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Q.P.G.A.
Questo piccolo grande amore
Ogni volta che guardava la piazza sentiva che per racchiudere il senso della vita
basta un quadrato di centoquaranta metri di lato. Allora abbassava lo sguardo.
Solo un istante.
Il tempo di riprendere fiato e ascoltare, con la punta delle dita, un sorriso farsi
largo tra le labbra socchiuse. È buffo, pensava. Certe cose le trovi solo quando
smetti di cercarle. Fino a un istante prima, se ne stanno rintanate chissà dove.
Nascoste così bene che finisci col pensare che non esistano affatto. Un attimo
dopo, invece, ti si parano davanti. All'improvviso. L'espressione più naturale del
mondo.
Sorprese della tua sorpresa. L'aria di chi non si è mai mosso dall'unico posto
nel quale nessuno guarda mai: sotto il naso. Erano sempre state lì, loro. Tu,
invece... La vita gioca strani scherzi. Forse per questo ride solo lei. Possibile che
le cose dovessero trovare il loro punto di equilibrio a millenovantasei chilometri
di distanza da dove lui lo aveva sempre cercato? Possibile che fosse tutto così
semplice? Che bastassero una piazza e una finestra? Cosa c'era che non andava
nelle piazze e nelle finestre millenovantasei chilometri più a Sud? E se non si
fosse mai deciso a partire? Se avesse continuato a cercare in quella che aveva
sempre creduto la sua città (ma che sua, in realtà, non era mai stata)? Che ne
sarebbe stato di lui? Avrebbe vissuto la vita di un altro. E qualcun altro, la sua.
Entrambi senza trovarla, né trovarsi mai. Chi mischia le carte, si chiedeva, non
potrebbe stare un po' più attento? Pensiero scivoloso. Un po' troppo per mattine
come quella. Ma appena le dita sfioravano le labbra e indovinavano il sorriso, tutti
quei punti interrogativi svanivano. Scivolavano di lato come storni, che sbavano
appena il rettangolo dell'orizzonte e restituiscono subito il cielo a se stesso. Allora
sollevava di nuovo gli occhi, guardava fuori e ascoltava rincasare la serenità. In
fondo, quello che contava era averlo trovato il senso. Le asperità della salita,
ormai, non pesavano più. Acqua passata. Adesso poteva guardare la vita dall'alto
in basso, come la piazza dalla finestra. Adorava il candore di quelle geometrie. Le
fughe, fuse nel punto irraggiungibile nel quale la semplicità si fa bellezza. La
distribuzione dei volumi. L'equilibrio di vuoti e pieni. L'ardesia blu dei tetti. Il
bianco della pietra. Il rosso dei mattoni. La doppia siepe d'alberi. Le fontane. La
vita come dovrebbe essere; non com'è. Nemmeno le macchine riuscivano a
intaccarla. Ne avevano soggezione. Giravano a bassa voce. In punta di
pneumatici. Niente accelerazioni improvvise. Niente colpi di clacson. Niente
stridore di freni. Docili e pazienti. Persino nel parcheggiare. Quelle dai colori un
po' troppo sgargianti evitavano, addirittura, di fermarsi. Si allontanavano
rapidamente, furtive e colpevoli, come chi ha dimenticato il cellulare acceso in
chiesa e lo sente lacerare il silenzio durante l'Elevazione. La piazza dava e
chiedeva bellezza. E bellezza riceveva. Senza condizioni. Da tutto e da tutti. Lui
l'adorava. In qualunque stagione. Con qualunque tempo. In qualunque ora del
giorno e della notte. Perché era lei a regalare qualcosa a tutte quelle cose. Alle
stagioni, impeccabili come nelle vignette del sussidiario delle elementari. Rondini
e mandorli fioriti a primavera; messi dorate e cieli tersi in estate; chiome gialle e
rosse di platani in autunno. E, naturalmente, neve, agrifogli e candeline rosse in
inverno. Era lei a regalare qualcosa al tempo che passava, come filtro che rende
potabile l'acqua di pozzi avvelenati. Regalava vitalità al giorno e magia alla notte.
Il suo tenue riverbero giallastro aggiungeva mistero e profondità. Persino la luna
sembrava soffermarvisi più che su ogni altro crocevia del pianeta.
Era lì che raccoglieva la luce che avrebbe dispensato altrove. La piazza era
l'unico specchio degno del suo volto.
Solo seguendo i punti di fuga che univano quelle linee, Andrea riusciva a
pensare a se stesso come parte di qualcosa. Solo lì non si sentiva perso, come un
astronauta condannato a vagare per sempre nello spazio. La piazza generava
pensieri. Definiti, puliti, compiuti. Belli. Come lei. Custodiva l'armonia che
mancava al resto e la somministrava alla coscienza lentamente. Un antidolorifico
a rilascio ritardato.
Andrea osservava i pensieri distendersi e allinearsi. Disporsi in file ordinate e
composte, come le macchinine che suo padre gli portava ogni volta che tornava
da una di quelle capitali che pensi esistano solo negli atlanti. Lui le metteva in fila
indiana sulla fòrmica gialla della cucina e le interrogava per capire quale - la ds
nera o la Giulietta Sprint rossa, la Mini Morris o il Maggiolino, la Jaguar-E verde
bottiglia o l'Aston Martin tutta d'argento come quella di Goldfinger glielo avrebbe
riportato a casa per sempre.
Guardava la piazza, ma non disegnava. Tutta quella bellezza glielo impediva.
Non si può disegnare su un foglio pieno. La respirava. Ne inalava l'essenza. Come
un orologiaio che imbriglia il tempo nella meccanica del suo cronografo. Perché
conoscerne la meccanica significa possederlo, non esserne posseduti. Regolarlo,
non esserne regolati.
Se l'orologio custodiva il senso segreto del tempo, la piazza custodiva quello
dell'esistere. Bastava guardare. E questo faceva, seduto sul davanzale. Per
disegnare, c'era lo studio a La Défense. Un pugno di grattacieli come pennarelli
infilati in un portapenne, a ovest della città. Tre milioni di metri quadri di linee
rette, che si incrociavano come le righe di un quaderno a quadretti. Uno spazio
dove i pensieri vivevano sull'attenti, costretti a muoversi per angoli di novanta
gradi. Nessuna passione, nessuna emozione, nessun desiderio. Asettico, come una
sala operatoria. Lì la vita non era, né sarebbe mai entrata. Non pesava, dunque,
privarsene. Il posto ideale per lavorare. La piazza, invece, era bottiglia. Bottiglia
d'inchiostro. L'inchiostro misterioso e invisibile delle idee. Tutto quello che
Andrea doveva fare era intingervi il pennino dei pensieri. Il resto veniva da sé.
Nascevano da lì quei suoi tratti che - come aveva scritto una volta il responsabile
di non ricordava più quale supplemento culturale - avevano "il pregio di farsi
notare sempre, come uno di quegli improvvisi istanti di silenzio che spezzano il
crescendo di una discussione animata". Rideva, ogni volta che qualcuno glielo
ricordava. Chissà - si chiedeva - se le sue idee generavano lo stesso imbarazzo di
quei silenzi.
La carta era il suo studio. Il tragitto quotidiano nella metro (non prendeva mai
la macchina: "ruba i pensieri", diceva) era il tempo che serviva a far evaporare i
fumi inebrianti dell'ispirazione. Distillazione. Di questo si trattava. Piazza, metro
e studio erano il suo alambicco. La piazza era caldaia.
Ardeva sotto i pensieri, per liberarne l'essenza. La metro, la serpentina nella
quale i vapori si raffreddavano. Lo studio, il contenitore dove si raccoglievano i
vapori condensati, finalmente liberi da ogni impurità.
Per rendere sopportabile a occhi e pensieri il mondo dal quale veniva, avrebbe
dovuto cambiare tutto. Per questo aveva cominciato a disegnare. E quando gli
chiedevano da dove ricavasse l'ispirazione, "È semplice" rispondeva, abbassando
lo sguardo per il pudore che la facilità impone "nasce per contrasto. Mi guardo
intorno, vedo ciò che non mi piace e immagino come le cose dovrebbero essere
per piacermi. Per fortuna" aggiungeva "il mondo è pieno di orrori. Il giorno che
tutto, intorno a me, soddisferà il mio bisogno di bello, smetterò di disegnare".
Dalla prima volta che ci aveva messo piede, aveva sentito che quella piazza era
il suo posto. Non avrebbe vissuto da nessun'altra parte. Si chiedeva come fosse
stato possibile che trecento anni prima che lui nascesse, un architetto (di un altro
paese per giunta) avesse potuto conoscere così a fondo un ragazzo che - tre secoli
dopo - avrebbe cercato se stesso sulla pelle butterata della periferia di Roma.
Come poteva conoscerlo così a fondo da realizzare ciò che quel ragazzo, trecento
anni più tardi, avrebbe considerato l'incarnazione dello spazio perfetto? Da dove
arrivano le cose che ci prendono così? Tre secoli in un istante: non appartiene alla
luce, ma alla bellezza la velocità più alta.
C'erano voluti anni prima che Andrea potesse permettersi una finestra sulla
piazza. E anni ancora, prima di riuscire a trovarne una. Ma era valso la pena
aspettare. "È come davanti al mare" aveva detto il tizio dell'agenzia, spalancando
le imposte con il gesto solenne di uno chef che solleva il coprivivande dalla sua
ultima creazione "non importa cosa c'è alle sue spalle. È solo quello che ha
davanti agli occhi che conta. Mi creda" aveva aggiunto, con un'emozione velata
d'invidia "qui è come in mare aperto: davanti a sé lei avrà sempre l'infinito."
Aveva ragione. Quello era il mondo come sarebbe stato se a disegnarlo fosse stato
lui.
Non una virgola da toccare. La perfezione non ammette variazioni. Se a Roma i
pensieri miglioravano lo spazio, lì era lo spazio a migliorare i pensieri. Via degli
Oleandri e Place des Vosges si davano le spalle. La prima respirava polvere; la
seconda stelle.
Era stata Michelle a fargli conoscere Place des Vosges. Ogni volta che si
chiedeva come mai, dopo tutti quegli anni, si sentisse ancora così preso da una
donna che non amava, la risposta era sempre la stessa: perché lei lo aveva portato
lì. Un debito impossibile da saldare. Indelebile, come il ricordo di quel rigido
pomeriggio di novembre nel quale lei gli aveva detto: "Vuoi sapere chi sei?
Vieni!". Aveva cominciato a corrergli davanti, voltandosi di tanto in tanto,
arricciando l'indice della mano come dire "Coraggio!".
All'inizio, Andrea aveva pensato a uno scherzo. Alla solita sparata di un'anima
nata per il teatro. Ma, quando lei si era tolta il foulard, lo aveva bendato e guidato
fino al centro della piazza, lui aveva cominciato a sospettare. E quando il foulard
era scivolato giù dai suoi occhi, portandosi via anche le parole e lasciandolo ebbro
di infinito, aveva capito. L'anima nata per il teatro aveva ragione: per la prima
volta Andrea aveva incontrato se stesso.
Lui e Michelle si erano conosciuti un giovedì di fine estate al 37 di Rue de la
Boucherie, sulla riva sinistra, nel cuore del quartiere latino. In un grande
appartamento che, subito dopo la guerra, un americano con gli occhi di Orwell e i
capelli del Barone di Munchhausen aveva trasformato in una libreria-ostello. Il
posto era diventato una specie di cenacolo per scrittori con e senza fortuna.
(Contava quanto li univa, non ciò che li divideva.) C'erano libri ovunque. E
divani, poltrone, letti, cuscini, scrivanie. Chi entrava si fermava a leggere,
scrivere, pensare e qualche volta anche a dormire sotto lo stesso tetto che aveva
visto leggere, scrivere, pensare e dormire Fitzgerald, Hemingway, Joyce, Miller.
Le loro anime e i loro pensieri avevano impregnato piastrelle e scaffali,
intonaci, stoffe e specchi. E, in qualche modo, qualcosa del loro turbamento e del
loro genio, trasudava da legni, stoffe, maioliche, dorsi lucidi e consumati di
edizioni ormai introvabili. Volumi che ricordavano che l'uomo e la sua storia sono
sempre gli stessi, ma che le parole di certe anime hanno il potere di renderli, ogni
volta, sconosciuti e capaci di sorprendere. Molte tra le parole più sorprendenti,
avevano trovato posto su quegli scaffali. Andrea ci era capitato per caso, dopo una
mattinata passata a studiare il sistema di archi rampanti che facevano da
contrafforti a Notre Dame. Michelle no. Per lei il caso non esisteva.
«Se il mondo ha una coscienza» aveva detto, mentre gli occhi le si tingevano di
profezia «allora deve avere anche una volontà. E, se ha una volontà, il caso non
esiste. Dunque!» Più che da quel sillogismo visionario, Andrea era rimasto colpito
dalla solidità di quel "dunque", incapace di decidere se temere o desiderare
quell'inevitabilità.
«Vuoi dire che dobbiamo questo incontro addirittura alla... volontà del
mondo?» aveva detto allargando le braccia, come se fosse possibile circoscriverlo
tutto... Bella responsabilità. Spero di non deluderlo...» Michelle aveva sorriso,
scrollando la testa e sbuffando aria dal naso.
«Straniero, eh?» «Italiano... Si sente così tanto?» «Niente affatto. Il tuo
francese è ottimo. Sono le mani che...» «Cosa?» «Niente... Gesticoli un po'
troppo...» «Capisco. È per questo che mi hai fermato? Cos'è: fai parte di qualche
associazione esoterica che promuove... il rispetto per la "sacralità dei gesti"? O sei
un'adepta di un gruppo che propugna, chessò, qualunque forma di risparmio
bioenergetico?» Le parole scivolarono senza sporcare. Michelle possedeva
abbastanza ironia da prendere con ironia l'ironia altrui.
«Non ti ho fermato...» disse con inattesa profondità «sto solo cercando di non
tradire il motto del posto.» «Questo posto ha anche un motto?» «Non mi dire che
non l'hai ancora letto? Vieni...» Quando si era voltata, gli aveva preso la mano e
aveva cominciato a trascinarlo lungo i cunicoli di quel formicaio di vocali e
consonanti, Andrea aveva capito che quella non sarebbe stata l'ultima volta in cui
l'avrebbe seguita.
Sull'architrave di una porta che conduceva all'ostello c'era scritto "Be not
inhospitable to strangers lest they be angels in disguise".
«Bello! E, secondo te, io sarei un angelo?» «In effetti, è un po' presto per dirlo.
E poi devo ammettere che, se lo sei, ti sei mascherato davvero molto bene!» Lei
aveva sorriso e lui aveva provato una fitta all'altezza del costato, lì per lì
archiviata sotto la voce "dolore intercostale". Voce sbagliata. Non ci avrebbe
messo molto a capirlo*.
«Quindi tu capiti spesso da queste parti?» «Certo: è la mia zolla gemella»,
aveva detto con la naturalezza di chi immagina che tutti sappiano di cosa si sta
parlando.» «Cosa?» «La mia zolla gemella. Se il mondo è una grande anima»
aveva spiegato alla curvatura interrogativa dei suoi occhi «questo è certamente il
punto dal quale si è staccato il frammento che ora anima me!» Andrea allargò le
braccia, scosse appena la testa, lasciò cadere gli occhi. "È pazza" pensò,
sorridendo.
«È inutile che fai quella faccia: tutti abbiamo una "zolla gemella". Anche tu!»
«Capisco...» disse, cercando di riportare in asse lo sguardo, impresa che si rivelò
più complessa del previsto «e come si riconosce questa... zona gemella?» «Zolla
gemella, non zona gemella...» «Chiedo scusa, signorina... signorina?» «Michelle...
Come la canzone...» Ma belle... pensò Andrea, ritrovando immediatamente
confidenza con la melodia appuntata a quelle parole.
«Abbiamo la stessa età... incise tutte e due lo stesso giorno: 11 novembre 1965:
giovedì.» «Dunque, signorina Michelle, riformulo meglio la domanda: come si
riconosce questa "zolla gemella"?» «Immagino che tu sappia cosa significa
vibrare per simpatia, no?» «Sì, certo...» «Ecco: con le zolle gemelle succede
esattamente la stessa cosa... Non esiste un metodo per riconoscerle.
Semplicemente, quando ti ci trovi, lo senti. Lo senti dentro...» «Scusa, ma se ci
vieni così spesso, non credi che dovresti rivedere la tua teoria sul rapporto tra caso
e volontà del mondo?» «Cioè?» «Be', visto che sei sempre qui, il fatto che io e te
ci incontrassimo era qualcosa di più di una semplice probabilità, non ti pare?»
«Guarda che eri tu che parlavi di caso. Io ho sempre parlato di volontà!»
«D'accordo, ma più che alla volontà del mondo, mi sembra che questo incontro
sia dovuto alla tua volontà!» «E tu credi che basti la volontà per far funzionare le
cose?
Non pensi che ci voglia qualcos'altro?» «Ho capito, ho capito...» disse Andrea,
alzando le mani in segno di resa. «E... come si chiama questa tua patologia?»
«Felicità!» «Ah, be'... allora... non è grave. Non preoccuparti. Quella passa. Passa
in fretta!» «E la tua?» Andrea si guardò intorno, incapace di resistere al richiamo
di quella Guernica di colori, forme e materiali e al tumulto silenzioso delle parole
assiepate dietro le copertine, ci pensò un attimo e disse: «Esistenza.» «Gran brutto
male...» replicò l'espressione compunta e quasi addolorata di Michelle.
«Già... Pare che nessuno ne esca vivo!» «Ho capito» disse prendendolo di
nuovo per mano «urge un tuffo nel pozzo...» «Un pozzo? Qui dentro?» «Certo!»
disse, avvicinandosi come se la cosa dovesse rimanere tra loro due. «La libreria»
sussurrò «è stata costruita su un vecchio monastero. Nella sala da tè c'è un pozzo.
Si butta una moneta, si esprime un desiderio... sai come funziona, no?...» «So
come funziona... anche dalle mie parti c'è una certa fontana dove...» «Lo so, lo
so... ma qui è diverso!» «Scusa... dimenticavo la grandeur...» «La grandeur non
c'entra affatto.» «Ah, no?» «No.» «Cosa, allora?» «È che qui ci troviamo sul
chilometro zero...» «E cos'ha di speciale?» «Questo» disse cercandogli gli occhi
in un modo che non avrebbe più dimenticato «è il punto dove tutto comincia!»
Era cominciata così, nel punto nel quale tutto comincia.
Ogni volta che Andrea ripensava a quella mattina, alla trasparenza fiamminga
della luce e alla mano di Michelle che sfiorava gli scaffali ingombri di libri, come
un sasso che qualcuno ha fatto saltare sulla pelle del mare, si chiedeva cosa,
esattamente, fosse cominciato. Lì, sulla riva sinistra o in qualunque altro posto di
quella città esisteva anche il punto opposto: quello dove tutto finisce? Michelle
conosceva anche quello? E come mai, ogni volta che il pensiero di un posto del
genere lo sfiorava, gli procurava un principio di acidità? Perché non riusciva ad
allontanare il sospetto che, se fosse capitato da quelle parti, avrebbe sentito che si
stava avvicinando alla sua zolla gemella?
Come ogni anima che ha conosciuto i rigori dell'inverno, Michelle vestiva i
colori dell'autunno e si guardava intorno con quella particolare intonazione della
speranza di chi, dietro a ogni curva, attende la primavera. E, quando sorrideva,
faceva sembrare la vita una cosa leggera e colorata, da indossare come un foulard
di seta. Aveva un passo da mannequin e un modo imperativo di attraversare la
strada lungo diagonali di quarantacinque gradi, come se il meridiano al quale
l'intera cartografia del pianeta faceva riferimento fosse quello che le sue gambe
tracciavano, ondeggiando da un marciapiedi all'altro. Il suo sguardo brillava del
giusto punto di equilibrio tra coscienza di sé e incoscienza del mondo. Aveva il
potere di farti sentire vestito anche se eri completamente nudo o nudo anche
quando eri vestito di tutto punto. Capelli e umore erano legati da una relazione
diretta. Causa-effetto. Se l'onda ambrata - di un caramello scuro lievemente
venato di henne - era raccolta a coda di cavallo, significava: "Oggi mordo"
(com'era scritto sulla tazza di Mafalda che uno dei suoi amici artisti le aveva
regalato). Se, invece, il guinzaglio era sciolto e i capelli liberi di fluttuare tra
spalle, ciglia e labbra, voleva dire "Salite pure a bordo". Nell'uno e nell'altro caso,
però, era sufficiente una vibrazione appena percettibile delle sopracciglia per
ricordare che l'onere della prova era tutto a carico dell'ospite. Innocente solo fino
a quando non riconosciuto colpevole. A quel punto non ci sarebbe stato alcun
processo. L'imputato non avrebbe avuto diritto a un avvocato, né a una giuria
imparziale. Sarebbe scomparso dal radar della sua coscienza, con la stessa rapidità
con la quale i suoi sensori avevano segnalato la presenza di un "soggetto volante
non identificato" in avvicinamento. E la memoria avrebbe impiegato ancora meno
a dimenticarlo.
Andrea non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma amava il modo nel
quale Michelle aveva organizzato i suoi cinquanta metri quadri ali inclusive. "Non
me ne servono di più" aveva sorriso la prima sera, sorseggiando una tazza
bollente del miracoloso tè rosso dei Masai. "È il taglio giusto per me. Fino a
cinquanta metri è la casa che appartiene a te. Dai cinquanta in poi, sei tu ad
appartenere a lei.
Non potrei sopportarlo. È il sabato fatto per l'uomo, no?" Amava la
distribuzione degli spazi e il modo nel quale soggiorno, angolo cottura e zona
notte fluivano l'uno nell'altra, senza rubarsi aria, luce, identità. Ma, soprattutto,
amava la scelta dei colori. Quel ton-sur-ton che attraversava tutta la scala del
bianco: zinco, avorio, beige, grano, sabbia, écru.
Letto, pareti, divano, poltrona, cuscini, pensili della cucina, elettrodomestici e
ante del quattro stagioni, erano giganteschi fogli di carta. Il richiamo di quegli
spazi bianchi nei quali tutto poteva ancora compiersi, trasformarsi e divenire, e*ra
troppo forte. Un giorno o l'altro ne avrebbe approfittato e la ragazza di Panela
(Andrea l'aveva ribattezzata così, perché qualche pigmento fruttato di liquirizia e
miele, di quella specie di zucchero bruno che usava per addolcire le sue tisane
selvatiche, le era penetrato nella pelle e, da lì, nel carattere) si sarebbe risvegliata
in un rigoglioso giardino d'inverno, nel quale ogni cosa avrebbe avuto il profumo
dei pensieri di Andrea.
Ogni volta che passava da lei si sentiva nel suo habitat naturale. Quel posto
godeva di una sorta di extraterritorialità. La vita, che riusciva a scovarlo ovunque,
sembrava incapace di raggiungerlo lì. Attraversare quella porta significava
scivolare in un'altra dimensione. Sebbene quasi non ci fosse un solo pensiero sul
quale non si trovassero in tumultuoso disaccordo, lui e Michelle potevano passare
ore insieme, senza annoiarsi, né stancarsi. Era alla porta di lei che bussava quando
l'idea di passare la notte da solo si faceva più insopportabile di quella di ascoltarla
parlare di incensi, tisane aromatiche e tai-chi. La loro pelle riusciva a fondersi in
un'unica linea, come mare e cielo quando rendono impercettibile la linea
dell'orizzonte, e non mancavano mai di regalarsi reciprocamente l'illusione
dell'infinito.
E, ogni volta che doveva lasciare quel coriandolo d'appartamento al primo
piano di Rue de Renard, la fitta al costato si ripresentava. Ma adesso era chiaro
che era la volontà, non la coscienza, a catalogarla sotto la voce sbagliata. Michelle
lo accompagnava alla porta, si sollevava in punta di piedi e depositava sulle
labbra di lui l'impronta screziata delle sue.
Andrea non avrebbe mai affrontato la notte senza il viatico di quel
lasciapassare. Appoggiava l'occhio allo spioncino, apriva piano la porta, sbirciava
fuori ("La portiera..., sai" sussurrava) e finalmente "Via libera" diceva, con un
sorriso che Andrea avrebbe voluto portare sempre con sé. Nessuno soffre i rigori
del freddo, i morsi della fame o le dolorose seduzioni della solitudine accanto a un
sorriso così. Il sogno di lui sarebbe stato guardarla dormire. Cosa sarebbe stata la
notte, se avesse avuto il suo profumo, il battito del suo cuore, il suo respiro? Ma
lei non aveva voluto. Mai. "Lo faccio per te" aveva detto "guardarsi dormire è per
sempre.
E tu non sei ancora pronto." Se non aveva perso la testa per Michelle era solo
per il fatto che la testa Andrea l'aveva abbandonata molti anni prima, ai piedi di
un Douglas DC-9 che rollava sulla pista numero tre del Leonardo da Vinci, e che
avrebbe toccato nuovamente terra nell'Ile de France. Quattordici chilometri più a
sud di Parigi, nel cuore di un paese del quale sapeva solo che contava più varietà
di formaggio che giorni dell'anno.
C'era stato un tempo nel quale era stato sul punto di convincersi che avrebbe
potuto amare Michelle. (Tutta la Parigi che conta l'avrebbe invidiato.) Ma l'idea
durava lo spazio di un Pernod e gli lasciava in bocca lo stesso urticante retrogusto
di anice stellato, menta e coriandolo. La prospettiva configgeva irrimediabilmente
con l'unica cosa che Andrea sapeva di sé: che era incapace d'amare. Mettere in
dubbio quell'unica certezza avrebbe significato perdere tutto ciò che aveva trovato
di sé. Certi varchi non possono essere lasciati incustoditi. Mai.
Se aveva lasciato Roma, le crescenti attenzioni del mondo accademico, gli
amici, lo sguardo neorealista di sua madre, era stato per chiuderla una volta per
tutte con la stagione dei dubbi. Ne aveva collezionati a sufficienza. Era partito per
lasciarsi alle spalle tutto ciò che alle sue spalle fosse rimasto. E non aveva alcuna
intenzione di tornare indietro. Se solo si fosse voltato, si sarebbe trasformato in
una statua di sale.
2
Andrea guardò l'orologio. Le sei e trenta. Gli occhi corsero al telefono. Arco
riflesso. Avrebbe squillato. Lo sentiva. La miscela dozzinale di ambra, muschio e
bergamotto di un dopobarba acquistato sotto la volta liberty dei magazzini
Lafayette non lasciava dubbi: all'altro capo del filo, la mano rosea e flaccida di
Gerard stava componendo il suo numero. Convogliò tutte le energie che
possedeva nel desiderio che il telefono non squillasse. Per cominciare la giornata
non c'era niente di peggio di una telefonata di Gerard. La sua voce di unghie su
lavagna era una tra le poche cose che avevano il potere di riportarlo
all'imbarazzante imperfezione della realtà. Sentì che le energie non gli sarebbero
bastate a scongiurare il peggio. Avrebbe sollevato la cornetta prima che il telefono
squillasse. Se non poteva impedire a Gerard di chiamare, poteva almeno evitare
che il gracidare irriverente del telefono incrinasse la lucida trasparenza della
mattina. Niente da fare: lo squillo arrivò, con l'inopportuna puntualità di tutto ciò
che vorremmo tenere lontano.
«Sono Gerard» graffiarono unghie su lavagna.
«Ma dai?» «Adesso non dirmi che sapevi che ero io!» «Una sola persona riesce
a farmi precipitare dal sublime all'ignobile con il semplice squillo del telefono,
Gerard. E quella persona sei tu.» «Non mi aspettavo tanto onore, Mon Capitaine!
Nervoso?» «Quanti anni sono che lavoriamo insieme?» «Più di venti, ormai.» «E
mi hai mai visto nervoso?» «Mai» rispose la voce di un uomo abituato a non
chiedere a se stesso ciò che sapeva di non potersi dare «... ma la speranza è
sempre l'ultima a morire.» Andrea soffiò aria dal naso, come faceva quando non
voleva ammettere di essere stato toccato. A parziale risarcimento Gerard doveva
accontentarsi di quel refolo di disagio. Ci fu una pausa. Il silenzio di Andrea
significava: "Be'?".
«Tutto pronto» riprese immediatamente Gerard. «Parti alle dodici e
trentacinque da Charles de Gaulle; arrivi al Leonardo da Vinci alle quattordici e
quaranta. Martine ti manderà un sms con gli estremi del biglietto elettronico.
A Fiumicino una macchina verrà a prenderti. Salto veloce in albergo...»
«Quale?» «L'Hilton.» «Mmh...» «Poi la stessa auto ti porta in Campidoglio per la
conferenza stampa.» «A che ora?» «La conferenza è fissata per le 18.30. Ti
interessa una lista dei giornalisti accreditati?» «Certo! Non so se senza, riuscirei a
passare la notte...» «Ok, ok: niente lista. L'auto sarà pronta sotto l'albergo almeno
un'ora prima. Venti e trenta cena in tuo onore. Undici, undici e mezza massimo
fine dei giochi: te ne torni in albergo.)/
«Se Dio vuole.» «Che entusiasmo! Ehi, il tuo studio ha vinto un concorso
internazionale per un'opera importante nella tua città, torni da trionfatore e sembra
che tu vada alla ghigliottina.» Andrea non commentò.
«Il ritorno?» chiese con il tono più indolente che aveva in repertorio.
«Da Fiumicino alle quindici. Alle diciassette e zero cinque sei a Parigi. Sano e
salvo.» "Purtroppo" aggiunse tra sé e sé.
«E che ci sto a fare a Roma tutto questo tempo?» «E io che ne so! Direi che,
per prima cosa, cerchi un modo un po' meno sgradevole del solito di liberarti della
malcapitata di turno...» «Gerard!» «Eh, Gerard, Gerard... le stronzate non le vuoi
sentire, le verità meno che meno» bofonchiò sperando di non essere decifrato «ti
spari un'abbondante colazione, leggi i giornali...» «Ma non c'era un volo prima?»
«Solo due: alle sette e alle sette e un quarto del mattino.
Mi sembravano un po' troppo presto. Ho pensato che avresti preferito dormire
un po'... se le cose vanno per le lunghe e la cerimonia... sai come sono queste
cose...» Già: come sono queste cose? pensò Andrea. E, soprattutto, come fanno a
sapere sempre dove siamo? E a raggiungerci ogni volta, come un gregario che ci
succhia la ruota, rintuzza ogni tentativo di fuga e ci fa sentire il fiato sul collo fino
agli ultimi metri dal traguardo, per scattare di lato e fotterci in volata? Come
diavolo fanno a beccarci proprio nel momento in cui pensiamo di essercene
liberati e non vorremmo saperne più niente di loro? Quando la pioggia sembra stia
cessando e sul marciapiedi semideserto della coscienza non cadono ormai che
poche gocce. Gocce di grondaia. Silenziose. Profumate. Inoffensive, quasi. E noi
le guardiamo come guarderemmo il tempo rallentare, fino quasi a fermarsi.
Arrendersi. Lui, una volta tanto. Non noi.
Mentre le nuvole si scostano piano, come un sipario che sta per aprirsi su una
scena nuova. E noi lì, sul velluto rosso di una poltrona di prima fila a gustarci
l'attesa. Un'attesa che, dopo tanto tempo, finalmente ha un sapore diverso. La
magia elettrostatica che attrae l'anima alla vigilia, come un pezzetto di carta a una
bic strofinata sulla lana per qualche secondo. Come da bambini, quando aspettare
non vuol dire avere paura, ma gustare il mistero di ciò che sarà. Perché l'incanto è
nel futuro. Raramente nel passato. Mai nel presente. Perché ho fatto tutta questa
strada? si chiedeva. Per tornare da dove ero partito? È tutto qui il senso?
Nell'angoscia circolare di questo eterno tornare? Si parte mai veramente?
Possibile che, dopo tutti questi anni, bastasse un nome di città a restituirgli intatto
il passato, come un vestito che ci è sempre andato stretto e che abbiamo chiuso in
un armadio tra naftalina e cellophane per dimenticarlo. E, ogni volta che apriamo
quel dannato armadio, la prima cosa che salta fuori è proprio lui. Quante volte
aveva visto Roma sui giornali, in tv, nei notiziari, nei film? E quante volte l'aveva
sentita nei racconti degli amici? Nelle parole della gente che arrivava e nei
pensieri di quella che partiva? Ogni volta con emozioni ovattate - la memoria è un
paesaggio innevato - come per qualcosa che non ci appartiene più e, soprattutto, a
cui noi non apparteniamo più. Possibile che adesso bastasse quel nome a rendere
tachicardici i pensieri e a mandare in testacoda le emozioni?
