. “Tutto mi è stato dato
dal Padre mio” dice Gesù (11,27). Il Padre è colui che dona al Figlio tutto, cioè
se stesso! Non è legge, ma libertà; non dominio, ma amore; non possesso, ma
dono.
v. 10. non fatevi chiamare guida. Guida, o pastore, è il Cristo, l’Agnello
che ha dato la vita per le pecore. È lui il Pastore (Sal 23), l’unico buono, che ci
653
libera dagli ovili e ci conduce ai pascoli della vita, offrendoci la sua stessa vita
di Figlio (Gv 10,1-18). Guai a chi vuol sostituirsi a lui, dicendo, in teoria o in
pratica: “Io sono il Cristo!” (cf. 24,23s; Mc 13,6).
v. 11: il più grande tra voi sarà vostro servo. La grandezza di Dio è
l’amore, e amare è servire, con i fatti e in verità (1Gv 3,18). Gesù infatti è in
mezzo a noi come colui che serve (Lc 22,27).
v. 12: chi innalzerà se stesso sarà abbassato, ecc. Adamo alzò la mano
per rapire e possedere tutto, e tornò nella polvere. Il nuovo Adamo si umiliò,
donando tutto e mettendosi nelle mani di tutti. Per questo è il Signore (Fil 2,5-
11).
3. Pregare il testo
Da notare:
• le folle e i discepoli
• gli scribi e i farisei
• dire e non fare
• operare per essere visti dagli uomini
• primi posti, primi seggi, saluti
• uno solo il vostro maestro, lo Spirito
• uno solo il Padre
• uno solo il pastore, Cristo
• chi è il più grande?
654
4. Testi utili
655
95. GUAI A VOI!
23,13-39
656
ma chi giura per il dono che vi sta sopra, è tenuto.
19 Ciechi,
che cosa è più grande:
il dono o l’altare che rende santo il dono?
20 Chi dunque giura per l’altare,
giura per esso e per tutte le cose sopra di esso;
21 chi giura per il tempio,
giura per esso e per chi lo abita;
22 e chi giura per il cielo,
giura per il trono di Dio e per chi vi è seduto sopra.
23 Guai a voi,
scribi e farisei
ipocriti,
perché pagate la decima
sulla menta, sull’aneto e sul cumino
e tralasciate le cose più importanti della legge:
la giustizia, la misericordia e la fede.
Ora queste bisognava fare
e quelle non tralasciare.
24 Guide cieche,
che filtrate il moscerino
e trangugiate il cammello!
25 Guai a voi,
scribi e farisei
ipocriti,
che purificate l’esterno del bicchiere e del piatto,
mentre all’interno sono pieni di rapina e immondezza.
26 Fariseo cieco,
purifica prima l’interno del bicchiere,
perché diventi puro anche il suo esterno!
27 Guai a voi,
scribi e farisei
ipocriti,
perché siete simili a sepolcri imbiancati,
che all’esterno appaiono belli,
657
ma all’interno traboccano
di ossa di morti e di ogni putridume.
28 Così anche voi all’esterno apparite giusti agli uomini,
ma all’interno siete pieni
di ipocrisia e di iniquità.
29 Guai a voi,
scribi e farisei
ipocriti,
perché costruite i sepolcri dei profeti
e ornate le tombe dei giusti,
30 e dite:
Se fossimo stati nei giorni dei nostri padri,
non ci saremmo associati a loro
nel sangue dei profeti.
31 Così testimoniate a voi stessi
che siete figli di chi ha ucciso i profeti!
32 E voi riempite la misura dei vostri padri.
33 Serpenti, razza di vipere,
come potete fuggire dal giudizio della Geenna?
34 Per questo ecco:
io mando da voi profeti e sapienti e scribi,
alcuni ne ucciderete e crocifiggerete,
altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe
e perseguiterete di città in città,
35 affinché ricada su di voi
tutto il sangue giusto versato sulla terra,
dal sangue di Abele il giusto
fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia,
che uccideste tra il santuario e l’altare.
36 Amen, vi dico:
tutte queste cose verranno su questa generazione!
37 Gerusalemme, Gerusalemme,
che uccidi i profeti
e lapidi gli inviati a te,
quante volte volli riunire i tuoi figli,
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come la chioccia riunisce i suoi pulcini sotto le ali,
e voi non voleste!
38 Ecco, vi sarà lasciata deserta la vostra casa.
39 Dico infatti a voi:
d’ora in poi non mi vedrete affatto,
finché non diciate:
Benedetto colui che viene in nome del Signore!
“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!”, dice Gesù parlando alla folla e ai
discepoli, cioè a noi (v. 1). C’è un sapere e un fare che è violenza e morte, ma
si traveste di giustificazioni religiose. Il male può uscire come trasgressione
della legge, e si rivela come tale; ma può uscire più sottilmente con la
maschera dell’osservanza. Allora è più difficile da riconoscere. È l’ipocrisia di
chi fa il bene, ma non è mosso dall’amore. Il brano è tutto un “test”
sull’ipocrisia religiosa, che c’è soprattutto là dove non è avvertita. Sorprende il
tono minaccioso usato da Gesù, che si è definito “mite e umile di cuore”
(11,29).
Il Signore parla delle deviazioni culturali (scribi) e pratiche o legali
(farisei), che sempre sono accovacciate in noi: dobbiamo riconoscerle e non
farcene dominare (Gen 4,7), per non uccidere, come Caino, il fratello e il
nostro essere figli. La sua parola richiama le vigorose invettive dei profeti:
servono per scuotere da quella “pace perniciosa” (Cassiano) del male, che è il
suo aspetto peggiore. È segno di grande misericordia denunciare il male e
maledirlo, dire-male del male e farne apparire l’inganno. Se la verità va fatta
nella carità (cf. Ef 4,15), anche la carità va fatta nella verità. Noi preferiamo
trascurare la verità in nome dell’amore, o trascurare l’amore in nome della
verità; e così perdiamo ambedue, perché ciò che è vero e ciò che è buono
coincidono (verum et bonum convertuntur!). Al bianco e al nero preferiamo la
confusione indistinta del grigio uniforme. Ma, fin dal principio della creazione,
la vita è distinzione. Chiamare le cose con il loro nome, facendole uscire dal
caos, è l’opera di Dio, che l’uomo è chiamato a continuare responsabilmente.
659
L’oggetto del “guai!” è l’ipocrisia nelle sue varie manifestazioni.
L’ipocrita, nella tragedia greca, è il solista che risponde alla folla anonima del
coro: è il capocoro, il protagonista del gruppo. La sua caratteristica prima è
quella di essere un teatrante, non se stesso: è una maschera, la principale!
Dice ciò che gli impone il ruolo, non ciò che è lui.
Se questo va bene nel teatro, nella vita personale uno che “recita” non
entrerà mai in relazione con nessuno. La scissione tra ciò che si è e ciò che si
dice, è l’empietà radicale: la menzogna che priva l’uomo del suo volto. Uno dei
detti segreti di Gesù dice che; “quando le due cose saranno una, e l’esterno
come l’interno”, allora sarà il regno (Clemente Rom., II, 12,1-2).
Il nostro essere è essere figli del Padre. Il nostro apparire deve
manifestarlo nella fraternità. Nelle opere uno realizza o contraddice ciò che è.
Non dobbiamo recitare: bisogna essere non attori, ma “fattori” della Parola.
Per Matteo l’ipocrisia, male supremo, è questa contraddizione tra dire e fare o,
meglio, tra dire e non-fare ciò che si dice: è un abortire della Parola, invece
che essere generati e generarla (7,21-23; 12,25s; 25,31-46).
L’ipocrita “si serve” della Parola per ottenere l’approvazione dagli
uomini, e fa consistere in questa, invece che in quella, la sua identità: la vana-
gloria prende il posto della Gloria, il falso io quello del proprio io, che è Dio
stesso!
Il discorso, sviluppo del brano precedente, si divide in due parti: la
denuncia del male e il giudizio sulle nefaste conseguenze che esso comporta.
La denuncia è puntualizzata in sette esempi e in altrettanti “guai a voi!” ( vv.
13-33). Il giudizio resta sospeso e viene dopo la requisitoria (vv. 34-39), per
continuare poi nei cc. 24 - 25.
In concreto si denuncia la contraddizione tra dire e fare (v. 13), tra zelo
grande e risultato catastrofico (v. 15), tra legalismo rigoroso e mancanza di
discernimento (vv. 16-22), tra esteriorità ineccepibile e interiorità perversa
(vv. 25-26): siamo sepolcri imbiancati (vv. 27-28) che, con la facciata del
perbenismo, colmiamo la misura della violenza di chi ci ha preceduto (vv. 29-
32).
Segue il giudizio: non siamo figli di Dio, ma del serpente (v.33), e
portiamo a compimento la perversità dei nostri padri (vv. 34-36).
660
Dopo aver espresso con ira la maledizione del male e il giudizio su di
esso, Gesù conclude con la condanna che il male porta con sé: la devastazione
di chi lo compie! E qui Gesù si esprime con un tenero lamento su
Gerusalemme, la cui desolazione durerà fino a quando non riconoscerà colui
che viene nel nome del Signore (vv. 37-39).
Gesù piange per il male che, chi lo uccide, fa a se stesso (cf. Lc 19,41),
non per quello che fa a lui, che sarà ucciso! Non c’è segno maggiore di amore.
Il male di chi rifiuta ricade infatti su chi ama. Tutte le maledizioni del c. 23
porteranno lui in croce, dove si farà carico della nostra cattiveria. Quando
diremo di lui, crocifisso e maledetto, che è veramente il Figlio di Dio (27,54), il
Benedetto che viene a salvarci, allora la nostra casa non sarà più deserta: lui
abiterà in noi e noi in lui. Allora Dio non sarà più senza l’uomo né l’uomo senza
Dio: i due saranno casa l’uno all’altro!
Gesù denuncia il male e annuncia il giudizio, che si compirà su di lui
dopo due giorni: il Crocifisso, fatto per noi maledizione e peccato (Gal 3,13;
2Cor 5,21), sarà bersaglio di tutto il nostro male.
La Chiesa è l’oleastro: come l’olivo su cui è innestata, resterà deserta
fino a quando riconoscerà il Benedetto che viene proprio in colui che si è fatto
maledizione e peccato. Il riconoscimento del Signore da parte dei suoi è il fine
del mondo!
v. 13: Guai a voi. Il senso profondo del guai è stato spiegato nel
commento a 11,21s. Significa: ”Ahimè!”, ed esprime non una minaccia, ma il
dolore di chi parla per il male di chi ascolta.
scribi e farisei ipocriti. Gli scribi sono quelli che sanno; i farisei quelli che
fanno. Ma c’è un sapere e un fare ipocrita, che serve non ad esprimere la
propria realtà, ma a nasconderla: il fine non è l’amore, ma l’apparire
intelligenti e buoni.
chiudete il regno. C’è un sapere e un fare che non apre al regno, ma che
lo chiude a sé e agli altri: a sé perché non si fa quello che si dice, agli altri
661
perché si impongono loro pesi insopportabili (v. 4). La conoscenza del Padre e
del Figlio è riservata ai piccoli (cf. 11,25ss), non a chi fa il padreterno! Chi non
accetta di essere figlio, qualunque cosa faccia, è in contraddizione con sé: si
condanna all’inautenticità, all’autodistruzione.
v.14: divorate le case delle vedove, ecc. Questo versetto, presente in
qualche manoscritto, è desunto da Mc 12,40 (cf. Lc 20,47).
v. 15: percorrete il mare e l’asciutto per fare un solo proselito, ecc. C’è
uno zelo che non è mosso dall’amore - lo stesso del Padre e del Figlio che
spinge l’apostolo Paolo verso tutti (2Cor 5,14). È il desiderio di aver proseliti,
dai quali misurare l’autostima e il proprio potere. Chi segue “noi”, non diventa
figlio di Dio, ma nostro schiavo, perduto come noi. È da seguire solo il Signore
Gesù, che ci rende figli del Padre.
Il risultato di questo zelo non è il diffondersi della fraternità, ma il
“duplicato” del proprio egoismo, moltiplicabile senza fine. Non c’è nulla di
peggio di questa “clonazione spirituale” che massifica le persone, rendendole
dipendenti, fanatiche e pericolose! Il mondo è pieno di guru di tutti i tipi, e di
grulli che li seguono!
v. 16ss: guide cieche. L’ipocrita è cieco: non vede ciò che c’è, ma
proietta su tutto l’ombra di sé. La realtà non è più letta nel suo significato di
rimando all’Altro. Ogni cosa diventa un feticcio: l’oro vale più del tempio,
l’offerta più dell’altare - ogni parola, anche quella più sacra come il
giuramento, perde il suo valore.
v. 23: pagate la decima. La cecità si manifesta particolarmente nel
legalismo: numerose norme e decreti regolano le cose anche minime; ma la
giustizia, la misericordia e la fedeltà sono trascurate. La stessa Parola
sostituisce colui che parla e al quale siamo chiamati a rispondere.
Chi è attento alla Parola in modo corretto, ama il Padre e i fratelli, e in
questo modo adempie la legge - con delicatezza somma, anche nelle minime
cose -, ma non per scrupolo e mania ritualistica, bensì per amore.
v. 24. filtrate il moscerino e trangugiate il cammello. L’assurdo del
legalismo è di stare attento al dettaglio e non vedere l’insieme. Anzi, il
dettaglio diventa l’oggetto di ossessione rituale, quasi una coazione meccanica
e implacabile che uccide.
662
v. 25. purificate l’esterno del bicchiere e del piatto, all’interno invece,
ecc. L’esteriorità, accuratissima, nasconde un’interiorità piena di “rapina e
immondezza”. Tutto è ridotto a un tentativo di rapire la gloria, e si cade
schiavi di ogni passione, perché non si ha la conoscenza dell’amore che libera
e purifica.
v. 26: purifica prima l’interno, ecc. Ciò che conta è il cuore puro, che
vede Dio (5,8) e in tutto vive l’amore del Padre, diventando, come lui,
misericordioso verso ogni miseria.
v. 27: sepolcri imbiancati, ecc. L’esterno è bello a vedersi, luminoso e
attraente come il frutto del male (Gen 3,6); ma, come questo, è pieno di
veleno e di morte.
v. 28: all’esterno apparite giusti agli uomini. C’è un’impeccabilità
esterna che nasconde il massimo peccato: la ricerca di autogiustificazione, che
ignora l’amore e genera ogni perversità sotto apparenza di bene!
v. 29: costruite i sepolcri dei profeti, ecc. Si venera sempre il profeta,
ma solo quando lo si è tolto di mezzo: ci si rende belli della sua eredità,
rendendola inoffensiva! È la vera uccisione del profeta, beffato anche dopo
morto!
v. 30: se fossimo stati nei giorni dei nostri padri, non ci saremmo
associati a loro, ecc. Ci si dissocia dai padri, dichiarandosi pentiti del loro
peccato. È di moda oggi pentirsi dei peccati che altri hanno fatto. Dobbiamo
passare dal “pentitismo” dei loro misfatti al “pentimento” dei nostri, battendo
il petto nostro e non quello altrui! È abominevole pentirsi dei peccati altrui per
giustificare se stessi.
v. 31: testimoniate che siete figli di chi ha ucciso i profeti. Con il
pentitismo su crociate, inquisizione, streghe, Galileo, ecc., mascheriamo i
peccati attuali, continuando la stessa storia di violenza dei nostri padri; e per
di più con l’alibi dei buoni sentimenti!
v. 32: voi riempite la misura dei vostri padri. Fino a quando, qui e ora,
non capisco che io faccio ciò che rimprovero agli altri, continuo a fare come
loro, portando a compimento ciò che loro hanno solo iniziato!
v. 33: serpenti, razza di vipere. Non siamo figli di Dio, ma del serpente
antico, menzognero e omicida fin dal principio (Gv 8,44).
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v. 34s: io mando da profeti, ecc. Gli inviati di Dio, antichi e moderni,
fanno sempre la stessa fine, che è quella del loro Signore. Ciò che è accaduto
al Figlio per mano dei suoi fratelli, accade ad ogni giusto per mano nostra.
Almeno fino a quando apriamo gli occhi, riconosciamo il peccato e ci
prendiamo le nostre responsabilità.
v. 36: tutte queste cose verranno su questa generazione. Su ogni
generazione grava il cumulo di violenza delle generazioni precedenti. Per
quanto si critichi, non si fa che accrescerlo, fino a quando non si critica se
stessi.
Sulla generazione di Gesù, il Giusto, ricadrà il sangue di ogni ingiustizia,
e il suo sangue “ricadrà su noi e sui nostri figli”, come dirà tra poco il popolo
che lo condanna (27,25).
v. 37: Gerusalemme, Gerusalemme. Grande è la tenerezza del Signore
per la sua città, per il suo popolo, per l’olivo e per Israele, posto a “luce delle
genti”. Il nuovo popolo, l’oleastro, la Chiesa, tutto il mondo, è chiamato a
riconoscersi nella sua elezione e nel suo peccato, per partecipare della sua
stessa grazia.
uccidi i profeti. Uccidere i profeti è la professione qualificata del “pio”,
che osserva la legge, e ogni legge. Illuminato è colui che se ne accorge: apre
gli occhi e vede nel proprio peccato la grazia eterna del suo Signore.
quante volte volli riunire, ecc. Da sempre il Padre desidera raccogliere i
suoi figli, fuggitivi e dispersi. Il Figlio ha gli stessi sentimenti del Padre.
come la chioccia. È l’immagine più materna di Dio. Se vedi la chioccia,
sai subito che è madre (infirmatur super pullos suos!). La potenza dell’aquila
(Es 19,4; Dt 32,11), si fa la tenerezza di una chioccia.
e non voleste. Il nostro costante rifiuto è la ferita dolorante e sempre
aperta di Dio.
v. 38: vi sarà lasciata deserta la vostra casa (cf. 24,1s; At 1,20; Sal
69,26). La nostra casa è deserta, perché non ha accolto il Signore, di cui siamo
tempio. Lo abbiamo espulso e crocifisso fuori le mura. E noi stessi restiamo
senza casa, come anche lui. Infatti Dio è la casa dell’uomo, come l’uomo è
casa di Dio, che in lui si compiace di abitare.
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v. 39: non mi vedrete affatto, finché non diciate: Benedetto, ecc.
Volgendo lo sguardo a colui che abbiamo trafitto (Gv 19,37), vedremo colui
che viene nel nome del Signore. Nel maledetto che pende dal legno - e in tutti
i dannati della terra, suoi fratelli - vedremo il Benedetto che viene ad abitare a
casa nostra, se lo accogliamo (cf. 25,31-46). Così la Gloria ritorna nella sua
dimora e noi troviamo casa.
3. Pregare il testo
4. Testi utili
Sal 69; Rm 11; Ap 2-3: le sette lettere alle sette Chiese; Fil 3,1-14
24,1-28
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2 Egli allora rispondendo
disse loro:
Non vedete tutte queste cose?
Amen, vi dico,
non sarà lasciata qui pietra su pietra
che non verrà distrutta.
3 Ora, seduto lui sul monte degli Ulivi,
gli si avvicinarono i discepoli in privato
dicendo:
Di’ a noi
quando saranno queste cose,
e quale il segno della tua venuta
e del compimento del mondo?
4 E, rispondendo, Gesù disse loro:
Guardate che nessuno vi inganni.
5 Molti infatti verranno nel mio nome
dicendo:
Io sono il Cristo!
e inganneranno molti.
6 Starete a sentire di guerre e rumori di guerre;
guardate di non agitarvi.
È infatti necessario che ciò avvenga,
ma non è ancora la fine.
7 Sorgerà infatti nazione contro nazione
e regno contro regno,
e ci saranno carestie
e terremoti in vari luoghi.
8 Ora tutte queste cose sono principio di doglie.
9 Allora vi consegneranno a tribolazioni
e vi uccideranno,
e sarete odiati da tutte le nazioni
a causa del mio nome.
10 E allora saranno scandalizzati molti
e si tradiranno gli uni gli altri
e si odieranno gli uni gli altri.
666
11 E molti falsi profeti sorgeranno
e inganneranno molti;
12 e per l’abbondare dell’iniquità
si raffredderà l’amore dei più.
13 Ora chi resisterà sino alla fine,
questi sarà salvato.
14 E sarà annunciato questo vangelo del regno in tutto il mondo,
in testimonianza a tutte le nazioni;
e allora sarà la fine.
15 Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione,
detto per mezzo del profeta Daniele,
stare in luogo santo
- chi legge comprenda! -,
16 allora quelli che sono in Giudea
fuggano sui monti;
17 chi è sul tetto,
non scenda a prendere le cose di casa sua;
18 e chi è nel campo
non torni indietro a prendere il suo mantello.
19 Guai a chi è incinta e allatta
in quei giorni!
20 Ora pregate che la vostra fuga
non avvenga d’inverno né di sabato.
21 Allora infatti sarà una tribolazione grande,
quale non fu dall’inizio del mondo fino ad ora,
né mai vi sarà.
22 E se non fossero abbreviati quei giorni,
non si salverebbe nessuna carne;
ora, a causa degli eletti,
saranno abbreviati quei giorni.
23 Allora se qualcuno vi dirà:
Ecco qui il Cristo, oppure: là,
non credete!
24 Sorgeranno infatti falsi Cristi
e falsi profeti,
667
e daranno segni grandi e prodigi,
così da ingannare, se possibile, anche gli eletti.
25 Ecco, vi ho predetto!
26 Se dunque vi diranno:
Ecco, è nel deserto,
non uscite!
Ecco, è nell’interno (della casa),
non credete!
27 Come infatti la folgore esce da oriente
e brilla fino a occidente,
così sarà la venuta del Figlio dell’uomo.
28 Dovunque sarà il cadavere,
là si raduneranno gli avvoltoi!
668
Il discorso di Gesù vuole incoraggiarci, perché non siamo senza
speranza, come quelli che ignorano il disegno di Dio sul mondo (cf. 1Ts 4,13).
Vuole toglierci la paura, madre di ogni inganno. Ciò che ci attende non è
un’inevitabile catastrofe, ma la più bella prospettiva alla quale possa aprirsi il
nostro cuore. La storia, sottratta all’ipoteca fatale del nulla, è consegnata alla
libertà dell’uomo, che va incontro al Signore della vita.
Il discorso è, senza soluzione di continuità, la prosecuzione del c. 23.
Dopo aver messo in guardia contro i mali che sorgono all’interno della
comunità e lasciano la nostra casa deserta (23,38), Gesù esce dal tempio,
lasciandolo deserto e predicendone la distruzione (24,1s). La fine del tempio
indica la fine del mondo e la venuta del Signore per il suo giudizio. I discepoli
chiedono “quando” e “quali i segni” di tutto questo (24,3).
Nei vv. 4-28 Gesù parla dei vari “quando” che precedono la fine: non
sono che i vari momenti del tempo presente, da leggere alla luce del futuro;
nei vv. 29-31 parla della venuta del Signore e del suo “segno”; nei vv. 34-36
dice che tutto questo avviene “in questa generazione”, ossia in ogni
generazione, ma se ne ignora il giorno e l’ora. Per questo seguono le parabole
sulla vigilanza e sull’operosità fedele e saggia (vv. 37-51). Questo tema sarà
sviluppato nel c. 25 con tre grandi parabole: la prima sulla vigilanza (25,1-13),
la seconda sulla responsabilità (25,14-30) e la terza sul giudizio finale, che
dipende esclusivamente da ciò che facciamo ora (25,31-46).
Come si vede da questo sommario, tutto il discorso sul futuro non è un
alibi all’impegno, un oppio per dimenticare le difficoltà. Il tempo della salvezza
è “questo”: qui e ora viviamo o meno il nostro essere figli e fratelli. La vita non
è un’attesa di ciò che sarà, ma un’attenzione verso ciò che c’è: l’Emmanuele, il
Dio-con-noi, è sempre presente per portare il mondo al suo compimento
(28,20).
Determinante per ciò che sarà il futuro è ciò che facciamo al presente. Il
giudizio di Dio non farà altro che svelare se abbiamo o meno vissuto secondo il
suo giudizio.
Questo lungo discorso viene prima della morte e risurrezione di Gesù. La
sua vicenda è la medesima di ogni discepolo e della Chiesa, di ogni uomo e del
mondo intero, della piccola storia di ognuno e della grande storia del cosmo:
669
alla luce del Figlio dell’uomo, primogenito di ogni creatura (Col 1,15),
comprendiamo il mistero di tutta la creazione. Nel NT, quando si parla della
fine del mondo, si intende qualcosa che è già avvenuto al Figlio, che avviene
ad ogni fratello e avverrà a tutti.
Come detto, questo brano è un richiamo contro i turbamenti e gli
allarmismi, per non cadere in inganno. Il primo inganno infatti è la stessa
paura, che fa chiudere gli occhi e impedisce di vedere la realtà.
I discepoli, che lo interrogano sul “quando” e sui “segni” della fine, sono
rimandati alla quotidianità, che è tutta da leggere come segno della presenza
del Dio con noi. Il Figlio dell’uomo viene in ogni ora come è venuto allora, sotto
il suo “segno”: la croce, dove la violenza del male si svela e si arresta
nell’amore di chi la porta senza restituirla. Il male non è la fine, né tanto meno
il fine del mondo! È invece il luogo della testimonianza dell’amore del Figlio e
dei suoi fratelli.
La vicenda umana è tutta un travaglio del parto della creazione nuova
(Rm 8,19ss). Il capo è già venuto alla luce: segue la nascita di tutto il corpo!
Questo testo si articola più dettagliatamente come segue: i vv. 1-3
predicono la distruzione del tempio, che suscita la domanda dei discepoli sul
tempo e i segni della fine; i vv. 4-5 mettono all’erta contro gli inganni; i vv. 6-8
descrivono gli ingredienti normali della storia, i cui dolori sono da leggere
come “doglie” del parto; i vv. 9-14 mostrano come il discepolo è generato
uomo nuovo proprio da questa situazione, che lo rende testimone del suo
Signore; i vv. 15-22 parlano del momento decisivo della testimonianza, in cui è
necessaria risolutezza e pazienza; i vv. 23-28 chiudono, come l’inizio,
mettendo all’erta contro i facili inganni.
Gesù mette in guardia contro gli allarmismi sulla fine del mondo, per
farci vivere il presente come il tempo di grazia, in cui possiamo nascere come
figli e vivere da fratelli.
La Chiesa vive alla sequela del suo Signore, continuando la sua lotta e la
sua vittoria, la sua morte e la sua risurrezione, portando con lui il mondo al
proprio compimento. La parola del Figlio (cc. 5-7) - seminata nell’annuncio (c.
10), che cresce tra mille contraddizioni (c. 13) e fruttifica nella comunità (c.18)
670
- è il giudizio di Dio sulla storia presente. Ed è ciò che Gesù ha pienamente
realizzato con la sua vita, la sua morte e risurrezione.
671
del compimento del mondo. In realtà la fine che temiamo è il
“compimento” che desideriamo: l’incontro con il Signore. La storia non è che
un cammino verso il riconoscimento di colui che è sempre-con-noi! Nella
misura in cui lo riconosciamo, per noi il tempo è compiuto: finisce il mondo
vecchio posto nel male, e inizia quello nuovo.
v. 5: molti infatti verranno nel mio nome, ecc. Come capitò nell’anno 70,
in cui fu distrutta la nazione giudaica, e come capita in ogni tempo di crisi, ci
sono sempre persone che promettono salvezza in nome di Dio. Mentono e
ingannano, perché fanno dimenticare che la salvezza non è scampare dal male
o dalla morte, ma saper vivere ogni situazione da figli e fratelli, in ascolto della
parola del Padre.
v.6: starete a sentire di guerre e rumori di guerre. Da che mondo è
mondo, ci sono sempre guerre, fatte e annunciate. È cronaca quotidiana. La
violenza, che fin dall’inizio si è scatenata, devasta sempre di più il mondo.
Rotto il rapporto con il Padre, è conflittuale ogni rapporto con sé e con gli altri.
guardate di non agitarvi. Invece di agitarci e rispondere alla violenza con
la violenza, in questa, che è la condizione normale, siamo chiamati a vincere il
male con il bene (Rm 12,21).
è infatti necessario che ciò avvenga. Il male c’è, ed è necessario che
esca e si spurghi. È necessario come la croce di Cristo. Non perché Dio voglia
così, ma perché noi, per inganno, facciamo così. La paura ci rende aggressivi e
violenti, facendo uscire all’esterno ciò che sta dentro. È una suppurazione
inevitabile, date le premesse! Il male che incontriamo nella storia è sempre più
“apocalittico” (= rivelatorio!), ma non escatologico (= definitivo!). È
apocalittico, perché rivela il male che è in noi; ma non è escatologico, perché
definitivo è solo l’amore di Dio per noi.
ma non è ancora la fine. Il male, come non è principio, non è neanche
fine del mondo. Chi ha detto la prima parola, dice anche l’ultima. Solo la sua
“eterna misericordia” è principio e fine della creazione e della storia, come
ripete il “grande Hallel” (Sal 136).
v. 7: nazione contro nazione, regno contro regno. È un orizzonte fosco di
sollevazione generale, di “guerra globale”. Il gesto di Caino, che uccide il
fratello, si estende al mondo intero.
672
carestie e terremoti. Il cielo si chiude sopra la fraternità negata, non
fecondando più la terra. E la terra si scuote, vomitando il sangue e i morti che
è costretta a celare. L’uomo, che non vive da figlio, non è più riconosciuto né
dal cielo né dalla terra: tutto gli è nemico, anche la sua stessa vita!
v. 8: queste cose sono principio di doglie. Tutti i mali del mondo non
sono da leggere come segno di morte, ma di nascita. Questi dolori sono doglie
del parto della creatura nuova. In questa violenza infatti il discepolo diventa
figlio: vivendo da fratello e spegnendo la violenza nell’amore, nasce a
immagine di Dio!
v. 9: allora vi consegneranno, ecc. Ciò che è capitato a Gesù, capita a
ogni discepolo, a ogni giusto. La sua vita diventa testimonianza dell’amore del
Padre, che smaschera e vince la violenza con la sua mitezza.
v. 10: saranno scandalizzati molti. La croce è scandalo per tutti: è il
luogo in cui viviamo di fede o perdiamo la fede.
v. 11: molti falsi profeti sorgeranno e inganneranno molti. Falsi profeti
sono quanti non accolgono lo scandalo della croce: propongono la salvezza
dalla e non della croce! Promettono di evitare il male, non di vincerlo con il
bene!
v. 12: per l’abbondare dell’iniquità. L’iniquità per Matteo è “non fare” la
Parola, che si riassume nel comando dell’amore.
si raffredderà l’amore dei più. Il vero male non è la sofferenza, ma il
raffreddarsi dell’amore. È prodotto dalla paura, che porta a rispondere alla
violenza con violenza.
v. 13: chi resisterà sino alla fine, questi sarà salvato. La salvezza è
legata al nostro resistere e pazientare nell’amore, senza lasciarci agitare o
ingannare, scandalizzare o raffreddare.
v. 14: sarà annunciato questo vangelo in tutto il mondo, ecc. In
“questo”, non in un “mondo migliore”, si testimonia il vangelo, “la buona
notizia” che c’è un amore più grande di ogni male. Il male stesso è il luogo
proprio di questa testimonianza.
allora sarà la fine. Il “quando” della fine del tempo è il suo compimento,
quando tutti, attraverso la testimonianza del Figlio e dei suoi fratelli,
riconosceranno l’amore del Padre. Lo stesso male, alla fine, non farà che
673
eseguire questo disegno di Dio (cf. Rm 8,28; At 4,28ss; Ap 17,17), rivelando a
ogni miseria la misericordia, a ogni peccato il perdono: come sulla croce!
v. 15: l’abominio della desolazione. L’espressione, presa da Dn 9,27,
parla della profanazione del tempio, che fu dedicato all’idolo (cf. 1Mac 1,54).
