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Mogol
Il mio amico
Lucio Battisti
Al iberti editore
Claudio Sabelli Fioretti & Giorgio Lauro
intervistano
Mogol
Aliberti editore
Con il contributo di
EP
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«.., kkizemefioe,43
COMUNE DI
REGGIO EMILIA
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Il mio amico Lucio Battisti
NON CHIAMATEMI PAROLIERE
CLAUDIO SABELLI FIORETI1 e GIORGIO LAURO: Perché l'autore della musica si chiama autore della
musica e l'autore delle parole si chiama paroliere?
MOGOL: L'autore della musica per la Siae si chiama compositore. Chiamare l'autore dei
testi "paroliere" è un tentativo di dequalificazione. E mancanza di rispetto. Noi non
possiamo opporre che un richiamo civile, che rimane inascoltato. Chi usa il termine
,
`paroliere" è insensibile e anche un po' ignorante. Tutte le volte che leggete "parolie-
re" pensate che è una parola scritta da una persona ignorante o, peggio, volontariamen-
te irrispettosa.
Autore. Nel mondo della musica autore è colui che scrive i testi.
Io dico agli allievi: «Cercate il testo che c'è scritto nella musica». La musica, se è bella,
dice cose che sfuggono al compositore. Tocca all'autore dei testi trovarle. Servendosi
della sua vita.
L'autore delle parole sarebbe un maieuta che cerca dentro la musica le parole che quella musica contiene?
L'autore delle parole riceve una spinta forte sull'onda di una colonna sonora che gli fa
rivivere dei passi della sua vita.
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IL GIORNO DOPO LA CANZONE ERA NATA
Una canzone, Molecole, musica di Lavezzi, l'ho scritta al cinema mentre vedevo un film,
al buio. Facevo una fatica enorme perché dovevo ricordarmi a memoria la musica.
E in macchina?
L'ho scritta metà al Dosso, la mia casa di campagna a Molteno. L'altra metà sulla stra-
da per Genova, dalle parti di Ovada, guidando la mia giardinetta 500 con a bordo i miei
figli e mia moglie. Ripetevo musica e parole a mente, finché non l'imparai a memoria.
Altre?
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Una canzone che poi cantò Celentano mi commosse, Le parole che non ti ho detto mai. La
musica era di Gianni Bella. Il testo parlava del fatto che morivo e spiegavo a una donna,
la mia compagna di allora, che cosa mi sarei aspettato da lei. L'avevo scritta col cuore e
mi misi a piangere. Da solo, in macchina, al volante. È l'unica volta che mi è capitata una
cosa del genere.
L'ho scritta nei diciannove minuti di autostrada tra Milano e Corno. Eravamo su una
macchina piccolissima. Uno guidava. Lucio stava accanto al guidatore e io dietro. Lucio
canticchiava davanti e io trovavo le parole dietro.
Alle fine le ricopiava in bella. Lui era un precisino. Preferiva riscriverle con la sua cal-
ligrafia, magari perché la mia non sempre era leggibile.
Nell'album Anima latina c'erano canzoni bellissime. Lucio abbassò la voce nel missag-
gio, per cui si faceva fatica a capire le parole delle canzoni. Purtroppo vendette molto
meno, nonostante fosse uno dei dischi più belli.
Certo che glielo chiesi. Mi rispose: «Così cercheranno di capire le parole prestando più
attenzione».
Era una chiara volontà di spingere tutti a cercare di capire che cosa diceva il testo.
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Ma se abbassi il volume non capisci proprio niente.
Io infatti non ero d'accordo, gli dissi che non era un'idea felice. E lui non lo fece più. Si
persero due terzi delle vendite, peccato. Era un album straordinario. C'era Anonimo, la sto-
ria della mia infanzia, il cane che mi aveva messo un dente nella palpebra e mio padre che
pensava che mi avesse mangiato l'occhio, e la ragazza di ventitré anni che era rimasta sola
e c'erano gli americani che andavano e venivano, lei era giovane e io la vedevo rossa in viso
e che stendeva i panni e ricordo le gambe nude. Ero un bambino.
Perché, è brutta?
Ma che cosa è?
È molto famosa ma è la parte meno bella di una canzone splendida, che tutti però
conoscono. È un'aggiuntina che ho fatto.
È un pezzo musicale. Se l'avesse fatto quello che ha fatto la canzone, l'avrebbe scrit-
to meglio. Quel pezzettino li muore con me. Non lo saprà mai nessuno. Sono tre-quat-
tro battute, si ripetono, una cosa piccola. Sarebbe immorale dirlo.
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Hai firmato anche il testo di una canzone senza parole.
Battisti aveva scritto una canzone che non mi piaceva, erano divagazioni elettroniche.
Io non volli scrivere le parole. Mi disse: «Dimmi almeno il titolo». Risposi: «È da brucia-
re. Chiamala il fuoco». Divenne il titolo della canzone, solo musica. E lui volle lo stesso
darmi i diritti perché gli avevo dato il titolo. Io la firmai per fargli piacere.
Io insistevo perché lui facesse canzoni di sola musica. Qualche volta lo faceva. Io gli
sceglievo i titoli, perché lui aveva questa voglia di stare sempre insieme artisticamente.
Io facevo dei titoli lunghissimi per accontentarlo. C'era tra di noi un sentimento nobile.
Dopo ogni album ci trovavamo per commentare che cos'era successo e come impo-
stare un nuovo discorso. Quella era la fase in cui io commentavo e influenzavo forse un
po' le sue scelte musicali, ma sinceramente non ne sono sicuro.
Lucio veniva con le musiche. Io ci mettevo sopra le parole. Il giorno dopo la canzo-
ne era nata. Lucio è l'unico autore con cui ho lavorato che il giorno dopo che io gli avevo
consegnato le parole si presentava senza foglietti. E cantava a memoria. Lui tornava a
casa e il mattino dopo me la cantava tutta. L'assorbiva in una notte. Una volta mi disse:
«Quando c'è una nuova canzone, io la canto e me la incido quattro volte. Poi la risento
nei quattro modi in cui l'ho cantata. Quella che mi stanca di meno, la scelgo».
È vero che le canzoni appena composte le facevate ascoltare per primo a un amico giardiniere?
Un caro amico, Pier Luigi Ratti, un architetto giardiniere. Ha un'impresa grande: vivai,
giardini, fa anche addobbi floreali. Fa i più importanti matrimoni nel mondo. Una volta
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ha lavorato per il presidente degli Stati Uniti. Spesso andavamo a cena da lui e da sua
moglie Elena, e gli facevamo ascoltare la canzone appena scritta. Pier Luigi è molto
dolce, Elena è di polso. Le ho dedicato una canzone in cui lui è obbligato a far tutto
quello che lei gli dice. Una canzone ironica.
Gli ammalati dell'Istituto dei Tumori. Andavamo là, io e Lucio, io presentavo e lui
cantava tutto l'album ancora prima di inciderlo. Stare vicino a chi soffre è una cosa fan-
tastica. È consolante. Fa bene.
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QUANDO LUCIO DIVENTAVA NERVOSO
Dicono che nelle tue canzoni ci siano molti personaggi di Poggio Bustone, il paese di Lucio.
Non direi. Lucio mi aveva sempre detto di aver imparato a suonare la chitarra dallo
scemo del paese. Era un povero ragazzo che gli aveva insegnato i primi accordi. Io non
so nient'altro di Poggio Bustone. Lucio parlava poco di se stesso.
No, perché lui si identificava in me. Era una vera e propria simbiosi. Lui cantava i miei
amori come li avrei cantati io. Quando io avevo finito il testo lui voleva sapere tutto, lo
vedeva in modo totale, lo cantava come se lo avesse vissuto.
Ho letto che Battisti diceva: «Di venti canzoni ne teniamo buona una»...
È una bugia assoluta. Di tutte le canzoni di Lucio io ne ho scartata una sola, che mi
sembrava debolina. Tutte le musiche che lui mi ha presentato, e io ho scritto, sono state
pubblicate. A eccezione di li paradiso non è qui.
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Che io sappia non ce ne sono.
Alberto Radius dice che nel '68 Battisti gli confessò di avere «degli inediti che ammazzerebbero
tutti».
Non lo so, non ho mai avuto notizia di questo. E comunque non sarebbero canzoni
scritte da me.
Non l'ha mai dimostrato, però secondo me sì. Ti posso dire un particolare. Lucio
diventava nervoso, e anche un po' duro, con chi, mentre io stavo parlando con lui, si
intrometteva. Specialmente con i cacciatori di autografi.
Gira voce che avesse paura di essere derubato della sua musica e girasse sempre con un borsello gon-
fio di nastri e scarti di registrazioni Possibile?
Hanno scritto che Il nostro caro angelo si tifirisce alla nascita di un figlio.
Il nostro caro angelo è il meglio di noi. È l'ideale che qualche volta noi perdiamo, la purez-
za.
Ma quale metafora. Il nostro caro angelo si ciba di radici e dorme nei cespugli.., è l'idea-
le che noi perdiamo, la purezza. Alcuni hanno scritto tantissime stupidaggini su Battisti,
su me, sulle nostre canzoni.
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Ho capito, ragazzi, ma c'è un limite alle balle.
Con tante balle. La maggior parte degli episodi non è vera. Forse la colpa non è tanto
degli scrittori ma di chi inventa e racconta.
È una follia. Se ci fosse Lucio Battisti si squasserebbe dalle risate. L'amore adulterino.
Che stronzata! Raccontatemene altre perché sono divertenti.
A nessuno, è una storia che ho inventato, l'ho scritta con l'immaginazione.., non è
riferita a nessuno. È una canzone un po' drammatica. Recentemente Paolo Liguori, una
persona simpatica, sulla costa amalfitana, a una grande festa di calciatori, sul palco disse:
«Un sorriso, e ho visto la mia fine sul tuo viso». Come fosse una citazione di straordi-
naria poesia. Mi fece piacere, me l'ero quasi dimenticata quella frase.
Fiori rosa, fiori di pesco era una tua storia con una ragazzina...
Altra balla terrificante. t la storia di uno che esce di casa per andare dalla sua donna,
che non vede da un anno, arriva, questa gli apre tutta imbarazzata, lui le tocca le mani
che sono fredde, e lui pensa che sia per amore, invece poi arriva uno, che si presenta.
Era in camera da letto con lei e quindi...
È la storia di un uomo che aveva vissuto un tradimento, anche questa inventata, non
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c'è riferimento a una persona. Che fosse la data di compleanno di mia moglie me ne sono
accorto dopo. Ho avuto sempre il rimpianto di non averle dedicato questa canzone. Mi
sarebbe piaciuto andare a casa e dire: «Ecco, questo è per il giorno del tuo compleanno».
Hanno detto che gli accordi sono gli stessi di Michelle dei Beatles.
Non posso dirlo. Non sono un musicista, non ho una cultura musicale che mi può far
dire se sono gli stessi o sono diversi. Ma è la prima volta in vita mia che sento un'accu-
sa del genere. Lucio ascoltava e amava la musica bella del mondo, e lo faceva con entu-
siasmo, analizzando però profondamente tutto. Non era il tipo che andava copiando a
destra e sinistra.
Titti, la bambina della Canzone del sole, era la stessa di Pensieri e parole?
No. In Pensieri e parole era mia moglie. Tini è la stessa del Salame. È una canzone trat-
ta dall'album Anima latina.
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NEL CUORE DI OGNI RAGAZZO C'È UNA CANZONE NOSTRA
Parlaci delSalame.
È una canzone che dura, trii sembra, trenta secondi, comincia così: «Alzati in punta di
piedi!» Sono due bambini che immaginano di fare l'amore, ma ovviamente non ci rie-
scono, non sentono niente e allora presi dalla fame, aprono il frigorifero e urlano: «Urca,
il salame».
Non è un'allusione?
No, no, il salame è come dire la pastasciutta, la torta, il cibo! È una canzone purissima.
Il disco più venduto di tutta la carriera di Mosol-Battisti risulterebbe Una donna per amico.
In Italia sono stati fenomeni quantitativamente simili. E anche in Europa, ma solo tra
gli artisti.
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Quando entri in un autogrill e senti una tua canzone, che impressione tifa?
Però la gente ricorda il cantante, riconosce lui, non l'autore dei testi.
