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Concepito

inizialmente come la sezione


italiana di una Storia delle rivoluzioni moderne,
il lavoro del Tasca fu pubblicato per la prima
volta in Inghilterra, subito dopo (1938) in
Francia — con il titolo di Naissance du Fascisme
— e in Cecoslovacchia. Tasca vi aveva lavorato
dal ‘34 con la precisa intenzione di chiarire con
il massimo rigore le cause profonde del sorgere
del fascismo italiano, e mettere così in guardia
l’Europa democratica contro i pericoli
d’espansione del fenomeno. Testimonianza
di questa « volontà di non ammettere nessun
fatto, nessuna conclusione, su cui non avesse
raggiunto piena e documentata certezza », è il
ricchissimo apparato di note, in cui Tasca
utilizzò quasi tutte le fonti, scritte e orali, allora
disponibili.
In Francia, nel Belgio, nel mondo della
emigrazione antifascista l’opera suscitò animate
polemiche alle quali parteciparono uomini di
quasi tutte le tendenze; la rivista « Problemi
della rivoluzione italiana » promosse
un’inchiesta fra le personalità più in vista
dell’emigrazione; nelle discussioni fra le varie
correnti della SFIO la Naissance du Fascisme
entrò immancabilmente come una delle più
autorevoli analisi della situazione politica.
Il nazismo dilagante in Europa dopo il ‘39 ne
distrusse accuratamente le ultime copie
disponbili.
La prima edizione italiana, del 1950, recava il
corredo documentario soppresso nell’edizione
francese, con alcuni aggiornamenti che
avrebbero dovuto costituire i primi elementi di
un secondo volume, peraltro mai più pubblicato.
Nell’edizione del ‘50 figurava anche una lunga
Prefazione in cui erano prevalentemente trattati
i problemi della situazione politica italiana e
internazionale così come si era sviluppata dal
‘38 al dopoguerra.
Scansione a cura di Democrito

Ocr e conversione a cura di Natjus

Progetto Fascismo 2019

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Nascita e avvento del fascismo






Elezioni politiche del novembre 1919: a
Milano, sede del comitato direttivo dei Fasci e
del « Popolo dìtalia », Mussolini non riesce a
raccogliere più di 5.000 voti sul totale di
268.000; 29 novembre 1922: chiamato dal re,
l’on. Mussolini si reca a Roma per costituirvi un
governo a maggioranza fascista. Nel giro
incredibilmente breve di queste date, si
collocano il culmine e il riflusso dell’ondata
rivoluzionaria del dopoguerra, il crollo dello
stato liberale nato dal Risorgimento, l’inizio di
una dittatura ventennale. Di quel convulso
quadriennio di guerra civile, che è anche il nodo
centrale della storia dell’Italia contemporanea,
il volume del Tasca rimane tuttora la cronaca
più completa e l’unica ricostruzione d’insieme.
Dagli scioperi del ‘19 all’impresa fiumana,
dall’occupazione delle fabbriche del ‘20 alla
sistematica distruzione delle organizzazioni del
movimento operaio, dal fallimento dello sciopero
generale del ‘22 alla marcia su Roma, al
tradimento della monarchia, l’analisi dei Tasca
ricostruisce su una ricchissima base
documentaria tutti gli episodi decisivi della crisi,
e da questi risale alle grandi forze e alle cause
che ne determinarono il corso: il generale

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sommovimento sociale provocato dalla guerra;
l’incapacità dei dirigenti socialisti di fornire un
esito, insurrezionale o legale, alla spinta
rivoluzionaria delle masse;
l’offensiva capitalista, che finanzia il terrorismo
fascista nelle fabbriche e nelle campagne per
difendere gli alti profitti di guerra e ottenere il
pieno controllo della politica economica dello
Stato; la crisi della classe politica, che
rende possibile la paralisi del Parlamento e la
compromissione degli organismi statali con
l’eversione fascista.
Scritta nel clima intellettuale e politico
dell’antifascismo in esilio, di cui utilizza e
verifica le più avanzate interpretazioni del
fenomeno fascista, l’opera del Tasca segna il
passaggio dal giudizio politico, necessariamente
schematico, alla più articolata ricostruzione
storica. Essa rappresenta ormai un classico
della storiografia sul fascismo e un’introduzione
indispensabile alla conoscenza della crisi
italiana del dopoguerra.

Universale Laterza

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Prima edizione
Nascita e avvento del fascismo
con una « Prefazione all’edizione italiana »
Firenze, La Nuova Italia, 1950
Nella « Universale »
prima edizione 1965
seconda edizione 1967


© 1950 by La Nuova Italia Editrice, Firenze


edizione su licenza della Nuova Italia Editrice,
Firenze

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Angelo Tasca

(A. Rossi)

NASCITA E AVVENTO DEL


FASCISMO

L’ITALIA DAL 1918 AL 1922

con una premessa dì Renzo De Felice

volume primo

Editori Laterza 1967

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Indice

Premessa

NASCITA E AVVENTO DEL FASCISMO

NOTA PREMESSA ALL’EDIZIONE FRANCESE

Capitolo Primo. L’INTERVENTO DELL’ITALIA


IN GUERRA E LA CRISI DELLO STATO

Note al capitolo primo

Capitolo Secondo, LA RIVOLUZIONE


DEMOCRATICA DEL 1919

Note al capitolo secondo

Capitolo Terzo. MUSSOLINI E IL FASCISMO


DELLA «PRIMA ORA»

Note al capitolo terzo

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Capitolo Quarto. LA RIVOLUZIONE
TRAVERSA L’ADRIATICO

Note al capitolo quarto

Capitolo Quinto. NITTI. GIOLITTI. DON


STURZO

Note al capitolo quinto

Capitolo Sesto. GRANDEZZA E DECADENZA


DEL MASSIMALISMO

Note al capitolo sesto

Capitolo Settimo. LA CONTRORIVOLUZIONE


«POSTUMA E PREVENTIVA»

Note al capitolo settimo

Capitolo Ottavo. IL FASCISMO AL BIVIO

Note al capitolo ottavo

Indice del primo volume

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Alla memoria di mio Padre, operaio


metallurgico,
i cui ultimi anni furono angosciati dalla
vittoria del fascismo in Italia.

12
Premessa

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La Naissance du Fascisme vide la luce nel
1938 a Parigi; quasi contemporaneamente
uscivano le prime traduzioni, in inglese e in
ceco. Angelo Tasca militava allora nel Partito
socialista francese, dopo essere stato uno
dei maggiori esponenti del gruppo torinese
dell’« Ordine nuovo » e poi del Partito
comunista d’Italia, dal quale era stato espulso
nel 1929 come « oppositore di destra ». In
Francia, nel Belgio, nel mondo dell’emigrazione
antifascista l’opera fu accolta con il più vivo
interesse e suscitò animate polemiche alle quali
parteciparono uomini di quasi tutte le tendenze:
Vandervelde, Bauer, Abramovitch, Bidault,
Bure, Déat, Maurras e, tra gli italiani, Buozzi,
Morgari, Tarchiani, Campolonghi, Jacometti,
Garosci, Calosso, Lussu, ecc. « Problemi della
rivoluzione italiana », la rivista di Francesco
Volterra, promosse addirittura un’inchiesta fra
le personalità più in vista della emigrazione
sottoponendo loro tre quesiti (sulla esattezza dei
fatti esposti e sulla loro spiegazione ed
interpretazione; sui problemi tattici e politici
che vi sono analizzati; sulle conclusioni
dottrinarie e pratiche che l’autore ha creduto di
dedurne). Come ha ricordato lo stesso Tasca, «
le diverse correnti in cui era divisa la SFIO se lo

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tirarono in testa nelle loro discussioni
quotidiane e alla ribalta dei congressi…
ciascuna cercandovi quanto le serviva nelle lotte
interne di partito;…il presidente Daladier lo citò
alla Camera a proposito dello sciopero del
novembre di quell’anno, e durante più mesi da
ogni parte i leaders politici vi si riferirono per
tirar l’acqua al proprio mulino ». Gli unici a
tacere furono i fascisti e i comunisti.
La prima edizione italiana, col titolo Nascita e
avvento del fascismo fu pubblicata nel 1950.
Rispetto a quella francese, essa era corredata
da un ricchissimo apparato di note che, proprio
per la sua mole, non era stato inserito
nell’edizione originale alla quale l’editore aveva
preferito dare il carattere, più che di un vero e
proprio saggio storico, di un tagliente profilo
delle origini del fascismo, ricostruito sì con
criteri storiografici, ma anche e soprattutto con
precisi intenti di chiarificazione e di lotta
politica. Caduto il fascismo, le esigenze di studio
e di ricerca avevano ripreso nel frattempo il
sopravvento su quelle immediatamente
polemiche; da qui l’opportunità di offrire al
lettore italiano l’opera in tutta la sua
completezza documentaria: le ricche note
bibliografiche e la ricchissima appendice
documentaria preparata da Tasca sulla base di
lunghe e minuziose ricerche presso alcuni dei
maggiori esponenti della nostra emigrazione
politica e nel suo ricchissimo archivio personale
(oggi presso l’Istituto G. G. Feltrinelli). Questa
appendice avrebbe dovuto, anzi, costituire
addirittura un secondo volume che, per

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altro, non ha mai visto la luce, essendo — a
quanto pare — l’originale dell’appendice stessa
andato all’ultimo momento perduto. All’edizione
italiana del ’50 Tasca premise altresì una nuova
lunga prefazione nella quale riprendeva e
allargava il discorso già abbozzato nell’‘Epilogo
con tutta una serie di considerazioni di ordine
prevalentemente politico che traevano origine
dalla particolare situazione politica del momento
e dalle polemiche che avevano avuto luogo tra
gli antifascisti dopo il 1938 e che ancora
dividevano il movimento internazionale dei
lavoratori e i suoi partiti (polemiche nelle quali
Tasca aveva avuto parte notevole e dalle quali
era uscito come una figura « di punta » e al
tempo stesso molto discussa). Per più di un
aspetto, si può dire anzi che il successo che
arrise in Italia a Nascita e avvento del fascismo
e le critiche che esso suscitò nel pubblico non
specializzato e tra gli storici militanti furono
largamente influenzati proprio da questa nuova
prefazione che, col suo tono aggressivo
e politicamente molto impegnato, finì, all’atto
pratico, per portare in primo piano il Tasca
politico e per lasciare in ombra il Tasca storico,
e per svisare il vero e più essenziale valore
dell’opera, proiettando all’indietro giudizi
e valutazioni che nascevano da situazioni
politiche che ben poco avevano a che vedere con
quelle del 1919-22, alle quali si riferiva il libro e
da esperienze successive alla sua redazione.
Tipico è il caso di uno storico comunista che
scrisse che Tasca nel suo libro si atteneva « a
un punto di vista sostanzialmente

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socialdemocratico ». Nel complesso, si può
dunque affermare che, sia in occasione della
prima edizione francese sia in occasione della
prima edizione italiana, la « fortuna » dell’opera
di Tasca fu più politica che storiografica, nel
senso che una serie di circostanze esterne
finirono per mettere l’accento sugli
aspetti contingenti (essenziali per la biografia di
Tasca, ma secondari per una giusta valutazione
della sua opera) piuttosto che su quelli che
invece costituiscono il fatto nuovo, peculiare e
permanente della sua analisi delle origini
del fascismo. Fatto che — del resto — si è
verificato, sia pure in misura meno evidente,
anche per altri due studi dello stesso Tasca, che
per più di un aspetto si ricollegano strettamente
a Nascita e avvento del fascismo e che
costituiscono la migliore conferma della sua
personalità di storico: quello su I primi anni del
Partito comunista italiano (in « Il Mondo », 18
agosto-22 settembre 1953) e soprattutto quello
Per una storia politica del fuoruscitismo (in «
Itinerari », ottobre-dicembre 1954).
In questa situazione, la presente riedizione
vuole offrire al pubblico italiano più vasto la
possibilità di avvicinarsi senza preconcetti ad
un’opera che, a un quarto di secolo dalla sua
prima apparizione, può a buon diritto essere
considerata un classico della storiografia sul
fascismo e, nonostante i numerosi studi e
contributi particolari di questi ultimi anni,
l’unica vera storia d’insieme delle origini del
fascismo. Un’opera — destino comune a tutti i
classici — che indubbiamente sarà « superata »

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da nuovi studi e da nuove ricerche (specie ora
che si può cominciare ad accedere a tutta quella
massa di documenti pubblici e privati della
quale, ovviamente, il Tasca non poté servirsi),
ma che, altrettanto indubbiamente, è destinata a
segnare un momento essenziale negli studi sul
fascismo. Sia perché costituisce il trapasso dal
giudizio immediatamente politico, dalle
interpretazioni generali necessariamente
schematiche, al giudizio storico fondato sulla
ricostruzione puntuale dei fatti e sulla critica
dell’operato di tutte le forze in causa; sia perché
perviene a questo giudizio e a questa
ricostruzione critica — non sembri
una contraddizione — non attraverso un metodo
meramente empirico ma attraverso un
approfondimento della realtà italiana del tempo
che è squisitamente « politico » — ma non di
parte, nel senso partitico — e trova le sue
origini nella più approfondita e valida
comprensione del fenomeno fascista compiuta in
Italia negli anni nei quali il fascismo stesso
veniva definendo la sua multiforme
ed apparentemente contraddittoria realtà. È
appunto per facilitare questo avvicinamento il
più possibile spregiudicato all’opera del Tasca
che in questa riedizione, mentre si sono
mantenute le note al testo mancanti
nell’edizione francese, si è ritenuto opportuno
non ripubblicare la prefazione alla prima
edizione italiana.

Per comprendere in cosa consista la novità
dell’opera di Tasca si deve partire da due

18
affermazioni dello stesso Tasca. Del fascismo
sono state date e vengono date ancora le più
varie interpretazioni (parentesi,
rivelazione, dittatura del capitale finanziario,
reazione piccolo-borghese, ecc.) che finiscono
tutte — anche le più sfumate e apparentemente
convincenti — a fare del fascismo un fenomeno
unitario; si veda a questo proposito
l’antologia di scritti critici Il fascismo curata dal
Casucci. Contro questa tendenza interpretativo-
unitaria il primo a reagire fu proprio Tasca:
Ognuna di queste definizioni — si legge nell’Epilogo —
contiene, più o meno, qualche elemento di verità; ma
nessuna può essere accettata sic et simpliciter. E noi ci
guarderemo bene dal mettere in circolazione una nuova «
definizione »… per noi definire il fascismo è anzitutto
scriverne la storia. Abbiamo tentato di farlo per il fascismo
italiano degli anni 1919-22. Una teoria del fascismo non
potrebbe quindi emergere che dallo studio di tutte le
forme di fascismo, larvate o aperte, represse o trionfanti;
giacché vi sono più specie di fascismo, ciascuna delle quali
implica tendenze molteplici e talora contraddittorie, che
possono evolvere sino a mutare alcuni dei loro ‘ tratti
fondamentali. Definire il fascismo significa sorprenderlo in
questo divenire, cogliere la sua ’’differenza specifica ” in un
paese dato e a una data epoca. Il fascismo non è un soggetto
di cui basti ricercare gli attributi, ma la risultante di tutta
una situazione dalla quale non può essere disgiunto. Gli
errori dei partiti operai, per esempio, fan parte della ”
definizione ” del fascismo al medesimo titolo che
l’utilizzazione sua per conto delle classi dominanti.

Il « dovere politico » di studiare il fascismo in


funzione della lotta contro di esso non poteva
passare quindi per Tasca per la strada delle
solite interpretazioni, ma, al contrario, poteva
realizzarsi solo attraverso un approfondimento
sistematico di tutti i fatti e di tutte le
esperienze.

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Non v’è contraddizione — scrisse nella prefazione per
l’edizione del ’50 a proposito della reinserzione delle note
soppresse nell’edizione francese — tra questo ” apparato ”
inameno e il dovere politico a cui ho ubbidito scrivendo il
libro, poiché ricostruire un’epoca, trasferire una grande
esperienza non è possibile se gli eventi non si scompongono
prima nei loro fattori, nelle interferenze delle cose e degli
uomini, giungendo ovunque alla cellula, a quel regno del
microscopio senza cui neanche per la storia non c’è
progresso possibile.

Che questo già da tempo fosse un punto fermo


della concezione politica di Tasca è dimostrato
dalla prefazione che, un decennio prima della
pubblicazione della Naissance du Fascisme, egli
aveva scritto per l’edizione dell’ Imperialismo di
Lenin, pubblicata a Parigi dalle Edizioni
italiane di coltura sociale. La teoria leninista
dell’imperialismo « come più recente fase del
capitalismo » era per i comunisti un fatto
indiscutibile; ebbene, la prefazione di Tasca
(L’analisi leninista dell’imperialismo e
l’economia italiana) non si limitava ad accettarla
passivamente, ma — al contrario — ne era al
tempo stesso una concreta applicazione e una
verifica nella concreta situazione italiana.
Un’analisi attenta di Nascita e avvento del
fascismo permette però di spingere ancora più
indietro nel tempo la ricerca delle origini di
questa concezione politica di Tasca e di
allargare il discorso alle sue fonti culturali
e ideologiche più dirette.
Chi analizzi attentamente Nascita e avvento
del fascismo, specie le pagine nelle quali sono
esaminati i caratteri del fascismo e il loro
progressivo definirsi e quelle dedicate
all’atteggiamento dei Partiti socialisti e

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comunista verso il fascismo stesso, senza
lasciarsi influenzare da elementi esterni quali le
personali vicende politiche del loro autore dopo
il 1929 e soprattutto dopo il 1938, non può non
avvedersi che alla base della
ricostruzione storica, del giudizio di Tasca sul
fascismo e sull’operato dei Partiti socialisti e
comunista è soprattutto una continua
elaborazione, un continuo sviluppo e
arricchimento dei temi e delle posizioni che,
specialmente dalla fine del 1920 al 1926 (e, se si
vuole, sino al 1928, sino cioè al VI Congresso
dell’Internazionale comunista e allo scritto A
proposito del fascismo pubblicato a quel tempo
da Paimiro Togliatti), erano stati elaborati e
portati avanti dal gruppo gramsciano di cui
Tasca aveva fatto parte. Una lettura parallela
dei capitoli dedicati da Tasca agli avvenimenti
del ’21-’22 e delle corrispondenti annate dell’«
Ordine nuovo » e della « Correspondance
internationale », nonché dei carteggi
recentemente pubblicati da Togliatti nella
Formazione del gruppo dirigente del partito
comunista italiano e degli interventi di Gramsci
nella discussione politica in sede del III
Congresso del P.C.I., è a questo proposito
veramente illuminante; così come non può non
colpire la corrispondenza strettissima delle
pagine sulla situazione nelle campagne padane
e sulla loro conquista da parte fascista con
quanto scritto da Togliatti nel rapporto sul
fascismo preparato (e poi non presentato) per il
IV Congresso dell’Internazionale
comunista (nov.-dic. ’22). Ma dove la

21
dipendenza di Tasca dall’elaborazione «
gramsciana » è forse più evidente, è in
certe pagine dell ‘Epilogo nelle quali egli traccia
un quadro complessivo del fascismo. In esse è
infatti possibile riscontrare quasi tutti i punti e
le conclusioni più importanti ai quali il Gramsci
più maturo, quello della discussione con Bordiga
a Lione, era pervenuto: da quella che il fascismo
non fosse solo stato un « organo di
combattimento della borghesia », ma « anche un
movimento sociale », a quella che occorresse «
esaminare le stratificazioni del fascismo stesso
perché, dato il sistema totalitario che il fascismo
tende ad istaurare, sarà nel seno stesso del
fascismo che tenderanno a risorgere i conflitti
che non si possono manifestare per altre vie », a
quella dell’importanza del « problema militare
della rivoluzione » e, quindi, della necessità di
modificare il rapporto di forze esistente con
un’azione che collegasse il Partito
comunista (Tasca ovviamente parla di
movimento antifascista) alla maggioranza della
popolazione lavoratrice. In questa
stessa prospettiva « gramsciana » vanno viste
anche gran parte delle critiche che Tasca
rivolge all’operato dei socialisti e dello stesso
Partito comunista (nel ’21-’22 sostanzialmente
bordighiano). Un operato che trovava le sue
premesse in un’assoluta incomprensione del
vero carattere del fascismo (tra i socialisti
l’unico che, forse, può andare esente da questa
accusa fu Matteotti; quanto a Serrati — per il
quale Tasca condivideva in larga misura la
posizione, non sempre equanime di Gramsci —

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un discorso su di lui porterebbe troppo lontano,
dato che comporterebbe un esame degli aspetti
« internazionali » della politica socialista del
tempo) e si esauriva molto spesso in un
rivoluzionarismo da strapazzo che denotava
l’assenza di un’analisi di fondo della situazione
italiana e del complesso gioco di equilibri che la
caratterizzava. Basti pensare a un Bordiga che
ancora nel 1926 rinfacciava a Gramsci l’« errore
» « di sopravvalutare il pericolo della vittoria di
un gruppo borghese di destra » e affermava che
la vittoria del fascismo era stata « resa possibile
dalla politica di concessioni al movimento
operaio che era stata fatta dalla borghesia di
sinistra durante il periodo democratico ». «
Quelle concessioni — disse a Lione — serviranno
ad evitare che si formasse una unità operaia. La
libertà di muoversi del proletariato nel periodo
democratico era quindi una condizione
controrivoluzionaria e noi dobbiamo impedire
che si ritorni alla stessa situazione combattendo
fin d’ora contro la illusione che esista
una borghesia di sinistra. » Affermazione che fa
il paio — ma quasi cinque anni dopo — con
quella di Riccardo Roberto nell’« Ordine Nuovo»
del 10 giugno 1921: «Ben venga dunque, se così
è scritto nei destini, il colpo di stato e la…
dittatura fascista e militare. Dopo le nubi il
sereno: e nel sereno la nostra dittatura
indispensabile per l’avvento del comunismo »; e
rispetto alle quali ci sembra difficile, per non
dire assurdo, non condividere le critiche di
Tasca, sia in seed politica sia in sede di
giudizio storico.

23

RENZO DE FELICE

24
NASCITA E AVVENTO DEL FASCISMO

25
NOTA PREMESSA ALL’EDIZIONE
FRANCESE






Il 16 novembre 1919, alle prime elezioni
generali del dopoguerra, Mussolini otteneva a
Milano, città dove aveva sede il Comitato
direttivo dei Fasci e dove egli disponeva d’un
quotidiano, il « Popolo d’Italia », circa 5.000 voti
sul totale di 268.000, che per più della metà si
eran portati sulla lista dei socialisti. Questi, la
sera dello scrutinio, avevano festeggiato la loro
vittoria passando e ripassando sotto le finestre
della sua casa e salmodiando funebri litanie. Il
loro giornale, l’« Avanti! », annunciava
ironicamente ch’era stato ripescato nel Naviglio
« un cadavere in stato di putrefazione avanzata
», quello di Mussolini.
Un anno e mezzo dopo, il « suicida » che nel
novembre 1919 nessun altro partito o gruppo
aveva voluto prendere sulla propria lista, era
eletto in due circoscrizioni, quella di Milano e
quella di Bologna, in testa alla lista del
Blocco nazionale 1.
È soprattutto a partire dall’inizio del 1922 che
la spinta fascista si trasforma in valanga. La
sera del 29 ottobre, Mussolini lascia Milano in
vagone-letto per « marciare » su Roma, dove il

26
re l’ha invitato a costituire il ministero. Questa
rapida ascesa che, vista dal di fuori e
cronometrata come una prova sportiva, appare
prodigiosa, è stata il risultato di un insieme di
fattori, di cui taluni risalgono al Medioevo
italiano, altri al Risorgimento, altri ancora e
soprattutto alla guerra mondiale e alle sue
ripercussioni.
Tale sbocco, favorito da tante passività
accumulatesi nel corso dei secoli nella penisola,
non era però fatale. Spiegare, e cioè ricostituire,
colla maggiore approssimazione possibile, il
dramma sociale e politico che l’ha preceduto e
causato, nei suoi elementi di necessità, di
volontà più o meno cosciente e di fortuna, ecco
lo scopo di questo studio *.


1 Un trafiletto del « Popolo d’Italia » ricorda diciotto mesi dopo
(20 maggio 1921) quest’episodio, osservando che « il suicida del
novembre 1919 è oggi due volte deputato ».
* [La Prefazione all’edizione italiana recava in fondo questa
avvertenza: « Le note in parentesi quadre sono state compilate su
fonti venute a nostra conoscenza dopo la pubblicazione del libro
nell’edizione originale francese ». Ogni altro intervento che non
sia di mano del Tasca (correzioni di alcuni francesismi, citazioni
di nuove edizioni, ecc.) è stato segnalato con il consueto (N.d.E.).
Nonostante le Appendici non siano state mai pubblicate, abbiamo
conservato i rinvìi ad esse, come indicazioni dei luoghi che Tasca
riteneva utile documentare ulteriormente (N.d.E.).]

27
Capitolo Primo

L’INTERVENTO DELL’ITALIA IN GUERRA E


LA CRISI DELLO STATO






L’ultimatum dell’Austria alla Serbia trova
l’Italia in piena crisi politica e sociale. Pochi
mesi prima, in marzo, era stato discusso alla
Camera il bilancio finanziario, finalmente
chiuso, della spedizione libica, che aveva dato
ai socialisti l’occasione di prendersi una parziale
rivincita facendo il « processo alla guerra ».
Questa impresa aveva acuito la lotta fra i partiti
e fra le classi sociali e aveva compromesso
quella politica dell’equilibrio perseguita, fin dal
1900, da Giovanni Giolitti. Per evitare le
difficoltà finanziarie e la minaccia di uno
sciopero dei ferrovieri, il presidente del
Consiglio, che tuttavia dispone alla Camera di
una forte maggioranza, trae pretesto da un
ordine del giorno ostile votato dal gruppo
radicale per dare le dimissioni, evitando così il
dibattito parlamentare. Prendendo tale
iniziativa, Giolitti si ritiene sicuro di tornare al
potere trascorso un breve interregno, non
appena calmata la tempesta: ma questo gioco,
che fino allora gli era sempre riuscito, doveva,
questa volta, venire sventato dagli avvenimenti.

