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Una

fitta produzione storiografica ha ormai


tolto il populismo dalla dimenticanza nella quale
lo avevano confinato la sconfitta politica e
il trionfo di posizioni ideologiche ad esso
avverse.
In effetti dalla metà del secolo scorso agli
anni della rivoluzione russa il dibattito sul
populismo ha costituito un riferimento essenziale
per la riflessione marxista, ne ha condizionato le
formulazioni teoriche ed orientato gli sviluppi
fino a determinare concrete scelte istituzionali,
politiche ed economiche.
Nei nostri anni di domande sulle vie percorse
dal socialismo e dal comunismo e sulla possibilità
di un loro futuro rinnovamento, i termini
fondamentali del dibattito offrono a tutti una
guida critica e costruttiva.
Franco Battistrada, di professione ingegnere,
è nato ad Ascoli Piceno ma risiede da molti anni
a Genova. È collaboratore del « Centro ligure di
storia sociale » e dell’Istituto Gramsci e scrive su
varie riviste. Un suo saggio « Bolscevismo e
populismo a 60 anni dall’ottobre » è stato
pubblicato in Momenti e problemi di storia
dell’URSS, Editori Riuniti, Roma 1978; in corso
di pubblicazione sono « Bucharin e il
neopopulismo degli anni ’20 » che
comparirà negli Atti del Convegno
Internazionale dell’Istituto Gramsci (giugno
1980) e « Il nodo storico dell’arretratezza russa:
dal dibattito teorico alla rivoluzione d’ottobre »,
relazione al II convegno internazionale
dell’Istituto Gramsci, sulla società sovietica, che
si terrà a Genova nel 1982-83.

3
Scansione, Ocr e conversione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche

4
DI FRONTE E ATTRAVERSO

75

5
Franco Battistrada

MARXISMO E POPULISMO
1861-1921
Attualità del più importante dibattito teorico-
politico del secolo scorso

Jaca Book

6

© 1980
Editoriale Jaca Book, Milano
tutti i diritti riservati

prima edizione italiana
febbraio 1982

Copertina e grafica
Ufficio grafico Jaca Book



per informazioni sulle opere pubblicate e in
programma
ci si può rivolgere a
Direzione Editoriale Jaca Book, via Saffi 19,
20123 Milano
Telefono: 8057055 - 8057088

Edizione digitale 2018

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Indice

Prologo primo

Prologo secondo

PARTE PRIMA

Capitolo primo. MARX E IL POPULISMO

Capitolo secondo. LA STRUTTURA AGRARIA


RUSSA E IL MOVIMENTO CONTADINO

Capitolo terzo. IL MOVIMENTO POPULISTA


E L’ANDATA AL POPOLO

Capitolo quarto. LA MATURITÀ IDEOLOGICA


E POLITICA

Capitolo quinto. IL GIACOBINISMO RUSSO

PARTE SECONDA

8
Capitolo primo. LA FORMAZIONE DEL
GIOVANE LENIN

Capitolo secondo. LENIN SCRIVE «IL


CONTENUTO ECONOMICO DEL POPULISMO»

Capitolo terzo. L,«ESEGESI» DEL TESTO


NON È FINITA

Capitolo quarto. ALTRI SCRITTI


E PROVVISORIA CONCLUSIONE

Capitolo quinto. IL MARXISMO RUSSO E IL


MODO DI PRODUZIONE ASIATICO

PARTE TERZA

Capitolo primo. LA SOCIALDEMOCRAZIA


RUSSA ALLA FINE DEL SECOLO

Capitolo secondo. IL SECONDO CONGRESSO


DEL PARTITO OPERAIO SOCIALDEMOCRATICO
RUSSO

Capitolo terzo. LA RIVOLUZIONE DEL 1905

Capitolo quarto. LA RIFORMA STOLYPIN

Capitolo quinto. LA PIÙ ALTA FASE DEL


PENSIERO E DELL’AZIONE DI LENIN: IL 1917

9
Capitolo sesto. LE ORIGINI DELLA CRISI
POLITICA: GOVERNO DI COALIZIONE

Capitolo settimo. I PRIMI MESI DOPO LA


RIVOLUZIONE: LA ROTTURA CON I
SOCIALISTI RIVOLUZIONARI DI SINISTRA

Capitolo ottavo. IL FALLIMENTO DEL


«COMUNISMO DI GUERRA» E LA NEP

PARTE QUARTA

Capitolo primo. LA POLITICA BOLSCEVICA


NELLE FABBRICHE E NELL’INDUSTRIA

Capitolo secondo. BREST LITOVSK:


GUERRA RIVOLUZIONARIA O
CAPITOLAZIONE?

Capitolo terzo. IL CAPITALISMO DI STATO:


LA SVOLTA DI BREST LITOVSK

Capitolo quarto. LA SCONFITTA DEI


COMUNISTI DI SINISTRA

Capitolo quinto. L’ALTERNATIVA POSSIBILE

Capitolo sesto. LO SCONTRO COI


«CENTRALISTI DEMOCRATICI» E
CON «L’OPPOSIZIONE OPERAIA»

10
Capitolo settimo. LA CRISI SOCIALE:
KRONSTADT

Capitolo ottavo. LA CONCEZIONE DELLO


STATO

Epilogo primo. IL GIACOBINISMO POLITICO

Epilogo secondo. IL GIACOBINISMO


ECONOMICO

11
Prologo primo






Al lettore che si avvicini criticamente ai
problemi connessi alla rivoluzione del Ί7 si pone
oggi una serie cruciale d’interrogativi in
relazione ad alcuni punti fermi stabiliti nei più
vari campi delle «scienze sociali» e riguardanti
in particolare la situazione socio-politica
della Russia della seconda metà del secolo xix.
Più specificamente possiamo così riassumerli:
1) La recente storiografia sovietica e
soprattutto Anfimov ha documentato il carattere
prevalentemente feudale (ma con elementi
del «modo di produzione asiatico» ed embrioni di
capitalismo) della struttura agraria russa e dei
rapporti di classe nei primi decenni
seguenti all’abolizione del servaggio del 1861 e
dunque la sopravvalutazione da parte di Lenin
dei rapporti capitalistici nelle campagne
russe (ammessa, del resto, anche da Lenin negli
scritti dopo il 1905). Quali sono le implicazioni di
ciò nei confronti di un giudizio sulla polemica
che vide scontrarsi aspramente i primi marxisti
russi e i resti del movimento populista, e che fu
decisiva agli effetti della elaborazione della
strategia da parte del partito socialdemocratico
russo?

12
2) I recenti studi tendenti ad approfondire e
a calare nelle più diverse realtà sociali gli
accenni di Marx al «modo di produzione
asiatico» e in particolare quelli in riferimento
alla Russia, delle famose «bozze» della risposta
di Marx alla Zasulic dell’8 marzo 1881,
non sempre tendono a rilevarne la grande
importanza teorica.
Un altro connesso problema si pone: come
mai quello scritto di Marx non ha lasciato
praticamente traccia fino ad oggi nel movimento
comunista?
A cominciare soprattutto dalla stessa URSS
dove solo ultimamente è stata pubblicata una
importante raccolta della corrispondenza
di Marx ed Engels con i maggiori esponenti del
populismo?
3) Gli studi relativi al movimento politico
russo, dai decabristi fino al ‘17, hanno avuto un
notevolissimo risveglio nel dopo Stalin, sia nella
stessa URSS che nell’occidente, soprattutto a
partire da quel fondamentale saggio che fu Il
populismo russo di F. Venturi del ’52.
La pubblicistica sovietica ha addirittura dato
la sensazione di avvicinarsi nuovamente ai
grandi temi di quegli anni di «ferro e fuoco» con
autentica partecipazione, persino ideale, come a
riscoprire con orgoglio la eccezionale fioritura
culturale e rivoluzionaria della seconda metà
dell’ottocento russo. Scrive F. Venturi nella sua
prefazione alla edizione del ‘72 del suo studio,
che un senso generale d’insoddisfazione per le
spiegazioni del passato sembra oggi prevalere
sia nella storiografia russa che tedesca e

13
anglosassone: « Ma gli studiosi sovietici
sembrano ormai sulla buona strada per capire
quello che fu il valore politico, il peso effettivo
del populismo rivoluzionario in quel periodo
della storia russa».
Fu allora un errore «storico» della
socialdemocrazia russa degli anni ’90 il non aver
saputo valutare appieno il valore politico, il peso
effettivo del «populismo rivoluzionario?»
Infine: la parte più agguerrita (e non
solamente quella marxista) degli economisti che
si occupano dello sviluppo nei paesi arretrati
è sostanzialmente concorde nell’affermare che la
base di un tale processo non può essere altra che
la «crescita» per via non capitalistica (né
c’è bisogno di annotare che tale sembrò, in gran
parte, la posta della lotta tra le due linee nel
corso della «rivoluzione culturale cinese»).
La «via al socialismo» che il movimento
populista prospettava per i paesi «arretrati» e
che «saltava» la fase capitalistica, può in
qualche modo rapportarsi a questa attuale
tematica?
Orbene la sensazione negativa che si riceve
come lettore, pur nel mezzo di questa
molteplicità di stimoli e di nuove scoperte, è
quella dovuta all’impressione che una tale
disparità e vivezza di ricerche, cui peraltro fanno
riscontro cospicui vuoti da parte dell’editoria
italiana, si svolga spesso in modo parcellizzato
così che i risultati importanti di alcune non si
riflettano in altre e non si renda mai possibile un
pur provvisorio punto di riflessione che in
qualche modo le evidenzi e le abbracci. Come

14
pure che superi gli schemi ideologici e le
ortodossie che sovente velarono e distorsero
avvenimenti e interpretazioni.
Il tentativo di discorso che si propone il
presente scritto dovrebbe essere dunque una
sorta di tentativo di contributo, da parte di un
lettore interessato ai temi anzidetti, per arrivare
al superamento di alcuni limiti di separatezza e
alla proposta di alcune ipotesi.
L’unica cosa da aggiungere è che il principio
cui si sono ispirate queste ipotesi è stato
anzitutto quello di non lasciarle inespresse;
anzi, contro ogni generico storicismo e contro il
giustificazionismo storico «delle condizioni
obiettive», in ogni caso, e persino
perigliosamente, ad ogni costo formularle: visto
che in un qualsiasi momento storico la possibilità
di scelta e di strategia è molteplice e non è
sicuramente un buon criterio di analisi storica
tendere a dare per scontato che ogni scelta
praticata nella realtà sia stata l’unica possibile (e
tanto più quando sul piano della verifica storica i
risultati non siano stati quelli prefissi).
Quanto allo sceveramento delle diverse scelte
possibili esso non può essere accentrato che
sulle potenzialità già presenti in quella
storicamente determinata «realtà effettuale», in
base ad uno scandagliamento del passato fatto
cogli strumenti critici del presente. E dunque,
all’oggi in primo luogo, fatto «nello spirito
dell’autentico ’68» (della sua carica di
cambiamento) in analogia, perlomeno, a quello
«spirito del ’48» con cui tanto ‘vissuto’ fu
vagliato e selezionato dai padri storici del

15
marxismo e del populismo. In direzione di una
sperimentale saldatura tra Storia e ridiscussa
teoria della rivoluzione e della costruzione
socialista.
In sostanza, dunque, contrariamente al
manipolato «senso comune», il tentativo
d’interpretazione di un determinato e decisivo
momento della Storia, allestito con i «se» e con
«il senno di poi». Perciò è naturale che la
inevitabile poca riverenza verso i Grandi possa
urtare molte e privilegiate suscettibilità «da
transfert» ma ciò non è stato
fatto provocatoriamente bensì solo partendo dal
presupposto che «i culti» costituiscano sempre e
in ogni dove il miglior alibi alla intellettuale
(e comportamentale) passività.
Per finire, lo scontato scopo che un non
accademico lettore può porsi nel «dare alle
Stampe» la fatica di una sua lettura critica non
potrà essere altro che quello di contribuire a
sottrarre agli specialismi la recintata
«discussione sul tema» per farne il più possibile
l’avvio a una discussione «di massa» a partire da
un coinvolgimento della stessa editoria «di
sinistra» in direzione di tematiche troppo a lungo
emarginate.

Korfula, agosto 1974

16
Prologo secondo






La mia condizione di « storico scalzo »,
assieme alla sterilità quasi decennale (interrotta
dalla Jaca Book) di vicende editoriali intrecciate
a questa condizione-vocazione, ha fatto sì che
questo testo esca dopo oltre sette anni da
quando fu scritto.
Se dunque, da una parte, la freschezza, per
così dire «organolettica» di esso (e forse certe
sue «anticipatorie» letture) andrà quasi
sicuramente a deteriorarsi; dall’altra la mia
impressione è che l’area dei lettori passibili di
violenta reazione di rigetto forse si è ristretta.
Come a dire che ciò che era solo nell’aria nei
primi anni settanta può darsi che si stia ormai
radicando nella pur insalubre e negra terra…
Sinistramente potrebbe addirittura inferirsene
che un tratto di tempo così labile ha tuttavia
attualizzato quello che era e che è il dramma
centrale del mondo: il mortifero gap nord-sud e
gli attigui terribili quiz sulle aree del
sottosviluppo, sulle variegate e non
nominalistiche crisi dell’occidente e su quelle dei
paesi del «socialismo reale».
Ma da dove è nata la storica, parcellizzata
fiacchezza della risposta teorico-strategica a

17
tutto ciò da parte dei movimenti socialisti,
comunisti e di emancipazione e l’origine delle
loro tragiche lacerazioni? Dunque un testo che
metta al fuoco della sua riflessione questa
radice di impotenza e per cominciare il confronto
tra la prima «ideologia dell’arretratezza» e il
padre del socialismo «scientifico», nonché le
concatenazioni storiche che nacquero o non
nacquero da quel confronto, un tale testo rischia
oggi di essere più attuale di pochi anni fa!
Mi resta da dire che ho eliminato e ristretto
moltissime note, accorpato e spostato diversi
capitoli, aggiornato alcuni richiami bibliografici,
ma che ho lasciato inalterato il testo (e qualche
inevitabile «datatura»), eccetto la forma di poche
frasi e che il mio proposito resta quello di porre
qualche sostanziale perché (aldilà di
manicheismi alla nouveaux philosophes o alla
vecchia maniera stalinista) all’interno della
complessità di un periodo storico tanto
capillarmente decisivo e di personaggi tanto alti
e pur diacronicamente contraddittori come Marx
e Lenin.

Franco Battistrada
Genova, 1° marzo 1981.

18


«Ma in tal densa notte di tenebre ond’è
coverta la prima da noi lontanissima
antichità, apparisce questo lume eterno,
che non tramonta, di questa verità, la
quale non si può a patto alcuno chiamar in
dubbio: che questo mondo civile egli
certamente è stato fatto dagli uomini,
onde se ne possono, perché se ne
debbono, ritrovare i principi dentro le
modificazioni della nostra medesima
mente umana.»

G. B. Vico, Principi di una Scienza
Nuova, Napoli 1723

19
PARTE PRIMA

20
Capitolo primo

MARX E IL POPULISMO






È ormai accettato in sede storiografica che il
populismo russo pose a Marx ed Engels alcune
fondamentali questioni teoriche relative al
processo di sviluppo dei paesi arretrati e al
processo storico in generale:
1) La fase capitalistica era inevitabile in tali
paesi?
2) Era possibile una trasformazione
socialista prima che lo sviluppo capitalistico vi
raggiungesse il livello dei paesi occidentali?
3) La rivoluzione socialista sarebbe
avvenuta prima nei paesi occidentali o in quelli
arretrati?
4) Esisteva dunque una forma di sviluppo
che potesse evitare alle masse contadine le
terribili sofferenze che comportava
l’industrializzazione sul «modello inglese?»
L’analisi socioeconomica dei populisti,
imbevuta di letture non dogmatiche di Marx e
della grande tradizione socialistico-rivoluzionaria
europea e russa della prima metà (e oltre) del
1
secolo (Herzen , Bakunin, Belinskij,
Cernysevskij, Dobroliubov ecc.) tendeva a dare

21
una risposta originale a questi quesiti: In
sostanza l’obscina, la plurisecolare comune
agricola russa2 (al contrario di quella europea
disgregatasi quasi ovunque nel processo di
passaggio al feudalismo), proprio in quanto
«forma di possesso fondiario popolare» poteva
rappresentare, nella lotta per una transizione al
socialismo in un paese agricolo al 90% come la
Russia, una fondamentale leva su cui far forza
per favorire la transizione a una società di tipo
socialista senza attraversare la fase
3
capitalistica .
È naturale come una interpretazione di
questo tipo 4 sconvolgesse la classica
formulazione «unilineare» marxiana dello
sviluppo in cinque o sei fasi (comunità primitiva,
modo di produzione asiatico, schiavismo,
feudalesimo, capitalismo, socialismo)5, ma è
parimenti noto come sia Marx che Engels non
respingessero tout court una tale interpretazione
ma, consapevoli delle basilari implicazioni
teoriche ad essa sottese, finissero col prenderla
in attenta considerazione, non solo certo per
ragioni di “solidarietà politica” col movimento
rivoluzionario populista6.
Nella prefazione scritta in comune all’edizione
russa del 1882 al Manifesto dei Comunisti7 essi
ammettevano che la Comune contadina russa
avrebbe potuto resistere fino a quando si
sarebbe trasformata in una unità agricola
superiore di tipo comunista. Ma subordinavano
tale possibilità, riprendendo la posizione già
espressa da Engels nel 1875 nella sua polemica
col populista Tkacev, alla vittoria socialista

22
in Occidente.
È ugualmente noto come Marx (forse fu la sua
ultima intuizione vitale prima della morte due
anni dopo) nelle famose e martoriate bozze di
risposta a Vera Zasulic del 18818 (e pubblicate
solo nel 1924) affrontasse in modo diverso e con
quasi tangibile tensione intellettuale9 lo stesso
problema: «Perciò l’analisi data nel Capitale non
fornisce ragioni né pro né contro la vitalità della
comune rurale: ma lo studio approfondito che ne
ho fatto e di cui ho cercato materiali nelle
fonti originali, mi ha convinto che la comune è il
punto di appoggio della rigenerazione sociale in
Russia. Tuttavia perché essa possa funzionare
come tale occorrerebbe prima eliminare le
influenze deleterie che l’assalgono da tutte le
parti, poi assicurarle condizioni normali di
sviluppo organico» 10.
Dunque Marx, rimandando a uno studio
approfondito sulla materia 11, che doveva servire
di base all’opuscolo commissionatogli dal
comitato esecutivo della Narodnaja Volja (e che
purtroppo non fu mai scritto) 12, non subordinava
«la rigenerazione sociale» attraverso la comune
agricola alla vittoria socialista in occidente, ma
semplicemente, come gli stessi populisti
rivoluzionari propugnavano, alla lotta contro «le
influenze deleterie» da parte dello Stato e della
grande proprietà terriera 13.
In ogni caso tra la posizione dell’81 e quella
assieme («formalmente») ad Engels dell’82 14, la
posizione più rispondente al vero pensiero
marxiano sembra certo quella dell’81 e il

23
riferimento a uno studio più approfondito sembra
a riguardo probante. La firma alla prefazione
dell’82 era chiaramente il risultato di un
compromesso con Engels (sulla questione molto
più marxisticamente «ortodosso» di Marx)
in riferimento a un problema non ancora
sviscerato fino in fondo. Oppure, addirittura,
essa era una «semplice formalità» e l’autore
della prefazione era il solo Engels.
È bene allora soffermarsi sulle importanti
implicazioni teoriche che discendono dalle
«bozze» di lettera alla Zasulic15.
Intanto è evidente che Marx risponde
affermativamente ai quesiti cui si è sopra
accennato: sì, è possibile «la rigenerazione
sociale» in Russia senza il passaggio alla fase
capitalistica. Ma, cosa ancora più
importante, egli per la prima volta ammette
implicitamente che il soggetto rivoluzionario in
una situazione come quella russa è da
identificarsi, in primo luogo, nella massa dei
contadini sfruttati. Del resto la riprova di
ciò come è noto, sta nella verifica storica: tutte le
rivoluzioni di tipo socialista del nostro secolo
sono avvenute in paesi «arretrati» e per
opera, anche e sostanzialmente, delle masse
contadine16.
Per la prima volta il «Marxismo» si
deoccidentalizza e affronta, al di fuori del
classico schema marxiano, il problema di un
soggetto rivoluzionario altro dal proletariato
urbano (non in subordine ad esso e ad esso
alleato).
Altra fondamentale implicazione: in

24
quell’«eliminare le influenze deleterie che
l’assalgono da tutte le parti» 17 sembrerebbe che
non possa essere adombrato altro che un
processo di rivoluzione agraria, contro lo stato
assolutista e il grande latifondo feudale, in cui
venga preservata ed esaltata la vecchia comune
contadina in modo da «assicurarle condizioni
normali di sviluppo organico» 18. (Vedere avanti
l’ultimo capitolo della IIa parte e l’ultimo
dell’Epilogo).



1
Su Herzen (e sul suo rapporto con Bakunin
e il movimento politico russo) si leggano in
particolare le considerazioni svolte da V. Strada
nella «Introduzione» di A un vecchio compagno
di A. I. Herzen, Torino 1977.
2
Si legga a ciò Martin Malia. Alle origini del
Socialismo russo, Bologna 1972; in particolare,
pp. 567-585.
«L’idea di una Obscina socialista non fu
ovviamente di Herzen ma egli fu certamente uno
dei primi ad accoglierla… gli scopritori di questa
teoria furono gli slavofili che negli anni
quaranta, stimolati dalla propaganda socialista di
Herzen, replicarono che già nell’Obscina, la
Russia aveva tradotto nella realtà ciò che
l’Europa vanamente ancora inseguiva nella
teoria.
Questo concetto non fu dunque una scoperta
di Herzen, ma egli ne fu il principale esegeta e
divulgatore nella sua versione radicale. Egli

25
formulò e diffuse una vera e propria teoria per
avvalorare quel che Bakunin aveva lasciato
solo allo stadio di suggerimenti e, nel far questo,
vi aggiunse anche molte cose che erano
specificatamente sue…».
3
«(Il contadino) ha salvato solo la sua piccola,
modesta comune e cioè il possesso comune della
terra, l’eguaglianza di tutti i membri della
comune senza eccezione, la divisione fraterna
dei campi secondo il numero di coloro che li
lavorano e la gestione autonoma da parte della
comune dei propri affari» (Lemke, VII, 279); e
ancora: «I problemi di fissare i confini dei campi
sono evidentemente molto complessi data la
periodica ripartizione della terra secondo il
numero delle famiglie; ciononostante
l’operazione è fatta senza che vi siano né
lagnanze né protesta… le piccole discordie sono
sottoposte al giudizio degli anziani
dell’assemblea della comune e le loro decisioni
sono accettate senza riserva da tutti. E lo stesso
avviene nell’artel (la cooperativa di produzione
degli artigiani contadini)» (Ibidem, vi, pag. 466).
«Conservare la comune e dare libertà
all’individuo, diffondere l’autogoverno, ora
esistente solo nei villaggi e nei distretti, anche
alle città e all’intero paese, ma nello stesso
tempo preservare l’unità nazionale, ecco il futuro
della Russia» (ibidem, viii, 49) « … Imitare il
modello europeo doveva essere evitato a ogni
costo, in particolare perché il concetto borghese
di proprietà privata avrebbe distrutto il
“comunismo” dell’Obscina e avrebbe ridotto i
contadini allo stato d’indifeso proletariato rurale

26
come in Europa… La comune era su tre punti
fondamentali la negazione di ogni autorità
esteriore all’individuo: era la negazione del
concetto “romano” del potere sovrano (cioè lo
Stato che trascende la somma degli individui che
lo compongono); era la negazione del principio
“romano” del diritto, e cioè di qualcosa che sia
posto più in alto della volontà liberamente
espressa dai membri della comunità; era la
negazione del sacro principio di proprietà
privata e cioè di qualcosa considerata di maggior
valore di quelle finalità umane per le quali è
ammessa la ricchezza materiale; la comune era
socialista perché era la negazione vivente di
qualsiasi autorità che non fosse fondata sulla
volontaria associazione di individui indipendenti
e la Russia tutta era rivoluzionaria perché la sua
élite illuminata esprimeva consapevolmente quel
che i contadini manifestavano istintivamente col
loro modo di vita ecc.» (M. Malia, op. cit., pp.
581-585).
4
Μ. Ν. Prokrovskij nella sua famosa Storia
della Russia del 1920 (Edizione italiana, Roma
1970, a cura di E. Ragionieri) riporta queste
parole di Herzen a p. 170: «‘La vita del popolo
russo si è sinora circoscritta nel quadro
dell’Obscina, soltanto nel quadro dell’Obscina e
dei suoi membri esso si riconosce diritti e
doveri…’ scriveva Herzen allo storico francese
Michelet nel 1851. Fuori dell’Obscina tutto gli
sembra fondato sulla violenza… l’organizzazione
comunitaria benché fortemente scossa ha
resistito all’ingerenza del potere; è
sopravvissuta felicemente fino allo sviluppo del

27
socialismo in Europa… da tutto questo lei
capisce quale fortuna sia stata per la Russia il
fatto che l’Obscina non sia scomparsa, che la
proprietà privata non abbia frantumato la
proprietà comunitaria ecc.». Per un’analisi del
pensiero di Herzen sui problemi dello sviluppo
economico si veda A. Gerschenkron, Il problema
storico dell’arretratezza economica, Torino
1965. Per la «comune russa» si legga finalmente
la traduzione italiana dei famosi «resoconti» di
A. Won Haxthansen (Viaggio all’interno della
Russia 1843-1844, Milano 1977: in particolare le
pp. 16-95; 133-4; 137-8; 358-9; 366 ecc.). E nella
cospicua letteratura sulla materia si vedano in
particolare i lavori di M. Confino e di P. Pascal;
nonché lo studio di P. P. Poggio, Comune
contadina e rivoluzione in Russia, Milano 1978.
Si veda inoltre l’opera di G. Goherke, Die
Theorien uber Entstehung und Entwicklung des
Mir, Wiesbaden 1964. Per la comune danubiana
si vedano invece le opere della scuola di
Bucarest (cfr. avanti). Per i lavori di T. Shanin
e per la storiografia sovietica si veda ugualmente
più avanti.
5
Per es. il celebre passo della «Prefazione»
a Per la critica dell’economia politica: « … a
grandi linee i modi di produzione asiatico, antico,
feudale e borghese moderno possono essere
designati come epoche che marcano il progresso
della formazione economica della società». (K.
Marx-F. Engels, Opere scelte, Roma 1966, p.
747). Ma si veda anche K. Marx, Forme
economiche precapitalistiche, a cura di
Hobsbawn, Roma 1974.

28
6
Si legga nell’introduzione di V. Strada al
Che fare?, Torino 1971 (p. XLVI): «Non a caso il
problema dello sviluppo economico russo e
dell’interpretazione che di esso dava il populismo
fu così profondamente sentito da Marx e non
come un caso parziale e particolare, bensì come
un movimento nuovo del suo stesso sviluppo
intellettuale, come parte capitale dello studio
delle formazioni precapitalistiche e di una
visione più articolata e complessa dell’unità
diacronica e sincronica dell’umana società».
7
Ma che presumibilmente pare fosse del
solo Engels (vedere F. Venturi, Il populismo
russo, Torino 1973, vol. X, p. XLII: «Engels pare
fosse l’estensore della prefazione alla seconda
edizione russa dell’ ’82 del Manifesto». Scrive E.
H. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923,
Torino 1964, p. 791: «Né nel 1877 (nella lettera
alla redazione dell’Otechestvenye Zapiski, F. B.)
né nel 1881 Marx fece riferimento al punto
principale contenuto nella lettera di Engels del
1975: l’ipotesi di una vittoriosa rivoluzione
proletaria nell’Europa occidentale».
8
Walichi, Marxisti e populisti: il dibattito sul
capitalismo, Milano 1973, p. 161, scrive in
proposito: «Né Lenin, né i populisti, però,
sapevano che Plekhanov aveva nelle sue mani un
documento posteriore in cui il punto di vista di
Marx era ancora più chiaro e ancora più
incompatibile con l’interpretazione
Plekhanoviana del marxismo. Si trattava della
lettera di Marx a Vera Zasulic (8 marzo 1881),
trovata dopo la rivoluzione nell’archivio
dell’“Emancipazione del lavoro” e pubblicata nel

29
1924 n. 128: fu pubblicata da B. Nikolaevskij in
Iz arkhiva P. B. Akselroda, Berlino 1924, e poco
dopo da D. Rjazanov (Arkhiv K. Marksa i F.
Engel’sa, n. 1.) Nel 1881 Plekhanov e la Zasulic
erano ancora populisti, essi non pubblicarono la
lettera di Marx (dopo tutto si trattava di una
lettera privata) perché sapevano che Marx
intendeva sviluppare le sue concezioni sulla
possibilità di un passaggio diretto al socialismo
in Russia in un apposito “pamphlet”
dedicato specificatamente a tale problema.
D’altra parte perché evitarono di renderla
pubblica successivamente, dopo la morte di
Marx? Si trattò di un tentativo deliberato di
nascondere certe concezioni dei loro maestri che
non collimavano con l’interpretazione che essi
davano alle loro teorie?…» Ma per le «bozze»
alla Zasulic si legga K. Marx-F. Engels, India,
Cina, Russia, a cura di B. Maffi; Milano 1970, pp.
300-315.
9
Si veda Strada, op. cit., p. 10.
10
K. Marx-F. Engels, India, Cina, Russia,
Milano 1970, p. 304 e p. 308, n. 49; E. A.
Walichi, op. cit., pp. 161-2, n. 128.
11
L’analisi dei rapporti tra Marx ed Engels e
i rivoluzionari russi è tema di alcune
pubblicazioni di notevole importanza comparse
recentemente in Russia. In particolare si ricordi:
Karl Marx-F. Engels e la Russia rivoluzionaria,
Mosca 1969; B. S. Itemberg, «Marx allo studio
della storia economico-sociale della Russia
successiva alla riforma del 1861» in Marx
Storico, Mosca 1968; AA. VV., Engels e i
problemi di Storia-, A. J. Volodin, Inizio del

30
pensiero socialista in Russia, Mosca 1966.
12
A. Walichi, op. cit., pp. 63-64.
13
Walichi, op. cit., p, 162 così commenta il
passo della lettera di Marx alla Zasulic, riportato
sopra: «Il compito di eliminare le influenze
deleterie provenienti dall’esterno—cioè
l’influenza dello Stato, dei capitalisti, e dei
proprietari terrieri, coincideva con gli obiettivi
dei populisti rivoluzionari e tale compito non era
fatto dipendere dalla previa vittoria della
rivoluzione socialista in Occidente. Non
si trattava di una semplice svista. Lo
testimoniano i tre abbozzi della lettera di
Marx che sono stati trovati nel suo archivio… se i
populisti avessero potuto leggere queste venti
pagine di Marx senza dubbio le avrebbero
considerate un’autorevole, irresistibile
giustificazione delle loro speranze. E dobbiamo
aggiungere, ciò sarebbe stato rispondente allo
scopo di questi abbozzi; Marx li aveva stesi non
solo in rapporto alla lettera della Zasulic ma
anche come prima stesura dell’opuscolo
che intendeva scrivere su richiesta del Comitato
Esecutivo della “Narodnaja Volja”».
14
Si legga quanto scrive Walichi, op. cit., p.
165 su questo tema: «Un breve confronto tra le
posizioni di Marx e quelle di Engels mostra che i
loro rispettivi atteggiamenti verso il problema
populista erano lontani dall’essere uguali.
Engels, nel complesso, era più pessimista sulle
prospettive del socialismo in Russia. Staccandosi
dalle vedute di Marx (così come sono espresse
negli abbozzi della sua lettera alla Zasulic) egli
era portato ad interpretare la disintegrazione

31
della comune rurale in Russia come un processo
“naturale” ed inevitabile e non cessò mai di
sottolineare che la rivoluzione socialista doveva
affermarsi prima in Occidente. Non accennò mai
in alcun modo al fatto che la Comune potesse
essere un elemento di “superiorità” della Russia
sull’Occidente; al contrario, certe volte ne parlò
non come della molla principale della
rigenerazione sociale della Russia, bensì come di
un sostegno tradizionale del dispotismo zarista».
15
È noto che, al contrario, in Unione
Sovietica, su quelle bozze, ha fatto a lungo testo
il giudizio di Pokrovskij, l’autore della Storia
della Russia che, per tutti gli anni Venti, fu
manuale di studio nelle università sovietiche. È
noto che al suo apparire tale storia fu salutata e
festeggiata da Lenin. Pokrovskij «non esitava
ad affermare che Marx, nel suo scambio di
lettere con Vera Zasulic del 1881 non ‘respinse
con sufficiente energia’ l’ipotesi di un passaggio
al comunismo dell’Obscina primitiva»!
16
Questa constatazione, formulata
politicamente e teoricamente soltanto
nella seconda metà degli anni ’60, è stata al
centro del dibattito, spesso ideologizzato, sul
maoismo, sul limpiaoismo, sul terzo maudismo, a
partire, (in connessione alla ‘rivoluzione
culturale’ al Vietnam, al ‘Che’ e poi a Berkeley,
Berlino, al ‘maggio francese’, all’ ‘autunno
italiano’ ecc. ecc.), dalla ‘Mouthly Review’ di
Huberman e e Sweezy fino a Marcuse e così via.
(Per gli antecedenti si veda in particolare, Il
marxismo e i contadini, Mitrany, Firenze 1954).
17
Si veda l’insieme delle quattro bozze, in

32
parte riportate in K. Marx, op. cit., da p. 300 a p.
315. E si legga come Walichi, op. cit., p. 163-4 ne
riassume il significato: «Il ragionamento di Marx
è molto simile a quello sviluppato da
Cernishevskij nella sua “critica delle prevenzioni
filosofiche contro il possesso comune della
terra”. Un saggio che era stato letto
accuratamente da Marx e che aveva esercitato
una certa influenza su di lui (n. 132, cfr. V. M.
Shtein, Saggi sullo sviluppo del pensiero politico
sociale russo, Leningrado 1948, p. 236)… La
comune rurale russa rappresenta il tipo più alto
di collettivismo arcaico, basato non su legami di
parentela ma su rapporti di vicinato e ciò
accresce le sue possibilità di una
evoluzione progressiva… I sostenitori del
capitalismo russo che proclamano la necessità di
passare attraverso tutte le fasi successive dello
sviluppo non debbono dimenticare che anche
l’industrializzazione capitalistica della Russia
salta alcune delle sue “fasi naturali”. Ciò che i
liberali russi chiamano la naturale disgregazione
della comune contadina è in effetti il risultato di
una deliberata politica statale che esercita
una pesante pressione fiscale sulla comune al
fine di sovvenzionare il capitalismo a spese dei
contadini (La stessa interpretazione era stata
data dai populisti). Se le grandi somme estorte
dal governo ai contadini liberati, e usate per
stimolare il capitalismo russo fossero state
utilizzate per lo sviluppo dell’agricoltura nessuno
avrebbe parlato di una “naturale disgregazione”
della comune, tutti avrebbero riconosciuto in
essa un importante elemento della superiorità

33
della Russia sull’Occidente capitalistico… La
conclusione finale era semplice ed
inequivocabile. La comune rurale russa non era
minacciata da una teoria o da una pretesa
“necessità storica”. Il suo vero nemico è
l’autocrazia russa che sostiene lo sviluppo
artificiale del capitalismo russo. Non si tratta di
un problema teorico da risolvere ma di un
nemico da distruggere. La comune russa può
essere salvata dalla rivoluzione russa (n. 133,
K. Marx-F. Engels, Opere, ed. russa cit., p. 684).
Si è tentati di notare che questa tesi di Marx
rappresentava in effetti la formulazione precisa
dell’ipotesi di base degli economisti populisti.»
18
A. Walichi, op. cit., p. 167.

34
Capitolo secondo

LA STRUTTURA AGRARIA RUSSA E IL


MOVIMENTO CONTADINO






Ma qual era in definitiva la struttura agraria
della Russia dopo l’abolizione del servaggio?
Intanto la riforma del ’61 aveva rappresentato
non il cosciente, finalizzato presupposto per la
creazione dell’«esercito di riserva» 1 della futura
industrializzazione e per il successivo
radicamento del capitalismo in Russia 2, quanto
invece, e da questo giudizio dipendeva il tipo
di azione politica da progettare, l’espressione
diretta degli interessi dell’aristocrazia fondiaria,
mediati dalla burocrazia zarista, in una
situazione di crisi sociale3. Epperciò stesso
finalizzata a mantenere quanto più possibile, pur
nella mutata situazione politica dopo il disastro
della Crimea e le sollevazioni contadine di quegli
anni, la totalità dei privilegi feudali che ancora si
abbarbicavano attorno alla grande
proprietà terriera.
In realtà è noto4 che nonostante la riforma i
rapporti feudali rimasero pressoché intatti e il
grande latifondo nobiliare restò il macroscopico
fattore caratterizzante l’agricoltura russa e i suoi

35
rapporti di classe5.
Mentre la comune agricola, con le sue norme
che impedivano praticamente l’abbandono della
terra, da parte dei contadini, continuò ad essere
la forma dominante di organizzazione
dell’agricoltura e della vita del villaggio russo6.
Parimenti la condizione del contadino
continuò ad essere quella del semiservaggio e la
stessa sovrappopolazione agricola, l’insufficienza
degli appezzamenti, le forti quote del riscatto,
gli alti affitti delle terre nobiliari, le varie forme
di prestazione di lavoro in quelle terre, i prestiti
a usura, tutto tendeva a costituire e a ribadire
una intricata forma di asservimento intollerabile.
D’altra parte l’arretratezza economica,
tecnica, culturale della gestione fondiaria così
come le consuetudini, la tradizione, la mentalità
tendevano ognuna, interagendo l’un l’altra, a
riprodursi organicamente e assieme riprodurre
gli stessi rapporti di privilegio e di servaggio.
Certo stava nascendo nei villaggi russi un
nuovo ristrettissimo strato di contadini che
potevano dirsi relativamente agiati ma non
poteva in ogni caso dedursene che la lotta di
classe tra borghesia contadina e proletariato
rurale fosse la contraddizione principale delle
campagne russe o fosse sul punto di divenirlo.
Il contrasto sostanziale era ancora quello tra
la massa dei contadini e i proprietari fondiari.
Dunque la struttura agraria fondamentale
continuava ad essere quella feudale7 con
embrioni di borghesia contadina mentre sia il
dispotismo, di tipo asiatico, zarista; la

36
responsabilità collettiva nei confronti
dell’esazione delle imposte; sia l’organizzazione
del modo di vita e del lavoro servile dei contadini
di tipo prefeudale e comunitario8 con forme
primitive di autogoverno e di possesso comune9
apparivano come elementi del «modo di
produzione asiatico»).
La figura del latifondista era quella imperante
nelle province agricole russe ed era essa a
tenere in totale soggezione, attraverso i mille
modi del privilegio feudale,10 la globalità delle
masse contadine pur nelle loro diverse ma non
accentuate stratificazioni: il contrasto di classe
decisivo, come tutte le innumerevoli violente e
sporadiche rivolte avevano dimostrato e
dimostreranno, si sviluppava tra i grandi
latifondisti e la totalità della massa contadina 11.
Del resto la stessa pubblicistica e letteratura
sovietica sulla situazione agraria prima della
rivoluzione, dopo un silenzio che durava dal
1929, è oggi orientata, nelle sue punte più
qualificate, pur tra molte difficoltà, a dare
un’interpretazione di questo tipo ai rapporti
agrari di quegli anni e gli stessi lavori di
Dubrovskij, Liascenko e Sestakov avevano, negli
anni ’20 12, iniziato una aperta discussione sulla
struttura agraria della Russia prerivoluzionaria
13
.
Qual era, allora, la composizione sociale della
«Santa Russia»? Senza riportare tabelle e
statistiche che tra l’altro non sono del
tutto attendibili14 e neppure significative nei loro
dettagli è forse utile produrre un quadro
d’assieme che benché di larga massima sia

37
sufficiente a indicare la sostanza delle
differenziazioni nelle campagne. Si è già detto
che la classe contadina costituiva probabilmente
più del 90% della popolazione globale russa; i
contadini poveri e quelli senza terra costituivano
circa l’80% di questa parte ed erano costretti per
vivere a prestare a terzi la loro opera e quella
delle loro famiglie. La restante percentuale era
formata dai contadini medi che riuscivano a
guadagnarsi da vivere con la propria terra grazie
al loro lavoro e a quello dei familiari; e infine
dalla «borghesia contadina», i kulaki, che
beneficiavano dell’assunzione di mano d’opera
per la conduzione della loro terra (spesso
soltanto di uno o due lavoranti).
Da questi dati, anche se soltanto indicativi,
balza subito agli occhi che la protagonista della
rivoluzione russa, assieme agli esigui gruppi di
proletariato urbano allora esistenti, non poteva
non essere che la massa contadina perché essa
era l’elemento oggettivamente antagonista
all’interno del sistema dominante dei rapporti
feudali15, essa era l’oggetto nel suo insieme
dell’asservimento e gli stessi kulaki, nella loro
quasi totalità, facevano parte di quel mondo e
delle sue rivolte.
Ma per tornare al dibattito, che il movimento
populista portò avanti nella seconda metà del
secolo scorso sulla possibilità di evitare alla
Russia lo sviluppo capitalistico, colpisce la sua
maturità e la sua attualità16.
E oggi che l’idea di uno sviluppo non
capitalistico dei paesi contadini arretrati è
diventata una realtà, colpisce ancora più la

38
modernità delle intuizioni strategiche proposte
che anticipano molte acquisizioni teoriche e
pratiche dei movimenti di emancipazione di un
secolo dopo c della letteratura al riguardo 17. Il
populismo si era venuto configurando come
l’ideologia dello sviluppo di paesi arretrati che
volevano evitare gli «orrori» del classico
«modello inglese» e muoversi verso il socialismo
18
.
E questa determinante intuizione strategica
che nei paesi più arretrati la via al socialismo
fosse più percorribile che in quelli avanzati fu,
come è noto, una delle idee centrali del
populismo che poteva farsi risalire allo stesso
Bakunin e a Herzen 19.
Herzen, Bakunin e anche Cerniseskij e Tkacev
affermavano che la Russia e i paesi arretrati in
generale erano più maturi per la grande
sollevazione sociale di quanto non lo fossero i
paesi borghesi occidentali sviluppati
economicamente.
L’inesistenza di una borghesia radicata era a
favore della realizzabilità di una rivoluzione
socialista russa: là dove il capitalismo era debole
esso poteva essere abbattuto; l’autocrazia zarista
mancava ancora dell’indispensabile appoggio
borghese e dunque poteva essere subito
spazzata via.
K. H. Tarnovsky nel 1965 ci ha dato una
fedele ricostruzione del dibattito storiografico
che si era svolto in Unione Sovietica alla fine
degli anni ’20. Esso, con la svolta della
collettivizzazione forzata era

39
stato inesorabilmente interrotto e ciò accadde
proprio nel corso, nel dicembre del ’29, della
Conferenza degli studiosi marxisti di storia
agraria (l’obiettivo della ricerca doveva essere la
lotta contro le dottrine borghesi e neopopuliste e
non altro!)20.
In realtà, nel mentre iniziava nelle campagne
russe il cataclisma della collettivizzazione,
approfondire i problemi inerenti al grado di
sviluppo capitalistico nell’agricoltura dopo la
riforma del ’61 21 e al carattere delle stesse
rivolte contadine in quegli anni, portando a
conclusione politica le ricerche dei già
menzionati Dubrovsky, Liascenko e Sestakov
che, in parte, avevano sostenuto il carattere
prevalentemente feudale di quella struttura,
avrebbe significato rimettere in discussione tutta
la politica contadina dei bolscevichi.
Ê noto invece—e si è già accennato—che,
dopo la morte di Stalin nel ’53 e dopo il XX
Congresso del 1956, si è avuto in URSS un
vero risveglio di studi e d’interessi sia verso il
movimento populista22 e sia verso
l’approfondimento della ricerca sull’evoluzione
agraria russa dopo il ’61 e in particolare sulla
grande proprietà signorile. Al grande studio di
Anfimov («il frutto migliore della recente
storiografia sull’evoluzione prerivoluzionaria»
come dice il Cinella) andrebbero aggiunti una
serie nutrita di lavori quasi non meno importanti
anche se spesso più settoriali, che tutti insieme
danno il senso della grande importanza che
viene attribuita oggi in URSS, dalle personalità
più aperte e meno dogmatiche, alla riscoperta di

40
quel grande passato, a partire dall’analisi delle
sue antiche strutture sociali. Può dunque
asserirsi (anche se in URSS resistono ancora le a
lungo canonizzate interpretazioni giovanili
leniniane) che la grande proprietà nobiliare
mantenne immutato il suo carattere
essenzialmente feudale, anche dopo la riforma
del ’61 25 e che, nella sostanza, i rapporti agrari
non furono scalfiti dalla abolizione della servitù,
continuando ad essere contrassegnati
dall’esistenza della grande proprietà fondiaria e
dalle tradizionali comunità rurali24.
I rapporti di classe erano rimasti immutati: da
una parte i grandi proprietari e i funzionari dello
Stato (circa la metà dei 50 milioni di contadini
dipendeva dai grandi possedimenti statali);
dall’altra la massa contadina che continuava a
lavorare la terra per conto dei suoi ex padroni
ma «libera» 25.
Essa infatti aveva ottenuto la «libertà», ma le
«quote del riscatto» erano talmente esorbitanti e
così esigue e povere le terre assegnate che essa
doveva continuare a lavorare per il signore
intanto perché le corvées erano state mantenute,
poi per pagare le quote, poi ancora per pagare
i canoni delle terre affittate, infine per i diritti di
legna, pascolo, abbeveraggio ecc. e per ultimo
per pagare imposte e debiti.
Ecco come il Cinnella descrive questa
situazione:26 «I grandi proprietari possedevano di
regola, oltre alle superfici arative, i boschi, i
prati, i pascoli, gli abbeveratoi di cui le famiglie
contadine avevano assoluto bisogno per la stessa
conduzione dei loro miseri nadely. Pur di

41
ottenerne l’uso i membri delle comunità di
villaggio acconsentivano a effettuare prestazioni
di lavoro nelle terre signorili. L’asservimento dei
contadini avveniva anche in altri modi. Erano
molto frequenti per esempio i prestiti in denaro e
più spesso in natura concessi dai signori a
condizioni onerose: la maggior parte dei
contadini infatti doveva vendere in autunno il
grano per poter pagare imposte e debiti e
riacquistarlo poi durante l’inverno o in
primavera a più caro prezzo, talvolta anche
in cambio di prestazioni di lavoro.»
E come la descrive Venturi a pag. 35 del III
volume del suo già citato lavoro, riportando dallo
studio di Flerovsky (lodato da Marx) su «La
situazione della classe operaia in Russia » del
1869:
«I gravami che continuavano a pesare sul
contadino per il riscatto delle proprie terre non
soltanto non erano diminuiti rispetto a quelli
che essi dovevano pagare all’epoca della servitù,
ma erano spesso aumentati. Per pagare le tasse
il contadino era costretto non soltanto a
mantenere sé e la propria famiglia ad un livello
di fame, ma era messo nell’impossibilità di
difendere il prezzo dei propri prodotti. Doveva
svendere al mercante, doveva sottoporsi a quella
classe crescente di kulaki, che approfittando
della sua miseria, potevano imporre la propria
volontà all’interno dell’obscina. L’intervento
dello Stato nella società contadina, l’azione
dei funzionari locali, dominati come erano dal
problema della riscossione delle tasse, non
soltanto mantenevano la situazione di miseria

42
esistente, ma l’aggravavano proteggendo quei
pochi elementi della società contadina che erano
in grado d’approfittarne a loro vantaggio
personale. E se questo meccanismo sociale non è
sufficiente per ridurre alla fame la maggioranza
dei contadini, interviene direttamente lo Stato,
sotto forma di battiture per coloro che non
hanno pagato le tasse, sotto forma di carcere per
gli inadempienti. Punizioni corporali e prigione,
ecco le due più efficaci scuole d’asservimento e
di rassegnazione del lavoratore russo».
Come a dire, se si considera anche la
straripante sovrappopolazione agricola, che lo
stato di assoggettamento del contadino nei
confronti del grande feudatario e dello Stato era
assoluto e che i rapporti di classe nelle
campagne, anche dopo la riforma e fino al primo
novecento, erano essenzialmente di tipo
feudale27.
Tutto ciò del resto è più che comprensibile se
si pensa alla preminenza politica e sociale
dell’aristocrazia fondiaria di cui lo stesso zar era
in qualche modo espressione e prigioniero… per
cui l’alta burocrazia statale non avrebbe potuto
promulgare altro che una riforma, pur se sotto la
frantumata spinta delle sommosse contadine,
che salvaguardasse nella sostanza i privilegi
feudali della grande proprietà nobiliare
(sacrificando magari, come in effetti fu, quelli
della sola piccola nobiltà;) e nello stesso tempo
attraverso quella riforma e la istituzione degli
zemstva28, tentar di porre sotto controllo statale
e con la sempre indispensabile collaborazione
della nobiltà, la vita del villaggio contadino.

43
Si è visto d’altra parte come, dopo il ’61, si
stava formando un assai ristretto numero di
contadini agiati ma tale processo era
estremamente lento e difficoltoso proprio a
causa della particolarità della struttura rurale e
dei legami giuridici ideali e consuetudinari della
obscina 29, per cui il conflitto tra un proletariato
agricolo e una borghesia contadina era ad uno
stadio del tutto embrionale.
In seno al villaggio contadino è
incontrovertibile che il contrasto di classe
prioritario, e tutte le esplosioni contadine di
quegli anni lo attestano, era quello irriducibile
tra tutti i contadini e il grande proprietario fosse
esso lo Stato o il signore.
In conclusione si potrebbe parlare, a
proposito della Russia agricola di quegli anni, di
una struttura agraria feudale con elementi del
«modo di produzione asiatico» in cui
cominciavano a manifestarsi i germi di una
evoluzione agraria di tipo borghese. Il che era
veramente diverso da quanto diranno i marxisti
russi, Struve, Plekhanov e quindi Lenin, nella
loro settaria polemica contro i populisti30 : il
contrasto che si va generalizzando nelle
campagne, è quello tra proletariato agricolo e
kulaki! E da qui la strategia: lottare contro «i
residui feudali» (abolizione degli otrezky31, dei
gravami ecc.) per favorire lo sviluppo
capitalistico nelle campagne l’incrudimento di
quel contrasto e la crescita del proletariato
rurale.
Ma di ciò si parlerà più avanti, qui mette
conto riferire di un acuto articolo del già citato

44
Tarnovsky in Voprosy istory n. 3 del ’70 in cui
viene messo in rilievo come lo stesso Lenin, dopo
la rivoluzione del 1905 non parlasse più di
elementi di capitalismo presenti
nell’agricoltura russa ma solo di germi
capitalistici (e si vedranno avanti le stesse
autocritiche di Lenin nel 1905-1907) 32.
Sta di fatto che strati di salariati agricoli
esistevano soltanto nelle zone di più attivo
sviluppo capitalistico e cioè nelle province
baltiche. Inoltre in alcune zone dell’Ucraina
occidentale e della Bielorussia. Ma nella Russia
centrale la gestione capitalistica delle terre
signorili era a malapena iniziata e procedeva per
le ragioni che si è detto con estrema difficoltà e
lentezza.
Il Cinella, che fa sempre riferimento a una
nutrita letteratura, ne parla in questi termini33:
«Nelle regioni agricole della Russia centrale si
conservavano pressoché intatti alla fine del XIX
secolo, i rapporti feudali ereditati dall’epoca
della servitù della gleba. Non si trattava, come si
è affermato per lungo tempo, di sopravvivenze
del vecchio modo di produzione non ancora
sradicate dallo sviluppo capitalistico e destinate
a scomparire più o meno rapidamente. È più
giusto parlare di struttura feudale con elementi
del modo di produzione asiatico, in cui
cominciavano a manifestarsi i germi
dell’evoluzione agraria borghese. Il grande
latifondista signorile, arretrato dal punto di vista
economico e tecnico, dominava la vita delle
campagne e asserviva la popolazione contadina.
Le aziende capitalistiche avanzate avevano

45
un’importanza e diffusione molto minori di
quanto ritenesse Lenin nel suo studio giovanile
sullo sviluppo del capitalismo in Russia.»
Che Lenin e i bolscevichi sopravvalutassero
gravemente la presenza dei rapporti capitalistici
nelle campagne e sottovalutassero la
preponderanza del rapporto di classe feudale
esercitato nell’ambito di residue strutture del
modo di produzione asiatico, e le potenzialità
rivoluzionarie antifeudali delle campagne russe è
un fatto dunque accettato in sede storiografica.
Quello che resta tuttora non approfondito è la
portata delle conseguenze, sul piano teorico-
politico e della strategia rivoluzionaria, in Russia
e nei paesi arretrati34.
Ma sarà bene rifarsi, in primo luogo, a ciò che
presumibilmente pensavano le stesse masse
contadine russe della riforma del ’61 e
fortunatamente un pilastro della storiografia
russa è stata sempre la storia contadina e non
sono mai mancati, anche se messi a tacere negli
anni più bui, quegli studiosi capaci di
tramandare dati, notizie e ricerche.
Per cui, attingendo per fare i nomi maggiori
alla Ignatovic, a J. Linkov e Zajonckovski e così
via, è possibile farci un’idea abbastanza precisa
dei moti e delle rivolte degli anni che qui
interessano.
Si è accennato che la stessa «abolizione della
servitù» fu varata per la pressione delle rivolte
contadine15 che stavano crescendo d’intensità in
tutto il paese e cioè quando Nicola I si rese conto
che la situazione di insubordinazione nei

46
confronti del pomescik (grande proprietario
terriero), vero baluardo del suo Impero,
rischiava di travolgere lo Stato stesso36. In breve,
se nel 1859 si erano registrati 70 casi di rivolte
gravi, nel ’60 essi erano saliti a 100.
E nei primi 5 mesi del ’61, subito dopo la
pubblicazione dell’editto di «liberazione»37, le
sommosse e le proteste assommarono a 1370 di
cui 717 richiesero la presenza dell’esercito. Il
che può dare un’idea non cervellotica di quale
fosse il sentimento che animava le masse
contadine all’indomani della ottenuta «libertà» e
di come dunque la situazione nelle campagne
russe fosse vicina a sfociare in un profondo
rivolgimento sociale. Il grido «tutta la terra è
nostra» risuonò nelle campagne e le comunità
contadine riunite in assemblea decidevano
l’astensione collettiva dal lavoro per i nobili e per
lo Stato. L’aspirazione ad amministrare per
conto proprio le comunità senza interferenze di
organismi imposti dall’alto, e il rifiuto di tutte le
corvées e di tutti i gravami erano generali e
appassionati. Ma esaminare come tutto ciò si
esprimesse a livello politico e se tendesse a
unificarsi in una strategia del movimento di lotta
è indispensabile per rendersi ragione della
gigantesca discrepanza tra condizioni obiettive
di sterminata oppressione e capacità soggettive
di radicale rivolgimento.
A questo proposito citeremo un brano della
recensione di Berti, apparsa su Rinascita nel
lontano ’52, del libro di Venturi il
quale costituiva certamente un valido e colto
approccio a questi problemi:

47
«Una storia del populismo priva di un esame
approfondito delle differenziazioni economiche e
di classe profonde che vanno avvenendo nelle
campagne russe dopo la riforma, dal ’61 all’81
(differenziazioni che determinarono tutta la
successiva evoluzione del narodnicetvo [il
movimento populista] ), una tale storia è priva di
un criterio fondato di giudizio».
A parte la parzialità del giudizio su di un
lavoro che voleva essere soltanto uno studio sul
movimento politico populistico, esso, purtuttavia,
coglieva inconsapevolmente un aspetto
importante che riguardava, come si è visto, non
tanto il lavoro recensito quanto
lo smantellamento degli studi sulla struttura
agraria e sul movimento politico prerivoluzionari
che era avvenuto a partire dal ’29 nella Russia di
Stalin.
Oggi che soprattutto la stessa storiografia
sovietica offre finalmente le armi per ancorare la
storia del movimento populista a quelle che
erano nella realtà le «differenziazioni
economiche e di classe profonde che vanno
avvenendo nelle campagne russe dopo la
riforma, dal ’61 all’81 »38, quel giudizio del ‘52
appare del tutto superato. Mentre il lavoro del
Venturi è più che mai illuminante39.



1
Si legga E. H. Carr, La Rivoluzione
bolscevica 1917-1923, Torino 1964, p. 789: «La
riforma era stata suggerita dalla spinta alla

48
modernizzazione dell’economia russa dopo il
disastro della guerra di Crimea e, al pari del
enclosures inglesi, dalla necessità di creare un
esercito di riserva del lavoro per
l’industrializzazione del paese.»
2
Marc Ferro, La rivoluzione del ‘17, Firenze
1974, scrive a p. 130: «In un certo senso la
riforme del ’61 furono un tentativo per mettere
fine all’insicurezza delle campagne. Ma accolte
da una parte dei nobili cui venivano tolti i
privilegi, le riforme di Alessandro II non fecero
cessare del tutto il pericolo che minacciava la
società russa, perché, civilmente liberati ma
ridotti a vivere su un esiguo lotto di terreno ed
indebitati vita natural durante, i contadini
rimanevano insubordinati».
3
E. Cinnella, «Il programma agrario della
Socialdemocrazia russa», Studi storici, 1973, n.
4, pp. 777-78.
4
Anfimov, La grande azienda signorile nella
Russia europea alla fine del xix e all’inizio del xx
secolo, Mosca 1969.
5
Si veda M. Ferro, op. cit., pp. 130-131.
6
Carr, La rivoluzione bolscevica.
L’ordinamento economico·. «Ma dal momento
che essa (la riforma) non aveva distrutto la
comune contadina (che continua mi essere la
forma dominante di organizzazione
dell’agricoltura). ». Ma Carr sopravvaluta il
carattere di rottura del rapporto feudale che
avrebbe assunto la riforma del ’61 e sottovaluta
la straordinaria importanza degli scritti di Marx
sul populismo e la situazione Russa.

49
7
Si intende qui feudalesimo come sistema
economico in cui prevale la produzione per
l’autoconsumo (e non per il profitto come nel
sistema economico del capitalismo in cui il
valore di scambio assume quella centralità e
autonomia che fa della produzione di valori di
scambio, di merci, di valori d’uso per gli altri, un
dato caratterizzante quel modo di produzione), e
dove cioè si producono prevalentemente valori
d’uso per la immediata soddisfazione dei bisogni
e il ‘valore di scambio’ compare solo per
scambiare l’eccedente di quella produzione di
valori d’uso, e in cui dunque gli scambi hanno un
valore non determinante. Si vedano soprattutto:
M. Bloch, La società feudale, Torino 1970 e W.
Kula, Teoria economica del sistema feudale,
Torino 1970. In ogni caso lo sviluppo del
commercio e del mercato non sono elementi tali
da poter dimostrare un’inizio di sviluppo
capitalistico se il fondamento di una società va
visto, in primis, sul piano non della circolazione
delle merci ma della loro produzione. E se
dunque la produzione destinata al mercato è
piccola produzione mercantile-artigianale che
esclude per lo più la forza lavoro salariata. Si
ricordi, a ciò, la definizione di W. Kula (op. cit.,
p. vi): «…il feudalesimo significa qui un sistema
socioeconomico prevalentemente
agrario, caratterizzato da un basso livello delle
forze produttive e della
commercializzazione, corporativo, in cui l’unità
produttiva di base è costituita da una grande
proprietà terriera circondata da piccoli poderi
contadini, che dipendono da essa sul piano

50
economico e su quello giuridico, debbono fornire
varie prestazioni e si trovano sotto il suo
potere.» Se cioè da un’analisi dell’intrico dei
rapporti sociali nelle campagne russe si cerca di
individuare quello dominante non si può fare a
meno di rilevarlo nella produzione
prevalentemente per l’autoconsumo e nel
correlativo scambio delle eccedenze in
connessione alla grande proprietà terriera.
8
Del resto la riforma del ’61, operata in una
situazione caratterizzata da una economia
agraria-naturale di autoconsumo del tipo che si è
detto come avrebbero potuto produrre, in
qualche decennio, una prevalenza dominante di
rapporti capitalistici? In una società come la
Russia dove erano ancora vitali elementi del
modo di produzione asiatico (L’Obscina, il
dispotismo dello zar, la responsabilità collettiva
per la politica fiscale di fronte allo Stato ecc.) il
commercio non poteva certo svilupparsi tanto da
incidere negli stessi rapporti di produzione (e
non per niente il capitalismo sarà introdotto
soprattutto dall’alto, dallo Stato zarista e col
concorso di capitale straniero). Per cui il capitale
commerciale poteva certo esistere e lentamente
espandersi ma i rapporti di produzione in quei
decenni dopo il ’61 non potevano in alcun modo
definirsi in prevalenza come capitalistici… Si può
dire cioè che in Russia chi pur commerciava
(prevalentemente) il plus prodotto agricolo non
era per lo più in grado di trasformare «la
ricchezza sociale accumulata» in capitale di
investimento. È noto per esempio che lo stesso
Pokrovski nella sua Storia della Russia tende a

51
confondere il capitale commerciale con il
capitalismo commerciale e mercantile
attribuendo dunque alla Russia zarista la
categoria del capitalismo commerciale e
mercantile, «struttura produttiva che sarebbe
stata addirittura originata nel xvi secolo» (si
veda: L’anti-Stalinismo di sinistra, a cura di B.
Bongiovanni, Milano 1975, p. 12). Ma si vedano
anche, oltre ai già citati, P. Sweezy, La teoria
dello sviluppo capitalistico, Torino 1970; E.
Mandel, Trattato di economia marxista, Roma
1965; C. Marx, Contributo alla critica
dell’economia politica, Roma 1967; C. Marx, Le
forme economiche precapitalistiche, Roma 1966;
L. Brentano, Le origini del capitalismo, Firenze
1974; H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Bari
1969; Barrington Moore jr., Le origini sociali
della dittatura e della democrazia, Torino 1961;
AA.VV., Agricoltura e sviluppo capitalistico,
Roma 1970; AA.VV., Il futuro del capitalismo:
crollo o sviluppo?, Bari 1970; E. M. Capocelato e
Antonio Carlo, Contro la questione meridionale,
Roma 1972. E la prefazione di E. Ragionieri alla
Storia della Russia di Pokrovski, Roma 1970.
9
Herzen già nel 1843, attraverso la lezione
di Fourier di Louis Blanc e di Proudhon, nonché
degli slavofili era in grado di enunciare i
lineamenti di una sua purtuttavia originale
visione sociale. «Il controllo pubblico della
proprietà e del capitale, la vita comune,
l’organizzazione del lavoro e dei salari, il diritto
alla proprietà privata su basi differenti, cioè non
la sua totale abolizione, ma la sua investitura
(all’individuo) da parte della società in modo da

52
dare al governo il diritto di provvedimenti
pubblici e indirizzi politici.» Dnevnik, 18 febbraio
1843, Lemke, III, 97. Ed è nota la sua
appassionata approvazione del concetto
proudhoniano di «diritto al possesso
individuale». Ovvero del produttore non separato
dal suo mezzo di produzione.
10
Si ricordi la definizione che in Marx
caratterizza la natura della rendita fondiaria e il
modo di produzione feudale:
«La specifica forma economica in cui il
pluslavoro non pagato è succhiato ai produttori
diretti, determina il rapporto di signoria e
servitù, come esso è originato dalla produzione
stessa e da parte sua reagisce su di essa in modo
determinante». (Marx, Il Capitale, v, III,
paragrafo 3). Il che significherebbe che per
l’analisi del feudalesimo, così come per il
capitalismo è indispensabile l’indagine sulle
forme specifiche di appropriazione del
pluslavoro.
11
E. Cinnella, op. cit., pp. 792-3: «I rapporti
di classe nelle campagne russe erano ancora,
alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento,
di tipo essenzialmente feudale… la scarsità della
terra a disposizione delle comunità rurali
assoggettava di fatto le famiglie contadine ai
latifondi nobiliari, che mantenevano intatto il
loro predominio economico opprimendo e
sfruttando l’abbondante mano d’opera
semigratuita … (…) … Non v’è dubbio che dopo
la riforma del 1861 si siano formati nuclei di
contadini agiati… non si può però dire che si
fosse già delineata una chiara e netta distinzione

53
tra borghesia contadina e proletariato rurale e
che la lotta di classe in seno alla Obscina avesse
un’importanza pari al contrasto irriducibile che
opponeva tutti i contadini e i grandi proprietari
fondiari».
12
Per avere un quadro accurato di quel
dibattito si rimanda al documentato saggio di K.
N. Tamovskij comparso nel 1965 in Istoriceskie
zapisky; l’interessante saggio di A. Gerskenkron
comparso sul fascicolo II della Rivista Storica
Italiana del 1969: «L’emancipazione dei
contadini russi: una nuova interpretazione?»
chiarisce il ruolo fondamentale dei pomesiki
(grandi proprietari terrieri) nella promulgazione
della riforma del ’61.
In realtà la storiografia agraria sovietica, più
che verso un ripensamento critico delle
categorie interpretative leniniane, se si
eccettuano gli Anfimov, Gefter, Jacunskij, Persin
e pochi altri, si è orientata nel dopo ’56, ma
soprattutto nel dopo Krusciov verso un
aggiornamento delle tecniche impiegate
attraverso l’adozione, per es., dell’analisi
statistico-matematica, attraverso l’adozione del
calcolo elettronico, ecc. ecc. Si vedano a ciò i
lavori di J. Kalik, B. Litvak ecc.; o quelli di I. D.
Koval’cenko e L. V. Milov per lo studio del ’74
sulla formazione del mercato agricolo panrusso.
Può dirsi dunque che la storiografia contadina
russa e americana sono all’avanguardia come
livello di organizzazione, di tecniche impiegate e
di quantità di studi prodotti (si veda a ciò Storia
di G. Barraglough, Bari 1978 e P. P. Poggio
«L’evoluzione socio-economico-politica della

54
Russia dal 1800 al 1904» nei Quaderni della
Feltrinelli, n. 6, 1979).
Purtroppo gli atti dei Simposii sugli studi di
Storia agraria dell’Europa Orientale che si
tengono annualmente in URSS vengono
pubblicati con tirature limitatissime e con ritardi
pluriennali. Per es. gli atti del Simposium di
Kujbiscev, del settembre ’77, particolarmente
importante non sono ancora noti. Sembrerebbe
che in quella sede Koval’cenko avrebbe in
pratica posto la parola fine al secolare dibattito
sullo sviluppo del capitalismo in Russia, con
l’accettazione definitiva dell’interpretazione
leniniana… Ma su tale interpretazione si vedano
i recenti lavori di R. Dutschke, R. Bahro, Chantal
de Crisenoy, R. Linart, J. C. Szurek e si legga G.
La Pira: «Classi e proprietà nelle campagne
russe tra la riforma del 1861 e Stolypin», negli
Annali della fondazione Einaudi, Torino, vol. XII,
1978.
13
Cinnella, op. cit., p. 787.
14
F. Venturi, op. cit., II, pp. 3-48; I, Lxvii-
Lxviii.
15
Cinnella, op. cit., p. 789.
16
Walichi, op. cit., pp,167sgg.
17
Si veda La III Internazionale e
l’esperienza populista, F. Battistrada,
Genova 1975, ancora da pubblicare.
18
Strada, op. cit., pp. xvi-
xvii; Venturi, op. cit., p. xlv; Walichi,
op. cit., pp. 14-15.
19
Herzen per esempio
scriveva: «L’embriogenià rivoluzionaria della R

55
è già avvenuta attraverso la lezione europea…
Non è necessario che il popolo russo affronti
questa dura fatica fin dal principio». (Lemke, viii,
46); E. Cernisenskij scriveva: «Non conta che la
Russia non abbia vissuto il periodo intermedio
tra la comunità primitiva e la Comune socialista,
che non abbia avuto il capitalismo come l’Europa
occidentale. I paesi, in cui lo sviluppo economico
comincia in ritardo, percorrono in compenso
l’intero cammino molto più rapidamente,
saltando, per così dire, interi periodi storici. La
Russia potrà quindi saltare il periodo
capitalistico ed entrare direttamente in quello
socialista» (Citato da Pokrovski, op. cit., p. 107).
Per le posizioni di Bakunin, soprattutto sulla
comune, si veda il suo noto «annesso» a Stato e
anarchia, Milano 1968, pp. 211-230. Per quelle
di Tkacev si veda per es. A. Walichi, op. cit., pp.
123-127.
20
V. Cinnella, op. cit., p. 787.
21
Venturi, op. cit., pp. xsgg.; Strada, op. cit.,
p. viii e n. 1.
22
Lo stesso B. P. Kozmin nel suo Il
populismo, stadio democratico-borghese del
movimento di liberazione in Russia, del 1952
ristampato dalla Storia del pensiero
rivoluzionario russo, Mosca 1961, a p. 640
scrive: «Solo la critica del populismo fatta da
Lenin fu ripresa, il suo riconoscimento del
grande significato storico di questa corrente fu
passato sotto silenzio. Questa pratica si tradusse
in certi casi in una aperta falsificazione».
23
Pokrovskij nella sua Storia della Russia,

56
così si esprime a riguardo: «… l’emancipazione
dei contadini fu presentata come un atto di
clemenza dello Zar, anche se il sovrano capiva
molto bene che i contadini venivano truffati. E
pertanto mentre redigeva il manifesto
dell’emancipazione, lo Zar predispose tutte le
misure indispensabili per reprimere la rivolta, a
suo parere inevitabile, dei contadini truffati».
24
Hobsbawm, Forme economiche
precapitalistiche, di K. Marx, Roma 1974, p. 10.
25
Hobsbawm nella prefazione alle Formen
cit., pp. 35sgg. riassume la concezione marxiana
sul «modo slavo» di produzione e su quello
feudale: «… non vi è in Marx nulla che ci
autorizzi a cercare una qualche “legge generale”
di sviluppo che possa spiegare la tendenza del
feudalesimo a evolversi in capitalismo… […] … P.
M. Sweezy sostiene (sulla base di Marx) che il
feudalesimo è sistema di produzione per l’uso e
che in tali formazioni economiche “non sorge dal
carattere stesso della produzione nessun bisogno
delimitato di pluslavoro”… Secondo Marx, per
spiegare lo sviluppo del capitalismo dal
feudalesimo è necessaria l’unione di tre fattori:
primo, come abbiamo visto, una struttura
sociale rurale che consenta ai contadini di essere
“liberati”…, secondo lo sviluppo artigiano urbano
che consenta una produzione di beni
specializzata, indipendente, non agricola, e terzo
l’accumulazione di patrimonio monetario
attraverso il commercio e l’usura. La formazione
di queste accumulazioni monetarie “appartiene
alla preistoria dell’economia borghese” ma esse
non sono ancora capitale. La loro mera

57
esistenza, o perfino il loro apparente predominio
non determinano automaticamente lo sviluppo
capitalistico “altrimenti la vecchia Roma,
Bisanzio ecc., avrebbero terminato la loro storia
con il lavoro libero e il capitale” (p. 113)… Il
capitalismo non può svilupparsi senza
l’immissione della campagna, in tutta la sua
vastità nella produzione non di valori d’uso, ma
di “valori di scambio” (p. 120)… […] … È
interessante notare che—in modo in certa misura
imprevedibile—le sue concezioni si avvicinavano
a quelle dei narodniki, i quali credevano che la
comunità di villaggio russa potesse fornire le
basi di una transizione al socialismo senza una
previa disgregazione dovuta allo sviluppo
capitalistico».
26
Cinnella, op. cit., p. 790.
27
Anche se non di tipo feudale classico
(europeo occidentale) in quanto da una parte
l’agente della politica tributaria era lo Stato e
dall’altra l’organizzazione della vita contadina
era basata sulla comune. Per cui la formazione
economico-sociale della Russia della seconda
metà del secolo xix può dirsi che fosse di tipo
misto e caratterizzata dal modo di produzione
feudale con elementi del «modo di produzione
asiatico». Dando con ciò per scontato che le
formazioni economico-sociali non si esauriscono
nel modo o nei modi di produzione ma che si
costituiscono in un complesso interagente di
elementi economici sociali politici ideologici, e
che gli embrioni di rapporti capitalistici presenti
in quella società erano del tutto non prevalenti.
28
Istituzione amministrativa locale cui

58
potevano accedere soltanto elementi provenienti
dalla borghesia e dalla nobiltà.
29
Il periodo della Narodnaja Volja del
movimento di emancipazione coincise con una
elaborazione particolarmente intensa del
pensiero socio-economico russo sul problema
della comunità rurale in tutti i suoi molteplici
aspetti. Sul finire degli anni 1870 furono
pubblicate ricerche sull’Obscina di A. Postnikov,
V. Trigotov, E. Janson P. A. Sokolovsky.
Fu data inoltre alle stampe una serie di
nuovi materiali statistici, tra cui Forme di
proprietà contadina nella provincia di Mosca, a
cura di V. Urlov, Mosca 1879; Raccolta di
materiali per uno studio della comunità rurale,
Pietroburgo 1880. Nello stesso 1880 uscì in Il
Pensiero russo la serie di articoli «L’obscina
contadina» di F. Scerbina ecc. Le indagini
statistiche e socio-economiche sulla comunità
rurale fornirono un materiale abbondantissimo
sulla vita economica all’interno dell’obscina,
sull’estensione della terra messa in comune e su
quella degli appezzamenti procapite…, sulle
norme che regolavano i lavori e gli obblighi delle
obsciny. Gli autori di queste ricerche erano
giunti o stavano giungendo alla conclusione che,
nonostante le condizioni estremamente
sfavorevoli esistenti per la comunità rurale nella
Società del tempo, essa presentava innumerevoli
vantaggi sociali ed economici ed aveva un
carattere nettamente progressista.
30
Giuseppe Boffa nella sua Storia
dell’Unione Sovietica, Milano 1976, pp. 26-7 sul
rapporto marxismo-populismo scrive: «Il nesso

59
tra populismo e bolscevismo resta ancora oggi
uno dei problemi storici di maggiore interesse. Il
dibattito non è tuttavia facilitato dal modo come
esso è stato affrontato in decenni di polemica
politica piuttosto che di studio accurato. Lenin fu
accusato di eccessive propensioni populiste da
Plekhanov e dagli avversari menscevichi: questa
tesi è poi stata raccolta da numerosi storici
occidentali per dedurne che le posizioni di Lenin
sarebbero state scarsamente marxiste… In URSS
sebbene esistano indicazioni dello stesso Lenin
che stimolano la ricerca di un rapporto fra i
due grandi fenomeni politico-ideali (nel 1912 egli
scrisse che il marxismo russo degli anni ’80
aveva già cercato di trarre “dalla scorza delle
utopie populiste un nucleo sano e prezioso” e
invitò gli storici del futuro a rintracciare il
“legame” tra tale fenomeno e “ciò che nel primo
decennio del secolo xx è stato chiamato
bolscevismo”, Lenin, Op. compl., vol. xvii, p. 344)
durante il periodo staliniano a partire dagli anni
’30 si è respinta perfino l’ipotesi di una qualsiasi
connessione ideale tra bolscevichi e populisti;
questi ultimi essendo stati drasticamente definiti
in blocco “eroi falliti” e “nemici del marxismo”
(Storia del partito comunista bolscevico
dell’’URSS - Breve corso, Mosca 1945, p. 15). Più
tardi la ricerca su tale tema è ripresa, non senza
incontrare ancora tradizionali diffidenze, come si
può vedere dal saggio estremamente acuto di M.
J. Gerter. Stranica iz storij marksisma nacala xx
veka…, Mosca 1969 e dalla risposta polemica di
Voprosy istorii KPSS, N. 7, 1971. Due importanti
contributi italiani allo studio del tema sono

60
l’introduzione di Franco Venturi al suo classico Il
populismo russo, Torino 1952 e quella di Vittorio
Strada a Vladimir Lenin, Che fare?, Torino
1971».
31
La parte del fondo rimasta al proprietario
terriero dopo la «riforma» del 1861 (mentre il
nadiel era la parte andata al contadino).
32
Cfr. avanti, cap. iv (parte terza) del testo.
33
Cannella, op. cìt., p. 794.
34
E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica, cit.,
pp. 789-791; così scrive sul rapporto Marx-
populismo: «Fu verso la fine del decennio
1860-’70 che Marx ed Engels cominciarono a
interessarsi di problemi russi e impararono la
lingua russa per poter leggere la letteratura
economica di quel paese… Nel decennio 1850-
1860 una nuova corrente di pensiero—i
narodniki erano infatti più un gruppo
d’intellettuali che un partito organizzato—era
sorta in Russia fondendo la credenza degli
slavofili nel peculiare destino della Russia e nel
suo ruolo di portatrice di luce all’Europa con le
dottrine socialiste occidentali soprattutto di
marca utopistica. L’elemento più concreto nel
pensiero dei narodniki era la convinzione che la
comune contadina russa, con il suo sistema di
proprietà collettiva, avesse un fondamento
sostanzialmente socialista, capace di offrire le
basi di un futuro ordinamento socialista…».
35
Si legga in A. Rosemberg, Storia del
bolscevismo, Firenze 1969, p. 26: «Quando
l’ordinamento di tipo feudale è sentito come
intollerabile dalla massa del popolo, quando

61
l’evoluzione storica ha palesemente sorpassato
l’invecchiato sistema, allora i suoi stessi
esponenti si disgregano e aprono la strada alla
rivoluzione. Lo zar Alessandro II voleva
prevenire negli anni ’60 (in realtà si trattava di
Nicola I F. B.) il crollo per mezzo della cosidetta
liberazione dei contadini: i quali furono allora
resi giuridicamente liberi. Ma la terra rimase
per la maggior parte in mano dei grossi
proprietari e, nei villaggi, la polizia
era altrettanto onnipotente e brutale dopo la
“liberazione” quanto prima. In tal modo, la
liberazione dei contadini mostrò solo la forza
della pressione rivoluzionaria, senza risolvere
nessuna delle questioni dalle quali la Russia era
assillata».
36
Venturi, op. cit., vol. II, p. 11.
37
Venturi, op. cit., p. XLIX scrive: «Lo Stato
anche quando riesce ad operare una riforma
fondamentale come quella del 1861 non può fare
a meno di difendere l’interesse dei nobili e di
cercare di controllare l’obscina contadina
senza poterla spezzare e neppure effettivamente
trasformare».
38
Non siamo invece d’accordo con quanto F.
Venturi, op. cit., p. LXIV sgg. scrive: «Sul piano
della storia economica e sociale, bisogna
confessarlo, la risposta è stata povera,
insufficiente. Ripetere senza stancarsi che il
capitalismo si era abbastanza sviluppato in
Russia per condurre fatalmente,
naturalmente, alla dissoluzione dei legami
feudali, era ricantare un’antica canzone, non
riproporsi i problemi della Società russa a metà

62
del secolo scorso, né permettere di capire le
particolarità del processo d’industrializzazione di
quel paese, né chiedersi davvero quale fosse
l’effettiva situazione all’inizio del regno di
Alessandro II. Le risposte a questo proposito non
son venute dagli storici sovietici ma dall’altra
parte dell’Oceano, dagli studiosi americani come
Emmons e soprattutto Alexander Gerschenkon,
nelle pagine sulla storia economica russa
che questi ha scritto per la Cambridge Economie
History».
Ci sembra cioè che Venturi non faccia
riferimento in particolare a studi sulla situazione
agraria della Russia prerivoluzionaria comparsi
proprio in Unione Sovietica negli anni ’60 e 70 e
che abbiamo citato nel corso di questo capitolo
(si pensi a La rivoluzione agraria in Russia,
Mosca 1966 di P. N. Parsin e a A. M. Anfimov, La
grande azienda signorile nella Russia europea
alla fine del xix e all’inizio del xx secolo, Mosca
1969 o anche P. G. Ryndzjunsky «La struttura
economica della piccola azienda contadina in
Russia nel periodo successivo alla riforma del
’61», in Voprosy istorii, n. 11, 1971; e si pensi
alle stesse precedenti ricerche su questi temi di
Dubrovskij, Liajenko e G. Sestakov ecc.) e che
sono, a giudizio nostro, notevolmente importanti.
39
Persino uno storico «conservatore» come J.
A. Pokrovski nel suo opuscolo del 1957:
Falsificatori della storia del pensiero politico
russo nella letteratura reazionaria borghese
contemporanea, nel capitolo «Gli studiosi
progressisti dell’Occidente studiano la storia del
pensiero rivoluzionario russo» doveva scrivere a

63
proposito dell’opera di F. Venturi: «L’opera di F.
Venturi era una ricerca scientifica seria. Con
l’autore si poteva e si doveva discutere, ma non
si poteva restare indifferenti di fronte alla sua
opera capitale. La sua esposizione è chiara
testimonianza del risvegliarsi dell’interesse per
le tradizioni del pensiero rivoluzionario russo»
(Accademia delle Scienze dell’URSS, Istituto di
diritto, 1957).

64
Capitolo terzo

IL MOVIMENTO POPULISTA E L’ANDATA AL


POPOLO






Nel trentennio che precedette la fondazione
del partito socialdemocratico russo (1898) i
maggiori rivoluzionari erano stati narodniki (i
populisti). I primi rivoluzionari del decennio
’60-’70, che a loro volta nascevano sul terreno
della «grande febbre» del pensiero socialista
russo, prepararono l’ondata degli anni ’70-’80
dell’«andata al popolo». Ma l’« andata al popolo»
del ’73-’74 non fu soltanto un « atto di
rousseauismo collettivo»1, ma indubbiamente
una grande scuola pratica di socialismo.
I seguaci di Bakunin e l’intellighentia
populista che si dispersero nei villaggi della
sterminata Russia per stimolare la rivolta e
resuscitare le grandi tradizioni rivoluzionarie di
Stenka Razin e di Pugacev, esaltando le
potenzialità socialiste delle comuni contadine
(mentre Lavrov2 e lo stesso Cernysevskij3
preconizzavano il passaggio delle comuni dalla
fase del possesso collettivo a quello della
coltivazione collettiva), furono indubbiamente i
suscitatori di una esperienza rivoluzionaria che
anche se sconfitta avrebbe prodotto un grande

65
incremento teorico nelle stesse posizioni del
movimento.
E non può sorprendere che lo stesso Marx (in
modo qualitativamente diverso da Engels) abbia
sentito così radicalmente la necessità «di uno
studio approfondito» (di cui aveva «cercato
materiali nelle fonti originali»)4
dell’interpretazione che il populismo dava della
rivoluzione socialista in un paese contadino
arretrato e di quella che in definitiva non era
altro che il tentativo di una
interpretazione originale di tipo «marxista» (ma
non una trasposizione meccanica) della realtà
sociale russa.
In sostanza Lavrov, Michajlovskij5 Flerovskij6
ecc. non avevano fatto altro che, utilizzando
Marx, mettere in discussione la fede illuministica
nell’inevitabile progresso (le solite e sincroniche
«magnifiche sorti e progressive»!) e criticare
appassionatamente l’assunto teorico dal quale
discendeva che la Russia doveva seguire il
modello inglese di sviluppo; e sottolineavano
giustamente le terribili contraddizioni di quel
processo e le possibilità di evitarle facendo leva
sulle potenzialità socialiste della comune7.
Si potrebbe dire dunque che se il marxismo
costituì un apporto sostanziale alla formazione
del populismo russo, questi d’altra parte e
soprattutto negli anni ottanta e novanta fu un
punto di riferimento costante e di assoluta
rilevanza non solo per il marxismo russo ma per
gli stessi padri del «marxismo scientifico».
Del resto della posizione di Marx nei confronti
del populismo si è già accennato e più avanti se

66
ne parlerà ancora a proposito dello scritto di
Lenin «Che cosa sono gli amici del popolo».
Qui conviene invece far riferimento ai
rapporti di Engels col movimento populista che
furono in genere meno «aperti» e più
«ortodossi». Si è già fatto cenno alla polemica
con Tkacev e allo scritto engelsiano—Condizioni
sociali della Russia8—. Engels condizionava la
trasformazione della comune rurale in una unità
agricola di tipo comunista alla vittoria del
socialismo in occidente: senza questo aiuto non
vi era possibilità di «saltare» la fase capitalistica.
Ma questa posizione che teneva conto in
qualche modo della specificità della situazione
russa e che era stata ribadita nel 1882 nella
prefazione firmata anche da Marx alla
pubblicazione in lingua russa del Manifesto dei
Comunisti, fu praticamente sconfessata dallo
stesso Engels dopo il 1890 e sostituita con
formulazioni del tutto ortodosse.
Peraltro è nota la sufficienza con cui Engels
aveva già trattato le posizioni teoriche dei
populisti: le «più incredibili e bizzarre
combinazioni di idee»9. Del resto nel 1852
scrivendo a Marx a proposito di Bakunin aveva
detto: «La verità è che Bakunin non può fare
a meno di essere qualcuno per il semplice fatto
che nessuno sa niente della Russia. E il vecchio
artificio dei panslavisti che parlano di
trasformare l’antico comune slavo in una forma
di comunismo e sostengono che i contadini russi
sono comunisti nati, verrà comodamente
liquidato».
Sono altrettanto note le sue espressioni

67
d’incrollabile certezza nelle tre fasi dello
sviluppo (feudalesimo, capitalismo, socialismo)
fino a quella tipica: «la borghesia è una
condizione necessaria alla rivoluzione quanto lo
è il proletariato stesso»10. Non possono perciò
stupire certe sue formulazioni addirittura
canoniche e le metafisicherie storicistiche nella
sua polemica nel ’92 col populista N. Danielson11.
Questi aveva scritto a Engels per poter
ricevere una prestigiosa convalida all’idea della
possibilità in Russia di una
industrializzazione «popolare» non capitalistica
che evitasse ai contadini gli orrori «inglesi» della
espropriazione e della proletarizzazione.
Engels rispose con pomposa pensosità che si
accettasse, in sostanza, l’irreparabilità delle
«terribili sofferenze e convulsioni»12, in quanto
«la sorte del contadino appare segnata» e la
comune «un sogno del passato» 13 «va da sé che
in Russia tale metamorfosi debba assumere
forme infinitamente più violente e radicali ed
essere accompagnata da sofferenze
incommensurabilmente più grandi che in
America» 14.
In compenso però «non vi è grande male
storico senza il compenso di un progresso
storico».
«La storia—proclamava Engels—è la più
crudele vscrk boziy’ (di tutte le dee); essa guida
il suo carro trionfale su montagne di cadaveri,
non soltanto in guerra ma altresì nel “pacifico
sviluppo economico”»!!.
E si può immaginare, a parte i populisti, come

68
gli oggetti di queste grandiose e gradevoli
attenzioni da parte della STORIA, i contadini
russi, avrebbero dovuto sentirsi rallegrati e
rinvigoriti da tanta prospettiva!!!
Con questi precedenti è evidente che il
poscritto alla riedizione nel ’94 delle Condizioni
Sociali in Russia poteva apparire del
tutto scontato15 :
«Solo quando l’economia capitalistica sarà
superata nella sua stessa patria e nei paesi della
sua fioritura, solo quando ai paesi meno
progrediti sia dato d’imparare dal loro esempio
“come si fa”, come si mettono al servizio della
collettività le forze produttive
divenute patrimonio comune, solo allora essi
potranno lanciarsi in questo processo abbreviato
di sviluppo. Ma lo faranno con la sicurezza di
riuscirvi».
«È storicamente impossibile che un grado di
sviluppo economico inferiore sciolga i misteri e
conflitti che si sono sprigionati, e solo potevano
sprigionarsi, da uno stadio molto superiore».
Purtroppo saranno proprio queste posizioni
del vecchio Engels (che a sua volta era stato
influenzato nei suoi ultimi giudizi sulla comune
contadina e sulle conseguenze dello sviluppo
capitalistico in Russia dalle nette enunciazioni
antipopuliste del gruppo da poco costituitosi dei
primi marxisti di «Emancipazione del lavoro») e
quelle come si vedrà della socialdemocrazia
tedesca e dello stesso Kautsky a rafforzare la
convinzione della giustezza e ortodossia della
lotta contro i populisti sia in Plechanov che nel
giovane Lenin.

69
In conclusione l’idea centrale del populismo
può dirsi, che fosse stata quella della non
predestinazione al capitalismo della
società russa (e dei paesi arretrati a base
contadina) ed esso fu certo l’unico movimento
culturale e politico che seppe prevedere con
matura consapevolezza, alle soglie di un non
fatale sviluppo capitalistico, il significato
globalmente sociale che esso avrebbe
rappresentato per le masse contadine e per
l’intero paese16.
E l’unico movimento che seppe, quasi
disperatamente, ricercare una via di sviluppo
verso il socialismo che evitasse le terribili
contraddizioni dell’industrializzazione
capitalistica.
È parimenti singolare come questo
movimento dell’intellighentia russa (sorto sul
terreno della delusione storica 17 della
rivoluzione democratico-borghese 18) fu del tutto
plasmato dalla tensione di un rapporto, non
compiutamente risolto, tra la potenzialità
rivoluzionaria delle masse contadine e la
capacità di esprimerla e guidarla da parte di una
élite intellettuale e poi di un partito politico 19.
Tra la consapevolezza tragica degli «orrori» che
il capitalismo avrebbe significato per le masse
contadine e la capacità politica di progettare e
condurre una lotta verso il socialismo che li
evitasse.
Ma il compito che esso si pose, pur tra
difficoltà e travagli di ogni sorta, fu proprio
quello, nella sostanza, di riuscire a saldare la
sfasatura tra una situazione obiettivamente

70
rivoluzionaria, radicata nell’oppressione e nello
sfruttamento di sterminate masse di contadini,
e un movimento politico capace di esprimere
questo immenso ma frantumato potenziale
rivoluzionario, unificarlo e dargli una
strategia. Non è certo questa la sede per
riassumere la storia di questo processo e ci
limiteremo perciò a qualche considerazione20.
Innanzitutto, in riferimento ancora una volta
alla specificità della situazione agraria russa
imperniata sull’obscina, è bene ricordare che già
nel Settecento in Europa21, si era sviluppato un
interessante dibattito sull’opportunità o meno di
suddivisione dei terreni comuni. Questi stessi
interrogativi, alla fine del secolo XVIII e ai primi
del XIX, si erano posti l’intellighentia russa e
alcuni degli stessi proprietari terrieri e dei
funzionari statali22.
La estrema frantumazione e basse
produttività agricole erano dovute alla struttura
comunitaria dei villaggi oppure alla proprietà
signorile? E già i decabristi e Pestel in
particolare proporranno non solo i temi della
rivoluzione francese e della lotta all’assolutismo
ma quelli della distribuzione egualitaria e del
collettivismo agrario, al di là del liberismo e del
sismondismo.
Al contrario, gli slavofili degli anni ’30 e ’40 23,
astraendo dalla concreta realtà dei rapporti
signorili di proprietà, avrebbero finito
col mitizzare l’obscina e il mir in una visione non
solo religiosa e romantica ma politica, sociale e
storica che spesso finì con lo sfociare in retorica
conservatrice e nazionalistica e perfino

71
reazionaria. Malgrado ciò, e paradossalmente,
furono proprio essi nella loro polemica con gli
occidentalisti di ogni tendenza, a far ancorare il
socialismo russo d’importazione europea, alla
autentica realtà del mondo contadino indigeno,
oltre le astratte diatribe delle varie ortodossie
socialiste23bis.
E furono essi i primi a rivendicare il grande
valore russo del monumentale studio sull’obscina
e sul villaggio contadino del barone prussiano
Haxthausen24.
Per secoli il muzik aveva risposto con la
rivolta a chi aveva tentato di manomettere le
consuetudini solidaristiche della comunità di
villaggio: soltanto dunque un recupero degli
ideali comunitari di quel mondo avrebbe
permesso quel legame organico con le masse
popolari, indispensabile per una loro
mobilitazione nella direzione del socialismo. Su
questo terreno, con questo vasto respiro sociale
e a contatto, «nello spirito del ’48» col socialismo
europeo, nacque il populismo di Herzen, di
Ogarev25 e di Bakunin.
Così a un secolo in cui l’intellighentia russa
era stata protesa a venerare e a imitare l’Europa
dei grandi ideali illuministici, succede la
riflessione, lo sdegno e l’ira di fronte al mondo
sorto dalla Rivoluzione francese e dalla
repressione del ’4826. È da questo slancio etico e
politico insieme e da quel sofferto legame con la
realtà contadina del proprio paese che nasce
l’appassionata spinta populista e forse non
è stato ancora valutato nella sua interezza il
dinamismo rivoluzionario che implicava questo

72
incernierarsi delle millenarie aspirazioni
contadine con la profonda volontà di
rinnovamento e di «unione col
popolo» dell’intellighentia.
Herzen potrà scrivere così a Mazzini27: «Non
credo ad alcun’altra rivoluzione in Russia che a
una guerra di contadini». Lo sviluppo
dell’obscina non poteva aversi che dal suo
sbozzolarsi da tutte le strutture schiavistiche,
signorili, servili che la stritolavano.
Questo era lo spirito che spingeva al contatto
col popolo i leaders come i militanti del
movimento: la ricerca delle forme e delle
istituzioni popolari che, fondate sul primitivo
solidarismo, fattosi cristiano e su un embrione di
autogoverno, avevano resistito per secoli allo
schiacciamento dello Stato e della classe
signorile.
Attraverso di esse e sviluppandole le masse
contadine avrebbero potuto prendere coscienza
di se stesse e della loro condizione antagonistica
alla feudalità e all’autocrazia e lottare per un
socialismo che vieppiù le liberasse e le esaltasse:
perché solo in quelle forme e in ciucile istituzioni
le popolazioni contadine avrebbero riconosciuto
il proprio modo di essere, di vivere e di lottare
per una non astratta emancipazione.
Ma nel ’61 l’intellighentia era ancora
impreparata a far sfociare il movimento
spontaneo di rivolta contadina contro la riforma
in un generale movimento rivoluzionario.
Eppure in quella frenetica estate del ’61 si
dilatò a dismisura la speranza che dalla rabbia

73
delle masse contadine per l’inganno dell’editto
emancipativo insorgesse nelle campagne russe
un nuovo e centuplicato Pugacev28.
Quell’invocato rivolgimento non avvenne ma
fu proprio in quei mesi che prese inizio il
processo che avrebbe trasformato in una
organizzazione rivoluzionaria i gruppi
intellettuali e studenteschi legati al kolokol di
Herzen e Ogarev e al Sovremmenik di
Cernysevskij ,e che avrebbe portato alla
costituzione della prima29 e poi della seconda
Zemlja i Volja e all’andata al popolo del 1873-74
30
.
E senza dubbio quello del ’73-’74 fu, come si è
già detto, uno dei più straordinari fenomeni di
passione rivoluzionaria e solidaristica31 che fu
espresso dal secolo passato; e dopo la Comune
del ’70 fu forse la più profonda esperienza
socialistica vissuta nel XIX secolo.
Dopo vent’anni di propaganda e di preparazione
ideologica, dopo 10 anni di tentativi
organizzativi, finalmente il movimento populista
riusciva a suscitare un vasto movimento di
«massa»!
I ripetuti appelli di Herzen32, di Ogarev e di
Bakunin trovavano finalmente una eco che
riusciva a muovere migliaia di giovani e quel
movimento studentesco che già nel decennio
precedente, pur nel terribile clima poliziesco di
quegli anni, era riuscito a conquistarsi il diritto
alle proprie assemblee nell’Università e alla
propria stampa; e che aveva sfidato il potere
zarista col tentativo dei primi scioperi e
coll’organizzazione di gruppi di «auto

74
educazione», quel movimento ora si era fatto più
ricettivo e maturo. E, singolare «ricorso storico»,
quando a Pietroburgo, proprio nel 1869 e
dunque un secolo esatto prima della
«contestazione studentesca», si volle costringere
gli studenti a non portare i capelli lunghi
nacquero subito proteste violente e
organizzate…
Comunque il terreno era ormai estremamente
favorevole a ricevere gl’infiammati appelli di
lotta dei grandi esuli.
In centinaia di piccoli centri artigianali e in
piccole officine e laboratori, a Pietroburgo come
a Mosca e negli altri centri della Russia una
straordinaria moltitudine di giovani, cominciò a
«far politica» spesso organizzata in piccole
«comuni» dove la comunanza dei beni, la
fratellanza e la solidarietà erano vissute in uno
spirito di grande naturalezza e spontaneità. E in
queste minuscole «fucine di anime» essi si
addestravano meticolosamente nei più diversi
mestieri, prima di muovere verso le campagne, e
svolgervi un qualsiasi lavoro che potesse
alleviare le fatiche del popolo e permettere un
contatto reale con esso.
Dunque la quasi totalità della gioventù
universitaria, sfidando le persecuzioni e la
detenzione, rinunciando a ogni spirito di
egoismo e di «carriera», animata da un
sentimento assoluto di sacrificio
e dall’appassionata volontà di «servire il popolo»
e di saldare con esso il proprio debito, si riversò
nelle campagne pervasa da quel generoso
bakunismo che li spingeva tra le masse

75
contadine coll’ideale di infiammarle alla rivolta
nella tradizione di Stenka Razin e di Pugacev.
Ed è utile riportare quanto racconta uno di
essi, Aptekman33 : «È tempo di andare al popolo.
Bisogna preparare l’indispensabile e prima di
tutto imparare un lavoro fisico. Tutti si mettono
all’opera. Alcuni si distribuiscono nelle officine e
nelle fabbriche, dove, con l’aiuto di operai già
preparati si fanno accettare e si mettono al
lavoro. L’esempio impressiona i loro compagni e
si diffonde. Quelli che non possono seguirlo
soffrono amaramente. Altri, e se non sbaglio
furono la maggioranza, si buttarono ad
apprendere un mestiere, di ciabattino, di
falegname, di ebanista ecc.
Son mestieri che s’imparano più presto e, del
resto, saranno più utili quando si sarà deportati.
Bisogna essere subito pronti. In molti luoghi di
Pietroburgo s’organizzano laboratori dove, sotto
la direzione di un operaio rivoluzionario,
l’apprendistato è abbastanza rapido. La
necessità d’imparare un mestiere rivela dei veri
talenti nella nostra gioventù. I laboratori,
organizzati allora, sono tutti d’un medesimo tipo.
Funzionano contemporaneamente da «comuni».
Entriamo in uno d’essi, una casetta di tre stanze,
di legno con cucina nel quartiere di Vibory, a
Pietroburgo. Mobili pochi, letti spartani. Odore
di cuoio. È un laboratorio di calzature. Tre
giovani studenti vi lavorano concentratamente.
Alla finestra una ragazza è anch’essa tutta
assorta nel lavoro, sta cucendo delle camicie per
i compagni che si preparano a giorni ad andare
nel popolo. Bisogna affrettarsi. I visi sono

76
giovani, seri, arditi e chiari. Si parla poco perché
non c’è tempo. E di che parlare? Tutto è deciso,
tutto è chiaro come il giorno».
Ma forse a riassumere più chiaramente di
tutti il significato di quell’esperienza fu Lavrov:
«Il significato pedagogico socialista di questi
centri—scrisse—fu enorme. Non si trattava più di
una attività culturale… Non era più soltanto un
tentativo di perfezionamento intellettuale.
Gl’ideali vennero risolti di fatto nel principio
supremo dell’attività sociale, della propaganda
socialista, indirizzate all’abbattimento totale
dell’organizzazione economica esistente»34.
E di questi giovani, Flerovski, lo studioso già
citato, dirà: «Nella mia mente stava sempre il
raffronto tra questa gioventù che si preparava
all’azione e i primi cristiani»; e in effetti
nell’andata al popolo di quegli anni la
predicazione populista ebbe accenti in qualche
modo (e spesso nei temi stessi della propaganda)
addirittura di tipo evangelico almeno nello
spirito di dedizione e amore verso gli oppressi.
Klemenc, uno dei futuri protagonisti del
movimento e che sarà denunciato dal prete del
villaggio dove operava, racconterà: «Spesso le
discussioni nelle strade, isbe contadine, tutte
piene d una numerosa lolla di ascoltatori,
duravan fin oltre mezzanotte. Un senso di
solennità dominava gli uditori e si levava il
corale canto degli inni rivoluzionari.
Involontariamente tornavano alla mente le scene
dei primi secoli del cristianesimo e dei tempi
della riforma».
E l’Aptekman, citato sopra:

77
«Prima di partire decisi di farmi ortodosso, fui
battezzato e mi sentii letteralmente rinnovato…
Mi ero così avvicinato ai contadini tra i quali
sarei vissuto».
Ma riportiamo un brano35 di quanto scrive
efficacemente il Venturi stesso di quella «folle
estate» del ’74.
«Nell’estate cominciò la partenza di massa.
Anche coloro tra i contemporanei che nella loro
memoria cercarono d’attenuare il carattere
tumultuoso di questa “andata nel popolo”,
convengono che essa non fu guidata da un
centro. In realtà non vi fu un’organizzazione che
la controllasse. Se i giovani si concentrarono in
certe regioni piuttosto che in altre, ciò fu dovuto
più che ad una parola d’ordine all’eco della
letteratura rivoluzionaria di quegli anni: in
maggioranza si diressero verso le terre di
Pugacev e di Stenka Razin, verso il sud delle
rivolte contadine, lungo i grandi fiumi della
Volga, del Don e del Dnieper. Spesso mossero
semplicemente verso i luoghi più vicini ai loro
centri di partenza. Soltanto nelle località dove
prevalse la propaganda “fissa” rispetto a quella
“volante” si formarono delle elementari
organizzazioni per mantenere i contatti tra
individui e gruppi sparsi nei villaggi. In alcuni
punti, pochi, si tentò di creare dei “rifugi
rivoluzionari” dei centri di raduno che
prendevano generalmente la forma di laboratori
artigiani. Le regioni della Volga attorno a
Saratov, Samara, Pluza, furono le meglio
organizzate. Qualche centro funzionò per fornire
del denaro, dei passaporti falsi e soprattutto per

78
uno scambio di informazioni e d’impressioni.
Tuttavia la maggioranza degli studenti si mise
per strada individualmente o in piccoli gruppetti
di amici, vestiti da muzik; talvolta più
poveramente ancora di quanto fosse naturale per
il mestiere che avevano scelto, andavano
girovagando, lavorando e cercando di farsi
amici dei contadini, dei boscaioli, dei battellieri.
Il lavoro fisico era pesante e finì coll’assorbire
tutte le loro energie. Ma non volevano
presentarsi al popolo come dei mangiatori di
pane a ufo, volevano dimostrare ai contadini, e a
loro stessi, d’esser capaci di guadagnarsi la vita
e perciò insistevano a zappare, spaccar legna, a
vivere come dei veri lavoratori.
Alcuni non resistettero… per molti questa
prova costituì la fine di ogni vita “normale”: dai
villaggi passarono alle carceri, dalle prigioni alle
deportazioni e tutta la loro esistenza fu segnata
dalla rinuncia fatta nell’estate del 1874»! E
infatti il prezzo di questo vasto movimento verso
il popolo fu altissimo: dalle due alle tremila
persone furono imprigionate—riferisce sempre
Venturi, riportando dalle testimonianze dei
sopravvissuti e dal rapporto del conte Palen,
ministro della Giustizia—di questi 732 furono
deferiti alla giustizia, di cui 612 ragazzi e 158
ragazze.
Bakunin che era stato il lontano nume
tutelare del movimento, potrà dunque rispondere
magniloquentemente36:
«No, caro conte Palen, non a Bakunin né a
due o tre altre persone appartiene
esclusivamente l’onore dell’iniziativa

79
rivoluzionaria in Russia. Questo onore spetta a
tutta la gioventù russa, che con la sua energia,
intelligenza e coraggio è riuscita finalmente,
dopo una lotta di parte, a creare una minacciosa
forza rivoluzionaria… Unicamente la
sua iniziativa è valsa a far sorgere gli
innumerevoli gruppi, che Voi avete tanto
dettagliatamente enumerato, a creare quello
spirito anarchico che li anima, ad assicurare
quell’eccellente organizzazione federativa
che costituisce l’invincibile forza e l’indiscutibile
condizione di ogni opera rivoluzionaria».
Ma al di là dell’altissimo prezzo e della
pesantissima repressione, il populismo
attraverso questa appassionata esperienza
rivoluzionaria e la riflessione su di essa riuscirà a
raggiungere la sua maturità teorica e politica. E
l’elevatissimo patrimonio culturale che aveva alle
spalle potè farsi politica e strategia
rivoluzionaria. Il vago bakunismo e il lavrismo
che lo aveva animato nel duro scontro con la
realtà potè depurarsi del suo spontaneismo e dei
suoi idoleggiamenti come anche del suo
pedagogismo e dei suoi residui giacobini: il
mitico popolo non era sempre pronto alla rivolta
e il compito non era far scoccare la scintilla per
distruggere e far sorgere ex novo la nuova
società37. Occorreva la cospirazione, e una forte
organizzazione rivoluzionaria che riuscisse a
mobilitare consapevolmente il popolo perché
esso facesse la sua rivoluzione. Non erano
dunque sufficienti gli astratti «ideali» anarchici
di distruzione dello stato e libertà, ma essi
andavano concretizzati nella pratica

80
rivoluzionaria, in una serie di obiettivi che
facessero della volontà d’autonomia dei villaggi e
degli arteli, di autoamministrazione locale e di
affrancamento sociale di tutta la massa
contadina, i capisaldi di una dura tenace lotta
contro la centralizzazione assolutista e la nobiltà
feudale.
Veniva dunque delineata per la prima volta
l’intuizione avanzatissima che la condizione per
trasformare la crisi dell’assolutismo in
rivoluzione socialista era l’insorgere e lo
svilupparsi di un potere di massa alternativo allo
stato assolutista, i cui organi fossero nello stesso
tempo centri di lotta popolare e istituzioni di una
trasformata organizzazione statale38.
La saldatura fra essere sociale e coscienza
veniva a essere risolta marxianamente nella
prassi: le masse contadine dovevano essere
spinte dall’organizzazione politica che a sua
volta ne riceveva le istanze più profonde, a
divenire coscienti del loro essere sociale nella
pratica della lotta. E solo nella attività
trasformatrice della lotta 39 esse diventavano il
consapevole soggetto rivoluzionario,
l’indispensabile protagonista della rivoluzione
russa per il socialismo. Contro ogni sorta
di pedagogismo illuministico e di giacobinismo
elitario, la coscienza non era idealisticamente il
prodotto di un «sapere indotto dall’esterno»
(come più tardi sosterrà kautskianamente e
blanquisticamente Lenin nel «Che fare») ma di
un rapporto attivo delle masse subalterne con
la società.
Il movimento populista aveva conquistato «sul

81
campo» il diritto a un ruolo politico autonomo
delle masse contadine.