La gente riconosce anche me. Sapete perché? Non solo per le canzoni che ho scritto
ma perché gioco anche nella nazionale cantanti.
La parola più ricorrente è «grazie». Mi dicono: «La posso ringraziare?» Il rapporto che
la gente ha con me è un rapporto molto affettuoso, non da fan. E poi mi dicono anche:
«Sei grande». Non c'è niente più gratificante dell'affetto della gente.
Tu hai colpito basso: gli affetti, l'amore, i sentimenti, le emozioni. Trovami un giovane che non abbia
corteggiato una ragazza usando una tua canzone...
Sì, è vero, una qualche mia canzone è entrata nella vita di molti ragazzi italiani.
Ho avuto un destino benevolo, anzi, molto di più. Ma non sono un genio, sono un
canale, una parabola, un'antenna.
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IO SAPEVO DEI CAMPI DI GRANO
Perché sei venuto a vivere qui in Umbria? Perché hai costruito questa università della musica, il Cet?
Un giorno mi sono svegliato e mi è venuto in mente che stavo vivendo in una città,
che non ne avevo alcuna voglia e che nessuno mi obbligava a starci. Milano si stava dete-
riorando. Forse valeva la pena che io cambiassi vita. Mi resi conto che mi sarebbe pia-
ciuto vivere in un luogo ameno, vicino alle foreste. E poi volevo far qualcosa per tra-
smettere la mia professione ai giovani.
Tu eri un metropolitano?
Avevo sempre abitato a Milano, ma non avevo mai perso il contatto con la natura.
Abitavo nell'ultima strada della città che era la prima strada della campagna.
Abitavo in via Clericetti, cento metri prima del ponte di Lambrate. Davanti a me c'era-
no i prati, i campi di grano e poi la ferrovia, il ruscello dove andavo a sguazzare. Avevo
costruito con i sassi una piscina di due metri per due. Questo contatto con la natura l'ho
vissuto da sempre. Poi sono sfollato a Carugo. Il mio papà, non avendo trovato casa,
aveva affittato un sotto terrazza che aveva chiuso con quattro muri. Uno stanzone.
Dormivamo e mangiavamo tutti li.
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La guerra...
C'erano i bombardamenti. Mio papà mi portava a pescare i gamberi d'acqua dolce nel
ruscello. Li mangiavamo anche crudi.
Poi il ritorno a Milano...
Alla fine sono andato ad abitare a Milano San Felice ma il weekend andavo in Brianza,
a Molteno.
La natura...
Quella Brianza dove andavo io ormai era circondata dagli stabilimenti. Insomma,
volevo una vita più naturale. Poi pensai di trasmettere la mia professione ai giovani.
Mi sono accorto che era in atto un fenomeno terribile. La cultura popolare stava
diventando cultura di marketing. Stava scomparendo lo spazio per i creativi puri.
Programmazione, tutto studiato, niente più espressione libera, di gente libera che canta.
Oggi se nascesse un nuovo Battisti sono convinto che avrebbe poche chance.
Io non l'ho mai fatto. Io scrivevo la mia vita, bella e brutta che fosse. Il novanta per
cento di quello che ho scritto era legato alla mia vita o a quella di qualcuno che avevo
conosciuto. Io non sono assolutamente capace di programmare una canzone. Non
seguo un iter, un modo di fare. Seguo la vita, i sentimenti, gli amici, le delusioni.
Fotografando la vita, la fotografia rimane spesso viva.
Si potrebbe pensare che tu avessi dentro di te un sesto senso per il marketing, spontaneo. Sapevi sem-
pre che cosa piaceva...
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Fortunatamente questo non è mai successo. Magari è successo che una parte della tec-
nica che tu assorbi ti fa preferire un certo tipo di parola a un altro. Ma sempre partendo
da una grande autenticità. Se cerchi l'effetto non è arte. L'effetto è un surrogato dell'arte.
Vive del clamore. L'arte è respiro. Naturalezza. Semplicità. L'arte è piacere. Non è sforzo
cerebrale. Tutte le volte che uno ce la mette tutta, nell'arte, ottiene risultati scarsi.
Sono partito per fare la mia casa e la scuola. Volevo creare una didattica per la creati-
vità: compositori, autori, musica da film. Avevamo fatto praticamente un'università. Ma
non potevamo sostenere tutti questi corsi e abbiamo scelto quelli più ambiti dagli stu-
denti, i corsi per compositore, autore e interprete. I risultati che abbiamo ottenuto sono
straordinari.
Quando spiegavo quello che mi sarebbe piaciuto fare avevo tutti contro. Ho avuto
tutti contro anche quando ho detto che volevo venire a vivere qui. La compagna, i figli,
gli amici... tutti a dirmi: «Ma tu sei matto!» Ho costruito una cittadella in mezzo ai
boschi... Mio papà quando venne qui vide tutte le gru, i macchinari, i camion, le case in
costruzione e si spaventò. Mi disse: «Giulio, portami a casa!» Io gli dissi: «Papà, perché?»
«Perché ho paura!» Ebbi paura anche io. Fu la prima volta che ebbi paura. Io sono un
fegatoso. Ma ebbi paura. Nella mia natura c'è questa ebbrezza un po' folle di allargare le
dimensioni della vita. Ma non perdo mai di vista il burrone.
Una volta ti sei lamentato che qui non è mai venuto un ministro della Cultura.
Ho invitato anche il ministro Bondi. Spero che venga. È giusto che prendano atto di
questa realtà.
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HO ANCHE FIRMATO CANZONI CHE NON HO scRrno
Nella Canone del sole c'è molta della mia infanzia. La protagonista era una bambina
che non ho più rivisto per tanto tempo. Mi ha telefonato qualche mese fa. Abitava
nella casa accanto alla mia. Nella canzone immaginavo di rincontrarla grande. E ho
scritto una canzone ispirata alla paura di quello che poteva aver vissuto, così diverso
dalla nostra innocenza. Ho immaginato di farle una colpa di tutte le storie che aveva
vissuto. La gelosia come paura di una certa vita che non hai vissuto. Il dialogo tra per-
sone che non si sono mai viste.
Quello è proprio l'inquinamento. Io l'ho sempre sofferto, non come discorso politi-
co, ma come problema personale. Se tu vedi le mie canzoni, c'è sempre questo proble-
ma, anche quando non era nemmeno di moda l'ecologia. L'ho sempre visto come un'ag-
gressione terribile, un attentato alla natura. Fa parte della mia vita, della sofferenza della
mia vita. Il mare inquinato è una ferita che mi fa male, male veramente. Non credo che
sia una cosa solo mia. Ma io la scrivo. Altri se la tengono dentro senza scriverla.
Torniamo al Cet
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Stiamo creando anche sale convegni per trecento persone. Stiamo crescendo. Anche
perché il Cet adesso deve portare avanti il reparto medicina, reparto molto importante
perché puntiamo alla qualità della vita. C'è una relazione tra gli esseri viventi, che siano
piante, animali, uomini. C'è una meccanica che governa il creato. Vedi quella pianta di
gardenie? Non faceva più fiori. Abbiamo chiamato un grandissimo esperto, e lui ci ha
detto: «Ma le parlate?» Mia moglie Daniela mi ha guardato: «Ma questo qui è matto».
«Provi a parlarle, la consideri». E noi abbiamo cominciato a parlarle. «Ciao bella», «Come
va?» Sette giorni dopo era tutta un fiore.
Morale?
Mio papà era impiegato alla Ricordi, faceva il copista, e mia mamma era casalinga. Mio
papà integrava il suo stipendio facendo il pianista. Ma alla Ricordi poi diventò molto
importante creando una divisione Musica leggera.
No, è un equivoco.
Vecchio scarpone l'ha scritta Pinchi, un professore di educazione fisica, un uomo tutto
d'un pezzo, legato al partito fascista. Era una brava persona, luminosa, molto energica,
di quelli che preparavano i balilla!
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Allora gli editori usavano firmare delle canzoni con i nomi fittizi di chi aveva fatto l'esa-
me della Siae, per poter acquisire i diritti. Anche io ho firmato un paio di canzoni che non
avevo mai scritto. Il compenso per quelle che scrivevo era cinquemila lire a canzone.
Usava questo nome per conto della ditta, e i soldi andavano alla ditta.
Sì, ma invece di tradurle a volte le riscrivevo. I miei erano testi originali almeno al cin-
quanta per cento. Tipo Senza luce (A Whiter Shade Of Pale), Ma che colpa abbiamo noi
(Cheg15. Going Home), È la pioggia che va (Remember The Rain).
C'è dibattito su quale sia la tua canzone più venduta. Al di là? Una lacrima sul viso?
Di più. Fece il primo posto in ventisette nazioni. Stiamo parlando di cifre grandi.
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LA MUSICA PROPRIO NON MI INTERESSA
Tu quanto guadagni?
Sono sicuro che non ci credi, ma io non ho mai aperto le buste dei rendiconti della Siae.
Parliamo dell'assegno.
No.
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Tieni presente che comunque sono uno degli autori più pagati. Mi avevano detto che
il record era di Morricone per la musica e mio per i testi.
Quindi sei il più pagato. I giornali hanno scritto che ricevi di diritti d'autore un milione di euro
all'anno.
Tu scrivi degli evergreen. Ogni anno guadagni anche per canzoni che hai scritto quarant'anni fa.
È vero, ma la somma finale è quella li, la metà di quella di un medio allenatore di serie A.
Hai visto il Cet, se ne sono andati e se ne vanno tutti lì. Noi viviamo sicuramente e
tranquillamente bene, ringraziamo il Signore di avere questa possibilità, ma ti assicuro
che qui nessuno fa follie. Perché i nostri soldi sono tutti utilizzati per costruire e pagare
stipendi e mutui. Non bisogna dimenticare che il Cet ha chiuso in pareggio per la prima
volta nel 2007 anche grazie al fatto che ha iniziato a interessarsene mia moglie Daniela.
Io faccio una valutazione sulla base di quelle che ascolto in giro. Ieri sono andato a una
festa di paese, qui in Umbria fanno le tavernette, c'è una bella tradizione, i paesi diventano
come una famiglia e fanno da mangiare per tutti gli ospiti. Anche novecento pasti, e i ragaz-
zi servono a tavola, le mamme in cucina. C'era la balera con due o tre cantanti, due sax e
una fisarmonica, e li eseguono le canzoni che la gente ama. E ascolti ancora
Abbronzantissima. Poi senti tanto Battisti: // mio canto libero, Pensieri e parole, I giardini di marzo,
La canzone del sole, Mi ritorni in mente. Però mi è capitato di ascoltare Se stasera sono qui, che ho
scritto con Tenco.
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Mi chiese anche di riscrivere le parole di Ciao amore ciao. Io non lo feci. La sentii. Non
mi entusiasmava ma soprattutto gli dissi: «Guarda, io un testo migliore di questo non rie-
sco a fartelo. Le parole che hai scritto tu sono le migliori possibili». Poi litigammo.
No. litigammo perché aveva deciso di andare a Sanremo. Lui non era da Sanremo, ma
ormai aveva questo pallino. Diceva: «Celentano vende i dischi che non vendo io».
Mio padre voleva che imparassi a suonare il pianoforte. Il fratello di Donida, che era
un grandissimo pianista, veniva a farmi lezione. Io mi annoiavo a morte. Avevo capito
che se gli davo un bicchiere di cognac per affrontare la lezione lui se lo beveva. Quando
arrivava si trovava il bicchiere già pronto. La sonnolenza poneva fine alle lezioni. E alla
rottura di scatole.
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PENSAVO A UN MONDO SU PATTINI A ROTELLE
C'era l'esame di stato. Allora era molto importante perché decideva il destino di un
ragazzo. In pratica la commissione d'esame decideva se il ragazzo poteva andare avanti
a studiare o se aveva finito. Dissero che ero andato fuori tema.
Scrissi che il futuro del mondo sarebbero stati i pattini a rotelle. Costavano poco e
consentivano una velocità maggiore. Scrissi anche che erano pericolosi se si andava a
fare la spesa perché le uova rischiavano di cadere e di rompersi.
Ti bocciarono.
Non capirono che già da allora ero un pragmatico che cercava di risolvere i problemi
della circolazione. Se tutti, invece di prendere la macchina, fossero andati sui pattini a
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rotelle oggi le città sarebbero molto migliori, no? Niente inquinamento.., fisici sani...