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In seno al Partito socialista, la corrente
di sinistra domina sempre più nei congressi: in
quello di Reggio Emilia, del 1912, e in quello di
Ancona, del 1914, si espellono un gruppo di
riformisti ed i frammassoni. Alla vigilia della
guerra, Mussolini è da due anni membro della
Direzione del partito e da un anno e mezzo
direttore del suo quotidiano, l’« Avanti! ». I
vecchi socialisti diffidano di lui, i giovani
l’adorano. La spinta a sinistra favorisce le sue
mire, che consistono nel fare del partito
uno strumento suo personale e nell’allontanare
la vecchia guardia, « marcia » di scrupoli e
paralizzata dalla « routine ». La « settimana
rossa » d’Ancona, nel giugno 1914,
allarga vieppiù la frattura fra lui e il cenacolo
che a Milano si stringe attorno a Turati e a
Treves1.
Mussolini esalta la rivolta anarchica: « Cento
morti ad Ancona, e tutta Vitalia è in fiamme »2,
pensa, senza mai lasciare, a buon conto, la
redazione del giornale. La sommossa,
abbandonata a se stessa, sconfessata dalla
Confederazione Generale del Lavoro, si spegne.
Alcune faville, diffuse dall’incendio, provocano
ancora, qua e là, degli scioperi di protesta3.
Mussolini contempla da Milano lo spettacolo
con viva soddisfazione: « Noi registriamo gli
avvenimenti, scrive, con un po’ di quella gioia
legittima che deve sentire l’artista che
contempla la sua creazione. Se il
proletariato italiano è sulla via d’acquistare una
nuova psicologia più libera e più spregiudicata,
ciò lo si deve al nostro giornale. Noi

29
comprendiamo i timori del riformismo e della
democrazia di fronte ad una situazione simile,
che non può che aggravarsi col tempo »4.
Questo il 12 giugno, poche settimane prima di
Serajevo.
Quando la guerra mondiale si scatena, tutta
l’Italia si pronuncia per la neutralità, cioè contro
l’intervento in favore delle Potenze centrali,
dato che questo è per ora il solo pericolo. Tutta
l’Italia, ad eccezione del gruppo nazionalista,
che teme di vedersi sfuggire l’occasione di una «
buona guerra », e di Sonnino, persuaso, a torto,
che il trattato della Triplice debba entrare
automaticamente in vigore.
Per lunghi mesi, la diplomazia italiana svolge
simultaneamente trattative con le due parti
opposte, e Salandra esalta, nell’ottobre, il «
sacro egoismo ». All’inizio del 1915, Sonnino,
che è dal novembre alla Consulta, si mostra
ancora favorevole ad un accordo con l’Austria:
se gli Asburgo si fossero decisi a cedere
immediatamente « il Trentino e qualche altra
cosa », il governo Salandra avrebbe percorso e
realizzato la politica del parecchio 5. Le
esitazioni dell’Austria spingono il governo
italiano verso l’Intesa: l’intervento a fianco degli
Alleati è virtualmente deciso nel marzo da tre
persone: il re, Salandra e Sonnino6. Essi soli
sono a conoscenza del Trattato di Londra,
firmato il 26 aprile: gli altri ministri Pignorano
ed il testo non sarà comunicato al Parlamento
italiano, che nel marzo del 19207.
Nel paese il Partito socialista non fa che

30
seguire l’indirizzo già fissato dalla sua
opposizione alla guerra di Libia. Mussolini trova,
in principio, qualche debole accento contro le «
orde teutoniche », ma appena si accorge che
la tesi della neutralità raggruppa la quasi
totalità del partito, fa macchina indietro, dà
battaglia accanita a ciò che chiama, alla fine
dell’agosto 1914, il delirium tremens
nazionalista 8 , e fa approvare il suo
atteggiamento dalle sezioni. « Ci si invita,
proclama all’inizio del settembre, a piangere sul
Belgio Martire. Siamo in presenza di una
farsa sentimentale inscenata dalla Francia e dal
Belgio. Queste due comari vorrebbero sfruttare
la credulità universale. Per noi il Belgio non è
che una potenza in guerra, come le altre »9. Ma,
siccome egli aveva tenuto nelle sue
conversazioni private tutt’altro linguaggio, uno
dei suoi ascoltatori, irritato dalla sua doppiezza,
lo denuncia sul Resto del Carlino come « l’uomo
dalla coda di paglia » 10. Mussolini comincia con
lo smentire, poi, temendo di veder compromesso
il suo prestigio, cerca di salvarsi, come
farà spesso in séguito, con la fuga in avanti.
Restando nel Partito socialista si sentirebbe
diminuito; lasciandolo, perderebbe il giornale,
ed egli invece ha bisogno « di parlare ogni
giorno alle folle »11. Allora rivede Filippo
Naldi, direttore del giornale i cui attacchi lo
hanno « bruciato », e si intende con lui per la
fondazione d’un nuovo giornale. « Il Popolo
d’Italia » esce il 15 novembre 1914 a Milano
come « quotidiano socialista » 12. Mussolini vi
debutta con una virulente diatriba piena di odio

31
contro il partito che sta per abbandonare13.
Questo voltafaccia è sentito dai militanti e dai
lavoratori che lo avevano seguito con cieca
fiducia come un tradimento. Nel sedicente
paese di Machiavelli, esso scava tra Mussolini e
la classe operaia un abisso incolmabile.
E non solamente tra la classe operaia e la
politica dell’intervento.
Gli operai nelle città ed i contadini nelle
campagne — socialisti e cattolici — sono ostili
alla guerra. Il popolo italiano ha la sensazione
che la guerra si stia preparando all’infuori di lui,
contro di lui. Il governo stesso non
ha alimentato altra fiamma che quella del «
sacro egoismo ». Il territorio nazionale non è
invaso ed « è peccato », dirà Clemenceau 14. Vi
è sì un gruppo di socialisti e di anarco-
sindacalisti che reclamano la guerra in nome
della « rivoluzione », ma la classe operaia non
può seguirli su questo terreno. Mussolini, che
l’aveva spinta sulla via che portava alla «
neutralità assoluta », è il meno adatto a farnela
uscire. Egli si guarda bene dal prendere
l’atteggiamento dell’apostolo che proclama il
suo errore ed acquista, per questa sua
confessione, il diritto di predicare una nuova
verità. Si allontana dal Partito socialista con
il cuore pieno di fiele e di volontà di vendetta: «
Me la pagherete », grida la sera della sua
espulsione. Così egli si troverà contro, non solo
lo stato d’animo estremista sul quale ha puntato
fino alla vigilia, ma una specie di rivolta morale
provocata dal suo stesso atteggiamento. Da
questo punto di vista, Mussolini ha contribuito

32
più di ogni altro ad elevare nel 1914-15, fra il
popolo italiano e la guerra, una barriera che
nulla potrà abbattere 15.
Inoltre, la pattuglia dei partigiani della guerra
« rivoluzionaria », « democratica », è ben presto
sommersa dall’adesione degli elementi più
reazionari, che vedono nella guerra —
qualunque essa sia — il mezzo d’annullare
il verdetto rosso delle elezioni del 1913. La
vecchia borghesia, minacciata nei comuni ed al
Parlamento, neutralista per spirito
conservatore, si converte alla guerra per
finirla con la politica riformista che sgretola i
suoi privilegi e che provoca l’irruzione di nuovi
gruppi sociali nella vita politica del paese 16.
Questa vita politica soffre di una debolezza
organica, dovuta tanto all’assenza di una vera
classe dirigente quanto al divorzio fra le masse
popolari ed il nuovo stato. La borghesia italiana,
lo si è spesso notato, è riuscita ad organizzare il
suo stato non tanto con le proprie forze, quanto
grazie alle condizioni internazionali che hanno
favorito la sua vittoria sui ceti feudali e
semifeudali: politica di Napoleone III nel 1852-
1860, guerra austro-prussiana del 1866,
sconfitta della Francia a Sedan e
sviluppo conseguente dell’impero tedesco. Il
Risorgimento si è realizzato sotto la forma di «
conquista regia » della penisola da parte del
piccolo Piemonte, senza partecipazione
attiva del popolo, anzi in parte contro di esso 17.
La questione romana mantiene ostili al nuovo
stato i cattolici; la questione sociale solleva

33
contro di lui le masse popolari. La politica delle
classi dirigenti è dominata costantemente dalla
preoccupazione di controllare queste masse,
evitando una trasformazione profonda dello
stato in senso democratico, e ciò dal
trasformismo di Depretis alle leggi eccezionali
di Pelloux, dal collaborazionismo di Giolitti alla
dittatura delle destre nel periodo 1914-1918.
Ciò che soprattutto manca alla società italiana
è quella lunga evoluzione, quell’accumulazione
di esperienze, quella fissazione di riflessi e di
costumi che hanno reso possibile lo sviluppo
democratico in Inghilterra ed in Francia. Il
popolo è appena uscito da secoli di servitù e da
una lunga miseria, alla quale lo ribadisce ancora
una economia arretrata, fondata sui bassi salari
nell’industria e sullo sfruttamento feudale
nell’agricoltura. La rivoluzione democratica è
ancora da farsi ed è al movimento socialista che
spetta questo compito. La storia della nazione
italiana non comincia effettivamente che con
l’azione socialista, la quale trascina le masse
ancora passive nell’orbita della vita nazionale.
Giolitti l’ha ben compreso: da molto tempo
egli si pone il problema dell’inserzione delle
masse nello stato, accordando, nel 1913, il
suffragio quasi universale. Alle elezioni che
hanno luogo lo stesso anno sulla base del nuovo
sistema, egli ottiene, patteggiando col
Vaticano (patto Gentiioni), la partecipazione dei
cattolici. Ma questa operazione, per quanto
audace, ha la sua contropartita, che la rende
sterile, poiché è dettata da una riserva mentale
reazionaria. Più che ad organizzare uno stato

34
mo derno, Gioiitti mira ad assicurarsi una
maggioranza parlamentare, costituita dal blocco
dei deputati del Mezzogiorno, gli ascari, spesso
eletti grazie alla corruzione e alla violenza, e
dagli industriali del Nord, guadagnati con
una protezione doganale assai elevata. Egli
conta sulla benevola neutralità dei socialisti,
paghi di qualche riforma e della concessione di
lavori pubblici, e contro di essi tiene del resto in
riserva, pel giorno delle elezioni, i cattolici, che i
curati conducono alle urne in ranghi serrati.
Ne risulta uno snervamento della vita politica,
uno sfumarsi dei programmi, una corrosione dei
partiti, che paralizzano e falsano l’efficacia del
suffragio universale.
Ma la polarizzazione dell’opinione pubblica
intorno agli estremi, provocata dalla guerra di
Libia e accentuata dalla crisi economica del
1914, distrugge la base del compromesso
tradizionale e della tattica che Giolitti segue da
quando è al potere. La situazione in Italia si fa
sempre più tesa. Il blocco dell’emigrazione, la
crisi dei trasporti, la preparazione febbrile degli
armamenti aprono una crisi del lavoro, delle
materie prime, delle finanze pubbliche. Il prezzo
del pane aumenta, in un paese ove tutte le
sommosse cominciano davanti ai negozi dei
fornai. Le manifestazioni e i conflitti si
moltiplicano e rivelano l’avversione crescente
delle masse, e soprattutto. dei contadini, per la
guerra.
I « Fasci d’azione rivoluzionaria », favorevoli
all’intervento, conducono una campagna
forsennata, e battono in breccia l’organizzazione

35
operaia e socialista18. Vogliono l’intervento
dell’Italia « senza indugio ». I socialisti
si impuntano? Si metterà loro il guinzaglio. Il
governo, ingannato dalla prospettiva di una
guerra di corta durata, firma il patto di Londra,
senza aver nulla previsto. Si è impegnato
all’azione entro un mese, e non ha nemmeno il
tempo di prepararla, nè militarmente, nè
politicamente. Prende, tuttavia, delle misure
contro il diritto di riunione e la libertà di
stampa, preludio al regime di pieni poteri. In tal
modo si approfondisce la scissione fra le masse
e lo stato. « Quando nel 1915 — scrive Bonomi,
ministro durante la guerra e presidente del
Consiglio nel 1921 — l’ingresso dell’Italia nella
grande guerra distaccò recisamente il
proletariato socialista dallo Stato, schierandolo
alla più irriducibile opposizione, lo stato italiano
entrò in crisi. E la crisi apparve estremamente
pericolosa quando il moto col quale l’Italia entrò
in guerra distaccò dal governo del tempo anche
l’on. Giolitti e il partito che a lui faceva capo »19.
Sì, lo stesso Giolitti, il grande equilibrista, è
eliminato. Il 9 maggio 1915, trecento deputati
della Camera italiana — la maggioranza — han
portato il loro biglietto da visita in casa di
Giolitti, il quale, ignorando che il dado è ormai
tratto, era venuto a Roma per difendere la
sua tesi del parecchio, quella stessa che Sonnino
aveva adottato qualche mese prima. Il governo,
ormai impegnato a intervenire a fianco degli
Alleati (patto del 26 aprile), continua a trattare
con Vienna e Berlino solo per
meglio mascherare la sua decisione e favorisce

36
le dimostrazioni degli « interventisti »,
soprattutto a Roma, Milano, Bologna.
D’Annunzio pronunzia a Quarto un grande
discorso in favore della guerra. A Roma i
nazionalisti e i « fascisti », mobilitati in
permanenza, organizzano manifestazioni contro
il Parlamento. Salandra dà le dimissioni, ma il re
gli conferma la fiducia, ed il governo non
convoca le Camere che per metterle di fronte al
fatto compiuto. Giolitti dovrà attendere cinque
anni per tornare al potere.
Così la Camera, eletta a suffragio universale
in quelle elezioni del 1913, in cui lo spostamento
a sinistra era stato notevole, porterà, malgrado
una maggioranza di « neutralisti »,
all’intervento e ad una dittatura delle destre.
Come non notare l’analogia con il dopoguerra,
in cui la Camera del 1921, in maggioranza
democratica ed antifascista, metterà capo ad un
governo Mussolini? botto molti punti di vista, le
« giornate radiose » del maggio 1915 appaiono
come la prova generale della marcia su Roma20.
La volontà del re e di pochi altri, sostituitasi
a quella del Parlamento, lo spettacolo di un
governo che si è fatto forzare la mano dalle
manifestazioni di una minoranza a cui ha
abbandonato la strada, dànno al popolo la
sensazione precisa di essere stato ingannato e
violentato21. Ciò concorrerà direttamente alla
formazione dello stato d’animo antiparlamentare
e « massimalista » del dopoguerra. « Il turbine
della guerra lo fece dimenticare per allora —
scrive Benedetto Croce nella sua Storia
d’Italia, — ma non poté fare che l’accaduto non

37
fosse accaduto. »22 La leggerezza, la quasi
incoscienza con cui una parte delle classi
dirigenti lancia l’Italia nella guerra, preparano
quelle disillusioni della pace che tanto hanno
contribuito alla nascita del fascismo. Durante la
lotta per l’intervento comincia anche a fissarsi
nei « fasci » del 1914-15 quel complesso di
demagogia, di nazionalismo esasperato,
d’antisocialismo e di reazione che si
ritroveranno poi nei fasci del 1919-22.
Scatenata con metodi faziosi, constata
il senatore Vincenzo Morello23, la guerra
nazionale fu condotta « in un’atmosfera di
guerra civile ». Fra il maggio 1915 e l’ottobre
1922 la genesi è dunque diretta e ininterrotta.

Note al capitolo primo

1 L’atteggiamento di Mussolini e dell’« Avanti! » è vivamente

criticato da Claudio Treves nella « Critica Sociale » di quell’anno


(n. 12, pp. 177-9; n. 13, pp. 193-5; n. 14, pp. 209-11). [Sull’attività
politica di Mussolini dal Congresso socialista di Reggio Emilia alla
rivolta d’Ancona cfr. Guido Dorso, Mussolini alla conquista del
potere, Torino, Einaudi, 1949, pp. 63-84.]
2 P. Nenni, Six ans de guerre civile en Italie, Paris, Libr.
Valois, 1930 [vedi ora in Venti anni di fascismo, Ed. Avanti!, 1964
(N.d.E.)]. Nel discorso del 22 luglio 1919, al Liceo Beccaria di
Milano, Mussolini ricorda che fu lui a proclamare, nel 1913: «
Questo proletariato ha bisogno di un bagno di sangue » (Discorsi
politici, Milano, Popolo d’Italia, 1921, p. 75).
3 Sulla rivolta d’Ancona: S. Cilibrizzi, Storia Parlamentare
Politica e Diplomatica d’Italia, vol. IV, Milano, Albrighi e Segati,
1934, pp. 333-40; E. Malatesta, Scritti, vol. I, Ginevra, « Risveglio
» 1934, pp. 40-2; P. Nenni, LO SPETTRO DEL COMUNISMO
1914-1921, Milano, Modernissima, 1921, pp. 15-18; A. Borghi,
Mussolini en chemise, Parigi, Rieder, 1932, p. 51 segg.: Mussolini

38
pendant la Semaine rouge.
4 « Avanti! », 12 giugno 1914.

5 Era la politica preconizzata da Giolitti nella sua lettera del

24 gennaio 1915 a Camillo Peano (G. Giolitti, Memorie della mia


vita, Milano, Treves, 1922, T. II, pp. 529-31). Egli aveva scritto:
«Credo molto, nelle attuali condizioni dell’Europa, potersi
ottenere senza guerra ». Olindo Malagodi, pubblicandola nella «
Tribuna », aveva mutato il « molto » del testo originale in «
parecchio » e si penti poi d’averlo fatto (cfr. V. Bruzzolesi, Giolitti,
Novara, De Agostini, 1921, pp. 17-19).
6 Sull’atteggiamento di Sonnino: Pietro Bertolini, Diario-,
agosto 1914-maggio 1915 in « Nuova Antologia », 1° febbraio
1923 e cfr. Cesare Spellanzon, « Secolo », 23 fçbbraio 1923; A.
Salandra, La neutralità, Milano, Mondadori, 1930, pp. 131-3.
[Secondo ricordi personali dell’on. Giulio Alessio, Sonnino «
comprendeva così gli errori della neutralità come i pericoli
dell’adesione alla Francia e all’Inghilterra » ed esitò durante un
mese prima di accettare gli Esteri offertigli da Salandra, La
crisi dello Stato parlamentare e l’avvento del fascismo, Padova,
CEDAM, 1946, p. 18]. Sulle trattative del Governo italiano coi due
gruppi di belligeranti: A. Salandra, La neutralità cit. e
L’Intervento, Milano, Mondadori, 1930; G. Giolitti, Memorie della
mia vita, Milano, Treves, 1922, vol. II, pp. 509-51; Principe di
Bülow, Mémoires, Parigi, Plon, 1931, t. III, pp. 173-225; S.
Cilibrizzi, Storia parlamentare ecc., vol. IV, pp. 495-547 [vol. V,
Napoli, Treves, 1940, pp. 55-251]; Gaetano Salvemini, La
diplomatie italienne pendant la grande guerre, « Res Publica
», Bruxelles, An. I, ottobre e dicembre 1931; C. Sforza, Les
bâtisseurs de l’Europe moderne, Parigi, Gallimard, 1931, pp. 283-
302; P. Renouvin, La crise européenne et la grande guerre, 1904-
1918, Parigi, F. Alcan, 1934, pp. 271-6.
7 Ufficialmente sotto la forma di Libro verde nella seduta del
4 marzo. La sua esistenza risultava già dalle rivelazioni del nuovo
governo bolscevico e Fon. Bevione ne aveva letto il testo alla
Camera il 13 febbraio 1918; nel colloquio che aveva avuto con
Giolitti il 10 maggio 1915, Salandra non gliene aveva lasciato
supporre l’esistenza. Il segreto sul Patto era stato richiesto anche
agli Alleati, per non allarmare anzi tempo l’Austria (cfr. R.
Recouly, « Revue de France », 1° settembre 1922). Sul trattato
cfr. essenzialmente: M. Toscano, Il Patto di Londra, Bologna, N.
Zanichelli, 1934 [F. S. Nitti, Rivelazioni, Napoli, E.S.I., 1949, pp.
374-90; Enrico Caviglia, Il conflitto di Fiume, Milano, Garzanti,
1948, pp. 3-11, 19 e passim.

39
8 « Avanti! », 26 agosto 1914.

9 « Avanti! », 4 settembre 1914. Mussolini aggiungeva: «

Tutte le potenze in guerra sono allo stesso modo colpevoli e allo


stesso grado, e noi abbiamo il diritto, il dovere di sollevare la
classe operaia contro questi fatti ». Egli aveva lanciato la formula
della « neutralità assoluta » e voleva organizzare un plebiscito in
favore di essa. Ecco ciò che Mussolini racconterà o farà
raccontare a questo riguardo in una « autobiografìa » pubblicata
nel 1928: « La maggioranza del partito socialista inclinava verso
una neutralità assoluta una neutralità senza limite di tempo, di
garanzie, né di dignità… Non io » (« Candide », 31 maggio
1928). Queste memorie uscirono sotto il titolo: Ma Vie, nel citato
settimanale francese, dal 24 maggio al 4 ottobre. Fu questa la
prima pubblicazione; esse non apparvero in Italia. L’editore di
Londra che ne possedeva i diritti: Hugues Massie & Co. provvide
alla traduzione inglese.
10 Si tratta di Libero Tancredi (Massimo Rocca), che rievoca

quest’episodio ne « I Quaderni del Nuovo Paese », Parigi, I (il solo


uscito), giugno 1916, p. 46, n. 1.
11 Così Mussolini rispondeva ai primi del novembre 1914 ad

una lettera in cui cercavo di dissuaderlo dal progetto, di cui mi


aveva fatto parte, di fondare un quotidiano.
12 Sulla « crisi » attraversata da Mussolini in questo periodo:
T. Nanni, Bolscevismo e Fascismo, Bologna, L. Cappelli, 1924, pp.
185-203; C. Valente, La ribellione antisocialista di Bologna,
Bologna, L. Cappelli, 1921: alle pp. 31-3 il resoconto della
riunione della Direzione del Partito socialista (Bologna, 18-20
ottobre 1914), in cui Mussolini diede le dimissioni; F. Bonavita,
Mussolini svelato, Milano, Sonzogno, 1927, pp. 153-93; A. De
Ambris, Mussolini - La leggenda e l’uomo, Marsiglia, E.S.I.L.,
1931; D. Saudino, La genesi del fascismo, Chicago, Libreria
Sociale, 1933, pp. 177-85 e Appendice IV (Campolonghi).
Sull’origine dei fondi del « Popolo d’Italia » cfr. il lodo arbitrale,
del 24 febbraio 1915, favorevole a Mussolini, sulla base d’una
inchiesta molto sommaria (Vedine il testo in appendice a F.
Paoloni, I Sudekumizzati del socialismo, Milano, « Popolo d’Italia
», 1917, pp. 359-62). Nessun dubbio può sussistere sul
sovvenzionamento del « Popolo d’Italia » da parte del governo
francese. Cfr. oltre all’Appendice IV, G. Salvemini, Mussolini
diplomate [ed. it. Bari, Laterza, 1955 (N.d.E).] Paris,
Grasset, 1932, pp. 19-21; Maria Rygier, La Franc-maçonnerie
italienne devant la guerre et devant le fascisme, Paris, V. Gloton,
1929, pp. 87-90. [G. Perticone, La politica italiana nell’ultimo

40
trentennio, Roma, Leonardo, 1945; Angelica Balabanoff, FU
CACCIATO COSÌ, in « Umanità », 16 febbraio 1949. Sul passaggio
di Mussolini all’interventismo e sul suo atteggiamento politico
durante la guerra v. G. Dorso, Mussolini alla conquista del potere,
cit., 85-130.]
13 Articolo: Audacia.

14 V. Nitti, L’opera di Nitti, Torino, Gobetti, 1924, p. 29.

15 « Nessuno può negare che la valanga del disfattismo si è

staccata, in origine, proprio da quella neutralità assoluta che


Benito Mussolini volle riconsacrata dal Partito socialista nel
settembre 1914 », T. Nanni, Bolscevismo e fascismo, cit., p. 188.
16 MARIO MISSIROLI, Il fascismo e la vita italiana, Bologna,

L. Cappelli, 1921, p. Vili.


17 ANTONIO GRAMSCI, Les origines du Cabinet Mussolini, in

« Correspondance Internationale », n. 89, 20 novembre 1922, p.


681 [ora in « Riv. storica del socialismo», 1961, 13-14, pp. 627-9
(N.d.E.)]. E cf. anche L. Sturzo, L’Italie et le fascisme, Paris, pp.
13-15.
18 Il primo Congresso di questi Fasci si tenne a Milano il 24 e
25 gennaio 1915. Il discorso che Alceste De Ambris vi pronunziò è
in « L’Internazionale » di Parma del 30 gennaio. Il loro statuto,
stampato sulla tessera, è riprodotto in G. A. Chiurco, Storia della
Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1929, T. I, p. 39. Per un
giudizio sul movimento: G. Salvemini, La diplomatie italienne
ecc., in «Res publica», dicembre 1931, pp. 173-4; A. Labriola, Le
due politiche, Fascismo e comunismo, Napoli, A. Moreno, 1924,
pp. 171-2.
19 I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Roma, Formiggini,
1924, p. 67
20 « Il ” maggio radioso ” è stata la ripetizione generale
della marcia su Roma, la crisi del 1915 l’inizio di una
distruzione delle recenti e fragili istituzioni democratiche che
sarà condotta a termine dal fascismo », A. Tasca, Maggio
radioso in Almanacco Socialista 1935 (Parigi), pp. 21-36.
Sulla crisi di maggio in generale: A. Salandra, L’Intervento,
pp. 211-88.
21 C. Avarna, Il Fascismo, Torino, Gobetti, 1925, p. 9; L.
Sturzo, L’Italie et le fascisme, p. 77; I. Bonomi, Dal socialismo al
fascismo, pp. 22-3.
22 Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928, p. 298.

23 Citato da M. Missiroli, Il fascismo e la crisi italiana cit., p.

41
6. Cfr. inoltre: M. Missiroli, Dna battaglia perduta, Milano,
Corbaccio, 1924, p. 175: « la guerra fu condotta con uno spirito
settario »; G. Lazzeri, La città sulle ceneri, Roma, Mondadori,
1921, PP- 3-13; G. Ferrero, Da Fiume a Roma, Milano, Athena,
1923, pp. 38-9; L. Salvatorelli, Nazional-fascismo, Torino, Gobetti,
1923, pp. 39-40; Alberto Cappa, Due rivoluzioni mancate, Foligno,
Campiteli^ 1923: « Sin dal primo giorno della grande
conflagrazione, al governo dell’on. Salandra l’intervento o la
neutralità si presentò come una questione di politica
interna; come una risoluzione della crisi politica che si andava
acuendo tra il vecchio ceto medio ed i suoi concorrenti sorti dalle
organizzazioni proletarie » (p. 27).