1
Venturi, op. cit., vol. III, p. 54.
2
Si veda Walichi, op. cit., p. 86: «Egli
(Lavrov nelle sue Lettere Storiche) auspicava per
la Russia un socialismo agrario la cui condizione
preliminare a suo avviso comportava il passaggio
delle comuni contadine dallo stadio del
possesso collettivo della terra, allo stadio della
coltivazione collettiva; nello stesso
tempo comprendeva la necessità della moderna
produzione industriale su larga scala e credeva
nella possibilità di una industrializzazione non
capitalistica della Russia… in contrasto con i
populisti «legali», Lavrov era convinto che la
possibilità di una industrializzazione non
capitalistica dipendesse interamente dal
successo della rivoluzione socialista» (cfr. M.M.
Karpovich, «P.L. Lavrov and Russian
socialism», California Slavic Studies, voi. II,
Berkeley, 1963). E a p. 118 «Lavrov
appena fuggito dalla Russia quasi
immediatamente stabilì relazioni con Marx ed
Engels e divenne un membro dell’Internazionale;
più tardi sotto l’influenza di Marx, cominciò a
trattare della rivoluzione sociale facendo
riferimento alle «leggi obbiettive dello sviluppo»
e citando nella sua rivista Vpered (Avanti) il
Capitale e il Manifesto dei Comunisti».
3
A. Walichi, su Chernichevskij, per esempio

82
scrive (op. cit., pp. 23-31): «Chernichevskij,
come Skaldin, fu un ardente occidentalista, un
propugnatore della “completa europeizzazione
della Russia”, nello stesso tempo, comunque, a
differenza di Skaldin, difese con grande energia
la comune rurale, nella quale gli economisti
liberali scorgevano il maggior ostacolo allo
sviluppo europeo della Russia».
4
Marx-Engels, India, Cina, Russia, cit., p.
301.
5
Per Lavrov si veda la nota 2 di questo
capitolo. Per Michajlovskij oltre che in Walichi,
op. cit., pp. 48-75, in Venturi, op. cit., pp. xxi; v.
III, 418-422 ecc. ο V. Strada, op. cit., xvii-xviii
ecc., si legga V.A. Tvardoskaja, op. cit., p.
158: «Condividendo fino in fondo il pensiero
populista rivoluzionario, M. sottolineava la
necessità di consolidare la libertà politica con
trasformazioni socio-economiche, soprattutto in
campo agrario. Questa tesi esposta in “Lettere
politiche di un socialista” fu da lui ribadita anche
su Otechestvennye zapiski… “Il populismo—
concludeva sul giornale Narodnaja Volja— si
leverà in piedi come un sol uomo solo per quella
libertà che gli garantisca la terra, mentre
guarderà con indifferenza… anche la più cinica
violazione della costituzione…”».
6
Walichi, op. cit., p. 80 scrive: «Un ruolo
importante nel creare l’immagine populista del
capitalismo e della libertà politica lo ebbero le
opere di Flerovskij (La situazione della classe
operaia in Russia (1869), e L’alfabeto delle
scienze sociali, 1871) che era in contatto con i
due centri principali del movimento populista di

83
quegli anni, i circoli dei “Chaikovskisti” e dei
“Dolgushinisti”. E a pp. 98-100: «Secondo Marx,
il libro di Flerovskij era l’opera più importante di
quel genere, dopo quella di Engels sulla
condizione della classe operaia in Inghilterra;
era “il primo a dire il vero sulle condizioni
economiche russe” (K. Marx-F. Engels,
Carteggio, vol. vi, Roma ’53, pp. 20-21)».
7
Tvardoskaja, Il populismo russo, Roma 1975,
scrive a p. 60: «Secondo i narodovoltsy—e in
generale tale giudizio era condiviso da tutti i
populisti—la nascita del capitalismo in Russia
era il frutto della politica statale e non di
uno sviluppo interno delle forze produttive del
paese». Che, come è noto, divenne anche
l’opinione di Trockij (si veda per es. la polemica
di Trockij, nel 1925, con Pokrovskij in L. Trockij,
Storia della rivoluzione russa, Milano 1969, vol.
X, pp. 496-505; oppure I. Deutscher, Il profeta
disarmato, Milano 1970, pp. 364-5).
8
Walichi, op. cit., pp. 117 e sgg. e avanti pp.
145-148.
9
Carteggio di K. Marx e F. Engels con
esponenti politici russi, Mosca 1957, p. 341
(lettera di Engels a Plekhanov sulle idee di
Danielson del 26 febbraio 1895).
10
Walichi, op. cit., pp. 115 e sgg.
11
Marx Engels, Selected Works, London
1950, v. 11, p. 47.
12
Marx-Engels, op. cit., p. 271.
13
Ibidem. E si legga quanto riporta A.
Walichi, op. cit., p. 57, riferendosi a una serie di
articoli di Michajlovskij, In lotta per

84
l’individualità (1875-6): «In altre parole,
l’esaltazione del presente comincia a lasciare il
posto ad un nuovo atteggiamento che potrebbe
definirsi romanticismo sociologico se l’interesse
per il passato non fosse connesso a quello per
nuove forme di rapporti sociali, se si trattasse di
una pura idealizzazione del passato e non di uno
sforzo per studiarlo e per applicare i suoi
insegnamenti alle nuove necessità».
14
Marx-Engels, op. cit., p. 271.
15
Ibidem, p. 283 e sgg.
16
Si legga in René Dumont, Problemi agrari
del comunismo, a pp. 29-33 il paragrafo
«Discutibile analisi marxista del contadino
lavoratore» (Milano 1966): «Questo è l’errore
d’origine fondamentale che spiega parte delle
difficoltà agricole sovietiche. L’analisi di Lenin
circa “la nascita del capitalismo in Russia”
è stata falsata dalle idee di Marx che ha
esagerato la funzione del capitalismo tra i
contadini. Invece di essere considerato tra i
lavoratori più strenui, così come era spesso, con
la sua sottocapitalizzazione, il contadino
benestante è stato spesso e ingiustamente
classificato quale sfruttatore, kulak “colui che
tiene gli altri in pugno”. Questo era vero
solamente per il commerciante, per l’usuraio,
ecc. La classificazione dei contadini ricchi, medi
e poveri è stata fatta sotto un profilo politico per
individuare il ceto con il quale era possibile
un’alleanza. Questi rivoluzionari urbani, così
poco al corrente della realtà contadina, hanno
commesso in tale settore una serie di errori
gravidi di conseguenze. Fin dall’inizio

85
l’atteggiamento anticontadino ha provocato una
reazione anticomunista di una larga parte dei
contadini che dal 1918 al 1935 non ha cessato di
manifestarsi. Le colonne della Pravda erano
piene di notizie sull’assassinio dei propri
corrispondenti e bande di contadini ribelli
imperversavano nelle campagne. Lenin poteva
anche perseguitare chi vendesse il grano al
mercato nero a un prezzo dieci volte superiore a
quello stabilito. Ma chi rispettava la legge non
percepiva in cambio del suo grano (soprattutto
nel 1920, quando lo scarto di prezzo era da 1 a
7000) praticamente alcuna possibilità d’acquisto
dei prodotti industriali. Nel 1921 la guerra civile,
con la sua politica di stato d’assedio, chiamata
comunismo di guerra, portò a un abbassamento
del 40% la produzione agricola e dell’82% quella
industriale; quindi i contadini non accettano più
senza ribellarsi le requisizioni… Questa
disuguaglianza è ancora ai nostri giorni una delle
cause principali delle difficoltà agricole
sovietiche. Poiché i contadini di ogni paese
hanno, al pari di colonizzati, sete di dignità. La
condizione di subordinazione del contadino al
proletariato rischia di prolungare nel suo animo
lo sfruttamento da parte delle autorità di un
passato finito e la città rimane il suo nemico…».
17
Venturi, op. cit., p. LVI, scrive: «Dopo un
secolo in cui la Russia è tutta tesa a guardare
all’Europa occidentale, a imitarla, a utilizzarla, a
servirsene, subentra una profonda delusione,
una repulsione invincibile di fronte
all’Europa uscita dalla Rivoluzione francese».
18
Si legga in V. Strada, op. cit., p. XLVIII,

86
nota 2: «Quella stessa esperienza storica
europea rivissuta intellettualmente dai russi, e in
particolare gli esiti negativi della rivoluzione
francese di luglio, creò peraltro il terreno per
una reazione diversa da quella bakuniniana e
diede l’avvio alla prima riflessione politica
socialista di Herzen e Ogarev».
19
Si veda in Venturi, op. cit., p. XLVII, voi. I:
«Pierre Pascal (P. Pascal, Civilisation paysanne
en Russie, Lausanne 1969) meglio di ogni altro ci
ha detto quale immenso potere dirompente
avesse in Russia questo punto di incontro
rivoluzionario tra le secolari aspirazioni
contadine e la profonda volontà di
rinnovamento morale dell’intelligencija, questa
carica populista che l’Ottocento aveva
trasmesso al secolo nuovo».
20
Si legga in A. Rosemberg, Storia del
bolscevismo, Firenze 1969, pp. 26-7: «Ciò che
distingueva tutti i populisti (i narodniki) era
l’odio feroce contro lo zar e il suo sistema e la
fede nella Russia, soprattutto nel contadino
russo. Loro scopo era di abbattere la odiosa
burocrazia dominante e di sostituirle un
governo di popolo, nel quale il ceto contadino
russo come schiacciante maggioranza e come
classe caratteristica del popolo, doveva avere la
parte dominante. I residui della proprietà
comune dei contadini che ancora s’erano
mantenuti in Russia sotto lo zarismo e sotto la
servitù della gleba, dovevano forse offrire la base
per un socialismo agrario prettamente russo.
Dall’occidente la Russia doveva bensì imparare,
ma non doveva senz’altro adottare per sé le

87
ricette occidentali. Tutti questi insegnamenti, il
contadino rozzo e incolto non poteva trovarli da
sé; egli aveva bisogno perciò dell’aiuto degli
intellettuali. Così la gioventù della nobiltà e
dell’intelligenza, desiderosa di sacrifici, andò
“tra il popolo”, nei villaggi per illuminare i
contadini e per farli maturi alla sollevazione
ecc.».
21
Si veda Venturi, op. cit., vol. I, pp. 12-13.
Sulla opportunità o meno della suddivisione dei
terreni comuni si veda il dibattito del secolo
XVIII in Russia, n. 1/75. E per il dibattito in
Russia sull’obscina, nel corso dello stesso secolo
si vedano le opere di Boltin e Radiscev.
22
Venturi, op. cit., vol. I, p. 13, n. 18 e pp. 1-
11.
23
Si veda per es. Martin Malia, op. cit., pp.
449-478. E si legga a p. 567: «Gli slavofili e
Haxthausen naturalmente si proponevano, nel
sostenere il carattere “socialista” della comune
russa, un intento conservatore perché
volevano dimostrare che la Russia non aveva
bisogno né di socialismo né della rivoluzione, dal
momento che essa già godeva di quei benefici
che ci si attendeva dall’uno e dall’altra». E si
ricordi una famosa affermazione di
Chernichevskij : «Nello slavofilismo vi sono
elementi che meritano di essere sostenuti. E, se
dobbiamo scegliere, lo slavofilismo è molto
meglio di questo torpore intellettuale, di
questo rifiuto delle idee moderne che così spesso
appare tra di noi sotto l’egida della fedeltà alla
civiltà occidentale» (Opere complete, voi. iv, p.
760, Mosca 1948).

88
23 bis
Si veda su queste tematiche il già citato
studio di P.P. Poggio, Comune contadina e
rivoluzione in Russia, Milano 1978.
24
Studi sulle condizioni interne, la vita
pubblica e in particolare le istituzioni russe, editi
nel 1847 in due volumi, mentre il III uscì nel
1852.
25
Si vedano i rapidi giudizi di Venturi op.
cit., p. lviii e sgg.
26
Si legga Herzen (Lemke, VI lettera nona:
giugno’48, p. 57): «I Royalistes hanno preso le
armi per difendere la repubblica e l’Assemblea
Nazionale. Salvando l’Assemblea essi salvano il
principio monarchico, salvano l’autorità
pavida, salvano l’ordine costituzionale esistente,
l’abuso del capitale e naturalmente
dell’interesse. L’alternativa non era la repubblica
di Lamartine, ma quella di Blanqui, una
repubblica non a parole ma nei fatti; l’alternativa
era la dittatura rivoluzionaria cioè quel regime di
transizione tra monarchia e (vera) repubblica;
l’alternativa era il suffragio universale, non
nell’attuale assurda forma utile solo per eleggere
un’assemblea tirannica, ma applicato all’intera
amministrazione, l’alternativa era la liberazione
dell’uomo, del comune, del dipartimento, dalla
soggezione a un governo forte, la cui forza di
persuasione consiste nelle fucilate e nelle
catene. Il 15 maggio l’Assemblea difesa dalla
guardia nazionale ha sì vinto ma moralmente è
stata vinta e come tutte le istituzioni ormai
morte essa si regge solo con la forza delle
baionette».

89
27
Op. cit., Lemke, v, pp. 366-67, lettera di
un russo a Mazzini; M. Malia, op. cit., p. 569.
28
Si legga in Pokrovsky op. cit., p. 167:
«Cernysevskij era persuaso che la rivoluzione
socialista fosse ancora lontana in Russia. Nella
pratica, ma non nella teoria, egli propendeva
piuttosto per la democrazia politica: la
soppressione dello Stato feudale, cioè del
dominio dei grandi proprietari fondiari e
dell’autocrazia dello zar, era per lui l’obiettivo
immediato. A tale scopo sperava di avvalersi
del movimento contadino che dopo la guerra di
Crimea non si era più placato e che dopo il 19
febbraio (1861) divampò come una fiammata
vivissima. Cernysevskij compilò per i contadini
un manifesto (uno dei primi in Russia se si
escludono quelli di Pugacev,) che tuttavia non
riuscì a diffondere… Nel suo manifesto incitava i
contadini a prepararsi all’insurrezione armata
contro i grandi proprietari feudali e lo zar, e
quindi a organizzarsi in attesa del momento
favorevole».
29
Walichi, op. cit., p. 78 scrive: «I
rivoluzionari della prima Zemlja i
Volja, un’organizzazione ispirata da Cernysevskij
e Ogarev, si ponevano degli obiettivi politici,
come, per esempio, la convocazione di una
“Assemblea della terra” e non vedevano in ciò
una defezione o un tradimento dei fini sociali
della rivoluzione». Si veda Venturi, op. cit., voi.
II, pp. 89-147.
30
Si veda V.A. Tvardovskaja, Il populismo
russo, Roma 1975, pp. 16 e sgg.: … il fatto stesso
che venisse riconosciuta la necessità dello Stato

90
nella società post-rivoluzionaria, argomentata
nel 1876 da un illustre esponente del pensiero
socialista come P.L. Lavrov (L’elemento della
società del futuro in Vpered, voi. iv, Londra
1876), già implicava un certo allontanamento dal
bakunismo. Pur proclamandosi anarchici, pur
appoggiando l’Internazionale federalista (cioè
bakunista), gli Zemlevoltsy, come vedremo, non
erano in realtà ‘nemici dello Stato e di ogni
statalismo in generale’ (M.A. Bakunin, Opere,
Mosca 1919, vol. I, p. 237)». Naturalmente si
veda anche il Venturi, op. cit., vol. III, pp. 157-
283.
31
Si legga in Walichi, op. cit., p. 79: «I
membri del circolo dei “Chaikovskisti” —la
maggior organizzazione populista degli inizi
degli anni ’70—erano caratterizzati da una
estrema tensione morale; la loro brama di
purezza e di sacrificio totale si esprimeva
talvolta in termini religiosi e, infine, trovò uno
sbocco nella dottrina religiosa del “deo
umanismo” (cfr. T.I. Polner - N.V. Chaikovski:
Ricerche religiose e politico-sociali, Parigi 1929).
Uno spirito analogo di apostolato semireligioso
caratterizzava i membri del circolo di
Dolgushin».
32
Su Herzen, come su Bakunin e il
populismo russo si legga anche G.D.H. Cole,
Storia del pensiero socialista, voi. II, pp. 36-63;
198-269, Bari 1974. Per es. pp. 48-60: «Herzen…
si convinse che questi (i russi) avevano la
possibilità di attuare una rivoluzione nella quale
la funzione che le dottrine socialiste occidentali
assegnavano agli operai dell’industria sarebbe

91
stata assolta dai contadini: questa rivoluzione
contadina, a suo avviso poteva assumere un
carattere socialista grazie ai principi di
collettivismo primitivo ancora vivi nei settori
rurali della società russa… Non c’è alcun
bisogno, sosteneva Herzen, che il socialismo
poggiasse sull’industrializzazione e
sull’urbanizzazione: poteva poggiare molto
meglio su un’agricoltura progredita, che
sfruttasse i migliori ritrovati della tecnica in
un sistema di proprietà comune e di lavoro
cooperativo. Anche se c’era la servitù della gleba
il villaggio russo conservava buona parte delle
sue istituzioni collettive per trattare col signore e
con i suoi agenti e per provvedere ai servizi
comuni… Comunque è incontestabile che la
servitù era quasi sempre venuta a sovrapporsi in
Russia ad assai più libere istituzioni di villaggi e
che l’organizzazione collettiva del villaggio,
benché in decadenza, era ancora assai più vitale
fra i popoli slavi che nell’Europa occidentale. Il
mir costituiva effettivamente un catalizzatore del
senso della collettività, non era un semplice
meccanismo amministrativo escogitato per
disciplinare gli abitanti del villaggio; e Herzen e
molti altri pensavano che l’emancipazione dei
servi avrebbe permesso al mir di riacquistare
tutta la sua vitalità e che la sua influenza
avrebbe impedito che i villaggi acquistassero una
struttura individualistica e capitalistica. I fautori
del socialismo contadino come credevano che in
passato fosse esistita una democrazia di villaggio
basata sul possesso e sulla conduzione collettiva
della terra del villaggio stesso, credevano anche

92
alla possibilità di tornare al collettivo contadino
e di fondare su di esso la vita economica e
sociale delle campagne… Anche Herzen era di
quelli che credevano in questa possibilità del
popolo russo di arrivare a un autogoverno
democratico basato sulle istituzioni della
comunità di villaggio… Herzen rimase un
rivoluzionario fino alla fine, un rivoluzionario per
il quale la spinta verso la nuova società doveva
venire dal cuore del popolo…».
33
Venturi, op. cit., vol. III, p. 54 (cfr. O.V.
Aptekeman: La società Terra e Libertà degli anni
‘70, ricordi personali, Pietroburgo 1924).
34
Venturi, op. cit., vol. III, p. 55.
35
Ibidem, p. 54.
36
Venturi, op. cit., p. 58.
37
Walichi, op. cit., p. 84 si esprime così in
proposito: «L’ideale anarchico dell’‘abolizione
dello Stato’ veniva in pratica abbandonato e
sostituito dal postulato del decentramento e
dell’autogoverno…». E la Tvardoskaja, op. cit., p.
17 scrive: «Già nella variante originaria del
programma rivoluzionario, confermando la
propensione al socialismo insita “negli aspetti
peculiari del popolo russo” sostenevano
‘l’impossibilità per il momento di realizzare in
tutta la loro pienezza gli ideali anarchici…”
Cominciò da questa constatazione
l’allontanamento dalla tesi bakunista sulle masse
contadine intese come forza socialista e
anarchica per sua natura e rivoluzionaria per
istinto. Il programma continuava a non avanzare
alcuna rivendicazione politica, ma predicando

93
sulla scia di Bakunin il collettivismo e
l’anarchismo come obbiettivo fondamentale del
movimento, gli Zemlevoltsy già pensavano, come
conseguenza della rivoluzione, non solo
all’eliminazione del vecchio Stato, ma, se pure in
modo ancora nebuloso, alla creazione di uno
Stato di nuovo tipo…».
38
A. Walichi, op. cit., scrive a pag. 87: «Il
programma di “Terra e Libertà”», elaborato
dagli ex “Chaikovskisti” che erano riusciti a
sfuggire alla prigione, si basava sull’esperienza
sia dei “ribelli” che dei “propagandisti”. La loro
piattaforma comune era rappresentata dalla
convinzione che i rivoluzionari dovevano agire
solo nel popolo e per mezzo del popolo. Le
ragioni principali del passato insuccesso erano
viste nell’esagerazione bakuniana del naturale
istinto di ribellione dei contadini e nelle forme
troppo astratte, eccessivamente teoriche,
della propaganda socialista; quest’ultimo
rimprovero era diretto principalmente ai lavristi
ma riassumeva anche l’esperienza dei bakunisti i
quali erano arrivati alla conclusione che era
sbagliato incominciare l’agitazione rivoluzionaria
tra i contadini con un attacco generale ai
fondamenti dell’ordine sociale esistente. Per
evitare in futuro questi errori, il programma di
“Terra e Libertà” postulava una riduzione dei
compiti immediati del movimento in modo che
corrispondessero ai bisogni e ai desideri diretti
del popolo».
39
Si legga V. Strada, op. cit., p. XIX: «Fu in
questa situazione che negli anni Settanta, alcuni
intellettuali, i quali si dichiaravano unici, veri

94
narodniki, intesero svolgere un’azione politica
tra le masse soltanto sul terreno dei loro
interessi immediati e concreti così come questi
erano sentiti dalle masse stesse, sostenendo la
tesi dell’identità di “interessi e opinioni” popolari
e tacciando di “burocratismo” gli assertori della
tesi opposta».

95
Capitolo quarto

LA MATURITÀ IDEOLOGICA E POLITICA






Negli anni ’77 e ’78 l’azione della seconda
«Zemlja i Volja », il parino che si era ricostituito
dopo il ’73-’74, tocca forse la sua più alta
consapevolezza teorica sulla base della ricerca
sulle origini della sconfitta dell’«andata al
popolo» e sui motivi del persistente movimento
di agitazione nelle campagne e nelle fabbriche:
l’azione terroristica, è relegala del tutto in
secondo piano, è individuata semplicemente
come possibile e un mezzo di difesa e di
protezione.
Viene condotto un duro lavoro di penetrazione
permanente nelle fabbriche1 e nelle campagne,
tenendo conto rigorosamente delle regole della
cospirazione mentre vengono creati centri fissi
nelle province da cui i membri
dell’organizzazione, con passaporti falsi, tentano
d’inserirsi come maestri, scrivani, dottori,
artigiani nella vita stessa dei paesi e formare
«colonie» tra i contadini. All’impazienza
rivoluzionaria della prima andata al popolo
succede la consapevolezza di una lotta di
lunga durata e della necessità della difesa delle
posizioni conquistate sempre più in avanti fino

96
alla rivoluzione.
È bene riportare ancora come Venturi
descrive, come sempre documentando, lo spirito
di questo nuovo contatto col popolo 2.
«Le teorie socialiste predicate negli anni
precedenti erano troppo astratte, bisognava fare
delle concessioni al popolo contadino, ascoltarne
i bisogni immediati, non parlargli di socialismo in
generale, ma suscitare a poco a poco una lotta
per così dire rivendicativa nelle
campagne, creare una élite politica contadina,
sostituirsi ad essa fin quando non si fosse
formata e collaborare così alla sua creazione.
Idoleggiare le forze rivoluzionarie nel popolo non
portava a nulla, bisogna servire i suoi interessi
immediati e agire concretamente per la sua
liberazione. Perciò occorreva essere innanzitutto
e soprattutto populisti». E a questo punto
Venturi inserisce un brano di Michailov che sarà
uno dei massimi dirigenti del movimento in
quegli anni:
«I rivoltosi idealizzano il popolo, sperano nella
realizzazione, fin dai primi momenti della libertà,
di forme politiche corrispondenti alle loro
concezioni fondate sull’obscina e la
federazione… Il partito deve porre come proprio
compito l’allargamento della sfera d’azione
dell’autoamministrazione a tutti i problemi
interni, ma non potendo predire la forma
generale del governo, lascia la soluzione di
questo problema alla competente volontà
nazionale… Perciò poniamo come nostra
bandiera le esigenze popolari “Terra e libertà”.
Con questo intendiamo: 1) dal punto di vista

97
economico: il passaggio delle terre, tanto dello
Stato quanto dei privati nelle mani del popolo,
nella Grande Russia in conduzione per obscina e
nelle altre Regioni della Russia a seconda delle
esistenti tradizioni e volontà locali; 2) dal punto
di vista politico: la sostituzione dello Stato
attuale con una struttura determinata dalla
volontà del popolo, con l’indispensabile
realizzazione d’un largo autogoverno delle
obscine e delle regioni». Compito dei populisti
era quello di «preparare il popolo alla lotta
per ottenere quel che nei secoli lo Stato gli aveva
tolto… Come dimostrava la storia, al popolo
mancava l’organizzazione, l’unione, la capacità
di condurre la lotta; mancava una intelligente e
forte opposizione che mantenesse continuamente
la bandiera di questi diritti, di generazione
in generazione, fino al momento in cui le
circostanze permettessero d’entrare in lotta
aperta contro gli sfruttatori. La creazione di
simile opposizione doveva costituire lo scopo
essenziale dei populisti». Due dunque gli
obiettivi: «In primo luogo collaborare alla
resistenza della popolazione locale allo
sfruttamento, alla oppressione, alla violenza dei
kulaki, dei pomesiki e dei funzionari dello Stato.
In secondo luogo curare la formazione e il
raggrupparsi dei rappresentanti dell’opposizione
locale, dei dirigenti popolari».
La maturità ideologica e politica
E «l’agitazione nelle campagne—commenta
Venturi3—intesa come permanente e minuta
difesa degli interessi contadini, dava buoni
frutti, anche se—per così dire—sperimentali,

98
limitata com’era a piccolissime isole nel gran
mare della campagna russa e circondata dal
pesante e chiuso mondo duna società rurale
ancora tutta impregnata da secoli di servitù».
Non si hanno peraltro statistiche probanti
degli arresti dal 75 al 79 ma quelle relative agli
arresti dal ‘73 al ’774 ci forniscono ugualmente
dei dati significativi specie per quanto riguarda
l’origine sociale degli arrestati. Per esempio tra i
425 definiti «particolarmente delinquenti»
risultano: 147 nobili, 90 provenienti dal clero; 58
figli di ufficiali; 65 contadini, 54 borghesi; 11
militari; da notare che gli operai venivano
classificati come borghesi e contadini.
Dal punto di vista dell’età è netta la
prevalenza dei giovani e giovanissimi: 117 tra i
21 e i 25 anni; 199 tra i 25 e i 30 e solo 42 sopra
i 30. Anche per i deportati e i confinanti
l’indagine sulla provenienza sociale dà più o
meno i medesimi risultati: 279 nobili; 117 figli di
ufficiali; 197 figli di preti; 92 borghesi; 138
contadini; 13 militari; 33 mercanti; 68 ebrei; 27
vecchi credenti.
Il che conferma la netta prevalenza dei
giovani universitari provenienti dalle classi alte.
Ma l’aspetto estremamente importante di
questa catalogazione è che essa dimostra la
presenza dei contadini. Per la prima volta nella
storia russa i contadini, e soprattutto i contadini
che lavoravano nelle grandi fabbriche,
cominciano a prendere parte attiva al movimento
di lotta.
Dunque si stava formando un’organizzazione

99
politica capace di integrare i vari ceti sociali in
funzione rivoluzionaria. Contro tutti i giacobini
veniva dimostrato per la prima volta
consapevolmente che era possibile che
un’organizzazione rivoluzionaria si formasse, non
nel chiuso della congiura elitaria e blanquista ma
attraverso un rapporto attivo con le masse e con
i suoi bisogni pur obbedendo a indispensabili
regole cospirative. E proprio attraverso
«quell’andata al popolo» che era stata tanto
osteggiata dal giacobinismo russo e da Tkacev in
particolare che l’aveva tacciata d’inutile «sciupio
di forze»!
Sarebbe interessante, a questo punto,
approfondire come fossero concepite
organizzativamente e come operavano le
strutture del partito5. A questo riguardo ci
riferiremo soltanto e brevemente allo scritto
del socialdemocratico Riazanov6, del 1904 in
polemica col Che fare? di Lenin7, scritto che
sebbene meno noto di quelli pubblicati da
Trotsky e dalla Luxemburgh in occasione di
quella stessa polemica, è non per questo meno
interessante. Intanto Strada comincia col
riportare la conclusione della parte non tradotta
dello scritto di Riazanov Contro il feticismo
organizzativo8: «Senza un’unità di principio,
senza una solidarietà di pensiero è impossibile
l’unità organizzativa, senza l’unità delle
concezioni è impossibile l’unità dell’azione. Ma
non bisogna credere che la solidarietà di
pensiero escluda la lotta delle idee e che l’unità
delle concezioni sia identica alla “unanimità di
pensiero”. La socialdemocrazia è il partito di una

100
classe non di una setta e la solidarietà di
pensiero si raggiunge in essa con la lotta delle
diverse sfumature che pervengono a un certo
accordo. La partecipazione all’organizzazione dà
tanti vantaggi che chiunque si sottomette di
buon grado a una decisione con la quale egli è
d’accordo in modo non assoluto se però egli ha
avuto la possibilità, prima che la decisione sia
stata presa, di difendere la sua opinione
personale. Soltanto là dove al movimento di
classe si impongono parole d’ordine settarie
d’ogni sorta, dove compaiono profeti e ciarlatani
con mezzi particolari brevettati («piani»,
«appezzamenti stralciati», ecc.) dove
dall’organizzazione si buttano fuori tutte le
sfumature discordanti dalla sfumatura del
gruppo dominante, si sviluppa
l’assurda tendenza a stabilire l’unità delle
concezioni mediante lo stabilimento
dell’unanimità di pensiero. Soltanto su questo
terreno settario è potuta crescere l’utopia
iskrista consistente nel portare l’unità delle
concezioni nel partito stabilendo l’unanimità del
pensiero in un “centro” composto di capi ben
affiatati».
Dello scritto di Riazanov (Illusioni infrante. A
proposito delle cause della crisi del nostro
partito), Strada riporta poi interamente il
capitolo «Dall’alto e dal basso» di cui è utile
trascrivere alcuni passi significativi e importanti,
soprattutto in quanto riferiscono sul tipo di
organizzazione della Zemlja i volja e della
Narodnaja volja di cui rappresentano l’unica
riflessione «di livello» disponibile: «Abbiamo già

101
visto— scrive Riazanov—che la forma della
organizzazione è dettata dai compiti che
l’organizzazione si pone, e abbiamo visto anche
che in virtù di questi compiti l’organizzazione
socialdemocratica deve essere costruita secondo
il tipo di una libera e semplice cooperazione. Alla
sua base è posto «il principio democratico» cioè
l’uguaglianza di diritti dei membri
dell’organizzazione e il controllo di tutti i suoi
membri sui funzionari elettivi. Per sua origine
«aristocratica» essa, che si moltiplica solo per
cooptazione e si recinge di una netta linea di
demarcazione ammette (accetta) soltanto chi ha
superato un certo «noviziato» ma all’interno
di questi confini conosce soltanto il «principio
democratico». Facendosi segreta perché
costretta a nascondere i suoi membri alla
«polizia» essa aumenta ancora di più le richieste
che pone ai novizi e prolunga ancora di più il
termine dello stage cui li sottopone.
Un’organizzazione congiuratoria di
socialdemocratici è una assurdità logica e
quando i socialdemocratici ne parlano si può
essere certi che nella loro coscienza si è
cancellato il confine tra blanquismo e
socialdemocratismo, oppure che usano parole il
cui senso è loro mal noto. La socialdemocrazia
non organizza alcuna congiura, non prepara
l’insurrezione, non fa la rivoluzione.
Un’organizzazione socialdemocratica segreta
può e deve essere cospirativa, ma essa non
cospira né contro il governo né contro la polizia.
In organizzazione congiuratoria essa si
trasforma soltanto quando con Lenin e con

102
l’Iskra essa si pone come fine la «preparazione,
datazione e attuazione dell’insurrezione popolare
armata»…
Poiché si sono dimenticati che non è loro
compito preparare e fissare l’insurrezione e
poiché hanno confuso l’organizzazione
rigorosamente cospirativa con quella
congiuratoria, i nostri marxisti smemorati hanno
naturalmente dimenticato anche che
l’organizzazione può essere rigorosamente
centralizzata senza essere centralistica e che
solo l’organizzazione congiuratoria che tutto
sacrifica all’unità d’azione deve essere
centralistica. La centralizzazione delle funzioni
di guida e direzione e con essa di tutte le
funzioni generali in un centro che è il
plenipotenziario di tutta l’organizzazione e si
trova sotto il suo controllo è confusa con la
concentrazione di tutta l’energia attiva in un
centro al quale si dà sotto controllo tutta
l’organizzazione.
Nel primo caso la centralizzazione cresce dal
basso, derivando naturalmente dall’attività
comune, nel secondo essa è apportata
dall’esterno e imposta dall’alto…
A misura che nella loro coscienza si è
cancellata la differenza tra i compiti della
socialdemocrazia e della democrazia
rivoluzionaria, tra socialdemocratismo e
blanquismo si è dimenticata anche la differenza
di principio tra la Zemlja i volja e la Narodnaja
volja. Ed ecco che già da qualche anno
Plekhanov e Axelrod, Lenin e Martov ci
raccomandano zelantemente «l’organizzazione

103
rigorosamente cospirativa e centralistica della
Zemlja i Volja e della Narodnaja Volja!» È
difficile deformare con maggior leggerezza la
storia del movimento rivoluzionario degli anni
’70. Mentre la Narodnja Volia è stata
un’organizzazione centralistica, l’organizzazione
della «Zemlja i Volja», trattandosi di una
organizzazione centralizzata, temeva come il
fuoco ogni centralismo. Mentre l’organizzazione
della Zemlja i volja era composta di membri con
diritti assolutamente uguali che eleggevano e
controllavano le azioni di tutti i funzionari,
l’organizzazione della Narodnaja volja si
atteneva al principio diametralmente opposto…
In altre parole l’organizzazione della Zemlja i
volja era segreta e centralizzata mentre quella
della Narodnaja volja era congiuratoria
e centralistica. Nella prima il principio della
cooptazione all’interno dell’organizzazione era
un’eccezione e il principio elettivo la regola;
nella seconda, al contrario, il principio della
cooptazione anche all’interno dell’organizzazione
era la regola e il principio elettivo era
assolutamente escluso. Nella prima l’unità delle
idee e l’unità d’agire erano stabilite dal basso,
nella seconda erano apportate dall’esterno.
Questa differenza dei tipi di organizzazione
era condizionata dalla differenza dei compiti che
si ponevano la Zemlja i volja e la Narodnaja
volja. La prima partiva dalla convinzione che «le
rivoluzioni sono opera delle masse popolari» che
«le prepara la Storia» ecc.; la seconda voleva
«togliere al popolo il giogo opprimente dello
Stato contemporaneo e operare un rivolgimento

104
politico al fine di trasmettere il potere al
popolo». E per questo essa riteneva necessario
«prepararsi» subito «proprio all’insurrezione»…
Ma Lenin e Plekhanov sono irremovibili. Il
pericolo che spaventa Axerold e Martov per loro
non esiste. Il partito deve essere soltanto
il drappello d’avanguardia, il dirigente
dell’enorme massa della classe operaia che
lavora tutta (o quasi tutta) «sotto il controllo e la
direzione delle organizzazioni di partito» ma che
non entra tutta e non deve entrare nel partito…
Lenin e Plekhanov volevano che il partito si
trasformasse in una setta; Axerold e Martov,
bene o male, volevano renderlo un partito di
classe».
Concludendo il suo scritto Riazanov dopo aver
criticato anche la formula martoviana9 di
«membro del partito» terminava
sottolineando l’aspetto sostanziale cui la famosa
diatriba doveva essere ricondotta spogliata sia
da ogni forma di assolutismo settario che di
genericismo.
«Dal punto di vista della socialdemocrazia
rivoluzionaria non ci sono due risposte a questa
domanda. E dopo aver creato nello stesso
“carattere della nostra attività di agitazione e
propaganda tra la classe operaia” le garanzie di
una sempre crescente influenza sulle masse
operaie, non è difficile trovare la forma per
questa “chiave” ed è facilissimo raccapezzarsi in
tutti questi problemi sui “professori”, “singoli
intellettuali” che servono adesso da oggetto di
ardenti dibattiti in tutti i gruppi e comitati!!!»
E mentre, aggiungiamo noi, «en passant», si

105
avvicinava la grande ondata rivoluzionaria del
1905!
Tornando al nostro partito della «Zemlja i
volja» è giusto ricordare che essa aveva anche
curato la pubblicazione di una rivista «Zemlja
i volja» che fu l’organo teorico e il portavoce
politico del movimento e i cui redattori principali
furono Kiements, Kravchinskij, Morozov e
Plekhanov.
Per testimoniare la elevata maturità teorica e
politica raggiunta dal partito della Zemlja i volja
e dal movimento populista è
indispensabile riportare qualche brano degli
articoli che la sua rivista pubblicò e dai quali si
evince la capacità, che fu l’aspetto teoricamente
più rilevante di quei rivoluzionari, di saper
integrare il patrimonio culturale e politico dei
vari socialismi europei e russi, senza scomuniche
giacobine e diatribe speculativistiche, e calarlo
nella specifica realtà russa 10.
Nel primo numero del 25 ottobre ’78 compare
a firma di Kravchinskij 11 la piattaforma
programmatica e politica dell’organizzazione 12 :
«I socialisti—afferma—sono l’unico partito
politico organizzato in Russia… un movimento
rivoluzionario che scoppi in nome della
terra fatalmente, il giorno dopo, prenderà
coscienza della necessità d’espropriare le
fabbriche e d’abbattere completamente ogni
genere di capitalismo perché, conservandolo,
scaverebbe da se stesso la propria
fossa». Altrettanto vero era l’inverso «Il
movimento socialista delle città se nascesse

106
indipendentemente dai villaggi, s’imbatterebbe
irrimediabilmente, fin dai suoi primi passi, col
socialismo contadino».
E Venturi cita riassumendo13 : «Non battersi
unicamente contro l’assolutismo dunque, ma
preparare le forze della rivoluzione, non
accettare insomma il punto di vista dei giacobini
di Tkacev. Essi vogliono che ogni sforzo si
concentri contro quello che in realtà non è
l’unico nemico. Certo una parte delle loro
concezioni può essere accettata, precisamente
quella che tende alla disorganizzazione dello
Stato, al terrorismo (al contrario vedremo come
sarà proprio il non aver saputo rifiutare fino in
fondo questo aspetto del giacobinismo che li
porterà alla sconfitta - nota F.B.) ma non bisogna
lasciarsi prendere la mano dal terrorismo stesso
«Non così arriveremo alla liberazione della
massa del popolo» «Contro una classe può
insorgere soltanto una classe, abbattere un
sistema lo può soltanto il popolo».
Kravchinskij, lo ribadirà in altri suoi articoli in
opposizione alla parte del partito che premeva
per uno sviluppo sempre maggiore dell’attività
terroristica, era per un lavoro sistematico e di
lungo periodo nelle campagne. Cosa si era fatto
in quella direzione?
«Poco, straordinariamente poco»14 eppure «le
masse cominciano a capirci», lo dimostrava sia il
movimento nelle fabbriche che nelle campagne.
La rivolta di Cigerin aveva dimostrata «la
possibilità di creare un’organizzazione
puramente contadina e rivoluzionaria partendo
da rivendicazioni e interessi locali».

107
Non bisognava scoraggiarsi per gli insuccessi,
non divenire meno populisti ma rafforzare il
lavoro nelle campagne e il legame con le masse
contadine. Lo stesso Axerold che invierà dalla
Svizzera l’articolo «Il momento di transizione del
nostro partito» pubblicato nel numero 8-9 del
novembre ’78 rivelava, sotto altro aspetto, la
medesima preoccupazione15: «La parte
moralmente più sviluppata della gioventù prende
esclusivamente sopra le sue spalle il compito
grandioso di preparare la classe lavoratrice alla
lotta cosciente e organizzata. Ciò porta a delle
difficoltà obiettive e a degli errori. Malgrado le
varie correnti ideologiche in cui è divisa la
gioventù “rivoltosi” “populisti”, “propagandisti”
ecc., la posizione stessa in cui essa è venuta a
trovarsi la porta a inclinazioni verso il
giacobinismo senza neppure accorgersene».
Gli errori di tutto il movimento apparivano
ormai evidenti: «1) siamo entrati in esso
sperando risultati rapidi e brillanti; 2) non
abbiamo specificato abbastanza i nostri compiti,
concentrandoci tutti sulle campagne,
tralasciando l’intellighentia e gli operai».
Bisognava ormai convincersi che la lotta sarebbe
stata lunga e che bisognava localizzarla e
qualificarla. In realtà i «gruppi specializzati»
della Zemlja i volja (operai, contadini ecc.) erano
espressione della consapevolezza della
indispensabilità di dover localizzare e qualificare
la lotta; così l’agitazione nelle fabbriche,
l’organizzazione dei primi scioperi era stato un
compito che aveva assorbito notevoli forze del
partito e l’influenza stessa delle sue posizioni

108
politiche e ideali nella parte più viva
dell’intellighentia si era andata approfondendo;
ma il vero nodo, non sufficientemente messo in
assoluto primo piano da Axerold era appunto
l’inclinazione giacobina; e il pericolo che
l’attività terroristica, non essendo rifiutata,
finisse per sua inesorabile logica interna, dato
che la repressione sarebbe divenuta sempre più
dura, con l’assorbire tutte le forze del partito
portandolo all’inevitabile isolamento e alla
disfatta 16.
Quanto dunque al lavoro nelle fabbriche era
proprio Plekhanov ad esserne divenuto
l’«esperto» e l’organizzatore e nel n. 4 del
febbraio ’79 egli insisteva sulla sua importanza
17
.
«Le agitazioni nelle fabbriche, ogni giorno più
forti, che sono il fatto del giorno» rappresentano
fatti «che la vita stessa porta in primo piano al
loro posto giusto, malgrado le aprioristiche
decisioni teoriche dei rivoluzionari». Gli operai
avevano rapidamente assimilato la propaganda
fatta tra di loro e non bisognava lasciarsi
scoraggiare da qualche sciopero non riuscito.
«Ormai è difficile trovare una fabbrica o una
officina o anzi una qualsiasi bottega artigiana in
cui non sia possibile trovare degli operai
socialisti».
Toccava ai rivoluzionari passare ora dalla
propaganda alla organizzazione, occuparsi dei
salari e non soltanto del proselitismo18.
«I nostri grossi centri industriali raggruppano
delle decine e qualche volta anche delle

109
centinaia di migliaia di operai. Nella gran
maggioranza dei casi sono gli stessi contadini
che stanno nei villaggi… Il problema agricolo, la
questione dell’autoamministrazione
dell’obscina, la terra e la libertà, sono altrettanto
vicini al cuore dell’operaio quanto a quello dei
contadini. In una parola non si tratta di masse
scisse dalle campagne, ma d’una parte di esse.
Unica è la loro causa, unica può essere la loro
lotta. E poi nelle città si raccoglie il fiore della
popolazione dei villaggi: gente più giovane, più
intraprendente… che è tenuta lontano
dall’influenza degli elementi più conservatori e
timorosi della famiglia contadina… Grazie a tutto
questo essi costituiranno un prezioso alleato dei
contadini al momento del rivolgimento sociale».
Ma fu Zeljabov, straordinaria figura di
rivoluzionario che sarà suo malgrado costretto a
rispondere ai tremendi colpi della repressione
zarista divenendo il massimo dirigente del
leggendario «Comitato esecutivo» della
«Narodnaja volja» e dell’azione terroristica, a
precisare in modo senza dubbio prioritario
rispetto ai marxisti russi la funzione di primo
piano che avrebbe avuto la classe operaia dei
grandi centri urbani19.
« In Russia—egli scrisse sulla “Narodnaja j
volja” nel 1870—ogni sciopero è politico». Ogni
tentativo di scindere i problemi economici
da quelli della lotta contro l’assolutismo era
assurdo. La classe operaia aveva dimostrato
ovunque, non soltanto a Pietroburgo, quanto
fosse «facilmente infiammabile».
Una insurrezione nella capitale avrebbe dato

110
il segnale del movimento nelle città minori e
nelle campagne. Gli operai avrebbero agito
perché «si erano incontrati coi socialisti ed erano
ormai persuasi dell’idea di una vita nuova e
convinti della possibilità di realizzarla».
E Kibal’cic20 che poi era anche il
preparatissimo tecnico addetto al reperimento
della dinamite e alla costruzione delle
apparecchiature deflagranti, scriveva sulla
stessa rivista21: «Infine sintesi di queste
due opinioni unilaterali è quella visione che,
riconoscendo lo stretto legame e l’azione
reciproca dei fattori economici e politici, sostiene
che né il rivolgimento sociale si può realizzare
senza determinate trasformazioni politiche, né
inversamente le libere istituzioni politiche
possono stabilirsi senza una determinata
preparazione storica nella sfera economica».
Esprimendo così quella posizione teorica della
«confluenza integrale della rivoluzione politica e
sociale», della «fusione assolutamente
indissolubile degli elementi del radicalismo
politico e del socialismo» che veniva sottolineata
anche in altre pagine della rivista e che
coincideva sostanzialmente con la posizione
ribadita contro le posizioni bakuniste dalla prima
internazionale nella risoluzione della conferenza
a Londra del 1871 22.
«La conferenza ricorda ai membri
dell’Internazionale che il movimento economico
e l’azione politica della classe operaia in lotta
sono indissolubilmente legati tra loro».
Ed è interessante notare come il movimento

111
populista che si rifaceva dichiaratamente anche
se autonomamente al bakunismo fosse al
contrario pervenuto, sulla base soprattutto della
sua esperienza politica, a una visione
complessiva del processo rivoluzionario di tipo
marxiano (come del resto Marx, al di là della sua
polemica giacobina e settaria contro Bakunin23
era pervenuto nei suoi ultimi anni di vita e
proprio sul problema della rivoluzione russa su
posizioni di tipo populista. Tornando a Kibal’cic
egli concludeva il suo articolo con queste
affermazioni:
«Per questo—per il sollevamento
rivoluzionario—è necessaria nel popolo anche la
coscienza che i suoi diritti sono stati violati e la
speranza nel successo dell’insurrezione.
Naturalmente la condizione fondamentale di
quasi tutte le rivolte popolari è stata la
sofferenza materiale, ma l’occasione è sempre
stata una qualche violazione della legge (reale o
falsa) da parte del potere, o una iniziativa
insurrezionale derivante da qualche nucleo
organizzato, vicino al popolo e ai suoi interessi».
«Soltanto il partito social-rivoluzionario,
fortemente radicatosi tra la popolazione
cittadina e operaia e che occupa numerose
posizioni tra i contadini può costituire
l’indispensabile fermento per suscitare un
movimento nelle città e nelle campagne».
Quindi concludeva riprendendo
un’indicazione già data da Kravchinskj :
«Consideriamo il maggior sviluppo e mobilità
della popolazione della città; giudicando dal fatto
che l’attività del partito dà maggiori risultati, dal

112
punto di vista numerico, in città che non in
campagna, bisogna pensare che la prima parola
d’ordine dell’insurrezione verrà data non dal
villaggio ma dalla città.
Ma il primo successo in città potrà dare il
segnale di rivolta a milioni di contadini
affamati».
È paradossale che alla vigilia di
quell’incalzare dell’azione terroristica, che ormai
era sul punto di impegnarli totalmente, i
narodnicy raggiungessero la vetta di un ampia
visione teorica del processo rivoluzionario e della
sua strategia che integrava e ricomponeva in una
originale sintesi russa quanto la tragica rottura
dell’Aja (1872) di qualche anno prima tra
marxismo e anarchismo aveva irrimediabilmente
scisso e divaricato.
E ne è un’ulteriore prova il Programma dei
membri operai del partito della Narodnaja volja
pubblicato nell’80 e di cui riproduciamo qualche
passo24 :
«1) la terra e gli strumenti di lavoro debbono
appartenere a tutto il popolo e ogni lavoratore ha
diritto di usarne.
2) Il lavoro non si deve compiere
isolatamente ma collettivamente (per obsciny,
arteli, associazioni).
3) I prodotti del lavoro comune debbono
essere divisi tra tutti i lavoratori per loro
deliberazione e a seconda dei bisogni di ognuno.
4) La struttura statale deve essere basata su
un patto federale di tutte le obsciny.
5) Ogni obscina sarà pienamente

113
indipendente e libera per tutto quanto riguarda
le proprie faccende interne» 25.
S’insisteva poi sul lavoro collettivo, spiegando
che soltanto così sarebbe stato possibile
«utilizzare largamente le macchine, le invenzioni
e le scoperte della scienza» tanto nell’industria
come nell’agricoltura. Le comunità dei lavoratori
erano viste come organi di un controllo
democratico esercitato permanentemente sul
nuovo apparato statale uscito dalla evoluzione
sociale.
In sostanza il contenuto populista della
rivoluzione acquisito in lunghi anni di polemica
contro il giacobinismo di Tkacev e di
Necaev, contro la rivoluzione decretata dall’alto,
rimaneva fermo, malgrado tutte le scorciatoie
terroristiche, rimaneva il pilastro centrale del
populismo: la sopravvivenza storica della obscina
aveva creato nelle masse contadine una
predisposizione al socialismo «come conquista
da parte dei contadini delle loro obsciny, delle
loro autonomie locali», queste erano «non
soltanto gli strumenti per rovesciare i poteri
locali, ma gli obiettivi di una autonoma
trasformazione sociale e politica». Insomma è
sulla naturale organizzazione del popolo in
«autonomia locale» che si sarebbe appoggiata
tutta la trasformazione sociale in Russia26.
Scartando così sia «la via anarchica della
distruzione dello Stato quanto quella estrema del
giacobinismo russo e cioè della dittatura del
partito rivoluzionario» 27.
In calce a questo programma vi era infine

114
l’esposizione del programma politico immediato.
1) Il potere dello zar sarà sostituito da un
governo di popolo e cioè da un governo costituito
da rappresentanti del popolo. Esso li nominerà e
revocherà… esigendo rendiconti del loro
operato.
2) Lo Stato russo, dato il carattere della
popolazione e la situazione in cui essa si trova,
sarà suddiviso in regioni (oblast) autonome nelle
loro faccende interne ma legate in una
federazione panrussa…
3) I popoli annessi con la violenza allo stato
russo saranno liberi di abbandonare la
federazione panrussa o di restarvi28.
4) Le obsciny (di paese, di villaggio, di
borgata, gli arteli di fabbrica ecc.) decideranno
dei loro affari in assemblee dei loro membri
e affideranno l’esecuzione ai loro eletti.
5) Tutta la terra passerà nelle mani del
popolo lavoratore e sarà considerata una
proprietà popolare o nazionale.
6) Le fabbriche e le officine saranno
considerate proprietà del popolo (o della
nazione) e saranno affidate in uso alle obsciny di
fabbrica o d’officina. Gli utili apparterranno a
queste ultime. «L’attacco contro i nemici con una
speranza di vittoria non può essere sferrato che
da tutto il partito socialista rivoluzionario, del
quale l’organizzazione operaia non costituisce
che una parte. Il partito raccoglie nel popolo,
nella società le forze capaci di compiere un
rivolgimento, crea delle unioni tra i contadini e
gli operai, nell’esercito e negli altri ceti».

115
«Una volta iniziata una rivolta importante in
città o in campagna il partito deve appoggiarla
con tutte le proprie forze, immettervi le sue
rivendicazioni, scatenare disordini simili in altri
luoghi e riunire lutto questo movimento in una
insurrezione generale di tutta la Russia… Per il
successo della causa è importantissimo
impadronirsi delle città maggiori e tenerle nelle
proprie mani».
In conclusione proprio quando nello stesso
suo «Programma» la «Narodnaja Volja » riusciva
a elaborare una sintesi socialista e populista di
quanto essa aveva in comune con la Zemlja i
Volja e con lo stesso Cernij peredel (la fazione
che in opposizione alla scelta terroristica si era
organizzata autonomamente)29, già in quel
momento si era dato l’ordine ai membri del
partito disseminati nelle campagne di rientrare
nella città e al centro perché ormai l’azione
terroristica avrebbe impegnato tutte le forze
disponibili.
E ancora oggi con amarezza si legge quanto
Mikhailov ci racconta di queste partenze in quei
lontani anni30:
«Ovunque vissero—scrive—sotto le forme più
diverse, da dottore e medico di campagna a
piccolo negoziante e ciabattino, essi stabilirono
con il popolo i più sinceri e amichevoli rapporti.
Presto si crea- -rono dei compagni a cui fecero
conoscere i loro piani, trovando in loro degli
ardenti e attivi aiuti. Conosco molti casi in cui
essi furono accompagnati nel modo più
commovente quando abbandonarono il villaggio
per raggiungere la città, rispondendo all’appello

116
della nuova fase di lotta. L’intero mir si riuniva
per chiedere loro di rimanere proponendo
diverse concessioni e paghe se avessero
continuato l’opera iniziata.
Come consiglieri disinteressati, come aiuto in
ogni faccenda e per ogni necessità, molti di loro
divennero, in un anno,
letteralmente indispensabili alla popolazione. E
la cosa è comprensibile. Come il popolo non
doveva stimarli e amarli, circondato com’era da
ogni lato da miroedy e da parassiti che gli
succhiavano il sangue, come non doveva capire e
prendere a cuore le idee e le spiegazioni di tutti
i suoi mali, quando quelle idee aprivano gli occhi
al popolo su fatti che egli stesso sentiva, quando
quelle idee altro non erano che delle
generalizzazioni, di ciò che essi già avevano
pensato? Partendo dalle campagne per prendere
parte alla lotta contro il governo i
populisti lasciavano ovunque tra i contadini degli
adepti più o meno preparati ma che avrebbero
continuato l’opera della formazione di forze
popolari di opposizione». Con quelle partenze,
tramontata per sempre la prospettiva di una
rivoluzione agraria in Russia, tramontava
l’«occasione storica» di cui parlerà ancora Marx
l’8 marzo del 1881 nella sua lettera alla Zasulic e
cioè soltanto 7 giorni dopo l’attentato ad
Alessandro II del 1° marzo. E nel corso della
repressione feroce che praticamente disperderà
la Narodnaja volja e il movimento populista nel
suo insieme31, si creeranno delle condizioni e
quel clima in cui la importantissima e
qualitativamente nuova indicazione data da Marx

117
in quella lettera non potrà avere nessun seguito
e nessuna eco!
Bisogna dire sia vero che lo stato d’animo
terroristico è qualcosa che prende totalmente e
che tutto travolge e fa passare in seconda linea,
se è vero che Zeljabov, contro tutti i dubbi e
contro la propria interna consapevolezza e i
presentimenti, perseguì fino all’ultimo il suo
piano con una spasmodica e incredibile
ostinatezza, quasi per un desiderio inconscio di
annientamento.
E non ha il sapore di una «beffa storica» (!!!)
o di qualcosa di più sinistro e oscuro il fatto che
Alessandro II nel giorno in cui venne
«giustiziato» avrebbe dovuto far approvare il
tanto lungamente invocato progetto di
costituzione32, che avrebbe significato per il
movimento populista riprendere fiato, non essere
ossessionato dall’incubo della persecuzione
poliziesca, poter portare avanti di nuovo e
con più lena e più successo il suo lavoro
sistematico di mobilitazione delle masse?
Forse Zeljabov33 quando prima di essere
impiccato con Mikhailov, Kibal’cic, la sua
compagna Peroskaja e Rysakov, parlò ai suoi
giudici aveva ormai chiaro nella mente il
distaccato giudizio dei posteri34:
«Invece della propaganda delle idee socialiste
venne in primo piano la volontà di risvegliare il
popolo con l’agitazione in nome degli interessi
da lui sentiti. Invece della lotta pacifica ci
demmo alla lotta coi fatti. Cominciammo coi
piccoli…

118
Nel 78 per la prima volta fece la sua
comparsa l’idea di una lotta più radicale, il
pensiero cioè di tagliare il nodo gordiano. Le
radici del 1 marzo, debbono essere cercate nelle
concezioni dell’inverno 77-78.
Il partito non aveva ancora abbastanza chiaro
di fronte agli occhi il significato della struttura
politica35 per il destino del popolo russo, benché
ormai tutti i suoi sforzi lo respingessero verso la
battaglia contro il sistema politico…»
«Essendo arrivati alla conclusione che gli
ostacoli creati dal governo impedivano di
plasmare completamente la coscienza del popolo
con il socialismo, i socialisti si trasformarono in
populisti… Decidemmo di capire in nome degli
interessi di cui il popolo era già consapevole, non
più in nome della pura dottrina ma sulla base
degli interessi radicati nella vita quotidiana della
gente, interessi di cui essa era consapevole.
Questo fu il tratto caratteristico del
narodnichestvo. Dai sogni e dalla metafisica
passò al positivismo sino a radicarsi nella terra.
Questa fu la sua caratteristica fondamentale»
36
.



1
Il movimento populista, contro tutte le
successive deformazioni, fu il primo in Russia a
capire l’importanza dell’organizzazione politica
della classe operaia e il primo a praticarla.
Evidentemente la «centralità operaia» dei paesi
capitalisticamente sviluppati non poteva essere

119
la stessa della Russia contadina, precapitalistica
e con ristrette aree di proletariato urbano.
2
Venturi, op. cit,, p. 178, III.
3
Venturi, op. cit., vol. III, p. 184 e pp. XLVI
E SGG..
4
Venturi, op. cit., vol. III, pp. 211-212.
5
Vittorio Strada nella introduzione a Un
vecchio compagno di A.I. Herzen, Torino 1977,
svolge alcune considerazioni sulla concezione
bakuniniana del problema dell’organizzazione. E
a p. xxxi scrive: «Nell’opuscolo La scienza e la
causa rivoluzionaria inderogabile Bakunin, dopo
aver affermato la priorità della vita sul sapere,
conclude con la tesi che la “storia dei lavoratori
manuali” dimostra che è possibile un autonomo
“passaggio dall’essere al pensiero” e che quindi
le minoranze intellettuali non hanno il compito di
travasare nelle masse la coscienza… “a causa di
questa ignoranza il popolo non coglie se stesso
come una massa solidale e, nella sua solidarietà,
onnipotente; ed è diviso nel concetto che ha di
sé nello stesso modo che, sotto l’azione di
circostanze che lo opprimono, è diviso nella
vita”. Bakunin è convinto che le masse non con la
storia libresca, ma con la storia vissuta, cioè con
le loro proprie esperienze di lotta, arrivino alla
ragione. Ma ciò che manca alle masse è
l’“organizzazione”, cioè il superamento della
doppia “divisione”, nella vita e nella coscienza…:
infatti “una forza spontanea priva di
organizzazione non è una vera forza” e quindi la
“prima condizione della vittoria del popolo” è
l‘“organizzazione delle forze del popolo”».

120
6
Di Riazanov sono ancora valide molte
pagine, specie sul rapporto tra Marx-Engels e la
Russia, dei suoi due volumi di Saggi di Storia del
marxismo, Mosca-Leningrado 1928.
7
Lenin, Che fare?, a cura di V. Strada,
Torino 1972.
8
Strada, op. cit., p. 460.
9
Per le posizioni di Martov sul Che fare? si
veda V. Strada op. cit., pp. 399 416; L. Martov,
Proletari e intellettuali nella rivoluzione russa. E
si veda anche J. Martov-F. Dan, Storia della
socialdemocrazia russa, Milano 1973, pp. 58-
60: «Codesto culto dei “rivoluzionari di
professione” condusse a conclusioni estreme nel
problema della struttura del partito. Nessuna
concessione di nessun genere al principio
dell’elezione, né al principio del controllo
democratico della massa digli iscritti al partito
sugli organi dirigenti, tale era la conseguenza…
Diventavano invece pericolose nella misura in
cui la forma assoluta in cui Lenin esponeva
le sue tesi, dava lo spunto per trarre conclusioni
analoghe per ogni partito realmente
rivoluzionario, in tutte le situazioni storiche. Il
che apparve particolarmente evidente allorché,
sotto l’influsso del movimento socialdemocratico,
il regime za rista cominciò a sfasciarsi e la
socialdemocrazia ottenne nuovamente la
possibilità di svilupparsi in modo più esteso e
multiforme. Allora i seguaci più
fanalai nonostante la situazione fosse totalmente
cambiata, si dimostrarono i più accaniti avversari
di una struttura del partito tale che le
organizzazioni proletarie potessero regolare da

121
sé le questioni del partito stesso. Essi si
aggrapparono in quel momento, con fanatismo
non minore di quello del lassalliano Schveitzer e
dei giovani suoi seguaci, al principio, portato fino
alle conseguenze più assurde, del centralismo
nell’organizzazione. Nello scritto di Lenin questo
centralismo ebbe il suo coronamento e, per così
dire, la sua giustificazione storica nella dittatura
di fatto dei teorici del partito ai quali doveva
appartenere il massimo potere al fine
di garantire che l’organizzazione dei
“rivoluzionari di professione” che lo
governava autocraticamente, non deviasse
rispetto alla via del reale interesse di classe
del proletariato… Anche su questo punto le idee
di Lenin riecheggiavano in larga misura quei
principi organizzativi di Lassalle e di Schveitzer,
opponendosi ai quali la socialdemocrazia tedesca
é diventata grande».
10
I programmi di Terra e Libertà e delle
altre organizzazioni rivoluzionarie degli anni ’70
si trovano in N.K. Karatcev, Letteratura
economica populista, Mosca 1958. Si legga
anche in A. Walichi, op. cit., p. 118: «Fu grazie ai
poulisti che le idee del Capitale cominciarono a
diffondersi tra i contadini e gli operai russi:
un attivista di Terra e Libertà, I. M. Tischenko,
non si separò mai dal libro di Marx durante la
sua partecipazione al movimento di “andata al
popolo” (cfr. O.V. Aptekman, op. cit., p. 246); un
altro membro di Terra e Libertà, l’eminente
rivoluzionario S. Kravchinskij, scrisse un
racconto Mudritsa Naumovna, in cui cercava di
illustrare e rendere popolare tra gli operai la

122
teoria marxiana del plusvalore».
11
V.A. Tvardovskaja, op. cit., p. 37 scrive in
proposito: «Nel n. 1 di Zemlja i Volja (ottobre 78)
si poteva leggere: “Abbiamo lavorato malissimo
tra il popolo”. In realtà l’autore dell’articolo,
S.M. Kravchinskij aggiungeva che: “con i loro
sacrifici di sangue, i socialisti russi hanno già
fatto breccia in molti punti, anche se non hanno
ancora pienamente abbattuto l’alto muro che li
divide dal popolo” (Il giornalismo rivoluzionario
degli anni ‘70, Parigi 1905, p. 126)». E a p. 40:
«Nel già menzionato editoriale del n. 1
Kravchinskij, mettendo in guardia contro la
mania del terrorismo—che non aveva “nulla a
che vedere con la lotta contro le basi del regime
esistente” e finiva “col frenare il flusso
spontaneo dei rivoluzionari nelle città”—
sosteneva tuttavia la necessità, per “la massa
fondamentale delle nostre forze, di lavorare tra il
popolo”… “La rivoluzione deve essere fatta dalle
masse popolari preparate dalla storia”… E a
proposito del ruolo dei rivoluzionari:
“Organizzando il popolo per la conquista delle
sue aspirazioni e rivendicazioni, portandolo a
lottare per la loro realizzazione, si contribuisce
ad accelerare il processo rivoluzionario che, in
virtù di leggi inconfutabili della natura, si sta
realizzando in questo periodo” (Ibidem, p. 120)».
12
Venturi, op. cit., voi. III, p. 268.
13
Op. cit., p. 249.
14
Ibidem, p. 250.
15
Ibidem, p. 253.
16
Sulle posizioni di Akselrod in questo

123
articolo si legga la Tvardovskaja, op. cit., p. 39:
«A differenza di Akselrod, J.V. Stefanovic, a
proposito di taluni “ostacoli mentali e morali”
che si opponevano all’attività rivoluzionaria tra i
contadini, vedeva la ragione principale
dell’insuccesso nel fatto che l’ambiente
rivoluzionario conosceva troppo poco il muzik
russo e si faceva idee inadeguate sulla sua vera
mentalità… il lavoro nelle campagne era
necessario e possibile, gli ostacoli a questo
lavoro pienamente sormontabili. La forma
d’azione più importante, ribadiva Stefanovic, era
l’agitazione “coi fatti”, “con gli esempi vivi, con
le cose”. Si doveva riuscire in ogni modo a
trovare dei “catalizzatori” che
rafforzassero l’influenza sul popolo. La
campagna deve divenire la parola d’ordine di
tutti i socialisti russi, senza distinzione di
posizione (Obscina, 1878, n. 8-9 p. 33)».
E si legga anche a p. 42: «Di questo
orientamento definito “giacobino” si fece
portavoce soprattutto il Nabat. Fu Akselrod a
scoprire per primo il significato che l’ambiente
rivoluzionario russo attribuiva a tale concetto:
“Per i giacobini i quali auspicano per il popolo la
felicità e la prosperità sotto la tutela di un potere
saggio, la massa popolare cosciente se non è
proprio superflua, ha tuttavia una importanza
trascurabile”… “Quanti di noi propendono per il
giacobinismo senza sospettarlo” scrisse Akselrod
con amarezza (Ibidem, p. 22)… E infatti i
difensori del vecchio programma cercarono
attivamente, disperatamente di frenare tale
tendenza, di contrastarla».

124
17
Venturi, op. cit., p. 253.
18
Strada, op. cit., p. xxxviii, n. 1.
19
Op. cit., p. 381. La Tvardoskaja, op. cit., p.
98, riporta: «Come si legge nelle memorie di
Figner, A.I. Zeliabov propose che il partito
assumesse la denominazione di
socialdemocratico. La maggioranza dei membri
del Comitato esecutivo fu però contraria, perché
tale denominazione sembrava mettere in rilievo
una certa asinità tra i rivoluzionari russi e i
socialdemocratici tedeschi. (V.M. Figner,
Opera conclusa, in Socinenja, Mosca 1932 p.
162)».
20
G.D.H. Cole nella sua Storia del pensiero
socialista, voi. II, Bari 1974, ricorda a p. 367
«che questo Kilbacic lasciò dei piani per un
aereoplano a reazione che, ritrovati dai
bolscevichi negli archivi della polizia zarista,
hanno fatto sì che egli venga oggi considerato
nell’Unione Sovietica come il vero inventore
della propulsione a getto. Kilbacic era un tecnico
di prim’ordine e nessuno aveva mai sospettato
che in segreto lavorasse per i terroristi».
21
Cole, op. cit., viii, p. 351.
22
Agosti, Le internazionali operaie, Torino
1974, p. 46.
23
Si veda F. Battistrada, L’esperienza della i
Internazionale e quella populista, cit., Genova
1975: non ancora pubblicato.
24
Op. cit., p. 382. Ma si legga anche in V.A.
Tvardoskaja, op. cit., pp. 69-70: «A giudicare dal
Programma per la raccolta di notizie tra il
popolo, i narodovoltsy si ponevano il problema

125
controverso se “tra gli operai fosse sviluppato
o mancasse del tutto lo spirito di solidarietà”, un
problema che non si erano mai posti nei
confronti dei contadini delle obsciny (I
narodovoltsy dopo il 1 marzo 1981, Mosca 1928,
p. 169). Il narodovolets A.S. Borejso, egli stesso
operaio, sosteneva apertamente che gli operai
non avevano “intenti comunitari”, socialisti e che
questi esistevano unicamente tra i contadini, i
soli tra i quali fosse possibile far propaganda di
socialismo». E a pp. 107 e 108: «Sul modo in cui
questa società poteva essere organizzata
rispondeva con notevole precisione anche il
Programma degli operai membri del partito
Narodnaja Volja (1880)».
25
La V.A. Tvardoskaja, op. cit., p. 111 e sgg.
scrive (citando soprattutto da Il populismo
rivoluzionario degli anni ‘70, Mosca Leningrado
1965, vol. II, pp. 182-188): «L’utopia di
Narodnaja Volja non si discostava da quelle che
erano state le caratteristiche delle prime
dottrine populiste: essa rimaneva fedele
all’obscina come fulcro attorno al quale
s’imperniava la vita della intera società. I suoi
principali documenti erano completamente
imbevuti di questo spirito: “l’autonomia
dell’obscina, come unità economica e
amministrativa”, l’indipendenza dell’obscina, le
sue libertà, il diritto, insieme con tutte le
obsciny, d’intervenire nella cosa pubblica, erano
rivendicazioni che eccheggiavano in tutti i
programmi dei narodovoltsy; l’utopia della
Narodnaja Volja differiva non solo dal
comunismo agrario del xvii secolo (Jean Meslier,

126
ecc.) ma anche dalle dottrine dei rappresentanti
del socialismo utopistico classico (Fourier, Owen
ecc.) e dall’accentuazione da loro data della
priorità delle comunità contadine come unità
economiche «chiuse» della futura società… Ê
logico che un paese eminentemente contadino,
nel quale la terra rappresentava il mezzo
fondamentale di produzione, la prima
rivendicazione dei rivoluzionari che esprimevano
gli interessi delle masse contadine dovesse
essere quella dell’eliminazione del latifondo e del
passaggio della terra in mano del popolo. ‘Tutta
la terra passerà in mano al popolo lavoratore e
sarà considerata proprietà del popolo’…
L’importanza della questione agraria
rappresentava per i narodovoltsy la principale
idea di demarcazione tra il socialismo russo e
quello occidentale». A p. 121, nota 73: «…Per
tutto quanto si è già detto in merito è superfluo
sottolineare che per i rivoluzionari russi il modo
di produzione dell’obscina, fondato sulla
soppressione della proprietà privata dei mezzi di
produzione, era di primordiale importanza nei
loro progetti di una nuova società», da S. S. Volk,
Narodnaja Volja, p. 181.
26
Si legga in Democrazia e Socialismo di
Rosemberg, Bari 1971, pp. 218-220, questo suo
giudizio complessivo sul populismo: «Essi (i
populisti) vedevano che dopo la caduta dello
zarismo in Russia sarebbe stato possibile
istituire un socialismo contadino e democratico,
fondato per cooperative agricole. In questo
modo la Russia avrebbe potuto superare la fase
del capitalismo industriale che altrimenti

127
appariva necessaria per ogni paese moderno. Per
quanto problematica potesse essere questa
teoria Marx l’ha tuttavia sostenuta per gettare
un ponte verso la rivoluzione russa…
Se Marx fosse stato altro che il portavoce
degli operai dell’industria il corso degli
avvenimenti russi gli sarebbe stato indifferente,
come ad esempio la situazione irlandese. In
realtà gli operai dell’industria per Marx non
erano importanti come strato professionale, ma
solo come classe che dallo sviluppo storico è
chiamata a dirigere la moderna rivoluzione
popolare. I contadini e gli studenti russi che
si proponevano di distruggere lo zarismo erano
una forza propulsiva per la rivoluzione
internazionale, molto più vigorosa di qualsiasi
pacifico sindacato dell’Europa occidentale.
Quando Marx ed Engels stesero nel 1882 quella
premessa al Manifesto comunista, vedevano
nella Russia l’avanguardia della rivoluzione
europea. Nell’ultimo decennio della sua vita
Marx ha riposto le speranze
essenzialmente sull’andamento delle vicende in
Russia. Con il crollo della Comune il
movimento operaio europeo e la democrazia
erano finiti in un vicolo cieco. Una nuova
spinta poteva venire solo da Oriente. Se in
Russia avesse realmente vinto la
rivoluzione democratica e sulle rovine del
vecchio ordine feudale fosse sorta una nuova
forma di socialismo contadino, si sarebbero
risvegliate anche le masse popolari dell’Europa
centrale e occidentale.
I socialdemocratici europei non

128
comprendevano questo modo di pensare di Marx
ed Engels. Essi non riuscivano ad immaginare
che la rivoluzione avrebbe vinto in Russia e che
in seguito il movimento avrebbe assunto di
nuovo forme rivoluzionarie nei loro paesi.»
27
Venturi, op. cit., vol. III, p. 349.
28
Precorrendo anche in ciò il Lenin
dell’autodeterminazione.
29
Si legga in A. Walichi, op. cit., p. 92:
«Comunque né l’articolo di Kravchinskij né la
nuova versione del programma del partito
elaborata nel 1878 (N.K. Karataev, op. cit., pp.
322-6) potevano salvare l’unità della Zemlja i
Volja».
Dopo l’attentato di Solovev, Plekhanov e
Popov, a nome dei narodniki ortodossi, chiesero
l’immediata convocazione di un congresso
generale del partito. La loro richiesta fu
accettata e il Congresso, preceduto da una
riunione degli «innovatori» a Lipetsk, fu aperto
nella città di Voronezh il 24 giugno 1879. Gli
«innovatori» temevano che la vittoria potesse
andare ai loro avversari ma le cose andarono
altrimenti. Una situazione molto favorevole per
loro fu determinata dalla rigidità dogmatica di
Plekhanov il quale, non avendo ricevuto
un’adeguata risposta al suo attacco sul
terrorismo, ebbe uno scoppio d’ira e abbandonò
il congresso… A partire dall’ottobre 1879 la
rottura già esistente in pratica fu riconosciuta
formalmente e «Terra e Libertà» cessò di
esistere. I narodniki ortodossi (ai quali si unì con
disappunto degli innovatori Vera Zasulic)

129
crearono un’organizzazione separata con il nome
di «Ripartizione nera» (Chernij Peredel); questo
nome voleva dire, letteralmente, ripartizione
egualitaria di tutta la terra tra il popolo
«nero», cioè tra i contadini. Gli innovatori
adottarono il nome Narodnaja Volja…
Vera Figner, riprendendo un’osservazione di
Morozov, scrive: Il Chernij Peredel si prendeva la
«terra», non la «libertà» e ognuno s’incamminò
per la propria strada (V. Figner, Polnoe sobranie
sochinenii, Mosca 1932, vol. I, p. 157).
30
Venturi, op. cit., voi. III, p. 184.
31
Così scrive Pokrovsky, op. cit., p. 214-5:
«Le poche copie (delle pubblicazioni del gruppo
di “Emancipazione del lavoro”) che pervenivano
in Russia erano accolte senza particolare
simpatia dai vecchi populisti, che con eroica
ostinazione cercavano di rinfocolare un
movimento condannato a scomparire subito dopo
il 1° marzo (“i tre e più anni trascorsi dal 1°
marzo sono caratterizzati dal declino
dell’energia rivoluzionaria in Russia” scriveva
Plekhanov a Lavrov nel luglio del 1884).
L’arresto dell’ultimo comitato esecutivo avvenuto
nel 1884, frantumò del tutto il movimento; alcuni
circoli populistici sopravvissero sino alla metà
degli anni novanta».
32
Si ricordi che era proprio Zeliabov, che
era un «costituzionalista puro», ad attribuire alla
costituzione l’importanza determinante di
permettere lo svolgimento di un lavoro di
agitazione nelle campagne. Si legga a ciò VA.
Tvardoskaya op. cit., p. 154: «Secondo P.B.
Akselrod, A.I. Zeliabov, nei primi giorni di vita di

130
Narodnaja Volja riteneva che l’unico compito dei
rivoluzionari fosse di fare in modo “con azioni
combattive, col terrore politico, con la simpatia e
l’appoggio di larghi circoli democratici
dell’intelligencija, di strappare al governo una
costituzione democratica che ci consenta di
lavorare a lungo e in modo sistematico tra i
contadini”».
33
Walichi, op. cit., p. 94 scrive: «Secondo
Plekhanov due tendenze si contrastavano dentro
la “Volontà del popolo”: la tendenza
“costituzionale” rappresentata da Zeliabov, e i
“blanquisti” («giacobini») appoggiati da
Tikhomirov… Molto più significativo da questo
punto di vista era un altro membro del Comitato
Esecutivo, Mariya Oseranina, una allieva del
veterano del giacobinismo russo, P.G.
Zaichnevskii, ardente seguace delle idee di
Tkacev».
34
Venturi, op. cit., p. 428.
35
V.A. Tvardovskaja, op. cit., p. 32 scrive:
«Al processo contro gli uomini del 1° marzo, A.I.
Zeliabov, parlando delle origini del
narodovolcestvo, parlò dell’opuscolo Smert za
smert (dedicato, nell’agosto del 1878,
all’attentato di Kravcinskij contro Mezentsov)
come di un documento del periodo di transizione
del populismo. A suo avviso, allora ‘il partito non
aveva ancora pienamente compreso quale
importanza avesse l’ordinamento politico per i
destini del popolo russo’».
36
A. Walichi, op. cit., p. 87 e n. 105.

131
Capitolo quinto

IL GIACOBINISMO RUSSO






Per completare questo sommario quadro dei
movimenti politici rivoluzionari in Russia, dopo la
riforma del ’61, è indispensabile fare un rapido
accenno al giacobinismo russo non tanto per la
sua effettiva consistenza organizzativa o
mobilitativa quanto per l’influenza che esso ebbe
direttamente o indirettamente sugli altri
movimenti politici.
Innanzitutto quindi, tralasciando la Giovane
Russia, Zainevskij e Necaev1 è opportuno
esaminare brevemente la personalità di Tkacev
(che fu senz’altro l’uomo di maggior spicco di
quella corrente) ma soprattutto le sue posizioni
teoriche se è vero che non può capirsi Lenin
senza conoscere Tkacev2.
Intanto egli fu tra i primi a leggere le opere di
Marx e di Engels e già nel 1865 si definiva un
seguace di Marx la cui idea del materialismo
economico diceva «è ora divenuta comune a tutti
gli uomini onesti e intelligenti» 3, ed è indubbio
che il suo impianto teorico fosse di derivazione
marxiana4 e che le sue analisi della struttura
socioeconomica russa quasi precorressero quelle

132
dei marxisti russi, di Struve, come di Plekhanov e
di Lenin pur differenziandosene per
la «prognosi». È dunque indispensabile citarne
qualche brano dall’inesauribile studio del
Venturi5 attingendo dalla sua polemica con
Lavrov del ’74: «La classe dei nobili proprietari
terrieri è rovinata, debole, del tutto priva di forze
tanto numericamente quanto per la sua
posizione politica. Il nostro état è composto per
più di metà di proletari, di miserabili e soltanto
nella minoranza cominciano a formarsi dei veri
borghesi nel senso occidentale di questa parola.
Ma, naturalmente, non si può sperare che simili
condizioni sociali per noi favorevoli sussistano a
lungo. Per quanto lentamente e debolmente
pure noi ci muoviamo sulla via dello sviluppo
economico e questo sviluppo è sottoposto alle
stesse leggi e si compie nella stessa direzione
dello sviluppo economico degli stati occidentali.
L’obscina comincia a dissolversi, il governo fa
ogni sforzo per annientarla e distruggerla
definitivamente. Nella classe contadina si sta
formando una classe di kulaki, compratori e
affittuari di terre contadine e nobiliari,
un’aristocrazia contadina.
Il libero passaggio della proprietà terriera di
mano in mano trova ogni giorno ostacoli minori…
Esistono perciò da noi, già in questo momento,
tutte le condizioni per la formazione, da una
parte di una fortissima classe conservatrice di
contadini—proprietari e farmers —e dall’altra
d’una borghesia del denaro, del commercio,
dell’industria, di capitalisti insomma. Man mano
che queste classi si formeranno e rafforzeranno

133
la situazione del popolo inevitabilmente
peggiorerà e le chances di successo di un
rivolgimento violento diverranno sempre più
problematiche.
Ecco perché non possiamo aspettare. Ecco
perché affermiamo che in Russia la rivoluzione è
realmente indispensabile e
indispensabile proprio adesso. Non ammettiamo
alcun rinvio, alcun ritardo. Adesso o forse ben
presto mai! Ora le circostanze giocano a nostro
favore, tra dieci o venti anni saranno contro di
noi. Capite tutto ciò? Capite la vera ragione della
nostra fretta, della nostra impazienza?»
In sostanza dunque un giacobinismo6
«populista»: salviamo l’obscina interrompendo
con la rivoluzione lo sviluppo capitalistico finché
siamo in tempo.
Formulazioni che curiosamente, pur
mantenendo pressoché intatta l’analisi, i marxisti
russi e Lenin capovolgeranno, quasi a tener
conto dei preconizzati 20 anni passati, (il «Che
cosa sono gli amici del popolo» e «Il contento
economico del populismo» sono del
’94-’95): favoriamo lo sviluppo del capitalismo e
la dissoluzione dell’obscina e aspettiamo per la
rivoluzione socialista che il proletariato urbano e
agricolo si siano formati.
Del resto nella famosa polemica del ’74 di
Tkacev con Engels era lui ad aver ragione
(eccetto che per la scontata accentuazione
giacobina e cospirativa) ma l’aveva atttraverso la
problematica populista che dunque per mezzo di
Tkacev veniva a scontrarsi per la prima volta col
marxismo…

134
Engels scrisse in quell’occasione una sua
famosa frase7 «la borghesia è una condizione
necessaria alla rivoluzione proletaria quanto lo è
il proletariato stesso» che contraddiceva del
tutto la convinzione di Herzen, Bakunin e dei
populisti, i quali affermavano, come si sa, che i
paesi arretrati in generale erano più maturi per
la rivoluzione di quanto non lo fossero i paesi
sviluppati dell’occidente. Per cui Tkacev che
conveniva con loro (e sarà la famosa teoria
dell’anello più debole di Lenin) potrà rispondere8
che l’inesistenza della borghesia era un
argomento importante a favore della
realizzabilità della rivoluzione socialista in
Russia, significava che il capitalismo russo
essendo ancora debole poteva essere facilmente
sradicato e che il potere zarista nella sua lotta
contro i rivoluzionari mancava dell’appoggio di
una forza sociale fondamentale. Ma altre erano
le suggestioni che ritroveremo in Lenin e nel
bolscevismo. Intanto la rivoluzione e la coscienza
di essa non nasce da una «comprensione e
coscienza», da una maturazione da parte delle
masse attraverso la pratica politica ma da «una
minoranza che non vuole attendere» e opera per
scatenarla:
«Presa nel suo assieme la massa non crede e
non può credere nelle proprie forze. Essa non
comincerà mai di propria iniziativa la lotta…»9.
Spetta all’élite intellettuale (la coscienza
esterna di Lenin) «trovare in se stessa, nel
proprio superiore sviluppo mentale, nelle proprie
convinzioni morali e culturali» la capacità di
portare fino allo scoppio lo scontento delle

135
masse.
«In una vera rivoluzione il popolo è una
tempestosa forza della natura che tutto
distrugge e rovina sul suo passaggio, al di
fuori di ogni calcolo e coscienza».
«La rivoluzione la fanno i rivoluzionari».
Tutto dipendeva da una «forte organizzazione
delle forze rivoluzionarie, dall’unione dei
tentativi singoli isolati in un tutto comune,
disciplinato, solido e monolitico?!»
Non era tempo di discutere10… Alla domanda:
che fare? la risposta era una sola: fare la
rivoluzione. L’unica condizione? organizzare la
piccola minoranza rivoluzionaria. Per far ciò è
necessaria la congiura e la disciplina. Occorre
infine che la congiura avesse un piano che «si
sottomettesse ad una direzione comune». Doveva
essere basata sul principio dell’«accentramento
delle funzioni».
Ogni frazionismo non poteva essere che
dannoso: bisognava abbandonare ogni illusione
di essere in molti a fissare chiaramente il
compito della minoranza.
La conquista del potere non è di per se stessa
la rivoluzione ma il preludio di questa. Essa si
compirà in una doppia fase: distruttiva e
costruttiva «L’essenza della prima è la lotta e
perciò la violenza. La lotta si può condurre con
successo soltanto alle condizioni
seguenti: accentramento, severa disciplina,
rapidità, decisione e unità nell’azione. Ogni
concessione, incertezza, ogni compromesso, la
pluralità del comando, il decentramento delle

136
forze in lotta non fanno che indebolire la loro
energia, paralizzarne l’opera, togliendo ogni
possibilità di vittoria». Il modello dello stato
rivoluzionario era la dittatura (rivoluzionaria)
giacobina di Robespierre, con tribunali
rivoluzionari, repressione delle forze ostili,
limitazione delle libertà politiche, ecc.
Eppure un nocciolo populista rimase sempre e
in un articolo del ’76 Popolo e rivoluzione Tkacev
precorre nitidamente quella che sarà la sostanza
della posizione marxiana nelle famose bozze
della lettera alla Zasulic di cinque anni dopo.
«Certo il loro ideale sociale consiste
nell’obscina che si autoamministra, nella
sottomissione dell’individuo al mir, nel diritto di
uso e non di proprietà della terra, nella
solidarietà tra i membri dell’obscina, in una
parola in un ideale con un colorito comunistico
chiaramente espresso. Naturalmente le forme di
vita che condizionano questo ideale sono ancor
ben lontane da un pieno comunismo, esso è
in loro nascosto, per così dire un germe, un
seme. Questo germe può svilupparsi ma può
anche morire. Tutto dipende dalla direzione
nella quale si svilupperà la nostra vita
economica. Se prenderà la direzione nella quale
si sta sviluppando ora, nel senso del processo
borghese, non c’è dubbio che la nostra obscina
(e perciò anche i nostri ideali popolari) subirà il
destino dell’obscina dell’Europa occidentale,
perirà come è perita in Inghilterra, Germania,
Italia, Spagna, Francia. Ma se la rivoluzione
porrà a tempo un argine alle onde rapidamente
crescenti del progresso borghese, se fermerà

137
simile direzione della corrente e gliene darà
un’altra, del tutto opposta, non v’è dubbio allora,
che, in favorevoli condizioni la nostra obscina si
svolgerà a poco a poco in una obscina-comune».
Ma forse per comodità è bene ritrascrivere
ancora quanto scriverà Marx in un passo delle
bozze di cui si è detto11:
«Ma significa ciò che la parabola storica della
comune agricola debba fatalmente giungere a
questo punto? Niente affatto. Il dualismo ad essa
intrinseco ammette un’alternativa: o il suo
elemento di proprietà privata prevale sul suo
elemento collettivo o questo s’impone a quello.
Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale
essa si trova. Le due soluzioni sono, di per sé,
entrambe possibili.
Per salvare la comune russa occorre una
Rivoluzione russa… Se la rivoluzione scoppierà a
tempo opportuno, se l’intellighentia concentrerà
tutte le forze “vive del paese” nell’assicurare alla
comune agricola un libero spiegamento, allora la
comune ben presto evolverà come elemento di
rigenerazione della società russa e, insieme, di
superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalista».
A parte le concordanze tra i due testi quello
che colpisce veramente è l’enorme distanza che
separa su questi problemi e sul processo
rivoluzionario in genere il tardo Marx (e
soprattutto il Marx di queste bozze) da Engels
sempre ancorato ad una visione economicistica
ed evoluzionistica che sarà anche, per suo
tramite, della socialdemocrazia tedesca e della II
Internazionale.

138
Facciamo un semplice e breve confronto tra le
parole soprascritte di Marx e quelle di Engels
nella polemica con Tkacev: «La borghesia è una
condizione necessaria alla rivoluzione proletaria
quanto lo è il proletariato stesso. Ne consegue
che un uomo che afferma che questa rivoluzione
può essere più facilmente portata a termine in
un paese che, anche se non ha un proletariato,
non ha nemmeno una borghesia, prova solo di
dover ancora imparare l’A B C del socialismo»! 12
Sembra evidente che ci troviamo di fronte a due
concezioni pressoché opposte13 e forse avremo
modo di parlarne più avanti.
Ma per tornare a Tkacev è significativo che le
sue ultime simpatie prima della malattia che lo
colpirà nell’82 andranno verso la Narodnaja volja
e verso la stessa politica degli attentati: il
giacobinismo battuto ed emarginato in tutti gli
anni 70 stava prendendo la sua rivincita…
Ora se era vero che la Zemlja i volja aveva
finito, nella pratica rivoluzionaria e nella
elaborazione teorica col superare nettamente
le posizioni elitarie e giacobine del socialismo
blanquista e che autentica era la sua ossessione
di non arrivare alla formazione di un potere
rivoluzionario che avrebbe imposto il socialismo
dall’alto, alla selezione di un gruppo di giacobini
fanatici che, autoinvestitisi della delega delle
masse, finissero col rovesciare sui contadini una
forma di governo più pesante dell’antico,
purtuttavia questa ossessione era la cartina
di tornasole della «inclinazione giacobina» di cui
parlava Axerold, ed essa aveva sempre
serpeggiato in una parte della gioventù

139
studentesca, la solita «Via più breve», «il tutto e
subito» di fronte all’immane compito che si era
posta.
Il giacobinismo dunque non era mai stato del
tutto debellato in seno al movimento socialista e
retaggio estremo della ideologia borghese, come
tenace e malefico filo rosso, aveva attraversato e
permeato di sé tutte le correnti rivoluzionarie
europee e russe; Bakunin stesso per vent’anni
oscillò confusamente tra rivoluzione dall’alto e
rivoluzione dal basso e Marx non ne era stato
immune almeno fino al ’70. E nella pratica
politica la catastrofica rottura dell’Aja e la
cacciata degli anarchici dall’Internazionale non
era stato il segno di questa non superata
mentalità giacobina nel confronto politico e della
incapacità giacobina di saper cogliere nei
compagni di lotta quanto essi portavano di
istanze sociali pur diverse ma rivoluzionarie? Del
resto motivi dichiaratamente giacobini erano
stati presenti nelle cospirazioni degli anni ’60 ed
essi erano stati la matrice della stessa ideologia
nihilistica di quegli anni14.
Era quindi in qualche modo storicamente
fatale o meglio possibile che il movimento
populista ne rimanesse capillarmente inquinato.
E non era un caso se dalla sfiducia e dallo
sdegno contro le vergogne dell’assolutismo, dalla
disperata consapevolezza della propria
impossibilità di rovesciarlo con un movimento di
popolo nel breve periodo; dall’imperativo morale
di dare giustizia ai compagni di lotta impiccati,
torturati, fustigati, deportati, divenuti folli (è
impressionante il numero di questi ultimi) in

140
tutte le terrificanti prigioni zariste; non era
dunque un caso o una fatalità che da tutto
questo nascesse la scorciatoia terroristica!
Attraverso quel filo rosso non troncato, da
quell’ultimo residuo blanquistico che del
complotto, dell’attentato e dell’assassinio
faceva uno strumento di lotta politica, il
rivoluzionario ancora una volta si sostituiva al
popolo: in suo nome e per sua delega agiva e si
proclamava suo giustiziere e suo carismatico
vendicatore 15. Così l’ideologia del «terrore»
rimbalzata dai mille fili del «robespierrismo » di
tutti i circoli rivoluzionari del secolo scorso
attraverso il nihilistico «inferno» di Isutin16 e
attraverso Necaev17 nel movimento
anarchico europeo (da cui s’irradierà e
18
pervaderà sottilmente le infinite
sette rivoluzione del passato fino al presente),
battuta ed emarginata coll’«andata al popolo»;
tornata ad esprimersi come virtuale possibilità
negli anni 77-78 19; veniva ad occupare di sé,
prepotentemente tutta l’attività pratica e
organizzativa della Narodnaja volja, nell’80 e
nell’81.
Ogni strumento, ogni uomo dovevano essere
inflessibilmente finalizzati all’unico scopo: «il
colpo al centro», l’abbattimento fisico dello zar.
Anche se ignota (ma ben prevedibile) era la
reazione delle masse contadine e
dell’«intellighentia». Non era stato dunque il
destino o la momentanea perdita di ragione di un
gruppo di rivoluzionari se il più importante e
agguerrito movimento socialista di quegli anni
veniva spietatamente sconfitto.

141
Ma la vera tragedia storica fu che con esso e
con gli impiccati suoi capi non soltanto venivano
eliminate fisicamente delle
grandi contraddittorie e drammatiche figure di
rivoluzionari ma che nello stesso tempo l’intero
movimento socialista europeo veniva
decapitato di un patrimonio di esperienza
rivoluzionaria e di strategia di costruzione
socialista d’inestimabile valore.
E in effetti nel clima tragico di repressione
succeduto all’assassinio dello zar i nuovi marxisti
russi, come a perpetua immunizzazione dalla
sconfitta populista, finirono col rifiutare non solo
il terrorismo (il che fu decisivo) ma praticamente
l’intero blocco teorico e strategico del filone
democratico-rivoluzionario del populismo,
scagliando via classicamente e come sempre
accade in questi casi di tremendo schock storico,
il «bambino assieme all’acqua sporca». La stessa
frazione del Cernij Peredel che invano aveva
lottato contro la svolta terroristica del ’78 20 e
dell’80, ancor prima di essere spazzata via dalla
repressione era ormai colpita a morte nella
coscienza stessa dei sopravvissuti. Non
per niente i suoi dirigenti che erano i Plekhanov,
gli Axerold, la Zasulic saranno i primi, sotto il
tremendo trauma del 1 marzo 1881, a
trasformarsi in marxisti ortodossi21 fino ad essere
insensibili al tanto invocato imprimatur di Marx
all’azione populista che proprio in quei giorni
veniva recapitato 22 e che deve aver avuto
l’effetto del fantasma di un morto nella casa di
parenti pronti allo scempio o per lo meno al
sotterramento.

142
Pervenuto dunque, questa coincidenza
terribile, nel momento psicologico in cui non
poteva avere letteralmente alcun valore23 !
Si è molto discusso sul come e sul perché quel
fondamentale e per certi effetti rivoluzionario
messaggio di Marx non sia stato mai rivelato
dalla Zasulic e dai suoi amici Plekhanov e
Axerold ma probabilmente la motivazione è
psicologica ed è quella che si è detta. Lo
schock del 1 marzo e del successivo
schiacciamento del leggendario
«Comitato» esecutivo della Narodnaja volja e
dell’intero movimento era stato troppo profondo
ed era « inevitabilmente» automatico rimuovere
quanto si riferiva a quel trauma e a quel passato.
Occorreva assolutamente voltar pagina, era
indispensabile un mutamento radicale del modo
di pensare, di agire, di far politica. E l’unico
punto di riferimento, ancora di salvezza era il
classico Marx: non il nuovo; era il proletariato
urbano non erano più i contadini.
Certo a questa catena infernale di
coincidenze24 mancava ancora l’ultima: la lettera
veramente rossa di Marx, (e che
indubbiamente scottò e bruciò a lungo nel
represso inconscio del gruppo
dell’Emancipazione), come imprevedibile e
derisorio «ritorno del represso», fu pubblicata
nel 1924 quando tutti i reali e i virtuali
destinatari erano più che deceduti. Ma quando
anche era appena scomparso l’unico che forse,
malgrado tutto, avrebbe saputo cogliere il
contenuto capovolgente dell’ormai ultraterreno
messaggio: Lenin (si pensi al suo estremo

143
appello, l’ultimo, «Sulla Cooperazione»).
A questo punto vale anche la pena di riferire
gli estremi barlumi di lotta ideologica che il
Cernij peredel riuscì a condurre nei suoi pochi
mesi di vita25.
Innanzitutto va detto che gli uomini di questa
organizzazione non si stancarono mai di ribadire
in tutti i modi che non esistevano le condizioni
obiettive per l’insurrezione e che né il popolo né
il partito rivoluzionario erano preparati a
innescarla e generalizzarla: il popolo non
era pronto per la rivoluzione socialista.
Una rivoluzione dall’alto non aveva senso
come anche concentrare tutta la forza
dell’organizzazione nella congiura e non
nell’organizzazione delle masse: «quando si
compirà il rivolgimento dall’alto il popolo sarà
colto di sorpresa» e l’isolamento dei narodniki
dal popolo li avrebbe portati, in caso di successo,
non a distruggere lo stato ma a sostituirsi ad
esso. La sola rivoluzione che i contadini
chiedevano era quella agraria e il partito
rivoluzionario non poteva avere che quel
prioritario obiettivo26.
Il passaggio dall’obscina alla collettività
agricola (e qui riprendevano tutta la tematica
che era stata di Cernysevskij27 e di
Lavrov) sarebbe stato accompagnato
dall’introduzione della coltivazione collettiva e
da una trasformazione del livello tecnico della
conduzione agricola attraverso l’uso delle
macchine. La rivoluzione agraria avrebbe
dunque rappresentato una fase di passaggio

144
verso la costruzione di una società su basi
socialiste. Ma ugualmente essi sottolineavano
con forza l’importanza del problema operaio: nel
programma del partito si legge una analisi e
un’indicazione a questo riguardo precisa e
importante. «Per quanto riguarda gli operai di
città una parte notevole di essi è costituita da
una parte mobile che non è ancora riuscita a
fissarsi definitivamente in città e a differenziarsi
dai contadini nei suoi interessi. A intervalli
determinati questa parte degli operai emigra
dalla città alla campagna e viceversa.
Tutti i suoi pensieri e speranze tendono verso
l’idea fondamentale della massa contadina e cioè
verso la terra e la libertà. Il partito deve
utilizzare questi lavoratori come un potente
mezzo di azione sulla coscienza della massa
contadina, come arma per creare
un’organizzazione nel seno di quest’ultima».
«Questo strato sociale per il suo numero e per
il significato strategico dei centri industriali e
amministrativi costituisce una forza
estremamente importante nella massa generale
del popolo russo. L’opera di agitazione e di
organizzazione deve accompagnarsi con
l’introduzione in questo ambiente dell’ampio
ideale del collettivismo, partendo dalle
rivendicazioni che oggi lo muovono».
Ma il senso di come il 1 marzo avesse
completamente mutato e capovolto la prospettiva
rivoluzionaria di questo gruppo sarà dato
da Plekhanov che nemmeno due anni dopo le sue
ultime teorizzazioni populiste28 e precisamente
nel 1883, nella dichiarazione programmatica del

145
gruppo marxista «Emancipazione del lavoro»,
chiederà, per quanto riguarda i contadini,
liquidando in poche parole tutta l’elaborazione
populista e praticamente capovolgendola, che ad
essi venisse concesso il diritto di rinunciare
all’appezzamento di terra comunitario e di uscire
dall’obscina!!! 29.
Mentre il suo primo studio marxista, uscito
qualche mese più tardi «Il socialismo e la lotta
politica» in sostanza era l’invito ai rivoluzionari
russi di scegliere «la lunga e difficile via
capitalistica»30. Ed esso sarà inevitabilmente
considerato dai moribondi circoli populisti come
un tradimento. Il fallimento e la disfatta
dell’azione terrorista, attraverso il trauma
dell’81 era divenuto il fallimento e l’impossibilità
delle masse contadine ad essere considerate
come soggetto rivoluzionario, protagoniste della
propria rivoluzione!!31.



1
Per Necaev si veda l’introduzione di Vittorio
Strada A un vecchio compagno di A. Herzen,
Torino 1977. E si legga a p. xxxix e sgg.:
«Gambarov, nel suo tentativo di ‘riabilitazione
storica’ di Necaev, giungeva alla conclusione che
col suo ‘fiuto politico geniale’ egli aveva saputo
precorrere i tempi e le sue idee avevano trovato
la loro più profonda e piena incarnazione nei
metodi e nella tattica della lotta politica del
partito comunista russo, nel corso di 25 anni di
storia» (A. Sambarov, V. Sporach, K voprosu ob

146
istoriceskoj reabilitacii Necaeva, Moskva-Lenin-
grad 1926, p. 146).
Evidentemente non si può accettare questa
semplicistica eguaglianza tra necaevismo e
bolscevismo anche se, come siamo andati
dimostrando, non si può accettare la tesi di
Necaev “mostro” d’eccezione, senza radici e
senza frutti, nel movimento rivoluzionario russo
ecc.». Strada quindi riporta alla nota 1 «… Per
Gambarov il movimento necaeviano è quello che,
in tutta la storia della lotta rivoluzionaria,
presenta il maggior numero di punti di contatto
col bolscevismo»; «nella persona di Necaev la
storia ha avuto il primo grande organizzatore di
partito» (ibid., p. 116) e i principi tattici da lui
per la prima volta formulati, furono attuati
vittoriosamente dai bolscevichi (ibid., p. 123).
Prima di Gambarov, ma in tutt’altro spirito,
l’accostamento tra bakuninismo necaeviano e
bolscevismo leniniano era stato fatto negli ultimi
interventi di Plekhanov, nel 1918, e negli articoli
che Gorki, in quello stesso periodo, pubblicò su
Novaja Zizn… il problema storico esiste: è il
problema non di un meccanico influsso diretto di
Bakunin e Necaev su Lenin (anche se è evidente
che Lenin non li ignorò, come non ignorò
Tkacev), ma delle complesse e organiche sintesi
che nel contesto russo si crearono tra tendenze
apparentemente e talvolta realmente opposte…
Presente in Lenin è anche l’eredità di Herzen al
quale egli, nel 1912, dedicò un articolo… Lenin
sottolineò polemicamente il valore proprio
dell’ultima opera di Herzen, le lettere A un
vecchio compagno in quanto in essa

147
Herzen, rompendo con Bakunin ‘rivolse il suo
sguardo non verso il liberalismo ma
verso l’Internazionale, quell’Internazionale che
era diretta da Marx’ (V. Lenin, Polnoe sobranie
socinenij, voi. xxi, Moskva 1961, p. 257).
Eppure Plekhanov non aveva torto quando
aveva sentito in Lenin una presenza di Bakunin.
La sintesi complessa che viveva in Lenin si
disgregò dopo la sua morte dando vita a un
‘leninismo’ di cui si servì il suo massimo
creatore, Stalin, attraverso il quale l’intrinseco
elemento necaeviano si potenziò enormemente
e stabilmente».
2
Scrive G.D.H. Cole, op. cit., p. 61: «Lenin
ebbe parole di ammirazione per Tkacev che
considerava un vero rivoluzionario; e in anni più
vicini a noi si è tentato di fare di lui un pensatore
rivoluzionario che avrebbe precorso le
dottrine comuniste. In realtà però Tkacev non
era che un seguace di Blanqui e Babeuf, i quali
avevano affermato che la rivoluzione doveva
essere fatta da una élite addestrata senza
attendere che la massa si schierasse a suo
fianco».
3
Walichi, op. cit., p. 123.
4
E anche spenceriana. Si legga per es.:
«Esiste un criterio assoluto con cui controllare la
validità delle ideologie; vi è quindi la possibilità
di un’ideologia infallibile, cioè di una formula del
progresso assoluta, universalmente valida e
obbligatoria» (P.M. Tkacev, Izbrannye socinenia,
Mosca 1932, voi. II, p. 174).
5
Venturi, op. cit., voi. II, pp. 461 e sgg.