«Pronto? Pronto?! Andrea, sei ancora lì?» Lo stridore di unghie su lavagna si
perse nell'inverno del '65. Nove febbraio. Un silenzio mai sentito aveva svegliato
Andrea nel cuore della notte. Nevicava. E continuò a fioccare fino alle undici e
mezzo del mattino dopo. Il sogno più lungo che lui avesse mai fatto. A fine
mattinata, su via degli Oleandri c'erano venticinque centimetri di neve. Era quella
l'unica cosa che non aveva voluto dimenticare della sua città. La notte nella quale
- avvolto in una coperta, in ginocchio su una sedia, occhi, mani e cuore appoggiati
al vetro - aVeva visto, per la prima volta, il mare scendere dal cielo. A Parigi
nevicava spesso. E, ogni volta che la piazza si imbiancava, lui tornava all'inverno
del '65 e capiva cosa intendeva sua madre quando diceva che la vita trova sempre
il modo di farsi perdonare. La vita, non Gerard.
«Ci sono, ci sono...» disse, con l'irritazione di chi non vuole essere svegliato.
«Tutto chiaro?» "Ferocemente" avrebbe voluto rispondere. Disse soltanto «Sì».
«Michelle viene con te?» «Chi?!» «Ho capito, Andrea. Buon volo. E salutami
Giulietta e Romeo...» «Quella è Verona, Gerard, Ve-ro-na!» «Roma, Verona: ou
est la différence?... l'Italie c'est l'Italie, n'est-cepas?»
3
I viaggi in aereo erano come i pensieri di Gerard: insipidi e tutti uguali. Andrea
li detestava, con la stessa puntigliosa ostinazione con cui detestava le previsioni
del tempo, il correttore automatico di Word o il "piuttosto che" usato al posto
della disgiuntiva o. E, più in generale, qualsiasi cosa lo costringesse a essere dove
non sopportava essere: lontano da se stesso. Il posto vicino alle uscite di sicurezza
l'aveva ottenuto, ma lo avrebbe barattato volentieri con il più impraticabile degli
strapuntini se solo avesse immaginato che sarebbe stato costretto a trascorrere i
successivi centoventicinque minuti accanto a una coppia di maniaci del sudoku.
Un uomo e una donna che, per tutto il tempo, non avevano fatto altro che litigare
su quale fosse il sistema più rapido ed efficace per aver ragione degli insondabili
misteri del calcolo combinatorio. Né la breve che "Le Monde" dedicava al suo
viaggio nella città eterna, né il sorriso latino e gravido di promesse della hostess
erano serviti a compensarlo. Di quel volo, si augurava esattamente ciò che si
augurava di quel viaggio: che finisse il più presto possibile. E non lasciasse
strascichi.
Fiumicino era irriconoscibile. Anonimo, come ogni posto nel quale transitano
fin troppe forme di vita, ma senza che nessuna vi sosti mai il tempo necessario a
lasciare qualcosa di sé. Se non fosse stato per l'inconfondibile modulazione del
vernacolo degli addetti alle pulizie, avrebbe potuto essere atterrato in qualunque
città del mondo. Per fortuna, pensava, qualche impurità sfugge ancora
all'insaziabile voracità della globalizzazione. Faceva effetto pensare di essere
partito in un secolo ed essere tornato in un altro. Ma la vertigine diventava
insostenibile se pensava che non solo i secoli, ma anche i millenni erano diversi.
L'unica differenza tra l'aeroporto e un qualunque altro centro commerciale era il
parcheggio. Quello interno, infatti, poteva ospitare dei giganteschi suv a dieci
ruote, lunghi più di settanta metri e in grado di trasportare quasi cinquecento
persone! Il resto era assolutamente identico. Un turbinare di occhi, lingue, gambe
e carrelli, in una rissa di luci, vetrine, alcolici, essenze profumate, umori di
microonde e vapori di caffè. Potevi comprare tutto ciò che volevi, a patto di non
cercare nulla di ciò di cui avevi davvero bisogno. In tanta inutile munificenza
Andrea cercava un appiglio. Un suono, una voce, una parola, un volto. Qualsiasi
cosa che lo aiutasse a non sentirsi, oltre che straniero alla città, straniero al
mondo. E al tempo. Ma non avrebbe mai immaginato che quell'appiglio gli
sarebbe stato offerto da un cartellone pubblicitario. Il cartonato si scorgeva già dal
fondo della galleria. Sembrava la copertina di un libro. Il libro dell'anno, a
giudicare dalle dimensioni.
L'editore fa le cose in grande, pensò. Si avvicinò. Almeno con lui il richiamo
aveva funzionato. "L'ultima volta che il mondo ha sognato" recitava la fascetta
rossa che cingeva la riproduzione della copertina. "Un piccolo grande amore, tra
summer of love e anni di piombo." Odiava entrambe le espressioni. Troppo
leggera una; troppo pesante l'altra.
Ma il titolo, Solstizio d'inverno, non era male. Incuriosiva.
Fu la gràfica di copertina a costringerlo a entrare in libreria. Su una porzione di
muro, qualcuno aveva stilizzato e messe» una accanto all'altra nella corretta
successione, le quattro lettere della combinazione che apriva la cassetta di
sicurezza della memoria. La stessa nella quale, lasciando Roma ventisette anni
prima, aveva avuto cura di seppellire tutto ciò che doveva rimanere a terra. La
porta automatica si aprì con sibilo di pallone che si sgonfia. Andrea entrò. Odorò
la miscela inconfondibile di carte di diversa grammatura, attraversò il salone e
puntò dritto gli scaffali con la scritta novità. Il libro era lì in una geometria di
cloni di sé, come il soggetto di una serigrafia di Warhol.
Ne prese una copia. Guardò la copertina. Sfogliò le prime pagine. La scrittura
sembrava mantenere le promesse del titolo. Segni particolari? Nessuno. Lo aveva
scritto una donna. Il nome non diceva niente. "Il romanzo" recitava uno strillo
sulla quarta di copertina "che vi farà cambiare idea sulle storie d'amore."
«Ammesso che ne abbia una» commentò laconicamente. Si avvicinò alla cassa. Si
mise in fila. Davanti a lui un tizio con un giornale. Dietro, una ragazza che
frugava nell'espositore delle cartoline. Quando fu il suo turno, porse il libro al tipo
dietro il banco. Quello guardò il libro. Guardò Andrea. Sollevò le sopracciglia.
"Eccone un altro!" pensò. Cercò il codice a barre. Vi passò sopra il raggio dello
scanner. Aspettò che la luce del lettore, da rossa, diventasse verde. Attese il beep.
Controllò il prezzo sul display. Premette ok sul registratore di cassa e sorrise,
compiaciuto di se stesso. Poche cose confortano come una procedura che
funziona.
«Dodici e novanta» disse con amichevole noncuranza.
Andrea tirò fuori il portafogli. Un giorno o l'altro, pensò, dovranno spiegarmi
con che criterio stabiliscono i prezzi. Dodici e novanta: ma che senso ha? Perché
non tredici?
Molto più pratico. E molto meno irritante. Cos'è: qualche guru del marketing ha
scoperto che dodici è più rassicurante? Magari ipotizzando che i numeri sublimi
sono in grado di stabilire un particolare legame empatico clienteprodotto? O forse
perché dodici sono i semitoni che compongono l'ottava e, quindi, il prezzo
acquisisce una valenza musicale capace di sedurre? O hanno, semplicemente, la
coscienza sporca e non hanno il coraggio di chiederci gli ultimi dieci,
dannatissimi, centesimi? Estrasse la carta di credito. Stava per consegnarla al tipo
della cassa, quando qualcosa lo fece esitare. Si fermò. Lo guardò senza spiegare.
Rimise a posto la carta e tirò fuori i contanti. Ovunque fosse, il cittadino Kane7
sapeva già tutto di lui: voli, albergo, spostamenti, luogo e orario della conferenza
stampa. Aveva, almeno, il diritto di sottrarsi alla coscienza digitale del mondo per
i quarantacinque secondi necessari all'acquisto di un libro? La vita vale tre quarti
di minuto di oscuramento di un monitor, un quasi inavvertibile sganciamento da
un satellite geostazionario o una riga vuota in un tabulato telefonico? Andrea mise
sul bancone una banconota da dieci, due monete da un euro, una da cinquanta,
due da venti.
Il ragazzo sistemò la banconota insieme alle altre da dieci euro e contò una per
una le monete, riponendole ciascuna nell'apposito scomparto.
«Novanta» disse. «A posto.» E sorrise di nuovo, traendo conforto da
quell'inaspettata dose di rasserenante simmetria.
«Desidera un pacchetto regalo?» sospirò sentendosi quasi al termine della sua
fatica.
«No, grazie. Non serve» rispose Andrea. «È per me.» «Una busta?» Andrea
fece no con la testa. Il sorriso significava: "Per favore: le dispiacerebbe smetterla
con le domande e darmi il mio libro?". Il ragazzo annuì e gli passò il libro. Andrea
lo prese. «Arrivederci» disse e cercò di uscire il più rapidamente possibile.
L'apnea si stava prolungando oltre il previsto. L'ossigeno cominciava a
scarseggiare. Doveva prepararsi alla risalita. Altrimenti non ci sarebbe stato più
tempo per compensare. Non poteva rischiare.
«L'ho letto...» disse il ragazzo alla schiena dell'uomo. «...
Non è male» aggiunse ai vetri della porta automatica ormai chiusa/«Per niente»
sussurrò a se stesso. «Prego?» disse alla ragazza che aspettava, contando delle
cartoline.
«Le dia pure a me... Mi spiace, però» aggiunse «non abbiamo i francobolli.»
«Non importa» rispose la ragazza.
«Dietro l'angolo, dopo la farmacia, c'è un tabaccaio...» La ragazza abbozzò un
sorriso, fece "d'accordo" con il capo e uscì.
«Il resto!» gridò il tipo della cassa. Anche questa volta, però, la porta era già
chiusa. "Devo ottimizzare i tempi" pensò.
«Il prossimo?!» disse al negozio vuoto.
Andrea era quasi riuscito a completare la risalita. Pochi metri, ormai, lo
separavano dalla superficie. Chissà - si chiedeva - che effetto gli avrebbe fatto
tornare a respirare.
Sul pelo increspato dell'asfalto, centinaia di bipedi apparentemente della sua
stessa specie, si affannavano a salire su ogni tipo di natante da terra, per fare rotta
verso il punto invisibile che ospitava la città. Nessuno presentava tracce evidenti
di alterazioni fisiche. Perché, dunque, l'atmosfera di quel pianeta avrebbe dovuto
rivelarsi letale per lui? Nessuna ragione. La paura non ne ha bisogno. E ragione di
se stessa. Tutto a un tratto, Andrea sentì che avrebbe dato qualunque cosa purché
l'altoparlante chiamasse il suo nome e lo invitasse a recarsi al posto di polizia
aeroportuale per comunicazioni urgenti. Qualunque cosa perché, una volta lì,
qualcuno gli comunicasse, nel tono affettato degli imbarazzi ufficiali, che c'era un
problema; che il sindaco era mortificato e che si scusava, ma all'improvviso erano
"sopraggiunti inderogabili impegni istituzionali" che lo avevano costretto a
rinviare cerimonia e conferenza stampa a data da destinarsi. Perché quella che si
sarebbe rivelata, a tutti gli effetti, una prospettiva disastrosa emanava un così
gradevole aroma di salvezza? La chiamata arrivò, con la voce da crooner di un
corpo da rugbista avvolto nella divisa dei Men In Black.
«Architetto Tommasi?» «Sì?» «Benvenuto, architetto...» «Grazie...» rispose
Andrea, senza congedare l'intonazione interrogativa.
«Mi manda "AmoromA"...» «Prego?» «L'organizzazione... L'incontro di
stasera... la conferenza stampa...» «Ah., sì, sì certo, mi scusi... Non avevo...»
«Nessun problema... Si figuri. Lo Russo» disse allungando la mano. «Sarò a sua
disposizione per tutta la sua permanenza a Roma...» Andrea sorrise senza
convinzione, infastidito da un lontano riverbero al bergamotto del dopobarba di
Gerard. Ma tono della voce e inclinazione dello sguardo - entrambi più leggeri e
meno sgualciti del vestito - sembravano compensare i guasti della memoria
olfattiva e Andrea allungò la mano: «Andrea Tommasi».
«Fatto buon viaggio?» «Buono... Grazie.» «Bene...» aggiunse il crooner con
l'aria di chi fa del suo meglio per nascondere una non proprio felicissima
propensione alla conversazione.
«Fa piuttosto caldo qui...» «È così da un paio di giorni» replicò, sollevato dal
fatto che non fosse toccato a lui scegliere l'argomento. «Da domani, però,
dovrebbe rinfrescare... Così dicono, almeno...
Ci azzeccassero mai una volta...» «Be', almeno su questo si può contare...» «Su
cosa?» «Sul fatto che non ci azzeccano mai...» «Ah, sì... certo...» replicò confuso
il rugbista, mentre cercava un senso alle parole dell'architetto... «Ha solo questa?»
disse, dopo qualche istante di infruttuosa ricerca, indicando la valigia.
«Sì. Riparto domani.» «Lasci. La prendo io.» «No, no. Non si preoccupi. Ci
penso io, grazie.» «*Bene. Faccio strada, allora. La macchina è proprio qui fuori.»
Andrea sorrise di nuovo. Le porte automatiche si aprirono. Il ragazzo passò. Lui si
fermò. Chiuse gli occhi. Prese un lungo respiro e lasciò che l'aria ispida del
passato invadesse pori e polmoni. Li riaprì nell'inverno del '77 di fronte allo
sguardo crepato di sua madre.
"Cos'ha Parigi che Roma non ha?» "Per ora niente. Ma, quando sarò là" le
aveva risposto, cercando di alleggerire la tensione "avrà me!" "Tu sorridi, ma,
intanto, non ti avrò più io... Prima tuo padre e adesso tu. Non vi sembra di
chiedere un po' troppo?" Non c'era risposta. Lei non l'aspettò. Lui non la cercò.
Il ragazzo che aveva accompagnato la donna e che, fino a quel momento, era
rimasto in disparte, appoggiato a una Due Cavalli più segnata di lei, si avvicinò.
"Venga signora Anna" disse, appoggiandole delicatamente una mano sulla spalla.
Lei baciò Andrea. Lui la strinse a sé. Non dissero nulla, ma entrambi avvertirono
il morso gelido del sospetto azzannarli alla gola. Era l'ultimo abbraccio. E tale
sarebbe rimasto.
«Abbi cura di lei" disse Andrea guardando il ragazzo negli occhi.
«Come fosse la mia" rispose l'altro, senza abbassare lo sguardo.
Il ragazzo aprì la portiera. Andrea salì. L'auto si avviò.
Davanti a lei, quella che il rugbista al volante avrebbe chiamato futuro e l'uomo
del sedile posteriore, passato. Nulla è ciò che è, pensò Andrea. La realtà? Pura
fantasia.
Molto tempo dopo, ripensando a quel viaggio, avrebbe ricordato ogni dettaglio,
anche il più piccolo e apparentemente insignificante: la telefonata di Gerard, la
discussione con Michelle in aeroporto, la ragazza del check-in, la coppia di
maniaci del sudoku, il sorriso latino della hostess, il tizio della libreria, la voce da
crooner dell'autista, la sala della cerimonia, la cordialità del sindaco, la conferenza
stampa, le domande dei giornalisti (e, naturalmente, le sue risposte), i flash dei
fotografi. Persino i titoli dei giornali del giorno dopo. Ma nulla, neanche
un'impressione, per quanto vaga e indistinta, del tragitto dall'aeroporto alla città.
Non l'aveva dimenticato. Qualcun altro aveva compiuto quel tragitto al posto suo.
«Senta, Lo Russo...» disse Andrea, mentre l'auto lasciava il Raccordo e
imboccava l'Aurelia.
«Sì?» «Ho cambiato idea...» «Dica, architetto...» «Mi porti sul Lungotevere...»
«Lungotevere? Non desidera fare prima un salto in albergo? Manca poco,
ormai...» «No, non si preoccupi... Non è importante...» «Va bene. Come
preferisce... A che altezza del Lungotevere?» «Ponte Palatino... ce l'ha presente?»
«Quello dopo l'ospedale... come si chiama?... Il Fatebenef ratelli?»
«Esattamente... Le dispiace portarmi lì?» «E che problema c'è, architetto...» «Mi
sembrava perplesso...» «Per carità... È solo che... con questo traffico, rischiamo di
non fare in tempo a passare in albergo prima della conferenza...» «Non è un
problema. Se tardiamo, andremo direttamente alla conferenza stampa...»
«Pensavo desiderasse rinfrescarsi, rilassarsi un attimo, non so...» «Non si
preoccupi. Va bene così...» «Come vuole...» L'auto accostò poco prima del ponte.
Impossibile sostare sulla efarreggiata. E il marciapiedi era accessibile solo ai
pedoni*.
«Faccio due passi» disse Andrea. «Mi aspetti qui.» Il rugbista annuì.
Andrea afferrò il libro e scese dalla macchina. Quale che fosse la storia, le
quattro lettere dell'immagine di copertina erano le stesse che trent'anni prima,
aveva inciso sul peperino della pelle dell'isola. Se si trattava di aprire la cassetta di
sicurezza della memoria e vedere cos'era rimasto di ciò che custodiva, forse era il
caso di farlo nel punto esatto in cui era stata sigillata.
"Sparate al cuore" pensò Andrea aprendo il libro e cominciando a leggere "ma
risparmiate il viso."
Solstizio d'inverno.
1
Malgrado fossero ormai passati quasi due anni, l'eco di quella che i giornali
avevano battezzato la battaglia di Valle Giulia era ancora nell'aria. Un polline
elettrico e urticante. Una febbre d'alta tensione, che impediva di restare a
guardare, costringeva a pensare e a farsi sentire. La piazza aveva cominciato ad
animarsi dalla mattina e quando Andrea e Leo vi si affacciarono era quasi piena.
La domanda era semplice: se l'uomo era davvero riuscito a mettere piede sulla
luna, perché i giovani non avrebbero dovuto fare altrettanto con la loro vita? Cosa
glielo impediva? E per quanto tempo ancora?
«Anvedi quanta gente, eh Andre'!» esclamò Leo.
«Già. Non immaginavo saremmo stati così tanti» disse Andrea.
«È bellissimo!» «Sì...»
GIÙ LE MANI DAL VIETNAM!!
GIÙ LE MANI DAL VIETNAM! !
GIÙ LE MANI DAL VIETNAM!!
«Mica me l'aspettavo così...» «Neanch'io...» «Quello scemo di Vince non sa
che si perde.» «E Secco?» «Dev'essere dietro. Da qualche parte... l'ho perso di
vista quando siamo arrivati in piazza...» Una ragazza prese la mano di Leo. Occhi
grandi, capelli rossi, pelle bianchissima punteggiata da piccole efelidi colore del
caffè. Sembrava il mare quando piove. Caftano arancione, sciarpa viola. Sui
capelli una flotta di farfalle di carta colorata.
«Ciao.» «Ciao!» rispose Leo, come chi si sveglia di soprassalto e si chiede
"dove sono?".
«Io sono Serena...» «Io... un po' meno...» «Come?» «No, niente... Leo: io sono
Leo. E lui... lui è Andrea.» «Ciao!» «Ciao» sorrise Andrea.
«Di che collettivo siete?» «Collettivo?» «Sì... il gruppo... no?» Leo guardò
Andrea, con la faccia di chi non sa proprio cosa dire.
«Oleandri. Collettivo "Gli Oleandri"» disse Andrea, ostentando una sicurezza
che sorprese sia lui che Leo.
«Oleandri... Oleandri...» rifletté la ragazza. «Ma che per caso siete quelli che si
rifanno ai movimenti pacifisti americani? La non violenza, il Satyagra... la forza
dell'amore...» «Siamo noi» confermò Andrea. «Siamo realisti: chiediamo
l'impossibile» sorrise... contento che qualcuno gli avesse suggerito una
direzione...
«Fico!» «Non è male...» disse, guardando lontano...
«E'dove vi riunite?» «Sulla collina. ACentocelle!» s'inserì Leo. «Uno
spazioautogestito nel quale portiamo avanti un discorso sul... sul rapporto tra...
volo, sogno e libertà... no Andre'?» «Be', diciamo che siamo alla ricerca di
nuovi... orizzonti... un'idea nuova di spazio... una specie di... di città ideale...»
«Forte... Magari un giorno di questi vi vengo a trovare...»
NIX-ON BO-IA!!
NIX-ON BO-IA!!
NIX-ON BO-IA!!
«E tu?» chiese Leo, cercando di mascherare un certo interesse per farfalle e
caffè.
«Sto pensando di iscrivermi all'uDi...» «L'università?» «Ma no...» disse
sorridendo «l'unione donne italiane...» «Ma che sei una femminista?» «Qualcosa
del genere... ma non proprio...» «Cioè?» «Più che altro quelle dell'uDi si
occupano di problemi concreti. Lottano contro il caporalato, il lavoro a
domicilio... questo genere di cose, capite?» Leo e Andrea annuivano, sforzandosi
di apparire interessati...
«Chiedono leggi che tutelino le lavoratrici madri... tipo: un piano nazionale per
gli asili nido...» «E certo, se no come fanno a lavorare!» la interruppe Leo.
«Appunto... è bello vedere che anche voi del collettivo di Centocelle parlate lo
stesso linguaggio... invece non mi piace per niente questa ossessione delle
femministe per il loro corpo, voglio dire... io non odio i maschi... non penso che
siano i nostri nemici storici come dicono loro...»
PA-CE PA-CE!!
PA-CE PA-CE!!
PA-CE PA-CE!!
«Quindi non sei una di quelle che dicono che le donne hanno bisogno degli
uomini come i pesci della bicicletta?» «Ma no, dai... è ridicolo.... cioè, nella
misura in cui si resta a livello di provocazione culturale lo capisco pure, ma se
l'analisi si sposta su un contesto più prettamente politico, allora...» «Di' un po', ma
quanti anni hai?» «Ventuno...» rispose, senza interrompersi. «Sono cose che
francamente non hanno molto senso... cioè, prendete l'aborto, ad esempio,... ecco
io non penso che si possa parlare di diritto... Perché tu quanti anni hai?»
«Ventitré...» «E tu?» «Diciannove...» «Diciannove? Ti facevo più grande...» «Ma
lui è grande! Il più grande! È il nostro ideologo. Ti presento il teorico della "città
ideale", uno... organico al movimento... sta a Architettura, eh!» «A Valle Giulia?»
«Sì...» disse Andrea che, ormai, aveva mollato gli ormeggi dell'imbarazzo.
«Fico! Allora c'eri anche tu il primo marzo... due anni fa?» «Veramente...»
«Certo che c'era!» lo interruppe Leo, mettendogli un braccio intorno al collo. «È
lui che ha guidato il collettivo degli Oleandri... avrai letto i giornali, no?...»
«Certo, certo...»
YAN-KEE GO HOME!!
YAN-KEE GOHOMEH
YAN-KEE GO HOME!!
«Io penso che, comunque, per una donna sia soprattutto un dramma...» «Ma
cosa?» «L'aborto...» «Un dramma, certo...» «Cioé... più che demonizzare il
maschio, cercherei di portare avanti il discorso della contraccezione... della
sensibilizzazione del partner... credo che ci vorrebbero delle strutture nelle quali
le donne potessero trovare informazioni, assistenza, solidarietà...» Fu a quel punto
che Andrea lo sentì. Un colpo sordo. Tonfo di corpo su pavimento. Rumore
lontano, indistinto. Come qualcosa che proviene da un'altra casa e non sai se
fidarti o no di quello che hai sentito. O credi di aver sentito. Così finisce che ti
convinci che ti sei sbagliato. Torni a fare quello che stavi facendo e non ci fai più
caso. Andò così. Pochi lo avvertirono. Qualcuno pensò al cannone del Gianicolo.
"Già mezzogiorno?" si chiese, buttando un'occhiata distratta all'orologio.
Qualcun altro, a uno dei grossi tamburi che ritmavano voci e passi del corteo, che
nel frattempo spingeva sui fianchi della piazza, tanto che sembrava che fosse per
la pressione della folla che aveva assunto il profilo dello scafo di una vecchia
nave da carico. I più pensarono a un tuono. Lontano, però. Troppo, per temere la
pioggia. E poi il cielo era con loro. Libero, come le parole delle loro canzoni e
terso, come una coscienza nella quale la vita non ha ancora fatto irruzione. Li
osservava. Benevolo e rassicurante. Come i genitori guardano i bambini alle feste.
Cercandoli, ma a distanza, tra palloncini colorati e festoni, mentre si rincorrono,
urlando la gioia di giochi indecifrabili. Eppure la pioggia arrivò. Il ragazzo con il
megafono, appollaiato su uno dei leoni della fontana, fu il primo a sentire le gocce
sulla pelle. Pesanti, polverose, metalliche. Pioggia acida.
Graffiava la gola. Faceva tossire. Annebbiava la vista. Irritava gli occhi. «Via!
Viaa! Andate viaa!!» gridò, agitando il braccio. Ma la confusione era tale che le
sue parole sembrarono l'ennesima incitazione alla festa. Da sotto, si sollevarono
grida, mani e applausi e tutti continuarono a ballare e cominciarono a cantare
ancora più forte. La pioggia li sorprese felici e inermi e li lasciò feriti e con le iridi
dilatate sulla stessa domanda: "Perché?". Quando cessò, dell'estasi di Andrea,
della scintilla che aveva rianimato le candele del cuore a due tempi di Leo, delle
farfalle di Serena e del sogno delle decine di migliaia di mani che avevano fatto
ondeggiare la piazza come grano, non era rimasto nulla.
Nemmeno la memoria. Niente. Tutto spazzato via da una secchiata, come acqua
sporca dal bancone del pesce. Restava l'odore. Rancido e nauseante. Perché i
sogni sono come il pesce: o si consumano freschi, o avvelenano. Una transizione
di fase. Netta, inesorabile e, soprattutto, irreversibile. Dallo stato aeriforme
dell'incanto che aveva reso felicemente tachicardico il cuore della piazza, a quello
solido di una falange di opliti in mimetica che marciava a ricacciare in gola i
pensieri a estirpare il seme del sogno: l'unico che nasce e attecchisce anche in
mancanza di luce.
Avevano sognato insieme: si risvegliarono insieme. Con un'identica rotazione
del capo. Le teste si sollevarono in assoluta sincronia, come il gesto di una
coreografia a lungo provata e perfettamente eseguita. Gli occhi perquisirono il
cielo alla ricerca dell'unica cosa che era ancora possibile trovare: l'effetto, non la
causa di quel tonfo. Sguardi ignari, sempre più appesantiti e irritati, seguivano un
animale sconosciuto, con testa di metallo e coda di fumo, attraversare il cielo
lungo la bisettrice che taglia Porta del Popolo verso le chiese gemelle. Un
volteggiare sinistro di rapace, che disegnava presagi oscuri. Un movimento al
rallentatore, come il replay che segue un pallone insidioso avvicinarsi alla rete.
Sulla verticale dell'Obelisco Flaminio, l'animale con testa di serpente e corpo di
drago senza ali, ruggì. Il cielo venne oscurato da altre teste. Sette in tutto. Tutte
con gli stessi occhi iniettati di sangue e la stessa sete di anime. Un'idra gigantesca,
il cui morso irritava le mucose e iniettava nei pensieri l'unico veleno per il quale
non esiste antidoto: la paura.
«Caricano!» «Viaa! Viaaa!!» «I lacrimogeni...» «Cazzo! Scappiamo!!» «Quei
bastardi ci sparano addosso...» «Vi^'a! Viaa!!» Andrea era frastornato. Non capiva
cosa stesse succedendo. Come mai tutto a un tratto quel paradiso era diventato
inferno? Si voltò, appena in tempo per vedere Leo trascinato via dall'onda di
piena della fuga. Anche Serena e le sue farfalle erano volate via.
«Che succede?» chiese a un ragazzo che correva verso di lui.
«I celerini! Ci stanno caricando! Levati!» Il ragazzo lo scansò e sparì,
inghiottito dalla coda del corteo che batteva in ritirata. Andrea si aggrappò a una
camicia e, per un attimo, riuscì a bloccare la corsa di un altro. Un fazzoletto gli
copriva naso e bocca e lui puzzava di aceto e limone.
«Che cazzo succede?» «Scappa, belli capelli! Sparisci, se non vuoi fare la fine
di Pardini!» «Di chi?» «Quello di Pisa! Ma dove cazzo vivi? S'è beccato un
candelotto nel petto e c'è rimasto secco.» «Cazzo!» «E quei bastardi della
questura c'hanno avuto pure il coraggio di dire ch'era morto d'infarto! Je pijasse a
loro 'n'infarto! St'infami!» «Viaa, viaaa!!!» gridò un'altra voce. Il ragazzo che
sapeva di aceto e limone sparì, confuso a un orizzonte di eskimo, jeans, bandiere,
sciarpe e striscioni. Lo stesso verso il quale anche Andrea cominciò a correre.
La festa era finita. L'acquazzone aveva disperso i bambini.
Nel giardino, devastato da acqua e vento, cadaveri di palloncini, un fango di
coriandoli e stelle filanti, bicchieri di plastica e pezzi di striscioni colorati, che
oscillavano, tristi, dai rami degli alberi. Bastava guardare i resti inanimati della
festa, buttati sull'erba grigia di basalto dei sampietrini per capire che
l'immaginazione non sarebbe mai arrivata al potere: nemmeno lei riusciva a
immaginare di cosa il potere fosse capace.
Andrea si scaraventò dentro un bar. Chiuse la porta e restò piegato sulle
ginocchia a raccogliere fiato e pensieri. La schiena appoggiata al vetro, ascoltava
il cuore insultare il cervello e la coscienza cercare, invano, di mettere pace. Le
gambe non c'erano più. Ma quanto aveva corso? Gola di carta vetrata. Salivazione
zero. Di deglutire non se ne parlava nemmeno. Solo allora si rese conto che gli
occhi bruciavano come stoppie. Le palpebre erano esauste. Per la prima volta
piangere pesava, ma non puliva. Anzi. Le orecchie fischiavano. Come al sabato,
quando lui, Leo e gli altri, si chiudevano nella cantina del Secco per ascoltare quel
latrare di chitarre che Gigi, Aldo e Kiko chiamavano rock. Faticava ad abituarsi a
quell'embolo di silenzio. Gli ci volle un po' per cominciare a distinguere di nuovo
i suoni. Per prima arrivò l'acqua. Il suo rassicurante tamburellare sul fondo di
alluminio del lavello, era il primo suono riconoscibile da ore. Poi, l'acciottolio di
piatti e tazzine, che mani svogliate ammonticchiavano nel cestello di una
lavastoviglie. Ultima giunse la voce irreale di una radio. Nascosta da qualche
parte, parlava parole che Andrea non capiva.
Altra lingua, altro tempo, altro mondo. Solo allora si accorse che una calvizie
rotonda, guarnita di baffi e occhiali lo fissava da dietro il bancone. Alle sue spalle,
un orizzonte di bottiglie ambrate che facevano la verticale tra la specchiera e la
macchina del caffè. «Salve» disse Andrea con un resto di fiato, tornando a
guardare fuori. Da un momento all'altro, sarebbero entrati. Lo sapeva. Lo
avrebbero afferrato e trascinato via senza tanti riguardi. Sbattuto su un cellulare,
tra altri pericolosi capelloni come lui. Sarebbe finito in chissà quale questura,
davanti a chissà quale mascella a parlare di cose che non sapeva. "Bastardi:
vogliono solo farci paura"; "Non abbiamo fatto niente: non possono farci un
cazzo"; "A riga, in campana: lontani dalle finestre!" avrebbero imprecato voci di
ciclostile, limatura di ferro e sudore. Nella strada, deserta, risuonava
un'inquietudine ancora più opprimente di quella della piazza. Dove diavolo erano
finiti tutti? E quel silenzio... possibile che si fosse immaginato tutto? Leo: se l'era
cavata o lo avevano beccato? E dov'era adesso? E Serena? Dov'erano migrate
efelidi e farfalle? E Secco? C'era anche lui in piazza, quando i celerini avevano
caricato o era rimasto indietro? E gli altri?
Che fine avevano fatto? All'improvviso, gli venne in mente sua madre. La luce
della cucina. La macchina da scrivere.
"Fa' che non stia ascoltando la radio" pensò. Una finestra si aprì. Nessuno si
affacciò. Un taxi rallentò. Sembrò quasi sul punto di fermarsi, ma subito riprese la
corsa e si allontanò in direzione del fiume. Un cane si avvicinò al divieto di sosta,
sollevò la zampa e decise che il suo territorio finiva lì, sulla base rugginosa del
palo. La finestra si chiuse. Il taxi sparì. Il cane si guardò intorno annoiato e
scomparve dietro una siepe di auto parcheggiate. Dove avevano sbagliato? Le
canzoni? Gli striscioni? I vestiti? Cosa? Chi cavolo era Pardini? Che senso ha
morire a vent'anni crocifisso a un lacrimogeno?