Furono spietati e mi bocciarono. Dovetti fare le commerciali. Poi andai in una scuola
privata, feci l'integrazione e passai a ragioneria.
Guadagnavo quarantaduemila lire al mese. Avevo diciannove anni. Era uno stipendi-
no minimo. Con le canzoni miglioravo le mie condizioni del sessanta per cento.
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Non disconosco niente. Ho scritto anche Stessa .spiaggia stesso mare e non me ne vergo-
gno. La cantano ancora. Poi, devo dire la verità, la media è soddisfacente.
Non lo so, non fa testo la quantità. Quando qualcuno viene da me, mi porta dieci can-
zoni e mi dice: «A casa ne ho settecento», penso subito: «Non vale niente».
Allora diciamo quante sono le canzoni di qualità, quelle che la gente ricorda.
Centocinquanta circa.
Quaranta, cinquanta.
Mai. Ma una volta feci uno scherzo a Battisti. Fra noi c'era una grandissima stima reci-
proca, una stima esagerata. Io pensavo che lui fosse un musicista straordinario, lui pensa-
va che io fossi un grande poeta. Lui mi chiamava così, "il poeta". Ma lui aveva anche una
grande considerazione del mio modo di interpretare le canzoni. Aveva una tale prepara-
zione che capiva cos'era il feeling. Diceva: «Calante crescente non me ne frega niente».
«L'importante» diceva «è che ti arrivi l'emozione». Quando io, scrivendo le parole, cantic-
chiavo sottovoce, lui stava ad ascoltare con attenzione. Un giorno gli dissi: «Lucio, ho deci-
so che questa volta lo incido anche io questo album». Lui mi guardò perplesso e tutto serio
mi rispose: «Va bene, ma sei mesi dopo». Scoppiai a ridere. Mi aveva creduto. Mi fece pia-
cere perché era l'unico al mondo che poteva avere una considerazione di me così grande.
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Comunque tu canti...
Adesso sono diventato abbastanza bravo. Ormai ho fatto così tanta didattica che sono
persino diventato intonato. Ai ragazzi del Cet a volte canto per far ascoltare un testo
nuovo. Ho affinato il modo di trasmettere. Anche con la voce che mi ritrovo, una voce
gracchiante, riesco a comunicare.
Non c'è una sola canzone. Se io lascerò una traccia sarà per più canzoni.
Non lo so. Può darsi che non cantino niente di appartenente ai miei tempi. Io sono
spaventato da una sola cosa: la perdita di sensibilità nei confronti della qualità musicale.
Non è più recuperabile.
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LA PRIMA VOLTA CHE VIDI LUCIO
Quando tu hai incontrato Battisti per la prima volta gli hai detto che le sue cose erano modeste.
Ero già da quattro anni al primo posto come autore, votato da tutti quelli del mestiere.
Quando andavo in giro con la mia splendida Balilla Coppa d'Oro mi mettevo un follia-
tino. Dopo non ricordo. Ricordo che avevo un giubbetto azzurro di pelle. Ero una specie
di piccolo viveur. Era il mio momento magico. Che poi si trasformò in un periodo triste.
Perché triste?
Perché non mi piaceva quella vita. Non rispettava le promesse. Entri dentro quel
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mondo che sembra di favola, poi ti accorgi che non lo è. Non ha la sostanza. La sostan-
za profonda la ritrovi in altre cose.
Ritorniamo all'incontro.
Gli dissi: «Ascoltami. Tu verso l'una di ogni giorno passa da qui, metti la testa dentro
l'ufficio. Se vedi che non ho niente da fare, ti fermi e proviamo a scrivere una canzone.
Attenzione. Non una canzone di successo. Un esperimento. Non dobbiamo seguire nes-
suna regola. Scriviamo per noi. Facciamo una prova. Quello che salta fuori, salta fuori».
E lui veniva con grande umiltà. «Posso?» «Vieni avanti, vieni avanti». Così scrivemmo la
prima canzone. Dolce di giorno.
Così, in ufficio?
Certo! Lui si era seduto sulla poltrona. Io di fianco. E abbiamo scritto. Tornò la setti-
mana dopo e scrivemmo Per una lira. La terza settimana scrivemmo 29 settembre.
E fu subito trionfo.
Era una sinergia miracolosa. Lui aveva un'eccezionale capacità di valutazione della musi-
ca internazionale, un'attenzione, uno spirito analitico molto profondo, una capacità critica
straordinaria. E aveva anche la capacità di tradurre le mie idee. Se io gli dicevo qualcosa, lui
di questa cosa prendeva il nocciolo d'oro. Lui sapeva che in quello che gli dicevo c'era un
nocciolo. E lo trovava. Era la sua capacità di capire. Lui era verticale, io ero trasversale.
Tu eri un casinista.
Sì, ero una ruspa. Uno che partiva con un discorso e andava fino in fondo. Io gli dice-
vo: «Se fai un buco arrivi al centro della terra». Entusiasmo e coraggio io, riflessione e
analisi lui.
Lavorando a 29 settembre. E poi con li vento. Il vento è una canzone di un lacerante terribile.
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SGRANAVA GLI OCCHI E DICEVA: «ME COJONI»
A cinque anni Lucio serviva messa. E poi voleva farsi prete. Ne avete mai parlato?
No. Lui non si confidava mai. Né discorsi politici, né discorsi religiosi. Era monote-
matico. Parlava di musica soltanto. E di congegni tecnici.
Una volta disse: «Da questa mania religiosa sono passato all'opposto. Adesso non vado mai in chiesa».
Come è possibile?
Una volta in chiesa i l prete gli diede uno sberlone e da quel giorno Battisti disse: «Basta con la chie-
sa». C'è scritto in un libro.
Io non ci credo ai libri biografici. Quelli di Battisti, per esempio, sono pieni di bugie.
Credo sia vero. Ci sono molti Battisti. Sono andato due volte a Poggio Bustone. È qui
vicino, sulla strada per Rieti. Gli hanno fatto un monumento.
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Ma non è sepolto lì.
Lui era venuto a trovarmi e io gli dissi di comprare un terreno accanto al mio. E lo fece.
Lucio aveva un senso dell'ironia molto forte. Quando trovava uno che gli raccontava
qualcosa che lo annoiava, lui faceva finta di essere molto interessato. Sgranava gli occhi
e diceva: «Me cojoni...»
Di canzoni, di campagna...
Eravamo molto pudichi. Lui per conto suo, io per conto mio. Non lo frequentavo
continuamente. Lo vedevo una decina di giorni l'anno quando veniva da me con le musi-
che. Scrivevo un testo ogni mattina.
No, era molto chiuso Lucio. Mi raccontava del suo paese. Un paese povero. Un paese
di montagna, senza grandi risorse, con una forte tradizione al risparmio...
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Tutti sconsigliavano a Battisti di cantare.
Io no. Io feci il contrario. Minacciai le dimissioni alla Ricordi se non lo facevano can-
tare. Insistetti molto anche su di lui. Lucio non ci teneva.
Anche alla Rai lo avevano scartato. Non poteva essere trasmesso alla radio, all'inizio.
Alla Rai per cantare bisognava superare una specie di esame e l'avevano bocciato.
Quando andai alla Ricordi per farlo cantare, loro mi dissero: «Tanto non lo trasmettono
alla radio. Ha fatto il provino e lo hanno bocciato».
Non ricordo.
Cantò per primo, e stonò.
Può darsi.
Che rapporti hai con il figlio di Lucio?
Non lo conosco. L'ho visto solo una volta quando era piccolo piccolo. So che era un
bambino delizioso.
L'ho perso di vista perché ha vissuto la maggior parte del tempo in Inghilterra. Io
penso che sia più madrelingua inglese che italiana.
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Non hai la curiosità di conoscerlo?
Io non sono invadente. Mio figlio Francesco invece andò a trovare Lucio al Dosso di
Coroldo, nella sua casa in campagna, in Brianza. Un giorno mi disse: «Voglio andare a
trovare Lucio Battisti». Io gli dissi: «Sei libero di andare dove vuoi». Lui si presentò a casa
sua: «Sono il figlio di Mogol, voglio conoscerti, sono un tuo ammiratore». Lucio lo trat-
tò molto bene. Lo invitò a colazione e poi lo riaccompagnò alla stazione a Milano.
Che Lucio era stato gentile, che gli aveva dato dei suggerimenti, che l'aveva accompa-
gnato alla stazione.
Perché ti colpisce il fatto che lo abbia accompagnato alla stazione? Semplice educazione.
Ma Lucio era casalingo, era pigro. Mi stupì che lo avesse accompagnato alla stazione.
Mio figlio è un intraprendente, è uno molto attivo, uno sportivo. Era in prima squadra
con la Ternana a sedici anni e mezzo. Poi ha giocato nel Mantova.
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SI VIAGGIARE EVITANDO LE BUCHE PIÙ DURE
Ammettiamo che siano duemila le canzoni che hai scritto. Una canzone a settimana...
C'erano dei periodi in cui scrivevo venti canzoni all'anno e altri in cui ne scrivevo
magari cento. Posso anche scriverne trenta in un mese. Adesso scrivo molto meno. Sto
scrivendo per mio figlio Francesco, per Gianni Bella e per gli Audio2.
Perché l'altro tuo figlio, Alfredo, pseudonimo Cheope, scrive le parole per la Pausini e non per i/ fra-
te/lo Francesco?
Ho fatto la guerra a tutti i miei figli perché volevo risparmiare loro delusioni. A
Francesco dicevo: «Lascia perdere la musica. Sei così bravo a giocare a pallone». Poi ho
dovuto ammettere la loro capacità professionale e ho cercato di aiutarli.
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Mina non volle cantare Ancora tu e Il mio canto libero.
Il mio canto libero l'avrebbe cantata se le avessi cambiato il testo. Io non glielo cambiai.
Ancora tu proprio non le piaceva.
Il mio canto libero e Ancora tu le cantò lo stesso Battisti e diventarono dei successi. Ne hai più
riparlato con lei?
No. Io rispetto i suoi gusti. Poi Mina mi ha fatto il più grande omaggio. Ha cantato
una canzone che si chiama Mogol-Battisti, ma ti rendi conto?
Succede quando si entra nel mito. «Sotto questo cielo solo tu resisti, sei come una canzone di Mogol-
Battisti».
Ti copiano, ti derubano. Una donna per amico...
... un cane per amico, un'auto per amico, tutto per amico. Non mi pagano i diritti di
niente.
Se entri nel linguaggio della gente non puoi chiedere i diritti. Ma la fiction Una donna per amico
di Rai Uno?
Che devo fare? E la moto? «Sì viaggiare evitando le buche più dure...» per pubbliciz-
zare le Yamaha?
Non capivano. Come tutte le persone un po' esaltate. Leggevano male i testi delle can-
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20flie gli attribuivano significati che non avevano. Quando dicevo «motocicletta 10 1-IP, è
tua se dici sì» non è che offrivo una motocicletta per convincere una a far l'amore con me.
Ma no. Stavo raccontando la storia di uno che è così ingenuo da fare questa offerta
d'amore.
Appunto.
Se non sono riuscito a esprimere in questa canzone l'anima di un uomo semplice, allo-
ra ho fallito io. Ma io credo che sia chiara la canzone. È una canzone nella quale c'è un
uomo che mi fa pena. Non è uno stupratore. È come se fosse un bimbo, uno che non
ha capito il valore delle cose.
È uno dei miei errori clamorosi, io non sapevo il valore di un HP. L'altro errore era
quello dei capelli verde rame. Volevo dire rosso rame. Me ne sono accorto dopo dieci
anni. Non volevo parlare di una punk.
Però 18 jìmministe...
Se qualcuno non ti capisce, un po' sbaglia lui, un po' non sei stato chiaro tu.
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LUCIO ERA CASALINGO, CALMO, TRANQUILLO
Le tue canzoni autobiografiche: Balla Linda. Linda era una ballerina americana. Una tua fidanzata?
Non te lo so dire.
Non ero un playboy. Ero uno che aveva una grande considerazione per il fascino fem-
minile.
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No. Ma una volta incontrammo una ragazza in un albergo. Non vi dico chi è perché
la conoscete sicuramente. Era molto bella, affascinante. Mi invitò nella sua stanza. Io
non ci andai perché la consideravo troppo giovane. Lucio mi disse: «Be', andrò io a salu-
tarla». Andò lui però non so che cosa sia successo. Probabilmente ci parlò un po'. Era
disperatamente sola.