148
6
Sul ferreo giacobinismo di Tkacev si veda
per es. Walichi, op. cit., pp. 88-91: «Il suo Nabat
(Campana a stormo) ammoniva i rivoluzionari
russi ad imparare dalle cospirazioni
rivoluzionarie della prima metà del secolo
ricordando loro soprattutto la tradizione di
Babeuf e Buonarroti… Secondo Tkacev il popolo
solo con i suoi sforzi non può liberarsi. Il
sostegno del popolo è necessario per la vittoria
della rivoluzione ma più importante è una forte
direzione ed un’azione ben organizzata
dall’avanguardia rivoluzionaria…
L’atteggiamento dei membri di ‘Terra e Libertà’
verso Tkacev fu generalmente del tutto
negativo… Nonostante ciò alcune delle idee di
Tkacev accelerarono i processi di
differenziazione tra i rivoluzionari della Zemlja i
Volja…
Nel gennaio 1878 la giovane Vera Zasulic
sparava al generale Trepov, governatore di
Pietroburgo per vendicare un rivoluzionario che
era stato frustato in prigione…
In maggio un poliziotto, il colonnello Heyking,
fu assassinato a Kiev, in agosto Kravchinskij
aiutato da Barannikov uccise con un pugnale il
generale Merentsov, capo della terza sezione
(cioè della polizia segreta); il 2 Aprile 1879
Alexander Solovev… cercò di assassinare lo zar;
poche settimane dopo all’interno di ‘Terra e
Libertà’ si costituì un’organizzazione terrorista
autonoma ‘Morte e libertà’. La nuova corrente fu
criticata dai narodniki ortodossi… Del tutto
differente fu la reazione del ‘giacobino’ Nabat…
il vantaggio principale del terrorismo, dal

149
punto di vista ‘giacobino’, consisteva nel fatto
che portava ad una considerevole riduzione del
lavoro di propaganda in campagna e ad una
concentrazione delle forze rivoluzionarie in
organizzazioni clandestine altamente
centralizzate».
7
Walichi, op. cit., p. 127; Marx-Engels, op.
cit., London, p. 4617.
8
Si veda Walichi, op. cit., p. 127: «Per
Tkacev la debolezza o, come diceva lui,
l’inesistenza della borghesia russa era un
argomento importante a favore
della realizzabilità di una rivoluzione socialista in
Russia: significava che il capitalismo russo,
essendo ancora debole e artificiale, poteva
essere facilmente sradicato e che il governo
russo nella sua lotta contro i rivoluzionari
mancava dell’appoggio di un importante forza
sociale che, nell’Europa occidentale, era
divenuta la più potente antagonista del
socialismo. Engels pensava che fosse vero il
contrario. La condizione necessaria per il
Socialismo è l’alto livello dello sviluppo
economico, che è un risultato
dell’industrializzazione capitalistica… Non si
poteva negare che questa opinione si
armonizzasse perfettamente con la Prefazione
alla prima edizione tedesca del Capitale.
L’evoluzione di ogni formazione economica è un
processo storico naturale, oggettivo e
indipendente dalla volontà umana: ‘una società
non può né saltare, né eliminare per decreto le
fasi naturali dello svolgimento’. Le leggi dello
sviluppo sociale si fanno strada con ‘bronzea

150
necessità’ e i paesi sottosviluppati devono
passare attraverso le stesse fasi di sviluppo
economico che i paesi sviluppati hanno già
completato. ‘Il paese industrialmente più
sviluppato non fa che mostrare a quello meno
sviluppato l’immagine del suo avvenire’».
9
Venturi, op. cit., vol. II, p. 346.
10
Ibidem, pp. 304, 370, 372, 377.
11
Marx-Engels, op. cit., p. 309.
12
Walichi, op. cit., p. 127.
13
A. Walichi, op. cit., p. 169 scrive in
proposito: «Un breve confronto tra le posizioni di
Marx e quelle di Engels mostra che i loro
rispettivi atteggiamenti verso il ‘problema
populista’ erano lontani dall’essere eguali.
Engels, nel complesso, era più pessimista sulle
prospettive del socialismo in Russia.
Staccandosi dalle vedute di Marx (così come
sono espresse negli abbozzi della sua lettera
alla Zasulic) egli era portato ad interpretare la
disintegrazione della comune rurale in Russia
come un processo ‘naturale’ ed inevitabile, e non
cessò mai di sottolineare che la rivoluzione
socialista doveva affermarsi prima in Occidente.
Non accennò mai in alcun modo al fatto che la
Comune potesse essere un elemento di
‘superiorità’ della Russia sull’Occidente, al
contrario, certe volte ne parlò non come della
molla principale della rigenerazione sociale della
Russia, bensì come di un sostegno tradizionale
del dispotismo zarista».
14
Scrive F. Venturi, op. cit., LXXVI e sgg.:
«Gli studenti di questi anni che avevano sperato

151
in una vita e in una cultura del tutto nuove,
dovettero accettare ben presto l’unica via che
sembrò loro ancora aperta: l’abbandono delle
aule, il distacco individuale, il rifiuto di ogni
cultura. Questa la situazione, questo il terreno in
cui affondò le sue radici il nihilismo russo degli
anni ’60. Il primo a rendersi conto della sua
importanza e del suo pericolo fu Herzen. Kozmin,
fin dal 1929, aveva largamente aperto la strada
ad una intelligente riconsiderazione di questi
problemi col suo articolo ‘D.I. Pisarev e il
socialismo’, recentemente ripubblicato in una
raccolta postuma dei suoi saggi… Ha certo
ragione Filippov (Organizzazione rivoluzionaria
populista di N.A. Isutin e di J.A. Chudjakov
(1863-66), Petrozavodsk 1964) nell’insistere sul
carattere populistico e socialista
dell’organizzazione di Isutin e di Chudjakov e nel
far notare come le esigenze di libertà fossero
profondamente radicate nel modo di sentire di
questi giovani… Sono e rimangono dei socialisti
ed insieme cominciano ad essere disposti ad
adoperare qualsiasi mezzo (la congiura, gli
attentati, la conquista del potere, l’alleanza
coi liberali e coi movimenti nazionali) pur di
realizzare un ideale che il mondo tutto intero
attorno a loro sembrava negare e ripudiare. La
situazione li faceva ormai dubitare della rivolta
contadina. Eppure il popolo era l’unica forza
capace di dar vita al socialismo. Ogni mezzo
cominciava a parer buono pur di spezzare
questa contraddizione».
15
La Tvardoskaja scrive (op. cit., p. 27): «In
ogni caso se la tesi del terrore come arma di

152
vendetta e di autodifesa fu inequivocabilmente
espressa nella pubblicazione del ‘Comitato
Esecutivo’, in essa non veniva però avanzata
l’idea dello stesso terrore come forma di lotta
politica. Evidentemente le idee che animavano in
proposito alcuni elementi del circolo non si erano
ancora democratizzate…».
16
Venturi, op. cit., vol. II, pp. 200-266.
17
Ibidem, pp. 267-325.
18
Bakunin stesso se ne libererà
definitivamente soltanto in seguito alla
rottura con Necaev. Si veda a ciò la famosa
lettera di Bakunin (Michael Confino, «Bakunin e
Necaev 1870-72. Ecrits et matériaux» in
Archives Bakounine, Leiden 1971) a Necaev. E si
leggano le penetranti pagine su ciò di F. Venturi
op. cit., vol. I, Lxxxiii e sgg. e quelle già citate di
Strada.
19
Si legga quanto scrive in proposito la
Tvardoskaja, op. cit., pp. 34-56: «Al Grande
Soviet di Zemlja i Volja (assemblea di tutti i
membri dell’organizzazione presenti a
Pietroburgo), riunitosi il 29 marzo 1879
Michailov sollevò il problema del regicidio in via
del tutto teorica, senza accennare a un piano
preciso e senza dare il nome dell’esecutore…
L’appprovazione o la bocciatura del piano
dell’attentato significava al tempo stesso
approvazione o condanna del nuovo
indirizzo. Proprio per questo i derevensciki più
attivi—G. V. Plekhanov, M. R. Popov, U.
K. Aptekman, A. I. Ignatov—accolsero con la più
profonda ostilità le tesi dei politki— Plekhanov

153
obiettò che simili gesti equivalevano a scalzare le
basi stesse del programma di Zemlja i Volja: ‘A
causa delle vostre assurde fantasie—disse ai
politki—la nostra organizzazione è costretta ad
abbandonare uno dopo l’altro tutti i vecchi
settori di attività…’ (V.G. Plekhanov, Socinenia,
v. 24, p. 305). Anche Aptekman giudicava
estremamente pericoloso abbandonare le
vecchie posizioni e prevedeva, qualora
l’attentato non fosse riuscito, che l’acutizzarsi
della lotta contro il governo avrebbe dato il via
‘ad un secondo, ad un terzo attentato, a
tutta una serie di attentati dei quali si sarebbe
dovuto incaricare necessariamente lo stesso
partito, a proprio rischio e pericolo’ (Il populismo
rivoluzionano degli anni ‘70, Mosca Leningrado
1965, p. 359). Tutta l’agitazione
postcongressuale dei derevensciki aveva per
l’appunto questo obiettivo: dimostrare la
possibilità di lavorare in profondità tra il
popolo… Le due frazioni fecero il possibile
per attirare dalla loro parte i circoli locali. I
derevensciki visitarono le ‘colonie’ ancora in
vita, i luoghi dove ‘c’erano una volta’ gli
Zemlevoltsy. La spaccatura di Zemlja i Volja in
due organizzazioni autonome avvenne il 25
agosto 1879 al Congresso di Pietroburgo (Sulla
scissione di Zemlja i Volja cfr. le opere citate di
P.S. Tkacenko e S.J. Volk)».
20
Si veda V.A. Tvardoskaja, op. cit., p. 30:
«Pure già nei volantini di Zemlja i Volja a
proposito del primo atto terroristico—l’attentato
della Zasulic contro Trepov—si delineava una
nuova linea non populista». E a pag. 45: «Fin dal

154
suo inizio (marzo ’79) il processo di
strutturazione ideale e organizzativa della
linea ‘politica’ aggravò ancor più le tensioni
all’interno dell’organizzazione. A quel mese,
secondo le memorie di O.V. Aptekman, risalì il
primo tentativo di compiere un esame
approfondito della situazione e di risanarla.
L’iniziativa partì dai dere-vensciki (gli
Zemlevoltsy fautori dell’agitazione nelle
campagne). In un promemoria redatto per loro
incarico Aptekman ‘esortò ad abbandonare la via
del terrorismo perché estremamente pericolosa e
tale che potrebbe condurci in un vicolo cieco, in
un labirinto dal quale poi non sapremmo più
come uscire’. Aptekman, al pari di Bakunin,
giudicava nociva e pericolosa la lotta politica
perché, anche se avesse avuto esito favorevole,
la situazione del popolo non avrebbe fatto
che peggiorare. Il programma esortava i
rivoluzionari a lavorare nelle campagne, ‘rimaste
l’unica luce in questi tempi oscuri’. L’appello dei
derevensciki all’unità e alla coesione era quindi,
in pari tempo, un appello a mantenere fede al
vecchio programma».
21
Si legga a ciò A. Walichi, op. cit., p. 156:
«I fondatori del ‘socialismo scientifico’
sostenevano in modo entusiastico la Volontà del
Popolo e si dimostravano orgogliosi dei loro
contatti con i suoi membri. (Si veda ad es. la
lettera di Engels a Lavrov del 10 aprile 1882);
trattavano con ironia il partito della
Ripartizione nera di Plekhanov, rilevando che i
suoi affiliati mentre predicavano la necessità di
lavorare tra il popolo se ne andavano poi

155
all’estero evitando ogni vera
attività rivoluzionaria. Anche la conversione di
Plekhanov al marxismo fu accolta da Engels
(Marx a quell’epoca non era più vivo) con una
certa diffidenza. La critica di Plekhanov alla
‘Volontà del Popolo’ gli sembrava prematura e
troppo dottrinaria. Quando Vera Zasulic, a nome
del gruppo della Emancipazione del lavoro,
chiese ad Engels di esprimete la sua opinione sul
libro di Plekhanov Le nostre divergenze,
ricevette una risposta piuttosto deludente…
Inoltre, affermava che nelle condizioni russe una
cospirazione blanquista può diventare la scintilla
in grado di determinare la vera esplosione
rivoluzionaria: ‘Se mai il blanquismo… ha
una certa ragione d’essere, è senza dubbio ora, a
Pietroburgo’ (K. Marx-E. Engels, India, Cina,
Russia, cit., pp. 250-1)… l’opinione di Engels che
il loro blanquismo aveva qualche giustificazione
e non poteva in alcun modo danneggiare lo
sviluppo della Russia colpiva il nucleo centrale
della strategia di Plekhanov».
22
Walichi, op. cit., pp. 161-2 e nota 128:
Marx-Engels, op. cit., Torino, pp. 304 e 380, n.
49.
23
Si pensi che la posizione di Plekhanov
ancora nel 1880 era la seguente nei confronti
delle forze esterne ostili all’obscina: «una
posizione conseguentemente positiva verso la
comunità da parte delle masse contadine e
dell’intelligencija potrà notevolmente
neutralizzare l’azione delle influenze ostili,
purché naturalmente non rimanga puramente
platonica» (G.V. Plekhanov in Russkoe

156
bogatstvo, 1880 nn. 1, 2, 4). E le si confronti con
quelle subito dopo il 1881!!
24
E si ricordi la «coincidenza» accennata
nel cap. IV (i parte) del testo: Alessandro II fu
«giustiziato» il giorno in cui doveva far
approvare il progetto di Costituzione e proprio
da quel Zeliabov che più degli altri la voleva
spasmodicamente per riprendere il lavoro di
agitazione tra i contadini.
25
Venturi, op. cit., vol. III, pp. 327-30.
26
Si legga in V.A. Tvardoskaja, op. cit., p.
135 e sgg.: «Con tutto questo i rivoluzionari di
Cernij Peredel, pur ammettendo ‘la profondità
della crisi politica ed economica di cui soffre la
nostra patria’, affermavano: ‘La situazione
esistente oggi in Russia non solo non esige che si
concentrino tutte le nostre forze nella lotta
politica, ma impone più che mai che esse
vengano impegnate a favore del popolo’.
(Literatura partii Narodnaja Volja, Mosca 1930,
p. 191). E rimproveravano i narodovoltsy perché
‘sotto l’influsso dell’eccezionalità del momento’,
‘in pratica rinnegavano principi ben più vitali,
riconosciuti dalla scienza’ (ibidem, p. 141) e cioè
quell’agitazione tra il popolo che era destinata a
preparare l’insurrezione contadina».
«Anche nel n. 2 di Cernij peredel, uscito nel
settembre del 1880… i cernoperedeltsy
sostenevano che l’obbiettivo principale del
popolo era precisamente l’emancipazione
economica. Ogni deviazione dalla via maestra
della rivoluzione economica avrà come
conseguenza un indebolimento dei loro (degli

157
intellettuali socialisti) legami con il popolo, una
diminuzione della loro importanza, un calo
dell’influenza nell’ambiente popolare».
27
Un’accurata analisi delle posizioni di
Chernichevskij e di Lavrov in merito ai temi dello
sviluppo economico nei paesi arretrati è
contenuto nella Istorja russkoi ekonomicheskoi
mysli a cura di A.J. Pashkov e M.A. Tsagolov,
Mosca 1960, vol. I, parte II, pp. 707-719 e vol. II.
28
Si legga a ciò quanto scrive la Tvardovskaja
op. cit., p. 38: «Sintomatica, in questo momento
di rottura, in questa fase che vedeva nascere i
primi profondi dubbi verso i vecchi dogmi, la
pubblicazione (nei numeri 3 e 4 di Zemlja i
Volja) di articoli del grande teorico del
populismo G.V. Plekhanov su ‘La legge
dello sviluppo economico della società e i compiti
del socialismo in Russia’. Scopo di questi articoli
era di confermare la validità dei fondamenti della
ideologia populista, e soprattutto di alimentare la
fiducia che la Russia potesse imboccare una via
di sviluppo non capitalistica. Plekhanov
intendeva dimostrare, con l’aiuto di Marx, ‘alla
maniera di Marx’, che le leggi generali dello
sviluppo storico naturale non erano obbligatorie
per la Russia…, Plekhanov sostiene che fin
quando ‘la maggioranza dei nostri contadini
continuerà a sostenere l’obscina, non si potrà
dire che il nostro paese si orienti veramente
verso questa legge secondo la quale
la produzione capitalistica sarebbe stata una fase
necessaria sul cammino del progresso’».
29
Plekhanov, Socinenia, Moskva 1923, voi. II,
p. 361. La inconfutabile prova della cecità

158
«rivoluzionaria» di una simile parola d’ordine è
costituita dal fatto che sarà Stolypin a metterla
in atto nel 1906!! (cfr. avanti pp. 88 e sgg.).
Per arginare appunto il grande moto
rivoluzionario contadino degli anni 1905-7
che aveva avuto a centro la «confisca» di tutte le
terre signorili (e dello Stato) e la loro
assegnazione alle obsciny per la «ripartizione
egualitaria».
30
Walichi, op. cit., p. 138.
31
A conferma di quanto avanzate e
correttamente socialiste fossero le
posizioni programmatiche del movimento
populista rivoluzionario si leggano per
esempio le stesse considerazioni della
Tvardoskaja, che a volte è invece
ortodossamente «evoluzionista» (op. cit., p. 103)
su ciò (op. cit., pp. 114 e sgg.): «Essi
erano convinti che, dopo la rivoluzione agraria,
la gran maggioranza dei contadini, educati dal
modo di vita dell’obscina alle idee del
collettivismo e della solidarietà, avrebbero
preteso che la proprietà si fondasse sul principio
della comunità rurale, dell’Obscina. Secondo i
rivoluzionari il carattere collettivo del lavoro
sarebbe scaturito naturalmente dal possesso
collettivo del suolo.
Lo stesso termine ‘collettivismo’ che
significava proprietà comune, godimento
comune, lavoro comune, era negli anni settanta
del xix secolo il sinonimo di socialismo più
largamente impiegato e doveva perdere la sua
importanza solo con il passaggio del movimento
alla lotta politica: da questo momento in poi

159
esso viene invece associato al termine anarchia.
I principi del collettivismo significavano per i
rivoluzionari lo sviluppo dei rapporti già esistenti
nel popolo ‘in nuce, in modo ancora
estremamente rozzo e primitivo’. La stessa
possibilità—naturalmente con un giudizio ben
diverso sulle condizioni di principio che ne
avrebbero resa possibile la realizzazione—era
stata prevista naturalmente anche da Marx,
come risulta dalle minute della sua lettera alla
Zasulic. Marx pensava che l’abitudine del
contadino russo ai rapporti da artel avrebbe
facilitato il suo passaggio dall’economia
parcellizzata all’economia collettiva, come del
resto già avveniva in certa misura nei terreni non
soggetti a divisione, nei lavori di prosciugamento
e in altri d’interesse generale. La stampa
rivoluzionaria scriveva che, senza alcuna
possibilità di dubbi, ‘il lavoro comune
è inconfutabilmente più vantaggioso del lavoro
individuale’».

160
PARTE SECONDA

161
Capitolo primo

LA FORMAZIONE DEL GIOVANE LENIN






Dopo la sommaria cornice di cui si è trattato
nella prima parte si pone ora un interrogativo:
quale era stata, in quel contesto storico
la formazione di Lenin? Per riuscire in qualche
modo a orientarsi attorno a questo intricato nodo
è indispensabile tentare di capire quali furono le
componenti fondamentali che contribuirono alla
costruzione della sua personalità intellettuale
soprattutto a partire dall’adolescenza e
giovinezza (e sarebbe egualmente importante
riuscire a decifrare come la sua stessa struttura
caratteriale si predisponesse ad essere quella
che poi fu…).
Veniamo dunque al nostro adolescente
Vladimir Ilic Uljanov (nato nel 1870): sappiamo
che negli anni prima del 1887 i due figli
maggiori del Direttore delle scuole della
provincia di Simbirsk sul Volga avevano iniziato
a interessarsi a Marx.
A primavera ne leggevano qualche passo
guardando dalla finestra i fiori bianchi del
frutteto di melo e di notte, dalle due camerette
intercomunicanti, ne discutevano a volte fino a
quasi l’alba. Nelle sere d’inverno chi passava

162
davanti alla piccola casa ai margini della città
vedeva spesso attraverso la finestra della sala al
pianterreno la scacchiera illuminata dal lume a
petrolio e Sasha e Volodia che intenti giocavano
a scacchi1.
La quiete raccolta di quegli anni fu, come si
sa, presto scardinata: «Il destino tragico del
fratello—scrisse la Krupskaia—produsse senza
dubbio una profonda impressione su Vladimir
Ilic» 2—«Questo significava che Sasha non
avrebbe potuto agire altrimenti» aveva
mormorato Volodia, alla notizia che il fratello era
stato impiccato. E da quel momento tutto
cambiò…3.
Ma Sasha, che all’università aveva aderito ad
una frazione terroristica dell’ormai dispersa
Narodnaja Volja, prima dell’attentato ad
Alessandro III, aveva lasciato una specie di
testamento politico: «La nostra intellighentia è
troppo disorganizzata e fisicamente debole,
attualmente, per poter impegnare una lotta
aperta. Questa debole intellighentia
può difendere il suo diritto di pensare solo con il
terrorismo»4.
L’energia e l’aggressività; lo slancio e la
ribellione del rossiccio ragazzo tarchiato dagli
zigomi sporgenti e gli occhi obliqui del tartaro si
concentrò accanitamente su quell’unico
5
spiraglio . Nello stesso tempo iniziarono i
pellegrinaggi del perseguitato che sarebbero
durati quasi tutta la vita6.
Da Simbirsk a Kazan, con tutta la famiglia
(era divenuto il capo famiglia) per potersi

163
iscrivere in una università che non lo
respingesse. Ma di nuovo espulso come fratello
dell’attentatore e durante l’estate, sulla collina
all’estremo della città, nell’antico quartiere
orientale, nella cucinetta adattata a studio,
seduto sul vecchio fornello coperto di giornali,
l’accecante scoperta di Marx e le prime
appassionate discussioni cogli studenti del
circolo marxista di Fedosseiev. E ancora via da
Kazan a Samara mentre i compagni appena
lasciati venivano imprigionati. Nuovamente nel
giardino all’ombra dei tigli, il tavolo fissato al
terreno e senza più fumare, decifrare Ricardo col
dizionario mentre la convinzione rivoluzionaria
diventa sempre più salda, irremovibile; e col
sarcasmo e l’arroganza del carattere e dell’età il
disprezzo dichiarato per il vecchiume populista
(ma non verso il giacobinismo populista). «Un
giovane straordinariamente presuntuoso e
screanzato» lo definivano i populisti di Samara7
(eppure alcuni di loro erano gli scampati dal
terrore zarista e avevano sperimentato nelle
proprie carni come venivano trattati gli avversari
dello zar).
Aveva anche approfittato dei suoi viaggi a
Pietroburgo (al fine di sostenere gli esami di
laurea), per procurarsi l’Anti-Dùbring e
divorarlo.
Può dunque dirsi che soprattutto a Samara la
personalità intellettuale del giovane Vladimir
venne assumendo una propria autonoma identità
in primo luogo nell’assunzione delle opere di
Marx attraverso una lettura giacobina filtrata
dalla sua adesione alle posizioni delle ultime

164
sette populiste che si rifacevano a Tkacev, alla
Narodnaja Volja e al terrorismo .
Intanto in quegli anni, durante la carestia e
l’epidemia di colera del ’91/’92, andava
producendosi nell’intellighentia russa un
movimento9 per certi aspetti simile a quello del
72/73 e si verificò un moltiplicarsi di iniziative in
soccorso delle popolazioni colpite (il vecchio
Tolstoi scese ancora in campo con la famiglia a
organizzare mense, distribuzioni di sementi,
cavalli…) 10.
Vladimir che pur si compiaceva di discutere
coi contadini e informarsi delle loro condizioni di
vita e dei loro problemi e di cosa pensavano (Mia
madre—avrebbe detto più tardi—voleva che mi
dedicassi alla agricoltura ma capii subito che la
cosa non andava: i miei rapporti coi contadini
divenivano anormali) non volle far parte del
comitato di soccorso di Samara e un avversario
populista arrivò a dire che in sostanza egli si
rallegrava della carestia perché stroncando la
resistenza dei contadini favoriva la crescita di un
proletariato urbano 11.
Accusa che puntualmente si sarebbe ripetuta
verso la fine del secolo al tempo della
discussione sull’aumento dei prezzi del grano:
Lenin, i marxisti legali e Struve—che malgrado il
suo dichiarato deterministico filocapitalismo era
stato sempre guardato con indulgenza da
Plekhanov e Lenin per i suoi meriti nella lotta
antipopulista—erano a favore dei prezzi alti,
nonostante ciò significasse un forte
aggravamento della condizione dei contadini12
che in quell’epoca erano già sottoposti al famoso

165
«prelievo» Witte per la industrializzazione.
Ma torniamo al giovane Ulianov, appena
laureato a pieni voti che inizia ad esercitare
l’avvocatura a Samara e che nel ’93, finalmente
si sposta a Pietroburgo.
L’ultimo inverno a Samara sarebbe rimasto
indimenticabile nella sua memoria, nella
consapevolezza che esso era l’ultima stagione
tranquilla della sua vita prima dell’inizio di un
periodo in cui ogni minuto sarebbe stato
occupato soltanto dall’idea della rivoluzione:
una stagione che sembrava prolungarsi oltre
ogni termine naturale, che non sembrava aver
fine…
«Avevo la precisa sensazione di essere chiuso
nella sala n. 6» 13. Doveva assolutamente
andarsene di lì, non perder più tempo, doveva
lottare impegnarsi ogni minuto, organizzare altri
uomini. «Dateci un’organizzazione rivoluzionaria
e rivoluzioneremo la Russia» avrebbe scritto più
tardi ripetendo Tkacev 14. E finalmente
Pietroburgo. Qui le posizioni teoriche che
Plekhanov era andato sviluppando in quegli anni
lo conquistarono definitivamente 15.
Dopo essere riuscito a fare una rapida visita
in Svizzera al Maestro (la cui autorità e il cui
prestigio erano allora indiscussi) ottenne di
essere ammesso nel circolo marxista di
Plekhanov: l’Unione di lotta per l’emancipazione
dei lavoratori16. Le posizioni del gruppo
dell’emancipazione del lavoro erano, come è
noto, quelle del marxismo classico e Plekhanov al
I Congresso della II Internazionale dell’89 aveva

166
pronunciato parole che avevano avuto una
profonda eco nei circoli rivoluzionari russi.
«Il movimento rivoluzionario russo riuscirà
vittorioso come movimento rivoluzionario
operaio. Non c’è e non ci può essere altra
alternativa» 17.
E nel ’92 aveva ribadito: «Eccetto la
borghesia e il proletariato noi non vediamo nel
nostro paese nessun’altra forza in cui i gruppi
d’opposizione e rivoluzionari possano trovare
appoggio» 18.
Come è altrettanto noto l’assioma
antipopulista di Plekhanov e del suo gruppo era
che la Russia doveva seguire il tipo di sviluppo
dei paesi occidentali e che la rivoluzione sarebbe
potuta nascere solo dallo sviluppo capitalista,
per opera del proletariato urbano e non dei
contadini. Quando il proletariato urbano avrà
mostrato «come si fa» la rivoluzione al
proletariato rurale, questi farà la sua rivoluzione
contro la borghesia contadina. Per il momento,
quindi, bisognava fare in modo che nelle
campagne il capitalismo si sviluppasse e battersi
perciò contro gli ultimi residui feudali. Forse non
è inutile sottolineare che queste posizioni, con
poche varianti, erano le stesse della
socialdemocrazia europea e di quella tedesca in
particolare.
Infatti dopo i congressi di Halle del ’90 e di
Erfurt del ’91 19, il S.P.D. aveva posto fra i suoi
obiettivi quello della conquista politica delle
popolazioni contadine e aveva dato inizio a una
sua agitazione nelle campagne tedesche.

167
Al congresso di Francoforte del ’94 le
rivendicazioni incluse nel programma agrario
tendevano ad articolarsi sulla base dei successi
ottenuti in Baviera da Vollmar che, sull’esempio
dei socialdemocratici francesi (i quali al
congresso di Marsiglia del ’92 avevano definito
una serie di misure in difesa della piccola
proprietà contadina) si era fatto portavoce in
congresso di un’analoga politica di riforme a
favore dei piccoli proprietari. Ma sia Bebel che il
vecchio Engels polemizzarono subito
vivacemente con le posizioni riformiste emerse a
Francoforte e ricordarono che in una società
capitalistica il destino della piccola borghesia
contadina era la proletarizzazione!
Di conseguenza l’unica politica
socialdemocratica doveva essere quella di
riuscire a renderla consapevole che la sua
salvezza era la società socialista; o meglio la
proprietà collettiva di tutti i mezzi di produzione,
a partire dalla terra!
In seguito a queste autorevolissime prese di
posizione la discussione si accese e da Luglio a
Ottobre si tennero per tutto il paese una fitta
serie di assemblee, dibattiti, congressi locali,
conferenze incentrate sul programma agrario di
Francoforte. Infine al Congresso di Breslavia
dell’Ottobre ’95 20, fu approvata una risoluzione
presentata da Kautsky che faceva propri i
capisaldi ideologici di Engels e di Bebel e che
«proponeva di respingere il progetto perché in
contrasto con i principi del partito…»!
Se si pensa che il partito socialdemocratico
tedesco e Kautsky rimasero fino al 1914 un

168
punto di riferimento privilegiato e costante nel
pensiero di Lenin sembra scontato che egli
conoscesse e condividesse quelle posizioni (per
cui contrariamente a quanto a volte si è detto,
la sua politica tesa a liberare i contadini da
alcuni residui feudali non andava certo intesa
come una difesa della piccola e media proprietà
contadina ma semplicemente come il suo
coerente progetto volto a favorire i rapporti
capitalistici nelle campagne, l’estendersi e
l’approfondirsi della differenziazione di classe
tra borghesia contadina e proletariato rurale).
Sembra accertato che nel Settembre/Ottobre
del ’95 (poco prima dunque di porre mano a Il
contenuto economico del populismo), durante il
soggiorno berlinese, partecipò anche ad una
assemblea del SPD, nel sobborgo operaio di
Friedrichsberg21 e che egli non potesse non
essere al corrente del dibattito che in quei mesi
imperversava all’interno delle organizzazioni
della socialdemocrazia tedesca sulla questione
agraria appare del tutto da escludere.
A questo punto sembra chiaro quali possano
considerarsi le componenti fondamentali della
formazione intellettuale del giovane Ulianov.
Innanzitutto naturalmente Marx ed Engels ma
mediati attraverso Plekhanov e lo stesso Struve
(malgrado le marginali polemiche) e dunque
assimilati soprattutto nel loro aspetto di
ortodossia nei confronti delle posizioni
«deviazionistiche», eretiche e piccolo borghesi
dei populisti (o alla Vollmar).
Ma inevitabilmente, questa posizione di fiera
repulsa del bagaglio teorico populista22 non

169
poteva non contenere un’acquisizione, pur
se spesso inconsapevole e mai dichiarata, di
atteggiamenti, e formulazioni sostanzialmente
populiste, («lo sviluppo diseguale», «l’anello più
debole», la stessa alleanza operai contadini, ecc.
ecc.)
Del resto Lenin stesso dichiarò sempre la sua
ammirazione per Cernysevskij di cui più tardi
avrebbe detto: «Mi plasmò tutto profondamente»
23
.
E riferendosi al Che fare (di Cernysevskij): «È
un’opera che dà la carica a tutta la vita» 24.
Nello stesso tempo fu indubbiamente decisivo
per la sua formazioni politico-culturale il
blanquismo-giacobinismo della Narodnaja Volja25
di Tkacev e della Giovane Russia (contro il filone
democratico rivoluzionario della Zemlja i Volja);
e Lenin subirà per tutta la vita quella influenza
che si rivelerà più tardi sia nella concezione del
partito nonché della conquista e del
mantenimento del potere e sia nel suo
atteggiamento di fronte a una serie di problemi
di grande momento. Ma di ciò parleremo più
avanti. Adesso basterebbe soltanto accennare
che in sostanza quanto nello sviluppo del suo
pensiero finì per discostarsi dall’ortodossia
marxista potrebbe farsi risalire alle elaborazioni
teoriche che il movimento populista aveva
espresso dalla sua esperienza rivoluzionaria 26.
La terza componente fondamentale della
dimensione culturale del primo Lenin non poteva
non essere la posizione teorica della
socialdemocrazia tedesca che, come è risaputo,

170
godeva in quegli anni di un prestigio di assoluto
primo piano presso i gruppi e i movimenti
marxisti e socialdemocratici delle varie nazioni
europee e non europee. Per cui a conclusione di
queste brevi considerazioni può affermarsi che è
del tutto comprensibile come nel Lenin degli
anni novanta si sia manifestata
una fondamentale incomprensione del populismo
come espressione di problemi specifici, reali (e
delle relative implicazioni teorico-politiche), di
un paese contadino arretrato, alle soglie dello
sviluppo capitalistico. Né forse la sua personalità
era molto vicina allo spirito di quel primitivo
egualitarismo di tipo contadino, di quelle
elementari forme di cooperazione e autogoverno
che bisognava venissero esaltate, recuperate e
finalizzate in una lotta politica per il socialismo
che coinvolgesse le masse contadine come
protagoniste assieme al proletariato urbano del
processo rivoluzionario.
Il fatto è che fin dai suoi primi scritti, a parte
il vigore dell’analisi, la padronanza delle
categorie socioeconomiche marxiane e la
capacità di rapportarle alla situazione russa, vi è
un sostanziale rifiuto e disprezzo della tematica
populista (che pur esprimeva autentiche istanze
rivoluzionarie e di una parte tanto essenziale
della realtà russa!) e una riaffermazione
sostanziale della strategia di stretta osservanza
marxista: favorire lo sviluppo capitalistico perché
si formasse l’unica classe capace di portare a
termine la rivoluzione socialista.
Ma i protagonisti della rivoluzione russa non
potevano non essere, assieme agli esigui gruppi

171
di proletariato urbano allora esistenti, le masse
contadine perché esse erano il soggetto
oggettivamente preponderatamente antagonista,
l’oggetto principale dell’asservimento…
Il vero problema, qualunque fosse il
deterministico grado delle forze produttive, lo
schema entro cui muoversi, era che queste
masse riuscissero a farsi consapevoli del loro
asservimento ed esprimessero un movimento
politico capace di guidare, essendone guidato,
una coerente lotta verso il socialismo. Nella
consapevolezza che socialismo era innanzi tutto
la costruzione di relazioni umane non subalterne,
non contraffatte e distorte da rapporti di
dominio.
In quegli anni, dunque, il centro di questa
strategia non poteva essere che la lotta del
mondo contadino nel suo complesso contro i
rapporti feudali nel loro complesso. Il che data la
specificità della struttura agraria russa non
significava soltanto la rivoluzione agraria
democratico borghese, la dissoluzione del
grande latifondo, la confisca di tutte le terre e la
loro distribuzione, ma la possibilità già in essa di
portare avanti elementi di società socialista; da
una parte la graduale meccanizzazione, la
graduale coltivazione cooperativa nell’obscina;
dall’altra il rafforzamento dello spirito
comunitario e delle tradizioni di associazionismo
e autogoverno del modo di vita contadino così da
fare davvero della comune agricola russa «il
punto d’appoggio della rigenerazione sociale»
verso la via dell’azienda agricola socialista, della
moderna coltivazione su larga scala, affinandone

172
contemporaneamente le capacità di autogoverno.
Così da superare, nell’unico modo possibile, lo
squilibrio tra una agricoltura degradata a un
bassissimo livello di produttività che non bastava
neppure ai propri consumi di sussistenza («il
villaggio russo non bastava nemmeno a sfamare
se stesso») e l’urgenza di avviarne un
processo di sviluppo attraverso l’integrale
utilizzo e liberazione di tutte le energie umane
disponibili verso la socializzazione del mezzo di
produzione, la coltivazione su larga scala e il suo
ammodernamento; da cui solo poteva nascere un
processo di industrializzazione armonizzato con
lo sviluppo agricolo (e in cui gli stessi progetti di
«industria popolare» del movimento populista
sulla base dell’artel avrebbero potuto trovare
un loro senso).
La politica che potesse avviare questo
processo e unificare la massa contadina in un
unico obiettivo scatenante era dunque quella che
avesse posto al suo centro lo strappare la terra
al latifondo e la sua assegnazione alle comunità
locali27.
Ma ciò presupponeva un atteggiamento che
tra l’altro avesse saputo sottoporre a severa
critica la scarsità dei risultati dell’azione della
social-democrazia europea nelle campagne,
costretta ad additare semplicemente
l’inevitabilità della proletarizzazione e i luminosi
orizzonti della futura società socialista. Mentre
l’impressione è che l’acerbo Lenin non avesse
potuto approfondire, dato gli strumenti critici di
cui disponeva, sia le ragioni di questo fallimento
e sia quelle della futura, inevitabile, difficoltà di

173
una trasformazione socialista delle campagne
russe una volta distrutto l’unico baluardo
antiindividualista della società russa: la
comune contadina.
Eppure un’analisi, scevra da ideologizzazioni,
dei nodi irrisolti della politica agraria
socialdemocratica e delle sue teorizzazioni lo
avrebbe portato inevitabilmente a considerare
con occhio diverso le istanze che il movimento
populista aveva fatto proprie.
O si costruivano e si seminavano già i germi e
le strutture della trasformazione socialista
oppure fare delle «proletarizzande» masse
contadine una forza motrice della rivoluzione
sarebbe divenuta una «utopia». Ciò anche per la
semplice ragione che il processo di
proletarizzazione non si verificava nei modi e
tempi previsti, come lo stesso Kautsky avrebbe
dovuto riconoscere ne «La questione agraria»
del 1899 28.
Allo stesso modo di quanto era capitato a
Marx nei confronti dello anarchismo, e in
definitiva per lo stesso peccato di assolutismo
ideologico, così il rapporto del marxismo russo
col populismo diveniva quasi sempre un rapporto
di opposizione e di scontro. Esso finiva
sistematicamente col rilevarne soltanto le
inadeguatezze teoriche, le ingenuità critiche
e gli errori invece di recepire le intuizioni
rivoluzionarie e il patrimonio di esperienza
emancipatrice, gli obiettivi e il fine comune. Per
cui, negli anni ’90, era ormai oggettivamente
impossibile o perlomeno
difficilissima un’alleanza tra marxisti e populisti:

174
eppure quella del confronto unitario era l’unica
strada da perseguire accanitamente, perché
questo era l’unico metodo che avrebbe permesso
una creativa integrazione29 dei due movimenti e
dunque la traduzione a livello politico di quanto
già Marx aveva fatto a livello teorico:
l’assunzione del valido nucleo populista: «La
Comune punto d’appoggio della rigenerazione
sociale» attraverso una rivoluzione agraria
contro il latifondo signorile e verso la futura
organizzazione socialista delle campagne, in un
processo di crescita socialista della obscina che
sconfiggesse gli elementi di conservatorismo e di
capitalismo in essa annidati.
Sia Marx che Engels avevano sempre
sostenuto che nell’agricoltura la coltivazione su
larga scala era una condizione essenziale per il
socialismo nelle campagne, ma avevano sempre
dimenticato di sottolineare che anche la
coltivazione «su piccola scala», anche attraverso
la successiva socializzazione del lavoro operata
dalla cooperazione, costituiva una potenzialità
socialista delle campagne e che il contadino
produttore doveva essere considerato una forza
motrice della trasformazione socialista.
Marx nel ’50, sostenendo la nazionalizzazione
della terra come un punto dello stesso
programma rivoluzionario borghese aveva
proposto che «le proprietà confiscate dovessero
rimanere di proprietà dello stato ed essere
trasformate in colonie dei lavoratori, coltivate da
associazioni del proletariato agricolo che
avrebbe così beneficiato di tutti i
30
vantaggi dell’agricoltura su larga scala» .

175
La coltivazione socializzata avrebbe mostrato
ai piccoli contadini i vantaggi del lavoro e della
iniziativa collettiva su larga scala. Engels ne La
questione contadina in Francia e in Germania
(1895) diceva: «Il nostro compito nei confronti
dei piccoli contadini consisterà innanzitutto nel
trasformare la loro produzione privata e la loro
proprietà privata in produzione e proprietà
collettiva non però con mezzi violenti ma
col metodo dell’esempio e offrendo l’aiuto sociale
a tale scopo»31.
La situazione russa, in un altro contesto
storico e sociale (là la rivoluzione borghese era
avvenuta, qui no), offriva una struttura agraria
estremamente sensibile a una lungimirante
agitazione rivoluzionaria che da un lato riuscisse
a rendere politicamente consapevoli le masse
contadine del loro totale asservimento; e
dall’altro sapesse indicare nella rivoluzione
agraria e nella comune socialistica i due perni di
un profondo rivolgimento sociale.
Certo non si trattava solo di additare la
trasformazione delle strutture agrarie ma
organicamente di quelle politiche e
socioculturali; un intero mondo umano doveva
essere mutato: il suo modo di essere e di
lavorare, la sua cultura e la sua coscienza di sé,
le sue istituzioni.
Per maturare «dall’interno» la rivoluzione
agraria e tendenzialmente socialista doveva
accompagnarsi certo alla «riforma intellettuale e
morale» verso la costruzione dell’«uomo nuovo»
ma i suoi capisaldi dovevano pur sempre partire
dallo spirito di solidarietà comunitaria

176
dell’obscina e dai primitivi livelli di autogoverno
del mir e dell’artel.
Come era possibile dunque non vedere che il
patrimonio inestimabile costituito da strutture sì
arcaiche ma che avevano salvaguardato, pur se a
un livello primitivo, il possesso comune, la
responsabilità collettiva, la comunitarietà e
forme elementari di autogoverno, andavano in
ogni caso protette ed espanse in quanto esse
costituivano gli unici elementi capaci di elevare e
trasformare la «qualità» delle forze produttive e
di liberare finalmente l’iniziativa e la «creatività»
delle masse contro i modi di essere
dell’individualismo borghese? Una lotta
socialista non poteva non partire da quanto nella
realtà del paese già esisteva di potenzialmente
socialista e assumerlo come base di una
strategia che riuscisse a fare della mobilitazione
delle masse e di una reale democrazia a ogni
livello il suo punto di forza.
Altrimenti non sarebbero bastate generazioni,
in una campagna dove si fosse affermato lo
spirito angusto e avidamente individualistico di
una marea di kulaki, esterni all’obscina, a
ricollocarvi la spinta ad una organizzazione
comunitaria e ad un lavoro socializzato. Il
giovanissimo e neofita Ulianov, intellettualmente
ipnotizzato dal grande schema marxiano della
rivoluzione soltanto operaia, confortato da tutti i
grandi maestri della socialdemocrazia russa ed
europea, non poteva avere dunque, e non ebbe,
occhi per queste visioni che giudicava utopie
piccolo borghesi e reazionarie ancorché fossero
in realtà le più reali e proletarie.

177
Nel suo schema di sviluppo non aveva fatto
posto alla domanda capitale: le masse contadine
dovevano battersi per uno sviluppo per che cosa?
a favore di chi?



1
E. Wilson, La stazione di Filadelfia, Milano
1974.
2
Krupskaja, Ricordi su Lenin, Parigi 1931,
pp. 20-21.
3
Scrive A. Walichi, op. cit., p. 132: «Un
esempio interessante e illuminante di questa
formazione intellettuale di transizione fu
Alexander Uljanov (1866-1887) il fratello
maggiore di Lenin… Uljanov fu un populista solo
nel più ampio senso della parola. Egli si
considerava un continuatore della Volontà del
popolo ma nel suo Programma della frazione
terroristica della Volontà del popolo (cfr.
Karataev, op. cit., pp. 631-6) spezzò la
denominazione tradizionale di ‘socialisti-
populisti’ chiamando i suoi seguaci
semplicemente ‘socialisti’».
4
N.K. Karataev, «La pubblicistica
economica populista», Opere scelte,
Mosca 1958, pp. 633 e sgg.. Vedere anche V.
Strada, op. cit., p. LUI, n. 2.
5
Si veda su ciò R. Pipes, Struve: liberal on
the Left, Harvard 1970, p. 129: «Durante questi
anni (1887-1892) le azioni politiche di Lenin
collimavano con l’ideologia della Narodnaja
Volja. Egli credeva nella possibilità di un colpo

178
di Stato che avrebbe fatto cadere il governo
imperiale e portato al potere una dittatura
socialista… Durante questi quattro anni egli fece
parte di organizzazioni rivoluzionarie clandestine
della Narodnaja Volja dimostrando sempre una
particolare affinità con l’ala radicale, giacobina».
E si veda anche dello stesso autore: The origins
of Bolshevism, Cambridge Mass. 1968.
6
Si legga in A. Walichi, op. cit., p. 134: «Il
futuro leader della rivoluzione fu anche
profondamente impressionato dalla codardia dei
liberali di Simbirsk che, dopo l’arresto di suo
fratello, si rinchiusero in se stessi e ruppero le
relazioni con la sua famiglia.
Secondo la Krupskaja questa esperienza
giovanile lasciò senza dubbio la sua impronta
sull’atteggiamento di Lenin verso i liberali
(Krupskaja, op. cit., p. 20). Possiamo aggiungere
che la sfiducia e l’odio verso i liberali fin
dall’inizio distinsero nettamente Lenin da
Plekhanov. Per il ‘padre del marxismo russo’ la
social-democrazia significava precisamente un
riavvicinamento ed un’alleanza coi liberali nella
lotta comune per la libertà politica».
7
Wilson, op. cit.
8
Sulla formazione politico-ideologica
giovanile di Lenin, oltre ai lavori già citati, si
vedano anche quelli della N. Gourfinkel, Lenin,
Milano 1961; di L. Fischer, Vita di Lenin, Milano
1973 e, oltre al lavoro incompiuto di J.
Deutscher, le memorie della sorella maggiore
Anna Ulianova, Autobiografia di bolschevichi,
Roma 1970 a cura di G. Haupt e J.J. Marie che,

179
su quegli anni govanili, scrive (II, pp. 39-40):
«L’essecuzione dell’amatissimo fratello
impressionò profondamente Vladimir Ilic e da
sola valse a spingerlo sulla via della rivoluzione…
Nell’autunno 1888 Vladimir Ilic ebbe il permesso
di stare a Kazan… Ritrovò qualche vecchio amico
e ne incontrò di nuovi: tra questi conobbe la
Cetvegova, membro della Narodnaja Volja… In
genere rispettava i vecchi populisti (come
testimoniano i ricordi della Krupskaja, di
Zinoviev, ecc.) dei quali non rifiutava affatto
l’eredità». Ma importante, per la formazione
politico-culturale di Lenin, è il libro di Trockij, Il
giovane Lenin, Milano 1971, che, a proposito
della sua volontà di seguire le orme del fratello,
scrive (p. 159): «Laggiù egli incontrò anche un
ambiente democratico giovanile che cominciando
col lottare per il diritto di organizzare refettori e
sale di lettura sfociava nel complotto terroristico.
Espulso dall’università in seguito a una protesta
puramente studentesca Vladimir Ilic si rinsaldò
nell’idea del terrorismo». Fischer (op. cit., p. 37)
riporta sul periodo di Samara un giudizio
di Starkov: «Ricordo con quanto calore difendeva
contro i nostri attacchi le sue idee sul terrorismo
come metodo di lotta politica ecc.». E Adoracki,
direttore dell’Istituto Marx-Engels e citato sia da
Fischer (op. cit., p. 36) che da Trockij (op. cit., p.
238) confermerà sugli anni di Samara lo stesso
giudizio: «Lenin era già un marxista, sebbene
alcune tracce della Narodnaja Volja rimanessero
in lui sotto forma di un particolare
atteggiamento verso il terrorismo». Del resto è
noto il suo diverso atteggiamento rispetto a

180
Plekhanov su quel tema ed è nota la
sua affermazione nel Che fare?: «In linea di
principio noi non abbiamo rinunciato e non
possiamo rinunciare al terrorismo». Come è nota
la sua costante lotta, soprattutto dopo il 1905,
contro l’azione terroristica. Ma, tornando a
Samara, Lenin vi divenne amico della Jaseneva
(Valentinov, op. cit., pp. 77-78) fedele seguace
di Zaicnevskij e della Giovane Russia, il cui
programma egli giudicò positivamente. E più
tardi i giacobini-blanquisti di Zaicnevskij
finiranno per aderire al partito bolscevico. Nel
1925 Mikievic su Proletarsja Revolutsija potrà
scrivere: «Con la morte di Zaicnevskij scompare
il giacobinismo russo per risorgere sotto nuova
forma… nel bolscevismo». «Evidentemente—egli
commentava—il giacobinismo predispone al
bolscevismo». Lo stesso Pokrovskij ne Le fonti
del bolscevismo nella storia russa affermerà che
la rivoluzione di ottobre ha tradotto in atto le
formule del manifesto della Giovane Russia del
1862. In realtà il giacobinismo di Lenin e del
bolscevismo è un topos canonico della
storiografia occidentale (basti pensare al
Bolscevismo e giacobinismo del Mathiez, Parigi
1921) e, per tutti si legga A. Besançon, Le origini
intellettuali del leninismo, Firenze 1978, p.
29: «Lenin, come tutto il movimento
rivoluzionario russo, aveva la più grande
stima dei giacobini e noi possiamo decidere, se
vogliamo, di considerare la rivoluzione francese
secondo l’ottica della rivoluzione russa».
9
A. Walichi, op. cit., p. 148 così scrive: «In
effetti, il ‘marxismo legale’ fu la prima ideologia

181
filo-capitalistica che ebbe successo e guadagnò
una vasta popolarità tra l’intelligencjia russa.
Diventò popolare perché non era un’ideologia
apertamente borghese, perché sembrava
discendere dalla tradizione socialista… Verso il
1900 la maggioranza dei marxisti legali ruppero
definitivamente i loro rapporti con la
‘socialdemocrazia russa’… Lo stesso Struve
diventò il capo dell’ala destra di tale movimento
liberale. La diagnosi degli scrittori populisti che
sin dall’inizio avevano considerato i ‘marxisti
legali’ degli apologeti della borghesia,
sembrava aver trovato la sua convalida.
Torniamo comunque agli anni novanta.
L’emergere del ‘marxismo legale’ con il suo
atteggiamento apologetico verso
l’industrializzazione capitalistica della Russia,
indusse gli scrittori populisti a lanciare una
energica campagna contro il marxismo».
10
Wilson, op. cit., p. 250.
11
Ibidem, p. 250.
12
Si veda su dò V. Strada, op. cit., pp. LXVI
e LXVII: «Nella copia della sua risposta a
Maslov, che ci inviò, e in una lettera a noi
indirizzata sulla stessa questione egli (Lenin) si
mise con entrambe le gambe sul terreno
dell’impostazione struvian-tuganovskiana del
problema, risolvendolo nel senso che i prezzi alti,
distruggendo i rapporti di asservimento delle
campagne, preparavano le condizioni per la
rivoluzione. Della precedente sfiducia per
l’apologetismo capitalistico di Struve e Tugan in
Tulin (Lenin) non era rimasta traccia… Al
contrario egli si compenetrò di grande sfiducia

182
per quelli di Samara sospettandoli di essere
inclini a velare il processo di
‘decontadinizzazione’ della campagna russa con
un sentimentalismo che era frutto di una
capitolazione di fronte al populismo…»
(Martov, Ricordi di un socialdemocratico, Mosca
1924, pp. 330-331). Per M.I. Tugan-Baramovskij
si veda la ricerca bibliografica di S. Amato,
Argomenti storici, Quaderno III-IV, Firenze
1980..
13
Wilson, op. cit., p. 253.
14
Che fare?, Torino 1972, p. 10.
15
Ed è singolare come sarà proprio Vera
Zasulic, questo cruciale personaggio del
movimento politico russo per almeno oltre un
ventennio, a mettere in collegamento Lenin con
il gruppo di Plekhanov: scrive Martov, op. cit., p.
43: «Lenin, tornato a casa dopo tre anni di
deportazione, A. Potresov e J. Martov si misero
in comunicazione con coloro che in varie città
condividevano le loro idee, ed erano insoddisfatti
degli orientamenti prevalenti nelle
organizzazioni socialdemocratiche. Per mezzo di
Vera Zasulic, tornata allora illegalmente in
Russia, si misero in comunicazione con il Gruppo
dell’emancipazione del lavoro, attivo all’estero».
16
Le cui posizioni politiche Engels criticò
vivacemente.
17
Wilson, op. cit., p. 251.
18
Plekhanov, Opere complete, Mosca, III, p.
119.
19
Si veda per ciò e per le pag. segg. E.
Cinnella, «Il programma agrario della

183
socialdemocrazia russa», in Studi storici, nn. 4-
73, pp. 775 e sgg.. E si veda anche l’introduzione
di G. Procacci a La questione agraria di K.
Kautsty, Milano 1971, nonché la fondamentale
opera di H.G. Lehmann, Il dibattito sulla
questione agraria, Milano 1977.
20
Plekhanov riferendosi a quel Congresso così
commentava (Saggio sullo sviluppo della
concezione monista della Storia, Op. complete,
Mosca, vol. I, p. 874, nota 61). «Penso qui
all’attività dei socialdemocratici. Essi hanno
contribuito al progresso del capitalismo
sopprimendo le forze di produzione superate,
come l’industria a domicilio. Al congresso di
Breslavia del 1895 Babel ha sintetizzato
efficacemente l’atteggiamento della
socialdemocrazia occidentale verso il
capitalismo: ‘Io mi chiedo sempre, a proposito di
qualsiasi misura, se essa non nuocerà al pro-
21
E. Cinnella, op. cit., p. 780, note 57-58; V.
B. Schumann, op. cit., pp. 250-261.
22
V. G. Revunenkov, Il marxismo e il
problema della dittatura giacobina, Leningrado
1966.
23
A. Valentinov, I miei colloqui con Lenin,
Torino 1966, p. 63.
24
Wilson, op. cit..
25
Si legga per es. in V. Strada, op. cit., pag.
LXXI: «E già nel novembre del 1900, nell’articolo
T compiti urgenti del nostro movimento’ che
apriva il primo numero dell’Iskra, Lenin poneva
chiaramente a modello di organizzazione
del partito l’esperienza della Narodnaja Volja. ‘Ai

184
problemi organizzativi abbiamo intenzione di
dedicare una serie di articoli nei prossimi
numeri. Noi siamo rimasti molto indietro in
questo senso rispetto ai vecchi rappresentanti
del movimento rivoluzionario russo, dobbiamo
riconoscere apertamente questo difetto e
rivolgere tutti i nostri sforzi all’elaborazione di
una impostazione più cospirativa del lavoro’ e
giungeva alla prima teorizzazione del
rivoluzionario di professione sul modello della
Narodnaja Valoja…».
26
Strada, op. cit., p. viii. Si veda Lenin e il
populismo di F. Battistrada, Genova 1975.
27
E questo fu del resto, come si è detto e
come si vedrà avanti il tema di fondo delle grandi
lotte contadine del 1902 e del 1905-1907.
28
E come Lenin stesso lamenterà e
documenterà nella quasi totalità dei suoi scritti a
riguardo.
29
Tra i marxisti l’unico ad averlo intuito era
stato Fedosseev a concreta testimonianza, in
ogni caso, della praticabilità di quest’alternativa.
Si ricordi, per esempio, che con Fedosseev (il
primo «maestro» di Lenin, cfr. Walichi, op. cit.,
pp. 150-2) erano su queste posizioni
«integrazioniste» il circolo marxista di Samara e
molti altri circoli marxisti di «base». Ma sarebbe
interessante riuscire a svolgere una ricerca su
ciò.
30
Marx-Engels, Opere complete, Mosca, vol.
viii, p. 487.
31
Si veda Carr, op. cit., p. 793, che fa seguire
a questa citazione la seguente nota: «Lenin

185
(Socinenia xxiii, 308) avrebbe citato più tardi
questo passo in appoggio alla politica di
conciliazione nei confronti dei contadini medi
(che nelle condizioni russe corrispondevano al
piccolo contadino di Engels, il piccolo
proprietario che lavora da solo senza mano
d’opera salariata)».

186
Capitolo secondo

LENIN SCRIVE «IL CONTENUTO


ECONOMICO DEL POPULISMO»






Il passo riportato di Marx al capitolo i, parte
prima, sembra che non abbisogni di altri
commenti, oltre a quelli che abbiamo già fatto,
tanto sembra esauriente sulla questione decisiva:
in Russia è possibile salvare la comune agricola e
farla evolvere «come elemento di rigenerazione
della società russa» e, (importantissimo: non era
mai stato detto prima da Marx per un paese
«arretrato»!) insieme come elemento di
«superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico»!! (per questa informazione vedere
avanti, termine cap. v)
Cioè per Marx, non solo era possibile
nell’arretratissima Russia il salto della fase
capitalistica ma addirittura fare della comune
agricola un elemento di superiorità della società
russa nei confronti di quella dei paesi a
capitalismo sviluppato.
Naturalmente la questione dirimente era che
il processo rivoluzionario venisse intrapreso, con
quei fini, da un movimento politico
rivoluzionario. La condizione, inserita nella
prefazione dell’82 alla traduzione russa del

187
Manifesto, che faceva derivare la possibilità di
quanto sopra dall’esito vittorioso della
rivoluzione socialista in occidente, sembra
dunque più che mai fuori dalla coerenza di
pensiero cui era pervenuto faticosamente Marx
in questo ultimo scorcio della sua vita. E più che
mai non un ripensamento ma una
1
concessione fatta a Engels che su questo punto
era rimasto sempre ben saldo, e che doveva
assumere sia prima che dopo gli anni dal ’75
all’82 fino al ’96 un atteggiamento quasi del
tutto negativo sulle possibilità di evoluzione
comunistica della comune russa (egli infatti data
la sua concezione della storia di tipo
«evoluzionistico» era portato a considerare la
disintegrazione della comune come un processo
«naturale» e inevitabile).
Ma a questo punto è ormai venuto il momento
di raffrontare queste chiare posizioni che
purtroppo, è bene sottolinearlo ancora una volta,
allora non erano note, con quanto veniva
scrivendo Lenin soltanto poco più di un decennio
dopo, nei suoi scritti di prosecuzione e
completamento della polemica di Plekhanov e di
Struve2 contro i populisti.
E probabilmente è meglio rifarsi al meno noto
«Il contenuto economico del populismo»
piuttosto che ai più conosciuti e commentati Che
cosa sono gli amici del popolo del ’94 e Lo
sviluppo capitalistico in Russia del ’98, dei quali
forse è più significativo3.
Abbiamo lasciato il Vladimir appena
ventitreenne che nella primavera del ’93
abbandona finalmente Samara, si trasferisce a

188
«esercitare l’avvocatura» a Pietroburgo e si
accinge a diventare «Lenin». Al principio del ’94
egli conosce la Nadezda Krupskaja, entra nel
circolo marxista della scuola di tecnologia,
prende contatto con gli operai delle fabbriche e
delle officine di Pietroburgo e diviene subito
un dirigente apprezzato dei marxisti della città.
Dopo dunque aver scritto nel marzo/giugno il
Che cosa sono gli amici del popolo egli scrive tra
la fine del ’94 e l’inizio del ’95 Il contenuto
economico del populismo a commento del libro
di Struve sullo sviluppo economico della Russia
uscito pochi mesi prima.
E rivisitando oggi il giovane e neofita Ulianov,
agli inizi della sua vita di dirigente politico è
vivissima l’impressione, oltre che per il vigore
dell’analisi e per la padronanza delle categorie
marxiane, per quella certa rigidità ideologica che
rimarrà, malgrado tutte le intuizioni
rivoluzionarie e la sua capacità di
interpretazione creativa, una costante della sua
formazione culturale.
Ma a questo punto diviene indispensabile
riportare alcuni brani di questo suo scritto, a
illustrazione di quelli che sembrano i
limiti teorici di questa sua aspra polemica
antipopulista.
Ed è bene forse, preliminarmente, riassumere
e in qualche modo classificare il tipo di questi
limiti.
I quali in definitiva potrebbero essere i
seguenti:
1) Il netto e derisorio rifiuto della «Via

189
populista» (e abbiamo visto marxiana) della
rigenerazione sociale della Russia attraverso
la comune.
2) Il rigido schema strategico marxista «pre
Zasulic».
3) La riduzione meccanicistica del rapporto
tra struttura economica e ideologia.
4) La visione deterministica del processo
storico.
5) La tendenza a deformare le posizioni
significative dell’avversario e come tali a
respingerle drasticamente.
Ma per ciascuno di questi punti è ormai
venuto il momento di far parlare direttamente
l’acerba voce di Ilic (ma già quanto vigorosa e
precorritrice).
Ecco dunque alcuni passi de Il contenuto
economico del populismo da ascrivere al punto
1): «ma non possiamo non rilevare che,
abbandonando questa idea e facendo un passo
avanti verso l’aperto riconoscimento delle vie
della Russia quali realmente sono, invece di
chiacchierare sulla possibilità di altre vie, questi
populisti hanno con ciò stesso definitivamente
fissato il loro carattere piccolo borghese, perché
l’insistenza su meschine riforme piccolo
borghesi, dovuta all’incomprensione assoluta
della lotta di classe, li pone a fianco dei
liberali, contro coloro che si schierano dalla
parte degli antipodi, nei quali vedono, per così
dire, gli unici destinatari dei beni di cui si tratta
(in Opere complete, vol. 1, p. 371)».
«… mentre il gatto, di cui abbiamo parlato

190
ora, spolpa il pollastro guardando con la
tenerezza dell’animale sazio e tranquillo i
“sinceri babbei” che chiacchierano sulla
necessità di scegliere un’altra via per la patria,
sui danni dell’“incombente” capitalismo, sulle
misure per aiutare il popolo con il credito, con le
artel, con le coltivazioni collettive e con altre
simili innocue rattoppature (p. 372)».
«Qui si manifesta già in modo evidente la
superficialità della teoria populista, che, a causa
delle fantasticherie sulle “altre vie”, dà un
giudizio del tutto sbagliato della realtà (p. 373)».
«Essendosi creata un’utopia piccolo borghese
sull’obscina il populista arriva a ignorare la
realtà in modo così fantastico da vedere
addirittura la completa instaurazione
dell’ordinamento borghese nel progetto contro
l’obscina il quale è invece un semplice episodio
di politicantismo sul terreno del regime borghese
già completamente instaurato (p. 377)».
«… perché la scelta dimostra nel modo più
evidente che la “via” è già stata scelta, che il
dominio del capitale è un fatto che non si
può escludere con rimproveri e condanne, un
fatto col quale possono regolare i conti solo i
produttori diretti (p. 389)».
« E nondimeno tutte le organizzazioni
populiste sono sempre fondate sul presupposto
contrario: la forza non sta dalla parte della
borghesia, ma dalla parte del “popolo”. Il
populista chiacchiera di scelta della via (pur
riconoscendo il carattere capitalistico della via
reale), di socializzazione del lavoro (che è
affidato alla «gestione» della borghesia)… (p.

191
401)».
«… che quella realtà (la piccola produzione),
che i populisti vogliono innalzare a un livello
superiore evitando il capitalismo, contiene già il
capitalismo, con l’antagonismo delle classi e i
conflitti tra le classi ad esso inerente, non solo
nella sua forma peggiore, nella forma che
ostacola l’attività indipendente del produttore, e
che perciò i populisti, ignorando gli antagonismi
sociali già formatisi e fantasticando su altre vie
per la patria, sono utopisti reazionari, perché il
grande capitalismo non fa che sviluppare,
depurare e chiarire il contenuto di questi
antagonismi che in Russia esistono ovunque (p.
457)».
«E non vedono perciò che “difendendo” (a
parole s’intende e niente più) gli odierni
ordinamenti agricoli dall’“incombente” (?!)
capitalismo difendono solo le forme medioevali
del capitalismo dall’assalto delle sue forme più
moderne, puramente borghesi (p. 480)».
« Il carattere regressivo del populismo che
difende l’eguaglianza dei contadini (dinanzi al…
Kulak), consiste nel fatto che esso
vuole mantenere il capitale nelle sue forme
medioevali, in cui lo sfruttamento e la
produzione frazionata, tecnicamente arretrata si
uniscono all’oppressione del produttore (p.
501)»4.
«I filosofemi sulla possibilità di ‘altre vie per
la patria’ non sono che l’involucro del populismo.
In quanto al contenuto, invece, esso rappresenta
gl’interessi e il modo di vedere del piccolo
produttore, del piccolo borghese russo (p. 519)».

192
E si potrebbe continuare ad libitum… ma
forse è più utile ricordare semplicemente che
queste «chiacchiere sulla possibilità di altre vie»;
«essendosi creata un’utopia piccolo borghese
dell’obscina»; queste «fantasticherie sulle altre
vie» mentre «la via è già stata scelta»; questa
«chiacchiera di scelta della via», «fantasticando
su altre vie per la patria» che difende «solo le
forme medioevali del capitale»; insomma questi
«filosofemi sulla possibilità di altre vie per la
patria» il cui contenuto «rappresenta gli
interessi e il modo di vedere del piccolo
produttore, del piccolo borghese russo»; è bene
ribadire che tutto ciò altro non è che quel
patrimonio di dibattito teorico cui Marx stesso
non aveva disdegnato attingere per arrivare
infine a convincersi, evidentemente anch’egli
«utopista reazionario» che «La comune è il punto
di appoggio della rigenerazione sociale in
Russia».
Discorso appunto il medesimo dello stesso
anonimo e malcapitato populista che l’animoso e
giovanile V. I. Ulianov non solo prende di petto e
svillaneggia ma cita, per fortuna, testualmente: «
Il possesso fondiario popolare è il punto
strategico principale, la chiave di volta della
posizione contadina… La borghesia,
particolarmente quella delle campagne, da noi è
ancora debole, essa sta ancora nascendo—dice il
populista—perciò si può ancora lottare contro di
essa. L’indirizzo borghese è ancora molto debole,
perciò si può ancora tornare indietro. Si è ancora
in tempo (pp. 373, 381, 401-3, passim)».
«E nondimeno tutte le argomentazioni

193
populiste sono sempre fondate sul presupposto
contrario; la forza non sta dalla parte della
borghesia ma dalla parte del popolo». «Eccovi il
programma di questo populista dalle larghe
promesse… l’obscina deve essere garantita
una volta per sempre. Ma anche questo non è
ancora sufficiente; l’obscina non può sussistere
nelle attuali condizioni economiche e con
l’attuale pressione fiscale5, e perciò sono
necessarie misure dirette a estendere il possesso
fondiario contadino, a diminuire le imposte, a
organizzare l’industria popolare. Ecco i mezzi
contro i kulaki che tutta la stampa onesta deve
concordemente approvare e sostenere…». Il che
in definitiva non era altro che un tentativo, con
tutti i limiti che si vuole, di tradurre in
programma politico concreto quanto enunciato
dallo stesso Marx a proposito della comune
russa: «Tuttavia perché essa possa funzionare
come tale occorrerebbe prima eliminare le
influenze deleterie che l’assalgono da tutte le
parti, poi assicurarle condizioni organiche di
sviluppo».
Oggi appare evidente che era con queste e
«con altre simili rattoppature» che si sarebbe
potuto costruire un movimento rivoluzionario
nelle campagne, e rovesciare l’assolutismo
zarista e latifondista approfittando—come sarà
poi lo stesso tardo Lenin a recuperare—del
fatto che «la borghesia è ancora debole» e che
«la forza non sta dalla parte della borghesia ma
dalla parte del popolo».
Ma è indubbio che il programma del
«populista dalle larghe promesse» è qualcosa di

194
completamente al di fuori dello schema
ideologico già ben saldo del giovane Ulianov; per
cui non stupisce che egli commenti in modo del
tutto impietoso e spavaldo: «E il vostro
Kleinbürger versa lacrime e implora: ‘Si
prendano immediatamente misure dirette a
proteggere la campagna’. La concezione
superficiale piccolo borghese e la volontà di
concludere compromessi si rivelano con
piena evidenza. Lo stesso villaggio si presenta
come abbiamo visto come scisso e in lotta,
presenta un sistema di interessi opposti, ma il
populista vede la radice del male non in questo
stesso sistema, ma sulle sue parziali deficienze,
fonda il suo programma non sulla necessità
di dare un contributo ideologico alla lotta in
corso, ma sulla necessità di proteggere il
villaggio dai predoni occasionali, illegali che si
introducono dall’esterno! E chi, egregio signor
romantico, deve prendere le misure protettive?
(p. 403) ».
A parte che il nodo, come si è già detto e
come si ripeterà, è la solita forzatura nel dare
come del tutto generali e profonde le
differenziazioni sociali indotte dal capitalismo
nelle campagne (e una altrettanto solita
deformazione delle posizioni populiste,
perlomeno di quelle significative), ma l’appello di
fondare il programma sull’esclusivo contributo
ideologico da dare alla lotta in corso suona
addirittura illuministicamente derisorio se si
pensa alla concretezza di quella intollerabile
pressione fiscale e di quella oppressione…
Ed ecco come prosegue a pag. 519 travisando

195
e fraintendendo: «Si deve rigorosamente
distinguere il lato reazionario ed il lato
progressivo. Il populismo è reazionario in quanto
propone misure che incatenano il contadino alla
terra e ai vecchi modi di produzione,
quali l’inalienabilità del nadel6 ecc., in quanto
vuole frenare lo sviluppo della economia
monetaria, in quanto attende dalla società e
dall’azione dei rappresentanti della burocrazia
non dei miglioramenti parziali ma il
cambiamento della via (valga come esempio il
signor Jugiakov, che in Russkoje Bogastvo, n. 7
1894, ha dissertato sulle coltivazioni collettive
progettate da un presidente di zemstvo e si è
messo ad apportare correzioni a questi progetti).
Contro simili punti del programma populista è
certamente necessario condurre una guerra
senza quartiere. Ma vi sono anche altri punti
concernenti l’autonomia amministrativa, la
ampia e libera diffusione della cultura fra il
popolo, l’«ascesa» della azienda popolare (vale a
dire della piccola azienda) mediante crediti a
buon mercato, miglioramenti della tecnica,
regolamentazione dello smercio ecc. ecc.
Naturalmente anche il Signor Struve
riconosce pienamente che simili misure di
carattere democratico generale sono
progressive. Esse non freneranno, ma
affretteranno lo sviluppo economico della
Russia, sulla via capitalistica, affretteranno la
creazione del mercato interno, affretteranno lo
sviluppo della tecnica e dell’industria
meccanizzata, migliorando la situazione del
lavoratore ed elevando il livello dei suoi bisogni,

196
affretteranno e favoriranno la sua indipendenza
di pensiero e azione… I populisti interpretano e
rappresentano sotto questo aspetto in modo
incomparabilmente più giusto gli interessi dei
piccoli produttori e i marxisti devono, dopo aver
ripudiato tutti gli aspetti reazionari del loro
programma, non solo accogliere i punti di
carattere democratico generale, ma anche
attuare con maggiore precisione, profondità e
ampiezza».
Ci scusiamo per questa lunga citazione ma
essa chiarisce meglio di qualsiasi commento la
posizione complessiva del ventiquattrenne
neo Lenin nei confronti del populismo: di fronte
alla ricerca populista di uno specifico modello di
sviluppo non capitalistico che tenesse conto degli
interessi dei contadini e delle caratteristiche
originali della situazione agricola russa (e si
rifletta alla genialità di questa posizione che
nasceva da una lunga e travagliata tradizione di
pensiero critico, appassionatamente legata alla
realtà della Russia, la prima a porre l’enorme
problema di una via non capitalistica per
superare l’arretratezza economica e sociale!!), di
fronte, si diceva, a questa
complessa problematica con cui lo stesso Marx
aveva voluto fare i conti per recepirne
l’essenziale, di fronte a tutto ciò l’irruente Ilic,
non ancora Lenin è arrogantemente categorico:
da una parte «condurre una guerra senza
quartiere» contro tutte quelle posizioni che
obiettivamente tendevano a fare dell’obscina «il
punto di appoggio della rigenerazione sociale in
Russia» (e che i populisti sostanzialmente

197
articolavano in una serie di «obiettivi intermedi»:
estensione del possesso collettivo fondiario;
difesa e sviluppo delle organizzazioni
cooperativistiche e delle strutture di primitivo
autogoverno comunitario (mir); coltivazione
collettiva e con tecniche rinnovate; lotta
collettiva contro i gravami fiscali (verso cui
vigeva, nell’obscina, il principio della
responsabilità collettiva); organizzazione
dell’«industria popolare» integrata
all’agricoltura, sulla base dell’artel, ecc.) in
quanto esse rappresentavano il lato reazionario
del populismo; cioè la critica del capitalismo dal
punto di vista di una utopia piccolo borghese
volta al passato; l’idealizzazione di relazioni
economico-sociali precapitalistiche!!
Dall’altra parte invece i marxisti, dopo aver
ripudiato questi aspetti reazionari del
programma «dovevano non solo accogliere i
punti di carattere democratico generale ma
anche attuarli con maggiore precisione,
profondità, ampiezza».
Ma quali erano questi punti non reazionari ma
progressivi del programma populista? Lo
abbiamo visto più sopra; l’autonomia
amministrativa, l’ascesa della piccola azienda
mediante crediti a buon mercato, la libera e
ampia diffusione della cultura tra il popolo,
miglioramenti della tecnica, regolazione dello
smercio…!! E perché questi punti andavano
appoggiati? Il marxista Ulianov lo chiarisce
limpidamente: perché «essi non freneranno ma
affretteranno lo sviluppo economico della Russia
sulla Via capitalistica, affretteranno la creazione

198
del mercato interno, affretteranno lo sviluppo
della tecnica e dell’industria meccanizzata».
Vale a dire il giovane Lenin (e come avrebbe
potuto diversamente con la formazione teorica
che aveva avuto e che appassionatamente si era
dato) applicava in modo impeccabile e in qualche
modo creativo nella capacità di rapportarlo alla
situazione russa, il classico schema marxiano
engelsiano «pre Zasulic» della strategia
rivoluzionaria: la rivoluzione socialista doveva
essere preceduta dal pieno sviluppo del
capitalismo perché l’unica classe capace di
portarla a termine (l’unico legittimo soggetto
rivoluzionario) era il proletariato urbano. Nelle
campagne la lotta contro le sopravvivenze
feudali avrebbe portato alla formazione di una
borghesia rurale e di un proletariato agricolo che
a suo tempo avrebbe imparato dal proletariato
urbano «come si fa» la rivoluzione.



1
In realtà sembra che la «prefazione» dell’82
fosse in effetti del solo Engels.
2
Scrive per es. Walichi, op. cit., p. 144: «Un
fermento notevole a questo dibattito
(sull’industrializzazione capitalistica) fu
apportato dalla ‘comparsa, agli inizi degli anni
Novanta, del cosiddetto ‘marxismo legale’. Dopo
la pubblicazione del libro di Struve Osservazioni
critiche sul problema dello sviluppo economico
della Russia, 1894 (di cui appunto Il contenuto
economico del populismo e la sua critica nel libro

199
del signor Struve, 1894-5, sarà recensione
leniniana il ‘marxismo legale’ divenne una forte
corrente di pensiero, con i suoi periodici e i suoi
rappresentanti tra i professori d’università e di
altri organismi d’istruzione superiore (A.
Skvortsov, A. Chuprov, M. Tugan Baranovski e
altri). I molti libri che glorificavano il carattere
progressivo dell’industrializzazione
capitalistica e propugnavano la dissoluzione
della comunità contadina erano quasi tutti
opera di ‘marxisti legali’ (‘Il tratto più
caratteristico dell’economia politica
borghese russa degli anni novanta era
l’atteggiamento ‘entusiastico’ di molti economisti
borghesi verso il marxismo, un fenomeno senza
riscontro in altri paesi’. Pashkov, op. cit., pp. 77-
78). Per un intellettuale russo medio, (a meno
che non fosse direttamente legato al movimento
rivoluzionario) il marxismo in Russia iniziò con
Struve e non con Plekhanov».
3
Né si fa riferimento, in queste pagine, agli
altri due scritti importanti di Lenin nella sua
polemica antipopulista: A proposito della
questione dei mercati del 1893; e Le
caratteristiche del romanticismo economico del
1897.
4
A chiarezza su ciò è utile riferirsi a
un’interessante passo di Venturi, op. cit., pp.
xxiii, XXIV.
5
Si rifletta che Lenin scriveva ciò in piena
«era di Witle»: cioè nel cuore di quel primo
processo di «industrializza2Ìone forzata» (il
secondo sarà quello staliniano) per mezzo di una
pressione fiscale sui contadini talmente

200
irresponsabile che li porterà alle rivolte del
1902-1907 e che, nello stesso tempo, porterà al
forsennato squilibrio tra industria e agricoltura e
al fallimento di quella politica (si veda A.
Gerschenkron, op. cit., pp. 115-144; tra l’altro
l’autore può sottolineare a p. 127 che in quegli
anni «i contadini erano giunti al limite della
sopportazione», ma evidentemente Lenin non se
ne era accorto…).
6
L’appezzamento di terreno «riscattato» dal
contadino dopo la «riforma» del 1861 (mentre
l’otrezki era la parte rimasta al proprietario
fondiario).

201
Capitolo terzo

L’«ESEGESI» DEL TESTO NON È FINITA






Siamo dunque a quello che abbiamo definito
come il secondo aspetto negativo dello scritto
leniniano (Il contenuto economico del populismo)
che ci siamo proposti di leggere criticamente e
con l’indispensabile senno del poi: l’aspetto della
grande rigidezza dello schema marxiano pre
Zasulic: eccone perciò, a illustrazione, qualche
relativo brano: «…i nostri populisti sono incapaci
di capire come si può lottare contro il
capitalismo non “ostacolandone” lo sviluppo ma
affrettandolo, non spingendolo indietro ma
avanti, in modo non reazionario ma progressivo
(Opere complete, vol. I, p. 360)».
«Non è forse evidente che ci si deve rivolgere
là dove questo stesso rapporto sociale è
sviluppato sino in fondo, dove i membri di questo
rapporto sociale, che sono produttori diretti si
sono essi stessi già definitivamente
“differenziati” ed estraniati dagli ordinamenti
borghesi, dove l’opposizione è già così sviluppata
da essere evidente di per sé, dove non è possibile
nessuna equivoca chimerica impostazione del
problema? E quando i produttori diretti che si
trovano in queste condizioni progredite, saranno

202
differenziati dalla vita della società borghese
non solo di fatto ma anche nella loro coscienza,
allora anche i contadini lavoratori, posti in
condizioni arretrate e peggiori, vedranno ‘come
si fa questo e si avvicineranno ai loro compagni
di lavoro per conto altrui’. (p. 382)».
«Sì i marxisti ritengono che il grande
capitalismo è un fenomeno progressivo,
naturalmente non perché esso sostituisce la
dipendenza all’indipendenza, ma perché crea le
condizioni per sopprimere la dipendenza (p.
389)».
«Evidentemente l’autore (Struve)1 ha voluto
mettere a confronto due politiche che rimangono
sul terreno dei rapporti esistenti, e in questo
senso egli ha osservato del tutto giustamente che
è sensata la politica che sviluppa il capitalismo e
non quella che lo frena, sensata, naturalmente
non perché servendo la borghesia, le subordini
sempre più il produttore… ma perché inasprendo
e depurando i rapporti capitalistici essa illumina
l’intelletto di colui che è il solo dal quale dipende
il cambiamento e gli scioglie le mani (p. 517)».
«Se si pongono le stesse questioni applicando
la teoria dell’antagonismo di classe… allora le
risposte forniranno una definizione degli
interessi essenziali di determinate classi e queste
risposte saranno destinate ad essere utilizzate
praticamente appunto da queste sole classi
interessate… Certo per arrivare a questa
utilizzazione occorre un immenso lavoro
preparatorio, lavoro che per la sua stessa natura
è invisibile. Prima che si arrivi a questa
utilizzazione può trascorrere un periodo

203
di tempo più o meno lungo, nel corso del quale
diremo certamente che non esiste ancora
nessuna forza capace di aprire vie migliori per la
patria, in opposizione all’ottimismo sdolcinato
dei signori populisti i quali asseriscono che le
forze esistono e non rimane che consigliare loro
di abbandonare la via sbagliata (p. 522)».
Dunque l’applicazione leniniana dello schema
marxiano ante Zasulic è ferrea e costituita da
una sequenza rigida di proposizioni dogmatiche.
La rivoluzione socialista può essere fatta
soltanto dal proletariato urbano. Perché il
proletariato urbano si formi è necessario che il
capitalismo si sviluppi. I rivoluzionari debbono
perciò affrettare lo sviluppo capitalistico.
Quando il proletariato urbano avrà mostrato
«come si fa» la rivoluzione i «proletari agricoli»
(formatisi nel frattèmpo per lo sviluppo del
capitalismo anche nelle campagne) faranno la
loro, sotto la loro guida. Resta pertanto
paradossale che il Lenin all’inizio della sua vita
politica finisse per approvare del movimento
populista non solo come si è già visto soltanto gli
aspetti genericamente democraticistici
(che affrettavano lo sviluppo capitalistico) e
quelli pedagogico-illuministici («la libera e ampia
diffusione della cultura tra il popolo»), ma che
ponesse come alternativa al programma dei
«signori populisti» addirittura la passività
politica (ridotta si direbbe oggi a semplice lavoro
di «agitazione e propaganda», e illustrata dal già
riportato: «ma il populista… fonda il suo
programma non sulle necessità di dare un
contributo ideologico alla lotta in corso ma sulla

204
necessità di proteggere i villaggi…», e qui sopra
da: «l’immenso lavoro preparatorio, lavoro che
per sua stessa natura è invisibile»), fino a
dichiarare a tutte lettere: «prima che si arrivi a
questa utilizzazione (cioè del proletariato urbano
che faccia la rivoluzione) può trascorrere un
periodo di tempo più o meno lungo nel corso del
quale diremo apertamente che non esiste ancora
nessuna forza capace di aprire “vie migliori per
la patria” in opposizione all’ottimismo sdolcinato
dei signori populisti i quali asseriscono che le
forze esistono e non rimane che consigliare loro
di abbandonare la “via sbagliata”».
E questo neppure dieci anni prima della
immensa rivoluzione contadina (e operaia) del
1905-1907! Tanto che, visto che criticamente la
storia si fa con i se, se quell’immenso lavoro
preparatorio, sia invisibile che visibile, (e cioè
fatto di grandi lotte sociali come proponevano i
populisti) fosse stato svolto (magari con
l’abnegazione, la genialità tattica, la passione di
un Lenin), fra le masse contadine, non è
possibile dire quale esito diverso avrebbe avuto
l’esplosione rivoluzionaria di qualche anno più
tardi.
Sta di fatto che il modo di porsi del
giovanissimo Lenin di fronte al movimento
populista risente inevitabilmente di tutto un
clima culturale a monte e di un modo chiuso di
confrontarsi con le altre correnti rivoluzionarie
che risaliva certo mediatamente all’aspra
polemica di Marx contro Bakunin.
Per cui invece del confronto obiettivo e della
capacità di saper cogliere, senza aprioristici

205
schemi ideologici quanto veniva espresso di
autenticamente rivoluzionario dalla realtà sociale
russa, si privilegiava soltanto la tendenza a
sacrificare alla supremazia del proprio
statuto ideologico la possibilità d’integrazione
teorica, di unità politica e di azione.
Eppure tale esigenza era viva anche nei primi
circoli marxisti russi di quegli anni e per esempio
Fedosseiev, promotore tra gli altri del circolo di
Kokluskino a Kazan (cui forse Lenin aveva
aderito) e praticamente (assieme a Plekhanov)
primo suo maestro si prefiggeva, in quanto
marxista, di far propria l’eredità teorico-
rivoluzionaria del movimento populista (e
deportato in Siberia nel ’98, accusato da alcuni
compagni di pena populisti di essere come
marxista sostenitore degli interessi di classe
della borghesia, finirà, nello scoramento, col
suicidarsi2).
È indubbio, in sostanza, che pur in una
cornice teorica spesso carente e attraverso
immaturità, errori e ingenuità3, il pensiero
populista, che certamente rispecchiava le
difficoltà di elaborazione e di percorrimento di
una via al socialismo per la prima volta in un
paese arretrato4, pur nel contesto di una
multiforme diversificazione di posizioni, nel
complesso rappresentava il tentativo di
innescare una strategia di mobilitazione delle
masse contadine. E la ricerca accanita di un
supporto teorico che le riconoscesse come
potenziale soggetto rivoluzionario e patentate
protagoniste di un processo emancipativo che le
predisponesse, partendo dalla concreta e

206
generale situazione di asservimento, a sentirsi e
a rendersi tali.
Siamo perciò al terzo di quei limiti che
abbiamo indicato come i più vistosi di una lettura
il più possibile «deideologizzata» dello scritto di
Lenin (sempre «Il contenuto economico del
populismo»): la riduzione meccanicistica del
rapporto tra struttura economica e
sovrastruttura, tra collocazione nel processo
produttivo e ideologia.
Vediamo in proposito qualche passo.
Lenin—Opere Complete—vol. 1° pag. 363:
«Per questo sono del tutto inadeguati i più
innocenti desideri circa le “vie più vicine”, per
questo è necessario “la ridistribuzione
della forza sociale fra le classi”, per questo è
necessario divenire l’ideologo non del produttore
diretto, che se ne sta in disparte, lontano dalla
lotta, ma di colui che sta dove la lotta è più
accesa che si è già definitivamente “differenziato
dalla vita” della società borghese. Questa è
l’unica e perciò più vicina “via verso la felicità
umana” …».
«Perché mai… voi non voltate le spalle come a
filosofi borghesi, a coloro che sono capaci di
parlare di “reciproco adattamento sociale”, di
“comunitarismo del popolo”, di “bisogni
dell’industria popolare” e di altre cose di questo
genere? La risposta è una sola: perché voi siete
un ideologo della piccola borghesia, perché le
vostre idee, vale a dire le idee populiste in
generale e non le idee di Tizio, Caio e
Sempronio, riflettono in ultima analisi gli

207
interessi e la mentalità del piccolo produttore (p.
370)».
«…non si può vedere il rappresentante
dell’idea del lavoro nel contadino perché esso,
essendo nell’organizzazione capitalistica
dell’economia un piccolo borghese, si pone
perciò stesso sul terreno degli ordinamenti
esistenti e quindi si avvicina per alcuni aspetti
della sua vita (e delle sue idee) alla borghesia (p.
378)».
«Ma l’essenza del populismo sta in qualcosa
di più profondo: non nella dottrina
dell’originalità e nemmeno nello slavofilismo, ma
nel farsi portavoce degli interessi e delle idee del
piccolo produttore russo (p. 415)».
«È precisamente questa circostanza
fondamentale—la protesta contro il capitalismo
sul terreno degli stessi rapporti capitalistici—che
fa dei populisti gl’ideologi della piccola
borghesia, la quale paventa non il regime
borghese ma soltanto il suo inasprimento, unico
fattore che conduce a un cambiamento radicale
(p. 509)».
Dunque anche qui il semplicistico schema che
meccanicamente fa corrispondere a una ipotetica
collocazione nel rapporto di produzione una
irrevocabile forma coscienziale al di fuori di ogni
considerazione sulla globalità del rapporto
sociale, sulla specificità di quella stessa
collocazione; e soprattutto sulla possibilità da
parte di una ideologia attivamente formata, di
attivamente trasformare quella stessa
collocazione in elemento fondante di un
«cambiamento radicale».

208
Insomma i soliti schemi: il contadino è un
piccolo borghese, il populismo vuol fare dei
contadini i protagonisti di una cosiddetta via
russa al socialismo, il populismo è dunque la
ideologia della piccola borghesia ed è
un’ideologia reazionaria.
Questo a prescindere dalla concreta
situazione di totale asservimento del «piccolo
produttore russo» nell’ambito della struttura
agraria delle campagne dominata dal latifondo
signorile e organizzata sulla base dell’obscina e a
prescindere dalle concrete potenzialità
rivoluzionarie di quella collocazione che non lo
configurava come «piccolo borghese» ma come
contadino produttore—servo della gleba—, se
non è il mercato a rivelare le connotazioni «di
classe» delle figure sociali ma il rapporto di
produzione… (si veda riguardo a ciò quanto
scriveva in quegli anni il populista legale
Vorontsov…).
Resta chiaro allora come da una impostazione
teorica di questo tipo rimanesse fuori
inesorabilmente il nucleo dei problemi che il
populismo aveva affrontato: Quale poteva essere
la strategia di avanzata al socialismo in un paese
a base agricola 90% ? Su quali elementi della
condizione contadina far leva per muovere le
campagne in direzione del socialismo5?
In conclusione potrebbe dirsi che forse questo
è il punto di maggiore rigidità ideologica di
Lenin, anche se è bene dirlo a chiarissime lettere
egli non arriverà mai alla cosiddetta ortodossia
marxista dei menscevichi6 e della seconda
internazionale che in sostanza vedevano

209
il contadino tout court come «massa reazionaria»
o al più da neutralizzare, ma anzi arriverà,
purtroppo solo nel 1917, a formulazioni di
tipo populista.
Ai «produttori diretti» contadini dunque non
viene riconosciuta nessuna possibilità di divenire
protagonisti del processo rivoluzionario se non
quando, proletarizzati, «vedranno come si fa
questo» e si avvicineranno ai loro compagni di
lavoro «per conto altrui»!
Vale a dire «non si può vedere il
rappresentante dell’idea del lavoro nel
contadino, ecc. ecc.». E ancora Lenin:
«… (i populisti) dietro la forma del possesso
fondiario delle singole obscine non vedono
l’organizzazione economica di tutta
l’economia sociale russa. Questa organizzazione,
trasformando il contadino in produttore di merci,
ne fa un piccolo borghese, un piccolo
imprenditore isolato che lavora per il mercato; in
virtù di questo, essa esclude la possibilità di
volgersi indietro per cercare le “garanzie
dell’avvenire” e costringe a cercare avanti non
già nella campagna… ma nello strato pienamente
sviluppato, “nuova classe media” fino alle
midolla, che si è completamente emancipata
dalle delizie della vecchia nobiltà, ha socializzato
il lavoro, ha condotto a compimento e ha messo
in chiaro il contrasto sociale, che nelle campagne
si trova ancora allo stato embrionale, soffocato
(p. 347)».
Come se il piccolo borghese, il piccolo
imprenditore isolato che lavora per il mercato
non rappresentasse il 90% della popolazione

210
russa, non fosse un «lavoratore produttore» e
non si trovasse collocato, subendo le molte forme
del dominio semi-feudale, in un rapporto
di produzione di assoluto asservimento che tutto
faceva capo, tuttavia, alla grande proprietà
signorile e statale. Come se fosse il mercato a
determinare la natura «borghese» dei rapporti di
produzione! E come se fosse il mercato a poter
determinare la natura «borghese» del contadino
produttore! O come se potesse esserlo il
rapporto giuridico di proprietà e non la
collocazione «di classe» nel rapporto di
produzione!
In sostanza l’insufficienza di fertili terre
coltivabili nell’obscina subordinava del tutto le
famiglie contadine alla grande proprietà
signorile sia attraverso le prestazioni lavorative
dei membri della famiglia nelle terre del
latifondo sia attraverso l’otrabotka (che era il
lavoro obbligatorio per il proprietario fondiario
dopo l’abolizione della servitù della gleba e
poteva essere convertito nel versamento di una
parte dei prodotti della terra o assumere la
forma di prestazione gratuita come riscatto
per la terra ricevuta dalla riforma, per gli usi
civici, diritti di pascolo, di raccolta legna ecc.);
sia attraverso il pagamento di esosi affitti per
appezzamenti di terreno o per l’uso degli ostreki
sottratti alle comunità rurali nel 1861. Per cui
nonostante l’abolizione del servaggio
l’oppressione e lo sfruttamento della esorbitante
mano d’opera contadina che quasi non aveva un
prezzo, erano intatti come di conseguenza era
intatto l’assoluto predominio economico e sociale

211
del grande proprietario.
D’altra parte la fame di terra, l’aumento
incessante del suo prezzo e dei canoni d’affitto a
causa della crescita demografica, incalzava il
contadino a subire condizioni sempre più
oppressive e onerose in un vero circolo chiuso di
disperazione. Per cui la salvezza e l’unico modo
dell’affrancamento non poteva essere altro che la
rivoluzione agraria da parte del contadino
produttore.
E una rivoluzione agraria, naturalmente, che
tenesse conto della specificità
dell’organizzazione dominante nelle campagne e
che dunque rivendicasse le terre all’obscina e
tendesse non soltanto all’estensione del possesso
comune ma alla coltivazione in comune e al
rafforzamento di tutte le forme di associazione,
di cooperazione, di autogoverno e di «industria
popolare», nonché alla esaltazione del mondo
culturale contadino (e dei suoi elementi
socialistici, anti-individualistici e non
conservatori) in cui tutti i contadini, anche i
kulaki, si identificavano.
Cioè c’è in Lenin in questo come negli altri
suoi primi scritti la circostanziata analisi di
prima mano di come certi rapporti di tipo
prefeudale tipo obscina, artel ecc. fossero ormai
avvolti in rapporti di tipo mercantilistico e di
come alcune forme elementari di capitalismo
stessero nascendo nelle campagne russe (il
capitalismo c’è già—ripete in modo quasi
ossessivo contro le aprioristiche negazioni dei
populisti).
Quello che sembra sfuggirgli, a causa di una

212
ideologica, assoluta sopravvalutazione7 degli
elementi di capitalismo già presenti nelle
campagne (il capitalismo non solo c’è già ma è
predominante e non è possibile «saltarlo») che in
una situazione di transizione in cui esistevano
e coesistevano diversi tipi di rapporti di
produzione e sociali (tra cui quelli capitalistici
venivano cominciando) era possibile far leva
sulla condizione di tremenda subordinazione e
miseria del contadino russo, sulla tradizione
antiindividualista, sulla sua collocazione di
contadino produttore-servo della gleba, e su
certe istituzioni di tipo primitivamente
comunitario perché proprio questo loro mondo di
primordiale comunitarismo e autogoverno,
assieme alla loro collocazione di «classe», si
prestava a servire come punto di forza per una
strategia di lotta che coinvolgesse il contadino
non solo individualmente ma solidaristicamente,
contro la grande proprietà nobiliare e
l’autocrazia, verso forme gradualmente superiori
di socialismo.
Resta chiaro dunque come il giovane Lenin,
sulla scia del «maestro» Plekhanov e di Struve,
tenti in ogni modo di privilegiare il
contrasto nascente e del tutto marginale, tra
proletariato agricolo e borghesia rurale e su
questo poggi le sue speranze di futura
rivoluzione socialista nelle campagne; mentre
tralasci di accorgersi della robusta trave
nell’occhio che già esisteva ed era dolorosissima
e peculiare della società russa: l’irriducibile
contrasto di classe tra la massa contadina e i
grandi latifondisti. Questa era la contraddizione

213
principale nel villaggio russo e non quella (del
tutto agli inizi e non generalizzata e recuperabile
se l’obscina si rafforzava) tra borghesia
contadina e proletariato rurale!
Purtroppo, non volendosi accorgere di ciò, gli
era inesorabilmente preclusa la visione
dell’autentico carattere dei rapporti di classe
nelle campagne e di una adeguata strategia di
mobilitazione delle masse contadine.
Del resto altri esempi di rigidità ideologica
non mancano nel panfhlet e per quanto riguarda
il punto 4) e la visione per certi aspetti
deterministica del processo storico si possono
riportare alcuni passi ad hoc (pp. 365, 405, 459):
«… il marxista nel condurre la
discussione teorica si limita a dimostrare la
necessità e l’inevitabilità (data l’organizzazione
odierna dell’economia sociale) di questa
borghesia». «Perciò quando il marxista parla
della necessità, dell’inevitabilità, del carattere
progressivo del capitalismo russo egli muove da
fatti universalmente accettati».
« Le citazioni riportate dall’autore mostrano
che in occidente tutti, persino i borghesi, vedono
che il passaggio dal capitalismo a una
nuova formazione economico sociale è
inevitabile»8.
Per quanto riguarda poi il punto 5 e la
tendenza di Lenin alla forzatura e alla
deformazione nella polemica basterebbe
rileggere in questo spirito le citazioni che
abbiamo fatto senza selezionare le
numerosissime altre.

214




1 Si legga il «commento» di A. Walichi, op.
cit., pp. 146-7 alle Osservazioni critiche di
Struve: «Le Osservazioni critiche di Struve
contenevano una critica della dottrina populista
e una trattazione apologetica
dell’industrializzazione capitalistica della
Russia».
2
E. Wilson, op. cit., pp. 248 e sgg.. E si
legga A. Walichi, op. cit., pp. 150-3: «Dobbiamo
ricordare che a quell’epoca non solo Plekhanov e
i ‘marxisti legali’ russi consideravano i contadini
una ‘massa reazionaria omogenea’ ed erano
pronti a sacrificarli sull’altare del progresso
industriale: il programma di Erfurt della
socialdemocrazia tedesca riconosceva che la
rovina dei piccoli produttori indipendenti era una
‘necessità’ materiale dello sviluppo economico
(cfr., D. Mitrani, Marx e la questione contadina,
Firenze 1954). Tutti questi fattori contribuirono
all’emergere di un atteggiamento caratteristico
tra gl’intellettuali populisti russi: ogni marxista
russo fu sospettato di essere un sostenitore
dell’espropriazione dei contadini o anche di
favorire gli interessi della nascente borghesia,
ogni conversione individuale al marxismo era
considerata un completo tradimento delle
tradizioni progressiste della Russia… i marxisti
rivoluzionari furono, almeno all’inizio,
molto sensibili a tali accuse. Lo dimostra

215
efficacemente il caso di N. Fedosseiev, (1871-
1898) fondatore di diversi circoli marxisti nella
regione del Volga. I membri di questi circoli non
si consideravano avversari del populismo, al
contrario desideravano continuare e adattare
alla nuova situazione le tradizioni sempre vive
del Populismo rivoluzionario e anche far propria
l’eredità progressiva rappresentata dal pensiero
populista…
Nel 1898 (Fedosseiev) deportato ai lavori
forzati si suicidò. Una delle ragioni principali che
lo spinse a ciò fu l’abbattimento morale
determinato dal fatto che fra i suoi compagni di
sventura vi erano alcuni che, a causa delle sue
concezioni marxiste, lo consideravano un
sostenitore degli interessi di classe della
borghesia. Lenin che aveva iniziato la sua
carriera rivoluzionaria in uno dei circoli di
Fedosseiev, rimase profondamente colpito da
questa tragedia (Vedi B. Volin, Introduzione a
Fedosseiev, cit., pp. 24-8)». Del resto sarà lo
stesso Plekhanov a riconoscere: «La peculiarità
della nostra storia recente è consistita nel fatto
che anche l’europeizzazione della nostra
borghesia si è venuta compiendo sotto
le bandiere del marxismo». (Plekhanov,
Socinenia, vol. xxiv, p. 181, Mosca 1956).
3
Si legga Paul Sweezy nella Introduzione a
L’accumulazione del capitale di Rosa
Luxemburg, p. xxix: «Lenin respinse fermamente
la tesi dell’impossibilità —che è precisamente
quella che gli scrittori narodniki sostenevano—e
nello stesso tempo, con pari fermezza, ne ripudiò
l’opposta, la tesi della possibilità di una illimitata

216
espansione capitalistica. Il conflitto fra
accumulazione e consumo, sosteneva Lenin, è
una delle maggiori contraddizioni del
capitalismo, ma non costituisce prova
dell’impossibilità del capitalismo, come i
narodniki pensavano».
4
È noto che furono soprattutto i populisti
degli anni ’70 a introdurre il «marxismo» in
Russia. «Un esempio istruttivo dell’influenza del
Capitale sul pensiero populista—scrive A.
Walichi, op. cit., pp. 119-120—venne fornito da
due articoli dei primi anni 70 (entrambi del
1872). Uno di questi… era il saggio di Eliseev
intitolato La plutocrazia e la sua base sociale
(ristampato da Karataev, op. cit., pp. 125-59).
Questo articolo ci dimostra che l’idea populista
dello sviluppo capitalistico fu formata
interamente e completamente da Marx…
Tuttavia è chiaramente comprensibile che a
dispetto del loro grande debito verso Marx era
molto difficile per i populisti dichiararsi
marxisti… Per loro il principale ostacolo era
costituito dal determinismo e dall’evoluzionismo
naturalistico marxiani, secondo la formulazione
datane dalla prefazione alla prima edizione
tedesca del Capitale. Le posizioni di Marx
implicavano che il tormentoso processo dello
sviluppo capitalistico non poteva essere evitato
dalla Russia… I rivoluzionari di ‘Terra e Libertà’
non potevano accettarla (quella soluzione), ma il
rifiuto di queste posizioni non giunse mai ad un
ripudio completo del marxismo. Tutti
loro avevano un profondo rispetto di Marx e
furono profondamente turbati quando la sua

217
autorità cominciò ad essere rivendicata dai
liberali russi a sostegno della tesi secondo cui la
Russia non era ancora matura per la
trasformazione socialista. Essi tentarono
d’interpretare Marx secondo la loro prospettiva e
d’imparare da Marx il più possibile».
5
Scrive Venturi, op. cit., p. XLIX: «Come
stupirsi che prima dell’industrializzazione,
nascesse e s’affermasse un movimento per
sostenere non soltanto che il triangolo russo
andava spezzato, ma che per far questo
bisognava appoggiarsi sull’obscina contadina,
eliminando i signori e magari, esitando sulla
funzione che in questo processo avrebbe potuto
avere lo stato, volendo alcuni tra i
rivoluzionari la sua distruzione ed altri la sua
trasformazione ed utilizzazione?».
6
La insuperata contraddizione dei
menscevichi sarà sempre quella che scaturiva tra
le loro posizioni teoriche, ortodossamente
marxiste, e il loro legame con le masse che li
rendeva portavoce di posizioni correttamente
rivoluzionarie (in particolare si veda la vita
politica di Martov).
7
Si legga quanto scrive A. Walichi, op. cìt.,
pp. 153-4 a proposito de Il contenuto economico
del populismo di Lenin: «Secondo Lenin il
capitalismo in Russia non rappresentava,
diversamente da quanto credevano sia Struve
che Plekhanov, il sistema sociale del futuro,
qualora si fosse veramente sviluppato solo
dopo il rovesciamento dell’autocrazia russa, a
suo avviso il capitalismo era il sistema sociale
vigente ‘qualcosa di attuale, già del tutto e

218
definitivamente formato’ (Lenin, Opere
Complete, vol. I, p. 344). La conclusione era
ovvia: se il capitalismo russo aveva già raggiunto
la maturità non vi era alcun bisogno di
un’alleanza tra socialdemocratici e liberali, a cui
tenevano tanto sia Struve che Plekhanov».
8
Si rifletta a come al contrario, Herzen, nel
1848, quasi mezzo secolo prima, si fosse già
sottratto a ogni influenza hegeliana e
deterministica: e sul futuro socialista della
comune potesse per esempio scrivere: «non
credo che sia obbligatorio ma possibile, nulla è
necessario ineluttabilmente» (La Russia: a G.H.
Lemke, VIII, 38). Martin Malia, nel suo Alle
origini del Socialismo russo a p. 543 fa a
riguardo alcune considerazioni pertinenti: «Sullo
stesso altare degli altri idoli passati anche il mito
della Marcia della Storia venne ora sacrificato da
Herzen, perché credere nell’inevitabilità del
progresso, in una sorta di logica organica dello
sviluppo storico, equivaleva a subordinare
l’individuo alla legge ‘obiettiva’; era in sostanza
un ‘astratto’ sacrificio della vita presente a un
futuro immaginario. Il rifiuto della ‘schiavitù’ del
futuro portava Herzen a dare maggior
importanza alla ‘filosofia del momento presente’
ecc.».