Significa che alla fine l’idolo starà al posto di Dio: è l’apice del male,
considerato come assoluto, inevitabile e necessario per tutti.
chi legge comprenda. L’evangelista si rivolge al lettore: ognuno è
chiamato a comprendere che cosa per lui tiene il posto di Dio e non è Dio! Ciò
avviene ogni volta che poniamo come assoluto ciò che non lo è, ogni volta che
diventiamo schiavi invece che signori della varie creature o creazioni. Ogni
epoca ha i suoi assoluti. Non è la nostra un’epoca totalmente amministrata da
norme (economiche) che si autogenerano, un trionfo dell’idolo (= immagine),
a spese dell’uomo e della sua umanità? Questa è l’iniquità massima da cui
guardarci, il dominio della bestia, che vuol marchiare tutti con il suo numero di
codice (cf. Ap 13).
Sulla croce l’abominio della desolazione sta davvero in luogo santo:
tocca Dio stesso! E Dio stesso si pone in ogni abominio. Questo è il segno della
fine e del fine di tutto, consumazione di ogni male e compimento di ogni bene.
v. 16: quelli che sono in Giudea fuggano sui monti. In caso di guerra è
bene rifugiarsi nelle città fortificate; ma solo se si vince. Diversamente le mura
diventano una trappola mortale. I cristiani, nell’assedio di Gerusalemme,
fuggiranno in anticipo. Fuori metafora, chi legge comprenda: in ogni città c’è
una situazione di idolatria che distrugge l’uomo e la sua libertà. Con questa
non si può patteggiare (cf. Ap 13,1-10). In essa siamo chiamati a vedere
l’abominio di perdizione e vivere la salvezza della croce.
v. 17s: chi è sul tetto, ecc. La fuga è urgente. Nessuna cosa, nessun
tesoro, neanche l’indispensabile mantello, deve essere preposto alla vita. È
una decisione in cui si gioca tutto.
v. 19: guai a chi è incinta e allatta. Le donne, con il bimbo in grembo o
al seno, sono inevitabilmente svantaggiate: sono le prime a cadere in mano
dei nemici. In questa situazione, anche ogni promessa di vita futura non è che
premessa di morte sicura!
674
v. 20: la vostra fuga non avvenga d’inverno. Le piogge rendono
inguadabili i fiumi, il freddo ostacola la fuga. Il vero inverno, che impedisce di
decidere per la vita, è proprio il raffreddarsi dell’amore (v. 12).
v. 21: sarà tribolazione grande. Ogni epoca e ogni persona (“questa
generazione”, v. 34) passa questo momento di prova: è la grande tribolazione,
in cui siamo chiamati a scegliere tra Dio e l’idolo, tra salvare o perdere la vita.
v. 22: se non fossero abbreviati quei giorni, ecc. Questa tribolazione è
una storia: dura più giorni, lunghi giorni, interminabili come la notte. Ma
nessuna prova supera la nostra capacità, e il Signore dà la forza per
sopportarla (cf. 1Cor 10,13). È importante resistere ogni giorno: a ogni giorno
basta il suo affanno (6,34).
v. 23: ecco qui il Cristo, ecc. La difficoltà fa desiderare la presenza
visibile del Cristo. Ma è un inganno. Non bisogna credere a promesse illusorie,
ma solo a colui che ha detto di resistere sino alla fine, perché lui è con noi
(28,20).
v. 24: falsi cristi e falsi profeti. Come all’inizio e al centro (vv. 4s. 11) si
mette in guardia contro l’inganno di visioni o anticipi di ciò che invece sarà
“dopo”, impedendoci di vivere “ora” la testimonianza.
daranno segni grandi e prodigi. Il segno del Figlio dell’uomo è uno solo,
quello di Giona: la croce. Altri segni non vengono da Dio, perché non hanno la
sua grandezza prodigiosa: l’umiltà e l’amore, la pazienza e la mitezza.
v. 25: vi ho predetto. Gesù, con la sua vita e la sua morte, ci ha detto in
anticipo “tutto” (cf. Mc 13,23). Il Figlio dell’uomo è profezia di ogni figlio
d’uomo e del mondo intero, sottoposto all’uomo nel bene e nel male. A noi
basta ascoltare lui e la sua parola, senza cercare altri segni.
v. 26: è nel deserto, non uscite! Il Cristo non appare di nuovo
pubblicamente nel deserto, per iniziare un nuovo esodo con i suoi eletti. Suoi
eletti sono quanti, qui e ora, in questo mondo così com’è, ascoltano e fanno la
sua parola, senza piegarsi all’idolo della violenza.
è nell’interno, non credete! Il Cristo, come non ci chiama ad uscire dalla
situazione, ma ad affrontarla da testimoni, così non ci chiama a cercarlo in una
pura interiorità invisibile, dove lui si sia nascosto: è da riconoscere in ogni
fratello posto nel male, presente in ogni realtà di maledizione.
675
La sua venuta non è né spettacolare né misteriosa: è nell’altro, che
incontro di continuo e da cui vorrei difendermi (25,31-46).
v. 27: come infatti la folgore, ecc. La sua venuta ultima sarà visibile a
tutti, come la folgore, che all’improvviso appare e tutto illumina. È impossibile
prevederla, come è impossibile non vederla. Inutile quindi cercare segni!
v. 28: dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi.
L’immagine esprime un segno evidente di una cosa nascosta. È interessante
che si parli di cadavere e di uccelli. Sulla croce tutti vedranno il segno del
Figlio dell’uomo: l’umanità intera si radunerà attorno ad essa per cibarsi della
carne dell’Agnello, vita data per tutti. Il primo a trovare il suo nido sull’albero
della croce (cf. 13,32), sarà il centurione pagano con i suoi compagni, che
riconosceranno il Signore (27,54).
3. Pregare il testo
Da notare:
• del tempio non resterà pietra su pietra
• quando sarà e quale il segno
• la venuta del Signore e il compimento del mondo
• non lasciarsi ingannare da predizioni o presunti salvatori
• i mali presenti sono doglie del parto: in essi nasce il discepolo che
testimonia il suo Signore
• è necessario che il male avvenga, ma non è la fine
676
• la sorte del discepolo all’interno del mondo di violenza è la stessa di
Gesù
• non scandalizzarsi
• non raffreddarsi nell’amore
• resistere sino alla fine
• l’annuncio del vangelo (la mia testimonianza!) a tutti è il fine del
mondo
• l’abominio della desolazione
• cosa pongo al posto di Dio? Su cosa devo decidere per vivere da figlio
e da fratello?
4. Testi utili
Sal 37; 38; 55; 59; 62; Dn 7,23-27; 1Ts 5; 2Ts 2,1-11.
677
97. VEDRANNO IL FIGLIO DELL’UOMO CHE VIENE
24,29-31
678
segreto del cuore, diventare come Dio (Gen 3,5), si avvera: lo vediamo così
come lui è (1Gv 3,2).
Quanto qui si narra sul fine del mondo è già avvenuto storicamente nella
croce di Gesù. Ciò che è accaduto allora è il “segno” del Figlio dell’uomo,
anticipo di ciò che sarà per ogni uomo. Quando ogni creatura, attraverso
l’annuncio del vangelo (cf. 28,19), lo riconoscerà, si batterà il petto e vedrà la
gloria di Dio.
L’evento della croce non è solo passato: è verità del presente e del
futuro. La nascita del Figlio è seguita da quella dei suoi fratelli. Il capo è già
venuto alla luce: segue il corpo, che è tutto il creato fatto in lui, per lui e in
vista di lui (Col 1,15-20). Quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28), il Figlio
avrà raggiunto la sua statura piena (Ef 4,13), e sarà il compimento del tempo.
Tutta la creazione infatti geme nelle doglie del parto, in attesa di riflettere la
gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,19ss). La storia universale è tutta un travaglio
del parto, per la generazione del Cristo totale.
All’origine della creazione c’è il desiderio di Dio di comunicare sé a ogni
creatura nel Figlio; questa sua aspirazione risucchia il creato, e realizza il
desiderio più profondo di ogni creatura. Non la morte, o il nulla ci attende, ma
la comunione piena di amore con lui.
Gesù, il Figlio dell’uomo che è venuto, viene e verrà, è il compimento
della storia. Verrà come è già venuto, con il “suo” segno. E con questo viene
ogni momento, per essere riconosciuto e accolto. Così ogni istante della nostra
vita è un passo verso la meta.
La Chiesa riconosce la gloria del suo segno: in ogni uomo vede il Figlio
dell’uomo e ha verso di lui lo stesso amore del Padre. Quando, attraverso la
sua testimonianza, tutti gli uomini riconosceranno il Figlio, allora il mondo sarà
“compiuto”, e Dio riposerà da ogni sua fatica (Gen 2,2). Noi saremo il suo e lui
sarà il nostro riposo: ogni figlio gioirà del Padre e il Padre di ogni figlio, nel
Figlio.
679
v. 29: Ora, subito dopo la tribolazione. Il compimento viene “subito”:
non è prevedibile prima. E viene “dopo”: non coincide con la tribolazione. È
inutile fare previsioni e tanto meno vedere nel male che ci affligge la fine del
mondo. Suo fine è il suo principio: il Signore della vita. La tribolazione è il
luogo di passaggio obbligato (cf. At 14,22), come il parto per nascere, il
cammino per raggiungere la meta.
Anche noi, come i discepoli, ci chiediamo quando sarà il ritorno del
Signore. Non bisogna credere che sia imminente, diceva Paolo (2Ts 2,2). Ma
sono passati quasi venti secoli, e certo la salvezza è a noi più vicina di allora
(cf. Rm 13,11). Colui che ha detto: “Verrò presto” (Ap 22,20), come mai non è
ancora venuto? Pietro dice che il motivo non è perché tardi nel mantenere le
sue promesse, ma perché attende che tutti ci convertiamo e siamo salvati. Per
la sua pazienza mille anni sono come un giorno, anche se per il suo desiderio
un giorno di attesa è lungo come mille anni (cf. 2Pt 3,8s).
Oggi possiamo dire che, nella nostra epoca, la violenza raggiunge in
quantità ciò che sulla croce ha già raggiunto in qualità: ciò che è capitato a
Cristo, in questo secolo è capitato a tutto il suo popolo, e può capitare al
mondo intero, per la prima volta nella storia. Siamo sicuramente a una svolta.
Gli ebrei hanno ucciso il loro Messia; i cristiani hanno ucciso gli ebrei, versando
il sangue di tutto il popolo messianico. Inoltre ebrei e cristiani, a loro volta,
uccidono i poveri cristi - che a loro volta vorrebbero fare altrettanto. La
violenza di morte esplica tutta la sua potenzialità. Non è questo il tempo in cui
si rivela che tutti abbiamo peccato, e abbiamo bisogno della gloria di Dio (cf.
Rm 3,23)? Nell’abisso di male possibile, oggi realizzabile, c’è un mistero. Il
silenzio di Dio e la perdita di umanità non è qualcosa del segno del Figlio
dell’uomo, in cui siamo chiamati a vedere la gloria del Figlio?
Senza allarmismi, l’uomo è sufficientemente vecchio da morire fin dalla
nascita. Così anche il mondo può da sempre scomparire. Questo è un appello
ad aprire gli occhi, per convertirci. Chi sa leggere il presente, e ogni presente,
alla luce del segno del Figlio dell’uomo, passa dalla morte alla vita: ama i
fratelli e vive finalmente da figlio (cf. 1Gv 3,14).
il sole si oscurerà. Sulla croce il sole si oscurerà nel suo pieno fulgore, e
sarà buio su tutta la terra (27,45). L’oscurarsi del sole è immagine della fine
680
del mondo. La Parola lo creò nella luce; il peccato di Adamo lo decrea,
riportandolo alla tenebra. Il peccato è un atto anticreativo: fa regredire il
cosmo nel caos, la luce nella tenebra, la vita nella morte.
Il linguaggio è tipico del genere apocalittico. Ma non è detto che siano
semplici metafore! Oggi possiamo immaginare che queste cose possono
avvenire alla lettera (cf. 2Pt 3,10)! L’importante è saperle leggere nel loro
significato. Il mondo ha fine. E finisce male, perché assoggettato al male dalla
nostra incoscienza.
Sulla croce la potenzialità distruttrice del peccato si esplica totalmente:
uccide l’autore della vita, crocifigge il Signore della gloria (At 3,15; 1Cor 2,8). Il
male raggiunge il suo obiettivo estremo, oltre il quale non può andare: mette
le mani su Dio!... E proprio così si ritrova nelle mani il sommo bene!
Dal caos primordiale Dio con la sua parola fece luce, e la luce fu. Ora Dio
pone la luce della sua gloria nel segno del Figlio dell’uomo, punto d’arrivo del
male, e ricrea il mondo nuovo nel suo perdono. Il sole che si oscura è il Signore
stesso, che porta su di sé il nostro male.
la luna non darà il suo splendore. La luna, che riverbera la luce del sole,
è l’uomo, che riflette l’immagine di Dio. La croce, eclissi di Dio e dell’uomo sua
immagine, diventa il “segno” per eccellenza di Dio: amore che, per la prima
volta, si rivela nella sua infinita grandezza.
le stelle cadranno dal cielo. Ciò che è in alto cade in basso. La croce è il
capovolgimento di ogni ordine: travolge tutto, toccando Dio stesso. Adamo
l’ha abbandonato, e lui, che lo ama, ne sente l’abbandono fino a morirne (cf.
27,46). Proprio così si squarcia il velo del tempio (27,51), e l’Altissimo appare
sulla terra.
le potenze dei cieli si scuoteranno. Come alla morte di Gesù si scuote la
terra e il suo grembo restituisce i morti che ha divorato (27,52), così si scuote
anche il cielo, Dio stesso! Il male del mondo raggiunge il cuore stesso di Dio!
v. 30: apparirà il segno del Figlio dell’uomo nel cielo. Il cielo è nominato
cinque volte in questo breve quadro. La croce è davvero il cielo che precipita
sulla terra! Il segno del Figlio dell’uomo è quello di Giona (12,39): piove sulla
terra Dio stesso, misericordia infinita, il cui unico contenitore è la miseria
681
infinita. La croce rivela insieme la mostruosità del nostro delirio di violenza e la
verità del Dio amore che se ne fa carico (Gal 3,13: 2Cor 5,21).
allora si batteranno tutte le tribù delle terra. Davanti alla croce, tutta
l’umanità vede il proprio male e l’amore infinito di Dio. Convinta del proprio
inganno, battendosi il petto, torna a lui.
vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con potenza e
gloria grande. Le parole, prese da Dn 7,13, indicano l’intervento di Dio che
giudica e salva il mondo attraverso un misterioso “Figlio dell’uomo”, che ha le
prerogative di Dio: viene dal cielo, è giudice ed ha la sua potenza e la gloria.
Il giudizio di Dio è la sua croce, dove ogni nostro male si compie,
esaurendo la sua carica distruttiva, e lui ci dona ogni bene, esprimendo se
stesso con potenza e gloria grande.
v. 31: invierà i suoi angeli con una grande tromba. Gli angeli portano
sulla terra il giudizio di Dio. Questi angeli (= annunciatori) inviati (= apostoli)
saranno i discepoli, mandati fino agli estremi confini della terra per annunciare
a tutti la potenza del suo amore (28,19).
raduneranno i suoi eletti. Eletti del Figlio dell’uomo, l’eletto del Padre,
sono tutti gli uomini, amati da lui con lo stesso amore con cui è amato lui
stesso. L’annuncio della croce segna la fine della dispersione e l’inizio della
riunione degli uomini tra loro e con il Signore.
L’umanità, divisa dal tentativo di stare insieme sotto il segno della
propria presunzione (Gen 11,1-9), ora si riunisce sotto il segno dell’umiltà di
Dio. Il fine della storia umana è la comunione tra tutti, finalmente fratelli nel
Figlio. Il loro delirio di potenza li ha dispersi e lacerati nella violenza,
l’impotenza di Dio li riunisce e guarisce con la sua misericordia.
dai quattro venti, ecc. La croce, massimo male, diventa principio
ordinatore del mondo nuovo: dai quattro punti cardinali, da una lontananza
all’altra, l’universo, disgregato nel caos, ritrova il suo centro. Il creato si
ricongiunge al suo Creatore: sono giunte le nozze tra Dio e uomo. Il Signore
finalmente è “uno” su tutta la terra (Zc 14,9), tutto in tutte le cose (1Cor
15,28).
682
3. Pregare il testo
Da notare:
• subito dopo la tribolazione
• il sole si oscura
• la luna non dà il suo splendore
• le stelle cadono dal cielo, che si scuote
• il segno del Figlio dell’uomo
• si batteranno il petto tutte le tribù della terra
• vedranno il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo con potenza
e gloria grande
• invierà i suoi angeli
• raduneranno gli eletti.
4. Testi utili
Sal 96; 97; 98; 99; Mt 27,45-54; 1Ts 4,13-18; 2Ts 2,1ss; Rm 13,11-14; Ef
2,14-18.
683
98. VEGLIATE DUNQUE!
24,32-51
684
43 Ora questo sappiate:
se conoscesse il padrone di casa
in quale ora della notte il ladro viene,
veglierebbe e non lascerebbe scassinare la sua casa.
44 Per questo anche voi siate pronti,
perché, nell’ora che non pensate,
il Figlio dell’uomo viene.
45 Chi è dunque quel servo fedele e saggio
che il Signore costituì sopra i suoi famigliari
per dare loro a suo tempo il cibo?
46 Beato quel servo
che, venendo il suo Signore, troverà che fa così.
47 Amen vi dico
che lo costituirà su tutti i suoi beni.
48 Se invece quel servo cattivo
dicesse nel suo cuore:
Tarda il mio Signore,
49 e cominciasse a battere i suoi conservi,
mangiasse e bevesse con gli ubriaconi,
50 verrà il Signore di quel servo
nel giorno che non aspetta
e nell’ora che non conosce,
51 e lo spaccherà in due,
e la sua sorte sarà con gli ipocriti;
lì sarà pianto e stridore di denti.
“Vegliate dunque”, dice Gesù ai discepoli che gli chiedono “quando” sarà
la fine del mondo e “quali i segni” che preannunciano il giudizio di Dio. Tutte le
cose, di cui ha appena parlato, sono da leggere come segni della sua venuta.
Possiamo dire che il “quando” è sempre il “banale quotidiano”; in esso si
opera il giudizio di Dio. Nel nostro lavoro di ogni giorno si decide la salvezza o
la perdizione, l’essere con lui o lontani da lui, la benedizione o la maledizione.
685
La vita o la morte dipende dal fare o meno la “Parola”, che il Signore ci ha
messo davanti (cf. Dt 30,15-20). Alla fine uno raccoglie ciò che prima ha
seminato (cf. Gal 6,8).
Il cristianesimo non è un anestetico che fa dimenticare il male presente
nell’illusione di un bene futuro. È invece un’illuminazione, che fa vedere la
realtà e la fa assumere con intelligenza e responsabilità, in vista di un fine
positivo. Consapevoli del momento presente, ci svegliamo dal sonno e viviamo
da figli della luce (cf. Rm 13,11-14)!
Chi ha discernimento, nei travagli appena descritti, vede colui che sta
per venire (vv. 32-33). In “questa generazione”, come in ogni altra, si compie il
mistero della sua croce e della sua gloria (v. 34). La sua parola si avvera con
certezza; non dice però il giorno e l’ora, perché ogni ora e ogni giorno lui
viene, per chi ha gli occhi aperti (vv. 35-36).
La serie di parabole, che concludono il cap. 24 e abbracciano il cap. 25,
ci descrivono quale deve essere il nostro atteggiamento. È necessario essere
vigilanti, perché la sua venuta, come il suo giudizio di salvezza, avviene
sempre nel momento presente: nello stesso tempo e facendo le stesse cose, si
può, come Noè, costruire l’arca che salva o essere travolti dal diluvio che
inghiotte (vv. 37-42). Due uomini o due donne fanno lo stesso lavoro nei campi
o alla mola, ma con esito diverso: chi è preso e salvato, chi è abbandonato e
perduto (vv. 40-41). Il perché sarà chiaro dalle parabole che seguono: il
diverso comportamento che si ha nel momento presente.
Il discernimento e la vigilanza ci servono per vedere l’Emmanuele, che è
sempre con noi. Chi lo attende e riconosce, coi fatti e non solo a parole, lo
incontra come lo sposo che viene. Diversamente è come il ladro, che scassina
la casa (vv. 42-44).
Discernimento e vigilanza, a loro volta, si traducono in un’operosità
quotidiana fedele alla sua parola, dalla quale dipende il futuro eterno (vv. 45-
51).
Gesù, invece di predirci il futuro, ci rimanda a leggere il presente alla
luce della sua storia. Con lui il tempo è compiuto (Mc 1,15), e ci è offerta la
possibilità di viverlo con pienezza. Infatti il giudizio futuro di Dio su di me non è
686
altro che il mio giudizio presente su di lui: lo compio io qui e ora nel mio
riconoscerlo o meno nel fratello.
La Chiesa è “illuminata”: non è come quelli della notte, ma resta sempre
vigilante e sobria (cf. 1Ts 5,1-11).
687
È invece il modo di considerare proprio di chi vede al di là del velo
dell’inganno. “Tutte queste cose”, appena dette (vv.4-31), sono infatti
avvenute nella generazione di Gesù, che vedrà lui crocifisso e Gerusalemme
distrutta. Ciò che è capitato a lui, al tempio e a Gerusalemme, capiterà
all’umanità intera.
v. 35: cielo e terra passeranno, ma le mie parole, ecc. Ogni promessa
del Signore si compie sotto questo cielo e sopra questa terra, il cui scenario è
destinato a scomparire (1Cor 7,31). Ma la sua parola è stabile in eterno. Sta a
noi costruire sulla roccia della sua verità o sulla sabbia delle nostre fantasie.
v. 36: quel giorno e ora nessuno sa. Il giorno del nostro arrivo alla meta
è ignoto, perché dipende dal nostro cammino di conversione (cf. 2Pt 3,9).
Quanto tempo c’è da qui a Gerusalemme? Per chi sta seduto, anche alle sue
porte, il tempo è indefinito! Per chi, per quanto lontano, vuole andarci,
dipende dai mezzi con cui ci va. Il tempo è inversamente proporzionale alla
velocità della nostra conversione al Signore.
In realtà ogni giorno e ogni ora avvengono “tutte queste cose”. Per chi
vede in esse la visita del suo Signore che gli viene incontro (cf. 25,31-46), la
sua venuta è costante. A chi chiede con ansia: “Quanto resta della notte?
Quanto resta della notte?” (Is 21,11), la sentinella risponde: “Il tempo che
impieghi ad aprire le imposte e a lasciar entrare la luce del sole, che già è
sorto!” Se uno, invece della porta, apre il ripostiglio dove tiene le sue cose,
resta ancora nella notte!
Alla fine tutti apriremo gli occhi, e vedremo il Signore. Ma lui vuole che li
apriamo ora, perché possiamo vivere nella luce. Così la morte non è più per
noi il ladro della vita, ma l’incontro definitivo con lo sposo, che da sempre
amiamo.
né il Figlio, ma solo il Padre. Il Figlio sa solo che ogni giorno e ogni ora
ama il Padre come è da lui amato. E dà a noi il suo stesso Spirito, perché
viviamo da figli della luce, in pieno giorno. Non siamo più nella notte. Colui
infatti che disse: “Rifulga la luce!”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere
la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (cf. 2Cor 4,6).
Per questo “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti, e Cristo ti illuminerà”
(Ef 5,14). Il Signore, morto e risorto, sole del mondo nuovo (Ap 22,5), è già
688
levato nel cielo: chi apre gli occhi, vede il Signore vicino, in ogni ora e ogni
giorno.
v. 37s: come infatti ai giorni di Noè, ecc. Ai tempi di Noè si mangiava, si
beveva e ci si sposava, come in ogni tempo. La vita dell’individuo è alimentata
dal cibo e quella della specie dalla riproduzione. La salvezza o la perdizione
dipende da “come” si vivono queste cose di ogni giorno. L’illuminato le vive da
figlio e da fratello, in rendimento di grazie: “Sia che mangiate sia che beviate
sia che facciate qualsiasi altra cosa” (ossia vi sposiate, commenta Origene),
“fate tutto per la gloria di Dio” dice Paolo (1Cor 10,31). Il cieco invece vede in
queste cose non il dono di Dio, ma un oggetto da possedere.
v. 39: venne il diluvio. Alla fine c’è sempre il diluvio (cf. 7,24-27). Siamo
mortali. Ciò che è costruito sulla parola di Dio, resiste come l’arca; ciò che è
costruito sulla nostra stoltezza, crolla, sommerso dalle acque. Ciò che alla fine
avviene, non è altro da ciò che avviene ora: ogni mangiare, bere e sposare
può essere vissuto come dono o come possesso, come amore o come violenza,
come vita o come morte.
v. 40: due nel campo. Oltre che mangiare, bere e sposarsi, l’uomo
lavora. È non solo “custode” del giardino, ma innanzitutto “cultore” (Gen
2,15). Collabora infatti all’opera di Dio nella creazione.
uno sarà preso e uno lasciato. Anche il lavoro quotidiano, come le altre
funzioni vitali, è il luogo in cui realizziamo o perdiamo la nostra identità di figli.
“Nel campo”, mentre facciamo la stessa cosa e non dopo, si opera la
distinzione: siamo presi con il Signore o abbandonati, salvati o perduti.
Determinante non è “cosa”, ma “come” facciamo.
v. 41: due donne alla mola. Macinare e preparare il cibo è, in una cultura
primitiva, proprio della donna, che dà e alimenta la vita. Non in avvenimenti
importanti, ma in quelli quotidiani costruiamo o meno le nostre dimore eterne
(cf. Lc 16,9).
v. 42: vegliate dunque. È la conclusione alla quale porta tutto il discorso
fatto fin qui, sviluppato in seguito sul “come” vegliare. Tenere gli occhi aperti
è infatti la prima condizione per vedere il Signore che viene. Chi dorme resta
nella notte, incantato da desideri o paure, senza relazione con la realtà.
689
v. 43: se conoscesse il padrone di casa, ecc. Chi si considera “padrone”
e crede di possedere se stesso - la sua vita, il suo lavoro, i suoi beni (cf. Lc
12,13-21) -, vive nell’inganno di un sogno che svanisce all’alba. Per lui la
morte è come un ladro, che lo deruba di tutto.
v. 44: voi siate pronti. Pronto è chi si sa non “padrone”, ma “servo
fedele e saggio”, che conosce e fa ciò che il Signore ha detto.
nell’ora che non pensate il Figlio dell’uomo viene. Viene infatti, in modo
impensato, in “tutte queste cose”: dove noi lo riteniamo assente, lui è
presente con il “suo” segno.
v. 45: quel servo fedele e saggio. Siamo “servi”, come il Signore stesso
(20,28). E siamo “fedeli e saggi”, che fanno quello che sanno e sanno quello
che fanno.
il Signore costituì sopra i suoi familiari, ecc. L’eredità del Figlio di Dio è il
suo amore di fratello, che ci dà la vita del Padre. Ognuno di noi, come lui, ha la
stessa responsabilità: servire la vita dell’altro in modo opportuno, facendo ciò
che in quel momento giova.
v. 46: beato quel servo, ecc. L’ultima beatitudine, somma di tutte le
altre, è quella del servo che “fa così” come ha detto il Signore, fino alla sua
venuta.
v. 47: lo costituirà su tutti i suoi beni. Costui sarà come il suo Signore,
pienamente realizzato come figlio: entrerà alle sue nozze (25,10), prenderà
parte alla sua gioia (25,21.23), riceverà in eredità il regno del Padre (25,34).
v. 48s: se invece quel servo cattivo, ecc. Servo cattivo è chi non serve il
Signore nei fratelli: pensando che tardi a venire, comincia a vivere da
“padrone”. I fratelli diventano per lui oggetto di violenza, il mangiare e il bere
uno stordimento.
v. 50: verrà il Signore di quel servo nel giorno che non aspetta, ecc.
Infatti non lo aspetta. Tutto ripiegato su di sé, non sa riconoscere il Signore
che di continuo viene a visitarlo. Solo alla fine, dopo una lunga cecità, aprirà
gli occhi. Ma così avrà buttato via la sua vita, facendo del male a sé e agli altri.
v. 51: lo spaccherà in due. La sua esistenza è stata divisa, lontana da
sé, dagli altri e dal Signore. Tutto ciò che ha costruito, è legno e paglia,
destinati ad ardere nel fuoco. Invece della gioia e del “riso pasquale”, per lui
690
c’è il pianto e lo stridore di denti. Il Signore gli dirà di non conoscerlo (25,12),
come lui non l’ha riconosciuto (cf. 10,32s): lo rimprovererà di essere un
fannullone che vive nelle tenebre (25,14-30), un maledetto, lontano da lui,
perché non l’ha accolto nel fratello povero (25,41-46).
Questo servo malvagio sarà diviso in due. Ciò che ha fatto di male, sarà
bruciato. Lui tuttavia, in quanto figlio di Dio, sarà salvato, ma come attraverso
il fuoco (cf. 11,20-24; 1Cor 3,15).
3. Pregare il testo
Da notare:
• imparare dal fico: discernere nel male la visita del Signore
• tutte queste cose avvengono “in questa generazione”
• le mie parole non passeranno
• nessuno sa il giorno e l’ora della fine del mondo
• ogni giorno e ogni ora, come Noè, si costruisce l’arca della salvezza
• c’è un mangiare, un bere, uno sposarsi e un lavorare che porta alla
salvezza, e un altro che porta alla perdizione
• vegliate dunque
• il padrone e il ladro
• il servo fedele e saggio e quello cattivo: due modi opposti di vivere il
presente.
691
4. Testi utili
25,1-13
692
andate piuttosto dai venditori
e compratevene.
10 Ora, allontanatesi esse per comprare,
giunse lo sposo,
e quelle pronte entrarono con lui alle nozze,
e la porta fu chiusa.
11 Ora più tardi vengono anche le altre vergini
dicendo:
Signore, Signore,
apri a noi!
12 Ora egli rispondendo disse:
Amen, vi dico,
non vi conosco!
13 Vegliate dunque,
perché non conoscete il giorno né l’ora.
“Ecco lo sposo, uscite per l’incontro con lui!”. È il grido che si leva nel
cuore della notte. Colui che la sposa e lo Spirito invocano: “Vieni!”, e che ha
detto: “Verrò presto” (Ap 22, 17.20), finalmente viene!
È la metafora più bella dell’esistenza umana, paragonata a un uscire per
andare incontro allo sposo. Tutta la nostra vita è un’“uscita”, finalizzata a
questo: usciamo dal grembo della madre alla luce del sole, usciamo ogni
istante da ciò che siamo verso ciò che diventiamo, fino a quando usciamo dalla
vita per incontrare la nostra vita, nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3).
Ignoriamo il giorno e l’ora dell’arrivo, ma sappiamo che ogni giorno e ogni ora
è un passo verso di lui. A condizione però che ne ascoltiamo e seguiamo la
parola. Questo è l’olio che le vergini sagge portano con sé, e le fa entrare alle
nozze. Tutta la loro esistenza infatti è stata un vigile e operoso riconoscere le
visite quotidiane dello sposo, fino a diventare piena di olio, colma di Spirito
Santo. Le vergini stolte invece non hanno ascoltato e fatto la sua parola: non
l’hanno atteso, riconosciuto e amato. La loro esistenza è un vaso vuoto, senza
693
amore. Invece di andargli incontro, si sono allontanate da lui e dalla sua voce,
fino a non conoscerlo. Per questo dirà loro: “Non vi conosco!”.
Questo brano, come i due seguenti, non vogliono spaventarci riguardo al
futuro. Vogliono invece responsabilizzarci sull’importanza del momento
presente: è l’unico che ci è dato per vivere e acquisire l’olio necessario. La
salvezza o perdizione eterna dipende esclusivamente da ciò che qui e ora
liberamente facciamo. Il futuro è affidato alle nostre mani. La minacciosa
descrizione del fallimento serve a risvegliarci dall’incoscienza e dall’ozio, per
attivare la nostra libertà.