«Salve, belli capelli» tossirono calvizie, baffi e occhiali.
"Si è sparsa la voce" pensò Andrea. «Prendi qualcosa o sei passato solo per un
saluto?» Andrea non rispose. Guardò fuori. Guardò l'uomo dietro al bancone.
Guardò di nuovo la strada. Troppe cose non quadravano. Che c'entravano
mimetica, lacrimogeni e manganelli con l'aria gravida di promesse di quella
specie di gita di classe al centro? Perché la polizia li aveva caricati? Chi aveva
dato l'ordine? E chi diavolo erano quelli con casco, occhiali da saldatore e
fazzoletti sul volto che scendevano urlando dal Pincio, mentre tutti gli altri
cercavano di scappare?
. «Allora?» lo incalzò il barista. «Non vorrei metterti fretta, figliolo, ma a
Natale pensavo di farmi una settimanella in montagna dai miei...» Andrea guardò
fuori ancora una volta. «... Sai: è tanto che non li vedo...» Sorrise al pensiero che,
dall'interno della vetrina, il nome di quel posto si leggeva acetone. Si addiceva
perfettamente alla corrosività da solvente del gracidare di quei baffi con occhiali e
annessa calvizie. Scosse il capo. Più ci pensava, più le cose stentavano a trovare
un senso. "Perché i sogni fanno paura? pensò. "E chi ha paura dei sogni?" E,
ancora: "Se fanno così tanta paura, allora sono davvero grandi!". Si girò, passò le
mani sul viso come se quel gesto potesse portarsi via tutto di quel giovedì. Ma
non fu così. Un disagio senza nome rimaneva appiccicato alla pelle e impediva di
respirare. Si avvicinò al bancone. Per la prima volta vide il bar.
Cupo e semideserto, come la chiesa di don Franco all'ora dei vespri. Su uno
sgabello di fronte a resti di lieviti, un tipo cercava di farsi ascoltare da un
superalcolico. Poco più in là, sotto una vecchia stampa del centro, quello che
rimaneva di una coppia divideva tavolino e caffè. Dal fondo della sala, due iridi
curiose gli perquisivano la schiena.
L'uomo dietro al bancone lo scrutava in silenzio. Asciugava un bicchiere con
uno strofinaccio più nero dei suoi occhi. Di tanto in tanto, controllava in
controluce chi, tra panno e vetro, avesse la meglio. Andrea infilò le mani nelle
tasche del giaccone. Vuote, come la piazza dopo la carica della polizia. Anche lì:
niente altro che resti. Un biglietto del tram, un vetrino blu, un volantino, un
pacchetto di sigarette, le chiavi, un gettone. Ultima spiaggia: i jeans. Vuoti anche
loro, come gli occhi del tizio, sospesi a mezz'aria tra strofinaccio e bicchiere.
Inaspettata, dal taschino degli spicci, affiorò una banconota da cinquecento lire,
piegata in piccoli triangoli come una bandiera. Andrea spiegò la bandiera sul
ripiano di finto marmo nero. "Addio" disse tra sé, congedandosi dal profilo triste
della donna con la testa alata. «Una gazzosa. Per favore» chiese, sperando che il
tono desse alla richiesta la dignità di cui difettava.
Il barista annuì, sollevando le sopracciglia, mentre le labbra si umettarono di
sarcasmo. Guardò un'ultima volta in controluce il bicchiere. Lo posò. Asciugò le
mani nello strofinaccio. Aprì il frigo. Tirò fuori una bottiglia che somigliava a un
piccolo birillo satinato. La stappò. Ne versò il contenuto inquieto in un bicchiere
che faceva pubblicità a una marca di chinotto. Afferrò una mezzaluna di limone
con i denti di una pinzetta in Silver plate e la lasciò scivolare nel bicchiere. «Et
voilà» sussurrò, con ghigno di faina, ostentando falsa complicità. «Tranquillo: il
limone lo offre la casa.» La mia città ideale, pensò Andrea, è quella dove non si
incontra mai una faccia così!
«Che mi dai da fumare, che io non ne ho più...» disse un liquore di labiali, nel
quale ondeggiavano vocali profumate di menta e maggiorana.
«Come?» Andrea si voltò. Lei era lì. Luminosa come Vega, fresca come la
prima pioggia d'agosto, invitante come una spiaggia all'imbrunire, quando le
sdraio sono vuote e gli ombrelloni puntellano un cielo appena ingombro di
tramonto. La spiaggia sorrise come dire "Be'?". Lui sorrise, come dire "Cosa?".
Lei spalancò gli occhi. Lui vi cadde dentro. Per la prima volta precipitare aveva
l'effetto di risalire in superficie dopo una lunga apnea.
«Ti ho chiesto se hai una sigaretta. Sono stata sfacciata?» «Certo!... cioè: no!
Volevo dire...» balbettò Andrea cercandosi le tasche. «Scusa, sono un po'...» «Lo
vedo... Tutto a posto? Sembri stravolto. Ma che hai fatto... una maratona?» «La
manifestazione.» «Quale manifestazione?» «Quella di piazza del Popolo, no?»
«C'era una manifestazione?» «Non lo sapevi?» «Veramente no...» «C'era un sacco
di gente. Ballavamo, cantavamo, sembrava una festa. Poi è successo qualcosa. La
polizia ha cominciato a sparare lacrimogeni... Ci hanno circondati... e poi hanno
caricato...» «E... hai avuto paura?» «Certo che ho avuto paura... fumo dappertutto,
manganelli, sampietrini che volavano, tutti che scappavano... un inferno... E, poi,
mica volevo fare la fine di Pardini.» «Chi?» «Un tizio. Un ragazzo di Pisa... S'è
beccato un lacrimogeno nel petto e c'è rimasto secco. E la questura ha avuto
persino il coraggio di dire che era morto d'infarto...» «Madonna!» «Per fortuna
sono riuscito a trovare un varco. Mi sono infilato in una stradina, ho cominciato a
correre, a correre, a correre, fino a che non ho sentito più niente. Nemmeno le
gambe. Allora mi sono fermato... E... eccomi qui...» Si guardò intorno. «Non so
nemmeno dove siamo...» «A Ripetta, vicino all'Accademia di Belle Arti, non hai
corso così tanto...» «A me è sembrata un'eternità...» «Vieni, dai. Sediamoci. Così
ti riprendi un po'...» «Ok, ok» disse quasi ritraendosi, come chi vuole intendere
"va tutto bene... ce la faccio anche da solo". «Comunque io sono Andrea. E tu?»
«Io no.» Quello sul viso di Andrea era il punto interrogativo più curvo e sudato
che lei avesse mai visto.
«Giulia. Sono Giulia.» Andrea sorrise e scrollò la testa. Guardò il cameriere,
come per dire "Posso...?". L'uomo fece "sì" con il capo.
L'espressione rassegnata significava "Hai fatto trenta: fai trentuno".
«Coraggio: racconta...» disse Giulia, con un entusiasmo che le parve un po'
troppo imperativo «se ti va...» «Certo che mi va. È partito tutto dall'università...
abbiamo preparato striscioni, volantini, slogan... deciso il percorso... tutto...» «Fai
l'università?» «Sì. Architettura. E tu?» «Liceo. Classico...» disse, vergognandosi
un po'. «L'ultimo anno, però... L'anno prossimo vorrei iscrivermi a Lettere.»
«Forte.» «Mio padre, però... vuole che faccia Legge...» «Che tristezza!» «È quello
che gli ho detto anch'io.» «E lui?» «"Vuoi che tutta la fatica che ho fatto per
avviare lo studio" ha detto "vada sprecata? L'ho fatto anche per te, sai.
Cosa credi?... Pensa al tuo futuro!" Io al mio futuro ci penso. Solo che non
capisco perché dovrei avere un futuro da avvocato...» «È incredibile: i grandi
sono tutti uguali.» «Anche i tuoi volevano che tu facessi l'avvocato? Che, poi, mi
chiedo: se sono tutti avvocati, ma per chi lavorano?» «Hai ragione... È vero... Non
l'avevo mai vista così... Comunque i miei no... Mi hanno lasciato scegliere...»
«Sei fortunato...» «Sì, ma non è questo il punto... il punto è che a loro non importa
chi sei. Importa solo quello che farai. Sei figlio di un avvocato? Allora devi fare
l'avvocato. Sei figlio di un medico? Allora devi fare il medico. Sei figlio di un
farmacista? Allora farai il farmacista!» «E se non sei figlio di nessuno?» «Allora
cercano di capire quali sono i posti che si liberano e fanno di tutto per convincerti
che sei nato per fare l'usciere in un ministero o il funzionario di una banca... o,
che ne so, per entrare alla rai o alla Corte dei Conti...» «Mamma mia!... Pensaci:
quarantanni grigi, in un ufficio grigio, dietro una scrivania grigia, tra carte grigie,
facce grigie e parole grigie e poi, finalmente, la pensione! Grigia anche quella!
Piuttosto mi butto sotto la circolare...» «Già. Pensa... c'è un mio amico che suona
la chitarra: oh, ma uno forte, eh! Forte davvero. Dovresti sentire. Ha imparato
tutto da solo. Basta che ascolta un disco una volta e lui - zac - te lo rifà: u-gua-le!»
«Fico!» «Fichissimo.» «Ma che ha fatto?» «Be', ancora non aveva finito le
elementari che questa cosa della musica lo prendeva così tanto, che ha chiesto ai
suoi di iscriverlo al conservatorio. Voleva studiare pianoforte. Pianoforte classico.
Voleva girare il mondo dietro la prua del suo pianoforte. Diceva proprio così: "la
prua del mio pianoforte".» «Bello...» «Già... E quando, a ricreazione, i suoi
compagni scendevano in cortile a giocare a pallone, s'intrufolava nella sala dei
professori per suonare il piano!» «Pensa che passione! Ci credo che voleva fare il
conservatorio! Non ho capito, però, come mai, se gli piaceva così tanto il
pianoforte, ha scelto di suonare la chitarra?» «Non lo ha scelto. È che quando ha
chiesto ai suoi se gli compravano un pianoforte, gli hanno risposto: "Se proprio ci
tieni, mettiti i soldi da parte!". Lui ha fatto due conti e ha capito che tutto quello
che sarebbe riuscito a comprarsi era una chitarra...» «E che gli ha detto il padre
della questione del conservatorio?» «"Nei miei programmi non esiste un figlio
musicista" ha detto. No, dico: ti rendi conto? Quando me lo racconta, ancora gli si
bagnano gli occhi.» «Lo credo!» «Ma che significa che nei tuoi programmi non
c'è un figlio musicista? E i programmi di tuo figlio, allora? Quelli, non contano?»
«Forse avrà pensato che, crescendo, lui avrebbe cambiato idea... i genitori
pensano sempre che non sappiamo quello che vogliamo; che, siccome siamo
ragazzi non abbiamo le idee chiare. Che quelle poche che abbiamo sono stupide e
che comunque, prima o poi, le cambieremo. È una cosa che mi manda in bestia.
Siamo giovani, mica stupidi. Saranno belle le loro di idee. Puzzano di soffitta
lontano un chilometro.» «E, infatti, quello mica ha cambiato idea... solo che,
ovviamente, non fa il pianista. Il suo pianoforte è rimasto ormeggiato nel
magazzino di qualche negozio o è finito tra le mani di qualche ragazzino viziato
che ci ha giocato per un paio di settimane e poi si è stancato. E, adesso, in quella
casa/lo usano per appoggiarci le foto, i centritavola e i vasi di fiori...» «E il tuo
amico adesso che fa?» «Niente. Lavora in un ente pubblico. Ti rendi conto?
Un ente pubblico! Sta in amministrazione. Prepara le buste paga e le pensioni
dei dipendenti. Solo che, così, non è né un impiegato pubblico, né un musicista.
Non è niente.
Vive la vita di qualcun altro. Magari, da qualche parte c'è un pianista che non
desiderava altro che essere un normalissimo impiegato pubblico e il padre, invece,
lo ha costretto a studiare il pianoforte a tutti i costi... Che schifo! Sai che succede
se andiamo avanti così?...» Giulia abbassò gli occhi, mentre la voce di suo padre
copriva quella di Andrea: "La laurea in legge ti apre tutte le porte. Di bravi
avvocati ci sarà sempre bisogno, Giulia. Soprattutto in un paese come il nostro.
Pensa bene a quello che fai... Con la tua testa e le mie relazioni...".
«... Che ognuno finisce col fare il mestiere dell'altro! Ecco cosa succede! Gli
avvocati fanno i farmacisti, i farmacisti gli avvocati; i pianisti gli impiegati e gli
impiegati i pianisti! E poi ci chiediamo perché il mondo va così? Secondo te,
perché hanno tirato su un muro per dividere Berlino e ammazzano chiunque cerca
di passare dall'altra parte? E perché gli americani continuano a innaffiare il
Vietnam col Napalm?» «No, scusa: però questo che c'entra?» «C'entra Giulia.
C'entra eccome. Se nemmeno un padre e una madre sono disposti a capire e ad
accettare le idee di un figlio, a fidarsi di lui, a lasciare che segua la sua strada,
come pensi che possano farlo i russi con gli americani, gli israeliani con i
palestinesi o i bianchi con ì neri?... Se non ci capiamo tra noi, perché dovrebbero
capirci gli altri? Vuoi sapere cosa farei se fossi... se fossi il Presidente del
Mondo?» Giulia cercava di ancorare le pupille a quelle di lui, ascoltarlo era come
salire su un ottovolante.
«Radunerei tutti in una grande piazza e direi: "Signori: dimenticate quello che
fate. Pensate solo a quello che siete". Gli lascerei qualche minuto per pensare, in
modo che ciascuno possa capire o ricordare davvero chi è...» «E poi?» «E poi
direi: "Chi di voi è avvocato, vada sotto lo striscione avvocati; i farmacisti vadano
sotto lo striscione farmacisti; i pianisti sotto quello pianisti"... e così via. Ognuno,
finalmente, troverebbe il proprio posto - quello vero, però - e comincerebbe a
vivere la propria vita. Guerre, lotte, liti, tensioni e incomprensioni finirebbero, e il
mondo, finalmente, diventerebbe un posto migliore!» «Sarebbe fantastico,
Andrea! Davvero. È per questo che avete manifestato?» «Certo! Per un mondo nel
quale ognuno possa seguire il proprio sogno. Se tutti fossero davvero liberi di
farlo, il mondo troverebbe il proprio equilibrio e, invece di continuare a dichiarare
guerra, si potrebbe finalmente dichiarare la pace...» «Un grande sogno...»
«Grandissimo! E questa volta siamo tanti a sognare... avresti dovuto vedere la
piazza: era piena. Piena! E non solo a Roma. Ci sono piazze così dappertutto! E
ce ne saranno sempre di più. Invece di continuare a sognare il mondo, potremmo
cominciare a costruire un mondo di sogno...» Giulia era senza fiato. Non aveva
mai sentito parole così.
«E il tuo sogno, invece, qual è?» «Scrivere» disse. «Il mio sogno è scrivere. Lo
faccio da quando ero piccola. Prima tenevo una specie di diario. Poi, a poco a
poco, il diario è diventato qualcos'altro. Un modo per ascoltare i pensieri.
Toglierli dalla testa, metterli uno vicino all'altro sulla carta e poi guardare che
effetto fanno.
Ora non potrei più farne a meno...» «E che effetto fanno?» «Disastroso, direi.»
Risero entrambi.
«Come disastroso? Sembri così entusiasta!» «Sono entusiasta. Solo che non è
facile frugare dentro di sé. È un po' come quando guardi le vecchie foto: i tuoi
hanno una faccia diversa, portano capelli e vestiti assurdi e poi quei colori
allucinanti... E nemmeno tu ti riconosci: più vai indietro e meno ti piaci...» «E
quando scrivi?» «Ogni volta che posso, ma non quanto vorrei. La scuola mi
prende un sacco di tempo. E poi quest'anno ho gli esami... Di solito, scrivo di
sera. Dopo cena. Ma solo se sono riuscita a finire i compiti... Sennò, niente. In
realtà, però, la scrittura cammina con me... ci penso sempre... è difficile
spiegare...» «No, non è difficile: a me succede col disegno...» «Allora sai di cosa
parlo. A volte sono in classe, o in motorino, oppure sto studiando o me ne vado in
giro con Irene... la mia amica-amica...» Andrea annuì.
«... o con mia madre e, all'improvviso, mi viene in mente una frase... Parole-
spia le chiamo... Delle frasi speciali. Lo sento subito. Dall'effetto che fanno
quando entrano dentro di me. Quelle che emozionano; quelle che feriscono;
quelle che fanno pensare...» «E a te quali piacciono di più?» «Difficile da dire.
Quelle che feriscono, forse.» «Quelle che feriscono? E perché?» «Perché, alla
fine, sono anche quelle che emozionano e fanno pensare di più... Comunque,
quando arrivano le devo seguire. È più forte di me. Non c'è niente da fare... A quel
punto è come se mi sdoppiassi. Una parte di me continua a fare quello che stavo
facendo e l'altra se ne va. Lontano, dietro a quelle parole.» «E gli altri? Se ne
accorgono?» «A volte sì. Di solito ti dicono cose del tipo: "Giulia sei con noi?",
"Tesoro: torna qui!", "Ehilà!: c'è nessuno in casa?".
Allora vedo Giulia che fa sì con la testa e sorride in modo rassicurante, ma,
invece, la vera me sta ancora inseguendo le sue parole...» «E dove ti portano?»
«Non lo so. Non lo so mai. È proprio quello il bello. Decidono loro. Lontano,
comunque. Lontano da qui. Da tutto questo» disse, guardandosi intorno. «Allora
prendo carta e penna e comincio a scrivere... È bellissimo. Soprattutto la notte,
quando c'è silenzio. La voce delle parole è chiara, nitida. Non ne va sprecata
neanche una. E non c'è nessuno che ti reclami per sé. Solo loro. Durante il giorno,
invece, le cose non ti mollano un istante. C'è sempre qualcuno - un prof, mia
mamma, Irene, o qualcun altro - che comincia a innervosirsi e insiste perché io
torni con "i piedi per terra".» «Sono invidiosi.» «Già, lo penso anch'io. Gli rode,
perché loro non riescono a volare e io sì. Allora sono costretta a fermarmi.
Abbandonare le parole, staccare la spina dei pensieri e tornare a quella che gli
altri chiamano realtà. Ma anche le mie parole sono reali! Credimi. Molto più reali
della maggior parte delle cose che gli altri considerano reali. Ma non c'è niente da
fare: non lo capiscono.» «Io lo capisco, Giulia» disse Andrea guardando lontano...
«Lo capisco perfettamente.» «È una sensazione bruttissima.» «Lo so.» «E poi
mi lascia dentro un vuoto che non riesco mai a riempire. A volte dura tutta la
giornata. A volte ci vogliono giorni prima che mi passi. E poi mi uccide pensare
che quelle parole non torneranno più... Quando le lasci andare è difficilissimo che
tornino. Forse se ne vanno da qualcuno che sia davvero disposto ad accoglierle.
Del resto, lo faremmo anche noi, no?» «Sì. Credo di sì...» «La vita ti segue
dappertutto. Non ti lascia fiatare un momento. Prendi me, ad esempio. La sveglia,
la colazione, la scuola, il pranzo, i compiti, i miei, gli amici, lo sport, altri compiti,
la cena. Alla fine della giornata, i minuti nei quali me ne sto con me stessa, con i
miei pensieri si contano sulla punta delle dita di una mano. E in quei pochi minuti,
devi capire chi sei, cosa vuoi... Per questo sappiamo così poco di noi, della vita,
delle cose... non abbiamo tempo di pensarci.» «Forse è proprio per questo che la
vita corre via così in fretta: per non lasciarci il tempo di pensare. Così non ci
rendiamo conto di quanto certe cose siano stupide e assurde...» «Non mi importa
se le risposte sono brutte o fanno paura, lo voglio sapere, Andrea. Non voglio che
la mia vita resti una montagna di domande senza risposta... Per questo quando
posso, rubo un quarto d'ora per me. Cerco un posto tranquillo... un posto come
questo...» «Be', non mi sembra un gran che...» «Hai ragione. È uno schifo. Anche
il tè faceva schifo...» «Che ti aspettavi? Non hai visto il tizio dietro al bancone? È
così brutto che, se passa la morte, gli lascia il falcetto e se ne va in pensione...»
Giulia rise e giovedì sembrò domenica. Una domenica al mare, quando l'aria sa di
aria, l'acqua di pace e la vita di ciò che dovrebbe essere la vita.
«Meglio così, però. Almeno non c'era nessuno. Allora sono entrata, mi sono
nascosta in questo tavolino e... poi sei entrato tu... ti ho visto e ho pensato: ecco
un'altra anima in fuga... vi riconosco al volo, sai? Avete tutti lo stesso sguardo...»
«Che sguardo?» «Lo sguardo di chi cerca il cielo... E cercare il cielo è già
volare!» Gli occhi di Giulia incrociarono l'orologio del bar.
«È tardissimo! Scusa: devo proprio scappare. La mia lezione d'inglese
cominciava dieci minuti fa. La prof mi starà dando per dispersa. Devo andare,
prima che chiami mia madre.» Andrea le porge il volantino.
«E questo?» «È il volantino della manifestazione...» «Lo vedo. Ma io che ci
dovrei fare?» «Be', per esempio, potresti scrìverci l'indirizzo e il numero di
telefono. Non vorrai mica che, per rivederti, io sia costretto a organizzare un'altra
manifestazione, no? Pensa: tutta quella gente che viene fino qui dall'università, gli
striscioni, gli slogan, i volantini... e poi la polizia che ci carica, lacrimogeni,
manganellate, sampietrini che volano, sirene che urlano, gente che scappa e,
magari, finisce che qualcuno si fa pure male...» «Tutti così catastrofisti voi di
architettura?» «E tutte così insensibili voi del classico? Consideralo un contributo.
Un contributo alla causa.» «Quale causa?» «La causa dei sogni» disse, puntandole
gli occhi negli occhi. «Sono più grandi, se si fanno in due!» Giulia sorrise. Scosse
la testa. Prese il volantino. Fissò Andrea per un istante. Scrisse il numero di
telefono e lo passò ad Andrea. Poi prese il bicchiere, e finì la gazzosa di Andrea.
Lui la guardò interdetto.
«Chiamami: vediamo di che tipo sono le tue parole! Attento, però! Per me le
parole» sussurrò avvicinandosi «sono tutto.» Lo baciò su una guancia, prese
borsa, occhiali e chiavi e sparì. Prima che Andrea se ne rendesse conto, lei e il suo
motorino erano già lontani. «Le parole sono tutto» sussurrò Andrea.
3
Sedia e donna sembravano dello stesso legno. Scura come corteccia, l'una;
chiara come il cuore del fusto, l'altra. Per entrambe valeva lo stesso aggettivo:
vecchia. Appartenevano a un secolo che si era chiuso da un pezzo e che aveva
portato via tutto tranne loro. Loro, in cambio, erano le uniche che parlassero
ancora di lui. Il tempo è niente senza di noi.
Donna e sedia emanavano la stessa sensazione di inutile solidità. Come un faro
abbandonato, lungo una rotta che nessuno batte più. Erano lì da sempre. E lì
sarebbero rimaste per sempre. La casa, né grande né bella, sembrava fosse stata
costruita intorno a loro. Forse, al tempo in cui la periferia era ancora palude
appena bonificata, la donna aveva piantato lì la sua sedia, con il piglio perentorio
di un pioniere che marca i confini della propria terra. "Da qui non mi muovo!"
aveva annunciato alla carovana dei migranti. Il resto - tutto il resto - era venuto
dopo. Era solo per rispetto a quel gesto da rabdomante con il quale lei aveva
vaticinato che su quel fazzoletto di polvere e sassi, un giorno, sarebbero spuntate
strade, acqua corrente, elettricità e telefono; che suo figlio la teneva ancora in
casa. Ed era solo per rispètto a quel figlio che sua nuora - sperando che la fitta che
le chiudeva la bocca dello stomaco non salisse a incrinarle il sorriso - chiamava la
vecchia: mamma.
Per Cinzia, che quel pomeriggio festeggiava vent'anni, il passato non esisteva.
E il presente non era che l'intralcio che la separava dall'unica cosa per la quale
provasse ancora un briciolo di trasporto: il futuro. Palude, periferia, strade, acqua
corrente, elettricità, telefono, casa, sedia, nonna, papà e mamma non erano che
alcuni delle innumerevoli zavorre alle quali la vita la costringeva ad ancorare
desideri e pensieri. Tutto ciò che chiedeva a quel confuso giovedì era sapere quale
pelle avrebbe confinato con la sua, per rammendare il vuoto lasciato da Andrea.
Che genere di movimento tellurico di profondità aveva allontanato due continenti
le cui coste sembravano nate per aderire per sempre l'una all'altra?
Una sola cosa aveva il potere di emozionare la festeggiata: se stessa. Il sorriso
irriverente, gravido di complicità; lo sguardo veloce, che non conosceva
retromarcia; un seno sfrontato, sempre sul punto di traboccare, che faceva voltare
chiunque la incrociasse. E il cui richiamo selvatico lei non faceva nulla per
attenuare. E, soprattutto, l'idea che, appena fuori di lì, anche lei avrebbe incontrato
un rabdomante capace di penetrare la terra con la sua bacchetta e far sgorgare il
futuro. Futuro al quale chiedeva una cosa sola: che fosse diverso da quel nulla
acquitrinoso e opaco nel quale il mondo che la circondava continuava a dibattersi.
Corteccia e tronco furono i soli ad accorgersi dell'espressione afona di Giulia.
L'espressione di un trapezista che, alla fine di un triplo salto mortale, manca la
presa. "Ohhh!" aveva pensato la donna, strappandosi guance e labbra con le mani
e trattenendo il fiato, come pubblico terrorizzato che si chiede se la rete terrà. Due
cose nella sua vita ossuta non aveva mai mancato di riconoscere: candore e
fragilità.
E, purtroppo per lei, la ragazza immobile sulla porta possedeva entrambe. Di lei
l'aveva colpita il fatto che si fosse lanciata lo stesso, sebbene la consapevolezza
che avrebbe mancato la presa avesse ormai quasi interamente occupato il suo
sguardo. Donna e sedia conoscevano bene l'infelice ostinazione di quella tinta di
coraggio. A suo tempo ne erano state contagiate entrambe. E ora solo l'età le
teneva al riparo da ricadute che sarebbero risultate mortali. Cosa restava di loro
dopo tutti quei lanci? Un corpo di donna e uno di sedia avvinghiati l'uno all'altro,
nell'angolo semibuio dell'ingresso di un bilocale di periferia. Le cose sono già
difficili quando sono giuste - pensava - se sono sbagliate, sono davvero
impossibili. Aveva ragione mia madre: amore e saggezza sono stelle di emisferi
opposti: non brillano mai nella stessa porzione di cielo. La vecchia abbassò gli
occhi. Giulia si lanciò. La rete non tenne. E lei si schiantò sulla pista del circo
Centocelle. Molto tempo più tardi, quando rinvenne, Irene la fissava incapace di
celare disgusto e di elemosinare pochi spiccioli di comprensione.
«E tu questa me la chiami festa, eh?» «Parla piano, Irene: non vorrai farti
sentire!» «E chissenefrega: magari mi sentono! Guardati intorno: ma dove cavolo
siamo capitate?» «È una casa, che ti aspettavi...» «Casa? Questa? Giulia, ma che
ti sei rimbambita? No, dico: questa ti sembra una casa? Ma dai. A me sembra un
incubo. È tutta una caricatura. La casa non è una casa, i mobili non sono mobili, i
ragazzi non sono ragazzi...» «Ah no? Perché: cosa sono?» «Cadaveri, Giulia.
Questi sono cadaveri. Ma guardali... guarda come si muovono, come parlano,
come si vestono.
E senti che musica: mancano solo Betty Curtis e Claudio Villa!... Te lo dico io:
questi, ragazzi non lo sono mai stati.
E non lo saranno, mai!» Giulia la fissava senza il coraggio di replicare.
«Senti: non so cosa ci trovi in Andrea... E non lo voglio nemmeno sapere. Sono
affari tuoi. Ma se tu credi che io resterò in questo posto un minuto di più, allora
sei più fatta di quello che da mezzora sta piegato sul cesso a vomitare tutto il
nocino che si è sparato... Sai che ti dico? Io raccatto le mie cose, sempre ammesso
che le ritrovo: con questa gente non si sa mai...» «Irene!...» «... E torno a prenderti
tra cinque minuti. Se ti trovo, bene.
Se no: ci vediamo domani a scuola...» Giulia restò sola a fissare il vuoto.
Qualcuno le chiese se voleva bere qualcosa. Lei scosse la testa, abbozzò un
sorriso e si spense, come un cerino per un'improvvisa voce di vento.
Per prime scomparvero le cose. Una a una. Come quando si disfa una valigia. E
la casa le apparve per quello che era. Spoglia e inanimata. Un cassetto vuoto. Poi
si persero i gesti. Senza rumore. Come gesso che la cimosa soffia via dall'ardesia.
Quindi se ne andarono gli sguardi. Imposte che si chiudono alla pioggia. I rumori,
invece, si allontanarono a coppie. Ospiti stanchi che, a fine serata, si congedano
dai padroni di casa. Puntina e vinile, tappi e bottiglie, piatti e bicchieri, soprabiti e
sciarpe. Quindi sparirono le parole.
Non una grande perdita. Molte di loro era meglio perderle che trovarle. Ultima
se ne andò la musica. Nessuno, in fondo, l'amava e la voleva davvero. Nessuno
l'aveva ascoltata. L'avevano accolta senza passione, come si accoglie in squadra il
proprietario del pallone, anche se non sa giocare. Una tassa di scopo. Qualcosa
che serve a qualcos'altro.
Come un profumo, una luce fioca o un alcolico. Per rompere il ghiaccio;
abbassare le difese immunitarie dell'altro sesso e ribaltare il valore delle forze in
campo.
Quando tutto e tutti se ne furono andati, arrivò il silenzio. Amaro e pesante,
come le occasioni perdute. Sapeva di pioggia. Di uno di quegli acquazzoni estivi
che all'improvviso svuotano la spiaggia. A quel punto, anche Giulia andò via. Di
acqua, per quella sera, ne aveva presa abbastanza. Le labbra di Irene si
squarciarono a formare il suo nome, mentre le mani fendevano l'aria urlando: «Ti
decidi?!». Giulia afferrò la giacca che l'amica le porgeva e si lasciò trascinare
verso il pianerottolo. Si voltò un'ultima volta dalla soglia della porta. Cercava
qualcosa di Andrea nel ventre buio del corridoio. Qualunque cosa. Ma lui era là
dov'era stato per tutta la sera: altrove. Irene strattonò Giulia. L'ascensore arrivò.
Irene premette "T". La porta si chiuse con rumore di emozione strozzata.
Qualcuno si affacciò alla porta del bagno. «Andre'» disse una voce sudata
«Giulia s'è data!"» Andrea guardò Mastino e Leo, incapace di decidere. «A lui ci
penso io» disse Leo, afferrandolo per un braccio. «Va'.» Andrea si alzò. Ma restò
in piedi. Si guardava intorno stordito. «Vattene!!» gridò Leo. Gli altri si
scostarono. Andrea uscì dal bagno, attraversò di corsa il corridoio, chiamò
l'ascensore. Niente. Buttò gli occhi nella tromba delle scale. Avrebbe fatto prima a
piedi. Corse giù. Tre gradini alla volta. Saltò a pie pari metà dell'ultima rampa,
aprì il portone e si precipitò in strada.
«Giuliaa! Giuliaaa!!» urlò alla strada deserta, alla notte di finestre e lampioni,
vapori d'auto e passi disperati.
Giulia era già lontana. Con le gambe, con la testa, col cuore. L'aria della sera
rigava le guance e cancellava i pensieri. "Finalmente Roma!" pensò Irene,
intravedendo il ripetitore della rai sulla collina di Monte Mario. "Finalmente"
pensò Giulia. Il morso della delusione doleva più di quanto avesse immaginato.
Da quando in qua l'idea di rientrare a casa la faceva sentire meglio di quella di
uscire?
Una settimana dopo, sul marciapiedi di fronte alla scuola, la festa scottava
ancora. Giulia la sentiva pungere sulla pelle, come il sole del primo giorno di
mare. E, proprio come le accadeva all'inizio di ogni estate - quando ignorava le
raccomandazioni di sua madre e finiva puntualmente a pancia in giù sul letto, con
la nonna a farle impacchi di latte di capra sulla schiena ustionata - per due o tre
sere non era riuscita a dormire. I pensieri bruciavano troppo e continuava a
rigirarsi nel letto senza trovare una posizione. Si sentiva ancora immersa nei
vapori muschiati di quello che gli amici di Andrea chiamavano il salotto buono.