42
Capitolo Secondo

LA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA DEL 1919






La guerra dà all’Italia, unita da nemmeno
mezzo secolo, una terribile scossa. Essa è
costata 680.000 morti 1, mezzo milione di
mutilati e di invalidi, più di un milióne di feriti.
Non possedendo grandi riserve, l’Italia ha
dovuto importare tutto: il carbone, il petrolio, il
caucciù, il rame, le materie prime tessili, gran
parte dei minerali e anche derrate alimentari.
Un grande ideale nazionale non ha sostenuto
questo sforzo, né sublimato questi sacrifici. Il «
sacro egoismo » del governo non è stato, in
fondo, né sacro, né egoistico. Imposta e
condotta come una guerra civile, la
guerra lascia un retaggio di passioni veementi e
d’odii inestinguibili. Si sono serrati i denti il
giorno della mobilitazione, e quello della vittoria
non li ha dischiusi. La vittoria del Piave riscatta
appena, all’ultimo minuto, gli scacchi del 1916 e
del 1917.
In nessun paese la smobilitazione pone dei
problemi così gravi. Gli sbocchi tradizionali
dell’emigrazione, attraverso i quali si erano
incanalati, nel 1913, circa 900.000 lavoratori e

43
soprattutto contadini senza terra, si
chiudono sempre più. Ove piazzare coloro che
tornano dal fronte e per quanto tempo le
industrie di guerra potranno mantenere il
milione d’operai che vi lavorano? Come
trasformare l’industria di guerra in industria di
pace? Come aprirsi, in mezzo al disordine
generale, alle convulsioni persistenti ed agli
appetiti risorgenti, un cammino verso il mercato
mondiale, sconvolto, impoverito e guatato da
concorrenti implacabili, meglio preparati e
meglio organizzati?
Ciononostante, tutti si volgono verso
l’avvenire, con il cuore pieno di speranza. La
guerra ha talmente sconvolto le basi della vita,
ha prodotto tante frane ed emersioni, che
ognuno già vede alla fine di questa epoca
geologica il sole levarsi su di un mondo nuovo.
Non l’ha annunziato lo stesso Llyod George? « Il
mondo del dopoguerra deve essere un mondo
nuovo… Dopo la guerra, i lavoratori devono
essere audaci nelle loro rivendicazioni. »2 Il
governo stesso attribuisce alla guerra il
senso mistico d’una rivoluzione incipiente. «
Questa guerra — proclama il 20 novembre 1918
il presidente del Consiglio Orlando — è al tempo
stesso la più grande rivoluzione politico-sociale
che la storia ricordi, superando la
stessa rivoluzione francese. » « Oggi ancora —
rincara la dose lo stesso giorno Salandra — è
stato detto autorevolmente che la guerra è una
rivoluzione… Vengano avanti i giovani; è il loro
momento. Nessuno pensi che passata
la tempesta sia possibile un pacifico ritorno al

44
passato. »
Durante la guerra si fanno circolare senza
scrupoli le formule più incendiarie. A chi si
preoccupa delle conseguenze di una simile
propaganda, uno dei più fanatici partigiani
dell’intervento dà la seguente risposta: « Se
i soldati proletari, per pestare gli austriaci,
hanno bisogno di accusar la borghesia di
putredine e di tradimento, poco male, purché si
battano ». Questo stesso
propagandista riconoscerà più tardi che « tale
imbonimento di crani non era del tutto
inoffensivo » 3.
Mussolini ha mantenuto durante tutta la
guerra, nel titolo del suo giornale, questo motto
di Blanqui: « Chi ha del ferro ha del pane », e
quest’altro di Napoleone: « La rivoluzione è
un’idea che ha trovato delle baionette ». Dopo
l’armistizio egli alza le vele per valersi del
vento che soffia: « La guerra ha chiamato le
masse proletarie a gran voce alla ribalta. Ha
spezzato le loro catene. Le ha
straordinariamente valorizzate. Una guerra di
masse si conchiude col trionfo delle masse… Se
la rivoluzione borghese del 1789 — che fu
rivoluzione e guerra insieme — aprì le porte e le
strade del mondo alla borghesia che aveva fatto
un suo lungo e secolare tirocinio, la rivoluzione
attuale, che è anche una guerra, sembra
schiudere le porte dell’avvenire alle masse che
hanno fatto il loro duro tirocinio di sangue e di
morte delle trincee »4. E ancora: « Maggio
1915… fu il primo episodio della rivoluzione. Fu
l’inizio. La rivoluzione è continuata sotto il nome

45
di guerra, per quaranta mesi. Non è finita.
Può avere e non può avere il decorso
drammatico che impressioni. Essa può avere un
ritmo più o meno affrettato. Ma continua…
Quanto ai mezzi, noi non abbiamo pregiudiziali;
accettiamo quelli che si renderanno necessari:
i legali e i cosidetti illegali. Si apre nella storia
un periodo che potrebbe definirsi ’’della politica
delle masse, o dell’ipertrofia democratica ”. Non
possiamo metterci di traverso a questo moto.
Dobbiamo indirizzarlo verso la democrazia
politica e verso la democrazia economica… »5.
È questa l’atmosfera torbida ed esaltante che i
combattenti, i reduci trovano ritornando a casa,
dopo quattro anni di guerra, col solo bagaglio
delle loro sofferenze, dei loro rancori e delle
loro illusioni. I contadini, soprattutto quelli del
Mezzogiorno, rientrano per rivendicare il
loro diritto alla terra. Gli operai guardano alla
Russia, dove i bolscevichi conducono, da circa
due anni, una lotta da giganti6.
L’Europa presenta ogni giorno più uno
scenario tragico e grandioso. « La caduta degli
Hohenzollern in Germania, — scrive un reduce,
Pietro Nenni, — lo sgretolamento dell’Impero
degli Absburgo e la fuga dell’ultimo imperatore,
i moti spartakiani a Berlino, la
rivoluzione bolscevica in Ungheria, i soviet in
Baviera, tutti insomma gli straordinari e
clamorosi avvenimenti della fine del 1918 e
dell’inizio del 1919, colpirono le fantasie e
suscitarono la speranza che il vecchio mondo
stesse per crollare e che l’umanità fosse sulla
soglia di una nuova èra e di nuovo ordine

46
sociale. » 7
Gli ex combattenti sono, nella loro
maggioranza, wilsoniani e democratici, con una
esigenza vaga, ma sincera, di rinnovamento,
mista a diffidenza verso le antiche caste
politiche. Delle sezioni si costituiscono un po’
ovunque, e si riuniscono ben presto
nell’Associazione Nazionale Combattenti.
Questa tende a darsi un ruolo autonomo, al di
fuori dei partiti tradizionali: « Nessun
partito, nessuna classe, nessun interesse,
nessun giornale gode la nostra fiducia…
Organizzati e indipendenti, la nostra politica la
faremo noi stessi »8. Nel gennaio 1919, il
Comitato Centrale dell’Associazione lancia
un appello per la formazione d’un partito dei
combattenti9. Al primo Congresso, che si
riunisce, a Roma in giugno, si manifesta uno
stato d’animo molto ostile ai fascisti e viene
adottato un programma nettamente
democratico: convocazione di una Costituente,
abolizione del Senato e sua sostituzione con
Consigli eletti da tutte le categorie di lavoratori
e di produttori, riduzione del servizio militare a
tre mesi, e concetto di patria «
integrato coll’umanità e diverso dall’egoismo
nazionale » 10. Questo programma, dice uno di
essi, Emilio Lussu, « pareva fatto apposta per
consentire una stretta collaborazione col Partito
socialista ». « I combattenti — aggiunge
— erano, in sostanza, dei socialisti in
formazione, filosocialisti non già per la
conoscenza dei classici del socialismo, ma per
un profondo senso d’internazionalismo,

47
attinto nella realtà della guerra, e per le
aspirazioni alla terra della massima parte dei
combattenti, che erano contadini. » 11
Come il Partito socialista approfitterà di una
simile situazione, in cui tutto sembrava
favorirlo, e niente pareva resistergli, in cui tutti,
uomini del governo, fascisti, ex combattenti,
impiegano il suo linguaggio, attendendolo alla
prova dei fatti? Il suo atteggiamento di
opposizione alla guerra lo designa quasi
ufficialmente come erede del potere 12.
Nel maggio 1917, qualche mese prima di
Caporetto, la Direzione del Partito socialista, il
Gruppo parlamentare e la Confederazione
generale del lavoro avevano pubblicato un
documento che esponeva le loro
rivendicazioni immediate per la pace e per il
dopoguerra.
Questo programma era concepito in
previsione di rinnovamenti sociali e politici «
che sono nell’aria ». In politica estera, il partito,
che aveva partecipato al Convegno di
Zimmerwald13, reclamava una pace senza
annessioni forzate e « rispettosa di tutte le
autonomie », il disarmo immediato e simultaneo
degli stati, l’abolizione delle barriere doganali,
l’istituzione « di rapporti giuridici confederati
fra tutti gli stati civili ». Una simile politica
poteva trionfare solo con un proletariato
portatosi in primo piano nella vita nazionale,
grazie ad una serie di « riforme istituzionali,
politiche ed economiche ». Queste
dovevan comprendere soprattutto << la forma

48
di governo repubblicana, a base di sovranità
popolare », la soppressione del Senato, il
suffragio universale uguale e diretto, la
libertà totale d’organizzazione, di riunione, di
sciopero e di propaganda, l’elezione dei
funzionari sociali, un sistema completo di
assicurazioni sociali, i contratti collettivi di
lavoro ed i minimi di salario, un grande
programma di lavori pubblici, l’espropriazione
delle terre « incolte o mal coltivate », ecc.14.
Questo programma resta quello del Partito
socialista ancora verso la metà del 1918, ma, nel
frattempo, il partito e le masse si son «
radicalizzate », per le sofferenze che la guerra
aveva imposto e soprattutto per reazione alla
maniera bestiale con cui gli imboscati del Fronte
interno 15 avevan profittato della disciplina
di guerra per condurre la lotta contro la classe
operaia e contro il Partito socialista. In questo
partito la tendenza di sinista ottiene al
Congresso nazionale di Roma, nel settembre
1918, una schiacciante maggioranza16.
Tale nuova maggioranza trova il programma del
1917 troppo tiepido, troppo « riformista », e non
si rende conto che bisogna, anzitutto, risolvere
un altro problema, quello del carattere, del
contenuto storico della rivoluzione italiana.
Ora, nell’Italia del 1918-1919, una rivoluzione
democratico-borghese è necessaria, come lo fu
in Russia nel marzo 1917 e come i bolscevichi
tenteranno di realizzarla dopo la loro vittoria
dell’Ottobre 17. Bisognerebbe, anche in Italia,
abbattere il dominio delle vecchie caste
sociali, che la guerra ha fatto ancor più

49
duramente sentire, portare le masse a
partecipare alla vita politica, a costruire lo
stato popolare. L’Italia potrebbe in questo
modo compiere, infine, quella sua rivoluzione
nazionale che il Risorgimento aveva eluso. Si
impongono delle riforme profonde e nessuno osa
opporvisi apertamente. Persino la questione del
regime non è più un ostacolo serio: quasi tutti
propendono per l’abolizione della monarchia o
son rassegnati alla sua sparizione. La guerra ha
messo in moto le masse, ed il loro slancio può
facilmente rovesciare le vecchie impalcature.
Repubblica, democrazia politica ed
economica, divisione delle terre: ecco
l’essenziale di questa prima tappa della
rivoluzione.
Quasi tutti i partiti ed i gruppi sono per una
Costituente e per delle audaci riforme sociali. Al
principio del gennaio 1919, l’Unione italiana del
lavoro, di tendenza nazionalsindacalista, e che
fornirà più tardi i suoi quadri al sindacalismo
fascista, invoca la « Costituente nazionale intesa
come sezione italiana della Costituente
internazionale dei popoli »18. Nel marzo,
Mussolini batte la gran-cassa per la «
Costituente della IV Italia », insiste sull’idea che
i deputati eletti alle prossime elezioni «
costituiranno l’Assemblea nazionale chiamata a
decidere sulla forma di governo dello stato »19.
In aprile, il Partito repubblicano ed i socialisti
indipendenti (tendenza Bissolati) intimano alla
classe dirigente di « cedere pacificamente il
potere alle classi popolari », reclamano la
convocazione di « un’assemblea nazionale

50
costituente con pieni poteri per fissare le
nuove.forme di rappresentanza del Paese,
assemblea che dovrà subito nominare un
governo provvisorio che reggerà lo stato sino
all’applicazione del nuovo statuto nazionale del
popolo italiano », e si pronunziano per
l’instaurazione di una « repubblica sociale »20.
Il Partito radicale lancia un appello per « il
rinnovamento intero, profondo, radicale dello
stato » e per « una partecipazione più larga ed
immediata delle classi operaie al potere »21.
Anche il Congresso delle associazioni « liberali
» (cioè dei conservatori) riconosce la necessità «
di accelerare il ritmo dell’evoluzione dei tempi »
22. La corrente è così forte che trascina con sè i

gruppi più diversi, i quali contribuiscono ad


ingrossarla. Il primo Congresso
dell’Associazione nazionale combattenti si trova
unanime nell’idea di una Costituente 23, e quello
della Massoneria, che si riunisce a Roma negli
stessi giorni (giugno 1919), si propone « di
conseguire nel campo politico e sociale tutte le
trasformazioni che valgano ad imprimere
carattere, indirizzo e struttura di democrazia
allo stato »24. Nell’ottobre, a Firenze, il
Congresso nazionale dei Fasci chiede quasi
all’unanimità e « con tutti i mezzi la
Costituente per la fondamentale trasformazione
dello Statuto, proponendosi così di raggiungere
un assetto politico, sociale ed economico
completamente nuovo »25. L’idea della
Costituente circola soprattutto fra i quadri
politicamente più attivi dei soldati che stanno

51
per lasciare la zona di guerra per ritornare a
casa. Pietro Nenni, in un libro che è certamente
il più interessante tra quelli che sono stati
scritti sulla crisi politica del dopoguerra in
Italia, ci dice in proposito:
Fu questa parola d’ordine monopolio di qualche partito?
Chi ha vissuto l’atmosfera di quei mesi febbrili, in cui la gioia
per la pace si mischiava a un fondo d’insoddisfazione per le
condizioni sociali e politiche del paese, in cui sentimenti
opposti confluivano in una esaltazione quasi mistica del
diritto dei combattenti; chi ricorda il primo affluire di truppe
di linea verso le basi territoriali ed il loro primo contatto col
paese, risponderà negativamente a questa domanda. Si può
dire che non ci fu riunione o comizio, corteo o fiaccolata in
cui non si parlasse di Costituente. E via via la parola passava
attraverso i reparti, si stampava nel cervello dei reduci.
Ognuno le dava il significato che voleva. Era tutto ed era
nulla, o meglio, poteva esser tutto e fu nulla26.

Ora una « mistica » della Costituente — di cui


esistevano già tanti elementi diffusi — non
poteva crearsi d’un colpo e divenire operante
senza l’azione di un partito che avesse in mano
le masse popolari. Ma questo partito aveva
proprio allora eliminato la Costituente dal suo
programma. Nella discussione che si svolse nel
dicembre 1918, la maggioranza del Gruppo
parlamentare socialista e la Confederazione
generale del lavoro avevano riaffacciato le
rivendicazioni del 1917 e si erano
pronunciate per la Costituente. Ma la Direzione
del partito, eletta al
Congresso di Roma, dichiarava che ormai
l’obbiettivo doveva essere « l’istituzione della
Repubblica socialista e la dittatura del
proletariato ». Il conflitto si riprodusse nel mese
di gennaio seguente, aggravandosi di un

52
equivoco che colpirà di una stessa impotenza «
riformisti » e « rivoluzionari »27.
Per poter sormontare vittoriosamente la crisi
sociale e politica del dopoguerra, il Partito
socialista avrebbe dovuto giungere il più presto
possibile al potere. Ma i « riformisti » del partito
e la C.G.L. risuscitano il programma del 1917
come diversione alle formule della « sinistra », e
soprattutto per evitare il terreno scottante della
lotta per il potere. L’ordine del giorno Turati-
Prampolini, votato dalla destra nella riunione di
gennaio, dice che non bisogna conquistare il
potere e ciò per non « esonerare le classi e le
caste che vollero la guerra dalla
terribile responsabilità delle sue fatali e
prevedute conseguenze »28. In realtà,
quest’argomento varrebbe anche contro il
programma del 1917 e contro ogni azione per il
potere, e si accosta a quello dei massimalisti,
per i quali non bisogna tentare niente «
nell’ambito del capitalismo », giacché la
borghesia è condannata, ed è meglio lasciarla
cadere sotto il peso dei suoi errori e della sua
impotenza. Senza contare che certi riformisti, se
si servono della Costituente per opporsi alla «
dittatura del proletariato », non sono affatto
disposti a battersi per essa, poiché intravedono
una prossima collaborazione con Giolitti, ben
più facile nell’ambito della monarchia
costituzionale.
I « rivoluzionari » non vogliono la Costituente,
e proprio perché gli altri Faccettano. Il fatto che
tutti ne parlino li inquieta. Una parola d’ordine
che circola da per tutto… Se avessero avuto una

53
minima particella di spirito rivoluzionario,
l’avrebbero adottata proprio per questa ragione.
Avrebbero anche ritrovato, sul piano
nazionale, la situazione di Parigi nel 1871,
quando « l’anima confusa della folla attribuiva
alla ” Comune ” una specie di virtù misteriosa »
e dove — C. Thalès ed altri lo hanno osservato —
« le idee sparivano un poco dietro ad una
parola di così straordinario prestigio, una parola
di salvazione »29
Ma soprattutto, questi rivoluzionari dicono di
voler « fare come in Russia » e ciò si riduce al
ripetere, come allucinati, le formule che il
successo dei bolscevichi ha messo in
circolazione. Invece di partire dai problemi della
rivoluzione italiana per cercare di « scoprire » le
parole d’ordine che le corrispondono, essi
partono da formule già fatte e male assimilate
per arrivare alla rivoluzione, e così non metton
capo a nulla. Quando i bolscevichi in Russia
parlano di Soviet, i Soviet esistono, sono
sorti spontaneamente, si riallacciano alla
tradizione, per niente dimenticata, del 1905, ed
esprimono le tendenze profonde di una
democrazia di villaggio e di fabbrica le cui
radici si affondano fin nel più lontano passato. Il
Comitato esecutivo dei Soviet si costituisce a
Pietrogrado, contemporaneamente al Comitato
provvisorio della Duma di Stato, il 27 febbraio
1917. I bolscevichi puntano, fino al luglio, su
uno sviluppo pacifico — il più desiderabile —
della rivoluzione, passano attraverso la fase del
« doppio potere », diviso e disputato fra Soviet e
governo provvisorio, lottano contro i

54
menscevichi ed i socialisti rivoluzionari per
conquistare la maggioranza in seno ai Soviet «
che cominciano a trasformarsi in vero governo
popolare ». Anche quando lanciano la parola
d’ordine: « tutto il potere ai Soviet », non
cessano dal reclamare la convocazione della
Costituente, questa Costituente che
scioglieranno pochi mesi dopo la vittoria
d’Ottobre. Ognuna di queste svolte — con le
formule corrispondenti — nasce dal dramma
reale della rivoluzione e vi trova la sua piena
illustrazione.
Nell’Italia del 1919 la classe operaia resta
senza programma e senza capi. Al programma
del 1917, adottato dai socialisti, manca lo spirito
rivoluzionario, mentre questo spirito si disperde
e svanisce in formule accattate: da un lato
l’anima non ha trovato il suo corpo, dall’altro il
corpo è rimasto senz’anima. Nell’attesa le masse
continuano a sognare; « per alcune settimane,
constata Mario Missiroli, il popolo ritornò
fanciullo e ritornò alle sorgenti immacolate
«della fede » 30. Queste masse non chiedono
che di essere guidate verso qualche mèta,
purché siano spinte innanzi, verso questo mondo
nuovo di cui le ferite ancor slabbrate della
guerra suscitano la febbrile attesa, ma la loro
fede non trova interpreti. Alla mistica della
Costituente si cerca di opporre la mistica dei
Soviet, senza che né l’una né l’altra giungano a
prender corpo. Non si oppongono come una
realtà vivente ad un’altra realtà, ma come
ombre ad altre ombre che occupano tutto
l’orizzonte politico e che chiudono, a destra

55
come a sinistra, tutte le strade che portano al
potere »31.
Nel frattempo la situazione economica italiana
si aggrava di mese in mese. Fra il 7 marzo ed il
22 novembre 1919, undici classi — dal 1896 al
1916 — sono congedate. Il malessere è
generale, gli scioperi si moltiplicano. « A
suscitare e ad alimentare il malcontento hanno
concorso molteplici fattori: la difficoltà di
riprendere un lavoro sistematico e ordinato
dopo anni trascorsi fra i pericoli e i disagi, ma in
gran parte anche nell’ozio; la pigrizia, derivante
dall’esaurimento della volontà
32
troppo sfruttata ; la reazione contro la rigida
disciplina a lungo tollerata; l’irritazione per il
mancato adempimento delle promesse di
radicali riforme economiche, che si erano largite
ai combattenti per incoraggiarli ai supremi
sacrifizi; la ribellione davanti allo sperpero di
ricchezze mal acquistate. Ma senza dubbio il
maggior fattore di disordine ha consistito
nell’incessante rincaro del costo della vita.
Gli effetti della inflazione monetaria, prima
artificiosamente frenati, si sono andati
rapidamente manifestando; la rarità dei beni
offerti alle popolazioni impazienti di
compensare l’astinenza del periodo bellico, ha
accelerato il rialzo dei prezzi. Il rincaro della
vita, accrescendo il disagio delle classi
lavoratrici, le ha spinte a continue richieste
d’aumenti di salario e le ha mantenute in uno
stato di permanente irritazione e d’incertezza
sul domani, che spesso si è palesata in violente
manifestazioni33.

56
Così gli scioperi che si intensificano verso la
metà del 1919 (200.000 metallurgici nel Nord,
200.000 operai agricoli nelle province di Novara
e di Pavia, i tipografi a Roma ed a Parma, gli
operai tessili a Como, i marittimi a Trieste, ed
altri ancora) non riescono che a portare i salari
al livello aumentato del costo della vita
Ma la lotta sindacale non basta più a calmare
le impazienze. A partire dal mese di giugno, e
per diverse settimane, folle esasperate si
precipitano nei negozi, impongono ribassi,
talora predano le merci. Mussolini ed i Fasci —
che stanno costituendosi35 — proclamano la loro
« illimitata solidarietà con il popolo delle varie
Province d’Italia insorto contro gli affamatori
»36, esaltano « i gesti concreti e risoluti di santa
vendetta popolare »37. Il « Popolo d’Italia »
esprime la speranza che, « nell’esercizio del
suo sacrosanto diritto, la folla non si limiti a
colpire i criminali nei beni, ma cominci a colpirli
anche nelle persone ». Perché « qualche
incettatore penzolante dal lampione vicino al
covo dei suoi misfatti, qualche trafugatore di
alimenti schiacciato sotto delle patate o sotto i
lardi nascosti per produrre il rialzo artificiale,
servirebbero di esempio »38.
Mussolini denuncia l’imbarazzo del Partito
socialista e della C.G.L., disorientati e come
pesci fuor d’acqua, e mette in ridicolo il
manifesto nel quale si preoccupano di « non
creare facili illusioni »39. Tutta l’Italia è scesa
nelle piazze. Il governo non può farci niente
perché non dispone delle forze necessarie a

57
intervenire nello stesso tempo dappertutto. «
Nei gravi tumulti scoppiati in varie parti d’Italia,
rimasi impressionato che, per riunire le forze
sufficienti a fronteggiarli — scriverà Tittoni,
ministro del Gabinetto Nitti — occorresse far
venire guardie e carabinieri dalle regioni
immuni che rimanevano così sguarnite…
Più volte ebbi a domandarmi che cosa avrebbe
potuto fare il governo se un movimento di
rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in
tutta la penisola. »40
L’agitazione contro l’alto costo della vita
prende rapidamente un carattere nazionale 41,
ma non c’è nessuno per coordinarla, per
dirigerla, per darle uno scopo e attuare così la
spinta in avanti ch’essa rappresenta. La
direzione massimalista del Partito socialista non
vuole « creare illusioni » e rinvia sempre il tutto
(non saprà fare altro che questo fino alla marcia
su Roma) alla « rivoluzione ormai prossima », la
vera, quella che avrà l’impronta « autentica » di
Mosca42. Nell’attesa, i commercianti portano,
come a Bologna, le chiavi dei loro magazzini alla
Camera del lavoro, mentre l’amministrazione
socialista impone un calmiere dei prezzi. I
Comuni, le Camere del lavoro, ecco il « secondo
potere » che sorge contro lo stato o in
assenza dello stato, ecco i « Soviet » italiani, in
cui confluiscono le antiche tradizioni della vita
municipale e la storia recente del movimento
operaio43. Ma questi « Soviet » non sono fatti «
come in Russia », ed i sedicenti capi si ostinano
a crearne di tutto punto, dal nulla, sul
modello russo. Poiché la rivoluzione ha un

58
aspetto italiano e popolare, i « rivoluzionari »
che vogliono i « Soviet » dappertutto le passano
accanto senza riconoscerla.
D’altro lato si organizza, per il 20-21 luglio,
uno sciopero generale — che avrebbe dovuto
essere internazionale — di solidarietà con le
repubbliche sovietiche russe ed ungheresi.
Questo sciopero è stato deciso alla Conferenza
di Southport, ma all’ultimo momento la
C.G.T. francese si ritira e solo i socialisti italiani
tengono a far onore ai loro impegni44. Tutti
temono qualche cosa di grave, l’atmosfera è
minacciosa e piena di inquietudini, ma non
succede niente. Lo sciopero « politico » non
è che una parata che si eseguisce senza slancio:
in esso non agiscono quelle passioni o quegli
interessi che hanno scatenato le sommosse
contro il carovita. L’incubo delle classi dirigenti
si dissipa; esse riprendono fiducia e
si preparano alla lotta45. Mentre le città
subiscono le scosse degli scioperi, delle
agitazioni contro il carovita e dei conflitti
industriali, nelle campagne si inizia una
rivoluzione, che pure sfugge ad ogni controllo
dei capi socialisti e sindacalisti. Masse di
contadini ex-combattenti occupano le terre non
coltivate, i latifondi, e vi si istallano. « Durante
la guerra, si era sempre parlato della terra ai
contadini. Vi sono delle promesse che non si
fanno invano. Quando i contadini invasero
alcune terre dell’agro romano, si videro soldati
di un reggimento glorioso in guerra per il suo
eroismo, applaudire i contadini invasori
che portavano sul petto i distintivi della guerra e

59
i nastri delle medaglie al valore » (Nitri) Il
movimento si allarga nel mese di agosto nella
campagna romana e raggiunge il Mezzogiorno.
Il Partito socialista, che continua a guardare alla
Russia, ove pure « la fame di terra » del
contadino è stata il fattore essenziale della
vittoria rivoluzionaria, resta estraneo a questo
movimento delle masse rurali, che non
possiedono la tessera di alcun partito, di
nessun sindacato, e che a volte si mettono in
moto dietro una bandiera tricolore.
In novembre le elezioni politiche rivelano la
nuova faccia dell’Italia. Sono, grazie a Nitti, le
prime elezioni veramente libere da quando il
regno è unito47. La proporzionale, da lui
introdotta, favorisce il sorgere di grandi partiti,
il socialista ed il « popolare » (cattolico).
Quest’ultimo non ha che un anno di vita appena,
ed eccolo già in primo piano nella politica
italiana. Il Vaticano ha tolto ufficialmente il non
expedit, malgrado la « questione romana ». I
cattolici hanno potuto votare e prendono il loro
posto nella vita nazionale, nell’ambito dello
stato unitario. È una rivoluzione nella
rivoluzione48. Poiché l’anno 1919 è proprio
l’anno della rivoluzione italiana, della
rivoluzione democratica. Le masse hanno
cominciato la loro lotta per il pane, per la terra
e per la libertà. I ponti con il passato sembran
rotti per sempre: da questa rivoluzione, una
vera nazione, uno stato popolare
stanno finalmente sorgendo. È il presagio certo
della Quarta Italia.

60

Note al capitolo secondo

1 Questa cifra è data dalle statistiche fasciste. Pierre Renouvin

nella sua opera su La crise européenne et la Grande Guerre, p.


605, la fissa a 460.000.
2 R. Mondolfo, Per la comprensione storica del fascismo,
Bologna, Cappelli, 1922, p. XXII.
3 MARIA RYGIER, La Franc-maçonnerie italienne, cit., p. 91.

4 « Popolo d’Italia », 5 marzo 1919.

5 « Popolo d’Italia », 18 marzo 1919.

6 R. Grieco, Le ripercussioni della Rivoluzione russa in Italia,

in « Stato Operaio », 1927, II, pp. 985-94.


7 P. Nenni, Storia di quattro anni, Milano, « Quarto Stato »,

1927 [nuova edizione: Torino, Einaudi, 1946, p. 6: citeremo in


seguito questa ristampa].
8 Appello dell’Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di

guerra per la fondazione d’un’A.N.C., « Popolo d’Italia », 25


novembre 1918.
9 « Popolo d’Italia », 14 gennaio 1919: Appello
dell’Associazione dei Mutilati e Invalidi di Guerra. L’iniziativa è
confermata dal Congresso di Palermo di quest’Associazione («
Popolo d’Italia », 7 aprile 1919). Dal suo canto il Comitato
Centrale dell’A.N.C. « delibera di proporre al prossimo Congresso
che l’Associazione promuova un’organizzazione politica informata
al pensiero e all’azione dei Combattenti » e designa
una commissione che ne deve preparare il programma («Popolo
d’Italia», 9 aprile). Mussolini segue questi propositi con molta
prudenza. Nel suo discorso del 23 marzo 1919 alla prima adunata
dei Fasci dichiara: « Noi non vogliamo fondare un partito dei
combattenti, poiché un qualcosa di simile si sta già preparando in
varie città d’Italia», Discorsi politici, pp. 61-2.
10 « Popolo d’Italia », 24 giugno 1919.