219
Capitolo quarto

ALTRI SCRITTI E PROVVISORIA


CONCLUSIONE






Per terminare il rapido esame degli scritti di
Lenin nella sua intransigente polemica coi
populisti faremo soltanto un breve cenno al Che
cosa sono gli amici del popolo del ’94 e allo
Sviluppo capitalistico in Russia del ’99 anche se
riportare una serie di sintomatici passi di questi
due saggi rafforzerebbe quantitativamente le
considerazioni fin qui fatte, ma nello stesso
tempo si finirebbe col distorcere il senso di
questo studio (che non è quello della esegesi dei
testi di Lenin) e di appesantirne la struttura.
Tanto più che la tematica di fondo delle due
opere è sempre la stessa: nel Che cosa sono gli
amici del popolo l’attenzione viene polarizzata
soprattutto sulla struttura borghese della società
russa e ne Lo sviluppo del capitalismo in Russia
si presta più attenzione ai residui feudali e alla
formazione del mercato interno1.
Nel primo i temi sono quelli cari allo schema
teorico leniniano e più o meno gli stessi de Il
contenuto economico del populismo; «riforma
borghese» è stata l’abolizione del servaggio;
nell’economia artigianale in cui i populisti

220
vedevano gli elementi di una possibile
«produzione popolare» o «industria popolare»
sulla base delle Artel già si affermano i segni del
nuovo modo di produzione (lavoro a
domicilio, differenziazioni sociali che si
approfondiscono ecc. ecc.): la comune rurale si
disgrega e la popolazione agricola si differenzia
in proletariato e borghesia; la stessa autocrazia
zarista «non è altro che l’organo di dominio di
quella borghesia»; «l’organizzazione borghese
della società (che) divide la massa del popolo in
proletariato e borghesia» e infine «In Russia la
lotta tra ricchi e poveri si svolge dappertutto,
non solo nelle fabbriche e nelle officine ma
anche nel più sperduto villaggio e dappertutto
questa lotta è una lotta tra borghesia e
proletariato». E così via.
Ne Lo sviluppo del capitalismo in Russia
vengono invece puntualizzati (attraverso
l’enorme mole dei dati raccolti, di documenti e
statistiche): il processo di disgregazione agricola
che è rallentato da diversi fattori; il ritardo nella
scomparsa del ceto intermedio dei contadini; la
promiscuità nella conduzione delle grandi
proprietà fondiarie o con metodi tradizionali e
semifeudali o in senso capitalistico oppure
coesistenti; lo sviluppo del capitalismo
nonostante la presenza di fattori ritardanti e così
via2. E la conclusione era la solita: i residui
feudali rallentando lo sviluppo capitalistico
andavano distrutti. Il partito socialdemocratico
doveva appoggiare la lotta della piccola
borghesia contadina contro i residui feudali così
che col capitalismo si sviluppasse nelle

221
campagne il contrasto di classe tra borghesia e
proletariato. Ma forse i due passi più interessanti
dei due scritti (almeno nel contesto del discorso
che si sta facendo) sono quelli contenuti
nell’opuscolo del ’94 3.
Intanto un rapido cenno alla «completa
espropriazione della grande proprietà fondiaria,
baluardo delle istituzioni delle tradizioni
feudali» che non viene in alcun modo
approfondito ma anzi scompare del tutto di
fronte alla preminenza assoluta data al contrasto
borghesia-proletariato e che quindi rimane
sospeso nell’aria, forse come una
possibile estrema rivendicazione ma non come
una reale concreta parola d’ordine di un
programma socialdemocratico4.
Prima di passare all’altro passo interessante
bisogna premettere alcune brevi notizie: Engels
nel 1884 trasmise al Plekhanov della
Emancipazione del Lavoro una lettera di Marx
inviata nel 1877 alla populista Otecestvennye
Zapiski che commentava l’articolo di
Michajlovskij : «Karl Marx davanti al tribunale
del Sig. Zukovskij». Plekhanov non pubblicò la
lettera (probabilmente per gli stessi motivi per
cui non aveva pubblicato quella di Marx alla
Zasulic, cioè perché non corrispondeva al suo
pensiero) ma essa apparve ugualmente sulla
rivista ili Ginevra, anch’essa populista Vestnik
Narodnoj Volij nel 1886 e poco dopo nel 1888 in
Russia5.
In questa lettera Marx scriveva:
«Michajlovskij,… sente l’irresistibile bisogno di
metamorfosare il mio schizzo della genesi del

222
capitalismo in Europa occidentale in una teoria
storico-filosofica della marcia generale
fatalmente imposta a tutti i popoli in qualunque
situazione storica essi si trovino, per giungere
infine alla forma economica c he, con la
maggiore somma di potere produttivo del lavoro
sociale, assicura il più integrale sviluppo
dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è insieme
farmi troppo onore e troppo torto».
Di conseguenza Marx non riteneva
contrariamente a Michajlovskij che Il Capitale
fosse ostacolo alla ricerca dei populisti di una via
di sviluppo diversa e «superiore» a quella
dell’occidente: «per poter giudicare con
conoscenza di causa gli sviluppi economici della
Russia contemporanea ne ho imparato la lingua
e quindi studiato per anni e anni le pubblicazioni,
ufficiali e non, riguardanti questo soggetto.
E sono giunto alla conclusione che segue: se la
Russia continua a battere il sentiero sul quale
dal 1861 ha camminato, perderà la più bella
occasione che la storia abbia mai offerto a un
popolo e subirà tutte le peripezie del regime
capitalistico».
In primo luogo c’è da dire che qui c’è la più
convincente e definitiva riprova di come Marx
vedesse svincolato dalla vittoria socialista in
occidente, contrariamente a Engels, (e a tutta la
successiva tradizione bolscevica e trockista) il
problema della possibilità in Russia di uno
sviluppo non capitalistico verso il socialismo.
L’occasione doveva essere colta subito (perché
era «la più bella occasione che mai si
fosse presentata a un popolo»!!) e non

223
condizionatamente all’affermazione del
6
socialismo nei paesi in occidente ! E in secondo
luogo è da notare come il tardo Marx avesse
risolto e superato in modo irrefutabile
una concezione evoluzionistica ed unilineare
della storia! Ma torniamo alla sua lettera: è del
tutto naturale che gli scrittori populisti la
giudicassero come un’importante conferma della
loro convinzione sulla possibilità di evitare in
Russia la fase capitalistica.
E vediamo invece come il ventiquattrenne
Uljanov respingesse faziosamente e con vera
arroganza questa interpretazione:
«Il signor Krivenko, per esempio, scrive che
Marx ammetteva per noi la possibilità, se lo
desideravamo (?!! Sicché secondo Marx a questo
punto si riducevano in sostanza tutti i vecchi
programmi dei nostri rivoluzionari cominciando
dai Bakuninisti e dai ribelli, passando per
i populisti e finendo ai seguaci della Narodnaja
Volja i quali erano anche più o meno convinti che
i contadini avrebbero mandato una grandissima
maggioranza socialista al futuro Zemskij Sobor.
Lo sviluppo dei rapporti economici sociali
dipende dalla volontà e dalla coscienza degli
uomini?? Che cos’è questo? ignoranza smisurata
o inaudita impudenza?!—nota asteriscata di
Lenin nel testo) e a condizione di agire in
conseguenza, di evitare le peripezie
capitalistiche e di marciare per un’altra strada,
più rispondente allo scopo! (sic) (Opere
Complete, vol. I, p. 267)» 7.
E più avanti: «…e Marx dice che “se* in
Russia si manifesta tale tendenza (cioè “se la

224
Russia tende a diventare una nazione
capitalistica sul modello delle nazioni
dell’Europa occidentale”) buona parte
dei contadini si trasformeranno in proletari». Dal
che si evinceva induttivamente, visto che in
Russia (secondo Lenin) il capitalismo si stava
già affermando, che Marx fosse della sua
opinione!! Questo naturalmente se si ometteva di
riportare il passo già prima citato ma che
conviene ritrascrivere a dimostrazione che
quandoque dormitat Homerus o meglio che
qualche volta il giovane Ulianov dormicchiava…
e i suoi sarcasmi sulla possibilità di modificare
attraverso la volontà degli uomini i rapporti
economico-sociali sono di un determinismo
economicistico che ha dell’incredibile in bocca al
futuro Lenin!
Dunque è bene ribadirlo Marx a chiusura
della lettera aveva inequivocabilmente detto:
«per poter giudicare con conoscenza di causa gli
sviluppi economici nella Russia contemporanea
ne ho imparato la lingua e quindi studiato per
anni ed anni le pubblicazioni, ufficiali e
non, riguardanti questo soggetto. E sono giunto
alla conclusione che segue: se la Russia continua
a battere il sentiero sul quale dal 1861 ha
camminato perderà la più bella occasione che la
storia abbia mai offerto a un popolo e subirà
tutte le peripezie del regime capitalistico».
Il che, è inutile ripeterlo, significa proprio
quanto i populisti avevano capito e anche detto
da anni. Se cioè la Russia continuava a
percorrere la via che poteva portarla al
capitalismo e che aveva imboccato dal ’61,

225
avrebbe finito (se non cambiava questa strada
attraverso l’azione di un movimento
rivoluzionario) col subire «tutte le peripezie
del regime capitalistico» e non avrebbe colto la
più bella occasione ecc. Vale a dire questa
occasione quando Marx scriveva nel 77 e poi
nell’81 alla Zasulic era ancora da cogliere e non
era certo una scadenza che potesse decadere da
un anno all’altro!! Non esisteva
l’inderogabilità di una fase capitalistica da
scontare fatalisticamente o attivamente (come
proponeva Lenin).
Il che significa che travisare nella foga
polemica il pensiero degli avversari populisti può
essere anche un segno di giovanile
esuberanza ma travisare addirittura il pensiero
di Marx rischiava di essere eccessivo e «foriero
di lutti…»
Infatti l’occasione storica, (quella del 1905-7)
la più bella ecc. non fu colta! E come poteva
esserlo del resto se il più grosso rivoluzionario di
tutti i tempi si sarebbe mosso e proprio a causa
di quel travisamento, in una direzione strategica
del tutto diversa? (e che solo a causa delle sue
doti eccezionali avrebbe dato i suoi travagliati
frutti a 40 anni dallo scritto di Marx e dalla
preconizzata sua «occasione»?!).
A questo punto è forse inutile riproporsi la
domanda che ci eravamo posti all’inizio di questo
lavoro. Se Lenin avesse conosciuto allora le
quattro bozze di lettera di Marx alla Zasulic
avrebbe modificato la sua posizione?
Ormai è forse lecito dubitarne: praticamente
avrebbe dovuto o ritrattare quasi tutta la sua

226
aspra polemica contro i populisti ed egli era
ormai del tutto imbevuto della impostazione
teorica Marx-Plekhanoviana e del tardo Engels e
di quella stessa compatta atmosfera
culturale che promanava dalla socialdemocrazia
tedesca, per poter non considerare quella lettera
(anche se gli fosse stata rivelata da Plekhanov
stesso o dalla Zasulic o da Axerold) non altro che
una vegliarda sopravvalutazione marxiana dei
destini della comune sulla scia delle
«chiacchiere» populiste8.
Perciò dunque la beffa storica della loro non
pubblicazione fino al ’24 forse non esiste. Ma
non si può escludere a priori che la rivoluzione
avrebbe avuto nel 1905 un esito diverso (e non
nel ’17) se Lenin e il movimento dei marxisti
russi fossero stati in grado d’integrare e non
rifiutare il populismo9.
Sta di fatto tuttavia (e ciò sarà l’oggetto
dell’ultima parte di questo scritto) che il
bolscevismo non riuscirà mai a darsi
un’adeguata strategia di mobilitazione dei
contadini fino al 1917. E anche in seguito.



1
C. Cicerchia nel suo Leninismo e rivoluzione
socialista, Bari 1970, così si esprime a proposito
di questo lavoro di Lenin (pp. 88-9): «Da ciò
consegue anche, come logica conclusione
dell’opera esaminata, l’attribuzione al
capitalismo di una missione storica: quella cioè
di liberare la società da ogni remora al

227
progresso della tecnica, facendo maturare la
contraddizione tra sviluppo delle forze
produttive (socializzazione della produzione) e
rapporti sociali (forma privata
dell’appropriazione); dalla quale contraddizione,
una volta che essa sia
compiutamente dispiegata, e solo allora,
sgorgherà un’obbiettiva necessità di passaggio al
socialismo… Stando alla seconda implicazione, di
ordine teorico pratico, la grande
proprietà terriera non verrebbe vista come base
tecnica suscettibile di immediata socializzazione
(e il proletariato agricolo come forza
rivoluzionaria socialista) ma quale residuo
riducibile a società mercantile, premessa allo
sviluppo da cui deriverà la base effettiva della
successiva socializzazione. Di qui la riduzione
delle classi in agricoltura (a parte il proletariato,
figlio della selezione della società mercantile) a
contadiname o a strati storicamente arretrati da
unire al fronte rivoluzionario sulla base di una
piattaforma democratico-borghese ecc.».
Jacques Camatte (Comunità e comunismo in
Russia, Milano 1974, p. 57) così commenta i
sopracitati scritti di Lenin contro il populismo:
«Ma per tornare alla polemica con i populisti,
Lenin considera soltanto la seconda possibilità di
evoluzione indicata da Marx: ‘Marx dice che se
in Russia si manifesta tale tendenza, buona parte
dei contadini si trasformeranno inevitabilmente
in proletari’ (Lenin, Gli amici del popolo, cit., I,
pp. 268-9). Nel suo studio su Lo sviluppo del
Capitalismo in Russia trasformerà il se in
certezza e potrà rafforzare la conclusione-

228
soluzione esposta precedentemente: ‘L’operaio
russo postosi alla testa di tutti gli
elementi democratici, abbatterà l’assolutismo e
condurrà il proletariato russo (al fianco
del proletariato di tutti i paesi) sulla via diritta
della lotta politica aperta verso la vittoria della
rivoluzione comunista’ (op. cit., IV, p. 304)».
2
Ma senz’alcun approfondimento in direzione
della reale politica di «sviluppo capitalistico»
intrapresa in quel decennio (e prima) dal
governo zarista. Su ciò riporteremo soltanto un
passo di M. Confino, Systèmes agrares et
progrès agricole, Paris 1969, p. 367: «C’est ici
qui intervient, semble-t-il, le facteur stratégique
dans ce qui se dessine comme le drame de
l’agricolture russe a cette epoque. Ce facteur
stratégique fut la politique financière du
gouvernement (et sourtout celle des impositions
qui frappaient les paysan) et ce qu’on peut
appeler le ‘coût de l’industrialisation’…
Vysnegradskij et Wilte se montrèrent determines
à mener la lutte pour cette industrialisation
jusq’au dernier kopek du moujik… Alors,
Rothschild de Paris prêt à terme, le paysan russe
donna a fonds perdu… Enfin, il sembrerait que
dès la fin du xix siede, la crise agricole se trouve
inestricablement liée dans la crise agraire….
Suffisait-il de ‘casser la commune’ comme le
pensaient Stolypin et Wilte?… Et suffisait-il de
proposer une expropiation des nobles et un
partage des terres, comme le voulaient les porte-
parole des paysans et les chef partis
d’opposition, de Miljukov a Lenine?».
3
C. Cicerchia nel suo Leninismo e

229
rivoluzione socialista, cit., pp. 71-78,
così commenta un passo abbastanza noto de Gli
amici del popolo-. «(Marx) per la prima volta
portò la sociologia su di un terreno scientifico
stabilendo il concetto di formazione economico-
sociale come complesso di determinati rapporti
di produzione e stabilendo che lo sviluppo di
queste formazioni è un processo
storico naturale…». «Si delinea a questo punto—
dice Cicerchia—la concezione dello sviluppo
della società come processo storico-naturale, in
cui le cause del passaggio da una forma di
produzione ad un’altra non sono ricondotte al
modo di procedere delle contraddizioni interne
specifiche ai rapporti sociali esistenti e alle
soluzioni che essi postulano, ma allo sviluppo
delle forze produttive generato dal progresso
della tecnica.»
4
V. Cinnella, op. cit., p. 770, nota 1.
5
Marx-Engels, op. cit., pp. 301-2 e Walichi,
op. cit., pp. 160 e sgg..
6
E ciò per la semplice ragione che Marx e i
populisti avevano previsto «la rigenerazione
sociale della Russia» attraverso la liberazione
dell’obscina e la lotta attiva delle masse
contadine. Se il solo soggetto rivoluzionario era
invece il proletariato urbano, l’aiuto del
proletariato europeo diveniva indispensabile per
poter prefigurare una vittoria socialista in
Russia!
7
Così Jacques Camatte, nel suo Comunità e
Comunismo in Russia, Milano 1974, pp. 56-7,
commenta il successivo passo di Lenin (p. 268)

230
che riportiamo: «Marx dice quindi che il Signor
Mikhailovskij non ha diritto di vedere in lui un
avversario dell’idea dello sviluppo particolare
della Russia perché egli rispetta anche i seguaci
di questa idea, e il Signor Krivenko interpreta a
suo modo queste parole, come se Marx
‘ammettesse’ tale sviluppo particolare. È una
vera falsificazione. Dalla citata dichiarazione di
Marx risulta in modo assolutamente chiaro
che egli ha evitato di rispondere sulla sostanza…
Marx rispondeva direttamente nella stessa
‘lettera’ alla questione della possibilità di
applicare la sua teoria alla Russia. Questa
risposta ci mostra con particolare evidenza che
Marx evita di rispondere sulla sostanza della
questione, di analizzare la situazione concreta
russa sulla cui base soltanto si può risolvere il
problema».
«Nulla di più falso—commenta Camatte—
Marx aveva studiato attentamente l’evoluzione
sociale russa e aveva, per far questo, imparato il
russo, inoltre questo studio doveva essere
fondamentale (come quello della struttura
agraria degli Stati Uniti) per spiegare come si
realizzasse il passaggio della proprietà fondiaria
al capitale… per ciò che riguarda la Russia i suoi
studi furono molto vasti ma sono rimasti quasi
completamente inediti.
Lenin dimostra già la sua rigidezza teorica
che si potrebbe anche chiamare unilinearismo;
contro i populisti rifiuta di vedere in modo
corretto, ampio, concreto, le peculiarietà, il
divenire originale della Russia successivamente
di fronte ai comunisti di sinistra, come Gorter,

231
negherà la particolare evoluzione
dell’occidente ed il fatto che non si può ricalcare
lo schema russo e che la tattica e la
strategia non possono essere identiche nelle due
aree».
8
Si confronti col giudizio di Pokrovskij, op.
cit., p. 18, n. 1.
9
Si legga per esempio la conclusione
dell’Introduzione di F. Venturi all’edizione del
1972 de Il populismo russo, cit., pp. xcvii-viii: «Il
problema inevitabile, il punto d’arrivo obbligato
di questo rinnovato interesse (verso il populismo)
è sempre il medesimo: il confronto storico con il
marxismo. Man mano che la storiografia
sovietica procederà, com’è augurabile, a
riprendere in mano, a riconsiderare i rapporti tra
i menscevichi, i bolscevichi, i socialisti
rivoluzionari, sempre più si troverà di fronte alle
questioni che già stanno in nuce, come s’è visto
nella storia del populismo e di tutto il movimento
rivoluzionario, da Herzen alla Narodnaja Volja.
Personalmente sono convinto che l’uscita di
questa strettoia possa essere una sola: quella
d’intendere che il pensiero e il movimento
socialista, in tutta Europa, da due secoli a questa
parte, sono troppo vari e ricchi per poter essere
monopolizzati da una sola corrente di esso, sia
pure essa il marxismo, e che ogni tentativo
di stabilire nell’ambito del socialismo una
corrente detta scientifica e considerata
autentica, contrapposta alle altre utopiche e
fallaci, è non soltanto storicamente erronea, ma
finisce col condurre ad una volontaria
mutilazione e distorsione del pensiero socialista

232
tutt’intero. Di fronte ad un simile problema si
ritrovano ormai anche gli storici sovietici.
Democrazia e socialismo, intelligencija e popolo,
sviluppo ritardato o accelerato dell’economia,
sono altrettanti punti dai quali non si può
sfuggire se si vuole intendere cosa storicamente
sia stato il populismo e che cosa esso abbia
contato nella moderna storia della Russia».

233
Capitolo quinto

IL MARXISMO RUSSO E IL MODO DI


PRODUZIONE ASIATICO






Sull’ondata del riflusso del movimento
populista sotto il trauma della durissima
repressione seguita all’uccisione di Alessandro
II, l’1 Marzo ’81, e alla tentata uccisione del
primo Marzo ’87 di Alessandro III, il marxismo
teorico aveva iniziato le sue prime sortite.
Plekhanov «il padre del marxismo russo» che
era appartenuto alla Zemlja i volja e al Cernij
peredel ruppe, come si sa, con i narodniki
intorno all’81 e nel 1883 fondò in Svizzera
l’associazione marxista russa L’emancipazione
del lavoro1 assieme ad Axerold e alla Zasulic.
L’assioma di questo gruppo era, come si è già
detto, che la Russia dovesse seguire
inevitabilmente il tipo di sviluppo dei paesi
occidentali e che la rivoluzione sarebbe riuscita
solo attraverso lo sviluppo capitalistico, per
opera del proletariato e non dei contadini2.
Dunque il marxismo teorico in Russia sorse
all’interno stesso del movimento populista3,
come reazione all’insuccesso del vecchio
populismo ortodosso (quello della Zemlja i volja e

234
del filone democratico-rivoluzionario) e contro il
terrorismo della Narodnaja volja, attraverso la
proposizione di un dogma: anche in Russia il
capitalismo era la tendenza «naturale» dello
sviluppo della società.
Esso perciò si affermò in netta opposizione
alle teorie populiste vecchie e nuove e in pratica
tese a costituirsi e a irrobustirsi
come espressione teorica autonoma soprattutto
in questa polemica antipopulista.
In questa polemica rinsaldò la sua non ben
formata identità non possedendo ancora la
maturità necessaria (e neppure una coerente
metodologia di arricchimento teorico) per
recuperare le istanze valide del populismo.
Così, come era successo per Marx con
l’anarchismo, il rapporto del marxismo russo col
populismo fu quasi sempre un rapporto di
ostilità e di scontro, abile soprattutto a
sottolineare le inadeguatezze e le ingenuità
teoriche del movimento nonché i suoi errori
senza riuscirne quasi mai a recepire le
autentiche intuizioni rivoluzionarie e il
patrimonio di esperienza emancipatrice. Negli
anni 90 perciò, mentre coi buoni uffici del
barone Witte e del capitalismo soprattutto
inglese e francese, l’industrializzazione
capitalistica stava iniziando4 su “
prelievo contadino”, in anomalo omaggio alle
previsioni del marxismo russo, una possibile
intesa tra populisti e marxisti si presentava
oltremodo diffìcile: il populismo, dopo la
repressione e la pratica scomparsa della
Narodnaja volja, era ormai rappresentato dai

235
«populisti legali» 5 tra cui il solo Michailovsky6
godeva ancora di prestigio nell’ambiente
rivoluzionario (e probabilmente non fu felice la
scelta di Lenin di tentare di «demolirlo» come
interlocutore nel «Che cosa sono gli amici del
popolo»), mentre Vorontsov e Danielson7 erano
ormai discreditati per il loro atteggiamento di
opportunismo nei confronti dell’autocrazia e
della libertà politica8.
Dall’altra parte i «marxisti legali» come
Struve erano definiti, negli ultimi circoli
rivoluzionari populisti, come “agenti della
borghesia” ed è noto come sia stato detto che il
marxismo fosse la prima
ideologia filocapitalistica che ebbe proseliti fra
l’intellighentia russa9.
A tale proposito non è possibile fare a meno di
riportare in modo esteso, il penetrante saluto di
Gramsci alla rivoluzione bolscevica, comparso il
24 novembre 1917 sull’«Avanti», sotto il famoso
titolo «La rivoluzione contro il Capitale»9,
«Saluto» che pur tuttavia non ha mai avuto, in
generale, l’attenzione critica che meritava e che
merita e che certo rappresentò il commento più
alto e più maturo apparso sulla stampa mondiale
dell’epoca:
«…La rivoluzione dei bolscevichi… è la
rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il
Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei
borghesi più che dei proletari. Era la
dimostrazione critica della fatale necessità che in
Russia si formasse una borghesia, si iniziasse
un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di
tipo occidentale, prima che il proletariato

236
potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle
sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione.
I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno
fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la
storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi
secondo i canoni del materialismo storico. I
bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con
la testimonianza dell’azione esplicita, delle
conquiste realizzate, che i canoni del
materialismo storico non sono così ferrei come si
potrebbe pensare e si è pensato.
Eppure c’è una fatalità anche in questi
avvenimenti e se i bolscevichi rinnegano alcune
affermazioni del Capitale non ne rinnegano il
pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono
«marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle
opere del maestro una dottrina esteriore di
affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai… e
che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E
questo pensiero pone sempre come massimo
fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma
l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini
che si accostano tra di loro, si intendono fra di
loro, sviluppano attraverso questi contatti
(civiltà) una volontà sociale, collettiva, e
comprendono i fatti economici e li giudicano e li
adeguano alla loro volontà, finché questa diventa
la motrice dell’economia, la plasmatrice della
realtà oggettiva, che vive e si muove e acquista
carattere di materia tellurica in ebolizione, che
può essere incanalata dove alla volontà piace,
come alla volontà piace… La predicazione

237
socialista ha creato la volontà sociale del popolo
russo. Perché dovrebbe egli aspettare che la
storia dell’Inghilterra si rinnovi in Russia, che in
Russia si formi una borghesia, che la lotta di
classe sia suscitata, perché nasca la coscienza di
classe e avvenga finalmente la catastrofe del
mondo capitalistico?…»
È strano come tutta la storia della polemica
antipopulista sia di Plekhanov che del primo
Lenin come di Struve e dei «marxisti legali» sia
stata essenzialmente un’accanita negazione del
carattere di originalità della situazione russa10.
Un accanito ridurre questa al classico modello
occidentale (ricalcando per così dire la
pluridecennale polemica tra slavofili e
occidentalisti…).
In questa luce non appare inspiegabile il poco
e nessunissimo conto che venne fatto dai
marxisti russi dell’esigenza di un
approfondimento delle formulazioni marxiane sul
modo di produzione asiatico (Varga dice che
Lenin negava che in Russia si fosse mai
manifestato un «modo di produzione asiatico», e
ciò malgrado i suoi ripetuti accenni alla
«semiasiatica» Russia, alla asiatcina e così via 11.
D’altra parte questa non è la sede per una
ricerca del genere 12 ma va senza dubbio
segnalato che una sistematizzata attenzione
verso le società del modo di produzione asiatico
sopravvissute in forme residuali diverse, avrebbe
portato certamente ad una maggior
problematizzazione della teoria sui modi della
transizione al socialismo13. E Marx stesso,
nonostante la brevità e incompletezza delle sue

238
annotazioni (egli paragonava per esempio le
comunità di villaggio asiatiche all’obscina russa),
dopo l’iniziale disprezzo «ancora hegeliano» per
il mondo tradizionale indiano, si era al contrario
convinto, al termine della sua vita, che la vecchia
società asiatica era portatrice anche di valori ed
istituti «positivi».
Del resto è ormai sempre più difficile dopo la
pubblicazione dei Grundrisse, dell’Introduzione
del ’59 Per la critica dell’economia politica e
delle bozze alla Zasulic avvalorare
un’interpretazione del pensiero di Marx di tipo
evoluzionistico e unilineare come è stato fatto,
al contrario e prevalentemente dal marxismo
della II e III Internazionale 14.
Certo è soltanto facendo chiarezza sui modi di
organizzazione e di dinamica dei diversi tipi di
società che è possibile fondare una vera
strategia della transizione al socialismo al di
fuori di ogni ideologizzazione e ripetizione
meccanica; e che in quasi tutto il marxismo post
Marx ci sia stato un assoluto eccesso di
eurocentrismo e di evoluzionismo sembra ormai
ammesso dai più 15.
Il nodo è ancora quello di arrivare a liberare
la storia del periodo precapitalistico dei diversi
paesi da giudizi di valore di pretto conio
borghese; e da categorie di analisi di marchio
capitalistico; liberarsi dell’uso di criteri di
interpretazione sorti sul terreno dello sviluppo
storico dell’occidente e «adoperati» per la
comprensione (e la trasformazione) di mondi
diversi16.

239
In proposito non è inutile ricordare che il
lungo periodo di «eclissi» del dibattito marxista
sul modo di produzione asiatico coincide con
l’età staliniana durante la quale, come era
inevitabile, prevalse la versione evoluzionistica e
unilineare del corso storico. Mentre tale dibattito
si riaprì appunto nel dopo Stalin, in coincidenza
con le lotte di liberazione dei popoli ex coloniali
e, a partire dal ’57, soprattutto in seguito alla
comparsa de Il dispotismo orientale di K. A.
Wittfogel17.
Citare qui la nutrita bibliografia dei saggi e
delle pubblicazioni che hanno fatto seguito in
questi anni a quel primo testo, sia in
Inghilterra che in Francia come in Unione
Sovietica e in Cina (ma anche nel resto del
mondo occidentale come orientale), è forse
superfluo, anche se è da sottolineare che nella
stessa Unione Sovietica, a partire dal ’56, si è
avviato un dibattito di notevole spregiudicatezza
e adogmatismo, basti ricordare i saggi sulla
comune rurale di N. B. Ter Akopian18.
Ma forse è da mettere in evidenza che
l’aspetto sostanziale che scaturisce dalle
posizioni a nostro avviso più interessanti (quelle
di Hobsbawm, Rodinson, Tokey, della Danilova,
di Godelier, Mandel, Varga ecc.) è l’esigenza di
un approfondimento dell’intera questione della
storia precapitalistica 19 e delle sue fasi ma sulla
base netta del rifiuto di ogni evoluzionismo20,
nonché quella dell’approfondimento delle stesse
categorie principali del materialismo storico così
da recuperarne e utilizzarne le tuttora
straordinarie potenzialità teoriche (in questa

240
direzione è da ricordare per es., il dibattito del
Centro studi e ricerche marxisti di Parigi nel
1962 e della rivista «Pensée» e quello su «Critica
marxista» del 70-72 sul concetto di formazione
sociale). Forse uno degli aspetti teoricamente
più rilevanti di questo revival, aldilà dei risultati
ottenuti nel campo stesso della storia o
dell’antropologia, è stata l’acquisizione, tentata
da più parti, della negazione dell’esistenza di
uno sviluppo autonomo delle forze produttive;
della negazione di una separazione delle forze
produttive dai rapporti di produzione; e della
concezione della multilinearità dello sviluppo
storico.
La produzione è unitamente produzione di
beni materiali e di rapporti sociali per cui la
tendenza secondo e terzo internazionalista di
ritenere che ogni trasformazione sociale si
determini nella sola « struttura », separatamente
e privilegiatamente da quanto possa essere
determinato a livello «sovrastrutturale»
(nell’ambito della prassi cosciente degli uomini)
è ormai del tutto screditata. E soprattutto a
partire dal 1968 giudicata una forma di
«revisionismo» economicistico e deterministico
che ha fatto il suo sventurato tempo.
Il marxismo, contro tutte le interpretazioni
passate via via attraverso il filtro della cultura
borghese ha dimostrato tuttora di poter vivere
come riflessione sull’esperienza storica delle
classi subalterne e di essere ancora uno
strumento importante per l’analisi delle società
in cui operano.
Ma è da lamentare come il rinnovato

241
interesse e la molteplicità degli studi sul modo di
produzione asiatico non si sia unito in
modo organico (sintomatica spia della prevalente
separatezza delle varie ‘scienze’) allo studio dei
modi dello sviluppo dei paesi arretrati21.
In ogni caso da questo pullulare di ricerche,
anche se separate, un aspetto essenziale e
particolarmente importante in relazione al
nostro discorso sulla Russia post 1861 è balzato
in primo piano, (soprattutto come riflessione
sulla «rivoluzione culturale»), a centrare i
problemi dello sviluppo nei paesi «arretrati»;
l’agricoltura come base e sviluppo di una
industria al servizio in primo luogo delle
campagne22.
E ciò nei modi e nelle forme compatibili con la
struttura socioculturale di quelle aree, così da
coinvolgere come protagoniste le masse
contadine. Ovvero nella normale coesistenza, in
quelle aree, di modi di produzione diversi, la
connotazione specifica socialista della nuova
formazione economico-sociale dovrà realizzarsi,
marxianamente, in un processo graduale che
partendo dall’interno stesso dei vecchi e diversi
rapporti di produzione (di cui uno dominante), li
libererà dai vecchi involucri fino a trasformarli e
ad assumerli come propri e a superarli via via in
modo generalizzato e in direzione del
cambiamento dell’interezza dei rapporti sociali.
In quanto, ancora marxianamente, è la funzione
dei rapporti di produzione, che assumono
storicamente alcuni rapporti sociali, a orientare
la riproduzione dei rapporti sociali nel loro
insieme. Ma tenendo conto, con Gramsci che «…

242
gli uomini acquistano consapevolezza dei
conflitti fondamentali sul terreno delle ideologie
».
In sostanza con la comparsa, successivamente
alle comunità agricole primitive (dove i rapporti
di produzione dipendevano direttamente da
rapporti comunitari di parentela, di vicinato
ecc.), di forme primitive di stato in società divise
in classi (tipo «dispotismo orientale»), il nuovo
modo di produzione (asiatico) assumeva in sé
l’involucro della vecchia organizzazione sociale
comunitaria e le sue forme ideologiche,
subordinandole al nuovo potere dispotico. Il
modo di produzione asiatico veniva dunque a
fondarsi, nella sostanza, nella coesistenza delle
comunità primitive (in cui vigevano il possesso
comune della terra, forme primordiali di
autogoverno e di rappresentazione religiosa ecc.)
del precedente modo di produzione con un
potere dispotico statale che controllava l’uso
delle risorse economiche essenziali e
s’appropriava direttamente (o mediatamente) di
una parte del lavoro e della produzione della
comunità.
E se questa è la chiave di lettura, di larga
massima, delle società di «dispotismo orientale»
essa lo è, come è noto, anche, per es., per la
«formazione economica sociale» dell’impero
degli Incas del xvi secolo (cfr. M. Godelier, op.
cit., J. Murra ecc.). Ma essa lo è della stessa
Russia del secolo scorso dove coesisteva una
combinazione tra modo di produzione feudale
(prevalente e caratterizzato dalla grande
proprietà nobiliare), da elementi del precedente

243
«modo di produzione asiatico» (l’obscina, la
responsabilità collettiva, il carattere dispotico
dello stato) e da embrioni di capitalismo. Ed è
chiaro che tale «formazione economico sociale»
mista, fondata sulla combinazione di diversi modi
di produzione avrebbe potuto evolvere in diverse
direzioni in relazione non solo a quella
«combinazione» e all’ambiente storico in cui ciò
avveniva ma in relazione alla volontà degli stessi
soggetti sociali protagonisti.
Si accennerà più avanti alle implicazioni
teoriche e pratiche di questo nuovo modo di
affrontare i problemi dello sviluppo23 ma intanto
è opportuno tornare al Marx delle annotazioni
sul «modo di produzione asiatico».
Come si è già accennato fu soprattutto lo
studio di una vasta letteratura sulle condizioni
sociali della Russia che lo rinsaldò
definitivamente nella convinzione che la
comunità agraria fosse un tipo di organizzazione
sociale esistente ai primordi della storia di tutti i
popoli.
Tanto che egli finì per sostituire all’aggettivo
«asiatico», «indiano», «orientale» l’espressione
«comunità agricola primitiva», passando
praticamente dopo trent’anni, dalla esclusione
dell’eventualità di uno sviluppo autonomo
nell’India Britannica (negli articoli del 1853 sul
New York Daily Tribune con corollario di
capitalismo unico modo di sviluppo
rivoluzionario) all’ammissione della possibilità
del passaggio a una fase comunistica che
saltasse il modo di produzione capitalistico.
È proprio nelle famose bozze alla Zasulic24 e

244
in riferimento alla Russia che questo pensiero si
precisa e si articola per cui è forse giusto
arricchire con altre citazioni quell’unica fin qui
riportata25.
«Rimontando nei secoli, la proprietà comune
di un tipo più o meno arcaico si trova
dappertutto nell’occidente europeo; col
progresso sociale essa è dovunque scomparsa.
Come potrebbe sfuggire alla stessa sorte la
Russia? Rispondo: perché in Russia grazie a una
combinazione di circostanze uniche, la comune
agricola, ancora stabilita sull’intera estensione
del paese, può gradatamente spogliarsi dei suoi
caratteri primitivi e svilupparsi direttamente
come elemento della produzione collettiva su
scala nazionale…» 26.
«Come… fase ultima della formazione
primitiva della società la comune agricola… è
nello stesso tempo fase di trapasso alla
formazione secondaria, e quindi di trapasso della
società basata sulla proprietà comune, alla
società basata sulla proprietà privata.
La formazione secondaria s’intende,
abbraccia tutta la serie delle società poggianti
sulla schiavitù e sul servaggio. Ma significa ciò
che la parabola storica della comune agricola
debba fatalmente giungere a questo sbocco?
Niente affatto. Il dualismo ad essa intrinseco
ammette un’alternativa: o il suo elemento di
proprietà privata prevale sul suo elemento
collettivo o questo s’impone a quello.
Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale
essa si trova:… le due soluzioni sono di per sé

245
entrambe possibili».
«Per salvare la comune Russa, occorre una
Rivoluzione russa… Se la rivoluzione scoppierà a
tempo opportuno, se l’intellighentia concentrerà
tutte le forze «vive del paese» nell’assicurare
alla comune agricola un libero spiegamento,
allora la comune ben presto evolverà come
elemento di rigenerazione della società russa e,
insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti
dal regime capitalistico» 27.



1
Strada, op. cit., pp. vii-x.
2
Si veda E.H. Carr, La rivoluzione
bolscevica, p. 791: «Al congresso di fondazione
della Seconda Internazionale a Parigi nel 1889
egli—Plekhanov—proclamò in tono di sfida che:
‘la rivoluzione russa o trionferà come rivoluzione
proletaria o non trionferà affatto’».
3
Si veda Walichi, op. cit., p. 118: «Potrebbe
essere facilmente dimostrato che negli anni
settanta furono i populisti ad avere la parte
maggiore nella diffusione del marxismo in
Russia».
4
Si veda in A. Tovaglieri, Lenin e i soviet
nella rivoluzione russa del 1905, Milano 1975,
pp. 14 e sgg.: «Ciò era dovuto al fatto che in
Russia la grande industria non era sorta
gradualmente dallo sviluppo dell’agricoltura,
dalla separazione dell’artigianato da
quest’ultima e dal passaggio dell’artigianato
indipendente alla manifattura capitalistica: essa

246
era stata trapiantata nell’economia arretrata
russa dal capitale europeo dapprima
indirettamente sotto forma di capitale
commerciale, tramite prestiti concessi al governo
zarista, e poi direttamente sotto forma di
capitale industriale… (per) i notevoli privilegi
concessi dallo zarismo al capitale straniero». Ma
su ciò si veda l’opera ormai classica di
Gerschenkon, Il problema storico
dell’arretratezza, Torino 1965 e in particolare si
legga p. 121. Si legga anche E. Muller,
«Agrarfrage und Industrialisierung in Russland,
1890-1930», in Geschichte und Gesellschaft,
1979, n. 3.
5
A. Walichi, op. cit., p. 97: «La figura
centrale del populismo legale, social-riformista,
fu certamente V.P. Vorontsov, che scriveva sotto
le iniziali V.V. Il suo libro I destini del
capitalismo in Russia (1882), rappresentò il più
ambizioso tentativo di analizzare le
caratteristiche specifiche del capitalismo russo
e, nello stesso tempo, la più elaborata e originale
argomentazione teorica circa la possibilità
e necessità di uno sviluppo non capitalistico della
Russia».
6
Si legga sempre in A. Walichi, op. cit., p.
97: «Anche Michailovsky che era il più stretto e
fedele amico di Eliseev, apparteneva a questa
corrente (i populisti legali): nonostante la sua
simpatia e ammirazione per i rivoluzionari, egli
personalmente non credeva nella vittoria della
rivoluzione e perciò si rivolgeva al governo
zarista tentando invano di convincere l’élite
dominante della necessità di difendere le comuni

247
rurali russe contro l’irruzione del capitalismo.
Egli però non era un tipico rappresentante del
Populismo legale: il posto che occupa come
teorico è di maggior portata, avendo formulato
gli ideali generali del Populismo, le sue idee
potevano essere condivise, e spesso lo furono,
sia dai populisti rivoluzionari che non».
7
Walichi, op. cit., pp. 104-105.
8
Ìbidem, p. 152.
9
A. Gramsci, Scritti politici, a cura di P.
Spriano, Roma 1967, pp. 80-83.
10
Scrive Michel Reimann, il noto storico
cecoslovacco: «La storiografia odierna —
sovietica oltre che occidentale—ha accumulato
prove sufficienti a dimostrare che lo sviluppo
della moderna civiltà industriale in Russia non
può essere costretto nei tradizionali schemi
europei. Esso si è fondato soprattutto su mezzi
artificiali: è stato assicurato da un considerevole
aiuto statale, che aveva di mira la posizione della
Russia come grande potenza, da massicce
iniezioni di capitale straniero, dall’importazione
dai più avanzati paesi occidentali della tecnica,
della tecnologia, della coltura produttiva nonché
della organizzazione e della scienza industriale e
finanziaria… Gli operai industriali costituivano
un gruppo sociale relativamente esiguo. Il loro
numero variava attorno ai quattro milioni ma gli
operai maturi si contavano solo a decine di
migliaia. Il principale problema sociale non era
costituito in realtà dal rapporto ristretto tra la
borghesia e gli operai, ma dal più ampio
rapporto tra la massa popolare di base e gli

248
strati sociali superiori; e più che di rapporto si
può parlare di una divisione data dall’esistenza
di un profondo baratro sociale, culturale e
civile… La componente essenziale delle classi
proprietarie era costituito dai latifondisti
nettamente separata della massa contadina e
dagli altri gruppi sociali. La grande borghesia
non aveva quel retroterra fatto di uno stesso ceto
sociale medio moderno, che altrove costituiva
una base stabile della società borghese»,
Rinascita n. 25, 1977.
11
Nella edizione russa e tedesca delle opere
complete di Marx e Engels non si trova lo scritto
di Marx sulla tartarizzazione della Russia e sul
carattere semiasiatico della sua società. Ed è
noto che Stalin soppresse la formulazione di
«modo di produzione asiatico» nel famoso Breve
corso di storia del partito comunista dell’ URSS.
12
Si veda a proposito l’informato saggio di
G. Sofri Il modo di produzione asiatico, Torino
1969. Peccato che Sofri come in genere tutta la
sinistra extraparlamentare indulga in un
leninismo acritico che non fa onore in primo
luogo a Lenin stesso. Si veda anche U. Meloni,
Marx e il Terzo mondo, Milano 1972 e il suo
motivato multilinearismo.
13
Si legga il saggio di N. Badaloni in
Rinascita, n. 37-9-1976. «Occidente e Oriente»:
«Egli (Mao) non ha mai confuso la forma asiatica
di produzione con una forma di sfruttamento di
tipo feudale, che è poi la matrice dello
sviluppo capitalistico e quindi non ha mai
pensato, come invece pensavano, in modo
rovinoso per la teoria marxista i teorici della

249
Seconda Internazionale, che lo sviluppo della
società dal feudalesimo al capitalismo fosse uno
sviluppo obbligato. Egli non ha pensato neppure
che una società moderna ed evoluta fosse
necessariamente legata alla preesistente
condizione di base dell’organizzazione feudale
della produzione. Quindi ha sentito l’importanza
della comunità, delle comuni, come elemento
tipico dell’organizzazione sociale di base nella
forma asiatica… Mao non ha rinunciato ai modi
dell’organizzazione della vita sociale cinese—le
comuni—ma ha impresso invece un grande
slancio, solo in apparenza esclusivamente
ideologico alle energie degli uomini, alle loro
capacità produttive, senza porsi traguardi di
sviluppo accelerato che sconvolgessero queste
condizioni sociali di base. Lo sviluppo sociale era
per lui un passaggio al comunismo che aveva
radici in queste stesse condizioni di base, nel
loro mantenimento, nel loro sviluppo: anche
nella loro trasformazione, ma non più nella loro
immediata dissoluzione, nel loro sconvolgimento.
Uno dei problemi più gravi che si presenta
oggi, all’economia sovietica, come si sa, è quello
dell’agricoltura. L’economia sovietica, la stessa
società sovietica, che aveva forme di
organizzazione che mostravano fossili della
forma asiatica di produzione, è passata
attraverso il loro sconvolgimento…». «Lo studio
della forma asiatica di produzione è per noi, oltre
che il nesso all’esperienza cinese, anche
una sollecitazione teorica che ci riguarda
direttamente. Essa ci mostra che il
problema dello Stato non può essere solo visto

250
entro e nell’ambito della forma capitalistica di
produzione, quella analizzata da Marx nel
Capitale: il problema dello Stato esiste prima che
esista la specificità della forma capitalistica di
produzione e, con lo Stato, nasce lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo. Questo è il punto in
comune tra esperienze che si sviluppano sul
terreno rivoluzionario in modi
profondamente diversi. Anche in condizioni
sociali radicalmente differenti, esse devono
misurarsi col problema del rapporto tra la
direzione politica complessiva della società e
la partecipazione delle masse popolari».
14
È interessante, ad esempio, il giudizio di
uno storico della formazione di un Braudel che
pur riconoscendo a Marx «la più possente analisi
sociale del secolo passato» rileva, nello stesso
tempo, l’errore di voler attribuire a quel tipo di
modello sociale analizzato «valore di legge, di
spiegazione preliminare, automatica, applicabile
in tutti i luoghi e a tutte le società» (F. Braudel,
Scritti sulla storia, Verona 1973, pp. 90 e sgg.).
Si tratta dunque di andare oltre la
sottolineatura contenuta nel Capitale della
«naturalità» e «oggettività» del processo di
trasformazione e superamento del capitalismo e
del posto pressoché esclusivo che vi occupa lo
sviluppo delle forze produttive, verso una
collettiva appropriazione soggettivo-consapevole
di quel processo a partire dal sistema di «bisogni
radicali» storicamente determinati e selezionati
e attorno a cui si unifichi il blocco sociale
antagonista (si veda anche A. Heller, La teoria
dei bisogni in Marx, Milano 1974). Tenendo

251
sempre presente che una concezione
«naturalistica» dei bisogni tende invece a
focalizzare una prospettiva regressiva dello
sviluppo.
15
V. anche H. Jaffe, Marx e il colonialismo,
Milano 1977.
16
Si legga sempre N. Badaloni, op. cit.:
«Tuttavia anche ad un esame non
sufficientemente approfondito dei problemi,
risulta chiara la passione con cui
Marx, particolarmente negli ultimi anni della sua
vita si misurò con la questione della forma
asiatica di produzione, i cui termini sono oggi
abbastanza evidenti: la forma asiatica di
produzione non è, come hanno ritenuto alcuni
filosofi dell’illuminismo che per primi l’hanno
affrontata, una forma di stagnazione: è invece
una forma di sviluppo sociale non accelerato. Ciò
significa che lo sviluppo appare in stretta
connessione con i bisogni che si sviluppano in
relativa lentezza, tanto da offrire l’impressione
dell’immobilità. Chi conosce la storia della
filosofia dei secoli diciassettesimo, diciottesimo e
diciannovesimo sa come la discussione su
questo modo di produzione si sia strettamente
intrecciata con la questione del
dominio coloniale. Le prime analisi del modo
asiatico di produzione sono state funzionali allo
sfruttamento da parte delle grandi compagnie
commerciali, prima e della struttura capitalistica
nel suo complesso, dopo: sia quando hanno
sostenuto la tesi che nella forma asiatica di
produzione era prevalente il momento
comunitario, e quindi la proprietà del suolo era

252
delle comunità, sia quando hanno sostenuto,
invece, che la proprietà del suolo era del sovrano
e le comunità ne avevano solo il possesso. La
discussione sembra accademica. Invece ha tutta
una serie di implicazioni che ha appassionato
filosofi e ricercatori più o meno occasionali come
François Bernier, Adamo Smith, i due fratelli
Mill».
17
K.A. Wittfogel, Il dispotismo orientale,
Firenze 1969. (Sulla storia di questa espressione
si veda F. Venturi «Despotismo orientale» in
Rivista Storica Italiana, I, 1960, p. 126). Per
quanto riguarda la tesi principale del pur
importante testo di Wittfogel si tenga presente
soprattutto che la sua schematica tipologia
nomenclatoria non gli permette di evidenziare,
sia per la Russia come per la gran parte delle
formazioni socioeconomiche esaminate la
decisività della coesistenza di diversi modi di
produzione e tutta la problematica connessa a
ciò.
18
Sulla «comune contadina» si vedano
anche i lavori di «archeologia sociale» della
Scuola Storico-Sociologica di Bucarest. In
particolare si vedano gli studi di H. N. Stahl (La
comunità di villaggio, Milano 1976). Per
l’impiego alternativo di una definizione di «modo
di produzione tributale o tributario, proposta dal
marxista giapponese Juro Hojakawa, si vedano i
lavori, sempre della scuola di Bucarest, di J.
Banu La formation sociale tributaire e di Miron
Constantinescu «Sulla formazione economico
sociale tributale» in Quaderni del laboratorio
sociologico Bucarest n. 6, 1973.

253
19
Per quanto riguarda la Cina lo stesso
testo di Max Weber sulle religioni cinesi e quello
di Joseph Needham su Scienza e Società in Cina
(Bologna 1973), andrebbero meditati
marxianamente. Come del resto l’intero Weber:
da quello della Sociologia della religione a quello
di Economìa e società. In realtà i suoi studi sulla
sociologia comparata delle religioni, sull’etica
economica del fatto religioso ecc. (nonché sulle
categorie della «razionalizzazione burocratica»
dei paesi e del capitalismo monopolistico di
Stato) tracciano i lineamenti di una ricerca
scientifica sui fenomeni «sovrastrutturali» in
connessione ai sistemi economici che ha fatto e
fa da indispensabile contrappeso al limite
«economicistico» di quanti a lui contemporanei
si richiamavano (o oggi ancora si richiamano) al
marxismo di lettura positivistica.
20
K. Marx. Forme economiche
capitalistiche, Roma 1974: si legga la
prefazione di E. Hobsbawm, pp. 58 e sgg., che
traccia un breve panorama della discussione in
campo marxista, dopo la morte di Marx e di
Engels, sulle principali formazioni economico
sociali….
21
Segno del mai scalfito nodo della storica
separatezza tra le varie scienze sociali (e in
questa ottica si colloca lo stesso nodo
dell’altrettanto storica scissione tra scienze
sociali e scienze naturali) che il tardo Marx (si
vedano soprattutto le opere di L. Krader, The
Ethnological notebooks, Amsterdam 1974; The
Asiatic Mode of Production, Assen 1975;
Dialectic of Civil Society, Assen 1976) si

254
era posto di superare in una scienza storica che
saldasse l’antropologia sociale (si vedano in
particolare le sue accanite letture specie del
1879-1882, di L.H. Morgan, H.S. Maine, J.B.
Phear; J. Lobbok; MM. Kovalevsky, Maurer,
Taylor e così via), la sociologia rurale (si veda il
suo rapporto coi populisti e col populismo)
ecc. in una concezione della storia né unilineare
né deterministica.
22
Si legga, per es., come commenta le
posizioni populiste sui problemi dello sviluppo, A.
Walichi, op. cit., p. 101: «… Lavrov, nello Vpered
affermava esplicitamente che l’avversione verso
il capitalismo non corrispondeva ad una
ostilità nei confronti dell’industrializzazione: la
grande industria è attualmente un prerequisito
della civilizzazione, ma può e deve basarsi su
principi socialisti (Karataev, op. cit., pp. 284-5)».
«La posizione degli economisti populisti degli
anni Ottanta era caratterizzata non tanto
dall’opposizione all’industrializzazione come tale,
ma piuttosto dalla ricerca di uno specifico
modello d’industrializzazione non capitalistica,
un modello che avrebbe tenuto conto degli
interessi dei contadini e delle caratteristiche
distintive della situazione della Russia in quanto
paese agricolo arretrato in coesistenza con paesi
capitalistici avanzati».
La Tvardoskaja, op. cit., pp. 74 e sgg. scrive:
«Fin dagli anni Settanta gli ideologi del
populismo rivoluzionario avevano riconosciuto
l’esistenza di tendenze capitalistiche in Russia e
avevano ammesso la loro influenza sui rapporti
sociali. Essi ritenevano tuttavia possibile

255
arrestare, contenere lo sviluppo del capitalismo
grazie ad una rivoluzione contadina (B. S.
Itemberg, Il movimento populista rivoluzionario,
Mosca 1965, pp. 29-49)… Comunque veniva
decisamente ammessa la possibilità che in
Russia potessero manifestarsi solo singoli
elementi di capitalismo (cfr. Lenin nella sua
autocritica del 1907)… in Russia il capitalismo
avrebbe avuto solo le conseguenze più negative,
in quanto avrebbe significato per forza di cose la
scomparsa della comunità rurale e cioè di quella
forma di cooperazione che era ad un grado di
sviluppo ben superiore rispetto alle forme di
capitalismo privato (Su Cernij peredel i processi
in atto nella vita socioeconomica della moderna
Russia venivano così considerati: ‘Questa
accumulazione primitiva capitalistica si realizza
col beneplacito del governo, il quale favorisce
così questa stessa accumulazione e la sua
creatura prediletta, la borghesia’)».
23
Per queste tematiche si veda in particolare
L’esperienza della terza internazionale e il
populismo, F. Battistrada, Genova 1975, già
citato. In sostanza e in breve può dirsi che la
«questione agraria è lo storico tallone d’Achille
non solo del primo secondo e terzo
internazionalismo nonché della storia dell’URSS
e dei paesi dell’Est ma pur in modo differenziato
degli stessi partiti comunisti dell’occidente come
dell’America Latina e del Terzo mondo».
24
A. Rosemberg in Storia del bolscevismo,
cit., pp. 195-6 scrive: «Quel che c’è d’importante
è che Marx abbia nel 1882 riconosciuto e
giustificato l’esistenza di un socialismo rurale in

256
Russia accanto al socialismo proletario
occidentale. Marx riconosceva dunque un
particolare sviluppo nazionale della Russia su
basi rurali, dato che soltanto così era concepibile
la vittoria rivoluzionaria sopra lo zar».
25
Si leggano le considerazioni in proposito
di F. Venturi, op. cit., pp. XL e sgg.: «Nel 1947
era uscito praticamente senza presentazioni ed
esplicita giustificazione alcuna, un prezioso
volumetto Il carteggio di K. Marx ed F. Engels
con gli uomini politici russi. Vent’anni dopo,
l’Istituto del Marxismo leninismo raccoglieva
gli appunti, le lettere, i testi d’ogni genere che
testimoniassero dei rapporti di Marx e di Engels
con la Russia rivoluzionaria e li pubblicavano in
un fondamentale volume, che forniva un vivo
quadro del grande interesse e insieme dei dubbi
e dei problemi che il populismo russo in loro
suscitò quando lo videro nascere coevo alla
rivoluzione del ’48 e svilupparsi poi di fronte ai
loro occhi negli anni ’60 e ’70. Peccato che gli
editori sovietici… non abbiano voluto essere più
completi nella loro raccolta. Perché non dare che
un solo frammento dei quattro abbozzi
della lettera che Marx spedì alla Zasulic l’8
marzo 1881?».
26
Marx-Engels, India, Cina, Russia, cit., pp.
305, 309, 313.
27
Ibidem. Ë interessante riportare sulla
lettera della Zasulic e sulle bozze di risposta di
Marx alcune considerazioni della Tvardoskaja,
op. cit., contenute nel capitolo quarto, «Il
narodovolcestvo e il marxismo», pp. 78-94:
«Pubblicando su Narodnaja Volja—insieme alla

257
traduzione russa del Manifesto del partito
comunista—la prefazione di Marx ed Engels, la
redazione inserì un commento nel quale si
sosteneva che essa confermava pienamente ‘una
delle tesi fondamentali del narodovolscestvo, una
conferma che si giovava delle ricerche di studiosi
di altissima statura come Marx ed Engels’
(Literatura partii Narodnaja Volja, p. 178).
Un’interpretazione delle tesi marxiane dettata
non solo dal soggettivismo con il quale i populisti
le leggevano ma anche di certe accentuazioni
che effettivamente figuravano nella
corrispondenza di Marx ed Engels con i
rivoluzionari russi… Al culmine della lotta
condotta da Narodnaja Volja contro l’autocrazia,
i rivoluzionari russi—sia narodovoltsy che
cernoperedeltsj—pregarono Marx di esprimere
la propria opinione a riguardo… Insistendo sul
fatto che le sorti dell’obscina erano ‘questione di
vita o di morte soprattutto per il nostro partito
socialista’, la questione dalla quale dipendeva ‘lo
stesso destino personale dei nostri socialisti
rivoluzionari’, la Zasulic pregava Marx di esporre
il suo punto di vista ‘sul destino possibile della
nostra comune rurale e sulla teoria della
necessità storica, per ogni paese del mondo, di
attraversare tutte le fasi della produzione
capitalistica’ (Appendice a K. Marx, Il capitale,
Libro primo a cura di A. Macchioro e B.
Maffi, Torino 1974, p. 1038). Le minute della
risposta alla Zasulic confermano quanto fosse
difficile per Marx rispondere ai rivoluzionari
russi… La Russia era infatti un paese contadino
nel quale ottanta milioni circa di contadini

258
sarebbero stati sostituiti dalle nuove classi della
società borghese. Anche per Marx ed Engels
il problema sollevato dai rivoluzionari russi—e da
loro risolto in modo utopistico e non scientifico
(!! F.B.)—rappresentava un problema ‘da
risolvere obbligatoriamente’, un problema vitale
e non meno difficile. E fu proprio sotto l’impatto
con il populismo russo che Marx ed Engels, dopo
aver scoperto le leggi fondamentali dello
sviluppo sociale verso il socialismo,
cominciarono a meditare sulla possibilità di una
via particolare al socialismo stesso che
permettesse al popolo di evitare le forche
caudine del capitalismo e, contemporaneamente,
gli consentisse di godere i frutti della civiltà… ».

259
PARTE TERZA

260
Capitolo primo

LA SOCIALDEMOCRAZIA RUSSA ALLA FINE


DEL SECOLO






È un fatto ormai oggetto di laica discussione e
non di scomuniche quello relativo alla grave
sottovalutazione da parte del marxismo
russo (soprattutto per quella serie di circostanze
storiche già accennate) e quindi anche da parte
del giovane Ulianov, dell’immenso e reale
potenziale rivoluzionario costituito da una
possibile e non utopistica mobilitazione
antifeudale dei contadini russi.
Del resto il conclamato e inarrestabile
sviluppo capitalistico si trovava, verso la fine del
secolo, di fronte a una invalicabile strozzatura
costituita dalla discrepanza assoluta e
divaricantesi tra una ristretta e moderna
industria territorialmente circoscritta
(sviluppatasi per mezzo della intollerabile
pressione fiscale sui contadini) e la
solita agricoltura a bassissima e arcaica
produttività 1.
Cioè il livello di consumi e di vita delle
moltitudini contadine e un mercato interno
inevitabilmente inattingibile esprimevano una
contraddizione su cui lo stesso sviluppo

261
industriale e capitalistico stava per bloccarsi.
Non occorreva essere grandi profeti per
prevedere un grado acuto di tensione sociale,
scioperi e lotte operaie nelle città e rivolte
contadine nelle campagne2.
Da un’analisi di questo tipo, se affrontata
senza rigidi schemi ideologici e senza apriorismi,
non poteva scaturire altro che la improrogabilità
dell’integrazione della lotta del proletariato
urbano e delle masse contadine verso una
rivoluzione, data la specificità della struttura
agraria russa, non democratico-borghese ma
tendenzialmente socialista (con elementi di
socialismo) e la cui egemonia sarebbe spettata
agli operai e ai contadini.
Verso la fine del secolo da parte
socialdemocratica esisteva una giusta
valutazione delle capacità rivoluzionarie del
proletariato urbano ma anche una seria
incomprensione del ruolo ugualmente
rivoluzionario della massa contadina.
In campo populista invece, dopo le tremende
repressioni degli anni 80, si stava verificando
una lenta ripresa ma l’ampia visione strategica
e socialista della componente democratico-
rivoluzionaria del movimento era stata in gran
parte travolta con l’eliminazione fisica dei
maggiori protagonisti oppure con il loro
passaggio alla socialdemocrazia oppure con il
rientro nella normalità o addirittura col
passaggio nel campo avversario 3.
Le posizioni di quanto restava del
«populismo» 4, se a volte sottovalutavano

262
l’importanza del proletariato urbano, spesso
prospettavano correttamente l’affrancamento
contadino indicando e cogliendo
l’enorme importanza di una rivoluzione agraria
in Russia5.
Il paradosso è che queste due strategie
abbiano continuato a fronteggiarsi aspramente
per tutto un periodo storico senza riuscire a
trovar mai un punto di contatto (eccetto che
marginalmente e su punti marginali),
divaricandosi anzi fino alle rotture più aspre,
ognuno nella fiducia fideistica dell’autonoma
capacità rivoluzionaria della classe
rappresentata e delle proprie posizioni teoriche.
Mentre dunque era la realtà russa a urlare
l’integrazione dei suoi movimenti rivoluzionari e
a chiedere una guida unitaria delle sue forze
sociali in direzione socialista, da quella settaria
separazione nasceva, si direbbe, un isterilimento
reciproco e l’impossibilità di una visione globale
del processo rivoluzionario.
L’intolleranza giacobina degli uni nei
confronti degli altri, ma soprattutto dei marxisti
nei confronti del populismo in blocco, continuava
a dare i suoi nefasti frutti: la spinta alla
affermazione di supremazia del proprio Statuto
teorico spingeva al rifiuto drastico di tutte le
posizioni diverse: la ghigliottina ideologica era
diuturnamente impegnata in un lavoro indefesso,
dispensatore di gratificazioni o di scomuniche.
E in questa situazione la componente populista-
terrorista non era destinata a essere espulsa
definitivamente ma a riapparire endemicamente.
Pertanto si è visto come il giovane Lenin,

263
fervente discepolo di Plekhanov e sbozzolatosi in
questo clima di astiosi rimbrotti e polemiche, ne
avesse assimilato immediatamente la
6
predisposizione all’intolleranza e all’invettiva . In
ogni caso si è visto come la sua robusta
armatura metodologica marxista gli permettesse
altresì di cogliere (e di sopravvalutare) i
fenomeni del primo apparire del capitalismo nel
paese ma, dall’altra, gli impedisse d’individuare
quanto di originale e di potenzialmente
rivoluzionario esisteva nella realtà sociale delle
campagne e in sostanza di individuarvi
l’autentico e primario contrasto di classe. Per cui
una caratteristica drammatica della sua
riflessione sempre più profonda sull’esperienza
rivoluzionaria delle masse russe sarà il suo
progressivo tormentato avvicinamento a cogliere
l’interezza antagonistica, sociale e politica delle
classi oppresse della Russia e la volontà
ostinata di riuscire a esprimerla nella sua
concretezza.
Si è già visto d’altra parte come, contro quella
parte dei populisti che deduceva erroneamente
dalle difficoltà di sviluppo del capitalismo in
Russia la impossibilità del capitalismo in Russia,
egli sostenesse appassionatamente come
rapporti capitalistici in Russia non solo
esistessero ma venissero estendendosi. E forse
non si è sottolineato, come è giusto fare, che la
stessa sua proposta di lotta nei confronti dei
residui feudali7, pur col suo limite di fondo (la
parola d’ordine unificante la massa dei contadini
non poteva essere che la confisca delle terre
alla proprietà signorile e allo Stato in una

264
prospettiva socialista) era, per altro verso, una
posizione teorica nuova nell’ambito della
socialdemocrazia europea8.
Per cui nel ’98, al termine di questo suo
periodo d’iniziazione e nell’anno in cui era nato a
Minsk, ad opera di Struve, il partito
socialdemocratico russo (il cui programma
accettava integralmente le posizioni del
Manifesto di cinquant’anni prima: i due stadi
della rivoluzione nettamente separati da un
imprecisato periodo storico: quello democratico-
borghese, quello proletario socialista), Lenin ne I
compiti dei social-democratici russi 9 (scritto in
Siberia e lodato da Axerold come un appropriato
commento al manifesto del partito) afferma per
primo in Russia, (applicando lo schema proposto
da Marx nel ’50 per la Germania e pur
mantenendo la separazione non solo teorica tra i
due stadi ma anche quella temporale) che il
partito socialdemocratico dovrà riuscire a
dirigere la lotta di classe del proletariato sia
nella lotta democratica contro l’assolutismo (con
alleata la borghesia); e sia nella lotta socialista
del proletariato (solo) contro il capitalismo; in
ombra ancora, dunque, il ruolo che dovranno
assumere le masse contadine. Mentre già
nel 1899, nel programma agrario del partito
redatto da Lenin 10, si distingueranno due tipi di
lotta nelle campagne (in quello redatto in
prigione nel ’95 11 non si esplicitava l’urgenza
della lotta sulla base delle differenziazioni sociali
esistenti nelle campagne); da una parte il
movimento della massa contadina contro i
residui feudali, dall’altra il contrasto

265
tra borghesia contadina e proletariato rurale: ed
era certo un passo avanti rispetto alle posizioni
correnti nella socialdemocrazia europea 12,
l’introduzione della lotta di classe nelle
campagne!
Si pensi infatti al testo più maturo della
Seconda internazionale, Die Agrarfrage 13 di
Kautsky, e alla sua difficoltà di individuare
una strategia rivoluzionaria suscettibile di
coinvolgere le forze sociali contadine 14. Ma ciò
che in sostanza sfuggiva a Lenin della posizione
populista era il discorso sul significato globale
che il capitalismo avrebbe rappresentato per i
contadini e l’autentica tensione rivoluzionaria
verso una modalità di transizione al socialismo
diversa da quella ortodossa e che facesse leva
sulle potenzialità globali di lotta nelle campagne
non avendo ancora, quelle embrionali
differenziazioni, rotto l’unità del
mondo contadino.
Gli sfuggiva l’importanza di
quell’atteggiamento così ben descritto da
Zeljabov prima di venire impiccato e che
abbiamo già citato ma che per comodità si
riporta 15.
«Decidemmo di agire in nome degli interessi
di cui il popolo era già consapevole, non più in
nome della pura dottrina, ma sulla base degli
interessi radicati nella vita quotidiana della
gente, interessi di cui essa era consapevole.
Questo fu il tratto caratteristico del
narodnichetvo. Dai sogni e dalla metafisica,
passò al positivismo fino a radicarsi nella terra».

266
Era da quell’atteggiamento rivoluzionario di
fronte alla realtà contadina aldilà di ogni
schematismo calato dall’esterno, che era
scaturita la strategia populista di un socialismo
agrario e operaio che enucleasse dalla
condizione contadina e operaia tutte le
«rivendicazioni» capaci di unificare e non
dividere la lotta delle classi oppresse in una
direzione socialista.
Peraltro lo stesso E. J. Hobsbawm, che non si
può certo accusare di simpatie anarchico-
populiste, ha riconosciuto obiettivamente16: «…
nessun altro movimento politico moderno aveva
espresso le spontanee aspirazioni dei contadini
arretrati con maggiore fedeltà e sensibilità del
bakunismo che deliberatamente subordinerà la
propria dottrina a tali aspirazioni».
Questo atteggiamento e questa forza
deideologizzante il marxismo russo non l’ebbe
(come l’aveva avuta invece lo stesso Marx nei
suoi ultimi anni di vita) e non volle averla; ma
era così assolutamente impossibile riuscire a
predisporre un comune terreno di confronto e
d’intesa tale da sperimentare l’integrazione del
movimento politico delle fabbriche con quello
delle campagne?
Bisogna dire che non furono certo le
condizioni obiettive a impedirlo ma quelle
soggettive a non volerlo; troppo erano vincolanti
gli schemi ideologici e la tradizione giacobina
dell’«intransigenza rivoluzionaria» malamente
intesa e praticata da generazioni e generazioni di
rivoluzionari socialisti. In conclusione malgrado
la sua posizione politicamente più aperta rispetto

267
alle varie socialdemocrazie europee17, malgrado i
suoi accenni all’esigenza di appoggio del partito
alla lotta della «piccola borghesia» contadina
contro i residui feudali e l’aristocrazia
fondiaria, quello che mancò a Lenin in quegli
anni fu la visione globale della realtà russa e una
teoria della rivoluzione che ponesse a fulcro
della sua strategia il blocco sociale formato da
classe operaia e movimento contadino per
l’abbattimento dell’aristocrazia e della feudalità
in direzione socialista.
Ma torniamo ora alle vicende dei marxisti
russi anche se riteniamo che l’esserci nella parte
precedente attardati sugli scritti leninisti
del ’94-’95 non sia stato inutile se lo stesso H. G.
Lehman, forse il più preparato studioso della
politica agraria della socialdemocrazia europea
18
, giudica che l’essenza della politica agraria
bolscevica si sia formata e decisa in quegli anni!
È opportuno allora riprendere il nostro
discorso a partire proprio da quelle date ed
esaminare succintamente la politica agraria della
socialdemocrazia russa fino al ’17 alla luce delle
considerazioni che si sono tentate di portare
avanti fin qui.
Orbene poco dopo aver scritto Il contenuto
economico del populismo nel dicembre del ’95,
Lenin, in prigione a Pietroburgo, scrive, come si
è già accennato, un progetto di programma del
partito socialdemocratico 19 in cui nella sezione
agraria vengono elencate le principali
rivendicazioni: abolizione delle quote del riscatto
e indennizzo per quelle già pagate; restituzione
degli otrezki (la parte di terra del nadiel

268
stralciata dalla riforma a favore dei proprietari
fondiari); libera disponibilità della terra da parte
del contadino; eguaglianza fiscale tra nobili
e contadini.
Tutte rivendicazioni cioè che potevano in
qualche modo favorire l’introduzione di rapporti
capitalistici nelle campagne e il
susseguente contrasto sociale. Tali richieste si
ritrovano, uguali, nel progetto di programma
agrario del partito socialdemocratico redatto da
Lenin nel ’99 20: «Il partito socialdemocratico
russo doveva appoggiare la lotta delle
masse contadine contro i residui feudali per
favorire lo sviluppo del capitalismo e nello stesso
tempo appoggiare il proletariato rurale contro la
borghesia contadina». Tuttavia—commentava
Lenin—non si poteva contare sulla autonoma
capacità rivoluzionaria delle masse contadine
perché non si poteva affermare che la capacità
d’iniziativa rivoluzionaria dei contadini russi
avrebbe avuto il modo di «manifestarsi almeno
con la stessa forza rivelata dai contadini
dell’Europa occidentale nell’abbattere
21
l’assolutismo» .
Questo era il pensiero di tutti i marxisti russi
(Plekhanov ormai riteneva addirittura che le
masse contadine fossero del tutto conservatrici,
allineandosi rapidamente da quelle populiste alle
posizioni della social-democrazia tedesca che
imperava): solo il proletariato era in grado
di condurre una lotta rivoluzionaria.
In conclusione ad una sottovalutazione del
potenziale rivoluzionario delle oppresse masse
contadine Lenin e il partito socialdemocratico

269
univano una sopravvalutazione netta del grado di
sviluppo capitalistico nelle campagne e non
coglievano di conseguenza la priorità assoluta
del contrasto di classe tra grandi proprietari e
masse contadine. Ne risultava una strategia del
tutto squilibrata nella quale a un’esatta
valutazione del ruolo della classe operaia faceva
riscontro una mancata individuazione di quello
delle moltitudini contadine. Era dunque del tutto
impossibile che Lenin (il partito
socialdemocratico) potesse individuare come il
processo della lotta delle classi si sarebbe
sviluppato e acceso non solo nel conflitto nelle
fabbriche ma attraverso le esplosioni antifeudali
della campagna.
E ciò malgrado la serie delle rivolte contadine
avesse costellato di sé gli ultimi anni del secolo
fino a quelle molto gravi del 1902 22 nei
governatorati di Poltava e Charkov23.



1
Si legga Cinnella, op. cit., pp. 795-7:
«All’inizio del xx secolo, l’enorme divario
esistente tra una moderna industria
tecnologicamente avanzata e un’agricoltura
degradata dalla presenza dei latifondisti feudali
e dal bassissimo livello dei consumi contadini,
era ormai diventato la contraddizione
fondamentale dello sviluppo economico russo. La
ristrettezza del mercato interno, che nel
decennio precedente era stata superata dalla
politica governativa stava bloccando

270
l’ulteriore progresso industriale del paese». Ma
si veda anche Gerschenkron, Il problema storico
dell’arretratezza economica, Torino 1965, pp.
115-144.
2
Cinnella, ibidem, p. 796.
3
Venturi, op. cit., III, pp. 412 e sgg.
4
Non esiste a tutt’oggi una completa
esposizione della storia dei socialisti
rivoluzionari russi, ma solo storie frammentarie e
particolari. Si veda per es.: A.J. Spiridovic, Il
partito dei socialisti rivoluzionari ed i suoi
precursori: 1886-1916, Pietrogrado 1918. Di cui
non esiste traduzione italiana. Come del resto
del libro di D. W. Treadgold, Lenin and his
Rivals, London 1955 (o del saggio dello stesso
autore «The Populist Refurbished» del 1951
nella The Russian Review, x, ecc.). Oppure delle
«Memorie di Cemov », della M. Spiridonova, di I.
Steinberg ecc.. O del libro di O.H. Radkey The
agrarian foes of Bolshevism. Promise and Default
of the Russian Socialist Revolutionaries, New
York and London 1962. Sulle origini dei socialisti
rivoluzionari e sulla loro attività fino al 1905 si
veda dunque il lavoro di V. Zilli, La rivoluzione
russa del 1905, Napoli 1963. Ma, in generale,
l’editoria «di sinistra» ha del tutto ignorato
questo filone di ricerche, se si eccettua
«L’opposizione nello stato sovietico» di L.
Schapiro, Firenze 1962.
5
Si veda V. Zilli, op. cit., pp. 597-620 e
Cinnella, op. cit., pp. 797-98.
6
Ricordiamo che fu proprio uno scoppio d’ira
di Plekhanov e il suo allontanarsi dal congresso a

271
determinare il prevalere degli «innovatori» (i
futuri seguaci della Narodnaja Volja) sui
narodniki ortodossi in quello che sarà l’ultimo
congresso della Zemlja i Volja del 24 giugno
1879. (Si veda A. Walichi, op. cit., p. 92).
7
Si legga in Cinnella, op. cit., p. 749: «Se
proviamo adesso a formulare un giudizio
complessivo sul programma agrario della
socialdemocrazia russa nel periodo anteriore alla
rivoluzione russa del 1905, dobbiamo mettere in
rilievo innanzitutto l’esiguità delle rivendicazioni
avanzate rispetto alla gravità della questione
contadina. Chiedendo solo la restituzione degli
otrezki alle comunità rurali e l’abolizione dei più
vistosi residui feudali, il P.O.S.R.R. non si poneva
il compito essenziale e urgente di abbattere il
predominio economico della grande proprietà
nobiliare, cioè di eliminare la causa
fondamentale dell’asservimento dei contadini e
dell’arretratezza del settore agricolo. Una
frettolosa analisi teorica portava i marxisti russi
a sopravvalutare i contrasti sociali all’interno
delle comunità di villaggio e a non dare il giusto
peso alla lotta di classe tra i contadini e i
pomesciki. Rinunciando alla parola d’ordine
dell’occupazione delle terre e dell’esproprio di
tutti i latifondi signorili, i socialdemocratici non
intuivano l’enorme importanza della rivoluzione
agraria in Russia».
8
Ibidem, pp. 799-800.
9
Op. compì., vol. II, pp. 315-337.
10
Ibidem, vol. IV, pp. 217-256.
11
Ibidem, vol. II, pp. 83-111.

272
12
Si veda G. Procacci: introduzione a La
questione agraria, di K. Kautsky, Milano 1971, p.
LXXXIX: «La soluzione della questione agraria
diviene in Lenin parte integrante della ‘teoria
della rivoluzione’; la tradizionale nozione della
passività politica del mondo contadino cede il
posto a quello dei contadini come alleati della
classe operaia urbana, come forza motrice del
processo rivoluzionario». E si legga H.O.
Schumann, op. cit., pp. 246-262.
13
Cfr. anche l’introduzione di G. Procacci
citata, e per la situazione italiana in quegli anni
R. Zangheri, Scelte agrarie in Italia, Milano
1960.
14
G. Procacci, ibidem, p. LXIII: «Questi ultimi
(i contadini)—nella concezione kautskiana—
rimangono sostanzialmente oggetti più che
soggetti di storia; per il movimento operaio e
socialista il problema si limita in definitiva a
quello della conoscenza del mondo contadino e
non a quello della sua messa in movimento». E a
p. LXXVII: «La prospettiva sostanziale rimane
ancora quella della ‘neutralizzazione’ dei
contadini piuttosto che quella di una loro messa
in movimento quale forza democratico-
rivoluzionaria». Eppure le intuizioni del giovane
Kautsky erano suscettibili di ben altro sviluppo!
Si veda a tale proposito il commento di G.
Procacci (pp. xiiv, XLV ecc.) a proposito del
saggio pubblicato nel 1880 dallo Jahrbuch fur
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik: «Infine mi
sembra utile riportare questa affermazione di
Kautsky (op. cit., p. 366): ‘È evidente che
favorire lo sviluppo dell’agricoltura in senso

273
capitalistico non può essere compito di un
programma agrario socialista. A ciò non si è mai
pensato in nessuna parte. No, si è pensato invece
a provvedimenti che fossero in grado di
preparare fin da oggi il terreno alla produzione
socialista nell’agricoltura e di affrettare senza
sofferenze il passaggio a quest’ultima’. Ed è
strano come Lenin nella sua recensione del
marzo 1899 al libro di Kautsky (op. compl., v. 4,
p. 100) scriva invece: ‘Il processo attraverso cui
si compie la radicale trasformazione di tutta
l’agricoltura ad opera del capitalismo è appena
agli inizi… Sarebbe reazionario e dannoso
tentare di arrestare questo processo: per quanto
gravi possano essere le conseguenze di questo
processo per l’odierna società le conseguenze di
una sua interruzione sarebbero ancora
peggiori…’ Che rappresenta d’altra parte il
nocciolo della politica agraria leniniana di quegli
anni».
15
Walichi, op. cit., p. 87.
16
E. Hobsbawm, I ribelli, Torino 1966, p.
106.
17
Questo è il giudizio a riguardo del
Cinnella, op. cit., p. 800: «Il grande dibattito
sull’Agrarfrage influì profondamente
sull’elaborazione teorica, e sulle scelte politiche
del partito operaio russo, che si collegavano per
molti aspetti ai risultati generali dell’esperienza
teorica-pratica del movimento socialdemocratico
europeo».
18
H.G. Lehmann: Die Agrarfrage in der
Theorie und Praxis der deutschen

274
und internazionalen Sozialdemokratie, Tubingen
1970. La traduzione italiana è: Il dibattito sulla
questione agraria, Milano 1977.
19
Lenin, ibidem, vol. II, pp. 83-111.
20
Lenin, ibidem, vol. IV, pp. 211-256.
21
E ciò, si rifletta, alla vigilia dei grandi
moti rivoluzionari contadini del 1902 e del 1905-
7!!
22
Scrive Martov, op. cit., p. 55: «In pari
tempo le rivolte contadine nei primi mesi del
1902 diedero nuovo impulso al populismo
rivoluzionario… In varie località interi gruppi di
operai organizzati passarono dalla
socialdemocrazia ai socialrivoluzionari. Anche
alcuni intellettuali che all’inizio della loro attività
politica erano più o meno collegati con la
socialdemocrazia, passarono completamente ai
socialrivoluzionari…».
23
V. Zilli, La rivoluzione russa del 1905,
Napoli 1963. Si veda anche N. Pokrovski), op.
cit., pp. 271-291: «Il quadro cominciò a cambiare
con il nuovo secolo, ossia con il superamento
della crisi agraria, con il delinearsi di quella
situazione senza sbocco per l’azienda
contadina…, con il costituirsi di un fronte
unitario di lotta dei contadini contro il grande
proprietario fondiario. Le agitazioni contadine
aumentarono di anno in anno, toccarono il
culmine nel 1902, quindi s’indebolirono un po’,
per poi esplodere di nuovo nel 1905. Il 1902
deve essere considerato come il primo anno del
movimento contadino di massa in Russia dopo la
concessione della ‘libertà’. Questo movimento

275
ebbe un carattere di massa soprattutto in alcuni
distretti dei governatorati di Poltava e Charkov
che si protrasse per alcuni giorni (tra la fine di
marzo e l’inizio di aprile) ebbe un
carattere eccezionale… un carattere di
continuità… Ma sarebbe sommamente miope
considerare l’intero movimento di massa come
una rivolta della fame. Per essere tale il
movimento era troppo organizzato. Aveva un suo
centro, ossia il villaggio di Lisicja… In quel
villaggio funzionava un piccolo circolo
rivoluzionario… che aveva una fisionomia ben
definita e che, in particolare, godeva di grande
prestigio tra le masse contadine… In breve i
‘disordini’ di Poltava e di Charkov non furono
un movimento di soli contadini poveri in quanto
ad essi partecipavano tutti i contadini nel loro
insieme… Nel governatorato di Saratov tra gli
agitatori troviamo dei veri e propri kulaki, anche
se si tratta di un’eccezione. Di norma infatti il
kulak cercava di rimanere neutrale. Il kulak
detestava il grande proprietario fondiario non
meno del contadino medio ma tuttavia rischiava
di più da ogni parte… Tuttavia il kulak non fu
mai del tutto alieno dall’aderire al movimento
per cercare di cavarne tutti i vantaggi possibili:
così fece nel 1902, nel 1905 e nel 1907. Fino
alla spartizione delle terre dei grandi proprietari
fondiari, cioè fino alla scomparsa delle
sopravvivenze del feudalesimo dalle campagne,
la contraddizione fondamentale di classe sarebbe
stata quella tra i contadini e i grandi proprietari
fondiari. L’intellettualità piccolo borghese,
rendendosi conto di ciò che le era mancato negli

276
anni Settanta, ossia una massa contadina capace
d’insorgere, non poteva non ricostituirsi come
forza rivoluzionaria, non poteva non tentare di
far risorgere il contenuto ideale e le forme di
lotta cui era abituata. Così nel 1902 dagli ex
marxisti e dai vecchi populisti rivoluzionari
superstiti nacque il partito dei socialisti
rivoluzionari che vide nei contadini il principale
sostegno della rivoluzione e nel terrorismo il
principale metodo di lotta rivoluzionaria».

277
Capitolo secondo

IL SECONDO CONGRESSO DEL PARTITO


OPERAIO SOCIALDEMOCRATICO RUSSO






Il secondo congresso del partito
1
socialdemocratico russo (P.O.S. -D.R.) si tenne
come è arcinoto prima a Bruxelles e poi a Londra
nel luglio-agosto del 1903.
Il progetto di programma (sulla base del
documento pubblicato dall’Idra un anno prima)2
fu approvato dal congresso, (salvo marginali
modifiche) e rimase praticamente immutato fino
al 1919 3.
In esso il partito socialdemocratico si poneva
come obiettivo immediato il rovesciamento del
governo zarista e l’instaurazione di una
repubblica democratica. Nella sezione agraria
del programma venivano ripetute le
rivendicazioni già poste da Lenin nel 1895 e nel
1899 e il punto saliente della relazione
introduttiva di Lenin fu la richiesta di
restituzione alle comunità rurali degli otrezki4!
Ma per il problema agrario l’interesse del
Congresso non risiedette nel programma e nella
relazione introduttiva quanto nella discussione 5.
Maslov, che diverrà poi l’«esperto» menscevico

278
di questioni agrarie, giudicò insufficiente tale
richiesta e Lenin rispose6: «Ecco qual è il senso
del nostro programma agrario: il proletariato
rurale deve lottare insieme ai contadini ricchi
per l’abolizione dei residui feudali, per gli
otrezld. Chi esaminerà attentamente questa tesi
capirà quanto siano inesatte, fuori luogo e
assurde simili obiezioni: poiché solo gli
otrezki visto che si tratta di una misura
inefficiente? Perché insieme coi contadini ricchi
il proletariato non può e non deve andare oltre la
distruzione del regime feudale, oltre gli otrezki.
Oltre questo obiettivo il proletariato in
generale e il proletariato rurale in particolare
andrà da solo, non insieme alla massa
contadina, non insieme al contadino ricco ma
contro di lui. Noi non andiamo oltre gli otrezki
non perché non vogliamo il bene dei contadini o
temiamo di spaventare la borghesia, ma perché
non vogliamo che il proletariato rurale aiuti il
contadino ricco più del necessario, più di quanto
sia necessario per il proletariato.
Dell’asservimento feudale soffrono sia il
proletariato che il contadino ricco, contro questo
asservimento essi possono e devono andare
insieme, ma contro ogni altra forma di
asservimento il proletariato andrà da solo.
Nel nostro programma la distinzione tra
asservimento feudale e asservimento di qualsiasi
altra natura deriva necessariamente dalla
rigorosa difesa degli interessi del proletariato.
Noi tradiremmo questi interessi e
abbandoneremmo il punto di vista di classe del
proletariato se ammettessimo nel nostro

279
programma che i contadini (cioè i contadini
ricchi e i contadini poveri) andranno insieme
oltre l’abolizione dei residui feudali; in tal modo
noi freneremmo il processo inevitabile, e
importantissimo per un socialdemocratico, di
definitiva separazione del proletariato rurale dai
contadini proprietari, il processo di crescita della
coscienza di classe proletaria in campagna».
Dunque per poter imbracare la realtà
contadina russa nel suo schema engelsiano e
secondo internazionalista Lenin riusciva,
attraverso un contorto ragionamento, a rendere
una cosa del tutto semplice estremamente
complicata riuscendo inevitabilmente a non
cogliere il nodo della situazione di classe.
Da una parte ammetteva implicitamente che il
contrasto di classe prioritario era tra massa
contadina (contadini ricchi e poveri) e
grande proprietà (signorile e di Stato) per cui
l’unica parola d’ordine valida e unificante non
avrebbe dovuto essere che la confisca. Invece
no: soltanto la restituzione degli otrezky. Il che
voleva dire che la grande proprietà rimaneva non
messa in questione e rimaneva così, assieme a
tutti gli altri gravami, la sostanza
dell’asservimento feudale. Il che significava non
saper dare ai contadini una parola d’ordine
effettivamente mobilitante e rivoluzionaria.
Perché? Probabilmente Lenin voleva dire che con
una parola d’ordine «borghese» quale era per lui
«la terra ai contadini» il processo di formazione
di una coscienza socialista da parte
del proletariato agricolo si sarebbe fermato.
Ma era qui che tutta la precedente

280
elaborazione populista sarebbe stata preziosa in
rapporto alle specificità della situazione agraria
russa.
Le terre confiscate avrebbero dovuto essere
consegnate alle obsciny e queste avrebbero
deciso come usarle, in che parte coltivarle
collettivamente e in che parte individualmente
oppure soltanto collettivamente ecc. [Si
ricorderà che il programma politico della
Narodnaja Volja diceva al punto 4): «Le obsciny
(di paese, di villaggio, di borgata, gli arteli di
fabbrica ecc.) decideranno dei loro affari in
assemblea dei loro membri e affideranno
l’esecuzione ai loro eletti…
Tutta la terra passerà nelle mani del popolo
lavoratore e sarà considerata una proprietà
popolare (o nazionale).
Ogni singola regione affiderà la terra in uso
alle obsciny o ai singoli individui a condizione
che la lavorino personalmente»].
Era in questa grande lotta politica per la
socializzazione effettiva della terra, che la
coscienza socialista dei contadini si sarebbe
formata!
Del resto, rientrando nello schema leniniano,
se la parola d’ordine fosse stata: «la terra ai
contadini» non si sarebbe poi formato
quel processo di differenziazione sociale e un
proletariato agricolo suscettibile di recepire
l’obiettivo della socializzazione della terra?
Che del resto le indicazioni di Lenin fossero
men che restrittive e del tutto incapaci di
esprimere lo stato di aperta o di sotterranea

281
rivolta contro il tremendo asservimento feudale
lo testimonia l’andamento stesso della
discussione anche se questa dimostrò,
soprattutto nella sostanza, lo stato di incertezza
e di confusione dei delegati sul più grosso e
decisivo problema sociale e politico su cui erano
chiamati a decidere.
Conseguenza nefasta anche questa della
demolizione sistematica e accanita operata per
venti anni dell’unico interlocutore valido che
essi avrebbero potuto avere su quei problemi e
che era il movimento populista.
Ciononostante, l’ombra della ricostituzione
avvenuta l’anno precedente del partito
socialrivoluzionario, sovrastò tutti i lavori del
congresso 7. In effetti, fusi assieme diverse
organizzazioni e circoli populisti, il nuovo partito,
forte di una tradizione che malgrado tutte le
persecuzioni aveva lasciato una indimenticata
traccia e radici indistruttibili nelle campagne,
esso stava portando avanti attraverso l’«Unione
contadina» un importante ed esteso lavoro di
educazione rivoluzionaria di proselitismo e di
propaganda tra le popolazioni rurali. Purtroppo
la componente terroristica che avrebbe potuto
essere neutralizzata attraverso un
unitario confronto teorico e politico con i
marxisti russi (invece della lotta senza quartiere
e del reciproco rifiuto), era rimasta intatta e
manteneva il suo carattere di controproducente
«esemplarietà».
Tipico sintomo dell’isolamento politico in cui il
movimento era rimasto per tanti anni e del suo
non superato giacobinismo e tipico riflesso di

282
malintesa difesa contro le persecuzioni che
continuavano e la repressione che non era mai
cessata. Non fa dunque sorpresa leggere che
diversi delegati, intervenuti criticamente sulla
relazione di Lenin, si rifacessero alle parole
d’ordine lanciate dal risorto partito. Lenin per
esempio disse che il programma era
«Inconsistente»8 visto che i
socialisti rivoluzionari propagandavano la
spartizione di tutte le terre. Anche Martinov
sostenne che occorreva confiscare tutte le terre
signorili e trasferirle alle obsciny.
Con la rivendicazione relativa agli otreski
polemizzò la maggioranza degli interventi e
Gorin fece rilevare che la restituzione delle
«terre stralciate» non avrebbe per nulla
eliminato i residui feudali perché sarebbero
rimasti tutti gli altri gravami (prestazioni di
lavoro tipo corvées, pagamenti in natura ecc.).
Soltanto Zordanja colse il nodo vero del
problema ma non lo approfondì 9: «Il nostro
programma agrario—disse—deve contenere
rivendicazioni sia negative che positive,
eliminazione del vecchio ordinamento e
introduzione del nuovo ordinamento socialista,
ecco quali principi debbono guidarci nel lavoro
tra i contadini».
Ma quello che forse meglio dette il grado di
insensibilità di una parte dei delegati (e si era
alla vigilia del 1905!) fu certo Kalafati che fu
lapidario: «Tutto il programma agrario è
superfluo. Se noi ci rivolgeremo al proletariato
contadino potremo farlo con la parte generale
del nostro programma; se poi vogliamo rivolgerci

283
all’altra parte, non proletaria dei contadini, non
possiamo dar loro nulla. Propongo pertanto di
respingere tutto il programma» 10.
In conclusione c’è da chiedersi come mai quel
programma venisse nonostante tutto approvato
(con pochi altri Plekhanov e Trockij avevano
sostenuto la relazione di Lenin, e Trockij 11, con
la solita sufficienza giacobina, aveva trovato
modo di parlare del nuovo partito
socialrivoluzionario come di una «bolla di
12
sapone» ! dimostrando la sua
scontata insensibilità per i problemi dei
contadini). E la risposta non può essere che una.
Nessuno dei delegati socialdemocratici dato il
tipo della loro formazione e il carattere
distruttivo della polemica coi populisti poteva
avere una visione chiara della realtà di classe
delle campagne; le critiche rivelavano soltanto
uno stato d’insoddisfazione generico e
focalizzato soltanto su qualche punto e su
qualche generalità. Nessuno era in grado di
formulare un’alternativa, per cui il Programma
sostenuto dalle personalità più forti del partito
non poteva altro che passare, come infatti
avvenne. Non solo ma, nonostante la famosa
rottura in quel congresso tra menscevichi e
bolscevichi, esso venne approvato da tutti e due i
gruppi.
E tale rimase fino al ’19!
Resta dunque documentato che appena due
anni prima del 1905, i socialdemocratici russi
non avevano assolutamente chiara la
drammatica situazione delle campagne russe e la

284
sua sterminata carica rivoluzionaria, tranne
forse in qualche isolato gruppo incapace per
altro di acquisire alle proprie posizioni il gruppo
egemone dell’Iskra.
Si può perciò affermare che il P.O.S.D.R., pur
elaborando alcuni punti originali rispetto alla
politica della «neutralizzazione» dei contadini 13
(varata dalla socialdemocrazia europea dopo
gl’insuccessi delle agitazioni del ’90), aveva
fatalmente subito l’influenza del dibattito
sulla Agrarfrage in quanto la socialdemocrazia
tedesca e Kautsky 14 erano allora (e lo sarebbero
stati fino al ’14) il loro costante punto di
riferimento 15.
Plekhanov del resto lo aveva detto
chiaramente al congresso: «La richiesta di
restituzione degli otrezki appartiene al novero
delle rivendicazioni parziali, ma ha lo scopo
precipuo di modernizzare la nostra società. Il
nostro programma agrario contiene solo
rivendicazioni di questo tipo. Quando si parla
della moderna società borghese noi aderiamo al
punto di vista di Kautsky e non riteniamo
necessario elaborarne uno nostro» 16. Con questa
dichiarazione d’incapacità «agraria» si
concludeva per così dire, la formazione populista
di Plekhanov!
Al contrario il risorto partito
socialrivoluzionario riteneva di avere qualcosa
da dire in merito al problema agrario russo e nel
suo programma pubblicato sull’organo del
partito proprio alla vigilia della rivoluzione, nel
maggio del 1904 proclamava che i
17
socialrivoluzionari richiedevano : «la

285
socializzazione di tutte le terre private, cioè la
loro sottrazione alla proprietà delle persone
private, la loro trasformazione in patrimonio
nazionale e la loro concessione a comunità
organizzate democraticamente e ad associazioni
territoriali di comunità, sulla base dello
sfruttamento egualitario».
Vale a dire quel partito individuava in modo
corretto le forze motrici di una rivoluzione non
tanto democratico-borghese quanto in
prospettiva di tipo socialista, indicando in
sostanza la liquidazione del latifondo e
l’assegnazione della terra alle comunità
contadine.
Ma è sullo sfruttamento egualitario della terra
che i socialdemocratici avrebbero potuto
condurre il loro confronto con le posizioni
socialrivoluzionarie se un vero dibattito fosse
stato possibile tra i due movimenti, attraverso la
sottolineatura della necessità, subito e non nella
seconda fase, della lavorazione su larga scala, il
più organicamente possibile.
È lì che essi avrebbero dovuto misurare la
loro concezione con quella dei socialrivoluzionari
che propugnavano nella «prima fase» soltanto la
distribuzione inviduale (ed egualitaria).
Ma pur con dei limiti nei confronti di una
rivoluzione agraria che si muovesse anche con
esigenze di produttività (e colpa che questi limiti
esistessero spettava anche alla polemica non
costruttiva dei marxisti russi) il programma
agrario del P.S.R. rifletteva in modo diretto la
situazione di classe delle campagne (la non
accentuata differenziazione sociale delle masse

286
contadine e le loro aspirazioni) e l’obiettivo
unificante della rivoluzione agraria esprimeva gli
interessi di tutti i contadini e non soltanto degli
strati non vasti dei proletari agricoli.
In conclusione i socialrivoluzionari si facevano
portavoce e protagonisti nei confronti di tutte le
altre forze politiche russe delle concrete istanze
rivoluzionarie delle masse contadine
conquistandosi «sul campo» un’influenza che
manterranno fino ai primi anni dopo la
rivoluzione d’ottobre.
All’opposto sarà gravido di tragiche
conseguenze per i socialdemocratici non essere
riusciti a porsi alla testa di una rivoluzione
agraria che si muovesse in direzione socialista (si
ricorderà che il Cernyi peredel nel suo
Programma del 1880 parlava della rivoluzione
agraria come «fase di passaggio verso la
trasformazione della società su basi
socialiste») e di non essere riusciti a enucleare
dunque l’urgente obiettivo dell’occupazione del
latifondo causa prima non solo dell’asservimento
contadino ma della tragica arretratezza e
improduttività e miseria delle campagne 18.
Si può perciò ben dire che mentre veniva
frettolosamente ratificato il programma agrario
in quel Congresso dove su 37 sedute più della
metà furono assorbite dalla discussione sullo
statuto del partito che vi si lacerò 19 e mentre
veniva lasciata, tra incertezze e critiche, non
chiarita teoricamente e politicamente la
questione assolutamente prioritaria (se essa
riguardava la prospettiva di partecipazione
rivoluzionaria di più dell’80%, della popolazione

287
russa), si può ben dire allora che in quella
approvazione frettolosa si affossavano le
speranze di emancipazione socialista partecipata
e consensuale nel breve e medio periodo.
Esempio impareggiabile di quanto possa o
non possa incidere la sovrastruttura di una
posizione teorica corretta nella struttura dei
rapporti sociali di produzione.
Una integrazione marxista-populista che fosse
riuscita a tradurre l’irriducibile contrasto
teorico-politico in confronto unitario e ad
individuare le forze motrici della rivoluzione
russa non avrebbe portato ad altri risultati la
rivoluzione del 1905? 20



1
Il secondo congresso del P.O.S.D.R. luglio-
agosto 1903, Protocolli, Mosca 1959.
2
Martov-Dan, op. cit., p. 61. Si legga G.
Migliardi, Lenin e i menscevichi. L’«Iskra»
(1900-1905), Milano 1979, pp. 9-45.
3
Cinnella, op. cit., pp. 761 e sgg.
4
E. Cinnella, op. cit., p. 795, così
commenta: «Attribuendo ai rapporti di
produzione capitalistici un peso maggiore di
quanto in realtà non avessero, il programma
agrario del P.O.S.D.R. non dava il giusto rilievo
all’enorme potenziale rivoluzionario della lotta
antifeudale dei contadini. La teoria delle ‘due
guerre sociali’—antagonismo tra borghesia
rurale e proletariato agricolo da una parte e lotta
di tutti i contadini contro i residui feudali

288
dall’altra—non coglieva l’importanza
fondamentale e prioritaria del contrasto di classe
tra i grandi proprietari terrieri e le masse rurali.
Sopravvalutando il livello di sviluppo
capitalistico nel settore agricolo, i marxisti russi
non intuivano la vera natura dei rapporti di
classe nelle campagne. La strategia
rivoluzionaria del P.O.S.D.R. risultava così
inadeguata rispetto alla complessità dei problemi
da risolvere».
5
Martov scrive in op. cit., p. 62: «Nella
parte pratica del programma le rivendicazioni
agrarie furono criticate, in quanto alcuni delegati
consideravano necessario che si andasse
incontro in larga misura al desiderio dei
contadini di prendere possesso delle grandi
proprietà».
6
Lenin, Opere complete, Mosca 1967, voi.
vii, p. 223.
7
Martov-Dan, op. cit., pp. 40 e 42.
8
Cinnella, op. cit., p. 765.
9
Ibidem, p. 767, n.21.
10
Ibidem, p. 767, n. 20.
11
Si legga la presentazione di V. Zilli a
Trockj, 1905, pp. ix-x per la posizione generale di
Trockj in quel congresso: «Durante il secondo
congresso del Partito Operaio Socialdemocratico
Russo (1903) Trockij si schierò—come è noto—
dalla parte dei menscevichi non tanto per ragioni
ideologiche quanto per motivi sentimentali. (Si
veda anche L. Trockij, La mia vita, Milano 1961,
p. 143 e anche V. Zilli, La rivoluzione russa del
1905, cit., pp. 640-644). Ma la

289
collaborazione con i menscevichi non fu di lunga
durata per l’insorgere di un disaccordo a
proposito della guerra russo-giapponese e delle
prospettive aperte in Russia da tale evento.
Trockij condivideva i principi dell’
‘autocoscienza’ e dell’ ‘autoattività’
del proletariato, che i menscevichi venivano
affermando con particolare vigore in
contrapposizione a quelli sostenuti da Lenin e
dai bolscevichi, fautori di un centralismo
organizzativo, tendenzialmente autoritario».
12
Cinnella, op. cit., p. 199, n. 93. Ma per
una collocazione storiografica di Trockij non di
parte si vedano in particolare gli Atti, in corso di
pubblicazione presso la Feltrinelli, del Convegno
internazionale di Follonica, del 7-11 ottobre ’80,
nel 40° anniversario della morte. E per il
rapporto di Trockij con la questione contadina si
legga la relazione di F. Bettanin: ‘Il problema
agrario’. Ma si vedano anche le relazioni di V.
Strada su ‘Trockij e Lenin’; di P.P. Poggio ‘La
peculiarità della Russia nell’analisi di Trockij’; di
G. Migliardi ‘La rivoluzione del 1905’.
Nonché quelle di Baruch Knei-Paz, Lowy,
Benvenuti, Di Biagio, Day, Nove, Maitan, ecc.
13
Così si esprime a riguardo il Cinnella, op.
cit., p. 785: «Ma la parte più interessante e
originale del programma agrario leniniano era,
come si è già accennato, il principio della lotta di
classe all’interno del mondo rurale. Anche se
nella letteratura socialdemocratica degli anni ’90
non mancavano riferimenti alle differenze sociali
esistenti tra la popolazione contadina, solo nel
secondo capitolo dello Sviluppo del capitalismo

290
in Russia era presente un’analisi
particolareggiata dei diversi strati della massa
contadina e dell’antagonismo tra borghesia
rurale e proletariato agricolo».
14
Si legga in Cinnella, op. cit., pp. 781-2:
«Anche nella Questione agraria (1899) di
Kautsky, che è il testo più maturo e
rappresentativo della discussione svoltasi su
questo problema nell’ambito della II
Internazionale, mancava l’indicazione di una
prospettiva rivoluzionaria capace di mobilitare le
masse contadine».
15
Il Cinnella, op. cit., p. 785 scrive: «Le
conclusioni fondamentali della ricerca leniniana
confermavano sostanzialmente i risultati del
lavoro di Kautsky sulla Questione agraria (1899):
proletarizzazione dei Kleinbauern, superiorità
economica e tecnica della grande azienda
rispetto alla piccola ecc….: poiché non si poteva
evitare il processo d’impoverimento e
proletarizzazione dei Kleinbauern a nulla giovava
presentare rivendicazioni a loro favore
nell’ambito del modo di produzione
capitalistico».
16
E. Cinnella, op. cit., p. 800, n. 94. Ma per
come il «punto di vista di Kautsky» potesse
essere più problematico si veda pp. 777-8-9, nota
4.
17
Zilli, op. cit., pp. 691-698.
18
Si legga in Cinnella, op. cit., p. 783:
«Manca però (in Lenin) la formulazione di una
rigorosa e coerente teoria rivoluzionaria che
veda nell’alleanza strategica, e non solo

291
occasionale, tra classe operaia e movimento
contadino, la condizione essenziale per il
rovesciamento dell’autocrazia zarista e
l’instaurazione di un regime democratico.
Secondo Lenin e gli altri marxisti russi, solo il
proletariato era capace di condurre sino in
fondo, con decisione e coerenza, la lotta per la
libertà e la democrazia».
E a p. 784: «Se nel programma agrario del
partito socialdemocratico russo si poneva
l’accento sull’opportunità di sostenere il
movimento antifeudale dei contadini, ciò non
significava fiducia nell’autonoma capacità
rivoluzionaria delle masse rurali»… «… e proprio
perché i contadini russi erano ancora, per certi
aspetti, un ceto sociale appartenente al passato
feudale e non una classe della moderna società
borghese, il partito operaio doveva appoggiare la
loro lotta progressiva, volta a favorire lo sviluppo
capitalistico».
19
Martov, op. cit., pp. 66 e sgg. scrive in
proposito: «Lenin e i suoi seguaci chiedevano
che questo articolo (quello famoso sulla
definizione di membro del partito F.B.) fosse
formulato in modo che si potessero considerare
membri del partito solo i rivoluzionari attivi,
facenti parte delle organizzazioni illegali
del partito stesso… ma… una gran parte dei
lavoratori socialdemocratici, costituenti l’anello
di congiunzione fra i gruppi del partito e la
massa operaia, i quali tuttavia per ragioni
attinenti all’efficacia della loro attività non
ritenevano di inserirsi nelle ‘cellule’ illegali e nei
comitati… A tali circostanze si riferiva

292
l’opposizione (i menscevichi F.B.) allorché
chiedeva al congresso che dovesse prescriversi
per l’appartenenza al partito in qualità di
membro, oltre all’accettazione del programma, la
condizione di chi ‘lavorava sotto il controllo
dell’organizzazione del partito’ e non di chi
‘entrava nell’organizzazione’ come invece voleva
Lenin… Lenin e Plekhanov intendevano il partito
come una ristretta cerchia di ‘provati
rivoluzionari’ e tendevano in pari tempo a
escludere dalle sue file tutti coloro che
dedicavano ad esso solo una parte delle proprie
energie o ne accettavano solo in
modo approssimativo i principi… Ribattevano i
loro contraddittori, i futuri ‘menscevichi’ che le
tendenze di Lenin e Plekhanov, da cui
conseguiva che il partito dovesse racchiudersi
nei limiti delle organizzazioni illegali, erano,
nella loro sostanza, antisocialiste, in quanto
conducevano a ridurre il partito a
un’associazione di cospiratori e a lasciar divisa e
dispersa la classe operaia e infine a una politica
di partito che non teneva alcun conto di quanto
volevano gli elementi realmente avanzati del
movimento operaio. I dibattiti su questo punto si
conclusero con una vittoria dell’opposizione: il
primo articolo dello Statuto fu approvato nella
formulazione datane da Martov. Ma Lenin fu
compensato di questa sconfitta dall’approvazione
degli altri articoli dello Statuto i quali—dal
momento che i poteri fondamentali di
nomina d’ufficio, di cooptazione e d’integrazione
per costituire i comitati locali vennero deferiti al
comitato centrale, il cui potere sui comitati locali

293
diventò quasi illimitato— toglievano alla massa
degli iscritti qualsiasi influsso sullo svolgimento
della politica del partito».
20
Sulla discussione sul carattere della
rivoluzione russa che si ebbe in Italia nel 1904-9
si legga Gastone Manacorda Rivoluzione
borghese e socialismo, Roma 1975, pp. 208-228:
«Il socialismo italiano nel 1904 e ancora nel
1905 non solo non era in grado di distinguere fra
loro le due correnti della socialdemocrazia russa
ma confondeva non di rado i socialdemocratici
con i socialisti rivoluzionari; e i socialisti italiani
di sinistra attribuivano ai secondi la funzione di
guida del movimento rivoluzionario ed
esaltavano i loro metodi di lotta…. Lo stesso
Avanti riportava spesso notizie e commenti della
rivista socialista-rivoluzionaria.
Le tribune russe e al Congresso del partito
socialista italiano a Bologna fu letta una lettera
di Rulanovic, direttore di quella rivista,
considerato il massimo esponente della
rivoluzione russa. In occasione dell’uccisione del
ministro dell’interno Pieve e della polemica che
in quella occasione si accese fra
socialdemocratici e socialisti rivoluzionari a
proposito del terrorismo, l’Avanti prese
decisamente posizione a favore dei terroristi…
La discussione intorno al carattere delle forze
populiste della rivoluzione era cominciata in
Italia già durante il 1904. Di fronte alle notizie
sempre più frequenti di agitazioni rivoluzionarie
in Russia… alcuni giovani sindacalisti sostennero
che la solidarietà rivoluzionaria internazionale
dovesse manifestarsi in forme più concrete… La

294
proposta di rinnovare questo glorioso patrimonio
della democrazia italiana accorrendo a
combattere per la libertà della Russia, fu
lanciata alla metà del 1904 dal giornale dei
socialisti rivoluzionari e sebbene non sia stata
segnata neppure da un inizio di realizzazione
pratica, merita tuttavia di essere ricordata per la
discussione cui diede origine circa il carattere e
le forze motrici della prima rivoluzione russa…
… se la rivoluzione russa è una rivoluzione
democratico borghese contro l’assolutismo
feudale, quale posto ha in essa il proletariato,
che cosa ne ha da guadagnare e in che veste
deve parteciparvi? Questi problemi furono
sollevati per la prima volta in Italia appunto
quando un sindacalista, Cesare Marangoni,
propose di organizzare una spedizione di tipo
garibaldino in aiuto dei rivoluzionari russi».