Una stanza poco più grande della sua, avvolta nel cellophane e vegliata da una
porta che si apriva sì e no due volte l'anno. Rivedeva il tappeto arrotolato in un
angolo; le tapparelle abbassate à dosare la luce; il divano-letto, soffocato dai
cappotti e da un gran pavese di cuscini fasciati d'uncinetto. I fiori celesti e le
bacche fucsia di una credenza di lacca nera, sormontata da un grande specchio nel
quale tutti guardavano per guardarsi, guardare e farsi guardare. In tutta la sera non
aveva incontrato un solo sguardo che non avesse giocato di sponda. Sentiva
ancora tazzine e bicchieri battere i denti sotto le intemperie della musica e il
pavimento flettere sotto il movimento meccanico di quei manichini, che
odoravano di autobus, Nazionali senza filtro e biliardo. Sagome uscite da vetrine
di merceria, con jeans che non erano jeans, camicie da cameriere, giacche da
prestigiatore, capelli da fotoromanzo, che si agitavano, sfidando gravità e
decenza. S'era mai visto uno strapiombo così grande tra immaginazione e realtà?
Forse per questo, pensò Giulia, amo così tanto le vigilie e non sopporto le feste.
Solo nel prima tutto è perfetto. Il bello è bello; il brutto, brutto; la gioia, gioia; il
dolore, dolore; l'amore, amore. Com'erano perfetti qualche sera prima sotto il
cedro il viso, lo sguardo e il sorriso di Andrea. Quello che pensava. Quello che
diceva. Come lo diceva. Perfetta la luce, i colori, il momento. La città, che non
rantolava, ma sapeva di ruscello. Poi era arrivato il durante. La neve si era sciolta.
E tutto quello che era rimasto era un po' d'acqua sporca sulla pelle butterata
dell'asfalto. Lui non era più lui. Niente era più niente. Ed eccola lì, adesso. In
piedi, davanti a uno specchio deformante come quello di un lunapark. La sua
serata perfetta era svanita nell'istante in cui aveva aperto la porta per lasciarsi
cadere nel pozzo senza fondo della serata che c'era. Ci sarà mai una festa
emozionante come la sua vigilia? A due sole cose si era sentita vicina: le ombre
cinesi dei genitori di Cinzia, chiusi dietro al vetro smerigliato della cucina a
consumare una cena fredda di silenzio e rassegnazione. E lo sguardo disabitato di
una vecchia vestita di ricordi, abbandonata su una sedia in un angolo semibuio
dell'ingresso, tra un porta-ombrelli di rame che sembrava un gigantesco stampo
per dolci e l'espressione rassegnata di un telefono di bachelite crocefisso al muro.
Aveva cercato in tutti i modi di far pace coi pensieri. Ma, ogni volta, l'eco acidula
delle parole degli amici di Andrea riusciva a far naufragare i negoziati. Parole
indigeste, incomprensibili, impossibili da deglutire. Che anime erano quelle che
usavano parole così?
E Andrea: a che genere di anime apparteneva? E lui qual era? Quello del cedro
o quello della festa?
Begli amici. Per tutta la sera non avevano fatto che fissare lei e Irene con occhi
di leoni che puntano due gazzelle imprudenti, che si sono allontanate un po'
troppo dal branco. Ogni volta che dicevano "Ciao!" pensavano "Bona!". E le
stringevano la mano con un sorrisetto irritante, per farle capire che, al contrario di
Andrea - sempre perso nel suo mondo di carta e matite colorate - loro erano lì.
Carne e ossa. Peccato non approfittarne. Nel caso lui non si fosse rivelato
all'altezza, sarebbero stati più che disponibili a onorare il buon nome di
Centocelle. Non sarebbe rimasta delusa. Nemmeno tra le amiche di sua madre, si
era mai sentita tanto a disagio. Il passo pattinato del "Secco", l'odore di vaniglia e
zucchero a velo di "Diplomatico", il ghigno da cinghiale braccato di "Mastino" e,
naturalmente, lo sguardo di trementina di Cinzia e della sua corte di adoranti
vestali, erano troppo per un'unica sera. L'unico che l'aveva guardata come ci si
guarda tra esseri umani era stato Spinterogeno.
«Ha ragione Andrea. Sei molto carina.» Giulia aveva sorriso.
«E hai anche un bellissimo sorriso... Ragazzo fortunato il nostro architetto...»
«Grazie.» «Non mi devi ringraziare. È la verità. Comunque, io sono Leonardo» le
aveva detto, con la prima stretta di mano che non voleva essere nient'altro che una
stretta di mano «ma tutti mi chiamano Spinterogeno perché faccio il meccanico.
Non brillano di fantasia, ma» aveva aggiunto sottovoce «non sono cattivi...» Si
erano guardati, intuendosi. Loro sì che avevano qualcosa in comune: il cuore di
Andrea.
«Scusa: il dovere mi chiama» aveva sorriso, indicando con la testa due ragazze
dall'altra parte della sala. «Divertiti!» Ma Andrea: era davvero diverso, come le
era sembrato, o c'era qualcosa dentro di lei che voleva vederlo diverso? Lo amava
perché lo vedeva così o lo vedeva così perché lo amava?
La risposta arrivò, con la voce di un esemplare maschio in piena crisi di
identità.
«Sono uno stupido.» Era la prima cosa sensata che Giulia sentiva da giorni.
Restò in silenzio, chiedendosi se ne sarebbero seguite altre.
«Mi dispiace per l'altra sera» continuò Andrea. «Scusa.» «Non ho tempo. Devo
tornare a casa. Ne parliamo un'altra volta. Ti spiace?» «Ti ho chiesto scusa.» «Ho
sentito. Non sono mica sorda...» disse liberando il motorino dalla catena.
«E allora?» «Allora cosa?» «Non basta?» «No, Andrea. Non basta.» «E cosa
dovrei fare? Mettermi in ginocchio, strisciare ai tuoi piedi e implorarti di
perdonarmi?» disse Andrea, sentendo che ogni sillaba lo allontanava un po' di più
da lei.
«Non so. Tu prova. Vediamo che effetto fa.» Andrea abbassò lo sguardo.
Perplesso. Svuotato. Incerto.
Si guardava intorno, con l'espressione di chi non sa bene cosa fare.
«Be'» lo incalzò Giulia «sono tutte qui le tue frecce, arciere?» Cominciarono a
camminare. Lentamente. Senza convinzione. Come se toccasse ai passi indicare la
strada e alla testa bastasse seguire la punta delle scarpe. Il tepore quasi estivo del
pomeriggio era rotto da brevi sbuffi di aria fredda che saliva dal fiume. La luce
era stanca e il giorno aspettava la sera per lasciarle, finalmente, il posto. Per il
resto era la città di sempre. Indolente, pigra, indifferente. Li ascoltava.
E li capiva, anche. Ma non potevano certo pretendere che si emozionasse. Ne
aveva viste troppe. Gli amori, poi, non li contava più. Persino la sofferenza,
ormai, la faceva sorridere. Forse non avrebbe dovuto essere così, lo sapeva. Ma
era così. Non poteva farci niente. Guardava Giulia e Andrea come una madre di
troppi figli. Con amore, ma senza passione. Dall'alto, poteva vedere la strada che
a loro sfuggiva, ma non poteva indicarla. Cinica, forse, non era mai stata, ma
nemmeno stupida. E, anche se la cosa non le piaceva affatto, ogni giorno che
passava, si scopriva un po' più fatalista. Esiste l'amore? Sì, avrebbe risposto. Ma,
probabilmente, avrebbe omesso di dire a quei ragazzi che gli amori, quelli no.
Quelli, ormai, stavano scomparendo.
«Finiti i festeggiamenti della spumeggiante Cinzia? Com'è che la chiamate?...
Ah, sì: "Cin-Cin". Un soprannome da Bond-girl. Niente male, devo dire. Le si
addice. A proposito: bello il nudo che le hai fatto e che si è appesa in camera...
Davvero. Non si può dire che la signorina non abbia delle qualità... né che non
sappia come... usarle...» Andrea arrossì. Dunque l'aveva visto. E figurarsi se
Cinzia si sarebbe lasciata sfuggire un'occasione d'oro come quella. Colpa sua.
Non era stata una grande idea trascinare l'agnello nella tana del lupo.
«E, di' un po': la tua Venere di Milo ha brindato solo con te o anche con
Spinterogeno, Secco, Diplomatico e gli altri?» Andrea non rispose. Le parole
formavano una parete liscia. Né appigli, né sporgenze, né rientranze. Niente. Una
tavola di roccia perpendicolare ai suoi pensieri. Impossibile scalare.
«Ho capito: tasto delicato. Scusa...» Giulia si fermò. Lasciò che fosse il silenzio
a fare terra bruciata dei pensieri di Andrea.
«Dimmi di Mastino, allora. È uscito dal coma? Si è ripreso? Certo il nocino fa
brutti scherzi, eh? E i genitori di Cinzia? Sono stati liberati o sono ancora
sequestrati in cucina?» «Ti ho detto che mi dispiace, Giulia...» balbettò Andrea.
«A me no, Andrea» disse, senza acredine, con una calma della quale fu lei
stessa la prima a stupirsi. «Non mi dispiace affatto. Preferisco capire subito con
chi ho a che fare...» «Ma io non sono così...» «Era quello che credevo anch'io.
Ma, dopo l'altra sera... non so più cosa pensare. Devo ammettere, però, che sei
stato bravo. A momenti ci cascavo... l'arco, le frecce, i sogni...» «È questo che
pensi di me?» «Perché tu, al mio posto, cosa penseresti?» «Non lo so... forse sarei
arrabbiato anch'io...» «Arrabbiato? Ma io non sono arrabbiata... sono molto più
che arrabbiata. Sono delusa. Le arrabbiature passano, Andrea. Le delusioni
restano.» La strada saliva leggermente, piegando a destra per immettersi sul
Lungotevere. Il semaforo pedonale era rosso.
Le macchine sfrecciavano. Assenti. Incuranti. Ignare. Giulia le osservava, come
si osservano le case da un treno. Tutte diverse e tutte uguali. Chi le abitava? A chi
appartenevano quei busti dietro al parabrezza, che fissavano il vuoto davanti a sé,
come tanti lettori di telegiornale? Qualcuno fumava, qualcuno sistemava il
retrovisore, qualcuno inveiva.
Andrea e Giulia aspettavano in silenzio. Uno accanto all'altra. La sosta
favorisce i pensieri, non le parole. Per quelle servono i passi. Il semaforo
lampeggiò e finalmente disse avanti. Andrea e Giulia attraversarono il
Lungotevere e raggiunsero i muraglioni.
«Non è stata una festa: è stata una tortura. Non mi sono mai sentita così fuori
posto in tutta la mia vita. Niente era come l'avevo immaginato. E, soprattutto,
niente era come me l'avevi descritto. Centocelle, la casa, i tuoi amici... Ma che
sono amici quelli? A parte Leo, non ce n'è uno che non ci abbia provato...
Funziona così nella tua Centocelle? No, perché ti assicuro che i miei amici
avranno tanti difetti, saranno pure "finti" come dici tu, ma nessuno di loro si è mai
azzardato a... ma la cosa peggiore è stata che mi hai lasciato lì: sola, in mare
aperto, senza una scialuppa o uno straccio di salvagente!» Camminava guardando
il fiume, accarezzando con la mano la schiena grigia dei muraglioni.
«Vedrai che adesso arriverà, mi dicevo. Ti prenderà per mano, ti porterà fuori
da quest'incubo di pane e mortadella, spuma e pizzette. Ve ne andrete da qualche
parte. Tu e lui soli. Invece: niente. Mollata lì. Tutto il pomeriggio a fare
tappezzeria. Mi dici che diavolo ti è saltato in mente? Passavi, di tanto in tanto.
Ma quasi per caso. Un bicchiere di aranciata o un piattino con qualche pizzetta.
Punto. Tutto quello che riuscivi a dire era: "Tutto bene?". E strizzavi l'occhio.
Come se quella fosse l'unica dose di complicità consentita. Non facevo nemmeno
in tempo a risponderti.
Scomparivi di nuovo. Ho provato un paio di volte a dirti "Balliamo?", oppure
"Resta con me". Ma tu, niente. Sorridevi, facevi "sì" con la testa, ma era come se
non avessi nemmeno sentito. "Torno subito" dicevi. E con la mano facevi
"Aspetta!". Vedevo la tua schiena inabissarsi e sparire tra sguardi, risate e
abbracci. Sguardi, risate e abbracci a me negati. Perché? Ogni volta che
incrociavo i tuoi occhi avevi sempre un'espressione imbarazzata. Come uno che i
suoi lo hanno costretto a portarsi dietro la sorella più piccola. "Mi raccomando:
dalle un occhio ogni tanto. E cerca di farla divertire un po'." Sembrava che ti
vergognassi. Come se il "grande Arch" - come ti chiamavano Secco e gli altri si
compromettesse a farsi vedere insieme a una ragazzina come me. Sono così
brutta? Dimmi: cosa c'era che non andava? Io? Com'ero vestita? Il mio modo di
parlare? Il fatto che fossi con Irene? Cosa?» Il fiume scorreva. Lento che
sembrava fermo. La realtà, invece, precipitava. A ogni parola, Andrea sentiva le
emozioni franare. Una slavina che trascinava via tutto. Qualche giorno prima le
aveva lasciate in vetta, a godersi l'incanto di un panorama mai visto, e ora le
ritrovava a valle, coperta da una montagna di fango e detriti. Chissà se
respiravano ancora. Non aveva il coraggio di avvicinarsi. Non avrebbe retto.
«Diplomatico mi ha persino chiesto se ero "la nuova Cinzia". Ha detto proprio
così: "E tu saresti la nuova Cinzia?".
"Nuova lo sono di sicuro!" ho risposto. Ma non credo abbia afferrato. Capirai:
solo per sbattere le ciglia ci mette un quarto d'ora! "Si vede" ha detto. "Cinzia" ho
aggiunto "non lo sono mai stata." "Si vede anche questo" ha bofonchiato,
guardandomi le tette con aria delusa. Un vero Lord, non c'è che dire. A un certo
punto ho temuto che mi toccasse! Per fortuna non l'ha fatto. Per un istante ho
persino pensato di lasciarglielo fare. Chissà: magari avresti reagito! Mi guardavo
intorno. Ti cercavo. Ma tutto quello che trovavo era un mondo che non capivo e
che non mi voleva, condito dagli sguardi al vetriolo di Cinzia e dalle parole di
Irene, che non smettevano un istante di iniettarmi tossine nei pensieri. "Però: bella
festa!", "E Andrea... carino... e, poi, è così affettuoso con te..." "Sai che i suoi
amici non sono nemmeno così male?" "Uh, guarda: c'è il tamarindo! Che dici: ce
lo facciamo un goccetto? Vuoi che te lo serva su uno di questi meravigliosi
bicchieri di carta con il nome scritto a penna? Su, lasciati andare: che festa è
senza un po' di trasgressione!" A un certo punto le ho dato uno sguardo che a
momenti ci resta secca! Avessi potuto l'avrei strozzata. E sai perché non l'ho fatto?
Perché aveva ragione. Ecco perché! L'avevo sfinita. Per giorni non avevo fatto
altro che parlarle di te, delle tue idee, dei tuoi disegni. Del "semina bellezza e
raccoglierai bellezza" e di questa specie di paradiso terrestre che era Centocelle.
Pieno di ragazzi brillanti, affascinanti, con grandi sogni e idee meravigliose e bla-
bla-bla. Mi sarei sotterrata. In motorino non faceva che dirmi: "Ma sei sicura che
sia qui?"; "Non sembra il posto di cui mi hai parlato..."; "Non è che abbiamo
sbagliato strada?". Magari lo avessimo fatto. Adesso non starei così. Alla fine "Io
ne ho abbastanza" ha detto. "Me ne vado. Se tu sei così scema da restare, fa' pure.
Ma io non resto qui dentro un minuto di più." "Vengo" le ho detto "ma a una
condizione." "Spara!" "Non una parola fino a casa." "Andata." Siamo scese,
abbiamo acceso i motorini e abbiamo guidato in silenzio fino a casa. L'ultima
cosa che ho sentito è stata la tua voce in lontananza che mi chiamava. Mai più
nella vita, Andrea. Mai più.» Giulia aveva parlato senza fermarsi. Senza prendere
fiato.
Come in preda a una trance. Per tutto il Lungotevere, fino alla Sinagoga.
Andrea non l'aveva mai vista così. Quella voce disarmata, disarmava. E più della
grandine di parole, lo feriva il fatto di essere lui la causa di tanto disagio, tanta
umiliazione, tanto dolore. Attraversarono il ponte e raggiunsero la prua dell'Isola.
Più in là non si poteva andare.
Giulia si fermò. Alzò lo sguardo. Fissò Andrea negli occhi.
Andrea era rimasto in silenzio. Per tutto il tempo non aveva detto una parola.
Aveva camminato guardandosi intorno come se i muraglioni, il marciapiedi, i
platani o le auto in sosta nascondessero le risposte che cercava. Se la città aveva
un debito con lui, quello era il momento di saldarlo. Possibile che anche a lei
mancassero le parole? Avrebbe voluto rispondere. Dire a Giulia che non era così.
Che si sbagliava. Che non era lei a parlare, ma la sua rabbia e il suo rancore.
Avrebbe voluto. Ma non poteva. Aveva avuto paura. Paura che avesse ragione
Leo: i poli opposti stanno insieme solo sulle batterie delle auto. Che lui e lei
fossero mondi così distanti che avrebbero finito con lo sfiorarsi, ma solo di
schiena. Che avrebbero continuato a fissare gli opposti centottanta gradi di realtà
e i loro pensieri non avrebbero mai abitato la stessa porzione di orizzonte. E poi
cosa mai avrebbe potuto condividere lei con gente come Secco, Diplomatico,
Spinterogeno, Mastino e gli altri? Cosa c'entrava con il tappeto arrotolato, i mobili
appoggiati alle pareti, la fonovaligia, dischi che probabilmente si ascoltavano solo
lì, un gergo per iniziati che escludeva chiunque non fosse di lì; spuma, chinotto e
tamarindo?
Andrea chiuse gli occhi. Inspirò il riverbero intermittente del sole, la pietra
amara dell'isola, il rollio distante delle automobili, il frusciare mesto del fiume e
finalmente sentì là risposta che la città aveva custodito fino a quel momento per
lui: il silenzio. Si avvicinò a Giulia. La fissò per un lungo, doloroso, istante.
Chiuse gli occhi e, senza dire una parola, la baciò. Un bacio lungo e soffice;
amaro come il rimpianto e fragile come la speranza; grave come il peccato e
leggero come il perdono; indelebile come il passato e incontaminato come il
futuro.
«Cosa significa?» chiese Giulia.
«Significa che ti amo, Giulia. Ti amo. Tutto quello che hai detto è vero. Mi
sono comportato come un cretino. Non ho scuse. Qualunque cosa dica non
riuscirà mai a pareggiare il conto, a restituirti quello che hai perso né a tamponare
la ferita. Mi dispiace. Darei qualunque cosa per poter tornare indietro. Per
cancellare tutto dell'altra sera e ricominciare da capo. Qualunque cosa! Purtroppo,
però, non lo posso fare. È andata così. Non posso farci niente. Non più. Ti ho
mentito su tutto. È vero. Ti ho mentito su Centocelle. Non ci sono né fiori, né
fontane. C'è solo una teoria asfissiante di palazzine come pacchetti di sigarette,
costruite intorno alla pista di un vecchio aeroporto. Aeroporto che adesso non c'è
più... e non c'è modo di bucare quel cielo soffocante, che incombe su di noi come
una maledizione. Un cielo che ogni mattina ti fissa con aria di sfida, per ricordarti
che lui è sopra e tu sotto. E che sta a lui e solo a lui decidere se per quelli come te
il futuro sarà promessa o pena. Ti ho mentito sui miei amici. "Bar", "flipper",
"novantesimo minuto" e "Corriere dello sport" sono tutte le parole che conoscono.
Tutte quelle che si possono ripetere, almeno. Il loro spazio è quello. Più in là non
vanno. E spesso si perdono anche lì. Sono quelli che sono, d'accordo. Ma sono i
miei amici e gli voglio bene così come sono. Forse tu hai potuto scegliere. Io no.
E poi è anche grazie a loro se io sono così e, soprattutto, se ho capito cosa non
voglio essere. Non mi sento migliore. Solo, diverso. Pensaci: perché dovresti
esserti sbagliata su di me quella volta al parco e non l'altra sera alla festa?
«Ti ho mentito su tutto, perché non sopporto nulla di questa realtà. E qualche
volta non sopporto nemmeno me stesso. Per questo disegno. Perché il futuro
abbia i tuoi occhi, il tuo sorriso, il suono della tua voce, il tuo modo di arricciare il
naso e di guardarmi. Ti ho mentito perché ho avuto paura. lo so: non è una
giustificazione. Non vuole esserlo.
E' solo una spiegazione. Confusa, come me. Ho avuto paura. Paura di perderti,
ancora prima di trovare il coraggio di dirti che, da quando ti ho vista la mattina
della manifestazione, non sono rmscito a pensare ad altro che a te, perché pensarti
migliora i miei pensieri, migliora me e migliora il mondo. È la prima volta che mi
succede. Giuro! Con Cinzia è vero: ci siamo annusati. Ma solo il tempo di capire
che siamo olio e acqua. Mischiarci non è possibile. È orgogliosa, cinica e fa la
faccia cattiva, ma non è catti, va. E poi lo hai visto anche tu: non è così facile
crescere da quelle parti. E lo è ancora meno se sei una ragazza. Non la giustifico.
Si è comportata male. Malissimo. Ma la capisco.
Se non mostri gli artigli, da noi è ancora più dura.
«Solo su una cosa ti ho detto la verità: che ti amo e che non ho mai amato
nessuno come amo te. Ecco: adesso te l'ho detto. Ho solo una speranza, che tu
riesca a perdonarmi e che, invece di guardare indietro, tu decida che vale la pena
di guardare avanti e di farlo insieme a me. Che tu senta che quello che provi è più
forte di tutto questo. Più della mia stupidità, di una serata da buttare,
dell'atteggiamento idiota dei miei amici; più del sarcasmo di Irene, delle cattiverie
di Cinzia; più della fonovaligia, dei dischi brutti, dei mobili contro il muro, della
spuma, del tamarindo e del nocino; più dei genitori chiusi in cucina, della nonna
buttata su una sedia nell'ingresso; più del tuo disagio, della tua delusione, del tuo
dolore. Un po' di più.» Andrea si fermò. Si chinò. Raccolse un pezzo di mattone.
Si avvicinò al muro e scrisse: "Q.P.G.A." «Ecco.» «Cosa significa?»
«Quifassarono Giulia e Andrea. L'ho scritto sulla pelle della città per affidarlo a
lei. Sarà lei a custodirlo per noi. Se è eterna come dicono, allora lo sarà anche la
nostra storia.» Giulia guardò Andrea. Si avvicinò al muro. Passò il dito Sulla
pietra arrossata dalla scritta. Lentamente risalì la corrente delle lettere, dall'ultima
alla prima. Cercava la sorgente delle parole.
«Amore Grande Per sempre Qui...» disse con un filo di voce.
La città era loro. Il tempo era loro. Il mondo era loro. La vita era loro. Loro era
il cielo. Tutto ciò che conteneva. Tutto ciò che avvolgeva. Tutto ciò che copriva.
Loro erano il giorno e la notte. La luce e il buio. La pioggia e il sole. Le parole e il
silenzio. Occhi. Labbra. Pelle. Mani. Loro erano loro. Nel modo nel quale
nessuno era mai stato, né sarebbe mai stato di nessun altro. L'amore, finalmente,
aveva nome e cognome: Giulia e Andrea.
Si allontanarono insieme, scivolando leggeri sul tempo come sul ghiaccio. E
come sul ghiaccio, disegnando le linee intrecciate delle loro vite.
«Per sempre» disse Andrea.
«Sempre per sempre» rispose Giulia.
6
Quando la notte abbassava le palpebre alla città, tutto ciò che restava di
Centocelle era un trapezio giallo in campo grigio. La luce che filtrava dall'officina
di Leo garriva sull'asfalto come una bandiera. Contrariamente a quanto gridava la
radio il sabato pomeriggio, però, quella bandiera gialla non segnalava che al 23 di
via degli Oleandri si ballava, ma che il rischio di contagio era forte: a bordo c'era
un'epidemia. La nave di Leo non poteva attraccare in nessun porto. Di tanto in
tanto Leo faceva una pausa. Saliva sulla tolda a fumare e ascoltare la notte. Di
solito, però, lei restava in silenzio. "Chi diavolo ha messo in giro la cazzata"
pensava "che la notte porta consiglio. A me porta solo testate da rettificare, sudore
e nicotina." Da che si ricordava, di consigli ne aveva distribuiti tanti. Mai, però,
che ne fosse tornato indietro uno solo. Meno che mai, di notte. Quella volta la
notte prese la voce docile di Andrea.
«Ancora al chiodo?» «Nooo, Andre'... è che... stavo pomiciando con la Ekberg.
All'improvviso mi sei venuto in mente tu e ho pensato: "Ma che cavolo di figura
ci faccio se, quando Andrea torna a casa, non mi trova come sempre in officina?
Chissà che pensai". E, allora, le ho detto: "Scusa, Anitona bella, scendo un attimo,
dico due paroline al mio amico Andrea .e torno subito. Mi raccomando: non ti
muovere. Faccio in un lampo". "Torna presto, Marcello" mi ha sussurrato
implorante. "Leonardo" ho detto "Leonardo!" Mi sono infilato la tuta e... eccomi
qua!» «Domanda stupida. Scusa.» «Scusa tu. È che sono chiuso qui dentro da
undici ore, una Mille-e-cento, un 5 piotte, un'Alfa, una Panhard, due Ciao, un
Morini, diciotto Nazionali senza filtro... diciannove con questa» disse
accendendosi un'altra sigaretta. «E ho ancora due motori da finire entro domani
mattina. Mi sa che faccio giorno anche stavolta...» «Dai» disse Andrea,
togliendosi il giaccone «ti do una mano...» «Lascia stare...» «Ma dai, ti do una
mano... finiamo prima e magari ti ci scappa anche un tuffo nella fontana con
Anitona bella... non sei tu quello che dice che la vita sorprende sempre...» Leo si
fece serio, come ogni volta che qualcuno nominava la vita.
«La vita, Andrea, è un motore a quattro tempi. Aspirazione, compressione,
scoppio e scarico... All'inizio sogni.
Immagini quello che farai... cosa diventerai. Pensi a come_ il mondo, prima o
poi, si farà da parte per lasciarti passare.
Poi ti accorgi che l'unica cosa che passa è il tempo.» Parlava senza smettere di
lavorare, affondando nel cofano fino alla cintola. La tuta da meccanico sembrava
una muta da sub e l'auto un grosso pesce sul punto di inghiottirlo.
«Il mondo, invece, lui non si sposta di un millimetro. Né prima, né poi. Lui non
si sposta, tu non ti muovi e la vita - bam! - ti schiaccia, come la paletta con una
mosca fastidiosa. È così che funziona. Se ne frega lei, di te, delle tue idee, dei tuoi
sogni. Di cosa immaginavi, di cosa desideravi, di cosa cercavi. Anzi: più sogni
hai, più lei si diverte a farli saltare. Uno dopo l'altro.» Ogni volta che riemergeva
prendeva un lungo respiro, per prepararsi a una nuova apnea e subito si rituffava
in quel mare di pistoni, cilindri, valvole e candele. Un mare che sapeva navigare
come pochi altri.
«Alla fine non ce la fai più e scoppi. E quando scoppi, ti scaricano. L'auto
accosta, la portiera si apre. Qualcuno ti dà una pedata nel culo e tu rotoli sul ciglio
della strada. Appena il tempo di sentire l'asfalto che ti graffia la pelle e inalare
polvere e scarichi del motore. Poi l'auto sparisce, la luce si spegne ed è finita.
Titoli di coda.» «Non si può parlare così a vent'anni, Leo.» «Ventidue, Andrea.
Sono già ventidue!» «Anche a ventidue: è vietato. È vietato dalla convenzione di
Ginevra.» «Invece è proprio a vent'anni che bisogna parlare così, Andrea. Se non
lo facciamo adesso, quando lo facciamo?
Finisce che continuiamo a illuderci e una bella mattina ci svegliamo nella
faccia dei nostri genitori.» Di tanto in tanto dalla bocca del grosso pesce emergeva
un braccio. La mano si agitava nell'aria in direzione di Andrea, nel gesto di
chiedere che lui gli passasse qualcosa dal banco degli attrezzi. Ma del mare di
Leo, Andrea sapeva poco o nulla. E il più delle volte Leo era costretto a risalire in
superficie per cercare da sé quello che gli serviva. E ogni volta lanciava ad
Andrea sempre lo stesso sguardo: lo sguardo di chi sa a chi non sa.
«Perché? Loro che faccia hanno?» «La faccia di uno che gli hanno detto "
Anvedi che gagliardo quell'aereo!" e lui si volta, alza gli occhi al cielo dicendo
"Dove?, Dove?", ma l'aereo è andato. E pure lui. E resta lì, come un coglione, a
fissare il vuoto. Non voglio che la mia vita sia uno sguardo mancato su un cielo
vuoto! Il mio cielo è questo, Andrea: dal ponte al compressore, dall'estintore al
pannello degli attrezzi. Io, i miei quattro tempi me li sparo tutti qui dentro! È
inutile che...» «Ma che dici, Leo. Tu... tu sei uno sveglio... i numeri ce li hai...
prima o poi... vedrai...» «Come no! Te ricordi che fine ha fatto quello che cantava
Vedrai, vedrai?» «Ma che c'entra, Leo, dai...» «Ti prego: risparmiami
compassione e bugie. Tra noi non ce n'è bisogno. Ci conosciamo da... manco me
lo ricordo quando ci siamo conosciuti...» «All'oratorio. Io facevo la terza. Tu la
quinta... Uno più grande mi aveva preso il pallone e non me lo voleva più ridare.
Cercavo di riprendermelo, ma era più forte. Non c'era niente da fare. Hai sentito
strillare e sei arrivato tu. Parevi uno de I magnifici settel "Aridaje 'er pallone" hai
detto. "Perché?" "Perch'è 'n'amico mio. Te basta?" '"N'amico? Ma si manco sai
come se chiama!" Allora mi hai guardato e "Sono Leo" hai detto, sorridendo e
strizzando l'occhio "E tu?". "Andrea." E ti sei girato verso quel tipo: "Che-t-
t'avevo-detto: si chiama Andrea. È 'n'amico mio. E mo': aridaje 'sto pallone"...»
«Mi sa che c'hai ragione» si guarda nello specchio «c'ho qualcosa de Steve
McQueen, eh?» «Come no! La stessa passione per le macchine!» Risero. Come
solo gli amici, di notte.
«Lo vedi, Andre': è una vita che ci conosciamo. Guardami in faccia: le
chiacchiere stanno a zero. Sappiamo tutti e due che andrà come dico io. Che
siamo tutti uguali, che il mondo è nostro e che una risata li seppellirà, possiamo
scriverlo sulle bandiere e gridarlo nelle piazze, nei cortei. Ma è più per convincere
noi stessi, che loro. E poi questa non è una piazza. E non c'è nessun corteo. Qui
nessuno ci ascolta, non dobbiamo dimostrare niente e possiamo dirci le cose come
stanno. Non c'è bisogno di fingere, né di urlare.» Emerse dal cofano. Asciugò il
sudore sulla manica della tuta, pulì le mani con lo straccio... gettò lo straccio sul
bancone... e si avvicinò ad Andrea.
«Guardate intorno, Andre': qui non ci sono bandiere.
L'unica bandiera è quella della Roma, tiè. E l'unica speranza è di non fare la
figura di merda dell'anno scorso. Che non solo le abbiamo prese da Inter,
Fiorentina e Torino, ma pure dal Varese! No, dico: ci pensi: Va-re-se! Manco so se
è in Italia 'sta città. Per non parlare, poi, della ciliegina sulla torta: la Lazio, che è
stata promossa e ce la troviamo pure in serie A... Lasciamo perde, va. Che è
meglio... Speriamo almeno di avere un calendario più favorevole...» «A proposito
di calendario Leo...» «Be'?» «Ma non siamo a novembre?» «E allora?» «E allora
come mai il calendario vicino alla foto della magica, dice che siamo già a
marzo?» Leo si voltò e indirizzò uno sguardo compiaciuto alla ragazza che
sorrideva ammiccante.
«Ma perché? Andre', di' la verità: non ti pare magica pure lei? E poi, marzo è
mora e c'ha le tette molto più grandi di novembre... voi mette? No, dico: te
l'immagini uscire con una così?» «Dammi retta: tu è meglio se una così non la
incontri mai!» «Perché?» «Perché, se non stai attento, oltre alla testa perdi pure
l'officina. Capisco» disse Andrea mimando con le mani la forma di due grandi
tette «che certe cose hanno il loro... peso...» «Senza che fai lo spiritoso... e
comunque quello non è un calendario...» «Ah no? Strano, perché ne ha tutta
l'aria...» «Quello? Quello è un tornasole...» «Un tornasole?» «Sì, per i clienti...»