11 EMILIO LUSSU, APPENDICE VII, E Marcia su Roma e

dintorni, Parigi, Critica, 1931, pp. 7-12 [cfr. ora Milano, Avanti!,
1957 (N.d.E.)]. Cfr. anche Appendice XI (C. Rosselli).
12 Sull’atteggiamento dei socialisti italiani durante la guerra:
Alberto Malatesta, I socialisti italiani durante la guerra, Milano,

61
Mondadori, 1935; Michele Terzaghi, Guerra e socialismo. Crisi di
idee e di partito, Firenze, Colcini e Cencetti, 1915; Antonio
Graziadei, Idealità socialiste e interessi nazionali nel conflitto
europeo, Roma, Athenaeum, 1915 (2a ed., 1918); Arturo Labriola,
La conflagrazione europea e il socialismo, Roma, Athenaeum,
1915; Il Partito socialista e la guerra, opuscolo redatto da G. E.
Modigliani per incarico del Gruppo parlamentare socialista
nell’ottobre 1916, di nuovo pubblicato senza i tagli della censura
in « Comunismo » 1-15 giugno 1922, pp. 1043-54;
Angelica Balabanoff, articoli nella rivista « Demain », Ginevra, n.
10-12, ottobre-dicembre 1916 e Memorie, vol. I, Soc. Ed. Avanti!
(Parigi), 1931, pp. 79-115, 153-202; Comité pour la Reprise des
Relations Internationales, Le Parti socialiste italien et la guerre
européenne, Parigi, 1917; G. Fassina, L’attitude des socialistes
italiens durant la guerre européenne, in «Demain», Ginevra, n.
21, gennaio 1918; A. Lanzillo, La disfatta del socialismo, Firenze,
Libreria della Voce, 2a ed., 1918; La C.G.L. nel sessennio 1914-
1920, rapporto del Consiglio direttivo al Congresso confederale di
Livorno (gennaio 1921), Milano, La Tipografica, 1921, pp. i-
vi; Documenti socialisti intorno alla guerra, Milano, Libr. Ed.
Avanti!, 1916-1919: serie di opuscoli contenente specialmente
discorsi di deputati socialisti alla Camera nel periodo bellico; A.
Tilgher, La crisi mondiale e saggi critici di marxismo e socialismo,
Bologna, Zanichelli, 1921; Mario Bettinotti, Venti anni di
movimento operaio genovese, Milano, Problemi del lavoro, 1932,
pp. 122-146. Com’è noto, il P.S.I. aveva adottato la direttiva di «
non aderire alla guerra, non sabotare la guerra » (Almanacco
socialista 1917, Milano, S. E. Avanti!, pp. 85, 88); esso
però assunse un atteggiamento di più diretta opposizione a
partire dal 1917, specie colle circolari Lazzari ai sindaci socialisti
(cfr. a questo riguardo Maffeo Pantaleoni, Politica Criteri ed
eventi, Bari, Laterza, 1918, pp. 27-50: Nel fronte interno). Ma i
maggiori leaders del partito, e specie Turati e Treves, pur non
aderendo alla guerra, non nascosero le loro simpatie per l’Intesa,
Vedi i discorsi di Turati di questo periodo in Trenta anni dì «
Critica Sociale », Bologna, Zanichelli, 1921 e C. Treves, Come ho
veduto la guerra, Milano, Rassegna Internazionale, 1925 (2a ed.).
Questo atteggiamento ha dato luogo a critiche virulenti
nel pamphlet già citato di F. Paoloni, I Sudekumizzati del
socialismo. Sul carattere « conservatore » dell’opposizione del
partito socialista alla guerra, cfr. le acute osservazioni di Alberto
Cappa, Due rivoluzioni mancate, pp. 29-32 [S. Cilibrizzi, Storia
parlamentare, cit., t. VII, pp. 11-21, 54-8, 143-4, 149-51, 159-61,
296-7, 310, 316-20. Per lo stato d’animo dei socialisti italiani e

62
specie di Turati e di Treves alla dichiarazione di guerra, cfr. L.
Gasparotto, Diario di un deputato, Milano, Dall’Oglio, 1945, pp.
67-110].
13 Sulla partecipazione dei socialisti italiani alle Conferenze di

Zimmerwald (settembre 1915) e di Kienthal (aprile 1916), cfr. il


libro citato di A. Malatesta, le Memorie di A. Balabanoff, e sempre
di A. Balabanoff, La IIIe Conférence di Zimmerwald (si tratta
della Conferenza socialista di Stoccolma, settembre 1917), in «
Demain », Ginevra, n. 20; E. Modigliani, Nel ventennio di
Zimmerwald, in Almanacco Socialista 1935, Parigi, pp. 50-8.
14 Questo programma fu adottato a Milano nella riunione dell’8-

9 maggio 1917, e pubblicato nell’« Avanti! » del 15 maggio. Però


Filippo Turati era ostile a ogni accenno alla repubblica; il suo
testo diceva:
« Sovranità popolare, resa effettiva, ecc. ». Egli spiegò — più
tardi — confermando il suo dissenso, che la rivendicazione
repubblicana « fu introdotta contro la sua resistenza e contro il
suo voto e di alcuni altri, a semplice maggioranza » (« Critica
Sociale », 1918, n. 17, pp. 203-4).
15
Questo fu anche il titolo di un giornale interventista di
Roma, diretto da Gian Francesco Guerrazzi.
16 Appendice VIII (Modigliani).

17 In un articolo consacrato al quarto anniversario della


rivoluzione di Ottobre, Lenin notava: « Il più imperioso compito
della rivoluzione fu, in Russia, di natura borghese e democratica.
Fu di distruggere, nel paese, tutte le sopravvivenze del Medioevo,
di eliminare infaticabilmente Tonta, la barbarie e gli ostacoli ad
ogni cultura e ad ogni progresso… Noi abbiamo spinto la
rivoluzione democratica e borghese fino in fondo. Inflessibili e
coscienti, noi andiamo verso la rivoluzione sociale, sapendo bene
che nessuna inviolabile muraglia la separa dalla rivoluzione
democratica-borghese. L’ampiezza dei nostri progressi dipende
dai nostri sforzi: la lotta determinerà domani quali delle nostre
conquiste rimarranno acquisite per sempre ». Vedi in «
Correspondence internationale », 5 novembre 1921.
18
Al Congresso di Roma (« Popolo d’Italia », 19 gennaio
1919). Tra i postulati politici v’è anche la « proclamazione della
Repubblica confederale ». Per la convocazione di una Costituente
politica si era già pronunciato il 2 dicembre 1918 un convegno
dell’Unione, contro il patere di Leonida Bissolati e di Agostino
Berenini. Sull’U.I.L.: Mario Viana, Sindacalismo, Bari, Laterza,
1923, pp. 65-79.

63
19 Popolo d’Italia, 14, 17, 20, 25, 26 novembre 1918. Ma

poiché i socialisti paiono adottare la parola d’ordine della


Costituente, Mussolini « non intende prestarsi al loro giuoco », e
fa delle riserve (7 dicembre).
20 Manifesto del 3 aprile. Mussolini lo pubblica il 5 nel «

Popolo d’Italia » e se ne compiace in un editoriale.


21 « Epoca », 1° aprile 1919.

22 « Corriere della Sera », 4 aprile.

23 Cfr. p. 20.

24 « Popolo d’Italia », 24 giugno 1919.

25 Un ordine del giorno è specialmente consacrato alla


Costituente nella seduta del 10 ottobre, ove si constata che ormai
« il regime è posto in discussione », « Popolo d’Italia », 11 ottobre
1919.
26 P. Nenni, Storia di quattro anni, cit., pp. 7-8.

27 Il Consiglio della C.G.L. reclama la « convocazione della


Costituente » il 30 novembre 1918; la Direzione del partito esige
invece la Repubblica socialista e la dittatura del proletariato nella
riunione del 7-11 dicembre (cfr. il testo della mozione votata in A.
Malatesta, La crisi socialista, Milano, Sonzogno, 1923, pp. 28-30),
compreso G. M. Serrati, il quale dal carcere si era poco prima
espresso in favore della Costituente (P. Nenni, Storia di quattro
anni, cit., p. 11 n.). Il conflitto si acuisce al convegno di Bologna
(22-23 dicembre 1918), dove Turati presenta una sua mozione
(testo in « Critica Sociale », 1919, n. 1, pp. 5-6) di critica a quella
adottata due settimane prima dalla Direzione del partito, la quale
invece la riconferma additando « la tattica rivoluzionaria seguita
dai lavoratori russi e tedeschi come la più efficace per il
più pronto raggiungimento del potere politico e economico della
nazione ». Turati del resto riesce a mala pena ad interessare i
suoi colleghi deputati al suo testo ed a farlo adottare a
maggioranza in una riunione del gruppo a Milano (14 gennaio). Si
crea così uno sfasamento tra i tre organi: la Direzione del partito
è per i Soviet, Turati per l’azione socialista tradizionale e la
C.G.T. [sic, ma leggi C.G.L. (N.d.E.)], a mezza strada tra i due,
accetta la Costituente. Favorevoli alla Costituente erano anche
Claudio Treves, che polemizza su questo punto con Turati («
Critica sociale », 1919, nn. 3 e 4) e il deputato socialista
indipendente Annibaie Vigna, il quale nel novembre 1918 aveva
presentato alla Camera una proposta di convocazione della
Costituente, respinta dagli Uffici (cfr. la polemica con Turati in «
Critica Sociale », 1919, n. 12, pp. 142-4).

64
La Direzione del partito nella riunione del marzo (18-22) aveva
deciso a maggioranza (dieci contro tre) il distacco dal Bureau
international socialiste e l’adesione alla Terza Internazionale (v.
Cap. V, n. 5), deplorato l’indisciplina politica del gruppo
parlamentare, confermato il suo programma di dicembre, e
adottato lo sciopero generale come mezzo essenziale per agire
nella politica italiana. Tuttavia, poiché cominciava a soffiare vento
d’elezioni, essa respinse le formule più radicali proposte nel corso
della discussione da Gennari, pronunciandosi per la tesi
centrista di Lazzari, che da un lato affidava alla propaganda
elettorale il compito di « sostenere di fronte al sistema legislativo
parlamentare della borghesia il sistema di rappresentanza
proletaria per mezzo dei Consigli dei lavoratori » e dall’altro si
richiamava al programma social-democratico del congresso di
Genova, che postulava la necessità della conquista legale
dei pubblici poteri (cfr. infra Cap. V, n. 3). Nell’atmosfera rovente
di questo periodo il conflitto delle tendenze all’interno del partito
pare aggravarsi, ma la stessa temperatura di fusione finisce col
creare una corrente passionale d’unità. Gli avvenimenti
traducono sussulti apocalittici. Nel marzo sorge a Mosca la Terza
Internazionale, mentre il nuovo regime sovietico, a cui guardano
le masse con profonda simpatia è minacciato seriamente dagli
sviluppi della guerra civile. In marzo è schiacciata a Berlino la
seconda rivolta spartakista, ma il 21 scoppia la
rivoluzione comunista in Ungheria, e il 7 aprile è proclamata a
Monaco la repubblica dei Consigli. Il vecchio mondo è scosso da
una grave crisi politica ed economica da cui sembra non potersi
più salvare, e le cui manifestazioni, protraendosi, diventano
insopportabili a milioni di uomini. Soprattutto il fallimento della
Conferenza di Parigi e l’abbandono dei princìpi wilsoniani
liquidano le speranze che i popoli avevano per qualche tempo
riposto nella nuova pace e li spingono a guardare verso Mosca. A
questo contraccolpo non sfuggono neppure i socialisti di destra,
di cui i migliori (specialmente Turati, Treves, Modigliani) hanno
viva coscienza della necessità di un nuovo e solidale statuto
europeo. Essi hanno puntato su Parigi, seguono con fervida
attenzione i lavori della Conferenza, e su questo piano i loro
sentimenti, i loro giudizi non sono, in fondo, diversi da quelli delle
masse popolari e della sinistra socialista; anzi essi li affermano
con più lucida coerenza. Se non si tien conto di questo stato
d’animo, diventano incomprensibili talune loro
manifestazioni, come l’articolo di Turati: Contro il più enorme
delitto — L’ora del proletariato, che invoca l’azione e l’unità
proletarie contro i germi di guerra che si stanno seminando a
Parigi (« Avanti! », 31 marzo 1919), o come il manifesto del

65
Gruppo parlamentare socialista, adottato il 4 aprile. In esso non
mancano spunti di politica interna e vi si boccia anche
uno schema di riforme costituzionali, ma la sostanza e l’accento
sono nella lotta per una vera pace: « È possibile che i proletari
assistano impassibili a tanto scempio delle vantate promesse,
lascino passare senza insorgere, finché ne sono in tempo, questa
oscena soluzione della più grande politica della storia? Non è
tempo che essi considerino in tutti i paesi se quell’arma estrema
dello sciopero generale, che già potè servire egregiamente a
conquiste particolari, non possa servire ad affermare
internazionalmente la loro volontà di vita? Lo scopo a cui tende
l’opera nostra, e per il quale invochiamo il più intimo accordo fra
tutti i proletariati che si ispirano al socialismo, è questo:
costringere la Conferenza di Parigi al rispetto delle solenni
promesse ». Il manifesto si chiude con un appello ai lavoratori, ai
soldati, ai reduci: « È l’ora vostra! Dite a tutti i Partiti socialisti di
intendersi sopra le spianate frontiere; dite ai signori
della Conferenza di Parigi che affrettino la loro opera, perchè
un’èra nuova è cominciata per la quale essi sono già morti.
Proletari, in piedi! ». Questa presa di posizione ravvicina Gruppo
parlamentare e Direzione: al manifesto segue una nota da Roma,
annunciarne che « i rappresentanti della direzione del partito, pur
con le naturali riserve di principio sull’indirizzo generale del
manifesto, hanno dichiarato di vivamente compiacersi per la
adesione del G.P.S. al concetto dello sciopero generale » («
Avanti! », 5 aprile). Su questa adesione, cfr. la nota seguente.
28 Turati riprenderà lo stesso concetto nel suo discorso del 7
ottobre 1919 al Congresso socialista di Bologna. Dopo aver
affermato che la liquidazione della guerra dev’essere fatta da
coloro che l’hanno voluta, aggiunge: « Noi saremmo il più
malaccorto dei partiti e consumeremmo il nostro volontario
suicidio, se ci disponessimo a sostituirci ad essi in questo
momento, liberandoli (e ne sarebbero felici) delle loro
responsabilità ed ereditando tutte le conseguenze terribili della
guerra che non fu nostra ». [Di questi argomenti
anticollaborazionisti Turati si serve per meglio resistere alla
spinta massimalista, puramente verbale senz’essere meno
deleteria, verso la « conquista violenta » del potere. Ma nella
primavera del 1919 egli partecipa alla rivolta del sentimento
generale contro le soluzioni della Conferenza di Parigi (vedi nota
precedente) e la sua posizione non è quindi, in questo periodo,
puramente tattica. Grazie alla cortesia di Alessandro Schiavi
abbiamo potuto leggere un mazzetto di lettere del carteggio
Turati-Kuliscioff, di cui l’editore Einaudi ha con coraggiosa e

66
benemerita iniziativa intrapresa la pubblicazione (cfr. Cap. VI, n.
20): da alcune lettere di quell’epoca, risulta che pure la
Kuliscioff non rifugge del tutto dall’idea di un eventuale ricorso
allo sciopero, come momento supremo di una grande campagna
antiversagliese. Essa considera che « movimenti proletari negli
stati alleati potrebbero esercitare un’influenza decisiva » sulla
politica internazionale, specie in un senso favorevole alla
partecipazione della Germania e della Russia alla Lega delle
Nazioni (lettera del 4 marzo 1919); giudica il manifesto
del Gruppo parlamentare socialista (cfr. nota precedente) «
timido quanto all’affermazione di rivolta contro la pace armata, e
nello stesso tempo ardito al di là del necessario, invocando lo
sciopero generale » in modo troppo generico (lettera del 6 aprile);
vorrebbe pel prossimo 1° maggio « un’intesa coi francesi e inglesi
» e « appelli ai vari proletariati con avvertimenti dei grandi
pericoli a cui vanno incontro, se dovesse trionfare la
consumazione dell’enorme delitto di una pace di violenza e di
sopraffazione verso i vinti » (lettera del 7 aprile); deplora come
inutili gli scioperi generali di Roma e di Milano del 10 e 11 aprile,
rammaricando: «Almeno scoppiassero in tutti i paesi alleati e
contro i rispettivi governi per la loro impotenza di concludere una
pace che sia davvero la pace » (lettere del 12 e 13 aprile). Ma alla
mente della Kuliscioff non poteva sfuggire che i moti dovevano,
per raggiungere, nelle condizioni dei paesi occidentali, il loro
scopo, sboccare in azione di governi. Così nella lettera del 14
aprile essa scrive:’ « Per parte mia, se andassero colle gambe per
aria tutti gli attuali plenipotenziari, ne sarei felicissima ». Essa
auspica la caduta dei loro governi, ai quali « per necessità logica
degli avvenimenti » dovrebbero succedere « governi democratico-
sociali, creati e sospinti da moti popolari inevitabili ». E conclude:
« Non mi pare che, se tali avvenimenti si verificano, voi altri,
dell’ala destra del partito, potreste sottrarvi in coscienza al
dovere di assumervi la responsabilità della conclusione di una
pace, che non sia una semplice tregua. Tutto il consiglio
internazionale cambierebbe subito faccia: l’intervento
dei tedeschi, dei russi e dei neutri darebbe subito una tale
maggioranza alla vera Società di tutte le Nazioni, che sarebbero
necessariamente rintuzzate tutte le aspirazioni scioviniste, se
facessero capolino sotto qualsiasi parvenza. Preparati dunque,
caro mio, al pondo ponderoso di una vera azione rivoluzionaria, e
in tal caso non ti lascerò solo, seguendoti ovunque ».
Queste concezioni, questo nobilissimo ottimismo hanno dato la
loro impronta allo sciopero — che avrebbe dovuto essere
internazionale e fu soltanto italiano — del luglio 1919 (cfr. nota

67
44). Esse ispireranno ancora, dieci mesi dopo, l’appello di Claudio
Treves: Al potere: « È l’ora che i Partiti socalisti si intendano; è
l’ora che i proletariati mirino al potere. Basterebbe la revisione di
Versailles a onorare questo moto, questo tempo, a legittimare
questa passione di potere che si sprigiona dalle masse e che ha
fatto del 16 novembre una data piena di senso storico e umano
», (« Critica Sociale », 16-31 gennaio 1920, pp. 17-28).]
29 La Commune de 1871, Parigi, Librairie du Travail, 1921, p.
20.
30 Il fascismo e la crisi italiana, cit., p. xi.

31 Filippo Turati ricorderà ai primi d’ottobre 1920, in una

intervista al « Resto del Carlino » le occasioni perdute del 1919: «


C’è stato un momento, appena finita la guerra (allora la vita
riprendeva con nuovo slancio e c’era la smania diffusa di
rinnovarsi, di diventare migliori, di progredire), c’è stato un
momento in cui si sarebbe potuto iniziare con facilità un periodo
profondamente riformativo. La borghesia era disposta, anzi era
costretta, a concessioni imprevedute; ma il proletariato non ha
saputo né voluto approfittarne ».
32 Questa « ondata di pigrizia » ha imperversato su tutti i

paesi exbelligeranti. Gabriel Séailles la constatava in Francia in


un bollettino della Lega dei diritti dell’uomo: « Da tutte le località
del paese ci arriva lo stesso lamento: la casa è abbandonata al
disordine, l’operaio subisce una crisi di pigrizia, vuol guadagnare
di più producendo di meno. Si vorrebbero far cadere tutte le
responsabilità sulla classe operaia. La pigrizia prende molte
forme… Pigrizia, l’incuria di un governo che si lascia portare
dagli avvenimenti che non sa prevedere, l’assenza di ogni politica
economica e finanziaria, il ritardo nelle misure fiscali che
da molto tempo si impongono; pigrizia, l’inerzia burocratica, che
non sa sbarazzarsi dei vecchi metodi che col loro andazzo
paralizzano l’attività del paese; pigrizia, la sete di godere dei
pescecani di guerra, che pensano d’avere abbastanza guadagnato
per avere diritto al riposo; pigrizia, la mancanza di iniziativa e di
audacia dei capitani d’industria; pigrizia, il moltiplicarsi degli
intermediari che aumenta il caro vita; pigrizia, la volontà di
speculare sull’accaparramento dei prodotti invece di
accrescere la produzione organizzando il lavoro ». In questo
quadro della Francia del 1919 si ritrovano tutti gli aspetti che alla
stessa epoca si notavano nella crisi che attraversava l’Italia.
Giuseppe Massarenti, in una intervista del novembre 1919,
dichiara: « C’è in tutti un’irrequietezza che non è possibile
frenare con mezzi materiali, che porta al disinteressamento della

68
produzione, alla avversione al lavoro, alla disabituazione alla vita
quale deve essere in una società che non voglia uccidersi » (L.
Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra
italiana, Bari, Laterza, 1933, pp. 289-90).
33 GIORGIO MORTARA, Prospettive economiche 1925,
Milano, Università Bocconi, pp. 20-1.
34 I maestri si mettono essi pure in sciopero, nella prima

quindicina di giugno. Chiedono uno stipendio minimo iniziale di


10 lire al giorno e un’indennità di carovita pei pensionati, di cui
alcuni ricevono ancora, dopo quaranta anni di servizio, tra 40 e
60 lire al mese. Altro caso: lo sciopero delle sartine del marzo
1919 a Torino: con giornate da 12 a 14 ore di lavoro, la media
delle loro paghe era da 2 a 4 lire al giorno; da 50 a 60 centesimi
per le apprendiste.
35 Cfr. oltre, pp. 52-3.

36 Ordine del giorno dei Fasci di Combattimento (cfr. nota

38).
37 Ordine del giorno dell’Unione italiana del lavoro (cfr. nota
38).
38 Articolo di Alceste de Ambris, Giustizia di popolo,
pubblicato come i due ordini del giorno suddetti nello stesso
numero del « Popolo d’Italia » (5 luglio 1919), uscito con un gran
titolo: L’agitazione nazionale contro il caro-viveri. Le parole
d’ordine dei Fasci e dell’Unione italiana del lavoro.
39 « Le masse popolari hanno sommerso i socialisti ufficiali. £

la verità. L’organizzazione pussista non dispone ancora di quadri


sufficienti per contenere le moltitudini. Questo spiega, oltre a
ragioni individuali e allo spirito di conservazione dei capi,
l’attuale evidente grandissimo imbarazzo e disorientamento del
pus », « Popolo d’Italia », 7 luglio 1919 (cfr. nota 42).
40 T. Tittoni, Nuovi scritti di politica interna ed estera,
Milano, Treves, 1930, pp. 278-9.
41 I fatti più gravi si producono agli inizi di luglio alla
Spezia (1° luglio), nelle Romagne: Forlì, Imola, Faenza (2 luglio),
ad Ancona (2 luglio), a Firenze e a Bologna (3 luglio), a Torino
(Borgo San Paolo, 4 luglio), a Milano (6 luglio). In quest’ultima
città, scrive l’« Avanti! » del 7 luglio, « non c’è quartiere che sia
rimasto immune dai tentativi di saccheggio ». Cfr. A. Malatesta,
La crisi socialista, cit., pp. 37-40; P. Nenni, Storia di quattro anni,
cit., pp. 28, 31-2; Maffeo Pantaleoni, La fine provvisoria di
un’epopea, Bari, Laterza, 1919, pp. 280-302.

69
42 Il 4 luglio il segretario del partito, Lazzari, invita i socialisti

« ad essere presenti e vigilanti, ora che gli avvenimenti


precipitano verso la loro fatale soluzione ». Nel frattempo
sorgono qua e là « soviet annonari », « comitati di requisizione
popolare », mentre altrove le « commissioni dei prezzi »
municipali, o, in loro vece, i prefetti, ordinano requisizioni e
calmieri che prescrivono riduzioni di prezzo talora sino al 50 per
cento. Il problema si pone dunque di scegliere: o utilizzare
gli organismi amministrativi legali per una azione di calmiere, o
passare all’azione diretta ed extra-legale. Tipico il caso di Torino.
La Camera del lavoro di questa città aveva delegato i suoi «
commissari operai » a partecipare alle « commissioni
mandamentali di vigilanza e di disciplina annonari » create dalle
autorità. La Commissione esecutiva della sezione socialista non
approva queste deleghe che costituiscono « un atto
di collaborazionismo » e minaccia sanzioni contro gli eventuali «
indisciplinati » (« Avanti! » 7 luglio). La Camera del lavoro fa
allora macchina indietro e con un nuovo manifesto annuncia le
dimissioni in massa dei commissari operai già designati. E da
questo momento — salvata la nuova ortodossia — più niente di
concreto è fatto sul piano della lotta contro il caro-viveri.
La Direzione del Partito socialista si riunisce il 10 luglio
(quando già il movimento è in declino) e vota un ordine del giorno
Gennari in cui « esorta i compagni e i lavoratori… a rifiutare ogni
forma di collaborazione in comitati annonari, comitati misti, ecc.
» e ad istituire invece « dove ciò non sia già stato fatto, Consigli
di lavoratori, formati soltanto da rappresentanti diretti del
Partito, delle organizzazioni proletarie e delle leghe proletarie
mutilati. Tali Consigli avranno in questo momento il compito di
disciplinare e continuare le attuali agitazioni contro il caro della
vita… La loro azione sarà svolta esclusivamente sul terreno della
lotta di classe e sarà informata al proposito che un prossimo atto
finale del proletariato porti alla conquista del potere politico ed
economico, e che questo, sulla base della dittatura del
proletariato, sia affidato interamente agli organismi della classe
lavoratrice » (« Avanti! », 11 luglio).
Tutto ciò rimase sulla carta e il movimento si placò lasciando
dietro a sé una situazione peggiorata. Un leader anarchico,
Camillo Berneri, espresse qualche anno dopo un lucido e
coraggioso giudizio su quegli avvenimenti: « Che fecero i capi?
Lasciarono che la miope ira e la misera avidità del popolaccio
castigasse i commercianti, la cui maggioranza viveva dei
guadagni di un piccolo negozio. I grandi magazzini godettero del
privilegio di essere difesi dalla forza pubblica. I capi non seppero

70
affrontare l’impeto saccheggiatore, segnalando un campo più
vasto d’azione… Le conseguenze furono: che una parte delle
masse operaie credette che la rivoluzione non fosse altro che un
saccheggio su più vasta scala; che i grandi negozianti pensarono
al castigo ed i piccoli trovando ingiusto che la gente asportasse la
mercanzia dalle loro piccole botteghe, rimasero disgustati di quel
bolscevismo che nella loro empirica coscienza di piccoli borghesi
equivaleva a un nuovo saccheggio » («Il Martello », New York, 7
aprile 1928). Aggiungiamo che, anch’essa pronuba all’imperante
e scriteriata demagogia, la Lega nazionale delle cooperative, di
orientamento social-riformista, rifiutò di entrar nelle commissioni
istituite dal governo per la politica dei consumi.
43 « Le masse rivolsero il loro pensiero verso una sola
istituzione: la Camera del lavoro! », in cui esse hanno trovato « il
loro quartier generale », La C.G.L. nel sessennio, cit., p. 20.
Sull’importanza del comune cfr. M. Missiroli, Il fascismo e la crisi
italiana, cit., pp. 7-9.
44 Nel corso di conversazioni che avevano avuto luogo a Roma
e a Milano a fine maggio 1919 tra alcuni socialisti esteri (Jean
Longuet, Ramsay Mac Donald, Buxton) ed i capi socialisti e
sindacalisti italiani, la Direzione del P.S.I. aveva messo avanti « la
proposta concreta di uno sciopero generale dimostrativo da
effettuarsi contemporaneamente in Francia, in Inghilterra e in
Italia, come atto di solidarietà con il Governo dei Soviet e come
minaccia non inutile contro la politica di Versailles », e invitato
fin d’allora i compagni « a tenersi pronti all’invito del P.S.I. per
dare alla manifestazione un’ampiezza e una risonanza che non
ebbe mai in Italia » (« Avanti! », 9 giugno 1919). Un appello
analogo fu lanciato dalla C.G.L. Un primo incontro coi sindacalisti
ebbe luogo a Parigi il 14 giugno; altri seguirono, a cui
parteciparono D’Aragona, Lazzari, Serrati: i dirigenti della C.G.T.
francese si impegnarono a dar l’ordine di sciopero anche se gli
inglesi non vi partecipavano. Al congresso tradunionista di
Southport, dove D’Aragona fece delle dichiararazioni estremiste
(P. Nenni, Storia di quattro anni, cit., p. 30), si decise nella seduta
del 27 giugno la manifestazione comune pel 20-21 luglio, ma «
nelle forme più adatte alle circostanze e seguendo i metodi in uso
in ciascun paese ». Questa formula significava, praticamente,
che in Inghilterra non si sarebbe scioperato. Ciò malgrado, le
organizzazioni italiane (C.G.L., P.S.I. e Sindacato ferrovieri)
annunziarono lo sciopero per la data fissata e lanciarono in
questo senso un manifesto il 12 luglio. All’ultimo momento (18
luglio) la Confederazione francese decise di soprassedere allo
sciopero, e taluni dirigenti del Sindacato ferrovieri italiani ne

71
seguirono l’esempio; essi furono sconfessati, lo sciopero
ebbe luogo ugualmente, ma nella confusione creata da questi
ultimi incidenti. Va notato che in un primo tempo la
Confederazione bianca aveva aderito a « una sospensione di
lavoro pel 21 » allo scopo preciso di « protestare contro la falsa
pace di Versailles », ma poi ritornò sui suoi passi, a ciò sospinta,
tra l’altro, dalla Direzione del P.P.I. (G. De Rossi, Il primo anno di
vita del P.P.I., Roma, F. Ferrari, 1920, pp. 203-6).
45 Per comprendere le ripercussioni negative — nel campo

operaio — di questo sterile sfoggio di forze va ricordato che la


Direzione del P.S.I. aveva annunciato il 20 marzo 1919 la
preparazione di uno sciopero generale rivoluzionario. Essa aveva
poi preso la precauzione di spiegare che quello del 20-21 luglio
non poteva avere un tal carattere. In un’intervista pubblicata
sull’« Avanti! » del 4 luglio, Nicola Bombarci dichiara che lo
sciopero avrà « carattere dimostrativo e non rivoluzionario »,
aggiungendo però che non si rinunciava « neppure a una virgola
del nostro programma e alla preparazione dello sciopero
espropriatore ». Nella riunione allargata di Bologna (13 luglio)
sempre Bombarci insiste che « lo sciopero generale di 48 ore non
deve essere confuso con lo sciopero di carattere finalistico
deliberato dalla Direzione del partito ». Ma questo impiego di
strumenti « rivoluzionari » a scopi dimostrativi è fatto senza tener
conto dei riflessi inevitabili di tali strumenti sulla psicologia
delle masse messe in movimento e anche su quelle della
borghesia, che attraversò una vera crisi di panico. La Direzione
del partito non abbandona per questo le posizioni del marzo
1919: alla vigilia del Congresso di Bologna, nelle riunioni del 7-10
settembre, essa « riconfermando che il deliberato sciopero
generale per la virtuale presa di possesso del potere da parte del
proletariato, deve essere preceduto da una seria preparazione
pratica e tecnica, oltre che spirituale, delibera la
intensificazione di detto lavoro e passa all’o.d.g. ». Anche questi
fieri propositi non ebbero alcun seguito. Tirando le somme degli
eventi, la C.G.L. scrive nella sua relazione al congresso di
Livorno: « Il non avvenuto fatto rivoluzionario portò non diciamo
uno scoramento, ma una violenta correzione alle speranze degli
operai e, contemporaneamente, rialzò la già debole volontà
industriale di lanciarsi in una lotta che stroncasse la potenza del
sindacato operaio ». Cfr. La C.G.L. nel sessennio, cit., p. 21 e
P. Nenni, Storia di quattro anni, cit., p. 34.
46 Cfr. Nitti, L’opera di Nitti, cit., pp. 87-8 e cfr. sulle
occupazioni di terre della fine agosto-settembre 1919 in « Bulletin
périodique de la presse italienne» [d’ora in poi citato come B.P.I.