Questo brano richiama quelli della zizzania e della rete (13,24-30. 36-
43.47-50): è rivolto alla comunità dei discepoli, perché non si aggiudichino
automaticamente la salvezza per il semplice fatto di essere credenti. Non chi
dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno dei cieli, ma solo chi fa la volontà
del Padre (7,21), che consiste nel vivere da figlio amando i fratelli (cf. il
seguito del capitolo!).
Il racconto è un’allegoria che ci fa leggere il senso profondo della nostra
storia quotidiana in termini di salvezza o di perdizione. Ci vuol far identificare
con le vergini stolte, perché diventiamo come quelle sagge. Il futuro è
l’incontro con lo sposo; ma questo si realizza per chi accumula ogni giorno
quell’olio che rimane in eterno. Se uno non investe nell’amore, la sua vita è
spenta!
“Tra la vita e la morte, scelgo la chitarra”, diceva un poeta: scelgo di
cantare al Signore, con la bocca, con il cuore e con le opere!
Gesù è colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20): è lo
Sposo (cf. Ef 5,25-27).
La Chiesa invoca: “Maranà tha: vieni, o Signore” (1Cor 16,22); e ogni
singolo discepolo dice con Paolo: “Vivo, però non più io, ma vive in me Cristo.
La vita che ora vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha
amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Rispondere all’amore con
l’amore è la vita dell’uomo. Ed è la vita stessa di Dio, Padre e Figlio.
694
v. 1: Allora sarà simile il regno dei cieli. Si parla del regno dei cieli nella
sua prospettiva finale. Qui sulla terra il regno è un cammino verso di lui, e
contiene insieme grano e zizzania, pesci buoni e cattivi, spose sagge e stolte,
chi incontra lo sposo e chi no!
dieci vergini. In Gen 1,27 si dice che Dio fece l’uomo a sua immagine e
somiglianza, maschio e femmina li creò. Dio però non è né maschio né
femmina! A sua immagine e somiglianza è la relazione tra i due, che è amore,
gioia, affidabilità, completezza, fedeltà, tenerezza, unione e fecondità. Ciò che
c’è di bello nell’unione sponsale, è pallido riflesso di Colui che è amore, e ci ha
fatti per amare come siamo amati. Lui stesso è lo sposo, la nostra altra parte,
che si dona a noi se l’accogliamo.
Il numero dieci rappresenta la totalità, la comunità: la Chiesa, sposa del
Signore (cf. Ef 5,27).
prese le fiaccole. Non sono né lampade ad olio, la cui fiamma debole si
spegne al vento, né lanterne, la cui luce è fioca. Si tratta di fiaccole luminose,
adatte per cortei e grandi sale, con alla base una boccia che contiene
combustibile. La fiaccola è il credente stesso. Acceso alla luce di Cristo, si fa lui
stesso luce del mondo: risplende per le sue opere buone, testimoniando ai
fratelli l’amore del Padre (cf. 5,14-16). Noi siamo figli della luce (1Ts 5,5), uniti
a Cristo, luce del mondo (Gv 8,12).
uscirono. La vita è tutta un’uscita, o, meglio, un “ac-cadimento”, un
“esodo”: un continuo cadere “da” una realtà “a” un’altra, un uscire da una
condizione a un’altra. Cadere e uscire è traumatico e lacerante: è una rottura
con il passato, necessaria per realizzare qualcosa di nuovo.
per l’incontro con lo sposo. L’uomo è di sua natura incompleto. Per
questo non è bene che sia solo (Gen 2,18): è fatto per l’altro. Amando l’altro,
realizza se stesso. Lo sposo è il Signore in persona, che in Gesù si è
indissolubilmente unito all’uomo. Il fine della nostra vita è incontrare colui, agli
occhi del quale siamo preziosi e degni di stima, perché ci ama di amore eterno
(cf. Is 43,4; Ger 31,3).
La Bibbia, dall’inizio alla fine, non parla che della “passione folle” di Dio
per l’uomo. Lui è lo sposo, e in lui ogni uomo ritrova la sua completezza:
695
“Capacem Dei, quidquid Deo minus est non implebit”. Per questo il primo
comando è quello di amare lui con tutto il cuore (22,34-40; vedi Os 2,21-25; Is
62,1ss; Ger 3,1-13; 31,1-7.21s; Ez 16,1ss; il Cantico dei Cantici; Ef 5,14-19; Ap
21-22).
v.2: cinque stolte/cinque sagge. Stoltezza e saggezza sono in pari
percentuale. Sta a noi far crescere l’una a spese dell’altra, o viceversa.
Saggezza è costruire sulla roccia anziché sulla sabbia (7,24-27), ascoltando e
facendo la volontà di Dio (7,21-23). Alla nostra libertà è dato essere giusti o
iniqui (13,40-43), buoni o cattivi (13,47-50), con o senza abito nuziale (22,11-
14), servi fedeli e saggi o iniqui e stolti (24,45-51), servi buoni e fedeli o cattivi
e paurosi (25,21.23.26), benedetti o maledetti (25,34.41).
v. 3: le stolte, prese le loro fiaccole, non presero olio. Stoltezza è non
avere ciò che dà luce. Ciò che conferisce luce al nostro corpo, fino a
trasfigurarlo, è l’amore del Padre effuso nei nostri cuori. “Svegliati, o tu che
dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà “ (Ef 5,14): amare è passare dalle
tenebre alla luce, dalla vita alla morte (1Gv 3,14). “Vegliate dunque
attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti ma da saggi,
profittando del tempo presente” (Eb 5,15). “Dio che ha detto: ‘Rifulga la luce
dalle tenebre’, rifulse nei nostri cuori per far splendere la conoscenza della
gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2Cor 4,6). Noi tutti siamo chiamati
a riflettere a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore, per
essere trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo
l’azione dello Spirito del Signore (cf. 2Cor 3,18).
L’olio è lo Spirito Santo, l’amore di cui arde Dio stesso, che il Figlio ci
comunica, perché amiamo i fratelli. Questo ci fa luminosi: ci rende figli della
luce, icona del Padre. Senza questo amore siamo stolti: andiamo contro la
nostra realtà di figli.
v. 4: le sagge presero olio in vasetti. La saggezza consiste nel far
provvista d’olio nel vaso prima dell’incontro con lo sposo. Il vaso è la persona
concreta (cf. At 9,15; 2Tm 2,20.21), nel suo corpo d’argilla che passa (2Cor
4,7; 1Ts 4,4): è in questo che si ama Dio con tutto il cuore e il prossimo come
se stessi (22,37s). La nostra vita quotidiana, spesa nell’amore, è un processo
di trasfigurazione nel Figlio, primogenito di molti fratelli (Rm 8,29s). Ogni
696
istante di tempo è come un “vasetto”: o è pieno d’amore o è un vuoto
ripiegamento su se stessi. La nostra vita terrena ci procura quella riserva
d’olio che arde in eterno: ogni atto di amore è divino! Il senso della nostra vita
è l’acquisizione dello Spirito Santo; ogni piccola cosa, come per il mercante, è
l’occasione in cui lo si guadagna o lo si perde.
v. 5: tardando lo sposo. Il Signore tarda (24,48); sembra assente e
lontano (vv. 14s.19). È però sempre presente sotto il suo segno (vv. 34-41. 42-
44), per chi sa vegliare e discernere. Lui è sempre con noi e sempre ci visita:
ogni fratello è il suo volto di Figlio. Ritarda la sua venuta ultima, perché ci
convertiamo all’amore (cf. 2Pt 3,8s). Ogni volta che accogliamo l’altro,
accogliamo lui. Lui viene alla fine, ma è già presente in ogni passo del nostro
cammino, che ci avvicina o allontana da lui, secondo che è vissuto o meno
nell’amore del prossimo.
si assonnarono tutte e dormirono. Assonnarsi in greco si dice “annuire
con il capo”, tipico di chi ha sonno. Questo ripetuto abbassare il capo per
rialzarlo, sono i cenni anticipati del “sì” ultimo a Dio. Allora chiniamo
definitivamente il capo e “dormiamo”: usciamo dalla vita terrena, saggi o stolti
che siamo, incontro allo sposo.
v. 6: a metà della notte. È l’ora in cui tutti dormono. La sua venuta
definitiva è quando tutti dormiamo. Proprio allora, nel cuore della tenebra, si
leva il grido del risveglio.
ecco lo sposo. Nella notte apriamo gli occhi su Dio, il nostro sposo!
uscite per l’incontro con lui. La morte è l’ultimo esodo per l’incontro con
lui. Allora saremo per sempre con lui (1Ts 4,17), senza veli, faccia a faccia (cf.
1Cor 13,12s). “Guarda lo sposo, ed esci all’incontro con lui”: è il senso della
vita. Se guardi a lui come fine, tutto si fa mezzo per andargli incontro!
v. 7: si svegliarono tutte quelle vergini e misero in ordine le loro
fiaccole. È la risurrezione, che prelude l’incontro (cf. 1Ts 4,15-18). Ognuno si
sveglierà con il suo corpo, che sarà con o senza olio, secondo le azioni
compiute in vita (cf. Gv 5,29).
v. 8: dateci del vostro olio, ecc. Le stolte chiedono alle sagge l’olio. Si
accorgono solo allora di esserne prive; la loro luce si spegne. L’olio non è
l’amore infinito di Dio per noi, che c’è sempre: è la nostra risposta al suo
697
amore. L’olio da acquistare in questa vita è lo Spirito Santo, lo Spirito del
Figlio, che cresce nell’amore del fratello.
v. 9: risposero le sagge: no. Questo olio nessuno ce lo può dare: la
nostra risposta d’amore non può essere che delegata ad altri. È la nostra
identità!
andate dai venditori e compratevene. Questa indicazione è data a noi,
che siamo vivi. Per chi è morto, è troppo tardi, come mostra bene il racconto. I
“venditori”, da cui possiamo comperare l’olio, sono i poveri, amando i quali
amiamo il Figlio e siamo accolti nel regno del Padre (cf. vv. 31-46). Chi vive
senza amore, perde la vita. Chi la perde per amore, la guadagna.
v. 10: allontanatesi esse, ecc. Tutta la loro vita fu uno stolto
allontanarsi da lui. Alla fine ciò diventa evidente: non hanno conosciuto lo
sposo.
quelle pronte entrarono con lui alle nozze. Chi ha amato e ha camminato
verso di lui, finalmente incontra l’amore della sua vita.
la porta fu chiusa. La morte chiude la porta del tempo utile per acquisire
l’olio. La partita è finita; il risultato dipende da ciò che si è fatto prima. È
importante capire il valore del presente: è sempre l’unico tempo disponibile, in
cui possiamo perdere o guadagnare la vita. C’è il pericolo di passare la prima
parte della vita a pensare a cosa si farà, e la seconda a cosa non si è fatto.
Qualunque cosa si abbia fatto o non fatto, “questo” è comunque il momento di
svegliarsi, di convertirsi all’amore.
v. 11: più tardi vengono anche le altre. Gesù dice queste parole per noi,
perché sappiamo che dopo è tardi. È questo l’oggi di Dio. Affrettiamoci ad
entrare finché dura quest’oggi (Eb 3,13; 4,11). Dura solo quanto la nostra vita,
che in ogni istante è finita. Questo non è detto per terrorizzare, ma per
responsabilizzare: bisogna convertirsi subito dalla stoltezza alla sapienza,
dall’egoismo stupido all’amore saggio.
Signore, Signore (cf. Lc 13,25ss). Non chi dice: “Signore, Signore!”,
entra nel regno, ma chi fa la volontà del Padre (7,21).
v. 12 non vi conosco. Chi non l’ha riconosciuto davanti agli uomini, non
è da lui riconosciuto davanti al Padre (10,32s). La sua risposta ultima a noi è
698
quella che noi ora diamo a lui. La nostra risposta è importante: il Signore la
rispetta, tanto da farla sua!
v. 13: vegliate dunque, ecc. È il senso di ciò che Gesù ha detto (24,42).
Nel seguito dirà come vegliare. Non sappiamo il giorno e l’ora della sua venuta
(24,36), perché ogni istante di vita è determinante per acquisire l’olio.
3. Pregare il testo
Da notare:
• dieci vergini che escono incontro allo sposo
• cinque sagge: hanno l’olio
• cinque stolte: non hanno l’olio
• lo sposo tarda
• tutte si assopiscono e dormono
• il grido di mezzanotte
• ecco lo sposo, uscite per l’incontro con lui
• al risveglio ci sono fiaccole con olio e senza olio
• nessuno mi può dare quest’olio: lo devo acquistare io
• dopo morte è troppo tardi: la porta è chiusa
• il valore del presente e di ogni piccola azione fatta per amore
• non vi conosco
• vegliate, perché non conoscete il giorno né l’ora.
699
4. Testi utili
Sal 45; Os 2,21-25; Is 62; Ger 33,1-13; 31,1-7.21-22; Ez 16; Cantico dei
Cantici; Mt 7,15-20. 21-27; 13,24-30. 47-50; 1Ts 4,15-18; Ef 5,14-20; Eb 3,7-
4,11; Ap 21-22.
700
100. SERVO CATTIVO E PAUROSO
25, 14 - 30
701
22 Ora, venuto anche quello dei due talenti, disse:
Signore, due talenti mi consegnasti;
ecco, altri due talenti ho guadagnato!
23 Gli disse il suo Signore:
Bene, servo buono e fedele;
su poche cose sei stato fedele,
su molte ti costituirò:
entra nella gioia del tuo Signore!
24 Ora venuto anche quello che aveva ricevuto un solo talento
disse:
Signore, ti conosco:
sei un uomo duro
che mieti dove non hai seminato
e raccogli dove non hai sparso,
25 e per paura mi allontanai
e nascosi il tuo talento nella terra;
ecco, hai il tuo!
26 Ora rispondendo il suo Signore gli disse:
Servo cattivo e pauroso,
sapevi che mieto dove non ho seminato
e raccolgo dove non ho sparso.
27 Dovevi tu dunque consegnare il mio denaro ai banchieri,
e, venendo, avrei recuperato il mio con interesse.
28 Toglietegli dunque il talento
e datelo a chi ha dieci talenti.
29 Poiché a chi ha sarà dato,
e sarà nell’abbondanza.
A chi non ha, anche ciò che ha sarà tolto.
30 E gettate il servo inutile nella tenebra esteriore;
là sarà il pianto e lo stridore di denti.
702
“Servo cattivo e pauroso”, dice il Signore a chi non ha “duplicato” il
capitale affidatogli.
Questa parabola è cara all’etica del capitalismo: i talenti sono da far fruttare,
l’abbondanza è segno di benedizione divina, l’indigenza di maledizione!
In realtà i talenti non sono le doti o i beni da moltiplicare; rappresentano
invece l’olio del brano precedente, che è l’amore verso i poveri del brano
seguente. Il talento è l’amore che il Padre ha verso di me, che deve
“duplicarsi” nella mia risposta d’amore verso i fratelli. Rispondere a questo
amore mi fa ciò che sono, figlio uguale al Padre.
Il Signore è andato lontano, elevato prima sulla croce e poi in cielo. Ma
non ci ha lasciati soli: ci ha dato il suo Spirito, e aspetta di essere riamato,
perché noi, amando, realizziamo la nostra identità. Lui stesso resta sempre
con noi, sotto il “suo” segno. È andato ad abitare tra i poveri, e ciò che
facciamo per loro, lo facciamo per lui (vv. 31-46). Siamo chiamati a fare con
loro ciò che lui per primo ha fatto con noi. Se il talento è il dono d’amore
ricevuto, il nostro amore per lui nei poveri è il talento che siamo chiamati a
guadagnare. Solo così diventiamo come lui, ed entriamo come figli nella gloria
del Padre suo e nostro.
La nostra vigilanza è saggia e operosa, non inerte. Chi non investe il suo
talento, lo perde. La causa del fallimento è la falsa immagine che abbiamo del
Signore. Se lo riteniamo cattivo ed esigente, il nostro rapporto con lui non è di
amore, ma legalistico, pauroso e sterile.
La parabola si articola in tre tempi: uno passato, in cui abbiamo ricevuto
il dono, uno presente, in cui dobbiamo farlo fruttare, e uno futuro, in cui ci
verrà chiesto conto di ciò che ora ne abbiamo fatto.
Il nostro atteggiamento di paura ci fa imboccare il vicolo delle tenebre
esteriori. La parabola stigmatizza questo atteggiamento, per svegliarci! Il
giudizio futuro non lo fa Dio. Lo facciamo noi qui e ora. Lui, alla fine, non farà
che leggere ciò che ora noi scriviamo. E lui legge in anticipo ciò che stiamo
scrivendo, perché possiamo correggerlo, finché c’è tempo.
Gesù è venuto per darmi il talento del suo amore, ed è andato lontano,
facendosi “forestiero”, presente in ogni altro.
703
La Chiesa conosce il dono ricevuto; e, in ogni altro, ama il suo Signore,
reduplicando il talento.
v. 14: Come infatti un uomo che emigra. Il Signore, dopo aver abitato
con noi, è emigrato in un paese lontano: è finito sulla croce, il punto più
lontano da Dio. Là si è fatto prossimo a ogni lontananza e sofferenza. Ciò che
ha fatto per noi andando in croce, è il talento che abbiamo ricevuto. Ciò che
noi facciamo ai fratelli poveri è il talento che noi guadagniamo: è la nostra
risposta al suo amore, che ci fa figli. “Chi fa la carità al povero, fa un prestito
al Signore che gli ripagherà la buona azione” (Pro 19,17).
chiamò i propri servi. Noi abbiamo la stessa dignità del Signore che è
venuto per servire (20,28).
consegnò loro i propri beni. Il suo bene è l’amore del Padre: la sua vita.
Andandosene, non ci ha abbandonati, ma ci ha lasciato il suo Spirito (27,50).
v. 15: diede cinque talenti, ecc. I talenti non sono le doti naturali, ma la
coscienza della sua grazia e del suo perdono (cf. 18,23ss). Tutto ciò che ho e
sono, l’ho ricevuto in dono (1Cor 4,7).
a ciascuno secondo la propria capacità. Ognuno ha un dono diverso
dall’altro. La diversità non serve solo a segnare i nostri limiti, ma ci apre
addirittura lo spazio di Dio, mettendoci con gli altri in una relazione, libera e
liberante, di amore e di dono (cf. 1Cor 12 - 13; Rm 12,1-21). Se non è così, la
diversità diventa lo spazio diabolico e satanico della divisione e dell’accusa,
dell’invidia e della rapina, della violenza e della morte - come già fecero
Adamo ed Eva, e, da Caino in poi, tutti i loro figli.
v. 16: trafficò e guadagnò altri cinque. I doni sono da “trafficare” per
“guadagnare”. Si trafficano investendoli in amore per i fratelli; così si
guadagna la propria identità di figli. È questo l’invito che Gesù fece al giovane
ricco per ereditare la vita eterna (19,16-30): è il primo e grande comando
(22,34-40). Gesù non ci esorta al profitto materiale, che provoca possesso e
liti, ma al profitto spirituale, che consiste nel dono e nella misericordia.
704
v. 17: ugualmente quello dei due. Ognuno deve investire il “suo” dono,
né più né meno. Non chi ha o dà di più si realizza, ma semplicemente chi dà se
stesso. La ricompensa infatti è uguale, a prescindere dai talenti. Non conta la
quantità, ma il fatto che tutto è dono, al quale si risponde donando tutto.
v. 18: quello che aveva preso uno solo, allontanatosi, ecc. Si allontana
da sé e dagli altri, mettendo sotto terra il suo dono, per paura di perderlo
nascose il denaro del suo Signore. Sa che il tesoro non è suo. Ma non ha
capito che gli è donato perché, “trafficandolo”, ne viva.
v. 19: dopo molto tempo. Il Signore torna dopo molto tempo: dopo tutto
il tempo che ci è accordato per vivere. Al suo ritorno ci ricompenserà nella
misura in cui avremo corrisposto al dono.
v. 20s: servo buono e fedele, ecc. Questo servo è buono, come l’unico
buono (cf. 19,17). Infatti è come lui: ha fatto dono di ciò che gli è stato donato.
E se, invece di cinque, avesse guadagnati quattro talenti? Sarebbe stato diviso
anche lui in due parti (24,51): 1/5 sarebbe stato bruciato col fuoco, 4/5
sarebbe entrato nella gioia del suo Signore. Ma pare che l’amore, se è
corrisposto, è sempre totale, almeno nell’intenzione!
poche cose / molte cose. La fedeltà nelle cose quotidiane ci guadagna la
dimora eterna. I nostri piccoli gesti di amore verso i fratelli ci fanno diventare
figli. L’amore, con cui compiamo ogni azione, è l’olio, che ci fa brillare della
stessa luce del Padre.
entra nella gioia del tuo Signore. Questa è la grande ricompensa: la sua
gioia diventa nostra!
vv. 22s: quello dei due talenti, ecc. Anche questi, pur avendo ricevuto
meno della metà del precedente, reduplica il suo dono, e riceve dal Signore la
stessa ricompensa infinita.
v. 24: quello che aveva ricevuto un solo talento. Se anche lui l’avesse
investito nell’amore, avrebbe guadagnato un altro talento, e avrebbe avuto la
stessa ricompensa degli altri due.
Signore, ti conosco; sei un uomo duro. Costui ha una conoscenza falsa
del Signore. Allo stesso modo di Adamo, non considera se stesso come dono,
ma come debito. Ha rancore verso il creditore: gli deve la vita, e vorrebbe
riscattarla, in modo che fosse propria. Quest’uomo sembra giusto, perché
705
restituisce ciò che gli è dato. In realtà pecca gravemente contro il Signore e
contro di sé: rifiuta lui come amore, e se stesso come dono. Il suo rapporto con
Dio è quello di un contabile, non quello di un figlio.
mieti dove non hai seminato, ecc. Non è vero: il Signore ha seminato
dovunque amore, che germina amore. Il seme che produce solo se stesso, non
è un seme! Si raccoglie sempre molto di più di quanto si semina, altrimenti è
inutile seminare.
v.25: per paura mi allontanai e nascosi. Agisce come Adamo: per paura di un Dio cattivo, si
allontana e nasconde da lui, finendo nella morte.
ecco: hai il tuo! Restituire un dono è il massimo insulto! Gli altri
rispondono all’amore con altrettanto amore e ottengono la pienezza di gioia di
Dio. Questi seppellisce la propria vita sotto terra. È tragica la vita di chi pensa
di doverla restituire!
v. 26: servo cattivo e pauroso. La sua cattiveria nasce dall’aver
considerato cattivo Dio. Per questo è “cattivo”, catturato dalla paura.
sapevi che mieto, ecc. Ognuno di noi sa che ha qualcosa da fare che
spetta a noi e non a Dio: dare la nostra libera risposta. Per questo dobbiamo
superare l’inganno che ci fa considerare cattivo Dio e ci blocca nella paura.
v. 27: banchieri / interesse. ”. Il “capitale” non è da restituire o
conservare gelosamente, ma da investire in qualche modo. Anche se uno ha
molti blocchi, può sempre fare qualcosa; per esempio dare ai “banchieri” - che
sono quelli che danno ai poveri -, per ottenere almeno un “interesse”. Dio è
interessato a questo, perché è nostro interesse vitale. Il di più che gli diamo è
infatti la nostra identità di figli, sufficiente per sentirci dire, come agli altri:
entra nella gioia del tuo Signore.
v. 28: toglietegli dunque il talento. Chi vuol salvare la sua vita, la
perderà (16,25). Chi non ama, distrugge se stesso: in lui muore l’amore
ricevuto. Chi vuol trattenere il respiro per non perderlo, muore soffocato!
v. 29: a chi ha, sarà dato, ecc. Chi risponde all’amore è in grado di
ricevere e dare sempre più amore, crescendo di continuo nella gioia senza fine
del suo Signore.
a chi non ha, anche ciò che ha sarà tolto. Chi non risponde all’amore,
non accetta neppure l’amore che gli è stato dato!
706
v. 30: gettate il servo inutile nella tenebra esteriore. Chi non ha amato,
non è figlio della luce, non ha l’olio, non ha la vita di Dio. È fuori: fuori di sé e
fuori di Dio. È nella tenebra, dove invece di gioia c’è pianto, invece di sorriso
stridore di denti.
3. Pregare il testo
Da notare:
• il Signore emigra
• consegna a noi i suoi averi
• a ciascuno in misura diversa
• cosa fa il primo servo
• cosa fa il secondo servo
• cosa fa il terzo servo
• la risposta del Signore ai primi due servi
• cosa dice il terzo servo al Signore e che risposta ottiene.
4. Testi utili
Sal 112; Gen 3,1ss; 4,1-16; Sap 2,23s; Mt 19,16-30; 22,34-40; 1Cor
4,7; 12,4-11;
Rm 12,1-21.
707
101. QUANTO FACESTE A UNO DEI PIÙ PICCOLI
DI QUESTI MIEI FRATELLI
LO FACESTE A ME
25,31-46
708
Amen, vi dico:
quanto faceste a uno dei più piccoli
di questi miei fratelli,
lo faceste a me.
41 Allora dirà anche a quelli alla sua sinistra:
Andatevene da me, maledetti,
nel fuoco eterno
preparato per il diavolo e i suoi angeli.
42 Poiché ebbi fame e non mi deste da mangiare,
ebbi sete e non mi dissetaste,
43 ero straniero e non mi accoglieste,
nudo e non mi vestiste,
malato e in carcere e non mi visitaste.
44 Allora risponderanno anch’essi dicendo:
Signore, quando ti vedemmo
affamato o assetato
o straniero o nudo
o malato o in carcere,
e non ti servimmo?
45 Allora risponderà loro dicendo.
Amen, vi dico:
quanto non faceste
a uno dei più piccoli
di questi miei fratelli,
neppure a me lo faceste!
46 E andranno questi al castigo eterno,
mentre i giusti alla vita eterna.
“Quanto faceste a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo faceste a
me”, risponderà il Signore a chi chiederà, alla, fine quando mai l’ha visto. Per
709
cinque volte escono gli avverbi “allora” e “quando”: “allora”, cioè alla fine,
vedremo che il “quando” è ora. E il “segno” della sua venuta è quello dei “più
piccoli di questi miei fratelli”, con i quali lui è sempre presente in mezzo a noi.
Il finale del discorso escatologico risponde quindi con esattezza, anche se in
modo sorprendente, alla domanda del “quando” e di “quali i segni”, che i
discepoli gli hanno posto all’inizio (24,3). La prima sua venuta evidente sarà
tra due giorni, quando non sarà riconosciuto né dai capi né da Pietro, pur
essendo “l’ora” in cui il Figlio dell’uomo siede alla destra del Padre e viene
sulle nubi dal cielo (cf. 26,64).
Il c. 25 contiene tre racconti “graduali” su cosa bisogna fare “ora” in
vista del “fine”: ora bisogna acquistare l’olio (vv. 1-13), che consiste nel
“raddoppiare” il dono d’amore ricevuto (vv. 14-30), amando il Signore nei
fratelli più piccoli (vv. 31-46).
Più che di una parabola, tranne che per i vv. 32 - 33, si tratta di una
“rappresentazione” scenica del giudizio finale, strutturata sul contrappunto tra
chi sta alla destra e chi sta alla sinistra del re. Per i due gruppi c’è una
sentenza opposta: “venite, benedetti” o “andate via da me, maledetti”. Segue
la motivazione: “mi avete” o “non mi avete” soccorso nel bisogno. Alla
domanda comune: “Quando ti abbiamo visto?”, segue la risposta: “Ciò che
avete fatto, o non fatto, ai più piccoli, l’avete fatto, o non fatto, a me”.
Il giudizio che il re farà di noi “allora” è lo stesso che noi facciamo ora al
povero. In realtà siamo noi a giudicarlo, accogliendolo o respingendolo. Lui
non farà altro che costatare ciò che noi facciamo. Alla fine leggerà ciò che noi
liberamente abbiamo scritto. Ce lo dice in anticipo, con una rappresentazione
efficace, per aprirci gli occhi su ciò che stiamo facendo ora.
Il brano, splendido e unico, è una sintesi della teologia di Matteo: siamo
giudicati in base a ciò che facciamo all’altro (7,12). Ogni altro, è sempre
l’Altro! Infatti il primo comandamento è uguale al secondo (22,39), perché il
Signore stesso si è fatto nostro prossimo ed è sempre con noi (28,20) sotto il
segno del Figlio dell’uomo (24,30), che è lo stesso di Giona (12,39s): quello del
Crocifisso, che ha il volto di tutti i poveri della terra.
Il racconto pone al centro il Figlio dell’uomo, che si identifica con gli
ultimi. Accoglierlo o meno significa accogliere o meno la salvezza.
710
Il testo è sommamente suggestivo, aperto a molti sensi e sviluppi, in
ogni direzione. Dio infatti è amore, e l’amore abbraccia tutto e tutti.
Il messaggio universale che se ne può ricavare è che ogni uomo è
giudicato in base al suo amore per il piccolo e il debole. Non è però conforme
al testo ritenere che il rapporto con Dio non sia importante. Al contrario:
l’amore per l’ultimo è amore per lui stesso. Un’interpretazione atea o post-
cristiana non corrisponde al testo.
L’amore infatti è premio a se stesso perché è la gioia di una relazione, e
la relazione suppone sempre l’altro, e infine l’Altro. L’amore per il prossimo
può essere un imperativo categorico, ma solo se si tengono presenti tre cose:
dietro un imperativo c’è la voce di uno che parla, l’amore suppone sempre
un’alterità, uno ama solo se e nella misura in cui è amato. Isolare il comando
dell’amore verso l’ultimo dall’esperienza dell’amore di Dio che si è fatto
ultimo, è farne un principio senza senso, un’ideologia incapace di generare un
comportamento positivo.
Il comando di amare il più piccolo è certamente il fondamento più ampio
possibile di un agire che porti alla comunione tra gli uomini. Gesù pone
effettivamente un criterio di azione che va al di là di ogni steccato
religioso/ideologico. L’amore di Madre Teresa per i diseredati della terra è
stato il linguaggio più universale e comprensibile, che abbia parlato al mondo
di oggi del mistero di Dio e dell’uomo.
Per capire il senso proprio di questo brano è importante sapere che
viene dopo i tre brani precedenti e immediatamente prima della passione,
dove il re ci si presenta povero e deriso, estraneo a tutti e condannato, legato
e percosso, nudo e ferito, che finisce in croce. Nei più piccoli dei fratelli, il
lettore cristiano vede il suo re. In loro infatti continua la passione del Signore
per la salvezza del mondo (Col 1,24).
C’è chi intende questo racconto in modo non universale, ma restrittivo: è
il giudizio dei pagani, che saranno giudicati non per la fede, che non hanno,
ma per il loro amore verso gli ultimi. Questi ultimi, chiamati da Gesù “miei
fratelli”, sono, secondo alcuni autori antichi e recenti, i discepoli stessi, che
staranno al suo fianco per giudicare il mondo (cf. 19,28!). Sarebbe a dire che
la salvezza o meno viene dall’accoglienza o meno dei discepoli.
711
È comunque chiaro che il testo si rivolge al lettore cristiano: il suo essere
“benedetto” o “maledetto” dipende dal suo amore, dato o negato, ai fratelli
nel bisogno, nei quali il Signore viene a visitarlo.
L’amore che abbiamo verso l’altro è verso Dio: mi realizzo come figlio
vivendo da fratello. Tutta la legge infatti si riduce ad amare il Signore e il
prossimo con lo stesso atto di amore, perché lui si è fatto mio prossimo e
fratello nel Figlio. Chi non ama Dio e non osserva la sua parola, non ama i figli
di Dio (1Gv 5,2).
In conclusione possiamo dire che il giudizio finale, come tutto il discorso
escatologico, ci rimanda dal futuro al presente.
L’etica si fonda sull’escatologia. L’uomo è tale perché agisce
ragionevolmente, per un fine che desidera. Questo è la meta verso cui tende,
senza la quale non va da nessuna parte –il suo agire si riduce a un agitarsi
insensato, spinto dalla necessità e privo di libertà. Il fine dell’uomo è diventare
come Dio. L’errore di Adamo non è il voler diventare come lui (Gen 3,5), ma il
non sapere chi è lui. Si diventa come Dio amando, perché lui è amore.