«Scusa, Leo, ma non ti seguo...» «È semplice: il calendario è lì, in bella vista,
no?» «Ah, se è per questo, la vista è bellissima...» «Ci sono tre tipi di clienti,
Andre': quelli che pagano subito, quelli che i soldi te li danno, ma... a babbo
morto, e quelli che i soldi loro nun li vedi manco si t'ammazzi.» «D'accordo, ma
continuo a non capire cosa c'entra il calendario.» «C'entra, c'entra... C'è il tipo che
entra, lo guarda e diventa rosso...» /
«Be'?» /
«E quello i soldi te li dà subito. E pure senza fiatare.» «Perché?» «Perché
conosce la vergogna. E sa che solo a pensarle certe cose si fa peccato!... Poi c'è
quello che fa finta di non guardarlo, ma lo guarda eccome... parla, parla e intanto
se lo spizza piano, piano, come le carte a poker... E quello i soldi te li dà, ma
l'anno del poi. Perché è di quelli che... per pagare e morire c'è sempre tempo...
«E poi c'è il tipo che il calendario non lo degna manco de no sguardo... arriva
che pare appena uscito da una vetrina del centro, profuma di Jean Marie Farina e
c'ha più oro addosso della Madonna del Divino Amore e del Bambinello dell'Ara
Coeli messi insieme!» «Be': qualcuno pulito ci deve pur essere...» «Ma quale
pulito, Andre'! Quello è il peggio de tutti!» «Questa me la devi proprio spiegare,
Leo...» «E te la spiego subito: i soldi di questo non li vedi mai, perché questo è
senza vergogna. Ti guarda dritto negli occhi per dimostrare di non avere niente da
nascondere ed è proprio questo il punto. È lui l'assassino. Un vero innocente è
sempre quello senza uno straccio di alibi. Sa di essere innocente, perché dovrebbe
procurarsi un alibi?» «Senti un po', Gino Cervi: ma davvero vuoi passare la vita a
fare il Maigret con tutti quelli che entrano nella tua officina? Sarebbe un vero
spreco, Leo. Dammi retta: le cose cambiano. Non vedi tutto quello che sta
succedendo? Fabbriche, scuole, università...» «Bombe...» «Ci sono anche quelle,
è vero, ma c'è anche la riforma delle pensioni, la fine delle gabbie salariali e
vedrai che, prima dell'anno nuovo, i sindacati riusciranno anche a ottenere lo
statuto dei lavoratori... tu li leggi i giornali, no?
Mica sei come gli altri...» «Certo, Andre', che leggo i giornali, ma il fatto è che
certe cose non cambiano. Non cambiano mai. Non per quelli come me, almeno.
Su 'ste bare de lamiera papà e zio si sono bruciati pelle e polmoni pe' trent'anni.
Adesso tocca a me.
Punto. Fine della storia. E devo pure di' grazie. Perché mica a tutti capita 'na
fortuna così. Perché, alla fine della fiera, lo sai che c'è? Che so' pure fortunato, so'.
Senti che te dico: se non lo vuoi fare per te, fallo per quelli come me. Per Secco
che quando capirà che pesci prendere, gli oceani si saranno prosciugati da un
pezzo. Per Vince: suo zio fa carte false per farlo entrare al ministero e, se je dice
bene, starà dietro una scrivania col "Corriere dello sport" in mano e morirà
usciere... oppure passerà la vita dietro il bancone della pasticceria: "Cosa dice,
signora: le va bene un vassoio così, o ne prendo uno un po' più grande?". "Quali
paste preferisce? Me le indica lei, le scelgo io o facciamo un misto?" Un misto!
No, dico: ti rendi conto, Andre'? Ma, soprattutto, fallo per tuo padre. Uno che
mangia merda undici mesi l'anno, si gira l'indice sulla guancia, sorride e riesce
persino a farvi credere che sia cioccolata. Oppure per quell'angelo di tua madre,
che nasconde le ali sotto lo scamiciato a fiori e passa la notte sulla macchina da
scrivere. Ma lo sai quali sono gli unici rumori che si sentono a via degli Oleandri
dopo mezzanotte e mezza, quando Remo tira giù la saracinesca del bar? Questa»
disse, indicando la chiave inglese «e il ticchettio della macchina da scrivere di tua
madre. E qualche volta, quando persino io non ce la faccio più, chiudo e me ne
vado, la luce della sua stanza è ancora accesa e il rumore dei tasti mi guida fino a
casa, come i sassolini di Pollicino. E mo' vattene, va'. Corri. Non perdere tempo.
Vattene a studiare. Mia nonna non aveva nemmeno la terza elementare, ma
quando parlava pareva il maestro Manzi "Chi c'ha più testa" diceva "la usi." Tra
noi, la testa ce l'hai solo tu, Andre': usala. Fallo anche per noi. L'unica cosa che sta
davvero cambiando è che, a 'sto giro se oltre alla testa c'hai pure un pezzo de
carta, forse, riesci davvero ad andartene da qui e a combinare qualcosa di buono.
È come nel Medio Evo: sei tu il nostro "campione", Andre'.
Batti il Cavalière Nero, vinci il torneo, sposa la principessa e torna trionfatore!»
«A proposito di torneo...» «Be'?» «Mi servirebbe un cavallo.» «Che vuoi dire?»
«L'hai detto tu: devo vincere il torneo e sposare la principessa, no?» «Sì, ma?»
«Ma: mi serve un cavallo.» «Ho capito, ma io che c'entro?» «Come che c'entri,
Leo? Se non mi aiuti tu...» «Mmh... conosco quel sorriso, Andre'...» «Quale
sorriso?» «Senza che fai lo gnorri... il tuo sorriso! E non mi piace... non mi piace
neanche un po'... puzza di guai lontano un chilometro...» «Ma quali guai...» disse
Andrea accarezzando con gli occhi la Due Cavalli di Leo.
«La "Gioconda"?» Andrea annuì.
«Toglitela dalla testa. Non se ne parla nemmeno.» «Grazie Leo: sapevo di poter
contare su di te...» disse, avvicinandosi alla macchina.
«None, Andre'! Mi sa che non ci siamo capiti: ho detto no. La Gioconda, no!
Nix, nisba, nein... come te lo devo dire?» «Ho capito... ho capito Leo» disse
Andrea aprendo la portiera e sedendosi al posto di guida. «Non c'è bisogno che ti
agiti tanto: sarà perfetta!» «Perfetta un corno...» «E dai, Leo: prima mi fai due ore
di predica, mi dici che devo affrontare il Cavaliere Nero e conquistare la
principessa e poi non mi vuoi aiutare...» «A volte penso che avrei fatto meglio a
lasciarglielo il tuo pallone a quelli...» «Ma non l'hai fatto...» Leo scosse la testa e
sorrise.
"No" disse tra sé "non l'ho fatto." «Che ci vuoi fare: al cuore non si comanda...»
«Te lo magno er core, Andre', si la Gioconda nun torna da Leonardo suo tutta
intera!» «Però...» disse Andrea avvicinando il viso al profilo della carrozzeria,
come chi ha l'impressione di notare qualcosa che non va «qui manca qualcosa...»
«Ma che dici, Andre': la Gioconda è perfetta...» «Sarà... ma a me pare manchi
qualcosa... guarda bene... non sembra anche a te?» Leo si avvicinò. Circumnavigò
l'auto lentamente, radiografandola con lo sguardo e auscultandola con la punta dei
polpastrelli...
«Che ti avevo detto? Perfetta. Assolutamente per-fet-ta!
Un vero capolavoro...» «Quasi...» «Che vuol dire "quasi"?» «Scusa, Leo: qual è
il cavaliere che devo affrontare?» «Nero! Il Cavaliere Nero! Perché?» «E allora lo
vedi che ho ragione io...» «Ma che te stai a inventa, Andre'?» «Manca un tocco
di...» «Di?» lo incalzò Leo, che non sapeva più chi tenere d'occhio: la macchina o
i pensieri del suo amico.
«Colore!» esultò Andrea schioccando le dita «Manca un tocco di colore!»
«Nooo!» fece Leo, scuotendo la testa, intravedendo il fondo della voragine nella
quale quelle parole lo avrebbero precipitato. «Nun te mette in testa gnente,
Andre'...» «Leo» disse Andrea, afferrandolo per le spalle «solo una cosa può
sconfiggere il nero...» «Il bianco?» azzardò confuso Leo, senza capire dove
l'amico sarebbe andato a parare.
«I colori, Leo: i colori!» «Embè? E che la Gioconda nun è colorata? Guarda
che giallo, riè: pare.^r sole, pare!» «Non basta;'Le'...» «Ma come non basta,
Andre'?» «Non basta... il sole è bello, ma qui ci vuole di più, molto di più: ci
vuole il vento... gli alberi, i fiori; ci vogliono profumi... colori... odori...» «Aò: ma
questa è 'na macchina, mica la piana de Castelluccio!» «Appunto, Leo: ti ricordi
quando ci siamo stati?» «E certo che mi ricordo: i colori, il vento, il profumo dei
fiori... girava la testa; chiudevi gli occhi e... pareva di volare!» «Appunto: le deve
girare la testa e deve volare anche lei!
Dov'è il compressore?» «Quale compressore, André?» «Quello per verniciare,
no?» «Non vorrai...» «Fidati di me...» «Nooo... none!» «Ti ho mai deluso?»
«Lasciamo perde...» «E dai Leo: non ci possiamo fermare proprio adesso... E
allora, tutti quei discorsi sul fatto che... che la vita non deve essere uno sguardo
mancato su un cielo vuoto? Eh? Il mio cielo è Giulia, Leo: lasciami volare!» «Tu
sei matto, Andre'! Matto come Giuseppina...» «Come Napoleone, vorrai di'?»
«No, Andre': proprio come Giuseppina: solo 'na matta vera poteva sta' con un
pazzo come Napoleone... E io, che te do retta, so' più matto de lei.»
7
La strada era dritta. Dritta e affilata come i loro pensieri. Tagliava la pelle
butterata della periferia come una cicatrice, cercando l'occidente tra due ali di pini
scarmigliati dal libeccio, che sembravano ritrarsi per lasciarli passare. A spingere
lo sguardo verso il punto di fuga, sembrava che non portasse da nessuna parte. Si
interrompeva, all'improvviso, sul nulla. Come se, con il favore della notte,
qualcuno avesse portato via il mare e la terra finisse là, nel punto nel quale
l'occhio era costretto a issare bandiera bianca. Presto per Giulia e Andrea si
sarebbe trattato di scegliere: fermarsi al limitare di quell'ultima frontiera o
lanciarsi nel precipizio dell'ignoto.
Al contrario dei loro pensieri, l'asfalto era insolitamente sgombro. Non si
incrociava anima viva. Meglio così, pensavano Giulia e Andrea. Anche il più
piccolo intoppo avrebbe potuto deviare il corso della loro giornata e dirottarli su
un binario morto. I desideri avevano doppiato una curva che la coscienza doveva
ancora raggiungere. Colmare quella distanza non era impresa da poco. E anche se
avevano aspettato quel momento con un'intensità sconosciuta, lo temevano con
intensità ancora maggiore. Sarebbe bastato niente a farli rinunciare. Ogni azione
produce una reazione uguale e contraria. È una legge fisica. Ma cosa sarebbe
successo se la reazione fosse stata più forte? Acrobati sul filo teso del tempo.
Questo erano. Una minima distrazione e avrebbero rischiato di precipitare per
sempre nel passato. Il resto del mondo lo sapeva e forse per questo - per quel
particolare riguardo che la natura riserva solo alle anime che covano l'amore -
aveva deciso di farsi da parte e lasciare che l'auto scivolasse indisturbata verso il
punto di non ritorno.
Non volevano testimoni. Non perché, senza testimoni, sarebbe stato come se
quell'incontro non fosse mai avvenuto. Nei loro pensieri abitava la paura, non la
vergogna.
Non volevano testimoni, perché nessuno sguardo avrebbe dovuto appropriarsi
di ciò che era solo loro e solo loro avrebbe dovuto restare per sempre. Se la realtà
è negli occhi di chi guarda, desideravano che fossero solo i loro a dar vita a quella
mattina.
Andrea guardava la strada e pensava a Giulia. "È così che succede?" pensava.
"Si salta su un'auto, si punta l'orizzonte e si aspetta che il mondo faccia il resto?"
Era successo così anche ai suoi? Anche loro avevano fatto rotta verso il mare?
Invidiava Giulia. Serena, sicura di sé, di una dolcezza determinata che confortava.
A lei le mani non sudavano e il respiro era regolare e non affannato. Ogni volta
che la guardava, lei sorrideva. Come mai, invece, ogni volta che lui sfiorava il
cambio, doveva ingaggiare un violento corpo a corpo contro l'impulso di tirare il
freno a mano e fermare la macchina lì, in mezzo alla strada, voltarsi, fissarla negli
occhi e dirle: "Non ce la faccio, Giulia, non così. Mi spiace"? Ma non appena
pensava "Adesso accosto e glielo dico", la mano stringeva il pomello lucido del
cambio e il piede tornava a premere dolcemente sull'acceleratore. Ci sono verità
che la mente ignora, ma il corpo conosce.
Giulia guardava Andrea e pensava alla strada. L'auto era un cavallo e le strisce
della linea di mezzeria gli ostacoli da superare. Ce l'avrebbe fatta o si sarebbe
stancato? Avrebbe inciampato o si sarebbe rifiutato di saltare? L'auto avrebbe
rallentato e cercato rifugio nella pineta o avrebbe raggiunto il mare? Sarebbero
scesi o sarebbero rimasti seduti, a spiare il mondo da dietro i vetri rugosi di
quell'abbaino? Si sarebbero amati (rabbrividiva al solo pensare quel verbo, ma
quale altro verbo avrebbe dovuto pensare?) sulla spiaggia cercando riparo tra
scheletri di barche o...? E perché mare, spiaggia, pineta e tutto ciò che le era
sempre sembrato confidente e amico, ora le pareva ostile e infido? Chi avrebbe
fatto il primo passo? Come? Con quali gesti? Con quali parole? C'era davvero
bisogno di parole, poi? Non si poteva fare tutto in*silenzio? E la luce? Come
diavolo avrebbe fatto a spegnere la luce? Davvero si sarebbero trovati nudi uno di
fronte all'altra? Possibile che tutti debbano affrontare un simile fuoco di fila di
domande senza risposta? E possibile che fossero sopravvissuti tutti? O c'era
qualcuno che era rimasto vittima di quel fuoco di sbarramento? Nessuno - né
Irene, né Ale, né le altre - le aveva mai detto che il problema era il "prima".
Possibile che tutti sapessero tutto del "durante" e del "dopo", ma nessuno dicesse
mai una sola parola sul fatto che il problema più grande era il "prima"? Se la vita
non la insegna nessuno - pensava - forse sarà perché a nessuno è dato di
impararla.
Invidiava Andrea. Il modo nel quale i suoi occhi di polena scandagliavano
l'orizzonte, come se ne conoscessero ogni insidia e, soprattutto, sapessero come
evitarla. Invidiava la sicurezza con la quale stringeva il volante, come un
nocchiero stringe il timone per imbrigliare il vento e cavalcare il mare. Il cuore di
lui gli batteva in petto e non in gola e ogni volta che lei lo guardava, lui sorrideva.
Giulia avrebbe voluto voltarsi. Cosa pensava di loro la città? Che faccia faceva
mentre si allontanavano come ladri nella notte? Non osava. Il sedile posteriore era
troppo affollato. Non sarebbe riuscita a sostenere il silenzio inquisitorio di sua
madre, né il sollevarsi del sopracciglio destro e quell'estenuante annuire al quale
si abbandonava, schiacciando le labbra, ogni volta che dissentiva. Né avrebbe
sopportato la voce esitante di suo padre, costretto a cercare parole che liberassero
sua moglie dall'imbarazzo della mediocrità e farsi lui carico della pena di
distribuire pena.
Non è, forse, questo ciò che a Prati ci si aspetta da un buon padre: che eserciti
quel potere senza volto dietro il quale bisogna rifugiarsi ogni volta che il torto si
veste di ragione? Né aveva alcuna voglia di farsi travolgere dalla curiosità
sguaiata di Irene ("Be'? L'avete fatto? L'avete fatto! E com'è stato? E lui? Com'era
lui? Ti è piaciuto? Ti ha fatto male?"). Quella curiosità avrebbe imbrattato tutto:
pensieri, parole, gesti, sguardi. Niente allontana di più di una domanda
inopportuna. E la magia è come il silenzio: appena la chiami svanisce. Aveva
ragione il suo Piccolo Principe: certe cose si vedono solo con gli occhi del cuore.
E poi perché, in certi momenti, hai l'impressione che tutto il mondo ti stia
guardando e che scrolli la testa in segno di disapprovazione. E se era il loro
tempo, perché si sentivano come clandestini in una proprietà privata?
Entrambi fissavano la strada: era l'unica che sembrava indicare una direzione.
E, mai come in quel momento, Giulia e Andrea sentivano il bisogno che qualcosa
o qualcuno gli indicasse la direzione da seguire. Più l'auto andava avanti, più
l'orizzonte si allontanava. Il mare sembrava irraggiungibile, come un miraggio
lontano. E forse entrambi desideravano che lontano lo fosse davvero. Da quando
avevano imboccato la Via Del Mare era calato il silenzio. Come se avessero
varcato un confine invalicabile. Un punto di non ritorno. E un punto di non
ritorno quello lo era davvero.
Qualunque cosa fosse successa, sull'auto che avrebbe invertito la rotta e dato le
spalle al mare, altre due persone sarebbero tornate in città. Due ragazzi, in tutto e
per tutto simili a loro, ma lontani anni luce da quelli che erano saliti in macchina
meno di quaranta minuti prima.
La strada finì, così com'era cominciata: senza clamore. Andrea non avrebbe
mai immaginato che spegnere il motore potesse essere così difficile. Il rantolo
claudicante della Due Cavalli lentamente lasciò posto allo sciabordio ospitale
della risacca. Il piazzale, deserto, odorava di nafta.
Bitume, nubi e mare avevano lo stesso colore. Non c'era niente da fare, la
spiaggia, d'inverno sapeva di desolazione e abbandono. Come ciò che resta di un
set alla fine delle riprese o una di quelle anonime località nelle quali è passata la
grande storia, ma nessuno - a parte un'iscrizione ormai seminascosta dalla
vegetazione - lo ricorda più. Qualunque cosa fosse successa lì, ora c'era solo
sabbia. E poco più avanti, forse, il mare. Piccola o grande che sia, la storia ha/uno
stomaco d'acciaio: digerisce qualunque cosa. Un lampione oscillava lieve, una
catena fissava al nulla una ruota appartenuta a un motorino, la pubblicità di una
crema solare ondeggiava scossa dal vento.
Sulla sabbia buste di plastica, bottiglie, cicche di sigarette, impronte di
gabbiani. Nessun segno di presenza umana.
Per quella mattina Giulia e Andrea erano gli unici esploratori di quei lidi.
Un lampo discese il cielo. Nello stesso istante il suo gemello risalì il mare. Si
incontrarono nel punto in cui il Tirreno si china verso la Sardegna. Il segno, pensò
Andrea.
Lui e Giulia cominciarono a contare. Il tuono giunse al sei.
Il temporale non doveva essere lontano.
«Là» disse Andrea, indicando un capanno.
Ora o mai più, pensò Andrea. Ora o mai più, pensò Giulia. La porta fece il
giusto grado di resistenza. Quella che serviva a capire che certe cose si possono
ottenere, ma che bisogna comunque conquistarsele.
«Appena in tempo.» «Già...» «Bagnata?» «Solo un po'... e poi mi piace la
pioggia...» «Anche a me... Mi piace la sua voce... è la natura che batte il tempo...»
Ascoltarono l'acqua picchiettare sul tetto del capanno.
«Immagina: una gigantesca clessidra, al posto della sabbia scende l'acqua, ogni
goccia contiene un istante da vivere, chissà quale sarà il prossimo...» «Chissà da
dove arrivano...» «Chi?» «Le gocce... voglio dire: chissà da quale specchio
d'acqua sono evaporate...» «Secondo te?» «Da un lago... sembrano gocce di
montagna...» «Per me no... vengono da molto più lontano... sono gocce d'oceano...
oceano Indiano...» «Ne hanno fatta di strada per arrivare fin qui... chissà che cosa
hanno visto dalle nuvole che le hanno portate sul tetto di questo capanno...»
«Senti cosa dicono?» «Veramente no...» «Chiudi gli occhi.» «Senti?» Giulia
scosse la testa. Andrea chiuse gli occhi e appoggiò le sue labbra alle labbra di lei.
«E adesso?» Giulia annuì, senza staccare le labbra da quelle di Andrea. Non era
pioggia: era marea. Un'onda leggera e dolce, che si allungava sulla battigia della
sua bocca. Andrea sapeva di salsedine e maestrale, della freschezza impalpabile
dell'ingenuità e della luce tenue di una speranza ancora sul punto di sbocciare.
Giulia si sentiva in cima a una scogliera, avvolta dal vento del suo sguardo e
accarezzata dagli spruzzi di un'acqua docile e trasparente come i suoi pensieri.
Sotto di lei, il sorriso del mare. Vertigine, non precipizio. Lo guardò. Sorrise di
rimando, chiuse gli occhi e si tuffò. Lui allargò le braccia e divenne Oceano. La
corrente trascinava via. Impossibile resistere. Mareggiata e costa: questo erano.
La terra si apriva con ansito di madre e il mare irrompeva come acqua di fiordo,
risalendo la corrente tra calanchi incontaminati. Acqua e terra si cercavano per
perdersi. Scambiarsi pelle, voce, fiato e pensieri. Nutrire di sabbia le gocce;
dissetare d'acqua i granelli. L'onda afferrava la sabbia per i piedi e la trascinava
via. La terra si aggrappava alla terra, per raccogliere le forze e prepararsi
all'impatto. E quando la costa sembrava sul punto di franare sotto l'impeto
dell'acqua, era il mare a infrangersi sullo scoglio del suo ventre; a ritrarsi e cercare
nuovo fiato. La terra allora lo afferrava per i capelli e lo spingeva al largo, in un
fragore di sassi che rotolavano per spezzare il passo ai flutti. Cavalieri su destrieri
di vento e roccia che si fronteggiavano all'ultimo assalto. Poi, il silenzio.
Improvviso.
Impenetrabile e profondo come un pensiero. Il tempo si era fermato. Nessuno
doveva dimenticare. Fu l'ultimo schianto. Il più forte. L'onda salì così in alto che
persino il sole ne restò oscurato. La terra trattenne il fiato, ma non abbassò lo
sguardo. Fissò il mare negli occhi, allargò le braccia e si fece estuario. L'acqua ne
raggiunse il cuore e lì si abbandonò, stremata: linfa per le falde. Dov'era stato il
confine, ora abitava solo l'infinito.
Il vento cessò. Le onde si placarono. La terra ristette. I cuori tornarono al loro
fragile ansimare. Il silenzio eruppe, come vapore di geyser. Il sortilegio del
distacco era stato finalmente spezzato. Per un breve, interminabile, istante,
l'anima che qualcuno aveva condannato a dividersi tra quei due corpi, si era
ricomposta. E, per quel breve, interminabile, istante Giulia e Andrea la videro
così, com'era stata creata.
Il passato assunse la trasparenza velata di fumo di sigaretta. Lo osservarono
senza dolore, mentre usciva dalla finestra socchiusa e abbandonava il capanno.
Lentamente la notte del silenzio consegnò quell'orizzonte di legno, attrezzi e
scheletri di barche a un'aurora di parole nuove.
«Ciao...» «Ciao.» «Freddo?» «Un po'...» «Vieni, vieni qui... Shhh!» «Cosa?»
«Senti?» «No.» «Ha smesso!» «Ah... e allora?» «Allora... il tempo... si è
fermato...» «Ah sì? E noi, che facciamo?» «Niente. Rimaniamo qui. Così... non
invecchieremo mai.» «Tu sei matto!» «Chiudi gli occhi...» «Di nuovo?» «Ma
no...» Andrea sorrise. «Chiudi gli occhi, dai!» «Be'?» «Lo senti?» «Cosa?» «Il
tempo, lo senti?» «Veramente no.» «Appunto... che ti dicevo: non passa. Non
passa più.» Quando Andrea aprì la porta del capanno, il vento li annusò. Avevano
l'uno l'odore dell'altra. Sorrisero. Si guardarono sorpresi che il mondo fosse
ancora lì. Che li avesse aspettati. Niente però era più come prima. Sabbia, mare,
cielo. Tutto era diverso. Come se fossero usciti in un altro emisfero. Rimasero
sulla porta del capanno, come se prima di esplorare quel nuovo mondo bisognasse
riflettere bene e ricaricare le batterie.
«Mi piace il tuo nome...» «A me mica tanto...» «A me sì... dà l'idea di un'anima
che non s'arrende...» Giulia guardava Andrea senza capire. Lui spianò la sabbia
con le mani, raccolse un rametto e cominciò a disegnare...
«Vedi: prima scende giù...» Disegnò un segmento d'arco con la punta rivolta
verso il basso.
«Poi, piano piano, si riprende... Uà...» Il rametto salì a creare un altro piccolo
arco che, questa volta, puntava verso l'alto.
«Carino...» disse Giulia, passando il dito nel piccolo solco lasciato da Andrea
sulla sabbia.
«Grazie...» «Sembrano ali... ali di gabbiano...» Giulia strappò il rametto dalle
mani di Andrea.
«Ehi, ma che fai?» «Tu, invece...» Cominciò a disegnare un cerchio.
«Sei uno che non lascia mai le cose a metà... Vedi? Finisci esattamente dove hai
cominciato... A-ndre-A!» E il cerchio si chiuse esattamente là dove era
cominciato.
Andrea* rise. Giulia osservò i due disegni.
«Mi sa che il tuo gabbiano è più bello del mio cerchio...» Risero entrambi.
«Secondo te» chiese Giulia «i gabbiani hanno paura di volare?» «Non so... non
credo... no...» «Secondo me, invece, sì.» «Ma sono uccelli...» «Be', che vuol
dire...» «Che volare fa parte della loro natura...» «Che c'entra, ci sono un sacco di
cose che fanno parte della nostra natura, eppure ne abbiamo paura lo stesso...»
«Tipo?» «Morire...» Rimasero un istante in silenzio. Il tempo di mettere a fuoco
tutto ciò che quel verbo poteva significare.
«Ci pensi mai, tu?» chiese Giulia.
«Ai gabbiani?» «Alla morte, scemo...» «Sì...» «E cosa pensi?» «Non lo so... ci
penso e basta... E tu?» «Penso che non soffrirò...» «E come fai a saperlo?» «Be',
se prima di nascere non soffrivo... perché dovrei soffrire dopo che sono morta?»
«Già, ma tu che ne sai come stavi prima di nascere?» «Perché tu, invece, lo sai?»
«No.» «Appunto: se avessi sofferto te lo ricorderesti, non credi... io mi ricordo
praticamente solo le cose che mi hanno fatto soffrire...» «Dunque di me non ti
ricorderai mai?» «Ah, ah, molto, mooolto spiritoso...» Giulia baciò Andrea.
«Di te non mi dimenticherò mai!» «Giura?» Andrea baciò Giulia.
«Giuro.» «E se morissi?» «Non ci provare nemmeno... non adesso, almeno...»
«Che vuol dire non adesso? Quando, allora?» «Più tardi...» «Come sarebbe a dire
più tardi?» «Più tardi... se no, a me chi mi riporta a casa?» «Brutta...
mascalzona...» Giulia raccolse le scarpe e cominciò a correre...
«Forza, dai!... Chi arriva prima a quel muro!» Andrea afferrò le scarpe e corse
dietro a Giulia.
Corsero sulla sabbia, fino al muretto che separava spiaggia e strada.
«Prima!» gridò Giulia sull'ultimo fiato.
«Bella forza: sei partita un'ora prima!» «Sai una cosa?» «Spara!» «Non sai
perdere...» «Ah, sì?» «Sì!» «E tu sai una cosa?» «Cosa?» «Non sono sicuro.» «Di
cosa?» «Se ti amo davvero...» Giulia appoggiò le sue labbra a quelle di Andrea.
«Non sono sicuro.»
8
Non c'era niente da fare: la stazione gli ricordava sempre i film di guerra.
Quelli in bianco e nero. Con la luce che piove dalle pensiline in poligoni
irregolari, binari che odorano di carbone, cani lupo e stivali e l'aria non
commestibile che precede i rastrellamenti. Ogni volta si guardava intorno
aspettando sbuffi improvvisi di locomotiva, clangore assordante di sportelli,
ordini urlati da ufficiali con pelle e pensieri più inamidati delle camicie. Croci
uncinate, frustate di tacchi, saluti a serramanico. Civili pochi. Pochissimi. Ombre
più che altro. Scivolavano lungo i muri. Trattenevano il fiato. Lo sguardo fisso
sulla punta delle scarpe. In gola, un unico desiderio, impossibile da deglutire: che,
finalmente, il capostazione fischiasse e il treno cominciasse a muoversi.
E che li portasse il più lontano possibile dall'epicentro infetto di quel sisma di
follia. Quella mattina, mancava solo la neve, ma le bocche fumavano lo stesso di
freddo. Se lo sentiva: da un momento all'altro, qualcuno sarebbe sbucato da dietro
una colonna e lo avrebbe avvicinato. Una donna. Vestita come la Garbo; negli
occhi l'espressione spiritata di Alida Valli. Lo avrebbe implorato sottovoce, come
un penitente alla griglia del confessionale: "Ho poco tempo, la prego. È questione
di vita o di morte". Lo sguardo di un animale inchiodato alla notte dai fari di
un'auto. E, prima che lui se ne fosse accorto, gli avrebbe infilato qualcosa nella
tasca del soprabito. "Lasci questa busta nel terzo scompartimento della carrozza
sei. Ricordi: carrozza sei, scompartimento tre. Sopra il freno d'emergenza. Non
posso spiegare. Non ho tempo. Mi seguono. La prego: lei è la mia unica
speranza..." «Hai capito, Andrea?» Andrea non rispose.
«Andrea?» «Eh...» la donna ora aveva gli occhi di sua madre «che c'è, ma'?»
«Niente: ho detto che ti ho messo la cartolina in tasca.
Sennò finisce che te la dimentichi...» «E chi se la dimentica... s'è mai visto un
condannato a morte che si dimentica la sentenza?» «Non parlare così, dai... non è
bello.» «E come vuoi che parli? E poi, qui non c'è niente di bello...» «Vedrai:
passerà prima di quanto pensi. E magari non sarà nemmeno così brutta...» «Per
favore, ma'... per favore...» «Tuo zio diceva sempre che se non fosse partito
militare non avrebbe mai visto il mondo...» «Ma quale mondo, mamma: zio
Franco è andato in Friuli, mica in America! E, poi, guardati intorno: bel mondo
c'avete lasciato...» «Calmati, Andrea» intervenne Leo «tua madre non c'entra...
Ok?» «Nessuno c'entra. Ma intanto io devo partire. E poi il mondo che voglio è
tutto qui... La prossima volta la brucio 'sta cartolina...» «Bravo! Bella mossa!
Così, invece di un anno e tre mesi di caserma, te ne fai due di galera, come
l'americano, lì... com'è che si chiamava?» «Ma chi! Miller?» intervenne
Diplomatico, il quale, sebbene non ricordasse mai una faccia - al contrario del
Secco non dimenticava mai un nome. Per questo, si malignava, giravano sempre
in coppia. Se non altro, insieme sapevano sempre con chi avevano a che fare.
Cosa fare, invece, quella era tutt'altra questione.
«Ecco sì, bravo: Miller. Che almeno un motivo serio per bruciare la cartolina
lui ce l'aveva: la guerra nel Vietnam... qui, invece...» «Che vorresti dire? Che io
non sono serio? Che, siccome noi non siamo in guerra con nessuno, allora io
posso tranquillamente buttare al cesso quindici mesi della mia vita?
No, dico: quindici, mica uno!» «Non c'è bisogno che ti scaldi tanto, Andrea...»
«E invece sì!» «E invece no!» ribadì, Leo, premendo l'indice sul petto dell'amico.
«Perché, se mi davi retta e ci davi dentro, a quest'ora 'sto problema non ce
l'avevi...» «E certo: e se mio nonno aveva cinque palle, era un flipper! E dai, su...