295
Capitolo terzo

LA RIVOLUZIONE DEL 1905






Si può affermare con sicurezza che in Russia
alla vigilia del 1905 le condizioni di vita della
classe operaia nelle città e dei contadini
nelle campagne fossero arrivate a un limite
d’intollerabilità per cui una esplosione
rivoluzionaria era nell’aria 1.
La collimazione degli interessi delle due classi
verso una rivoluzione che contenesse già i germi
e la linea di tendenza verso una società socialista
sgorgava, come si è visto, dalla struttura stessa
della società russa. Ma le organizzazioni
rivoluzionarie che avrebbero dovuto esprimere
quella volontà e quel bisogno di socialismo in
un’unica strategia di emancipazione si
presentavano divise e ciascuna con un suo
inadeguato programma. Soprattutto il partito
socialdemocratico russo2, in seguito alla
lacerazione tra menscevichi e bolscevichi3 ma
soprattutto per le sue inconsistenti parole
d’ordine verso l’80% della popolazione russa, era
del tutto impreparato a porsi come punto di
riferimento e guida delle masse in rivolta4.
Nello stesso tempo il Partito

296
socialrivoluzionario che praticamente per venti
anni era stato tagliato fuori, in modo
considerevole, da una presenza attiva tra le
masse (benché la sua circoscritta influenza e
quella delle sue parole d’ordine che
rispecchiavano la volontà insurrezionale delle
masse contadine si facesse sentire in alterne
zone lungo tutto l’arco di tempo delle rivolte) e
che era tornato a ricostituirsi come partito
soltanto da tre anni, non era in grado neppur lui
di unificare e dirigere il movimento.
Drammatica si rivelò perciò la mancanza di
orientamento e di unificazione 5 quando nel
febbraio del 1905 le prime rivolte contadine,
sorte spontaneamente nelle «terre nere» delle
province baltiche e nel Caucaso, si diffusero
come una immane fiammata per le sterminate
pianure della Russia6.
Prive di un obiettivo unificante e di direzione
politica esse finivano con assumere il carattere
delle classiche jacquerie e si concludevano
separatamente e progressivamente nella
sconfitta. Eppure esse continuarono a propagarsi
e a divampare fino alla primavera e all’estate
del 1906 e del 1907 quando già nelle città e nelle
fabbriche la rivoluzione si era spenta da tempo7.
Quale avrebbe potuto essere l’esito della
«prova generale del ’17» qualora le intuizioni di
Marx nell’81 e il Programma della Zemlja i
Volja fossero divenuti patrimonio comune dei
due grandi movimenti rivoluzionari russi che per
venticinque anni si erano invece dilaniati a
vicenda 8?!

297
Non appaia gratuito (ma indicazione tratta da
una fonte teorica socialista sempre valida:
l’esperienza storica delle masse) il dire che se
quella unità politica e di azione si fosse
verificata9 innescando inevitabilmente un
processo di arricchimento reciproco sul piano
teorico e della pratica politica e su quello della
stessa consistenza organizzativa, allora la «prova
generale del ’17» sarebbe potuta risultare,
enfatizzando sul tema dello spettacolo, la prima
rivoluzionaria recita socialista sulla grande
ribalta della storia!
Per rientrare nei ranghi del concreto gli
avvenimenti del 1905, del 1906 e del 1907 non
poterono non riproporre alle organizzazioni
social-democratiche russe il problema contadino
10
e data perciò da quell’epoca (ma nei processi
storici gli anni perduti lo sono irreparabilmente e
a volte valgono generazioni) il suo essere messo
a fuoco come questione decisiva.
Lenin fu con Trockij quello tra i bolscevichi
che, come sempre, seppe meglio cogliere il senso
di quelle vicende e nella stessa estate del 1905 11
ne Le due tattiche della socialdemocrazia
afferma 12 : «Il proletariato deve portare a
compimento la rivoluzione democratica
legando a sé la massa dei contadini per
schiacciare con la forza la resistenza
dell’aristocrazia e neutralizzare l’instabilità della
borghesia. Il proletariato deve fare la rivoluzione
socialista legando a sé la massa degli elementi
semiproletari (i contadini poveri e quelli senza
terra), per spezzare con la forza l’opposizione
della borghesia e neutralizzare la instabilità dei

298
contadini e della piccola borghesia».
Insomma i due stadi della rivoluzione
rimangono separati ma si affacciano per la prima
volta (era ora!), pur come forza ausiliaria, le
masse contadine nella fase democratico-
borghese e i contadini poveri e senza terra
nell’altra. Un bel salto dalle contorte
teorizzazioni del II Congresso del 1903! Come a
dire quanto si diceva più sopra - l’esperienza
delle masse è una inconfrontabile maestra di
teoria politica! Ma un altro esempio si era avuto
al III congresso dei soli bolscevichi che si teneva
a Londra nell’aprile del 1905, in pieno
svolgimento della rivolta contadina e operaia. I
delegati sulla spinta degli avvenimenti furono
portati, contravvenendo al programma del
partito, a invitare: «contadini ed il proletariato
agrario» al «rifiuto collettivo di pagare le tasse e
le imposte del governo e dei suoi
rappresentanti». E il congresso dopo molti
contrasti pervenne al compromesso di
«dichiarare opportuno» 13 che venissero
appoggiate le rivendicazioni volte all’esproprio
dei grandi proprietari.
Questa estrema ritrosità ad appropriarsi del
programma agrario social-rivoluzionario 14
(tranne che per quanto sopra) e della parola
d’ordine dell’occupazione delle terre proprio nel
momento in cui era ormai persino superfluo
farlo, dato che stava già accadendo, fu soltanto
l’ulteriore prova del loro distacco dalla vita reale
e dai bisogni di quelle grandi masse, filtrati
sempre e solo attraverso rigidi schemi
ideologici15.

299
Ma per tornare a Lenin e al suo opuscolo Le
due tattiche 16 è bene sottolineare che vi appare
per la prima volta l’obiettivo immediato
della «dittatura rivoluzionaria democratica del
proletariato e della classe contadina» e quelle
che rimasero fino alla NEP le due condizioni
indispensabili per la riuscita della rivoluzione
socialista in Russia: la condizione dell’appoggio
attivo dei contadini17. E la condizione che il
proletariato socialista europeo venisse in aiuto al
proletariato russo (riprendendo anche qui come
si è visto la vecchia formulazione di Engels nella
sua nutrita corrispondenza coi populisti).
«I lavoratori europei o meglio il proletariato
urbano europeo mostreranno «come si fa» la
rivoluzione e allora noi insieme con loro faremo
la rivoluzione socialista». Formulazione che nella
sua ingenuità rispecchia in pieno l’assoluto
convincimento da parte della I e II Internazionale
che l’unico legittimo e patentato soggetto
rivoluzionario non potesse essere altri che il
proletariato urbano e si è vista perciò l’enorme
importanza che assumeva in quel contesto la
lettera dell”81 di Marx alla Zasulic. Per cui
quando si presentavano situazioni «abnormi»
come in Russia dove, indispensabilmente, vista la
composizione sociale avrebbero dovuto essere
anche le masse contadine (tra l’altro «piuttosto»
oppresse) a fare la rivoluzione, allora si ricorreva
inevitabilmente, per non infrangere lo schema,
all’aiuto esterno della classe operaia europea ma
così infrangendo altre formulazioni, per esempio
«L’emancipazione sarà opera dei lavoratori
stessi o non sarà» ecc. ma fermiamoci qui.

300
Indubbio segno, certo, in ogni caso di una
sottovalutazione «storica» delle potenzialità
rivoluzionarie dei paesi arretrati per cui la
cacciata del bakuninismo dall’Internazionale che
pur con tutte le sue contraddizioni
rappresentava le istanze rivoluzionarie delle
masse contadine di mezza Europa, significò un
tragico errore dalle incalcolabili conseguenze
negative (e forse Marx dopo le lettere alla
Zasulic non lo avrebbe ripetuto).
A parte questo discorso che qui è solo
accennato, è noto, riprendendo il filo, che fu
invece Trockij a teorizzare nel 1906 la
«rivoluzione permanente» 18 (altra vecchia
espressione marxiana: dopo il fallimento dei moti
rivoluzionari del ’48 in Germania, nell’Indirizzo
alla lega dei comunisti del ’50, veniva
proclamato: «Il loro grido di battaglia
sarà: rivoluzione permanente…»).
Il completamento della rivoluzione borghese
avrebbe significato il passaggio senza
interruzione alla rivoluzione socialista (Trockij
riferendosi ai limiti della rivoluzione del 1905 li
aveva colti nel fatto che era stata una
«rivoluzione urbana». E poco prima del 1905
aveva accennato a «la grande riserva di energia
rivoluzionaria» 19 delle campagne ma senza mai
arrivare a una strategia che le vedesse come
protagoniste, su di un piano di parità col
proletariato urbano, della rivoluzione e
questo sarà sempre il suo grande limite)20.
E parimenti noto peraltro come Lenin
entrasse due o tre volte in polemica con questa
concezione che non separava distintamente le

301
due fasi della rivoluzione russa e la facesse sua
soltanto nel ’17.
Concludendo è bene sottolineare come, date
queste carenze di elaborazione teorica e di
presenza pratica nel movimento di lotta,
l’organizzazione bolscevica non ebbe alcuna
parte diretta, come rileva Carr, nell’accendersi
della rivoluzione del 1905 e del febbraio ’17 21.
Si pensi del resto che la maggioranza dei
bolscevichi a Pietroburgo durante la rivoluzione
del 1905 guardava ai Soviet con grande
diffidenza 22 e come a degli organismi in
concorrenza con il partito (tra l’altro diviso tra
menscevichi e bolscevichi ma alla base, contraria
a quelle divisioni, la lacerazione era stata meno
grave).
Praticamente furono come il solito Lenin con
Trockij23 e pochi altri ad afferrarne l’importanza
rivoluzionaria tanto che Lenin, implicitamente
autocriticando le teorizzazioni blanquiste del
Che fare poteva scrivere nel 1906 riguardo ai
Soviet24 (che in fondo traducevano le strutture di
autogoverno delle obsciny, delle artel ecc. dei
vecchi populisti).
«Questi organi furono costituiti
esclusivamente dagli strati rivoluzionari della
popolazione, furono fondati in una maniera del
tutto rivoluzionaria, al di fuori di ogni legge e
regolamento, come prodotto della primigenia
capacità creativa popolare, come indicazione
dell’attività indipendente del popolo» 25.
Lenin, che era un autentico rivoluzionario,
quando era in vena e si sentiva partecipe di un

302
moto profondo di popolo, era capace di scrivere
senza adontarsene, con lo spirito di un populista!
Giustamente dunque Anweiler (op. cit., pag.
146) può commentare in questi termini: «Non a
caso il panegirico di Lenin sulla
creatività rivoluzionaria del popolo russo,
manifestatasi nei Soviet, attingeva al vocabolario
dei narodniki, socialisti rivoluzionari ed
anarchici»26.



1
Cfr. in particolare La rivoluzione del 1905,
cit., di V. Zilli e l’op. cit. di Carr. In Pokrovsky,
op. cit., p. 246: «Alla vigilia del 1905 la nostra
campagna era assolutamente preparata a una
rivoluzione agraria e di questo fatto si resero
ben conto gli stessi grandi proprietari fondiari».
2
Per la posizione dei menscevichi nel 1905
si veda O. Anweiler Storia dei soviet, Bari 1972,
pp. 114-122.
3
Ibidem: Nella formazione del consiglio dei
deputati, degli operai di Pietroburgo le
organizzazioni locali mensceviche svolsero un
ruolo determinante… Quando Martov alla fine
dell’ottobre 1905 ritornò a Pietroburgo
dall’emigrazione, il soviet gli apparve come
«l’incarnazione della nostra idea
dell’autogoverno rivoluzionario». La linea
politica seguita fino a quel momento permise ai
menscevichi di stabilire inoltre un rapporto
positivo con i consigli più rapidamente dei
bolscevichi. E si legga a p. 149 il giudizio sulla

303
concezione (nel 1906) leniniana dei Soviet:
«Lenin non può immaginarsi i Soviet che
come organismi che ricevono direttive dall’alto,
essi sono per lui strumenti del partito per
dirigere le masse operaie, non istituzioni di una
vera democrazia operaia. La contraddizione
fondamentale del sistema consiliare bolscevico,
che pretende di essere una democrazia di tutti i
lavoratori, ma in realtà non conosce che il
dominio di un partito, è già contenuta nella
interpretazione leniniana dei consigli della prima
rivoluzione russa».
4
Cinnella, op. cit., p. 801. «La vasta
insurrezione all’inizio del 1905 colse di sorpresa
il partito».
V. Zilli nella presentazione a Trockij, 1905
cit., p. xxv così scrive sulla posizione dei
menscevichi: «… quasi in ogni fabbrica
esistevano già da tempo alcuni operai che in
occupazioni diverse avevano rappresentato i
propri compagni. Sicché quando i menscevichi di
Pietroburgo nel corso dello sciopero generale
d’ottobre, invitarono tutti gli operai della
capitale ad inviare un delegato ogni cinquecento
per creare una specie di supercomitato cittadino
di sciopero, la loro idea trovò immediata
attuazione perché rispondeva ad una esigenza
reale e sentita e perché questi delegati
esistevano già di fatto. Ai menscevichi va dunque
non soltanto il merito di tale iniziativa, ma anche
di averla apprezzata senza riserve sin dal primo
momento… I bolscevichi manifestarono il timore
che… il Soviet potesse ostacolare l’ulteriore
maturazione del partito socialdemocratico. Fu

304
l’intervento di Lenin a far loro mutare
atteggiamento». E a p. xxxiii: «La tendenza a
negare il primato del Soviet di Pietroburgo ed a
sminuirne la funzione esemplare ha una
spiegazione molto semplice: in primo luogo
perché la creazione di quest’organo fu promossa
dai menscevichi, in secondo luogo perché la sua
attività ebbe in Trockij il suo maggiore
ispiratore».
5
Martov, op. cit.: «Proprio all’epoca del
Congresso di Londra—agosto 1903— mentre i
massimi dirigenti del partito si trovavano
all’estero, scoppiarono a Odessa e a Baku
scioperi di massa che accesero nell’impero
l’incendio di un imponente movimento di massa
proletario… In breve lo sciopero generale si
estese a Odessa, a Baku, a Elizavetgrad,
Nikolaev, Kiev, Kerc, Ekaterinoslav, Batum,
Tiflis, Kutais, Pot e ad altre città della
Transcaucasia. Anche a Charkov… a
Konotop, Borisoglebsk e a Mosca… In diverse
città (Baku, Batum, Tiflis, Michailovo, Kiev,
Ekaterinoslav, Nikolaev, Kerc) si ebbero scontri
sanguinosi… Sarebbe occorso un nuovo
poderoso potenziamento della socialdemocrazia
per trarre vantaggio dal rinnovato impeto del
movimento operaio, indirizzandolo nella
direzione giusta; ma la lotta all’interno del
partito bloccò tale possibilità. In questa lotta
furono impegnate tutte le energie del partito e
durante l’inverno del 1903-4 ci fu una
battuta d’arresto nell’attività dell’organizzazione
politica».
6
Si legga in O. Anweiler, op. cit., p. 87: «In

305
quattro Volosti del governatorato di Tver e nei
pressi di Novorossijsk e di Rostov sul Don
sorsero nel novembre e nel dicembre del 1905
per intervento diretto di operai della città dei
comitati o dei consigli dei contadini. Si trattava
per lo più delle normali assemblee dei villaggi
(schody) che si davano ora una veste
rivoluzionaria. Alcuni dei consigli di deputati
costituiti già nella primavera 1905 nelle miniere
e nelle fabbriche degli Urali erano in realtà per
la loro composizione consigli di operai e di
contadini, perché comprendevano un gran
numero di operai di origine contadina
che vivevano nei villaggi. Espressioni autonome
della rivoluzione contadina erano invece i
comitati contadini di Gurien, zona che fu teatro
di violenti moti contadini all’inizio del 1905. Le
rappresentanze rivoluzionarie elette dalle
comunità contadine rifiutarono di pagare le tasse
e la rendita e destituirono le autorità locali.
Il movimento era influenzato e diretto dalle
organizzazioni locali del partito menscevico, che
nei comitati contadini scorgevano degli organi
dell’autogoverno rivoluzionario».
7
O. Anweiler, op. cit., pp. 108-9 scrive:
«Con la sconfitta della rivoluzione tra la fine del
1905 e l’inizio del 1906 scomparvero anche i
Soviet. Una parte dei delegati più attivi fu
arrestata… Gli operai dimostrarono la loro
solidarietà con gli arrestati con una serie di
assemblee e risoluzioni di protesta… Nello
stesso periodo rinacquero le speranze di
ricostituire il Soviet in seguito alla
formazione nella primavera del 1906 di un

306
consiglio di disoccupati… Anche a Mosca,
Charkov, Kiev, Poltava, Ekaterinoslav, Baku,
Batum, Rostov, Kronstadt ecc. si
formarono consigli dei disoccupati che oltre a
fornire sussidi materiali, avanzarono anche
rivendicazioni politiche di carattere generale…
Mentre i socialisti rivoluzionari appoggiavano
l’agitazione per un nuovo Soviet, Lenin la
condannò con la massima energia… Questi
contrasti portarono alla disgregazione del
consiglio nell’estate del 1907».
8
Si legga la prefazione di M.Ja. Gefter a Il
populismo russo di V.A. Tvardoskaja a p. 10:
«Una delle maggiori difficoltà era rappresentata
per l’appunto, per i marxisti, dalla necessità di
spiegare perché l’utopismo, che pure aveva
subito una gravissima sconfitta nello scontro
ideale con il socialismo proletario, non solo non
era morto silenziosamente, inavvertitamente (gli
epigoni di idee tramontate faranno udire ancora
a lungo la loro voce solitaria) ma anzi, nel 1905,
era riuscito ad ispirare milioni di contadini in
lotta trasformandosi direttamente in ideologia
della democrazia contadina in Russia». E si legga
Pokrovskij, op. cit., pp. 466-7: «Il movimento di
massa sia operaio che contadino subì quindi una
sconfitta negli anni 1905-6. Quali furono le cause
di questo fallimento? Per molto tempo si pensò
che una delle cause fondamentali fosse da
ricercare nella mancata simultaneità dei due
movimenti. La straordinaria energia e l’evidente
spirito rivoluzionario delle singole sommosse
contadine dell’estate del 1906 indusse
erroneamente a supporre (che quello fosse stato

307
il culmine)… La statistica delle sommosse
contadine dimostra tuttavia che… i contadini
insorsero in forma più massiccia proprio nel
periodo in cui scioperarono e insorsero gli
operai, cioè nell’autunno e nella prima
metà dell’inverno del 1905… D’altra parte alle
iniziative contadine dell’estate del 1906 non
corrisposero importanti azioni operaie: si ebbe
così senza dubbio una maggiore durata della
rivoluzione contadina rispetto a quella urbana.
Ma la causa fondamentale della sconfitta… fu
diversa. Se la classe operaia non era riuscita a
superare l’economicismo del 1905, i contadini
non cominciarono a venirne a capo nemmeno
nel 1906. Neanche nel loro strato dirigente
affiorò infatti la coscienza che la lotta
non verteva più sui diritti del popolo ma sul
potere… La rivoluzione del 1905 non venne
condotta a termine perché la massa insorta non
era ancora coerentemente rivoluzionaria. Questo
dato di fondo si rifletté sul modo di dirigere la
rivoluzione».
9
Martov, op. cit., p. 92 scrive: «… dal
febbraio 1905 il movimento dei contadini
cominciò a scardinare l’esistente regime agtario
mentre nelle zone di frontiera, accanto alla
rivoluzione agraria, ebbe inizio una «rivoluzione
municipale»… Il punto debole di questa tattica
era costituito dal fatto di rifiutare di proposito
l’unificazione dei movimenti popolari sul piano
organizzativo».
10
Si legga in Pokrovskij, op. cit., pp. 394-
466 come gli stessi grandi proprietari fondiari
avessero coscienza della necessità

308
dell’«immediata e ampia alienazione delle terre
signorili a vantaggio dei contadini». E si leggano
anche le sue notazioni sulla vastità e forza del
movimento: «Come risulta dalle firme apposte
sotto l’appello all’insurrezione, ai bolscevichi si
associarono anche i menscevichi… e i socialisti
rivoluzionari… Nei contadini presero a sperare,
dopo i fatti di dicembre, i rivoluzionari russi.
L’offensiva degli operai è stata sconfitta, essi
argomentavano, ma non appena sarà intervenuta
la campagna, sullo sfondo dell’insurrezione
contadina, la rivoluzione operaia sarà
invincibile… Verso la fine del 1905
l’orientamento dei contadini si fece ancor più
risoluto e nel novembre-dicembre, i contadini
presero a rivendicare la convocazione immediata
di una Assemblea costituente, la rappresentanza
proporzionale, l’alienazione di tutte le terre di
proprietà privata e il loro trasferimento in
proprietà comune del popolo».
11
Valdo Zilli nella sua prefazione al 1905 di
Lev Trockij, p. xvii scrive a proposito della
posizione di Lenin delle «Due tattiche…»: «Lenin
invece interpretando ancora una volta il
marxismo in modo originale e autonomo
introduceva un’impaziente volontà di
rinnovamento propria dell’antico populismo
rivoluzionario in una dottrina facilmente intesa
da molti in senso troppo
rigorosamente deterministico. Con la nuova
formula Lenin ricostituiva l’unità delle forze
popolari che l’applicazione del concetto
marxiano di classe aveva infranto;
apparentemente, ma solo apparentemente si

309
accostava alla posizione dei socialisti
rivoluzionari, che fedeli alla posizione populista
avevano sempre proclamato la inscindibile
solidarietà di tutti i lavoratori delle fabbriche e
dei campi. Di fatto Lenin manteneva sempre una
netta distinsione tra operaio e contadino
subordinando il secondo al primo. L’alleanza
prevista rispondeva ad una semplice esigenza
tattica, non implicava eguale capacità politica
dei due membri del binomio dittatoriale; durante
la rivoluzione ‘socialista’ il secondo termine
sarebbe scomparso per dare luogo alla dittatura
del solo proletariato… consapevole della enorme
forza eversiva costituita dalla massa di milioni di
contadini egli coniava la formula… che
nel 1905… sarebbe di fatto rimasta una semplice
formula, ma nel ’17 avrebbe consentito una
politica… non dissimile nella sostanza da quella
avanzata dai socialisti rivoluzionari, garantendo
il successo della rivoluzione».
12
Lenin, op. compl., vol. ix, pp. 8-102.
13
Martov, op. cit., pp. 17-8 scrive: «Nei
dibattiti (in quel congresso) sulla posizione da
prendere verso il movimento contadino vennero
espresse le opinioni più diverse: gli uni
chiedevano che con l’elemento contadino si
stabilissero i vincoli più stretti, mentre altri
esprimevano il timore che l’accostamento al
movimento contadino attenuasse il carattere
proletario dell’attività di partito. Il congresso
giunse a una decisione nel senso di dichiarare
opportuno che venissero appoggiate tutte le
rivendicazioni dei contadini intese
all’espropriazione dei grandi possessi terrieri».

310
Nello stesso tempo si tenne la conferenza
menscevica la quale «riconobbe… il carattere
progressista del movimento contadino e il dovere
della socialdemocrazia, di appoggiare le
tendenze che, fra le masse contadine,
miravano ad ottenere la spartizione delle grandi
proprietà terriere».
14
Per quanto riguarda l’attività dei socialisti
rivoluzionari nel 1905 si veda O. Anweiler, op.
cit., soprattutto pp. 159-169, di cui riportiamo
qualche passo significativo: «Ma se
riconoscevano l’importanza e la forza del giovane
movimento operaio russo i socialisti rivoluzionari
continuavano a considerare il villaggio come la
potenziale base di massa della rivoluzione». «I
rivoluzionari socialisti… furono gli unici a
lanciare nel 1905 la parola d’ordine della
Comune… come era stata annunciata da Marx,
Engels e dal teorico russo Lavrov, secondo il
modello storico della Comune di Parigi del 1871.
Nell’articolo ‘Come si deve organizzare la
Comune rivoluzionaria?’ il giornale
Kommuna delineò un piano dettagliato per la
formazione e il funzionamento di un soviet
comune, che anticipava in modo sorprendente
l’organizzazione dei Soviet del ’17…». «La parola
d’ordine di lotta del gruppo suonava: ‘Compagni,
operai, preparatevi alla proclamazione delle
comuni nelle città’. Coerente con
questa posizione era il rifiuto del
parlamentarismo che, come mostrava l’esempio
dei partiti socialisti europei, portava a una
estraneazione dei dirigenti dalle aspirazioni e
dagli interessi delle masse e alimentava le

311
tendenze piccolo-borghesi-conservatrici nella
classe operaia. La Russia non aveva bisogno
perciò di una Assemblea Costituente, ma di una
federazione di Comuni rivoluzionari».
15
Cinnella, op. cit., p. 800 così scrive:
«L’incomprensione del ruolo attivo e autonomo
delle masse contadine nella futura rivoluzione
russa era il limite di fondo della strategia politica
del POSDR; e da questo punto di vista il
programma agrario della socialdemocrazia russa
nonostante alcuni elementi nuovi e interessanti,
non andava molto aldilà della ‘neutralizzazione’
dei Kleinbauern».
16
Opere scelte, Mosca, vol. I, pp. 335-443.
17
Sul tipo di coscienza rivoluzionaria delle
masse contadine nel 1905-7 si leggano queste
interessanti considerazioni di Pokrovsky, op. cit.,
pp. 457-460: «Erano anzitutto gl’incendi soltanto
un atto di assurdo vandalismo? Ecco come
descrive la tattica dei contadini un testimone:
‘Gli aspetti principali dell’azione dei contadini
sono i seguenti: 1) allontanare i proprietari
fondiari con la famiglia dalla tenuta; 2)
inventariare e dividere il grano e le derrate
alimentari, nonché i beni di uso domestico; 3)
portar via il bestiame; 4) licenziare i braccianti e
i domestici; 5) incendiare spesso gli edifici
dell’azienda. I proprietari fondiari, avvertiti dai
contadini, partono e non sono tollerate violenze
nei loro confronti. Mentre devastano l’azienda i
contadini decidono di trasferire in godimento
ugualitario al mir la terra signorile, in tal senso
in molte località vengono organizzati dei processi
pubblici. I poliziotti rurali, le guardie campestri

312
si nascondono e sono a volte tratti in arresto dai
contadini. Alla testa dei contadini che danno
l’assalto a una tenuta signorile c’è di solito
una squadra di combattimento armata; alla
spartizione del grano, delle derrate alimentari e
dei soldi procedono i comitati del luogo. Le
somme requisite negli uffici dell’azienda, negli
spacci statali di vino o presso gli esattori
dell’imposta sugli alcoolici diventano proprietà
pubblica. L’incendio dei fabbricati padronali è
motivato dai contadini con due considerazioni: a)
se gli edifici saranno distrutti dal fuoco, i
proprietari fondiari non potranno tornare troppo
presto in campagna e si avrà quindi possibilità di
consolidare il nuovo regime fondiario; b) se gli
edifici rimanessero intatti sarebbero un ottimo
acquartieramento per i cosacchi, che i contadini
detestano profondamente…’ (Russkie Vedamosti,
7 novembre 1905)… Così persino le azioni
contadine che ricordano più da vicino i metodi di
Pugacev per la loro forma, furono in realtà
tutt’altro che spontanee. E noi avremmo avuto
maggiori dati sul carattere meditato,
consapevole, della azione contadina, se la nostra
fonte—i rapporti dei gendarmi e dei
governatori —avessero avuto maggiore interesse
per gli ordinamenti introdotti dai contadini nelle
tenute da loro occupate che non per i disordini
da loro causati…»
18
Ed E. Wilson, op. cit., pp. 284-289. E si
legga V. Zilli, Trockij, 1905 cit., p. xxix «… per
Trockij il carattere internazionale della
rivoluzione socialista, concepita come processo
dinamico, e quindi ininterrotto, era requisito

313
essenziale ed inalienabile che non poteva essere
soppresso senza compromettere ed alterare la
sua essenza democratica. L’insistenza su questo
carattere nasceva dalla consapevolezza
dell’arretratezza della Russia e dal desiderio di
eliminare un pericolo, inevitabile, qualora il
partito fosse stato costretto a difendere il potere
conquistato in nome del proletariato contro la
maggioranza della popolazione
contadina, circondato per di più da un mondo
ostile». Cioè la solita prospettiva di
strategia rivoluzionaria che affondava le radici
nelle formulazioni a riguardo di Engels, che nella
polemica del 1875 con Tkacev prospettava una
possibilità di costruzione socialista in Russia a
condizione di una vittoria socialista in Occidente
e dell’appoggio del proletariato europeo
all’arretrata Russia: la rivoluzione socialista
poteva essere realizzata solo dal proletariato
urbano. È questo il perno della strategia
rivoluzionaria della I, II e III Internazionale con
le uniche eccezioni del Marx delle lettere alla
Zasulic e del Lenin del 1917. Essi avevano infatti
previsto che soggetto rivoluzionario potevano
essere anche le masse contadine (per Lenin,
dirette da quelle proletarie e «allo scopo di
suscitare la rivoluzione socialista in Europa». In
Lenin, Op. Compl., xxi, p. 369: Il compito del
proletariato russo di condurre a termine la
rivoluzione democratico-borghese in Russia allo
scopo di suscitare la rivoluzione socialista in
Europa). Il che del resto era del tutto inevitabile
una volta che non venisse colto nella sua
interezza il potenziale soggetto rivoluzionario di

314
una trasformazione socialista nelle campagne.
Ed è in questa direzione che Lenin affermerà,
soltanto nel ’17, che non vi è muraglia cinese tra
rivoluzione democratico-borghese e rivoluzione
socialista.
19
Opere complete, Mosca, 26 II, p. 20.
20
A ciò si legga per es. J. Camatte, op. cit.,
p. 81-2: «La testimonianza di Trockij è
interessante soprattutto a causa della sua
posizione rigorosamente marxista. Nella Storia
della rivoluzione russa egli scrive: ‘Nello stesso
tempo, comincia un movimento dei contadini
delle comunità contro i nuovi proprietari di lotti,
cioè contro i contadini ricchi che si erano
staccati dalle comunità prendendo lotti
indipendenti in virtù della legge Stolypin del 9
novembre 1906’ (p. 421). Ciò esprime bene la
volontà dei contadini di ricostruire la obscina,
cosa a cui Trockij non accenna. Egli si stupisce
che i contadini poveri vadano a cercare i kulak
per saccheggiare insieme le residenze dei
signori. Il fatto è che i kulak facevano ancora
parte della comunità. Anche Trockij deve però
riconoscere la forza delle tendenze comunitarie
tra i contadini».
21
Ma si veda anche lo studio di O. Anweiler,
op. cit., p. 30: «Noi riteniamo invece e crediamo
di essere più vicini alla realtà dei fatti, che sia il
soviet del 1905 che quelli del ‘17 siano sorti e
abbiano agito a lungo indipendentemente dal
partito e dall’ideologia dei bolscevichi». E a pag.
78: «Il soviet di Pietroburgo si sviluppò pertanto
a partire da tre diversi elementi: 1) I
rappresentanti eletti spontaneamente nelle

315
fabbriche: 2) L’agitazione dei menscevichi che
volevano inserire il Soviet nella loro campagna
per l’autogoverno rivoluzionario: 3) Il modello
del consiglio degli operai tipografici di
Mosca». E a p. 89: «Se e in che misura siano
state rilevanti per la formazione dei consigli
operai le tradizioni dell’antica comunità rurale
russa (obscina) è difficile da stabilire. Senza
dubbio gli operai delle fabbriche avevano ancora
un ricordo vivo delle usanze democratiche delle
deliberazioni collegiali delle assemblee
dei villaggi, e del resto anche il nome “anziani”
della fabbrica si richiamava agli starosti della
campagna»; p. 121: «Se si può parlare di un
precursore teorico dei consigli del 1905 niente
più dell’idea menscevica di autogoverno
rivoluzionario ha diritto a questo titolo… Nella
formazione del consiglio degli operai di
Pietroburgo le organizzazioni locali mensceviche
svolsero un ruolo determinante».
22
Si legga V. Zilli nella sua citata
introduzione al 1905 di Trockij: «La tendenza a
negare il primato del Soviet di Pietroburgo ed a
sminuirne la funzione esemplare ha una
spiegazione molto semplice: in primo luogo
perché la creazione di questo organi fu promossa
dai menscevichi, in secondo luogo perché la sua
attività ebbe in Trockij il suo maggiore
ispiratore». E Tovaglieri, op. cit., p. 107 e sgg.:
«E. Maevskj… illustrò più tardi molto
chiaramente il contrasto tra la concezione
menscevica del Soviet come organo
dell’autogoverno rivoluzionario e la concezione
bolscevica del Soviet come semplice comitato di

316
sciopero…».
23
Si veda Trovaglieri, op cit., p. 36, p. 111
ecc.: «La formazione del Soviet dei deputati
operai di Pietroburgo fu favorita inoltre
dall’agitazione intrapresa dal Gruppo di
Pietroburgo—l’organizzazione menscevica di
Pietroburgo—per la costituzione di un comitato
operaio elettivo per la direzione unitaria dello
sciopero generale»; «Come risulta dalla
testimonianza di Trockij sopraccitata,
nella seduta del 29 ottobre i bolscevichi rimasero
completamente isolati: la grande maggioranza
dei deputati si oppose infatti alla proposta
bolscevica di subordinare il Soviet a un
determinato partito». «Da parte sua questo
gruppo di operai socialisti rivoluzionari
contrapponeva alla richiesta bolscevica la
fusione all’interno del Soviet delle due frazioni
del partito socialdemocratico e del partito
socialista rivoluzionario».
24
Opere complete, Mosca, vol. ix, p. 116.
25
Ma si legga quanto Anweiler scrive su « I
soviet nella rivoluzione russa del 1917»
nell’opera già citata (p. 29-170) e per es. a p.
143: «Contro l’interpretazione menscevica dei
Soviet come organi dell’autogoverno
rivoluzionario, Lenin ripresentò la sua vecchia
tesi, per cui solo la vittoria della insurrezione
rendeva possibile l’autogoverno: ‘Il consiglio dei
deputati degli operai non è un parlamento
operaio né un organo di autogoverno, ma una
organizzazione di lotta per il raggiungimento di
determinati fini’ (Socialismo e anarchia 25
novembre 1906, Novaja Zizn, Opere Complete, x

317
p. 62)». E a p. 146: «Nell’ora della battaglia
rivoluzionaria Lenin fu sempre più vicino
all’eredità della tradizione rivoluzionaria russa
con la sua fede nel popolo, il suo slancio
idealistico e i suoi accenni anarchici, che alla
dottrina deterministica del marxismo
occidentale, come era professata dai
menscevichi».
26
Per la posizione degli anarchici nel 1905-6
si veda anche O. Anweiler, op. cit., p. 169. In
particolare p. 167: «Idee simili ai massimalisti
espressero gli anarchici che avevano piccoli
gruppi e pubblicavano giornali in numerose città
russe. Una conferenza tenutasi nell’ottobre del
1906 sotto la direzione di Kropotkin, il più
importante teorico degli anarchici russi, dichiarò
che la rivoluzione russa non avrebbe portato ad
un parlamentarismo di tipo occidentale, ma alla
costituzione di un insieme di ‘comunità locali
autonome, gruppi produttivi ed altre associazioni
e federazioni’ attraverso un processo di
profonde trasformazioni economiche e politiche.
Kropotkin era convinto che la ‘centralizzazione
burocratica fosse completamente estranea alla
vita e alla mentalità russa’ e invece ‘la
concezione anarchica dei rapporti politici le
fosse così consona, che sotto questo aspetto gli
anarchici avevano davanti a sé compiti
immensi’…». «In ogni caso le rivendicazioni
avanzate dai socialisti rivoluzionari di sinistra
e dagli anarchici erano le più adatte a fornire a
posteriori un’ideologia ai consigli dopo la
formazione. È ciò che fece appunto Lenin, con
geniale disinvoltura, riprendendole e

318
sviluppandole in questo senso, fino a rinnegare
parzialmente le sue precedenti posizioni. Gli
obbiettivi dell’estrema sinistra rivoluzionaria del
1905 —uno Stato costruito secondo il modello
della Comune, il trasferimento della proprietà
delle fabbriche agli operai, la soppressione della
burocrazia, dell’esercito e della polizia, la
proclamazione della rivoluzione mondiale
dall’Oriente—furono raccolti da lui nella parola
d’ordine del potere sovietico, con cui adottò
in apparenza il programma anarchico, per
assicurare così al bolscevismo l’adesione delle
masse».

319
Capitolo quarto

LA RIFORMA STOLYPIN






Un’altra conseguenza inevitabile della
rivoluzione del 1905 1 fu un certo
riavvicinamento dei bolscevichi e dei
2
menscevichi la cui rottura verticistica del 1903
non era stata approvata dalle rispettive basi:
lo scoraggiamento e l’indebolimento del partito 3
a seguito di quella rottura aveva influenzato
negativamente la sua incidenza sui moti del 1905
4
.
Mentre a Pietroburgo e in altre città dove
questa presenza era stata più viva i menscevichi
e i bolscevichi avevano lavorato assieme
contraddicendo gli organi dirigenti.
In questa atmosfera che, volenti o nolenti i
gruppi di vertice, si era determinata, il IV
Congresso del partito che si tenne a Stoccolma
nel 1906 passò alla Storia come il congresso
dell’unità e il suo aspetto più importante fu
assunto dalla discussione per la modifica del
programma agrario sulla base del presupposto,
valido sia per bolscevichi che menscevichi, del
carattere democratico-borghese della progettata
rivoluzione5.

320
In quell’occasione Lenin propose la
nazionalizzazione della terra e finì per
pronunciarsi a favore della divisione della terra
contro la municipalizzazione, proposta dalla
maggioranza dei menscevichi, e consistente nella
richiesta di trasferimento della proprietà della
terra agli «organi di governo elettivi locali» 6.
La politica della divisione della terra fra i
contadini sebbene «errata» —disse Lenin che in
genere era lapalissiano ma che si avventurava
in contorti arzigogoli quando non aveva le idee
chiare—non era «nociva» mentre quella della
municipalizzazione era errata e nociva nel
medesimo tempo7.
Il che significava che Lenin, pur dopo il 1905 8
non si era posto in nessun modo il problema di
una strategia nelle campagne che prevedesse il
passaggio a una fase intermedia di tipo socialista
e predisponesse dunque in qualche modo il
passaggio dalla piccola proprietà, attraverso
lo sviluppo del lavoro cooperativo nelle obsciny
all’unità cooperativa di produzione, traducendo
in russo la proposta trockista della
9
«rivoluzione permanente» (Passaggio che
accetterà soltanto nel 1917).
La proposta di municipalizzazione10 che
significava trasferimento della terra agli organi
elettivi locali e suo conferimento in usufrutto
permanente ai contadini, avrebbe potuto essere
sacrosantamente integrata con la prospettiva di
formazione graduale di unità agricole
cooperative facenti capo alle obsciny e alle
proprietà confiscate allo stato. E visto che il
congresso votò a maggioranza la

321
municipalizzazione contro le confuse e incerte
proposte bolsceviche11, si può capire
l’importanza slorica che in quel congresso
avrebbe assunto la presa di coscienza, che si
verificava per la prima volta dell’insegnamento
del 1905: la possibilità concreta di arrivare a una
unificazione del programma agrario bolscevico,
menscevico e social-rivoluzionario!
Alle volte anche i più grandi tattici e politici
che dovrebbero essere innanzitutto dei realisti,
rivelano misteriose imprevedibilità…
Ed è inutile sottolineare che i social-
rivoluzionari sostenevano anche loro a spada
tratta la «distribuzione egualitaria», cioè
individuale, da parte delle obsciny.
I bolscevichi, se avessero assunto una
funzione di spinta in questo processo di
unificazione, avrebbero finalmente potuto
cominciare a costruire una politica agraria,
fondata sulla grande tradizione comunitaria delle
comuni, (innestandovi il principio della
coltivazione su larga scala) che ancora era viva
malgrado tutto; e fondandola su un movimento
per la terra a carattere tendenzialmente
socialista.
Ma il fatto era che la formazione teorico-
politica di Lenin si era costituita,
sostanzialmente, attraverso un decennio di aspre
polemiche coi populisti e, malgrado la
rivoluzione ancora in atto in quei mesi
avesse dimostrato la decisività del problema
agrario nel futuro socialista della Russia, egli
non era ancora in grado di arrivare a una
profonda autocritica, al pratico capovolgimento

322
delle posizioni del ’94 e del ’95.
Paradossalmente, di fronte a tutte queste
incertezze e confusioni l’unico che riuscì a trarre
la giusta lezione «marxista» dagli avvenimenti
del 1905 e 1906 fu invece proprio il governo
zarista e il famoso decreto di Stolypin del
novembre del 1906 ne fu la riprova 12.
Infatti il decreto, nella sua istanza di fondo,
tendeva a distruggere il vecchio sistema di
proprietà collettiva contadina (fulcro di tutte le
resistenze e di tutte le rivolte) e naturalmente a
fare della proprietà privata contadina all’esterno
delle obsciny il perno dell’economia rurale russa,
il baluardo di una classe di piccoli proprietari
contro la rivoluzione che voleva proletarizzarli13.
Non per niente, infatti, nei dieci anni che
seguirono più di due milioni14 di famiglie
uscirono dalle comuni contribuendo in modo
decisivo al potente rafforzamento di quella
classe di piccoli proprietari contro cui erano
destinate a infrangersi le successive e sempre
inadeguate strategie dei bolscevichi.
Ma Lenin di nuovo arzigogolando per mezzo
del suo immancabile schema «marxista» di
capitalismo progressivo rispetto al
feudalesimo, scrisse che la riforma era «
progressiva nel senso economico-
scientifico». Ingolfandosi poi in quella distinzione
di via prussiana negativa 15 (grandi proprietari
terrieri che impiegano mano d’opera salariata) e
via americana positiva (capitalismo contadino
privato): e in sostanza confermando come egli
ritenesse che la mobilitazione e l’emancipazione
politica dei contadini dovesse essere

323
«rimandata» a quando l’economia agraria si
fosse sviluppata lungo linee «quasi
16
capitalistiche» ! ennesima dimostrazione della
sua refrattarietà a individuare nella realtà
contadina, così come era allora strutturata
socialmente e culturalmente, il
concreto fondamentale contrasto di classe e la
sua potenzialità rivoluzionaria. In ogni caso egli
condannò la riforma Stolypin come «via
prussiana». E condannò altresì con accenti
populisti la forzata distruzione delle comuni e
l’avvento del capitalismo! La politica stolipiana
era «la politica della completa rovina dei
contadini, della forzata dissoluzione delle comuni
per aprire la via al capitalismo agrario ad ogni
costo»!
È inutile a questo punto ricordare che questo
era quanto i populisti avevano combattuto e se
questo fosse stato posto a base di una linea
comune di azione a partire dagli anni 80 forse
una politica di reale mobilitazione delle masse
sarebbe stata possibile e indubbiamente
diverso sarebbe stato il corso degli avvenimenti
successivi e soprattutto quello delle rivolte nelle
campagne e nelle città del 1905, del 1906, del
1907.
Ma a parte queste considerazioni la riforma
Stolypin17 dimostrava tangibilmente che di fronte
alla incapacità dei partiti dell’opposizione
rivoluzionaria di costruire una strategia comune
ed egemone che facesse dei contadini gli effettivi
protagonisti, assieme al proletariato, di un reale
processo di rivoluzione socialista, l’iniziativa
passava inevitabilmente alla «controparte» 18.

324
Per quanto riguarda infine Lenin bisognava
dire che egli fu il solo bolscevico, a quel che se
ne sa, che dopo la rivoluzione del 1905 e dopo la
riforma Stolypin riuscì a fare una seria
autocritica 19 della sua sopravvalutazione (e di
quella del partito) del livello di sviluppo
capitalistico nelle campagne, ma purtroppo
questo avveniva alla fine del 1907 20
(Il programma agrario della socialdemocrazia
nella prima rivoluzione russa del 1905-1907)21 ed
erano passati 13 decisivi anni da quando
aveva iniziato la sua polemica con i populisti; ma
è meglio leggere come Lenin si esprimeva in
quello scritto che è di grande importanza22:
«Determinando esattamente la tendenza dello
sviluppo noi ne determinavamo in modo inesatto
il momento. Noi supponevamo che in Russia gli
elementi dell’agricoltura capitalistica si fossero
già formati tanto nell’azienda signorile (ad
eccezione degli otreski di cui chiedevamo
appunto la restituzione) quanto nell’economia
contadina da cui sembrava fosse sorta una
grossa borghesia contadina23!»
Ma anche nella prefazione, sempre del 1907,
alla raccolta 12 anni che contiene appunto lo
scritto sul programma agrario del II
Congresso, scriverà24: «Gli avvenimenti hanno
indubbiamente dimostrato che quel nostro
programma (restituzione delle terre stralciate)
era eccessivamente ristretto e sottovalutava la
forza del movimento contadino democratico-
rivoluzionario» .
Verrebbe da trasecolare e con amarezza!
Dunque tutta la strategia socialdemocratica e

325
bolscevica era stata costruita su quel
‘supponevamo’ e su quel ‘sembrava’! Tutto
quanto scritto in migliaia di pagine, in feroce
polemica coi populisti, nel Che cosa sono gli
amici del popolo?, ne Il contenuto economico del
populismo, nel monumentale Lo sviluppo del
capitalismo in Russia, ecc., ecc., poggiava su di
una pregiudiziale ideologica. Unica consolazione
—Lenin aveva avuto il coraggio di ammetterlo!
Ma certo un fatto resta: l’occasione storica di
cui parlava Marx 25 di una rivoluzione russa
poggiante sulla comune come «punto
d’appoggio della rigenerazione sociale» fu
perduta per sempre26.



1
Per quanto riguarda i populisti si veda per
es. J. Camatte, op. cit., p. 58, nota 8: «La
rivoluzione del 1905 rilancia il movimento
populista. Lo dimostra la formazione nel 1906 di
una Unione dei socialisti rivoluzionari
massimalisti che respingeva il programma
minimo dei partiti socialisti, voleva una
repubblica dei lavoratori e una società
organizzata sulla base di un soviet-comune
ispirato all’obscina».
2
Martov, op. cit., p. 123 sottolinea: «Già
subito dopo le giornate d’ottobre ebbe inizio,
sotto la pressione delle masse organizzate un
movimento assai pronunciato in favore
dell’unificazione».
3
Si veda Anweiler, op. cit., p. 50: «Gli

326
operai… erano disgustati dai contrasti teorici e
dagli attacchi personali tra i loro capi. In una
lettera di un membro operaio del partito al
Comitato centrale si può leggere a questo
proposito: ‘Al presente mi è completamente
incomprensibile la lotta che si sta attualmente
svolgendo tra la maggioranza e la minoranza e a
molti di noi non sembra giusta… è forse naturale
uno stato di cose per cui tutte le forze vengono
spese in viaggi, all’unico scopo di parlare di
maggioranza e di minoranza?… Questa questione
è dunque veramente tanto importante da doverle
dedicare tutte le forze e da doversi per essa
guardarsi l’un l’altro quasi come nemici?… Già
adesso si avverte di nuovo tra gli operai
l’esistenza di un malcontento nei confronti degli
intellettuali, i quali a motivo dei propri dissensi
si dimenticano di loro; già adesso i più ferventi
si sentono cadere le braccia, non sapendo che
fare’. (Lenin, Opere compì., voi. VII, pp. 133-4)».
4
Si legga in Pokrovskij, op. cit., pp. 324 e
391: «L’essenziale era che la rissa tra
bolscevichi e menscevichi finiva per privare gli
uni e gli altri della necessaria fiducia delle masse
operaie. Solo pochi nelle stesse file del partito si
rendevano peraltro conto della sostanza e del
significato di quella lotta… Gli operai
senza partito non riuscivano a capire di che cosa
discutessero così accanitamente i compagni
intellettuali e, disperati per la mancanza di una
direzione unitaria del partito, erano disposti a
farsi condurre da qualsiasi parte. L’uomo
disposto a guidare gli operai già esisteva ed era
l’erede pietroburghese di Zubatov, Gapon…

327
Inoltre di questi gruppi facevano parte anche
degli ex bolscevichi che non riuscivano
a orientarsi nella polemica di partito e che
credevano ingenuamente di ritrovare nella
democrazia di Gapon qualcosa di più ampio della
socialdemocrazia… la sua Unione (di Gapon)
cominciò a svilupparsi rapidamente (in quel
periodo l’Unione aveva non meno di sette-
ottomila iscritti: una cifra enorme per quel
tempo, in cui gli iscritti alle organizzazioni
socialdemocratiche erano alcune centinaia)».
5
Sempre Martov, Ibidem, pp. 143-4: «Nei
lavori preparatori del congresso di unificazione…
ebbe una parte essenziale la questione agraria.
Sebbene nel 1905 una gran parte dei
socialdemocratici si manifestava
fondamentalmente favorevole nell’appoggiare le
rivendicazioni dei contadini, inclusavi quella
dell’espropriazione di tutte le grandi proprietà
terriere, le opinioni circa quello che si sarebbe
dovuto fare di quei terreni erano nettamente
divise».
6
Scrive Martov, op. cit., p. 143: «Lenin
estensore del precedente programma agricolo
della socialdemocrazia, in cui si limitava a
chiedere in base alla legge d’emancipazione del
1861 la restituzione ai contadini delle terre
assegnate ai proprietari terrieri, presentò da
allora la rivendicazione della nazionalizzazione
di tutte le terre, tanto di quelle di proprietari non
coltivatori come di quelle di coltivatori diretti.
Poiché Lenin considerava la nazionalizzazione
della rendita agraria come il mezzo più sicuro
per promuovere il progresso capitalistico

328
nell’agricoltura, riteneva codesto provvedimento
necessario alla conquista della democrazia
politica…».
7
È da ricordare che a quel medesimo
Congresso «mentre—come scrive Anweiler, op.
cit., pp. 125-7—era ancora vivo il ricordo
dell’azione svolta dai soviet nell’autunno del
1905, i menscevichi presentarono una
risoluzione che invitava il partito ‘non solo ad
appoggiare le organizzazioni proletarie
apartitiche che si formano spontaneamente,
come i consigli dei deputati degli operai, ma
anche a partecipare alla loro formazione, nel
momento di una ripresa della lotta
rivoluzionaria, e ad aiutarle nello svolgimento
delle loro funzioni’. Su questo punto essi
si distinguevano dai bolscevichi, che in quel
periodo esprimevano forti riserve nei confronti di
tali organizzazioni apartitiche… Nel 1917 i
menscevichi si trovarono nella stessa situazione,
che questa volta fu loro fatale: da una parte
erano il partito più forte nei Soviet e i campioni
della ‘democrazia sovietica’, dall’altra, convinti
che la rivoluzione russa fosse una rivoluzione
borghese, non attribuivano ai soviet un compito
da svolgere nella successiva evoluzione della
Russia e furono perciò sconfitte dai bolscevichi».
8
Si legga Martov, op. cit., p. 126: «La
questione contadina veniva dibattuta assai
vivacemente sulla stampa socialdemocratica. Il
tumultuoso erompere del movimento spontaneo
nelle campagne e il crescente influsso sulle
masse cittadine esercitato dalle agitazioni
improntate al socialismo agrario portavano

329
tale questione sempre più in primo piano. Il
congresso bolscevico e la
conferenza (menscevica) tenutasi nella
primavera del 1905 si erano espressi in linea di
massima nel senso che la socialdemocrazia
doveva appoggiare le rivendicazioni
dei contadini compresa la confisca di tutta la
terra. Lenin intervenne sulla stampa bolscevica a
favore dell’appoggio incondizionato a tali
istanze, cioè in nome di un’alleanza offensiva dei
contadini e degli operai contro l’antico ordine e
la borghesia. Contemporaneamente a questa
impostazione si espresse anche a favore della
nazionalizzazione di tutta la terra, limitandosi a
sottolineare la necessità di demistificare le
illusioni dei socialrivoluzionari sul presunto
carattere socialista di tale rivendicazione».
9
Sempre in Martov, ibidem, pp. 131-2: «Il
revisionismo di cui abbiamo accennato divenne
evidente nel n. 7 del giornale (Nacalo nel 1906).
Nell’articolo di fondo di questo numero dedicato
alla questione dei contadini si riteneva che la
crisi sociale fosse capace di assumere un
carattere talmente impetuoso da far sfociare
immediatamente la rivoluzione borghese in
rivoluzione socialista… Nel numero 10 del
giornale Trockij faceva un altro passo avanti,
parlando della rivoluzione permanente come del
principio che stava alla base della tattica
socialista… Nell’interpretazione di Trockij, il
carattere permanente della rivoluzione che
costituiva la legge di autoconservazione del
proletariato consisteva piuttosto in questo: ‘fra
l’obiettivo prossimo e quello finale doveva

330
scorrere una catena rivoluzionaria
permanente’».
10
Martov, ibidem, pp. 143-4: «contro il
programma di Lenin, Plekhanov, che accettava la
distribuzione delle terre dei proprietari non
coltivatori come male minore, difendeva il
programma della municipalizzazione insieme a
Maslov, il quale aveva proposto il suo schema già
dal 1902: si trattava del passaggio delle terre di
proprietà dello Stato o di privati (non coltivatori
diretti) agli enti amministrativi autonomi, i quali
avrebbero dovuto affittarle ai contadini,
facendo eccezione per i possedimenti condotti in
base capitalistica la cui gestione avrebbe dovuto
proseguire su base comunitaria». In
quell’occasione Plekhanov ebbe a motivare la
sua opposizione alla nazionalizzazione col timore
che esse potessero prefigurare una
«restaurazione asiatica». E Lenin convenne che
ciò sarebbe stato «inevitabile» qualora la
rivoluzione russa fosse rimasta isolata!
11
Martov, op. cit., p. 146 riporta: «Il
delegato di Kutaisi, Kartvelov
aggiunse: ‘Secondo i bolscevichi la sollevazione
di dicembre è fallita perché non fu preparata
tecnicamente. I menscevichi invece ritengono
che le cause della sconfitta non vanno ricercate
nelle imperfezioni tecniche, ma in un ambito
assai diverso. Dopo i fatti di ottobre il
proletariato è rimasto solo sul campo di
battaglia, vi è rimasto isolato… Le nuove leve
nella piccola borghesia delle città e della
campagna non erano ancora comparse sul luogo
del combattimento. Per noi dopo la sconfitta

331
di dicembre, era chiaro che bisognava mobilitare
le nuove leve della piccola borghesia cittadina e
dei contadini non ancora coinvolte nel
movimento. Questo si sarebbe potuto ottenere se
il nostro partito avesse tratto profitto dalle
elezioni per la Duma’». E Akselrod (ibidem, p.
148): «Perché (i bolscevichi) ripongono tutte
le loro speranze ed aspettative nel successo di
un’insurrezione armata da prepararsi con i mezzi
tecnici della cospirazione, poiché inoltre
desiderano che tutta l’attenzione e tutte le
energie del partito si concentrino su tale
preparazione, trascinano incoscientemente il
partito sulla strada del più grossolano
rivoluzionarismo borghese».
12
Si veda per es. Marc Ferro La rivoluzione
del 1917, Firenze 1974, pp. 100-3: «Le riforme,
promosse da Stolypin, quando si trovò a capo del
governo, riconciliarono gran parte della
borghesia e dei contadini col regime zarista: i
partiti rivoluzionari dovettero in conseguenza
modificare i loro programmi… I partiti avevano
dovuto tenere conto delle trasformazioni della
Russia rurale: le riforme promosse dal Primo
Ministro Piotr Stolypin avevano creato cinque
milioni di nuovi proprietari, processo che si
andava accelerando quando, all’improvviso,
la guerra lo interruppe». Si veda anche J.
Camatte, op. cit., p. 81: «La riforma di Stolypin
era stata la sola riforma coerente in vista di far
penetrare il modo di produzione capitalistico
nell’agricoltura, con l’intervento della Stato,
anziché lasciar agire i meccanismi economici
elementari». E si veda ancora M. Ferro, op. cit.,

332
p. 131: «Dopo la rivoluzione del 1905, le riforme
di P. Stolypin rappacificarono una parte della
gente contadina aiutandola ad accedere alla
proprietà; lo Stato riusciva in questo modo a
dividerla ed indebolirla perché facendo uscire
parte dei contadini dal mir, rompeva la
solidarietà del villaggio e preveniva la minaccia
di nuove rivolte. Infatti nel 1914 fra i nuovi
possidenti usciti dal mir (gli otrubnik), i kulaki ed
i non proprietari, i coloni partiti per la Siberia o
per il Turkestan, non vi erano più aspirazioni
comuni. Quelle degli uni e quelle degli altri
rimanevano però imperative».
13
Pokrovskij, op. cit., p. 523 scrive: «Per la
prima volta venne formulata con nitidezza dal
convegno wittiano sulle necessità dell’industria
agricola che… avanzò le seguenti tesi: favorire il
passaggio delle comunità agricole al possesso
per suolo e podere, garantendo ai singoli
contadini la possibilità di separare il proprio
lotto dalla terra in godimento della comunità,
anche senza il consenso del mir (S. Dubrovskij,
La riforma Stolypin, p. 19). Stolypin… ricercando
in un resoconto inviato a Nicola II nel 1904 le
cause dei mali che intrecciavano lo
sviluppo dell’agricoltura in Russia, additava tali
cause nell’influenza divoratrice del possesso
comunitario della terra, del regime comunitario.
Questo regime è radicato nella coscienza del
popolo… Al tempo stesso nel contadino russo è
forte la passione a eguagliare ogni cosa, a
ridurre tutti allo stesso livello… La fame di
terra, gli stessi disordini agrari additano i
provvedimenti da prendere per far uscire la

333
popolazione contadina dal presente stato di
anomalia. Il contrappeso naturale al principio
comunitario è la proprietà individuale. Essa è
una garanzia di ordine, perché il piccolo
proprietario costituisce quella cellula su cui
riposa un ordinamento stabile dello Stato… Il 9
novembre 1906 venne emanato un ukazan con
cui si assicurava ‘a ogni capofamiglia, avente in
godimento il suolo in base al principio
dell’obscina, il diritto di esigere in qualsiasi
momento il passaggio in proprietà privata della
sua proprietà di terra’ (S. Dubrovskij, ibidem, p.
42)».
14
Nel ‘17 pare che fossero 5 milioni secondo
altre fonti.
15
Scrive R. Zangheri in Agricoltura e sviluppo
del capitalismo, Torino 1977, pp. 63-64: «… il
grado di progresso delle campagne russe fra il
1861 e la prima guerra mondiale sembra
piuttosto basso… più basso di quanto si ritenesse
in passato da parte della storiografia sovietica in
base a una lettura unilaterale dell’opera di
Lenin.
La comunità contadina resiste e non si
rinnova; i grandi proprietari in molte regioni
gestiscono le aziende con metodi più feudali che
capitalistici… In queste condizioni appare
azzardato parlare di una Via prussiana dello
sviluppo del capitalismo nelle campagne russe…
Direi che con ragione Gerschenkron di fronte
all’arretratezza dell’agricoltura ed alla sua
difficoltà ad avviare processi di accumulazione,
sottolinea la particolare funzione dello stato
nello sviluppo industriale russo… È intanto da

334
salutare il fatto che essi (gli storici
sovietici) sottopongono a nuovo esame problemi
come quello delle sopravvivenze feudali e del
ruolo dello stato nella industrializzazione».
16
C. Rossetti, Problemi del socialismo, 15,
1973, p. 311.
17
Così Martov sintetizza efficacemente la
politica stolypiana, si veda op. cit., p. 186: «In
pari tempo la politica agraria di Stolypin, che
aveva lo scopo di creare una classe di ‘contadini
forti’ determinava una divisione nei villaggi.
Favorendo l’uscita dei contadini benestanti dalla
comune agricola e il formarsi di economie
agricole indipendenti, cui lo Stato garantiva
crediti per l’acquisto di terre di proprietà
signorile (i nobili ridotti in miseria erano messi
in grado di vendere a prezzi d’usura), Stolypin
costituiva nelle campagne quadri contadini ‘di
destra’ su cui la controrivoluzione avrebbe
potuto appoggiarsi anche in seguito».
18
Sulla posizione di menscevichi e bclscevichi
dopo il 1905 si legga questo giudizio di V. Zilli in
Trockij, 1905 cit., p. viii: «Allora il fallimento
della rivoluzione aveva suscitato polemiche,
recriminazioni, accuse fra bolscevichi,
aveva portato a diverse e opposte interpretazioni
e valutazioni dell’esperienza compiuta, aveva
finito per rendere definitiva ed irrimediabile la
scissione (dopo la breve ed illusoria parentesi
aperta dal congresso di unificazione di
Stoccolma nel 1906) accentuando la vocazione
giacobina e volontaristica degli uni in
contrapposizione a quella democratica e
riformistica degli altri».

335
19
Si legga R. Zangheri in op. cit., pp. 65-66:
«Uno dei momenti più significativi è, a mio
avviso, quello in cui Lenin traccia il bilancio della
rivoluzione del 1905-1907, e riesamina i risultati
cui era pervenuto, fra il 1896 e il 1898, con la
grande opera su Lo sviluppo del capitalismo in
Russia. È Lenin stesso a indicare i motivi del
nuovo esame. Non solo sono trascorsi dieci
anni… ma il movimento delle masse entrando in
campo ha offerto un criterio di valutazione
reale… scrive Lenin: ‘sarebbe stato troppo
difficile o impossibile stabilire soltanto in base a
considerazioni teoriche, in quale misura la
nostra massa contadina si fosse già scomposta
da un punto di vista capitalistico’ (Il programma
agrario della socialdemocrazia). Lenin qui si
riferisce al programma agrario del partito,
redatto nel 1903, ma mi sembra implicito un
richiamo autocritico all’opera da lui composta
alla fine del secolo; e un cenno alla necessità di
una completa rielaborazione di quest’opera alla
luce del bilancio della rivoluzione è già nella
prefazione alla seconda edizione, scritta nel
luglio 1907. Da che cosa sorgeva questa
necessità? Dal riconoscimento di un errore, che
il corpo della rivoluzione aveva messo in luce:
‘noi—scriveva Lenin—determinato esattamente
la direzione dello sviluppo, ne determinavamo in
modo inesatto il momento. Noi supponevamo che
in Russia gli elementi dell’agricoltura
capitalistica si fossero già pienamente formati, si
fossero formati tanto nella grande proprietà
fondiaria… quanto nell’economia contadina’:, vi
era stata insomma, continua Lenin ‘una

336
sopravvalutazione del quadro di sviluppo
capitalistico nell’agricoltura russa. Allora
(all’epoca della redazione del programma del
1903) i residui del servaggio ci parvero un
piccolo particolare: l’economia capitalistica sulle
terre comuni e su quelle dei grandi proprietari
ci parve un fenomeno pienamente maturo e
valido. La rivoluzione ha rivelato questo
errore’…».
20
Si veda per ciò l’op. cit., del Cinnella, p.
795, nota 89: «Nell’opuscolo Il programma
agrario (scritto alla fine del 1907) Lenin
riconobbe con lucidità questo errore di
valutazione (sopravvalutazione del livello di
sviluppo capitalistico nel settore agricolo)». E si
veda anche J. Camatte, op. cit., p. 58: «… Lenin
riconosce di aver sopravvalutato il grado di
sviluppo capitalistico in agricoltura».
21
È interessante notare che il 1907 fu anche
l’anno in cui si produsse la maggiore apertura
dei bolscevichi nei confronti delle altre
componenti rivoluzionarie del movimento politico
russo. Infatti sia nel corso delle elezioni della
Duma che a elezioni avvenute il partito
bolscevico fu protagonista d’iniziative d’intese
unitarie e di azioni comuni. Si legga per esempio
a ciò Martov, op. cit., pp. 166-180: «A
Pietroburgo durante le elezioni si ebbe un aspro
conflitto fra le due ali del partito… il comitato
bolscevico di Pietroburgo esigeva una lotta senza
quartire contro il partito dei Cadetti. Alla
conferenza del partito di Pietroburgo, che
doveva decidere la tattica elettorale… si divisero
in due parti… I delegati rimasti decisero di non

337
svolgere assolutamente trattative con i Cadetti e
di costituire nella curia cittadina un blocco delle
sinistre con i socialrivoluzionari e il Gruppo
del lavoro… Questo conflitto in materia di
elezioni, unitamente all’avvicinamento che si
verificò tra i bolscevichi e i socialrivoluzionari
durante le elezioni produsse condizioni
favorevoli ai socialrivoluzionari nella curia
operaia di Pietroburgo…». Mentre rifiutavano di
partecipare a riunioni in comune di tutte le
opposizioni, i bolscevichi volevano che il gruppo
avesse un collegamento più stretto con i gruppi
socialisti agrari (Socialrivoluzionari «Gruppo del
lavoro» e socialisti popolari).
22
Lenin, Opere Complete, vol. xvi, pp. 208-
209. E si legga anche (ibidem, p. 211): «Vediamo
qui in primo luogo l’enorme prevalenza della
grande proprietà fondiaria: 619.000 piccoli
proprietari terrieri (non più di 50
desiatine) possiedono in tutto 6,5 milioni di
desiatine. In secondo luogo vediamo fondi
sterminati: 699 proprietari hanno quasi 30.000
desiatine ciascuno. Ventottomila proprietari
concentrano 62 milioni di desiatine, cioè 2.227
desiatine a testa. La schiacciante maggioranza di
questi latifondi appartiene a nobili e
precisamente a 18.102 tenute (su 27.833) e
44.471.994 desiatine di terra, cioè più del 70% di
tutta la superficie a latifondo. Il carattere
medievale della grande proprietà fondiaria viene
configurato da questi dati con tutta evidenza».
23
Sarebbe cioè da approfondire se Lenin
oltre ad aver mal valutato le reali differenziazioni
sociali nelle campagne non abbia anche teso ad

338
assimilare la categoria di «capitale
commerciale» a quella di capitalismo
commerciale; e la categoria di mercato a quella
di embrione di rapporti capitalistici. Qualora in
effetti s’intenda per feudalesimo un’economia
«naturale», rigidamente autosufficiente,
che produce per l’uso e l’autoconsumo, a bassa
circolazione monetaria e con l’obbligo da parte
del produttore di prestazioni di servizi in natura
o in denaro (Si veda per es. Pirenne e Sweezy,
opp. citt., e si veda in Dobb, op. cit., la
definizione di «Servaggio feudale»);
automaticamente ogni fenomeno di circolazione
e di merci, l’esistenza stessa di una economia di
scambio tendono a presentarsi
come manifestazioni di una economia non
feudale, in cui viene ad essere privilegiato
il rapporto tra il contadino produttore e il
mercato. Tralasciando di vedere che né il
capitale commerciale in se stesso, né il mercato
possono connotare capitalisticamente un modo
di produzione (si vedano alcune
sopravvalutazioni nello stesso senso in
Capecelatro e Carlo e in Cicerchia, opp. citt.). A
controprova di queste «sopravvalutazioni»
leniniane potrebbe dirsi che il comunismo di
guerra nacque dallo stesso tipo di convinzione:
aboliamo il mercato e il comunismo è fatto.
Si legga a ciò quanto R. Medvedev scrive nel suo
La rivoluzione d’ottobre era ineluttabile?, Roma
1976, p. 93: «Marx ed Engels ritenevano che,
nella prima fase di una società comunista, vale a
dire in regime socialista, la produzione e la
circolazione di merci dovessero sparire e lo

339
scambio essere sostituito dalla
distribuzione diretta: ‘Con una presa di possesso
dei mezzi di produzione viene eliminata la
produzione di merci e con ciò il dominio del
prodotto sui produttori’ (F. Engels, Anti-during,
Roma 1968, p. 301). Facendo eco a Marx e ad
Engels, Lenin scriveva a sua volta nel 1918 che
‘quanto al socialismo è noto che esso consiste
nella distruzione dell’economia di mercato… Se
rimane in vigore lo scambio è persino ridicolo
parlare di socialismo’ (Lenin, Opere Complete,
xv, p. 130). È possibile che questi postulati
profondamente erronei abbiano influito in certa
misura sulla politica economica dei bolscevichi
nel 1918».
24
Che fare?, a cura di V. Strada, Torino 1972,
p. 475.
25
Marx-Engels, op. cit., pp. 378-379 n. 45 e
p. 301.
26
Si legga in Cinnella, op. tit., p. 786: «In
realtà… il quadro tracciato da Lenin dei contrasti
socialisti tra borghesia contadina e proletariato
rurale corrispondeva solo in parte ai rapporti di
classe esistenti nelle compagne e tendeva a
sopravvalutare i rapporti capitalistici presenti
nell’agricoltura russa. Ponendo l’accento non
solo sul movimento anti-feudale dei contadini ma
anche e soprattutto sulla lotta di classe
all’interno della popolazione rurale, il
programma agrario del POSDR non coglieva fino
in fondo le peculiarità della società russa
e lanciava quindi parole d’ordine inadeguate che
difficilmente avrebbero potuto stimolare e
dirigere la lotta delle masse contadine

340
nell’immediato futuro».

341
Capitolo quinto

LA PIÙ ALTA FASE DEL PENSIERO E


DELL’AZIONE DI LENIN: IL 1917






Il 22 gennaio 1917 Lenin1, in esilio in
Svizzera2, ad una conferenza di giovani sul tema
di una possibile rivoluzione in Russia, profetizzò:
«Noi della generazione anziana non vivremo
forse abbastanza a lungo per assistere alle
battaglie decisive di questa prossima
3
rivoluzione» .
Qualche giorno più tardi, il 2 marzo, un
conoscente polacco, entrando nella piccola
abitazione in subaffitto, non salutò né Lenin né la
Krupskaja. «Avete sentito la notizia?—disse.—È
scoppiata la rivoluzione in Russia» 4.
Ma neppure due mesi dopo, il 3 aprile, Lenin
rientrava a Pietroburgo già padrone della
situazione, con in tasca le famose Tesi di Aprile,
un’analisi precisa dell’esperienza rivoluzionaria
di quei mesi.
In esse come è noto era enunciata per la
prima volta la strategia del passaggio dalla
«prima tappa della rivoluzione che aveva dato
il potere alla borghesia» alla «seconda tappa che
deve dare il potere al proletariato e agli strati

342
poveri dei contadini».
Lenin, recuperando la formula di Trockij5
della «rivoluzione permanente» cioè del
passaggio senza interruzione dalla fase
democraticoborghese a quella socialista, poneva
in termini concreti il problema della rivoluzione
russa come rivoluzione in un paese
prevalentemente contadino 6.
Ma a differenza di Trockij che non riuscirà a
vedere il problema contadino in termini di
strategia socialista, le tesi di aprile
sull’agricoltura7 costituivano l’aspetto senza
dubbio centrale e fondavano il principio
leniniano della «Smicka», dell’«alleanza
proletari-contadini» (sotto direzione proletaria).
Vediamole: innanzitutto «la confisca di tutte le
grandi proprietà terriere». Tutta la terra doveva
essere posta a disposizione dei Soviet, dei
contadini poveri e dei deputati contadini e le
grandi proprietà dovevano essere «trasformate
in aziende modello» coltivate per conto sociale e
sottoposte al controllo dei Soviet dei contadini
poveri»; si doveva cioè verificare il
«trasferimento del centro di gravità del
programma agrario ai Soviet dei deputati dei
contadini poveri».
Tralasciando l’accoglienza negativa dell’intero
partito bolscevico a tale tesi con l’eccezione dei
comunisti di sinistra (ma del resto
come avrebbero potuto recepirle se la loro
formazione politica era stata «plasmata» in
tutt’altra direzione?!) tuttavia data l’accanita e
abile lotta di Lenin, la «Conferenza di Aprile» del
partito bolscevico finì per farle proprie e propose

343
il passaggio immediato di tutta la terra «ai
contadini organizzati nel soviet dei Deputati e
dei contadini o in altri organi di autogoverno
eletti in modo effettivamente e
8
pienamente democratico» ; rivolgendo un
appello ai contadini poveri e senza terra perché
facessero «di ogni proprietà terriera un’azienda
modello di sufficiente ampiezza che sarà gestita
per il benessere sociale dai Soviet dei Deputati
dei lavoratori agricoli…»
La proposta di trasformazione della grande
proprietà in aziende modello coltivate «per conto
della comunità» veniva motivata con il fatto che
un’agricoltura su larga scala era parte essenziale
del socialismo e faceva la comparsa nel
programma bolscevico; Lenin ne illustrava in
quei giorni la ragione profonda:
«Non possiamo nascondere ai contadini e
tanto meno ai proletari e semiproletari della
campagna che la coltivazione su piccola scala,
sinché esisteranno dei beni di consumo e il
capitalismo, non riuscirà a liberare l’umanità
dalla miseria di massa; che è necessario, per il
benessere sociale, prendere in considerazione il
passaggio alla coltivazione su larga scala e
mettere immediatamente mano a ciò, insegnando
alle masse e imparando dalle masse il modo per
compiere tale passaggio con i mezzi pratici più
adatti» 9.
Lenin arriva dunque in quei giorni, sullo
slancio della pratica rivoluzionaria delle masse e
finalmente libero dalle chiuse polemiche
dell’emigrazione, alla sua concezione più matura
e organica del processo rivoluzionario in

344
Russia10.
E forse per uno scherzo della beffarda storia
per dirla con Lenin che più volte l’aveva un po’
metafisicamente apostrofata secondo un vezzo
engelsiano; per esempio con Gorki: «La storia è
una crudele matrigna e nelle rappresaglie non
rifugge da nulla»; e Gorki, ipnotizzato, di
rimando dirà che Lenin sembrava parlare «non
per propria volontà ma sotto l’impulso della
volontà della storia» 11. Del resto a quel famoso e
recalcitrante comitato centrale bolscevico che
discuteva «il piano dell’insurrezione» Lenin
lancerà l’invettiva:
«La storia non perdonerà alcun ritardo a
rivoluzionari che potrebbero vincere
12
immediatamente» ripetendo l’accusa che i
populisti nel 1877, interpretando correttamente
Marx, facevano ai primi marxisti russi, ma
intanto quarant’anni erano trascorsi!!). Dunque
per uno scherzo beffardo o no della storia ogni
volta che egli si trovava a dover affrontare il
problema della lotta per il socialismo nella sua
terra in termini aderenti alla realtà e al di fuori
degli ortodossi schemi marxisti (coniati per una
ben diversa realtà), gli capitava di dover essere
tacciato di anarchismo (o populismo) dagli stessi
compagni bolscevichi. E per esempio in una di
quelle famose assemblee che discutevano le tesi
di aprile Bogdanov si era messo a inveire:
«Dovreste vergognarvi di applaudire queste
sciocchezze… Vi coprite di vergogna e vi
chiamate marxisti?» e un altro bolscevico
ironizzò: «Lenin ha presentato la propria
candidatura all’unico trono di Europa che sia

345
vacante da trent’anni: alludo al trono di Bakunin.
Con parole nuove Lenin racconta la stessa
vecchia storia: siamo ancora una volta ai concetti
giubilati della primitiva anarchia. Il Lenin
socialdemocratico, il Lenin marxista, il Lenin
capo della nostra militante organizzazione…
Quel Lenin non esiste più» 13.
Per cui Lenin nell’agosto del ’17 in Stato e
rivoluzione punto sul vivo da quelle ritornanti
accuse di anarchismo sarebbe tornato
sull’argomento, a proposito del problema
dell’abolizione dello Stato 14, prendendo di mira
quella mania di diffamare come anarchica ogni
posizione conseguentemente e creativamente
marxiana: «Non ci sarebbe da meravigliarsi se
gli opportunisti classificassero Engels fra gli
anarchici», l’accusa di anarchismo diretta agli
internazionalisti diventa oggi sempre più
diffusa».
In conclusione il Lenin al culmine della sua
attività di dirigente politico e di teorico del
movimento rivoluzionario era ormai in grado di
cogliere anche l’altro elemento sostanziale della
indispensabilità della socializzazione nelle
campagne.
Se la parcellizzazione proprietaria e il
conseguente sistema di coltivazione non fosse
stato trasformato, il tasso di sviluppo
dell’agricoltura si sarebbe dimostrato
inesorabilmente troppo basso rispetto sia alle
necessità di industrializzazione e sia a quelle dei
consumi delle città e delle stesse campagne: «il
villaggio mangiava più di quanto producesse» I5.

346
Era la riprova che il passaggio ad una
agricoltura socializzata a più alta produttività di
quella individualistica era il cardine della
costruzione socialista in un paese arretrato e
come tale avrebbe dovuto permeare di sé tutta la
propaganda, l’agitazione e la mobilitazione
delle masse contadine. Ma il tenace organizzato
sforzo di penetrazione nel loro mondo era per
forza di cose un’operazione che richiedeva una
accanita preparazione e determinazione,
indispensabili alla maturazione, all’autogoverno
e alla maturazione della volontà di costruire il
socialismo dall’interno delle stesse istituzioni del
mondo contadino 16. Unico obbligato modo per
inserire una consapevole rivoluzione delle
masse rurali in quella socialista. Ma, in realtà, i
bolscevichi non solo non avevano mai avuto una
strategia che affrontasse questi problemi
(che calasse la socializzazione nel mondo
contadino russo) ma a causa di ciò non erano mai
riusciti a essere presenti nelle campagne.



1
Si veda soprattutto La rivoluzione
bolscevica del Carr, pp. 72-102, 441-456; e O.
Anweiler, op cit., pp. 171 sgg.
2
O. Anweiler, op. cit., p. 263: «Nel
programma rivoluzionario bolscevico anteriore al
’17 i soviet dei deputati operai non occupavano
un posto centrale. La fugace simpatia di Lenin
per i consigli nella rivoluzione del 1905… non
aveva lasciato tracce profonde sulla strategia e

347
sulla tattica bolscevica… Non sorprende quindi
che in nessun proclama bolsecevico, fino al 28
febbraio incluso, non si trovi un appello alla
costituzione di un consiglio di deputati o un
accenno al consiglio degli operai e dei soldati
appena formato».
3
Opere complete, Mosca, vol. xxiii, p. 264.
4
Cfr. E. Wilson, La stazione di Finlandia, p.
309; si veda anche Solgenicyn, Lenin a Zurigo,
1976, p. 218. E di N. Krupskaja, La mia vita con
Lenin, Roma 1956.
5
Per le posizioni di Martov e dei
menscevichi, si veda anche J. Martov-F.
Dan, Storia della socialdemocrazia russa, Milano
1973, p. viii e pp. 193-4.
6
«Il materiale raccolto in quel periodo -
scrive Anweiler, op. cit., p. 274 - fu utilizzato poi
nello scritto Stato e rivoluzione redatto tra
l’agosto e il settembre ’17. Grazie all’influenza
soprattutto di Bucharin che aveva analizzato in
diversi articoli nel 1916 il problema del rapporto
tra Stato e rivoluzione socialista, e dell’olandese
Pannekock, che già nel 1912 aveva previsto che
nuovi organi proletari si sarebbero sostituiti al
parlamentarismo, Lenin si convinse che la
rivoluzione doveva distruggere le vecchie
istituzioni e crearne delle nuove…»
7
Opere complete, xxiv, pp. 10 e sgg.
8
Il PCUS nelle risoluzioni - Edizioni del
partito, Mosca 1931, pp. 338-9.
9
Lenin, Opere complete, vol. xx, p. 194.
10
Ma il suo «giacobinismo» rimarrà la
componente negativa anche in quel momento

348
così alto. Si legga per esempio Anweiler, op. cit.,
p. 283.
11
Wilson, op. cit., p. 304.
12
Opere complete, Mosca, xxi, p. 241.
13
Wilson, op. cit., p. 318.
14
Marc Ferro così riporta le posizioni dei
populisti sui problemi dello Stato nel suo saggio
già citato a pag. 102: «I populisti ammettevano
ugualmente che durante la fase di transizione un
regime politico provvisorio avrebbe potuto
assumere il potere per opporsi ad eventuali
tentativi contro-rivoluzionari. Come
i socialdemocratici. Cernov progettava
l’istituzione di una dittatura dei lavoratori.
Codesto rigido governo avrebbe avuto il compito
di consolidare la repubblica democratica,
considerata come una tappa sulla strada del
socialismo e non come un male minore. Questa
era la principale divergenza fra i
socialdemocratici e i socialrivoluzionari, almeno
in teoria, perché in cuor loro i
menscevichi avevano tendenza a propendere in
favore della repubblica democratica, ma i
bolscevichi volevano sostituirla al più presto
possibile con una ‘dittatura del proletariato’. I
socialrivoluzionari definivano in un modo quasi
identico i termini della repubblica che avrebbe
dovuto essere instaurata durante il periodo
transitorio. In molti punti simili i due programmi
differivano tuttavia su una questione essenziale:
le funzioni e le attribuzioni del potere. I
socialdemocratici volevano conferirlo ad una
assemblea sovrana (art. 1) mentre su questo

349
punto i socialrivoluzionari non si esprimevano.
Non avevano un programma preciso:
‘Noi abbiamo paura dello Stato come il diavolo
ha paura dell’acqua santa’ disse un delegato S.
R. in una seduta del 1° congresso del partito
(Radkey, op. cit., pp. 44 e sgg.). Senza assumere
un simile atteggiameno anarchico Cernov ed i
socialisti rivoluzionari diffidavano
dell’onnipotenza dello Stato e del legalismo dei
social-democratici. In realtà erano più disposti
ad esaminare come avrebbero
dovuto smantellare il potere centrale che non a
prevedere a chi esso verrebbe affidato in
seguito. Favorevoli all’autonomia delle regioni,
delle province, anche dei comuni, erano in
conseguenza più dei socialdemocratici veri
partigiani di un federalismo. Più ostili ancora ad
un «potere centrale» che non allo Stato,
venivano particolarmente in urto con i
bolscevichi; differivano ugualmente da tutti i
socialdemocratici per la loro diffidenza dal
sistema rappresentativo: partigiani di una
legislazione popolare diretta, negavano ad ogni
formazione o gruppo il diritto di pronunciarsi in
nome di una classe od in nome della nazione; in
questo si apparentavano agli anarchici».
15
M. Dobb, Storia dell’economia sovietica,
Roma 1957.
16
M. Ferro, op. cit., pp. 132 sgg., 170-1 ben
documenta l’immenso moto sociale scatenato
dalla rivoluzione di febbraio attraverso la mole
delle mozioni e degli appelli da parte di ogni tipo
di soviet e di assemblea nell’intero territorio
sovietico e in ogni settore economico e

350
amministrativo.

351
Capitolo sesto

LE ORIGINI DELLA CRISI POLITICA:


GOVERNO DI COALIZIONE






Una frase, tratta da Sull’infantilismo di
sinistra e la mentalità piccolo borghese, merita
di essere trascritta perché esprime in modo
ineguagliabile le componenti culturali che
sostanziavano in modo determinante la
dimensione negativa, la faccia oscura della
formazione culturale di Lenin: il giacobinismo
della Narodnaja i Volja, da una parte, filtrato
attraverso Tkacev; e dall’altra il marxismo
mediato attraverso l’autoritarismo centralistico e
prussiano della socialdemocrazia
1
tedesca : «Studiare il capitalismo di Stato
tedesco, adottarlo con la massima energia senza
indietreggiare davanti ai metodi dittatoriali pur
di affrettarne l’applicazione, ancor più di quanto
non avesse fatto Pietro per affrettare
l’introduzione dell’Occidente nella barbara
Russia, non risparmiando l’impiego dei mezzi
barbari nella lotta contro la barbarie» 2.
Carr commenta3 che tre anni più tardi Lenin,
citando questo suo passo, omise il riferimento a
Pietro il Grande, certo si è che è
difficile, attribuire alla stessa persona scritti

352
separati da un abisso come alcuni passi di «Stato
e Rivoluzione», appena di qualche mese prima e
brani come questo. Certo di mezzo c’è lo schock
delle immense difficoltà da affrontare, una volta
conquistato il potere, ma è il modo e lo
spirito con cui ci si propone di «costruire la
transizione al comunismo» che è, per alcuni
aspetti, agli opposti!4
Da una parte, intanto, è netta l’influenza
dell’ideologia giacobina del terrore: la violenza,
come prezzo necessario, se pur doloroso, per
la costruzione della società migliore.
E dall’altra la visione prussiana della politica
come forza, attraverso la mediazione della
socialdemocrazia tedesca: l’autoritarismo e il
verticismo come elemento «naturale» della storia
contro qualsiasi meta egualitaria e libertaria5.
Qui sta il centro di quel nodo non sciolto della
teoria e della prassi leniniana del partito e della
sua transizione al comunismo: la discrepanza tra
il modo di essere del partito e il fine verso cui
mira, tra organizzazione e prassi politica
giacobina e meta comunista.
Come se tra il mezzo e il fine non esistesse
alcun rapporto e non un continuo processo
d’interazione per cui il fine è condizionato
dal mezzo e viceversa!
Come se la teoria dell’organizzazione politica
non fosse strettamente legata e non separata a
quell’ipotesi di rivoluzione e di nuova società
verso cui muove!
Qui, nel netto idealismo6 del Che fare (oltre
che nel suo blanquismo), sta la radice di questa

353
«sfiducia nel potere creativo della classe
lavoratrice» come accusava la sinistra del
partito. Ed è forse pertinente riportare almeno
una tipica frase di quel fondamentale scritto del
1902: «Anche in Russia la dottrina teorica della
socialdemocrazia sorse del tutto
indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del
movimento; sorse come risultato naturale e
inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli
intellettuali socialisti rivoluzionari».
Il pensiero degli intellettuali socialisti genera
per partenogenesi il pensiero socialista! Le idee
nascono dalle idee! E’ senza dubbio un bel modo
per intendere Marx! (E la coscienza di classe
sarà il prodotto della coscienza degli
intellettuali!)7.
E a dimostrazione «storica» di questa
deformazione assunta poi in pieno dalla III
Internazionale sta la scomunica per
«spontaneismo» della Luxemburg, uno dei pochi
dirigenti del movimento
comunista internazionale che avesse superato
marxianamente la concezione idealistica e
blanquistica del partito («organizzazione,
chiarificazione e lotta non sono qui momenti
divisi, meccanicamente e anche
temporalmente separati, come in un movimento
blanquista ma sono soltanto facce diverse di un
medesimo processo» 8) nonché del rapporto
partito-classe e della costruzione socialista.
Sta di fatto che il fine verso cui tendeva a
muoversi irresistibilmente un partito di tipo
blanquistico era (per necessità, respinta la
rappresentanza autonoma delle masse

354
contadine), il mantenimento coercitivo del potere
politico e non la sua socializzazione. Mentre
nello stesso tempo si tendeva a respingere la
socializzazione del potere economico: ovvero la
trasformazione del modo capitalistico di
produzione e dei rapporti sociali, borghesi e
feudali, attraverso il confronto con le altre
componenti rivoluzionarie delle masse nei nuovi
istituti di autogoverno. Dunque democrazia e
socialismo venivano scissi e veniva soppressa la
democrazia politica e la democrazia economica.
La gigantesca forza teorico-pratica di Lenin
era stata nel ’17 quella di riuscire a immettere
un tale partito nel grandioso scontro sociale
e politico in corso in Russia e a fargliene
assumere la direzione verso uno sbocco
socialista, saldando lotte operaie e lotte
contadine.
Ma ora di fronte alla tremenda asprezza della
crisi sociale e politica si direbbe come se la
intrinseca matrice del partito prendesse
il sopravvento e concentrasse la sua
straordinaria tensione rivoluzionaria solo verso
la costruzione di un forte stato centralizzato che
dispenserà dall’alto i suoi decreti socialisti,
reprimendo «il diverso».
Ma tornando al ’17 è nota la vicenda di come
Lenin riuscisse al rientro dall’esilio nell’aprile, a
conquistare la maggioranza del partito alle sue
Tesi con l’appoggio fondamentale della sinistra9.
E forse è meno noto che la sinistra comunista e
in particolare Sljapnikov10 (che riceve l’elogio di
Lenin stesso per il suo appello contro il governo
provvisorio e per la presa del potere) prima del

355
rientro dalla Siberia, verso la metà di marzo, di
Kamenev, Stalin e Muranov, (che capovolsero
l’impostazione politica della Pravda adottando
la formula dell’appoggio al governo provvisorio),
avevano svolto sia nell’organo bolscevico che tra
le masse operaie una attiva campagna di
denuncia del governo provvisorio, d’incitamento
ai Soviet per la presa del potere e di aspra
condanna della guerra imperialistica.
E alla conferenza del partito alla fine di Marzo
essi avrebbero con forza sostenuto, in
particolare con la Kollontai, quelle medesime
tesi (che saranno in sostanza quelle di Lenin)
contro «il difensismo» della maggioranza del
partito 11.
Del resto fu Lomov, il 3 ottobre di nuovo
assente Lenin ma in appoggio alle sue lettere
dalla Finlandia, a sostenere, nel
comitato centrale del partito, la necessità
dell’«insurrezione» immediata e a provocare,
contro le titubanze dei più, l’incontro segreto di
Pietrogrado. Ed è ormai «storia» che la mozione
del 10 ottobre di Lenin che poneva
«l’insurrezione all’ordine del giorno» fu
approvata, contro i due famosi voti dei «destri»
Kamenev e Zinoviev, da 10 membri del C.C., di
cui oltre Lenin e Trockij la maggioranza era
costituita dalla sinistra comunista (Lomov, la
Kollontai, Dzerzinskj, Buhnov, Osinsky); e da
Sokolnikov e da Sverdlov che erano i più stretti
collaboratori di Lenin; mentre Stalin, benché
vicino alle posizioni di Kamenev e Zinoviev,
aveva votato a favore 12.
Al contrario, già all’indomani della

356
rivoluzione, l’alleanza tra Lenin e la sinistra del
partito si era dissolta sul problema della
composizione del nuovo governo 13. Infatti nei
Soviet, nei sindacati, nello stesso partito
bolscevico si era manifestata una forte tendenza
alla costituzione di un esecutivo in cui fossero
rappresentati tutti i partiti socialisti
rappresentati nei Soviet (in pratica i menscevichi
e i socialrivoluzionari) e in tal senso si era
pronunciato anche il C.C. bolscevico 14.
La questione fu complicata dalla incredibile
richiesta menscevica e S.R. (di destra)
dell’esclusione di Lenin e Trockij dal nuovo
“gabinetto” e, nello stesso tempo, dall’istituzione
del controllo sulla stampa voluta dalla
maggioranza dei bolscevichi. Sljapnikov,
primo commissario del lavoro, memore di quanto
lo stesso Lenin aveva scritto nel settembre,
subito dopo il crollo di Kornilov 15. («Si è avuto
un rivolgimento così netto e originale nella
rivoluzione russa che come partito possiamo
spontaneamente offrire un compromesso… il
ritorno alla nostra richiesta anteriore al luglio, di
“tutto il potere ai soviet”: un governo di S.R. e
menscevichi responsabile di fronte ai
soviet… Non abbiamo nulla da temere in una
vera democrazia poiché la vita è a nostro
favore…») si rivolse al C.C. esecutivo dei
Soviet16: «Noi sosteniamo che è necessario
formare un governo socialista con tutti i partiti
dei soviet… Affermiamo che oltre a questa non
resta aperta che una sola strada: la
conservazione di un governo puramente
bolscevico per mezzo del terrore politico. E

357
questo noi non vogliamo e non possiamo
accettare. Vediamo che ciò condurrà…
all’istituzione di un regime irresponsabile e alla
rovina della rivoluzione del paese. Non possiamo
sottoscrivere questa politica e perciò rinunciamo
ai nostri titoli di commissari del popolo
rimettendoli a disposizione del C. C. esecutivo
dei Soviet». Lenin fu estremamente duro contro
l’opposizione, questa volta formata da un
intreccio di elementi della destra e della sinistra
del partito 17: «Parecchi membri del nostro
partito che precedentemente occupavano dei
posti di responsabilità hanno ceduto di fronte
all’assalto della borghesia e si sono ritirati dalle
nostre file. La borghesia e tutti i suoi
manutengoli giubilano di questo e ne godono
malignamente… I compagni che si sono dimessi
hanno agito come disertori».
Fu questa dunque la prima avvisaglia di
quello scontro assai aspro tra due ipotesi diverse
di costruzione socialista che si sarebbe concluso
provvisoriamente tre anni più tardi al x
Congresso del partito con la definitiva sconfitta
delle opposizioni di sinistra. Ed è chiaro che
fin dai primissimi giorni dopo il 7 novembre fu
vivissima nella sinistra bolscevica la
consapevolezza che il problema determinante
che si poneva al partito era il suo modo di porsi
sia, all’interno, verso le sue varie componenti;
sia all’esterno, verso gli altri raggruppamenti
politici: il problema cioè di come esso sarebbe
riuscito a costruire la nuova egemonia
(conquistata tenacemente dopo il febbraio con
parole d’ordine socialistiche e in una aperta lotta

358
politica nell’ambito degli istituti espressi dal
proletariato) sia salvaguardando al suo interno
un’articolata unità delle sue frazioni, sia
all’esterno in un confronto con gli altri partiti
socialisti senza degenerare nel giacobinismo e
sia contro i partiti borghesi senza repressione
istituzionalizzata. La prima grande scelta che si
pose dopo la rivoluzione fu questa e Lenin la
risolse nel senso paventato da Sljapnikov e dalla
Luxemburg, con un primo fatale passo verso la
dittatura politica giacobina18.
Eppure anche in quella prima occasione una
scelta politica diversa, appoggiata da gran parte
della sinistra e della destra del partito e dalla
stragrande maggioranza dei soviet e dei Consigli
di fabbrica e di villaggio e delle loro componenti
politiche era possibile.
La linea dello scontro frontale contro
chiunque si diversificasse dalle posizioni di
Lenin, sia all’interno che all’esterno del partito,
era quella del ghigliottinamento sempre più
massiccio di forze politiche e sociali ben
altrimenti coinvolgibili; quella tragica della
progressiva cancellazione dell’immenso
patrimonio rivoluzionario accumulato dalla
inestirpabile tradizione delle altre componenti
socialiste del movimento rivoluzionario russo che
da decenni si erano guadagnate sul terreno della
lotta sociale e politica, il diritto alla loro
autonomia politica e ideale.
Quella, dunque, dell’inevitabile messa in moto
di esasperati meccanismi di difesa che di volta in
volta avrebbero drammatizzato tragicamente
ogni scelta e ogni contrasto. Il che in effetti

359
avvenne infallibilmente per ogni decisione
importante a partire, proseguendo, da quella
sullo scioglimento dell’assemblea costituente.
Su tale questione in realtà i bolscevichi si
erano trovati di fronte a una grossa
contraddizione della loro politica19, benché
avessero sempre proclamato con Lenin20 che
«una repubblica di Soviet rappresenta una forma
del principio democratico più alta dell’ordinaria
repubblica borghese con la sua assemblea
costituente», e, malgrado la rivoluzione avesse
consacrato i Soviet come supremi depositari del
potere rivoluzionario e tendenzialmente
socialista, essi si erano solennemente e
ripetutamente impegnati21 alla convocazione
dell’Assemblea sia prima che dopo l’«ottobre» e
il decreto dell’8 novembre che istituiva il
Consiglio dei Commissari del popolo, definiva il
Consiglio stesso un «governo provvisorio degli
operai e dei contadini» che avrebbe esercitato
l’autorità «fino alla convocazione dell’Assemblea
costituente». Di conseguenza i bolscevichi non
poterono fare a meno di tenerne le elezioni alla
fine di novembre e i risultati confermarono la
persistente egemonia degli S.R. nelle campagne
russe: su 707 eletti, 410 furono S.R.,
175 bolscevichi mentre i vari gruppi nazionali
ebbero 86 eletti, i cadetti 17 e i menscevichi 16
22
.
Bucharin per la sinistra (ma anche per la
destra bolscevica) propose 23 di formare un
blocco dei partiti socialisti, di espellere i
«cadetti» e di «effettuare cioè il passaggio dalla
rivoluzione borghese a quella socialista per

360
tramite dell’Assemblea Costituente»
(praticamente anticipando quanto la Luxemburg
dirà qualche mese più tardi «sia i Soviet come
spina dorsale, sia la Costituente e il suffragio
universale»)24, ed è noto come la stessa
delegazione bolscevica all’Assemblea costituente
fosse su queste posizioni.
Naturalmente finì col prevalere la tesi di
Lenin di sciogliere in qualunque modo
l’Assemblea Costituente e fa parte ormai
dell’oleografia rivoluzionaria il truculento
marinaio Zelezniskov (tra l’altro un combattivo
anarchico della guarnigione famosa di Kronstadt:
«gloria della rivoluzione») che il 18 febbraio
1918 annuncia al presidente S.R. Cernov25 d’aver
ricevuto ordine di chiudere la seduta «perché la
guardia è stanca».
In definitiva malgrado le giustificazioni di
Lenin che riguardo alla «illusorietà» del voto
socialrivoluzionario avevano un fondamento (nel
frattempo gli S. R. si erano scissi e non era
corretta la proporzione esistente in Assemblea
tra S. R. di sinistra e di destra eletti
precedentemente a quella scissione)26, resta il
fatto che la sostanza di quella vicenda (originata
da una significativa ambiguità dei bolscevichi)
non poteva altro che approfondire
irreparabilmente la rottura tra di essi e la intera
area delle rimanenti forze politiche27.



1
Mediata filiazione più di un marxismo di

361
origine saint-simoniana e del socialismo inteso
come dirigismo statale attraverso il potere dei
managers e degli «specj», che del marxismo del
Marx che resta.
2
A dimostrazione di quanto fosse esclusa
dalla formazione culturale di Lenin la
componente di ascendenza herzeniana è utile
riportare un opposto giudizio su Pietro, di
Herzen stesso: «È strano vedere… l’umanesimo
introdotto in Russia con il knut e la mannaia; la
malvagità dei mezzi si riflette inevitabilmente
sul risultato… All’esterno l’europeismo e
all’interno una mancanza totale di umanità:
queste sono state le caratteristiche nazionali da
Pietro in poi» (16 luglio 1843, Lemke, III, p.
128).
3
Carr, op. cit., p. 507.
4
Si veda Michal Reimann, op. cit., p. 23: «Il
nuovo potere non poteva mantenere le proprie
promesse, i propri impegni e quindi finiva
necessariamente con l’estraniarsi dalla gente.
Ciò divenne particolarmente evidente soprattutto
dopo la conclusione della guerra civile che aveva
giustificato la violenza, il terrore e numerose
restrizioni. Non era quello un potere ‘nello Stato
della classe operaia e degli altri lavoratori
organizzati’; era invece il potere sconfinato del
partito dominante o piuttosto dei suoi vertici. La
qualità del regime sociale andò notevolmente
peggiorando; quello nuovo era un potere plebeo,
che non disponeva di sufficienti esperienze
amministrative, legali e culturali. Crebbe
rapidamente il burocratismo, che si confuse con
la brutalità ereditata dalla rivoluzione e

362
dalla guerra civile. Profondi mutamenti sociali
vennero attuati tramite il terrore e la violenza;
con il terrore e la violenza si costruiva il nuovo
sistema di disciplina sociale e si affermavano
nuove differenziazioni sociali, prodotto organico
di una società immatura».
5
S. Timpanaro, Sul materialismo, Pisa 1970,
p. 100.
6
Si veda L. Gruppi, Il concetto di egemonia
in Gramsci, Roma 1973, pp. 151 e sgg.
7
R. Rossanda, «Classe e partito», - Il
manifesto, n. 4 settembre 1969.
8
R. Rossanda, op. cit.
9
Daniels, op. cit., pp. 71 e sgg.
10
Si veda in Solzenicyn, Lenin a Zurigo,
nelle note biografiche a p. 305 la voce di
Sljapnikov: «… Durante la guerra passa diverse
volte dalla Scandinavia in Russia: unico di tutto il
partito bolscevico, assicura un legame reale tra
l’emigrazione e la metropoli, introducendo
letteratura di propaganda, rianimando
la organizzazione nella capitale e nella provincia
(percorsa clandestinamente). Dal 1915 è
presidente dell’Ufficio russo del C.C., dirige cioè
di fatto e di diritto il partito su tutto il territorio
della Russia, in un momento in cui tutti gli altri
esponenti famosi del partito si erano rintanati e
la maggior parte dei comitati aveva smesso di
agire…».
11
Daniels, op. cit., pp. 71-77.
12
Si veda su ciò F. Battistrada, «Populismo
e bolscevismo a 60 anni dall’ottobre» in Momenti
e problemi di storia dell’URSS, Roma 1978.