72
(N.d.E.)], n. 119, pp. 5-6.
47 [Nella prefazione alla nuova edizione del libro di Enrico

Flores, Eredità di guerra, Roma, Ed. di Politica, 1947, F. S. Nitti


riproduce alle pp. 18-23 le circolari da lui inviate ai prefetti per la
salvaguardia della libertà dello scrutinio.] Sui risultati delle
elezioni del 16 novembre: Ugo Giusti, Le correnti politiche
italiane attraverso due riforme elettorali dal 1909 al 1921
(monografia dell’Unione Statistica delle Città Italiane), Firenze,
Alfani e Venturi, 1922, spec. pp. 47-70, 93-8; Almanacco
Socialista 1922, pp. 473-4.
48 « Il significato più saliente della creazione del nuovo
partito fu quello di aver portato la corrente cattolica,
ufficialmente e senza sottintesi, a partecipare alla vita politica
dell’Italia », L. Sturzo, Popolarismo e fascismo, Torino, Gobetti,
1924,.p. 12; «Con la proclamazione ufficiale del Partito popolare
tramonta per sempre uno dei più penosi equivoci della nostra vita
politica. Da oggi i cattolici italiani entrano a far parte dello stato»,
M. MISSIROLI, Una battaglia perduta, cit., p. 83.

73
Capitolo Terzo

MUSSOLINI E IL FASCISMO DELLA «PRIMA


ORA»






Con l’armistizio, Mussolini sente che l’ora del
redde rationem è venuta per tutti, anche per lui.
La dittatura del Fronte interno, dalla quale è
stato protetto durante la guerra, è finita. Per
salvarsi dalla marea montante delle masse
esasperate, egli non può contare che su se
stesso. Con la smobilitazione, comincia per lui
un’ avventura personale, una lotta senza
quartiere, mortale, che non gli lascia quasi
nessuna alternativa. Non è ingombrato
da nessun bagaglio ideologico o sentimentale.
Non ha « né gli scrupoli, nè la fedeltà della
convinzione » 1. I testi non gli forniscono
princìpi, ma le formule di battaglia di cui ha
bisogno 2. Prova, a riguardo del pensiero, una
specie di diffidenza e di noia che l’obbligano a
gettarsi su tutto ciò che legittima l’irrazionale e
l’incoerenza. Egli scopre, spesso da letture di
terza mano, ma con sicuro istinto, la « volontà di
potenza » di Nietzsche, l’« unico » di Stirner3,
l’intuizione bergsoniana, i « miti » di Sorel, il
pragmatismo e, ultima scoperta, il relativismo di
Einstein. Non utilizza le idee che per sbarazzarsi

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delle idee. Gli si rimprovera di aver tradito « i
princìpi »? Ed egli raccoglie nelle sue
scorribande, tutto ciò che toglie, o sembra
togliere ai princìpi la loro sostanza, il loro
potere di costrizione: se i princìpi « non portano
alle loro conseguenze », dov’è il tradimento? Il
fatto, l’azione solo contano e, sul piano
dell’azione, non si può tradire: si vince o
si perde. Mussolini sa molto bene che, anche
nella lotta quotidiana, non si può fare a meno di
idee generali; così prende ogni volta, non
importa dove, quelle di cui abbisogna. Gli
accade così di fare della « filosofia » da
strapazzo, di raschiare dal fondo dei cassetti di
redazione dei tritumi, ch’egli lancia con un’aria
di boria e di disprezzo, e dove si riconosce il
duplice profilo di Monsieur Jourdain e di
Erostrato. Fa dell’ironia sui princìpi eterni
e rigidi, e afferma che « l’imperialismo è la
legge eterna ed immutabile della vita »4.
Rimprovera al marxismo di avere troppo
semplificato la storia, e proclama nello
stesso tempo che « è il sangue che dà il
movimento alla ruota sonante della storia »5.
Egli rifugge così dagli schemi per cadere nei
luoghi comuni, ma i luoghi comuni, se
vestiti d’immagini, hanno, in questo paesone che
è l’Italia, una enorme capacità di diffusione.
Inoltre si possono sempre facilmente
rimpiazzare con altri luoghi comuni e con
altre immagini, senza preoccuparsi del passato e
senza impegnare l’avvenire.
È proprio ciò che occorre a Mussolini che, il
29 gennaio 1919, si dichiara « un cinico

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insensibile a tutto ciò che non sia avventura e
pazza avventura ». Lo si deve prendere in
parola, e giudicarlo secondo la sua
propria definizione? Avventuriero, lo è, perché
non persegue nella sua vita altro scopo che
quello del proprio successo personale, e tutto
diviene per lui occasione e strumento; cinico
anche, poiché, secondo un suo amico che pur
gli resterà fedele, « l’amicizia, il sentimento non
han posto nel suo cuore »6. Ma non ha niente
del titano che scala il cielo, niente dell’eroe
romantico trascinato dalla furia delle passioni.
Appare piuttosto come « un classico, perché sa
interpretare tutte le grandi passioni, senza
sentirle » 7, passioni individuali e collettive, con
le quali egli giuoca come con le corde di uno
strumento. Angelica Balabanoff, che l’ha ben
conosciuto nel passato, ha ricordato degli
episodi nei quali egli fa la figura del
povero diavolo, che ha paura di una puntura di
siringa; altri ce l’hanno descritto mentre
cammina con molta spavalderia in mezzo ad una
folla ostile. Ma la psicologia corrente, che parla
della sua vigliaccheria o del suo coraggio,
tocca appena la sua vera personalità. Mussolini,
certo, calcola troppo per essere veramente
coraggioso, ma calcola abbastanza per non
rimanere schiavo dei suoi nervi. Ha un intuito
sicuro di ciò che meglio si conviene al suo
successo e finisce sempre per fare ciò che
questo successo esige. Nessun gusto del rischio
per il rischio, ma dopo aver fatto di tutto per
evitarlo o per ridurlo accetta quello che la
situazione gli impone, se è necessario per

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affermarsi o per non essere eliminato. Quando
scoppiò la guerra mondiale, egli si guardò bene
dal seguire i « garibaldini » nelle Argonne e,
dopo il maggio 1915, di arruolarsi come il suo
amico Corridoni. Egli non va al fronte che con la
sua classe. E appena è ferito, in un
incidente banale nel corso di un’esercitazione di
lancio di bombe a mano8, ritorna a Milano e vi
resta fino alla fine della guerra. Egli non ha
preso parte a nessuna azione, perché la sua vita
è troppo preziosa per rischiarla all’azzardo di «
una pallottola stupida », ma egli paga, con i suoi
trentotto giorni di trincea, lo scotto
strettamente necessario per potere, senza farla
troppo sporca, ritornare al suo giornale e lottare
per il suo avvenire personale. Se non fosse
partito, tutto sarebbe stato perduto per lui;
ma mai gli è passato per la testa di immolarsi,
come Corridoni o come Battisti, per il fine
supremo della guerra. Il fine supremo resta, per
Mussolini, Mussolini stesso; non ne ha mai
conosciuto altri.
Però la semplice mancanza di princìpi e di
scrupoli, se serve al suo giuoco personale, non
può condurlo molto lontano. Malgrado il suo
orgoglio ipertrofizzato (« ho incontrato pochi
uomini in Italia che mi possono stare alla pari
»9, confida prima della guerra a un amico),
Mussolini sa bene che, se resta solo, è perduto.
Il 10 novembre 1918, giorno del « corteo della
vittoria », egli sale su un camion di Arditi. Dopo
un’adunata nelle strade di Milano, finiscono tutti
in un grande caffè del centro. Là,
Mussolini arringa i suoi uomini: « Arditi!

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Commilitoni! io vi ho difeso quando il vigliacco
filisteo vi diffamava… Il baleno dei vostri
pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe
farà giustizia di tutti i miserabili che volessero
impedire la marcia della più grande Italia. Essa
è vostra!… A voi! ». Gli Arditi levano i loro
pugnali, li puntano sulla bandiera che è stesa
sulla tavola e gridano insieme: « Viva l’Italia! »
10. Così è costituita una guardia del corpo, per

i casi più urgenti.


Ma Mussolini è un uomo politico e sa che gli
sono necessari degli alleati, una organizzazione
sulla quale egli possa appoggiarsi. Il Partito
socialista e i sindacati della C.G.L. gli sono
ostili. Ciononostante, in questo blocco, una
fessura sta forse per prodursi. Direzione del
partito e Comitato direttivo della C.G.L. non
sono d’accordo. La C.G.L. ha confermato nel suo
Congresso di Bologna, alla fine del gennaio
1919, il programma del 1917, il programma
della « Costituente ». Mussolini trasalisce di
speranza e dà la sua adesione 11. La C.G.L. sta
forse per rompere il patto di alleanza già
concluso col Partito socialista e riprendere la
sua autonomia 12. Forse si va verso la creazione
di quel « Partito del lavoro » — a immagine
del Labour Party inglese — al quale molti dei
dirigenti della C.G.L. sono favorevoli. Mussolini
potrebbe collaborarvi con il suo giornale che,
nel frattempo, è divenuto, da « quotidiano
socialista », quotidiano « dei combattenti e dei
produttori » 13. Perciò egli comincia nel «
Popolo d’Italia » una campagna in favore
dell’unità sindacale e specialmente per la

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fusione della C.G.L. con l’Unione italiana del
lavoro, i cui dirigenti sono suoi amici e
son propensi, con lui, a una specie di «
socialismo nazionale ». L’Unione italiana del
lavoro si è pronunciata per l’intervento
dell’Italia in guerra; se essa ritorna nel seno
della C.G.L., la questione di principio sarà
superata14. Nella nuova C.G.L., nel nuovo «
Partito del lavoro », anche coloro che hanno
voluto la guerra saranno ammessi e Mussolini
potrà d’un colpo ritrovare quel contatto con le
masse che gli anni della guerra gli hanno fatto
perdere.
Ciononostante egli non s’impegna a fondo in
questo senso, perché le difficoltà che egli
incontra sono assai più gravi di quel che non
avesse previsto — la C.G.L. rifiuta poco dopo
l’unione con l’U.I.L., proprio a causa
dell’atteggiamento di questa durante la guerra
— e perché non vuole mai puntare su un’unica
carta. Egli pensa, sì, a riavvicinarsi al
movimento socialista, ma si tratta dei socialisti
di destra e, soprattutto, dei dirigenti della
C.G.L. Nello stesso tempo, egli non vuole
dividere con i socialisti di destra il rischio di
essere abbandonato dalle masse, divenute
impazienti ed esigenti. Così Mussolini fa
nello stesso tempo del « socialismo nazionale » e
della demagogia. Senza ancor rendersene conto,
egli è il precursore di tutti i « fascismi ». Nel
gennaio, prende posizione per lo sciopero dei
postelegrafonici15, per i ferrovieri. « Queste
richieste — scrive — sono legittime. Bisogna
accoglierle, almeno in parte. Accoglierle, senza

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indugio. Occorrono due, tre, cinque miliardi? Si
trovino. Si faccia il censimento della ricchezza
nazionale. Si lanci un prestito all’interno: il
prestito della pace. Si trovino all’estero fra i
nostri alleati. Si proceda, insomma, per trovare i
miliardi necessari, come si sarebbe proceduto se
la guerra fosse durata fino all’autunno 1919. »16
I ferrovieri devono realizzare la loro unità
sindacale: una sola organizzazione il riunirà
tutti, « dall’ispettore al manovale » 17. E
quando nel marzo i ferrovieri presentano
l’elenco delle loro rivendicazioni, egli le
appoggia tutte « senza riserve », ivi compresa
quella del diritto di sciopero, benché le
ferrovie siano in Italia un servizio pubblico 18.
Nel corso dello stesso mese un altro
avvenimento gli permette di lanciare una nuova
passerella verso il movimento operaio. Gli
operai dell’officina Franchi e Gregorini di
Dalmine (Bergamo), organizzati nell’Unione
italiana del lavoro, presentano un «
memorandum » con il quale reclamano,
soprattutto, la settimana inglese. In séguito ad
un rifiuto, si rinchiudono nell’officina, alzando
sulla ciminiera una bandiera tricolore e
continuano il lavoro, dichiarando che non
usciranno se non quando avranno ricevuto piena
soddisfazione 19. È la prima occupazione di
fabbrica del dopoguerra in Italia. Mussolini la
saluta nel suo giornale: « Il rifiuto, da parte dei
metallurgici sindacalisti, di abbandonare
le officine, significa la traduzione in atto di quei
nuovi orientamenti del movimento operaio
internazionale dei quali il nostro giornale ha

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sorpreso e studiato i fenomeni rivelatori. È la
massa dei produttori… che riconosce il
danno che alla classe e alla nazione arreca lo
sciopero tradizionale. La formazione del ”
Consiglio degli operai ”, che per tre giorni ha
provveduto alla direzione dello
stabilimento assicurandone il funzionamento in
tutte le sue branche e in tutti i suoi reparti,
rappresenta il tentativo onesto, lo sforzo
volenteroso, l’ambizione degna di succedere
alla classe sedicente borghese nella gestione del
lavoro »20. Dopo la vittoria, Mussolini è
chiamato a Dalmine, dove esalta le gesta degli
operai che hanno « inaugurato lo sciopero
creativo, che non interrompe la produzione », e
li incoraggia a perseverare: « Voi non avete
provato per brevità del tempo e le condizioni di
fatto createvi dagli industriali, la capacità a
fare, ma avete provato la vostra volontà, ed io vi
dico che siete sulla buona strada »21. Dopo di
lui, prende la parola Michele Bianchi,
futuro Segretario del Partito fascista e futuro «
Quadrumviro » della marcia su Roma. Così la
prima occupazione delle fabbriche si fa sotto gli
auspici del fascismo nascente 22.
Nel corso delle sommosse del giugno contro il
caro vita, Mussolini e i fasci si dànno ad una
concorrenza sfrenata con i socialisti e la
C.G.L.23. Il ritornello di Mussolini è quello di
tutti i demagoghi, la cui demagogia maschera e
sostiene un sostanziale opportunismo: « far
pagare i ricchi! ». Sa bene, che per salvare le
finanze italiane, per fare abbassare il costo della
vita, soddisfare i bisogni vecchi e nuovi delle

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masse e superare la crisi, ci vuole ben altro che
« decimare le ricchezze » o impiccare qualche «
accaparratore » al fanale. Ma bisogna gettare
qualche manciata di terra nelle bramose canne
del Cerbero popolare. « Le casse sono vuote,
scrive il 10 giugno, chi deve riempirle? Noi,
forse? Noi che non possediamo case, automobili,
banche, miniere, terre, fabbriche, banconote?
Chi può, deve pagare… Nel momento attuale
quello che noi proponiamo è l’espropriazione
fiscale. Delle due l’una: o i beati possidenti si
autoesproprieranno, e allora non vi saranno crisi
violente; o saranno ciechi, sordi, tirchi, cinici,
allora noi convocheremo le masse
dei combattenti verso questi ostacoli e li
travolgeremo. »24
Questi discorsi contribuiscono senza dubbio a
tendere la situazione sino al parossismo, ma non
significano per nulla che il « socialista » rinasca
in Mussolini, e che egli sia stato un socialista
fuorviato, reazionario suo malgrado. Fra
Mussolini e il suo passato vi è una barriera di
odio, di disprezzo e di sangue. Non gli si
perdona, più che il tradimento in sè, il modo del
tradimento, il denaro di Giuda che gli è servito a
fondare il suo giornale: il modo ancor m’offende.
Neppure se si ricoprisse la testa di cenere, se
recitasse il mea culpa, cosa alla quale del
resto il suo orgoglio non si piegherebbe mai. Ma
vi è ben più: Mussolini non è mai stato
socialista, egli non è stato che mussoliniano. Del
Partito socialista, egli ha scelto la sinistra,
soprattutto perché i vecchi capi erano a destra e
gli occorreva sbarazzarne il suo cammino.

82
Appena arrivato all’« Avanti! » elimina Claudio
Treves, di cui rifiuta gli articoli perché vuol
essere solo a dirigere il giornale, il suo giornale,
il che dà luogo a un duello. Espulso dal partito,
non sogna che « di fargli pagare »
l’umiliazione subita, e la lotta accanita che
conduce contro di esso è caratterizzata
dall’accento di sfida e guidata
dall’ossessione della rivincita. Mussolini inoltre
non solo è passato al campo opposto, come un
capitano di ventura del Rinascimento; egli ha,
nello stesso tempo, rotto i vincoli con la sua vita
di bohème e di « declassato ». Conosce il
benessere, ha delle amanti. La sua « volontà di
potenza » si incontra con il gusto della vita,
della bella vita, lontano dal sudiciume e dalla
miseria. Il denaro non gli basta, e non
determina, da solo, la sua condotta, ma egli non
può più farne a meno, perché sa ormai che « il
denaro fa la guerra » e che, senza il denaro di
Naldi e di Barrère, nel 1914 sarebbe stato
ridotto all’impotenza. Chi l’ha conosciuto nel
1912-1913, col suo aspetto miserevole, le
sue guance magre, i suoi occhi da febbricitante,
e lo incontra, ora, in Galleria a Milano, in abito
nero, con il collo robusto che si leva su un torso
possente, il viso tronfio e pieno, stenterebbe a
riconoscerlo, tanto il cambiamento è completo25.
Se adula le passioni popolari, non è perché le
condivida; vuol guadagnar tempo, per non
essere spazzato via subito. Segue la corrente, la
sopravanza qualche volta senza staccarsene, la
eccita anche, ma per meglio sfuggirle, perché
tutti i suoi gusti e i suoi bisogni lo spingono

83
dall’altra parte della barricata.
Così Mussolini non esita affatto ora a rompere
con gli « interventisti » democratici che, con
Bissolati, sono rimasti fedeli, anche dopo
l’armistizio, alle loro convinzioni, e continuano
ad opporsi alla politica miope di Sonnino.
Bissolati, anche lui già direttore dell’« Avanti! »
è stato uno dei quattro deputati socialisti esclusi
dal partito nel 1912, su proposta di Mussolini,
per il loro atteggiamento troppo « nazionalista »
durante la guerra di Libia. Dopo avere
partecipato alla campagna in favore
dell’intervento dell’Italia, egli si è arruolato nel
maggio del 1915, a 58 anni, riprendendo il suo
grado di sergente, e facendosi mandare subito
in prima linea. Ferito due volte nel luglio
durante l’attacco del Monte Nero, rifiuta di
rimanere a Roma, malgrado sia indebolito dagli
interventi chirurgici che ha dovuto subire,
ritorna al fronte in pieno inverno, sempre come
sergente. Il suo grande coraggio gli vale una
seconda medaglia durante la grande
offensiva austriaca della primavera del 1916. La
grave crisi politica del giugno lo obbliga a
partecipare al governo di « Unione Nazionale »
che si sta costituendo26. Ministro, non cessa un
solo istante di combattere l’« egoismo sacro »,
dichiara che la guerra ha uno scopo ben
superiore a quello del raggiungimento della
unità nazionale e proclama la necessità di una
stretta collaborazione con i popoli della
monarchia austro-ungarica, e della lotta per la
conquista delle autonomie nazionali. A causa del
conflitto, sempre latente, con Sonnino, che si è

84
aggravato alla vigilia della Conferenza di Parigi,
Bissolati dà le dimissioni, seguito poco dopo
da Nitti27. Lasciando il ministero, egli vuol poter
condurre, in piena libertà, la sua campagna in
favore di una pace veramente democratica e
chiede che l’Italia non resti prigioniera del
trattato di Londra. « Il barone Sonnino, dichiara
in una intervista, proclama la intangibilità del
Patto di Londra che assegna Fiume, città
italianissima, agli Jugoslavi, e insiste sul
possesso della Dalmazia (dove gli italiani sono
una infima minoranza). Io sostengo il
contrario: Fiume deve fare parte integrante del
regno d’Italia e la
Dalmazia deve essere attribuita agli jugoslavi.
28
» Il rispetto del principio di nazionalità e gli
interessi dell’Italia coincidevano: rimanendo
fedele ai vincoli del Patto di Roma, firmato
nell’aprile 1918 con i rappresentanti dei futuri
stati successori della monarchia austro-
ungarica29, l’Italia poteva essere « la prima
delle piccole nazioni » e vivificare, con il suo
apporto, un’Europa veramente pacificata e
rinnovata nei suoi fondamenti. Ma, venuto
il momento della spartizione, Sonnino e i
nazionalisti italiani si intestano a voler
realizzare i vantaggi del trattato segreto di
Londra — annessione della Dalmazia — e
chiedono nello stesso tempo l’annessione di
Fiume in nome di quei princìpi di nazionalità
che il Trattato di Londra, aveva, consule
Sonnino, sacrificato, poiché attribuiva Fiume
alla Jugoslavia30. Mussolini si butta dalla loro
parte ed inizia una campagna estremamente

85
violenta contro tutte le « rinuncie » 31. Bissolati,
invitato dalla « Famiglia italiana per la Società
delle Nazioni », viene a Milano l’11 gennaio, per
la prima di una serie di conferenze destinate ad
esporre e a diffondere « le idee wilsoniane in
favore di una pace fondata sul diritto e sulla
giustizia »32. Mussolini mobilita i suoi amici,
denuncia la « viltà » di Bissolati, e provoca una
gazzarra alla Scala impedendogli di pronunciare
il suo discorso33. Da questo momento la
rottura tra ogni possibile sviluppo democratico e
l’azione fascista diviene fatale: essa si produrrà,
come sempre, sulla linea di minor resistenza,
quella del nazionalismo esasperato.
Ma, in tal modo, il governo italiano è ridotto in
un vicolo chiuso. Si è fatto mandare dalla
Dalmazia centinaia di telegrammi nei quali i
funzionari italiani reclamano la annessione « in
nome della popolazione », ha favorito
le manifestazioni nelle città italiane al grido di «
Fiume o morte », ha fatto dire dalla stampa che i
« diritti » dell’Italia saranno difesi fino in fondo.
A Parigi, Orlando e Sonnino si trovano non solo
nella impossibilità di fare accettare questa
quadratura del circolo (il Trattato di Londra, più
Fiume), ma vedono minacciate anche le
posizioni del Trattato di Londra, che Wilson e i
serbi si rifiutano di riconoscere, poiché non è
stato loro comunicato 34. La delegazione italiana
si trova paralizzata, completamente assorbita —
è Tardieu che lo nota — nella questione di
Fiume, e la Conferenza si riduce a « un dialogo
a tre »; Wilson, Clemenceau, Lloyd George35.
Così, quando Orlando e Sonnino decidono, il 23

86
aprile, di abbandonare Parigi in segno di
protesta, il lor gesto cade nel vuoto, poiché non
muta alcunché della situazione. Ma il
sentimento nazionale italiano si mobilita intorno
a questo gesto. Manifestazioni di popolo
salutano, nelle stazioni, Orlando che pronunzia
dei discorsi infiammati. Il Parlamento italiano
approva l’atteggiamento del governo36 e
l’Italia conosce di nuovo l’atmosfera del maggio
radioso; affinché niente vi manchi, D’Annunzio
viene a Roma a reclamare l’annessione, in un
discorso all’Augusteo: « Il nostro maggio epico
ricomincia… laggiù, sulle vie dell’Istria, sulle vie
della Dalmazia che sono tutte romane, non udite
la cadenza di un esercito in marcia?… Con le
Aquile e col Tricolore, troncati gli indugi,
rinnovato il suo maggio, un’altra volta dal
Campidoglio si muove l’Italia. A noi!
»37. D’Annunzio, Mussolini, i nazionalisti,
chiedono al governo di annettere
immediatamente Fiume, la Dalmazia, il Tirolo, e
di mettere la Conferenza di Parigi davanti al
fatto compiuto. « Bisogna, scrive Mussolini il 29
aprile, mettere Parigi, e cioè i Tre, davanti al
fatto compiuto… Il fatto compiuto è un decreto
d’annessione, davanti al quale i jugoslavi, pur
digrignando i denti, s’inchinerebbero. I jugoslavi
non possono fare la guerra all’Italia. Non
hanno cannoni, né mitragliatrici, né aeroplani,
né munizioni, né viveri. Uomini? Non molti e
discordi. Essi li limiteranno a una protesta
diplomatica più o meno vibrata… l’occasione,
per l’Italia, è unica. Guai se il governo se la
lascerà sfuggire. O si risolve il problema, oggi,

87
secondo le linee semplici della necessità, o non
lo risolveremo più. » Si arriva anche a formulare
la minaccia di una alleanza dell’Italia « con tutte
le vittime dell’Intesa: ungheresi, bulgari e turchi
»38. Il governo ha lasciato credere che il
suo gesto fosse decisivo; i giornali insistono sul
« vuoto creato alla Conferenza dall’assenza
dell’Italia », sul « marasma », sul « disordine
completo » provocato dalla partenza della
delegazione italiana, partenza che ha liquidato «
la dittatura di Wilson »39. Ma, poco a poco, ci
s’accorgerà che non solo la Conferenza continua
i suoi lavori, ma che essa sistema numerose
questioni importanti: quelle dello statuto della
Società delle Nazioni, del Schleswig, del
Lussemburgo, dell’Anschluss reclamata dagli
austriaci. Orlando e Sonnino, senza essere
invitati, lasciano precipitosamente Roma perché
Barrère ha fatto loro sapere che si stanno per
decidere senza di essi le frontiere dell’Austria e
del Brennero. Orlando, questa « tigre
vegetariana », come lo chiama Clemenceau, non
trova più, nel suo viaggio di ritorno, delle folle
acclamanti. È una disfatta ed una umiliazione
che richiamano a molti italiani l’immagine
di una Italia vinta malgrado la sua vittoria,
perché la sua vittoria le è stata « rubata » dagli
Alleati. Questo sentimento di ingiustizia e di
mutilazione sarà il grande filone che Mussolini
sfrutterà freddamente, fino al delirio, e
che costituirà una delle premesse psicologiche,
forse la più importante, del successo fascista.
Mussolini e i nazionalisti hanno tutto da
guadagnare, infatti, facendo apparire l’Italia una