Leo... e metti giù 'sta mano. La fate facile voi... Alla fine, l'unico che parte, qui,
sono io. Tu sei stato esonerato perché eri l'ultimo di cinque figli, Vince l'hanno
fatto rivedibile e magari la prossima volta lo riformano pure e Secco l'hanno
mandato a casa per un'allergia che nessuno sa cosa sia e che, guarda caso, gli è
venuta proprio durante i tre giorni... Eh, Secco! Una bella paraculite a
orologeria... e poi basta un santo in Paradiso e tutto si sistema, no?... Lo sappiamo
bene come vanno queste cose, su!» «Ma quale santo, Andre'... Ma che stai a di'...
beato te che ancora credi ai santi. Il Paradiso, poi, dove lo vedi proprio non lo
so!...» «Lo so io Secco: lo so io... Senza che fai il vago... E avete pure il coraggio
di venire qui, co' 'ste facce appese, a dispensare perle di saggezza? Ma
andatevene, va'. Ipocriti, ecco cosa siete...» «Andrea, ma cosa dici... sono i tuoi
amici...» «Begli amici, ma' e, per favore, non mettertici anche tu, adesso...»
«Perché? Che ho detto?...» «Lasci stare, signora, non ci faccia caso. È solo un po'
nervoso...» «Nervoso? Ma quale nervoso, Leo: sono incazzato nero.
Altro che nervoso.» «Lo so, Andrea. Lo capisco. Ma...» «Io non so se ce la
faccio. Quindici mesi. Quindici mesi senza Giulia... non lo so...» «Giulia? E io
che credevo che facessi tutte 'ste storie per me, Diplomatico, Secco e Vince!»
«Non scherzare Leo, dai. Non è il momento. Davvero: non so se ce la faccio...»
«Ce la fai, ce la fai. Certo che ce la fai. Non sei il primo e non sarai certo l'ultimo.
E poi esistono anche le licenze... e magari qualche volta saltiamo sul treno, ti
veniamo a trovare e andiamo a fare casino da qualche parte... eh?» «Sai che
consolazione...» «Be'! Aò!» «No dico: ti rendi conto? Sotto la naia: io? Dopo tutto
quello che abbiamo fatto, eh? Te le sei dimenticate le assemblee, le occupazioni,
l'autogestione, le manifestazioni, gli striscioni, i volantini... "Giù le mani dal
Vietnam", "I fiori nei cannoni", "Fate l'amore non fate la guerra"... Ma di che
cazzo abbiamo parlato fino adesso, allora eh?» «No, Andrea. Non ho dimenticato
niente, niente. Ma tu...» «Io lo so, Leo. Lo so che finisce che faccio qualche
pazzia.
Mi conosco.» Leo afferrò Andrea per il bavero e lo trascinò da una parte,
mentre la voce metallica dell'altoparlante annunciava che l'espresso per il
Brennero era in partenza dal binario quindici.
«Ascoltami bene, Andrea: fai quello che ti pare, ma promettimi che non farai
stronzate! Promettilo, Andrea. Non è il momento. Si respira un'aria strana. Non te
ne sei accorto? Le cose stanno cambiando. Quelli non scherzano. La naia non
è'Centocelle. E se qualcuno ti strappa il pallone di mano, io non sarò lì a pararti il
culo. Non farti fregare. Sarà un anno di merda, lo sappiamo tutti e due...» «Un
anno e tre mesi...» «D'accordo: un anno e tre mesi! Ma tu pensa solo che ogni
giorno che passa è un giorno in meno che deve passare. Turati il naso, di'
sissignore e fregatene. E, quando torni, ti metti a studiare sul serio, ti laurei e te ne
vai da questo posto. Se no, ti garantisco che quello che non ti hanno fatto loro
lassù, te lo faccio io, qui, appena scendi dal treno!» «Ma con Giulia... con Giulia
come faccio?» «Giulia non è stupida. Ci sarà, vedrai. E sono sicuro che, se fosse
qui, ti direbbe le stesse cose che ti dico io. E pure tuo padre. E adesso smettila di
comportarti come un ragazzino. Vuoi essere trattato da uomo? E, allora, fa'
l'uomo! Saluta gli altri; da' un bacio a tua madre, e magari falle anche capire che ti
dispiace, nemmeno per lei sarà facile.
E poi sali su 'sto treno.» Gli occhi di Leo liberarono quelli di Andrea. Gli
sistemò il bavero del cappotto. E lo abbracciò. Andrea abbracciò Secco e
Diplomatico e li salutò, senza dire una parola.
«Scusa, ma'... Ti voglio bene...» disse allo sguardo spezzato di Nannarella.
«Anch'io Andre'. Non ti sciupare. Mi raccomando...» Andrea salì sul treno.
Trovò un posto. Sistemò le sue cose.
Abbassò il finestrino e si affacciò.
«Grazie, Leo.» «Niente cazzate?» «Niente cazzate.» Leo annuì.
La faccia di Andrea aveva dimenticato il sorriso. Nell'aria inospitale di quel
giovedì mattina, lasciando via degli Oleandri, aveva preso tutto. La sacca con le
sue cose, lo zaino con i libri (chissà? forse nelle lunghe ore senza Giulia, sarebbe
finalmente riuscito a venire a capo di quella benedetta matematica), un blocco per
disegnare, qualche matita e la sciarpa che suo padre gli aveva portato da Capo
Nord. "Lì, d'estate, il sole non tramonta mai" aveva detto. "Lo chiamano il sole di
mezzanotte. Pensa che bello: il giorno e la notte che si tengono sempre per mano.
È davvero la fine del mondo.
Questa sciarpa ha lo stesso colore di quel sole. Se la porti con te, non sarà mai
notte." Le foto-tessera con Giulia, invece, erano finite nel taschino. A un passo dal
cuore. Il sorriso no. Quello era rimasto indietro. Allo Zodiaco, tra le braccia di
Giulia, di fronte al plastico illuminato della città, nell'aria frizzante della sera. Tra
lo sguardo indolente di eucalipti e pini, il pallore azzurrato dell'insegna al neon
del bar e la finta stele latina, che ricordava la magnificenza della città eterna.
L'unica stele, adesso, era il tabellone delle partenze. E incombeva minaccioso sul
suo presente.
«Ma Giulia?» Chiese la signora Anna. «Almeno un saluto te lo poteva fare...»
«Le ho chiesto io di non venire, mamma... Non volevo che mi vedesse così...»
Anna fece "capisco" con la testa, ma non capì. Nemmeno Andrea capiva più il
senso di quella stupida richiesta.
"Perché si dicono certe stronzate" pensò. Se lei fosse stata lì adesso, avrebbe
almeno potuto vederla un'ultima volta.
Il treno era in orario. Il capotreno fece un cenno al macchinista e salì a bordo.
L'ultimo sportello si chiuse con rumore di ghigliottina. Il semaforo segnò verde. Il
capostazione fischiò. La paletta oscillò. Il treno ebbe un sussulto e, lentamente,
cominciò a muoversi. Andrea guardava fuori, con un senso di estraneità. Come se
non fosse davvero lui a partire. Come se il ragazzo che era salito sul treno con la
sua sacca, il suo zaino e la sciarpa di Capo Nord, fosse un altro. Tutto quello che
lo rendeva Andrea - pensieri, emozioni, desideri, sogni e persino la rabbia
chiodata di quella mattina - era rimasto sull'acciottolato sconnesso della
piattaforma, accanto a una Natività di anime calpestate.
«Andreaa!» gridò Giulia, sbucando all'improvviso da dietro un pilastro.
«Giuliaa!» La ragazza correva di fianco al treno.
«Che fai? Sei impazzita?» disse Leo, cercando di trattenerla.
«Lasciami!» gridò lei, divincolandosi.
«Andreaaa!» gridava, correndo e agitando la mano...
«Giuliaaa!» gridò sporgendosi dal finestrino. Il treno cominciò a prendere
velocità. Giulia correva, ma Andrea capì che non sarebbe mai riuscita a
raggiungerlo. Uscì dallo scompartimento e cominciò a correre verso la coda del
treno.
«Andreaaa!...» «Giuliaaa!...» Correvano insieme. Lui verso la città, lei verso un
orizzonte di linee elettriche e traversine. Finalmente Andrea raggiunse l'ultimo
vagone. Si affacciò. Giulia era lì a pochi passi. Andrea corse verso lo sportello.
Provò ad aprirlo. Non ci riuscì. Allora abbassò il finestrino e si sporse il più
possibile.
«Vai, Giulia, vaiii!!» «Andreaaaa !!...» Pochi metri: la piattaforma sarebbe
finita e il treno sarebbe sparito, inghiottito dai mille tentacoli dei binari. Giulia
correva più forte che poteva. Andrea afferrò la maniglia e si lanciò ancora più in
fuori. Giulia corse come non aveva mai corso in vita sua. Corse il fiato che non
aveva più, corsero le gambe che le tremavano, corse la paura di cadere; corse il
desiderio di sfiorarlo, corse la rabbia per non avergli mai detto cosa pensava
davvero di lui, corse la follia di salire su quel treno e lasciarsi alle spalle tutto
quello che alle sue spalle fosse rimasto; corse la sorpresa del primo incontro, la
nuvola col viso di Andrea, l'ironia di Irene, il sarcasmo di sua madre, l'inerzia
colpevole di suo padre; corse l'incanto del pomeriggio sotto il cedro; corse la bile
della festa a Centocelle, il sublime dell'isola; corse la mareggiata nel capanno a
Fiumicino, corse il sogno dell'ultima sera, corse la paura di perderlo; corse la
voglia di urlare. Andrea urlò.
Urlò la voglia di scendere e correrle incontro; urlò la rabbia del distacco, urlò la
stupidità dell'esame fallito, urlò, uno a uno, i capelli che si era dovuto tagliare;
urlò la distanza che cresceva ogni istante di più, urlò la sacca, lo zaino, i libri, i
fogli da disegno, le matite e la sciarpa di suo padre; urlò quel pomeriggio al bar,
urlò la casa di Prati, urlò l'umiliazione della voce della madre di Giulia al
telefono; urlò gli sguardi appuntiti all'uscita di scuola; urlò le verità di Leo, urlò
l'ironia di Vince e l'apatia di Secco; urlò lo sguardo impotente di sua madre e il
ticchettio ulcerante della macchina da scrivere; urlò la campagna, le colline,
l'argine e le stelle che non lo accompagnavano più; urlò il sublime dell'isola; urlò
la mareggiata nel capanno di Fiumicino, urlò il sogno dell'ultima sera; urlò la
paura di perderla.
Lui allungò il braccio. Lei si lanciò verso di lui. Le mani si sfiorarono appena. I
cuori si incepparono, mentre le labbra provavano di nuovo a sillabare un sorriso.
Giulia si fermò sul confine dell'ultimo fiato. Oltre non si poteva più andare.
Andrea si tolse la sciarpa e gliela lanciò. Il sole di mezzanotte spiegò le sue ali e
volò verso una nuvola dalla faccia pulita. L'ultima cosa che vide fu il suo sogno di
avvolgersi nella luce dorata dell'estate di Capo Nord. E, mentre il treno
scompariva alla vista della città, dall'ultimo vagone osservò tramontare la
stazione.
«Ti scrivo» disse Giulia, affidando quel resto di fiato alla fragile intermittenza
della piccola stella rossa che segnava il punto nel quale la coda di quella cometa
abbandonava il cielo della realtà per tuffarsi nel mare immobile del dolore, là
dove tutto fugge.
11
Ciao. Come stai? Io bene. Anzi, no. Non lo so. Voglio dire: sembra tutto a
posto, in realtà mi sento come nella centrifuga di una lavatrice. Da una parte c'è
questa cosa dentro di me che è così forte e che mi farebbe venir voglia di urlare e
dall'altra mi manchi. Mi manchi così tanto che mi sento quasi paralizzata. Mi
sembra tutto vuoto e tutto inutile..
Perdona la calligrafia. Fa pena, lo so. Ma sarà la centesima volta che comincio
questa lettera. Mi fa male la mano! Non so quante pagine ho già strappato. Se
vado avanti così, tra un po' di questo quaderno rimarrà solo la copertina. Ci sono
pezzi di carta appallottolati dappertutto. Camera mia sembra un campo da tennis.
Uno di quelli di Pievepelago. Eravamo una trentina di ragazzini per lezione e il
campo era una distesa di palline. Ogni volta, un quarto d'ora se ne andava per
raccoglierle. Spuntavano dappertutto, come funghi. Sembrava che la terra rossa
avesse la varicella. La varicella, invece, veniva a me. Non lo sopporto il tennis. I
miei mi ci hanno spedito a forza per un paio d'estati. Poi non ne ho più voluto
sapere. "Il tennis è uno sport nobile ed elegante" diceva mia madre. Non ho mai
capito cosa ci fosse di tanto nobile ed elegante nel prendere a schiaffi delle palline
con una specie di padella di legno e budello.
Il massimo è stato quando siamo andate a vedere Il giardino dei Finzi Contini.
"Vedi" mi ha detto sprizzando soddisfazione da tutti i pori "anche Micol e i suoi
amici giocano a tennis." Così, come se Micol fosse una sua amica. Una di quelle
con cui passa interminabili pomeriggi a fingere di giocare a bridge. Così, oltre a
non sopportare il tennis, ho finito col non poterne più nemmeno di Micol, di
quella sua aria leccata e perfettina e soprattutto del modo in cui trattava quel
malcapitato di Giorgio. Se mia mamma pensa che io diventi una così, si sbaglia.
Si sbaglia di grosso. Tra un po', però, dovrò decidermi a mettere a posto. Se entra,
chi la sente... quella è capace di chiudermi in casa per una settimana. Altro che il
tuo capitano... come si chiama?
Sono sdraiata sul letto. Ti penso... ma le parole, quelle se ne fregano di me. È
strano: non ho mai avuto tanti problemi con le parole. Di solito, se le chiamo,
vengono. Quella di lettere dice che ho talento. Secondo lei dovrei fare la
giornalista. Dovresti vedere Niko, come rosica. Se la tira tantissimo perché il
padre è giornalista, ma lui non riesce a mettere tre parole in croce. Pensa che la
prof ha fatto leggere al preside il mio tema su piazza Fontana e lui ha riunito tutte
le terze in aula magna e l'ha letto davanti a tutti. Sono diventata così rossa che...
Ti giuro: volevo sparire!
Il preside dice che da grande dovrei fare la scrittrice. Secondo me ne sanno
meno di noi. Dico: te la immagini una scrittrice che non riesce a trovare le parole
per una lettera scema? Comunque lo ha detto anche a mia madre. Lei, però, non
mi è sembrata entusiasta. Ci sarà mai qualcosa capace di farla entusiasmare?
E poi che significa "da grande"? Odio questo loro modo di dire. La vita mica
comincia dopo la laurea! Mica è divisa in due: la parte nella quale ti prepari a
vivere e quella in cui finalménte vivi. La vita è vita tutta. Mica siamo in una sala
d'attesa: "Avanti il prossimo!". Io questa cosa non la capisco, le poche volte che ti
dicono "Ormai sei grande" c'è sempre dietro una fregatura. Vogliono appiopparti
qualche compito sgradevole o qualche responsabilità. Non capisco: come
funziona: la vita vera è solo quella delle responsabilità? Perché i grandi non
sorridono mai? Possibile che siamo grandi solo quando fa comodo a loro? Dimmi
che non diventeremo così anche noi. Se penso che sarò come mia madre... A volte
vorrei essere orfana!
Eppure ogni volta che provo a scriverti, niente. Non ci riesco. Nei miei
pensieri, l'unica cosa chiara sei tu. Tutto il resto è fuori fuoco. Ma quando provo a
metterli sulla carta, niente, buio totale. Tutto diventa chiaro e tu, invece, scompari.
Irene dice che sono cambiata. Che non mi riconosce più.
Faccio finta di niente, sorrido e le dico: "Ma dai: smettila.
Sono sempre io". Lei dice "Vabbe', mi sbaglierò" e cambia discorso. Ma lo so
che ha ragione. Neanche io mi riconosco. Non riconosco niente. I miei, la scuola,
Irene, Niccolò, questa città.
A proposito: non so lì, ma qui le cose si mettono male.
Ogni giorno ce n'è una. La scuola è sempre presidiata dai celerini... la settimana
prossima c'è un'altra manifestazione. I miei dicono che è ora di finirla con queste
occupazioni. Che sono solo una scusa per perdere tempo, che non vogliamo
studiare, che ci rifiutiamo di crescere, che..., che..., che...: che palle! E poi io sono
contenta: non fosse stato per una manifestazione non ci saremmo mai incontrati.
Ci penso spesso a quel bar. Quando sei entrato ho pensato: "Ma questo da dove
sbuca?". Avevi una faccia. Sembravi un pulcino bagnato.
Dovrei studiare ma non ci riesco. Certe volte non capisco nemmeno quello che
leggo. Leggo e rileggo ma... niente. È come se qualcuno passasse il cancellino
sulla lavagna della mia fronte. Memoria zero. Vuoto pneumatico. Anche adesso:
ho il libro davanti, sarà almeno mezzora che leggo e rileggo la stessa frase...
È la prima volta che mi succede. E il bello è che dovrei aver paura degli esami
e, invece... mi sento serena. Anzi: non mi sono mai sentita così bene in vita mia. I
miei non fanno che dire l'esame, l'esame, l'esame... dicono che il loro esame di
maturità è stato un vero incubo. Forse per questo stanno cercando di rendere un
incubo anche il mio. Giorni e giorni senza dormire. Ancora se lo sognano, dicono.
Ma si possono sprecare i sogni così? Io ho di meglio da sognare. Sogno te. Come
mi guardi. Il tuo sorriso, il tono della tua voce, quando fai di tutto per parlare
come i miei amici... ma, soprattutto, sogno le tue mani. Le tue mani che
disegnano - come quella volta al parco, ricordi? - che continuavi a buttare giù uno
schizzo dopo l'altro... la tua città ideale, dicevi... è stato bellissimo: nessuno mi
aveva mai dedicato una città.
Mi piace il tuo modo di sognare, sai. Perché i tuoi sogni hanno una forma. Non
sei come gli altri. Non ti limiti a dire no a questo, no a quello o voglio un mondo
così o un mondo colà. No: tu il mondo che vuoi lo fai vedere. I tuoi sono sogni,
non fantasie. Sogni veri. C'è una bella differenza. E io lo so che un giorno la
costruirai davvero la tua città.
Mi sembra tutto così stupido. Vorrei vederti, stare con te. Sarà che quando sono
con te anche le cose più stupide sembrano bellissime. Mentre quando non ci sei,
anche le cose che dovrebbero essere bellissime sembrano stupide.
Vuote. Senza senso.
Ieri Irene mi ha portato al giardino degli aranci, all'Aventino. Poi siamo andati
in quel portone... quello dove, se guardi dal buco della serratura, si vede la cupola
di S. Pietro. Mi ha detto "Non è bellissimo?!". "Bellissimo" ho detto, ma pensavo
a te. Devo aver fatto una faccia strana. Perché Irene mi ha detto: "Stai pensando
ad Andrea, vero?".
Ho detto "No, perché?".
"Perché hai fatto ancora quella faccia." "Quale faccia?" ho detto.
"La faccia di Giulia senza Andrea." "E quale sarebbe la faccia di Giulia senza
Andrea?" "Hai presente il sorriso di quei bambini a cui sono caduti i denti
davanti?" "Sì." "Ecco: quella è la faccia di Giulia senza Andrea. Un sorriso, ma
senza denti." Allora abbiamo riso. Poi abbiamo preso il motorino e siamo andate a
prendere una grattachecca dietro a via della Giuliana. Dalla sora Maria. Sai quel
chiosco ai piedi della Trionfale? Quello vicino al mercato dei fiori... E mentre
eravamo lì, in fila, ad aspettare c'era un ragazzino con la madre. Lei non gli
voleva comprare la grattachecca, allora lui ha cominciato a piangere ed era senza i
denti davanti.
Allora io e Irene ci siamo guardate e siamo scoppiate a ridere. Non riuscivamo
più a fermarci. La signora ci ha pure guardate male. Ma noi proprio non
riuscivamo a smettere. Che figura! Alla fine siamo dovute andare via e... addio
grattachecca.
Non faccio che ripensare ai posti dove siamo stati, a quello che abbiamo fatto...
Ogni tanto ci torno da sola. È sciocco lo so, ma così mi sembra che siamo più
vicini. Mi sono fatta prestare il motorino da Irene e sono tornata al mare.
Un'ammazzata! Mica me lo ricordavo che era così lontano. Al nostro posto.
Faceva freddo. Non pioveva ma c'era un vento. E c'erano i gabbiani. Ma non c'eri
tu.
E quando incontro qualcuno che si bacia... mmh... mi prende una cosa qui, alla
bocca dello stomaco... un sentimento strano. A volte c'ho un attacco di invidia che
vorrei che la smettessero subito e magari si lasciassero pure. Ma poi penso: beati
loro... Ma tu quando torni? Mi mancano i tuoi baci. Senza di te il tempo non passa
mai. Possibile che quando siamo insieme - paf - è subito ora di lasciarsi e quando
non ci vediamo il tempo non passa mai. Ma che fregatura! Ma chi l'ha inventato il
tempo? Non poteva farlo correre per le cose brutte e rallentare per quelle belle? O
almeno fare in modo che avesse sempre la stessa velocità!
Mi succede anche quando guardo la tv. La cosa del bacio, intendo. Di solito
chiudo gli occhi e penso alle tue labbra... come quella volta che sei venuto a
prendermi a scuola che a momenti Irene ci resta secca. Un paio di volte deve
avermi beccato mia madre.
"Sei stanca?" mi ha chiesto qualche sera fa.
"No" ho risposto "perché?" "Niente. È che avevi gli occhi chiusi... pensavo ti
fossi addormentata." "Pensavo..." "Ad Andrea, immagino..." Non rispondo. La
odio quando fa così. Mica perché mi legge dentro: perché mi sembra
un'intrusione. Possibile che non si possa stare da soli nemmeno con i propri
pensieri?
Non sopporto il modo nel quale mi guardano, né le cose che dicono. Sono
pensieri miei, non voglio che li sporchino. Io non lo faccio con loro. Perché loro
si sentono in diritto di farlo con me?
Chiudo gli occhi e sento il suono della tua voce, le tue parole - di quelle non ne
ho dimenticata neanche una - succedesse così anche con Kant alla maturità
sarebbe un trionfo... e invece di lui non ricordo niente. Sai che facciamo? Quando
torni lo studi tu e poi me lo racconti? Eh? Così non mi dimentico neanche una
parola e vedrai che esame!
La nostra foto mi guarda. Non la lascio mai. La porto sempre con me. Mi piace
la faccia che fai. E poi sei spettinato come quella volta al bar. Che buffo che eri.
Hai un bel sorriso, sai? E gli occhi... L'altro giorno la prof di latino me l'ha
beccata. L'avevo messa nel vocabolario. Così, come portafortuna per il compito in
classe. Chissà che si credeva. "La prossima volta lasciala a casa" ha detto. Ha
fatto la faccia che fa mia madre quando parla di te. Ma che c'hanno tutti?
Sembra che nessuno abbia mai avuto diciassette anni. Possibile che i grandi
dimentichino tutto così in fretta? Non è possibile. Non ci credo. Se a trent'anni mi
sarò dimenticata di come sono oggi, mi butto dal balcone. A che serve vivere se
non>si può ricordare? Secondo me sono invidiosi. Perché io ho una cosa bella e
loro niente. Mia madre, poi, sembra non sia mai stata innamorata. La prof, invece,
non lo è mai stata di sicuro. Capirai, con quella voce! Ma chi vuoi che se la fili
una così... E poi dovresti vedere come si veste.
Ma dove li trova quei maglioncini... e quelle gonne! Per non parlare delle
scarpe. Secondo me ci deve essere una fabbrica che produce cose orrende solo per
i professori. Ma, dico: che c'hanno gli specchi di mogano a casa?
A volte anche Irene è invidiosa. Fa finta di niente ma io me ne accorgo lo
stesso. Si vede che ci sforma. La conosco da troppo tempo. Fa quella cosa strana
con le sopracciglia e poi si tocca i capelli. Ma se lei fosse innamorata, io sarei
gelosa? Boh!
Ora, però, ti devo salutare. Domani quella di filosofia mi interroga e non ho
ancora aperto libro. Ma tu, quando vieni? Possibile che sia così difficile avere una
licenza? Ma cosa sei in caserma o in galera? E cerca di non farti prendere di mira
dal tuo capitano, se no finisce che io e te non ci vediamo più...
Ti bacio, come al capanno. Anzi no: di più.
A presto. Giulia.
Ps. È mezzanotte. Ho riletto la lettera. Fa schifo anche questa. Mi sa che fra
poco farà la fine di tutte le altre. La collezione di palle di carta aumenterà e anche
la bile di mia madre. Un bacio dal cuore della notte e uno dal mio...
12
Sergio bussò. Non lo faceva mai. Giulia capì che la faccenda era più seria di
quanto avesse immaginato. Prese fiato.
Raccolse le energie. Ravviò capelli e pensieri. E con la voce più naturale
possibile disse: «Entra, papà!».
«Cosa succede, Giulia?» Era così. Andava dritto al punto. Meglio, pensò
Giulia.
Dritti al punto.
«Ho paura.» «Dell'esame?» «Ma quale esame, papà! Ti prego... almeno tu...»
«Scusa è che...» «... Non so cosa mi succede.» «Problemi con Andrea?» «Ma no,
no, noo... possibile che non sappiate pensare ad altro...» «Giulia, con tutto quello
che si sente...» «Papà, Andrea non sarà uno di noi, come dice la mamma, non sarà
la persona migliore del mondo, ma di certo non è il biondino della Spider rossa...
È che sto cambiando.
Ed è tutto così confuso... Ancora non so cosa sono e già sento che sto
diventando qualcos'altro. E non so cosa. E non so nemmeno se voglio cambiare.»
«Si cambia Giulia. È la vita. Non si può evitare.» «Fino a ieri mi sembrava tutto
così semplice e chiaro. C'era la mamma, c'eri tu, la nostra casa, la scuola, i nostri
amici. L'estate al mare da nonna, le vacanze di Natale... adesso non ci capisco più
niente... E ho paura...» «Bene.» «Come bene, papà? Io ti dico che ho paura e tu mi
dici "bene"?» «Avere paura è normale, Giulia. Tutti abbiamo paura. Anche io,
anche la mamma... tutti... La paura è importante.» «Importante?» «Non so come
dire... non è facile...» «E tu provaci lo stesso...» «È un po'... un po' come... il
sale...» «Il sale?» «Sì... il sale nella pasta. Se ce ne metti poco, la pasta è sciapa.
Non sa di niente. Se ce ne metti troppo, è immangiabile.
E finisce che la devi buttare. Con la paura è lo stesso: tutta questione di
dosaggio. Se ne hai poca, rischi di fare qualche stupidaggine. Se ne hai troppa,
finisce che ti paralizzi e non ti muovi più.» «Già, ma io che ne so qual è la dose
giusta? Non so regolarmi con la pasta/figurati col resto...» «Quello che voglio
dire, Giulia, è che la paura non esiste per impedirci di vivere, ma solo per aiutarci
a sbagliare il meno possibile...» «Ma la mamma...» «La mamma è la mamma. Io
sono il papà...» «Ma tu come fai con lei? Io a volte proprio non ci riesco.» «Le
voglio bene, Giulia. Questo lo capisci, no? Voglio dire, soprattutto adesso, no? Se
Andrea sbaglia, tu lo perdoni, no?» «Sì, credo di sì, ma...» «Be', io cerco di fare la
stessa cosa con la mamma... Tu, piuttosto, cerca di non confondere pulpito e
predica.» «Che vuoi^dire?» «A volte rifiuti le cose che lei dice solo perché te le
dice lei. Non mi sembra un gran criterio di valutazione... C'è un vecchio proverbio
indiano che dice: "Quando il dito indica la luna, l'imbecille è quello che guarda il
dito"... sei una ragazza intelligente, Giulia, non fermarti al dito...» «Lo so, è che a
volte dice le cose in un modo che...» «Ma scusa: non sei tu quella che si lamenta
del fatto che lei pensa solo alle forme?» «E, allora: con quale coerenza, dici a me
adesso che non ti piace la forma che lei dà ai suoi pensieri? Se chiedi a tua madre
di guardare alla sostanza dei tuoi pensieri, anche tu devi essere capace di guardare
alla sostanza dei suoi. No?» «Sì, ma...» «Pensa bene alle cose che ti dice. Ti
accorgerai che a volte non ha tutti i torti... Giulia: contestare l'autorità va bene.
Ma la contestazione deve servire a migliorare le cose, non a peggiorarle...»
«Non è facile crescere...» «Guarda che non è facile nemmeno fare il genitore...»
«Sì, lo so, ma... tu cosa pensi di me? Voglio dire: cosa pensi davvero di me?»
«Che sei una ragazza in gamba... intelligente, pulita... sei a posto, solo che...»
«Solo?» «Ho l'impressione che tu stia correndo un po' troppo... bruciando un po'
le tappe... Il tempo è importante. Non passa per caso. Passa per darci il tempo di
capire. Se corri troppo ti perdi il panorama. E non sai dove ti trovi. Rallenta un
po', Giulia. Che fretta c'è? Hai tutta la vita davanti!» «La mia vita non è davanti a
me, papà: è qui. E poi Andrea c'è adesso!» «E, se ti vuole bene come dici, ci sarà
anche domani...» «E se, invece, domani non ci fosse più?» «Vorrebbe dire solo
che non ti voleva poi così bene... si chiama principio di non contraddizione...»
«Lascia stare Aristotele, papà... questa non è l'ora di filosofia... avrò il diritto di
vivere questa...» «L'amore non è un diritto, Giulia. È una conquista. Lo si perde
tutte le sere e lo si deve riconquistare tutte le mattine.» «Ma io non voglio lasciare
Andrea, papà.» «E chi ha parlato di lasciare Andrea? Nessuno ti chiede di farlo.
Vorremmo solo che tu non pensassi solo a lui. Che la tua vita non si riducesse a
lui. Tutto qui. Lo so che il momento dell'innamoramento è totalizzante. Che
quando si sta con qualcuno si tende a chiudere fuori dal proprio mondo tutto e
tutti. È normale. Uno ha bisogno di capire cosa succede, e poi cerca di vivere
nella maniera più intensa questa esperienza e di costruire e proteggere il proprio
progetto, ma...» «Ma?» «Così come non esiste solo la scuola...» «Secondo la
mamma, invece, solo la scuola esiste...» «No, Giulia... la mamma...» «Tu non ci
hai parlato, papà: per lei esiste solo la scuola, dammi retta.» «Giulia, sono
vent'anni che parlo con la mamma. Credimi: so perfettamente come la pensa. Si
preoccupa per te. Per il tuo futuro... e, anche se lei non te lo dirà mai, sa
benissimo che non c'è solo la scuola. Ma, per lo stesso motivo per il quale non
esiste solo la scuola, non può nemmeno esistere solo Andrea. Lo capisci questo,
vero?» «E chi altro dovrebbe esserci?» «Andiamo, Giulia, adesso non fingere di
non capire. "Non c'è solo Andrea" significa che la tua vita è fatta di molte altre
cose che devono continuare a esistere. Non parlo di noi. Parlo di te, dei tuoi
progetti... avrai pure dei progetti, no?» «Ma, sì... certo...» «Ecco, appunto... gli
amici, lo sport, i libri, i film, i dischi... tutte le cose che messe una vicina all'altra
formano Giulia.
Perché crescere,significa crescere in armonia. E tutte le parti di Giulia devono
crescere insieme. Andrea è e sarà sempre una persona importante per te. Questo
non te lo leverà mai nessuno. Ma questo non significa che lui sarà l'unico amore
della tua vita...» «Sei cinico, papà.» «Al contrario, Giulia: sono romantico.»
«Romantico?» «Romantico, Giulia.» «Parli dell'amore come di un contratto... a
volte ho l'impressione che voi non sappiate neanche cosa sia...» «Nessuno lo sa,
Giulia. Nessuno sa da dove arrivi. Nessuno sa perché. L'unica cosa che sappiamo
è che, quando se ne va, lascia un grande vuoto. Un vuoto più grande di quello che
aveva colmato, arrivando. E a noi non resta che accettare l'incomprensibile
inevitabilità del suo dissolversi.
Rimaniamo così: feriti, umiliati, disarmati. Traditi. I pensieri restano a bocca
aperta. E le stesse emozioni che erano state neve, all'improvviso diventano
grandine. Grandine gelida e tagliente, che distrugge tutto quello che tocca.
Mistero» disse, avvicinandosi alla finestra, scostando la tenda e guardando la
strada. «Mistero trovarlo, mistero viverlo, mistero perderlo. Chissà, forse è
proprio questo il suo fascino...» Giulia guardava suo padre. Nuca ordinata,
camicia impeccabile, giacca che scivolava sulla schiena senza una piega,
pantaloni come appena indossati, scarpe lucide e rassicuranti. Odorava di muschio
e certezze. Lo aveva sempre visto così. Eppure qualcosa non quadrava.