Gesù è sempre con noi (28,20) come i poveri (26,11), come il più piccolo
tra i fratelli.
La Chiesa, nel suo amore per l’ultimo, ama il suo Signore; e sa che non è
lei a salvare il povero, ma il povero a salvare lei.
v. 31: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria (cf. 24,30). Si
tratta della sua venuta, che conclude la storia dell’uomo e del mondo. Questa
venuta non è una meteora che scende dal cielo: è la meta del cammino
affidato alla nostra responsabilità.
v. 32: saranno riunite davanti a lui tutte le nazioni. Normalmente
“nazioni” significa “pagani”. Quando però si parla del giudizio finale, si
intendono tutti gli uomini, convocati davanti al trono di Dio.
separerà gli uni dagli altri. Il giudizio è una separazione, compiuta in
base al comando dell’amore. Non c’è altra distinzione tra gli uomini. Ma tale
712
giudizio spetta a Dio, che è misericordia, e non a noi (cf. 13,24-30. 38-43).
Infatti se noi giudichiamo, siamo giudicati (7,1), perché senza misericordia.
le pecore dai capri. Non è chiaro perché un pastore separi pecore da
capri. A meno che si intenda per “pecore” gli animali minuti in genere e per
“capri” i capretti (cf. v.33), animali destinati al macello. Allora il significato è
chiaro: si divide tra chi è destinato alla vita e chi alla morte. Comunque è
evidente che gli uomini saranno giudicati secondo il comando dell’amore.
v. 33: le pecore alla sua destra, i capretti invece alla sua sinistra. La
separazione, alla fine, sarà netta: gli uni entrano nel regno del Padre insieme
con il re, il Figlio, perché hanno agito da figli verso i fratelli; gli altri ne sono
esclusi.
v. 34: allora dirà il re. Il re è il Figlio dell’uomo! Egli è il giudice, che
viene a giudicare la terra e a rivelare ai popoli la sua giustizia (cf. Sal 94; 96;
97; 98).
venite, benedetti del Padre mio. È la sentenza. La salvezza è “venire”
verso Gesù, il Figlio, per partecipare della sua stessa benedizione del Padre.
ricevete in eredità il regno preparato per voi dalla fondazione del
mondo. Dio ci ha creati fin dall’inizio per essere figli nel Figlio (Col 1,15 - 20),
eredi della sua stessa vita. Ci ha fatti al sesto giorno per giungere alla gioia del
settimo giorno.
vv. 35s: poiché ebbi fame, ecc. Il motivo della sentenza è che ci siamo
comportati da fratelli verso il Figlio: lui è il povero, al quale è data la
beatitudine del regno (5,3). Accogliere il povero è accogliere il re della gloria.
Le “opere di misericordia corporali” sono il metro di giudizio. Fame e sete
portano alla morte fisica, essere straniero e nudo alla morte morale, essere
malato e carcerato ad ambedue. Il Crocifisso è il più piccolo dei nostri fratelli,
che si è fatto ultimo di tutti.
Il vangelo è scritto per il credente, perché non si accontenti di
acclamare: “Signore, Signore!”, ma faccia la volontà del Padre (7, 21-23). Lui è
amore e misericordia: suo figlio è chi, come lui, ama tutti (cf. 5,43-48). Il
comando dell’amore è la via della vita; chi non lo segue, si procura la morte
(cf. Dt 30,15-20).
713
vv. 37ss: quando ti vedemmo, ecc. Per tre volte gli fanno questa
domanda, alla quale Gesù risponde, rispondendo insieme alla domanda iniziale
sul “quando” e quali i “segni” della sua venuta per il giudizio (24,3). Il
“quando” del giudizio è la venuta sotto il suo segno, che è quello del povero.
Lui è sempre con noi, presente in tutti i crocifissi, sacramento di salvezza per il
mondo.
v. 40: quanto faceste a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo
faceste a me. Il Signore, come vedremo nei due capitoli seguenti, si è fatto
servo e schiavo di tutti, oggetto della nostra violenza. Siamo chiamati a
riconoscerlo e amarlo.
I suoi fratelli più piccoli, “questi” che stanno vicino a lui e con i quali si
identifica, sono quelli come lui: gli affamati e gli assetati, gli esclusi e i nudi, i
malati e i carcerati. Sono innanzitutto i discepoli stessi (10,22ss), che hanno
esposto la loro vita per il Signore e si sono fatti piccoli come lui. Accogliendo
questi, accogliamo lui (10,40-42; 18,4s). Insieme con il loro Maestro, ora
siedono sul trono per il giudizio (20,24-28; 19,28). Per questo la “missione” è
“in povertà” (10,1ss): i discepoli sono riconoscibili come il Signore che salva,
solo se sono simili a lui. Diversamente non sono agnelli, ma lupi (10,16).
Questa interpretazione del testo, che vede nei più piccoli dei fratelli i
discepoli, è probabilmente quella intesa da Matteo. Ma è conforme allo spirito
del vangelo vedere in ogni piccolo della terra il volto del Signore.
v. 41: andatevene da me, maledetti. È la sentenza di condanna: la
perdizione è la lontananza da lui, il Figlio, che stabiliamo noi stessi nel
momento presente (cf. Lc 16,19-31). Lontani da lui, siamo lontani da noi
stessi. Se i primi sono “benedetti del Padre”, questi non sono maledetti da lui,
ma da se stessi. Il Padre pone tutti nella benedizione del Figlio. Chi si allontana
da lui, rifiutando il fratello, esce dalla benedizione.
nel fuoco eterno. Invece del regno eterno preparato dal Padre per i figli,
c’è il fuoco eterno per il male che abbiamo fatto ai fratelli (cf. 11,20-24). Tutto
ciò che in noi non è amore, è perdizione, destinato al fuoco (cf. 1Cor 3,10-17).
vv. 42s: poiché ebbi fame, ecc. Come nella scena precedente, la
sentenza è seguita dalla motivazione: non aver accolto il Signore nel povero.
714
v. 44: Signore, quando ti vedemmo. Giusti ed empi fanno la stessa
domanda. Il racconto è sempre per il lettore, perché, identificandosi con
l’empio, impari in anticipo la lezione
v. 45: quanto non faceste, ecc. La risposta è identica alla precedente,
ma in negativo. Con chiarezza il Signore ci mette davanti l’unica via, che è
quella della vita. Non sceglierla, o prenderne altre, è realizzare la propria
morte (7,12-14).
v. 46: castigo eterno/vita eterna. Il nostro destino eterno si gioca nella
capacità di vedere e amare il Signore negli ultimi. Tutto è nelle nostre mani -
anche il Signore, come tutti i piccoli. Chi ama è passato dalla morte alla vita
(1Gv 3,14).
3. Pregare il testo
Da notare:
• la venuta del Figlio dell’uomo nella sua gloria per giudicare tutti
• la separazione tra pecore e capretti
• venite, benedetti del Padre mio
• ricevete in eredità il regno preparato da sempre per voi
• ebbi fame e sete, ero immigrato e nudo, malato e carcerato
• il povero è il mio re? Cosa faccio per lui?
• quando ti vedemmo?
• ciò che faccio a uno degli ultimi lo faccio a lui
715
• andate via da me, maledetti
• ebbi fame e sete, ecc.
• ciò che non faccio ai poveri, non lo faccio al Signore
• castigo eterno/vita eterna.
4. Testi utili
Sal 94; 96; 97; 98; Dt 30,1-20; Sap 5; Lc 16,19-31; Mt 7,12-14; 22,34-40;
Rm 13,8-10;
1Cor 3,10-17; 12,12 – 13,13; Gc 2,1ss; 5,1-11.
26, 1 - 16
716
di unguento molto prezioso
e lo versò sulla sua testa
mentre giaceva a mensa.
8 Ora alla vista si sdegnarono i discepoli ,
dicendo:
Perché questo spreco?
9 Si poteva infatti vendere questo a caro prezzo
e dare ai poveri.
10 Ora Gesù, saputo questo, disse loro:
Perché date fastidio alla donna?
Infatti un’opera bella ha fatto a me;
11 i poveri infatti li avete sempre con voi,
me invece non sempre avete.
12 Versando infatti questo unguento sul mio capo,
lo fece per la mia sepoltura.
13 Amen vi dico:
ovunque sia annunciato questo vangelo in tutto il mondo,
si parlerà anche di ciò che essa fece
in ricordo di lei.
14 Allora uno dei Dodici,
quello chiamato Giuda Iscariota,
andato dai sommi sacerdoti,
15 disse:
Cosa volete darmi,
e io ve lo consegnerò?
Ora quelli pattuirono con lui
trenta pezzi d’argento.
16 E da allora cercava il momento buono
per consegnarlo.
717
“Ha fatto un’opera bella a me”, dice Gesù della donna. Unica persona
approvata da lui senza riserve, questa donna è la sola che fa una cosa - e
quale cosa! - per colui che si è fatto tutto a tutti. Riconosce infatti in lui, il più
piccolo tra gli uomini, il suo Signore. Mentre lui sta andando in croce, lei
risponde al suo amore con altrettanto amore!
Dal suo vaso esce un profumo che riempirà il seguito del vangelo. Di
esso odorerà il corpo del Signore sulla croce e fin dentro il sepolcro; nella
risurrezione si sentirà ovunque sarà annunciato il vangelo!
Il racconto, posto all’inizio della passione, è l’anticipo di ciò che il Signore
farà - sarà lui il profumo effuso! - e della risposta che darà chi lo avrà capito. Il
gesto della donna, irritante e delicato, sublime e misterioso, è lo stesso del
Signore, e, alla fine, sarà quello della Chiesa, sua sposa. Chi fa come questa
donna, ha lo stesso “olio” di cui arde lo stesso Signore, reduplica il dono
ricevuto, facendo per lui ciò che lui ha fatto per lei.
La casa di Betania, una volta piena di lebbra, ora profuma di vita.
Protagonista del racconto, è l’unguento prezioso. Il profumo, di sua natura, si
dona a tutti, senza negarsi ad alcuno; il suo essere è espandersi in dono
gradito, come Dio. Il nome dello Sposo è “profumo effuso”(Ct 1,3), presenza
piacevole e gioiosa. L’olfatto, senso primordiale, subito lo percepisce come
piacevole e attraente.
L’unguento, che la donna versa sul corpo di Gesù, indica il “vangelo
vivo”: in esso si avverte la Presenza, il Nome. Dio è amore, e l’amore è
presente ovunque è amato. Questo profumo rappresenta la creazione nuova,
dove Creatore e creatura vivono nella reciprocità d’amore, in una passione che
vince la morte (Ct 8,6).
I discepoli non capiscono, anzi disapprovano la donna. Ma ricordano e
racconteranno! Ora solo Gesù la capisce, come lei sola capisce lui!
Il brano si articola in tre parti. Nei vv. 1-5 i capi cercano il momento
giusto per eliminare Gesù; nei vv. 6-13 la donna, proprio allora, lo incontra
come lo Sposo; nei vv. 14-16 Giuda, subito dopo, lo consegna.
Il brano, strutturato sul contrasto tra Gesù e la donna da una parte, e i
discepoli dall’altra, rappresenta le due economie, i due diversi modi in cui
l’uomo può amministrare la sua casa. Da una parte c’è amore, che versa il
718
profumo, spreca, compie un’opera bella ed è annuncio vivo del vangelo;
dall’altra c’è egoismo, che vende, si sdegna e dà fastidio. La prima è
l’economia di Dio, che è la stessa di Gesù e della donna; la seconda quella dei
nemici di Gesù, che si impadroniscono per uccidere. Le due economie sono
anche rese sensibili da due odori, uno attraente e l’altro repellente: il profumo
di vita e la puzza della lebbra.
La stessa cornice oscura del racconto non fa che esaltare, per contrasto,
la bellezza della scena. Ciò che avviene in questo brano è la pasqua anticipata,
il passaggio dalla morte alla vita.
Gesù, il Figlio che si è fatto il più piccolo dei fratelli, sta andando in croce
per dare la vita. Dal suo corpo, come dal vaso, uscirà per la prima volta il
profumo di Dio che tutti avvertiranno, anche i più lontani (cf. 27,54).
La Chiesa, come la donna, riconosce in lui il suo Cristo e Signore. Non
solo a parole, come Pietro, ma con i fatti. Non dopo un momento di successo,
ma nell’ora della “sua” gloria. L’unguento che essa versa è amore che
risponde all’amore: sposo e sposa vivono nella gioia di un unico amore, che
espande l’unico profumo.
719
brama di avere, di potere e di apparire sono le tre maschere del male del
mondo, che sono in ciascuno di noi. La loro violenza sarà portata su di sé dal
Giusto, che non possiede nulla e non domina nessuno, ma dà tutto e libera
tutti.
v. 4: per impadronirsi di Gesù. “Impadronirsi” è la radice del male
comune. La vita è dono: impadronirsi è ucciderla. In questa pasqua, mentre
noi mettiamo le mani sul Signore e gli rubiamo la vita, lui si mette nelle nostre
mani e ce la consegna, ponendo fine al nostro gioco mortale.
con inganno. Chi si impadronisce, sempre inganna. Soprattutto se
stesso!
ucciderlo. L’inganno dell’impadronirsi toglie la maschera nel suo
risultato: uccide!
v. 5: non nella festa, ecc. Invece sarà proprio nella festa di pasqua che
si compie la pasqua!
v. 6: Gesù in Betania. La scena si svolge in Betania, che significa “casa
del povero”. Gesù entra con il suo dono nella nostra povertà, facendosi il più
povero tra i fratelli.
nella casa di Simone il lebbroso. La casa ricorderà, invece che il lezzo di
morte del suo padrone, il profumo di vita del suo ospite.
v. 7: una donna. Non è detto il nome. In Mc 14,3ss è anonima, come qui.
In Gv 12,1ss è Maria, sorella di Marta e di Lazzaro. Luca 7,36ss, che non narra
questa scena, ne riferisce una analoga, che si svolge nella casa di Simone il
fariseo (!); la protagonista è una peccatrice, che più tardi sarà identificata con
Maria di Magdala, nominata subito dopo, dalla quale sono stati scacciati sette
spiriti (Lc 8,2). Maria sorella di Marta, Maria di Magdala e la peccatrice sono
probabilmente tre donne diverse. È tuttavia da notare che i vari personaggi
del vangelo non sono che i vari aspetti di un’unica persona: il lettore.
un vasetto di alabastro di unguento molto prezioso. Questo profumo,
molto prezioso, è il protagonista del racconto. In Mc 14,3 si specifica che si
tratta di nardo. Viene dall’India - la qualità migliore cresce ad altissima quota -,
e si fa con le radici. Il fiore stesso è sacrificato per dar vita a questo profumo.
Il profumo è una metafora che bene esprime Dio: è dono di sé, e non si
può non sentirlo, perché inebria della sua presenza. Il naso subito fiuta la
720
differenza tra ciò che puzza e ciò che è gradevole. Purtroppo basta
un’influenza ad ottundono l’olfatto! Anche tra i discepoli, che reagiscono con
sdegno. In Ct 1,3 il nome dello Sposo è “profumo effuso”: l’essenza di Dio, che
è amore, è comunicarsi agli altri. In ebraico la parola profumo (shemen)
richiama la parola Nome (shem): il “Nome”, ineffabile, è percepito come
profumo.
lo versò sulla sua testa. È un gesto di consacrazione. Pietro lo aveva
riconosciuto a parole dopo il dono del pane (16,16). Questa donna, mentre si
fa pane, dà se stessa a lui nel suo dono, e lo consacra re (messia o cristo
significa “unto”), sacerdote, vittima e altare. Nel più piccolo degli uomini ama
il suo Signore che si è fatto servo e schiavo di tutti, facendo per lui quello che
lui ha fatto per lei. È la prima persona che fa qualcosa per lui; ed è totalmente
approvata da lui, senza riserve! In lei si compie il desiderio del Signore: la
sposa finalmente ama lo sposo! L’unico profumo - l’amore che è la vita di Dio -
unisce i due in una sola carne.
v. 8: si sdegnarono i discepoli. Questo sdegno davanti al profumo, più
che da commentare, è da sentire dentro di sé. È lo stesso scandalo che i
discepoli hanno davanti al Signore che si dona (v. 31).
perché questo spreco? È la domanda davanti al profumo: la stessa che ci
facciamo tutti davanti alla croce. Chi non accetta questo spreco, non capisce il
vangelo e non può riconoscere nel Crocifisso il Figlio di Dio (27,54). L’amore è
spreco, gratuito e totale, fino al dono di sé. Dio è amore! Questo spreco è
rivelazione di Dio nella sua essenza, e realizzazione piena dell’uomo a sua
immagine e somiglianza.
v. 9: si poteva vendere. Come davanti al pane (Mc 6,36), ora anche
davanti al profumo i discepoli pensano al comprare/vendere. Sono ancora
nell’economia del possesso, non in quella del dono. Per questo si
scandalizzeranno di Gesù: chi lo venderà, chi lo rinnegherà e chi fuggirà.
dare ai poveri. Gesù ha appena detto che bisogna dare ai poveri (25,31-
46). Ma si può dare in due modi: comprando/vendendo per possedere, oppure
donandosi per amore. Questa donna non dà qualcosa ai poveri: dà se stessa al
più piccolo dei poveri, che è il suo Signore che va in croce.
721
v. 10: Gesù, saputo questo, disse. La donna non dice nulla, come Gesù
davanti al sinedrio e a Pilato (v. 63; 27,14). Gesù è la sua Parola, che lei stessa
incarna.
perché date fastidio alla donna? La loro animosità si riversa sulla donna:
non accettano questo spreco!
un’opera bella. Richiama la Genesi, quando Dio “fece bella” ogni cosa.
Questa donna riporta la creazione alla bellezza originaria nella quale Dio l’ha
fatta sin dall’inizio. Tutto è stato creato per la bellezza di ciò che questa donna
fa: il suo atto riscatta il mondo. Dio ha fatto le sue creature per amore, perché,
nella risposta d’amore dell’uomo, tutto si unisca al suo Creatore.
ha fatto a me. Gesù è, ora e sempre, il più piccolo tra i fratelli.
Nell’amore per lui si ama insieme Dio e il prossimo, compiendo tutta la legge.
v. 11: i poveri li avete sempre con voi, ecc. Saranno sempre con noi,
come il Risorto, sino alla fine del mondo (28,20). Lui infatti si presenta sempre
a noi nella storia come il Crocifisso, nella nudità del povero (cf. 25,40.45) -
corpo spezzato e dato per la nostra salvezza. Sarà fatto a lui tutto ciò che
faremo per il più piccolo dei suoi fratelli.
v. 12: lo fece per la mia sepoltura. Sarà inutile ungere il suo corpo
crocifisso (cf. Mc 16,1), perché sarà risorto. L’amore non è per un morto, ma
per il Vivente.
v. 13: ovunque sia annunciato questo vangelo. Il vangelo è l’annuncio di
Gesù, Cristo e Figlio di Dio: è il ricordo di quanto ha fatto e detto (At 1,1) colui
che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).
si parlerà anche di ciò che essa fece in ricordo di lei. Gesù dice che il
vangelo è il racconto di ciò che questa donna ha fatto: è il ricordo di lei! Si
identifica quindi con lei! Nella risposta d’amore, l’amata si fa uno con l’amato!
Dio e uomo, nell’amore reciproco, vivono dello stesso Spirito: sono un’unica
vita!
v. 14: allora. Questo avverbio di tempo esce di continuo nel discorso
escatologico, come pure nel racconto della passione, che ne è la realizzazione.
L’“allora” della fine è l’“ora” della passione di Gesù, “quando” noi, invece di
fare come la donna, facciamo come Giuda e gli altri. Il profumo è il “giudizio”:
siamo tra coloro che lo versano o tra coloro che lo vendono?
722
Il racconto del vangelo vuol farci identificare con i discepoli, con Giuda e
con i nemici di Gesù, che romperanno il vaso prezioso dal quale uscirà
l’essenza di Dio. Solo “allora”, davanti al suo spreco, anche noi, con il
centurione e i soldati, riconosceremo chi è il Signore (27,54). Allora, come
questa donna, sapremo rispondere con altrettanto spreco.
v. 15: cosa volete darmi? Il dono, di prezzo incalcolabile, viene venduto
e comprato. Il prezzo pattuito è di trenta pezzi d’argento: il valore di un
somaro o di uno schiavo. Infatti è diventato schiavo, e ha preso l’asina come
simbolo del suo regno.
v. 16: il momento buono. La consegna di Gesù sarà proprio nella
Pasqua: la croce, segno del Figlio dell’uomo, è il momento buono per
incontrare il Signore.
per consegnarlo. Consegnare (o tradire = tra-dare: dare da una mano
all’altra), è la parola fondamentale della passione. Giuda “consegna” Gesù ai
suoi nemici, questi a Pilato, Pilato al volere della folla (Lc 23,25), e questa alla
croce. Ma Gesù steso “si consegna” - ed è “consegnato” dal Padre - nelle mani
dei fratelli: è una consegna di sé, fino a dare al vita.
La “consegna”, che l’uomo fa del Signore, è la stessa che lui fa di sé.
L’azione dell’uomo che rapisce, è la medesima del Signore che si dona - così si
“tradisce” nel suo amore per noi. La nostra “tradizione” ha al centro questa
“consegna”, di cui viviamo facendo perenne ricordo e rendimento di grazie.
3. Pregare il testo
723
vendere, danaro e consegnare da una parte, e dall’altra consegnarsi,
versare il profumo, sprecare, fare un’opera bella, annunciare il vangelo,
ricordare. Posso sentire due odori: la lebbra che puzza di morte, l’unguento
che profuma di vita.
4. Testi utili
724
103. PRENDETE E MANGIATE:
QUESTO È IL MIO CORPO
26, 17 - 35
725
26 Ora, mentre essi mangiavano,
Gesù, avendo preso il pane
e avendo benedetto,
lo spezzò
e, dando ai discepoli,
disse:
Prendete, mangiate:
questo è il mio corpo!
27 E avendo preso il calice
e reso grazie,
lo diede loro dicendo:
Bevetene tutti;
28 questo infatti è il mio sangue dell’alleanza,
versato per molti in remissione dei peccati.
29 Ora vi dico:
da ora non berrò più di questo frutto della vite
fino a quel giorno quando lo berrò nuovo
con voi nel regno del Padre mio.
30 E, cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
31 Allora dice loro Gesù:
Tutti voi sarete scandalizzati a causa mia questa notte.
È scritto infatti:
Percuoterò il pastore
e saranno disperse le pecore del gregge.
32 Ma dopo che io sarò risuscitato,
vi precederò in Galilea.
33 Ora, rispondendo, Pietro gli disse:
Se tutti si scandalizzeranno a causa tua,
io mai sarò scandalizzato!
34 Gli disse Gesù:
Amen ti dico che in questa notte,
prima che il gallo canti,
tre volte mi rinnegherai!
35 Gli dice Pietro:
Anche se è necessario che io muoia con te,
726
non ti rinnegherò affatto.
Ugualmente dissero anche tutti i discepoli.
727
rinneghiamo. Il nostro male - l’uccisione del Signore - è portato da lui stesso,
che da solo si è impegnato con noi, facendosi carico delle nostre infedeltà (cf.
Gen 15,17). Nulla ormai ci può separare dal suo amore per noi: infatti si è fatto
per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), distruggendo nel suo
corpo ogni inimicizia (Ef 2,16), spegnendo in sé ogni violenza.
Tutti, dal più piccolo al più grande, conosciamo chi è il Signore: è colui
che si dona e perdona senza condizioni (cf. Ger 31,34), colui che ci ama di
amore eterno (Ger 31,3).
Il brano si articola in quattro parti: la preparazione della pasqua (vv. 17-
19), l’annuncio del tradimento (vv. 20-25), la cena pasquale (vv. 26-30) e
l’annuncio dello scandalo dei discepoli con il rinnegamento di Pietro (vv. 31-
35). Al centro sta la cena pasquale, in cui Gesù anticipa il dono del suo corpo e
del suo sangue, che si compirà sulla croce. In essa si esprime il senso pieno
della sua vita data per noi, che celebriamo nell’eucaristia.
Chi mangia, assimila il cibo. Qui invece è il suo corpo e il suo sangue che
“ci mangia” e assimila a lui: divora ogni nostra infedeltà e ci fa vivere del suo
essere Figlio, che tutto riceve e tutto dà. Qui è vero che l’uomo è ciò che
mangia!
Gesù è il Figlio perché tutto riceve con gioia dal Padre, che tutto dà. Ed è
uguale a lui perché, a sua volta, dà tutto, come lui. “Prendere, “benedire”,
“spezzare” e “dare” è la vita del Figlio, perfetto come il Padre (5,48). Gesù la
offre a ogni fratello.
La Chiesa riconosce il suo peccato: rapisce invece di prendere, invidia
invece di benedire, si impadronisce invece di spezzare, consegna alla morte
invece di dare la vita. E, nel suo peccato, accoglie il dono incondizionato del
Figlio, di cui vive in perenne rendimento di grazie.
v. 17: Il primo giorno degli azzimi. Così è chiamato il giorno di Pasqua (il
14 di Nisan), con il quale inizia una settimana in cui si mangia pane azzimo,
non lievitato. Forse l’evangelista intende il giorno prima di pasqua, in cui si
728
faceva sparire il lievito, per indicare la novità di vita, e si preparava l’agnello o
il capretto per la cena pasquale.
Cercando di concordare i vari particolari dei singoli vangeli, si può
supporre che Gesù abbia anticipato la cena pasquale nel giorno prima della
sua morte. Il suo ultimo pasto è chiaramente inteso come cena pasquale,
anticipo dell’eucaristia, che la Chiesa celebrerà come propria pasqua, nella
memoria della sua passione. È lui l’agnello immolato, il cui sangue ci salva
dalla morte (cf. Es 12,13).
dove vuoi che ti prepariamo per mangiare la pasqua? Mc 14,12-16 e Lc
22,7-13 sviluppano più ampiamente il “dove” noi mangiamo la pasqua con il
Signore.
v. 18: andate in città dal tale. Gesù si invita con i suoi presso un tale. A
livello di testo è il lettore stesso, invitato ad ospitare il Signore e i suoi: presso
di lui il Signore vuole celebrare la sua Pasqua!
v. 19: prepararono la pasqua. In questi tre soli versetti, per ben tre volte
si parla di pasqua (oltre il ricordo del primo giorno degli azzimi). La cena del
Signore è caricata di tutti i significati che ha la pasqua ebraica.
v. 20: venuta la sera, giaceva a mensa con i Dodici. È l’ultima sera di
Gesù. È un giorno che è tutto tenebra: comincia con la sera e continua nella
notte, fino a oscurare il sole di mezzogiorno e terminare con la deposizione nel
sepolcro. Il Signore della luce entra in tutte le tenebre dell’uomo che si è
allontanato da Dio.
v. 21: amen, vi dico, uno di voi mi consegnerà, Il tradimento non è un
imprevisto. Gesù sa; eppure si consegna a chi lo consegna, non si rifiuta a chi
lo tradisce. “Forte è il suo amore per noi, e la fedeltà del Signore dura in
eterno” (Sal 117,2).
v. 22: rattristatisi, cominciarono a dirgli ciascuno: Non forse io, Signore?
È la domanda di ogni discepolo davanti all’eucaristia, come davanti alla croce:
accolgo questo dono o lo respingo? Cosa avverto davanti allo spreco del
profumo di Betania? Mi trovo con la donna di Betania o con gli altri?
v. 23: colui che intinge con me. (cf Sal 41,10). Colui che tradisce non è
un estraneo, ma un amico: “Ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio
camminavamo in festa” (Sal 55,15).
729
v. 24: il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui. Di lui è scritto
che se ne va per le nostre iniquità e che ci salva con le sue ferite (cf. Is
53,1ss).
ahimè per quell’uomo, ecc. Il peccato di Giuda è il fallimento
dell’esistenza: meglio non essere nati. È il male che ci distrugge come figli. Il
Figlio è venuto a salvarcene dando la sua vita. La sua croce è l’“ahimè” di Dio,
la sua sofferenza per il male dell’uomo, Giuda compreso. Il suo è il peccato del
mondo, quello di noi tutti, per il quale Cristo muore.
v. 25: Giuda, il suo traditore, disse: Non forse io, Rabbì? Nella domanda
di Giuda c’è già la risposta. Per gli altri Gesù è il “Signore” (v. 22), per lui solo
il “maestro”. Considerare Gesù come maestro di vita, e non come la vita, è già
tradirlo. Gesù, da maestro, diventa il Signore proprio quando capisco che mi è
fedele nella mia infedeltà, che si dona a me che lo tradisco.
v. 26: Gesù, avendo preso. Gesù “prende”: è il Figlio, che “prende” dal
Padre tutto ciò che è ed ha. Ma non fa come Adamo, che “rapisce”. Accetta
invece se stesso come dono e il Padre come colui che si dona: si vive come
amore dell’Altro, accettando lui come Padre e se stesso come figlio.
il pane. Il pane non è solo frumento, come il vino non è solo uva. Pane e
vino sono frutto della terra, ma contengono anche il lavoro e le relazioni, il
sudore e l’amore, le lacrime e le speranze dell’uomo. Non solo la natura e la
creazione, ma anche la cultura e la storia è da prendere come dono.
avendo benedetto. Gesù è il Figlio che bene-dice colui che bene-dà: ogni
realtà è dono del Padre e comunione con lui.
lo spezzò. L’azione di spezzare il pane, come la distinzione tra corpo e
sangue, allude alla violenza della croce. In un’economia di egoismo, l’amore
ne porta il peso. Adamo aveva rotto con il Padre: il nuovo Adamo ne porta la
maledizione.
dando ai discepoli. In quanto riceve e benedice, Gesù è Figlio; in quanto
spezza e dà, è uguale al Padre. La capacità di spezzare e dare gli viene dal
prendere e benedire. “Prendere” con gioia “benedicendo” il Padre, “spezzare”
e “dare” è la vita del Figlio, che corrisponde con l’amore all’amore che riceve.
Per l’uomo è l’unico modo - modo divino! - di vivere umanamente. In altro
modo, tutto è per la morte!
730
disse: prendete. È un imperativo. Prendere questo dono è partecipare al
suo corpo e diventare ciò che si è: figli del Padre e fratelli suoi.
mangiate. Non è il frutto proibito: è l’albero della vita, che ci rende
davvero come Dio. Uno vive di ciò che mangia: mangiando di lui, viviamo di
lui.
questo è il mio corpo. Il suo corpo, che si fa dono per noi, rivela la sua
divinità e la comunica a ogni corpo. Il corpo del Figlio è la divinizzazione
dell’uomo, e, in lui, di tutta la creazione (cf. Rm 8,19ss).
v. 27: preso il calice e reso grazie, ecc. Se l’agnello pasquale è il suo
corpo, il calice della benedizione è il suo sangue: il suo Spirito, la sua vita.
Corpo e sangue sono separati: si allude alla sua morte in croce, dove ci
darà la sua vita. Anche il calice, come il pane, è “preso” , con “rendimento di
grazie” (=eucaristia!) e “dato”. Tutto è dono d’amore, ricevuto e corrisposto.
bevetene tutti. Il sangue è la vita. Per gli ebrei non si può bere il sangue;
l’uomo non è padrone della vita: appartiene a Dio. Ma appartiene anche a
chiunque la riceve in dono, come figlio. Chi vive del suo corpo, “beve” con lui
la pienezza di vita. Gesù ci dona lo Spirito Santo, che crea in noi un cuore
nuovo: quello del Figlio, che ama come è amato.
v. 28: è il mio sangue dell’alleanza. L’alleanza tra Dio e il mondo si
compie nel sangue (cf. Es 24,8; Gen 15,17; Zc 9,11). Il sangue del Figlio ci
rende consanguinei del Padre: la sua vita è nostra, e viceversa.