Sicuramente lo ero più io di lui. Lucio era casalingo, calmo, tranquillo, amante della
tradizione. Io ero il terremoto.
Non c'è mai la parola "luna" nei tuoi testi, parli sempre di sole.
Corteggiamento? Io sono molto distante dalla mia opera. Mio padre qualche volta
usava il mio nome. «Sono Mogol, mi prenotate il traghetto?» Ma io mi vergognavo. Ho
scritto una canzone, Proibito, per mia moglie e non gliel'ho mai detto. Il mio mondo arti-
stico e la mia vita sono proprio separati. Molti miei amici potrebbero non sapere che
scrivo canzoni.
Dal 30 novembre 2006. Da quel giorno si chiamano Mogol anche i miei figli e anche
i miei nipotini.
Ne avevo mandati trenta alla Siae. Nessuno andava bene. Ne mandai altri cento e scel-
sero Mogol. Ma a me non piaceva. Quando mi arrivò la lettera con la notizia che aveva-
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no scelto Mogol rimasi terrorizzato. Ebbi un brivido freddo lungo la schiena e dissi:
«Che sfiga, mi chiamano con un nome cinese». Ma poi pensai: «Ma tanto chi vuoi che
arrivi mai a sapere che sono Mogol». Avevo scritto perfino Zippo.
Da Ce/en/ano.
La leggenda dice che siccome vai a dormire presto non hai visto tuo figlio a Sanremo in diretta.
È passato alle dodici e quaranta, di giorno feriale, ma come puoi pensare che io alle
dodici e quaranta regga dopo tutta l'attività fisica che faccio? Avrei dovuto prendere
duecento caffè. Non è menefreghismo.
Facciamo l'ipotesi che tuo figlio vada a Sanremo l'anno prossimo, vada in finale e si pensi che vince-
rà. Li prendi i duecento caffè oppure te ne vai a dormire?
Lo registro. Il sonno è sempre giustificato. È una cosa naturale. Solo in un caso non
è giustificato: se c'è un'emergenza, se bisogna salvare qualcuno.
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CI SIAMO LASCIATI QUIETAMENTE, SENZA TRAGEDIE
Musi?
No. Non eravamo tipi da tenere il muso. Anche dopo che ci siamo lasciati, quando lo
incontravo, veniva magari a mangiare da me, parlavamo.
Però fino al giorno prima facevate canzoni. E poi il giorno dopo, niente più. Che cosa è successo?
Problemi di diritti, si disse. Soldi.
Problemi di principio. Volevo che fosse chiaro che la proprietà delle canzoni era degli
autori, a metà.
Ma era così. Sei ventiquattresimi a te, sei ventiquattresimi a lui e dodici alla casa editrice.
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Su quei dodici si aprì la questione. Nella società editoriale lui aveva il quaranta per
cento, io il dieci e la Bmg il cinquanta.
Proprio così. Poi la società si dissolse e bisognava farne un'altra. Io gli feci sapere che
bisognava fare cinquanta e cinquanta. Era giusto che la divisione fosse equa.
Ne avete parlato?
Non c'è stato questo dialogo. Non ci sono state liti, parole, discussioni. Niente. Anche
perché io e lui eravamo in questo molto simili. Due principi indiani.
Orgogliosi, permalosi.
Regali da Lucio?
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Una volta mi ha regalato un fucile da caccia. Ma quasi lo costrinsi a regalarmelo.
Sei un cacciatore?
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NON ERA TIRCHIO, ERA PARSIMONIOSO
Sulla tirchieria di Lucio c'è una leggenda. Quando c'erano le cene si alzava sempre un po' prima da
tavola, faceva gli auguri a uno e se ne andava...
Parsimonioso. Non dimenticare che lui veniva da un paese in cui quando trovano un
chiodo da cavallo storto lo portano a casa e lo raddrizzano. Lucio apparteneva alla cul-
tura di un paese di montagna. Quando io l'ho conosciuto si preparava la pastina a casa
da solo. Era un ragazzo che faceva fatica a campare. Viveva in un appartamento picco-
lo, in periferia. Ha lottato per sopravvivere, può darsi che questo abbia influito. Ma io
non mi son mai posto il problema di chi paga. Quando si andava al ristorante con tutti
questi ragazzi, il più ricco ero io, il più famoso ero io e quindi era giusto che pagassi io.
Non ho mai attribuito grande importanza ai soldi. Credo di essere uno dei pochi al
mondo che non sa quanti debiti o crediti ha.
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Tranne un appartamentino che ho a Milano e che adesso ho ceduto ai miei figli, tutto
quello che ho guadagnato l'ho speso per il Cet.
Battisti all'inizio era povero. Ma poi è diventato ricco. Tanto ricco. Che cosa facevate quando stava-
te assieme?
La frequentazione era molto piccola, molto breve. Lui veniva e mangiava a casa mia.
Qualche volta a casa di mia madre. Ma avevamo mondi diversi, abitudini diverse, cultu-
re diverse. Non eravamo amici nel senso di amiconi, quelli che si vedono sempre.
Se lo è meritato.
Io lo avevo invitato, ma lui non è mai venuto. Pare che sia stato a Toscolano. Quel
paese lassù. Da li, guardando in giù, si vede il Cet.
Non so. Forse ha avuto dei pudori. Non posso ipotizzare nulla, se non il fatto che lui
è venuto a Toscolano e da lassù ha guardato il Cet.
Avrei preferito che fosse sceso. Mi sarebbe piaciuto se fosse venuto qui a dirmi:
«Fammi vedere il Cet».
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STANNO UCCIDENDO UNA SUA CANZONE
Per lui la musica era tutto, per me no. Nella mia vita la musica conta solo il dieci per
cento.
E nella sua?
Il novanta per cento. Molti musicisti sono tutti tarantolati dalla musica. Io gioco a pal-
lone, vado a cavallo, vado in barca. E mi dimentico della musica. Mi occupo di medici-
na. Mi cerco avventure, tutto quello che mi viene da vivere lo vivo. Dopo aver fatto il
viaggio a cavallo con Lucio gli ho subito proposto un'altra avventura. Discendere il Po
a nuoto fino a Chioggia.
E Lucia?
Disse di no. Disse: «Mi viene l'artrite,» Io ci sono rimasto malissimo. L'avrei fatto con
gioia e determinazione. E tu puoi giurare che sarei arrivato al mare.
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Con l'epatite virale.
L'ultimo album fu Una giornata uggiosa. Fu anche l'ultima volta che Battisti finì ai primi posti
delle classifiche. Dopo la vostra separazione, quando le parole di Battisti le scriveva Panella, non ci è
più riuscito.
Sono disposto a parlare solo di una delle ragioni per cui la musica di Battisti è così
cambiata. Allora: alla base di questo cambiamento c'è stato un cambiamento tecnico.
Con me lui scriveva la musica e poi io le parole. Dopo di me lui cominciò a scrivere
la musica sui testi. Erano testi "nonsense" e lui adeguava la musica alle parole. Non
do giudizi di merito. Dico solo che la meccanica era diversa. E che per lui era molto
più difficile.
Se nasce prima la musica, l'emozione è quella del musicista e l'autore cerca di trovare le parole giu-
ste. Se nasce prima il testo l'emozione è dell'autore e il musicista deve adeguarsi...
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C'è una canzone di Mogol-Battisti che gira in Internet ma non è stata depositata e non è in vendita.
Il paradiso non è qui. È tra le più belle canzoni che abbiamo scritto, ancora adesso la
gente si emoziona, però io non ho il diritto di farla sentire. Non è stata depositata e gli
eredi si rifiutano di farlo. Ma tutti la stanno scaricando da Internet.
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NESSUN RAPPORTO CON LA MOGLIE
Ti credo perché debbo crederti. Però è incredibile. Non vi siete mai posti il problema che vi stavate
separando?
Ti racconto una storia: quando c'è stato questo allontanamento, dopo ci siamo visti
un paio di volte. Una volta eravamo in giardino e si avvicinò la moglie, Grazia, che ci
abbracciò tutti e due e disse: «Ma perché avete litigato?» Io le risposi: «Ma io non ho mai
litigato». E Lucio anche disse: «Nemmeno io ho mai litigato con lui».
Io ne facevo un problema non di soldi ma di principio. Una volta Grazia mi disse: «Ma
io pensavo che tu avresti ceduto. Considerando che tu fai una canzone in un'ora!» Io le
ho risposto: «Il tempo e i soldi non c'entrano, è un problema di equità».
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Non c'è stato nessun litigio. Ci fu la sospensione tacita del lavoro dovuta al fatto che
io avevo fatto filtrare per interposta persona che desideravo equità nei diritti editoriali.
Resta il fatto che le sue prime canzoni, dopo Mogol, le firmò Grazia, la moglie, con lo pseudonimo
di Velezia.
Comunque...
Lo escludi?
Non lo escludo. È sicuramente possibile, ma non credo che il motivo siano i testi.
Piuttosto una questione economica. Le donne spesso intervengono nella vita di una
coppia ma per questioni patrimoniali.
Stai dicendo che a Lucio non interessava per niente la storia della divisione dei soldi?
Non gliene fregava assolutamente niente! Non era assolutamente un avido, Lucio.
Parsimonioso sì, avido mai.
Affari nostri.
C'era una testimone, Fiammetta, la mia compagna di allora, un'anima candida, gioio-
sa, gli occhi celesti, carina, simpatica. Lei era presente, te la devi far raccontare da lei.
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Provaci tu.
Grazia stava insegnando a Fiammetta come fare una torta. Quando vide che stavamo
familiarizzando e che tra Lucio e me si stava rompendo il ghiaccio, disse: «Lucio, vai a
casa a prendere il burro». Io non me ne resi conto ma Fiammetta, più accorta, mi disse:
«Guarda che l'ha spedito giù perché si è accorta che stavate parlando fra di voi».
Non te lo so dire. Le conclusioni le tirò Fiammetta. Io stavo solo parlando con Lucio
e c'era un po' di entusiasmo. Non c'era più quella freddezza misurata che era scesa fra
di noi.
Tu non hai nessun rapporto co/figlio di Battisti, e questo si può capire. Ma che tu non abbia nes-
sun rapporto con la moglie è singolare.
Io non ho rapporti con la moglie di Battisti, e non voglio averli. Mi fermo qui.
Ti fermi qui?
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LUCIO ERA UN PATATONE
La moglie e il figlio. Poi c'è il padre che ha novant'anni. La sorellina Alba, con la quale
avevo un rapporto molto bello, è morta.
Se quel giorno del burro Grazia ti avesse detto: «Giulio, basta con gli equivoci, fifa metà e metà e
si ricomincia da capo», tu che avresti fatto?
Avrei ricominciato a scrivere con lui molto volentieri. E credo che anche lui sarebbe
stato molto felice di farlo. Io penso che la separazione gli sia costata tanto.
In tutti i sensi. Ma più in termini professionali. Lucio non era attaccato ai soldi. Ed
era simile a me: per ragioni di principio si faceva tritare. A me è dispiaciuto smettere di
scrivere per lui. Ma posso aver pensato tre volte all'anno a questo dispiacere.
Di più. Mi verrebbe da dire spesso, ma non lo so. Posso solo dire che lui ha vissuto
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questo nostro lavoro insieme con grandissima gioia ed entusiasmo. Era il mio fan nume-
ro uno. La considerazione che lui aveva di me era esagerata, più di quella che io stesso
avevo di me.
Aveva ragione.
C'è mai stato un momento in cui hai detto: «Cbissenrega dei principi.' Voglio tornare a scrivere con lui».
No.
Dissero che vi eravate separati per una lite di confine. Avevate le vostre due case una accanto all'altra.
Una specie di lite di confine c'è stata, ma non è stata la ragione della separazione.
Anche perché è avvenuta dopo.
Non ve la voglio raccontare perché ne esce una cosa allucinante. Ritengo però che lui
non fosse responsabile di quanto accaduto. Ma non ne voglio parlare pubblicamente.
Passiamo ad altro.
Sai una cosa? Resta difficile pensare che vi siate separati per una questione di princzpio e senza
dirvi niente.
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Lucio era un patatone. Dolce e serafico.