All'improvviso era come se lo vedesse per la prima volta. Il viso. Riflesso nel
vetro, pareva diverso. La luce giallastra della sera gli regalava lineamenti nuovi.
Morbidi. Più freschi. I tratti sembravano addolciti e gli occhi vibravano dello
sfavillante luccichio di luci di costa.
«È l'energia più grande che l'uomo sia in grado di produrre» disse continuando
a guardare fuori. «L'unica che riesce a farci fare cose di cui non ci penseremmo
mai capaci.
Il miracolo che rende l'uomo capace di miracoli. Può essere tutto o nulla. Non
dipende da lui. Dipende da noi.» «Che vuoi dire?» chiese Giulia con un filo di
voce, mentre cercava di decifrare le sensazioni sconosciute che le avvolgevano
sensi e pensieri.
«Che lui promette, ma tocca a noi mantenere. E mantenere certe promesse, non
è facile.» Anche la voce era cambiata. Più fresca, leggera, meno ruvida. Si
appoggiava al vetro, senza graffiare. Si era avvicinato alla finestra da uomo, si
voltò verso Giulia da ragazzo. Le si avvicinò. Sedette sul letto. Le prese le mani.
Sorrise.
Quella fu la volta in cui Giulia conobbe suo padre. Suo padre, ma a vent'anni.
«Il problema» disse il ragazzo vestito come il padre «è che l'amore cammina
sulle nostre gambe. E le nostre gambe sono un po' troppo fragili. Più lui è grande,
più pesa. E più pesa, più noi fatichiamo. Quanto è grande il tuo, Giulia?» «Tanto.»
«Ecco» disse stringendole le mani. «Adesso sai perché pesa così tanto.» Giulia
avrebbe voluto rimanere così. In silenzio. Trattenere il più a lungo possibile
l'incanto di quel momento. Sorseggiarlo lentamente. Chi era l'angelo con corpo di
uomo e anima di ragazzo, la cui voce era balsamo per i suoi pensieri? Era così
quando sua madre l'aveva conosciuto? E che fine aveva fatto? Dov'era rimasto
nascosto tutto quel tempo? E perché? Possibile che avessero diviso la stessa casa
per tanti anni senza incontrarsi mai? Non si erano mai parlati così. Né lei si era
mai sentita tanto serena. Tanto vicina a lui nel tempo, nello spazio, nelle
emozioni, nei pensieri. Avrebbe voluto rimanere in silenzio, per evitare che
qualcosa spezzasse l'incantesimo e lo riportasse là da dove era venuto. Chissà se e
quando le sarebbe capitato di incontrarlo di nuovo. Ma non poteva tacere. C'era
una domanda che non poteva aspettare.
«Cosa devo fare?» chiese.
«Niente» dissero corpo di padre e cuore di figlio. «Cerca di non deluderlo e lui
non ti deluderà.» Giulia annuì. Era molto tempo che non si sentiva così leggera...
«Solo una cosa, Giulia» disse il ragazzo, nell'istante nel quale stava tornando
uomo.
«Sì?» «Anche le gambe della mamma sono fragili. Non lo dimenticare.» Giulia
lo guardò. Non disse nulla. Non ce n'era bisogno.
L'uomo si alzò. Le passò una mano tra i capelli e andò via di schiena. Nuca
ordinata, camicia impeccabile, giacca che scivolava senza una piega, pantaloni
come appena indossati, scarpe lucide e rassicuranti. Odorava di muschio e
certezze. Sulla porta si voltò un'ultima volta. Fu allora che Giulia vide che a
mezza costa sul viso dell'uomo, le luci di baia degli occhi del ragazzo non
avevano ancora smesso di brillare.
14
Una volta mi hai detto che le parole sono tutto, ricordi? Ci penso spesso, sai.
Soprattutto qui. Spero che non sia vero.
Perché, se è vero, io sono spacciato. Le parole di qui uccidono. Non esagero.
Viviamo di parole allucinanti. Nonno, spina, stecca, cucù, juke-box, branda,
cubo... Alcune si sentono solo qui dentro. Altre esistono anche là fuori. Solo che
qui hanno tutt'altro significato. Peggiore del peggiore che tu possa immaginare.
Sanno di sudore, urina, lucido da scarpe, muffa, desolazione. Di una disperazione
muta e senza ritorno.
Se anche queste parole avessero la libera uscita, allora il mondo diventerebbe
davvero una latrina. Non vedo l'ora di congedarmi per tornare, ma, soprattutto,
per dimenticarle. Perché pesano e sporcano. Più di tutto il resto. Più dei turni di
guardia, inutili e vuoti, nei quali l'unica cosa che devi imparare è a non pensare a
cosa avresti potuto farne del tempo che stai buttando via e a non vergognarti di te
stesso e dello scempio che sei costretto a commettere. Se capito di guardia con
Sasà - un tipo di Napoli, l'unico con cui ho legato - mi porto fogli e matita e
disegno un po'. Lui mi copre. In cambio, lo aiuto a scrivere le lettere alla sua
fidanzata. Rosaria si chiama. Mi ha fatto vedere la foto. È talmente brutta che, se
San Gennaro se ne accorge, a Sasà gli regala una notte con la Loren. Di uno così,
diventi amico per forza. Per compensare.
Pesano e sporcano più dei cessi da lavare... spero che tu non veda mai un cesso
alla turca. Ti assicuro che non esiste niente di più schifoso. Vorrei sapere chi
diavolo se li è inventati! Il sergente dice che è più igienico. Tanto, a lui che gli
frega: ha un bagno normale e tutto suo, lui. Comunque, c'è questo buco per terra
con, ai lati, due specie di piattaforme di maiolica o qualcosa del genere per
metterci i piedi. L'idea è che tu ti devi accovacciare come se, durante una
passeggiata in bicicletta in aperta campagna fossi stato colto da un impulso
improvviso e incontrollabile e fossi stato costretto a tirarti giù i pantaloni e a farla
lì, in mezzo a un prato di papaveri. Solo che questa non è una gita, non siamo in
aperta campagna, non c'è nessuna bicicletta e quello che hai sotto di te e intorno è
tutto tranne che un prato di papaveri. E, a dirla tutta, non c'è nessun impulso
improvviso. Andare al cesso qui fa così schifo che cerco di evitarlo. A volte
resisto fino alla libera uscita. Allora vado al bar.
Ultimamente ho scoperto i bagni della stazione. Non solo sono più grandi e più
puliti (e non manca mai la carta), ma amo l'odore rugginoso dei binari, la voce
dell'altoparlante e i treni che passano. Navi di terra. Mi fanno pensare che sto per
partire. Che, quando ho fatto, posso uscire, raccogliere la mia roba, saltare sul
treno e venire giù. Chissà quando succederà! A volte penso che non succederà più.
Che finirà tutto qui. In questo posto dimenticato da Dio e frequentato solo da resti
di uomini. Pesano e sporcano più dei turni alle cucine, dove vedi delle cose che ti
fanno passare la voglia di mangiare. Più della sceneggiata dell'alza bandiera. Più
delle marce. Più delle esercitazioni. Persino più della faccia di Reggiani.
È incredibile: sono qui che ti scrivo e, invece di parlare di noi, ti parlo dello
schifo dello Spielberg. All'inizio non capivo perché lo chiamassero così. È bastata
una settimana e ho capito tutto. Il fatto è che non puoi tenere le mani in questa
merda per tutto questo tempo. No, non parlo del cesso: parlo della vita qui dentro.
Alla fine la puzza è ovunque.
Contamina vestiti, oggetti, desideri, pensieri. Non so se passerà mai, né quanto
dovrò aspettare prima di non provare più nausea per questo odore che mi porto
addosso. Odore di vita buttata, di stupidità, di finzione, di prevaricazione.
Di squallore. È come se le coscienze si prendessero quindici mesi di vacanza.
Qui le regole non mancano. Anzi. Ce ne sono fin troppe. Solo che non hanno
nessun senso. Un miliardo di regole senza senso. Se non smetti in fretta di
chiederti "perché?", rischi di impazzire e comunque finisci nei guai. Non c'è un
perché. Non esiste. È proprio questo il punto: devono piegarti a fare cose che non
hanno né un senso, né un perché. Finché dentro di te ci sono ancora quelle due
parole - senso e perché - allora vuol dire che non sei ancora completamente loro.
E sono guai. Questo è il tempio degli istinti. Della bassezza. Della meschinità.
Della violenza.
Perché le loro parole ti entrano dentro. Ti violentano. E la cosa più allucinante è
che c'è gente che ci crede. Ci crede davvero. Voglio dire non solo quel coglione
del sergente o quel bastardo del capitano Reggiani... sai come lo chiamano?
Achab, lo chiamano. Ti ricorda qualcosa? No... non solo loro, anche dei ragazzi.
Ragazzi come me! Ti rendi conto?
Non ci posso pensare! Mi chiedo cos'hanno in testa. Ce ne sono addirittura di
quelli che vogliono firmare. E fare questo per tutta la vita. E assurdo. Qui dentro è
come in galera. Solo che in galera ci vai se hai commesso qualche reato. Ma io
che ho fatto di male per meritare questo schifo?
Eh? Qual è la mia colpa? Di cosa sono accusato? Di avere diciannove anni e di
non aver dato un esame all'università? E per questo ti danno quindici mesi?
Neanche rapina a mano armata! Non ho rubato niente. Mai niente a nessuno. E mi
spieghi allora perché loro devono rubarsi quindici mesi della miavita? Chi glielo
dà il diritto, eh? Non ci posso pensare, sennò divento matto. Ci sono dei momenti
che penso che non finirà mai. Che mi porterò addosso questo schifo per tutta la
vita. Qui niente ha senso. Come ci vestiamo, le cose che facciamo, quello che ci
dicono, quello che rispondiamo. Non riconosco nemmeno più la mia voce. E
cambiata. Si è svuotata. Una scatola vuota. C'è solo il cartone. Dentro: niente.
Non c'è più energia. Non c'è più passione. Perché per dire queste parole vuote di
tutto, ci vuole una voce vuota di tutto.
Alla sera quando si spengono le luci della camerata e guardo fuori, sembra un
lager. Nell'altana c'è sempre qualcuno che controlla le baracche. Tu non li vedi,
ma loro vedono te.
La luna, invece, non si vede mai. La nostra luna, te la ricordi? Ricordi come ci
guardava? Allo Zodiaco sembrava quasi che sorridesse. Ti guardavo. I tuoi occhi,
la tua pelle, i tuoi capelli. Sono loro che mi tengono in vita. Qui la luna non c'è.
La notte è così anonima e lontana che sembra che nemmeno la luna abbia
voglia di scendere sul campo. C'è sempre qualcosa che la copre. Le nuvole, la
nebbia, o la luce giallastra dei lampioni della piazza d'armi. Non so se è lei che si
nasconde perché non vuole farsi contagiare da tutto questo squallore o se lo fa per
noi. Per non ricordarci che là fuori ci sono cose così belle. Per non farci soffrire.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Guarda, però, che questo vale solo per la
luna.
Non per te. Tu potresti stare anche dall'altra parte del mondo, che io... Come
vorrei saper scrivere come te... Rileggo, e mi sembra di dire certe stupidaggini...
Lo Spielberg sembra il giardino del tuo gigante egoista quando sbatte fuori i
bambini. Solo pioggia, grandine, neve e vento del Nord. Qui non sorride mai
nessuno. Nemmeno i volontari o quelli del quadro permanente. Nemmeno il
sergente o il capitano. Il loro non è un sorriso. È una smorfia. Come quando ti
pestano un piede e tu non vuoi far vedere che ti hanno fatto male. È gente che
guarda la vita negli occhi e le urla in faccia: "Non mi hai fatto niente!". Sorridere
è un'altra cosa.
Come la luna, anche la libera uscita ci fa male. Serve solo a farci soffrire di più.
Perché ci ricorda che fuori c'è il mondo. Quello vero. Che sarà pure brutto, ma è
sempre meglio che qui. Dove è tutto marcio come questo verde. Un verde
senz'anima. Come quei pennarelli che non colorano più, sai? È tutto così. La
divisa, il basco, la camicia, la cravatta; la camerata. La pelle del sergente, gli
occhi del capitano. Un verde bile, marcio come il rancio. Di quello è meglio se
non te ne parlo. Potresti vomitare da lì. Ti dico solo che l'altro giorno c'erano
polpette al sugo. Il coltello ci sbatteva sopra come uno scalpello su un muro. A un
certo punto ho rovesciato il piatto e non è caduto niente! Ti rendi conto? Né un
pezzo di carne, né una goccia di sugo. Niente.
Tutti mi guardavano ma nessuno ha fiatato.
La gente del paese ci scansa e qualcuno ci odia pure. E capirai: mille anime e
più di seicento militari! I vecchi non ci sopportano perché gli ricordiamo la guerra
e, ancora di più, perché gli ricordiamo che sono vecchi; i giovani perché dicono
che gli rubiamo le ragazze. Figurati: io, comunque, non le guardo nemmeno. E
inutile che fai quella faccia: non le guardo nemmeno: giuro! Ricordati quello che
ti ho detto allo Zodiaco! Le ragazze ce l'hanno con noi perché, prima o poi, ce ne
torniamo a casa, mentre loro restano qui, tra vecchi rimbambiti che puzzano di
vino già alle sette della mattina e ragazzi che non le vogliono più, magari solo
perché si sono fermate a parlare o a fumare con noi.
Ce n'era una che aveva preso una scuffia per uno di Lecce. Lo aspettava fuori
dalla caserma tutte le sere. Lili Marleen, l'avevamo soprannominata. Dopo una
settimana di questa storia è venuto il fratello, l'ha caricata su un treno e l'ha
portata a Milano. Roba da Medio Evo. E poi dicono tanto del Sud. Qui è ancora
peggio. Le madri non ci possono vedere perché andiamo con le loro figlie, le
"illudiamo", gli facciamo credere chissà che e poi... chi s'è visto s'è visto. Il
tizio/del bar non fa che lamentarsi che facciamo casino, sporchiamo il locale e
roviniamo il panno del biliardo. Tiene più al panno del biliardo che alla purezza di
sua figlia. Forse perché sa che sul biliardo si sono appoggiati meno uomini che su
di lei! I carabinieri non fanno altro che dirci "vi teniamo d'occhio" e pure il
parroco non ne vuole sapere di noi. Pensa che a Pasqua ha organizzato una messa
solo per i militari. Altro che gabbie salariali, qui ci sono le gabbie spirituali.
Insomma: dentro stai male perché stai male e fuori stai male perché fanno di
tutto per farti stare male. Così quando sei dentro, non vedi l'ora di uscire, per
respirare un po' d'aria normale. E quando sei fuori, pensi che fa tutto schifo anche
fuori e tanto vale rientrare, almeno dentro lo sai che fa tutto schifo e non ti aspetti
niente. E, se non altro, allo schifo non si aggiunge anche la delusione. Secondo
me ce le mettono apposta le caserme in posti così. Così uno è talmente schifato
dalla vita di fuori che - schifo per schifo - preferisce restarsene dentro. Questa
vita, se non altro, non ti delude. Lo sai che è uno schifo e non ti aspetti niente. E,
alla fine, magari firmi pure. Piuttosto che firmare io mi taglierei le mani. Anche a
costo di non disegnare mai più.
C'è solo un posto dove riesco a respirare. Un vecchio magazzino. Una specie di
garage abbandonato. A nord del campo, ai piedi della collina. Vicino al recinto col
filo spinato. Filo spinato: ti rendi conto? Non ci va mai nessuno. Ho trovato delle
latte di vernice. Roba che stava lì da chissà quanti anni. Avanzi di qualche lavoro.
Qui c'è sempre qualche lavoro da fare. Di giorno si fa e di notte si disfa. Come la
tela di Penelope. Il giorno dopo si ricomincia daccapo. Ho portato le latte in
questa specie di garage e ho cominciato a dipingere noi. Pensa che stupido:
all'inizio non volevo dirti niente. Così le faccio una sorpresa, pensavo. Ma che
razza di sorpresa vuoi che ti faccia? Tu non verrai mai qui. E, anche se venissi,
non entreresti mai in caserma e non potresti certo vedere questa parete. Tanto vale
che te la racconto...
Dipingo il nostro primo giorno. Il Tevere. I muraglioni. Le foglie dei platani. Il
ponte degli angeli. Il cupolone. Il tramonto. È sciocco, lo so. Ma, mentre dipingo,
sono lì. Non qui. Tu mi guardi. Sorridi. E io ti parlo. Ti racconto la nostra vita.
Faccio progetti. Perché l'unico rimedio al presente è il futuro. Appena finito di
dipingere il tuo viso non ho resistito. D'istinto ho appoggiato le mie labbra alle
tue. Non ne potevo più. C'ho messo un po' prima di capire che stavo baciando il
muro. Che scemo. Se mi beccano, mi chiudono dentro, buttano la chiave e mi ci
lasciano marcire. Ma non importa. Qui, sul Lungotevere, con i tuoi occhi negli
occhi, la tristezza non mi prenderà mai. Sogno. Tu sostantivo; io verbo.
Ti amo. Con tutto l'amore che posso.
15
Aspettare? Ancora?! E cosa?!! Che la vita le passasse sotto il naso, come aveva
fatto con i suoi, e ritrovarsi a pensare, parlare e vestire come loro? O, peggio:
svegliarsi una mattina, guardarsi allo specchio e trovare una sconosciuta seduta
sulla sua sedia, che si spalma l'antirughe sul viso e fissa senza espressione il fondo
inanimato della stanza, riflesso nel vetro? E nel frattempo? Cedere all'inganno di
questa eterna vigilia? Di una vita nella quale il tempo si consuma nell'attesa di un
futuro solubile come caffè, che si fa passato, nello stesso istante nel quale sfiora il
presente? Prima era stata la licenza media; ora era la maturità. Dopo di che ci
sarebbe stata l'università e poi, naturalmente, la laurea. Quindi un lavoro, niente di
definitivo, s'intende. Un impegno onesto e dignitoso, per tenerla occupata il
tempo strettamente necessario a incontrare non un uomo, ma un marito. Qualcuno
per il quale essere non amore, ma amante; non compagna, ma governante; non
donna, ma fattrice. Nulla per sé: tutto per lui. Naturalmente, solo fino all'arrivo
dei figli, per aggiungere qualche altro nome all'interminabile lista dei predatori
del suo tempo. E lei? Che fine avrebbe fatto lei? Le parole di sua madre, quando
aveva provato a chiederle quale sarebbe stata la sua parte nella sua vita, erano
state sin troppo chiare. "La tua parte?" le aveva risposto. "Che significa la tua
parte"? E nemmeno da suo padre Giulia aveva ottenuto maggior conforto:
"L'università, il lavoro, la famiglia e i figli" le aveva detto "sono parte della vita.
Per te, come per tutti!". Appunto, pensava lei: una parte, non l'intero! E il resto?
Dov'è il resto? E, soprattutto, come potrà mai esserci un resto, se non ci sarà mai
il tempo per viverlo? Vivere così non avrebbe avuto alcun senso. Sarebbe stato
come pagare il conto del ristorante senza nemmeno aver cenato. Né sua madre, né
suo padre avrebbero mai accettato di pagare per qualcosa che non avevano
consumato. Ne era certa. Perché, allora, avrebbe dovuto farlo lei? E quando si
sarebbe, finalmente, potuta riappropriare di tutto quel tempo che la liceale,
l'universitaria, la dottoressa, l'impiegata, la moglie e la madre le avrebbero
strappato? Mai. La vita non arriva mai, pensava. Passa, ma senza fermarsi. Che
senso aveva, dunque, aspettare ancora? Nessuno. Doveva muoversi. Andare.
Fosse stata anche l'ultima cosa che faceva, doveva saltare su un treno,
attraversare l'Italia e raggiungere Andrea. Un pomeriggio, una sera, una notte,
un'ora, un minuto: non importava. Non conta quanto: conta come. Stringerlo,
abbrac ciarlo, ascoltare il suo fiato su di sé e la sua voce alterargli il cuore.
Saccheggiargli occhi, labbra e capelli. Si sentiva lei soltanto insieme a lui, ed era
stanca di essere qualcun altro. Si sarebbe messa d'accordo con Irene. Era la sua
amica: l'avrebbe coperta. Un week-end al mare, per preparare l'interrogazione di
filosofia: sarebbe stata questa la versione ufficiale pro-genitori. Dopotutto non era
la prima volta. Quella pazza della Strabini interrogava ogni volta su tutto il
programma. E poi, quello era l'anno dell'esame di Stato! Si trattava solo di
studiare bene il momento. Bisognava lasciar calmare un po' le acque. Aspettare
che il livello della tensione si abbassasse. Senza, però, apparire improvvisamente
remissiva. La cosa avrebbe destato sospetto. La solita Giulia, insomma. Solo un
po' meno aggressiva. E un po' più furba.
Per aspera, pensava... Soldi ne aveva. La nonna le aveva lasciato qualtfhe
spicciolo. "Per le emergenze" le aveva detto sorridendo. Se non era emergenza
quella!
Più vorresti che passasse, più lui resta lì. Accanto a te. Immobile. Braccia
conserte. Sorriso beffardo. Sguardo gelido.
Solo lui ha tutto il tempo che vuole. È per noi che passa, non per sé, il tempo.
Fissava Andrea attraverso le sbarre del presente, come un secondino fissa un
ergastolano perso nei suoi tre metri cubi di nulla, nel braccio delle condanne a
vita. Di condanna a vita, infatti, si trattava. Condannato a vivere senza Giulia.
Quindici mesi senza di lei. Impossibile immaginare pena più dura.
"Vediamo chi si stanca prima" pensava il tempo. "Tu di me o io di te."
"Vediamo" pensava Andrea. Ma non abbassava lo sguardo. Anzi gli cercava gli
occhi. Ovunque.
Nell'asfissiante desolazione della camerata, tra ronzii di neon ospedalieri,
umore di corpi, stridore di brande e armadietti; nelle pupille cariate di
commilitoni costretti a dividere tutto senza condividere niente; nella piazza
d'armi, sferzata da un vento che faceva lacrimare, in fila come cipressi votati a
ornare cigli di strade senza uscita; nella raucedine di sigarette rubate all'aspra
inutilità di corvée senza senso; nel verde, marcio come i pensieri, delle camicie
del capitano Reggiani, sempre un paio di taglie in meno del dovuto, perché il
petto sembrasse mina antiuomo, pronta a deflagrare di fronte allo sguardo non
ancora svezzato delle anime incompiute; nella babele di lingue, dialetti, idiomi;
nel vociare rissoso di gesti e parole; nell'assordante silenzio di pensieri. Cercava
gli occhi del tempo, perché finché loro avessero incrociato i suoi, avrebbe voluto
dire che lui era ancora lì, ancora la persona che era, e quell'opera di demolizione
delle coscienze della quale lo Spielberg e il suo capitano erano incaricati non
aveva funzionato. Non con lui. Il tempo lo sapeva. Era Andrea che aveva bisogno
di non dimenticarlo. Di non dimenticarlo mai.
Non ne poteva più. Il peso dell'assenza cresceva a ogni istante. E l'idea che un
giorno passato fosse un giorno in meno da scontare, non riusciva ad alleggerire la
tensione.
Anzi. Più andava avanti, più guardava indietro. E più il tunnel sembrava lungo
e freddo. Nessuna luce segnalava l'approssimarsi dell'uscita. Posto maledetto.
Solo vuoti a perdere. Né anime, né sogni, né pensieri. Tutto ciò che sapeva di
uomo doveva rimanere al di là della sbarra mobile della porta carraia. Persino al
futuro era negato l'accesso. Lo Spielberg - mai soprannome era stato più
azzeccato per una caserma - era l'unico angolo di pianeta abitato da un eterno,
inanimato, presente. Come per il giardino del Gigante, quale che fosse la stagione
al di là del limite invalicabile di un perimetro guarnito di filo spinato e altane,
nella Silvio Pellico era solo vento, neve, grandine e ghiaccio.
Le lettere di Giulia non arrivavano mai. E quando arrivavano - di solito, due o
tre insieme - tre quarti di quello che c'era scritto aveva ormai perso senso e valore.
Le parole erano invecchiate lungo la strada, tra buche delle lettere, sacchi postali,
treni, furgoni, nastri trasportatori, biciclette e borse di cuoio. E quando finalmente
un graduato urlava "Tommasiii!", brandendo le buste col ghigno predatore di chi
stringe tra le mani il destino di un altro uomo, tutto quello che doveva succedere -
o che non sarebbe mai dovuto succedere - era già successo. Impossibile
cancellare. Impossibile riscrivere. Ogni presente doveva essere declinato al
passato. Ogni futuro trasformato in imperfetto. Nulla poteva più perdersi,
annullarsi o mutare. E non c'era alcun destino da stringere. Andrea afferrava le
buste senza fretta e cercava un angolo nel quale ritrovare le uniche cose che i fogli
erano riusciti a conservare: la fragilità di vetro soffiato della voce di Giulia e la
fragranza di gelsomino sul punto di sbocciare della sua pelle. Ammonticchiate
una sull'altra nell'armadietto accanto alla branda, le buste misuravano la distanza
che li separava. Distanza incolmabile.
Due volte la settimana per Andrea si apriva la caccia ai gettoni. Merce rara.
Valore altissimo. E prezzo ancora più alto. In molti erano disposti a qualunque
cosa pur di metterne insieme un numero sufficiente per un'interurbana.
Allo Spielberg solo due monete avevano corso legale: sigarette e gettoni. Al
mercato nero, il cambio era favorevole ai gettoni. Tre paglie un bronzo, se
chiamavi la ragazza. Due, se chiamavi casa. Era questo il tasso ufficiale prima di
una telefonata. Tasso che poteva anche salire di due o tre paglie, in caso di
telefonata particolarmente importante. Barare? Escluso. Se ti beccavano - e ti
beccavano - rischiavi di non vedere un gettone per settimane. Certo c'era sempre
la possibilità di telefonare da fuori. Ma eri vincolato agli orari della libera uscita.
E poi dovevi farti più di venti minuti di corriera per raggiungere il paese. Costi e
tempi lievitavano, senza alcuna certezza riguardo al risultato.
Quando riagganciavi, il valore del gettone scendeva. Di solito in rapporto agli
esiti del colloquio. Non dare pubblicità ai sentimenti era, dunque, la prima regola.
Se la telefonata era andata bene, e la sigaretta non era che facoltativo
coronamento del dopo, il valore del gettone scendeva di poco.
Se, invece, fumare serviva a rimettersi in sesto, allora si riduceva
sensibilmente. Ma la quotazione crollava del tutto, se la telefonata era stata un
disastro e si trattava di raccogliere i cocci di sé. Quando il barometro segnava
tempesta, però, le contrattazioni venivano bloccate. Eccesso di ribasso. E la
strappacore^ salvavita veniva offerta da qualche samaritano. Lì per lì non te ne
rendevi conto, ma era quella la sigaretta più cara. Costava un favore.
Le code al telefono erano interminabili. Di quattro apparecchi a gettone ne
funzionava uno solo. Potevi passare ore a battere denti, braccia e stivali, in attesa
che arrivasse il tuo turno. E magari alla fine di quel calvario, quando Andrea
chiamava, Giulia non era nemmeno in casa. O la madre la marcava così stretta,
che lei non poteva parlare e lui doveva accontentarsi di monosillabi. Evasivi e
distanti. Oppure erano entrambi così tesi e stanchi, che sarebbe stato molto meglio
che non si fossero sentiti affatto.
Ogni volta che, dal fondo inanimato di una camerata, la radio che una mano
impietosa aveva lasciato accesa cantava La lontananza, Andrea non poteva fare a
meno di chiedersi se, come il vento, fa davvero dimenticare chi non s'ama.
Il tempo di Giulia senza Andrea era terra di conquista e razzie. Tutti si
sentivano in diritto di occuparlo e saccheggiarlo. Ma, soprattutto, tutti
pretendevano di sapere esattamente come si sentisse e di cosa avesse davvero
bisogno.
Non lo sapeva lei: come potevano saperlo loro? La gente dà ciò che ha, non ciò
che serve. Il che non sarebbe nemmeno così grave, se poi non si offendesse
quando cerchi di spiegare che è altro ciò di cui hai bisogno. Sempre la solita
storia, pensava Giulia: ti manca un "chi", ti offrono un "cosa".
E più sentono che quel "chi" ti manca, più cose ti offrono.
Come se tutto si riducesse a una questione di quantità. E il punto fosse tenere a
tutti i costi in equilibrio i piatti della bilancia. Senza accorgersi, però, che si tratta
di bilance diverse. Aveva ragione il suo maestro: non si possono sommare pere e
banane! Verità elementare. Perché gli altri non la capivano? Erano assenti quando
lui la spiegava? Come fanno - si chiedeva - a non rendersi conto che nemmeno
mille "cosa" riusciranno mai a sostituire quel solo, semplice, "chi"? E avevano il
coraggio di spacciarla per attenzione!
Quella non era attenzione. Al contrario: era disattenzione.
Disattenzione totale. Non pensavano affatto a lei. Pensavano a se stessi. Forse
perché non riuscivano a rinunciare al miele della rivincita. Nessuno resiste alla
tentazione di governare l'altro. Perché governare è possedere. Lo avvertiva per
l'eccesso di insistenza nel chiedere, l'ascoltare frettoloso e finto, e per l'accento
imperativo che certi suggerimenti finivano con l'acquisire. Le difficoltà degli altri
ci fanno sentire meglio. Pazienza se questo non significa anche migliori. Tanto
basta. Prevaricazione, ecco cos'era. Della peggiore specie: sottile e subdola. La
pretesa di sovrapporre la propria esperienza a quella di un altro. Come se
l'esperienza fosse universale. E, ancora di più, come se fosse trasferibile. Non
cura: accanimento terapeutico.
Tutti avevano la ricetta giusta per aiutarla a "elaborare il lutto" - come aveva
detto quel genio di Niko - ritrovare la serenità e impedirle di lasciarsi trascinare
nel pozzo senza fondo della solitudine. Giulia, però, temeva l'assenza, non la
solitudine. Andrea era con lei, anche se li separavano un numero incalcolabile di
traversine e chilometri di cavi telefonici. E Giulia cercava la solitudine. Non
sempre da soli si è soli. E poi, senza Andrea, si sarebbe sentita sola anche la notte
di Capodanno al centro di Times Square, in mezzo a un milione di anime
deliranti. Tanto valeva che sola restasse davvero. Se non altro sarebbe stato tempo
speso insieme all'unica persona che in quel momento la capiva; che sapeva
davvero cosa provava; che sentiva quando aveva bisogno di silenzio e quando di
parole. E di quali parole. Qualcuno che l'amava nel senso semplice, profondo e
irraggiungibile di quel verbo. Senza movente, senza condizioni, senza prezzo.
Senza fine. Senza se e senza ma.
Senza perché. Così, come dev'essere l'amore: senza attributi. Qualcosa che non
ha bisogno di nient'altro per essere spiegata. E che, anzi, a ogni aggiunta perde
qualcosa. Perché ogni definizione è limite.
E, poi, tutte quelle parole. Troppe! Troppe e tutte fuori tempo. E sua madre, che
improvvisamente trasudava un'empatia maldestra e sospetta. I grandi sono
davvero assurdi, pensava Giulia. Non conta cosa fai: conta quello che vedono/
Prima, che studiavo come un mulo per avere un po' di tempo da passare con
Andrea, era: "Sei sempre in giro! Mai che ti vedessi con un libro in mano!
Ricordati che quest'anno hai gli esami!". Ora, che ho il cuore sotto le scarpe e i
pensieri sbattono ovunque come uccelli impazziti, che si posano dappertutto
tranne che sui libri, è: "Studi troppo"; "Dovresti uscire ogni tanto... svagarti un
po'..."; "Alla tua età non si può stare tutto il giorno in casa, sui libri...". Folle. E
anche un po' ridicolo.
Nemmeno Irene e Niko capivano. L'amore è incomprensibile a chi non ama.
Non li aveva mai visti così. Mai sentiti così vuoti e distanti. Non capiva: era lei
che si stava allontanando da loro o erano loro ad allontanarsi da lei? E proprio
adesso? Adesso che avrebbe avuto bisogno di dividere dubbi e paure, se non altro
perché pesassero meno e portarli diventasse meno faticoso. Adesso, che avrebbe
voluto appoggiarsi alle loro parole, come tante volte loro si erano appoggiati alle
sue. Niente da fare. Sembrava facessero a gara a chi restava più in superficie.
"Chiodo scaccia chiodo"; "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore"; "Chi muore
giace e chi vive si dà pace"; "Quando si chiude una porta, si aprono una porta e
una finestra", "In guerra e in amore tutto è permesso"... Non uno dei luoghi
comuni che affollano l'inesauribile campionario della stupidità le veniva
risparmiato.