Da sempre noi abbiamo rotto l’alleanza con lui. Ma lui ci rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13). La croce è un’alleanza nuova
ed eterna, che non può essere più rotta, neanche dal massimo male: il Signore
dona se stesso e per-dona tutto. Proprio così riconosciamo chi è il Signore (Ger
31,34).
versato per molti in remissione dei peccati. “Molti” significa
“moltitudine”, e sta per “tutti”. La morte di Gesù è quella del Servo di JHWH
che porta su di sé la violenza del male e riscatta tutti (cf. Is 53,12).
v. 29: non berrò più di questo frutto della vite. Bere il frutto della vite
significa far festa: è la fine dell’esodo, la fruizione piena della terra promessa.
Il Figlio sarà sempre in cammino, affamato e assetato, estraneo e nudo,
malato e carcerato, fino a quando tutti saremo fratelli tra di noi. Solo allora il
731
Figlio berrà “il vino nuovo” del regno. L’eucaristia è il pegno della vita futura
che si fa impegno per gli ultimi, nei quali ancora continua la passione del
Signore per la nostra salvezza (cf. Col 1,24). Amando loro, facciamo la
provvista di olio, reduplichiamo il talento, amiamo il Signore, viviamo di lui che
ha preso, benedetto, spezzato e dato: l’eucaristia si fa vita quotidiana,
nell’attesa, piena di speranza, del suo ritorno. Allora lui sarà a mensa con noi,
perché saremo tutti con lui.
v. 30: cantato l’inno. È il grande Hallel (Sal 136), che si canta dopo la
cena pasquale. Il suo ritornello suona: “Perché eterna è la sua misericordia”.
Nell’eucaristia comprendiamo pienamente il perché primo ed ultimo della
creazione e della storia, nel bene e nel male: è l’eterna misericordia di Dio, che
si volge ad ogni miseria e la colma della sua gloria.
v. 31: tutti sarete scandalizzati a causa mia. La pietra scartata diventa
scandalo per tutti, proprio mentre compie l’opera del Signore (cf. 21,42-44). Il
dono è per tutti: per chi tradisce, per chi rinnega e per chi fugge. Ogni nostro
male è pieno della sua grazia.
percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore (Zc 13,7). La morte
del Giusto, smarrimento per tutti, sarà principio di salvezza. Dopo di essa il
Signore dirà: “Questo è il mio popolo”, ed esso dirà: “Il Signore è il mio Dio”
(Zc 13,9). La sorgente d’acqua zampillante, che lava ogni peccato e impurità,
scaturisce da una grande desolazione (Zc 13,1ss), che disperde tutti. Ma,
guardando a colui che è stato trafitto, riceveranno uno Spirito di grazia e di
consolazione (Zc 12,10).
v. 32: dopo che io sarò risuscitato, vi precederò in Galilea (28,16). La
sua fedeltà va oltre la nostra infedeltà, che gli procura la morte. Dopo la
risurrezione, lo ritroveremo in Galilea, per essere sempre con lui, noi che
l’abbiamo consegnato, rinnegato e abbandonato.
v. 33: rispondendo, Pietro gli disse, ecc. Pietro si ritiene sicuro del suo
amore per Gesù. Non ha ancora capito che la sua salvezza è l’amore di Gesù
per lui, che vive ancora di presunzione, confronto e rivalità.
v. 34: amen, ti dico, ecc. Il rinnegamento di Pietro, come il tradimento
di Giuda e lo scandalo di tutti, è verità di fede, predetta con autorità divina. Il
732
nostro peccato è la nostra parte di vangelo: ci fa accogliere la grazia del
perdono.
v. 35: se è necessario che io muoia con te, ecc. Pietro vuol dare la vita
con Gesù. Non sa ancora che è Gesù a dare la vita per lui. Solo allora potrà
rispondere all’amore con l’amore.
ugualmente dissero anche tutti i discepoli. I discepoli amano il Signore.
L’epilogo dei loro buoni propositi sarà l’abbandono e la fuga (v. 56)! Solo dopo
la sua passione saranno riuniti in Galilea. Non dal loro amore infedele, ma dal
suo amore eterno, che perdona. Solo con la sua morte è possibile conoscere e
credere all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16).
3. Pregare il testo
Da notare:
• presso di te faccio la pasqua
• amen vi dico: uno di voi mi tradirà
• non forse io, Signore?
• ahimè per quell’uomo
• non forse io, Rabbì?
• Gesù prende il pane
• benedice
• spezza
• dà
733
• prendete e mangiate: questo è il mio corpo
• prende il calice
• rende grazie
• dà
• bevetene tutti
• il sangue della nuova alleanza
• versato per molti in remissione dei peccati
• non berrò più del frutto della vite
• lo berrò nuovo con voi nel regno
• tutti sarete scandalizzati
• vi precederò in Galilea
• la reazione di Pietro e la predizione del suo rinnegamento
• la reazione di tutti.
4. Testi utili
734
38 Allora dice loro:
L’anima mia è presa da tristezza fino a morirne.
dimorate qui
e vegliate con me!
39 E, andato un po’ avanti, cadde sul volto,
pregando e dicendo:
Padre mio,
se è possibile,
passi da me questo calice,
però non come io voglio,
ma come vuoi tu.
40 E viene presso i discepoli
e li trova che dormono,
e dice a Pietro:
Così non siete riusciti
a vegliare con me una sola ora?
41 Vegliate e pregate
per non cadere in tentazione;
lo spirito è pronto
ma la carne è debole!
42 Di nuovo una seconda volta se ne andò
a pregare dicendo:
Padre mio,
se non è possibile
che passi questo calice senza che io lo beva,
sia fatta la tua volontà.!
43 E, venuto di nuovo, li trovò che dormivano:
poiché i loro occhi erano appesantiti.
44 E, lasciatili di nuovo,
andò a pregare per la terza volta,
dicendo di nuovo la stessa parola.
45 Allora viene presso i discepoli
e dice loro:
Dormite ormai e riposate!
Ecco, è giunta l’ora
735
e il Figlio dell’uomo è consegnato
in mani di peccatori.
46 Svegliatevi, andiamo:
ecco, è giunto chi mi consegna.
736
suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla
morte, e fu esaudito” non perché fu liberato, ma perché “prese bene” la
morte, le forti grida e le lacrime, comuni a tutti i suoi fratelli peccatori.
Per questo divenne il Figlio, perfetto come il Padre: per “l’obbedienza”
nelle “cose che patì”. E così “divenne causa di eterna salvezza per coloro
che lo ascoltano”, e fu proclamato “pontefice”, ponte tra ogni uomo
perduto e il suo Dio. Così dice uno degli ultimi scritti del NT, riportando
ancora al vivo il ricordo di questa scena (Eb 5,7-10).
Il vecchio Adamo “prese male” il bene: rapì il dono della figliolanza.
Il nuovo Adamo “prende-bene” (eu-lábeia) anche il male: si consegna a
chi lo rapisce, portando su di sé la violenza del furto. Per questo è il
Figlio uguale al Padre: dona se stesso e salva tutti.
Nel racconto Gesù si rivolge di continuo alternativamente al Padre e ai discepoli, sperimentando
il silenzio di tutti. La sua angoscia unica viene dal suo essere tra noi e il Padre, vivendo insieme il
suo amore per lui e il nostro abbandono di lui. Egli è l’“intercessore”, colui che si mette in mezzo,
tessendo in sé il raccordo tra ogni lontananza e lacerazione. Gesù vive il suo essere del Padre, da lui
e per lui, nella nostra condizione di peccato e di rifiuto. Noi non abbiamo accettato né Dio come
Padre né noi stessi come figli. Abbiamo voluto possedere in proprio la vita; di conseguenza non
accettiamo di essere figli: rimuoviamo la nascita e la morte, eliminiamo il nostro principio e il nostro
fine. Per questo la nostra vita è violenta, triste e angosciata: divisa dalla sua sorgente, si sente
“gettata” nel nulla.
Gesù ripercorre a ritroso il cammino di Adamo, riportando al Padre
ogni abbandono del Padre.
Il brano è un contrappunto tra il Figlio e i non-figli, che lui
considera fratelli. Da qui la sua frattura interiore, veramente mortale.
Gesù veglia e prega; prostrato ha la forza dello Spirito per gridare:
“Padre mio!” e fare la sua volontà. I discepoli invece dormono, seduti
nella debolezza della loro carne, chiusi nel sonno della loro morte. Il
Figlio vive il dramma che rende figli i non-figli: il passaggio
(battesimale!) dalla mia volontà a quella del Padre.
Gesù vince la lotta, e ci guarisce dal male che sta all’origine dei
nostri mali: la contrapposizione tra la nostra e la sua volontà. Per questo
giunge “l’ora”, in vista della quale fu creato il mondo: quella in cui il
737
Figlio dell’uomo si consegna al Padre nel suo consegnarsi ai fratelli
perduti. È l’ora della salvezza!
Dopo questa “felice notte” non c’è più notte: la luce del Figlio è
entrata in tutte le nostre tenebre. Per questo alla fine, dopo aver
ripetuto di vegliare, Gesù dice di “dormire e riposare” e di “risorgere e
andare”. Ogni nostro “sonno” ormai non è più anticipo di morte, ma
“cammino” nella vita nuova di figli. Infatti ogni nostra notte è chiara
come il giorno, ogni nostra lontananza è ormai ancorata al Padre nel
Figlio.
Gesù, nel battesimo e nella trasfigurazione, fu chiamato: “Figlio
mio” dal Padre. Ora, al termine della sua vita dedicata ai fratelli,
compiuta la sua “missione” dice: “Padre mio”. Chiama per nome colui
che da sempre dice il suo nome. Nella trasfigurazione Gesù manifesta la
divinità dell’uomo, nell’agonia l’umanità di Dio.
La Chiesa è chiamata a tenere gli occhi aperti sulla passione di Dio
per l’uomo, per fare di questa la propria dimora. Lì stiamo di casa, e
riflettiamo “il Volto”, del quale siamo immagine e somiglianza.
738
dignità di figlio. Nella sua carne è ridata a ogni carne di peccato la gloria
del Padre.
v. 37: Pietro e i due figli di Zebedeo. Testimoni della
trasfigurazione (17,1ss), ora lo sono della sfigurazione. Allora brillò
nell’umanità di Gesù la divinità, ora la divinità fa trasparire la sua
umanità.
cominciò a rattristarsi e angosciarsi. Tristezza e angoscia sono
l’eredità dell’uomo che si è allontanato dal Padre e ha smarrito il suo
essere figlio. È la sensazione di venire dal nulla e tornare al nulla: uno
sprofondare nel vuoto senza fondo. Gesù è davanti alla sua morte: morte
violenta e ingiusta, da peccatore e maledetto, abbandonato dagli uomini
e da Dio.
v. 38: fino a morirne. La morte è più sopportabile di questa
angoscia abissale. È più facile darsi la morte che bere questo calice,
frutto del nostro peccato. Abbandonare Dio è il vero suicidio dell’uomo,
che tutti abbiamo compiuto.
dimorate qui e vegliate. Gesù ci chiama a dimorare qui, dove noi
siamo e non vorremmo essere. Lì è anche lui, per aprirci gli occhi su chi
siamo noi per Dio e chi è Dio per noi.
con me. In questa notte non siamo soli: lui è con noi e noi con lui.
cadde sul volto, pregando. Gesù è prostrato in preghiera, con il
volto a terra. Di notte si dorme o si prega. Non ci sono alternative: o si
mima la morte con il sonno - sostituibile da stordimenti e eccitanti vari -,
o si entra in comunione con la vita.
v. 39: Padre mio. Dio è chiamato “Padre mio”. È l’unico motivo del
suo vivere, ormai saturo di morte. Invece di rassegnarsi o suicidarsi,
Gesù si rivolge alla sorgente di acqua viva, che tutti abbiamo
abbandonato (cf. Ger 2,13).
se è possibile. È possibile evitare questo calice, fatto da noi, che
solo lui, il Figlio, può bere. Ma lui non sarebbe il Figlio, e noi non
saremmo i suoi fratelli.
passi da me questo calice. Ogni uomo vuole un calice che trabocca
di gioia (Sal 23,5); invece, con le sue malvagità, si procura una coppa
739
piena di ira. Gesù non vuole soffrire: non è un masochista! Una
sofferenza voluta è sempre perversa. Lui vuole solo amare. Solo per noi
berrà il nostro calice amaro!
non come io voglio, ma come vuoi tu. La vera lotta dell’uomo è tra
la volontà sua e quella di Dio, ritenuto “nemico”, antagonista. È questa
l’essenza del peccato, che ci ha portato a rifiutare Dio.
Gesù, pur vivendo questa lotta, a tutti comune dopo il peccato,
dice: “Non come io voglio, ma come vuoi tu!”. È il primo che compie la
volontà del Padre, tornando alla sua benedizione. Ma questo comporta
un’agonia: la morte del falso io, che permette il dischiudersi della propria
verità di Figlio.
v. 40: li trova che dormono. Cosa può fare l’uomo davanti alla
notte, se non chiudere gli occhi? Sulla barca Gesù dormiva e i discepoli
avevano paura (8,23ss). Ora è lui ad essere nell’angoscia, ed essi
dormono.
non siete riusciti a vegliare una sola ora? Gesù ci chiama a vegliare
almeno un’ora, per vedere che “è giunta l’ora”. Dopo la sua notte è vinta
la notte. Il Figlio si consegna nelle mani del Padre della vita e in quelle
dei fratelli che gli danno la morte. E noi peccatori, siamo in comunione
con lui e con il Padre.
v. 41: vegliate e pregate per non cadere in tentazione (cf. 6,13).
La tentazione è quella di tenere gli occhi chiusi nella notte, invece di
aprirli alla luce del Figlio. È la tentazione di sfiducia e disperazione, che
può essere vinta solo nella preghiera.
lo Spirito è pronto. Ogni uomo è in quanto amato dal Padre: ha il
suo Spirito di Figlio, sempre pronto.
ma la carne è debole. Se però restiamo ripiegati su noi stessi,
rimaniamo intrappolati nella nostra fragilità, preda del nostro limite.
v. 42: una seconda volta se ne andò a pregare: Padre mio, se non
è possibile, ecc. Una seconda volta Gesù torna in preghiera. C’è un
progresso rispetto alla prima. Là chiese, se era possibile, di non bere
quel calice, che non voleva. Ora ha visto che non è possibile, e dice al
Padre: “Sia fatta la tua volontà”. Gesù è il Figlio che compie in terra la
740
volontà del Padre che è in cielo (6,10): ama i fratelli offrendo loro la sua
solidarietà di Figlio. Tra la prima e la seconda preghiera c’è la lotta di
resistenza e resa.
v. 43: venuto di nuovo, li trovò che dormivano. È importante che
Gesù torni presso di noi, anche se ci scopre nel sonno.
v. 44: andò a pregare per la terza volta. È una preghiera che non
si stanca, e resiste ad ogni prova.
dicendo di nuovo la stessa parola. Prega come prima (cf. v.42), per
alimentare la sua decisione. Sa che, se lo Spirito è pronto, la carne resta
debole.
v. 45: dormite ormai e riposate. Torna la terza volta dal Padre ai
fratelli. Se prima diceva: “Vegliate”, ora dice: “Dormite!”. Chi ha
intravisto il Figlio in “questa notte”, può dormire in pace. Anche nel
sonno ultimo della morte trova non più il male che teme, ma il “riposo”
che desidera: il Signore stesso, che è lì con lui.
è giunta l’ora. Questa è l’ora della salvezza, in cui ogni Adamo
torna ad essere con il Figlio.
il Figlio dell’uomo è consegnato in mani di peccatori. Nelle nostre
mani di peccatori è consegnato il Figlio, che ci consegna al Padre.
v. 46: svegliatevi, andiamo. Non è in contraddizione con quanto ha
appena detto: “Dormite ormai e riposate!”. Il nostro “dormire”, ossia
morire, è ormai un “risveglio” alla vita nuova; e il nostro “riposo” un
camminare alla luce del settimo giorno.
è giunto chi mi consegna. È giunto il regno di Dio sulla terra: il
Figlio, che fa la volontà del Padre, si consegna nelle nostre mani. Il
nostro massimo male, dare la morte al Figlio, diventa l’ora del massimo
bene: Dio ci dà la sua vita. È l’ora della salvezza: il Figlio è nelle mani di
tutti i fratelli, per quanto lontani e peccatori. Il regno dei cieli soffre
violenza e i violenti se ne impadroniscono (11,12)! È infatti il regno del
Padre, nel quale il Figlio si fa carico di ogni nostra violenza. Noi, i violenti,
ce ne impadroniamo; e così lo “concepiamo” (cf. v. 55).
741
3. Pregare il testo
Da notare:
742
4. Testi utili
743
105. TUTTO QUESTO AVVENNE PERCHÉ SI COMPISSERO LE SCRITTURE
26,47-56
744
usciste con spade e bastoni
per prendermi insieme (concepirmi)!
Ogni giorno sedevo insegnando nel tempio,
e non vi siete impadroniti di me!
56 Ora tutto questo avvenne
perché si compissero le Scritture dei profeti.
Allora i discepoli tutti,
abbandonatolo, fuggirono.
745
bevevano la luce, al suono della sua voce i sordi udivano la Parola, al
comando della sua bocca i morti balzavano dai sepolcri, dalle sue mani
fioriva di pane il deserto. Ora non fa e non è più nulla: è quel nulla al
quale noi, con il nostro impadronirci, riduciamo tutto. È come una farfalla
stretta nel pugno.
Il Cristo mite ed umile si fa carico della nostra violenza, che su di
lui esaurisce la sua carica, e si spegne. Infatti non risponde al male con il
male, ma con il dono e il perdono.
Gesù, dopo la sua azione, inizia la sua passione. In essa si compie
la Scrittura, che esprime la volontà del Padre di salvare tutti i suoi figli. E
ciò avviene nel Figlio che si offre ai fratelli che lo catturano.
La Chiesa è rappresentata da Pietro e dai discepoli, che hanno lo
stesso modo di pensare e agire degli altri. Pur amando il Signore, fanno il
gioco opposto al suo. Sono, inconsapevolmente, suoi nemici: compiono
imprese ambigue, che fanno male se riescono e fanno bene se
falliscono!
v. 47: Giuda, uno dei Dodici. Quando si parla di “uno dei Dodici”, si
intende lui, il traditore. Era forte la tentazione di rimuoverne il ricordo.
Invece resta sempre uno di loro: come loro amato, chiamato, inviato…e
traditore.
Chi non lo riconosce come fratello, anzi, come se stesso, è ancora
fuori dalla grazia. Fa come lui, ma senza saperlo.
con spade e bastoni. Il mezzo normale per impadronirsi è il denaro,
mediatore universale, con cui si ottiene ogni cosa. Dove non basta il
denaro, accumulo di violenza “pulita” si ricorre a spade e bastoni,
violenza “pura”, potenziamento mortale della mano. Denaro, spade e
bastoni dominano il mondo, perso in quella lotta che gli uomini si fanno
per impadronirsi gli uni degli altri. Basta leggere ciò che capita, dai miti
delle origini all’ultima pagina di cronaca.
746
v. 48: chi bacerò, è lui! A danaro, spade e bastoni sono da
aggiungere i cuori ( o le coppe, se uno preferisce). Il bacio, segno di
amore e adorazione (adorare = portare alla bocca, baciare), in una
logica di violenza, indica ciò che si desidera possedere.
impadronitevi di lui. Impadronirsi è il desiderio che muove ogni
azione. L’uomo non è la vita; semplicemente ce l’ha perché gli è data, e
continuamente la alimenta con ciò che riceve. In realtà, impadronendosi,
la uccide: elimina simbolicamente, o realmente, chi gliela dà e ogni altro
che gliela contende. La “mimesi appropriativa” è il gesto nel quale
ognuno imita l’altro per mettere le mani su tutto e su tutti. È il peccato di
Adamo, che lo distrugge come creatura, distruggendo insieme anche la
creazione.
v. 49: salve, rabbì. E lo baciò. Saluto e bacio sono la consumazione
della violenza, che volge ogni bene nel suo contrario.
v. 50: amico. Giuda è l’unica persona che Gesù chiama: “Amico”.
Non è ironia: gli è amico e tale gli resta in eterno, al di là di ogni male.
per questo sei qui. Gesù sa perché Giuda è qui. Gli vuol far
prendere coscienza del fatto che lui lo conosce e gli rimane amico.
misero le mani su Gesù e si impadronirono di lui. Gesù è ora nelle
mani dei peccatori. Se il peccato fu rapire ciò che è donato, la salvezza è
donare ciò che fu rapito.
v. 51: uno di quelli. È Pietro (Gv 18,10). Il suo gesto è profezia di
quanto, in seguito, sarà fatto per “amore del Signore”, ma contro di lui. È
la violenza “a fine di bene”! Le guerre sante e di religione sono le
peggiori: fanno continuare l’agonia del Signore e ritardano il suo ritorno!
stesa la mano, estrasse la spada. Usa le stesse armi
dell’avversario. Inizia, e fallisce, la prima delle interminabili “crociate”,
che ci mettono nel numero di quelli che crocifiggono il Signore della vita.
Ogni volta che rispondiamo al male con la stessa moneta, re-duplichiamo
la violenza. È il male peggiore, perché “giustificato”. Il suo unico risultato
è quello di confermare, se ce ne fosse bisogno, l’immagine satanica di un
dio violento.
747
Il Signore è dono, servizio e umiltà: suo emblema non è il cavallo o
il carro armato, ma l’asina (cf. 21,1ss). Chi vuol difendere o diffondere il
regno di Dio con il potere mondano, incrocia l’asina con il cavallo,
ottenendo il mulo, sterile e senza intelletto (Sal 32,9). È anche possibile
incrociarla, al di là di ogni ingegneria biogenetica, con il carro armato.
Allora si ottiene un mostro apocalittico. L’anticristo è uno che promette
salvezza, ma il suo linguaggio non è quello dell’Agnello (cf. Ap 13,11ss).
gli tagliò il lobo dell’orecchio. Il nostro zelo non colpisce alla testa il
nemico. Gli taglia solo l’orecchio: gli toglie la possibilità di ascoltare la
Parola. Ogni azione di “cavallo o carro”, lungi dal vincere il male, lo
moltiplica, con una aggravante: preclude la possibilità di conversione.
Tutto si riduce a un gran tagliare di orecchi, che allontana sempre più
dalla verità che ci fa liberi.
v. 52: quelli che prendono la spada, di spada periranno. La
violenza genera violenza; presto o tardi chi la fa la subisce. Chi vince
oggi, uccide chi ha vinto ieri e sarà ucciso da chi vincerà domani.
Emergono sempre i peggiori tra gli uomini (Sal 12,9). E così all’infinito,
fino a che tutto sarà finito!
v. 53: dodici legioni di Angeli. Dodici legioni di truppe celesti,
aviotrasportate, sono certo più efficienti di quei Dodici che ha con sé!
Gesù aveva appena pensato alla possibilità di non bere il calice. Già nelle
tentazioni del deserto gli si era presentata questa prospettiva. E chi non
vuol salvarsi dalla violenza?
v. 54: come dunque si compirebbero le Scritture. Le Scritture
parlano della salvezza dell’uomo. Ma questa non può certo avvenire
attraverso una violenza maggiore di quella che si vuole combattere. Il
rimedio è peggio del male!
così deve accadere. La violenza si spegne dove uno risponde con
amore. Il male è una pro-vocazione, che chiama-fuori ciò che c’è dentro.
Il Signore è tutto e solo amore: risponde al male con il bene, offrendo a
tutti la libertà del suo amore incondizionato.
v. 55: come contro un brigante usciste con spade e bastoni. Per la
quinta volta esce la parola “spada”. L’ha usata il primo brigante, che ha
748
prevalso sugli altri e ha legittimato il suo potere; la usa poi contro gli
altri briganti, che glielo contendono. Ma il Signore non contende con noi.
Per litigare bisogna essere in due, che vogliono la stessa cosa. Se uno
tira la fune e l’altro molla, cade chi tira! Con Gesù, che non accetta la
provocazione, cade la forza del male; ma addosso a lui, che lo porta
senza farlo. Gesù catturato, diventa “cattivo” (da “captivus” =
catturato!), preda della nostra violenza, carico della nostra cattiveria.
per prendermi. In greco c’è la stessa parola che indica “concepire”.
La nostra violenza concepisce la pace, il furto riceve il dono, la morte
accoglie la vita. Il sommo bene si è fatto prendere finalmente dalla
potenza del male che, catturandolo, è finito! Questa è la sublime astuzia
con cui Dio ci salva - rispettando la nostra libertà, ma anche la propria!
v. 56: tutto questo avvenne perché si compissero le Scritture dei
profeti. Tutte le Scritture si compiono in questo: il servo mite ed umile, il
giusto innocente, il Signore della vita, è nel numero dei malfattori (cf. Is
53,12; Lc 22,37). Gesù pensa soprattutto ai Salmi del giusto perseguitato
e ai canti del Servo di YHWH, ad Abele e al sangue di tutti gli innocenti,
che fu versato dall’inizio del mondo (23,35). Il male lo porta sempre chi
non lo fa! Può sembrare scandaloso, ma è la legge fondamentale della
storia. E dal male ci libera certo non chi lo fa, ma chi lo porta su di sé
senza farlo. Gesù, ci salva proprio in quanto si fa per noi peccato e
maledizione. Per questo è il Figlio del Benedetto, che non ha fatto nulla
di male.
allora i discepoli tutti, abbandonatolo, fuggirono.
Provvidenzialmente i discepoli non sono più forti dei nemici. Lo
abbandonano perché non sono con lui così com’è; fuggono, anche se
vorrebbero stare con lui. Questo abbandono degli amici è per l’amico la
violenza più crudele.
3. Pregare il testo
749
b. Mi raccolgo immaginando l’orto, dove di notte irrompono i nemici.
c. Chiedo ciò che voglio: capire come il Signore compie le Scritture e
perché io lo abbandono.
d. Traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che
fanno.
Da notare:
4 Testi utili
750
106. TU L’HAI DETTO
26,57-68
751
che siede alla destra della potenza
e viene sulle nubi del cielo.
65 Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti
dicendo:
Bestemmiò!
Che bisogno abbiamo ancora di testimoni?
Ecco, non udiste la bestemmia?
66 Che vi pare?
Ora essi rispondendo dissero:
È reo di morte!
67 Allora gli sputarono sul volto
e lo schiaffeggiarono,
altri lo colpirono
68 dicendo:
Profetizza a noi,
o Cristo,
chi è che ti percosse?
“Tu l’hai detto”, risponde Gesù al sommo sacerdote che gli chiede
se lui è “il Cristo, il Figlio di Dio”. Davanti alla croce, che si profila ormai
come suo destino, rivela la sua identità: lui è il Cristo e l’Emmanuele, il
Salvatore e il Dio con noi, proprio in quanto è condannato per
bestemmia!
Siamo abituati a dire che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. Non
avvertiamo più la scandalosità di ciò che diciamo: professiamo che il
Salvatore è uno sconfitto, Dio un crocifisso per bestemmia, l’autore della
vita un condannato a morte, il Giudice un giudicato, il Giusto un
giustiziato! Proprio così Gesù è il Cristo, che ci salva dalle nostre false
attese di salvezza, il Figlio di Dio che ci salva dalla nostra falsa immagine
di Dio, il Servo che ci dà la vita, il Giudice che ci giustifica, il Giusto che
porta la nostra ingiustizia.
752
Quanto Gesù dice è una bestemmia non solo per i suoi nemici, ma
anche per i discepoli. Rifiutato da tutti, donerà la vita per tutti, rivelando
in questo modo di essere il Figlio, perfetto come il Padre (5,48).
La sua rivelazione è causa della sua uccisione; ma la sua uccisione
sarà causa della sua rivelazione. Ora lui, il più piccolo fra tutti i fratelli, è
giudicato da noi reo di morte. Noi pensiamo che Dio sia diverso da noi;
invece è diverso da come noi lo pensiamo. È il Santo in mezzo a noi,
perché non ci giudica con ira, ma viene a noi in compassione e
misericordia (cf. Os 11,7-9). La sua salvezza, che ci stupisce tutti, è
quella dell’Agnello che porta su di sé la maledizione della nostra violenza
(cf. Is 52,13-53,12)
Per tutte le religioni un Dio crocifisso suona bestemmia; per tutti
gli uomini un salvatore ucciso suona derisione. Ma questa bestemmia e
derisione è l’essenza del cristianesimo: salva Dio da ciò che l’uomo
pensa di lui, e libera l’uomo da ciò che lui pensa di sé. È proibito farsi
immagini di Dio (Es 20,4). L’unica sua immagine è quella che lui dà di sé:
il Crocifisso.
Il brano si articola in cinque parti: Gesù è consegnato e Pietro lo
segue da lontano (vv. 57-58); contro di lui si cercano false testimonianze
(vv. 59-61); alla domanda del sommo sacerdote Gesù rivela la sua
identità (vv. 62-65); per questo è giudicato dal sinedrio come blasfemo e
reo di morte (vv. 65-66), e dileggiato (vv.67-68).
“Chi è Gesù?” è la domanda fondamentale del Vangelo. La sua vita ha rivelato “che” è il Messia
e l’Emmanuele; la sua morte rivela “come” lui è Messia ed Emmanuele. Lui, ultimo di tutti, ci
mostra “il Volto”.
Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio proprio in quanto crocifisso da noi
che, avendo una falsa immagine dell’uomo e di Dio, giudichiamo bene il
male e male il bene.
La Chiesa riconosce nel Crocifisso il suo salvatore, Signore e
giudice. Ma solo se prima si identifica con Pietro e quanti non lo
riconoscono e lo condannano.
753
v. 57: Ora quelli che si erano impadroniti di Gesù lo portarono.
Gesù, fatto oggetto di possesso, sarà trasportato e consegnato di mano
in mano: chi l’ha preso lo dà ai capi del popolo, questi a Pilato, Pilato al
popolo e il popolo alla croce. Il suo corpo, dato per noi, passa dall’uno
all’altro, in modo che tutte le mani di peccatori ricevano il dono. Il suo
sangue di Agnello innocente ricadrà su noi tutti (27,25), a nostra
salvezza.
erano riuniti. Il Sinedrio è riunito di notte, in modo informale,
perché è proibito tenere un consiglio nelle tenebre. La luce entra nella
notte!
v. 58: Pietro lo seguiva da lontano. La testimonianza di Gesù è
inclusa tra Pietro che lo segue e Pietro che lo rinnega. Siamo chiamati a
riconoscere questo Gesù, che viene con la “sua” gloria per il “suo”
giudizio.
per vedere la fine. Poco prima Pietro si era dichiarato disposto a
morire con lui (v.35). Gli vuol bene, e spera forse che si liberi con uno dei
suoi interventi prodigiosi. Aveva rifiutato la sua generosa difesa, dicendo
di avere a disposizione dodici legioni di angeli! Non sarà questo il
momento in cui si decide? Pietro lo rinnegherà quando vedrà che la cosa
non finisce proprio secondo i suoi desideri.
v. 59: cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per farlo
morire (cf. Sal 27,12). La sua condanna a morte è già decisa. Proprio
perché è giusto (cf. Sap 2,12-20)! Ci pare strano che il Giusto porti su di
sé l’ingiustizia, anche la peggiore, quella del giudizio! Invece è
“normale”, per quanto scandaloso!
v. 60: non trovarono. È importante l’innocenza di Gesù. Se fosse
colpevole, la sua sofferenza sarebbe meritata, come la nostra (cf. Lc
23,41); non sarebbe più meritoria per noi.
molti falsi testimoni. Si insiste sulla falsità delle testimonianze. La
menzogna ci impedisce di conoscere la verità che fa liberi, e procura la
morte (cf. Gv 8,32.43s).