A Mattia Feltri hai detto: «L'ultima volta che l'ho visto un anno fa ci siamo guardati e siamo
scoppiati a ridere. Ci siamo accorti che ormai non sapevamo più perché avevamo smesso di lavorare
insieme».
No, non è vero. Avevamo sempre presente che cosa era successo.
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IL DOPO MOGOL-BATTISTI: PASQUALE PANELLA
È un modo di scrivere diverso. Io non sono mai stato un appassionato del "nonsen-
se". Ritengo che sia una forma d'arte lecita ma io voglio avvicinarmi sempre di più alla
semplicità, alla non compiacenza. Io vado verso il popolare semplice, l'efficacia della
parola.
L'ermetismo è come il teatro sperimentale, non mi piace. Mi piace l'aderenza alla vita.
Mi piacciono i pezzi di vita vera. Come può interessarmi la vita inventata?
Ho sentito Don Giovanni e poi ne ho sentite un altro paio, ma non riuscivo a seguire la
storia. Quindi ho sentito la parte della melodia e basta. Non ho avuto modo di esaminar-
le profondamente. Tieni anche presente che io non sono molto attratto dalla musica.
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Dichiarazione sorprendente.
Io sposo la musica, faccio l'amore con la musica in quel momento in cui scrivo le
parole. Ma non è che se vai nel mio studio trovi dei dischi. Trovi solamente i dischi che
sto facendo.
No. Io ascolto la radio, se c'è una bella canzone mi piace, però sono molto difficile
nei gusti.
Boncompagni disse di aver incontrato Battisti due anni prima della morte e che Lucio gli disse: «C'è
poco da fare, quei pezzi lì non mi vengono più».
Boncompagni è una persona che stimo, è degno di fede. Mi meraviglia quello che ha
detto Lucio, ma io gli credo. Però attenzione. Lucio parlava sempre in modo ironico. Era
la sua maniera per liberarsi di domande alle quali non voleva rispondere.
Che vi devo dire? Certo non era una cosa che gli poteva far piacere.
De Greoti ha detto: «Don Giovanni è una pietra miliare, d'ora in poi dovremmo tutti fare i conti
con un nuovo modo di scrivere la musica».
Don Giovanni credo che sia stata la più bella canzone che Lucio ha scritto dopo la sepa-
razione. Non nascondo che su quella musica avrei scritto volentieri un pezzo.
Ci hai provato?
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No, non l'ho fatto. Una cosa del genere non la farei nemmeno per gioco.
Michele Serra sull'«Unità»: «Don Giovanni ridimensiona la musica leggera degli ultimi dieci
anni, la sua invenzione melodica è enorme, la frase musicale finisce sempre in un modo sorprendente,
lasciandoti sospeso nel vuoto in una vertigine, la scelta dei testi è geniale, molto meglio di Mogol.
Contento?
Più che contento, rispettoso. Io sono un uomo democratico. Bisogna rispettare le opi-
nioni. Serra ha scritto questo, e questo è quello che pensa lui.
Ognuno ha la sua opinione. Ma io sono contento perché la maggior parte delle per-
sone non la pensa come lui. Ma non è che lo critico per questo.
Le mie opinioni sono opinioni personali e le posso anche esprimere ma non preten-
dere che gli altri le accettino.
Non mi metto a criticare le canzoni di un collega. Ognuno fa quello che può. Dico
solo che gli autori si vedono nel tempo. Io mi fido del giudizio popolare perché è quel-
lo che seleziona. Per adesso direi che le cose mi vanno bene.
Ma un raffronto_
Non si può fare. Sono due periodi completamente diversi. È cambiato tutto. Non c'è
mai stato nessuno che ha visto una sorta di identità fra i due periodi. Non sono parago-
nabili. Poi riguardo al successo o alla popolarità è un'altra cosa. Ci sono dei dati di fatto
sui quali si possono fare delle valutazioni.
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LA CANZONE DELL'ARCOBALENO
Non li ho mai vissuti da solo. C'era sempre qualcuno. È una storia che puoi sempre
ricostruire parlando con le persone presenti. Non può averla inventata Mogol. Io l'ho
arginata in tutti i modi. Per un anno non ho mai fiatato, per un anno ho sempre negato
che fosse successo qualcosa.
Sostanzialmente L'arcobaleno, di Bella e Mogol, cantata da Celentano, sarebbe una canzone det-
tata da Battisti, dall'aldilà.
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Battisti, io negavo perché semmai era il contrario. Poi venne da me un giornalista del
Tg2, che era anche mio amico, e mi disse: «È vero o non è vero? Mi devi dire la verità».
Gli risposi: «Se ti racconto la verità, sembro un bugiardo per tutti». Ma poi decisi che la
verità era la cosa migliore.
E la verità?
Aveva telefonato alla mia segretaria una signora che sosteneva di essere in contatto
con Lucio Battisti e che Lucio le aveva detto che voleva dettarmi una canzone,
L'arcobaleno, appunto. Io rifiutai qualsiasi contatto con lei. Mi sembrava un brutto
scherzo. L'episodio è raccontato bene nel libro L'arcobaleno di Gianfranco Salvatore
edito da Giunti.
Leggiamolo:
Una pittrice italiana residente in Spagna, medium per passione, contatta il Cet, la scuola
diretta da Giulio a Toscolano, e parla due volte con Daniela, la sua segretaria; la seconda
volta le chiede di registrare la telefonata e di farla sentire a Mogol. Dice di aver avuto una
prima visione di Lucio Battisti il 18 settembre, nel bagno di casa sua. Ha visto un grande
arcobaleno partire dallo specchio e inarcarsi fino a un mobile bianco, ha udito mentalmen-
te la voce di Battisti che le dice di volere una canzone intitolata a quello che lei sta veden-
do: una canzone semplice, basata su due note. Risente poi la voce per strada che la invita
ad entrare in una certa libreria (si chiamava "Azzurro"), avvicinarsi a una certa parete, pren-
dere il primo libro da un certo scaffale: il libro s'intitola Oltre l'Arcobaleno.
Giulio, scettico per vocazione, si rifiuta di ascoltare la cassetta. Non ne parla a nessuno,
anzi se ne dimentica.
Il direttore di «Firma», mensile del Dinners Club, pubblica un articolo in cui dice di aver
sognato, una notte di settembre, Battisti com'era a vent'anni, e con un enorme arcobaleno
alle spalle, che gli parlava. Alcune delle sue parole coincidono con discorsi normalmente
attribuiti a Mogol: un anelito all'amore universale, un invito a sfuggire i falsi idoli.
Qualche etnologo fa notare che, nel pensiero simbolico, l'arcobaleno rappresenta il ponte
fra i vivi e i morti.
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Lo scettico comincia a vacillare, ma resiste. Poi un giorno si trova a casa di Celentano, e gli
racconta i due "messaggi". Si rivolge a Claudia Mori e le dice: «Scriverò quella canzone solo
se il destino vorrà che io trovi la melodia veramente adatta, la sua melodia». Gianni Bella,
che era presente, gli dà una cassetta con il provino di una canzone, ancora priva di testo.
La melodia, incantata e tremolante, oscilla su gruppi di due note. Giulio sente che la can-
zone era quella.
Guidando, Mogol ascolta la cassetta, e come ai vecchi tempi ne detta il testo, in tempo
reale, a Roberta che sta in macchina con lui. Un quarto d'ora, senza interruzione, dall'ini-
zio alla fine.
Solo un verso, quello che esprime la speranza che l'arcobaleno «ti riesca a toccare», lo lascia
perplesso. Nel momento stesso in cui concepisce la frase Giulio si domanda fra sé e sé:
«Ma cosa scrivo? Come può l'arcobaleno toccare?»
Celentano non se la sentiva di affrontare la canzone. Poi una notte, verso le tre, si alza e va
a registrarla nel suo studio domestico, una sola volta, non di più, perché la voce gli si spez-
zava. Nel disco si sente.
Suggestioni...
Troppe.
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Hai mai parlato con la medium?
Io no. Ha parlato con la mia segretaria. Ha detto che ha avuto questo incontro con
Lucio Battisti. Nel bagno. E Lucio le dice che io dovevo scrivere L'arcobaleno, perché è il
ponte tra i morti e i vivi.
In fondo la medium, alla quale non avevi prestato attenzione, fu la prima a parlarti di
L'arcobaleno.
Lei non mi aveva mai ispirato fiducia. Ma è come se avesse scatenato la scintilla e
messo in moto delle cose che, indipendentemente da lei, erano più credibili di lei.
Ripeto: suggestioni...
Non è razionalmente spiegabile. C'è una certa logica nel testo della canzone. Si dice
tutto e non si dice niente: un equilibrio che, se dovessi imputare alla mia creatività, direi
una bugia.
Vediamo le parole:
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Io son partito poi così d'improvviso
Che non ho avuto il tempo di salutare
L'istante è breve, ancora più breve
Se c'è una luce che trafigge il tuo cuore.
L'arcobaleno è il mio messaggio d'amore
Può darsi un giorno ti riesca a toccare
Con i colori si può cancellare
Il più avvilente e desolante squallore.
Ma tu sei un pragmatico.
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Io non credo alla parapsicologia. Non sono uno che si fa leggere le carte. Su que-
sto tipo di approccio sono stato estremamente cauto. All'inizio ho fatto resistenza.
Però poi ho trovato una giustificazione a prestare attenzione a questi fatti. La morte
è tranciante. Forse c'è una possibilità di comunicazione che però lascia sempre molti
dubbi comunque sia espressa e nonostante possa coinvolgere molte persone. Alla
fine è meglio non pensarci e vivere questo spazio vitale serenamente. Lo scopriremo
solo morendo.
80
MANDAI UNA LETTERA A LUCIO MORENTE
Ho cercato di contattare Lucio, scrivendo una lettera che ho affidato a un dottore, che
conosceva un'infermiera che lavorava in quell'ospedale. •
Avevo scritto: «Caro Lucio, spero che la stampa esageri, comunque questo è il mio
numero, se hai bisogno, io ci sono». Non seppi più niente, forse era già in coma, forse
qualcuno ha stracciato la lettera. Mi piacerebbe incontrare quell'infermiera. Parlare un
po' con lei. Scoprire che fine ha fatto la mia lettera. Ma non conosco il suo nome.
La tua opinione?
Avevo una grande voglia di vederlo ma sapevo che non mi avrebbero fatto entrare.
Me l'avrebbero proibito. Ne sono certo. Qualcuno mi disse anche che non facevano
entrare nessuno...
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Non era facile proibirtelo.
Io no.
Alla fine tu hai scritto la canzone, come ti aveva chiesto la medium, come la medium sosteneva che
ti avesse chiesto Battisti...
Se non fossi stato convinto da numerosi fatti che non hanno spiegazione, alla presen-
za di altre persone, non avrei mai scritto questa canzone. Che motivo avrei avuto di
inventarmi una storia che molti non avrebbero creduto fosse vera, un anno dopo che la
canzone aveva avuto un clamoroso successo? Sapevo che questa storia sarebbe servita a
persone magari interessate a insinuare ogni sorta di sospetto. Per fortuna non ho paura
di nessuno e mi basta sapere che sono sincero.
Quando uscì la canzone, la gente sapeva che era Lucio Battisti che parlava con te?
Non posso esserne certo, ma se evidentemente l'ho pensato è perché sono accadute
cose inspiegabili che hanno coinvolto più persone, tanto che mi sono convinto che la
richiesta pervenutami potesse esprimere un desiderio autentico.
Potrebbe essere anche così. Io non posso negarlo. Io cerco di esser il più aderente
possibile alla mia sincerità. La mia dignità vive sulla profonda sincerità. E quindi ti dico
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anche delle cose che non sono certe. Così ti dico che l'ipotesi che ho fatto è questa.
Potrebbe essere un fatto creativo come gli altri recepito attraverso una parabola molto
sensibile. Come se la mia parabola di ricezione fosse diventata in quella occasione molto
più sensibile del normale.
Mai. Ma una volta, dalle parti di Bologna, sull'autostrada, in una giornata molto bur-
rascosa, insieme alla mia compagna Fiammetta, ho visto fra le nuvole un disco volante
di proporzioni enormi alzarsi lentamente e poi in un decimo di secondo attraversare
tutto il cielo a una velocità impressionante. Fiammetta mi fece giurare che non l'avrei
detto a nessuno perché ci avrebbero preso per matti.