Le parole sono tutto, pensava Giulia. Se non possono essere tutto, è meglio che
rimangano silenzio. L'amore vuole silenzio. Silenzio o parole d'amore. Perché è
un donatore universale. Può donare a tutti, ma ricevere solo da quelli del suo
stesso gruppo.
La sua Itaca era ancora lontana. Troppo. La navigazione, ogni giorno più
difficile. Le insidie, sempre più temibili e frequenti. Ogni voce era canto di sirena.
Giulia si era fatta legare all'albero di maestra. Cuore e coscienza avevano avuto
ordine di non slegarla. Mai. In nessun caso. Per nessun motivo. Per quanto lei
potesse pregarli e implorarli. E lei implorava e pregava. Ma loro si erano colati
cera calda nelle orecchie e non sentivano. Né lei. Né le sirene.
Solo Marco le stava vicino nel modo giusto. Passava, ogni tanto, all'uscita di
scuola. Le sue apparizioni avevano una qualità che si faceva apprezzare al di
sopra di tutto: non tradivano mai i connotati della premeditazione. Nemmeno in
controluce. A volte, si fermava qualche minuto a parlare. Parole libere. Leggere e
luminose, come il sorriso che le accompagnava. Parole a mani nude. Non
nascondevano armi. Non celavano offesa. Altre volte, le dava un passaggio fino a
casa. Era attento, ma non invadente. Discreto, non distante. Complice, ma non
intrigante. Il suo sguardo aveva perso quella rigidità che a suo tempo l'aveva
disorientata e le sue parole non suonavano più così sorde come all'inizio. Anzi.
Parlargli era come aprire la finestra: cambiava l'aria. Faceva bene. Era l'unico dal
quale non si sentisse inseguita, inquisita, insidiata. Con lui poteva parlare.
Di tutto. Senza limiti. Dei problemi con i suoi, della scuola, della distanza che
sentiva crescere tra sé e quelli che aveva sempre considerato i suoi amici. E del
sedimento di disagio che tale distanza depositava nei suoi pensieri. Del bisogno di
nuovi rapporti, nuovi spazi, nuovi orizzonti. Del futuro che, improvvisamente,
stava accelerando e si avvicinava a una velocità che aumentava di giorno in
giorno.
Futuro che non aveva mai sentito così vicino e dal quale, per la prima volta,
avvertiva il bisogno di non farsi trovare impreparata. Il futuro non è come la
scuola: non prevede esami di riparazione. Non sapeva ancora come, ma sapeva
che il tempo che l'attendeva dietro la porta doveva essere il suo tempo. Lui
avrebbe dovuto appartenere a lei. Non lei a lui. Con Marco poteva parlare anche
di Andrea. Il futuro avrebbe davvero avuto i suoi occhi, le sue mani, i suoi
capelli? Il timbro determinato, ma ancora acerbo di quei pensieri? Il passo veloce,
ma senza bussola del suo camminare? La forza viva, ma scomposta e fragile delle
sue idee?
Marco ascoltava. Senza sbuffare, senza alzare gli occhi al cielo, senza lasciarsi
andare all'ironia sciatta di Niko o al risentimento al quale Irene sembrava
incapace di rinunciare. Ascoltava. Capiva. Consigliava. Consolava. Un amico. I
suoi erano pensieri che facevano pensare e lasciavano un piacevole retrogusto di
leggerezza. Esattamente ciò che mancava da quando, un giovedì di non ricordava
più quante settimane prima, aveva sfiorato per l'ultima volta la mano di Andrea
sulla banchina di Termini.
Una sera lei, Niko e Irene avevano incontrato Marco in pizzeria. Festeggiava il
compleanno di un amico. Avevano unito i tavoli e la serata era finita a Coca Cola,
panaché e risate che avvicinano. Si sarebbero rivisti. Tutti insieme. La domenica
successiva. Due passi al parco, un cinema, un salto al mare. Non sapevano cosa.
Avrebbero lasciato decidere al tempo. Prima di cena, però, sarebbero rientrati tutti
alla base. Marco doveva finire di preparare un esame importante e il lunedì
seguente loro avrebbero avuto un compito in classe di greco. Ha ragione papà,
pensò Giulia. Il tempo doveva passare: che senso aveva passarlo male? Anzi. Più
fosse stato sereno, più sarebbe passato in fretta. Non era, forse, lei quella che si
lamentava sempre del fatto che, quando ci sentiamo giù, il tempo non passa mai?
"Stai su!" le aveva detto, indossando ancora una volta gli occhi del ragazzo.
"Tu starai meglio e lui passerà più in fretta." Ragionamento inattaccabile. Il
primo che era riuscito a intaccare i sensi di colpa. Per cosa, poi, avrebbe dovuto
sentirsi in colpa? E perché? Tra lei e Marco c'era solo amicizia. Un'amicizia in
costruzione. Aperta, intensa, appassionata, certo. Ma solo amicizia. E poi scriveva
ad Andrea quasi tutti i giorni. E a parte l'ultimo mese, nel quale nulla era andato
per il verso giusto - si erano sentiti al telefono almeno due o tre volte la settimana.
La lontananza - pensava Giulia - è come il vento: spegne i fuochi piccoli e
accende quelli grandi.
Andrea non ne poteva più. I mesi passavano e lui non era ancora riuscito ad
avere un giorno di licenza. Lettere e telefonate tamponavano, ma non bastavano.
Doveva vederla. Rischiare. Giocarsi il tutto per tutto. Ne avrebbe parlato con
"Napoli", compagno di branda e corvée. L'unico col quale era riuscito a scambiare
qualcosa di più dello squallore grigioverde dello Spielberg. Lo avrebbe convinto.
Di lui si poteva fidare. E poi glielo doveva: con tutte le volte che era stato il suo
samaritano... Una volta tanto, sarebbe stato Salvatore: di nome e di fatto! Aveva
pensato a tutto.
Una sorpresa. Avrebbe dormito in treno. Poi tram, un salto a Porta Portese, per
rimediare qualcosa da mettersi al posto della divisa, e via da lei. A casa sarebbe
passato dopo.
Mica lo aspettavano. Saluto al volo, altro treno e via. Un trentasei sarebbe
bastato. Meglio, però, un quarantotto. Due pernotti. Che diavolo saranno mai due
notti fuori dalla caserma? Mica disertava. Lunedì mattina, per l'adunata, sarebbe
stato di nuovo al suo posto. Fresco come una rosa. Il maresciallo avrebbe chiuso
un occhio. Era l'unico che, nei momenti di bonaccia, ricordasse un essere umano.
E poi: lui non stava forse dando ripetizioni - gratis! - a quel deficiente di suo
figlio?
Se la lontananza è vento, la vicinanza è uragano. La sua voglia di Giulia era
talmente forte, che Andrea la vedeva ovunque. In ogni profilo, in ogni nuca, in
ogni schiena che ondeggiava curiosa tra i banchi del mercato. In ogni postura,
ogni passo, ogni gesto. Ogni volta che l'orizzonte inciampava nel fieno di capelli
come i suoi; ogni volta che qualche nota di mughetto, spuntata da chissà dove,
rianimava l'aria priva di sensi del confine tra fiume e città; ogni volta che un
lampo grigio-azzurro, riflesso su un vetro, una lamiera o un paio d'occhiali gli
riportava il guizzo caldo e inebriante del suo sguardo. Ovunque. Nel tempo che
stringeva avidamente tra le mani, in quello che lasciava cadere, in quello che era
sul punto di raccogliere. Nell'inestricabile boscaglia di oggetti, gli stessi ai quali
chiediamo di puntellare la nostra vita, nell'illusione che un po' della loro
immortalità trasudi nel nostro presente. Tra riviste di ogni sorta accatastate su
bancarelle improvvisate, nella silhouette della ragazza che sorrideva dalla
pubblicità della birra, sulle copertine dei trentatré giri, che facevano capolino da
scatole con un passato che parlava di scarpe e detersivi, tra poster di film andati,
libri usati, cineserie, lampade, cornici, jeans, scampoli di stoffa, accessori d'auto.
Tra... tra le braccia di un altro. Quella, però, non era una visione. Quella era lei!
Lei, insieme a... Marco! Non è possibile, pensò Andrea.
Non è possibile! Chiuse gli occhi, si passò le mani sul viso, come a strappare
via vista e pensieri. E si guardò intorno ancora una volta, per dare alla realtà la
possibilità di allinearsi alla verità. E, allora di nuovo: riviste, ragazza della birra,
dischi, poster, libri usati, cineserie, lampade, cornici, jeans, stoffe, accessori d'auto
e... loro, loro, loro! Di nuovo loro!! Nessuno sbaglio. Nessuna distanza tra realtà e
verità. Marco la teneva sottobraccio, la stringeva, le accarezzava i capelli. Giulia
si lasciava tenere, stringere, accarezzare. E sorrideva. Andrea conosceva
benissimo quel sorriso.
Il sorriso della forza e della fragilità, dell'attenzione e della curiosità, del darsi e
del ritrarsi. Il loro sorriso. Come poteva rivelarlo a un altro? Offrirglielo, dividerlo
con lui, come un sorriso qualunque: uno di quei sorrisi senza profondità, senza
valore, senza storia, che non si negano a nessuno? Più le labbra di Giulia si
aprivano, più la pelle del cuore di Andrea si strappava. Bastardo! Non vedeva l'ora
che lasciassi libero il campo per farsi avanti. Non ha perso tempo. Ha aspettato
che la sua preda rimanesse sola e indifesa. E che la solitudine facesse il resto. Non
m'è mai piaciuto. Mai! Con quella sua aria perfettina. Sempre in ordine, pulito,
profumato. Non un capello fuori posto, non un pelucco sul maglione, non un
graffio sulle College. Bella famiglia, bella casa, bella macchina. Bel passato, bel
presente, bel futuro. Bella testa di cazzo! Sicuramente la signora Vittoria non avrà
niente da ridire su di lui. Anzi. Mi sembra già di sentirla: "Sono contenta che
frequenti Marco".
Scommetto che il suo nome l'ha imparato al volo. Il mio, invece, non lo
ricordava mai. E, ogni volta che le toccava pronunciarlo, trovava sempre il modo
di storpiarlo. Sono sicuro che non fa fatica a dire il suo. Anzi, le piace. Le piace il
modo nel quale le riempie bocca e pensieri. Lo sorseggia, come il brandy
stravecchio che conserva nell'angolo bar per quelle cariatidi delle sue compagne
di bridge. Già la vedo, seduta alla toletta, mentre stende il rossetto tra le labbra,
chiude lo stick, lo infila nella borsetta e sorride: "Si vede" dice guardando Giulia
attraverso lo specchio "che è una persona come si deve. Un ragazzo a modo.
Serio. Pulito. Di buona famiglia. Uno con le idee chiare, la testa sulle spalle e un
futuro importante davanti a sé. Uno di noi.
Altro che quel... come si chiamava? Ah, sì... Andrea. Un ragazzo sciatto,
strafottente, volgare. E anche maleducato.
Avresti dovuto sentire con che voce mi parlava al telefono!
Uno senza arte, né parte. Con quei capelli, poi! Credeva di aver trovato
l'America, ma, si sbagliava!".
Marco e Giulia camminavano fianco a fianco. Quella complicità appena
pronunciata lo uccideva. Lui mostrava sicurezza, ma senza ostentazione. Parlava e
gesticolava con il distacco di chi ha trovato quello che cerca. Trovato e preso. Lei
gli stava a fianco come se fosse finalmente consapevole che era quello il suo
posto. Come se si conoscessero e si frequentassero da sempre. Come se,
nell'araldica e nelle stelle, fosse scritto che erano destinati a camminare per
sempre l'uno sottobraccio dell'altra. Stronzo lui e più stronzo io, che ho creduto
che una come Giulia potesse davvero pensare a uno come me! Avrei dovuto
capirlo. Aveva ragione Leo: ognuno è figlio del suo mondo e nasce e muore nel
suo mondo. Invece, non ho guardato. Anzi: ho guardato e non ho visto. Non ho
voluto vedere. Eppure i segni c'erano tutti. Bastava vedere come veste sua madre.
Una che ha una stanza al posto del guardaroba e che è capace di cambiarsi le
scarpe persino tre volte al giorno. Mia mamma non potrebbe farlo tre volte in un
anno, nemmeno se volesse. Bastava sentire come parla suo padre. Uno che
ragiona per articoli e commi: un codice. E i giornali che compra? Non gliene
basta uno? E poi che senso ha leggere solo la stampa che la pensa esattamente
come te? Non è cultura: è paura! E i mobili di quella casa? Più della metà non si
sa cosa sono, né come si chiamano. E non si capisce nemmeno a cosa servono.
Anzi, si capisce benissimo: servono a niente. Ci sono. Punto. È a Centocelle che i
mobili servono; a Prati i mobili esistono! Non occupano spazio: lo creano. Ogni
volta che ci penso mi viene in mente John Lennon, quella volta che i Beatles
hanno suonato davanti alla Regina Madre: "Quelli dei posti economici possono
battere le mani. Gli altri facciano tintinnare i loro gioielli". Quelle come la signora
Vittoria, non battono le mani: fanno tintinnare i gioielli. E non sorridono. Mai.
Mostrano i denti. Tutt'altra cosa. Alta tensione. Chi tocca i fili, muore. Quello sì
che è un limite invalicabile: altro che il filo spinato dello Spielberg! Adesso
capisco perché Giulia mi ha sempre tenuto a distanza dai suoi amici. Amici, poi.
In un mondo così, non c'è posto per gli amici. Quello è un mondo di squali. E, tra
loro, gli squali si temono, non si amano. I miei amici non sapranno parlare, non
sapranno vestirsi o accoppiare i colori, ma, almeno, se dicono "no" vuol dire "no",
se dicono "sì" vuol dire "sì" e se dicono "vaffanculo" vuol dire "vaffanculo". Non
dico che da noi le cose sono migliori - la vita è vita ovunque - ma sono senz'altro
più chiare. Non sono come Leo. Non penso che i poveri siano buoni e i ricchi
cattivi. Ma una differenza c'è. Loro aprono la porta; gli altri la chiudono. Solo chi
non ha sa cosa vuol dire dare ed è capace di farlo. Chi ha, non lo sa, e non dà. Per
questo ha.
E forse proprio per questo i ricchi restano ricchi e i poveri, poveri. E, come dice
don Franco: "A chi ha sarà dato e a chi non ha, sarà tolto anche quel poco che ha".
Giulia temeva il contagio. Quello dei suoi amici, non il mio. E soprattutto,
temeva il loro giudizio. "Carino il tuo amico: come si chiama? Che fa? Dove
abita?" Per le prime due domande, non avrebbe avuto problemi. Alla terza, però,
non avrebbe mai potuto rispondere. Cosa gli diceva? Che vengo da Centocelle?
Capirai: quelli manco sanno cos'è Centocelle. Per la gente come quella il mondo
comincia a piazza Mazzini, passa per piazza Risorgimento e finisce a piazza
Cavour. Il resto è deserto. "Hic sunt leones" come nelle vecchie mappe. A parte
Parioli e Balduina, naturalmente. Dove, però, stanno i parvenu. Colleghi di censo,
non di blasone. Sopportati, non accettati. Per tutti, però, Centocelle e Regina
Coeli sono la stessa cosa. Sempre di celle si tratta. E, dunque, chi le occupa, non
può che essere un delinquente. E nella sua cella deve vivere. E morire. L'unico
modo che io e Giulia avremmo avuto per trovarci, sarebbe stato perderci. Io avrei
dovuto rinunciare al mio mondo. Lei al suo. Ma quanto sarebbe durata? Quanto
possiamo spingerci lontano da noi stessi, continuando a rimanere quelli che
siamo? E per quanto tempo? E quanto tempo avremmo resistito io e lei da soli? Io
contro il mio mondo; lei contro il suo? Ci si può amare a dispetto di tutto e tutti?
Ne vale la pena? E, soprattutto: ha senso?
Maledetta naia, maledetto Marco, maledetta Giulia. Maledetta Centocelle,
maledetto Prati, maledetto me. E maledétto amore. Perché non scompari? Perché
non ti uccidi?
Perché? Perché?! Perché?!! Perché Giulia? La mia Giulia. Che fine hanno fatto
tutti quei discorsi sul fatto che lei era diversa, che io ero diverso, che noi eravamo
diversi? Che nessuno era come noi e nessuno sarebbe mai stato come noi, perché
nessuno aveva, né avrebbe mai avuto, un amore come il nostro? E dov'è finito,
allora, tutto questo amore? Possibile che sia scomparso, come una tromba marina
che si dissolve, all'improvviso e senza motivo, appena tocca terra? E dove siamo
noi? E dov'è la faccia pulita, apparsa come una visione nella specchiera del bar?
Un angelo che ti chiede se hai da fumare e subito dopo si scusa, perché pensa di
essere stata troppo sfacciata. La Giulia che un momento prima ti dà lezioni di
botanica e un momento dopo si commuove pensando a sua nonna che le legge la
favola del Principe Felice; la Giulia che si fa rincorrere per tutto il Lungotevere
perché tu le chieda scusa per aver fatto il cretino a una stupida festa e,
all'improvviso, ti abbraccia e ti fa ballare, girando sempre*più veloce, fino a
cadere per terra e ti bacia come se nessuno avesse mai baciato nessun altro e i
baci nascessero lì, inf quel momento, sul ventre di pietra dell'isola, mentre fiume e
tramonto giocano a imitarvi e cominciano a scambiarsi le labbra anche loro? La
Giulia serena e rassicurante, che si appoggia alla mia spalla mentre la Due Cavalli
di Leo mette la prua a ore dodici e punta dritta verso il mare; la Giulia che si
rotola sulla spiaggia, che corre, ridendo, sotto un quasi diluvio universale fino a
un capanno e si tuffa fra le mie braccia con la felicità perfetta e senza pensieri di
un bambino che corre verso l'acqua nel suo primo giorno di vacanza; la Giulia
dello Zodiaco, che non fa che chiedermi se quello è il posto nel quale porto le
altre ragazze e che non riesce a non essere gelosa di una specie di ritratto fatto a
un forse-amore ormai morto e sepolto; la Giulia che non resiste e viene a
salutarmi alla stazione, ma se ne resta nascosta fino all'ultimo momento e, solo
quando il treno parte, sbuca fuori e gli corre dietro fino alla fine della piattaforma.
E poi rimane lì, ad annusare la sciarpa di mio padre. L'espressione divisa tra
lacrime e sorriso, sul viso la luce sospesa della città quando piove con il sole; la
Giulia che scriveva "quando sono con te anche le cose più stupide sembrano
bellissime. Mentre quando non ci sei anche le cose che dovrebbero essere
bellissime, sembrano stupide...". Possibile che basti qualche settimana, perché
tutto questo si disperda, come acqua piovana che scivola in un tombino? E perché
io mi sento una barchetta di carta trascinata via da un mulinello di quell'acqua?
Dov'è finita quella Giulia: la mia Giulia? E tu, tu che sei la mia città dimmi: se
questo non è amore, allora cos'è? E cos'è che chiamiamo amore?
Marco e Giulia erano lì. A pochi passi da lui. Così presi l'uno dall'altra da non
accorgersi che Andrea li fissava impietrito. La gente faceva ressa intorno a lui.
Spingeva, urtava, rideva e urlava parole indecifrabili. Solo una radio riuscì a farsi
largo tra la folla. Passava una canzone nuova. Cominciava con la voce del mare.
Sciabordio d'onde su battigia.
Lo stesso mare dal quale Andrea avrebbe voluto essere inghiottito e trascinato
via, per essere risputato su una spiaggia deserta dall'altra parte del mondo. "A
rigà: 'sti Garzoni, li voj o nun li voj?" Andrea guardò il corpo dal quale proveniva
quella voce come fosse la prima volta che vedeva un altro essere umano. Buttò i
jeans sulla bancarella e si allontanò, ascoltando il rumore che fanno i pensieri
calpestati da centinaia di scarpe.
Sull'autobus non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine di Giulia e Marco
insieme. Lui che le accarezzava i capelli. Lei che sorrideva. Uno sguardo, una
carezza, un sorriso.
Possibile che il dolore potesse avere sembianze così amabili? Possibile che
gesti così semplici e innocui potessero ferire così tanto e così in profondità?
Perché in amore è l'ultima risposta quella che conta e non la prima? E perché
l'ultima risposta ha il potere di cancellare tutte le altre? E, insieme a loro, tutte le
attese e gli incontri, i passi e le corse, le cose fatte, quelle desiderate e quelle che
sembrava persino impossibile desiderare, le fragilità e le paure, i pensieri nascosti
e quelli rivelati, l'esserci poco, il mancarsi tanto, il volersi di più, le parole e i
silenzi, i gesti e gli sguardi, i sorrisi, le carezze rubate e la guerra sublime di
labbra e mani? Non riusciva a smettere di pensarci. A cosa doveva credere: ai
propri occhi o alle parole di lei?
Nausea. Questa era la parola. Andrea non vedeva altro. Non sentiva altro. Non
pensava altro. Un esercito di occupazione. Camionette, stivali, cani, armi. La
cittadella dell'anima era sotto assedio. I palazzi dei pensieri, rastrellati. Le
emozioni, deportate. Mancava il fiato. La testa girava. I pensieri si accalcavano,
come folla che cerca di fuggire l'incombere imminente di una tragedia. Come a
piazza del Popolo la mattina della manifestazione. Solo che questa volta non ci
sarebbe stato nessun bar e nessun angelo a chiedergli se aveva da fumare.
Nausea. Dolciastra, penetrante, persistente. Andrea cercava di isolarla. Come
un virus. Se avesse trovato il virus, pensava, prìma o poi avrebbe trovato anche il
vaccino. Ma in quel momento nulla rendeva possibile isolare. Né isolarsi. Era
come se, all'improvviso, qualcuno avesse tirato il freno a mano e il mondo fosse
andato in testa coda. Tutto, intorno a lui, ruotava all'impazzata. Impossibile tenersi
in piedi. Sedette. Guardò fuori dal finestrino. Quella non era la sua città.
Conosceva bene la sua città: lei non gli avrebbe mai giocato uno scherzo del
genere. E, invece, lì, tra palazzi, strade e piazze che vedeva per la prima volta,
ogni ragazzo che stringeva una ragazza era Marco, ogni ragazza che sorrideva era
Giulia. Ogni coppia che passeggiava fianco a fianco, che si teneva per mano, che
si abbracciava e si scambiava occhi e pensieri era Marco e Giulia. E nello sguardo
di ogni donna, Andrea vedeva l'espressione irridente della madre di Giulia:
"Arrenditi" diceva a denti stretti. "Prendi le tue cose, sparisci e non farti più
vedere!
Mai più!" Acqua di mare. Questo è il dolore. Un'onda così forte, che nemmeno
le mani della scogliera riescono a trattenerla. Il vento spazza via tutto. Soffia
l'onda oltre la spiaggia e la lascia lì, stremata, sulla pelle d'asfalto del mondo.
Agonizzante. Inanimata. Maleodorante. Acqua con passato di mare, presente di
pozzanghera e futuro di sale. Ostaggio dell'asfalto. Preda del sole. Quando anche
l'ultima goccia evaporerà, resterà solo sale. Sale che farà bruciare. Bucherà la
pelle e riempirà la ferita del cuore. Una ferita che non si rimarginerà più. E, ogni
volta che sentirai il vento sferzare il mare, la vedrai sanguinare.
Dunque è così che va? pensava Andrea. Chiuse gli occhi.
Cercò di ritrovare il ritmo del respiro. Affannato, come dopo una corsa. Il cuore
pulsava nelle tempie. L'aria graffiava in gola. I pensieri prendevano a testate il
muro della coscienza. Avrebbe voluto non pensare. Solo pochi istanti. Tempo di
riprendere fiato. Assestare le idee. Sedare le emozioni.
Ma come? Ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva loro.
Ogni volta che li apriva, vedeva loro. Forse pochi istanti di silenzio sarebbero
bastati, ma l'autobus era una casbah di braccia, gambe, cappotti, giacche, cappelli,
guanti, sciarpe, foulard, borse e buste della spesa. Un suk a sei ruote che brulicava
di corpi, odori e parole. Parole di niente. Vuote, inutili, prive di senso. Non
valevano nemmeno l'aria di cui erano fatte. Andrea odiava tutto questo. E
soprattutto odiava il modo nel quale la vita riesce a digerire qualunque cosa.
Tutto ciò che non strozza ingrassa, diceva sua madre. Non sopportava
quell'espressione, né il modo nel quale lo stomaco della vita riesce a mandare giù
qualsiasi cosa. Niente fa eccezione. Nemmeno il dolore. La vita è indifferente al
dolore. Per quanto il dolore possa essere grande e straziante, lei non si ferma. Non
si ferma mai. Continua dritta per la sua strada, come se niente fosse. Non rispetta
niente e nessuno. Mors nostra, vita sua. Non rispetta se stessa e meno che meno la
morte. Di lei neppure si accorge. Come nella scena finale del dottor Zivago.
Zivago è sul tram. Lara cammina per strada. Lui la vede. Sono anni che ne ha
perso le tracce. E, improvvisamente, lei è lì. Pochi metri lo separano da lei.
Zivago cerca di aprire il finestrino per chiamarla.
Ma quello non si apre. Cerca di attirare la sua attenzione.
Ma lei non lo vede. Bussa nel vetro. Lei non sente. Chiede al conducente di
fermarsi, di farlo scendere: niente. Finalmente arriva la fermata. Zivago riesce a
scendere. Lara è là: pochi passi più avanti. La insegue. Vorrebbe chiamarla.
Non ce la fa! Ha un malore. Lara non se ne accorge. Continua a camminare.
Zivago, allora, cerca di riprendersi. Lara attraversa la strada. Lui la segue. Si
ferma. Sbottona la camicia, slaccia la cravatta. Sembra riesca ad accelerare il
passo, ma un infarto lo fulmina, lì in mezzo alla strada. E mentre la gente gli si fa
intorno per soccorrerlo, Lara non si è accorta di niente. Gira l'angolo e se ne va
per la propria strada. Andrea si sentiva così: come Zivago. Schiantato a un passo
dal suo sogno. E la cosa che proprio non riusciva ad accettare era che tutto
continuasse come sempre. Come se niente fosse. Come se quel sogno non fosse
mai nemmeno stato. Nessuno conosceva la loro storia. Nessuno conosceva il loro
amore. Nessuno poteva conoscere il suo dolore.
E non c'è niente di più doloroso di un dolore senza lacrime. Un funerale senza
estinto. Non solo morire, ma morire inutilmente. Sulla scena di una tragedia senza
coro e senza pubblico. Tragedia che non avrebbe mai avuto un cantore e che
nessuno avrebbe mai nemmeno dimenticato, visto che nessuno l'aveva mai
ricordata, né cantata.
Non solo lui non esisteva più per Giulia, ma non esisteva per nessuno. Le
bancarelle, il mercato, la gente, l'autobus, la città, la sera, la vita, il tempo. Era un
ragazzo su un autobus. Punto. Un ragazzo - come ce ne sono milioni, su un
autobus - come ce ne sono milioni, che percorre una strada - come ce ne sono
milioni, in una città - come ce ne sono milioni, e torna in una casa - come ce ne
sono milioni, e a una vita - come ce ne sono milioni. Inutile, com'è inutile la vita
degli altri milioni. Quando si spegne un sogno, pensava Andrea, il tempo
dovrebbe fermarsi. E anche gli autobus. Le vetrine dovrebbero spegnersi; le
saracinesche abbassarsi. E la gente dovrebbe smettere di fare quello che sta
facendo. Ovunque si trovi; qualunque cosa stia facendo. Un minuto di
raccoglimento. Per pensare a chi è, a quello che fa, al senso delle cose, al tempo,
al futuro. E al fatto che ogni volta che un sogno cade, il mondo diventa un posto
peggiore.
E, invece, niente. Tutto fila via come niente fosse. In quel suk di corpi, odori e
parole che sbucavano fuori da ogni parte. Come un esercito di topi, che
aggredisce tutto e non risparmia niente. Andrea non le sopportava. Il dolore vuole
silenzio, pensava. Silenzio o parole di dolore. Perché è un donatore universale.
Può donare a tutti, ma ricevere solo da quelli del suo stesso gruppo.
17
La telefonata arrivò. Due parole. «Solito posto?» chiese Andrea. «Sì» rispose
Giulia. Né lui, né lei immaginavano che sarebbero state le ultime da un capo
all'altro del filo.
Era tutto come il primo giorno. La luce porosa e tiepida del pomeriggio. La
distanza tra sole e orizzonte. La linea di galleggiamento della città. Lo sguardo
indolente dei platani affacciati ai muraglioni. Le vele gonfie di vento della cupola
della Sinagoga.
Anche l'isola era ancora lì. Come nave ormeggiata alla banchina. Ponte
Fabricio sembrava una passerella. E il popolo del sabato pomeriggio, gli ultimi
passeggeri che salivano a bordo alla spicciolata.
Tutto, come il primo giorno. Tranne Giulia e Andrea. Per la prima volta da
settimane, si trovavano a meno di un metro l'uno dall'altra, eppure non erano mai
stati così lontani. Lontani nei pensieri. Nei desideri, che si urtavano. Negli
sguardi, che non si incrociavano mai. Li divideva un silenzio invernale. Un
silenzio che nessuno era capace di infrangere. E la consapevolezza che l'amore è
come la marea: quando si ritira, sulla spiaggia lascia solo detriti. Più si è stati
vicini, più ci si vuole lontani.
Che quell'amore non ci fosse più era l'unica cosa che ancora li legava. Era
evaporato, come acqua al sole. E ora lo guardavano mentre tramontava alle loro
spalle, come il sole dietro quelle della città. Uno solo, però, sarebbe tornato a
scaldarli la mattina dopo. Non sapevano perché fosse arrivato. Non sapevano
perché fosse sparito. Se lo cercavano addosso, con l'imbarazzo di chi si fruga le
tasche, improvvisamente incapace di ricordare dove può aver dimenticato una
cosa importante. Smarrito, come un ombrello, un mazzo di chiavi o un portafogli.
Come una parola che avevamo qui, sulla punta della lingua e che, adesso, non
troviamo più. Perché come le parole, l'amore viene quando vuole lui.
Ci tornerà in mente all'improvviso. Quando non ne avremo più bisogno. In un
altro tempo, in un altro posto, in un altro spazio. In un'altra latitudine, tra le
pieghe di una stagione meno rigida, con la quale ci sembrerà di aver imparato a
fare i conti. Davanti a un altro profilo, altro taglio di occhi e capelli, altro sorriso.
Mentre stringeremo altre mani, accarezzeremo altri sguardi e desidereremo
dissetarci di altri desideri. E mentendo, giureremo che sono nuovi. Che così non
sono mai stati. Che mai hanno avuto la stessa forza. La stessa intensità. Identico
impeto. E che non erano mai scesi tanto in profondità, né mai erano riusciti a
trascinarci così in alto. E sentiremo la nostra voce vibrare nelle mani che
stringeranno le nostre e gli occhi che si bagneranno nei nostri occhi emozionarsi
della nostra stessa emozione. Appassionarsi della nostra passione. Innamorarsi del
nostro innamorarci. Perché il primo grande amore non dura mai tutta la vita. Ma
te la cambia. Per sempre. E, allora, forse, ci verrà da sorridere, pensando a certi
sberleffi del destino. Che rivela e nasconde, regala e nega, dà e toglie,
rincorrendosi, appartenendosi e perdendosi come mare e sabbia sulla battigia. E
che per tutto questo tempo ci avrà tenuto nascosta quella parola che quella volta
avevamo sulla punta della lingua e che adesso ci ritorna in mente.
Né sapremo mai se questo suo giocare con le nostre anime sia capriccio, o
cautela. Premio o punizione. Condanna o salvezza. Né se augurarci che smetta o
sperare che non smetta mai di tormentarci e non passi a occuparsi di altre anime.
Resterà il peso di una lezione inutile. L'aver imparato, senza capire mai perché,
che in natura la distanza più breve è quella tra felicità e infelicità. Mentre la più
lunga è quella contraria. E per questo gioco incrociato delle distanze spesso non
basta una vita per essere felici, mentre un istante è più che sufficiente per
precipitare nell'infelicità.
Andrea abbassò lo sguardo. Giulia si scostò i capelli dalla fronte. Lui guardò la
chiesa. Lei guardò il fiume. Non c'era nulla da dire. Non dissero nulla. Andrea
salutò con gli occhi. Giulia con le labbra. Lui scese dalla nave. Lei restò a bordo.
Lui alzò la mano e azzardò un sorriso. Lei annuì.
Andrea sparì tra le braccia dei platani. Giulia raggiunse la prua. Qualcuno
aveva dato il "salpate le ancore!". La nave mollò gli ormeggi e, lentamente, puntò
l'orizzonte. Giulia chiuse gli occhi. Li avrebbe riaperti solo di fronte al profilo
sconosciuto di un mondo nuovo.
Beati gli ultimi
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