363
13
Si veda anche O. Anweiler, op. cit: I
Soviet nella rivoluzione d’ottobre, pp. 351-379.
14
Vedere per tutte le fasi della crisi sul
«governo di coalizione» R.V. Daniels, op. cit., pp.
105-114, ed J. Elleinstein, Storia dell’URSS,
Roma 1976, iv, pp. 113-116; Boffa op. cit., pp.
62-64; Bettelheim, op. cit., pp. 280-1. E si legga
in Martov, op. cit., pp. 248 e sgg.: «… il comitato
centrale socialdemocratico (cioè menscevico)
dichiarò sin dai primi giorni dell’avvento al
potere dei bolscevichi e dell’incipiente guerra
civile che il compito della socialdemocrazia nella
nuova fase bolscevica della rivoluzione
consisteva in primo luogo nell’evitare che la
lotta di annientamento reciproco si svolgesse
all’interno del proletariato. Perciò si doveva
riportare la pace all’interno della democrazia e
della classe operaia mediante un compromesso e
costituire un governo di unione, comprendente
rappresentanti di tutti i partiti socialisti, alla sola
condizione che i bolscevichi rinunciassero
ai metodi terroristici.
Tale deliberazione del comitato centrale… fu
approvata solo dopo dure lotte interne e solo in
quanto una parte dei fautori della ‘difesa
rivoluzionaria del paese’ (Dan e altri) si unirono
col gruppo di Martov e in tal modo assicurarono
alla nuova sinistra così formata la maggioranza
del partito…
Per un certo periodo sembrò che la presa di
posizione del comitato centrale
socialdemocratico potesse ottenere favorevoli
risultati pratici. Ebbero inizio trattative ufficiali
con i bolscevichi per costituire un governo

364
unificato con i rappresentanti dei partiti
socialisti. Verso quest’epoca Zinoviev, Kamenev,
Rykov, Riazanov, Lozovskij e altri dirigenti
bolscevichi chiesero che venisse costituito un
‘governo socialista con i rappresentanti di tutti i
partiti dei soviet’ e dichiararono che se si
manteneva un governo formato da soli
bolscevichi si sarebbe andati verso un regime di
terrore e verso l’annientamento della rivoluzione
e del paese».
15
Lenin, Opere complete, vol. xxi, pp. 133-4.
16
Protocolli del C.C. p. 167.
17
Daniels, op. cit., p. 111.
18
È da considerare attentamente, in
proposito, l’importante passo di Medvedev, op.
cit., p. 92-3, che riportiamo per intero: «Va detto
d’altra parte che Lenin non escludeva a priori la
eventualità di una intesa coi menscevichi e coi
socialrivoluzionari. Si pensi a quanto scrisse
dopo la repressione del colpo di mano di Kornilov
dell’estate del 1917, uno dei primi sintomi
precursori della guerra civile: ‘L’alleanza dei
bolscevichi con i socialisti rivoluzionari e i
menscevichi contro i cadetti, contro la borghesia
non è stata ancora sperimentata. O per essere
più precisi è stata sperimentata soltanto su un
solo fronte, soltanto nel corso di cinque giorni,
dal 21 al 31 agosto, durante il colpo di Kornilov,
e questa alleanza ha riportato, durante questo
periodo una vittoria completa sulla
controrivoluzione, una vittoria ottenuta con una
facilità mai vista in nessuna altra rivoluzione
precedente, ha infetto una sconfitta così

365
schiacciante alla controrivoluzione della
borghesia, dei grandi proprietari fondiari e dei
capitalisti, dell’imperialismo alleato e dei cadetti,
che da questo lato la guerra civile è
completamente fallita… Se la rivoluzione ci ha
dato una lezione assolutamente
indiscutibile, assolutamente provata dai fatti,
questa lezione è appunto che esclusivamente
l’alleanza dei bolscevichi con i socialisti
rivoluzionari e i menscevichi, esclusivamente il
passaggio immediato di tutto il potere ai soviet
renderebbe la guerra civile in Russia
impossibile’. (V. I. Lenin, La rivoluzione russa e
la guerra civile, Opere Complete, xxvi, 25-27).
Purtroppo la lezione della rivoluzione
‘assolutamente indiscutibile, assolutamente
provata dai fatti’ di cui parlava Lenin non fu mai
messa a profitto, e l’alleanza tra i pattiti di
sinistra mai conclusa. La responsabilità
principale del corso infausto assunto dagli
avvenimenti va attribuita, prima dell’ottobre,
soprattutto ai socialisti rivoluzionari e ai
menscevichi, che erano allora al governo. Ma,
dopo l’ottobre, furono i bolscevichi che si
lasciarono sfuggire di mano la possibilità di
un utile compromesso, di un’unità di azione dei
tre partiti, e questo proprio perché nella
primavera del 1918, non riuscirono a trovare al
problema degli approvvigionamenti una
sooluzione che fosse accettabile per la gran
massa dei contadini».
19
Anweiler, op. cit., p. 381 così commenta:
«L’Assemblea costituente era stata sin dagli inizi
del movimento rivoluzionario russo l’obbiettivo

366
ultimo della lotta di tutte le correnti liberali e
socialiste. Rappresentava in un certo senso il
simbolo e il coronamento dei decenni della lotta
di liberazione contro l’autocrazia zarista, la
speranza in tempi più giusti e più liberi, l’ideale
di generazioni di rivoluzionari. Nella rivoluzione
del febbraio 1917 la convocazione della
costituente come ‘signora della terra russa’ era
un punto comune ai programmi di tutti i partiti
politici, il consiglio degli operai e dei soldati di
Pietroburgo concluse il suo primo proclama con
l’appello all’Assemblea costituente».
20
Lenin, «Tesi sull’Assemblea costituente»,
Pravda, 14 dicembre 1917.
21
Si legga quanto scrive Martov in op. cit.,
pp. 250-1: «Uno dei punti essenziali della
democrazia bolscevica prima dell’insurrezione di
novembre era l’accusa levata contro il governo
Kerensky e contro i partiti socialisti, di voler ‘far
saltare’ di proposito l’assemblea costituente: lo
stesso colpo di mano bolscevico
venne giustificato con la necessità di garantirne
la convocazione… Lenin cercò una via di mezzo:
avrebbe ‘riconosciuto’ l’assemblea costituente se
questa preventivamente avesse ‘riconosciuto’
non solo i decreti da lui emanati, ma
anche poteri illimitati al governo bolscevico. Ma
quando questo assurdo tentativo fallì, Lenin
decise, nuovamente incontrando forti resistenze
di molti notabili bolscevichi, di tagliare i nodi:
nel giorno in cui avrebbe dovuto riunirsi
(18 gennaio 1918) l’assemblea costituente fu
dispersa da una folla di marinai armati, mentre i
dimostranti che manifestarono in suo favore a

367
Pietroburgo e a Mosca furono presi a fucilate dai
militari e dalla polizia, che diede loro la caccia
disperdendoli. Il dado era tratto: la soppressione
dell’assemblea costituente assumeva il
significato di una rottura decisiva con la
democrazia, mentre veniva stabilita
definitivamente la dittatura di un partito e aveva
inizio il dominio del terrore organizzato
dall’alto».
22
Questi risultati vengono commentati da
Anweiler, op. cit., p. 384: «D’altra parte risultava
provata la debolezza dei ceti medi borghesi, dei
proprietari terrieri conservatori, dei funzionari e
di tutte le istituzioni della monarchia. La
lotta politica restava circoscritta al campo
socialista: con i 4/5 di tutti i voti i
partiti rivoluzionari socialisti avevano dietro di
sé la massa della popolazione (cfr. Radkey, op.
cit., pp. 14 e sgg.)».
23
Carr, op. cit., p. 113, n. 1.
24
Anweiler riporta, op. cit., p. 302: «Nel
comitato centrale bolscevico il 12 dicembre
Bucharin propose che la sinistra della
Costituente si autoproclamasse Convenzione
rivoluzionaria». E a pp. 386-390 scrive: «Nel loro
atteggiamento nei confronti dell’Assemblea
Costituente e del parlamentarismo, i bolscevichi
si erano lasciati guidare sempre da
considerazioni tattiche…».
25
Si legga in Anweiler, op. cit., pp. 395-6:
«Cernov affermava invece nei suoi discorsi e nei
suoi articoli che l’antitesi tra consigli e
Assemblea costituente era stata creata ad arte

368
dai bolscevichi e che questi due organismi erano
invece destinati ad una stretta collaborazione».
«Nella combinazione di Assemblea costituente e
consigli Cernov assegnava una netta preminenza
al parlamento democratico sui consigli che erano
per lui degli organi improvvisati e legati ad una
sola classe e non sarebbero stati in grado di
assumere le funzioni
dell’amministrazione statale. Queste secondo i
socialisti rivoluzionari dovevano essere affidate
in larga misura agli organi d’autogoverno delle
campagne e delle città che a loro volta dovevano
collaborare con i soviet locali».
«Al congresso straordinario (menscevico) che
si aprì il 13 dicembre a Pietroburgo una
minoranza schierata intorno a Liber e a Potresov
si pronunciò in favore di una stretta alleanza di
tutte le forze non bolsceviche intorno alla parola
d’ordine dell’Assemblea costituente. La
maggioranza approvò però una risoluzione di
Martov che riconosceva come sostanzialmente
giusta la rivoluzione d’ottobre e le rivendicazioni
di cui era espressione e chiedeva la formazione
di una coalizione che andasse dai bolscevichi fino
ai socialrivoluzionari: ‘Il potere deve
appartenere integralmente all’Assemblea
costituente’, affermava un punto del programma
del partito. Martov riteneva però che i consigli
fossero destinati a svolgere un’importante
funzione rivoluzionaria anche in futuro ed era
perciò contrario alla proposta di Dan, Liber ed
altri secondo cui i menscevichi non avrebbero
dovuto più partecipare ai lavori dei soviet. Nella
sua risoluzione il Congresso ordinò ai membri

369
del partito di restare nei Soviet che non fossero
divenuti puri strumenti del potere bolscevico e
collaborassero con le dume cittadine».
26
Si veda Anweiler, op. cit., p. 382: «Il
nuovo orientamento delle masse, che nelle
settimane precedenti l’insurrezione di ottobre si
era manifestato nella bolscevizzazione dei soviet
e nella crescente adesione nelle campagne alla
linea dei socialisti rivoluzionari di sinistra, potè
esprimersi solo parzialmente sul piano elettorale
a causa di un errore tecnico: i candidati delle
due correnti del partito socialista rivoluzionario
si erano presentati alle elezioni sulle stesse liste,
compilate prima della scissione, in cui come
capolista figuravano perlopiù i vecchi
dirigenti del partito».
27
Si legga in R. Medvdev, op. cit., p. 86: «La
dispersione della manifestazione a favore
dell’Assemblea costituente organizzata dai
partiti avversi ai bolscevichi fu certo un’azione
grave e riprovevole; infatti secondo numerose
testimonianze degne di fede si sparò sulla folla».

370
Capitolo settimo

I PRIMI MESI DOPO LA RIVOLUZIONE: LA


ROTTURA CON I SOCIALISTI RIVOLUZIONARI
DI SINISTRA






Le Tesi di aprile rinverdendo le note posizioni
di Marx e soprattutto di Engels, avevano ribadito
che l’agricoltura su larga scala era un cardine
della rivoluzione socialista e Lenin in un articolo
sulla Pravda di quei giorni aveva ben
puntualizzato come si è visto,
l’atteggiamento dei bolscevichi «Non possiamo
nascondere ai contadini e tantomeno ai proletari
e ai semiproletari della campagna che la
coltivazione su piccola scala, (finché esisteranno
i mercati dei beni di consumo e il capitalismo),
non riuscirà a liberare l’umanità dalla miseria di
massa; che è necessario per il benessere sociale
prendere in considerazione il passaggio alla
coltivazione su larga scala e mettere
immediatamente mano a ciò, insegnando alle
masse e imparando dalle masse il modo per
compiere un tale passaggio con i mezzi pratici
più adatti».
Erano passati quasi cinquant’anni da quando i
populisti dell’«andata al popolo» si erano
interrogati su quegli stessi problemi definendo,

371
quasi con le stesse parole, il loro porsi di fronte2
alle istanze e ai bisogni delle popolazioni rurali!
Ma ora la situazione delle campagne, specie
dopo la riforma Stolypin, era mutata e i
socialrivoluzionari, eredi dei populisti e sempre
fedeli alle istanze, qualunque fossero, del mondo
contadino di cui rimanevano l’unica reale pur se
eterogenea espressione politica3, erano venuti
spesso ad affermare la difesa anche degli
interessi dei proprietari più ricchi3 bis.
Quando perciò, sempre nel maggio del ’17, fu
convocato a Pietrogrado un congresso panrusso
dei deputati dei contadini4, nonostante le
perorazioni di Lenin, come delegato bolscevico, a
favore del principio che «senza coltivazione
collettiva della terra da parte dei lavoratori
agricoli… non esisteva alcuna via d’uscita dalla
schiavitù del capitalismo» e così via, i bolscevichi
risultarono una voce inascoltata5 e il congresso
fu del tutto dominato dai socialrivoluzionari che
egemonizzati dai menscevichi, teorizzavano in
quei mesi l’impossibilità di una
rivoluzione socialista in Russia se non dopo che il
socialismo si fosse affermato in Europa.
Il periodo dall’aprile al luglio 1917 6 fu
dunque l’unico periodo in cui Lenin sostenne il
principio di una rivoluzione agraria con
alcuni obiettivi di tipo socialista. Resta per altro
comprensibile, dato il proverbiale realismo di
Lenin, il suo immediato adeguarsi alla
situazione concreta (la sua famosa «analisi
concreta della situazione concreta»!), il suo
assumere in pieno il programma agrario (che
egli riteneva «democratico-borghese») 7 del

372
partito socialrivoluzionario (adozione che gli sarà
«rinfacciata» diverse volte)8: il famoso «Decreto
sulla terra» del primo giorno seguente alla
rivoluzione.
La parola d’ordine di una rivoluzione
immediatamente di tipo socialista anche nelle
campagne (pur con i limiti che essa conteneva)
era durata per Lenin solo qualche mese. La dura
realtà dei rapporti di forza politici e della
struttura reale del paese l’avevano spinto a far
sua la parola d’ordine della rivoluzione
«democratico borghese»: la confisca delle terre
ai grandi proprietari e la loro distribuzione ai
contadini.
La prospettiva su cui aveva tanto insistito
nell’aprile, la necessità di creare grandi unità
agricole a coltivazione collettiva, non ebbe
l’onore della ribalta nei documenti
programmatici della prima rivoluzione socialista
della storia! (e questo sul piano non solo della
testimonianza ma anche dei possibili sviluppi e
delle indicazioni che avrebbero potuto trarsene
nell’opera pratica di espropriazione delle terre—
per esempio di parte di quelle statali—non del
tutto comprensibile)9.
I bolscevichi d’altra parte nella fase della
ripartizione pratica della terra tesero a
contrastare la politica individualistica dei S. R. di
destra a favore dei contadini ricchi e medi e ad
appoggiare i contadini poveri e senza terra. Nel
corso di questo processo, attraverso la coalizione
dei bolscevichi e degli S. R. di sinistra, fu
possibile, il 19 febbraio 1918 10, l’emanazione del
decreto «Sulla socializzazione della terra» che

373
rappresentava un compromesso tra le posizioni
collettivistiche dei bolscevichi e quelle degli S.R.
L’art. 11 di tale decreto poteva dunque
riproporre degli obiettivi socialistici:
«a) creare condizioni favorevoli allo sviluppo
delle forze produttive del paese mediante
l’aumento della produttività della terra, il
miglioramento delle tecniche agricole, e infine,
l’aumento del livello medio d’istruzione agricola
tra le masse lavoratrici della popolazione della
campagna;
b) creare un fondo di riserva di terra adatta
all’agricoltura;
c) sviluppare le industrie agricole, come la
floricoltura, l’agricoltura, la produzione di frutta
e verdura, l’allevamento, l’industria casearia ecc.
ecc.
d) affrettare, in varie regioni, il passaggio
dai sistemi di coltivazione meno produttiva a
quella più produttiva, mediante una migliore
distribuzione della popolazione agricola;
e) sviluppare il sistema collettivo
nell’agricoltura come il metodo più economico
sia per il lavoro, sia per la produzione, a spese
del sistema delle proprietà individuali, per
attuare il passaggio ad una economia socialista».
Naturalmente, come si è già detto, il tempo
dell’«occasione storica» marxiana era
tramontato da tempo e il tessuto sociale,
economico, culturale delle campagne e del
movimento politico che le rappresentava alla
vigilia del ’17 si presentava mutato: fallita la
rivoluzione del 1905 la riforma Stolypin era

374
riuscita in parte a raggiungere l’obiettivo che si
era posta (paradossalmente lo stesso dei primi
marxisti russi e del giovane Ulianov): la
dissoluzione «naturale» dell’obscina e del
possesso comune della terra e la estensione delle
differenziazioni sociali nelle campagne con la
lenta crescita di una fascia di piccoli e medi
proprietari e di kulak esterni all’obscina. Ma nel
corso del ’17 l’aspirazione prevalente 11 tornò ad
essere quella del possesso individuale
all’interno dell’obscina e il Decreto sulla terra
non aveva fatto che dare slancio generalizzato e
profondo a quella aspirazione che finalmente
aveva modo di realizzarsi portando a un generale
livellamento della posizione contadina e a un
rifiorire del mir 12.
Le petizioni di principio bolsceviche
acquistavano sempre più un valore di
testimonianza ma anche come tale avevano una
loro indubbia importanza e potevano costituire
un saldo punto di riferimento per la costruzione
di una politica agraria che salvaguardasse le
istanze dell’urgenza e della necessità della
coltivazione su larga scala 13.
Malgrado dunque lo stesso decreto del
Febbraio ’18 sulla socializzazione della terra
fosse nella sua sostanza l’espressione
dell’aspirazione al godimento della terra su basi,
in una prima fase 14, individuali, Lenin, in quel
tempo era consapevole dei compiti che il partito
bolscevico aveva di fronte ma, come sempre, non
riusciva a calarli nella realtà della struttura del
villaggio russo 15.
Egli puntualmente aveva scritto a commento

375
di quel decreto 16 : «Noi bolscevichi aiuteremo la
classe contadina a superare le parole
d’ordine piccolo-borghesi, per compiere più
rapidamente e facilmente possibile il passaggio
alle parole d’ordine socialiste». Tuttavia nel
programma bolscevico non si parlò del sistema
delle proprietà comuni di villaggio 17, eppure era
anche quello il terreno dove la politica bolscevica
avrebbe potuto radicarsi attraverso l’indicazione
e il concreto appoggio alla coltivazione
cooperativa e all’aggiornamento delle tecniche
agricole18!
Ma di fronte, in quei mesi, al rapido maturare
nelle campagne, assieme alla assoluta penuria di
viveri nelle grandi città, di fenomeni di
speculazione e di occultamento delle scorte e a
difficoltà di ogni sorta nella vita quotidiana delle
popolazioni e di fronte all’accentuarsi di certe
forme di differenziazione sociale Lenin fu subito
pronto a cogliere l’asprezza della conflittualità
sociale che si veniva creando e in un comizio a
Mosca nel gennaio del ’18 iperbolizzò 19 : «Siamo
certi che la classe contadina lavoratrice20
dichiarerà una guerra spietata al suo sfruttatore,
il kulak, sostenendoci nella nostra lotta verso un
avvenire migliore del popolo e per il socialismo».
Certo come osserva Carr21 soltanto (o
perlomeno soprattutto) l’esasperazione delle
città per la mancanza di viveri spinse i
bolscevichi a porsi con forza il problema delle
campagne, aldilà delle professioni di fede, ma lo
fecero nel solito modo settario e semplicistico.
Durante i primi mesi della rivoluzione essi
avevano scontato drammaticamente una loro

376
assoluta assenza nelle campagne dovuta a quella
strategia, così gravemente carente, che per venti
anni era stata la loro e che non aveva saputo
individuare i reali rapporti di classe nelle
campagne.
Era a causa di ciò, durante questi primi
decisivi mesi, che era mancata loro,
completamente, la possibilità di realizzare le
nuove indicazioni strategiche delle tesi di aprile
e quelle del Decreto sulla socializzazione della
terra, che pur contraddittoriamente coglievano i
nodi e la prospettiva per una trasformazione
socialistica delle campagne. L’unione
22
coi socialisti rivoluzionari di sinistra avrebbe
permesso loro di avviare un processo di revisione
delle loro posizioni e di portarlo avanti. La crisi
di Brest-Litovsk, la svolta autoritaria, l’uscita nel
marzo dei socialisti rivoluzionari di sinistra dal
governo e l’inasprirsi della situazione sociale
segneranno la fine di questa possibilità e l’inizio
di una involuzione che, attraverso il «comunismo
di guerra» e il fallimento della N.E.P., culminerà
nello «stalinismo». In effetti la rottura con i
socialisti rivoluzionari di sinistra fu dovuta nella
sostanza, al mai avvenuto riconoscimento da
parte di Lenin, del ruolo politico autonomo delle
masse contadine (considerate alleate del
proletariato urbano ma ad esso subalterne).
Il che avrà come inevitabile tragica
conseguenza, in un paese a stragrande
maggioranza contadina la cui tradizione di lotta
era radicata, la «dittatura rivoluzionaria»
giacobina.

377


1
Opere complete, vol. xx, p. 194.
2
Si veda per es. quanto prima riportato di
Michailov, Lavrov, Zheliabov, Aptkeman ecc. nei
capitoli III e IV della prima parte.
3
M. Ferro, op. cit., pp. 106-7 riassume le
posizioni populiste sul problema agrario: «I
populisti ponevano il problema della riforma
agraria in altri termini: secondo loro la teoria
della lotta di classe trovava il suo principio non
nei rapporti fra i possidenti e i non possidenti,
ma nella ripartizione disuguale della
ricchezza; l’egualitarismo era quindi il motore
delle lotte sociali, il principio del
programma rivoluzionario dei populisti. Qui però
avevano inizio le divergenze: mentre
la maggioranza dei militanti riteneva che la terra
doveva essere soltanto uno dei beni del popolo e
non la sua proprietà e si dichiarava favorevole
alla socializzazione dei beni di produzione, una
piccola minoranza (i social-populisti di
Pesenkhonov) si pronunciò a favore di un regime
di democrazia rurale basata sulla piccola
proprietà. Gli uni e gli altri desideravano
mantenere per un certo tempo le forme
di aziende agricole familiari, meglio adatte alle
aspirazioni dei contadini di quanto potesse
essere lo sfruttamento collettivo: ‘Mentre il
processo di trasformazione della società va,
nell’industria, dal lavoro in comune alla
direzione in comune della produzione,
nell’agricoltura va dalla gestione collettiva dei

378
mezzi di produzione all’organizzazione in
comune del lavoro… Nell’agricoltura—scrive
Sisko—bisogna prima abolire la proprietà privata
per attribuire a ciascuno la sua parte, per
poter quindi passare all’instaurazione collettiva
del lavoro’ (A. Mohorovec II programma agrario
dei partiti politici russi nell’anno 1917,
Leningrado 1929, p. 347). Questa parte,
l’obscina l’avrebbe a tutti garantita mentre lo
Stato si sarebbe accontentato di sorvegliare
l’operazione della ridistribuzione; questo
progetto implicava una ristrutturazione della
comune rurale e l’abolizione dei
provvedimenti presi contro il mir
dall’amministrazione di Stolypin. (R. Medvedev,
op. cit., pp. 73-74).
3bis
Le parti dunque si erano capovolte! Lenin
teorizzava l’anello più debole e i populisti la
rivoluzione socialista come coronamento dello
sviluppo capitalistico nei paesi più avanzati! Pur
di non incontrarsi i due movimenti erano riusciti
a occupare, evitandosi, ciascuno le posizioni
dell’antico avversario!! E le ‘grandi parole’ di
Engels venivano ancora una volta a paralizzare
l’azione dei menscevichi e dei socialrivoluzionari
e davano forma all’appello di Plekhanov di quei
giorni: ‘Alla classe operaia non può accadere
sciagura storica peggiore che prendere il potere
politico in un momento in cui non vi è ancora
preparata’ (Plekhanov, God na rodine, Parigi
1921, v, 1 p. 218)».
4
Anweiler, op. cit., p. 215: « Su iniziativa
degli Zemstva, delle cooperative, della
intelligencija dei villaggi (maestri, agronomi

379
ecc.) si formarono sotto i nomi più diversi
(comitati dei contadini, comitati agrari, comitati
del potere popolare ecc.) dei comitati elettivi che
destituirono le vecchie autorità amministrative e
ne assunsero le funzioni. Al Congresso
parteciparono 1115 deputati tra i quali 537 si
dichiaravano socialisti rivoluzionari e solo 14
bolscevichi… Il numero dei soviet di villaggio
restò però limitato anche perché qui le antiche
assemblee di villaggi (schody) li rendevano
superflui».
5
Carr, op. cit., p. 91 e sgg.
6
Per quanto riguarda la forza e l’influenza
dei menscevichi nelle città si legga Martov, op.
cit., p. 258: «Sin dall’inizio della rivoluzione la
socialdemocrazia menscevica assunse una
posizione predominante nella rivoluzione e
nella vita politica del paese. Nelle sue mani essa
aveva indiscutibilmente la maggioranza di tutti
gli organismi direttivi del movimento operaio,
che assunse di colpo uno sviluppo enorme.
Dappertutto spuntavano, come funghi dopo la
pioggia, organizzazioni politiche, unioni
sindacali, associazioni di cultura e
d’insegnamento, cooperative operaie e così via…
Avevano in mano di fatto la direzione dei consigli
e per il loro tramite esercitavano una forte
pressione sia sul governo provvisorio, sia sulle
amministrazioni locali, sia infine sull’esercito».
7
In realtà esso era, in fieri, l’unico
programma socialista proponibile in quanto,
prevedendo la distribuzione egualitaria della
terra da parte dei soviet rurali e, nelle intenzioni
t proposte dei socialrivoluzionari di sinistra,

380
successive forme di cooperazione per la
coltivazione, meccanizzazione ecc., era, assieme
all’esigenza bolscevica della coltivazione su larga
scala, l’unica strada percorribile per
la socializzazione reale del mezzo di produzione
terra e per una elevata produttività della
conduzione agricola.
8
Lenin, di fronte alle reazioni al II
Congresso dei soviet dei deputati operai e soldati
di tutta la Russia (26 ottobre-8 novembre ’17)
alla presentazione del «Decreto sulla terra» così
si esprimeva (Opere Complete, xxvi, p. 243):
«Si sentono qui voci le quali affermano che il
mandato e il decreto stesso sono stati elaborati
dai socialisti rivoluzionari. Sia pure. Non è forse
lo stesso che siano stati elaborati dagli uni o
dagli altri? Come governo democratico non
potremmo trascurare una decisione delle masse
popolari anche se non fossimo d’accordo. All’atto
pratico, con l’applicazione del decreto, con la sua
attuazione nelle varie località, i contadini stessi
comprenderanno la verità».
9
A proposito della politica bolscevica nelle
campagne subito dopo l’ottobre, C. Cicerchia e
AA.VV. ne Il leninismo e la rivoluzione socialista
cit., p. 131 così commenta: «Tuttavia la
teorizzata impossibilità di avviare un
programma di socializzazione dell’agricoltura
sovietica, divaricandosi la riforma fondiaria dalla
gestione pubblica dei capitali, impedisce di
prevedere la trasformazione della coltivazione
collettiva delle aziende in gestione delle stesse
da parte dei collettivi di braccianti e di contadini
poveri, come specificazione e lievitazione

381
del generale controllo sullo sviluppo del processo
produttivo esercitato dal potere sovietico.
Tale separazione, del resto, causa e funzione
della concezione che impone all’agricoltura la
necessità del massimo sviluppo capitalistico,
riduce al minimo le prospettive rivoluzionarie
delle sterminate masse dei braccianti e dei
contadini poveri, con l’inevitabile conseguenza di
provocare laceranti contraddizioni nei soviet dei
deputati operai e soldati e di mantenere
l’egemonia dei socialisti rivoluzionari nei soviet
contadini».
10
Carr, op. cit., p. 458.
11
Eppure ancora nel ’27, scrive Ellenstein
(Storia dell’URSS, I, p. 205), l’obscina viveva:
«Nel 1927 il 95% delle terre vedevano ancora
uno sfruttamento comunitario. In pratica dunque
era stata restaurata la vecchia forma del mir». E
Boffa, nella sua Storia dell’URSS (p. 267) così
scrive: «… il grande livellamento operato dalla
rivoluzione restò il tratto caratteristico delle
campagne russe per tutti gli anni ’20. Esso ebbe
come conseguenza… la rinascita della
vecchia obscina che il capitalismo era andato
distruggendo. Sappiamo come essa
fosse sconvolta, ma non scomparsa, neppure
dopo le riforme di Stolypin. La
grande spartizione della terra negli anni ’17-’20
le dette nuova vita… ecc.». E così si esprime C.
Bettelheim nel suo Le lotte di classe in URSS
1917-1922, (Milano 1975, p. 171): «Soprattutto
in assenza di un sufficiente radicamento del
partito bolscevico nelle campagne—essa (la
distribuzione delle terre del ’17-’18 ha

382
contribuito a ridare una relativa vitalità al mir
ecc.».
J. Camatte in op. cit., pp. 79-80-82-86-87
annota altresì: «Ciò significa che anche se nelle
statistiche si poteva riscontrare nel 1917 una
scomparsa dell’obscina il problema della sua
rivitalizzazione si pose per il fatto stesso dello
scoppio della rivoluzione.
Il fatto che queste comunità abbiano potuto
rivivere è di eccezionale importanza per
comprendere la strada che la rivoluzione russa
avrebbe potuto imboccare e da ciò avanzare un
giudizio su tutta la rivoluzione… La persistenza
ed anche la nuova vitalità in Russia della comune
agraria sono state confermate da uno specialista
dei problemi slavi P. Pascal: «La comune non è
morta dopo la rivoluzione» (Civilisation paysanne
en Russie, Lausanne 1969, p. 29). Egli afferma
che essa era ancora vitale nel 1966… Secondo
diversi autori la realtà comunitaria non sarebbe
totalmente scomparsa ai giorni nostri. È ciò che
afferma come già abbiamo accennato P. Pascal; è
ciò che suggerisce B.H. Kerblay nel suo articolo
«Changementes dans l’agricolture sovietique»:
«Le recenti discussioni testimoniano una
tradizione contadina comunitaria e familiare che,
in un certo numero di casi si rivela
controcorrente rispetto alle soluzioni
raccomandate per modernizzare le strutture
agrarie» (Problèmes économiques, n. 1, p. 162,
1970).
12
Sulla persistenza delle strutture
comunitarie nella società sovietica si vedano le
opere di P. Pascal; M. Confino; B. H. Kerblay; O.

383
Anweiler; E. H. Carr; C. Bettelheim; J. Camatte;
G. Boffa; M. Ferro; J. Ellestein; M. Lewin; A.
Bordiga; T. Shanin; C. Goehrke; E. Muller; ecc.
13
Si legga in Roy Medvedev, op. cit., p. 91:
«Le scorte di cereali dei circuiti ufficiali
coprivano non più della decima parte del
fabbisogno del paese. Le cause di questo
fallimento furono varie. La liquidazione delle
grandi proprietà terriere, che in passato
fornivano la maggior parte del grano destinato al
commercio, faceva sentire pesantemente i suoi
effetti. La consegna ai contadini delle terre e
dei beni dei latifondisti provocò un aumento del
consumo di grano presso quella stessa
popolazione rurale che in gran parte, fino allora,
non aveva mai mangiato a sufficienza».
14
Nella «seconda fase» i socialisti
rivoluzionari prevedevano il passaggio graduale
al lavoro cooperativo e alla coltivazione collettiva
ma sempre al di dentro delle strutture
comunitarie del villaggio russo.
15
Sul persistere delle strutture delle obsciny
nella Russia del ’17 si legga per es. Bordiga in
Struttura economica e sociale della Russia
d’oggi, (Milano 1966, vol. II, pp. 160-1): «Nel
1905 la più audace riforma di Stolypin neppure
riuscì a stabilire su tutta la terra agraria un
regime di aziende singole… Ma si ritiene che alla
vigilia della grande guerra solo un quarto della
forma collettiva di gestione era statale». Anche J.
Carmichael, Histoire de la revolution Russe,
Paris 1966, si esprime nello stesso senso.
16
Opere complete, vol. xxii, p. 398.

384
17
Carr annota a p. 462, op. cit.: «Il sistema
delle proprietà comuni di villaggio, soggette a
periodiche retribuzioni, non fu toccato dalla
riforma».
18
Anweiler, op. cit., p. 438 commenta: «Una
posizione particolare continuavano ad occupare i
soviet rurali. L’organizzazione dei consigli era
ancora scarsamente sviluppata quando i
bolscevichi presero il potere. Nonostante le
numerose ordinanze, le disposizioni della
costituzione e la propaganda del partito, i soviet
si affermarono solo lentamente ai livelli inferiori.
Nelle istruzioni sulla formazione di consigli nei
distretti e nei villaggi, si trovava un richamo
consapevole all’antica utilizzazione dello schod,
l’assemblea contadina tradizionale, per facilitare
ai contadini la comprensione della nuova forma
sovietica. In pratica del resto i soviet di villaggio
non si distinguevano quasi dagli schody, solo che
i contadini ricchi ne erano esclusi…». Pag. 440:
«La forma sovietica, che nella sua semplicità e
naturalezza poteva riallacciarsi alle istituzioni
tradizionali della ‘democrazia’ contadina fu
compromessa dalla lotta dei bolscevichi contro i
contadini».
Si veda anche T. Shanin, The akward class
political sociology of peasants in a developping
society: Russia 1910-1925, Oxford 1972; per es.
pp. 164-5.
19
Opere complete, vol. xxii, pp. 356-7.
20
Era dall’agosto 1917 che, colla perdita
d’influenza politica dei cadetti, i socialisti
rivoluzionari erano divenuti la formazione

385
politica più importante del paese. Si veda su ciò
R. Medvedev, op. cit., p. 77.
21
Carr, op. cit., p. 466.
22
Si legga quanto R. Medvedev, op. cit.,
scrive a proposito dei socialisti rivoluzionari a
pp. 72-75: «Il partito socialista rivoluzionario si
considerava socialista anche se nel suo
programma e nella sua propaganda non si
richiamava affatto alle idee marxiste. I socialisti
rivoluzionari sostenevano ad esempio che anche
in regime capitalistico era possibile creare
aziende socialiste sotto forma di cooperative e
vedevano nella socializzazione della terra una
riforma socialista, una delle misure più
importanti di una rivoluzione socialista… Il
programma dei socialisti rivoluzionari proponeva
provvedimenti come la collettivizzazione del
lavoro, l’abolizione della proprietà privata e della
divisione della società in classi ed
affermava inoltre che la realizzazione completa
del programma del partito e l’esproprio di tutte
le proprietà capitalistiche presupponevano la
piena vittoria della classe operaia, la
riorganizzazione dell’intera società su basi
socialiste e, in caso di necessità, l’instaurazione
di una dittatura rivoluzionaria della classe
operaia. In effetti, il concetto di classe operaia
era inteso dagli S.R. in modo radicalmente
diverso da come la intendevano i marxisti… I
socialisti rivoluzionari scrivevano infatti nel loro
programma: ‘Bisogna fare in modo che tutti gli
strati della popolazione, dal proletariato
industriale ai contadini lavoratori siano
consapevoli di costituire una unica classe, la

386
classe operaia, che vedano nell’unità di classe la
garanzia della loro emancipazione, che
subordinino i loro interessi particolari, locali,
momentanei al solo grande obiettivo del
rovesciamento rivoluzionario della società’. (I
programmi dei partiti politici russi, Mosca 1917).
Già nel 1917, però, si registrò un profondo
divario tra il loro programma e la loro pratica
politica. Nei mesi decisivi che seguirono alla
rivoluzione di febbraio, i socialisti rivoluzionari,
che pure erano notevolmente superiori ai
menscevichi sia numericamente sia per
l’influenza politica di cui godevano, si posero
invece nella loro scia per molte questioni
teoriche, finendo per adottare il punto di vista
menscevico sul carattere, gli scopi e le
prospettive di una rivoluzione democratico-
borghese in Russia. Inoltre dopo la vittoria della
rivoluzione di febbraio, i dirigenti S.R. non
intensificarono le loro richieste di una
socializzazione della terra, ma fecero anzi il
possibile per frenare l’attuazione della riforma
agraria. Facendo eco ai menscevichi, il giornale
socialista-rivoluzionario Delo naroda (La causa
del popolo, 1 settembre 1917) scriveva ad
esempio in un editoriale: ‘Finché non si compirà
una rivoluzione socialista nell’Europa
occidentale, non si potrà nemmeno pensare ad
eliminare il regime capitalistico in Russia’… E
tuttavia non si può non ricordare che questo
stridente divario tra le rivendicazioni dei
socialisti rivoluzionari e la politica reale condotta
dai loro dirigenti provocò nell’estate di
quell’anno una scissione in seno al partito e la

387
formazione di una frazione, e successivamente di
un partito socialista-rivoluzionario di sinistra,
che rivendicava il rispetto del programma,
l’immediata attuazione della riforma agraria e
numerose altre misure rivoluzionarie. Se la
maggior parte dei socialisti rivoluzionari faceva
blocco con i menscevichi, gli S.R. di sinistra,
invece, andavano sempre più convincendosi
dell’opportunità di appoggiare i bolscevichi.
Non solo la maggior parte dei militanti di base
del partito menscevico e dei socialisti
rivoluzionari, ma anche la maggioranza dei loro
dirigenti non erano assolutamente—e comunque
non lo erano soggettivamente—‘agenti’ della
borghesia infiltratisi tra la classe operaia e i
contadini. È indubbio tuttavia che il
comportamento dei dirigenti menscevichi e
socialisti rivoluzionari non equivaleva ad
un tradimento deliberato degli interessi del
popolo come sostenevano i bolscevichi e come
affermano tuttora, all’unanimità, gli storici
sovietici. Nel 1917 i menscevichi non solo si
consideravano un partito della classe operaia,
ma esprimevano effettivamente l’opinione di
gran parte delle classe operaia, allo stesso modo
che i socialisti rivoluzionari riflettevano lo stato
d’animo di gran parte dei contadini e dei
soldati…».

388
Capitolo ottavo

IL FALLIMENTO DEL «COMUNISMO DI


GUERRA» E LA NEP






Il grande disegno strategico-tattico delle tesi
di aprile, pur con i suoi limiti, aveva cercato di
dare solo una scadenza ravvicinata al processo
rivoluzionario in corso ma, in riferimento alla
questione contadina, un contenuto e una
prospettiva socialista all’intuizione
trockiana della rivoluzione permanente: del
passaggio cioè, senza soluzione di continuità,
dalla rivoluzione democratico-borghese a quella
direttamente socialista.
Ma quel grande disegno si era potuto
realizzare per metà; il potere politico era stato
conquistato dalle classi lavoratrici ma non la sua
tendenziale socializzazione e non quella dei
mezzi di produzione; non avendo su ciò i
bolscevichi una chiara strategia, essi
incontravano insormontabili difficoltà sia nella
politica per la terra che per le fabbriche.
Il ritardo storico dei bolscevichi a formulare
una corretta politica agraria e a costruire un
movimento contadino aveva portato Lenin
a porre il programma agrario
socialrivoluzionario a cardine della rivoluzione

389
dell’ottobre attraverso il decreto sulla terra
dell’8 novembre 1917 1.
Il principio bolscevico dell’agricoltura
collettiva era stato invece affermato nel decreto
sulla socializzazione della terra del 19 febbraio
1918 e a questo era corrisposta da parte dei
bolscevichi l’individuazione limitativa (escludeva
i contadini medi) dello strato contadino che
avrebbe dovuto battersi per quel principio:
quello cioè dei contadini poveri e senza terra.
Era stata soprattutto la grave situazione delle
città2, per quanto riguarda il loro rifornimento
dalle campagne, a spingere il partito bolscevico
a riproporre in termini di lotta verso gli elementi
agiati delle campagne, responsabili solo in parte
di quella situazione, la questione contadina.
Ma non fu tanto l’aggravarsi di questa
situazione quanto la crisi di Brest Litovsk e
l’uscita dei socialrivoluzionari di sinistra dal
governo a spingerli a tradurre quelle indicazioni
in azione pratica nelle campagne.
Questa nuova politica bolscevica nelle
campagne, che avrebbe preso il nome di
«comunismo di guerra» 3, ebbe inizio nell’aprile-
maggio del ’18. Qualche giorno dopo il
conferimento al commissariato del popolo per i
Rifornimenti di «poteri straordinari nella lotta
contro la borghesia agraria che nasconde
depositi di grano e vi specula» 4, Lenin dopo aver
ascoltato un delegato della leggendaria Putilov
che gli illustrava la gravissima situazione degli
operai di Pietrogrado, inviò un appello ai
lavoratori esortandoli a «salvare la rivoluzione
arruolandosi nelle squadre annonarie

390
organizzate dal commissariato per i
5
rifornimenti» .
Nello stesso tempo il decreto dell’11 giugno
’18 istituiva i famosi «comitati dei contadini
poveri». Essi erano preposti alla requisizione
delle scorte di grano «ai kulaki e ai ricchi», alla
distribuzione del grano e dei generi di prima
necessità e in generale alla messa in atto della
politica agraria del governo sovietico.
Lenin attribuiva una importanza «storica» 6 a
questa svolta nelle campagne: i contadini poveri,
guidati dagli operai delle fabbriche, iniziavano la
loro lotta emancipatrice contro i kulaki, la
rivoluzione usciva dalla sua fase democratico-
borghese ed entrava in quella socialista…!
«È solo nell’estate e nell’autunno del ’18—
scrisse—-che le nostre campagne vissero
l’esperienza della loro rivoluzione d’ottobre»7;
«una svolta di enorme importanza nell’intero
corso dello sviluppo e della costruzione della
nostra rivoluzione» perché «abbiamo valicato il
confine tra la rivoluzione borghese e quella
socialista» 8.
Dunque era nuovamente lo schema proposto
nelle Due tattiche della socialdemocrazia nella
rivoluzione democratica che con tutti i suoi limiti
tornava ad essere riproposta: il proletariato
urbano aveva compiuto la rivoluzione
democratico-borghese in alleanza con la massa
dei contadini.
Ora avrebbe realizzato la fase socialista della
rivoluzione alleandosi altri contadini fu posto un
obiettivo di segno opposto.

391
Parallelamente a questa azione di
organizzazione e direzione da parte del
proletariato delle città dei contadini poveri e
senza terra contro gli altri contadini fu posto un
obiettivo di segno opposto.
Il 19 luglio 1918 per la prima volta il governo
sovietico procedeva a uno stanziamento
straordinario di 10 milioni di rubli per
incoraggiare le comuni agricole! E il 2 novembre
fu costituita una riserva di un miliardo di rubli
per la concessione di anticipi alle comuni e alle
associazioni agricole, alle comunità e ai gruppi di
campagna che avessero intrapreso «il passaggio
dal sistema individuale di coltivazione e di
raccolta a quello collettivo»9.
Finalmente dunque i bolscevichi
riconoscevano l’importanza, ai fini di una
trasformazione socialistica delle campagne, delle
obsciny (e di quanto potesse costituire un nucleo
associativo) per la
socializzazione dell’agricoltura.
Carr riporta 10 che «nel febbraio ’19 il
Narkomen pubblicò uno “statuto modello” per le
comuni agricole 11, improntato a una visione
comunistica primitiva: Chi desidera entrare nella
comune dovrà rinunciare a favore della comune
stessa ad ogni diritto alla proprietà personale in
denaro, mezzi di produzione, bestiame e in
genere a tutti i beni necessari alla condotta
dell’economia comunista. Ogni membro
della comune dovrà dedicare tutti i propri sforzi
e le proprie capacità a vantaggio della comune…
La Comune richiederà ad ogni membro un
contributo proporzionato alle sue forze e

392
capacità e gli darà un compenso proporzionato
alle sue reali necessità».
Lenin stesso, nell’agosto dello stesso anno, al
primo «congresso panrusso delle sezioni agrarie,
dei comitati dei contadini poveri e delle comuni»
sottolineò ripetutamente la necessità del
«passaggio delle piccole aziende contadine alla
coltivazione sociale della terra».
«Noi sappiamo perfettamente che
rivolgimenti così grandiosi nella vita di milioni di
uomini e che toccano le radici più profonde della
vita e del costume, come il passaggio dalla
piccola azienda contadina individuale alla
coltivazione comune della terra, possono essere
compiuti solo grazie ad uno sforzo prolungato»
12
.
E il congresso approvò una risoluzione dove
veniva proclamato che l’obiettivo principale della
politica agraria era «il coerente e inflessibile
sforzo di organizzazione delle comuni agricole,
delle aziende comuniste sovietiche e della
coltivazione sociale della terra» quasi a
conferma storica di quanto i populisti avevano
più volte affermato contro l’irrisione di parte dei
marxisti russi: perché favorire lo sviluppo
capitalistico e la dissoluzione dell’obscina
quando essa nella costruzione socialista dovrà
essere organizzata, rafforzata e creata di nuovo?
Ma anche questa volta, la politica agraria dei
bolscevichi, conteneva in sé una contraddizione
che avrebbe finito per portare al
definitivo fallimento il perno di tutta la strategia
leninista: l’alleanza stessa tra proletari e
contadini.

393
In una situazione di grave esasperazione e di
difficoltà nei rapporti tra le popolazioni rurali e
quelle urbane, i bolscevichi13 e in primo luogo
Lenin non ebbero sufficientemente chiaro
(nonostante gli avvertimenti dei
socialrivoluzionari di destra come di sinistra) che
una direttiva di «guerra spietata» da parte degli
operai delle città verso i kulaki non era la stessa
cosa del «noi bolscevichi aiuteremo la
classe contadina a superare le parole d’ordine
piccolo-borghesi per compiere il più rapidamente
e facilmente possibile il passaggio alle parole
di ordine socialista» 14 ma un fatto
qualitativamente diverso e opposto che non
avrebbe potuto non risolversi in un letterale
stato di guerra tra operai e contadini, tra città e
campagne, tra industria e agricoltura
e inevitabilmente tra partito e masse, tra una
minoranza di contadini poveri e la restante
massa dei contadini, tra comitati di contadini
poveri e soviet, tra soviet e popolazione: con una
rottura d’incalcolabile portata negativa nella
lotta per la costruzione di una società socialista.
E in realtà l’azione delle «squadre di ferro»
del proletariato urbano e dei comitati dei
contadini poveri si risolse in una lotta spesso
armata non solo e non tanto contro l’esiguo
strato dei kulaki ma contro la massa stessa dei
contadini medi e dunque in un aggravamento
tragico della medesima situazione generale.
Gli stessi risultati pratici non potevano perciò
che essere catastrofici.
La requisizione forzata di massa, e non diretta
soltanto contro gli speculatori e gli

394
accaparratori, produsse il fenomeno opposto a
quello sperato anche se prevedibile: prima
l’occultamento generale delle scorte; poi il
restringimento delle colture ai bisogni di sola
sopravvivenza (Sembra che Lenin da quanto
riporta Carr15 non avesse coscienza di questa
interdipendenza e annotasse, ancora nell’estate
del ’20 con due punti interrogativi una frase di
Varga che diceva: «i sequestri non ottengono il
fine prefisso, poiché portano in sé soltanto una
diminuzione della produzione»!). I socialisti
rivoluzionari di sinistra al v Congresso Panrusso
dei Soviet svoltosi il 5 luglio 1918 (poco prima
dell’assassinio di Mirbach e della loro messa
fuorilegge), denunciarono con forza, come
tradizionali difensori delle campagne, il fatto che
le squadre degli operai bolscevichi conducevano
«poco meno che una guerra dichiarata della città
contro la campagna» 16.
E in realtà furono frequenti i casi (e
probabilmente più frequenti di quelli noti) in cui
i contadini si opposero alle requisizioni in veri e
propri scontri. Al secondo congresso panrusso
dei sindacati del gennaio ’19 17 fu detto che il
Soviet di Pietroburgo aveva in quei mesi
inviato 189 squadre per un totale di 7200
uomini, lo stesso numero a Mosca ecc.
Inoltre le requisizioni si erano estese dal
grano, mangime, zucchero e patate alla carne, al
pesce, ai grassi animali e vegetali, ai semi di
canapa, girasole e lino. Naturalmente come si è
detto i risultati di questa politica non potevano
essere che catastrofici e in definitiva il grano
dei contadini o veniva introdotto sul «mercato

395
nero» oppure doveva essere strappato con la
forza!
E in questo clima tragico resta comprensibile
come tutte le successive giuste misure in difesa e
appoggio della comune, della cooperazione e
delle aziende agricole collettive fossero destinate
al totale insuccesso.
Nello stesso tempo nelle singole province e
nei villaggi si era prodotta, per il cumulo delle
ragioni sopracitate, una seria lotta tra i soviet
locali e i comitati dei contadini poveri che
poneva la grossa questione di chi dovesse
guidare la vita delle campagne. Il congresso dei
comitati dei contadini poveri tenutosi a
Pietroburgo nel novembre del ’18 18 dopo
un’animata discussione, finì col pretendere il
passaggio di tutto il potere politico dai soviet ai
comitati!
Dovette intervenire il Comitato Esecutivo
Centrale panrusso e in definitiva il decreto
emesso il 2 dicembre 1918 19 sanzionò lo
scioglimento dei comitati; unici organi di potere
erano i soviet e i comitati, dopo le nuove elezioni
dei soviet sarebbero stati sciolti!
Praticamente e sostanzialmente ciò
significava il riconoscimento che la politica del
«comunismo di guerra» era fallita; iniziava la
politica che avrebbe portato alla NEP.
Eppure è forse proprio in questo momento
che la politica agraria bolscevica, perde le sue
deleterie asprezze e corretti i suoi errori,
acquista una più alta maturità e capacità di
analisi. Ma anche questa volta questa capacità di

396
adattamento e di correzione più che da un
interno processo di affinamento sembra nascere
dalla spinta degli avvenimenti esterni: è la
guerra civile che spinge a rompere l’isolamento
sociale e politico in cui il bolscevismo si è
cacciato e a cercare di mitigare le posizioni
d’intransigenza giacobina sia sul piano politico
nei confronti degli altri raggruppamenti politici
messi fuori legge (e in particolare dei
socialrivoluzionari e dei menscevichi) e sia su
quello economico soprattutto attraverso una
politica agraria che rimediasse le lacerazioni
del comunismo di guerra.
In una parola non è per un atto di
resipiscenza teorico-politica che viene decretato
il fallimento del comunismo di guerra ma per il
semplice convincentissimo fatto che la sua
politica agraria non era stata in grado di
ottenere dai contadini le eccedenze di generi
alimentari sufficienti a sfamare le città e le
fabbriche.
Come sempre fu Lenin a dare il via alla nuova
politica20 e a porre correttamente al centro di
essa l’atteggiamento da tenere nei confronti del
contadino medio.
E all’VIII Congresso del Partito nel marzo del
’19 21 sia nella relazione d’apertura, sia nella
relazione generale e sia in quella sull’«attività
nelle campagne» egli pone al centro dei suoi
interventi tali problemi: nella fase iniziata della
costruzione del socialismo non si doveva
più parlare di «neutralizzazione» del contadino
medio ma di rapporti «su una base di salda
alleanza». E cita ripetutamente le formulazioni

397
di Engels nel suo ultimo scritto (La questione
contadina in Francia e in Germania)22 contro
l’uso della forza nei confronti del piccolo
contadino.
Egli sottolinea inoltre con vigore23 che
quando, nell’applicare i provvedimenti contro i
kulaki si finiva per colpire i contadini medi «a
causa della inesperienza degli operai sovietici» si
commetteva un grave errore.
Nel programma della sezione agraria fu di
conseguenza approvato oltre al principio
dell’aiuto alle fattorie collettive, alle cooperative
e alle fattorie sovietiche, che:
«Il partito si assume il compito di staccare il
contadino medio dai kulaki, di ottenere il suo
appoggio alla causa della classe operaia
attraverso l’attento esame delle sue necessità
combattendo le sue condizioni di vita retrograda
con misure di persuasione ideologica, mai con
provvedimenti repressivi, sforzandosi di
concludere con esso accordi pratici in tutti i casi
in cui i suoi interessi vitali siano in gioco,
facendo altresì ad esso concessioni nella scelta
dei mezzi atti a realizzare le trasformazioni
socialiste». Gli operai sovietici avrebbero dovuto
riconoscere che «esso non appartiene alla
categoria degli sfruttatori perché non trova
nessun utile dal lavoro altrui» 24. Per cui
bisognava incoraggiarlo a entrare nelle comuni
agricole e in ogni genere di associazione. Infine
tutte le «requisizioni arbitrarie» sarebbero state
punite rigorosamente; mentre l’onere della
tassazione avrebbe colpito «esclusivamente i
kulak!».

398
Dunque la correzione della politica nelle
campagne era sostanziale: si manteneva e si
sottolineava quello che era il fulcro di una
costruzione socialistica e cioè lo sviluppo di tutte
le forme possibili di aziende di tipo cooperativo e
di tipo collettivistico e nello stesso tempo
autocriticamente si riconosceva che i
provvedimenti repressivi erano controproducenti
e da condannare.
Ma soprattutto con la politica «su una base di
salda alleanza» verso il contadino medio si
riconosceva «di aver sottovalutato l’aumento
quantitativo e l’accresciuta influenza dei
contadini medi prodotti dalla riforma agraria» 25.
Si fondava cioè una politica agraria sulla base
di quella che presumibilmente (anche se le
statistiche in proposito sono vaghe) era la
composizione sociale delle campagne:26
a) Kulaki meno del 10%
b) contadini poveri c.a. 40%
c) contadini medi c.a. 50%
Si doveva dunque riconoscere che la
rivoluzione d’ottobre aveva ormai mutato la
fisionomia delle campagne russe e trasformato
una grossa parte di contadini poveri in contadini
medi; era questa la nuova realtà di cui bisognava
prendere atto e da essa partire per costruire
una prospettiva socialista.
E Lenin presentando con forte e dichiarata
accentuazione simbolica come candidato alla
presidenza di quel congresso il «contadino
medio» Kalinin che, sottolineò: «mantiene
tuttora i suoi rapporti con le campagne… e vi si

399
reca ogni anno» (in realtà Kalinin fu uno dei
pochissimi se non l’unico dirigente bolscevico di
provenienza contadina e fu sempre
«sbandierato» simbolicamente per questa sua
miracolistica origine!), proclamò solennemente27:
«Noi sappiamo che il nostro principale compito,
in un paese di piccola economia agraria, è quello
di assicurare l’indistruttibile alleanza fra gli
operai e i contadini medi».
A questo punto si può perciò affermare che la
politica agraria bolscevica era riuscita a
individuare in riferimento ai mutamenti indotti
dalla stessa rivoluzione d’ottobre non solo le
forze sociali su cui fondarla ma una strategia di
massima per la costruzione socialista
nelle campagne anche se essa non veniva del
tutto calata (e questo era il suo limite storico)
nelle strutture del villaggio russo. Ma in questa
affannosa rincorsa per la formulazione di una
strategia che riuscisse a mobilitare le masse
contadine verso il socialismo ancora una volta si
produceva una sfasatura.
Ancora una volta come già per le tesi di aprile
del ’17 la politica precedente aveva prodotto una
situazione con cui le nuove posizioni non erano
più sincronizzate ed erano destinate perciò nel
breve periodo al fallimento2S.
Le lacerazioni indotte dal comunismo di
guerra nel tessuto sociale e politico del paese
erano state troppo profonde da potersi
cancellare con delle semplici enunciazioni
programmatiche e nonostante lo stesso lavoro
pratico che pur in quella direzione venne fatto a
partire dal ’19. Intanto la situazione si

400
aggravava. Furono escogitati i «comitati per
la semina» ma anch’essi fallirono. Nel dicembre
del ’20 all’VIII Congresso panrusso dei Soviet,
sconfitto Vrangel e spentasi la guerra civile, un
bilancio dovette essere fatto e unanime fu
l’ammissione del generale impoverimento della
campagna, della contrazione delle aree
coltivabili («diminuzione di quasi un quarto
dell’intera superficie un tempo seminata»)
diminuzione del bestiame, delle culture tecniche
e della produttività agricola…
L’accumulo dei fattori negativi dovuti alla
guerra civile29, alla riforma agraria e alle
lacerazioni del comunismo di guerra aveva
portato alla progressiva riduzione della terra
coltivata, alla diminuzione dei raccolti e della
produttività e al non scalfimento del blocco dei
contadini medi e dei kulaki.
La politica di aggregazione del contadino
medio e del contadino povero poteva avere
successo soltanto in una politica di
rafforzamento dell’obscina, delle sue aziende
collettive e di tutte le sue forme comunitarie e
cooperativistiche, che sola poteva riassorbire
gradualmente (e non contro) lo strato dei
contadini ricchi. Ma essa non poteva, in quelle
condizioni e nel breve periodo che essere
sconfitta. In realtà la rottura con i socialisti
rivoluzionari di sinistra aveva rivelato il limite
storico della concezione leniniana: il mai
avvenuto pieno riconoscimento del ruolo
rivoluzionario delle masse contadine; il non
riconoscimento del loro autonomo ruolo politico
e delle istanze positive che esistevano nel

401
suo mondo.
Ma non esisteva un’alternativa a quel
riconoscimento, l’unica prospettiva praticabile di
costruzione socialista nelle campagne era quella
di accanitamente perseguire quella politica, a
costo di qualsiasi sacrificio portarla avanti e
perfezionarla, calandola nella specificità del
mondo contadino russo e riconoscendo il ruolo
politico e ideale che esso si era conquistato in
decenni di lotta.
Ma questa politica non aveva radici nella
tradizione o nella mentalità del partito
bolscevico e l’alleanza col contadino medio non
poteva tramutarsi in svolta politica se essa
veniva intesa come una posizione tattica e non
strategica, scaturita da una situazione di
emergenza e di estrema difficoltà.
Di fronte all’aggravarsi di quella difficoltà e al
risultato negativo nel breve periodo, essa non
poteva che subire la sorte degli altri
provvedimenti per le campagne: essere ancora
una volta non calata nella realtà del villaggio
russo.
La «ritirata della N.E.P.», la «nuova» politica
economica anche se avrà il merito grande di
cicatrizzare parte delle lacerazioni del
comunismo di guerra e dare respiro all’ormai
isolato partito bolscevico, finirà col tentare di
risolvere il problema dello sviluppo e della
produttività agricola, (non cogliendo il valore di
svolta teorico-politica dell’ultimo scritto di Lenin
«Sulla cooperazione») soprattutto in termini di
un efficientismo individualistico esterno a quel
mondo. E finirà quindi coll’approfondire le

402
differenziazioni sociali esistenti nelle campagne
e col riproporre tutti i nodi irrisolti della
struttura agraria sovietica, della sua espressione
politica e della costruzione di una società
socialista30.
Dopo quasi trent’anni Lenin era costretto a
tornare, praticamente, alle posizioni da cui era
partito all’inizio della sua attività di
rivoluzionario nella polemica coi populisti!!!
Accelerare lo sviluppo dei rapporti capitalistici
nelle campagne perché il proletariato agricolo
diretto dal proletariato urbano potesse a suo
tempo fare la sua rivoluzione.
«Il proletariato guida i contadini, disse31 alla
conferenza del partito nel maggio ’21, ma non è
possibile liberarci da questa intera classe come
ci siamo liberati dai proprietari fondiari e dai
capitalisti che abbiamo distrutto. Con un lungo e
grande sforzo e con grandi privazioni dobbiamo
trasformare questa classe».
L’unico movimento politico che in Russia
avesse avuto chiaro fin da settant’anni prima il
gigantesco compito di una trasformazione
socialistica delle campagne e della decisività del
protagonismo sociale e politico delle masse
contadine era stato quello populista32, ma Lenin
non aveva saputo recuperarne fino in fondo il
grande patrimonio rivoluzionario 33.



1
Scrive Michel Reimann, op. cit., p. 23:
«Politicamente il movimento popolare era

403
rappresentato dai partiti socialisti: menscevichi,
socialisti rivoluzionari e bolscevichi. Fino al
1917, tuttavia, nessuno di questi partiti era
diventato un partito di massa sicché il carattere
del movimento popolare e le sue tendenze non
potevano completamente essere rispecchiate né
nella loro forza organizzativa né nella loro
ideologia. I socialisti rivoluzionari erano quelli
che si avvicinavano di più alla comprensione
della specificità della situazione sociale russa.
Ma nel 1917 costituivano un partito molto
etereogeneo, disunito e perciò
insufficientemente risoluto in politica».
2
Ma si tenga sempre presente che «nella
primavera del ’18 la situazione alimentare era
difficile ma non catastrofica» (cfr. Medvedev, op.
cit., pp. 87-88) e che la scelta di Lenin fu ispirata
essenzialmente dal suo giacobinismo.
3
Si veda a ciò, quanto scrive ancora
Medvedev, op. cit., pp. 91-98, e in particolare
«Facendo eco a Marx e ad Engels, Lenin scriveva
a sua volta nel 1918 che ‘quanto al socialismo è
noto che esso consiste nella distruzione
dell’economia di mercato… Se rimane in vigore
lo scambio è perfino ridicolo parlare di
socialismo’ (Lenin, Opere Complete, xv, p. 130).
Ê possibile che questi postulati
profondamente erronei abbiano influito in certa
misura sulla politica economica dei bolscevichi
nel 1918 … Nei primi giorni di aprile, ad
esempio, il Consiglio dei commissari del popolo
approvò un decreto sull’ ‘organizzazione
dell’approvvigionamento della popolazione
in generi alimentari e in articoli di uso personale

404
e domestico’. L’articolo del decreto diceva: ‘Al
fine di sostituire i circuiti commerciali privati e
di fornire con regolarità alla popolazione
prodotti di ogni genere, il rifornimento dei beni
di consumo e dei prodotti che servono
all’economia domestica, affidato in precedenza ai
centri di distribuzione dei soviet o alle
cooperative, passa sotto la competenza del
Commissario del popolo agli approvvigionamenti’
(Narkomprod). … Date le condizioni esistenti nel
1918, un’ingerenza tanto massiccia nell’attività
delle aziende e la liquidazione del commercio
privato non potevano non provocare la stasi della
piccola e media produzione e il crollo di molte
aziende che avrebbero potuto svolgere un’utile
funzione nella vita economica del paese…
Non essendo riuscito, per motivi facilmente
comprensibili ad organizzare un sistema di
scambi diretti tra città e campagna, non
sapendosi risolvere ad autorizzare, sia pure in
parte, o a facilitare la libertà di commercio tra le
città e le campagne, il governo sovietico decide
di rendere più rigorose le misure di coercizione,
ricorrendo perfino al terrore, per assicurare i
rifornimenti alimentari ai cittadini affamati… le
sue basi (del comunismo di guerra) furono
gettate nella primavera del 1918, nel momento
preciso in cui la Russia stava riprendendo fiato
dopo la firma della pace e si accingeva a ‘passare
alla costruzione del socialismo’. Fu precisamente
nel maggio 1918 che il Consiglio dei Commissari
del popolo e il Comitato centrale esecutivo
panrusso dei soviet approvarono il decreto sulla
‘dittatura alimentare’. Nei suoi emendamenti al

405
progetto di decreto Lenin scriveva: ‘sottolineare
con maggior forza l’idea fondamentale che, per
salvarsi dalla fame, è necessario iniziare e
portare avanti una lotta implacabile e
terroristica contro la borghesia rurale e di
qualsiasi altro genere che trattenga presso di sé
le eccedenze di grano…’. Naturalmente misure
tanto rigorose, se contribuirono a migliorare in
certa misura i rifornimenti delle città, ebbero
purtroppo conseguenze estremamente
negative».
4
Carr, op. cit., p. 466.
5
Lenin, Opere complete, vol. xxii, pp. 524-5
e xxii, p. 25.
6
Carr, op. cit., p. 470.
7
Lenin, op. cit., p. 393.
8
Ibidem, p. 420.
9
Carr, op. cit., p. 564.
10
Carr, ibidem, p. 563.
11
Lenin aveva dichiarato (Opere Complete,
xxiv, p. 145) alla Conferenza d’Aprile: «La
comune si adatta pienamente ai contadini. La
comune rappresenta il completo autogoverno
locale, l’assenza di qualsiasi controllo dell’alto…
I consigli dei deputati degli operai hanno la
piena possibilità di realizzare dappertutto le
comuni. Si tratta solo di sapere se il proletariato
dispone di capacità organizzative, ma questo non
si può calcolarlo in anticipo, bisognerà
apprenderlo nell’azione».
12
Lenin, Ibidem, xxiii, pp. 420-29; p. 588, n.
135.

406
13
Si leggano in Medvedev, op. cit., p. 89, le
riportate parole di Lunacarskij: «Tutto veniva
travolto da una corrente tumultuosa, traboccante
di entusiasmo rivoluzionario. Bisognava
innanzitutto proclamare i nostri ideali in tutta la
loro ampiezza e distruggere spietatamente ciò
che vi si opponeva. In quel momento era difficile
parlare di mezze misure, di tappe, di approccio
graduale a questi ideali. Un simile atteggiamento
sarebbe stato considerato opportunista anche
dai più prudenti».
14
Lenin, Ibidem, xxiii, p. 398.
15
Op. cit., p. 580, n.1
16
Carr, op. cit., p. 588
17
Ibidem, p. 560.
18
Carr, Ibidem, p. 569.
19
Ibidem, p. 570.
20
Per le critiche di Lenin al Comunismo di
guerra si veda in particolare Medvedev, op. cit.,
p. 89: «Nel rapporto al X Congresso del partito
comunista russo, parlando della prima politica
economica del partito, che era stata inaugurata
precisamente nel marzo del ’18, Lenin
ammetteva: ‘Abbiamo fatto molte cose
semplicemente errate, e sarebbe un grave delitto
non vedere e non capire che siamo andati oltre
misura, non abbiamo saputo limitarci… Era
contestabile e non dobbiamo nasconderlo nella
nostra agitazione e propaganda, che siamo
andati più lontano di quanto si dovesse dal punto
di vista teorico e politico’ (Lenin, Opere Compì.,
xxxii, p. 202)». Ma si vedano anche le pagine del
C. Bettelheim, Op. cit. sull’«analisi degli errori

407
del comunismo di guerra», pp. 339-348.
21
Carr, op. cit., p. 573.
22
Ibidem, p. 793.
23
Ibidem, p. 573.
24
Finalmente si accettava la definizione
populista e socialrivoluzionaria di contadino
come lavoratore e si lasciava da parte quella di
«piccolo borghese» che tanti guasti aveva
prodotto nella formulazione di una corretta
strategia per le campagne.
25
Carr, op. cit., p. 573.
26
Ibidem, pp. 571-73.
27
Lenin, Op. Complete, vol. xxiv, pp. 189,
219.
28
Si leggano in proposito le giuste
considerazioni di Medvedev, op. cit., p.
91: «Nella primavera del 1918 il ritmo
dell’inflazione era superiore all’aumento
dei prezzi d’acquisto. Inoltre l’industria, la cui
riconversione rappresentava un problema di
difficile soluzione, non poteva ancora fornire ai
villaggi bisognosi di articoli industriali nemmeno
quel minimo di manufatti che era loro
necessario. Quale poteva essere lo sbocco più
razionale a questa situazione? La soppressione
totale del monopolio del grano e il ripristino
della libertà di commercio, come andavano
proponendo i socialisti rivoluzionari? Una simile
soluzione avrebbe favorito gl’interessi dei
contadini ricchi e medi, ma non poteva certo
essere accettata da uno Stato proletario, in
quanto avrebbe determinato sicuramente un
peggioramento della situazione materiale della

408
classe operaia. E allora che fare? Considerando il
problema retrospettivamente, non è difficile
trovare la risposta. Questa risposta fu data dalla
Nuova Politica Economica, applicata nel ’21 in
condizioni infinitamente più complesse e il cui
successo fu l’elemento determinante che salvò
allora la dittatura del proletariato. È chiaro che
se la NEP fu un successo nel 1921, lo sarebbe
stato certamente in misura ancora maggiore nel
1918. In altri termini si sarebbe dovuto creare
fin dalla primavera del 1918 un’imposta in
natura per coprire il grosso del deficit delle
regioni consumatrici di grano e,
contemporaneamente, autorizzare la vendita
libera delle eccedenze di grano e degli altri
prodotti alimentari… Il gioco valeva la candela:
un simile compromesso avrebbe messo la
controrivoluzione nell’impossibilità di scatenare
una guerra civile, impensabile senza l’appoggio
delle masse».
29
Nel capitolo «L’inizio della guerra civile»
dell’op. cit. di Medvedev (pp. 99-100) si veda
quanto egli riporta: «L’applicazione di queste
durissime misure provocò ostilità verso i
bolscevichi e verso il governo sovietico non solo
tra i kulaki ma anche tra la maggioranza dei
piccoli coltivatori. Lo stesso Stalin… ricordava in
primo luogo che ‘il combattente al fronte, il
contadino agiato che in ottobre si era battuto per
il potere sovietico si è rivoltato a questo potere
(egli odia con tutta l’anima il monopolio del
grano, i prezzi fissi, le requisizioni, la lotta
contro le piccole speculazioni)’ Stalin, Opere
Complete, xv, pp. 141-142).

409
Al malcontento della maggioranza dei
contadini si aggiunse quello della piccola
borghesia urbana e rurale, degli industriali e dei
commercianti piccoli e medi e persino di una
parte stessa della classe operaia… La tensione
era tale che bastava una scintilla per accendere
l’incendio della guerra civile. E questa scintilla
fu la rivolta del corpo cecoslovacco, provocata in
gran parte da un telegramma irresponsabile di
Trockij che ne ordinava il disarmo, e dal
comportamento dei soviet locali… Fu però
proprio questa rivolta, insieme con le
insurrezioni dei cosacchi del Don e degli Urali, a
segnare l’inizio di una guerra civile che doveva
durare tre anni. Nel giro di poche settimane il
potere dei soviet, instaurato sei mesi prima in
tutto il paese, venne rovesciato in Siberia, sul
Volga, e in quasi tutta la Russia meridionale e
cioè nella maggior parte del nostro territorio. La
responsabilità storica della guerra civile ricade
non solo sulla controrivoluzione russa e sugli
interventisti, ma sugli stessi bolscevichi che,
instaurando prematuramente il socialismo, si
alienarono le simpatie di tanta parte della
popolazione… resta comunque il fatto che la
forma di fautori del ‘terrore’ che si crearono
allora i bolscevichi ha nuociuto profondamente
alla causa del socialismo nel mondo».
30
Sulla NEP vedere anche alcune valutazioni
di G. Ortona «Note per una interpretazione della
NEP» sul Bollettino n. 3, luglio 1977, dell’Istituto
Gramsci —Centro di Studi e documentazione sui
paesi socialisti—pp. 3-46. Così afferma alle pp. 8-
10: «Molto meno noto è invece il processo

410
iniziato dalla rivoluzione e in seguito al quale nel
1919 era di nuovo organizzato in strutture
comunitarie quasi il 100% della terra totale e
quindi una estensione molto maggiore di
quella prerivoluzionaria; e tale percentuale nel
1927 non era ancora scesa sotto il 95% (Lewin,
La Paysonnerie et le pouvoir soviétique, Parigi
1966, p. 87; Liascenko, Istoria narodnovo
rosiaiskra SSSR, vol. III, Mosca 1956).
…vediamo un po’ da vicino la consistenza
della presenza delle comunità dopo la
rivoluzione, come venne rivelata—fra la sorpresa
generale—da un’inchiesta condotta nel 1926-27
(Lewin, op. cit., p. 7a). L’obscina regolava
completamente la vita del villaggio: provvedeva
alla redistribuzione delle terre, regolava l’uso
delle terre comuni, cioè i boschi e i pascoli,
godeva del diritto consuetudinario
dell’imposizione fiscale. Era gestita su basi
democratiche dall’assemblea dei capifamiglia…
La stessa inchiesta e un successivo studio
(Lewin, p. 85) della accademia comunista
dimostrarono che la maggioranza plebiscitaria
dei kulaki era contraria alle obscine mentre
erano a favore il 55% dei medi e il 75% dei
poveri; cifre del tutto logiche data la
contraddizione tra struttura comunitaria e
sviluppo del capitalismo…» A pag. 21 «Le
inchieste sulle obsciny citate furono accolte con
sorpresa dal PCUS i cui dirigenti erano convinti
che si trattasse di istituzioni in netta decadenza,
così come erano convinti che nei limiti in cui
sussistevano fossero appoggiate essenzialmente
dai contadini ricchi. Questa strana ignoranza si

411
spiega in primo luogo con gli scarsissimi legami
che il PCUS aveva sempre avuto con le masse
contadine…». Si veda anche la nota n. 36 a pag.
45: «Fra le difficoltà maggiori era anche
l’esitazione da parte del governo bolscevico ad
appoggiare lo sviluppo del capitalismo. Negli
anni intorno al 1925, forse solo Bucharin
comprese che su questo piano non erano
possibili politiche intermedie e che una volta
accettata la via capitalistica occorreva seguirla
fino in fondo, pena l’instaurarsi comunque di
rapporti capitalistici senza però che si
producesse in misura soddisfacente la necessaria
accumulazione. Analogamente verso il 1929
probabilmente solo Stalin comprese che
il capitalismo andava distrutto dalla base se si
voleva procedere alla instaurazione rapida di un
sistema economico socialista…». Ma il vero
problema era se attraverso la totalitaria
struttura comunitaria delle campagne russe
fosse stato possibile un tipo di sviluppo non
capitalistico (vedere anche p. 19, nota 22: «Di
questo processo si sa molto poco. Un acceso
dibattito si svolse nel 1926-7 sulle pagine della
rivista Na agrarnom fronte riguardo alle
strutture comunitarie: non risulta però che si
prendesse in considerazione la possibilità di una
transizione al socialismo su questa base—Lewin,
op. cit., riporta come eccezione la posizione di
Sukanov, (cap. xiii); cfr. anche Poskolme
fundamenta sozialisticeskoi ekonomij v SSSR»,
Mosca 1960, cap. III). Non sembra dunque
accettabile la tesi che Ortona espone a pag. 9:
«Se le obsciny sono strutture economiche

412
arretrate, restaurate da una rivoluzione
egualizzatrice che va contro lo sviluppo normale
del modo sociale di produzione, ogni strategia
incentrata su di essa deve forzatamente
ammettere un modo di produzione gestito
secondo criteri non economici». (Si vedano le
tabelle a pp. 14-17, 26 e 39-42.)
31
Lenin, Op. Compl., xxvi, p. 249.
32
Ma anche allora esistette un’alternativa
alla «collettivizzazione» staliniana: e che fu, pur
con tutti i suoi limiti, quella buchariniana.
(Vedere soprattutto, G. Boffa, Storia dell’Unione
Sovietica, Industrializzazione e collettivizzazione,
pp. 337-496, ed anche gli atti in corso di
pubblicazione presso gli Editori Riuniti del
convegno dell’Istituto Gramsci «Bucharin nella
storia dell’Unione Sovietica».
33
È noto che dopo la pubblicazione del
Diario dei segretari di V.I. Lenin (2/11/1922-
6/3/1923) molti studiosi (Moshe Lewin, C.
Bettelheim, L.H. Cohen, G. Boffa, H. Erlich, R.
Linhart, E. Drabkina) hanno sottolineato, pur se
da diverse angolature, come negli ultimi mesi di
vita e negli ultimi suoi scritti, Lenin stesse
drammaticamente ed empiristicamente
avvicinandosi al nodo decisivo dell’indispensabile
saldatura tra mondo operaio e mondo contadino
(per esempio nel gennaio 23 detta: «Bisogna
incominciare con lo stabilire rapporti fra le città
e la campagna… stabilire dei rapporti fra gli
operai della città e i lavoratori della campagna…
riusciremo a trovare altre forme di legame? Io mi
limito qui a porre soltanto la questione, per
presentare in tutta la sua ampiezza questo

413
compito culturale gigantesco di importanza
storica mondiale» (O.C., 33, pp. 426-427). E
come a base di ciò egli ponesse da una parte una
«rivoluzione culturale», dall’altra, una politica
economica fondata sulla «cooperazione» nelle
campagne e sull’ottenimento in qualsiasi
maniera (anche per mezzo di «concessioni» alle
imprese straniere) di prodotti industriali da
scambiare con quanto era commerciabile
dei prodotti agricoli.
Meno noto è che tra il ’19 e il ’29 il direttore
dell’Istituto di ricerca scientifica di economia
agraria A. Cajanov e il direttore dell’Istituto della
Konjunktur, Kondratiev, lo studioso dei cicli
economici, si batterono su posizioni per certi
aspetti più radicali di quelle di Bucharin per
un’applicazione concreta di quelle disorganiche
indicazioni. Su Cajanov si vedano le opere di
B.H. Kerblay; e sul « neopopulismo» di quegli
anni si veda in particolare F. Battistrada,
Bucharin e il neopopulismo degli anni ’20», cit.
atti del Convegno su Bucharin già citato.

414
PARTE QUARTA

415
Capitolo primo

LA POLITICA BOLSCEVICA NELLE


FABBRICHE E NELL’INDUSTRIA






La ragione di quanto poco nel partito
bolscevico fosse radicata una strategia che
ponesse a suo fulcro irrinunciabile il suo
concepirsi strumento e garante di una
partecipazione consapevole delle masse al
processo rivoluzionario e dunque di un loro
incessante movimento di autoeducazione e di
autogoverno nel mezzo dello scontro sociale, sta,
come si è visto, nel carattere e nella storia della
sua formazione1.
Quella che finì sempre col prevalere, tranne
in rari momenti, fu la sua anima giacobina, il suo
considerarsi «educatore» e non
«educato», «coscienza esterna», detentore del
«diritto storico» e di una funzione istituzionale
inalienabile di guida e faro delle masse2.
La riprova di tutto ciò e di come la politica
agraria bolscevica non fosse nel suo complesso e
pur nella sua contraddittorietà un
elemento eterogeneo rispetto alla globalità della
sua strategia della transizione al socialismo sta
in quello che ne fu l’equivalente nelle fabbriche e

416
nell’industria.
In questo merito è indispensabile esaminare
brevemente dal ’17 alla NEP l’evoluzione dei
capisaldi bolscevichi per quanto riguarda questo
altro e sostanziale versante della sua azione di
governo.
Intanto si è già ricordato come dopo il
febbraio Lenin, come già dopo il 1905, avesse
colto la rivoluzionaria funzione degli «spontanei»
3
soviet e come incalzasse il partito dall’esilio
svizzero con l’indicazione della famosa parola
d’ordine: «Tutto il potere ai Soviet»4.
Anche per quanto riguarda la questione
contadina si è visto come egli avesse enunciato,
nel maggio, il grande metodo della
emancipazione comunista della terza glossa a
Feuerbach: «insegnando alle masse e imparando
dalle masse il modo per compiere il trapasso con
i mezzi pratici più adatti».
Del resto già nel 1906 dall’esilio questa volta
svedese, Lenin aveva scritto alla Novaja Zizn’
sulla rivoluzione del 19055: «Noi siamo con il
popolo rivoluzionario, sottoporremo al suo
giudizio ogni nostro atto, ogni nostra decisione,
poggeremo interamente ed esclusivamente
sulla libera iniziativa che scaturisce dalle stesse
masse lavoratrici»6.
Come Stato e rivoluzione fosse impregnato
dello stesso «utopismo anarchico» è cosa
sovente ripetuta e del resto sono frequenti nei
primi mesi dopo la rivoluzione e anche più tardi,
le frasi di Lenin che potrebbero ascriversi a
quello spirito7. «Il socialismo non viene creato

417
con ordini dall’alto, l’automatismo statale
burocratico è alieno dal suo spirito stesso; il
socialismo è vivente, è la creazione delle masse
popolari stesse» aveva detto per esempio
qualche giorno dopo il 7 novembre8.
Ma era proprio in quei mesi, a partire dal
febbraio, che il grande e tumultuoso movimento
dei comitati di fabbrica9 aveva posto, in quasi
tutte le grandi unità produttive, il problema del
«controllo operaio».
Ed era stato allora, come scriveva nel ’23 la
Pankratova 10, che «il proletariato senza
attendere una sanzione legislativa, cominciò
a fondare simultaneamente tutte le sue
organizzazioni: i Soviet dei deputati operai, i
sindacati, i comitati di fabbrica»; e dai
metallurgici di Pietrogrado, fin dall’Aprile,
attraverso la conquista dello Statuto
«fu anticipata l’idea del controllo operaio e del
coordinamento dell’industria».
«È in questa atmosfera di lotta crescente tra
lavoro e capitale—scrive sempre la Pankratova—
che dal profondo delle masse operaie, sorse
l’idea di convocare il 30 maggio la prima
conferenza di tutti i comitati di fabbrica di
Pietrogrado». E a quella conferenza ecco come si
espresse un delegato 11 : «Dobbiamo far uscire la
produzione dal caos e ristabilire l’ordine.
Prendendo nelle nostre mani il controllo della
produzione impariamo in pratica a lavorare
attivamente nella produzione stessa ed elevarla
verso la futura produzione socialista». Mentre la
Pankratova commenta così i risultati di
quella conferenza: «In questa problematica

418
ancora timidamente affrontata, così come la
capiva la massa operaia, si delinea già per la
prima volta l’obiettivo fondamentale della
rivoluzione: l’organizzazione del controllo
operaio e la conquista della futura fabbrica
socialista». E, fondamentale per la
individuazione della dinamica rivoluzionaria: «La
lotta per il controllo operaio portò la classe
operaia alla lotta per il potere dei Soviet» ovvero
per il potere politico (come Gramsci aveva
perfettamente capito ai tempi dell’Ordine
nuovo). Intanto coll’avvicinarsi dello scontro
decisivo il movimento dei comitati di fabbrica
andava sempre più rafforzandosi fino a
raggiungere e permeare di sé tutti i grandi
centri operai del paese 12.
E Lenin, come al solito pronto a recepire in
quei mesi le istanze provenienti dalle masse in
rivolta, nel suo primo discorso il 7 novembre al
Soviet di Pietrogrado, mentre era ancora in
corso l’insurrezione, potè proclamare:
«Stabiliremo un vero controllo operaio sulla
produzione» ed è noto che il decreto sul
controllo operaio avrebbe dovuto essere emanato
assieme a quello sulla terra il giorno 8
novembre. Invece per i contrasti che già
cominciavano a delinearsi tra sindacati e
comitati di fabbrica, il decreto fu emanato il 14
novembre e praticamente non fece
che legalizzare quanto il proletariato aveva già
conquistato nelle fabbriche 13.
Naturalmente sullo slancio della rivoluzione
vittoriosa il movimento s’irrobustì ulteriormente
e Carr commenta 14: «La realtà continuò a

419
scavalcare i legislatori e il decreto del 14
novembre, così attentamente studiato, non ebbe
alcuna applicazione pratica. La spontanea
tendenza degli operai a organizzare comitati di
fabbrica e a intervenire nella direzione delle
aziende era stata naturalmente incoraggiata
dalla rivoluzione, essa aveva fatto sorgere negli
operai la convinzione che i mezzi di produzione
della nazione appartenessero ormai a loro, a loro
spettasse amministrarli, a loro discrezione e
vantaggio. Questo stato d’animo già diffuso
prima della rivoluzione d’ottobre, si era
generalizzato e, per il momento, nulla avrebbe
potuto arginare l’ondata della rivolta».
La stessa Pankratova scriveva: «In effetti
durante questo periodo di nazionalizzazione
‘punitiva’, i comitati di fabbrica si misero
spesso alla testa delle aziende i cui proprietari si
erano messi da parte o erano fuggiti»; «I
comitati di fabbrica interpretavano con larghezza
le direttive sulle commissioni di controllo e di
fatto assumevano la direzione delle aziende».
Nello stesso tempo si andava manifestando
viva l’esigenza di un organico collegamento dei
consigli e ciò sia nel movimento (al
primo congresso panrusso dei soviet era stato
posto il problema dell’unificazione dei comitati di
fabbrica) e sia nel partito bolscevico e in primo
luogo da Lenin stesso. Egli, poco prima
dell’ottobre, ne I bolscevichi conserveranno il
potere? aveva già scritto: «La difficoltà
più grande per la rivoluzione proletaria è di
effettuare su scala nazionale… il controllo
operaio della produzione e della ripartizione dei

420
prodotti».
In effetti si trattava come sempre di trovare
un modo di essere dei comitati tale che
l’indispensabile partecipazione dal basso, di cui
erano la diretta espressione, s’integrasse a
forme elettive e di coordinamento orizzontale e
verticale per evitare che altrimenti fosse solo il
mercato a realizzarlo a «posteriori» «come pura
registrazione dei rapporti di forza fra i differenti
settori dell’industria e le diverse aziende» 15.
Ma nel decreto sul controllo operaio aveva
finito col prevalere la concezione centralistica 16
della maggioranza dei bolscevichi e dei sindacati
per cui nel previsto Consiglio panrusso del
controllo operaio i delegati degli organismi di
base risultarono del tutto minoritari e
disponevano di 5 membri (mentre 5 erano quelli
nominati dal Consiglio supcriore dell’economia,
5 dal Consiglio centrale dei sindacati, 5
dall’associazione degli ingegneri e dei tecnici; 2
degli agronomi, 2 dal Consiglio sindacale di
Pietrogrado e 1 o 2 per ogni federazione
sindacale inferiore o superiore ai 100.000
membri).
Lo spirito del decreto era dunque nella
sostanza e chiaramente quello di svuotare di
ogni effettivo potere i comitati operai
(dichiarati soltanto «responsabili di fronte allo
Stato e del mantenimento dell’ordine più
rigoroso, della disciplina e della protezione dei
beni») per cui è comprensibile il forte
malcontento che esso produsse nella
massa operaia più politicizzata; uno stato
d’animo diffuso di delusione e amarezza che si

421
tradusse da una parte in una subitanea
disaffezione verso quegli organismi e dall’altra in
uno spirito di insofferenza verso i vari livelli del
coordinamento che quindi non riuscì ad avere
nessuna efficacia e potere.
La conclusione fu che il caos e la «non
produttività» della intera industria aumentò
gravemente e immediatamente.
Di fronte a questa situazione e alla sua gravità
venne emesso il 18 dicembre ’17, con
tempestività, un nuovo decreto che sanzionava la
completa emarginazione dei comitati di fabbrica
e il conferimento di tutto il potere di direzione in
materia economica al Consiglio supremo
dell’economia nazionale (il V.S.N.K., altrimenti
Vesenka) costituito essenzialmente da tecnici e
amministratori e da un’articolazione poggiante
sui sindacati a livello di fabbrica. Naturalmente
all’inizio la scelta non fu così netta, né fu
emanata una dichiarazione esplicita contro gli
organismi del potere proletario ma anzi nello
stesso «I compiti immediati del potere dei
Soviet» 17 c’è una riaffermazione dell’importanza
del controllo operaio «Finché il controllo operaio
non sarà un fatto acquisito non sarà possibile il
secondo passo verso il socialismo, cioè la
direzione operaia della produzione». Solo che
essa resta ormai una semplice petizione di
principio inserita com’è in un «modello»
centralistico e verticalizzato che inevitabilmente
si muoverà in una logica escludente la
democrazia dal basso.
Non fu dunque tanto il fallimento del controllo
operaio che in quei primi mesi dopo la

422
rivoluzione non avrebbe certo potuto risolvere,
in nessun caso, il problema del caos nel settore
industriale quanto il fatto che sarebbe stato
necessario al suo successo un appoggio
incondizionato e appassionato dell’intero partito
bolscevico a una politica che esaltasse la
funzione di quegli organismi unitari delle
masse e ne sapesse far scaturire il
coordinamento verso un principio di
18
pianificazione partecipata dal basso .
Ma ormai il modello, (già coesistente nel
Lenin di «Stato e rivoluzione» e che dopo
l’ottobre, di fronte alle enormi difficoltà che
sopraggiungevano e sulla base dell’entusiasmo
per le tesi di Larin 19 sul capitalismo di stato
tedesco, sarebbe divenuto il «modello» ufficiale
del partito e dello Stato), era un altro:
un’economia fortemente centralizzata e
monopolistica, diretta dagli «Specy» e dagli
stessi capitalisti20, ma sotto il controllo ferreo
dello Stato e cioè di un partito, strettamente
unito, disciplinato, incorruttibile sul piano
ideologico e morale21.
In assenza cioè dell’aiuto esterno da parte del
proletariato europeo e interno da parte della
massa contadina, sempre postulati come
condizioni indispensabili per l’avvento del
socialismo in un paese arretrato, la ritirata verso
il capitalismo di Stato diveniva indispensabile22:
«La evoluzione verso il capitalismo di Stato: ecco
il male, ecco il nemico contro il quale siamo
chiamati a lottare. Ebbene quando leggo
simili frasi nella rivista dei comunisti di sinistra
mi domando: cos’è successo a questa gente?

423
Come possono dopo aver studiato qualche
capitolo di un libro, dimenticare la realtà? La
realtà ci insegna che il capitalismo di Stato
rappresenterebbe per noi un passo avanti. Se
riuscissimo in breve tempo a creare in Russia il
capitalismo di Stato, ciò rappresenterebbe per
noi una vittoria. Come possono non accorgersi
che il piccolo proprietario, il piccolo capitalista
sono i nostri nemici? Come hanno potuto
identificare nel capitalismo di Stato il nostro
principale nemico?…»
Nella sostanza dunque il recupero in pieno del
modello secondo internazionalista della
transizione: il socialismo (di Stato) come
fase suprema del capitalismo; non più la società
di transizione al comunismo ormai considerata
come qualcosa «letto sui libri» (un residuo
anarchico e antiscientifico del Marx postcomune
di cui il pur contraddittorio Stato e rivoluzione
doveva esser purgato?!) ma una sorta di
fase superiore del capitalismo, finalmente
liberato dal limite redditiero e dall’anarchia del
mercato, messo al «servizio del popolo», e
indispensabile tappa «verso il socialismo».
Certo il lato positivo di questa visione, che poi
andrà inevitabilmente smarrito nell’età
staliniana, è che Lenin è del tutto
consapevole che «il capitalismo di Stato, sotto la
dittatura del proletariato, non comporta
automaticamente l’abolizione di rapporti di
produzione capitalistici: né l’instaurazione della
dittatura proletaria, né la proprietà statale dei
mezzi di produzione sono sufficienti a mutare i
rapporti sociali capitalistici; la statizzazione (e

424
nazionalizzazione) è proprietà socialista solo
nella forma giuridica ma non sostituisce e non
determina l’appropriazione sociale dei mezzi di
produzione»! Purtuttavia23: «Il socialismo non è
altro che la tappa immediatamente consecutiva
al monopolio capitalistico di Stato… Il socialismo
non è altro che il monopolio capitalista di Stato
messo al servizio del popolo intero e
che pertanto cessa di essere un monopolio
capitalista».
Del resto l’assunzione a modello
dell’economia tedesca durante la guerra è
documentata da un altro scritto di Lenin di quei
primi mesi del ’18: Sull’infantilismo di sinistra e
la mentalità piccolo borghese24 dove un intero
capitolo viene dedicato alla Germania
considerata: «l’esempio più concreto del
capitalismo di Stato» e «l’ultima parola della
tecnica contemporanea del grande capitalismo e
dell’organizzazione pianificata».
L’unico difetto il fatto che si trattasse di uno
Stato imperialista ma bastava mettere al suo
posto «lo Stato sovietico, cioè proletario» e
«avrete la somma completa delle possibilità che
può offrire il socialismo».
«Sì, imparate dai tedeschi! La Storia procede
a zig zag, per sentieri tortuosi. Oggi accade che i
tedeschi, strettamente alleati al bestiale
imperialismo, incarnino i principi della
disciplina, dell’organizzazione, di una compatta
operosità collettiva, sulla base della più moderna
industria meccanizzata, di una scrupolosa
amministrazione e di un ferreo controllo. È
precisamente ciò che a noi manca. È

425
precisamente ciò che dobbiamo imparare»25.
E prosegue: la storia aveva giocato la solita
«beffa».
All’inizio del ’18 26 essa aveva dato vita a «due
parti uguali di socialismo, ponendoli fianco a
fianco come due pulcini nello stesso guscio» una
in Germania l’altra in Russia; l’organizzazione
economica si era formata in Germania. Entrambe
erano necessarie alla realizzazione del
socialismo. In attesa dello scoppio della
rivoluzione tedesca, compito dei socialisti russi
era di: «Studiare il capitalismo di Stato tedesco,
adottarlo con la massima energia, senza
indietreggiare davanti ai metodi dittatoriali pur
di affrettarne l’applicazione, ancor di più di
quanto non avesse fatto Pietro per affrettarne
l’introduzione dall’Occidente nella barbara
Russia, non risparmiando l’impiego di mezzi
barbari nella lotta contro la barbarie» 27.
È comprensibile che i comunisti di sinistra,
ancorati al Lenin migliore del ’17 e più critici
verso certi aspetti della tradizione della prima e
della seconda internazionale non accettassero un
simile «modello di sviluppo» e ne denunciassero
la contraddizione principale: quel massimo di
concentrazione e centralizzazione propria dello
sviluppo capitalistico e culminante nel
capitalismo di Stato, non poteva non entrare in
conflitto e svuotare gli organismi di potere delle
masse produttrici, i comitati di fabbrica e i
Soviet (unica garanzia di un solido appoggio da
parte delle classi subalterne) e generare
inevitabilmente una minoranza di «privilegiati».
La democrazia diretta (e il suo coordinamento

426
dal basso e verticalmente) non era un lusso per
tempi meno spietati ma l’unico obbligato modo
attraverso cui, nella fase di transizione al
comunismo e aldilà delle forme giuridiche di
proprietà, l’appropriazione sociale da parte delle
masse, dell’apparato statale ed economico
tendesse a realizzarsi. L’unico obbligato modo
attraverso cui il plusvalore sociale e il
potere politico non divenissero monopolio di
nuovi strati elitari.
Ed essi nella loro polemica antileninista
adombravano l’altra grossa verità: non esisteva
la possibilità di un «uso neutrale» delle forme
economiche e istituzionali del modo di
produzione capitalistico; non esisteva uno
sviluppo quantitativo delle forze produttive
ereditate dal capitalismo, non esisteva la
costruzione della base materiale del socialismo,
ma solo l’incessante lotta per la trasformazione
dei rapporti sociali e politici in ogni piega della
società. Perché solo da quel mutamento
scaturiva la possibilità di una impetuosa
crescita di nuove e trasformate forze produttive
all’interno di rapporti sociali e politici
trasformati.
E non sulla base dell’accumulazione primitiva
capitalistica ma essenzialmente sulla base
dell’iniziativa e della partecipazione delle masse
nella direzione dell’esaudimento dei bisogni reali
e consapevoli dei produttori.


427
1
Si veda in Anweiler, op. cit., pp. 298-301:
«Lenin riprendeva per proprio conto, fin nelle
singole formule il programma menscevico
dell’autogoverno rivoluzionario del 1905… Il
programma di Lenin di una rivoluzione
municipale che in alcuni punti riprendeva quasi
testualmente le rivendicazioni dell’ala
massimalista del partito socialista rivoluzionario,
nella prima rivoluzione russa, non significava un
riconoscimento di principio della priorità
dell’autogoverno locale rispetto al centralismo
statale… I bolscevichi non potevano, sia per la
tradizione intellettuale che per la storia del
partito, divenire fautori convinti di un vero
autogoverno. Nello stesso periodo in cui scriveva
Stato e rivoluzione, Lenin dichiarò: ‘I bolscevichi
sono centralisti per convinzione, per il
programma e per la tattica di tutto il partito’
(Op. Complete, xxv, p. 101)… In altre parole: per
i bolscevichi non si trattava essenzialmente di
una lotta per creare un ordinamento statale
migliore e più democratico nella forma di una
repubblica sovietica… ma della questione di chi
avrebbe avuto in mano la direzione del soviet».
2
Si legga in R. Medvedev, La rivoluzione
d’ottobre era ineluttabile?, Roma 1976 a pp. 46-
47: «Ad esempio—elemento estremamente
significativo—le organizzazioni bolsceviche di
Pietrogrado non avevano indetto per il 23
febbraio né manifestazioni né scioperi politici,
tant’è vero che J. Cugarin, che faceva parte del
comitato dei bolscevichi di Pietrogrado, riferisce:
‘L’azione decisiva, vale a dire lo sciopero
generale, pensavamo di organizzarla per il 1°

428
Maggio 1917’ (I bolscevichi nella rivoluzione di
febbraio, Mosca 1971, p. 142)… Nelle prime
settimane della rivoluzione alcuni gruppi e
militanti del partito menscevico e del
partito socialista rivoluzionario svolsero un ruolo
tutt’altro che trascurabile: occorre ricordare che
in quei giorni solo una minoranza della classe
operaia—per non parlare dei soldati—subiva
l’influenza dei bolscevichi. Nei primi giorni della
rivoluzione di febbraio, ad esempio, la direzione
effettiva del Soviet di Pietroburgo era esercitata
da tre uomini: Jurg Steklov, che a quel tempo
non era né menscevico né bolscevico; Nikolaj
Suchanov, che aderiva al gruppo dei menscevichi
internazionalisti, e Nikolaj Sokolov, che nel
febbraio del ’17 apparteneva all’ala sinistra del
partito menscevico (cfr. Una vita per l’idea,
memoria di M.P. Jakubovic, parte prima,
manoscritto)».
3
Si veda Lenin, Opere Complete, vol. xxvii,
p. 76: «Nel febbraio 1917 le masse avevano
organizzato i Soviet prima ancora che qualsiasi
partito avesse avuto il tempo di lanciare questa
parola d’ordine. Il più profondo genio creativo
del popolo, passato attraverso l’amara
esperienza del 1905, che l’aveva reso
consapevole, ecco l’artefice di questa forma di
potere proletario».
4
Lenin, Op. compl., vol. xxx, p. 94. Quanto
alla concezione che Lenin aveva dei Soviet si
legga, per es. Anweiler, op. cit., pp. 442-3
«Qualche mese dopo, nella sua polemica con
Kautskij, Lenin scrisse: ‘I soviet sono
l’organizzazione diretta delle stesse masse

429
lavoratrici e sfruttate, alle quali facilita la
costruzione e la gestione del proprio Stato con
tutti i mezzi possibili. In questo sistema è proprio
l’avanguardia dei lavoratori e degli sfruttati, il
proletariato urbano, ad essere avvantaggiato,
perché è stato implicato nelle grandi imprese:
per esso è più facile eleggere e controllare gli
eletti. L’organizzazione dei soviet agevola
automaticamente il raggruppamento di tutti i
lavoratori e gli sfruttati intorno alla
loro avanguardia, intorno al proletariato’. Lenin
distingue perciò nettamente tre sfere o livelli
del potere sovietico:
1) La massa dei lavoratori e degli sfruttati
che devono essere ‘elevati’, ‘portati a
partecipare’, ‘raggruppati’;
2) L’avanguardia dei lavoratori, il
proletariato urbano;
3) L’avanguardia del proletariato e la guida
delle masse lavoratrici, il partito Comunista.
Queste sono vecchie idee di Lenin risalenti al
periodo anteriore alla prima rivoluzione russa,
che egli espose in Che fare? e che per esempio
formulò nel 1904 nel modo seguente: ‘Non si può
infatti confondere il partito come reparto
d’avanguardia della classe operaia con tutta la
classe… Noi siamo il partito della classe e perciò
quasi tutta la classe (e in tempo di guerra,
all’epoca della guerra civile, l’intera classe senza
eccezione) deve agire sotto la direzione del
nostro partito’ (vol. viii, pp. 252-3).
I soviet non sono fatti per permettere alla
volontà politica ‘oscillante’ delle masse di

430
esprimersi, ma per stabilire il contatto tra le
masse e la loro ‘avanguardia’, il partito
comunista. Prendendo le mosse da queste idee di
Lenin, Stalin sviluppò negli anni Venti la sua
‘teoria delle cinghie di trasmissione’ che definiva
il rapporto tra soviet e partito nel modo
seguente: ‘Il partito realizza la dittatura
del proletariato. Ma non la realizza direttamente,
bensì con l’aiuto dei sindacati, attraverso i soviet
e le loro ramificazioni. Senza queste ‘cinghie di
trasmissioni’ sarebbe impossibile una dittatura
dotata di una certa solidità’ (Stalin, Questioni
del leninismo, Roma 1945, p. 148)».
5
A. Carlo, Lenin sul partito, Bari 1970, p.
66.
6
R.V. Daniels, La coscienza della
rivoluzione, Firenze 1974, p. 186.
7
Lenin, Opere complete, voi. XXII, p. 44.
8
Si veda anche Lenin, Opere Complete,
xxiv, p. 180 e il suo modo di definire i Soviet:
«l’organizzazione a partire dal basso di tutta
l’amministrazione dello Stato ad opera delle
masse e la loro partecipazione attiva ad ogni
progresso della vita».
9
Si veda O. Anweiler, op. cit., p. 224:
«Questi comitati, come abbiamo visto erano stati
anzi i primi nuclei organizzativi del movimento
operaio russo e una delle forme embrionali dei
soviet del 1905». E a pp. 406-7: «Contro la
minaccia di una disgregazione dell’economia in
una miriade di fabbriche autonome, i bolscevichi
fecero ricorso ai sindacati, in cui detenevano
ormai la maggioranza e che già da tempo

431
rivaleggiavano con i consigli di fabbrica. I
sindacati impedirono la convocazione di un
congresso panrusso dei consigli di fabbrica e
ottennero inoltre d’incorporare i consigli come
istanze inferiori della propria organizzazione
(cfr. Deutscher, I sindacati sovietici, pp. 54 e
sgg.)».
10
A.M. Pankratova, I consigli di fabbrica
nella Russia del 1917, Roma 1970, p. 14.
11
Ibidem, p. 26.
12
Anweiler commenta, op. cit., p. 229:
«Certo questa agitazione non muoveva tanto da
un chiaro programma anarco sindacalista quanto
piuttosto dalle speranze ed aspirazioni
elementari degli operai che si ripromettevano
dall’instaurazione di un potere consiliare nelle
fabbriche un miglioramento tangibile della
propria condizione». E a pp. 337-8: «Per la prima
volta anche gruppi massimalisti e anarchici
avevano acquistato importanti posizioni in
numerosi soviet. Nelle giornate di ottobre essi
appoggiarono i bolscevichi e contribuirono in
notevole misura a radicalizzare le masse».
«Nella preparazione dell’insurrezione di
ottobre si rivela nella forma più piena tutta la
genialità di stratega politico di Lenin che seppe
riconoscere e sfruttare l’occasione unica che la
situazione di quelle settimane gli offriva per la
conquista del potere».
E a p. 349: «Anche i rapporti sulla situazione
nei quartieri operai, dove le opinioni sulla
opportunità di un colpo di mano erano molto
divise, sottolineavano che le masse sarebbero

432
‘scese in lotta all’appello dei consigli, ma non del
partito’ (Op. complete, xxi, p. 620)».
13
«Più in là di tutti—scrive Anweiler, op.
cit., p. 248—si spinse il consiglio degli operai, dei
marinai e dei soldati di Kronstadt, la città più
radicale di tutta la Russia».
14
Carr, op. cit., p. 484.
15
C. Bettelheim, «Lenin e le prime scelte di
organizzazione sociale», Il Manifesto, 20 gennaio
1974.
16
Si veda invece per la posizione
anticentralistica dei socialrivoluzionari Anweiler,
op. cit., pp. 410-412: «I principali sostenitori
delle tendenze anticentralistiche all’interno dei
Soviet erano i socialisti rivoluzionari di sinistra
che trovarono un appoggio presso i comunisti di
sinistra nel partito bolscevico. I socialisti
rivoluzionari temevano un forte potere centrale
con un’autorità imposta dall’alto avrebbe
minacciato l’esistenza dello ‘Stato comune’,
costituito dal basso verso l’alto, e l’indipendenza
dei soviet locali. ‘I consigli locali detengono
l’intero potere statale e hanno il diritto di
decidere in tutte le questioni, ad eccezione di
quelle che hanno rimesso volontariamente alla
competenza del potere centrale’, si legge in un
progetto di costituzione presentato dai socialisti
rivoluzionari di sinistra. I singoli consigli
dovevano essere perciò completamente autonomi
anche nella determinazione dell’ordinamento
elettorale, del sistema rappresentativo,
dell’organizzazione interna ecc. I socialisti
massimalisti che avevano lanciato la

433
parola d’ordine della Comune già nella prima
rivoluzione russa, delinearono come ideale di
una ‘repubblica dei lavoratori’ ‘una società
decentralizzata con un’ampia autonomia per le
singole regioni e nazionalità’.
Per questo gruppo, come anche per i socialisti
rivoluzionari di sinistra, il sistema politico dei
consigli non rappresentava che uno stadio
transitorio nella evoluzione verso la società
senza classi e l’estinzione dello stato che, a
differenza di Lenin, consideravano un compito
immediato. Accanto ai consigli politici
degli operai, dei soldati e dei contadini, che
avrebbe gradualmente assorbito, si
doveva formare perciò una ‘federazione dei
soviet economici’ di cui la fabbrica e il villaggio
costituivano la prima cellula. Nella primavera del
1918, il socialista rivoluzionario di sinistra
Reisner, per un certo periodo commissario del
popolo per la Giustizia, presentò alla
commissione di redazione della costituzione
sovietica un progetto, che prevedeva invece di
un’organizzazione territoriale la formazione
di una federazione dei lavoratori in una comune
panrussa dei lavoratori. In questo modo, grazie
ad una sintesi delle idee del sindacalismo
occidentale con l’antica costituzione rurale del
mir (cfr. G. Gurvic, Istorija sovetskoj konstitucij,
Mosca 1923, pp. 102-7; 142; Carr, op. cit., pp.
127-30), che dai socialisti rivoluzionari di sinistra
veniva interpretata come una prima forma
rudimentale del sistema sovietico, si doveva
creare una forma di socialismo specificamente
russa e tuttavia universalmente valida».

434
17
Lenin, Op. compl., xxii, pp. 499-501.
18
Può scrivere A. Rosemberg in Storia del
bolscevismo, cit., p. 142: «Soltanto il deciso salto
innanzi degli operai russi, che nell’inverno 1917-
18 avevano espropriato le fabbriche contro il
volere di Lenin, creò la base alla III
Internazionale come movimento di masse».
19
Carr, op. cit., p. 500.
20
Ibidem, p. 505.
21
A. Rosemberg in Storia del bolscevismo,
cit., pp. 192-3 scrive: «Nella Russia di Lenin
coesistevano fin dal 1921 una realtà del
capitalismo di Stato e una mitologia proletaria…
Gli inizi di questa mitologia proletaria hanno
origine nell’anno 1918, quando alla democrazia
dei consigli fu in Russia sostituita la dittatura
del partito, pur continuando a chiamare lo Stato
russo uno Stato dei consigli, e mantenendo la
finzione che in Russia tutto succedesse in nome
del governo dei consigli stessi. Le prime radici
della mitologia bolscevica del proletariato si
ritrovano peraltro già in Marx e in Engels».
22
Lenin, Op. Compl., vol. xxii, p. 481.
23
Lenin, Opere scelte, Mosca 1948. «La
catastrofe imminente e i mezzi per superarla»,
pp. 74-107.
24
Lenin, Opere complete, vol. xxii, pp. 516 e
sgg.
25
Ibidem, p. 378.
26
Carr, op. cit., p. 507.
27
Opere complete, vol. xxii, pp. 516-17.

435
Capitolo secondo

BREST LITOVSK:
GUERRA RIVOLUZIONARIA O
CAPITOLAZIONE?