Era enorme. Una cosa grigia, convessa, color titanio, immensa, si è alzato con estre-
ma lentezza dalla terra. Pensavo che fosse qualcosa di simile a un aereo ma poi ho visto
la velocità e ho cambiato idea. Non c'era niente di paragonabile.
Un'altra cosa mi è successa ma l'ho rimossa. Incredibile, non la trovo più nella mia
mente, non mi ricordo più cos'era. Il disco volante lo ricordo perché c'era Fiammetta.
Ma l'altra non me la ricordo, ero solo.
Tipo un sogno?
83
QUANDO GLI DISSI DI NON FARE PIÙ CONCERTI
Fui io a convincerlo. Erano periodi in cui nei teatri il clima non era ottimo, contesta-
vano di tutto. Quelli dell'Autonomia avevano perfino fatto piangere Francesco De
Gregori, che era un uomo di sinistra. La situazione era assurda. Uno si alzava e gridava
una parolaccia al cantante. Gli altri stavano a guardare. Erano due i divi: quello che aveva
detto la parolaccia e quello che era sul palcoscenico. In Inghilterra l'avrebbero preso e
buttato fuori dal teatro subito. In Italia anarchia, caos, grida, insulti.
Avevi paura che succedesse a Lucio quello che era successo a De Gregori?
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Insomma, gli hai consigliato prudenza.
Era rischioso e inutile, anche se lui come artista aveva un carisma straordinario. Essere
neutrali significava essere qualunquisti.
Lui diceva che la televisione era peggio dell'olio di ricino, era una tortura.
Sicuramente era un mondo che non gli apparteneva. Non dimenticare che Lucio subì
delle vere aggressioni e delle contestazioni, gli dicevano che lui non era un cantante per-
ché non aveva una bella voce. Lucio riteneva queste affermazioni del tutto stupide e
ignoranti. Dire una cosa del genere dopo Dylan vuol dire che mancava assolutamente
una preparazione da parte dei critici.
No, assolutamente no. Se guardi le riprese vedi che lui si muove con sicurezza, è a suo
agio. Se ha detto quelle frasi è perché era insofferente a qualsiasi tipo di invadenza: negli
studi appena arrivi cominciano a spostarti di qua e di là come fossi un pacco. Lui era
paziente ma oltre certi limiti era veramente una tortura...
Quando io ero fuso, lui era ancora li che andava avanti. Per le cose che gli interessa-
vano era instancabile. Io avevo dei tempi abbastanza brevi, io lavoro con grandissima
intensità ma mi stanco subito. Ho una capacità di concentrazione molto forte. Scrivo al
cinema, mentre guido una macchina piena di bambini, ma dopo un po' sono esaurito.
Lucio invece...
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Lucio era un diesel fantastico. Andava avanti a lavorare per ore e ore.
Ma scherziamo? Una volta arrivò sul palco vestito con un lenzuolo, con un buco per
la testa, allargava le braccia e cantava. Non aveva paura di niente. Reggeva il suo ruolo
in un modo straordinario. Ti ho detto già: si incazzava solo quando qualcuno si intro-
metteva nella sua vita, interrompendolo in quello che stava facendo. E reagiva in modo
improvviso e a volte duro. Di natura era pacioso. Una volta, a Londra, lo abbandonai
nell'androne di un palazzo. E lo dimenticai li. Tornai dopo qualche ora temendo una sfu-
riata e lo trovai a tavola con i portieri. Tutto felice.
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AMAVA LE DONNE MA NON COME LE AMAVO IO
Lucio era incredibilmente discreto. Non lasciava trapelare niente dalla sua vita. Era un
uomo assolutamente chiuso. Su discorsi culturali, di vita, di musica era apertissimo. Ma
della sua intimità non lasciava trapelare nulla.
Un orso...
Amava la sua privacy. Da giovane, quando l'ho conosciuto io, era molto più socievo-
le. Andando avanti si è dilatata la frattura fra il suo mondo e il mondo esterno. In prati-
ca fuggiva. Cercava di vivere la sua vita senza essere pressato, stimolato, invaso. Quando
qualcuno lo riconosceva e gli diceva: «Ma lei è Lucio Battisti!», lui rispondeva: «Magari!»
Non lui.
Come con gli uomini. Nessuna differenza. Non aveva un approccio diverso, non cam-
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biava. Il centro del mio mondo, da giovane, era la grazia femminile. Per lui non era così.
Non si può dire che fosse insensibile. Amava le donne, certamente, ma la bellezza fem-
minile per lui aveva un ruolo molto meno importante che per me.
Ero io. Chi rimaneva affascinato ero io. Lui era analitico, una macchina per scoprire
come funzionavano le cose. Era uno che guardava tutto con la lente di ingrandimento
e un po' di diffidenza. Capiva tutto. Di una canzone non gli sfuggiva niente. In questo
senso mi ha arricchito molto. Era innovativo, informato su cosa succedeva nel mondo.
Io ero uno tutto istinto. Tutto quello che facevo Io trovavo dentro di me. Non leggevo
i testi degli altri. Agivo del mio sapere, delle mie emozioni. Lui guardava tutto, ascolta-
va tutto. Era musicalmente molto colto.
Ti ha insegnato qualcosa?
Mi ha insegnato tanto. Mi ha passato un po' della sua capacità di valutazione dei grup-
pi nuovi, del modo di cantare. Capiva ogni evoluzione della musica pop.
Hai inciso più tu sulla sua musica o lui sulle tue parole?
Lui non ha mai inciso sulle parole. C'era un rispetto dei ruoli totale. Io gli ho mosso
solo una critica: quella volta che abbassò il livello della voce in Anima latina.
Prima di incominciare il nuovo disco ci incontravamo, noi due soli, non era ammesso
nessuno, e valutavamo il discorso che avevamo fatto, analizzavamo il risultato, individua-
vamo la strada da seguire. Lucio voleva conoscere il mio punto di vista. Io gli davo il mio
parere, che mi sembrava considerasse molto. Mi riferivo sempre a sue canzoni recenti
che mi piacevano più di altre. Cercavo di indirizzarlo verso un genere che lui aveva già
affrontato e che mi piaceva particolarmente.
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E i discografici qualche volta tentavano di dirvi quello che dovevate fare?
Mai. Li avremmo fatti a pezzi. Io per primo. Ma lui mi avrebbe seguito con il martel-
lo. Il nostro era un rigore assoluto. Potevano parlare solo dopo l'incisione del disco. Una
volta il direttore artistico della Numero Uno ci portò la prima copia del 45 giri con
Pensieri e parole. Io e Lucio eravamo nel mio ufficio, lui si affacciò alla porta e sventolan-
do il disco ci disse: «Ragazzi, ve l'ho detto, questa è la fine di Battisti-Mogol». Io guar-
dai Lucio. Era bianco, aveva sulla bocca un sorriso da spaventato. Io gli dissi: «Lucio,
non avere paura. Se cadiamo, cadiamo in piedi». E lui: «Hai ragione». La canzone fu otto
mesi al primo posto delle classifiche. Eravamo un duo armato. Potevamo fare la guerra
à mondo per difendere la nostra coerenza.
Di concerti ne avrà fatti al massimo dieci. Io andai una volta in Toscana. Mi ricordo
un grande prato in Toscana, ci saranno state seimila persone.
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SUA MOGLIE, GRAZIA
Nel 1982, dopo tanto tempo di isolamento mediatico, Lucio fece un'apparizione in una televisione
svizzera. Si dice per una scommessa persa con degli amici inglesi.
Non ne so niente. Vidi quella trasmissione, una cosa molto cheap, rustica. Lui aveva
un fazzoletto...
Direi proprio di no. Era molto attento a tutto quello che faceva. Ponderava tutto. Mi
sembra molto strano che abbia scommesso. Non lo posso negare ma era una cosa che
non faceva parte del suo modo di agire.
Che io ricordi no. Lui con me era sempre molto concentrato. E il discorso era sem-
pre di un buon livello.
Non ne so niente.
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E di quello vero, a Milano?
Non ne so niente.
No.
Non è possibile.
Neanche dopo?
Ma non è possibile.
Eravamo molto riservati. Qualche volta scherzavamo. Come quella volta che si era
sparsa la voce che Lucio Battisti e Mogol erano amanti. Due omosessuali.
Scherzavate?
Eravamo al Dosso e passeggiavamo. Io gli dissi che qualcuno ci credeva amanti. Lui
mi passò il braccio sulla spalla e disse ridendo: «Perché, ti arrabbi?» Era sempre molto
Ironico.
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Sì.
No.
Me la presentò dopo tanto tempo che stava con lei. Comunque, conoscendolo, è stato
un atto ufficiale. Ha detto: «Questa è Grazia».
No. I rapporti li avevo con Lucio. Grazia l'ho incontrata poche volte. Lavoravamo
quasi sempre da soli.
E dopo la separazione?
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La prima volta che l'hai vista che impressione ti ha fatto?
Carina.
Simpatica?
Lui era riservato e io non ero curioso. Io non sono mai interessato ai fatti degli altri.
Abbiamo di Lucio Battisti un'immagine sorridente. Sorriso malinconico, però sorriso. Tu invece
l'avrai visto anche triste...
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NON ERAVAMO FASCISTI
A causa di una fotografia che fu messa sulla copertina di un album. C'erano molte
braccia levate in alto.
Il saluto fascista?
Ma quale saluto fascista. Era un'invocazione a due mani. E poi l'immagine di Lucio
con il solito braccio alzato...
Un vizio.
Era stato colto nel momento in cui dava il via all'orchestra durante la registrazione di
Io penso a te. Poi c'era un altro fatto, molto più importante: non parlavamo di politica.
Non dicevamo di essere comunisti. Dicevamo di non fare parte di schieramenti. E poi
non dimenticarti che Lucio era molto individualista. E con il tempo lo è diventato molto
di più.
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Una volta mi ha intervistato Aldo Cazzullo. Mi ha chiesto: «Allora Mogol ma per chi
potresti votare?» Io gli ho detto: «Tutto l'arco democratico». E lui ha insistito: «Ma qual
è l'arco democratico?» E io: «Lo sai benissimo, Margherita, An, Pd, eccetera». Nel sot-
totitolo uscì: «Voterò Margherita».
Ti sei arrabbiato?
Certo. Gli ho telefonato per protestare. «Ma che cosa avete messo nel sottotitolo?» E
lui: «Ringraziami. Volevano metterlo nel titolo».
Una volta ho votato per il Pci, ma perché c'era una mia amica che si presentava alle
amministrative. Altre volte ho votato Psi, Pri o Pli. Per il resto direi che non sono anda-
to a votare.
Il nostro repertorio lo conoscono tutti. Dimmi tu se ci sono nelle nostre canzoni delle
prove che io o Lucio eravamo fascisti. È una cosa che sembrava facesse comodo a tutti.
Anche tu, come vedi, stai insistendo, quasi a voler sostenere una tesi che non ha nulla a
che fare con la verità. Però a via Gradoli, nel covo delle Br, che non erano certamente
dei fascisti, trovarono tutte le nostre canzoni. E mi hanno perfino detto che in un comu-
nicato delle Br hanno citato le nostre parole, <de discese ardite e le risalite».
A me lo hanno riferito. Non una persona, tante. Per cui ho pensato che fosse vero.
L'ho considerato una prova che siamo entrati nel linguaggio popolare.
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Si diceva però che Lucio frequentava e finanziava il Msi.
Viste le sue abitudini parsimoniose, lo escluderei. Sarebbe stato anche troppo se gli
avesse offerto un caffè.
Mettiamo che il Pci avesse vinto all'era di Togliatti, noi saremmo probabilmente
diventati un paese dell'Est, la cosa ti sarebbe piaciuta?
Meno male.
D'Alema sono andato ad aiutarlo a Gallipoli, indipendentemente dal fatto che appar-
tenesse a uno schieramento. Sono andato con il gruppo musicale, ero presente per testi-
moniare che, se lo eleggevano onorevole, io ero d'accordo. Un uomo come D'Alema
vale la pena tenerlo. Ma in nome dell'Italia, non in nome dei partiti.
Del Turco in Abruzzo. Bordon a Trieste. Veltroni a Roma per la campagna elettorale
da sindaco.
Se io mi presento, tu mi aiuti?
Se ti comporti bene.