88
nazione « vinta ». È falso, perché forse nessun
altro paese ritrae, o può ritrarre, dalla guerra
tanti vantaggi quanto l’Italia. Non solo
essa completa, con la sua unità nazionale,
l’opera del Risorgimento, ma vede crollare il suo
nemico tradizionale, il suo antagonista diretto,
la monarchia degli Absburgo. La Germania,
malgrado le dure condizioni che le sono
imposte, resta in piedi, destinata a ritrovare, un
giorno o l’altro, il suo posto in Europa: e
l’Inghilterra e la Francia, ora vittoriose,
dovranno di nuovo fare i conti con lei.
Invece, l’impero austro-ungarico sparisce,
smembrato, eliminato dalla storia. Se le classi
dirigenti italiane avessero avuto la larghezza di
vedute necessaria, se non avessero ceduto ai
ricatti di Mussolini e dei nazionalisti, se si
fossero messe alla testa del movimento dei
popoli dell’antico impero, l’Italia avrebbe
rimpiazzato e la Germania e gli Absburgo e la
Francia nella direzione della politica danubiana
e balcanica. La Piccola Intesa sarebbe cresciuta
intorno al suo asse. Invece, mentre gli Alleati si
dividevano le colonie tedesche in Africa e
Tantico impero turco nel vicino Oriente, liberali,
fascisti e nazionalisti s’ipnotizzano su alcuni
scogli dell’Adriatico. Se in questo mare
ritornato « amaro » sono sorte delle difficoltà, i
principali responsabili non sono proprio coloro
che hanno firmato il Trattato di Londra,
abbandonando Fiume alla Jugoslavia e che, fatto
l’armistizio, non hanno trovato niente di meglio
che ricominciare la politica dell’« egoismo sacro
»? Ma la storia non è un tribunale che separi,

89
nei suoi giudizi, i colpevoli dalle vittime. Essa
colpisce nel mucchio, come il Geova della
Bibbia. Spesso succede appunto che i
responsabili del male profittino delle reazioni
incoscienti che questo male provoca. È il caso
dell’Italia, ove la « disfatta diplomatica » che
Bissolati aveva invano prevista è utilizzata da
coloro che l’hanno resa inevitabile. Le classi
dirigenti, i fascisti e i nazionalisti che hanno «
mutilato » la vittoria italiana, trovano nel
sentimento nazionale ferito il mezzo più efficace
per aggrapparsi al potere e condurre la lotta
contro la rivoluzione democratica40.
Mussolini non ha solo questa corda al suo
arco. Mentre reclama dal governo una politica
estera ultranazionalista, egli conduce la sua
campagna contro lo stato. Ciò lusinga
l’anarchismo latente nel popolo italiano e
soprattutto nella borghesia media: ufficiali
smobilitati e malcontenti, studenti che si
sentono a disagio sui banchi dell’università,
bottegai in lotta contro le imposte, « declassati »
di tutte le specie che vogliono « qualcosa di
nuovo », assicurano al fascismo nascente un
alone indispensabile di non conformismo e di
eresia. Nello stesso tempo, e soprattutto, tale
campagna va incontro alle rivendicazioni degli
industriali, dei commercianti, della
borghesia capitalista in genere. Il « Popolo
d’Italia » proclama la incapacità dello stato a
gestire i servizi pubblici e propone che siano
affidati alla industria privata e che lo stato
si spogli di tutte le funzioni economiche41.
Questo diviene il leitmotiv comune

90
dell’agitazione fascista e delle assemblee delle «
congregazioni » economiche, come quelle che si
tengono a Genova, al principio dell’aprile 1919,
dove industriali e agrari concludono un patto di
alleanza per lottare a un tempo contro i
monopoli di stato, contro le sopravvivenze
dell’economia di guerra e contro il «
bolscevismo ». Questa riunione è, del resto, il
primo passo verso una riorganizzazione delle
forze capitaliste che intendono fronteggiare le
minacce della situazione. Mussolini saluta
questo avvenimento e offre il suo aiuto42. Ha
bisogno di denaro, di molto denaro, e non può
ottenerlo che da questa parte. Egli trova così il
modo di soddisfare tanto le passioni confuse
della folla quanto gli interessi precisi dei
capitalisti, secondo quella bivalenza di
formule che è una delle sue grandi risorse.
Questa bivalenza è una delle caratteristiche
essenziali della ideologia e della propaganda
fascista, di tutti i fascismi, ed è naturale che la
si ritrovi nelle discussioni e nelle dichiarazioni
della Conferenza del 23 marzo 1919 a Milano,
ove i delegati e i partigiani dei Fasci si sono
riuniti per costituire una organizzazione
nazionale. La riunione si tiene in piazza S.
Sepolcro, nella sala messa a disposizione dal
Circolo degli interessi industriali e
commerciali. All’appello lanciato dal « Popolo
d’Italia » non rispondono molto più di un
centinaio di « fascisti » d’ogni specie. Anarco-
sindacalisti, Arditi, massoni, futuristi, sono a
lato degli ultra-conservatori. Tuttavia, la grande
maggioranza è costituita dai superstiti dei «

91
Fasci d’azione rivoluzionaria » del 1914-15, e
degli « interventisti » di sinistra. Il programma
che nasce da questa riunione, e che la
nuova organizzazione, i Fasci italiani di
combattimento, lancerà in giugno43, ne risente,
e rappresenta bene la temperatura e la spinta
del momento. Ecco ciò che i Fasci di
combattimento chiedono:
Per il problema politico:
Suffragio universale con rappresentanza proporzionale.
Voto alle donne.
Abolizione del Senato.
Convocazione di una Assemblea nazionale il cui primo
compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello
stato 44.
Formazione di Consigli nazionali tecnici del lavoro45.

Per il problema sociale:
Giornata legale di otto ore di lavoro.
Minimi di paga.
Partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al
funzionamento tecnico dell’industria.
Affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne
siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di
industrie o servizi pubblici.
Assicurazione d’invalidità e vecchiaia a partire dai 55 anni.

Per il problema militare’.
Istituzione di una milizia nazionale, con brevi periodi di
istruzione e compito esclusivamente difensivo.
Politica estera nazionale intesa a valorizzare nelle
competizioni pacifiche della civiltà la nazione italiana nel
mondo.

Per il problema finanziario’.
Forte imposta straordinaria sul capitale a carattere
progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione

92
parziale46 di tutte le ricchezze.
Sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e
abolizione di tutte le mense vescovili.
Revisione di tutti i contratti di forniture di guerra e
sequestro dell’85% dei profitti di guerra.

Questo programma, che il Comitato centrale


dei Fasci lancia in vista delle elezioni politiche, è
evidentemente molto più « a sinistra » di quel
che non lo vorrebbe Mussolini. Ma questi ha
bisogno d’una organizzazione a cui appoggiarsi,
e non vuole rischiare di alienarsi subito
coloro che sono venuti a lui grazie alle comuni
tradizioni dell’interventismo « rivoluzionario ».
Prende però un certo numero di precauzioni
perché il programma adottato non impegni
troppo l’avvenire. Mentre accetta le formule
dei suoi amici, le « interpreta » e le limita in tal
maniera che esse perdono il loro senso ed anche
finiscono per portare a conclusioni opposte. Alla
riunione del 23 marzo, Mussolini redige la
dichiarazione seguente:
L’adunata del 23 marzo dichiara di opporsi
all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia, e
all’eventuale imperialismo italiano a danno degli altri popoli
e accetta il postulato supremo della Società delle Nazioni
che presuppone l’integrazione di ciascuna di esse,
integrazione che per quanto riguarda l’Italia, deve
realizzarsi sulle Alpi e sull’Adriatico con la rivendicazione ed
annessione di Fiume e della Dalmazia47.

Già questa dichiarazione dà uno sgambetto ai


princìpi della Società delle Nazioni reclamando
la Dalmazia ove gl’italiani non sono che una
infima minoranza, mentre nel Tirolo e nella
Venezia Giulia, le frontiere già assicurate
all’Italia comprendono centinaia di migliaia

93
di tedeschi, di sloveni e di croati. I commenti di
Mussolini, con gli argomenti che impiega e con
lo spirito che li detta, tolgono alla dichiarazione
tutto il suo contenuto « societario ». Mussolini,
se deve alloggiare provvisoriamente alla insegna
della Società delle Nazioni48, introduce
nella casa l’esplosivo che dovrà farla saltare:
Abbiamo quaranta milioni di abitanti su una superficie di
287 mila chilometri quadrati, separati dagli Appennini che
riducono ancora di più la disponibilità del nostro territorio
lavorativo: saremo fra dieci o venti anni sessanta milioni ed
abbiamo appena un milione e mezzo di chilometri quadrati di
colonia, in gran parte sabbiosi, verso i quali certamente non
potremo mai dirigere il più della nostra popolazione. Ma se
ci guardiamo attorno vediamo l’Inghilterra che con
quarantasette milioni di abitanti ha un impero coloniale di 55
milioni di chilometri quadrati e la Francia che con una
popolazione di trentotto milioni di abitanti ha un impero
coloniale di 15 milioni di chilometri quadrati. E vi potrei
dimostrare con le cifre alla mano che tutte le nazioni del
mondo, non escluso il Portogallo, l’Olanda, il Belgio, hanno
tutte quante un impero coloniale al quale tengono e che non
sono affatto disposte a mollare in base a tutte le ideologie
che possono venire da oltre oceano. Lloyd George parla
apertamente di impero inglese. L’imperialismo è il
fondamento della vita di ogni popolo che tende ad
espandersi economicamente e spiritualmente… E diciamo: o
tutti idealisti o nessuno. Si faccia il proprio interesse….Noi
vogliamo il nostro posto nel mondo poiché ne abbiamo
diritto… Se la Società delle Nazioni deve essere una solenne
« fregata » da parte delle nazioni ricche contro le nazioni
proletarie per fissare ed eternare quelle che possono essere
le condizioni attuali dell’equilibrio mondiale, guardiamoci
bene negli occhi49.

Che rimarrà dopo una simile « spiegazione »,


dei sette od otto punti della dichiarazione? 50
Ciononostante, siccome, malgrado tutto, i
princìpi adottati, anche in una maniera così
singolare, potrebbero divenire incomodi,

94
Mussolini s’incarica di ridurre senz’altro il
significato e la portata di tutto il programma,
ripudiando o evitando etichette e definizioni. I
fascisti non sono né repubblicani, né
monarchici, né cattolici, né anticattolici, né
socialisti, né antisocialisti: sono dei «
problemisti » e dei realizzatori51. Faranno a
vicenda, secondo il caso, « della collaborazione
di classe, della lotta di classe,
della espropriazione di classe »52. E poiché
Videa del partito implica quella di una dottrina e
di un programma, saranno l’antipartito53.
Questo atteggiamento squalifica i vecchi partiti,
risponde ai bisogni di coloro che cercano «
qual* cosa di nuovo » e permette di evitare il
terreno pericoloso dei princìpi, i tranelli mortali
della coerenza. L’accento poggia sull’idea dell’«
azione ». Questo seduce molto i giovani, che
vanno « verso la vita », che sono
insofferenti degli ostacoli, e vogliono allo stesso
tempo godere e donarsi e soprattutto
affermarsi. Il fascismo li sospinge sulla via del
minimo sforzo. Tutto si semplifica, perché i
pensieri non hanno ancora avuto il tempo di
formarsi, di riunirsi, di urtarsi, che già si
scaricano nell’azione, nel gesto che trascina ed
esalta. La vita interiore si riduce ai più semplici
riflessi, si sposta dai centri nervosi verso
la periferia. Non vi sono né dubbi, né
inquietudini. Il giovane fascista, in mezzo ad un
mondo pieno di contraddizioni, constata con
gioia: non ho bisogno di pensare, quindi esisto.
Ecco perché il primo vero Congresso dei
Fasci, che si tenne a Firenze in ottobre, può

95
bene accentuare la nota repubblicana, proporre,
col Marinetti, l’espulsione del papato e lo «
svaticanamento » dell’Italia: tutto è annullato da
questa sola formula del discorso che Mussolini
vi pronunzia: « Noi fascisti non abbiamo dottrine
precostituite, la nostra dottrina è il fatto »
Ora, « i fatti », nell’Italia del 1919, sono lungi
dall’essere incoraggianti per il movimento
fascista e per Mussolini, che ha sempre un
senso molto sicuro delle realtà, e non ha niente
di un « pazzo di Dio » o di un Don Chisciotte.
Alla « Costituente dei Fasci », in marzo, egli
ha profetizzato: « In due mesi un migliaio di
Fasci saranno sorti in tutta Italia »55. Al
principio di luglio, è assai più modesto. « Il
fascismo… è pragmatista. Non ha apriorismi, né
finalità remote… Non presume di vivere sempre
o molto. » Quando avrà raggiunto il suo
compito, legato alla crisi attuale del paese, «
non si ostinerà a vivere: saprà brillantemente
morire senza smorfie solenni ». « Il fascismo,
aggiunge, rimarrà sempre un moto di
minoranze. Non può diffondersi all’infuori delle
città, ma fra poco, ognuna delle trecento
principali città d’Italia avrà il suo Fascio di
combattimento. »56 Anche questa prospettiva
limitata non si realizza. Al Congresso di Firenze
non sono rappresentati, si annuncia, che 137
Fasci e 62 in via di costituzione, con 40 mila
aderenti57. Queste cifre sono indubbiamente
false. Il rapporto del III Congresso nazionale che
ha luogo a Roma nel novembre 1921, in un
momento in cui il fascismo può permettersi di
dire, su questo punto, la verità, o almeno la

96
verità retrospettiva, dichiara ufficialmente che
al Congresso di Firenze non erano rappresentati
che « 56 Fasci con circa 17.000 iscritti »58.
In tutti i casi, siamo lontani dai 1000 Fasci
previsti nel marzo 1919, dai 300 sperati in
luglio. Il movimento sembra paralizzarsi
piuttosto che progredire. Mussolini teme più che
mai l’isolamento, soprattutto in vista delle
prossime elezioni, dove bisognerà prendere
posizione e contarsi.
Ai primi di luglio, egli comincia, a Milano, una
campagna per la creazione di un « Comitato
d’intesa e di azione ». Alla prima riunione
convocata per iniziativa del Fascio intervengono
i rappresentanti della Unione sindacale
(tendenza Corridoni), dei Fasci di
combattimento, della Unione socialista
(riformista), della Associazione degli arditi, della
Unione degli smobilitati, della
Associazione nazionale combattenti, del Circolo
rivoluzionario « F. Corridoni », del Circolo della
gioventù repubblicana, dell’Associazione
nazionale volontari di guerra, della
Federazione garibaldina, dei Fasci di
educazione sociale, dell’Unione italiana del
lavoro. Questa olla podrida offre pertanto
una immagine fedele dell’ambiente nel quale il
fascismo opera il suo primo reclutamento: gli
interventisti di « sinistra », riformisti e anarco-
sindacalisti, e gli ex combattenti democratici e
wilsoniani, ne formano la grande
maggioranza, ma essi sono a fianco dei
nazionalisti, dei reazionari ed anche dei semplici
« spezzatori » di sciopero. Mussolini propone la

97
formazione di un comitato permanente
per opporsi al monopolio dei socialisti. «
Comunque si sappia, e lo comprendano gli
interessati — dichiara — che la rivoluzione quei
signori non la potranno fare contro di noi. La
potrebbero fare senza di noi qualora avessero
i quadri e la volontà; ma loro non hanno niente
di tutto ciò. Se volessero imprimere ai
movimenti futuri causati dal dissesto economico
un carattere di rappresaglia contro di noi,
ripetiamo, daremo loro del filo da torcere,
tanto da farli pentire amaramente. »59
È facile riconoscere in questo linguaggio
violento di Mussolini un certo smarrimento, una
certa ossessione. I riflessi difensivi dominano e
dettano il suo atteggiamento. Le sommosse
contro il carovita non sono cessate; l’ora è di chi
si fa più rosso. Mussolini e gli altri delegati
decidono che « ove da tale crisi alimentare
abbia a scaturire un moto a carattere politico »,
si cercherà « d’incanalarlo nelle direttive
rivoluzionarie e rinnovatrici » delle associazioni
presenti alla riunione60.
Mussolini vorrebbe anche la formazione di un
blocco di tutti gli ex interventisti e dei
conservatori per cacciare i socialisti dal
Municipio di Milano al prossimo scrutinio 61. La
riforma elettorale è decisa. La proporzionale
tradurrà fedelmente la forza dei socialisti e dei
popolari. I piccoli partiti intermediari rischiano
di essere schiacciati. Così egli propone una «
concentrazione delle sinistre » che
dovrebbe allearsi agli interventisti di « destra »
(nazionalisti, liberali, democratici). Ma lo stadio

98
del movimento fascista è ancora così caotico e la
situazione così poco favorevole, che i Fasci
adottano, in vista delle elezioni, le tattiche
più differenti, secondo le possibilità e le
resistenze locali. A Roma, presentano un
candidato sulla lista della Alleanza nazionale,
composta di nazionalisti e di conservatori,
mentre i repubblicani, i riformisti e
l’Associazione nazionale combattenti formano
un blocco di sinistra. I fascisti proclamano
l’astensione a Verona e a Padova, entrano
nelle liste del « blocco nazionale » a Ferrara ed
a Rovigo, si uniscono agli ex combattenti a
Treviso. Quasi dappertutto, gli ex combattenti
formano liste a parte e ne escludono i fascisti.
A Milano, dopo lunghi negoziati, il blocco dei
partiti e gruppi di sinistra (Partito repubblicano,
Unione socialista, Associazione ex combattenti)
ha rotto con il Fascio. Questi si rifiuta di fare
una lista comune con essi, a causa d’un preteso
disaccordo sul programma elettorale, di cui
respinge il postulato del « riconoscimento
giuridico delle organizzazioni operaie », che
porterebbe al loro « strozzamento ». Perché
Mussolini è divenuto così sollecito pel
programma, lui che ha cento volte dichiarato
che i programmi non hanno alcuna importanza,
e che, poche settimane prima, proponeva
l’alleanza con i conservatori per battere i
socialisti? In realtà, i gruppi di sinistra hanno
dichiarato di voler fare una lista comune con i
fascisti, ma a condizione che Mussolini non sia
candidato62. Mussolini è odiato e disprezzato da
tutti i lavoratori. Gli ex combattenti lo

99
considerano come un imboscato, un venduto, ed
il suo nome renderebbe la lista troppo
vulnerabile. I gruppi che hanno formato il
Comitato d’intesa non vogliono entrare nella
lotta con un simile handicap. Mussolini rompe
allora i negoziati e presenta una lista sua63, che
ottiene, alle elezioni di novembre, circa 5 mila
voti, su circa 270 mila votanti nella
circoscrizione di Milano.
Questa disfatta colpisce duramente Mussolini,
perché si palesa proprio come uno scacco
personale 64. Aveva sperato di fare una breccia
nel muro delle ostilità che si drizzavano contro
di lui, e si sente rigettato dalla corrente in un
isolamento pericoloso. Si lascia andare, durante
le prime settimane, a riflessi di belva in
gabbia. Lui che, poco prima, aveva fatto
mandare, in un pacco, due bombe al prefetto ed
all’arcivescovo di Milano65, incarica un gruppo
di Arditi di gettare, il 17 novembre, il giorno
dopo le elezioni, una bomba sul corteo che
festeggia la vittoria socialista. Vi sono nove
feriti. Mussolini è arrestato. C’è la prova che ha
organizzato lui stesso l’attentato, ma non resta
in prigione che un giorno e una notte;
l’istruttoria non andrà oltre66. Nello stesso
tempo egli è in preda a una specie di
esasperazione « ideologica ».
Teorizza, con un miscuglio d’amarezza, di
sfiducia e di orgoglio la propria solitudine; si
confessa ad alta voce, libero per qualche istante
da ogni preoccupazione immediata, poiché tutto
è da ricominciare, e la nuova via si annunzia

100
aspra e lunga.
Noi che detestiamo dal profondo, scrive nel suo giornale il
12 dicembre, tutti i cristianesimi, da quello di Gesù a quello
di Marx, guardiamo con simpatia straordinaria a questo ”
riprendere ” della vita moderna, nelle forme pagane del culto
della forza e dell’audacia… Basta, teologi rossi e neri di tutte
le chiese, con la promessa astuta e falsa di un paradiso che
non verrà mai! Basta, ridicoli salvatori del genere umano che
se ne infischia dei vostri ” ritrovati ” infallibili per regalargli
la felicità! Lasciate sgombro il cammino alle forze elementari
degli individui, perché altra realtà umana, all’infuori
dell’individuo, non esiste67.

Così pure invia il suo « saluto cordiale »


all’anarchico Malatesta, rientrato
clandestinamente in Italia verso la fine di
dicembre68. Il 1° gennaio 1920, inizia il nuovo
anno intonando lo stesso credo:
Navigare necesse… contro gli altri, contro noi stessi… Noi
abbiamo stracciato tutte le verità rivelate, abbiamo sputato
su tutti i dogmi, respinto tutti i paradisi, schernito tutti i
ciarlatani — bianchi, rossi, neri — che mettono in commercio
le droghe miracolose per dare la ” felicità ” al genere umano.
Non crediamo ai programmi, agli schemi, ai santi, agli
apostoli; non crediamo soprattutto alla felicità, alla
salvazione, alla terra promessa… Ritorniamo all’individuo.
Appoggeremo tutto ciò che esalta, amplifica l’individuo, gli
dà maggiore libertà, maggiore benessere, maggiore
latitudine di vita, combatteremo tutto ciò che deprime,
mortifica l’individuo. Due religioni si contendono oggi il
dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due
Vaticani partono oggi le encicliche: da quello di Roma e da
quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni.

Lo scacco elettorale ha disorientato e


demoralizzato i Fasci. Mussolini, però, non si
sente ancora vinto. Prima di tutto, non è
interamente solo, e c’è un terreno sul quale può
mostrare, per il momento, la sua

101
superiorità. Contro le folle immense, ma informi
che corrono alle manifestazioni socialiste e
votano « rosso », Mussolini dispone di gruppi
armati, di teste calde decise a tutto, che
non esitano davanti a un cattivo colpo. Sono gli
Arditi, che si ritrovano in ogni città alla sede
della loro Associazione, divenuta quasi ovunque
un centro di organizzazione armata,
69
strettamente legata ai Fasci . Gli Arditi
hanno fiducia in Mussolini, che li adula e li
aizza. Dalle zone di guerra, attendendo la
smobilitazione, gli inviano telegrammi come
questo, firmato dai sottufficiali del 27°
Battaglione d’assalto: «…A te, Mussolini, il
nostro bravo per Popera tua; ma continua, per
Dio, a picchiar sodo, che c’è ancora tanto ”
vecchiume ” che ci contende il passo. Ti siamo
vicini in ispirito, ma verremo presto a
fiancheggiarti »70. I rapporti tra Arditi e fascisti
sono particolarmente stretti a Milano. Così
nell’aprile 1919, gli Arditi sono partiti dal loro
covo per attaccare di sorpresa la sede dell’«
Avanti! », il quotidiano socialista, che essi
saccheggiano ed incendiano71. Questo atto
grave, freddamente eseguito, e dove si poteva
riconoscere la longa manus di Mussolini, non
provoca nessuna risposta diretta. C’è
uno sciopero generale, al quale partecipa tutta
la popolazione operaia indignata, uno sciopero
che non conclude niente, e una sottoscrizione,
che frutta più di un milione per la ricostruzione
dei locali; ma la legge del taglione non viene
applicata72. Un anno dopo, nell’anniversario di
questo avvenimento, Mussolini può scrivere: «

102
Nella giornata del 15 aprile i massimalisti
milanesi rivelarono in piena luce solare la loro
anima filistea e pusillanime. Non un gesto di
rivincita fu delineato o tentato… Né i
denari raccolti, né le schede per i quindicimila
del pus bastano a cancellare la significazione
storica del giorno in cui il fantoccio
massimalista, smontato e troncato, rotolò
nelle acque limacciose del vecchio Naviglio »73.
Intanto, gli Arditi si sono, sempre più, raccolti
intorno a lui, e la sua guardia del corpo si è
accresciuta di nuovi elementi che ha fatto venire
a Milano verso la fine del 1919, e che ha pagato
coi soldi della sottoscrizione per Fiume. Un giurì
d’onore si occuperà, nel febbraio 1920, delle
accuse formulate contro di lui da due ex-
redattori del « Popolo d’Italia »; gli si
rimprovera in particolare la formazione di bande
composte « di elementi raccogliticci, Arditi e
borghesi, venuti da Fiume e da parecchie città
d’Italia, pagati a trenta lire al giorno, senza
contare il rimborso di notevoli spese, e
organizzati a scopo di intimidazione e violenze
». Mussolini lo riconosce, poiché non può
fare altrimenti, e dichiara al giurì: « C’erano in
complesso alcune centinaia di uoniini, divisi in
squadre, comandate da ufficiali, e naturalmente
tutti obbedivano a me. Io ero una specie di capo
di questo piccolo esercito »74, capo che, del
resto, non lascia mai gli uffici del suo giornale.
Quando i fondi della sottoscrizione per Fiume
sono esauriti, non più utilizzabili, dato lo
scandalo sollevato dai due redattori licenziati, è
il denaro degli industriali che permette a

103
Mussolini di continuare a mantenere il suo «
piccolo esercito ». Verso la fine dell’anno, gli
industriali gli forniscono grosse somme.
Mussolini comincia una grande campagna per
gli armamenti navali ed aerei, e per lo sviluppo
della marina mercantile75. Il 23 dicembre,
annunzia che sta per iniziare la lotta per una
politica estera d’espansione76, e fa sapere nello
stesso tempo che il « Popolo d’Italia », « avrà
nell’anno prossimo, i mezzi tipografici
indispensabili per un giornale di grande tiratura
». Su questo terreno, è dunque al sicuro: il
denaro non mancherà. Ma, per di più, l’impresa
di D’Annunzio e dei suoi « legionari » a Fiume
gli porta un aiuto insperato. Mussolini ne sarà il
grande profittatore, servendola dapprima,
tradendola poi.

Note al capitolo terzo

1 L. Sturzo, L’Italie et le fascisme, cit., p. 120.

2 Fin dal 1914 Giovanni Zibordi ha osservato in un articolo

della « Critica Sociale » (n. 15, p. 227), che Mussolini attingeva a


questi autori « fenomeno curiosissimo, la sanzione scientifica dei
proprii stati psicologici, e l’autorità per farli accettare dalla folla
».
3 Verso la fine del 1908 Mussolini scrisse un lavoretto su La
filosofia della forza (Postille alla conferenza tenuta dall’on. Treves
a Forlì), pubblicato nel « Pensiero romagnolo » (29 novembre, 6 e
13 dicembre), in cui esalta il concetto del « super-uomo » e in cui
Nietzsche è esasperato sino a Stirner [Riprodotto in La mia vita,
Roma, «Faro», 1947]. Torquato Nanni narra: « Gli autori che
aveva sempre sul tavolo: Schopenhauer, Nietzsche, Stirner »,
Bolscevismo e Fascismo, cit., p. 162. Cfr. nota 67.

104
4 « Popolo d’Italia », 1° gennaio 1919.

5 Discorso del 13 dicembre 1914 a Parma.

6 T. Nanni, Bolscevismo e fascismo, cit., p. 201. Mussolini dirà

a Emil Ludwig: « Non posso avere amici. Non ne ho. Anzitutto


dato il mio temperamento, e poi data l’opinione che ho degli
uomini. Perciò non sento la mancanza dell’intimità, né delle
discussioni », E. Ludwig, Entretiens avec Mussolini, Parigi, Albin
Michel, 1932, p. 240.
7 M. Missiroli, Il fascismo e la crisi italiana, cit., p. 59.

8 Mussolini s’è molto adoperato nei suo Diario di Guerra,

1915-1917 (2“ ed., Milano, Imperia, 1923) per « eroicizzare » il


suo soggiorno al fronte. Un ex caporale dell’11° Bersaglieri
affermerà in una lettera pubblicata sull’« Avanti! » (7 settembre
1919): « Benito Mussolini fu con me al fronte. Non prese mai
parte a nessun assalto. Al momento dell’attacco si squagliava
sempre… passando dall’una all’altra compagnia, con la
connivenza, naturalmente, del Comando » In ogni caso Mussolini
stesso dichiara in Ma Vie (« Candide », 7 giugno 1928) ch’egli fu
ferito dal prematuro scoppio di una granata in trincea.
9 T. Nanni, Bolscevismo e fascismo, p. 162.

10 «Popolo d’Italia», 25 novembre 1918.