Peraltro lo scontro veramente decisivo tra la
sinistra del partito e Lenin, appoggiato dalla
destra, doveva ancora avvenire e si
sarebbe avuto, come si è già accennato, in
merito al trattato di pace di Brest Litovsk.
Il 28 novembre del ’17 l’Ufficio regionale di
Mosca del partito invitò il governo a rompere i
negoziati con la Germania e a proclamare contro
di essa la guerra rivoluzionaria.
Lenin il 7 gennaio vi si oppose e con le sue
«Tesi sulla questione della condizione immediata
di una pace separata e annessionista» sosteneva,
in modo come suo solito ragionato e
intransigente, che il compito principale fosse
quello di non esporre la rivoluzione socialista a
una sicura disfatta totale contro la Germania1:
«La rivoluzione in Europa verrà, ma non c’è
ancora… Non abbiamo il diritto di mettere in
palio tutto il futuro…» Bucharin, come esponente
della sinistra, alla Conferenza del partito dell’8
gennaio, difese enfaticamente la linea della
guerra rivoluzionaria ed ottenne 32 voti cioè la

436
metà circa dei votanti; un altro quarto dei votanti
andò alla sinistra moderata di Trockij che aveva
adottato la formula «niente guerra, niente
pace» e che in qualche modo cercava di sottrarsi
alla inevitabile scelta.
Lenin rimase dunque per la prima volta in
minoranza e il governo sovietico fu costretto a
temporeggiare.
Ma il 17 febbraio 1918 il Comando Tedesco
notificò al governo sovietico che avrebbe ripreso
la sua libertà d’azione e il giorno successivo
apparve subito chiara la estrema gravità
dell’avanzata tedesca.
Quando il C.C. votò sulle trattative di pace i
voti contrari costituirono una stretta
2
maggioranza .
Bucharin, Lomov, Osinsky, Dzerzinskj, più
Trockij, Krestinskj e |offre contro Lenin, Stalin,
Zinoviev, Smilga, Sokolnikov e Sverdlov.
Ma Trockij nella stessa giornata ritirò il suo
voto contrario e determinò in tal modo l’invio
della richiesta di pace.
All’arrivo delle condizioni tedesche, che erano
addirittura più gravi del temuto, la frattura nel
C.C. si riprodusse e Trockij tornò ad essere
l’arbitro del dissidio mentre Lenin tornò a
minacciare le proprie dimissioni.
Si arrivò al punto che i comunisti di sinistra
sembravano non essere più disposti a lasciarsi
condizionare, ma Trocky non sostenne di nuovo
la sua posizione3: «Non possiamo combattere
una guerra rivoluzionaria—disse—senza unità
nel partito… Non credo che la posizione di Lenin

437
sia giusta ma non voglio assolutamente
spezzare l’unità del partito».
In conclusione il gruppo di Trocky si astenne,
l’opinione di Lenin prevalse ancora una volta, e
in quei giorni sembra che Bucharin gridasse a
Trocky «Stiamo trasformando il partito in un
letamaio»4.
Lo stesso Lenin, del resto, aveva dovuto
ammettere la forza della sinistra5: «La grave crisi
che il nostro partito sta attraversando
in relazione alla formazione in esso di una
opposizione di sinistra è una delle crisi maggiori
per cui la rivoluzione sia passata». E
indubbiamente la sinistra non solo avanzava in
appoggio alla sua tesi una serie di considerazioni
che avevano una loro forza ma essa era
fermamente convinta che la sua «alternativa»
rappresentava la salvezza della rivoluzione.
« Prima o poi—disse Bucharin al VII
Congresso convocato nel marzo per la ratifica
del trattato di pace—si dovrà adottare la
nostra linea… solo con la sua accettazione si
potrà salvare il potere sovietico e il contenuto
socialista di tale potere»6.
Radek proclamò: «Se la rivoluzione venisse
abbattuta dalla controrivoluzione borghese,
risorgerebbe come una Fenice; se invece
dovesse perdere il suo carattere socialista e
deludere le masse lavoratrici ciò avrebbe
conseguenze ben più gravi per il futuro della
rivoluzione russa e di quella internazionale»7.
E Osinski proclamò: «La firma della pace
attuale… è il suicidio della rivoluzione russa».

438
Essi dunque avevano colto che a livello tattico
e strategico non potevano esistere contraddizioni
qualitative e che per ambedue i livelli la
questione decisiva era quella del mantenimento
del carattere socialista della rivoluzione e cioè
del legame organico con le masse.
Questo era il senso della loro proposta, anche
in condizioni così disperate, della guerra
partigiana e Uricky, sempre a quel
Congresso appoggiando Bucharin e Bubnov,
Radek e Osinsky, la Kollontai e lo stesso
Riazanov, ebbe a dichiarare 8: «Certe sconfitte
possono promuovere lo sviluppo della rivoluzione
socialista in Europa Occidentale molto di più di
questa pace oscena».
Bisogna riconoscere che il legame
internazionalista era allora sofferto in modo del
tutto realistico rispetto al capovolgimento
operato nel successivo periodo staliniano.
Del resto lo stesso Trockij9, pur attaccando la
guerriglia, (anticipando quanto dirà ne La mia
vita: «la partigianeria caotica era l’espressione
del fondamento contadinesco della rivoluzione.
La lotta contro i partigiani era quindi la lotta per
il predominio proletario contro gli elementi
piccolo borghese che lo minacciavano» e
quanto opererà nella lotta contro il movimento
machnovista ucraino) sosteneva con la sinistra
che quella pace avrebbe danneggiato il
morale della massa molto di più di una
continuazione della guerra. Il che in effetti
avrebbe dovuto essere un argomento dirimente
per chi doveva «reggersi» sull’appoggio
esclusivo delle grandi masse.

439
In realtà non è affatto provato che la
situazione militare fosse così disperata come
Lenin sosteneva e come ha sostenuto fino ad
oggi la storiografia sovietica.
Senza poter approfondire questo aspetto che
meriterebbe indagine a sé e senza riandare a
facili precedenti storici (o anche ad esperienze
posteriori) basti solo ricordare che la Germania a
quel tempo era già stremata e dopo appena
qualche mese sarebbe stata messa in ginocchio
dagli Alleati.
Ma la sostanza della questione è un’altra.
Qualora Lenin si fosse posto a capo di una
guerra partigiana quali immense energie
popolari non sarebbero scaturite dalla terra
russa?
Fra l’altro tutti gli altri raggruppamenti
politici erano, senza eccezione contrari alla
capitolazione e i bolscevichi avrebbero potuto
ottenere quello che non volevano mettere in
pericolo: rinsaldare fortemente la loro posizione
di governo, stabilizzare ed estendere la loro
egemonia o meglio, il sistema delle loro alleanze.
Al contrario l’accettazione delle pesantissime
condizioni tedesche, perdipiù anche
«annessionistiche» non avrebbe fatto altro che
approfondire la crisi politica e sociale del paese
10
, come in effetti avvenne a partire dalle
immediate dimissioni dei tre «commissari del
popolo» socialrivoluzionari di sinistra dal
Sovnarkom (l’organo esecutivo di governo o
«Consiglio dei ministri» che dir si voglia) non
appena firmate le condizioni di pace.

440
Finiva così, diretta conseguenza della pace di
Brest Litovsk e della «svolta» centralizzatrice
che essa aveva causato assieme all’avvio del
«comunismo di guerra», l’unico tentativo dei
bolscevichi di un «governo di coalizione» ed essi
erano ormai soli a dover rispondere dell’operato
del potere sovietico di fronte alle tumultuanti
masse del paese.
Ma è indispensabile notare, anche in questa
occasione, come le posizioni di Lenin e della
destra e quelle della sinistra comunista
si muovessero ormai in un concatenarsi di scelte
sempre e ogni volta opposte, in due direzioni
sempre più divaricantesi…
E come, ambedue si ancorassero a concrete
forze sociali, ideologie, e reali potenzialità. La
riprova per esempio che l’alternativa proposta
dalla sinistra non fosse né utopistica né
avventuristica sta nella realtà della guerriglia
che si sviluppò possentemente in Ucraina e che
anticipò, nella tradizione di Pugacev e Stenka
Razin, le moderne guerre partigiane dei due
continenti11.
All’occupazione e al saccheggio delle truppe
austrogermaniche l’Ucraina rispose con una fitta
serie di rivolte soprattutto nei villaggi. Iniziava
così in quelle terre, una nuova fase del
movimento rivoluzionario e contadino che
avrebbe preso il nome dal popolare
comandante, l’anarchico Machno.
«L’onore di aver annientato nell’autunno del
’19 la controrivoluzione di Denikin spetta
principalmente agli insorti anarchici» 12
commenta Petr Arsinov che fu protagonista e

441
memorialista (e perciò forse non del tutto
attendibile) della «machnovcina».
Del resto gran parte dello stesso successo
contro le truppe bianche di Wrangel nell’estate e
nell’autunno del ’20, sembra che spettasse alle
brigate partigiane di Machno anche se la
liquidazione del movimento da parte di Trocky e
la susseguente pluridecennale congiura del
silenzio hanno finito per facilitarne la parallela
liquidazione storiografica «sovietica» fatta solo
di qualche deformata notizia.
Qui preme solo ricordare come l’armata
insurrezionale ucraina fu non solo un mobile ed
efficace stumento militare ma rappresentò
embrionalmente il centro motore di un’autentica
rivoluzione sociale contadina 13. E che essa in
qualche modo avviò una forma primitiva di
costruzione socialista nell’unica forma possibile
e compatibile con la consapevolezza delle masse
contadine: formazione di comuni
agricole, creazione di soviet e di federazione di
Soviet, confisca di terre ai possidenti e loro
ridistribuzione egualitaria, agitazione e
14
propaganda nei Villaggi .
Nell’esilio di Parigi, nel ’27, Machno poteva
raccontare così quell’esperienza, forse
abbellendola nel ricordo, ai due famosi
rivoluzionari anarchici spagnuoli Durruti e
Ascaso secondo quanto scrive A. Paz: «La nostra
comune agricola era la cellula vivente,
economica e politica, del nostro sistema sociale.
La nostra pratica in Ucraina dimostrò che il
problema contadino aveva delle soluzioni
differenti da quelle imposte dai bolscevichi: essa

442
avrebbe evitato le divisioni fra città e campagna,
le lotte tra contadini e operai e la rivoluzione
si sarebbe sviluppata in una dimensione giusta.
Le nostre comunità erano miste, agricolo-
industriali, oppure solo industriali o agricole.
Ognuno di noi era un combattente e un
lavoratore e l’assemblea popolare era
l’organismo decisivo per impedire la nascita di
una nuova casta che monopolizzasse il potere. Fu
per questo che fummo distrutti da Trocky in
Ucraina come a Kronstadt» 15.
A parte le idealizzazioni della memoria la
sostanza resta: la scelta bolscevica del
comunismo di guerra era una scelta obbligata
oppure no? La scelta del rifiuto della guerra
partigiana era una scelta obbligata oppure no?
«La nostra pratica in Ucraina—dice Machno—
dimostrò che il problema contadino aveva delle
soluzioni differenti da quelle imposte dai
bolscevichi». E lo stesso si può aggiungere per la
guerra partigiana o la capitolazione di Brest
Litovsk.
Ma per questo aspetto, è interessante
riportare un brano del colloquio avvenuto nel
giugno ’18 al Cremlino tra Machno, Sverdlov e
Lenin 16 e riferito da Machno stesso nella sua La
revolution russe en Ucraine pubblicato in
Francia nel ’29: «Dovete sapere—racconta
Machno a Lenin e a Sverdlov—che le guardie
rosse, che fossero numerose o no, conducevano
l’attacco contro il nemico spostandosi sulle
ferrovie.
A dieci o quindici verste dalla linea ferroviaria

443
il territorio non veniva occupato; potevano
circolarvi liberamente i difensori
della rivoluzione o della controrivoluzione. Per
questo motivo gli attacchi di sorpresa riuscivano
quasi tutti a colpo sicuro. Solamente attorno
ai nodi ferroviari delle città e dei villaggi serviti
dalle ferrovie, le formazioni di guardie rosse
organizzavano un fronte e di là si
lanciavano all’attacco.
Ma le retrovie e i dintorni immediati delle
località minacciate dal nemico restavano senza
difensori. L’azione offensiva della rivoluzione ne
subiva il contraccolpo. Le unità di guerra rosse a
stento finivano di diffondere i loro appelli in una
regione che già le forze controrivoluzionarie
passavano alla controffensiva costringendole
spesso a battere in ritirata, nuovamente sui loro
treni blindati.
Tanto che le popolazioni delle campagne non
li vedeva neanche e così non poteva appoggiarli.
—Che cosa fanno i propagandisti rivoluzionari
nelle campagne? Non riescono dunque a tenere
pronti i proletari rurali per rifornire di truppe
fresche le unità di guardie rosse che passavano
nelle vicinanze o per formare nuovi corpi franchi
di guardie rosse e occupare delle posizioni per
combattere la controrivoluzione?—mi chiese
Lenin.
—Non entusiasmiamoci. I propagandisti
rivoluzionari non sono numerosi nelle campagne
e non possono fare granché.
Ora tutti i giorni arrivano nei villaggi
centinaia di propagandisti e di nemici della

444
rivoluzione. In molte località non bisogna
aspettarsi che i propagandisti rivoluzionari
facciano sorgere nuove forze della rivoluzione e
le organizzino per opporle alla controrivoluzione.
La nostra epoca—dissi a Lenin—richiede azioni
decisive di tutti i rivoluzionari e in tutti i settori
della vita e della lotta dei lavoratori. Non tenerne
conto, soprattutto da noi, in Ucraina, significa
permettere alla controrivoluzione di svilupparsi a
suo piacimento e di affermare il suo potere».
A parte l’esattezza o meno del resoconto di
quel colloquio che comunque effettivamente
avvenne (e, tra l’altro, sembra che Machno non
avesse alcuna «padronanza dello scrivere»)17
resta la freschezza della sottolineatura delle
debolezze della Armata rossa e la
profonda istanza unitaria che malgrado tutto
sembrava animare il Machno del giugno ’18. E
che nella realtà la guerriglia partigiana guidata
da Machno assunse in Ucraina (soprattutto in
quella meridionale) il carattere di vero e proprio
«movimento di liberazione» 18 e che il suo corpo
militare assunse in embrione e primitivamente il
vero carattere dell’organizzazione politica
armata e d’intervento sociale, appare verosimile.
Sembra dunque dimostrato dai fatti (a parte
gli errori soggettivi di Machno, l’inevitabilità o
meno dei suoi conflitti armati coi bolscevichi e
così via, su cui non esiste una documentazione
non di parte) come esistesse concretamente la
possibilità, cui si appellava non solo la sinistra
comunista ma quella socialrivoluzionaria,
anarchica e menscevica, di una guerra
partigiana. Certo perché questa venisse

445
intrapresa occorreva un’appassionata fiducia
nelle potenzialità rivoluzionarie, in primo luogo,
delle masse contadine e questa sensibilità, come
si è visto da tutta la Storia del partito bolscevico,
era del tutto carente nelle sue file. Occorreva
inoltre una strategia che sapesse unire gli
obiettivi militari a quelli dell’emancipazione
contadina e anche questo aspetto era assente
nella concezione della maggioranza bolscevica
dell’«arte militare» 19, mentre erano al contrario
requisiti che l’anarchico contadino Machno
possedeva per così dire naturalmente anche se a
livello primitivo.
È bene dunque ricordare come si esprimeva la
risoluzione del VII Congresso «sulla questione
militare», condannando le posizioni dei
comunisti di sinistra sulla guerriglia 20.
«Contrapporre l’idea delle unità partigiane a
un esercito sistematicamente organizzato e
centralizzato… è una sorta di caricatura di
pensiero politico o della mancanza di pensiero
dell’intellighentia piccolo borghese… Predicare
la guerriglia come programma militare
equivale a voler tornare dalla grande industria
all’artigianato».
E, certo, non si poteva andare molto lontano,
con queste idee, nella direzione di una guerra
partigiana!
I bolscevichi con la loro tenace battaglia dopo
l’Aprile e la giustezza delle loro parole d’ordine
erano riusciti a guadagnarsi la fiducia delle
masse proletarie e a conquistare il potere
politico.

446
Ma la maggioranza bolscevica era del tutto
immatura rispetto al compito di mettersi alla
testa di un movimento di massa
soprattutto contadino che riuscisse a saldare gli
obiettivi militari e politici a quelli della questione
contadina21.



1
Lenin, Opere complete, vol. xxi, p. 198.
2
Daniels, op. cit., p. 122.
3
Protocolli del C.C., pp. 249-251.
4
Trockij, La mia vita, p. 330.
5
Lenin, Opere complete, xxii, p. 321.
6
VII Congresso del partito, p. 33.
7
Radek, «Dopo cinque mesi», Kommunist, n.
1, aprile 1918, pp. 3-4.
8
VII Congresso del partito, p. 55.
9
Trockij, op. cit., p. 368.
10
Senza accettare la tesi di L. Shapiro
secondo cui Lenin non scelse la
«guerra partigiana» per non scendere a patti con
le altre forze politiche. Si veda: The origin of
Comunist Autocracy, p. 105, Londra 1955.
11
Si veda anche, per es., in Medvedev, op.
cit., pp. 103-129, la lettera inedita (conservata
negli Archivi centrali dell’esercito sovietico)
inviata a Lenin da Filip Mironov, «figura
leggendaria della guerra civile nel sud della
Russia negli anni tra il 1918 e il 1920, arrestato
e ucciso nel ’20 e riabilitato nel 1960 dal

447
Collegio militare della Corte Suprema
dell’URSS»: «A scrivere questa lettera sono
stato spinto dalla atrocità dei comunisti che ci
sono state riferite direttamente dai profughi del
Don e dalle lettere da me ricevute, lettere che
rivelano il senso recondito di quelle atrocità
intollerabili, che tali rimangono anche se
vengono commesse in nome del socialismo… ‘La
comune è un inferno’ ecco cosa si pensa
dovunque sono passati i comunisti. Proprio per
questo d sono tante bande, tanti disertori. Ma
sono davvero disertori? Per lo più i contadini
giudicano il potere dagli uomini che lo
esercitano. Come stupirsi se sono contro questo
potere?… I cosacchi ribellatisi all’oppressione,
alla violenza vengono definiti ‘seguaci
delle guardie bianche’… Per loro i cosacchi
erano in blocco dei controrivoluzionari, erano
tutti infidi. Il minimo malcontento, qualunque ne
fosse la causa, veniva represso con la forza delle
armi e non con quella della ragione… Ed ecco
cosa ho mandato a dire: per non alienarsi le
simpatie delle popolazioni cosacche del Don il
potere sovietico deve: 1) tener conto della loro
storia, del loro modo di vivere, delle loro
credenze religiose. Il tempo e pochi istruttori
politici ben preparati dissiperanno
l’oscurantismo e il fanatismo dei cosacchi, dovuti
a secoli d’irregimentazione da parte dello Stato
poliziesco dello zar. 2) … in nessun caso però
essi devono essere inculcati con la violenza,
come lasciano presagire i comportamenti e i
metodi dei cosiddetti comunisti… Lo sterminio
dei cosacchi è apparso un dato di fatto

448
incontestabile una volta che il Don è diventato
sovietico. Non è tempo di instaurare un dialogo
non già con i giornalisti americani, ma con i
partiti socialisti russi, con i menscevichi e i
socialisti rivoluzionari?… La vita del
popolo russo, al quale i cosacchi appartengono,
deve essere costruita in piena armonia con la sua
storia, con le sue concezioni religiose, con il suo
modo di vita».
12
P. Arsinov, La rivoluzione anarchica in
Ucraina, Milano 1972.
13
Si legga per es. J. Camatte, op. cit., p. 84:
«La machnovcina sarebbe stata impossibile
senza la resistenza dei contadini sulla loro base
comunitaria e i dati fondamentali di Arsinov non
sono realmente confutati da Trockij. Questi
nella sua polemica (cfr. Scritti militari) non fa
che confermare negativamente i
caratteri fondamentali delineati sopra. Questo
movimento è stato accusato di essere anarchico
ed è vero che vi furono degli anarchici al suo
interno (furono i soli a difenderlo e a esaltarlo);
questa non è che una verità parziale perché
significa dimenticare che tutto il movimento
populista, espressione dell’obscina, era contro lo
Stato…».
14
Si veda B. Bongiovanni, L’antistalinismo
di sinistra, cit., p. 17: «Gli anarchici russi sono
particolarmente importanti perché nelle
situazioni in cui agirono ed in cui fecero sentire
la propria presenza (pensiamo soprattutto
all’esercito di Machno) rappresentarono la
continuità di quelle comunità rurali primitive
che lo zarismo non era riuscito totalmente a

449
cancellare e che solo lo stalinismo, pagando un
altissimo prezzo umano, tenterà di eliminare
dopo la svolta collettivistica del ’29-’30». Su
questo tema si vedano in particolare: Rudolf
Rocker: «Sistema dei Soviet o dittatura del
proletariato» in Fret Arbeiterstimme, 15-5-1920;
AA.VV.: La repressione dell’anarchismo nella
Russia Sovietica, Editions de la «Librairie
Sociale», Paris 1923; Peter Arsinov: «I due
ottobre», n. 2 del Dielo Truda; Arthur Lehning:
«Lo stato bolscevico ed i Soviet» in Marxismo e
anarchismo nella Rivoluzione russa, Edizione
l’Antistato, Cesena 1973.
15
Abel Paz, Le peuple en arme, Paris 1972.
16
A commento di questo incontro Carr
riferisce (op. cit., p. 167) che Lenin dimostrò
sempre per gli anarchici «benevolenza»
dall’epoca di Stato e rivoluzione in poi e «attribuì
la loro passata ostilità—al potere sovietico—al
tradimento dei principi marxisti da parte della
Seconda Internazionale» (Lenin, Op. compl.,
xxiv, pp. 437-8). E questo strano colloquio
avvenuto per giunta poche settimane dopo gli
arresti di massa degli anarchici della Malaia
Dmitrovka sembra confermarlo. Ma forse si
trattava, soprattutto, di un senso di simpatia
umana, raramente sconfinata, come le vicende di
quegli anni dimostrano, sul piano politico e
teorico.
17
Carr, op. cit., p. 295.
18
Ibidem, p. 294.
19
In merito all’«opposizione militare» che si
ebbe nell’Armata rossa in opposizione alla

450
concezione autoritaria e tradizionalista di Trockij
si veda Daniels, op. cit., pp. 164-169, e
Bettelheim, op. cit., pp. 209-214 e 288. Si legga
anche Anweiler, op. cit., p. 422: «La prima
breccia nel sistema consiliare fu aperta, già
nella prima metà del 1918 con la creazione
dell’Armata rossa. L’eleggibilità degli organi di
comando, elemento fondamentale di
un’applicazione coerente del principio consiliare,
fu abolita; i diritti dei comitati dei soldati furono
amputati e nei posti di responsabilità furono
impiegati in misura crescente ex ufficiali zaristi
(cfr. Rosemberg, Storia del bolscevismo, pp. 131
e sgg.)… ‘Diversa è la situazione in uno Stato
socialista. Qui il governo è al potere per volontà
del proletariato… È ovvio perciò che i lavoratori,
i quali hanno ora fiducia nel governo, gli
conferiscono anche il diritto di nominare
funzionari ed autorità varie. Altrettanto naturale
era che il governo nominasse anche gli ufficiali
nell’esercito’ affermarono i bolscevichi per
giustificare questa svolta (Smilga, op. cit., p.
28)».
20
Daniels, op. cit., p. 167.
21
Si legga per esempio su Studi Storici, n.
2, 1977 nello scritto di Moshe Lewin sullo
«Stalinismo»: «… i bolsevichi non costituirono
mai un vero movimento politico di massa in
particolare nelle campagne».

451
Capitolo terzo

IL CAPITALISMO DI STATO: LA SVOLTA DI


BREST LITOVSK






È noto come i comunisti di sinistra (Bucharin,
Bubnov, Osinsky, Lomov, Smirnov, Sapronov,
Dzerzinsky, Sljapnikov, la Kollontai,
Uriky, Zaluky ecc.) in concomitanza all’aspro
dissenso sulla «pace di Brest Litovsk», si
opponessero con forza anche alla «svolta» nella
politica economica.
Il fatto era che 1, «occorreva far fronte alle
enormi perdite economiche imposte dal trattato
di Brest Litovsk. Esse ammontavano al 40%
dell’industria e della popolazione occupata
dall’industria dell’ex Impero russo, al 70% della
produzione del ferro e dell’acciaio e al 90% della
produzione dello zucchero.
Bisognava prendere drastici provvedimenti
per strappare la nazione dall’orlo della rovina».
«Il nuovo corso politico diede luogo a
profondi mutamenti nel Vesenka. Il suo primo
presidente Osinsky fu allontanato quasi subito,
Osinsky, Bucharin e Lomov si erano decisamente
opposti al trattato di Brest Litovsk. Sconfitti
uscirono dal Consiglio del V.S.E.N.K.A.,
ricusando ogni responsabilità nei confronti del

452
suo indirizzo».
Si aprì la via alla presidenza di Larin che era,
come si è detto, un entusiasta della politica di
concentrazione industriale e di pianificazione
economica promosse dallo Stato tedesco durante
la guerra2.
Del resto, è nella socialdemocrazia tedesca
prima della guerra mondiale che3 «appaiono le
prime analisi secondo cui l’apparato
centralizzato del capitalismo monopolistico di
Stato sarebbe la prefigurazione di quello di cui il
proletariato dovrà servirsi per l’edificazione
socialista. La tesi è sostenuta da Kautsky e
soprattutto da Hilferding nella cui problematica
s’inserisce perfettamente. Ora è noto come
Lenin rompa con Kautsky denunciando
l’opportunismo soprattutto a proposito dello
Stato e insistendo sulla necessità da parte del
proletariato di spezzare l’apparato statale
borghese per costruirne uno suo, già non più
Stato vero e proprio e destinato a deperire».
Tuttavia Lenin sostiene che l’apparato
economico di Stato, formatosi nella tappa
monopolistica del capitale, deve essere
conservato. E poco prima dell’ottobre scrive ne I
bolscevichi conserveranno il potere? 4: «Oltre
l’apparato repressivo… esiste nello Stato
contemporaneo un apparato intimamente legato
alle banche e ai trusts, che comprende un vasto
lavoro di statistica e di registrazione. Esso non
può né deve essere sprecato. Bisogna strapparlo
al capitalismo e sottometterlo ai Soviet proletari,
allargarlo, estenderlo a tutti i settori, a tutto il
paese. E si può farlo solo appoggiandosi sulle

453
conquiste realizzate dal grande capitalismo,
perché soltanto così la rivoluzione proletaria
potrà raggiungere il suo obiettivo».
Del resto solo qualche settimana prima, in
Stato e rivoluzione Lenin aveva affrontato lo
stesso problema in maniera più o meno analoga
5
: «Verso il 1870 un arguto socialdemocratico
tedesco definì la posta un modello di gestione
socialista — verissimo. Attualmente la posta è
una impresa organizzata sul tipo del monopolio
capitalistico di Stato. L’imperialismo trasforma
gradualmente tutti i trusts in organizzazioni
analoghe. Sulle spalle dei ‘semplici lavoratori’,
carichi di lavoro e affamati, vi è sempre la stessa
burocrazia borghese. Ma in questi casi il
meccanismo della gestione socialista è già
pronto. Una volta rovesciati i capitalisti, spezzata
col pugno di ferro dagli operai armati la
resistenza di questi sfruttatori, rotta la macchina
burocratica dello Stato moderno, avremo davanti
a noi un meccanismo ad alto livello tecnico,
liberato dal «parassita» che gli operai stessi,
uniti, possono senza difficoltà mettere in
movimento assumendo tecnici, sorveglianti,
contabili, pagando il lavoro di tutti costoro e di
tutti in generale i funzionari dello Stato col
salario operaio. Ecco il compito concreto,
pratico, che può essere immediatamente attuato
nei confronti di tutti i trusts, che liberi i
lavoratori dallo sfruttamento, che tiene conto
dell’esperienza già iniziata, (in particolare nel
campo della costruzione dello Stato) dalla
Comune. Tutta l’economia organizzata come
la posta e in più i tecnici, i sorveglianti, i

454
contabili, come tutto il personale dirigente,
retribuiti con uno stipendio non superiore al
‘salario da operaio’; sotto il controllo e la
direzione del proletariato armato: questo è il
nostro obiettivo immediato. Questo stato, su
questa base economica è ciò di cui abbiamo
bisogno. Questo è ciò che ci darà l’abolizione del
parlamentarismo e la conservazione degli istituti
rappresentativi, questo è ciò che salverà le classi
lavoratrici dalla prostituzione di questi istituti da
parte della borghesia».
Come in questa strategia della transizione
leniniana coesistano «il tutto il potere ai Soviet»,
il controllo operaio sulla produzione e il «Tuttora
l’economia organizzata come la posta»(!) non è
ben chiaro!6 resta il fatto tangibile che di fronte
alla gravità degli impegni assunti col trattato di
Brest Litovsk e alla conseguente crisi politica, di
fronte al fallimento del decreto sul controllo
operaio, al crescente caos nella produzione al
correlativo inasprirsi del rapporto città-
campagna, la risposta è praticamente una:
socialismo come monopolio capitalista di Stato
messo al servizio del popolo ma praticamente
senza organismi di controllo di base ma solo
verticistici, cioè svuotamento di fatto dei
comitati di fabbrica e dei Soviet. E, per le
campagne, come si è già visto, «comunismo di
guerra». Di conseguenza, sul piano politico inizio
dell’autoritarismo bolscevico e delle repressioni7.
Lenin ne I compiti immediati del regime
sovietico, che è dell’aprile del 1918, aveva
efficacemente sintetizzato la nuova politica
patrocinata dal partito, dando come era suo

455
solito, una patente di assoluto e di principio a ciò
che evidentemente era dettato dalla sola
contingenza.
Bisognava conservare i servizi degli esperti
borghesi (gli specy) per quanto questo
contravvenisse alle norme dell’eguaglianza
poiché senza di essi «la transizione al socialismo
sarà impossibile». L’attuazione della dittatura
del proletariato esigeva «la nomina di singoli
individui, dittatori con poteri illimitati»;
l’autorità assoluta era la condizione dello
sviluppo industriale: «La rivoluzione esige…
appunto nell’interesse del socialismo che le
masse ubbidiscano ciecamente alle singole
direttive dei dirigenti del processo produttivo».
La centralizzazione sul lavoro doveva essere
assolutamente ottenuta: «Dobbiamo appoggiare
questa linea e farla avanzare con tutti i mezzi.
Bisogna mettere all’ordine del giorno, introdurre
nella pratica e sperimentare il cottimo, applicare
i numerosi elementi scientifici e progressisti del
sistema Taylor, proporzionare i salari al bilancio
generale di questa o quella produzione».
«…la grande industria meccanica, la quale
costituisce appunto la fonte e la base materiale,
produttiva del socialismo, richiede una unità di
volontà dalle più assolute e rigorose che diriga il
lavoro comune di centinaia, di migliaia e di
decine di migliaia di uomini… La sottomissione
senza riserve a una unica volontà è
assolutamente necessaria per il buon esito dei
processi del lavoro organizzato sul modello della
grande industria meccanica».
«Oggi la rivoluzione stessa esige

456
precisamente nell’interesse del socialismo la
sottomissione senza riserve delle masse alla
volontà unica di coloro che dirigono il processo
produttivo».
La scelta dunque è nettissima e non
abbisognerebbe di commenti… Lenin e la
maggioranza dei bolscevichi, sulla base di una
ritenuta identità fra le forme di organizzazione
economica capitalistica nella sua ultima fase e
quelle della fase socialista operano nonostante
l’opposizione della sinistra del partito 8 e quella
di larga parte degli organismi della democrazia
proletaria, una svolta, le cui conseguenze
saranno incalcolabili, in direzione del
centralismo assoluto caratterizzante il
capitalismo monopolistico di Stato.
E in direzione di quelle forme di
organizzazione industriale e del lavoro che ne
contrassegnano quello stadio di sviluppo e che
sono funzionali, in primo luogo, alla radicale
separazione tra compiti direttivi ed esecutivi e
dunque incompatibili cogli organismi di
democrazia diretta.
L’organizzazione «scientifica» del lavoro
proposta da Taylor non era altro che «una
utilizzazione della ‘scienza’ in funzione del
produttivismo capitalistico…»9.
In sostanza di fronte a una situazione di
estrema gravità e difficoltà, infranta la coalizione
con i socialisti rivoluzionari di sinistra, la
risposta giacobina e secondo internazionalista è
quella che più corrisponde alla natura del partito
bolscevico e alla formazione della maggioranza
dei suoi dirigenti: Dittatura politica e Dittatura

457
economica.
La costruzione della «base materiale» del
socialismo (de «La grande industria meccanica la
quale costituisce appunto la fonte e la base
materiale, produttiva del socialismo» scriveva
come si è visto, Lenin nell’aprile ‘18) sarà
portata avanti dall’alto, dal vertice del partito
attraverso la inflessibile centralizzazione
dell’organizzazione politica ed economica dello
Stato 10.
E parallelamente, nelle campagne, sarà
portato avanti, come si è visto, il comunismo di
guerra delle «squadre di ferro» e dunque
quella politica che porterà alla lacerazione
sociale e politica tra campagne e città, tra
proletariato urbano e massa contadina.



1
Carr, op. cit., p. 459.
2
P. Naville, Storia moderna delle teorie del
valore e del plusvalore, Milano 1972, p. 111:
«(Larin) aveva pubblicato poco prima della
rivoluzione, articoli sulle misure economiche
prese dalla Germania, nel corso della guerra.
Lenin nei giorni della rivoluzione invitò Larin a
esaminare l’applicazione di queste misure nelle
condizioni della rivoluzione dei Soviet».
3
C. Bettelheim, op. cit., pp. 348-351.
4
Lenin, Opere Complete, xxvi, pp. 90 e sgg..
5
Lenin, Stato e rivoluzione, Roma 1974, pp.
58-9.

458
6
Si legga su ciò Valentino Gerratana,
Ricerche di Storia del marxismo, Roma 1972, p.
233.
7
Lenin, Opere complete, vol. xxii, pp. 471-
98; 499-501.
8
Si veda V. Gerratana, Ricerche di Storia del
marxismo, cit., pp. 219-258: «Le idee di Lenin sul
capitalismo di Stato in uno Stato socialista non
hanno mai avuto molta fortuna. Accolte con
diffidenza e contestate polemicamente da
Bucharin nella loro prima formulazione del 1918,
non incontrarono maggior favore quando furono
ripresentate nel 1921-22 in difesa della NEP…
Tutta l’impostazione di questo saggio leniniano
(Stato e rivoluzione) sullo Stato è imperniato
sull’ipotesi che, mentre dal punto di vista politico
occorre demolire l’apparato burocratico dello
Stato borghese, è possibile al tempo stesso,
senza particolari difficoltà, utilizzare
immediatamente l’apparato produttivo ereditato
dalla società capitalistica nella sua più alta fase
di sviluppo, trasformando direttamente in
socialismo proprio il meccanismo creato dal
capitalismo di Stato. Il gruppo dei comunisti di
sinistra battuto al VII Congresso sul problema
della pace di Brest-Litovsk, era ben presto
tornato all’attacco con delle «Tesi sulla
situazione attuale», discusse il 4 aprile 1918 in
una riunione congiunta con il Comitato centrale
del partito e pubblicate il 20 aprile nel primo
numero della nuova rivista settimanale
Kommunist, organo del gruppo. In una situazione
di sfacelo economico Lenin non si mostrava
affatto disposto ad affrettarsi a completare il

459
processo di confisca e di nazionalizzazione e
cercava invece di giungere ad accordi con alcuni
gruppi capitalistici che sembravano disposti a
collaborare in qualche modo con il nuovo regime
in un programma di ripresa dell’attività
produttiva. Non si può dire quindi che i
comunisti di sinistra avessero completamente
torto sostenendo nelle loro tesi che tutto ciò
significava ‘una battuta d’arresto nella
distruzione dei rapporti capitalistici di
produzione e persino il loro parziale ripristino’, e
in sostanza ‘una evoluzione verso il capitalismo
di Stato’».
9
M. Salvadori, Gramsci e il problema
storico della democrazia, Torino 1972, p. 199. Si
veda S. Bertolissi, «L’organizzazione scientifica
del lavoro nella Russia sovietica degli anni
Venti» in Studi di storia sovietica, Roma 1978.
10
Scrive Gerratana, op. cit., pp. 237 e sgg.:
«Ciò che di nuovo vi è per Lenin nel capitalismo
monopolistico di Stato è soprattutto un ‘fatto
organizzativo’, destinato a favorire, in presenza
di determinate condizioni politiche, il passaggio
al socialismo. Per questo torna ad occuparsene
quando si tratta di elaborare le misure
transitorie possibili nella Russia rivoluzionaria
alla vigilia dell’ottobre. Il piano dettagliato di tali
misure è tracciato, come è noto, nell’opuscolo,
scritto da Lenin in settembre, La catastrofe
imminente e come lottare contro di essa. Ed
è nel contesto di queste misure transitorie che il
capitalismo monopolistico di Stato viene definito
come ‘la preparazione materiale più completa
del socialismo’, ‘la sua anticamera’, ‘quel gradino

460
della scala storica che nessun gradino
intermedio separa dal gradino chiamato
socialismo…’. Ma l’ipotesi rimane quella, già
delineata in Stato e rivoluzione di una
trasformazione diretta del capitalismo di Stato
in socialismo. Perché il socialismo non è altro
che il passo avanti che segue immediatamente il
monopolio capitalistico di Stato. O in altre
parole: il socialismo non è altro che il monopolio
capitalistico di Stato messo ‘al servizio di tutto il
popolo’ e che, in quanto tale, ha cessato di
essere monopolio capitalistico (Lenin,
Op. Comp., xxv, p. 340).
Prende rilievo in questa situazione una
definizione del Capitalismo di Stato nello Stato
socialista come ‘un capitalismo regolato e
controllato dallo Stato proletario’ (Lenin, Opere
complete, xxxit, p. 433). ‘In uno stato
capitalistico, capitalismo di Stato significa
capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato
a vantaggio della borghesia contro il
proletariato. Nello Stato proletario, viene fatta la
stessa cosa a vantaggio della classe operaia allo
scopo di resistere alla borghesia ancora forte e
di lottare contro di essa’ (Ibid., p. 466). Ma
perché usare lo stesso termine per due concetti
diversi?… ciò che è comune ad essi è tuttaltro
che secondario… e si tratta… del fatto che sia
nella forma tradizionale che nella nuova forma di
capitalismo di Stato si ha sempre a che fare con
rapporti sociali di tipo capitalistico. E questa
continuità storica non sarà spezzata fino a
quando il capitalismo di Stato non si sarà
trasformato completamente in socialismo».

461
Capitolo quarto

LA SCONFITTA DEI COMUNISTI DI


SINISTRA






Le conseguenze della svolta furono
naturalmente immediate: nel mese di marzo il
decreto sulle ferrovie che conferiva «poteri
dittatoriali» al Commissariato delle
comunicazioni era stato il preludio
della successiva politica ed aveva risolto in
qualche modo, alla maniera «giacobina», il grave
problema del funzionamento delle ferrovie e
liquidato gli organismi interni del controllo
operaio.
Preobrazensky a nome della sinistra, sul
Kommunist, organo ufficiale dei comunisti di
sinistra, aveva condannato quel decreto, con
parole già presaghe, il 4 maggio ’18: «Il partito—
aveva scritto—dovrà a quanto pare risolvere ben
presto la questione dei limiti in cui la dittatura
d’individui passerà dalle ferrovie ad altri settori
dell’economia stessa, al Partito comunista
medesimo»
Intanto già al vii Congresso del partito
convocato nel marzo per l’approvazione del
trattato di pace, era stata approvata una
risoluzione che richiedeva «i provvedimenti più

462
energici, più duri, più draconiani per accrescere
l’autodisciplina e la disciplina degli operai e dei
contadini» e nel mese di aprile i sindacati, a
maggioranza bolscevica si pronunciarono per il
rafforzamento della disciplina, per i premi di
produzione e gli incentivi materiali e per la
direzione centralizzata dell’economia emanando
il 3 aprile un «regolamento» sul problema
dell’«organizzazione del lavoro» in cui si
disponeva che ciascun sindacato istituisse una
commissione allo scopo di «fissare le norme di
produzione per ogni industria e per ogni
categoria di lavoratori»; si avvalorava
l’introduzione dei cottimi «per elevare la
produttività del lavoro e i premi per la
produzione oltre le norme».
L’opposizione di sinistra respinse con forza
l’insieme di questa politica sia nelle riunioni di
partito preparatorie del VII Congresso sia sul
Communist.2
Nel suo organo scrisse che essa significava
«una politica del lavoro studiata per instaurare
la disciplina tra gli operai sotto l’insegna
dell’autodisciplina, l’introduzione del servizio del
lavoro tra gli operai…., dei cottimi, del
prolungamento della giornata lavorativa» e
sottolineò che «l’introduzione della disciplina del
lavoro unita al ripristino dei capitalisti nella
produzione… minaccia di rendere schiava la
classe operaia e provoca lo scontento non solo
degli strati arretrati ma anche dell’avanguardia
del proletariato».
In effetti i comunisti di sinistra non facevano
che farsi portavoce ed esprimere la forte

463
opposizione che la svolta aveva prodotto
nelle masse operaie e in particolare in quelle
politicizzate3 e nel momento in cui
contemporaneamente, aumentavano gli ostacoli
e la repressione verso gli altri canali di
espressione politica.
Carr commenta: «Tra i dirigenti bolscevichi e
ancor più nella base bolscevica—era sorto— un
fortissimo sentimento di opposizione
verso qualsiasi discriminazione tra le diverse
forme di lavoro e tra le diverse categorie di
lavoro» 4.
Le posizioni della sinistra, dunque,
rispecchiavano un autentico stato d’animo
proletario che non si limitava a sottolineare gli
aspetti di autoritarismo e di coercizione ma che
coglieva la gravità politica (pratica e teorica)
della svolta in atto. Il Kommunist del
primo aprile pubblicava le Tesi sul momento
presente5: «C’è nettamente la possibilità che si
verifichi una tendenza deviazionistica da parte
della maggioranza del partito e del potere
sovietico da esso diretto, in direzione di un
nuovo tipo di politica piccolo-borghese. Se ciò
dovesse verificarsi la classe operaia cesserebbe
di dirigere, di esercitare l’egemonia sulla
rivoluzione socialista… Nel caso che una politica
attivamente proletaria venisse respinta le
conquiste della rivoluzione degli operai e dei
contadini comincerebbero a congelarsi in un
sistema di capitalismo di Stato e di rapporti
economici piccolo-borghesi».
E già metteva in guardia contro la
«centralizzazione burocratica, il dominio

464
esercitato da commissari, la scomparsa della
indipendenza dei Soviet locali e insomma il
rifiuto dell’idea di Comune-Stato amministrata
dal basso».
Sul numero del 2 aprile Osinsky denunciava
veementemente la nuova politica economica6:
«Non siamo favorevoli al punto di vista
della ‘costruzione del socialismo sotto la guida
degli organizzatori di trusts’. Noi vogliamo
l’edificazione della società proletaria ad opera
della creatività di classe degli operai stessi, non
ad opera d’ingiunzione dei ‘capitani
d’industria’… Il nostro punto di partenza è la
fiducia nell’istinto di classe, nell’attiva iniziativa
del proletariato. Non può essere altrimenti. Se il
proletariato non sa creare da sé i requisiti
necessari per la organizzazione socialista del
lavoro, nessuno può farlo per lui e nessuno può
costringere il proletariato a farlo per sé. Se si
leva il bastone contro i lavoratori esso finirà per
cadere in mano a una forza sociale che o si trova
sotto l’influenza di un’altra classe sociale o
sotto quella del potere sovietico, e il potere
sovietico sarà costretto a cercare appoggio
contro il proletariato presso un’altra classe e con
ciò si autodistruggerà in quanto dittatura del
proletariato. Il socialismo e l’organizzazione
socialista devono essere costruiti dal proletariato
stesso, oppure non saranno costruiti affatto, e
ciò che si farà sarà qualcosa di diverso, sarà il
capitalismo di Stato».
Al primo Congresso panrusso dei Consigli
dell’Economia Nazionale, riunito a Mosca il 26
maggio ’18 la sinistra sviluppò con foga le sue

465
tesi e Bucharin, incaricato di portare il saluto del
comitato centrale del partito al Congresso disse
con amarezza che «anziché sollevare la bandiera
«avanti verso il comunismo» v’era chi sventolava
quella del «ritorno al capitalismo».
Osinsky protestò di nuovo contro la tendenza
all’autoritarismo dei commissari e ricordò la
famosa frase di Lenin secondo cui anche
una cuoca deve essere in grado di amministrare
lo Stato e propose che le imprese industriali
fossero controllate da commissioni di cui due
terzi provenissero dai lavoratori: rivendicò—
inoltre—una «amministrazione operaia non solo
dall’alto ma anche dal basso» 7 come base
indispensabile di un governo operaio e infine
denunciò il pericolo che «le leve della produzione
rimanessero nelle mani dei capitalisti».
Ma fu Lamov a cogliere la sostanza del
dissenso e dopo aver difeso a lungo e
circostanziatamente il controllo operaio affrontò
il tema iniziale: «Noi—disse—stiamo soffocando
con tutti i mezzi, con la nazionalizzazione, con la
centralizzazione le energie del nostro paese. Le
masse vengono isolate dal potere reale e creativo
in tutti i settori della nostra economia nazionale»
8
.
Da parte sua Lenin invece proclamò la
necessità della utilizzazione degli «specialisti
borghesi», fino a teorizzarla socialisticamente.
«Senza la guida degli specialisti nei vari rami
della scienza, della tecnica e dell’esperienza
pratica il passaggio al socialismo è impossibile»
9
.

466
La sinistra aveva attaccato l’intero schema di
sviluppo centralistico leniniano ma il prestigio di
Lenin era tale che tutte le sue indicazioni furono
respinte e la sua svolta potè avere il crisma
dell’approvazione da parte di quell’organismo
che da quel momento acquisterà nel campo
dell’organizzazione industriale un’autorità
assoluta.
Nello stesso tempo Lenin continuò
aspramente la sua polemica contro le posizioni
della sinistra.
Solo «l’intellighentia piccolo borghese
declassata… non comprende che la principale
difficoltà per il socialismo consiste
nell’assicurare la disciplina del lavoro», «la
nostra dittatura del proletariato è la garanzia
dell’ordine, della disciplina e della produttività
del lavoro» 10.
Data l’autorità indiscussa di cui godeva Lenin
ogni sua polemica, praticamente ogni sua parola,
dava il via, nelle organizzazioni di partito, a una
campagna di allineamento: ma ciò ebbe inizio
soprattutto (e avrebbe avuto un triste seguito di
sopraffazione nel post Lenin) a partire da quella
primavera del ’18 per battere dopo l’uscita dei
socialrivoluzionari di sinistra dal Sovnarkom,
l’opposizione comunista: non si cercò attraverso
la discussione e il confronto politico di trovare
un terreno comune d’intesa e di azione unitaria
ma fu scatenata una campagna durissima e a
volte grossolana contro i dirigenti della sinistra,
concentratamente sulla stampa di partito e nelle
organizzazioni di base. La conferenza del partito
di Pietrogrado, una delle roccaforti della sinistra

467
diede a Lenin la maggioranza e ordinò la
sospensione del Kommunist con una formula che
diverrà di prammatica in simili casi11. «La
conferenza di Pietrogrado… protesta contro
qualunque tentativo di scindere il partito nel
diffìcile momento attuale… richiede che
il gruppo del Kommunist cessi di esistere come
organizzazione autonoma…»
Il Kommunist dovette così cessare le
pubblicazioni e per i comunisti di sinistra
divenne sempre più diffìcile sostenere il proprio
punto di vista nelle organizzazioni di base. Ma la
loro debolezza di fondo stava certo nel loro
operaismo e nel loro monopartitismo, nella loro
amputata visione strategica che non riusciva a
farsi carico della questione contadina (che anzi
sacrificava sull’altare dello «sviluppo
industriale») e che di fronte al principio
leniniano della «smicka»—dell’alleanza cioè
operaicontadini—finiva con l’essere, malgrado la
giustezza delle posizioni su di una serie vitale di
problemi (respinta la possibilità
d’integrazione con la strategia leniniana),
complessivamente perdente.
E pur essendo la parte bolscevica che più
aveva assimilato certe istanze della tradizione
anarcopopulista, essa era parimenti quella
che più marcatamente esprimeva una netta
posizione anticontadina.
Questa dunque rimase la loro contraddizione
fondamentale e il loro insuperabile limite; ma se
tale visione dimezzata della transizione fosse in
via di superamento attraverso i contatti che essi
ebbero in quei mesi con i socialrivoluzionari di

468
sinistra, non è dato sapere.
Di quel tentativo restano soltanto le
contraffazioni staliniane e le confessioni o non
confessioni dei grandi processi del ’30. Certo il
solito complotto in cui sfociò quella possibile
alleanza (l’insurrezione del 6 luglio ’18 12, a
Mosca nonché la cattura e l’assassinio
dell’ambasciatore tedesco Mirbach) è una
ulteriore dimostrazione di quanto fosse radicato
nelle forze rivoluzionarie russe il modello
giacobino della congiura e del terrore e quanto
diffìcile e praticamente irraggiungibile il metodo
del confronto politico e della
«protagonistizzazione» delle masse.
In ogni caso Lenin respingendo in blocco le
tesi dei comunisti di sinistra e venendo meno a
quell’alleanza che gli aveva permesso
la conquista della maggioranza del partito alle
tesi di Aprile e la preparazione dell’insurrezione
di ottobre, si precluse ogni possibilità non solo di
assumere quanto in quelle posizioni vi era di
ancorato alle reali esigenze del proletariato
urbano ma soprattutto si precluse la visione di
una possibile alternativa strategica della sua
transizione al comunismo.
E lo schiacciamento dell’insurrezione
socialrivoluzionaria sanzionò il mai ammesso
riconoscimento della funzione politica autonoma
delle masse contadine e nello stesso tempo la
sconfitta politica della sinistra comunista ma non
certo l’eliminazione di quegli interrogativi
sul futuro della rivoluzione che essa aveva avuto
il merito di portare per prima sul piano della
discussione politica all’interno del partito.

469



1
R.V. Daniels, op. cit., p. 137.
2
Carr, op. cit., pp. 185-6, ricorda: «A Mosca
d’altra parte il gruppo si assicurò il controllo
dell’organizzazione locale del partito e nell’aprile
’18 pubblicò, di nuovo col titolo di Kommunist e
fu diretto da Bucharin, Osinsky, Radeck, V.
Sminorv. Tra i collaboratori erano citati: Bubnov,
Kosior, Kuybiscev, Petrovsky, Preobrazensky,
Piatakov, Sapronov, Sagarov, Urickij, Unslicht,
Jarolavsky».
3
Ecco per es. come Martov, op. cit., pp.
254-5, commenta la Conferenza del partito
socialdemocratico tenutasi nel dicembre 1918:
«Sebbene la socialdemocrazia respingesse in
linea di principio, come prima, il sistema
sovietico come forma più alta e specifica della
democrazia per il proletariato, essa tuttavia
prendeva la decisione di condurre la lotta per i
suoi fini politici sul piano e nell’ambito di questo
sistema, in quanto realtà di fatto determinata
dallo sviluppo della rivoluzione. Senza cessare
neppure per un momento la sua lotta contro il
terrore, contro il crescente inasprimento
dittatoriale dei metodi di governo, contro gli
esperimenti economici comunisti che
paralizzavano l’industria, contro la
militarizzazione del lavoro, contro le razzie
armate nei villaggi e la distruzione dell’economia
agricola, la socialdemocrazia formulava in
questo periodo una serie d’istanze pratiche

470
nel campo della politica, dell’economia, dei
rifornimenti, nel movimento sindacale,
che qualificavano chiaramente il carattere della
sua lotta sul piano dell’ordinamento sovietico».
4
Carr, op. cit., p. 525; Daniels, op. cit., p.
138.
5
Lenin, Opere complete, xxii, p. 620.
6
Daniels, op. cit., p. 138.
7
Ibidem, p. 140.
8
Carr, op. cit., pp. 510 e sgg., Daniels, pp.
140 e sgg..
9
I Congresso dell’economia, Mosca, p. 5.
10
Lenin, Opere complete, XXII, p. 486.
11
Carr, op. cit., p. 186.
12
Daniels, op. cit., p. 144.

471
Capitolo quinto

L’ALTERNATIVA POSSIBILE





Torniamo un momento a Lenin e alla sua
straordinaria personalità: è certo che nel partito
il suo prestigio dopo la rivoluzione era
divenuto enorme ed era tale che qualunque fosse
la sua posizione politica questa finiva sempre col
prevalere.
Si è visto del resto come questo prestigio egli
lo avesse conquistato duramente e come nel ‘17
fosse stato l’unico bolscevico, assieme a Trocky e
ai comunisti di sinistra, a scorgere le potenzialità
socialiste sgorgate dal febbraio; e a porre,
sempre unico tra i suoi compagni,
l’asse dell’alleanza operai-contadini a centro e a
cardine della sua strategia rivoluzionaria
differenziandosi su questo problema (come del
resto su quello della guerra imperialista) da tutta
la tradizione della socialdemocrazia europea 1.
Si è visto d’altra parte come gli schemi
ortodossi marxiani, calati nella distruttiva
polemica coi populisti lo avessero gravemente
attardato, nella formulazione di una strategia
che realizzasse quell’alleanza, su posizioni che
non avevano colto, fino al ‘17-‘19, la vera realtà
dei rapporti di classe nelle campagne russe e la
indispensabilità del riconoscimento

472
dell’espressione politica di quel mondo. Da ciò
era risultata una perpetua sfasatura strategica,
ora in anticipo ora in ritardo, rispetto alle forze
sociali mobilitabili per la rivoluzione.
E ciò, con l’eccezione dell’ottobre e della
provvisoria coalizione coi socialrivoluzionari di
sinistra (ma pur allora con la potenziale
negatività del connaturato giacobinismo), si
perpetuerà fino alla nep.
D’altra parte dalla lettura che si è fatta del
primo anno dopo la rivoluzione sui problemi
della costruzione socialista in URSS e della sua
aspra polemica contro quei comunisti di sinistra,
che più di ogni altri, lo avevano appoggiato al
momento decisivo del suo ritorno dall’esilio, non
si può fare a meno di rilevare in quelle di Lenin
tutta una serie di posizioni mutuate soprattutto,
come si è detto, dalla socialdemocrazia tedesca e
dall’industrialismo tout court, mediate attraverso
una forte accentuazione giacobina.
Tutta la polemica sul capitalismo di Stato,
sull’impiego degli «specy», sulla direzione
individuale, sul centralismo e sullo stesso
controllo operaio risentono in modo decisivo di
quella impronta.
Peraltro le posizioni dei comunisti di sinistra
che per taluni aspetti si rifacevano allo spirito
della tradizione anarcolibertaria, erano per certo
l’espressione autentica di vasti strati proletari,
protagonisti della rivoluzione dell’ottobre e ora
delusi dall’autoritarismo centralistico bolscevico.
Una cosa dunque sembra essere chiara: di
fronte alle straordinarie difficoltà della

473
situazione russa dopo la pace di Brest Litovsk, di
fronte al crescente caos economico e allo stesso
incalzare di tendenze primitivamente anarchiche
e anarcosindacaliste, Lenin non ha più fiducia
che il proletariato sovietico riesca «a organizzare
il censimento e il controllo su scala nazionale»
della produzione, a socializzare la coltivazione
della terra e dunque a costruire in prima persona
il socialismo. Abolita, come si è visto, la
rappresentanza politica dell’immenso mondo
contadino, la scelta obbligata era una sola: la
«dittatura rivoluzionaria» giacobina.
In lui matura rapidamente in quei cruciali
mesi la convinzione (sgorgata da tutta la sua
precedente formazione) che l’unica alternativa
capace di salvare la rivoluzione sia dunque «il
capitalismo di Stato sotto la dittatura
proletaria»; un partito di ferro avrebbe garantito
questa dittatura.
Tuttavia è indispensabile affermare, in quanto
storiograficamente corretto, che altre scelte
esistevano e la sinistra, nella sostanza, per
quanto riguarda la politica industriale le aveva
colte anche se contraddittoriamente: lo
straordinario proletariato russo dei grandi centri
industriali e delle grandi moderne fabbriche,
quel proletariato che da sé aveva creato i suoi
Soviet e l’irresistibile movimento dei comitati di
fabbrica, che aveva dato il meglio di sé alle
organizzazioni del partito bolscevico e praticato
con eccezionale ardore rivoluzionario le
bolsceviche scelte socialiste, quel proletariato (e
ancora non era iniziato il disperato riflusso verso
le campagne), non poteva considerarsi perso a

474
una costruzione socialista dal basso (e dall’alto).
A quel primo Congresso panrusso dei Consigli
dell’Economia del maggio ’18, dove la sinistra
aveva ancora una volta difeso il controllo operaio
e attaccato la svolta centralistica, un delegato
operaio aveva sintetizzato in modo
commoventemente difensivo quell’esperienza
contro le critiche che le venivano mosse2: «Chi
lavora in quelle aziende può dire che la colpa
non fu solo degli operai e del fatto che essi si
misero a tener comizi. La verità è che il
personale delle aziende, il personale dirigente,
preferì incrociare le braccia perché gli era
sfuggito di mano il vecchio bastone, il bastone
con cui aveva fatto rigar diritto gli operai e a
differenza della borghesia dell’Europa
occidentale, non aveva nessun altro mezzo per
far lavorare gli operai.
La classe operaia si trovò di fronte a tutte
queste difficoltà e al compito inderogabile di
assumere essa stessa la guida delle fabbriche. La
classe operaia s’impegnò, ma naturalmente lo
fece in modo maldestro. Ciò è comprensibile.
Scacciò i vecchi dirigenti, probabilmente a
causa dei maltrattamenti subiti in passato; ma
non mancarono casi in cui gli elementi onesti del
personale dirigente ricevettero nelle fabbriche
un buon trattamento».
Non poteva essere dunque qualche mese di
risultati complessivamente e inevitabilmente
negativi (da un punto di vista produttivistico) a
capovolgere una politica, che tumultuosamente
si stava avviando, anche se le urgenze e le
scadenze (in particolare quelle derivate dal

475
fatale trattato di Brest Litovsk), erano tremende.
Per il semplice e del tutto prioritario fatto che
una politica autoritariamente
centralistica avrebbe risolto nel breve periodo
qualche problema ma avrebbe finito col perdere
il favore delle masse popolari, unico protagonista
e garante del processo di costruzione socialista e
indispensabile referente dello stesso movimento
politico rivoluzionario.
Le masse operaie, il rivoluzionario
proletariato metallurgico russo (la stessa
stragrande maggioranza contadina), poteva
essere recuperata, qualunque fossero i suoi limiti
di arretratezza e immaturità, (coll’organizzato
aiuto e orientamento di un partito «educatore»
ed «educato» capace di confrontarsi con le altre
componenti storiche del movimento
rivoluzionario russo e attraverso il sistematico
scambio delle esperienze e delle iniziative) a una
gestione consigliare della produzione e a una
direzione coordinata dell’industria e
dell’agricoltura, nonché a una funzione dirigente
nei Soviet.
A quel proletariato che aveva realizzato la
rivoluzione non mancavano certo le basi
ideologiche e organizzative per avviare
appassionatamente quel processo e le forme
stesse di un’autentica dura autodisciplina e di un
metodo di direzione sovietica, coordinata ai vari
livelli.
Eppure dopo la «svolta» la solita mannaia
dell’accusa di «anarchico» si rivolse a
incessantemente decapitare quanto poteva
essere inteso come iniziativa autonoma delle

476
masse operaie e di quelle stesse contadine.
Si manifestò la tendenza a far risalire la
caduta della produzione e l’origine di ogni
difficoltà all’influenza delle idee eretiche degli
anarchici, degli anarcosindacalisti, dei
socialrivoluzionari di sinistra…
«Il controllo operaio dell’industria—si disse3—
ad opera dei comitati di fabbrica d’impianto, ha
mostrato che cosa ci si può aspettare dalla
realizzazione dei piani degli anarchici».
Può dunque darsi che la Luxemburg che
esprimeva in quegli stessi mesi ma
dall’«esterno» (come gli stessi menscevichi e
socialrivoluzionari russi), quanto i comunisti di
sinistra denunciavano all’interno del partito
bolscevico, avesse colto il nocciolo della
«deviazione» bolscevica 4: «Solo che Lenin
s’inganna completamente sui mezzi: decreti,
potere dittatoriale degli ispettori di fabbrica,
pene draconiane, regno del terrore sono tutti
palliativi. L’unica via della rinascita è la vita
pubblica stessa, della più illimitata e larga
democrazia…» «…altrimenti il socialismo viene
decretato, autorizzato dal tavolo di una dozzina
d’intellettuali» «nelle rivoluzioni borghesi, lo
spargimento di sangue, il terrore e l’assassinio
politico, costituiscono l’arma indispensabile delle
classi che si sollevarono. La rivoluzione
proletaria non ha bisogno del terrore per
perseguire i suoi scopi, essa odia e
abominia l’assassinio».
«Ma la democrazia socialista non comincia
soltanto nella terra promessa, una volta costruite
le infrastrutture economiche socialiste, come

477
dono natalizio bello e fatto per il bravo popolo
che nel frattempo ha fedelmente sostenuto un
pugno di dittatori socialisti. La democrazia
socialista comincia contemporaneamente alla
demolizione del dominio di classe e alla
costruzione del socialismo» «…soffocando la vita
politica in tutto il paese è fatale che la vita si
paralizzi sempre più nei soviet stessi, senza
libertà illimitata di stampa e di riunione,
senza libera lotta di opinioni la vita muore in
ogni istituzione pubblica, diviene vita apparente
dove la burocrazia rimane l’unico elemento
attivo» «…è dunque in fondo un governo di
cricca, una dittatura certamente ma non la
dittatura del proletariato bensì la dittatura di un
pugno di uomini politici, una dittatura nel
significato borghese, giacobino».



1
Naturalmente il limite «storico» della
leniniana smicka rimarrà quello
della subalternità delle masse contadine rispetto
al proletariato urbano, origine della scelta, per
«necessità» (in un paese dalla composizione
sociale e dalle tradizioni rivoluzionarie contadine
come la Russia) della «Dittatura rivoluzionaria
giacobina».
2
Carr, op. cit., p. 485.
3
Stepanov-Skvastov, Dal controllo operaio
all’amministrazione operaia, Mosca 1918, p. 24.
4
Luxemburg, Scritti politici, Roma 1974 a
cura di L. Basso, pp. 563-595.

478
Capitolo sesto

LO SCONTRO COI «CENTRALISTI


DEMOCRATICI» E CON «L’OPPOSIZIONE
OPERAIA»






Nell’aspra lotta politica che si era sviluppata
subito dopo il 7 novembre (e di cui si accennerà
anche nei capitoli successivi) i comunisti di
sinistra erano rimasti soccombenti (in modo
definitivo dopo l’«affare Mirbach»)
implicitamente per la carenza della loro
posizione nei confronti dei contadini ma
sostanzialmente perché avevano perso
l’appoggio di Lenin ormai schierato con la destra
del partito e privo di una posizione
«integratrice» verso la sinistra. Ciò non significò
tuttavia che i temi che essi avevano posto con
forza (passata la guerra civile e il «comunismo di
guerra» che, per quanto riguarda l’industria,
apparentemente sembrò recepirli), non
tornassero nel dibattito politico interno al
partito, riproposti con uguale forza da altri
raggruppamenti di sinistra: «i centralisti
democratici» e l’«opposizione operaia» i quali, in
concomitanza a posizioni per certi aspetti
analoghe che risuonavano nell’ala sinistra del
movimento socialista e comunista internazionale

479
(è del ’20 l’Estremismo malattia infantile del
comunismo di Lenin) e nella stessa ala
menscevica e socialrivoluzionaria russa,
condussero una forte battaglia politica di
opposizione i cui protagonisti furono spesso le
stesse persone che avevano fatto capo alla
sinistra comunista.
E’ innegabile che anche verso di essi fu
ugualmente aspra la polemica leniniana e senza
rifarne la Storia accenneremo solo ai momenti
essenziali di quel dibattito.
Intanto una delle questioni su cui le posizioni
delle due parti erano antitetiche fu quella della
«direzione collegiale» e Lenin, prima di avere
ragione dei suoi avversari, forti soprattutto nei
sindacati e nella solita sinistra del partito,
dovette impegnarsi a lungo.
Nel gennaio del ’20, malgrado una risoluzione
favorevole alla collegialità, del VII Congresso
panrusso dei Soviet, egli ebbe a dichiarare
assolutizzando come suo solito1: «Il principio di
collegialità… rappresenta qualcosa di
rudimentale, di necessario nei primi stadi,
quando si tratta di ricostruire… Ma il passaggio
al lavoro pratico è legato all’autorità individuale
in quanto si tratta del sistema che garantisce più
di ogni altro la migliore utilizzazione delle
risorse umane e un controllo reale e non
puramente verbale sul lavoro svolto».
Il Consiglio sindacale centrale respinse due
volte l’apologia fatta da Lenin della direzione
individuale che scardinava uno dei fondamentali
principi sul modo di dirigere socialista, ma, come
sempre, Lenin replicò in termini durissimi

480
durante i lavori del ix Congresso del partito
nell’aprile del ’20: partito e paese dovevano
adottare «una disciplina di ferro»; bisognava
pretendere e ottenere «l’obbedienza dei
lavoratori», «la centralizzazione della direzione
economica»; «il principio elettivo doveva essere
sostituito dal principio della selezione»2.
Il principio della collegialità è «utopistico»,
«poco pratico» «dannoso»… D’altro canto i
centralisti democratici e parte dei sindacalisti,
difesero energicamente la direzione collegiale,
«l’arma più efficace contro lo sviluppo della
compartimentazione (cioè della sostituzione
degli organismi eletti localmente con altri
nominati dall’alto) e contro la “calcificazione”
dell’apparato sovietico» 3.
E Sapronov, esprimendo il generalizzato
malcontento che si era acceso nelle stesse file
del partito in seguito a una serie sistematica
di procedimenti autoritari e prevaricatori, a
quella medesima tribuna del ix Congresso,
poteva apostrofare lo stesso Lenin in questi
termini accusatori4: «L’abolizione dei comitati
provinciali diviene sistematica… il C.C. trova che
il comitato locale del partito è un pregiudizio
borghese, è conservatorismo che sconfina nel
tradimento e che la forma nuova è la sostituzione
dei Comitati di partito con dipartimenti politici i
cui capi sostituiscono i comitati elettivi…
Trasformare i membri del partito in un
obbediente grammofono con capi che ordinano:
andate e agitate; ma i membri di base non hanno
neppure il diritto di eleggere il loro comitato, i
loro organi.

481
Allora rivolgo al compagno Lenin questa
domanda: chi nominerà il C.C.? Come vedete
anche in questo caso si può avere autoritarismo
individuale, anche in questo caso si può
nominare un singolo capo; non è possibile che si
arrivi a questo punto, ma se ci si arriverà la
rivoluzione sarà stata sprecata… Compagno
Lenin… permetti a noi inesperti di farti questa
domanda: Se segui questo sistema, pensi che si
arrivi alla salvezza della rivoluzione?»
Naturalmente finì col prevalere l’autorità di
Lenin e la risoluzione del ix Congresso lo
sanzionò.
Ma in realtà la sinistra comunista coglieva
appieno il nodo della contraddizione in cui si
dibatteva la politica leninista e che la
stessa terminologia giacobina ben esprimeva: la
dittatura degli operai e dei contadini, ovviamente
come ogni forma di dittatura, non poteva
altro che risolversi nella dittatura di una
minoranza; la dittatura politica ed economica
che astrattamente s’identificava nel governo
degli operai e dei contadini nella realtà non
poteva che tradursi nella preminenza sociale
e necessariamente politica degli apparati politici
e amministrativi, tecnici, ideologici e repressivi
organicamente connessi a una politica
ferreamente centralistica5.
Da questa realtà, dalla base sociale della crisi
di quegli anni, da quell’obbiettivo conflitto
esistente tra quella minoranza e il resto
del corpo sociale, nasceva lo spazio politico della
sinistra bolscevica che finiva ineluttabilmente col
rappresentare non solo l’unica

482
opposizione all’interno del partito e quella stessa
«esterna», ma l’unica possibile alternativa in
quanto rappresentante gran parte di quei ceti
sociali subalterni ancora una volta sacrificati a
un potere centralistico.
Le posizioni della sinistra erano dunque
concretamente ma soprattutto potenzialmente
assai forti e tali da mettere più volte in seria
difficoltà la leadership leniniana e costituirne
una continua e seria minaccia. Lenin aveva una
lucida consapevolezza di tutto ciò ed è
comprensibile dal suo punto di vista la lotta che
condusse contro le opposizioni di sinistra fino
alla loro definitiva dispersione.
La cosa non del tutto chiara è come egli, del
tutto cosciente a partire dal ’18
dell’inasprimento della lotta di classe nel periodo
di transizione,6 non abbia visto che le forme in
cui quella lotta necessariamente si esprimeva e
si sarebbe espressa non erano e non sarebbero
state solo quelle dei conflitti tra ceti sociali
ancora borghesi e quelli proletari ma avrebbero
assunto altri modi e protagonisti sociali
investendo inevitabilmente ogni tipo di
organismo elitario e tendenzialmente scisso dalle
masse.
Non vide cioè che la trasformazione dei
vecchi rapporti sociali di dominio, in ogni loro
aspetto e forma, verso la costruzione di quelli
di tipo socialista doveva essere il nuovo terreno
della lotta di classe e dunque che essa doveva
esprimersi liberamente e politicamente e, nella
sostanza come lotta per l’integrale democrazia
socialista contro quanto di classi e di residui

483
borghesi vi si opponesse e contro quanto dei
nuovi strati minoritari e privilegiati vi facesse
impedimento.
Egli, di fronte alle enormi difficoltà e alla
7
presunta «immaturità» delle masse,
giacobinamente pensò che a costruire la società
socialista sarebbe stata la ferrea determinazione
di un partito di ferro. E in tal modo che il partito
divenisse esso stesso il protagonista
assoluto della lotta di classe e che dunque questa
si risolvesse nella spietata lotta contro tutto ciò
che ad esso si opponeva.
Rientrava dunque nella logica giacobina di
quella scelta la inesauribile lotta contro la stessa
opposizione interna e il fatto che a ogni nuova
risorgente opposizione politica e sociale
all’interno e all’esterno del partito, egli non
vedesse altra risposta che quella tendente a
rafforzare e perfezionare il verticalismo, la
disciplina e la repressione. E di fronte al circolo
chiuso dei nuovi conflitti sociali e politici
che quel potenziato verticalismo induceva,
nuovamente l’unica risposta non potesse essere
altro che l’ulteriore stretta autoritaria e
disciplinatrice.
In L’estremismo malattia infantile del
comunismo8 Lenin aveva scritto: «L’esperienza
della dittatura del proletariato trionfante in
Russia… prova che il centralismo più assoluto e
la disciplina più severa del proletariato sono fra
le condizioni essenziali per ottenere la vittoria
sulla borghesia».
«Chiunque tende minimamente a indebolire la
ferrea disciplina del partito del proletariato

484
appoggia in realtà la borghesia contro il
proletariato».
E a quel ix Congresso, cui si è accennato,
Kamenev di fronte alla vera e propria ondata di
protesta che quella centralizzazione e
quella disciplina aveva generato, era arrivato a
dire, incredibilmente e tautologicamente9: «Sì,
abbiamo governato con metodi dittatoriali…
Dobbiamo costruire una dittatura basata sulla
fiducia totale nel fatto che la nostra è la linea
giusta…»!
Ma la questione in discussione era proprio la
correttezza o meno di quella linea…!
Peraltro la voce della sinistra era così forte e
potenzialmente minacciosa, dato il reale
malcontento della «base» nei confronti del
«vertice», espressione diretta di quello sociale e
politico nel paese, che Sapronov per i
«centralisti democratici» e Ignatov per
l’«opposizione operaia» furono eletti nella
Commissione organizzativa come
«rappresentanti ufficiali dell’opposizione nel
partito», fatto che tra l’altro rappresentò il
massimo riconoscimento ufficiale avvenuto nel
partito bolscevico, dei diritti dei gruppi della
opposizione!
Naturalmente lo scontro, sempre durissimo,
continuò e alla ix Conferenza del partito, nel
settembre del ’20, gli attacchi della sinistra
contro l’apparato del partito si rinnovarono.
Rapporti autoritari con le organizzazioni
locali, trasferimenti «politici» di funzionari di
partito, burocratismo organizzativo ecc. ecc.

485
Bubnov, dei centralisti democratici, dichiarò:
«Negli ultimi sei mesi si è avuta una completa
assenza di politica organizzativa».
Sapronov di nuovo stigmatizzò «il centralismo
burocratico» e i pericoli dell’autoritarismo
individuale nell’industria e nel partito.
Il burocratismo s’irrobustiva in tutte le
organizzazioni del partito e per combatterlo
bisognava imporre l’esercizio dell’autorità
collettiva in tutte le istanze.
Lutovinov10, segretario del forte sindacato dei
metallurgici, denunciò aspramente i metodi usati
dalla direzione contro i membri dell’opposizione
e i pericoli di abuso dell’autorità centrale,
nonché dell’estensione delle funzioni del C.C.
dalla «direzione» all’«amministrazione» e
all’«esecuzione» 11.
All’opposto la direzione del partito dichiarò 12
«che il compito primo del partito era quello di
combattere contro le deviazioni ideologiche da
parte di chi pretendeva di difendere gli strati
inferiori del partito di fronte al vertice».
Questi furono in sostanza i temi, assieme alla
polemica sulla funzione del sindacato13, che
l’opposizione portò avanti fino al x Congresso del
Partito del marzo ’21 e ai quali la Kollontai cercò
di dare una sistemazione teorica nel suo
opuscolo L’opposizione operaia 14 pubblicato alla
vigilia del x Congresso: «Chi alla fine deve
creare—scriveva in esso con notevoli eccessi di
pansindacalismo—le nuove forme dell’economia?
Debbono essere i tecnici e gli affaristi che per la
loro psicologia sono legati al passato e i

486
funzionari sovietici, con i comunisti che si
trovano fra di loro; o i collettivi della classe
operaia rappresentati dai sindacati?
Il compito del partito, nella sua crisi attuale, è
di ammettere senza paura gli errori e di prestare
orecchio al sano richiamo di classe delle folte
masse lavoratrici: valendoci delle capacità
creative della classe in ascesa, organizzata nei
sindacati, possiamo andare incontro alla
rivoluzione e allo sviluppo del potenziale creativo
del paese; verso la purificazione del partito
stesso dagli elementi ad esso estranei; verso una
modificazione dell’attività del partito, ottenuta
tornando alla democrazia, alla libertà
15
d’espressione e di critica al suo interno» .
La sinistra comunista, nelle sue varie
incarnazioni dal ’17 al ’21 aveva dunque colto,
pur nella sua visione strategica amputata e
pur nel suo pansindacalismo, il nodo di una
possibile concreta alternativa al centralismo
leniniano, ricollegandosi in gran parte alle
posizioni della sinistra «storica» della I e della II
Internazionale e ponendo in modo corretto il
problema chiave del partito, del rapporto partito
classe e della democrazia socialista.
Per cui Medvedev potrà accusare il comitato
centrale del partito dell’errore capitale che può
essere imputato a un’organizzazione politica dei
lavoratori16 : «Deviazione in direzione della
sfiducia nel potere creativo della classe
lavoratrice e di concessione alle caste piccolo-
borghesi e borghesi burocratiche».
A storica conferma di quanto aveva scritto
Rosa Luxemburg: «la valutazione esagerata e

487
falsa del ruolo dell’organizzazione nella lotta
di classe del proletariato viene abitualmente
completata con la sottovalutazione della massa
proletaria inorganizzata e della sua
17
maturità politica» .
Insomma o la «dittatura del proletariato»
veniva concepita, secondo quanto scriveva nel
’18 sempre la Luxemburg, come massima
estensione e dilatazione della democrazia, come
«dittatura di classe cioè della più larga
pubblicità, con la più libera e attiva
partecipazione delle masse popolari in una
democrazia senza limiti», oppure si ricadeva
nell’accezione etimologica e giacobina del
termine come abolizione della democrazia,
abolizione «dell’autogoverno diretto, in prima
persona delle classi lavoratrici» 18.
Il partito non poteva conquistare la sua
funzione di guida politica e la legittimazione
della sua responsabilità dirigente altro che in
un processo continuo di recepimento e verifica
delle istanze profonde e dei bisogni sociali e
politici delle masse di fronte ai suoi istituti
rappresentativi e diretti.
La sinistra comunista, in definitiva, era
rimasta fedele a quelle tesi che lo stesso Lenin,
anche se in modo incompiuto, aveva
proposto nelle tesi di aprile e in Stato e
rivoluzione. E del resto il partito bolscevico nel
fuoco delle lotte dopo il febbraio aveva appunto
conquistato nelle fasi di un drammatico scontro
sociale e di un aspro confronto politico, la
maggioranza nei comitati di fabbrica e nei Soviet
e con essa la legittimazione della sua proposta

488
rivoluzionaria. La domanda che dunque in
sostanza la sinistra comunista poneva a
Lenin era una sola: Perché il partito bolscevico
non era disposto a sottoporre a verifica
permanente questa sua leadership? Unico modo
per mantenere un legame con le classi
lavoratrici?
Se il bolscevismo al potere non si orientava
più a radicarsi in una reale democrazia
proletaria e socialista la tendenza non poteva
essere che verso la dittatura di un partito
progressivamente sempre più separato dalle
masse.
In realtà tutta l’azione della opposizione
comunista era stata volta a recuperare Lenin alle
posizioni del ’17 e la Kollontai poteva, a ragione,
terminare il suo opuscolo con un accorato
ingenuo appello 19: «Tutta quella parte del
partito che si è abituata a riflettere il punto di
vista di classe di quell’immenso gigante che è il
proletariato, assorbirà intimamente tutto quello
che è sano, pratico e giusto nell’Opposizione
operaia20. Gli operai della base non diranno
invano con sicurezza e spirito fraterno: Ilic
mediterà, penserà, ci ascolterà e poi deciderà di
volgere il timone del partito verso l’opposizione.
Ilic sarà ancora con noi».
Ma Lenin aveva già meditato, pensato e
ascoltato21 e, a parte la ingenuità e le deficienze
anticontadine e pansindacaliste della sinistra
comunista, egli aveva ormai scelto fin dall’inizio
del ’18. In lui aveva finito col prevalere, come già
si è visto, la faccia giacobina e prussiano
socialdemocratica22: «Studiare il capitalismo di

489
Stato tedesco, adottarlo con la massima energia,
senza indietreggiare davanti ai metodi
dittatoriali pur di affrettarne l’applicazione,
ancor più di quanto non avesse fatto Pietro, per
affrettare l’introduzione dall’Occidente nella
barbara Russia, non risparmiando l’impiego di
mezzi barbari nella lotta contro la barbarie» 23.



1
Lenin, Opere complete, xxv, p. 17.
2
Lenin, IX Congresso del partito. I sindacati
e i loro compiti, Appendice 12, p. 532.
3
Osinsky, Sapronov, Maximovskij, ix
Congresso, Appendice 14, p. 538.
4
Ibidem, pp. 538 e sgg..
5
Bettelheim, op. cit., «Carattere oggettivo del
processo di autonomizzazione degli apparati
statali della dittatura del proletariato», pp. 208;
248-56; 377-399.
6
Stato e rivoluzione, Roma 1972: paragrafo
aggiuntivo della II edizione dicembre 1918, pp.
38-40.
7
È singolare che sia il giacobinismo come il
secondo internazionalismo fondassero la propria
strategia sul medesimo presupposto: la
immaturità delle masse! Ma la saldatura tra
essere sociale e coscienza non si risolveva
marxianamente nella prassi, nel rapporto attivo
delle masse con la società?!
8
Lenin, Opere complete, xxv, pp. 179-80.
9
IX Congresso del partito, p. 77.

490
10
Daniels, op. cit., p. 183.
11
Si veda anche C. Bettelheim, op. cit., sul
«concetto di sovrapposizione al partito del suo
apparato amministrativo» a pp. 232, 324 ecc.
12
Daniels, op. cit., p. 183.
13
Così Anweiler commenta quella polemica,
op. cit., pp. 454-5. (Ma si veda anche Shapiro op.
cit., pp. 263-328; Deutcher, I sindacati sovietici,
pp. 85-103; Rosemberg, op. cit., pp. 166-9; e
Bettelheim, pp. 290-297; R. V. Daniels, op.
cit., pp. 185-201; Carr, pp. 627-635): «La
direzione bolscevica comprese perfettamente la
necessità di passare dal periodo del comunismo
di guerra ad una fase di pacifico lavoro di
ricostruzione, ma nel partito stesso si
manifestarono importanti divergenze d’opinione
sulla linea da seguire. Queste divergenze si
cristallizzarono soprattutto intorno alla
cosiddetta discussione sui sindacati, che dominò
il partito comunista nei mesi dell’inverno 1920-
21. La parola d’ordine della democrazia dei
produttori presentata dall’opposizione operaia,
era rivolta contro la gestione manageriale delle
fabbriche, il predominio della burocrazia statale
e l’abbandono della linea puramente proletaria
in favore di una politica al di sopra delle classi,
che non significava altro che il cedimento degli
organi direttivi agli interessi contraddittori dei
diversi strati sociali della popolazione.
L’economia doveva ‘essere diretta da un
congresso panrusso dei produttori, organizzati in
unioni per ogni mestiere e per ogni settore
industriale. Le unioni dovevano eleggere un
organo centrale che avrebbe dovuto dirigere

491
l’intera economia della Repubblica’ (Kollontai,
op. cit., pp. 18 e 28). Al livello più basso, nella
fabbrica, dovevano essere di nuovo i consigli di
fabbrica a dire l’ultima parola. La questione che
l’opposizione operaia sollevava era in fondo
quella della democrazia proletaria.
Sotto questo aspetto la sua posizione era
vicina a quella dell’altro gruppo di opposizione, i
‘centralisti democratici’ che lottavano contro il
predominio del Comitato esecutivo centrale sui
Soviet locali e per la restaurazione dei diritti dei
soviet garantiti dalla costituzione sovietica ma
non rispettati nella prassi della guerra civile».
14
L’opposizione operaia, Milano 1962, pp.
18-37. Si legga anche, per es. a pp. 44 e sgg.:
«Noi abbiamo paura dell’azione spontanea delle
masse. Noi abbiamo paura di dare alle masse la
libertà di cui hanno bisogno per spiegare il
proprio spirito creativo. Noi temiamo la critica.
Non abbiamo più fiducia nelle masse. Questa… è
l’origine del nostro burocratismo. Lo spirito
d’iniziativa viene meno, il desiderio di agire si
estingue. ‘Se è così, provvedano i funzionari per
noi’. In questo modo nasce una distinzione molto
nociva: noi, cioè i lavoratori, e loro, cioè
i funzionari dei Soviet da cui dipende tutto. Qui è
la radice del male».
15
Riportiamo ancora qualche passo di questo
famoso scritto della Kollontai: «tenere gli operai
lontani dall’organizzazione della produzione,
privarli… delle possibilità di esplicare le proprie
capacità creative nella produzione, nella
organizzazione di forme economiche nuove e, al
posto di questo, affidarsi totalmente alla

492
‘capacità’ degli specialisti… significa
abbandonare la via del pensiero
marxista scientifico. Ma proprio questo fanno
attualmente i vertici del partito. Di fronte alla
situazione catastrofica della nostra economia… i
vertici del nostro partito, in un accesso di scarsa
fiducia nelle capacità creative dei collettivi
operai… cercano la salvezza dal caos
economico… nei figli del passato borghese
capitalistico, negli uomini d’affari e nei tecnici…
sono quelli che diffondono l’ingenua e ridicola
credenza che il comunismo possa essere
introdotto burocraticamente» (p. 195).
E più avanti: «La nomina è divenuta un
fenomeno generale riconosciuto e legittimo. La
prassi della nomina crea un’atmosfera insana
nell’ambito del partito poiché distrugge
l’uguaglianza e il cameratismo, favorisce il
carrierismo, fa strada al nepotismo… rende
ancor più profondo l’abisso tra i vertici e gli
strati inferiori» (p. 254).
Irving Fetscher che ha curato l’Autobiografia
di A. Kollontai, Milano 1975, così annota a p. 80:
«In una società socialista—ritiene Alessandra
Kollontai—dovrebbero invece esserci degli
organismi collettivi della classe operaia che
dirigano il lavoro economicamente produttivo
mentre invece il partito opta per una
gestione statale, in ciò la Kollontai scorge ‘una
grave crisi del nostro partito’… In
queste condizioni era veramente inevitabile che
degli ‘specialisti’ in ogni possibile campo fossero
accolti nell’apparato del partito e dello stato,
riversandovi le loro concezioni piccolo

493
borghesi…». Così specialisti militari avrebbero
«riportato lo spirito del passato nell’Armata
rossa (disciplina, spalline, decorazioni, cieca
subordinazione al posto della disciplina di classe,
arbitrio dei gradi superiori)».
16
X Congresso del partito, p. 140.
17
Op. cit., pp. 563-595.
18
Bedeschi, Rivoluzione e polemiche sul
partito, Roma 1973, p. 21.
19
Kollontai, op. cit., p. 74.
20
Ma in un altro passo della stessa opera la
Kollontai aveva scritto: «Quanto più in alto
saliamo nella gerarchia dei Soviet e del Partito
tanto meno troviamo aderenti dell’Opposizione
operaia; tanto più scendiamo in mezzo alle
masse, tanto più forte risonanza trova il
programma dell’Opposizione operaia» (p. 185).
E a p. 186: «L’Opposizione operaia è dunque
la parte avanzata del proletariato, quella che non
ha rotto il legame vitale con le masse operaie
organizzate sindacalmente e non si è dispersa
attraverso le istituzioni sovietiche».
«La direzione di fabbrica affidata ad una
persona sola è carne della carne della classe
borghese. La direzione individuale, cioè la
volontà isolata, ‘libera’ che prescinde dal
collettivo, che emerge in ogni settore, a
cominciare dal riconoscimento di un capo
autocratico dello Stato fino al dominio assoluto
dei direttori di fabbrica, è la saggezza suprema
del pensiero borghese, la borghesia non crede
alla forza del collettivo; essa ama solo ‘fare delle
masse un gruppo obbediente’ e cacciare questo

494
gruppo… secondo la sua volontà autocratica là
dove il pastore pensa sia necessario» (p. 188).
21
Lenin al x Congresso definì l’Opposizione
operaia come «un elemento anarchico piccolo
borghese che si annida alle spalle del
proletariato» (x Congresso del partito, p. 119).
Ma naturalmente Trockij fu ancora più duro:
«L’opposizione operaia si è fatta avanti con
parole d’ordine pericolose. Ha fatto dei principi
democratici un feticcio. Ha posto per così dire al
di sopra del partito il diritto dei lavoratori di
eleggere propri rappresentanti come se il partito
non avesse il diritto di affermare la propria
dittatura anche quando questa dittatura si trovi
temporaneamente in contrasto con lo stato
d’animo momentaneo della democrazia operaia…
da noi è ora necessario creare la coscienza di un
diritto storico di nascita del partito. Il partito è
obbligato ad affermare la propria dittatura senza
riguardi per oscillazioni passeggere negli
orientamenti spontanei delle masse, senza
riguardi anche per le incertezze passeggere che
si possono verificare nella classe operaia… La
dittatura non si fonda di volta in volta sul
principio formale di una democrazia operaia,
benché la democrazia operaia sia l’unico metodo
con l’aiuto del quale le masse possono essere
inserite sempre più nella vita politica» (I.
Deutscher, Il profeta armato, Milano 1956, p.
476).
22
Lenin, Opere complete, XXII, pp. 516-17.
22
A. Rosemberg nella sua Storia del
bolscevismo, cit., p. 151 scrive: «Lenin
considerava nel 1920 la rivoluzione socialista in

495
Europa come passaggio dei grossi monopoli allo
Stato, espropriazione dei grandi trusts, dei
cartelli e delle banche per mezzo dello Stato
operaio, e rimaneva fedele al proprio concetto
fondamentale, di mantenere il capitalismo di
Stato e il centralismo economico della
guerra mondiale, ma di cacciare dalla direzione
di quest’amministrazione accentratrice il piccolo
gruppo di magnati del capitale».
E a pag. 185: «…sarebbe il governo della
Russia dei Soviet, col suo capitalismo di Stato,
capace di condurre la lotta del proletariato
mondiale contro il capitalismo?».

496
Capitolo settimo

LA CRISI SOCIALE: KRONSTADT






La crisi di Brest Litovsk e le eccezionalmente
gravi condizioni del «trattato di pace», ovvero la
scelta che Lenin aveva operato in
quel delicatissimo momento dei primi mesi di
vita del nuovo Stato sovietico, condizioneranno
in modo determinante tutto il successivo
sviluppo della costruzione socialista nel paese e
faranno emergere in primo piano il sempre
latente blanquismo di Lenin che come un’oscura
profonda cicatrice ogni volta colpita tornava a
riemergere.
Sia l’incubo del dover far fronte alle
pesantissime condizioni economiche e
annessionistiche del trattato, come l’isolamento
politico del partito e la sua stessa lacerazione
interna nella lotta contro i comunisti di sinistra,
aveva fatto maturare in lui, come unica risposta
possibile alla estrema gravità della situazione,
quanto nella sua formazione e nella struttura
profonda del suo carattere 1 era stato sempre
presente anche nei momenti più alti della vigilia
dell’«ottobre» e dell’«ottobre» stesso:
l’autoritarismo giacobino, l’inflessibile azione
verticistica di un manipolo di ferro capace di

497
«costruire la Storia».
Che sotto le esterne minacciose sollecitazioni
si era tradotto ben presto in una precisa politica
«della transizione»:
1) Capitalismo di Stato, ferrea
centralizzazione della politica economica:
costruzione della grande industria meccanica —
e «comunismo di guerra» nelle campagne;
2) Liquidazione dei partiti politici «altri» e
soppressione delle libertà politiche; eliminazione
delle opposizioni interne al p.c.b.
3) Privilegiamento del partito, della sua unità
e disciplina rispetto agli organismi della
democrazia diretta proletaria e al problema di
un loro coordinamento ai diversi livelli.
È comprensibile come le contraddizioni sociali
e politiche che tale direzione indusse nella realtà
del paese furono subito drammatiche, ma il
contemporaneo tangibile inizio dello
«accerchiamento capitalistico» e della «guerra
civile» fece sì che esse rimanessero latenti e
represse dalla primordiale necessità della lotta
per la sopravvivenza e per la sconfitta degli
eserciti bianchi e della controrivoluzione2.
Così sembra ormai provato che ebbero inizio
in quel tempo, senza peraltro riuscire a suscitare
la reazione che meritavano (o perlomeno non si
ha di essa sicura notizia), le prime deportazioni
«nei campi di lavoro» degli appartenenti a
organizzazioni politiche non bolsceviche; che
costituirono un inizio d’incalcolabile valore
negativo e l’avvio alla degenerazione,
inarrestabile e connaturale a ogni giacobinismo,

498
del potere bolscevico.
Non per niente, del resto, era stato formulato
proprio in quei mesi da Lenin, il principio dei
«metodi barbari nella lotta contro la barbarie» 3
e, messo in moto quel meccanismo, chi avrebbe
potuto stabilire dove esso si sarebbe fermato?
Ma su questo aspetto e sul famoso libro di
Solzenitsin Arcipelago Gulag è forse utile far
parlare l’autore de Lo stalinismo, lo storico
sovietico Roy Medvedev tuttora in URSS una
delle poche voci conosciute, di autentica tempra
socialista nello spesso sconfortante
panorama della dissidenza sovietica4.
«Solzenitsin fa risalire al 1918 l’internamento
degli oppositori politici in campi di
concentramento. Non è calunnia, checché dicano
i suoi detrattori. L’autore cita il
telegramma spedito da Lenin a Eugenio Bosch
(presidente del comitato provinciale di Penza) in
cui gli suggerisce di rinchiudere i sospetti “in
campo di concentramento fuori città”. E ci sono
documenti ufficiali come la decisione del
consiglio dei commissari del popolo della Sfef di
Russia, il 5 settembre ’18, nel quale si
raccomanda “di sbarazzare la repubblica
sovietica dei nemici di classe, isolandoli in campi
di concentramento”. Nel febbraio 1919
Sokolnikov, membro del C.C. del partito e del
consiglio di guerra del fronte meridionale
protesta contro la “decosacchizzazione” (l’ordine
di fucilare i cosacchi che avevano
aiutato Krasnov o militato nell’armata bianca):
propone invece di utilizzarli per i lavori pubblici,
miniere o costruzione di ferrovie. Ma

499
Solzenitsin sbaglia quando identifica questi primi
campi con quelli successivi.
Durante la guerra civile, i campi furono
primitivi e di origine affatto diversa da quelli
degli anni ’30; i detenuti erano talora costretti al
lavoro forzato; ma talora, spesso nelle regioni di
confine, soltanto isolati in spiazzi fuori città; non
erano costretti a lavorare e potevano ricevere
cibo da parenti e amici. Nel ’20 erano per la
maggior parte contadini arrestati per
speculazione, ma alla fine della guerra furono
rimandati a casa: all’inizio della NEP il
concentramento per oppositori politici era
scomparso, ad eccezione di alcuni bagni di cui
parla Solzenitsin, come appunto alle isole
Soloki5.
Va ricordato inoltre che dal 1918 al 1920 la
repubblica sovietica dovette respingere su molti
fronti i generali bianchi sostenuti dalle potenze
occidentali, che peraltro instauravano sulle terre
occupate campi di concentramento assai più
rigidi.
Invece sotto Stalin il terrore si abbatté su
uomini disarmati e indifesi, che non erano ostili
al socialismo. Solzenitsin sembra ignorare la
differenza… (Egli) «identifica Stalinismo e
socialismo e quindi non capisce chi viene spinto
da questa tragedia a battersi per un mondo più
giusto, per la eliminazione di tutte le forme di
asservimento dell’uomo da parte dell’uomo,
comprese quelle pseudosocialiste. Solzenitsin
non può capire che la fede socialista può essere
fondamento di una morale autentica… (anche se)
è accaduto che i principi del socialismo sono

500
stati deformati e rivolti contro l’uomo…
Non possiamo non essere d’accordo con
Solzenitsin nel condannare i delitti di cui il suo
libro è una tremenda testimonianza. Ma continuo
ad essere persuaso che solo una società
realmente socialista fondata su rapporti sociali e
morali autenticamente socialisti, può garantire
all’umanità che essi non si ripetano».
In ogni caso, tornando ai nostri avvenimenti,
vinte nell’autunno del ’20 le ultime resistenze
dell’esercito di Wrangel, eliminato
l’ultimo caposaldo bianco in trincea, passato il
pericolo della controrivoluzione bianca, la
situazione sociale e politica del paese tornò ad
essere esplosiva.
Non solo l’opposizione al regime nelle
campagne culminava in una catena di vere e
proprie rivolte contadine, ma lo stesso
proletariato urbano andava disgregandosi,
demolito dalle privazioni, dagli arruolamenti,
dalla fuga nelle campagne, dal crescente caos
economico; e il medesimo partito bolscevico,
unico organismo in cui l’immensa conflittualità
sociale del paese potesse ancora esprimersi
ribolliva delle delusioni e delle amarezze
dell’intero corpo sociale e in particolare dello
strato più politicizzato degli operai che non
avevano visto corrisposte le loro attese
rivoluzionarie in una democrazia proletaria.
Del resto contrariamente a quanto accadeva
in Europa l’identificazione dell’operaio russo col
contadino (in quanto egli stesso era un contadino
appena inurbato e, col suo mondo d’origine,
unico egemone della realtà russa, aveva

501
mantenuto un saldo legame non solo affettivo ma
quasi fisico, di mentalità e di lavoro) era dunque
tale che le rivendicazioni dell’uno s’intrecciavano
organicamente con quelle dell’altro. Come tutto
ciò finisse con lo sfociare nelle disperate lotte
delle opposizioni esterne e interne al partito
bolscevico si è visto per sommi capi nei capitoli
precedenti.
E si è visto in particolare come i comunisti di
sinistra, i centralisti democratici e l’opposizione
operaia si fossero battuti prima per un governo
di coalizione e per la guerra rivoluzionaria, poi
contro la centralizzazione e l’autoritarismo in
nome dei principi della Rivoluzione di ottobre.
Era inevitabile, una volta consumata la svolta
giacobina di Brest Litovsk, che l’obiettivo di
eliminare la critica della sinistra,
l’unica potenziale alternativa al regime, fosse
divenuto quello prioritario, all’interno del
partito, in quanto essa veniva intesa come punta
avanzata dell’aspra lotta di classe condotta
dall’esterno contro la maggioranza del partito,
identificato nel proletariato.
Ma, come sempre, l’elemento determinante
della nuova svolta fu l’atteggiamento dei
contadini: cessato il terrore di perdere la terra
attraverso la «restaurazione bianca» essi erano
tornati alla resistenza di massa contro le odiate
esazioni mentre la situazione nelle città
diveniva nuovamente critica.
Il malcontento iniziato con le smobilitazioni
del settembre ’20 e l’abbandono in massa dei
centri urbani e produttivi, crebbe e si estese in
violenza e dimensioni durante l’intero inverno

502
costituendo il preludio e il clima in cui sarebbe
maturata, nel marzo del ’21, la rivolta di
Kronstadt 6 la quale rappresentò la più
pericolosa e minacciosa ribellione contro il
regime sovietico7.
L’isola di Kronstadt, posta di fronte a
Pietroburgo e principale base della flotta del
Baltico, aveva, come è noto, una lunga
tradizione rivoluzionaria che risaliva al 1905 per
cui è inutile ricordare il famoso ammutinamento
della Potiomkin, da parte dei suoi
politicizzatissimi marinai (in prevalenza S. R. e
anarchici).
Ê peraltro ugualmente noto il peso che essi
avevano avuto prima, durante e dopo
l’insurrezione dell’ottobre e come quindi
rappresentassero uno dei reparti più organizzati
e saldi dell’Armata rossa (con una forza di c.a.
40.000 uomini)8.
Si ricordi del resto come Lenin si fosse
rivolto, per così dire simbolicamente, al marinaio
anarchico Zhelzniakov e a un distaccamento
scelto di Kronstadt per sciogliere l’assemblea
costituente.
D’altra parte lo stesso Trockij, li aveva più
volte osannati come «orgoglio e gloria della
Rivoluzione». In effetti era molto popolare
e arcinota la tradizione di ardimentoso
rivoluzionarismo antiautoritario e di autogoverno
delle guarnigioni delle basi del Baltico.
Era inevitabile perciò che i successivi giri di
vite della svolta centralizzatrice e autoritaria del
partito bolscevico suscitassero un malcontento

503
che continuava a crescere e che partito dalla
disapprovazione per la decisione di un governo
non di coalizione era culminato con
l’accettazione delle condizioni tedesche a Brest
Litovsk, determinando9 uno stato d’animo di
grave amarezza per il «tradimento della
rivoluzione» e la «resa all’imperialismo tedesco»
che aveva rafforzato ulteriormente le posizioni
maggioritarie degli anarchici e dei
socialrivoluzionari di sinistra, nonché
dell’opposizione comunista di sinistra.
Verso la metà del febbraio ’21 la tensione
nella flotta del Baltico, che subiva anch’essa,
come il proletariato urbano, la forte
influenza dello stato di ribellione delle masse
contadine,10 raggiunse il massimo apice in
connessione con i forti scioperi di Pietroburgo la
rossa 11.
La forte tradizione di solidarietà della
guarnigione si espresse subito con l’invio di una
delegazione che al suo rientro a Kronstadt tenne
il suo resoconto ad una gremita, eccitata
assemblea a bordo della Petropavlosk.
Nel corso della manifestazione fu quindi
votata una mozione, di cui riportiamo i punti
principali, che diverrà la piattaforma
12
politica della rivolta :
1. Tenendo conto del fatto che gli attuali
soviet non esprimono la volontà degli operai e
dei contadini, sono necessarie nuove immediate
elezioni a voto segreto con la libertà di condurre
precedentemente una campagna di agitazione
fra tutti gli operai e i contadini;

504
2. È necessario dare libertà di parola e di
stampa agli operai e ai contadini, agli anarchici e
ai partiti socialisti di sinistra;
3. È necessario assicurare la libertà di
assemblea ai sindacati e alle organizzazioni
contadine;
4. È necessario indire una conferenza degli
operai, dei soldati della Armata rossa e dei
marinai di Pietrogrado, di Kronstadt e
della provincia di Pietrogrado, tale conferenza
deve essere al di fuori del partito e svolgersi non
oltre al 10 Marzo;
5. È necessario liberare tutti i prigionieri
politici dei partiti socialisti, nonché tutti gli
operai, i contadini, i soldati, i marinai
imprigionati per cause connesse con i movimenti
di lotta degli operai e dei contadini.
6. È necessario nominare una commissione
che esamini i casi di tutti coloro che vengono
trattenuti in prigione o nei campi di
concentramento.
Seguono altri punti di cui il più interessante è
quello 11 sui contadini:
11. È necessario dare ai contadini la piena
libertà di azione nei confronti delle terre e il
diritto di allevare bestiame alla sola condizione
che i contadini lavorino con le proprie mani,
senza cioè l’impiego di mano d’opera salariata.
In sostanza dunque rivendicazioni comuni a
tutta l’area a sinistra del partito bolscevico
(comunisti di sinistra, anarchici, S.R. di sinistra
ecc.) e che si richiamavano esplicitamente ai
principi originari dell’ottobre.

505
Il punto sui contadini, invece, rispecchiava le
posizioni degli S.R. di sinistra e diverrà, in
pratica, di lì a due settimane all’incirca, col varo
della NEP, la posizione ufficiale dello Stato
sovietico.
Dice Avrich 13: «La loro ideologia poteva
definirsi come una sorta di anarco-populismo, la
cui istanza più profonda era quella di realizzare
il vecchio programma dei Narodniky, della
Zemlja i Volja e della Narodnaja Volja, l’antico
sogno di una approssimativa federazione
di comuni autonome, nelle quali gli operai e i
contadini avrebbero vissuto in una salda
collaborazione, in una piena libertà politica ed
economica organizzata dal basso.
Il gruppo politico più vicino ai ribelli per il
temperamento e le concezioni erano i
massimalisti socialrivoluzionari, una piccola
frazione militante del P.S.R., che nella gamma
delle posizioni rivoluzionarie, occupava un posto
tra la sinistra socialrivoluzionaria e gli anarchici,
mutuando da entrambe queste formazioni alcune
idee».
Ancora una volta dunque le idee populiste di
una trasformazione sociale gestita anche dal
basso tornavano a muovere violentemente
gli animi. E a testimoniare, se ce ne fosse
bisogno, che in qualunque movimento di
emancipazione, le idee motrici e le uniche che
possono rendere attive e partecipi le masse sono
quelle che riescono a farle protagoniste.
Naturalmente i bolscevichi che in quegli
stessi giorni tenevano il loro x Congresso, non
erano ormai in grado di recuperare quanto

506
di autenticamente rivoluzionario quelle posizioni
contenevano; esse infatti mettevano in
discussione il cardine intoccabile della loro
politica: il partito bolscevico come unica
rappresentanza politica, esclusiva e non
discutibile, delle masse operaie e contadine.
La sorte del movimento, (a parte le presunte o
reali infiltrazioni e predisposizioni di agenti
controrivoluzionari e la strumentalizzazione che
del fatto fecero, scontatamente, la stampa
«bianca» e occidentale) era dunque segnata.
La logica giacobina non ammetteva deroghe
ed era implacabile; la rivolta, in quanto ribellione
al potere bolscevico, non poteva essere altro che
schiacciata e la Pravda del 3 marzo titolava con
un comunicato ufficiale del Partito: «Un nuovo
complotto delle Guardie Bianche… atteso e
certamente preparato dalla controrivoluzione
francese».
Berkman, l’anarchico americano che si
trovava in quei giorni a Pietrogrado assieme a
Emma Goldman, riferì14: «Persino alcuni
comunisti sono indignati dal tono assunto dal
governo e sostengono che è un errore fatale
quello d’interpretare come opposizione la
richiesta di pane dei lavoratori; la simpatia di
Kronstadt per gli scioperanti e la loro richiesta di
elezioni oneste sono state trasformate da
Zinoviev in un complotto controrivoluzionario…
Tutti riconoscono che i marinai sono i più decisi
sostenitori dei Soviet e che il loro scopo è di
costringere le autorità a concordare le riforme
necessarie».
È noto d’altra parte che gli stessi bolscevichi

507
di Kronstadt aderirono quasi nella totalità al
movimento e parteciparono fino all’ultimo alla
difesa della fortezza che fu sanguinosamente
espugnata il 16 marzo.
Il contraccolpo politico di quegli avvenimenti
al X Congresso fu decisivo e definitiva la
liquidazione dell’Opposizione Operaia che Lenin
denunciò come minaccia per la sicurezza della
rivoluzione.
«È ovvio—disse 15— che la deviazione
sindacalista è anche una deviazione anarchica e
che l’opposizione operaia che usa il proletariato
come schermo è un elemento anarchico piccolo-
borghese».
Dove è chiaro che ormai il rituale delle
formule e delle definizioni assiomatiche
raggiunge l’assurdo; ma se si riflette a cosa
significasse all’interno del movimento comunista,
fin dalla espulsione dei bakunisti16, il marchio di
anarchico, si può giudicare della gravità
dell’accusa leniniana, in concomitanza alla
rivolta anarcopopulista di Kronstadt, e l’eco
emotiva che essa destò nelle file del partito.
Non può quindi meravigliare il tenore della
mozione approvata dal Congresso16: «Il
Congresso ordina la rapida dispersione di tutti,
senza eccezione alcuna, i gruppi che si sono
formati per una o su un’altra piattaforma e
ordina a tutte le organizzazioni di proibire con la
massima severità ogni manifestazione di
fazioni… L’infrazione di questa decisione del
Congresso dà luogo alla immediata e
indiscriminata espulsione dal partito».