754
v. 61: distruggere il tempio di Dio e in tre giorni riedificarlo (cf. Mc
14,58; Gv 2,19; At 6,14). Gesù ha predetto la distruzione del tempio
(24,2). Per una parola simile si voleva uccidere anche Geremia (Ger
26,7-11). Il tempio, in cui abita corporalmente tutta la pienezza della
divinità (Col 2,9), è il suo corpo, distrutto in croce dalla nostra violenza e
riedificato nel sepolcro dalla potenza di Dio. Uniti a lui, pietra viva,
rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche noi
siamo impiegati come pietre vive par la costruzione del nuovo tempio
(1Pt 2,4s), in cui si adora Dio, in spirito e verità (Gv 4,24) - nello Spirito,
che ci restituisce la nostra verità di figli.
v. 62: non rispondi nulla? Il sommo sacerdote, come poi anche
Pilato, si meraviglia del silenzio di Gesù, Agnello muto condotto al
macello (Is 53,7). Da cosa deve difendersi? Dalla verità che ha detto, o
dalla nostra violenza? Sarebbe menzognero, o violento, come noi!
v. 63: Gesù taceva. È il silenzio maestoso che rivela Dio. Se lui
rispondesse, noi tutti saremmo condannati come ingiusti. Il suo silenzio
ci dice chi è Dio: misericordia che si addossa ogni miseria.
ti scongiuro per il Dio vivente, che ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio
di Dio. È l’identità di Gesù, prospettata da Matteo fin dall’inizio del
vangelo (cc. 1-2) e riconosciuta da Pietro (16,16). Ora, e non prima,
anche lui la proclama.
v. 64: tu l’hai detto. Gesù si rivela solo ora. La croce elimina ogni
ambiguità dalle nostre immagini di uomo e di Dio: toglie il velo a noi e a
Dio, mostrando l’abisso del nostro male e quello della sua grazia.
da ora vedrete il Figlio dell’uomo, ecc. La croce è l’intronizzazione
del Figlio dell’uomo come Cristo e Figlio di Dio. Lì siede nella “sua” gloria
e potenza, e viene a giudicare il mondo con la “sua” giustizia.
v. 65: il sommo sacerdote si stracciò le vesti. È segno di scandalo.
A lui era vietato stracciarsi le vesti (Lv 21,10). È l’anticipo dello
stracciarsi del velo del tempio (27,51).
Bestemmiò! La bestemmia consiste nel fatto che Gesù afferma che
il Cristo, il Figlio di Dio, è lui, quest’uomo condannato! La bestemmia di
755
Gesù ci libera dalla nostra bestemmia su Dio. Per questa bestemmia Dio
è Dio, diverso da ogni nostra pia o empia raffigurazione.
che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Tutte le nostre false
testimonianze per ucciderlo cessano davanti a questa bestemmia, che ci
rivela la verità inaudita di un Dio che dà la vita per l’uomo.
v. 66: che vi pare? La domanda rivolta al sinedrio, interpella pure il
lettore. Che pare a me di questa bestemmia? Riconosco il mio salvatore,
Signore e giudice in colui che giudico reo di morte?
è reo di morte. È il parere di tutti! Per questa bestemmia è
condannato a morte, e proprio nella sua condanna a morte lui è il Cristo
che salva, il Dio che ama, il Giudice che giustifica.
v. 67: gli sputarono sul volto. Ora il “Volto”, toglie il velo, e mostra
la sua bellezza. La Gloria, invece del bacio di adorazione, ottiene lo sputo
del nostro disprezzo (cf. 27,30ss).
lo schiaffeggiarono. La potenza è bersaglio della nostra violenza.
lo colpirono. I colpi del nostro male si abbattono su chi è senza
colpa.
v. 68: profetizza. La profezia è la Parola che rivela Dio e salva
l’uomo. Questo volto velato, coperto di sputi, schiaffi e colpi, è la Parola
ultima, in cui vediamo Dio faccia a faccia.
o Cristo. Gesù è dileggiato come Messia. Lui è il Messia che ci salva
proprio in quanto è oggetto di ogni violenza.
chi è che ti percosse? È la domanda che il Vangelo pone al lettore.
Pietro, davanti a questo volto, vedrà di essere anche lui tra quelli che lo
percuotono (cf. vv. 69ss).
3. Pregare il testo
756
c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere il mio salvatore, Signore e giudice,
in colui che io condanno.
d. Traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che
fanno.
Da notare:
• lo portarono da Caifa
• le false testimonianze per farlo morire
• distruggere il tempio ed edificarlo in tre giorni
• non rispondi nulla?
• tu sei il Cristo, il Figlio di Dio?
• tu lo hai detto
• d’ora in avanti vedrete il Figlio dell’uomo che siede alla destra della
potenza e viene.
• udiste la bestemmia?
• che vi pare?
• è reo di morte
• gli sputi, gli schiaffi e i colpi
• chi ti percuote?
4. Testi utili
757
107. NON CONOSCO L’UOMO
26,69-75
758
“Non conosco l’uomo!”, dice Pietro del Figlio dell’uomo che ha
cominciato a rivelarsi nella sua gloria. Non lo riconosce nel più piccolo tra
i suoi fratelli (cf. 25,40.45). Anche Pietro compie il suo giudizio di
condanna su di lui, come tutti gli altri. Pure lui è tra quelli che lo
colpiscono. E i suoi colpi sono i più violenti; sono quelli dell'amico, al
quale lo legava una dolce amicizia (Sal 55,15).
Pietro non mente quando dice di non conoscerlo. Per la prima volta
si accorge di non averlo mai conosciuto. Il Volto, velato da sputi e
schiaffi, gli rivela due verità a lui finora ignote: il Cristo è uno percosso
dal male, e lui è tra quelli che lo percuotono.
Inizia il suo battesimo: comincia ad immergersi nella coscienza del
proprio peccato e della misericordia del suo Signore. Voleva morire con
Gesù; ora scopre che è Gesù che muore per lui.
Frana il terreno friabile della sua presunzione, e viene a nudo la
“pietra” - la fedeltà indefettibile del suo Signore che è fedele a lui,
infedele. Questa sarà la roccia su cui si edifica la Chiesa (16,18), la fede
nella quale Pietro confermerà poi i suoi fratelli (Lc 22,32).
La sua caduta non è fortuita. È “necessaria” alla sua salvezza:
deve morire alla propria giustizia di uomo, per vivere della
giustificazione di Dio. Se non avesse rinnegato, avrebbe sempre potuto
pensare che il Signore è fedele perché lui gli è fedele: non avrebbe
conosciuto la sua fedeltà senza limiti. Se fosse morto per Cristo, avrebbe
sempre pensato che la salvezza è sacrificare la vita, e non riceverla in
dono da un Dio che ama e dà la vita per lui. Gli resterebbe ancora
nascosto il mistero profondo di Dio e dell’uomo: Dio è amore senza
limite, e l’uomo è da lui infinitamente amato.
In Pietro avviene il difficile passaggio dalla legge al vangelo. Muore
in lui l’uomo religioso che cerca la propria perfezione, fino al sacrificio
supremo di sé; e nasce l’uomo nuovo, che vive dell’amore del suo
Signore che muore per lui, peccatore. Questa è “la buona notizia”: siamo
salvati per grazia. La salvezza infatti è l’amore; e l’amore o è gratuito o
non è!
759
Pietro giunge a intendere, come Paolo, che Cristo è morto per i
peccatori, “dei quali io sono il primo” (1Tm 1,15). Scopre la sua passione
per lui, e si immerge in essa fino a dire: “Non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio
di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Certa è
questa parola: se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele; non
può rinnegare se stesso (cf. 2Tm 2,13), perché è fedeltà e amore eterno
per noi (cf. Sal 117,2). Veramente nulla ci può ormai separare dall’amore
che lui ha per noi, né vita né morte (Rm 8,38). Se colui che ci deve
giudicare ha dato la vita per noi che lo tradiamo, rinneghiamo e
abbandoniamo, chi sarà contro di noi (Rm 8,32)? Tutto ormai, anche il
male coopera al nostro bene (cf. Rm 8,28), perché dove abbonda il
nostro peccato, sovrabbonda la sua grazia per noi (Rm 5,20). Tutti
siamo peccatori, privi della Gloria, e tutti siamo salvati per misericordia
(cf. Rm 3,23s; 11,32). Non per questo dobbiamo peccare (Rm 3,8;
6,1.15). Piuttosto, come Pietro, dobbiamo ammettere la nostra miseria e
cantare in eterno la sua grazia.
La scena si svolge di notte. Alla fine viene l’alba. Al canto del gallo,
Pietro si risveglia dal sonno, e si ricorda della promessa del suo Signore.
Mentre Gesù è processato in alto nella sala del sinedrio, Pietro è in
basso nel cortile tra i servi. Mentre Gesù rivela la sua identità, Pietro
compie su di lui il suo giudizio: non lo riconosce nel più piccolo tra gli
uomini. Anche lui ha tre interrogatori successivi, come Gesù; e per tre
volte lo rinnegherà, come preannunciato.
Al canto del gallo, consumata la propria infedeltà, si ricorda che lui
l’ha prevista, e gli ha promesso la sua fedeltà! Il pianto che sgorga è la
fonte del suo battesimo, che durerà tutta la vita: gli laverà gli occhi e
purificherà il cuore, per vedere il Volto.
Davanti ad esso finisce il gioco di illusione e delusione di chi cerca
di vivere della propria giustizia; viene alla luce l’uomo nuovo, che vive
dell’amore del suo Signore per lui.
Gesù è colui che non rinnega Pietro che lo rinnega.
760
La Chiesa si fonda sulla fedeltà di Dio, che non rinnega chi lo
rinnega.
v. 69: Ora Pietro sedeva fuori nel cortile. Pietro aveva seguito
Gesù da lontano. Ora osserva come va a finire. Il Figlio dell’uomo,
interrogato, conferma la sua identità ed è giudicato reo di morte.
tu eri con Gesù, il galileo. Per tutta la settimana era stato visto con
Gesù, insieme agli altri discepoli, presso il Tempio. Anche la serva
l’aveva visto, e gli dice che era “con” lui. Essere con Gesù è l’identità del
discepolo (cf. Mc 3,14).
v. 70: non so cosa dici. Pietro, fino alla sera precedente, era con
Gesù: con quel Gesù forte e potente che affascinava con la sua parola e i
suoi prodigi. L’aveva riconosciuto quando aveva donato il pane alle folle
(16,16). Ora che si fa pane, non lo riconosce. Non è con “questo” Gesù,
prigioniero e impotente. Non sa cosa vuol dire essere con quest’uomo.
Ciò era evidente fin dalla prima predizione della passione (cf. 16,21-23).
C’è stato un errore di persona: lui pensava che Gesù fosse un altro, per il
quale era disposto a morire. Ma non per questo, che si trova davanti ora.
v. 71: uscito nell’atrio. Pietro ha un barlume di luce interiore.
Cerca di uscire per nascondersi? Ma è intravisto da un’altra serva, che
coinvolge anche i presenti, ripetendo ciò che aveva detto la prima.
v. 72: non conosco l’uomo. Mentre è dichiarato da tutti discepolo,
Pietro vede di non esserlo affatto. Con più forza e con giuramento,
afferma di non conoscere quell’uomo. Ne ignora persino il nome. ”Gesù”
infatti significa “Dio-salva”. Per conoscere “Dio-salva”, deve prima
riconoscere la propria perdizione.
v. 73: gli astanti dissero a Pietro. Per la terza volta Pietro è
dichiarato discepolo, da tutti i servi che nella notte lo scrutano da vicino.
veramente tu sei dei loro. È riconosciuto come uno di quelli che
sono con lui.
761
la tua parlata ti fa manifesto. Pietro è galileo: è chiaro da come
parla, anche se lo nega.
v. 74: non conosco l’uomo. Con imprecazioni e giuramenti Pietro
ribadisce la sua estraneità. Uno può essere discepolo di Gesù, e non
conoscerlo. Può addirittura annunciarlo, e non conoscerlo! Uno può
essere religiosissimo e parlare da cristiano; ma non è ancora un
credente fino a quando non sa che il Signore è colui che ha dato la vita
per lui che lo rinnega.
subito un gallo cantò. Il canto del gallo annuncia l’aurora. Si leva il
sole, e Pietro vede per la prima volta chi è lui e chi è il Signore. Il suo
triplice rinnegamento è il presupposto della sua illuminazione. La notte
finalmente volge al termine; comincia a vedere la propria infedeltà. È il
suo risveglio. Per lui inizia il giorno: comincia a vedere chi è
“quell’uomo”, a capire perché va in croce.
v. 75: si ricordò Pietro della parola di Gesù, ecc. (v.34). È
importante che Gesù abbia predetto il rinnegamento. Conosceva Pietro,
e l’ha scelto sapendo della sua infedeltà; gli mostra così il suo amore e la
sua fedeltà. Pietro ricorda le parole alle quali aveva reagito
violentemente (vv. 33-35). Adesso gli è chiaro che lui è uno che rinnega,
e il Signore uno che lo salva.
uscito fuori. Pietro esce finalmente dal cortile e dall’atrio. Si ritrova
solo, sulla strada del primo mattino, con la verità di sé e del Signore, che
non conosceva.
762
pianse amaramente. Pietro non è quello che credeva di essere. Il
suo io, così potentemente affermato, crolla. E piange. È un pianto di
lutto, amaro. È la morte dell’uomo vecchio, che viveva del proprio amore
per il Signore.
Perché non si suicida come Giuda? Pietro si trova al bivio: può
riconoscere il proprio fallimento e pagarlo con la vita, oppure accettare
di vivere dell’amore gratuito del suo Signore per lui. È il bivio tra la fede
che salva e la giustizia che condanna.
Dopo questo pianto Pietro scompare. Il seguito del racconto è
ormai da vedere con i suoi occhi, dai quali sono cadute le scaglie della
cecità.
3 Pregare il testo
Da notare:
763
• Pietro si ricordò della parola di Gesù
• uscito fuori, pianse amaramente.
4. Testi utili
Sal 117; 139; Mt 16,16-23; Fil 3,1ss; Rm 8,31ss; 2Tm 2,11-13; At 9,1-19.
108. ALLONTANATOSI SI IMPICCO’
27, 1-10
764
per la sepoltura degli stranieri.
8 Perciò fu chiamato quel campo:
Campo del sangue,
sino ad oggi.
9 Allora si compì ciò che fu detto
per mezzo del profeta Geremia
che dice:
E presero le trenta monete d’argento,
prezzo del venduto
10 che avevano venduti i figli di Israele,
e lo diedero per il Campo del vasaio,
come mi aveva ordinato il Signore.
765
Signore. Ma anche il Signore è sconvolto: colui per il quale dà la vita, se la
toglie. Il dramma di Giuda tocca la profondità dell’uomo e l’abisso di Dio. Ci
chiediamo, con inquietudine, se il traditore si sia salvato, cosa Dio sia riuscito
a fare con lui. In lui vediamo noi stessi!
La dannazione è accusarsi ed espiare, senza uscire da se stessi. Chi
guarda solo a sé, vede necessariamente l’inferno! Solo davanti a un amore
assoluto per noi possiamo riconoscere il peccato come luogo di grazia. È
l’uscita dall’inferno.
Il vero peccato di Giuda non fu di aver tradito, ma di voler pagare il suo
errore. Non il suo errore, ma il suo volerlo espiare è il suo male peggiore.
Espiare la colpa e non accettare il perdono, è il peccato radicale di chi resta
centrato su se stesso; è il male del mondo, di cui ognuno di noi ha la sua
quota di partecipazione. Consiste nel rifiuto di essere amati gratuitamente,
principio di ogni violenza su di sé e sugli altri. Tale rifiuto è dovuto alla
menzogna, antica e omicida, che ci ha dipinto un Dio giusto e tremendo, da
cui fuggire. Questa menzogna ha ucciso in noi il Padre e noi stessi come figli,
falsando ogni rapporto con i fratelli. Solo la croce ridona a Dio il suo vero volto
di Padre e a noi il nostro di figli: sdemonizza Dio e uomo!
La morte di Giuda, descritta come la fine dell’empio, è la stessa di
Achitofel che tradì Davide (2Sam 17,23). In At 1,18 è rappresentata come un
precipitare e uno spaccarsi in due (cf. Sap 4,19) – immagine potente di ciò che
Giuda ha vissuto.
Il brano presenta Gesù consegnato a Pilato perché lo condanni a morte
(vv. 1-2). Giuda, preso da rimorso, restituisce il denaro e si impicca (vv. 3-5). Il
prezzo del sangue innocente serve per acquistare un campo, dove gli stranieri
trovino riposo nella terra promessa (vv. 6-10). C’è un grande mistero in
questo racconto: nella prima parte, la condanna a morte di Gesù provoca in
Giuda il gesto che lo porta al sepolcro; nella seconda parte, il prezzo del suo
tradimento dà riposo nella terra promessa a tutti, almeno dopo la morte,
anche agli stranieri.
Gesù è l’innocente consegnato a morte da tutti. Fatto maledizione e
peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le
nostre iniquità, porta su di sé il peccato delle moltitudini e intercede per i
766
peccatori (Is 53,5.12).
La Chiesa riconosce in sé il peccato di Giuda, e, davanti alla morte del
Giusto, accetta di vivere del suo perdono.
767
riportò le trenta monete d’argento. Il guadagno del peccato, una volta
consumato, è spregevole, anche agli occhi di chi lo compie. All’illusione di un
bene promesso, segue la delusione e la disperazione dell’inganno scoperto.
v. 4: peccai. Giuda confessa il suo peccato: ha versato sangue
innocente, come Caino, e i fratelli di Giuseppe. Riconosce che la sua violenza,
ingiusta, è pagata dal Giusto. Pentirsi del male, sentire rimorso, riparare e
confessare il peccato non basta. Da qui si apre una duplice strada: quella
dell’espiazione, che porta alla morte, o quella del perdono, che porta alla
salvezza.
che ce ne importa? Te la vedrai tu. Invece che all’innocente che
perdona, Giuda si volge a sé e a quelli che sono come lui. Tra i peccatori c’è
solidarietà, ma solo nel seminare il male. Quando se ne raccoglie il frutto
amaro, ognuno è tremendamente solo: è consegnato alla propria coscienza,
aguzzino che non perdona. Non gli resta che la morte nel cuore, fino a quando
non si volge a colui che ha trafitto. Tra poco anche Giuda lo vedrà, quando
sarà sceso con lui negli inferi.
v. 5: gettate le monete d’argento nel tempio. Queste monete sono le
protagoniste del brano: sanguinoso stipendio del peccato, sono anche prezzo
del riscatto, del quale si darà un’elaborata interpretazione (cf. vv. 6-10).
allontanatosi si impiccò. Giuda, solo con la sua colpa, non ha altra via
che l’espiazione. Ci sono tanti modi di “suicidarsi”, quanti sono i mali che
facciamo a noi o agli altri. Se ne può uscire solo passando dall’espiazione
nostra al perdono dell’altro. Allora, invece di allontanarci, ci avviciniamo,
anche se “da lontano” (cf. 26,58; 27,55), a colui che è sempre con noi, fino a
diventare per noi peccato, colpa ed espiazione.
v. 6: non è lecito, ecc. Anche nei Lager c’erano aguzzini crudeli che non
avrebbero tollerato un torto contro un cane. L’ingiustizia somma può
convivere con barlumi di coscienza delicata. Un residuo di pietà emerge anche
nel dilagare dell’empietà. In genere serve però solo da copertura.
v. 7: comperarono con esse il Campo del vasaio per la sepoltura degli
stranieri. Geremia comperò un campo, come segno del ritorno dall’esilio nella
terra promessa (Ger 32,1ss). Lo stesso profeta aveva parlato del “vasaio”, che
rimpasta i vasi mal riusciti (Ger 18,1ss). Il prezzo del sangue dà riposo nella
768
“terra” anche agli estranei. Anche loro, come Abramo, hanno finalmente un
pezzo di terra promessa (cf. Gen 23), dove seminare il loro corpo. Ora non
sono più stranieri. Il sangue del Figlio innocente fa cadere il muro di inimicizia
che separava i fratelli: rimpasta e fa nuovi tutti i suoi fratelli, ridotti in cocci. In
lui tutti possiamo presentarci al Padre con un solo Spirito, facendo parte della
sua famiglia (Ef 2,13-22).
v. 8: Campo del sangue. Il “Campo del vasaio” diventerà “Campo del
sangue”: il campo di tutti i vasi infranti dalle loro colpe, diventerà il campo del
sangue innocente, dove il Signore rifà tutto nuovo, e ognuno ritrova, almeno
nella sua morte, la benedizione della terra promessa.
v. 9: ciò che fu detto per mezzo del profeta Geremia. In realtà la
citazione che segue è da Zc 11,13. Matteo parla di Geremia per alludere
indirettamente a quanto lui disse sull’acquisto del campo e sul vasaio.
presero le trenta monete d’argento, prezzo del venduto, ecc. (Zc 11,13).
Zaccaria 11-14, con i Cantici del Servo, fa da sottofondo al racconto della
passione. Il profeta, deluso della sua missione di pastore, dice al popolo: “Non
sarò più il vostro pastore. Chi vuol morire muoia; chi vuol perire, perisca;
quelli che rimangono si divorino pure tra di loro” (Zc 11,9). E, dopo questo
autolicenziamento, chiede la sua “paga” di profeta, che il Signore gli ordina di
gettare nel tempio: si tratta di trenta pezzi d’argento (Zc 11,12s). Il testo di
Zaccaria parla della rottura dell’alleanza con tutti i popoli (Zc 11,10), che si
sono riuniti contro il Messia. Il prezzo del suo sangue procurerà a tutti la terra
promessa, ristabilendo la nuova alleanza per tutti (26,28).
v. 10: come mi ordinò il Signore. È un’allusione a Es 9,12 (LXX), dove si
parla dell’indurimento del Faraone, che porterà Israele alla Pasqua e all’Esodo.
Con queste diverse allusioni scritturistiche, Matteo elabora una teologia del
“prezzo del sangue” come salvezza e speranza per tutti.
3. Pregare il testo
769
c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere il mio peccato che consiste nel voler
pagare per il mio errore invece di accettare il perdono.
d. Traendone frutto, contemplo la scena.
Da notare:
4. Testi utili
Sal 55; Ger 32,1ss; 18,1ss; Zc 11-14; Gal 3,13; 2Cor 5,21; Ef 2,13-22.
770
109. TU LO DICI
27, 11-26
771
e facessero invece morire Gesù.
21 Ora rispondendo il governatore disse loro:
Chi dei due volete che vi liberi?
Ora essi dissero:
Barabba!
22 Dice loro Pilato:
Che farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo?
Dicono tutti:
Sia crocifisso!
23 Egli disse:
Che fece dunque di male?
Essi ancora più gridavano dicendo:
Sia crocifisso!
24 Ora, vedendo Pilato che non giovava nulla,
ma il tumulto diventava maggiore,
presa dell’acqua,
si lavò le mani davanti alla folla,
dicendo:
Sono innocente del sangue di costui!
Ve la vedrete voi.
25 E rispondendo tutto il popolo disse:
Il suo sangue su di noi
e sui nostri figli!
26 Allora liberò loro Barabba;
Gesù invece, flagellatolo, lo consegnò
perché fosse crocifisso.
“Tu lo dici”, risponde Gesù a Pilato che gli chiede: “Tu sei il re dei
giudei?”. Dopo il processo religioso, Gesù subisce quello politico. Afferma di
essere re, sapendo che questo implica la condanna a morte. Ora può
manifestare senza equivoci la sua regalità.
772
Il re rappresenta Dio in terra. Libero e sovrano come lui, è l’uomo ideale,
ideale di ogni uomo: può fare ciò che vuole. Ma Dio si è appena rivelato nel
Figlio che si fa servo dei fratelli. Questa è la sua libertà, che mette in crisi la
nostra immagine di lui e di noi.
Per noi il re è colui che prevale sugli altri: è il più violento che, uccisi i
concorrenti, si impone a tutti col terrore. Una volta preso il potere, domina
contenendo la violenza con la legge del più forte. Così garantisce la
convivenza, impedendo il dissolversi della società. Quando però il re diventa
debole o muore, riprende il caos e la lotta generale, fino a che emerge uno più
forte che lo elimina, se è debole, o gli succede, se è morto. Re è colui che
vince, facendo del concorrente “la vittima”. Ma a sua volta è “vittima
designata”, quando il suo potere si indebolisce.
Pilato si chiede chi sia quest’uomo che si proclama re mentre è vinto e
legato, debole e consegnato, già destinato alla morte. Re è chi ha in mano
tutto e tutti: chi è questo re che ha niente ed è nelle mani di tutti?
Dio non voleva che Israele avesse un re come gli altri popoli. Lui stesso
è il loro re, e vuole un popolo di fratelli, libero dalla violenza e dal dominio
dell’uno sull’altro (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,7-15). Gesù è il re promesso come
successore a Davide (2Sam 7,1ss), colui che viene nel nome del Signore,
proprio perché viene con l’asina (21,9): è uno che non asserve, ma serve; non
domina, ma dona; non tiene in mano, ma si mette in mano; non toglie, ma dà
la vita. Non è l’uomo più arrogante e violento, ma il più umile e mite di tutti. Il
suo è il regno del Figlio, che ama i fratelli come è amato dal Padre, e
restituisce a ciascuno la propria libertà, che è la sua dignità di immagine di
Dio.
Se Gesù avesse preso il potere, avrebbe confermato il gioco di oppressione e avrebbe
“santificato” la violenza. Il suo invece è il regno di Dio: non è di questo mondo (Gv 18,36)! Lui è
venuto in questo mondo per essere re e testimoniare la verità che fa liberi (Gv 18,36s; 8,32),
smascherando l’inganno che rende schiavi: la falsa immagine di un Dio geloso e violento, al quale
l’uomo vuol rendersi simile.
Dopo venti secoli, il suo modo di essere re inquieta ancora: mina alla
radice ogni volontà di dominio dell’uomo sull’uomo.
Gesù è re di tutti proprio perché fatto oggetto della violenza di tutti, dai
discepoli alla folla, dai capi religiosi a quelli politici, dai giudei ai pagani.
773
Davanti a Pilato non solo afferma la propria regalità: la esercita
effettivamente, portando la sua salvezza proprio mentre è condannato a
morte. La sua uccisione, opera della volontà di tutti, dona la vita a Barabba,
nel quale ognuno si identifica. La morte dell’innocente è la salvezza dei fratelli
che lo condannano!
È una scena di piazza, molto mossa e drammatica: è la piazza del
mondo, in cui religiosi, politici, delinquenti e folla fanno insieme lo stesso
gioco di violenza. Al centro, da solo, sta il re vero, del quale tutti gridano: “Sia
crocifisso!”.
Il brano si articola in tre parti: la regalità di Gesù e il suo silenzio (vv.11-
14), il tentativo di salvarlo da parte di Pilato (vv. 15-19) e, infine, il grande
baratto: la morte ingiusta del Giusto libera l’ingiusto dalla sua giusta morte
(vv.20-26).
Gesù è il re che ridà all’uomo la sua verità di immagine di Dio: la libertà
di amare.
La Chiesa riconosce in lui, il più piccolo tra gli uomini, il suo re che viene
a giudicare il mondo. E vive di questo giudizio, che rompe la catena di
violenza e testimonia nella fraternità il regno del Figlio perfetto come il Padre.
L’impegno politico del credente dovrebbe portare avanti nella storia la libertà
che il Figlio ci ha donato.
774
immagine di Dio, è la negazione di quanto pensiamo. Il dio e il re, che noi immaginiamo, sono una
semplice per-versione mortale di ciò che Dio è e noi siamo.
v. 12: non rispose nulla. Alle accuse Gesù non risponde nulla. Se
l’accusato risponde e mostra la sua innocenza, chi accusa deve subire la pena
corrispondente all’accusa che ha fatto.
v. 13: non senti quante cose, ecc. Noi sentiamo l’aggressione del male
e ce ne difendiamo con forza. Gesù invece è come un sordo, che non sente
(Sal 38,14s).
v. 14: non gli rispose neppure una parola. Il suo silenzio è la Parola, la
grande parola di misericordia che ci salva: invece di accusarci giustamente,
subisce l’ingiusta accusa. Gesù è il re, immagine perfetta di Dio, che è tutto e
solo bene, senza ombra di male: in lui la nostra violenza non provoca violenza,
ma silenzio di compassione.
così che il governatore si meravigliava grandemente. Il potere del mondo è ridotto a stupito
silenzio dal silenzio di Dio.
v. 15: per la festa, ecc. Nella festa di pasqua, ricordo della liberazione
dall’Egitto, il governatore soleva far grazia a un prigioniero, su richiesta del
popolo.
v. 16: un prigioniero famoso, chiamato (Gesù) Barabba. È un ribelle e
omicida, che aveva tentato una sommossa contro i romani, ma senza
successo (Mc 15,7; Lc 23,19). Aveva cercato di fare il gioco dei potenti, ma è
stato vinto. I banditi sono dei re falliti, e i re dei banditi riusciti! Ora si trova
legato, in carcere, in attesa di subire la morte violenta che ha tentato di dare
ad altri.
Barabba significa “figlio del Padre” (bar abbà). È il nome che si dà a
coloro dei quali si ignora la paternità. Barabba, figlio di nessuno e fratello di
nessuno, e per questo ribelle ed omicida, vive aspettando la sua esecuzione.
La sua situazione è metafora della condizione umana: tutti ignoriamo il Padre,
non siamo né figli né fratelli, ma siamo in lotta gli uni con gli altri, in attesa di
finire come avremmo voluto che finisse l’altro.
v. 17: Barabba o Gesù? Gesù è Dio-salva, Barabba l’uomo perduto. A
chi la libertà e a chi la morte? È l’alternativa “teologica”: o lui o Barabba.
Pilato spera maldestramente di salvare Gesù, perché sa che è
innocente. Ma non ha ancora capito che è il Giusto che porta l’ingiustizia.
775
v. 18: per invidia. Per invidia del diavolo entrò la morte nel mondo (Sap
2,24): per invidia Adamo “uccise” il Padre e se stesso come figlio, per invidia
Caino eliminò Abele, per invidia i fratelli vendettero Giuseppe, ecc. L’invidia
sta all’origine e forma il tessuto connettivo della nostra storia. Invece di gioire
del bene l’uno dell’altro, ne facciamo l’oggetto di possesso, da conservare o
da bramare, da difendere o da rapire. Per invidia il bene, ogni bene, si
perverte in male: diventa causa di violenza perpetrata e subita.
v. 19: sua moglie, ecc. Matteo dà rilievo ai sogni, che manifestano le
cose più profonde, per chi li sa leggere. La moglie di Pilato, a differenza di
quella di Erode, vuol salvare l’innocente. Comunque il potente, al di là di ogni
consiglio, buono o cattivo, non può salvare il giusto. Giocato dal suo gioco,
non può che dare la morte, anche controvoglia. Infatti “deve” eseguire la
volontà di tutti quelli che lo riconoscono come capo. Se cede, perde il suo
potere e diventa lui stesso vittima. Può usare mitezza solo quando è tanto
forte da permettersela, e farsi così chiamare anche benefattore (Lc 22,25)!
v. 20: persuasero le folle. La salvezza di Barabba e l’uccisione di Gesù è
opera di tutti, volenti o nolenti, persuasori e persuasi. Tutti, grandi e piccoli,
giudei e pagani, discepoli ed estranei, giochiamo allo stesso gioco.
v. 21: chi dei due volete che vi liberi? È Barabba che ha bisogno di
essere liberato, perché schiavo della violenza. Gesù ne è libero!
Barabba. La folla vuole liberare Barabba, perché si rispecchia in lui. La
volontà delle folle è la stessa del Signore, che vuole la nostra libertà. Tutti ci
siamo alleati contro il Signore e il suo Cristo, per compiere ciò che il suo
cuore aveva preordinato che avvenisse (cf. At 4,28).
v. 22: che farò dunque di Gesù? È il dialogo drammatico tra il potente e
i suoi sudditi. Cosa può fare il potere davanti a chi glielo conferisce, se non
eseguirne la volontà?
dicono tutti: Sia crocifisso! La condanna a morte è opera delle folle, che
rifiutano il potere di Dio. Di un re come Gesù, nessuno sa che farsene. Il suo
modello di uomo è il violento, riuscito o fallito. Quando è fallito, è un po’ più
simpatico: è come tutti! Anche Pilato corre il pericolo di fallire se non
obbedisce.