11 Commentando i deliberati del convegno confederale di


Bologna della fine gennaio 1919, Mussolini dichiara « accettarli
in gran parte » e aggiunge: « Siamo dunque arrivati al ” partito
del lavoro ” che è, lo confessino o no, l’aspirazione ardente per
quanto segreta di tutti coloro che compongono lo stato maggiore
confederale », « Popolo d’Italia », 2 febbraio 1919.
12 Il patto, che attribuiva al P.S.I. la direzione degli scioperi

politici ed alla C.G.L. quella degli scioperi economici, era stato


firmato a Roma il 29 settembre 1918 (« Avanti! », 30 settembre).
Cfr. il testo in La C.G.L. nel sessennio, pp. 30-1; A. Malatesta, I
socialisti italiani e la guerra, pp. 288-9 segg. Pei precedenti
(mozione di Stoccarda dell’agosto 1907, patto di Firenze
dell’ottobre 1907, ecc.): Fausto Pagliari, L’organizzazione operaia
in Europa, 2a ed., Milano, Soc. Umanitaria, 1909, pp. 387 sg.;
Almanacco Socialista 1923, Milano, S. E. Avanti!, pp. 341-
3. Quando ci fu conflitto tra C.G.L. e P.S.I. sulle direttive politiche
(questione della Costituente), la prima dichiarò in un o.d.g. della
terza decade del marzo 1919 che il patto concluso era « sempre
in vigore ». Per le elezioni del novembre 1919 la C.G.L. esortò in
un manifesto i « proletari d’Italia a votare compatti per le liste
proposte dal Partito socialista », La C.G.L. nel sessennio, pp. 32-

105
3. Un patto di collaborazione tra la Lega nazionale delle
cooperative e il P.S.I. fu adottato al Consiglio generale della Lega
di Roma, 8-9 febbraio 1920, cfr. « La Cooperazione Italiana », 13
febbraio).
Un patto sorgerà anche nel gennaio 1921 tra il Partito popolare
italiano, la Confederazione italiana dei ‘ lavoratori («bianca») e la
Confederazione cooperativa italiana (id.); i suoi princìpi furono
definitivamente adottati in un o.d.g. del Consiglio Nazionale del
P.P.I. dell’8 marzo di quell’anno. Vedine il testo in L. Sturzo,
Popolarismo e fascismo, Torino, Gobetti, 1924, p. 370, e cfr.
Amar, Il Partito Popolare Italiano, Asti, Tip. M. Varisco, 1924, pp.
36-7.
13 Dall’agosto 1918 il « Popolo d’Italia » aveva mutato il suo

sottotitolo da « giornale socialista » in « giornale dei combattenti


e dei produttori ».
14 Al Congresso di Roma dell’Unione del lavoro un ordine del

giorno Rossoni, favorevole all’unità colla C.G.L., aveva ottenuto la


maggioranza (« Popolo d’Italia », 9 gennaio 1919). Commentando
questa decisione, Michele Bianchi scriveva: « La passerella è
gettata. La C.G.L. ha un sì o un no a dire » (Ib., 11 gennaio).
Rossoni aveva fatto presentire D’Aragona a mezzo di Galli, dei
Tessili, e quegli aveva risposto senza impegnarsi, ma senza
respingere l’iniziativa. La Direzione del partito le fu invece ostile
e la fece arenare.
15 « Il personale telegrafico ha ragione », « Popolo d’Italia », 6

gennaio 1919.
16 « Popolo d’Italia », 26 gennaio 1919.

17 Il « Popolo d’Italia » del 19 gennaio chiede l’« immediata


organizzazione di tutti i ferrovieri — dall’ispettore al manovale —
in una sola e compatta associazione ». Il 2 febbraio lo stesso
giornale ammonisce: « I ferrovieri devono realizzare in un primo
tempo la loro unità di classe ».
18 « Popolo d’Italia », 12 marzo 1919.

19 Il 16 marzo 1919.

20 « Popolo d’Italia », 19 marzo 1919.

21 Resoconto del « Popolo d’Italia » del 21 marzo 1919 e cfr.

inoltre B. Mussolini, Discorsi politici, cit., pp. 177-80.


22 G. B. Pozzi, La prima occupazione operaia delle fabbriche

in Italia nella battaglia di Dalmine, Storia Documentata, Betgamo,


Ed. Bergamasca, 1921 [G. B. Rossi, Dalmine nella luce del
ventennale, in « Corriere della Sera», 20 marzo 1939].

106
23 Cfr. pp. 26-7.

24 Discorso di Mussolini nelle scuole di Porta Romana, la sera

del 9 giugno, dopo quello di Alceste de Ambris consacrato all’«


espropriazione parziale del capitale », « Popolo d’Italia », 10
giugno 1919.
25 Ricordo personale.

26 Su Bissolati « cavaliere del socialismo » cfr. gli articoli di

Treves e di Turati all’occasione della sua morte (« Critica Sociale


», 1920, n. 10); I. Bonomi, Bissolati e il movimento socialista in
Italia, Milano, L. F. Cogliati, 1929; sul suo pensiero in politica
estera cfr. le due raccolte di suoi scritti: La politica estera
dell’Italia dal 1897 al 1920, Scritti e discorsi di L. B., Milano,
Treves, 1923 e F. Rubbiani, Il pensiero politico di L. B., Firenze,
C. Battistelli, 1921 e G. Salvemini, Dal Patto di Londra alla Pace
di Roma, Torino, P. Gobetti, 1925, pp. XIX-XXXI: L’interventismo
di Bissolati e Id., « Res Publica », Bruxelles, dicembre 1931. Vedi
anche L. Bissolati, Diario di guerra, Torino, Einaudi
1935. Sull’urto dei due interventisti, il democratico e il
nazionalista, cfr. A. Cappa, Due rivoluzioni mancate, cit., pp. 36-7:
« Per la esigua minoranza bissolatiana la guerra non doveva
affatto ostacolare l’avvento al potere politico del ceto operaio,
delle masse popolari; per le frazioni nazionaliste la guerra e la
vittoria dovevano invece servire a rovesciare i dati della politica
giolittiana, a respingere le élites proletarie, sviluppatesi
coll’organizzazione socialista, nell’assenteismo politico e nelle
dure condizioni economiche in cui si trovavano trent’anni prima…
Poche sconfitte furono più rapide, e più clamorose di quella
dell’on. Bissolati e del piccolo gruppo dei suoi seguaci. Quelle
frazioni interventiste che fino al giorno della vittoria avevano
dichiarato di dividere le idealità democratiche dell’on. Bissolati,
ora lo combattono con furore inaudito ». La critica più radicale —
di marca maurrasiana — dell’interventismo democratico, che fu
quello di L. B., si ha nel Manifesto a firma di Francesco Coppola e
Alfredo Rocco pubblicato nel primo numero di « Politica »
(dicembre 1918); cfr. anche: Maffeo Pantaleoni, Note in margine
alla guerra, Bari, Laterza, 1917, pp. 213-28: L. B. ministro del re.
Per meglio comprendere le reazioni dei nazionalisti bisogna tener
presente che, in un primo momento, essi si pronunziarono a
favore di un intervento italiano a fianco della Germania e
dell’Austria. In questo senso Maffeo Pantaleoni tenne in 25 luglio
1914 un discorso applauditissimo all’Associazione nazionalista di
Roma, che fu pubblicato senza riserve dall’« Idea Nazionale » del
31 luglio [G. Perticone, La politica italiana nell’ultimo trentennio,

107
cit., I, pp. 53-4].
27 Bissolati si dimette il 28 dicembre; le dimissioni di Nitti,

ritardate per non provocare una crisi durante il viaggio di Wilson


in Italia, sono discusse nel Consiglio dei ministri del 15 gennaio
1919, che dà luogo a un rimaneggiamento del Gabinetto. Agostino
Berenini, che in un primo tempo pareva voler seguire l’esempio di
Bissolati, resta nel governo, in cui entra un altro socialista
riformista, Ivanoe Bonomi. Per le polemiche suscitate da queste
dimissioni cfr. B.P.I. nn. 100 e 101. La lettera di dimissione è in L.
B., La politica estera dell’Italia dal 1897 al 1920, cit., p. 293.
28 Intervista del 6 gennaio al corrispondente romano della «

Morning Post» pubblicata nei giornali italiani del 12, B.P.I., n.


101, p. 6.
29 Alla Conferenza di Roma, riunita con l’autorizzazione del

governo italiano, i delegati italiani, polacchi, rumeni, cechi e


jugoslavi avevano proclamato la necessità della lotta comune
contro la monarchia degli Asburgo affinché « ogni popolo attui la
sua liberazione totale e realizzi la sua completa unità nazionale in
uno stato libero », italiani e jugoslavi, in un accordo particolare,
riconoscevano: « che l’unità e l’indipendenza della nazione
jugoslava sono di un interesse vitale per l’Italia come
il raggiungimento dell’unità nazionale italiana è un interesse
vitale per la nazione jugoslava ». Ambedue si impegnano a
sviluppare « al massimo la loro azione affinchè, durante la guerra
ed al momento della pace, gli scopi delle due nazioni siano
interamente raggiunti ». Si pronunziavano allo stesso tempo per
una difesa comune dell’Adriatico contro ogni egemonia. Fra i
membri della delegazione italiana che aveva concluso
questo accordo si trovava Benito Mussolini. Su questa
conferenza, cfr. Conferenza delle nazionalità soggette all’Austria-
Ungheria, Roma, in Campidoglio, 8, 9 e 10 aprile 1918. Testo
delle risoluzioni votate e riassunti dei discorsi pronunziati nella
seduta finale, Roma, Officina Poligr. Italiana, 1918; Il Patto di
Roma, scritti di G. Amendola, G. A. Borgese, Ugo Ojetti, Andrea,
Torre, Roma, « Quaderni della Voce », 1919; G. SALVEMINI, Dal
Patto di Londra alla Pace di Roma, cit., pp. 145-63, Id., « Res
Publica », cit., dicembre 1931. Sulla politica di collaborazione coi
paesi ex austro-ungarici, cfr. E. Benes, Souvenirs de guerre et de
révolution, Paris, E. Leroux, 1929, T. I, pp. 166 sgg. Critica,
nazionalistica del Patto di Roma in A. Rocco, « Politica », 19
gennaio 1919 (ripubbl. in Scritti e discorsi politici, II, pp. 552-4)
[S. Cilibrizzi, Storia parlamentare, cit., t. VII, pp. 322-47].
30 L’art. 5 del Trattato del 26 aprile 1915 diceva esattamente:

108
« I territori sopra enumerati saranno attribuiti dalle quattro
alleate alla Croazia, alla Serbia ed al Montenegro. Nell’Alto
Adriatico, tutta la costa, dalla baia di Volosca, sui confini
dell’Istria, fino alla frontiera settentrionale della Dalmazia
comprendente il litorale attualmente Ungherese e tutta la costa
della Croazia con il porto di Fiume, ecc…. ».
31 Mussolini apre l’anno 1919 con un articolo contro i «
rinunciatari ». Ma tra l’articolo del 1° gennaio e la cagnara contro
Bissolati (cfr. n. 33), il giorno dell’arrivo di Wilson a Milano (5
gennaio) egli, sensibile al movimento di folla, consacrò il numero
del giornale a questo avvenimento; il suo editoriale: L’opera di
Wilson, esalta il ruolo di arbitro del presidente americano, i cui
Quattordici punti sono inquadrati col titolo: Le tavole
fondamentali della pace. [Secondo Cesare Rossi, Mussolini
accetta dall’Associazione lombarda dei giornalisti l’incarico
di porgere il saluto della stampa milanese a un ricevimento in
onore di Wilson che ha luogo a Palazzo Reale, Mussolini com’era,
Roma, Ruffolo, 1947, p. 76.] Tutt’altro fu l’atteggiamento del
Partito socialista. L’amministrazione socialista di Milano (sindaco
Caldara) avendo deciso d’invitare Wilson in Municipio, un
comunicato della Direzione del partito, eletta al Congresso di
Roma, ammoniva i socialisti « ad astenersi da ogni manifestazione
di omaggio anche personale » (« Avanti! », 2 gennaio).
32 Il primo congresso della « Famiglia italiana della lega

universale per la società tra le libere nazioni » si


era aperto a Milano il 14 dicembre 1918 e vi si era
discussa una relazione di G. Salvemini sui princìpi che
dovevano reggere e rendere efficace la futura Società
delle Nazioni.
Mussolini aveva illustrato in una assemblea popolare tenutasi a
Milano la sera del 26 ottobre un ordine del giorno che invocava
l’« immediata » organizzazione di quell’associazione (Discorsi
politici, cit., pp. 147-53); egli si vanterà più tardi d’aver « tenuto a
battesimo il movimento societario in Italia » (« Popolo d’Italia »,
16 febbraio 1919).
33 II giorno 11 gennaio Mussolini si scaglia nel «Popolo
d’Italia» « contro le rinuncie degli immemori e dei codardi » e il
giorno seguente si compiace d’aver impedito il discorso: « Lo
sappiano in Italia e nel mondo: Milano non ha tollerato il discorso
di Bissolati ». Su questo discorso e le polemiche da esso suscitate:
B.P.J., n. 102, pp. 1-4; G. Salvemini, Dal patto di Roma, cit., pp.
246-60; C. Sforza, Les bâtisseurs de l’Europe moderne, cit., pp.
245-51; R. Farinacci, Storia della rivoluzione fascista, t. I,

109
Cremona, Cremona Nuova, 1937, pp. 79-89. (Osserviamo, una
volta per tutte, che Farinacci non ha scritto un rigo di
questa storia, dovuta al redattore capo di «Cremona Nuova»,
Paolo Pantaleo.) Il testo del discorso della Scala è in L. B., La
politica estera dell’Italia, cit., pp. 394-414; L. Rubbiani, Il
pensiero politico di L. B., cit., pp. 213-37; I. Bonomi, Bissolati,
cit., pp. 194-205.
34 Sulle questioni italiane e specialmente adriatiche alla
Conferenza della Pace e sui loro precedenti diplomatici: P.
Renouvin, La crise européenne et la grande guerre 1910-1918,
Parigi, Alcan, 1934; [M. Baumont, La faillite de la paix, Parigi,
Presses Universitaires, 1945]; Un livre noir, Diplomatie d’avant-
guerre et de guerre, d’après les documents des archives russes
(1910-1917), Parigi, Librairie du Travail, 1924-1934; L’intervento
dell’Italia nei documenti dell’Intesa, Roma, Casa Ed. Rassegna
Internazionale, 1923; Justus, Macchi di Cellere all’Ambasciata
di Washington, Firenze, Bemporad, 1921; Pierre-Henri Michel, La
question de’ l’Adriatique (1914-18), Recueil de documents, Paris,
A. Costes, 1938; G. Salvemini, La diplomatie italienne pendant la
grande guerre, in « Res Publica », ottobre e dicembre 1931; C.
Sforza, Les bâtisseurs de l’Europe moderne, Parigi, Gallimard,
1931. Più particolarmente sui lavori della Conferenza della Pace e
l’attività della delegazione italiana: [Andrea Torre, Versailles.
Storia della Conferenza della Pace, Milano, I.S.P.I. 1940, pp. 303-
73: La crisi italiana, pp. 381-90: Il ritorno della delegazione
italiana, pp. 394-403: Tentativi di soluzione della
questione adriatica-, FEDERICO CURATO, La Conferenza della
Pace, 1919-1920, vol. II: I problemi italiani, Milano, I.S.P.I.,
1942]; Papiers intimes du colonel House, pubblicati da Charles
Seymour, Parigi, Payot, 1931, t. IV, cap. XII e XIII; André Tardieu,
La paix, Parigi, Payot, 1921, pp. 430-35; Col. House e Ch.
Seymour, Ce qui se passa réellement à Paris en
1918-19, Parigi, Payot, 1923, pp. 99-117: D. W. Johnson, Fiume
et le problème de l’Adriatique-, UMBERTO ZANOTTI-BIANCO E
ANDREA CAFFI, La pace di Versailles, Roma, La Voce, 1919, pp.
5-35: La pace di Versailles e le delusioni italiane-, MAFFEO
PANTALEONI, La fine provvisoria di un’epopea, Bari, Laterza,
1919, pp. 165-256; L. Aldrovandi Marescotti, Guerra diplomatica
(1914-19), Milano, Mondadori, 1937; Id., Nuovi ricordi e
frammenti di Diario, Milano, Mondadori, 1938; S. Crespi, Alla
difesa dell’Italia in guerra e a Versailles, Diario 1917-1919,
Milano, Mondadori, 1938.
35 V. Nitti, L’opera di Nitti, Torino, P. Gobetti, 1924, p. 68;
inoltre cfr. A. Tardieu, La paix, cit., p. 12.

110
34 Dopo il suo discorso alla Camera del 29 aprile, Orlando
ottiene un voto di solidarietà: 482 favorevoli e 40 contrari (i
socialisti e il giolittiano Chiaraviglio). Per le ripercussioni italiane
delle vicende della Conferenza di Parigi, cfr. Louis Hautecour,
L’Italie sous le Ministère Orlando (1917-19), Parigi, Bossard,
1919; Ernest Lemonon, L’Italie d’après-guerre (1914-21), Parigi,
F. Alcan, 1922.
37 Ripubblichiamo in G. D’Annunzio, Il sudore di sangue, Roma,
presso la Fronda, 1930, pp. 29-68. Questo discorso è del 4
maggio. Il 23 aprile Luigi Federzoni, parlando sulla piazza del
Campidoglio, aveva già detto: « Si rinnova oggi la crisi angosciosa
e gloriosa del maggio 1915. Oggi come allora la voce del popolo
di Roma è voce potente di comando », L. Federzoni, Presagi alla
nazione - Discorsi politici a cura del Fascio romano di
combattimento, Milano, Imperia, 1924, pp. 127-30.
38
Articolo di Goffredo Bellonci nel « Resto del Carlino », 4
maggio 1919.
39 B.P.J., n. 110, p. 9.

40 « Il danno, che la politica sonniniana ha fatto, è stato


soprattutto morale. Ci ha fatto uscire dalle trattative della pace
svalutati dagli altri, scontenti di noi. Ha fatto credere al popolo
italiano che fosse stato derubato della vittoria. Nel disordine
intellettuale del dopoguerra, in cui poco mancò non si disfacesse
il nostro paese, la politica nazionalista ha avuto una grande parte
di responsabilità. Prendete un popolo non bellicoso; costringetelo
per tre anni e mezzo a fare una guerra spaventosa; a guerra finita
rimandatelo a casa cantandogli su tutti i toni che la vittoria è
stata vana, che il sacrificio non è stato compensato, che gli scopi
nazionali della guerra sono stati perduti, che tutto il mondo ci ha
truffato: e poi vi meravigliate se quel popolo vi manda tutti
al diavolo? In verità, il popolo italiano ha dimostrato di essere un
popolo tre volte buono, se sottoposto a un trattamento così
dissennato, non ha fatto, a guerra finita, una strage di tutti noi,
che lo avevamo trascinato nella guerra », G. Salvemini, Dal Patto
di Roma, cit., pp. LXXI-II. Su tutta la crisi della Conferenza della
Pace e le reazioni italiane in questo periodo vedi la serie dei
B.P.I., dal n. 106 al 111.
41 Cfr. specialmente l’articolo di Agostino Lanzillo, « Popolo
d’Italia », 6 gennaio 1919.
42 « Popolo d’Italia », 3 aprile 1919. Già il 31 gennaio lo
stesso giornale aveva inneggiato al convegno industriale tenutosi
a Bergamo e che aveva chiesto « l’abolizione dei monopoli ».

111
43 Pubblicato nel « Popolo d’Italia » del 6 giugno 1919 e

distribuito come manifesto. Oltre all’articolo del 30 marzo (cfr.


nota 45), Mussolini ha consacrato al programma due altri
editoriali: Dopo la negazione, l’affermazione (13 aprile); Idee in
cammino - Il programma dei « Fasci » - Dalla «rappresentanza
integrale» all’« espropriazione parziale» (12 maggio).
44 Nel discorso del 23 marzo al convegno di Milano Mussolini

dichiara: « Vogliamo un’Assemblea nazionale che dica Monarchia


o Repubblica. Noi diciamo fin da questo momento: Repubblica »
(« Popolo d’Italia », 24 marzo). Tali enunciazioni categoriche
spariscono nei documenti successivi, che insistono invece sul
carattere « agnostico » del fascismo in fatto di regime. L’opuscolo
dei Fasci: Orientamenti teorici - Postulati pratici, edito nel 1920,
dichiara che i Fasci « non hanno pregiudizi pro o contro le attuali
istituzioni » (cfr. pp. 8-9).
45 Mussolini inizialmente attribuiva una grande importanza a

questi « Consigli nazionali », che considerava come la « novità »


del suo programma (« Popolo d’Italia », 30 marzo 1919: Dopo
l’adunata. Linee del programma politico), situantesi a mezza
strada tra il Parlamento ed i Soviet, grazie a un sistema di «
rappresentanze dirette di tutti gli interessi ». Mussolini si
richiama, su questo punto, alle idee di Kurt Eisner, togliendone,
come sempre, quanto gli poteva servire. Di Kurt Eisner s’era
pubblicata proprio in quei giorni una raccolta di scritti e
discorsi (I Nuovi Tempi, con prefazione di Mario Mariani, Milano,
Sonzogno, 1919); il capo della effimera Repubblica bavarese
concepiva un periodo di transizione, di doppio, anzi di triplice
potere, in cui tra l’Assemblea nazionale provvisoria (Costituente)
e i Consigli di operai, soldati e contadini si situava un «
Parlamento suppletivo » ch’offriva « a tutte le classi e categorie
della popolazione la possibilità di difendere i loro interessi ». Cfr.
a questo riguardo l’articolo di Quinto Tosatti in « Critica Sociale
», 1920, n. 6. Assai prudentemente la mozione sulle
rivendica* zioni operaie votata dal C. D. della C.G.L. nella sua
riunione del 30 novembre 1918 (cfr. Cap. II, n. 27) reclama al
punto 4: « Trasferimento dal Parlamento ai corpi consultivi
sindacali, deliberatamente trasformati, dei poteri deliberativi per
la parte tecnica delle leggi sociali e i relativi regolamenti ».
46 Le parole: « espropriazione parziale » sono in lettere
capitali nel testo. Cfr. n. 24.
47 Discorsi politici, cit., pp. 63-4.

48 Agli inizi del 1919 Mussolini è ostile all’entrata immediata

della Germania nella Società delle Nazioni, che concepisce come

112
patto d’alleanza « fra le cinque nazioni dominatrici del mondo » («
Popolo d’Italia », 9 gennaio), aderendo a questo riguardo alle tesi
di Poincaré (lb., 20 gennaio). Il 9 febbraio egli pubblica il progetto
italiano di statuto della Società delle Nazioni sotto il titolo: « La
nuova storia dei popoli incomincia », dichiarando che « davanti a
questo documento ogni scetticismo scompare » (cfr. B.P.I., n. 105,
pp. 1-3); tre giorni dopo esalta un « blocco latino » opposto alla
Germania sul Brennero e sul Reno. Pubblicando il 16 febbraio il
progetto di statuto adottato a Parigi, giudica che si tratti di « un
passo avanti », ma che « altre tappe dovranno essere superate »:
« Si deve evitare che la Società delle Nazioni sia o divenga una
specie di premio d’assicurazione per le nazioni ricche, arrivate,
opulenti, che non hanno più niente da conquistare nel mondo e
hanno soltanto da conservare quello che hanno conquistato… Se
ci saranno nazioni borghesi e nazioni proletarie, la sodalità e la
solidarietà fra di loro non potrà durare eternamente… La Società
delle Nazioni non può pretendere di fissare per l’eternità le
posizioni odierne, non può soffocare, per favorire la staticità nella
quale vengono ad adagiarsi i popoli arrivati, il dinamismo di quelli
che vogliono arrivare ».
49 Discorsi politici, cit., pp. 64-5.

50 L’evoluzione in senso anti-britannico e anti-societario


precipita rapidamente. Nel « Popolo d’Italia » dell’8 aprile si
grida: Viva Malta Italiana! Viva l’Irlanda! L’Egitto agli egiziani.
Commentando I’ll maggio la voce d’un progetto d’alleanza
militare anglo-franco-americana, Mussolini, dopo aver constatato
che si tratta « d’una palata di terra sul cadavere impagliato della
Società delle Nazioni », aggiunge: « Se l’Occidente plutocratico e
l’alleanza militare della Francia, dell’Inghilterra e
dell’America, che è l’alleanza di tre nazioni deliziosamente
plutocratiche e borghesi, ci umilia e ci ignora, noi saremo
costretti a volgerci verso gli altri punti cardinali o verso il Nord,
l’Est, il Sud… » (B.P.I., n. Ili, pp. 8-9).
51 « Noi ci permettiamo il lusso d’essere aristocratici e
democratici, conservatori e progressisti, reazionari e
rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di
tempo, di luogo, d’ambiente nelle quali siamo costretti a vivere ed
agire » (« Popolo d’Italia », editoriale del 23 marzo 1919); « Le
pregiudiziali sonò delle maglie di ferro o di stagnola. Non
abbiamo la pregiudiziale repubblicana, non quella monarchica;
non abbiamo la pregiudiziale cattolica o anti-cattolica, socialista o
anti-socialista. Siamo dei problemisti, degli attualisti, dei
realizzatori » (intervista al « Giornale d’Italia », riprodotta in «
Popolo d’Italia », 19 aprile). Dichiarazioni, di questa natura

113
s’incontrano a ogni piè sospinto specie nel periodo 1919-20:
dichiarazioni del 22 giugno 1919 al Fascio romano (Chiurco, I,
142); « Popolo d’Italia », 2 luglio: « Abbiamo rifiutato di caricarci
le spalle con l’inutile fardello di una qualsiasi pregiudiziale »; Ib.,
13 ottobre; Ib., 3 luglio 1920: « Occorre, per essere fascisti,
essere completamente spregiudicati, occorre sapersi muovere,
elasticamente, nella realtà»; Ib., 7 settembre, discorso al
Congresso regionale fascista di Cremona: « I fascisti sono gli
zingari della politica, non impigliati da alcuna pre3Ìudiziale »,
ecc. ecc.
52 Disborso Mussolini del 19 luglio 1919 al Liceo Beccaria a

Milano, Discorsi politici, cit., p. 79.


53 « Costituiremo l’anti-partito dei realizzatori », « Popolo

d’Italia », 17 novembre 1918; dalla « Costituente


dell’interventismo » uscirà « l’anti-partito, cioè una
organizzazione fascista, che non avrà nulla di comune coi credi,
coi dogmi, colla mentalità e soprattutto colle pregiudiziali
dei vecchi partiti, in quanto permetterà la coesistenza e la
comunità d’azione di tutti coloro — quali si siano i loro credi
politici, religiosi, economici — che accettano una data soluzione
di dati problemi », Ib., 23 novembre; « Il 23 marzo non si fonderà
un partito, ma si darà la spinta a un nuovo movimento… Il 23
marzo sarà creato l’anti-partito», Ib., 9 marzo 1919; « Statuti,
regolamenti, tutto ciò è roba di partiti. È solo creando
quest’organizzazione snodata, libertaria e potente, che noi
potremo agire al momento opportuno», marzo 1919 (Chiurco, I,
117); « Qual’è il carattere dell’organizzazione? È un anti-partito,
senza statuti, senza regolamenti », « Popolo d’Italia », 19 aprile; «
I Fasci non sono, non vogliono, non possono essere, non possono
diventare un Partito. I Fasci sono l’organizzazione temporanea di
tutti coloro che accettano date soluzioni di dati problemi attuali »,
Ib., 3 luglio 1919; « I fasci di combattimento non vogliono —
nell’attuale periodo storico — essere un nuovo partito; perciò non
si sentono legati a nessuna formula dottrinale e a nessun dogma
tradizionale » (Orientamenti teorici - Postulati pratici, pp. 4-5,
Milano, 1920), ecc. ecc.
54 Sul Congresso di Firenze, 9-10 ottobre 1919, v. Chiurco, I,

196-203; il discorso di Mussolini è in Discorsi politici, pp. 81-88,


quello di F. T. Marinetti in Futurismo e fascismo, Foligno,
Campitelli, 1929, pp. 187-97.
55 « Popolo d’Italia », 24 marzo 1919.

56 « Popolo. d’Italia », 3 luglio 1919.

57 Rapporto del segretario generale Umberto Pasella

114
(Chiurco, I, 200).
58 Relazione morale di U. Pasella nella seduta del 7 novembre

1921. Lo stesso Pasella, in un’intervista alla « Nazione » di


Firenze dei primi di febbraio 1921 aveva dichiarato: « I fasci
hanno al 1° agosto 1919, 30 sezioni, alla vigilia del secondo
Congresso (Firenze), 60 sezioni » (Chiurco, III, 59). La statistica
fascista è molto imprecisa e oscillante.
59 « Popolo d’Italia », 8, 9 luglio 1919.