508
La parabola si era chiusa. L’ultimo canale
attraverso cui la conflittualità sociale e politica
del paese aveva trovato il modo di esprimersi era
stato drasticamente e definitivamente troncato.
In pratica non restava aperta che la via del
«monolitismo», della identificazione assoluta tra
stato e partito, fino al «culto della personalità»!
Ancora una volta la vecchia idea anarco-
populista, l’idea che il tardo Marx aveva
recepito, era stata sconfitta; ma ancora una volta
con essa e con la sua mancata integrazione nel
bolscevismo, era stata sconfitta la scelta di una
saldatura tra democrazia e socialismo 17.



1
Non appaiano questi accenni velleitari
tentativi psicologistici. La
straordinaria personalità di Lenin e la sua
importanza nei decisivi avvenimenti di quegli
anni richiederanno un serio documentato
approccio anche di questo tipo. Per cui gli sparsi
accenni che se ne sono fatti hanno solo e non
possono avere altro che un valore di
«testimonianza».
2
Per la posizione dei «menscevichi» sulla
«guerra civile» si legga per esempio Martov, op.
cit., p. 255: «Allo stesso modo non si limitò a
vietare ai suoi iscritti di partecipare alla guerra
civile, ma fece di più perché alla conferenza di
maggio del 1919 invitò la popolazione e gli
iscritti al partito a entrare volontari nelle file
dell’armata rossa per combattere la

509
controrivoluzione bianca. Allorché nel settembre
dello stesso anno le truppe del generale Denikin
marciarono contro Mosca, il comitato centrale
socialdemocratico prese il 1° ottobre la decisione
di mobilitare gli iscritti al partito che dovevano
entrare in servizio nell’armata rossa».
3
Carr, op. cit., p. 507.
4
R. Medvedev, «Documenti», Il Manifesto, 8
dicembre 1974.
5
Martov, op. cit., p. 259, scrive in proposito:
«Dopo la proclamazione della NEP la situazione
della socialdemocrazia russa cambiò
bruscamente. Sin dal primo discorso in cui diede
l’annuncio di tale politica, Lenin, mentre
prendeva in prestito tutta una serie di idee
economiche dal programma socialdemocratico,
dichiarò che proprio quello era il momento di
incatenare tutti gli altri partiti e di isolare
accuratamente nelle carceri i menscevichi e i
socialrivoluzionari. Queste parole di Lenin fecero
l’effetto di un segnale: dappertutto ebbero inizio
le più violente persecuzioni contro la
socialdemocrazia. Ben presto bastò
l’appartenenza formale ad essa, l’averci avuto a
che fare in passato, il fatto di esprimere
simpatia per la sua attività, perché colui al quale
si potevano attribuire simili circostanze venisse
arrestato, incarcerato e deportato».
6
Carr, op. cit., p. 195.
7
Dumont in Problemi agrari del comunismo,
cit., p. 30 scrive: «L’insurrezione di Kronstadt
(marzo 1921), dove i marinai fecero proprie le
rivendicazioni contadine, dimostra che i metodi

510
di direzione non sempre sono accettati.
Sindacalisti, anarchici, socialisti, oppongono il
potere locale dei Soviet al potere centrale
bolscevico. Il potere dei soviet libererà i
lavoratori dal giogo dei comunisti dice l’appello
di Kronstadt».
8
P. Arvrich, Kronstadt ’21, p. 60.
9
Arvrich, op. cit., p. 67: «Verso la fine del
’20 si era configurata una opposizione della
flotta parallelamente alla opposizione militare e
alla opposizione operaia nelle fabbriche: queste
opposizioni erano per l’iniziativa locale e la
democrazia di partito, contro l’irregimentazione
e il rigido controllo dal centro».
10
Si veda anche l’«ufficiale» storia di A.S.
Puchov, Kronstadt skij miatez v 21, Leningrado
1931, pp. 12-15 e sgg.; R.V. Daniels, op. cit., pp.
212-225.
11
Si veda anche Anweiler, op. cit., pp. 458-
473: «Verso la metà del febbraio 1921 lo
scontento raggiunse il culmine tra gli operai di
Pietroburgo. L’organizzazione del partito
indebolita dalla lotta tra le correnti, perse il
controllo delle fabbriche. L’esasperazione degli
operai… sfociò in manifestazioni di protesta… Il
23 febbraio quando le riunioni furono vietate
molte fabbriche iniziarono uno sciopero di
protesta che si estese rapidamente e portò il 25
a dimostrazioni e scontri tra dimostranti e forze
dell’ordine. Già il 24 i bolscevichi avevano
decretato lo stato d’assedio… Gli scioperi
continuarono però ad estendersi fino al 26
febbraio giorno in cui scesero in sciopero gli

511
operai delle famose officine Putilov… Ma
la scintilla raggiunse Kronstadt… il radicale
senso di libertà degli uomini di Kronstadt, tra cui
i socialisti rivoluzionari di sinistra e gli anarchici
disponevano di una notevole influenza già nel
1917, si trasmise anche alle giovani reclute
ucraine che portavano con se dalla patria il
diffuso malcontento contadino per la
politica agraria bolscevica».
12
P. Arvrich, op. cit., p. 71. Quella assemblea
si teneva il 1° Marzo ’21, esattamente
quarant’anni dopo quel fatale 1° marzo 1881 che
aveva segnato la disfatta del movimento
populista rivoluzionario russo attraverso la
suicida politica del gruppo terrorista.
13
Op. cit., p. 162. Ma si legga anche il
commento di Anweiler, op. cit., p. 465: «Tutte
queste richieste discendevano da un’unica
rivendicazione fondamentale: la libera elezione
dei Soviet… tutto il potere ai consigli. Il potere
sovietico deve esprimere la volontà della massa
di tutti i lavoratori e non servire al dominio di un
solo partito politico… Kronstadt, l’avanguardia
della rivoluzione, ha dato il segnale dell’inizio…
Non è qui che si nutrono intenzioni abbiette nei
riguardi del potere sovietico. Le voci diffuse dai
comunisti, secondo cui l’insurrezione
sarebbe antisovietica non sono vere… Il dominio
di un solo partito deve cessare. I nostri soviet
non devono più esprimere la volontà del partito,
ma la volontà degli elettori (cfr. Pravda o
Kronstadte, Praga 1921 che contiene il testo
integrale della Isvestya rivoluzionaria pubblicata
dagli insorti, pp. 141 e sgg.)… Gl’insorti

512
accettavano i principi della rivoluzione d’ottobre
del ‘17. Erano nettamente di sinistra.
Dichiararono espressamente che non volevano la
repubblica parlamentare e l’Assemblea
Costituente: I soviet e non l’Assemblea
costituente sono il baluardo dei lavoratori’.
‘Abbasso la controrivoluzione di sinistra e di
destra’ (La parola d’ordine ‘Soviet senza
bolscevichi’—annota Anweiler—che viene spesso
attribuita agli insorti, non fu lanciata da
Kronstadt. Fu Milynkov a inventarla
nell’emigrazione per sottolineare il carattere
anticomunista della rivolta). La parola d’ordine
dei Soviet liberi, lanciata da Kronstadt era un
segno dell’attrazione che l’idea consiliare
esercitava ancora sulle masse… I bolscevichi, a
loro volta, si accorsero benissimo del pericolo
che rappresentava per loro la parola d’ordine
soviet liberi, che minacciava di mettere in
questione la leggittimità del loro potere… Il x
Congresso del partito, apertosi l’8 marzo, e
svoltosi sotto l’ombra minacciosa della ribellione
di Kronstadt ristabilì una disciplina ferrea
all’interno del gruppo dominante… Nello stesso
tempo furono eliminati gli ultimi resti dei partiti
non bolscevichi… A partire dal 1921 non ci fu più
in Russia un’opposizione politica organizzata
contro il regime bolscevico».
14
The Bolshevik Myt, New York 1925, p.
301 e si legga anche A. Berkmann, The
Kronstadt rebellion, Berlin 1922.
15
x Congresso del partito, p. 29; Il PCUS
nelle risoluzioni, Mosca 1931. Si legga Carr, op.
cit., pp. 195-203.

513
16
Il PCUS nelle risoluzioni, Mosca 1931, pp.
517 e sgg..
17
Si vedano anche gli atti del Seminario
dell’Istituto Gramsci del gennaio 1978: Momenti
e problemi di storia dell’URSS, Roma 1978. E
per queste tematiche Bolscevismo e populismo a
60 anni dall’Ottobre, di F. Battistrada, pp. 395-
426.

514
Capitolo ottavo

LA CONCEZIONE DELLO STATO






Nello stesso Stato e Rivoluzione che è il punto
più meditato della riflessione di Lenin, sullo
Stato 1 (ma anche ne I bolscevichi conserveranno
il potere?) esiste una antinomia non risolta: da
una parte la necessità di una forma di Stato tale
che il suo processo di estinzione cominci subito2.
«Secondo Marx ciò di cui il proletariato ha
bisogno è soltanto uno stato in via di sparizione;
costituito in modo cioè che cominci subito a
scomparire e non potrà fare a meno di
scomparire… Lo stato proletario comincerà a
scomparire immediatamente dopo la propria
vittoria, poiché in una società senza
contraddizioni di classe lo stato è superfluo e
impossibile» 3.
Il passo è chiaro come anche è
marxianamente evidente il soggetto di questo
processo: a mano a mano che avanza,
l’appropriazione sociale dei mezzi di produzione
da parte delle masse, a mano a mano che le
masse si appropriano di tutte le funzioni
«delegate» (quelle politiche, economiche,
culturali ecc.) inderogabilmente lo Stato tenderà
a deperire.

515
Ma qui, d’altra parte interviene l’esigenza
antitetica: la necessità di una centralizzazione
assoluta del potere per l’esercizio di una
dittatura totale della maggioranza sulla
minoranza. E quali sarebbero state le forme di
uno Stato che doveva estinguersi e nello stesso
tempo realizzare quell’assoluta concentrazione
di poteri propria di una dittatura, sia pure del
proletariato?
Come risolvere cioè la contraddizione di una
società che si muove verso l’autogoverno
attraverso la dittatura di una minoranza pur se
dal seno di una potenziale maggioranza4?
Marx attingendo dalla pratica rivoluzionaria
del proletariato parigino e dei suoi alleati, aveva
nel 71 superato, riguardo alla forma del potere
politico nel periodo di transizione, la sua
precedente tendenza statalistica e centralistica5
e parlando della Comune parigina, sia nella
Guerra civile in Francia e sia «nell’indirizzo della
prima Internazionale» non usa più la sua
anteriore definizione di «Stato operaio»
ma adopera addirittura espressioni della
tradizione anarchica6, come «governo operaio
espansivo», «autogoverno dei produttori», ecc.7.
Marx veniva dunque a colpire, nell’ambito dei
movimenti rivoluzionari, con le sue nuove famose
formulazioni («la forma politica finalmente
scoperta, sotto cui è possibile realizzare la
emancipazione del lavoro») non tanto il mito
della democrazia borghese quanto la concezione
blanquistica ed elitaria secondo cui nella fase di
transizione il popolo non è «maturo» per
l’autogoverno.

516
E su questo terreno è chiaro che si apriva un
fruttuoso terreno di incontro tra critica
anarchica dello Stato e le teorizzazioni marxiane,
tra l’ala marxista e l’ala libertaria della I
Internazionale8.
In realtà la Comune e il sistema delle comuni
allargato a tutto il territorio nazionale era la
nuova forma transitoria, «scoperta» dal
proletariato parigino, verso l’estinzione dello
Stato (superfluo ricordare Proudhon!).
Marx9, (che aveva parlato per la prima volta
nel ’52 della «dittatura del proletariato» nel
celebre passo della lettera a Wejdemejer,
specificando che essa rappresentava «soltanto
una transizione verso l’abolizione di tutte le
classi e verso la società senza classi»),
aveva finalmente «scoperto», dopo venti anni,
che questa Dittatura, per non essere in antitesi
con l’«autogoverno dei produttori» e con
la progressiva estinzione delle classi e dello
Stato, doveva assumere «la forma politica» della
Comune e del sistema delle Comuni10.
Lenin rientrato in Russia ai primi di aprile del
’17, era stato dello stesso parere 11: «Il marxismo
—disse—si distingue dalla socialdemocrazia
opportunista e piccolo-borghese dei sigg.
Plechanov, Kautsky ecc. in quanto riconosce la
necessità, nei detti periodi, non d’uno stato come
l’ordinaria repubblica parlamentare borghese,
ma d’uno stato come la Comune di Parigi» e
nella prima edizione di Stato e Rivoluzione del
settembre ’17 scrisse12: «Lo stato proletario
comincerà a scomparire immediatamente dopo la
prima vittoria perché in una società senza

517
contraddizioni di classe lo Stato è superfluo e
impossibile».
Lenin tornò ad affrontare lo stesso problema
nel dicembre del ’18, e, a unica modifica della
prima edizione di Stato e rivoluzione, aggiunse
un famoso paragrafo (il III del cap. II) in cui
evidentemente teneva conto della esperienza
rivoluzionaria di quei critici mesi e che suona
come netta riprova della «svolta» di Brest
Litovsk di cui si è parlato. Nel paragrafo, che ha
per titolo «Come Marx poneva il problema nel
’52», riporta la lettera di Marx a Wejdemejer del
5 Marzo ’52 13: «… la novità che io ho introdotto
è stato il dimostrare… che la lotta di classe porta
necessariamente alla dittatura del
proletariato che la stessa dittatura del
proletariato costituisce solamente una
fase transitoria all’abolizione di tutte le classi e
alla società senza classi».
«In effetti—commenta Lenin 14—questo
periodo è ineluttabilmente un periodo di lotta di
classe di un accanimento senza precedenti; in
forme straordinariamente acute… l’essenza della
dottrina dello Stato di Marx è stata fatta propria
solo da chi ha compreso che la dittatura di una
classe è necessaria non solo per ogni società
classista in generale, non solo per il proletariato
dopo aver rovesciato la borghesia ma anche per
un intero periodo storico che separa il
capitalismo dalla società senza classi, dal
comunismo…».
Questa era dunque la sottolineatura di Lenin
nel dicembre ’18 in pieno Comunismo di guerra:
l’accanimento «senza precedenti» della lotta di

518
classe e la Dittatura di classe per un intero
periodo storico. Quello che Lenin non poteva
invece dire era che ciò si rendeva inevitabile
quando il partito si faceva lui protagonista, in
luogo del proletariato, dello scontro di classe e
dunque, riduttivamente e repressivamente
quando considerasse «nemico di classe»
chiunque si opponesse a lui; privilegiando il solo,
restrittivo livello politico del monopartitisnio
bolscevico, mentre era ciò, al contrario, che
esasperava al massimo la conflittualità sociale e
politica in quanto essa non trovava modo di
esprimersi.
Il partito, cioè, invece di mettersi al servizio
del rafforzamento e della espansione degli
istituti proletari di democrazia diretta all’interno
dei quali andava condotto il confronto e lo
scontro politico con le altre componenti politiche
sovietiche per l’affermazione dell’autogoverno
contro i portatori delle ideologie individualistiche
e « borghesi» verso la trasformazione di tutti i
rapporti sociali e verso la prospettiva di lungo
periodo in direzione dell’estinzione della sfera
politica attraverso uno Stato «come la Comune di
Parigi», assumeva su di sé, in prima persona, il
compito della dittatura non del proletariato ma
sul proletariato, reprimendone tutte le altre
forme di espressione politica assieme a quella
degli «avversari di classe» ed identificandosi
con lo Stato-Dittatura.
Per Lenin, in definitiva, dopo i primi mesi di
potere e a differenza di quanto riteneva
nell’aprile e nel settembre ’17, il processo di
estinzione dello Stato non sarebbe iniziato subito

519
nella forma Stato-Comune perché, similmente a
quanto pensavano i blanquisti, nella fase
di transizione l’autogoverno era impossibile e la
Dittatura del partito rivoluzionario sarebbe
durata un intero periodo storico e non nella
«forma politica finalmente scoperta» della
Comune ma nella collaudata forma della
Dittatura del partito giacobino 15.
Nel marzo ’18 al VII Congresso del partito a
Bucharin che per la sinistra proponeva
d’introdurre nel programma del partito
l’affermazione di quell’«ordine socialista
progredito in cui non c’è Stato» Lenin
rispondeva:
« Per il momento noi siamo
incondizionatamente per lo Stato e quanto a dare
una descrizione di quella forma progredita del
socialismo in cui non vi sarà Stato, tutto quello
che si può dire è che allora vedremo realizzarsi il
principio “a ciascuno secondo la sua capacità e a
ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Ma ne siamo molto lontani… ci arriveremo
alla fine se intanto arriviamo al socialismo» 16.
In sostanza per un intero periodo storico il
partito si sarebbe fatto carico in prima persona
del contrasto di classe e l’avrebbe risolto in
prima persona «schiacciando» come nemico di
classe chiunque gli si opponesse.
Ma tornando a Stato e rivoluzione Lenin in
esso aveva sì polemizzato frontalmente con la
concezione dello Stato nella socialdemocrazia
tedesca e col suo hegeliano-prussiano rispetto
per il potere statale concepito come «neutrale» e

520
suscettibile di essere posto tal quale al servizio
dei lavoratori invece che «spezzato».
Ma anche la sua polemica con gli anarchici
era stata netta (anche se meno aspra di altre
volte) e solo poco prima, in una delle sue Lettere
da lontano aveva scritto dalla Svizzera 17: «La
differenza tra marxisti rivoluzionari e anarchici
non consiste solo nel fatto che i primi sono per
una produzione massiccia centralizzata,
comunista e i secondi per una produzione
decentralizzata e su piccola scala. Né la
differenza per quanto riguarda l’autorità
governativa e lo stato consiste in questo: che noi
siamo per l’utilizzazione di forme rivoluzionarie
di Stato nella lotta per il socialismo, mentre gli
anarchici sono contro di esse».
Eppure le posizioni che gli anarchici russi
andavano puntualizzando in quei mesi dalle
colonne del Golor Truda e del Nabat, attraverso
per esempio gli scritti di Volin e di Alexander
Shapiro prima che venissero arrestati e costretti
all’esilio, erano diverse e tali da costituire un
punto di utile confronto unitario.
Volin, raccontando 18 quell’intenso e
drammatico periodo, nel suo La rivoluzione
sconosciuta scriverà: «Le discussioni tra i partiti
politici di estrema sinistra e gli anarchici
avevano sempre come oggetto… i compiti da
realizzare dopo la distruzione dello Stato
borghese.
In che modo doveva essere costruita la
società nuova? Secondo un criterio statalista
centralistico e politico o federalista apolitico e
semplicemente sociale?… Più in generale

521
un’interpretazione errata o il più delle volte
scientemente inesatta pretende che la
concezione libertaria significhi l’assenza di ogni
organizzazione. Niente di più falso. Il problema
non è quello di organizzazione o di
non organizzazione ma di due diversi principi
organizzativi…
Naturalmente, dicono gli anarchici, bisogna
che la società sia organizzata. Ma questa
organizzazione nuova, normale e ormai possibile,
deve attuarsi liberamente, socialmente e,
anzitutto, partendo dalla base.
Il principio organizzativo deve uscire non da
un centro creato anticipatamente per
accaparrare l’insieme e imporsi ad esso, ed
è esattamente il contrario, da tutti i punti per
arrivare a dei nodi di coordinamento, centri
naturali a servire tutti questi punti. Beninteso è
necessario che intervengano lo spirito
organizzativo, gli uomini capaci di organizzare,
le élites. Ma in ogni luogo e in ogni
circostanza tutti questi valori umani devono
liberamente partecipare all’opera comune, da
veri collaboratori e non da dittatori.
Bisogna che ovunque essi diano l’esempio e si
diano da fare a raggruppare, coordinare,
organizzare le buone volontà, le iniziative, le
conoscenze, le capacità e le attitudini, senza
soggiogarle, dominarle, opprimerle.
Uomini di questo genere sarebbero dei veri
organizzatori e la loro opera costituirebbe la
vera organizzazione, feconda e solida, perché
naturale, umana effettivamente progressista.
Mentre l’altra ‘organizzazione’ calcata su quella

522
della vecchia società fondata sull’oppressione e
lo sfruttamento, adattata quindi a questi due fini,
sarebbe sterile e instabile perché non conforme
ai nuovi scopi, quindi per niente progressista…
Essa non potrebbe in nessun modo servire da
‘società di transizione’ come pretendono i
bolscevichi, perché una simile società dovrebbe
necessariamente possedere almeno alcuni dei
germi della società verso cui evolve; ora ogni
società autoritaria e statalista non può possedere
che dei residui della società precedente.
Secondo la tesi libertaria erano le stesse
masse lavoratrici che per mezzo dei loro diversi
organismi di classe (comitati di
fabbrica, sindacati, industriali, agricoli,
cooperative ecc.) federati e centralizzati secondo
le necessità reali dovevano dedicarsi ovunque sul
posto, alla soluzione dei problemi della
rivoluzione.
Con la loro azione potente e feconda perché
libera e cosciente, essi dovevano coordinare i
loro sforzi in tutto il paese.
E quanto alle élites il loro ruolo, così come lo
concepivano i libertari, era di aiutare le masse:
illuminarle, istruirle, dare loro i consigli
necessari, spingerle verso questa o quella
iniziativa, mostrare loro l’esempio, sostenerle
nelle loro azioni; ma non dirigerle
governativamente …
La tesi bolscevica era diametralmente
opposta. Secondo i bolscevichi era l’élite, la loro
élite, che formando un governo (detto operaio ed
esercitante la cosiddetta dittatura del

523
proletariato), doveva portare a termine la
trasformazione sociale e risolvere i suoi immensi
problemi.
Le masse dovevano aiutare questa élite (tesi
inversa a quella libertaria: l’élite deve aiutare le
masse) eseguendo fedelmente, ciecamente,
meccanicamente i suoi disegni, le sue decisioni, i
suoi ordini, le sue leggi».
La lunga citazione forse non era superflua
perché in realtà le posizioni anarchiche sono
state spesso deformate, nella polemica, sia
durante la prima, la seconda e la terza
internazionale e spesso esse contenevano, (a
parte ingenuità e il solito verbalismo contro
tutto ciò che è politico ecc. e, nella fattispecie,
errori di valutazione e la non esplicitazione—in
questo caso—del processo di lotta di
classe), intuizioni fondamentali che avrebbero
potuto arricchire l’elaborazione teorica e politica
delle maggioritarie organizzazioni socialiste
e comuniste.
Volin, parlando dall’interno della situazione
russa e delle «condizioni obiettive» dice in
sostanza che due erano le possibili scelte della
rivoluzione: la costruzione della società socialista
o dall’alto attraverso «il metodo della barbarie»
o dal basso e dall’alto attraverso il metodo
dell’espansione degli organismi di democrazia
diretta e di autogoverno.
Nel Lenin del ’17 e dei primissimi mesi del ’18
coesistevano non risolte le due strategie ma nel
corso della crisi di Brest Litovsk prevalse
definitivamente la giacobina. Quella libertaria e
della sinistra comunista si è visto che costituiva

524
una concreta alternativa fino al ’21 anche se
monca e deformata dall’operaismo, dal
monopartitisnio e dal pansindacalismo. Il
passaggio di Lenin dall’alleanza coi comunisti
di sinistra alla dura battaglia contro di essi dopo
l’ottobre fu perciò decisivo per la sconfitta di
quella alternativa.
Ed è perlomeno lecito chiedersi se proprio
quel complesso di concatenate scelte giacobine
non sia stato esso a condizionare in modo
ulteriormente negativo le capacità d’iniziativa e
di partecipazione delle «arretrate» masse russe e
a sospingerle verso quello stato di passività e
apoliticità che è l’unico compatibile con una
direzione di tipo giacobino.
La creazione autonoma da parte delle masse
dei comitati di fabbrica e dei Soviet aveva
dimostrato che la possibilità di autogoverno da
parte loro era una tendenza concreta e non
utopistica e che l’immaturità delle masse è come
aveva una volta detto Lenin «l’argomento dei
signori i quali una volta dicevano che i contadini
non erano maturi per la libertà».
Perché l’unico modo per le classi subalterne
di divenire classi dirigenti «pare» sia quello di
apprenderlo nella concreta pratica sociale e
politica… La coscienza del proletariato russo era
cresciuta qualitativamente e straordinariamente
nella lotta che esso aveva condotto da
protagonista contro l’autocrazia.
Essa avrebbe dovuto ulteriormente arricchirsi
e trasformarsi nella lotta condotta come
protagonista per la costruzione dal basso e
dall’alto di una società socialista che si giovasse

525
del confronto tra tutte le forze rivoluzionarie e
soviettiste (a partire dai socialrivoluzionari e
menscevichi di sinistra)19 del movimento politico
russo.
La scelta ormai era un’altra ma forse è
possibile affermare che se l’alleanza tra Lenin e
la sinistra comunista fosse rimasta e se in Lenin
fosse prevalso lo spirito marxianamente
libertario del ’17 fino a depurarsi di quanto di
giacobino era ancora in lui, il corso
della rivoluzione sarebbe stato profondamente
diverso.



1
Si legga in V. Gerratana: Ricerche di Storia
del marxismo, cit., pp. 192 e sgg.: «Fino al 1914
il pensiero di Lenin si era sviluppato in modo
originale ma ancora all’interno del marxismo
della II Internazionale. Anche dopo il fallimento
della II Internazionale, che lo convinse della
necessità di una rottura definitiva non solo con
l’opportunismo di destra ma anche con il
centrismo kautskiano, Lenin non si rese subito
conto di tutte le implicazioni teoriche che questa
rottura comportava. Fu solo attraverso lo studio
approfondito dei problemi della teoria marxista
dello Stato, tra la fine del 1916 e l’inizio del
1917, che maturò in lui la convinzione che
proprio qui, nella teoria dello Stato, era la radice
della degradazione a cui il marxismo era stato
condotto dalla socialdemocrazia tedesca, il
partito guida della II Internazionale.

526
Nei provvedimenti presi dalla Comune per
creare le basi politiche di uno Stato di tipo nuovo
Lenin non vede delle misure dirette di
trasformazione socialista della società, ma
‘semplici e naturali provvedimenti democratici’
che servono ‘da passatella tra capitalismo e
socialismo’.
‘Sviluppare la democrazia fino in fondo,
ricercare le forme di questo sviluppo, metterle
alla prova della pratica, ecc.: tutto ciò costituisce
uno dei problemi fondamentali della lotta per la
rivoluzione sociale. Preso a sé, nessun sistema
democratico, qualunque esso sia, darà il
socialismo: ma nella vita il sistema democratico
non sarà mai preso a sé, sarà preso nell’insieme
ed eserciterà la sua influenza anche
sull’economia di cui stimolerà la trasformazione,
mentre esso stesso subirà l’influenza dello
sviluppo economico…. È questa la didattica della
storia viva’ (cfr. Stato e rivoluzione in Op.
compl., pp. 425-6). Non vi è dubbio che una
interpretazione estensiva di questo passo
porterebbe implicazioni opportunistiche, ove si
dimentichi che la democrazia non si può
sviluppare ‘fino in fondo’ nei limiti della
democrazia borghese. Non già nella pretesa di
sviluppare le forme tradizionali della democrazia
borghese, ma solo nella ricerca di forme nuove di
uno sviluppo democratico che possano essere
effettivamente sperimentate nella pratica, questo
modo di concepire il rapporto tra democrazia e
socialismo conserva tutta la sua importanza in
una strategia rivoluzionaria di avanzata
democratica verso il socialismo… ».

527
Si legga anche L. Gruppi, La teoria marxista
dello Stato, Milano 1969, pp. 309-466 e Il
pensiero di Lenin, Roma 1970, pp. 179-310.
2
Sulla concezione leniniana dello Stato si
veda anche Lenin e il populismo, F. Battistrada,
Genova 1975, inedito.
3
Ibidem, ma sulla origine engelsiana della
teoria dell’estinzione dello stato si legga D. Zolo,
Stato socialista e libertà borghesi, Bari 1976.
4
Si legga per es. in Anweiler, op. cit., p.
451: «L’idealizzazione da parte di Lenin della
democrazia sovietica e la sua utopia di uno Stato
senza funzionari e senza politici erano sin
dall’inizio in contraddizione insolubile con la sua
teoria della direzione assoluta del partito e della
prassi statale che ne derivava… Da una parte i
bolscevichi si sforzavano di elevare l’interesse
delle masse per i propri organi, con periodiche
campagne di propaganda, dall’altra non erano
disposti a rinunciare al proprio dominio esclusivo
e a ristabilire una vera democrazia sovietica.
Così i consigli russi, in quanto nuove forme di
sistema rappresentativo democratico, non
poterono fornire la prova storica della propria
vitalità ed efficacia. I soviet che dal 1918
ufficialmente governano la Russia non sono che
una appendice della burocrazia del partito,
comparse mute (Eljaschoff, op. cit., p. 69) senza
potere reale».
5
Si legga per esempio nell’Indirizzo
dell’autorità centrale alla lega dei Comunisti del
Marzo ’50 come Marx si esprime: «Gli operai
devono… cercare di ottenere la più decisa

528
centralizzazione del potere nelle mani dello
Stato. Non devono lasciarsi confondere dalle
chiacchiere sulla libertà dei comuni,
sull’autogoverno ecc. ecc.» (K. Marx,
Enthullungen uber den Kommunisten prozess zu
Koln, Zurich 1885, p. 81).
6
Stefano Merli, L’esperienza Comunarda,
Federazione PSIUP, Firenze 1970.
7
Si legga ivi per es.: «Una volta stabilito a
Parigi e nei centri secondari il regime comunale,
il vecchio potere centralizzato avrebbe dovuto
cedere il posto anche nelle provincie
all’autogoverno dei produttori… La sola
esistenza della Comune portava con sé, come
conseguenza naturale la libertà municipale
locale… L’unità della nazione non doveva essere
spezzata ma al contrario organizzata
dalla Costituzione comunale».
Tovaglieri, op. cit., pp. 149-159-172 scrive:
«Sia il programma di Erfurt, sia il programma
del POSDR ignoravano completamente l’analisi
della Comune di Parigi compiuta da Marx nella
Guerra civile in Francia. In questo scritto
infatti Marx aveva individuato il significato
essenziale della Comune nell’autogoverno delle
comuni inteso come distruzione completa del
potere centrale autonomo e indipendente,
tramite, da una parte l’abolizione degli organi
puramente repressivi del governo centrale—
esercito permanente, polizia politica, clero—e,
dall’altra, l’assunzione di tutte le altre funzioni—
legislative, giudiziarie, ecc.—direttamente da
parte delle comuni e delle loro dirette
rappresentanze superiori… come si è visto la

529
repubblica democratica rivendicata dal POSDR
all’epoca della rivoluzione del 1905 manteneva
intatto il potere centrale autonomo e
indipendente, nonostante l’introduzione della
sovranità popolare e dell’autonomia locale
mentre invece la specificità dello Stato-Comune
e della repubblica dei Soviet consisteva proprio
nella distruzione del potere centrale autonomo e
indipendente… nell’elencare i provvedimenti
politici della Comune Lenin tralasciava proprio
questi che costituivano l’elemento di rottura
della Comune rispetto ad ogni repubblica
democratica parlamentare, anche la più
avanzata, cioè l’abolizione degli organi centrali
autonomi e indipendenti dagli organi
d’autogoverno locale e la soppressione
della divisione dei poteri… L’autogoverno delle
Comuni (per Marx) non avrebbe soppresso
quindi completamente il governo centrale ma il
governo centrale non sarebbe stato altro che il
risultato della libera unione delle Comuni ed
avrebbe svolto solo quelle poche funzioni… (Fu
solo nel marzo ’17 che) sviluppando
queste indicazioni Lenin passò definitivamente
dalle concezioni dei Soviet dei deputati operai
come ‘organi embrionali del potere
rivoluzionario’ alla concezione della repubblica
dei Soviet come ‘forma statale superiore ad ogni
repubblica democratica parlamentare anche la
più democratica’. Nella nona tesi di aprile Lenin
sosteneva la necessità di modificare il
programma del partito…: la richiesta
della repubblica parlamentare doveva essere
sostituita con la rivendicazione dello Stato-

530
Comune (Lenin, Op. compl., xxiv, p. 14)».
8
Invece come è noto i bakunisti vennero
espulsi dall’Internazionale nel Congresso dell’Aja
del 1872.
9
Lenin, Opere complete, vol. XIII, pp. 315-6.
10
Si veda O. Anweiler, op. cit., p. 27:
«L’interpretazione marxiana della Comune restò
praticamente estranea al patrimonio ideale dei
partiti socialisti della II Internazionale. Fu solo
durante la rivoluzione del ’17, la costruzione
dello Stato Sovietico e la lotta ideologica dei
bolscevichi contro i partiti socialisti che essa
divenne di estrema attualità».
11
Lenin, Opere complete, vol. xx, pp. 34-35.
12
Opere complete, vol. xxx, pp. 385, 388.
13
Stato e rivoluzione, p. 38.
14
Ibidem, p. 40.
15
Sul piano della politica economica ciò si
tradusse invece, come si è visto, nel verticismo
del capitalismo di Stato di tipo prussiano e nel
comunismo di guerra. Anweiler, op. cit., pp. 292-
3 così commenta Stato e Rivoluzione-. «Il
programma economico del bolscevismo alla
vigilia della conquista del potere prevedeva la
nazionalizzazione delle banche e dei cartelli
industriali, nonché il raggruppamento forzato
della popolazione in associazioni di produttori e
di consumatori. Tra questo monopolio statale
dell’economia e il principio consiliare, fondato
sull’autogoverno, la contraddizione era
insuperabile… Malgrado tutte le idealizzazioni e
l’affermazione che i consigli rappresentavano un
tipo di Stato nuovo, superiore e più democratico,

531
Lenin si muoveva in una prospettiva di strategia
rivoluzionaria e non di ristrutturazione della
società secondo un nuovo principio… La
parola d’ordine dei soviet, alla cui giustificazione
teorica Lenin dedicò una intera opera, era
primariamente di natura tattica; i consigli, in
teoria organi della democrazia di massa, erano in
pratica strumenti di cui il partito doveva servirsi
per conquistare il potere. Lenin ha costruito nel
’17 la sua utopia della società socialista e dello
Stato nella fase di transizione senza nominare il
fattore che svolgeva il ruolo decisivo nel suo
pensiero e nella sua azione: il partito».
16
Carr, op. cit.
17
Opere complete, vol. xx, pp. 345.
18
D. Guerin, Né dio né padrone, vol. II, pp.
178-181.
19
È bene notare che nel ’17-18 i
socialrivoluzionari di sinistra e i menscevichi di
sinistra erano in maggioranza nei rispettivi
partiti.

532
Epilogo primo

IL GIACOBINISMO POLITICO






Il modello della «Grande Rivoluzione» aveva
permeato di sé tutti i padri del movimento
rivoluzionario socialista e gli stessi Marx e
Engels non ne erano stati immuni, come del
resto il medesimo Bakunin1.
Il principio del terrore era parte della
tradizione rivoluzionaria ed è noto che, per
esempio Marx, nell’autunno del 1848, dichiarò
che esisteva «un solo mezzo di ridurre,
semplificare e localizzare la sanguinosa agonia
della vecchia società e il sanguinoso parto della
nuova; un solo mezzo: il terrore rivoluzionario» 2.
Per il sorgere della stessa società borghese
«per poco eroica che possa apparirci oggi» era
stato indispensabile «eroismo, sacrificio, terrore,
guerra civile e campi di battaglia sanguinosi» 3.
E Kautsky nel suo Terrorismus und
Komunismus del ’19 cita una frase di Engels
dello stesso tenore: «Durante il breve periodo
della rivoluzione francese, in cui il proletariato
con la Montagna, fu al timone dello Stato, esso
attuò la propria politica con tutti i mezzi a sua
disposizione, compresa la mitraglia e la

533
ghigliottina»4.
Ma bisognerebbe rifarsi più che altro al clima
culturale dei circoli rivoluzionari di quegli anni,
per poter capire come il modello giacobino fosse
il perno e il motore di ogni concezione politica di
emancipazione socialista: in assenza di una
compiuta teoria politica marxista, le categorie
politiche giacobine furono assunte da quei
circoli, pressoché in toto (e, nella prassi, anche
dagli anarchici e dai primointernazionalisti).
Il «babuvismo» e poi il «blanquismo» furono
per lunghi periodi la corrente maggioritaria del
movimento rivoluzionario e della stessa Prima
Internazionale; anche quando essa fu sciolta il
blanquismo continuò ad avere una perdurante
influenza5 mentre le componenti
democratico rivoluzionarie dei movimenti
socialisti e comunisti di quell’epoca furono quasi
sempre minoritarie.
Uno dei pochi grandi dirigenti comunisti della
seconda internazionale che si sottrasse con
nettezza a questo clima e a quello vietamente
parlamentarista della maggioranza delle
socialdemocrazie, fu Rosa Luxemburg.
Nel programma del Partito comunista tedesco
del 1918 aveva scritto6: «Nelle rivoluzioni
borghesi, lo spargimento di sangue, il terrore,
l’assassinio politico costituiscono l’arma
indispensabile delle classi che si sollevarono. La
rivoluzione proletaria, non ha bisogno del terrore
per perseguire i suoi scopi: essa odia e abomina
l’assassinio».
È noto, al contrario come Lenin, formatosi

534
essenzialmente oltre che alla scuola del
marxismo russo e della socialdemocrazia
tedesca, alla scuola giacobina populista7, abbia
sempre accettato, in polemica con Plekhanov, il
principio del terrorismo anche se tatticamente lo
combatte. Egli in una riunione di partito nel
gennaio del ’18 ricordò: «I grandi rivoluzionari
borghesi di Francia, centoventicinque anni
orsono, fecero grande la loro rivoluzione per
mezzo del terrore». E precedentemente aveva
detto: «Noi non abbiamo mai rifiutato e non
possiamo rifiutare per principio il terrorismo» 8.
Del resto lo stesso Trockij che, nel 1902,
aveva ironizzato sul «Massimiliano Lenin» del
Che fare e sul suo giacobinismo blanquista9,
usava in quei mesi lo stesso linguaggio: «Voi
protestate per il mite terrore che impieghiamo
contro i nostri nemici di classe. Sappiate allora
che di qui a un mese al più tardi, il terrore
assumerà forme molto violente, sull’esempio dei
grandi rivoluzionari francesi. La ghigliottina e
non la semplice prigione, sarà pronta per i nostri
nemici» 10.
Non è possibile negare dunque che quel
gigantesco esempio esercitasse ancora
un’invincibile attrazione su quelle generazioni di
bolscevichi e ne costituisse nella sostanza, il
corpus della loro formazione culturale,
l’inconscio schema delle loro attitudini
comportamentali.
Carr11 riporta quanto l’Humanité del 10
settembre ’20 riferiva delle dichiarazioni di
Lenin all’allora comunista Frossard: «Nella
rivoluzione russa, che nei suoi metodi e nei suoi

535
procedimenti riprende la rivoluzione francese,
non vi è nulla cui un francese debba
rinunciare». Come si vede siamo agli antipodi di
quanto, per es. la Luxemburg, aveva
chiaramente ipotizzato 12 : (Bisogna realizzare un
modello che) «è esattamente l’opposto di quello
della società borghese» e ciò non si ottiene
«mediante il semplice passaggio del bastone di
comando, dalla mano della borghesia a quella del
comitato centrale socialdemocratico, ma
estirpando dalle radici questo spirito schiavistico
di disciplina».
Del resto abbiamo già citato più volte il passo
da Sull’infantilismo di sinistra e la mentalità
piccolo borghese che è sempre del principio del
’18: «…senza indietreggiare davanti ai metodi
dittatoriali pur di affrettarne l’applicazione,
ancor più di quanto non avesse fatto Pietra il
Grande per affrettare l’introduzione
dell’Occidente nella barbara Russia, non
risparmiando l’impiego di mezzi barbari nella
lotta contro la barbarie» 13.
In sostanza il concetto giacobino di violenza
come fatto elitario e purificatorio 14 e quello di
Dittatura giacobina, antitesi assoluta di
autogoverno, erano diffusamente presenti nella
teoria politica e nella pratica politica bolscevica
(e si è visto che malgrado le poderose rotture
teoriche ed epistemologiche, lo erano perfino in
Marx ed Engels, figli della stessa temperie
culturale) e costituivano un cardine, mai
totalmente spezzato della concezione bolscevica
del processo rivoluzionario e di quello
dell’esercizio del potere e della costruzione

536
socialista.
La giacobina necessità della violenza e della
dittatura rivoluzionaria per la costruzione
dall’alto del socialismo. L’inflessibilità giacobina
di tendere conseguentemente a tale scopo con
tutte le forze e con qualsiasi mezzo.
La logica giacobina del terrore che rafforza e
centralizza parossisticamente il potere contro
«l’altro da sé» considerato totalitariamente
«nemico di classe» e dunque da reprimere e
distruggere. Il circolo chiuso giacobino che
concentra e privilegia efficientisticamente il
potere come corpo separato, sempre più
concentrandolo e sempre più isolandolo.
La giustificazione del terrore come prezzo
doloroso per la costruzione della virtuosa società
che solo gli «unti», il manipolo di ferro (sarebbe
interessante un esame lessicale
dell’aggettivazione e sostantivazione bolscevica
e l’uso preponderante di una terminologia
«siderurgica» fino all’antropoformizzazione
assoluta nell’ultratemperato acciaio: ovvero
Stalin), è capace di pagare per il raggiungimento
del fine. Il rifiuto «inflessibile» della democrazia
politica intesa come peccato mortale della
borghesia e non come ineliminabile espressione
delle forze sociali e culturali in presenza.
Tutti atteggiamenti e comportamenti
estremamente radicati nella tradizione e nel
pensiero bolscevico da quando esso, fin dai suoi
primissimi inizi, aveva del tutto avulso da sé e
rifiutato di assumere nel proprio patrimonio
teorico quanto il movimento
anarcopopulista aveva elaborato e praticato

537
(persino la stessa Narodnaja Volja) in direzione
del tutto opposta: l’estrema sofferta
consapevolezza dei pericoli dell’elitarismo.
Il rischio mortale da cui doveva guardarsi un
movimento minoritario: il costituirsi come potere
separato dalle masse 15.
Si è visto peraltro come questa tradizione
giacobina bolscevica sia cresciuta e si sia
esaltata, per così dire, «per necessità», una volta
rifiutata la grande tradizione del movimento
rivoluzionario contadino russo e una volta
respintone il ruolo politico autonomo che pur
quel movimento si era conquistato «sul campo»,
nel corso della sua aspra storia di lotte contro la
grande proprietà feudale e l’autocrazia, per
il socialismo.
Ma, a questo punto è forse bene ricordare
brevemente e cronologicamente l’impressionante
crescendo delle decisioni intese, nel mentre si
costruiva l’identificazione del partito nello stato
(«il monolitismo»), a costituire e a perfezionare
la Dittatura del partito.
Si è già visto che la notte del 12 aprile ’18 16
la CEKA organizzò la sua prima azione armata
contro gli anarchici per la loro liquidazione
politica. Il 14 giugno fu la volta dei menscevichi
e dei S.R. di destra 17.
Dopo l’insurrezione del 18 luglio (non solo
metaforicamente la violenza chiama la violenza),
fu la volta degli S.R. di sinistra 18.
Nel dicembre del ’19, i due leader
menscevichi Dan e Martov poterono partecipare
al VII Congresso panrusso dei Soviet non come

538
eletti ma come invitati19 approfittando di quel
breve periodo di tolleranza a cavallo del ’19 e del
’20 (ma l’VIII Congresso panrusso dei Soviet del
dicembre ’20 fu l’ultimo Congresso cui furono
ammessi menscevichi e socialrivoluzionari).
Essi vi lessero una dichiarazione che
richiedeva: «…l’applicazione effettiva della
Costituzione… libertà di stampa, di riunione e di
associazione… inviolabilità delle persone…
abolizione delle esecuzioni sommarie, degli
arresti amministrativi e del terrore ufficiale».
E Lenin ribatterà20: «No, il terrore e la Ceka sono
assolutamente indispensabili».
Nel marzo 1919 all’VIII Congresso del partito
così era stato programmato e ratificato lo
svuotamento dei Soviet21: «Il partito comunista
tende in particolare ad instaurare il suo
programma e la sua completa funzione di guida
sulle attuali organizzazioni statali che sono i
Soviet. Il partito comunista russo deve
acquistare l’esclusivo predominio politico nei
Soviet e il pratico controllo su tutto il loro
lavoro». E si sa, nella pratica cosa questa
direttiva significò. Sempre nel ’19 Lenin così
rampognava chi obiettava contro «la dittatura di
un solo partito» 22.
«Sì la Dittatura di un solo partito! Questa è la
nostra posizione e non possiamo abbandonarla
poiché il partito in questione è quello che nel
corso di decenni è venuto a rappresentare
l’avanguardia all’interno del proletariato».
«La Dittatura della classe operaia s’attua col
partito bolscevico che dal 1905 e anche prima ha

539
fatto tutt’uno col proletariato rivoluzionario».
Naturalmente era inevitabile e ormai matura
l’applicazione della stessa concezione
autoritariamente repressiva e riduttivamente
deformata della lotta di classe, anche all’interno
del partito.
Sì è già visto in proposito la decisione del x
Congresso del Marzo ’2123: «Il Congresso
prescrive l’immediato scioglimento di tutti i
gruppi senza eccezione formatisi su questa o
quella piattaforma e dà istruzioni a tutte le
organizzazioni di insistere strettamente sulla
inammissibilità di qualsiasi specie di attività
frazionistica. L’inosservanza di questa decisione
del congresso comporterà l’incondizionata e
immediata espulsione dal partito».
Ma fu il paragrafo segreto (il famoso «punto
7») che costituì la svolta determinante nella vita
interna del partito: il passaggio del potere
effettivo dal Congresso al Comitato centrale.
Esso ratificò infatti l’illimitato potere
disciplinare del C.C. nei confronti dei suoi stessi
membri: era sufficiente la maggioranza dei 2/3
del C.C. per espellere dall’organismo di
direzione l’altro terzo. In pratica chi deteneva
quella maggioranza era despota assoluto di
ogni potere.
Sarà proprio questa clausola (a lungo
mantenuta segreta) che permetterà
«correttamente e democraticamente» a Stalin la
successiva liquidazione politica (prima di quella
fisica) di tutte le opposizioni.
Come al solito sarà solo la sinistra, e

540
contraddittoriamente, ad opporvisi. Osinsky già
all’VIII Congresso aveva denunciato che24:
«Neppure il Comitato centrale esiste davvero
come organo collegiale… i compagni Lenin e
Sverdlov decidono degli affari correnti tra loro o
in conversazioni coi singoli compagni addetti a
questo o a quel settore del lavoro sovietico»
Mentre Radek al x Congresso aveva previsto
sinistramente quanto sarebbe accaduto25: «Non
sappiamo ancora come la cosa sarà realizzata e
che complicazioni potranno sorgere, ma i
compagni che propongono questo regolamento lo
concepiscono come arma diretta contro altri
compagni che la pensano diversamente».
La dimostrazione di come ormai la mostruosa
logica giacobina (se non rifiutata globalmente)
non potesse non finire col permeare di sé le
medesime vittime sta nel voto favorevole a quella
clausola dell’opposizione operaia (ma
incombente Kronstadt e l’uso strumentale che se
ne era fatto all’interno del partito!) e dello stesso
Radek!
«Pur votando per questa risoluzione—disse—
ho la sensazione che potrebbe essere rivolta
anche contro di noi, ma, ciononostante sono
favorevole alla risoluzione» 26.
L’unica forma di garanzia rimasta e sostenuta
dallo stesso Lenin (la possibilità da parte dei
membri del C.C. di appellarsi alla base
del partito con proprie piattaforme politiche,
prima del Congresso) sarà presto travolta dal
meccanismo macinatore centralizzante ormai
messo in moto e scomparirà di fatto dalla pratica
organizzativa di tutti i partiti comunisti della III

541
Internazionale e oltre.
Resta ormai da registrare semplicemente
l’estremo appello rivolto dall’opposizione operaia
al Comitato Esecutivo del Comintern alla vigilia
del IX Congresso del marzo ’22 e noto come la
Dichiarazione dei 22 27.
«In un periodo che vede le forze dell’elemento
borghese premerci da ogni lato e penetrare
persino nel nostro partito la cui composizione
sociale (40% operai, 60% non proletari) favorisce
tale penetrazione, i nostri centri direttivi
conducono una lotta senza quartiere contro tutti
coloro e specialmente contro i proletari, che si
permettono di esprimere le proprie opinioni
negli ambienti del partito.
Il tentativo di avvicinare le masse operaie allo
Stato è chiamato «anarcosindacalismo» e coloro
che lo perseguono sono oggetto di persecuzione.
Le forze unite del partito e della burocrazia
sindacale, profittando della propria posizione e
del proprio potere ignorano le decisioni dei
nostri Congressi sull’applicazione dei principi
della democrazia operaia.
Il controllo e la pressione della burocrazia
arrivano al punto che ai membri del partito
s’impone l’elezione di coloro che sono
imposti dall’alto nell’assoluta ignoranza della
situazione. La situazione è così grave da
costringerci a chiedere aiuto a voi allo scopo di
eliminare la minaccia di scissione che incombe
all’interno del nostro partito».
Si può solo aggiungere che vivente anche
Lenin, al xii Congresso del partito dell’aprile ’23,

542
Zinoviev poteva ormai ironizzare
grossolanamente su «quei compagni secondo i
quali la dittatura del partito sarebbe una cosa da
farsi ma non da dirsi» e concludeva 28 : «Abbiamo
bisogno di un singolo, forte, potente C.C. che
diriga tutto… Il comitato centrale è il C.C.
perché è lo stesso C.C. per i Soviet e per i
sindacati e per le cooperative e per i comitati
operativi provinciali e per l’intera classe operaia.
In ciò consiste la funzione di guida, in ciò si
esprime la dittatura del partito».
E la mozione del Congresso proclamava29: «La
dittatura della classe operaia non può assumere
altra forma che quella di una dittatura della sua
avanguardia dirigente e cioè del partito
comunista». Marginalmente è da notare come i
troskisti tentino in ogni modo di scagionare
Trockij dalla corresponsabilità (che fu completa
e anzi egli appare in questo periodo del tutto
concorde con l’operato di Lenin) del processo di
« dittaturizzazione» del partito.
Per tutti citeremo Mandel, tra loro uno dei più
rappresentativi30: «Non vi è dubbio che Trockij
commise errori tattici, nella lotta, che oggi
appaiono evidenti… Ma anche Lenin ne
commise. Dopotutto era stato Lenin a costruire
l’apparato del partito che ora
cominciava improvvisamente a degenerare. Fu
Lenin che non riuscì ad opporsi all’elezione di
Stalin a segretario generale. Era stato Lenin a
mettere tutto il peso della sua autorità a
sostegno di una serie di misure istituzionali e
organizzative che aiutarono grandemente la
vittoria della burocrazia e che come sappiamo

543
oggi potevano essere evitate senza distruggere
la rivoluzione: il principio dell’autorità
personale del dirigente di fabbrica; l’eccessivo
affidamento agli incentivi materiali; l’esagerata
identificazione del partito con lo Stato;
l’eliminazione dei rappresentanti dei residui
partiti e raggruppamenti sovietici diversi dai
bolscevichi quando la guerra civile era ormai
finita (e quando ormai questi stessi gruppi erano
stati tollerati durante la guerra civile a
condizione che non confluissero nelle file della
controrivoluzione); la soppressione del
tradizionale diritto dei membri del partito
bolscevico di formare frazioni. Si potrebbe dire
più in generale che dopo la fine della guerra
civile e l’avvio della NEP Lenin sopravvalutò i
pericoli immediati di un allentamento della
disciplina di partito e sottovalutò il pericolo che
la soppressione delle libertà politiche per le
tendenze non bolsceviche e la limitazione
della democrazia interna del partito bolscevico
potessero accelerare il processo di
burocratizzazione che egli giustamente temeva.
Le radici di questo errore riposano precisamente
in una certa esagerata convinzione che il partito
difendesse automaticamente le conquiste del
proletariato…»
Il che non esclude peraltro che queste radici
(che non sono altro che radici giacobine) non
fossero condivise pienamente da Trockij anche
lui pervaso in quegli anni, come è noto, da
robusto e arciautoritario giacobinismo.
È ora interessante notare che Engels nel
1885, quattro anni dopo l’invio della famosa

544
missiva di Marx alla Zasulic, inviava alla stessa
Zasulic una lettera, in cui, tra l’altro, scriveva31:
«Quelli che si vantano di aver fatto una
rivoluzione devono sempre constatare il giorno
dopo che non sapevano affatto ciò che stavano
facendo e che la rivoluzione fatta in realtà non
somigliava affatto a quella che avrebbero voluto
fare».
Se ciò fosse veramente applicabile alla
rivoluzione bolscevica (e si è visto quanto
somigliasse in realtà poco il doporivoluzione a
quanto ipotizzato nelle Tesi di Aprile o in Stato e
rivoluzione) potremmo rilevare una singolare
coincidenza.
Come cioè la mite giustiziera di Trepov32 fosse
stata destinataria di due storiche lettere dei
padri del marxismo: luna di Marx sulla
rivoluzione possibile e mai realizzata. L’altra di
Engels su quella realizzata ma stravolta.
E ciò a causa dello stesso marchio che aveva
armato la mano alla terrorista Zasulic e per cui
colpa lo stesso populismo era stata sconfitto: il
giacobinismo.



1
Si veda anche Discours et rapports de
Robespierre a cura di G. Vellay, Paris 1908 e
Matiez, Bolscevisme et giacobinisme, Paris 1921.
2
Marx-Engels, Historisch - Kritische
Gesammtausgabe, parte i-vii, p. 423.
3
Marx-Engels, Opere complete, vol. VII, p.

545
324.
4
Marx-Engels, Historisc ecc. op. cit., parte
I, p. 348.
5
Potrebbe dirsi che non è stato mai a
sufficienza svelato, nel movimento rivoluzionario
del secolo scorso e oltre, che le categorie
politiche del giacobinismo, nella sostanza, non
sono altro, in larga parte che quelle
dell’assolutismo cambiate di segno (si veda F.
Battistrada, La prima internazionale e
l’esperienza populista, cit., Genova 1975).
Mentre per quanto riguarda il movimento
comunista contemporaneo è da riconoscere che
il partito comunista italiano è quello che per
tradizione (dopo Bordiga) si è più impegnato,
nella teoria come nella pratica, sul terreno della
saldatura tra democrazia e socialismo.
6
Scritti politici, cit., pp. 607-631.
7
Qualora la posizione dei primi marxisti
russi, dei socialdemocratici e dei bolscevichi non
fosse stata quella della intolleranza antagonistica
nei confronti del movimento politico contadino,
la stessa componente terroristica di quel
movimento avrebbe finito con l’essere
emarginata ed espulsa.
8
Lenin, Opere complete, vol. iv, p. 108.
9
V. Strada, op. cit.: «Giacobinismo e
socialdemocrazia di L. Trockij», pp. 418-443.
10
Bunyan-Fischer, The bolshevik revolution
1917-18, Sanford 1934, p. 364.
11
Carr, op. cit., p. 153.
12
Luxemburg, Scritti politici, cit., Bedeschi,

546
op. cit., p. 20.
13
Carr, op. cit., p. 507; Lenin, Opere
complete, vol. xxii, pp. 516-7.
14
Come «doloroso prezzo» per la
costruzione del Socialismo, di una società di
eguali.
15
Sarà l’incubo del morente Lenin che non
seppe superare la contraddizione.
16
Carr, op. cit., p. 159.
17
Ibidem, p. 160. Si veda anche Anweiler,
op. cit., p. 425: «II 14 giugno 1918 il comitato
esecutivo panrusso decise di escludere dalle
proprie file i menscevichi e i socialisti
rivoluzionari di destra e ordinò ai Soviet locali di
fare altrettanto (Bunyan, op. cit., p. 191). La
decisione fu giustificata con la partecipazione
dei socialisti rivoluzionari alla insurrezione della
legione cecoslovacca e alla creazione del
comitato dei membri dell’Assemblea costituente
famosa (ibidem, p. 283). Nelle settimane e nei
mesi seguenti i due partiti socialisti furono
espulsi dai Soviet locali e quando furono indette
nuove elezioni la loro candidatura fu vietata». E
a p. 421: «In precedenza era stata votata una
risoluzione che escludeva dai Soviet i gruppi del
partito socialista rivoluzionario di sinistra
responsabili dell’attentato e dell’insurrezione. Il
15 luglio il comitato esecutivo centrale panrusso
confermò la decisione. Con ciò i bolscevichi
restavano l’unico partito legale in Russia a parte
alcuni gruppi di sinistra senza importanza che
venivano tollerati». Pag. 430: «In una lettera
aperta la Spiridonova affermò che i bolscevichi

547
per il loro cinismo nei confronti dei Soviet e
disprezzo dei diritti costituzionali erano ‘i veri
ribelli contro il potere sovietico. I consigli
devono essere un barometro sensibile in stretto
contatto con il popolo; le elezioni debbono essere
perciò assolutamente libere e il libero gioco della
volontà del popolo deve essere assicurato; solo
allora ci sarà una forza creativa, una nuova vita,
un organismo vivente…’. I socialisti rivoluzionari
di sinistra condannavano il monopolio del partito
bolscevico e il tradimento dei principi socialisti
della rivoluzione d’ottobre». Pag. 434: «Non c’è
dubbio che se le elezioni di consigli dei delegati
degli operai fossero state libere, i menscevichi
avrebbero ottenuto verso la fine della guerra
civile, più seggi dei bolscevichi; gli stessi
dirigenti bolscevichi ammettevano del
resto apertamente che la maggioranza degli
operai russi era anticomunista».
18
Carr, op. cit., pp. 161-6.
19
Ibidem, p. 17.
20
Lenin, Opere complete, vol. xxxv, pp. 612-
13.
21
Il PCUS nelle risoluzioni, Mosca 1931. Vol.
I, p. 306. Si veda anche Carr, op. cit., p. 214. E si
veda anche Anweiler, op. cit., p. 447.
22
Lenin, Opere complete, vol. xxiv, pp. 423-
5.
23
Il PCUS nelle risoluzioni, pp. 527-30;
Lenin, Opere complete, vol. xxvi, pp. 259-61;
Carr, op. cit., pp. 196-198.
24
Carr, op. cit., p. 190.
25
X Congresso PCUS, p. 540.

548
26
Daniels, op. cit., p. 229.
27
Izvestija Ck., marzo 1922; Carr, op. cit.,
pp. 204-5; Daniels, op. cit., p. 249.
28
Carr, op. cit., p. 223.
29
Ibidem.
30
Mandel e altri, Il marxismo di Trockij,
Bari 1970, pp. 62-65.
31
The selected correspondence of Marx and
Engels, 1942, pp. 447-48.
32
Richard Pipes nel già citato Struve: liberal
of left 1870-1905 riporta sulla Zasulic, quanto al
sentimento che essa nutriva verso Lenin, questo
parere di Struve: «Moltissimi hanno avuto la mia
stessa impressione riguardo a Lenin. Mi limiterò
a citarne due, molto diversi tra loro: Vera Zasulic
e Michail Tugan -Baranovsky; la più intelligente
e acuta fra tutte le donne che ho conosciuto
aveva per Lenin un’antipatia che rasentava la
repulsione. Il dissenso politico che scoppiò poi
tra loro fu dovuto non soltanto a divergenze
teoriche e tattiche, ma anche alla profonda
diversità della loro natura.
Michail Tugan-Baranovsky col quale sono
stato per molti anni in stretti rapporti, con quel
candore che gli era abituale e che molti
ingiustamente scambiavano per semplice
stupidità, mi parlava spesso della sua irresistibile
antipatia per Lenin. Avendo conosciuto il fratello
di Lenin, Alexander Ulianov, con il quale anzi
era stato in rapporti di amicizia… egli soleva
indicare con una meraviglia che rasentava
l’orrore, quanto diverso fosse stato Alexander
Ulianov dal fratello Vladimir. Il primo con tutta

549
la sua saldezza e dirittura morale, era pieno di
sensibilità e di tatto, anche verso gli sconosciuti
e gli avversari, mentre l’asprezza
dell’altro sconfinava nella crudeltà». Mentre
Struve stesso così si esprimeva nei confronti di
Lenin: «L’impressione che Lenin mi fece al primo
incontro—e che mi è restata per tutta la vita—fu
sgradevole. L’asprezza non era il suo lato più
urtante. Nel modo in cui Lenin trattava chi
considerava suo avversario, c’era qualcosa di più
di una normale asprezza, una specie di derisione
in parte voluta in parte spontanea, connaturata,
che saliva irresistibilmente dalle profondità del
suo essere… Più tardi, mi è capitato di avere
molto a che fare con Plekhanov. Anche lui aveva
un’asprezza che rasentava il disprezzo verso le
persone che voleva colpire o mortificare. Eppure
in confronto a Lenin Plekhanov era un
aristocratico… In Lenin l’asprezza e la crudeltà…
erano indissolubilmente legati, sul piano
psicologico, sia istintivamente che
ragionatamente, al suo indomabile amore per il
potere… Il primo anello di quella catena era il
potere nella stretta cerchia dei suoi amici
politici». Sul rapporto politico tra Lenin e la
Zasulic si legga anche G. Migliardi op. cit., pp.
29-30.

550
Epilogo secondo

IL GIACOBINISMO ECONOMICO






Si è visto nella parte iniziale come la
questione di gran lunga prioritaria nella
polemica tra populismo e marxismo russo fosse
stata quella della possibilità o meno di «saltare»
in Russia la fase capitalistica.
Per i populisti era possibile il diretto
passaggio della Russia della seconda metà del
secolo xix a una fase tendenzialmente socialista
(e il loro errore—ma non era la posizione di tutti
—appariva quello di ritenere impossibile, in un
paese arretrato come la Russia, lo sviluppo
capitalistico)
Per i marxisti russi invece ciò non poteva
realizzarsi in quanto in Russia lo sviluppo
capitalistico era già iniziato e ormai esso
avrebbe compiuto il suo corso «naturale».
Da queste pregiudiziali teoriche erano nate le
due diverse strategie.
Per i populisti di Zemlja i Volja (e del Cernyj
Peredel) una organizzazione rivoluzionaria che
riuscisse a mobilitare le masse contadine e
operaie per il possesso della terra e delle
fabbriche verso l’autogoverno e il socialismo.

551
Per i marxisti e i socialdemocratici russi
un’organizzazione rivoluzionaria «che dirigesse il
proletariato urbano e i suoi alleati contadini
nella rivoluzione democratico-borghese, nella
prima fase. Che dirigesse il proletariato urbano e
il proletariato contadino nella rivoluzione
socialista, nella seconda fase».
Ora si è visto, come in effetti, nella realtà
sociale russa, dopo la riforma del ’61, esistessero
una serie di valori e di ideologie (connotati da un
forte sentimento di primitivismo cristiano), di
bisogni, di istituti e di rapporti sociali, ereditati
dalle vicende storiche precedenti che pur in
forma primitiva e spesso deformata,
rappresentavano—come direbbe Gramsci—nel
tessuto della «società civile», «elementi di
fortezze e di casematte» che resistevano ad
essere assunte nella logica individualistica di uno
sviluppo capitalistico e che al contrario,
potevano costituire (e in questo senso la «società
civile» russa era tutt’altro che «gelatinosa»)
anche per la loro intrinseca natura primordiale
socialistica, i punti di forza, come aveva
detto Marx nell’ ’81, della «rigenerazione sociale
della Russia».
Si doveva dunque far leva su questa
predisposizione sociale «istituzionale» e ideale
alla resistenza contro lo sviluppo capitalistico, su
quell’introiettato «umanesimo cristiano», che era
anche predisposizione a uno sviluppo di tipo
socialistico, nonché sullo stato di
asservimento brutale delle moltitudini contadine
e degli strati operai per costruire un saldo blocco
sociale antifeudale e antiautocratico, egemone

552
sull’intera società nella lotta per il socialismo?
Oppure si doveva «accelerare» lo sviluppo
capitalistico eliminando i «residui feudali» e far
leva sulle contraddizioni di questo sviluppo per
realizzare la rivoluzione borghese prima e
socialista poi attraverso un’ideologia per molti
aspetti esterna a quelle masse che dovevano
essere le protagoniste della trasformazione?
Il populismo, d’altra parte, si guardava bene,
al contrario degli slavofili, di identificare e
mitizzare l’insieme delle forme, tradizioni
e istituzioni delle masse contadine come
autentica espressione di autonomia sociale,
ideale e culturale; ma di quel mondo contadino
riteneva possibile salvaguardare e sviluppare,
contro quanto di conservatorismo era in esso,
quegli elementi di spirito solidaristico e
cooperativistico, di egualitarismo che
dominavano il villaggio russo assieme a quelli del
primitivo comunitarismo e autogoverno, in
quanto essi soli avrebbero potuto assicurare una
partecipazione sociale e politica delle masse
agricole in prima persona in direzione di
una attiva affermazione di valori alternativi a
quelli feudali e capitalistici e di una profonda
trasformazione della società russa verso il
socialismo; in un processo che soltanto in tal
modo2 avrebbe potuto fare delle masse le
protagoniste della loro emancipazione e non
l’oggetto di una «dittatura rivoluzionaria».
Sicuramente dunque nel giudizio che essi
davano della realtà russa, non erano loro «i
romantici economici» e gli «utopisti reazionari»
che il giovane Lenin beffeggiava; ma erano essi a

553
recuperare nella realtà della Russia, e del tutto
«concretamente», quanto a ogni livello, fosse
esso sociale, ideale e istituzionale, potesse
essere recuperato a facilitare la lotta per il
socialismo.
Mentre un elemento di rigido negativo
«utopismo» era certamente da individuare
nell’ortodosso schema marxiano in cui i
plekhanovisti volevano ad ogni costo imbragare
la recalcitrante e restia realtà russa. A questo
proposito potrebbe dirsi che ciò che E. Majmin
scrive3: «utopia per utopia non fu tale anche
l’idea di dare delle forme politiche occidentali
alla Russia del 1905 e del 1917»?, potrebbe
estendersi anche allo schema leniniano fino,
perlomeno, al 1905 e oltre.
In ogni caso malgrado le posizioni di Lenin e il
suo principio della «smicka» (dell’alleanza operai
contadini) si differenziassero da quelle
tradizionali della socialdemocrazia europea, esse
non riuscirono a cogliere neppure dopo le
autocritiche del 1905-1907, la vera realtà dei
rapporti di classe in Russia e la legittimità
storica della espressione politica autonoma delle
masse contadine russe.
E si è già detto come appaia assurdo che
quelle due strategie abbiano continuato ad
affrontarsi aspramente per una serie di
generazioni senza mai riuscire a saldarsi in un
punto di contatto ma anzi scontrandosi fino alla
rottura completa invece d’integrarsi
criticamente.
E l’una, la populista, mantenendo la sua
matrice terrorista, finendo col cancellare, nei

554
fatti, nella sua ala destra, specie nel corso del
1917, la parte autenticamente socialista della
sua pratica politica, l’altra non riuscendo mai ad
avere una strategia in fase con la situazione di
classe delle campagne e una sua presenza e
influenza nella popolazione contadina ma
divenendo il partito giacobino del proletariato
urbano.
Si è visto, del resto, come «l’occasione
storica» da cogliere cui si riferiva Marx nelle sue
bozze dell’’81 alla Zasulic4, e le sue indicazioni di
straordinaria rilevanza teorica in esse contenute,
non ebbero modo di avere influenza alcuna sul
movimento rivoluzionario russo come sullo
stesso movimento comunista nel suo complesso.
L’annientamento della Narodnaja Volja, dopo
l’uccisione di Alessandro II e il tremendo trauma
politico che ciò significò per tutti i circoli
rivoluzionari russi, disperse per un ventennio il
movimento populista e spinse a un ripensamento
dei fondamenti della loro azione politica non
tanto i sopravvissuti, quanto le prime leve
marxiste.
In questo processo finì per essere travolto
quanto di maturo e attuale il filone democratico-
rivoluzionario populista aveva
elaborato attraverso la sua avanzatissima
esperienza rivoluzionaria anche rispetto a
quanto veniva espresso dagli allora
contemporanei movimenti socialisti europei.
Il marxismo russo in definitiva acquistò una
sua identità politica e teorica sostanzialmente
nell’accanita opposizione e nel globale rifiuto
dell’ideologia populista nel suo insieme e in un

555
suo indiretto deterministico «filocapitalismo».
La conseguenza fu che quell’occasione storica
preconizzata da
Marx, non fu colta e la grande rivoluzione del
1905-7 fu sconfitta. Al contrario la successiva
riforma Stolypin contro la obscina riuscì nel suo
scopo di iniziare a disgregarla e di far avanzare
una stratificazione di contadini-proprietari
all’esterno dell’obscina.
In realtà la trasformazione di circa 2 milioni
di contadini5 russi prima inseriti nelle Comuni
rurali, in proprietari mutò, in parte, il tessuto
sociale delle campagne russe e quegli elementi
di freno e di resistenza anche ideale allo sviluppo
capitalistico tesero ad attenuarsi. Nel mentre
che nei grandi centri industriali altre
differenziazioni si producevano e si andavano
accentuando.
La rivoluzione del ’17, d’altro canto,
liquidando il latifondo e distribuendo
individualmente la terra ai contadini secondo il
programma «socialrivoluzionario», aveva
prodotto un rifiorire delle strutture comunitarie
del villaggio russo6.
Diveniva dunque non impossibile far scaturire
dall’interno di un mondo contadino che non era
grandemente mutato nelle tradizioni, negli
istituti, nei rapporti sociali, e nel suo tessuto
ideale, politico e culturale, (tanto che le sue
istituzioni comunitarie erano ancora robuste nel
’29, alla vigilia della «collettivizzazione forzata»),
una alternativa globale di rinnovamento e di
cooperativismo e una strategia socialista che nel

556
medio-lungo periodo sapesse affrontare le
terribili strozzature accumulate, nelle
difficilissime condizioni in cui il processo
rivoluzionario si svolgeva, superando gli errori
soggettivi del passato e del presente.
Il nodo di una costruzione socialista era ormai
quello di attrarre il kulak, attraverso il blocco
contadini medi-contadini poveri; nelle comuni
agricole, nelle aziende collettive e nelle aziende
cooperativistiche in modo da neutralizzarlo o
recuperarlo progressivamente, e far prevalere
una logica non individualistica nella conduzione
della gestione agricola e della vita degli
aggregati rurali.
Quando nel ’19 il partito bolscevico individuò
in parte questa strategia, la situazione era ormai
estremamente deteriorata non solo dalle
difficoltà scaturite dalla guerra civile e dalla
diminuita produttività agricola a causa della
parcellizzazione terriera seguita alla rivoluzione.
Ma anche dagli antichi errori di tutta la
precedente politica agraria che non aveva mai
consentito di fare del partito bolscevico un
centro presente e attivo nelle campagne; nonché
dai recenti irreparabili errori del «comunismo di
guerra» con le sue lacerazioni, d’incalcolabile
portata negativa, indotte nelle campagne e nelle
città. Ed era compromessa, soprattutto per
l’avvenuta rottura con i socialisti rivoluzionari di
sinistra dovuta nella sostanza al mai allettato
riconoscimento del ruolo politico autonomo delle
masse contadine.
L’asserragliarsi in seguito alla crisi di Brest
Litovsk, alle terribili condizioni del trattato di

557
pace (e alla conseguente irreparabile frattura coi
socialisti rivoluzionari di sinistra), e poi, alla
guerra civile, nel giacobinismo politico ed
economico (che nelle campagne assunse la forma
del comunismo di guerra), nasceva in particolare
dal non aver, la strategia bolscevica del ’19-’20
sia nelle campagne verso i contadini medi che
nel superamento della dittatura giacobina,
un valido retroterra di posizioni teoretiche e
ideali, di tradizione e mentalità, di volontà
politica tale che il perseverare in quella
strategia, correggerla, perfezionarla e integrarla
nel confronto con i socialisti rivoluzionari di
sinistra e con le altre componenti del movimento
socialista russo, apparisse, qual era, l’unica
prospettiva praticabile di costruzione socialista.
E tale che la democrazia politica non apparisse
un «lusso borghese» ma l’unico mezzo per
perseguire il socialismo e il protagonismo dei
soggetti sociali.
Al contrario si è rilevato come le posizioni di
Lenin e della maggioranza bolscevica sull’intera
gamma dei problemi della transizione fossero
mutuate, soprattutto dallo statalismo
centralistico della socialdemocrazia tedesca e
dall’industrialismo stesso, mediate entrambe, da
una forte accentuazione giacobina e blanquista7.
Lenin in definitiva, possedeva una
contraddittoria e composita strategia della
transizione, ma aveva in sommo grado
l’eccezionale capacità di fronteggiare, pungolato
dalla catena delle necessità, le situazioni più
difficili.
Ma l’humus culturale e teorico sul cui terreno

558
nascevano e venivano formulate le sue
indicazioni e le sue decisioni era quello che si è
detto8.
All’opposto il movimento populista di 50 e 60
anni prima aveva a lungo combattuto e rifiutato
l’applicazione meccanica, ad una società rurale
arretrata, dello schema di sviluppo capitalistico,
dell’industrializzazione «alla maniera inglese».
Esso aveva intuito che l’essenza di un
processo di sviluppo non capitalistico ma
socialista era costituito dalla creazione e dal
recupero di rapporti sociali tali che
permettessero l’utilizzazione integrale e
l’integrale liberazione delle forze produttive
esistenti e tali che saldassero democrazia e
socialismo.
In un paese di assoluta prevalenza contadina
ciò non poteva significare altro, in primo luogo
per la politica agraria, che l’impiego totale e «
produttivo» della forza lavoro delle campagne
attraverso forme di organizzazione del lavoro e
sociali che superassero la parcellizzazione della
terra e la spaventosa arretratezza della
conduzione agricola (gran parte della terra era
arata col chiodo!) in direzione di una coltivazione
cooperativa su piccola e media scala e su
larga scala, con tecniche gradatamente
meccanizzate e aggiornate e attraverso la
creazione nelle campagne, con un’assistenza
adeguata e la cooperazione degli stessi
contadini, di piccole e medie industrie. E
ciò all’interno delle strutture di autogoverno del
villaggio russo.
Contro le difficoltà dell’avvio di un tale

559
processo in paesi dove era già avvenuta la
rivoluzione agraria borghese, i populisti avevano
affermato che la Russia possedeva l’inestimabile
vantaggio di una organizzazione della vita
contadina basata sul possesso comune della
terra e su tradizioni e forme primitive di
autogoverno e associazionismo.
Che perciò la forma di vita del villaggio russo
avrebbe potuto favorire irresistibilmente una
rivoluzione antifeudale di tipo socialista, un
processo cioè di trasformazione sociale che
avesse fatto perno su quelle forme e istituzioni e
su quel mondo culturale fondato sul
comunitarismo, sull’uguaglianza e su principi di
solidarietà. E che questo era l’unico modo
possibile per far avanzare un processo di
costruzione socialista attraverso la
partecipazione e l’iniziativa, via via più attiva e
organiche, delle grandi masse arretrate. L’unico
modo in cui esse stesse avrebbero, in prima
persona lottato, liberando i propri tradizionali
organismi e le stesse loro ideologie da ogni tipo
di subalternità culturale, sociale e politica, per
divenire protagoniste di quella trasformazione e
della propria emancipazione.
Essi avevano capito che tutto dipendeva dal
come il peso enorme di quel mondo ideale e
sociale e il suo carattere di protocomunismo
cristiano che aveva alle spalle secoli di
tradizioni, fosse riuscito a volgersi in direzione e
al servizio di uno sviluppo socialista che ne
avesse saputo preservare l’essenza ideale e certe
forme e certe istituzioni, mondate dai rapporti
servili verso la grande proprietà terriera e

560
l’autocrazia. E nello stesso tempo che ne avesse
saputo rivitalizzare gli elementi di solidarismo,
cooperazione e autogoverno verso nuovi e
superiori livelli. Che dunque fondamentale e
prioritario era il fatto di riuscire a salvaguardare
e favorire un’identificazione emotiva e
comportamentale delle masse contadine in forme
di socialismo progressivamente evolventesi che
assumesse in sé le base del loro mondo culturale
e istituzionale così che esse potessero nel
socialismo9 riconoscersi e non rimanerne
estranee ed emarginate 10.
Il nodo assolutamente discriminante era
perciò che l’accumulazione primitiva su
«prelievo contadino» non divenisse il «modello di
sviluppo» ma che il motore dello sviluppo fosse
costituito dall’adozione e dall’attiva
partecipazione delle masse contadine a un
modello di crescita in cui non solo si
identificassero ma che perciò stesso (per il fatto
stesso che i contadini partecipavano al modo di
produzione della loro esistenza), avrebbe
permesso il «decollo» dello sviluppo agricolo e
dell’industrializzazione rurale come prima fase
11
.
Esisteva cioè un’alternativa12 allo sviluppo
capitalistico incentrata sull’iniziativa e
13
partecipazione dal basso a livello di massa
che assistita, sollecitata, orientata, gradatamente
avrebbe liberato un patrimonio incalcolabile di
energie intellettuali e comportamentali (da
sempre condannate alla passività e alla staticità
e da sempre coatte a un modo di essere
eternamente parzializzato e subalterno) e il

561
cui ritmo di crescita sarebbe stato imprevedibile.
Scartata e rifiutata da parte dei marxisti russi
questa via che al contrario avrebbe potuto essere
integrata dalle loro analisi e dal loro apporto,
essi, e dopo di loro i socialdemocratici russi e
infine i bolscevichi, avevano ormai amputato dal
loro patrimonio teorico l’ipotesi di una possibile
costruzione socialista basata su rapporti sociali e
politici che permettessero l’utilizzazione
integrale delle forze produttive disponibili14.
Ancora una volta respinte e distrutte le
istanze provenienti dalla sinistra comunista, che
rappresentavano la faccia operaistica di
quella stessa tematica, ai bolscevichi non
sarebbe rimasta che la strada del «giacobinismo
economico», lo sviluppo centralizzato
dell’industria «su prelievo contadino», che
avrebbe riprodotto inevitabilmente, assieme a
tutti i fenomeni di autoritarismo politico e
sociale, i processi d’ineguaglianza e di divisione
tra città e campagna, industria e
agricoltura, zone arretrate e zone sviluppate,
mansioni intellettuali e manuali, allontanando
indefinitamente quel processo di liberazione
sociale che Marx aveva indicato come fine del
socialismo.
Privato della elaborazione teorica e politica di
parte del movimento socialista, (a partire dalla I
Internazionale) il giacobinismo politico ed
economico dei bolscevichi, non avrebbe mai
potuto ammettere e intravedere, perché non
rientrava nel loro orizzonte culturale, come in un
mondo arretrato i comportamenti di staticità e
passività, sono zavorra mille volte più pesante (e

562
più difficilmente trasformabili) della scarsità
d’investimenti e di macchine.
Come cioè la chiave di volta di uno sviluppo
socialista e comunista in Russia non potesse
essere altro che un sistema di rapporti sociali e
politici tali da coinvolgere culturalmente,
emotivamente e politicamente il mondo
contadino e non solo quello operaio.
Così che quel sistema attingesse l’embrione
del proprio modo di essere e delle proprie forme
di relazione e di organizzazione, anche dal
mondo e dalle stesse strutture di vita del
villaggio russo. Lenin in uno degli ultimi scritti
del ’23, prima della paralisi definitiva, «Sulla
cooperazione», contro l’ortodossia marxista e
contro le sue precedenti posizioni, scriverà un
inno alla cooperazione, l’idea-forza
del populismo!
«Ora—scriverà—abbiamo il diritto di dire che
il semplice sviluppo della cooperazione si
identifica per noi con lo sviluppo del socialismo».
Ma la sorte riservata dal partito bolscevico a
questo «testamento politico» sarà la stessa
riservata dai marxisti russi alla lettera di
Marx alla Zasulic!
Potrebbe dirsi in conclusione che le
distorsioni più profonde che ebbe a subire il
primo movimento socialista vittorioso, quello
russo ispirato a Marx e a Lenin, si siano prodotte
a causa della rimozione che in esso avvenne, di
una «svolta» teorico-politica che sia Marx che
Lenin avevano intravisto ciascuno alla vigilia
della morte.

563
A posteriori la dimostrazione di ciò sarà che
né Bucharin né Preobrazenskj (Stalin) pur
esprimendo due diverse linee di modernizzazione
della società sovietica, rappresenteranno mai
una compiuta alternativa socialista e cioè una via
«russa» al socialismo 14 bis.
Anche se non rientra nei limiti di questo
scritto è forse utile accennare che l’unica linea di
crescita economica che in qualche modo si
rifacesse a un indirizzo del tipo sopra
sintetizzato, (che pur era sotterraneamente
egemone nelle campagne), fu quella che
vivacchiò, al di fuori e in alcuni settori del
partito, nell’ambito di prestigiosi istituti
specializzati, tra il 1919 e il 1929. E più
precisamente quella che fece capo al direttore
dell’istituto della Konjunctur, Kondratiev; e al
direttore dell’istituto per la ricerca scientifica
dell’economia rurali Chajanov.
Essi si batterono, nei modi che erano loro
concessi, per la assoluta priorità dello sviluppo
dell’agricoltura attraverso la difesa della azienda
agricola individuale, verso la cooperazione: col
provento delle esportazioni agricole si sarebbe
finanziata la meccanizzazione agricola e una
industrializzazione razionale. Carr e Davies ne
Le origini della pianificazione sovietica fanno
ripetutamente riferimento a tale posizione e
ne riportiamo un accenno significativo 15:
«Sokolnikov all’interno del partito e Kondratiev
al di fuori di esso ripetevano di tempo in tempo
la nota tesi che si dovesse considerare priorità
primaria lo sviluppo della produzione agricola
onde poter sostenere la spesa delle importazioni

564
di attezzatura industriale».
Ma ormai anche queste posizioni erano
sfasate rispetto alle differenziazioni sociali che la
NEP aveva già prodotto nelle campagne per cui,
nell’impossibilità di un organico sistema di
cooperazione nel breve periodo 16, calato nelle
strutture comunitarie del villaggio russo, essa
avrebbe significato soltanto, attraverso la
politica buchariniana, un ulteriore rafforzamento
della posizione sociale dei kulak.
Quelle posizioni erano peraltro ugualmente
sfasate rispetto all’opinione dell’assoluta
maggioranza dei bolscevichi anche se erano
condivise 17 oltre che da Sokolnikov (e per certi
aspetti da Bucharin), da Smirnov, da Frankin,
ecc. ecc.
Rimane pertanto scontato come dovessero
finire per essere sconfessate dallo stesso
Bucharin che pur le condivideva in parte e
finissero così con lo scomparire definitivamente
dal dibattito teorico e politico della Russia
staliniana. La via era spalancata per la
collettivizzazione forzata di massa e per il
definitivo stravolgimento del villaggio contadino
russo.
Terminava così l’antica idea marxiana e quella
ancora più remota degli “intellettuali organici”
delle masse contadine, dei populisti, «convinti
che la Russia potesse saltare la fase capitalistica
dello sviluppo e trasformare le comuni di
villaggio e i liberi gruppi cooperativistici degli
artigiani in associazioni di produttori che
avrebbero costituito l’embrione della nuova

565
società socialista» 18.
«Utopia di cui il principio si identificava con
la comune rurale, comune naturale idealizzata e
che non è stata ancora estraniata
dai meccanismi capitalistici e non è stata
assoggettata alla «divisione sociale del lavoro»
19
.
Ma con la fine di quell’«utopia» si sarebbero
anche inasprite irreparabilmente le
contraddizioni principali della società sovietica:
quelle tra città e campagne, industria e
agricoltura, operai e contadini, intellettuali e
partito, partito-Stato e corpo sociale. E quasi
simbolicamente l’ultima discussione sul
movimento populista si sarebbe tenuta nel ’30-31
in concomitanza con la «collettivizzazione»
forzata allora in corso 20.
Un vecchio populista J. A. Teodrovic e un
leninista del ’17, V. I. Nevsky furono i
protagonisti di quel dibattito e per l’ultima
volta21.
«Si udirono le voci stesse dei sopravvissuti del
movimento rivoluzionario ottocentesco, dei
membri populisti della “società dei condannati ai
lavori forzati e alla deportazione”». «Ma nel ’35,
’36 tutti quegli uomini erano già tutti scomparsi,
uomini, istituzioni, case editrici, idee ecc.».
E Zdanov potrà riferire, il 25 febbraio 1935 al
comitato cittadino di Leningrado il parere di
Stain: «Se educhiamo i nostri giovani
sugli uomini di Narodnaja Volja tireremo su dei
terroristi». Furono interrotte le edizioni delle
opere di Bakunin, Lavrov, Michailovsky, Tkacev

566
e la rivista Katorga Issylka fu chiusa.
Nel ’37 Jaroslavskj, rivolgendosi ai giovani del
Komsomol, declamava22: «I giovani membri del
partito e del Komsomol non sempre sanno e non
valutano il significato della lotta che per decenni
il nostro partito, superando l’influenza del
populismo, condusse contro di questo,
annientandolo come il peggiore dei nemici del
marxismo e della causa tutt’intera del
proletariato».
Sarà solo dopo la morte di Stalin e soprattutto
dopo il xx Congresso del PCB che potrà
riprendere, dopo un ventennio di silenzio e di
deformazioni, quel dibattito sul populismo degli
anni ’70 e ’80. E sotto il riparo delle sparse
citazioni di Lenin sui «predecessori della
socialdemocrazia e del socialismo russo» fu
ripreso un fitto dialogo con quella tradizione. Per
cui l’aggiornato saggio di S. S. Volk e S. R.
Micylova,23 La Storiografia sovietica sul
populismo rivoluzionario degli anni ’70, ‘80 del
xix secolo potrà terminare con queste parole:
«Dopo aver ristabilito un apprezzamento
complessivo favorevole sul populismo
rivoluzionario gli studiosi sono a poco a
poco passati a indagarlo in dettaglio e in modo
più approfondito».
E in realtà a quella deleteria posizione degli
anni ’30 si sta lentamente e spesso
appassionatamente sostituendo una seria
valutazione storiografica e a volte, addirittura,
l’orgogliosa riscoperta di un proprio avvincente
passato e di una tradizione di pensiero e di
azione politica che non solo riesce a chiarire

567
quali furono le scelte politiche e le scelte
intraprese in quel passato e in quello più recente
ma anche a gettare un barlume sulle
drammatiche contraddizioni del presente.
Senza dubbio un’intellighentia che riesca a
riprendere il filo rosso di quella tradizione, a
riesumare la funzione rivoluzionaria che essa vi
ebbe, a esprimere e a saldarsi ai bisogni più
profondi delle masse, unificando e politicizzando
la dimensione attuale del collettivismo sociale,
burocratizzato, frazionato e corporativizzato,
dell’immensa realtà sovietica è forse uno dei
modi, in una situazione in cui i canali di una
libera espressione politica e teorica sono
impraticabili, per rimettere in moto
l’indispensabile dialettica ideologica politica e
sociale di una società socialista.
Riaprendo lo spiraglio di un discorso a una
partecipazione dal basso a quella costruzione
verso l’autogoverno dei produttori di marxiana
memoria24.
Del resto può e dovrebbe accadere che spetti
al movimento comunista europeo, come già nello
spirito del ’48 fecero, verso il populismo russo, e
più tardi verso il bolscevismo, le correnti
rivoluzionarie marxiste, socialiste e libertarie
dell’Europa, il compito di riuscire a dare un
contributo di pensiero e di posizioni teoriche
ufficiali e non ufficiali, a un’intellighentia
sovietica che sappia ritrovare le sue antiche
radici nel maggior movimento rivoluzionario
europeo degli anni posteriori al 1861 e di
saldare, in tal modo, il colossale debito con la
storica rottura del ’17. Sembra oggi questo il

568
pregiudiziale nodo da sciogliere per restituire al
comunismo la sua archetipa immagine di riscatto
delle classi subalterne, verso la ricomposizione
del lacerato tessuto dei movimenti comunisti
socialdemocratici e di emancipazione; e verso la
costruzione pluralistica e plurinazionale di un
«ethos planetario» che sappia muovere miliardi
di persone in direzione della saldatura tra
Oriente e Occidente, tra Nord e Sud del mondo.
In direzione cioè del definitivo marxiano
passaggio dalla preistoria alla storia
dell’umanità.



1
Vorontosov per es. diceva che in un paese
arretrato ci sono poche possibilità di sviluppo
«autocentrato» del capitalismo. Vedere Marxisti
e populisti di A. Walichi, op. cit., pp. 143-154. E
di Vorontosov si legga questo passo citato
da Strada al seminario della fondazione Einaudi
su «Marxismo e populismo» del maggio ’78 a
Torino: «Quanto più tardi un qualsiasi paese
comincia a svilupparsi in senso industriale tanto
più difficilmente riesce a compiere questo suo
sviluppo in modo capitalistico» e dunque «il
processo di socializzazione del lavoro
può compiersi… in modo diverso, non
capitalistico». Si confronti il tutto con i famosi
«prerequisiti» di Gerchenkron (o di Rostow)!!
cioè l’«arretratezza» non si supera
«occidentalizzando» l’economia e le istituzioni
politiche ma attraverso una crescita

569
trasformatrice, calata nelle specificità
socioculturali e istituzionali delle situazioni reali,
che renda protagonisti i soggetti sociali di quello
sviluppo e della loro stessa liberazione.
2
Si legga V.A. Tvardoskaja, op. cit., p. 124:
«Fu così che il pensiero rivoluzionario giunse
all’importantissima conclusione che il popolo
doveva essere educato alla lotta per il socialismo
e una tale educazione doveva avvenire
attraverso le battaglie politiche e la conquista
delle libertà democratiche».
3
F. Venturi, op. cit., vol. I, p. LV da Voprosy
literatury, n. 10, 1969, p. 118. Venturi così
commenta: «Come si vede, degli echi inattesi e
profondi rispondono oggi in Russia alla risorta e
sommessa voce degli slavofili
ottocenteschi. All’inizio degli anni ’60 era stata
inserita nella rivista Voprosy literatury
un’appassionata discussione sul populismo
rivoluzionario. Alla fine del medesimo decennio,
nel 1969, si risaliva alle più lontane e prime
origini dell’intelligencija, ad un aspetto rimasto
molto tempo in ombra del rapporto tra il mondo
russo e quello occidentale, ritrovandovi il sempre
presente problema dello stato dispotico
e burocratico».
4
Ma l’espressione è contenuta nella lettera
inviata nel 1877 da Marx alla populista
Otecestvennye Zapiski.
5
Gaetano La Pira, «Classi e proprietà nelle
campagne russe tra la riforma del 1861 e
Stolypin», Annali della fondazione Luigi Einaudi,
vol. xii, 1978, p. 298.

570
6
Si vedano in particolare le opere di T.
Shanin. La statizzazione del mezzo di produzione
ovvero la nazionalizzazione della terra non
garantiva certo un processo di effettiva
socializzazione. Vale a dire i precedenti rapporti
di produzione si trasformavano socialisticamente
attraverso la democrazia socialista.
Dunque, riguardo alla divisione delle terre,
attraverso un possesso che tendesse a
socializzarsi e ad autogovernarsi. Questa era la
marxiana appropriazione sociale dei mezzi di
produzione!
7
Eppure Lenin, è noto, negli ultimi mesi di
vita ebbe dei ripensamenti e i suoi scritti lo
testimoniano, in particolare quello Sulla
Cooperazione (Vedere Lettera al Congresso, a
cura di Giuseppe Garritano, Roma 1974, pp. 85-
106). E si veda a ciò Moshe Lewin, L’ultima
battaglia di Lenin, Bari 1969; S.F.
Cohen Bucharin e la rivoluzione sovietica,
Milano 1975; C. Bettelheim Le lotte di classe in
URSS 1917-1923, Milano 1975). A. Rosemberg
nella sua Storia del bolscevismo, cit., p. 197 può
scrivere: «Mentre nel 1923 apriva con le
cooperative agrarie una strada verso il
socialismo, Lenin poteva riconnettersi a tali
concezioni di Marx (quelle sul populismo russo,
F.B.); ma nello stesso tempo tornava alle teorie
dei narodniki. C’è qualche cosa di tragico nel
fatto che Lenin, dopo aver combattuto per
trent’anni senza quartiere il movimento politico
dei populisti, alla fine della propria vita abbia
dovuto avvicinarsi alle sue concezioni. Le
necessità dello sviluppo sociale sono infatti più

571
forti della volontà delle organizzazioni di
partito».
8
Purtroppo sull’intero arco di questa
problematica l’editoria italiana compresa quella
«di sinistra» è estremamente carente. Si è visto
come sul cruciale rapporto populismo-
socialdemocrazia, bolscevismo-
socialrivoluzionarismo, le opere più significative
della storiografia anglosassone o russa non siano
state tradotte. Del saggio di Rudi Dutschke
Versuch, Lenin auf die Fusse zu stellen
(Tentativo di rimettere Lenin con i piedi per
terra) Wagenbach 1974 è comparsa soltanto nel
n. 53-54, dicembre 1974 di Quaderni piacentini,
una recensione di G. Backhaus.
9
Si legga in V.A. Tvardoskaja, op. cit., p. 109:
«La serietà con la quale i principi socialisti erano
esposti nel Programma degli operai membri del
partito Narodnaja Volja confermava in quale
sforzo profondo si fosse impegnato il
pensiero socialista russo. Le salde radici che le
tradizioni socialiste affondavano nel movimento
rivoluzionario russo garantivano l’affermarsi
delle idee socialiste anche per quanto riguardava
la prefigurazione della società futura, quella
parte cioè che era stata meno elaborata nel
pensiero rivoluzionario russo. I romanzi di
Cernysevskij Che fare? e Prologo, alcune tesi
sull’organizzazione della produzione socialista
da lui esposte negli articoli su Capitale e lavoro
(1859), l’opera di P.L. Lavrov L’elemento dello
Stato nella società futura (1876), le tesi
sostenute sulla stampa socialista—Kolokol,
Vpered, Nabat—erano ciò di cui potevano

572
disporre i narodovoltsy che volevano apprendere
l’ideale del mondo futuro attraverso la
letteratura socialista russa. Inoltre, convinti
com’erano di far parte del movimento socialista
internazionale, essi avevano studiato a fondo
anche le opere del pensiero socialista
dell’Europa occidentale.
Durante le perquisizioni e gli arresti furono
trovate opere (o estratti di opere) di Fourier, di
Saint-Simon, di Owen, di Tommaso Moro, di
Louis Blanc, di Proudhon, di Lassalle, il giornale
blanquista Ni Dieu ni maitre, e Le Révolté,
pubblicato a Ginevra da Kropotkin (1879-1882),
che vi esponeva i fondamenti del
comunismo senza Stato. Tra le opere del
socialismo scientifico la più diffusa era Il
Capitale, insieme con il Manifesto del partito
comunista e La guerra civile in Francia».
10
Tipico esempio della storica
incomprensione da parte dei vari marxismi
di ascendenza positivista del modo in cui il
mondo arcaico contadino (a partire dai riti
iniziatici primitivi fino alle religioni «storiche»)
ha espresso bisogni umani di autorealizzazione e
rigenerazione in rapporto a processi di
condizionamento sociale e inconscio. E dunque
della incapacità di assumere quel continente da
scoprire che era il comunitarismo del villaggio
russo a perno di una transizione
contro l’atomismo individualistico-borghese
verso una nuova società di tipo solidaristico e
comunitario che ne divenisse gramscianamente
«senso comune» e modo di essere.
11
Per queste tematiche si veda il già citato

573
La III internazionale e l’esperienza populista, F.
Battistrada, Genova ’75 ancora non pubblicata.
12
C. Bettelheim, «Le due accumulazioni», Il
Manifesto, n. 4, 1970.
13
Su questa tematica si leggano alcuni
scritti dell’ultimo C. Napoleoni. Ad esempio
«Commenti», La Repubblica, 16 luglio 1977:
«Qui s’incontra una questione di ciò che è
produttivo e di ciò che non lo è… Ma è proprio
qui che sorge una prima e pregiudiziale
necessità di scelta: per produttivo s’intende
‘capitalisticamente produttivo’ oppure s’intende
‘produttivo’ in un qualche altro senso che sia
socialmente più accettabile? Se si da il primo
significato, bisogna appoggiare tutte quelle
attività (segnatamente di carattere industriale)
che presentino la massima possibilità di
aumentare lungo il tempo il prodotto per
addetto, attraverso l’innovazione tecnologico-
innovativa, restando sostanzialmente indifferenti
i valori d’uso che in tal modo si otterrebbero.
Questa linea garantirebbe il maggiore sviluppo
della ricchezza materiale pro capite (di tutti, non
solo dei lavoratori produttivi) senza però
affrontare adeguatamente la questione della
qualità della ricchezza prodotta e consumata.
Oppure la ‘produttività’ è giudicata anche in
base a questa qualità, e allora si tratterebbe di
segnare nuovi criteri, e anche di assegnare la
giusta rilevanza ad attività che si svolgano fuori
dell’ambito industriale tradizionale (per es.
servizi consumabili collettivamente)… Sono
queste le questioni che una programmazione
proposta dalla classe operaia dovrebbe

574
affrontare per prime… Penso agli economicisti:
questa mano (per affrontarle) non la
daranno mai finché, sulla base di una solida
cultura anglosassone, continueranno a
considerare queste questioni come
‘metafisiche’». Oppure «Austerità, nuovi bisogni
e sviluppo della democrazia» di A. Occhetto,
Rinascita, n. 24, 1977.
14
Ernesto Ragionieri, Introduzione alla Storia
del bolscevismo di Rosemberg, pp. xiii e sgg.
14bis
. Per il seppellimento definitivo nei «paesi
dell’Est» delle «Vie nazionali» al socialismo da
parte di Stalin, si veda A. Guerra, Gli anni del
Cominform, Milano 1977.
15
Vol. I, p. 386.
16
Ma l’idea forza del populismo, «la
cooperazione», non solo fu sotterraneamente
egemone nelle campagne fino alla vigilia della
collettivizzazione forzata, ma essa è tornata
nuovamente al centro, nel dopo Stalin e
soprattutto nella seconda metà degli anni ’60, col
movimento di riforma delle campagne. Le
proposte di quegli anni di G. Venzer, V. Skredov
e altri hanno riproposto la superiorità
«socialista» del kolkhoz riformato rispetto al
sovkhoz e nella loro organicità rappresentano
tuttora i cardini di un progetto praticabile di
trasformazione dell’esistente (si vedano le
pagine di M. Lewin, Economia e politica nella
società sovietica, Roma 1977, pp. 127-227).
17
L. Valiani, «Bucharin fra Stalin e i
Kulaki». L’Espresso, 18 marzo 1973. Su Cajanov
si vedano le opere di Kerblay.

575
18
I. Berlin, Introduzione a Il populismo
russo, di F. Venturi, London, p. xxiv.
19
A. Walichi, «L’idea di progresso nel
populismo russo», Rossia, Torino 1974, p. 85.
20
Si veda in V. Strada, op. cil., nota 1, pp.
vili e IX: «Ecco che cosa scrive M.G. Sedov nel
suo saggio storiografico La letteratura sovietica
sui teorici del populismo apparso nella
miscellanea La storia e gli storici. Storiografia
dell’URSS, Mosca 1965, p. 256: ‘Nel 1935 fu
liquidata la società degli ex ergastolani e
confinati politici e fu chiuso il suo organo, la
rivista Katorga i Ssylka. Allora la rivista
Krasnyi Archiv dovette rinunciare alla
pubblicazione di materiali sul populismo.
Furono interrotte le pubblicazioni delle opere di
Lavrov, Tkacev, Bakunin e altri. Infine si cessò la
pubblicazione del Dizionario bibliografico dei
partecipanti del movimento rivoluzionario in
Russia in più volumi. Il tema del populismo fu
proibito di fatto. Nella stampa cominciò a
dominare la dottrina secondo cui il populismo e il
movimento della Narodnaja Volja erano
dichiarati fenomeni storicamente nocivi e i loro
teorici erano definiti nemici del marxismo’.
Sedov, citando una fonte d’archivio, cioè un
intervento di A.A. Zdanov alla riunione del
direttivo del comitato cittadino leningradese del
partito tenutasi il 25 febbraio 1935, fa
sapere che tali direttive storiografiche
provenivano direttamente da Stalin. Disse
infatti Zdanov in quel suo intervento: ‘Tra l’altro
il compagno Stalin non sapeva che da noi si
studia la storia del partito fino al 1917 soltanto.

576
A questo proposito egli ha fatto due osservazioni:
che se ci mettiamo a educare la nostra gente
sull’esempio dei narodovolcy, educheremo dei
terroristi e che dal punto di vista della Storia del
partito il periodo anteriore al 1917 è preistoria’».
21
F. Venturi, op. cit., p. x. E si legga anche a
pp. LXV-VI: «Ma a continuare per questa strada,
negli anni ’30 e ’40 si frapponeva evidentemente
nell’Unione Sovietica, un ostacolo di non piccola
importanza. Anche i migliori studiosi—
basti pensare alla Ignatovic—che derivavano dal
periodo prerivoluzionario o che continuavano e
sviluppavano la grande tradizione di storia
contadina, che è una delle pietre angolari della
storiografia russa, dovevano evidentemente
segnare il passo. Le rivolte dei muzik, in quegli
anni staliniani, si poteva ancora studiarle e
indagare negli archivi. Ma una reinterpretazione
dei dati, una riflessione sulla natura, il carattere,
il valore di quelle oscure ribellioni non poteva
certo essere incoraggiata allora. Dopotutto
Stalin, come era persuaso che i populisti
dovessero essere abbandonati al silenzio, così
era fermamente convinto che le rivoluzioni
contadine accettabili fossero soltanto quelle che
si compivano dall’alto. La situazione in cui si
trovava la campagna russa dopo la
collettivizzazione del 1929, non invitava davvero
a studiare le ribellioni, le rivolte che avevano
accompagnato e seguito la riforma del 1861».
22
Venturi, op. cit., I, xi.
23
Ibidem, p. x.
24
Scrive la Di Leo in Operai e fabbrica in

577
Unione Sovietica, Bari 1973, p. 80: « Ma come
restituire una funzione non solo formale alla
partecipazione operaia alla vita economica e
sociale del luogo di lavoro? Come scoprire nuove
vie, mai sperimentate, mai battute per attirare
veramente gli operai? ».

578
Indice
MARXISMO E POPULISMO 1861-1921 6
Indice 8
Prologo primo 12
Prologo secondo 17
PARTE PRIMA 20
Capitolo primo. MARX E IL POPULISMO 21
Capitolo secondo. LA STRUTTURA AGRARIA
35
RUSSA E IL MOVIMENTO CONTADINO
Capitolo terzo. IL MOVIMENTO POPULISTA E
65
L’ANDATA AL POPOLO
Capitolo quarto. LA MATURITÀ IDEOLOGICA E
96
POLITICA
Capitolo quinto. IL GIACOBINISMO RUSSO 132
PARTE SECONDA 161
Capitolo primo. LA FORMAZIONE DEL
162
GIOVANE LENIN
Capitolo secondo. LENIN SCRIVE «IL
187
CONTENUTO ECONOMICO DEL POPULISMO»
Capitolo terzo. L'«ESEGESI» DEL TESTO NON È
202
FINITA
Capitolo quarto. ALTRI SCRITTI E
220
PROVVISORIA CONCLUSIONE
Capitolo quinto. IL MARXISMO RUSSO E IL
234
MODO DI PRODUZIONE ASIATICO
PARTE TERZA 260
Capitolo primo. LA SOCIALDEMOCRAZIA
261
RUSSA ALLA FINE DEL SECOLO

579
Capitolo secondo. IL SECONDO CONGRESSO
DEL PARTITO OPERAIO 278
SOCIALDEMOCRATICO RUSSO
Capitolo terzo. LA RIVOLUZIONE DEL 1905 296
Capitolo quarto. LA RIFORMA STOLYPIN 320
Capitolo quinto. LA PIÙ ALTA FASE DEL
342
PENSIERO E DELL’AZIONE DI LENIN: IL 1917
Capitolo sesto. LE ORIGINI DELLA CRISI
352
POLITICA: GOVERNO DI COALIZIONE
Capitolo settimo. I PRIMI MESI DOPO LA
RIVOLUZIONE: LA ROTTURA CON I 371
SOCIALISTI RIVOLUZIONARI DI SINISTRA
Capitolo ottavo. IL FALLIMENTO DEL
389
«COMUNISMO DI GUERRA» E LA NEP
PARTE QUARTA 415
Capitolo primo. LA POLITICA BOLSCEVICA
416
NELLE FABBRICHE E NELL’INDUSTRIA
Capitolo secondo. BREST LITOVSK: GUERRA
436
RIVOLUZIONARIA O CAPITOLAZIONE?
Capitolo terzo. IL CAPITALISMO DI STATO: LA
452
SVOLTA DI BREST LITOVSK
Capitolo quarto. LA SCONFITTA DEI
462
COMUNISTI DI SINISTRA
Capitolo quinto. L’ALTERNATIVA POSSIBILE 472
Capitolo sesto. LO SCONTRO COI
«CENTRALISTI DEMOCRATICI» E CON 479
«L’OPPOSIZIONE OPERAIA»
Capitolo settimo. LA CRISI SOCIALE:
497
KRONSTADT
Capitolo ottavo. LA CONCEZIONE DELLO
515
STATO

580
Epilogo primo. IL GIACOBINISMO POLITICO 533
Epilogo secondo. IL GIACOBINISMO
ECONOMICO 551

581

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