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CON SILVIO BERLUSCONI A PARLAR DI MUSICA
Sì, uomo di grande carisma. Sono andato a cena con lui, Tony Renis e Berlusconi.
Berlusconi? No. L'avevo visto due o tre volte tanti anni prima. Una volta ero anda-
to a parlargli dell'idea di fare una trasmissione per bambini, perché mi interessava il
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figlio di Morandi che suonava il violino. Volevo scrivere un telefilm per bambini che
vivevano storie poliziesche. Lui disse che non valeva la pena di produrre, che loro
compravano tutto all'estero.
Eri nella sua agendina telefonica accanto ai nomi di Sam Giancana e dei suoi amici mafiosi?
E poi?
Fine dell'argomento. Dopo la conferenza stampa andai di là perché arrivò Tony che
doveva parlare ai giornalisti. Aveva gli occhiali scuri, un vestito bianco, era l'immagine
stereotipata di un mafioso. Mi disse: «Come sto Giulio?» Lo guardai e dissi: «Stai bene»
e scappai via. Che cosa potevo dirgli? Tony è fantastico. Io l'ho trovato una poesia.
Perché per me le poesie sono queste. Le poesie della vita.
Ce n'è un'altra, di poesie della vita, che trovo fantastica. Mio padre aveva avuto due
ictus. Era sempre stato un vero dongiovanni. Era troppo forte in lui l'ammirazione per
le donne. Era incontenibile. Quando ebbe il secondo ictus lo portai all'ospedale.
Quando si svegliò guardò tutti i lettini della corsia e mi disse: «Giulio, perché siamo sul
treno?» Io gli dissi: «Papà, non siamo sul treno, siamo all'ospedale». A quel punto ci
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accorgemmo che guardava intensamente da una parte. Stavano arrivando due infermie-
re, una bionda e una mora. Lui si alzò e disse in dialetto: «Non so chi scegliere». Le infer-
miere gli risposero spiritose: «Ma tutte e due, no?» E lui: «Non posso, non sono tanto in
forma oggi». Dimmi che non è poesia di vita questa qui. Meravigliosa poesia visiva.
Ancora? Io non appartengo a nessuno schieramento, per principio. Non vendo il mio
cervello e la mia anima a nessuno. Chi.considera importante l'appartenenza politica non
ha a mio parere una grande personalità.
Qui al Cet la prima cosa che predico agli autori è l'indipendenza intellettuale. Bisogna
giudicare caso per caso, indipendentemente da qualsiasi tipo di appartenenza. Bisogna
essere liberi ogni momento di dire la propria opinione. Io non tengo a nessuna squadra
di calcio per poter sostenere la nazionale italiana e le squadre italiane quando giocano
all'estero.
Quando ero bambino tifavo per il Milan perché mio padre tifava per il Milan. Ma poi
basta. Ho smesso quando ho capito che chi ha più soldi fa la squadra più forte. Ci sono
squadre dove non gioca nessun italiano. Che senso ha fare il tifo?
Certamente. Perché devo attaccarmi a una squadra dove giocano solo stranieri? Io
preferisco parteggiare per squadre italiane a tutti gli effetti. E spesso parteggiò per i più
deboli.
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Bravo, ero un fan del Chievo.
Non esageriamo.
Non lo so. Non gliene fregava niente. Mi ricordo che lo invitai alla prima partita con
la nazionale cantanti, all'Arena di Milano nel 1975. Vennero trentamila spettatori a
vederci. Lucio non sapeva che cosa volesse dire giocare a pallone. Lo mettemmo cen-
troavanti. A un certo punto gli facemmo un passaggio ma la palla passò otto metri sopra
di lui. Incredibilmente lui cercò di prenderla alzandosi sulla punta dei piedi e scatenan-
do una incredibile risata collettiva.
Non credo.
Mai più. Ne venne a vedere qualcuna, ma solo per l'amicizia che lo legava a me.
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CAPODANNO CON COFFERATI E DI PIETRO
Io ho divorziato.
Io sono per il divorzio e sono mortificato perché la Chiesa perdona gli assassini ma
non i divorziati. Che non si possa avere l'assoluzione per me è un'ingiustizia.
Tu sei credente?
Io sono credente. Praticante quando posso. Vado a messa volentieri, ma non riesco ad
andarci tutte le volte. Poi mi confesso, le mie confessioni durano un minuto.
Credo di sì.
Fini nel '93 disse: «Concetti a noi cari si trovano di più in Battisti che in Dalla ma questo non vuol
dire che uno stava di qua e l'altro di là».
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Molto onesto.
Fini lo conosci?
Gli scrissi una lettera quando cercavo di contattare tutti i politici per spiegare cosa
stavo facendo qui al Cet. Mi ricevette due giorni dopo. Fu molto gentile. Mi mise a mio
agio. Disse: «Molto interessante». Tutto qui.
Ai tempi di Mani pulite. Quando lui fece questa operazione, sperai in una nuova Italia,
vidi l'inizio di una nuova era. Oggi non sono più d'accordo che sia stato l'inizio di una
nuova era. E non sono più d'accordo nel condannare Craxi come è stato fatto allora. Se
bisognava condannare tutti quelli coinvolti nel finanziamento dei partiti, le persone da
giudicare sarebbero state molte di più.
Non te lo so dire, non siamo così certi di tutto quello che succede.
Anche Enzo Tortora è stato condannato per spaccio di droga, comunque di Craxi ho
stima, perché era un uomo estremamente coraggioso. Era uno statista, nel senso che si
faceva rispettare da tutti, era un uomo di un carisma straordinario, un oratore di grande
forza. Lo ricordo con simpatia.
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Non sono andato però ho un buon rapporto anche con il figlio. Bobo è simpatico.
Sono deluso. Sono uno che sperava in qualcosa, avevo scritto una canzone molto bella
che parlava dei mondiali di calcio, di un paese che sta rinascendo. Una canzone emozio-
nante, di appartenenza di un popolo.
Come si chiama?
La nostra canzone. La canzone nostra, degli italiani. Che parla appunto delle nostre isole,
che si abbracciano sopra al mare, della rinascita del nostro paese.
Si disse a un certo punto che avevi scritto una canzone per Di Pietro.
Mai successo.
Questo prova ampiamente il mio modo di essere. Cofferati lo stimo molto. Io giudi-
co le persone per quello che sono. Se escludiamo delle persone per le idee che hanno
siamo dei poveracci e anche un po' nazisti.
Erano venuti a trovarmi, qui al Cet. Era una cosa privata. Ma un giornalista presente
decise di ignorare il nostro desiderio di privacy e scrisse un articolo. Mi sembra che fosse
di «Repubblica».
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MARIA DE FILIPPI FA SCUOLA spErrAcoLo, Io SCUOLA SCUOLA
Risulta anche a me. Hanno stampato un manifesto con la foto di Lucio e ci hanno
scritto sopra: «È dei nostri».
E voi?
Si parla anche di un manifesto con il testo del Mio canto libero sullo sfondo di una croce celtica.
Dario Fo sottolineava l'eccesso di licealità e di crepuscolarismo delle vostre canzoni e la totale assen-
za di realismo di classe.
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E chi l'ha detto. C'è una canzone dove io racconto di uno che arriva a casa ed è umi-
liato perché non ha la possibilità di mantenere la famiglia come vorrebbe. Era poco
informato Fo. Comunque lui tira le sue conclusioni e io le mie.
E i giornalisti?
Cazzullo, titoli a parte, Francesco Merlo, Gian Antonio Stella, Curzio Maltese, Saverio
Vertone, Ernesto Galli della Loggia.
Travaglio?
Non ho letto niente, non so neanche chi è, l'ho sentito solo nominare.
San/oro?
Vesp a?
Piace a mia moglie. La sera, appena mi addormento, mette subito Porta a Porta.
Nicole Kidman. Per il suo fascino, non è una questione di sesso. Mi piacerebbe parlar-
le, è stimolante, mi piacerebbe andare a colazione con lei. Mi sembra molto intelligente.
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Le italiane? La Bellucci?
La Feti/i?
Afef ti piace?
La Cucinotta?
Idem...
Cada Bruni?
Bella ed elegante.
La Bignardi?
Simona Ventura?
Ma no, sono carine, ma... Maria Latella. Lei è una donna interessante. Potrebbe esse-
re piacevole parlare con lei. Anche Barbara Palombelli. È simpatica e intelligente.
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Maria De Filippi, con una metodica diversa, si occupa della stessa cosa di cui ti occupi tu: formare
i giovani a un mestiere artistico.
Però il successo...
Adesso c'è quel gruppo che è andato a Sanremo. I Frankhead. Ma oggi non ci sono
quelli che emergono, si va avanti sul vecchio.
E x Factor?
Lo farei. Se fosse una cosa molto seria, perché no? Ma non me lo proporranno.
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IO ERO L'ACCELERATORE, LUI IL FRENATORE
TOo?
Io freddo e lui vulcanico. Lui conservatore e io innovativo. Lui veniva dalla campagna,
dalla tradizione. Suo papà era il direttore del dazio. La cultura locale non la puoi dimen-
ticare. Aveva una mentalità molto pragrnatica, grandi capacità intellettuali di analisi,
grande forza di volontà, autentiche passioni, grande serietà. Questo era Lucia, un gran-
de tecnico. Io sono il contrario del tecnico. Io ero l'acceleratore, lui il moderatore.
Il più chiuso?
Lui.
più socievole?
Sempre lui. Era paziente, disponibile, nel clima giusto. Era più pacioso di me.
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Hai detto: «Lucio è analitico, matematico, costante».
Sì, sicuramente.
E contraddittorio.
Contraddittorio mica tanto. Io ero disponibile a qualsiasi tipo di esperienza, lui era più
imbinariato, ma anche più preparato.
Ruggeri ha detto che siete stati capaci di coniugare al meglio il mercato con l'intelligenza creativa. Ma
chi era di voi due più mercato e chi più intelligenza creativa?
Il mercato non è mai entrato nel nostro lavoro. Era una conseguenza della nostra
opera creativa. Se non fosse stato così sarebbero venute tutte canzoni programmate,
omogenee. Invece sono tutte così diverse, tutte così balzane che non è possibile che fos-
simo dei geni del mercato. Né io né lui lo eravamo. In realtà il mercato ha risposto a una
forma di libertà creativa.
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Era più importante la libertà artistica del rischio commerciale. A noi non ce ne frega-
va niente. Noi abbiamo sempre rischiato al massimo. Come puoi coniugare La gallina coc-
codè con I/ mio canto libero? O Luisa Rossi? Come avremmo potuto studiare per il mercato
una cosa con così tante varianti?
Il più presuntuoso era lui. In realtà era profondamente umile. Bastava che gli dicessi:
«Ma sai che quella canzone...» che subito lui la metteva da parte. Ma all'umiltà di base
aggiungeva una fortissima considerazione di se stesso, la coscienza di essere a un altis-
simo livello. Non era presuntuoso ma cosciente del suo valore. Lucio aveva più di me la
capacità di valutare quello che stava facendo. In realtà eravamo entrambi sintonizzati
sulla stessa onda. Artisticamente eravamo due anime e una voce sola.
Era uno che riusciva a trovare la serenità e la felicità nonostante tutto. Era un grande
studioso, si metteva con la chitarra, suonava, ascoltava i dischi.
In una vecchissima intervista, nel 1966, a «Bella», disse: «Perché illudersi in una vita dove le illu-
sioni portano sempre a delle disillusioni? Perché credere nei sogni? Perché credere nell'amore? Io credo
di aver capito che il mondo è cretino. Come posso prendermi sul serio? Cerco di vivere cercando di sfug-
gire dal dolore». Un bel po' pessimista, sembrerebbe.
Aveva vent'anni. Erano i pensieri di un giovane. Lui aveva una visione del mondo un
po' cruda. Lucio era crudo.
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Raccontano che andava alla Standa e comprava dieci paia di pantaloni tutti uguali, dieci paia di
scarpe tutte uguali.
Non gliene fregava niente di come si vestiva. Spesso portava scarpe militari, cose che
costavano poco. Arrivava da momenti duri. Dalla campagna. Dalla povertà. Dalla lotta
per sopravvivere.
Ma questa ricchezza non l'ha intaccato molto. Non viveva da ricco. Si era fatto al mas-
simo una bella casa.