776
Come “tutti”, nel sinedrio, condannano il Signore per bestemmia, ora
“tutti”, in piazza, condannano il re che testimonia la verità. Ognuno è
chiamato a distinguere la propria voce nel grido unanime della folla.
v. 23: che fece dunque di male? Gesù è innocente.
sia crocifisso! Per questo “deve” portare su di sé la nostra ingiustizia. Il
capro espiatorio è sempre innocente: anche se prima non lo era, lo diventa
quando non è più in grado di nuocere! In quanto innocente ucciso, Gesù ci
libera. Se volesse essere come noi, ci crocifiggerebbe tutti!
v. 24: sono innocente del sangue di costui. Pilato vuole liberare Gesù.
Ma il suo potere non ha questo potere. Se lo liberasse, diventerebbe come
Gesù. Al di là di ogni pretesa innocenza, il potere non può non nuocere: è
autore o vittima di violenza. Non conosce via di uscita, fino a quando non
accetta come re proprio colui del quale gridano: “sia crocifisso!”.
v. 25: il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli. Il sangue
dell’agnello salvò i figli di Israele la notte di Pasqua (Es 12,13). Il sangue del
Messia, versato per tutti, è la nuova alleanza che salva tutti: è il sangue del
Figlio, che ci rende consanguinei del Padre e fratelli tra di noi.
v. 26: liberò loro Barabba. Barabba, figlio e fratello di nessuno, legato in
carcere e dannato alla morte, per il sangue del Figlio, diventa libero, figlio del
Padre.
Gesù invece. È il grande “baratto” che ci salva: Gesù, Figlio del Padre e
fratello di tutti, porta su di sé la nostra maledizione di figli e fratelli di
nessuno, consegnati alla violenza e alla morte. Lo scambio tra Gesù e Barabba
dice narrativamente il significato teologico della croce di Gesù: lui muore per
noi, e noi viviamo per lui. È la vera Pasqua. Barabba, come tutti i suoi fratelli,
non lo sa. Lo capirà quando si renderà conto del fatto.
flagellatolo. È la punizione prima dell’esecuzione: i quaranta colpi meno
uno, anticipo della violenza ultima – talora così violenta da essere l’ultima!.
lo consegnò. Il Giusto, per volontà di tutti, è consegnato a morte invece
del colpevole.
perché fosse crocifisso. Sulla croce, patibolo dello schiavo ribelle, inizia il
suo regno: il suo corpo è dato per noi che ce ne siamo impadroniti, il suo
sangue è effuso per noi che l’abbiamo versato.
777
3. Pregare il testo
Da notare:
• tu sei il re dei giudei?
• tu lo dici
• non rispose nulla alle accuse
• non senti?
• Barabba
• chi volete che vi liberi?
• l’invidia
• i tentativi inutili di Pilato
• le folle manovrate perché manovrabili
• sia crocifisso
• il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli
• Gesù flagellato e consegnato a morte.
4. Testi utili
778
110. SALVE O RE DEI GIUDEI
27, 27-31
“Salve, o re dei giudei”. È l’incoronazione del più piccolo tra gli uomini: è
il re! Dopo la proclamazione pubblica, viene l’incoronazione nel palazzo;
seguirà il corteo trionfale e l’intronizzazione davanti al popolo. Il cerimoniale
di corte per il nuovo re è rispettato con rigore: la sua proclamazione è la
condanna a morte, la sua incoronazione è di spine, il suo trionfo è la via crucis
e il suo trono sarà la croce. Da lì compirà il suo giudizio: mentre i re di questo
779
mondo fanno scannare davanti al trono i loro nemici e premiano gli amici, lui
vincerà ogni inimicizia, premiando i nemici della sua amicizia.
D’ora in poi il vangelo sembra una cattiva burla. Per chi, come Pietro, ha
gli occhi purificati, è rivelazione della verità. Il nostro modo di essere re è una
beffa - una tragica beffa! -, che distrugge l'uomo. Il suo modo di essere re è
invece la verità che ci fa liberi. Nel Figlio dell’uomo, consegnato nelle mani
degli uomini, si consuma e finisce il gioco cattivo al quale, per inganno, tutti
giochiamo, e dal quale siamo mortalmente giocati.
Alla fine di questa scena Pilato dirà: “Ecce homo!” (Gv 19,5), per dire
poco dopo: “Ecco il vostro re!” (Gv 19,14). Ecco l’uomo, ecco il re: ecco come
l’uomo, con la sua idea perversa di sé e del re, riduce l’uomo, al di là di ogni
apparenza.
L’“Ecce homo” è “lo specchio della verità”: riflette il volto dell’uomo,
pervertito nella sua cattiveria, ma anche quello di Dio, svelato nella sua
bontà. “Ecce homo”: ecco l’uomo nella sua disumanità! Ma anche “Ecce
Deus”: ecco Dio nella sua umanità, carico della nostra disumanità!
È una pagina potente di “filosofia della storia”: con brevi tratti, fa
vedere ciò che noi facciamo dell’uomo e di Dio. È rivelazione di una gloria
ignota ai potenti, di una sapienza sottratta ai sapienti; si manifesta solo ai
piccoli e nei piccoli, anzi nel più piccolo tra i nostri fratelli. Ed è scritta non su
pagine, con inchiostro; ma sulla carne del Figlio dell’uomo, con i segni della
nostra violenza.
Gesù, appena condotto nel pretorio, non ha più nome: “il Nome” si
perde, per restituire a noi il nostro vero nome. Il nome di Gesù uscirà ormai
solo nel titolo della croce, nel grido di abbandono e nel dono dello Spirito (vv.
37.46.50). Al suo posto c’è il pronome; ma non come soggetto, bensì come
oggetto. Per ben quattordici volte in questa scena si ripete: “lo, gli, di lui”. Il
pro-nome sta al posto di ogni nome: l’“Ecce homo” ha il nome di tutti gli
uomini, diventato puro oggetto della loro violenza di morte. Dopo la sua
“sostituzione” con Barabba, il Figlio ha il nome dei suoi fratelli, tutti senza
nome, perché figli e fratelli di nessuno.
Attori della scena sono i soldati. Per mestiere esercitano - “legalmente”!
- la violenza, che è nel cuore di ciascuno di noi; ora, rappresentano, in un
780
“mimo” essenziale ed efficace, l’origine e le conseguenze del potere di dare la
morte.
Gesù è veramente re. Ma molto diverso dagli altri, che sono una caricatura capovolta e
terribile di Dio. Regnano infatti con la prepotenza, dando la morte; mentre lui regna portandola su di
sé, dando la vita. Il re, che viene per il suo giudizio, è il più piccolo tra i nostri fratelli (cf. 25,31-46).
Una tradizione ebraica racconta che il mondo è retto da colonne che
poggiano sul cuore di giusti, dove si raccoglie il sangue e il pianto della terra.
Se vengono meno questi giusti, il mondo crolla, affogato nel male che tutti
facciamo e nessuno porta. Gesù è “l’ultimo dei giusti”, il non-uomo, l’uomo
universale sul quale si riversa ogni disumanità. In lui si raccoglie il male del
mondo: è il Servo di Dio e degli uomini, il collettore di ogni impurità, che su di
lui ricade.
La contemplazione di questa scena ci fa conoscere chi è Dio e chi è
l’uomo a sua immagine - chi è lui e chi siamo noi. Noi, con la nostra violenza,
siamo diventati immagine negativa di Dio. Gesù, l’uomo negativo, ci ridà
l’immagine positiva di noi e di lui. Contemplando il Figlio dell’uomo
beffeggiato, la menzogna, che si prende burla dell’uomo, fa cadere la sua
maschera.
Gesù è l’uomo negativo e universale: è l’Agnello di Dio che porta su di
sé il male che ogni uomo fa (cf. Gv 1,29). Proprio per questo è re, l’uomo vero
che ci salva, restituendoci il volto di Dio.
La Chiesa riconosce in lui il suo Signore e Messia, immagine visibile del
Dio invisibile (cf. Col 1,15). Per questo vive con criteri opposti a quelli del
mondo. Capisce come è importante “aborrire del tutto, e non in parte, quanto
il mondo ama e abbraccia, ed accettare e desiderare quanto nostro Signore
ha amato e abbracciato. Come gli uomini mondani, che seguono il mondo,
amano e cercano con ogni diligenza onori, fama, alto riconoscimento del
proprio valore sulla terra, conformemente agli insegnamenti del mondo, così
quelli che camminano nella via dello Spirito e seguono concretamente Cristo
nostro Signore, amano e desiderano intensamente il contrario, cioè vestirsi
della stessa veste del loro Signore, per l’amore e la riverenza che gli sono
dovuti. Cosicché, qualora non vi fosse offesa alcuna nei riguardi di sua divina
maestà, se ciò non fosse imputato al prossimo come peccato, desiderano
subire ingiurie, false testimonianze, affronti, ed essere ritenuti e stimati pazzi
781
(senza, però, darne alcuna occasione), spinti dal desiderio di rassomigliare e
di imitare in qualche misura il nostro Creatore e Signore Gesù Cristo...” (S .
Ignazio di Loyola).
Davanti all’“Ecce homo”, o cambiamo i nostri criteri o continuiamo il
nostro tragico gioco che ci riduce alla fine tutti come lui! Ma in forza della
violenza, non dell’amore. È la fine dell’uomo!
782
di spine. Il Signore voleva che nessuno dominasse su Israele (1Sam
8,1ss). Ogni uomo è figlio e ha la gloria del Padre: la libertà! Rinunciare a
questa è disprezzare Dio e abdicare alla propria verità. Cos’è la gloria dei
potenti, se non l’ignominia di chi è sottomesso in schiavitù? In Giudici 9,7-15,
quando gli alberi della foresta si misero in cammino per cercare uno che
regnasse su di loro, l’ulivo, il fico e la vite rifiutarono. Solo il rovo accettò
dicendo: “Se in verità mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia
ombra; se no esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano” (Gdc 9,15).
la posero sul capo di lui. Gloria dell’Ecce homo è ombra di spine e fuoco
di rovo: l’ignominia devastante della nostra violenza. “Il suo volto è sfigurato
per essere d’uomo il suo aspetto”, “non ha apparenza né bellezza per attirare
i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto” (Is 52,14; 53,2).
Trasfigurato dalla nostra sfigurazione, sua bellezza è la nostra bruttezza, suo
splendore la nostra tenebra.
una canna nella destra di lui. La canna è lo scettro del comando. Lo
scettro è un bastone, prolungamento della mano, che raggiunge ciò che non è
a portata di mano. Il potere di chi ha lo scettro non è agire, ma far agire gli
altri a suo servizio: chi “co-manda” – scimmia di Dio! - manda-insieme gli altri
verso l’ombra e il rogo delle spine. Il bastone è il suo “tele-comando”, che
agisce a distanza, mediante il terrore dei suoi colpi. Riproducendo le brutte
immagini di una testa malata – le immagini, oggi lo sappiamo, diventano
realtà - asserve tutti, privandoli della loro gloria.
Questa canna percuote il capo coronato di spine (v. 30b). Cos’è il
comando del più forte se non una percossa sul capo, sull’intelligenza e la
volontà del suddito? Questi riconosce come suo capo chi lo “decapita”, chi lo
priva del suo capo!
inginocchiandosi davanti a lui. È la prostrazione: il suddito offre al re la
nuca, riconoscendo padrone della sua vita chi, invece di dargli la morte, lo
grazia, per ora, dalla disgrazia di cui lo minaccia! Questa commedia davanti a
Gesù svela la tragedia del potere, mostrando “di che lacrime grondi e di che
sangue”.
lo beffeggiano. Beffeggiare, prendere in giro, trattare da scemo: ecco in
sintesi qual è l’atteggiamento dell’uomo davanti al suo vero volto! L’atroce
783
farsa, alla quale noi tutti giochiamo, finisce contro il Figlio dell’uomo, che ci
rivela la nostra stupidità e la sua gloria. Lui infatti non agisce come noi: “non
può”, perché è buono e amante della vita (Sap 11,26); per questo “deve”
subire ciò che noi facciamo. Questa è la sua forza, in cui si arresta lo stupido e
crudele gioco della nostra incoscienza.
salve, o re dei giudei. È l’acclamazione festosa di chi ha trovato ciò che
desidera. Il re è colui che tutti vorremmo essere, e che tutti abbiamo a capo.
Cos’è il plauso, in un rapporto di sudditanza, se non una reciproca e
inconsapevole presa in giro?
v. 30: sputandogli. Dopo la prostrazione e l’acclamazione a colui che è
adornato delle insegne di capo, segue il bacio di adorazione. Adorare significa
baciare, portare alla bocca (ad-orare) l’oggetto del proprio desiderio, quasi un
mangiarlo e introiettarlo. Qui il bacio è sputo di disprezzo. E cos’è ciò che noi
desideriamo, se non ciò che è spregevole?
presero la canna e percuotevano il capo di lui. Alla fine si manifesta a
cosa serve lo scettro: percuotere il capo di chi non si piega. I soldati eseguono
il comando implicito a ogni potere: far violenza all’innocente. “Innocente” è
colui che non nuoce. Chi nuoce, è pericoloso; chi nuoce più di tutti, diventa re.
Se il re ha il potere di dare la morte, l’innocente ha quello di riceverla!
v. 31: quando lo ebbero beffeggiato. È il commento dell’autore davanti
alla commedia umana e divina dell’“Ecce homo”. Quanto i servi del potere
eseguono è una beffa: la beffa che ci beffa tutti, padroni e servi, signori e
schiavi.
Il racconto mostra la gratuità e stupidità del male: è brutto, e senza
alcun vantaggio, per nessuno!
lo spogliarono. Per la seconda volta è spogliato; prima della sua, ora
della nostra veste.
lo rivestirono delle vesti di lui. Sono quelle del Figlio, che ai piedi della
croce lascerà in eredità ai fratelli che lo crocifiggono (v. 35).
lo portarono via per crocifiggerlo. Dopo l’incoronazione nel palazzo, tra i
familiari, segue il corteo tra la folla che lo porta all’intronizzazione. Il suo trono
sarà sul Calvario, davanti alle porte della città.
784
3. Pregare il testo
Da notare:
4. Testi utili
Sal 67; 96; Gdc 9,7-15; 1Sam 8,1ss; Sap 2,1ss; Is 52,13-53,12; Col 1,13-20.
785
111. VERAMENTE FIGLIO DI DIO ERA COSTUI
27, 32-56
786
43 Confidò in Dio:
lo liberi ora, se lo vuole.
Ha detto infatti:
Sono Figlio di Dio!
44 Ora parimenti i ladroni,
crocifissi con lui,
lo insultavano.
45 Dall’ora sesta ci fu tenebra su tutta la terra
fino all’ora nona.
46 Ora, verso l’ora nona, gridò in alto Gesù a gran voce,
dicendo:
Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?
47 Ora alcuni di quelli che stavano lì,
avendo ascoltato, dicevano:
Costui chiama Elia.
48 E subito corse uno di loro
e, presa una spugna imbevuta di aceto
e postala attorno a una canna,
gli dava da bere.
49 Ora gli altri dicevano:
Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!
50 Ora, Gesù, avendo di nuovo gridato a gran voce,
emise lo Spirito.
51 Ed ecco il velo del tempio si squarciò
in due, dall’alto verso il basso,
e la terra si scosse,
e le pietre si spaccarono
52 e i sepolcri si aprirono
e molti corpi dei santi dormienti risuscitarono,
53 e, usciti dai sepolcri dopo la sua risurrezione
entrarono nella città santa
e apparvero a molti.
54 Ora, il centurione e quelli con lui che custodivano Gesù,
visto il terremoto e le cose accadute,
787
furono molto spaventati, dicendo:
Veramente Figlio di Dio era costui!
55 C’erano poi lì a guardare da lontano molte donne,
che avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo.
56 Fra loro c’era Maria la Maddalena
e Maria madre di Giacomo e Giuseppe
e la madre dei figli di Zebedeo.
788
caduta dell’uomo tocca il fondo senza fondo dell’abisso di Dio, il quale in esso
rivela la sua gloria.
Il racconto inizia con il Cireneo: costretto a portare la croce, rappresenta
coloro nei quali ancora contempliamo il Crocifisso, che è sempre con noi a
nostra salvezza (v. 32). Segue la crocifissione e l’affissione del titolo di
condanna (vv. 33-38). Attorno alla croce si svolgono le varie interpretazioni,
che vanno dalla bestemmia alla derisione e all’insulto (vv. 39-44). La morte di
Gesù è presentata come le tenebre d’Egitto e il caos originario, principio
rispettivamente dell’esodo e della creazione. Nel buio meridiano si elevano
due forti gridi dal Figlio: nel primo si rivolge al Padre e nel secondo emette il
suo Spirito (vv. 45-50). È lo Spirito di Dio, datore di vita, che ricrea il mondo
nuovo, non più sottoposto alla morte (vv. 51-53). Il centurione, e quanti sono
con lui, fanno la prima professione di fede: riconoscono in colui che hanno
crocifisso il Signore (v. 54). La scena, che si apre con il Cireneo, si chiude con
le donne ai piedi della croce. Queste rappresentano l’umanità nuova, che
contempla il suo Signore crocifisso, lo segue e lo serve: sono il profumo di
Cristo (cf. 2Cor 2,14s), che comincia a effondersi per il mondo (vv. 55-56).
Gesù è il Figlio di Dio, perfetto come il Padre perché dà la vita per i
fratelli: fa piovere il suo Spirito su tutti, cominciando dai suoi crocifissori. In lui
finisce la violenza dell’uomo, e vediamo Dio, il suo e il nostro vero volto. La
croce, apice della storia di Dio e dell’uomo, è il luogo dove i due si incontrano
e formano un'unica carne.
La Chiesa si identifica innanzitutto con il centurione e i soldati che
l’hanno crocifisso, eredi della veste del Figlio. Solo questi, che lo vedono come
oggetto della propria violenza, conoscono Dio: è colui che risponde alla
provocazione con il dono del suo Spirito.
789
lo costrinsero a portare la croce di lui. Nel momento più alto della storia
di Dio e dell’uomo, Simone aiuta il Signore a portare la croce. È la croce del
male del mondo, sulla quale finirà Gesù.
Discepolo è colui che porta la propria croce (16,24). Chi è costui che porta addirittura la
croce del Signore? Ciò che Gesù fa con noi, lo fa il Cireneo con lui: è discepolo perfetto, che si
identifica con il suo Maestro. In lui si compie a nostro favore ciò che ancora manca alla passione di
Cristo per la nostra salvezza (cf. Col 1,24). Ma lui non lo sa, né lo vuole. Eppure gli tocca farlo: è
costretto! Infatti è il più piccolo tra i fratelli lì presenti alle porte di Gerusalemme, ai piedi del
Calvario. A lui “tocca” portare la croce. Se fosse stato ricco, potente o sapiente, l’avrebbe potuta
scaricare su altri! Anche lui diventerà immondo come il Signore, e non potrà celebrare la Pasqua. Il
suo è un caso maledetto, che capita a chi è debole e non può ribellarsi: “deve” portare la violenza
altrui. Dopo l’“Ecce homo”, ecco un altro come lui, inizio di una numerosa schiera che abbraccia
tutti i poveri e i dannati della terra. In Marco è padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21): un padre che
ha una posterità senza fine (due è il numero aperto alla molteplicità). Tutti i piccoli del mondo sono
cirenei!
Solo più tardi capirà il grande dono che gli è stato fatto. La vocazione ad
essere con Gesù non è frutto di volontà: è un dono che capita, controvoglia, a
chi solo dopo capirà. Sul momento è solo un increscioso incidente, che mai
avrebbe voluto che avvenisse.
v. 33: un luogo chiamato Golgota. Ai piedi del Calvario, piccolo rilievo di
pochi metri davanti alle porte della città, c’è una grotta. La tradizione pone in
essa i resti del primo uomo. L’albero della vita si innalza sul teschio di Adamo,
che volle rapire l’uguaglianza con Dio. La sua volontà di potenza procurò la
morte a lui e ai suoi figli. Sul suo capo scende ora il sangue del Figlio
innocente, la cui debolezza ha il potere di dare la vita.
v. 34: vino mescolato con fiele. Ai condannati si dà una bevanda
anestetica (cf. Pr 31,6): vino con mirra. A lui è dato “fiele” (cf. Sal 63,21s).
Nessuna consolazione per lui, se non il fiele di una solitudine amara.
non ne volle bere. Tutto il nostro sapere è un tentativo per non sentire il
dolore che la morte ci procura. Per questo riduciamo la nostra esistenza a
fiele. La stupidità di Dio rifiuta questa sapienza; beve invece fino in fondo la
coppa del nostro furore. Alla nostra potenza e sapienza, Dio risponde con la
sua, che è la debolezza e la follia dell’amore.
790
v. 35: avendolo crocifisso. La croce, patibolo dello schiavo ribelle, è il
suo trono. La descrizione della crocifissione è quasi un protocollo, senza
commenti: l’esecuzione del Signore dell’universo è l’avvenimento più grande,
la cosa più sublime che l’uomo possa fare.
si divisero le sue vesti. Le vesti del Figlio ricoprono i crocifissori. Dio
aveva dato ai nostri progenitori due tuniche di pelle in cambio delle foglie di
fico, in attesa di fare loro questo dono. L’eredità del Figlio spetta ai fratelli che
l’hanno crocifisso. Sono i primi che, rivestiti di lui, daranno gloria a Dio.
v. 36: stavano lì a custodirlo. Intronizzato il re, ora stanno ad osservare,
seduti. E vedono il giudizio di Dio.
v. 37: Gesù, il re dei giudei. Il nome ed il titolo della condanna, posti sul
patibolo, sono la didascalia della scena. Ognuno può vedere e capire chi è il
re, quello che libera.
v. 38: con lui due ladroni. Uno alla destra e l’altro alla sinistra, i due
ladroni rappresentano tutti noi, che abbiamo rapinato l’eredità del Padre. Al
centro c’è il Figlio, che la offre. La nostra morte giusta è frutto della nostra
ingiustizia; la sua, ingiusta, è frutto della “sua giustizia”, quella di Figlio
perfetto come il Padre.
A quel punto anche i ladroni sono “innocenti”: non possono più nuocere,
perché in croce. L’Emmanuele è con loro: il Giusto condivide la loro sorte, per
quanto colpevoli siano stati.
v. 39: i passanti lo bestemmiavano. La bestemmia è non riconoscere il
Cristo, il Figlio di Dio e il Giudice in colui che abbiamo crocifisso per
bestemmia.
v. 40: distruggi il tempio e in tre giorni, ecc. È stata l’accusa contro
Gesù (26,61). Tempio distrutto è lui, riedificato dopo tre giorni dalla potenza
dello Spirito, luogo di comunione con il Padre e tra i fratelli, aperto a tutti gli
uomini.
salva te stesso. Ogni nostra violenza viene dal tentativo di salvarci dalla
morte, che temiamo come fine della vita. Salvare se stesso è l’origine
dell’egoismo che governa ogni nostra azione. Ma solo chi perde la sua vita, la
salva (cf.16,25).
se sei Figlio di Dio. Così anche Satana lo tentò nel deserto (4,3.6).
791
scendi dalla croce. Dio si rivela tale perché resta sulla croce. Se
scendesse, sarebbe un uomo, come tutti noi.
v. 41: i sommi sacerdoti, beffeggiandolo con gli scribi e gli anziani.
Come prima i soldati e poi i passanti, ora anche i capi lo beffeggiano. La
potenza e sapienza di Dio è bestemmia e beffa per la potenza e la sapienza
del mondo, che lo bestemmia e beffeggia.
v. 42: altri salvò, non può salvare se stesso. Gesù non può salvare se
stesso: infatti perde se stesso per salvare noi.
il re d’Israele. Per questo è il re, l’uomo libero dal tentativo di salvare se
stesso, che può salvare gli altri.
scenda ora dalla croce. Come si vuol staccare il Signore dalla croce, così
si vuol staccarne pure la salvezza. Ma la croce è l’unica rivelazione di Dio, ed è
anche l’unica nostra salvezza. Infatti è la somma di tutto il male che noi
facciamo e di tutto il bene che Dio fa per noi.
Se Gesù scendesse dalla croce, in croce saremmo noi; e lui non sarebbe né Signore né Messia.
v. 43: confidò in Dio, lo liberi, ecc. (cf. Sap 2,13.18-20). Gesù è il Figlio
la cui giustizia è affidarsi al Padre, in obbedienza al quale si affida ai fratelli
perduti.
v. 44: i ladroni crocifissi con lui lo insultavano, ecc. La croce è scandalo,
anche per coloro ai quali il Signore si fa vicino, per portare la sua benedizione.
v. 45: ci fu tenebra su tutta la terra. Si oscura il sole di mezzogiorno: è
la fine del mondo! Oltre la croce del Figlio di Dio, nessun male può andare. Il
peccato ha raggiunto il suo apice: la luce, principio della creazione, è “presa”
dalle tenebre. E tutta la terra fa lutto per il Figlio (cf. Am 8,9s).
La tenebra, che divora il sole, è il regresso al caos primordiale; da esso
Dio fa la nuova creazione. È la notte che copre l’Egitto; da esso il Padre estrae
e fa nascere il Figlio!
v. 46: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Sal 22). È l’inizio
del Salmo 22, che esprime fiducia nella disperazione. L’abbandono di Dio è il
male compiuto dall’uomo, che ha lasciato il Padre.
Il Figlio, fatto per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), porta
su di sé il male dei fratelli, e lo grida al Padre. In lui, che grida con noi a Dio,
792
nessun abbandono è più abbandonato. In ogni abbandono di Dio troviamo il
Figlio, che si è abbandonato per noi.
v. 47: chiama Elia. Elia è colui che deve venire prima della fine del
mondo per riconciliare il cuore dei padri verso i figli e dei figli verso i padri (Ml
3,23s). L’AT si chiude con queste parole, che sono la grande promessa. Essa si
realizza ora nel grido di Gesù al Padre, che in lui si riconcilia con ogni figlio.
v. 48: una spugna imbevuta di aceto (cf. Sal 69,22). L’aceto è vino
andato a male. Il Figlio ha sete (Gv 19,28) di dare a noi la sua fonte di acqua
viva (Gv 4,14). Per questo beve la nostra morte. Dopo che lui ha bevuto il
nostro aceto, tutto è compiuto (Gv 19,30).
v. 49: vediamo se viene Elia a salvarlo. Elia, rapito in cielo su un carro
di fuoco, è invocato e atteso come il salvatore delle situazioni impossibili.
v. 50: avendo di nuovo gridato a gran voce. Dopo il primo grido, pieno
di tutta la nostra morte urlata al Padre, questo secondo è la voce potente del
Verbo creatore che si diffonde nelle tenebre e crea la vita. È il vagito potente
della creatura nuova: il Figlio di Dio, nel quale tutto è fatto, nasce sulla terra!
emise lo Spirito. Dall’alto della croce, è inviato sulle tenebre lo Spirito
del Figlio, che a tutto dà vita.
v. 51: il velo del tempio si squarciò. Nel battesimo di Gesù si squarciò il
cielo, scese lo Spirito e risuonò la voce che lo proclamò Figlio; nella sua morte
si squarcia il velo del tempio e il Figlio di Dio nasce sulla terra, riempiendo il
cosmo del suo Spirito. Dio non è più dietro il velo del tempio, in cielo; è nella
nudità del Figlio, che lo svela sulla terra.
la terra si scosse, ecc. Il sole si oscura, il cielo si squarcia, la terra si
scuote, le pietre si spezzano: è la fine del mondo posto nel male, che
nell’uccisione del Figlio consuma la propria violenza.
v. 52s: i sepolcri si aprirono, e molti corpi, ecc. È l’inizio del mondo
nuovo. Il cielo si squarcia per lasciar scendere Dio (Is 63,19), la terra si scuote
e si apre per restituire i morti che ha inghiottito. Qui riconosciamo chi è il
Signore (cf. Ez 37,13).
Per questo Spirito i morti ora vivono la vita che vince la morte; ed
entrano nella città santa, nella Gerusalemme celeste che è la loro patria. Colui
che disse: “L’ho detto e lo farò” (Ez 37,14), ora compie la sua promessa. Nel
793
Figlio, che dà la vita per tutti, ogni fratello ritorna alla vita di figlio di Dio.
Questi santi ne sono l’anticipo. La morte non ha più potere su di loro: è morto
il loro corpo di peccato ed è donato loro lo Spirito datore di vita.
v. 54: il centurione e quelli con lui. Il comandante e il suo plotone di
esecuzione, che l’hanno ucciso e lo guardano, ora conoscono il Signore della
gloria.
veramente Figlio di Dio. Per la prima volta l’uomo conosce chi è Dio: lo
vede nel corpo del Figlio, dato per lui che l’ha ucciso. Vedere il Figlio di Dio nel
Figlio dell’uomo è il grande mistero: mistero di Dio e salvezza dell’uomo.
era costui. Non perché non lo sia più, ma perché ora si capisce “che” e
“come” Gesù era Figlio, in tutta la sua esistenza terrena.
vv. 55s: molte donne ecc. Ai piedi della croce nasce la Chiesa,
raffigurata da queste donne che contemplano. Dal fianco di Adamo
addormentato nacque Eva, madre dei viventi. Dalla ferita d’amore del nuovo
Adamo, che dà la vita per lei, nasce l’umanità nuova, che vive della passione
del suo Signore.
Queste donne guardano. I loro occhi e il loro cuore sono sulla croce, e il
Crocifisso è nei loro occhi e nel loro cuore: si “battezzano” nella morte di
Gesù, per essere poi conseplte (vv. 57-61) e, alla fine, conrisoregere con lui
nella novità di vita (vv. 1-10; cf. Rm 6,1-5). Dalla debolezza di Dio nasce il
nuovo popolo, la cui prima caratteristica è la debolezza di chi guarda la croce.
Questo sguardo di compassione verso il Signore corrisponde allo sguardo di
compassione del Signore verso l’uomo, che l’ha condotto lì. La sequela e il
servizio portano qui, e partono da qui.
A questo punto del vangelo ci sono solo delle donne. I discepoli, forti e
intelligenti, sono scomparsi. Rimane solo chi ha la forza e la sapienza di Dio,
che è la debolezza e la stupidità dell’amore.
3. Pregare il testo
794
c. Chiedo di vedere ciò che il centurione ha visto, di guardare come le donne.
d. Traendone frutto, contemplo la scena.
Da notare:
• Il Cireneo costretto a portare la croce
• il luogo del Cranio
• vino mescolato con fiele
• si divisero le sue vesti
• la scritta sul suo capo: re dei giudei
• due ladroni crocifissi con lui
• i passanti lo bestemmiavano
• salva te stesso
• se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce
• i capi lo beffeggiano
• altri salvò, non può salvare se stesso
• confidò in Dio, lo liberi
• i due ladroni lo insultano
• le tenebre a mezzogiorno
• Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?
• chiama Elia
• beve l’aceto
• viene Elia
• il nuovo forte grido
• emise lo Spirito
• il velo del tempio si squarcia
• la terra si scuote, le pietre si spaccano, i sepolcri si aprono e i morti
risorgono
• veramente Figlio di Dio era costui
• le donne, che lo avevano seguito e servito, guardano
795
4. Testi utili
Sal 22.
È utile contemplare la scena attraverso le sette parole di Gesù in croce: prega
per i suoi crocifissori (Lc 23,34), promette il regno al malfattore (Lc 23,43),
affida Giovanni a sua madre e sua madre a Giovanni (Gv 19,26s), ha sete (Gv
19,28), grida al Padre il suo abbandono (Mc 15,34), tutto è compiuto (Gv
19,30), si affida al Padre (Lc 23,46).
27, 57-66
796
perché i suoi discepoli non vengano e lo rubino e dicano al popolo:
È risorto dai morti,
e sarà l’ultimo inganno peggiore del primo!