Non me lo ricordo. Ma non si comprò la spider, tanto per capirci. Io sì. Io giravo col
coupé, la 1600 Osca, quarant'anni fa.
È vero che in Unione Sovietica studiavano i testi delle tue canzoni all'università?
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Il popolo deve sapere.
Iniziavo a vivere un po' di panico. Finché l'aereo dell'Alitalia si è staccato dal suolo
ero un po' terrorizzato: avevo l'impressione di essere seguito. Ho lasciato la Russia con
grande sollievo.
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PERCHÉ NON SIAMO TORNATI INSIEME
Perché tu non hai mai pensato dentro di te che fosse veramente finita...
No. Ho sempre pensato che ci sarebbe stato un momento in cui la cosa si sarebbe potu-
ta ricomporre. Ma non penso di essere stato il solo. Anche Lucio, secondo me, lo pensava.
Lucio era dentro una trappola. Correva su rotaie che lo portavano lontano da me e
dalla ditta Battisti-Mogol.
Poteva liberarsi...
Teoricamente. Per fare delle cose spesso bisogna avere anche la possibilità di decider-
lo. Non lo so fino a che punto lui potesse uscire da quella sua decisione iniziale.
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Ma non potevi cedere tu?
Non si può cedere se ne hai fatto una questione di principio. La Numero Uno non
esisteva più. Bisognava fare una nuova società. Era evidente che doveva essere al cin-
quanta per cento.
Non c'era una discussione, non c'era un dialogo, non c'era un litigio.
Ma la trappola?
Non ti attaccare alle parole. Volevo dire che Lucio era dentro una situazione psicolo-
gica nella quale il discorso di carattere economico era importante ma non fondamenta-
le. Il problema era che entrambi pensavamo di avere ragione e ne facevamo una questio-
ne di principio. Io come lui.
Quando Lucio è morto non hai avuto la sensazione di essere stato troppo rigoroso?
No. Avrei avuto quella sensazione se avessi preteso una lira di più. Ma io volevo solo
l'equità. Mi sono semplicemente difeso.
Quello che assolutamente non si riesce a capire è: perché non ne avete parlato?
Perché sarebbe stato inutile parlare con lui. Io l'ho voluto ritenere responsabile. Lui
aveva assoluta libertà come me di fare delle scelte.
Invece?
Invece aspettava che cedessi. O meglio, aspettavano che cedessi. Grazia, la moglie, un
giorno me lo disse: «Noi pensavamo che avresti ceduto dopo un po'».
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Quando hai raccontato del fatto che ti hanno detto che lui stava a Toscolano e guardava quaggiù il
Cet sono rimasto colpito. Lucio, il tuo vecchio amico, non ha il coraggio di scendere. Perché?
Io non gli ho telefonato per chiederglielo. Lui è riservato, io sono riservato. L'ho già
detto: lui è un principe indiano, io sono un principe indiano. Io so che se lui è andato li
e non è sceso, c'era qualche impedimento. Magari di ordine psicologico. Il pudore, l'or-
goglio, qualcosa di simile.
Sono andato.
Ma Grazia, la moglie, non ti aveva invitato. Erano state invitate solo venti persone.
Il funerale si è svolto dentro le nostre proprietà del Dosso. La chiesa è dentro la lot-
tizzazione. Non avevo bisogno di essere invitato.
Ma ci sono andato.
Nessun fin?
I cancelli erano chiusi, si trattava di una casa privata dentro una lottizzazione privata.
Ognuno ha il diritto nella sua festa di dire: qui non entra nessuno.
121
Ma fuori dal cancello?
Non li ho visti.
No.
Ero in punta di piedi. Io non invado. Stavo pregando per Lucio e basta. Non ho fatto
niente, ero li fuori dalla porta.
Se non avessi avuto la casa accanto a quella di Lucio, non saresti potuto andare al suo funerale.
Non te lo so dire.
122
Hai rimosso?
123
QUEL VIAGGIO A CAVALLO FINO A ROMA
125
Oggi no. Non è automatica la trasmissione in radio delle canzoni che vanno al
Festival. Il Festiva! ormai è ignorato dalla metà degli italiani. Così com'è va verso l'asfis-
sia. Bisogna trovare qualcosa di rivoluzionario che lo rilanci. Io ho fatto un progetto.
Finora non ha interessato nessuno perché non vogliono neanche leggerlo.
Eravate in quattro.
Io e Lucio eravamo a cavallo, Oscar Prudente e Mario Lavezzi guidavano la mia Land
Rover che trainava la roulotte dove dormivamo la notte.
126
C'era un servizio su «Oggi». Sembra che dessero fastidio ai cavalli.
Non ricordo.
La cosa buona è che da allora è nato un progetto, andato avanti diversi anni e che ora
dovrebbe arrivare a conclusione. Il progetto di fare una pista ecologica europea con tutte
le vie storiche unite che tocchi tutti i luoghi ecologicamente più interessanti, con ostelli
e stalle per tutte le famiglie europee che vogliano fare un pezzo di tragitto ogni anno.
Un'idea di vacanza attraverso l'Europa. Una iniziativa ecologica, di straordinario valore,
da società civile vera.
Gli ho detto che avevo deciso di andare a cavallo a Roma: «Te la senti di venire?» E
lui: «Posso provarci». Credo che Lucio abbia voluto farmi un piacere. Era un gesto di
amicizia.
Non era mai andato a cavallo prima e non è mai andato a cavallo dopo.
Mai. Ma prima, durante la preparazione, almeno una trentina di volte. Andavo a caval-
lo con un gruppo di matti. Galoppavano tutti insieme saltando fossi e io li seguivo. Poi
ho imparato a tenere a freno i purosangue.
127
DOPO DUE CANZONI BRUTTE SPENGO LA RADIO
Non mi disse mai perché. Altri mi dissero che aveva paura dei rapimenti.
E italiani?
Disse una volta: «Il guaio è che in Italia ci sono ancora troppi cantanti alla Claudio Villa».
È possibile. Lucio riteneva che i cantanti tradizionali avessero fatto il loro tempo. Lui
era molto più avanti.
Di De Andttf disse: «Trovo i suoi testi interessanti ma piuttosto goliardici, tant'è vero che piacciono
solo agli studente/li. La parte musicale, poi, è solo accompagnamento».
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È possibile. De André era un grande uomo, un grande artista e un signore.
Nobiluomo nell'animo, autoironico, con grande capacità autocritica, molto umile.
Faceva delle cose molto garbate, perfette. Il testo non era goliardico come diceva Lucio.
Ma certamente sotto il profilo musicale era easy. Per Lucio che seguiva tutto il mondo
musicale era forse elementare.
Per celebrare bene la coppia Mogol-Battisti si aspetta che muoia anche tu.
L'aeroporto Mogol-Battisti...
130
Senti la musica alla radio?
Pochissimo.
Neanche in auto?
In auto penso. Se accendo la radio e sento due canzoni che sono un disastro chiudo
subito.
Io non sono d'accordo con la maggior parte dei discorsi che fanno i critici. Il maggior
critico deve essere l'artista stesso. Una volta scrissi che il critico cavalca l'arte come la
pulce l'elefante.
Tutto. L'immagine. Il modo di farsi fotografare con gli altri, la decisione di dedicarsi
al blues.
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Zucchero ti imita benissimo.
Sì. Lui, come molti altri, pensa che imitarmi negli spettacoli faccia molto ridere. Glielo
dico sempre a Morandi: perché non imiti Ramazzotti che ha una voce molto più parti-
colare della mia?
Gli autori delle canzoni hanno delle grossissime responsabilità. Parlano a milioni di giovani.
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L'ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO LUCIO
È come se tu avessi conosciuto una cosa bella, un momento bello della tua vita, un
rapporto bello, parli, discuti, è un compagno e poi non ce l'hai più. Ho dovuto abituar-
mi nel tempo.
Qualche cosa che non era imputabile a noi. È quello che penso io. Ma credo che lo
pensino un po' tutti.
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Ha lasciato qualcosa di scritto?
Non vorrei sbagliarmi ma ricordo di averlo trovato in giardino mentre stavo andando
in casa a cambiarmi. Lo vidi con la coda dell'occhio e gli dissi: «Uè, ciao Lucio, scusa ma
devo andare in casa a cambiarmi». E sono andato a mettermi le scarpe da pallone.
Ma non potevo fermarmi anche se avevo fretta di cambiarmi le scarpe? Forse perché
i miei tentativi di ristabilire un discorso amichevole erano un po' cessati. Forse il fatto
che avevo preso coscienza che le cose non sarebbero mai cambiate. Comunque sul tipo
di condotta che ho avuto non ho rimpianti. Ci ho pensato e ripensato ma non ho rim-
pianti. Avrei potuto essere più comprensivo anche se ritenevo la sua posizione sbaglia-
ta. Ma io ero ormai certo che con lui avrei potuto ritrovare il dialogo. Ma non fu così.
... nel tempo l'avrei sicuramente pagata. Avevo cominciato a lavorare con Lucio
Battisti perché mi aveva sorriso. Un niente mi può far decidere di fare delle cose incre-
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dibili. Se ritengo che sto andando contro un muro la mia voglia di fuggire da un dolore
che io reputo ingiusto mi impedisce di muovermi. È un discorso psicologico un po' con-
torto, vero?
Non sarebbe stato possibile riaccendere niente. Con lui sì, tutto.
Però quando lei ti ha abbracciato e ha detto: «Avevamo pensato che avresti ceduto» ...avresti potu-
to cedere e ricominciare...
Spero.
Sono passati dieci anni dalla sua morte. Se tu fossi ministro della Cultura?
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INDICE DEI NOMI
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Ferilli, Sabrina 111 Pausini, Laura 45
Fiammetta (compagna di Mogol) 64, 65, 83 Pinchi 28
Fini, Gianfranco 105, 106 Prudente, Oscar 126
Fo, Dario 109,110 Radius, Alberto 18
Francesco (figlio di Mogol) 44, 45 Ramazzotti, Eros 132
Frankhead 112 Ratti, Elena 15
Galli della Loggia, Ernesto 110 Ratti, Pier Luigi 14, 15
Gasparri, Maurizio 99 Renis, Tony 101, 102
Giancana, Sam 102 Roberta (compagna di Mogol) 77
Grazia (moglie di Lucio Battisti) 63-65, 67, Ronaldo, Cristiano 31
93-95, 120, 121, 134 Rossi, Vasco 125
Guerri, Giordano Bruno 110 Ruggeri, Enrico 114
Jovanotti 36 Rutelli, Francesco 106
Kidman, Nicole 110 Santoro, Michele 110
Latella, Maria 111 Scalfari, Eugenio 110
Lavezzi, Mario 11, 126 Serra, Michele 73
Lennon, John 21, 130 Shakespeare, William 47
Liguori, Paolo 19 Stella, Gian Antonio 110
Linda 49 Tenco, Luigi 32
Maltese, Curzio 110 Togliatti, Palmiro 99
McCartney, Paul 21 Travaglio, Marco 110
Merlo, Francesco 110 Velezia, vei Grazia
Mina 36, 46 Veltroni, Walter 99, 106, 130
Morandi, Gianni 102, 132 Veneziani, Marcello 110
Mori, Claudia 77 Ventura, Simona 111
Morricone, Ennio 32 Vertone, Saverio 110
Moyersoen, Albert 126 Vespa, Bruno 110
Palombelli, Barbara 106, 111 Villa, Claudio 129
Panella, Pasquale 60, 71-73 Zucchero 131, 132
138
Crediti fotografici
clsabelli@tin.it
g.alloro@tiscalinet.it
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Indice
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A sinistra:
Lucio Battisti passeggia per Milano con la moglie
Grazia Letizia Veronesi il 13 marzo 1974.
Sopra:
Lucio Battisti con Grazia Letizia Veronesi
e Alberto Radius negli anni Settanta.
In alto:
Lucio Battisti a Molteno (Le) nel 1997 (foto di Alfonso Catalano).
In basso:
Mogol nel 2008 a Scalo 76 (Rai Due) premia Jovanotti,
vincitore con Fango della prima edizione del premio Mogol
(foto di Mauro Pomati).
Due immagini dcl Cct, la scuola per cantanti, autori e musicisti
fondata e diretta da Mogol in Umbria.
Il concerto per Lucio Battisti tenutosi a Roma l'11 settembre 1998.
(Foto di Riccardo Musacchio).
I Sfit,
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