65 Disse loro Pilato:
Avete una guardia:
andate e assicuratevi come sapete.
66 Ora essi, andati, assicurarono la tomba
sigillando la pietra,
con una guardia.
“Lo pose nel suo sepolcro nuovo”. Così si conclude la vicenda di Gesù.
Ora anche lui è ciò che tutti noi siamo. ’Adam è di adma’ (= terra: cf. Gen 2,7),
l’“uomo” (homo) è humus: dalla terra viene e ad essa fa ritorno.
Il primo pezzo di terra promessa, che ottenne il padre Abramo, fu il
sepolcro di Sara, madre del popolo di Dio (Gen 23,1ss). Il sepolcro di Gesù
realizza la promessa per tutti i popoli. L’umiltà del Signore lo rende humus: il
Dio-con-noi è il Dio-come-noi! Il suo vivere e il suo morire fu unico; il suo
essere morto lo fa uguale a tutti. Ora l’incarnazione giunge al suo
compimento: da un solo uomo, passa ad ogni uomo.
Termina il venerdì e comincia il sabato: finalmente il Signore, steso nel
sepolcro, si riposa dalla fatica. Tutta la Bibbia racconta la passione di Dio per
l’uomo. Lo cerca fin dal primo giorno, quando gli chiese: “Dove sei?” (Gen 3,9).
Adamo si è nascosto da lui, sua vita, ed è entrato nella morte. Ora è finita la
sua ricerca: lo trova nella tomba. Oltre non può fuggire! Lì raggiunge ogni sua
lontananza.
La sepoltura di Gesù è il mistero più grande del Figlio. Non fa più niente.
È morto, fratello di ogni uomo, anche lui sconfitto dalla vita. È quel nulla di sé
che ognuno paventa, e che ognuno diventa!
Se così non fosse, non saremmo salvi. Perché sappiamo che, buoni e
cattivi, poveri e ricchi, sapienti e stolti, tutti finiamo nella tomba. E lui è lì,
797
come tutti i mortali, che si distinguono solo per il fatto che alcuni sono “già”, e
altri “non ancora” morti.
Cosa fa Gesù sottoterra? Perché la luce scende nelle tenebre? Perché il
Verbo creatore entra nel caos? La discesa di Gesù all’inferno è un articolo di
fede apostolica: il mistero più oscuro e più grande del Dio-con-noi. L’apostolo
Pietro dice che andò negli inferi ad annunciare la salvezza a quegli spiriti,
prigionieri della morte, che si erano induriti nell’empietà e non avevano voluto
credere alla magnanimità di Dio (cf. 1Pt 3,19s). Ora lo vedono. Lì Giuda, che
l’ha appena preceduto, stupito lo guarda; e si sente dire: “Amico, sono qui per
te! E per tutti gli altri, che sono fratelli tuoi e miei!”.
“Mi baci con i baci della sua bocca”, esordisce la sposa parlando dello
sposo (Ct 1,2). Il sepolcro di Gesù è il bacio di Dio sulla bocca dell’umanità: si
unisce ad essa in un amore più forte della morte, che nessuna acqua può
spegnere (cf. Ct 8,6s). Attraverso la tomba, cavità da cui ognuno viene e verso
cui va, la potenza del Dio creatore entra nella terra, e la ingravida di vita.
Il brano ci presenta l’ultima opera dell’uomo nei confronti del Figlio
dell’uomo: semina il suo corpo nel grembo della terra (vv. 57-60). Due donne
stanno a osservarlo, chiuso e sigillato (v. 61). Il giorno dopo lo troveranno
dischiuso: avrà finalmente dato il frutto benedetto del suo seno.
Il presagio della risurrezione è nel cuore e sulla bocca di chi l’ha ucciso:
si ricordano della sua parola, e vogliono garantirsi che non sia vera. La
risurrezione è il supremo inganno, per chi ha investito tutto nella morte ( vv.
62-66).
Gesù, il Dio-con-noi, è nel sepolcro: morto, solidale con tutti i mortali.
La Chiesa è raffigurata dalle donne davanti al sepolcro. Il battesimo è un
con-morire con il Signore crocifisso (cf. v. 55s): ora è anche un essere con-
sepolti con lui. Solo così si scopre che là, dove si teme il nulla, c’è il Signore
della vita. La buona notizia penetra nelle profondità dell’uomo.
798
v. 57: Venuta la sera. Inizia l’ultima notte: il sole entra nel regno
dell’ombra.
un uomo ricco di Arimatea, ecc. Quest’uomo è ricco; eppure è discepolo
di Gesù. Non ha lasciato tutto per il Signore (19,21ss). Ma il Signore ha lasciato
tutto per consegnarsi a lui. Ora lui gli cede il “suo” sepolcro, rendendo al Figlio
dell’uomo l’ultimo servizio che può fare l’uomo: seppellire un morto. È un
discepolo anomalo, o figura di chi, fino a questo punto, ha letto il vangelo?
v. 58: andato da Pilato, chiese il corpo di Gesù. Giuseppe chiede e
ottiene il corpo del Signore. Lo riceve da un pagano! Quel corpo, consegnato
dal discepolo Giuda, passato per le mani di tutti, ora giunge a Giuseppe. Il
dono del Figlio ora completa il suo circolo, a salvezza di tutti.
v. 59: preso il corpo. Il corpo dato ora è preso - secondo il comando di
Gesù nell’ultima cena: “Prendete” (26,26).
Giuseppe lo avvolse. Il discepolo si prende cura di questo corpo: lo
prende, lo fascia e lo adagia, come Maria nella notte della sua nascita mortale
(cf. Lc 2,7). Vede le sue ferite, e si chiede: “Perché queste ferite?” (cf. Zc
13,6). Quelle piaghe, in mezzo alle sue mani, le ha ricevute in casa dei suoi
amici, da parte di quelli che hanno falsato la Parola. Quella trafittura al costato
(cf. Zc 12,10), che gli ha aperto il cuore, è fonte zampillante, che lava ogni
peccato (Zc 13,1).
C’è una conoscenza del corpo di Gesù “manuale”, materna, propria delle
mani che toccano e si prendono cura del più piccolo tra i fratelli.
in una sindone pura. Il lenzuolo, che avvolge colui che s’è caricato di
ogni impurità, è puro!
v. 60: lo pose nel suo sepolcro. La parola “sepolcro”, in greco
(mnemeîon), è imparentata con “memoria”. L’uomo è memoria di morte,
affannato per l’eredità che gli tocca in sorte. Lo stesso termine “umano”
deriva da “humandus” (= da interrare)! L’animale diventa “umano” quando sa
di finire sotto terra, e concede all’altro quell’umanità che altri concederanno a
lui. Un corpo insepolto è maledizione disumana: mancanza di relazione, pasto
di belve!
nuovo. Questo sepolcro è nuovo, come il grembo verginale di Maria.
799
scavato nella roccia. Da questa roccia la potenza di Dio genererà la vita
nuova: le viscere della terra restituiranno l’uomo a immagine di Dio. Non è
dalle pietre che Dio suscita figli ad Abramo (cf. 3,9), dalla sua cava (cf. Is
51,1s), sterile come una tomba?
rotolata una pietra grande alla porta del sepolcro. Questa grande pietra
separa la vita dalla morte. Ma dov’è la vita? dov’è la morte?
se ne andò. I discepoli, quando vedono che non c’è più nulla da fare per
Gesù - se non rinnegarlo -, lo abbandonano e fuggono (26,56). Pure Giuseppe,
fatto ciò che poteva, se ne va.
v. 61: c’erano lì Maria Maddalena e l’altra Maria. A differenza degli
uomini, due donne restano dove non c’è nulla da fare. Il grembo che dà vita
sta davanti al grembo della grande madre, che genera ciò che non c’è e
inghiotte ciò che c’è. Dal proprio nascere e morire, mistero fondamentale
dell’esistenza umana, ognuno è sempre escluso: altro da lui è il suo principio e
il suo fine.
sedute davanti alla tomba. Presso la croce, le donne stavano in piedi a
contemplare il loro Signore, innalzato sul palo. Ora stanno sedute. Il sepolcro
ora è chiamato tomba. Sepolcro è ciò che si vede da fuori; tomba ciò che è
dentro. Quello è memoria di chi vive, questa è vuoto scavato, assenza di
ricordo per tutti.
Non si dice che le donne guardano! Non c’è nulla da vedere: solamente
una pietra, che sottrae tutto. Eppure sanno che lì, dietro, non c’è la morte, ma
il Signore della loro vita.
Ora è entrato negli inferi, a far visita ad ogni uomo, che lì è giunto o
giungerà. Le donne contemplano, con l’occhio interiore, ciò che sta oltre il
sepolcro - fin a che loro stesse diventano sua tomba, piena della sua presenza.
La morte sta al di qua, in chi non capisce il mistero del Figlio dell’uomo, il
segno di Giona (cf. 12,40; 16,4). Oltre la pietra è l’abisso vertiginoso
dell’ignoto – unica cavità capace di accogliere il Dio-con-noi. Sotto terra è
nascosto un lievito che la fermenterà tutta (13,33), un chicco che diventerà
grande albero (13,31), un seme che germinerà vita in abbondanza (13,3-9), un
tesoro che sarà la gioia di chi lo scopre (13,44).
800
Il sepolcro è il nostro cuore. Fin che non conosciamo il mistero del corpo
dato per noi, siamo schiavi della morte per tutta la vita (cf. Eb 2,14s).
Contemplare il Signore nella tomba, essere con-sepolti con lui, è
l’evangelizzazione dell’inconscio. Ci libera infatti dalla paura della morte,
perché in essa incontriamo il Dio-con-noi. Da lui veniamo e a lui torniamo. Lui,
non il nulla, è nostro principio e nostro fine!
v. 62: il giorno seguente, ecc. Siamo di sabato. È giorno di silenzio. Dio
si riposa dalla sua fatica. Ha finalmente trovato l’uomo, che da sempre cerca!
si riunirono i sommi sacerdoti e i farisei presso Pilato. Chi non ha
contemplato la croce e la tomba, continua il suo lavoro di violenza contro il
Signore della vita.
v. 63: ci siamo ricordati, ecc. Ricordano, per difendersene, la parola di
Gesù. Lo chiamano “ingannatore”. Eppure gli avevano detto, pochi giorni
prima: “Sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità, e non
hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno” (22,16)!
dopo tre giorni risorgerò. I discepoli hanno rimosso questa parola.
Faranno fatica a crederci anche dopo (cf. 28,17;. Lc 24,11.37s). I nemici
invece, temendola, la ricordano bene, ed hanno paura che sia vera. Vogliono
garantirsi che non lo sia; e quando, controvoglia, saranno testimoni della
risurrezione, ripeteranno contro l’annuncio del Risorto ciò che hanno compiuto
contro Gesù: per denaro, come ne hanno ucciso il corpo, cercheranno di
sopprimerne la testimonianza (cf. 28,11-15).
v. 64: comanda dunque che sia assicurata la tomba fino al terzo giorno,
ecc. Hanno paura che i discepoli lo rubino, dicendo che è risorto. Ma i discepoli
hanno ben altro da pensare: sono pieni di paura, perché è stata loro rubata la
speranza (cf. Lc 24,21).
sarà l’ultimo inganno peggiore del primo. Per chi odia la luce, il “primo
inganno” è Gesù, che è vissuto da fratello fin dentro la morte! L’ultimo è il
Padre, che lo riconosce come Figlio nel dono della vita!
Per Adamo, che non conosce Dio come Padre e se stesso come figlio, la
verità suona inganno.
801
v. 65: disse Pilato: avete una guardia, ecc. La guardia del tempio è ora
custode del sepolcro. La guardia dà sicurezza! Può dare la morte ad un vivo,
ma resterà come morta vedendo vivo colui che ha ucciso (cf. 28, 4)!
v. 66: assicurarono la tomba sigillando la pietra. Il sigillo è il segno di
riconoscimento, la firma di chi l’ha tolto di mezzo. Sarà infranto non da una
violenza esterna, ma da una forza interna che prorompe: la vita che viene alla
luce!
3. Pregare il testo
Da notare:
• venuta la sera
• Giuseppe, uomo ricco e discepolo
• chiede e “prende” il corpo che gli è “dato”
• lo avvolge in una sindone pura
• lo pone in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia
• se ne andò
• Maria Maddalena e l’altra Maria sedute davanti alla tomba
• i sommi sacerdoti e i farisei si ricordano della parola di Gesù
• l’ultimo inganno peggiore del primo
• la guardia al sepolcro
• il sigillo sulla pietra.
802
4.Testi utili
803
113. È RISORTO DAI MORTI
RALLEGRATEVI
28, 1-15
804
Ora esse, avvicinatesi, strinsero i suoi piedi
e lo adorarono.
10 Allora dice loro Gesù:
Non temete!
Andate ad annunciare ai miei fratelli
che partano per la Galilea,
e là mi vedranno.
11 Ora, mentre esse partivano,
ecco alcuni della guardia, andati in città,
annunciarono ai sommi sacerdoti
tutte le cose accadute.
12 E, riunitisi con gli anziani e tenuto consiglio,
diedero ai soldati parecchie monete d’argento,
13 dicendo:
Dite che i suoi discepoli, venuti di notte,
lo rubarono, mentre noi dormivamo.
14 E se questa cosa fosse per caso udita dal governatore,
noi lo convinceremo, e vi lasceremo senza preoccupazioni.
15 Ora essi, prese le monete d’argento,
fecero come erano stati ammaestrati.
E si diffuse questa parola presso i giudei fino ad oggi.
805
chiunque altro, incontreranno il Signore solo nella Parola, e lo riconosceranno
mentre la eseguono. Non c’è altra esperienza del Risorto.
Matteo non ha bisogno di spiegare cos’è la risurrezione (cf. 22,23-33). Si
rivolge al popolo al quale Dio ha detto: “Riconoscerete che io sono il Signore,
quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio.
Farò entrare in voi il mio spirito, e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese;
saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò” (Ez 37,13s).
La risurrezione del Messia, il primogenito, è l’anticipo di quella degli altri
fratelli. Ascoltando e facendo la sua parola, anche loro diventeranno figli. La
risurrezione, alla quale tutto il creato partecipa (Rm 8,19ss), è frutto
dell’“ascolto”, che ci rende eredi di Dio. Il Figlio è venuto per dirci e darci
quanto il Padre vuol donare ad ogni figlio.
Il brano ci parla delle donne che vanno al sepolcro. La terra si scuote, come
una partoriente, e, invece di una pietra che sigilla l’ombra della morte,
sfolgora una potenza celeste, che invita a entrare nella tomba, dicendo: “Non
è qui” il Gesù crocifisso. La Parola, che le incoraggia ad entrare, espelle anche
loro dalla tomba, per annunciare ai discepoli che lo vedranno in Galilea (vv. 1-
7). Mentre obbediscono a ciò che hanno udito, lo incontrano con gioia, lo
abbracciano e adorano. Ma il Signore, finalmente riconosciuto, le invia ancora
una volta verso i fratelli (vv. 8-10). È proprio andando verso gli altri che si
incontra l’Altro: amando loro, viviamo del suo Spirito e siamo nel Padre (cf. vv.
16-20).
Tutto il vangelo tende alla “missione” verso i fratelli (vv. 7.10.19). In essa
realizziamo la nostra “vocazione” di figli, e siamo con colui che è sempre con
noi, per portare il mondo al suo compimento (v. 20). Lui infatti, l’ultimo degli
uomini, attende che gli diventiamo fratelli, per donarci il nostro essere figli!
Le guardie, che hanno posto il sigillo sulla pietra e l’hanno vista rotolare
via, vengono corrotte con il denaro (vv. 11-15). Invece di fare come le due
Marie e la donna di Betania, che annunciano il Risorto, fanno come Giuda e gli
altri: diventano vittime e diffusori della menzogna di morte.
Gesù è risorto dai morti. Possiamo vederne la tomba: è vuota. Lui non è lì,
ma nei fratelli. E in noi, quando andiamo verso di loro.
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La Chiesa nasce dall’annuncio del Crocifisso risorto, e vive nella gioia
dell’incontro con lui. Questo avviene andando verso i “discepoli” (v. 7), i
“fratelli” (v. 10) e tutti gli uomini (cf. v. 19s). Chiunque si fa fratello, incontra il
Figlio: ritrova, nel proprio, il suo stesso volto.
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il suo abito bianco come la neve. Non è più nudo, né avvolto nel lenzuolo di
morte. Ha la veste bianca, del vincitore.
v. 4: per la paura di lui, le guardie furono scosse. Anche le guardie sono
scosse - prese da timor panico. Nella sua risurrezione, oltre la terra, si scuote
anche l’uomo, che vuol custodire la morte.
e divennero come morte. I custodi del sepolcro sono i veri morti.
Resteranno tali fino a quando non accetteranno la verità che conoscono.
v 5: l’angelo disse alle donne. Nessuna parola alle guardie. L’angelo si
volge alle donne, che cercano Gesù. Si può stare al sepolcro come chi
custodisce un morto, e diventare morti; oppure come le donne, che sono lì per
amore, e incontrano la loro vita.
voi non abbiate paura. “Non temere, non aver paura!”, dice il Signore
quando si rivela. Perché l’uomo, da Adamo in poi, ha paura di Dio.
so infatti che cercate Gesù, ecc. Queste donne cercano Gesù, non una idea.
Cercano il Crocifisso, quell’uomo che hanno visto vivere e morire così! È lui,
non un altro, il Risorto.
v. 6: non è qui! Eppure dovrebbe essere lì, come ogni carne. Come mai
non è dove l’hanno visto, e attendono che sia? L’assenza “indebita” del corpo
di Gesù scardina l’unica certezza di ogni nato da donna: essere lì, nella tomba.
è infatti risorto, come disse. La risurrezione, come ogni azione di Dio, è
stata predetta (16,21; 17,23; 20,19; 12,40): è compimento di promessa divina,
non deduzione di premessa umana.
venite, vedete il luogo dove giaceva. È importante andare a vedere il luogo
dove giaceva Gesù: la tomba è vuota, il vuoto svuotato! Le donne constatano
che il grembo della terra è una fonte che genera vita, non più una cavità che
risucchia nella morte.
La Parola invita a “entrare” nella tomba, per vedere che non è lì, e quindi
uscirne e andare verso i fratelli, per incontrare il Vivente. Chi non entra, non
può uscirne!
v. 7: e subito andate a dire ai suoi discepoli. Il Signore ordina loro di
lasciare subito la tomba e le invia verso gli altri. Ma non lo riconoscono come
tale, fino a quando non ne eseguono la parola.
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La risurrezione è uscire dalla fossa dell’egoismo: chi ama il fratello è
passato dalla morte alla vita, e partecipa da figlio all’amore del Padre (cf. 1Gv
3,14). Questa è l’esperienza di risurrezione che Matteo propone nel suo
vangelo: la fraternità è il luogo della presenza del Figlio (cf. 18,20).
è risorto. È l’annuncio pasquale: la Parola, da ricevere e da trasmettere.
vi precede in Galilea. In Galilea Gesù aveva promesso di incontrarli, dopo
aver predetto la loro infedeltà (cf. 26,32).
là lo vedrete. Anche i discepoli lo “vedranno” mentre, investiti del suo
potere, sono inviati a farsi prossimi dei più lontani (vv. 16-20).
ecco, ve l’ho detto. È la parola definitiva: chi cerca Gesù, il Crocifisso, lo
incontra in questo, e non in altro modo.
v. 8: partite subito dal sepolcro, ecc. Le donne si allontanano subito dal
sepolcro, “memoria di morte”. Invece di paura, hanno timore e gioia grande.
La paura lascia morti; il timor di Dio, principio di sapienza (cf. Sal 111,10),
comunica gioia.
v. 9: Gesù venne loro incontro. Mentre vanno verso gli altri, viene loro
incontro l’Altro, il Risorto.
rallegratevi. È la parola del Signore: “Entrate anche voi nella gioia del
vostro Signore!” (cf. 25,21b. 23b). Chi va verso i fratelli, si accende della luce
del Figlio, l’amore del Padre.
avvicinatesi. La paura fece fuggire Adamo. La gioia fa avvicinare le donne
al Signore.
strinsero i suoi piedi. Queste donne, a differenza dei discepoli, lo toccano e
ne abbracciano i piedi. Sono i piedi di chi ha fatto un lungo cammino, per
essere il Dio-con-noi.
lo adorarono. Fanno come fecero i Magi (2,2.11) e come faranno gli Undici
(v. 17). Adorare, baciare il Figlio, è il fine dell’uomo. In comunione con lui,
torna ad essere se stesso.
v. 10: dice loro Gesù, ecc. Per la terza volta il Risorto parla. E ripete le
parole dette all’inizio dall’angelo. Lui infatti è la Parola, il Verbo del Padre:
chiunque lo ascolta, lo incontra.
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La risurrezione è vista come la forza propulsiva dell’annuncio, da
comunicare a tutti. Chi lo ascolta, vede il volto di Figlio: è il suo stesso di
fratello.
v. 11: alcuni della guardia, ecc. Anche costoro vanno ad annunciare, ma ai
nemici! Non una buona notizia, ma una cattiva notizia. Chi è nel male, prende
male il bene.
v. 12: diedero ai soldati parecchie monete d’argento. I sommi sacerdoti e
gli anziani tengono consiglio, come all’inizio della passione (26,3s). Oltre la
persona di Gesù, vogliono ucciderne anche l’annuncio. Ma è impossibile. Pure
Erode, che decapitò il Battista, ne sentì la parola più che mai: fu il primo a dirlo
risorto (14,2)!
Il mezzo per bloccare la parola del Risorto è lo stesso con cui l’hanno
ucciso: il denaro (26,15; 27,3-10) e l’inganno (cf. vv. 13-15; 26,4).
v. 13: lo rubarono. Matteo, che si rivolge a una comunità di origine
giudaica, smentisce la menzogna: i discepoli non sono andati a rubare un
cadavere, ma hanno incontrato il Vivente.
v. 14: se questa cosa fosse per caso udita, ecc. Tra potenti è sempre
possibile “aggiustare” la cosa, anche la più falsa – e anche contro coscienza,
come nella condanna a morte.
v. 15: prese le monete d’argento. Giuda le gettò nel tempio, e si impiccò
(27,5). Questi le prendono, come lui prima del tradimento (26,15).
fecero come erano stati ammaestrati. Le guardie fanno come ha insegnato
loro chi vuol mentire. Anche i discepoli fanno come ha insegnato loro Gesù.
L’alternativa è per tutti la stessa: essere discepoli della menzogna, oppure
della verità.
e si diffuse questa parola, ecc. Verità e menzogna si diffondono
contemporaneamente. Dal cuore dell’uomo esce ciò che è dentro: la vita o la
morte, il dono o il possesso, la grazia o il denaro, i fratelli o “il restare senza
preoccupazioni”!
3. Pregare il testo
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a. Entro in preghiera come al solito.
b. Mi raccolgo seguendo le donne al sepolcro.
c. Chiedo ciò che voglio: chiedo la gioia della risurrezione, che mi fa ascoltare
la parola del Risorto e incontrarlo.
d. Immedesimandomi con le donne, guardo e ascolto ciò che loro hanno
ascoltato, fatto e visto.
Da notare
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• le guardie fecero come erano stati ammaestrati
4. Testi utili
Sal 16; Sap 5,15-23; Mt 22,23-33; 1Cor 15,1ss; Rm 6,1-11; Rm 8,18-30; Col
3,1-4.
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114. ANDATE DUNQUE
E
FATE DISCEPOLI TUTTI I POPOLI
28, 16-20
“Andate dunque, e fate discepoli tutti i popoli”, dice Gesù agli Undici.
Terminata la sua missione, quelli che l’hanno accolto cominciano il loro
cammino. È il suo stesso di Figlio, che testimonia l’amore del Padre ai fratelli
che ancora non lo conoscono. Ciò che il Nazoreo ha offerto a Israele, i
“nazorei” lo offrono a tutti i popoli. Chi, in lui, ha scoperto il proprio nome di
figlio, lo realizza, come lui, andando verso i fratelli, fino a che il nome del
Padre dei cieli sia santificato su tutta la terra.
Il brano è una postfazione, che offre una visione sintetica di tutto il libro
di Matteo. Come il finale di una sinfonia, riprende e fonde in un’unica armonia i
temi sviluppati nel suo vangelo.
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Il testo, come sempre, è rivolto ai lettori, perché facciano anche loro
l’esperienza dei primi discepoli. Devono recarsi in Galilea, “sul monte” indicato
loro da Gesù (v. 16). Lì lo vedono e lo adorano (v. 17a). Fa parte dell’incontro
pure il dubbio (v. 17b), di cui la fede rappresenta il superamento.
Chi si reca sul monte, conosce “il Figlio” e gli è conferito il suo stesso
potere (v. 18). È quello di farsi fratello di tutti (v. 19a), perché ogni uomo sia
immerso nell’unico amore del Padre e del Figlio (v. 19b), che abilita a “fare”
quanto Gesù ha ordinato (v. 20a). In questo modo lui è il Dio-con-noi, per
condurre il mondo al suo compimento (v. 20b).
Gesù, il Crocifisso risorto, non ha esaurito il suo compito, né si assenta
dal mondo: è presente come l’Emmanuele, il Dio-con-noi, perché in ciascuno si
compia ciò che in lui è già compiuto.
La Chiesa ha la stessa “vocazione” del Figlio, che si realizza nella
“missione” verso i fratelli. Porta avanti nella storia ciò che Gesù ha detto e
fatto, fino a che in ogni uomo riluca la gloria di Dio.
v. 16: Ora gli undici discepoli. Coloro che sono inviati, non sono
“maestri”: uno solo è il Maestro (cf. 23,8). Sono e restano sempre “discepoli”,
che imparano! Non sono padroni, ma ascoltatori della sapienza del Figlio,
velata a sapienti e intelligenti, ma rivelata agli infanti (cf. 11,25-27).
E sono undici, non dodici; ne manca uno. La comunità è strutturalmente
imperfetta: il peccato e il tradimento è sempre presente, anche in chi ascolta
la Parola. Matteo lo sa: per questo insiste, anche qui (v. 20a), che bisogna
metterla in pratica, senza sconti.
si recarono in Galilea. La “Galilea delle genti” è il luogo dove Gesù ha
vissuto la vita di ogni giorno, e iniziato il suo annuncio (4,12-17). È in Galilea,
luogo della vita quotidiana e dell’ascolto, che il discepolo, ancora oggi, lo
incontra.
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sul monte, dove aveva ordinato loro Gesù (cf. 26,32; 28,10). Non è un
monte qualunque; è un monte preciso, dove lui ha preordinato che lo
ascoltiamo, vediamo e adoriamo, ricevendone il potere e la missione. In
Matteo ci sono vari monti “teologici” di Galilea. C’è quello dove il Figlio
annuncia la volontà del Padre (5,1; 8,1), quello dove si ritira a pregare (14,23),
quello dove guarisce i malati (15,29), e infine quello della trasfigurazione
(17,1ss), dove risuona la voce del Padre che dice di ascoltare il Figlio.
v. 17. vistolo. Attraverso l’ascolto, la preghiera e la cura verso i fratelli,
vediamo la gloria del Figlio.
adorarono. Adorare è portare alla bocca, baciare (cf. 2,2.11). Il fine della
nostra esistenza è il bacio del Figlio. È lo stesso del Padre, per lui e per noi!
alcuni però dubitarono. Nell’andare incontro al Signore, che cammina
sull’acqua e chiama a fare altrettanto, la Chiesa, come Pietro, è sempre colta
da paura e dubbio (cf. 14,31). È la poca-fede, chiamata a diventare quella
“grande fede”, che rende presente e operante Gesù, pur nella sua assenza
fisica (cf. 8,10; 15,28!). È necessario che i dubbi escano. Una fede che non li
conosce, forse semplicemente li evita. Per mancanza di fede!
v. 18: avvicinatosi, Gesù parlò loro. Tutto il vangelo mostra come il
Signore si fa vicino e parla.
mi fu dato ogni potere, ecc. Gesù è il Figlio, al quale è dato tutto ciò che
è il Padre (cf. 11,27): ha il suo stesso “potere” (cf. 9,8), che conosce solo chi gli
risponde (cf. 21,23.24.27). È quello di fare ciò che dice (7,29), di perdonare
(9,6) e di vincere il male (10,1). Lo ha mostrato, con potenza e gloria grande,
nel segno del Figlio dell’uomo (24,30): la croce!
v. 19. andate dunque. Chi lo ascolta, vede e adora, diventa come lui:
figlio, quindi inviato ai fratelli.
fate discepoli. Gli apostoli non devono “ammaestrare”, ma rendere tutti
gli uomini discepoli dell’unico Maestro (cf. 23,8) – lo Spirito che guida nella
verità del Figlio (cf. Gv 16,13). La loro missione è comunicare agli altri lo
stesso potere che Gesù ha comunicato loro: quello di ascoltare e fare la Parola,
per diventare un popolo che dà il frutto del regno (21,43).
tutti i popoli. Nel testo originale c’è “genti”: Israele è luce delle genti (cf.
Is 42,6). Dio è Padre, e tutti ama come figli. Già ad Abramo fu promesso che in
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lui sarebbero state benedette tutte le famiglie della terra (Gen 12,3b). La
missione, limitata dapprima al primogenito (cf. 10,5s), dopo pasqua è estesa
agli altri fratelli. La luce, che con Gesù si è accesa in Israele, ora illumina il
mondo.
battezzandoli. Discepolo è colui che è “battezzato” (= immerso). Ma non
nell’acqua, dove si muore, bensì in Dio, del cui Spirito si respira e vive. I
pescatori di Galilea saranno pescatori di uomini (4,19). Il Figlio li ha pescati
dall’abisso per battezzarli nella luce; ora pescheranno i fratelli, facendo agli
altri ciò che lui ha fatto a loro.
nel nome del Padre. Gesù è venuto a immergerci nel Padre della vita, di
cui avevamo rifiutato il nome, perdendo il nostro.
del Figlio. È nel nome - nella persona! - del Figlio che siamo nel Padre.
e dello Spirito Santo. È nel nome dello Spirito, amore reciproco tra Padre
e Figlio, che siamo inseriti nella Trinità, partecipi della vita di Dio.
v. 20: insegnando loro ad osservare, ecc. Diventare come Dio non è un
delirio di onnipotenza. Consiste nel fare la volontà del Padre, come il Figlio ci
ha insegnato. È il tema fondamentale del vangelo di Matteo, sviluppato nei
cinque grandi discorsi, che illustrano quanto Gesù ha compiuto (5,1-7,29; 9,36-
11,1; 13,1-53; 18,1-35; 23,1-25,46).
tutto quanto vi ho comandato. Il comando è amare il Padre e i fratelli con
lo stesso amore del Figlio (cf.22,34-40)
io sono con voi. Non siamo orfani, né abbandonati. Il Figlio è per sempre
nostro fratello: il suo nome è Dio-con-noi (1,23). Il suo essere con noi rende
possibile il nostro essere con lui.
tutti i giorni. Il Nazoreo, crocifisso e risorto, è presente tutti i giorni: ci
viene incontro ogni giorno e ogni ora in cui, con fedeltà e saggezza, ascoltiamo
e facciamo quanto lui ha fatto e detto.
sino al compimento del mondo. Il tempo è un cammino, la cui meta è
essere con colui che da sempre e per sempre è-con-noi. Ciò sarà quando,
attraverso la testimonianza dei discepoli, tutti diventeranno figli e fratelli.
3. Pregare il testo
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a. Entro in preghiera come al solito.
b. Mi raccolgo immaginando il monte di Galilea.
c. Chiedo ciò che voglio: andare per il mondo a testimoniare con la mia vita di
figlio l’amore del Padre a tutti i fratelli.
d. Lascio risuonare nel mio cuore ogni singola nota di queste parole.
4.Testi utili
Solo alla fine della lettura uno capisce pienamente che cosa il testo
vuole comunicargli. È quindi bene, sempre ogni volta, ricominciare il vangelo
dall’inizio, per capirlo e viverlo sempre di più!
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