60 Ordine del giorno votato nella riunione suddetta.


61 A questo scopo Mussolini pronuncia il suo discorso del 19

luglio a Milano: « Per l’Intesa e per l’Azione fra gli interventisti di


sinistra », « Popolo d’Italia », 23 luglio e Discorsi politici, cit., pp.
69-80.
62 Vedi la lettera di Umberto Pasella su queste trattative nel «

Popolo d’Italia » del 1° novembre 1919.


63 Col programma seguente: « 1. Decisa ed aperta
opposizione a Nitti ed al suo Ministero; 2. Annessione
incondizionata di Fiume con contiguità territoriale ed
assegnazione all’Italia delle città italiane della Dalmazia; 3. La
Camera siederà in assemblea costituente per esaminare e
risolvere il problema istituzionale dello stato; 4. Radicale riforma
dello stato che comprenda: a) decimazione delle ricchezze; b)
confisca dei sopraprofitti di guerra; c) tassazione onerosa
sull’eredità per sistemare definitivamente i mutilati, gli invalidi, i
combattenti, e le loro famiglie; d) confisca dei beni ecclesiastici
per devolverli a istituzioni di assistenza locale amministrate dai
cittadini; 5. Trasformazione degli ordinamenti militari per attuare
rapidamente la Nazione armata » (Chiurco, I, 207). È ancora il
programma del 23 marzo.
64 Tanto più che, secondo Margherita Grassini Sarfatti, egli

si vedeva già « deputato di Milano », Dux, Milano, Mondadori,


1928, p. 192. [Nitti racconta: « Mussolini in un primo momento fu
scoraggiato e pensò a liquidare la sua situazione e quella del
giornale e pensò anche a ritirarsi dalla politica e ad emigrare. In
questo senso mi fece parlare da Dante Ferraris, perchè gli
accordassi le somme di cui aveva bisogno », pref. a E. Flores,
Eredità di guerra, 2a ed., Roma, Ed. di Politica, 1947, p. 31.]
65 « Quaderni del Nuovo Paese », Parigi, p. 70.

66 Mussolini fu arrestato il 18 novembre, ma « il cellulare


durò appena una notte e un giorno » (Chiurco, I, 81 e 218-19, cfr.
« Popolo d’Italia » del 18 novembre 1938). Un’istruzione fu

115
aperta, consule Nitti, dalla Procura Generale di Milano contro
Mussolini e i dirigenti del gruppo locale degli Arditi, tra l’altro, «
per aver formato nella estate e autunno 1919 un corpo armato
per commettere delitti contro le persone », per detenzione d’armi
non denunciate e « per avere in Milano la sera del 17 novembre
1919 al fine di incutere pubblico timore e suscitare tumulto e
pubblico disordine, in Via San Damiano, fatta scoppiare una
bomba nel mentre vi transitava in corteo una folla di persone,
mettendo in pericolo la vita di queste e causando lesioni personali
ecc. » (Testo delle conclusioni, redatte nel novembre 1920,
Chiurco, II, 151-4). Fu solo ai primi di gennaio 1922 che giunse
alla Camera la richiesta d’autorizzazione a procedere contro
Mussolini e altri 27 imputati (Chiurco, IV, 8), e la procedura si
fermò lì. [Quanto all’arresto di Mussolini, esso sarebbe stato
dovuto all’iniziativa delle autorità locali, poiché il presidente Nitti
inviava il 19 novembre 1919 al generale Badoglio il telegramma
seguente: « Ieri a Milano fu perquisita casa Arditi in
seguito lancio bombe et furono perquisite associazioni fasciste.
Vennero arrestati Marinetti, Vecchi e Mussolini in possesso armi
o bombe. Ho deplorato arresto Mussolini, perchè può’ eccitare
animi. Ma arresto giunse a me inaspettato et autorità giudiziaria
lo aveva già deliberato », Pietro Badoglio, Rivelazioni su Fiume,
Roma, De Luigi, 1946, p. 247.]
67 Mussolini aggiunge: « Perchè Stirner non tornerebbe
d’attualità? ». In un discorso del 28 dicembre a Milano egli così si
esprime: « Io vagheggio un popolo paganeggiante che ami la vita,
la lotta ecc. Perciò lo esalto l’individuo; tutto il resto non è che
proiezione della sua volontà e della sua intelligenza », Discorsi
politici, cit., p. 203.
68 « Popolo d’Italia » 27 dicembre 1919. Malatesta che, esule a

Londra, voleva, finita la guerra, rientrare in Italia, vi riuscì,


malgrado gli ostacoli legali suscitati dal governo italiano,
coll’aiuto del capitano Giulietti. Vedi a questo riguardo le lettere
di Malatesta a Luigi Bertoni nel « Risveglio anarchico » (Ginevra)
del 3 dicembre 1932 e i suoi Scritti, Ginevra, Risveglio, 1934, vol.
I, pp. 43-4; 1935, vol. II, pp. 249-51.
69 L’Associazione fra gli Arditi d’Italia fu fondata nel gennaio

1919; il 19 di questo mese si costituì il gruppo milanese su


iniziativa di Ferruccio Vecchi, Mario Carli, Mario Giampaoli. Le
sedi degli Arditi « sono dei veri e propri fortilizi e lì si formano i
nuclei del futuro esercito fascista » (Chiurco, I, 79). Sui rapporti
precedenti di Mussolini cogli Arditi, cfr. p. 43.
70 « Popolo d’Italia », 7 gennaio 1919.

116
71 Sull’assalto all’« Avanti! » v. di fonte socialista: « Avanti! »

17 aprile e 1° maggio 1919; Almanacco Socialista 1920, Milano,


S. E. Avanti, pp. 322-32; di fonte fascista, cfr. F. T. Marinetti,
Futurismo e fascismo, pp. 167-71, ove si racconta anche che il
generale Caviglia fece chiamare, subito dopo il fattaccio,
Marinetti e lo felicitò dicendogli: « La vostra battaglia di ieri in
piazza Mercanti fu, secondo me, decisiva ». Un documento
fascista sull’assalto e sul conflitto che l’aveva preceduto in Via
Mercanti fu pubblicato nel 1938 da Valerio Pignatelli,
segretario della Federazione degli arditi: larghi estratti ne
riprodusse il « Giornale d’Italia » del 16 aprile 1938. [Nel «
ventennale » dell’assalto la stampa fascista, alla data del 15
aprile, pubblicò articoli sull’avvenimento (« La Stampa », «
Gazzetta del Popolo » ov’è un racconto-poema di F. T. Marinetti, «
Giornale d’Italia », « Lavoro fascista », ecc.). Il governo aveva
mandato a Milano Ivanoe Bonomi e il generale Caviglia per
un’inchiesta. Su Bonomi contava Anna Kuliscioff: « Confido molto
nell’atteggiamento di Bonomi, perché è ragionevole, incapace di
montature e indubbiamente galantuomo. Spero che saprà
ottenere misure equanimi che abbiano a soddisfare le masse e
nello stesso tempo servire di arma efficace nel prevenire
successivi scioperi generali » (lettera a Turati del 19 aprile
1919). Il generale Caviglia racconta, dal canto suo: « Fui inviato
con Ivanoe Bonomi a metter pace. In un convegno ammonii i capi
socialisti a non ricorrere alla violenza, perché avrebbero avuto la
peggio », E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, cit., p. 55.]
72 Nella sua riunione del 18-19 aprile 1919 la Direzione del

partito, indicendo la sottoscrizione, denuncia « la fatale


decomposizione della classe borghese che permette il prevalere
delle correnti più brutali e più violente »; commentando i fatti alla
fine del 1919 Egidio Gennari scrive: « Il proletariato rispose colla
calma dei forti. Al suo foglio di battaglia offrì più di un milione. I
nemici allibirono. I calcoli loro erano falliti », Almanacco
Socialista 1920, p. 386.
73 « Popolo d’Italia », 16 aprile 1920.

74 Il « lodo » sul ricorso presentato da Arturo Rossato e


Giovanni Capodivacca al collegio dei probiviri dell’Associazione
lombarda dei giornalisti fu pubblicato nel « Popolo d’Italia » del
13 aprile 1920. Cfr. come Mussolini cucina quest’episodio in Ma
vie (« Candide », 5 luglio 1928).
75 « Popolo d’Italia », 18 dicembre 1919: Italia marinara,
avanti!
76 Editoriale: Nulla è compromesso? Si moltiplicano nel

117
frattempo gli accenni a una politica estera anti-occidentale, già
minacciata in maggio (cfr. n. 50). Il 13 settembre egli scrive: «
Piuttosto che essere strangolati dall’esoso capitalismo degli
anglo-sassoni, gli italiani possono dare una direttiva tutt’affatto
opposta alla loro attuale politica estera: possono attuare una
politica ” orientale ” che ci accosterebbe ad un mondo
dalle risorse inesauribili » (Chiurco, I, 181); il 22 dicembre: « Sin
da questo momento bisogna tendere — sino allo spasimo — tutte
le nostre energie per ottenere la rivincita. Quando non avremo
più il coltello alla gola… ci metteremo alla testa del movimento di
revisione del Trattato di Versaglia ». In un articolo del 27
dicembre, intitolato: La politica estera di domani - L’Italia e
l’Oriente, Mussolini precisa: « Colla politica orientale l’Italia
raggiunge la sua emancipazione dalla plutocrazia dell’Occidente
»; questa politica « dovrebbe permettere all’Italia di
importare grano, carbone e petrolio, specie dalla Russia
meridionale e dall’Ukraina ».

118
Capitolo Quarto

LA RIVOLUZIONE TRAVERSA L’ADRIATICO






Il 12 settembre 1919, mentre parla alla
Camera, il presidente del Consiglio, Nitti, ben
lontano dal dubitare qualcosa, apprende da un
telegramma che D’Annunzio ha occupato Fiume.
Le sorti di questa città continuano a bloccare
tutta la politica estera italiana. Dopo la
partenza teatrale di Orlando e Sonnino, il
Consiglio nazionale di Fiume aveva proclamato,
il 26 aprile, l’annessione della città all’Italia e
rimesso i suoi poteri nelle mani del
rappresentante del re, il generale Grazioli. Il 6
maggio, — Orlando e Sonnino sono ritornati in
tutta fretta la vigilia a Parigi — D’Annunzio, che
è andato a Roma, per trattenervisi e dirigere
l’agitazione in favore dell’annessione
1, pronunzia dall’alto del Campidoglio un

discorso infiammato: egli fa appello all’eroismo


degli italiani, spiega la bandiera che ha avvolto
la salma dell’aviatore Randaccio, ucciso sul
Timavo, e dichiara che la donerà alla città
di Trieste dopo averla consacrata in Fiume
italiana. Il governo Orlando, occupato tra Roma
e Parigi, dà le dimissioni alla prima occasione,
mentre le polemiche di stampa continuano e i

119
progetti di compromesso per l’Adriatico
falliscono l’uno dopo l’altro alla Conferenza
della pace.
Il ministero Nitti è formato il 22 giugno: il
furore nazionalista tocca il parossismo, perché
tutte le speranze di forzare la mano al governo
per la questione di Fiume devono essere
abbandonate. Così l’agitazione è diretta nello
stesso tempo contro il nuovo ministero e contro
il Parlamento, che D’Annunzio vorrebbe
rimpiazzare con « una forma di rappresentanza
sincera che rivelasse e innalzasse i produttori
sinceri della ricchezza nazionale e i creatori
sinceri della potenza nazionale ». Un vincolo
tra la politica di espansione, il nazionalismo e
l’antiparlamentarismo si stabilisce così, grazie
soprattutto al Poeta, che annunzia contro la
nuova combinazione ministeriale « un castigo
dirètto e dritto come il getto d’un lanciafiamme
»2.
In questa atmosfera arroventata gravi
incidenti si producono alla fine di giugno e al
principio di luglio a Fiume: dei soldati francesi
del corpo di occupazione sono massacrati o
feriti. La stampa nazionalista invoca i «
Vespri fiumani » e Mussolini minaccia una
alleanza con le repubbliche proletarie di Oriente
o un riavvicinamento con la Germania3. La
Commissione interalleata d’inchiesta decide,
nelle sue conclusioni unanimi, di ridurre i
contingenti italiani e di aumentare quelli degli
altri Alleati, ordina misure contro gli ufficiali
responsabili, e lo scioglimento del « Battaglione
volontari fiumani »4. I granatieri di Sardegna

120
devono pure essere allontanati dalla città; il 24
agosto, il maggiore Rejna, loro comandante,
riceve l’ordine di partire nella notte con le sue
truppe. Un gruppo di ufficiali decide di resistere
ed offre delle armi al Consiglio nazionale di
Fiume. Questo esita, e le truppe partono per
Ronchi, dove esse saranno accasermate e
di dove ritorneranno qualche settimana dopo
con D’Annunzio. Un gruppo di otto ufficiali
granatieri si riunisce il 31 agosto nella nuova
residenza e fa il giuramento: Fiume o morte!
Cominciano una propaganda attiva sulla
stampa, presso vari uomini politici e
nell’esercito, per preparare la spedizione e
scrivono a D’Annunzio, mandandogli il testo del
giuramento con le otto firme. Uno degli
ufficiali si reca da lui a Venezia: D’Annunzio
prenderà il comando delle operazioni. Si
requisiscono dei mezzi di trasporto ed una
colonna, composta di un migliaio di uomini —
altri ufficiali vi si uniscono lungo la strada —
entra cantando in Fiume il 12 settembre5.
D’Annunzio annunzia dal palazzo del governo
l’annessione della città all’Italia. Gruppi di
volontari di tutte le armi arrivano ogni giorno
con batterie di artiglieria, squadriglie di
aeroplani, « mas ». Il 14 settembre, il <<
Comandante » lancia un appello agli ufficiali ed
ai marinai delle navi italiane alla fonda nel porto
invitandoli a formare « la prima squadra del
Quarnaro liberato ». Il 19, a Trieste, un gruppo
di ufficiali e di Arditi monta sulla nave «
Pannonia », carica di vettovaglie, se ne
impadronisce e la conduce a Fiume: il metodo

121
che servirà più volte per fornire alla città
derrate, denaro ed armi, è così inaugurato.
D’Annunzio avrà i suoi corsari ed i suoi alleati,
che lo riforniranno con le loro prede: il Persia gli
porterà delle armi, il Taranto due milioni di lire
destinati all’Albania, il Cogne, più tardi, un
grande carco di merci diverse; per riscattarle,
un consorzio formato all’uopo dovrà versare
parecchi milioni6.
Dimostrazioni per Fiume hanno luogo in tutta
Italia. Vi partecipano coi nazionalisti e coi
fascisti numerosi ufficiali in uniforme. Nitti invia
circolari, fa distribuire punizioni, destituisce il
comandante del Corpo d’Armata di Torino7, ma
non arriva ad arginare la corrente. La disciplina
dell’esercito è profondamente intaccata, e
anche quelli fra gli ufficiali che la rispettano
sono con tutto il cuore con i « liberatori ».
D’Annunzio, che aveva preso il comando della
spedizione di Fiume all’ultimo minuto, quale un
Dio creatore la trasforma « a sua immagine e
simiglianza ». Fiume diviene per lui il teatro di
una meravigliosa avventura, che egli vive fino
alla fine in una specie di delirio, dove l’eroe, il
letterato e il commediante entrano in scena
a turno, e spesso tutti insieme. Nel 1900,
all’epoca delle leggi liberticide di Pelloux, era
intervenuto, lui eletto dai conservatori dei suoi
Abruzzi, ad una riunione di deputati di sinistra
dichiarando che veniva « verso la vita ». La sua
« conversione » resta senza domani, perché
per D’Annunzio « andare verso la vita » significa
emigrare verso nuove sorgenti di emozioni con
una volontà identica e insaziata. È in questo

122
stesso anno 1900 che egli scrive la Laude per la
morte di un distruttore, e canta il « Barbaro
enorme » che si è levato al di là del bene e del
male, che ha lasciato nella pianura la « plebe
schiava » e la « moltitudine morta » per salire
sulla cima più alta dove s’intravvede la terra
futura:
Sia l’uomo la propria stella
sia la sua legge e il vendicatore
della sua legge8.

D’Annunzio sarà la sua propria stella: mai ne


avrà altre. Anche quando si offre a Roma, non è
che per trovarvi una cornice ed un testimonio
degno della sua grandezza: « Per te ogni mio
giorno sarà impresso di un’azione potente in cui
tu riconoscerai la specie della mia anima come
un suggello »9. Venti anni più tardi, a Fiume,
cerca ancora la consacrazione della gloria,
poiché egli obbedisce all’imperativo della gloria
assai più che a quello del dovere.
D’Annunzio, installato a Fiume, è ben deciso a
giuocarvi una parte personale. Il 20 settembre
pubblica un decreto come « Comandante della
città di Fiume », con il quale mantiene in carica
il Consiglio nazionale eletto dal plebiscito del 20
ottobre 1918, ma ne limita i poteri: « Tutti gli
atti e le deliberazioni del Consiglio
nazionale che comunque possono riguardare
l’ordine pubblico e conseguire un effetto
politico, devono essere
sottoposti all’approvazione del Comando e non
potranno essere eseguiti se non il giorno
successivo a quello dell’approvazione » 10.

123
Fiume diviene il ricettacolo di un
miscuglio eteroclito d’idealisti, di scioperati e di
bricconi, gli uni inebbriati della loro passione
patriottica, gli altri spinti dal gusto
dell’avventura o dal bisogno del godimento.
A Roma, il presidente del Consiglio, Nitti,
afferma in un primo discorso alla Camera (13
settembre) che i soldati passati a D’Annunzio
che non raggiungano i loro corpi entro cinque
giorni, saranno considerati disertori. Egli
si rivolge nello stesso tempo « ai lavoratori
d’Italia, agli operai, ai contadini per chiedere la
loro cooperazione », « alle masse anonime
perché la gran voce del popolo
venga ammonitrice a tutti ». Ma in un secondo
discorso, tre giorni dopo, il tono è diverso, quasi
di ritrattazione, e l’appello al proletariato è
sostituito da un appello ai combattenti. Il 25
settembre si tiene a Roma un Consiglio della
Corona: Giolitti consiglia di fare occupare Fiume
da truppe regolari, e di rivolgersi
immediatamente al paese indicendo le elezioni
generali. Nitti non accetta che la seconda di
queste proposte. Il 29 scioglie la Camera, e si
contenta di proclamarne il blocco « per terra e
per mare », blocco del resto, che è ben lungi
dall’essere rigido.
A Fiume, D’Annunzio urta ben presto contro
l’ostilità di una parte della popolazione, e
soprattutto dei sostenitori più o meno dichiarati
dell’autonomia della città, il cui capo è il
deputato Zanella. Il « Comandante » decide, per
ottenere l’adesione dei fiumani al suo
programma, di procedere al rinnovamento del

124
Consiglio nazionale e, in attesa, si premunisce
contro l’opposizione eventuale mettendo la città
in stato d’assedio. Dieci giorni prima delle
elezioni, D’Annunzio pubblica un editto col
quale la città di Fiume è dichiarata « piazza
forte in tempo di guerra »; il codice militare
entra in vigore contro « chiunque professi
sentimenti ostili alla causa di Fiume »: la pena
di morte sarà immediatamente applicata ai
colpevoli 11. Intanto, benché egli abbia
dichiarato di non riconoscere il governo Nitti,
dei negoziati cominciano; l’ammiraglio Cagni, il
generale Badoglio 12, che comandano le forze
incaricate del blocco, il duca d’Aosta, sempre
in attesa di un colpo di mano, personalità del
seguito di D’Annunzio, quali il suo capo
Gabinetto Giuriati e il comandante Rizzo,
s’interpongono o fanno la spoletta fra Roma e
Fiume. Nitti non ha alcuna intenzione di
intervenire brutalmente, e fa vettovagliare la
città attraverso la Croce Rossa. Non è, in fondo,
scontento di disporre, grazie a D’Annunzio, di
una moneta di scambio nei negoziati in corso
con gli Alleati nei riguardi di Fiume, e d’altra
parte egli teme l’impopolarità che lo colpirebbe
se si servisse della « maniera forte » 13.
D’Annunzio, da parte sua, resta intransigente: si
fa trasportare da una nave da guerra italiana a
Zara ed ottiene dall’ammiraglio
Millo, governatore della Dalmazia, la promessa
di non evacuare a nessun costo questa regione
14. E poiché il Consiglio nazionale di Fiume si

pronuncia alla quasi unanimità « senza riserve »


per l’accordo con il governo di Roma 15,

125
D’Annunzio tenta di farsi plebiscitare. Ma la
sera della votazione, il 18 dicembre, egli vieta lo
spoglio delle schede perché si è accorto del suo
scacco 16. Tre giorni dopo, rompe tutti i
negoziati. Alcuni elementi del suo séguito
l’abbandonano immediatamente: il comandante
Rizzo 17, e il capo del suo ufficio stampa,
Pedrazzi. Questi delinea in un giornale italiano,
il 24 dicembre, subito dopo aver lasciato Fiume,
un quadro della situazione che merita di
essere riprodotto:
Dietro a D’Annunzio non vi sono più che dei giovani
ufficiali valorosi, decorati o mutilati, con un gran cuore ed
una fede ardente, ma ai quali manca il senso della
responsabilità… Per essi la vita militare è ormai divenuto un
bisogno, ed i colpi di mano una abitudine morale. Porre fine
alla spedizione, sarebbe metter fine a questa incantevole vita
di ribelli, un po’ per ridere, se si vuole, ma insomma di
ribelli, vita di canti, di cortei, di comizi, di feste militari
insieme goliardiche e guerriere. Questa atmosfera di
giovinezza generosa e spensierata aveva certamente colpito
D’Annunzio e l’aveva sedotto. Tutti lo acclamano vincitore;
egli si giudica vinto. Fiume è vittoriosa, e non già lui. Il suo
sogno era più vasto, troppo vasto. Venuto a Fiume per
salvare la città, si è abituato a poco a poco all’esercizio della
dittatura, non per ambizione personale, ma pel bene che
sperava di fare. Il suo sguardo si spinge sempre più lontano,
oltrepassa le frontiere dell’Adriatico, sogna delle
nobili crociate ovunque vi sono dei ribelli nel mondo 18.

Questa situazione rimarrà immutata fino alla


caduta del ministero Nitti, nel maggio 1920.
Quale è, nel frattempo, l’atteggiamento dei
partiti politici italiani?
I nazionalisti soffiano sul fuoco, perché il
gesto di Fiume può provocare da un momento
all’altro un conflitto con la Jugoslavia, e perché

126
sperano realizzare così le rivendicazioni
territoriali dell’Italia in Adriatico. Anche le
massonerie, per spirito patriottico e
quarantottesco, e perché riflettono la confusione
mentale della borghesia media italiana. Quella
del palazzo Giustiniani interviene presso il
governo per l’approvvigionamento di Fiume
affidato alla Croce Rossa. L’influenza massonica
è molto forte in questa organizzazione il cui
presidente, il deputato Ciraolo, è massone 19.
Quella della Piazza del Gesù fa pervenire a
D’Annunzio, a Fiume, il cordone del 33°
grado del suo rito 20.
Mussolini capeggia la campagna per Fiume,
non solamente perché essa mantiene un
nazionalismo ad oltranza molto propizio ai suoi
disegni, ma anche perché egli ha compreso che
Fiume è l’antistato, e il possibile punto di
partenza per una riconquista della penisola. Per
il momento D’Annunzio è in primo piano, gode
del prestigio del colpo riuscito, dispone di forze
armate, è lui stesso un guerriero. Bisogna
dunque aiutarlo, adularlo. Mussolini lancia in
settembre la sottoscrizione per Fiume,
dalla quale sottrae del resto, due mesi dopo, i
fondi per pagare il suo « piccolo esercito ». Ma
non è per niente rassegnato a recitare una parte
di secondo piano. Se D’Annunzio marciasse su
Roma, sarebbe per instaurarvi, come a Fiume, la
sua dittatura personale. Così Mussolini si
adopera per mandare a monte progetti di questa
specie. Egli scrive, nel « Popolo d’Italia » del 25
settembre: « La rivoluzione, necessariamente
politica in un primo tempo, c’è già. Cominciata a

127
Fiume, può conchiudersi a Roma »: ma,
in privato, si sforza di stornare D’Annunzio da
simili prospettive. Davanti al giurì d’onore della
Associazione della stampa di Milano21, dichiara,
al principio del 1920: « A Fiume vi è una specie
di club di repubblicani pregiudiziaioli… che per
poco non mi accusano di tradimento
verso l’Italia perché sanno che io ho sconsigliato
qualsiasi marcia all’interno »22.
Ad una simile marcia, quasi tutti hanno
pensato. I legionari fin •dall’inizio, che cantano
dei versi annunciami la loro marcia su Roma per
fare la festa a Nitti 23; e uno dei loro capi,
Giuriati, scrive il 19 settembre al Fascio di
Trieste che, « il gesto compiuto a Fiume deve
aver termine a Roma »24. Certi industriali, che
mandano Borletti a Fiume per saggiare il
terreno. Certi circoli militari e dinastici, e
l’ammiraglio Millo stesso, governatore
della Dalmazia, molto legato al Duca d’Aosta25.
A tal punto che Nitti affida al generale Caviglia
il comando di tutta la zona litoranea
dell’Adriatico per opporsi ad un eventuale
sbarco dei legionari.
Tutti vi hanno pensato, meno i socialisti. Vi è
sì stata, al principio del 1920, una «
cospirazione » subito abortita.
D’Annunzio aveva assunto da poco come capo
Gabinetto, al posto del nazionalista Giuriati, il
sindacalista Alceste De Ambris, capo di quella
Unione italiana del lavoro, che era stata
favorevole alla guerra, e di cui la C.G.L. aveva
rifiutato, per questo motivo, l’adesione. In

128
gennaio, quando vien dichiarato lo sciopero
generale dei ferrovieri, alcuni elementi di
estrema sinistra concepiscono il progetto di
utilizzare in senso rivoluzionario la
situazione creata da D’Annunzio con
l’occupazione di Fiume: vi sono fra essi
Malatesta e Giulietti. L’anarchico Malatesta,
che ha quasi 67 anni, e che è rientrato da
qualche giorno dall’esilio, è il solo vero
rivoluzionario che sia dato trovare in Italia nel
periodo 1919-1920 26. Il motto « rivoluzione » ha
per lui un significato preciso e mostra una
strada che ha per mèta finale Roma. Poco
importa il punto di partenza: sarà Fiume, poiché
a Fiume vi è D’Annunzio, che può forse esser
persuaso, e vi sono delle armi, di cui ci si può
impadronire 27. Malatesta pensa che bisogna
fare la rivoluzione al più presto, perché, dice, «
se non andremo sino in fondo, noi dovremo
scontare a lacrime di sangue la paura che
adesso noi facciamo alla borghesia » 28.
Superstite dell’Alleanza di Bakunin, aveva preso
parte al tentativo insurrezionale della « banda di
Benevento » nell’aprile 1877, ed era stato
l’animatore della « settimana rossa» nel 1914 29.
Adesso, tutta l’Italia è in fermento: bisogna far
presto e non esitare a servirsi di tutto ciò che
possa permettere la vittoria. Malatesta entra
quindi in relazione con D’Annunzio. Ha per
intermediario il capitano Giulietti capo della
Federazione dei lavoratori del mare. Giulietti, ha
reso possibile il ritorno clandestino di Malatesta
in Italia, gli ha fornito dei fondi per il quotidiano
anarchico « Umanità Nuova »31, ed è nello

129
stesso tempo un prezioso ausiliario di
D’Annunzio: nell’ottobre 1919, la sua
Federazione ha sequestrato il Persia,
bastimento carico d’armi destinate agli eserciti
bianchi in guerra contro i Sovieti, e l’ha deviato
verso Fiume32.
Malatesta ha il vantaggio e lo svantaggio di
essere fuori dei quadri ufficiali del movimento
operaio. È libero da ogni conformismo e
sostenuto da una volontà di acciaio.
Ma i socialisti, che dominano ancora le masse,
diffidano di lui come di D’Annunzio. Alcuni dei «
cospiratori », alle riunioni segrete di Roma,
mettono come condizione il concorso o almeno
l’approvazione del Partito socialista e della
C.G.L. Costoro, allargati, respingono tutti gli
accordi su questo piano 33, e il progetto non va
più oltre34 Tanto più che Mussolini, che ne ha
avuto sentore, e che non vuole che una marcia
su Roma si faccia senza di lui, si affretta a
raccontare la faccenda sulle colonne del «
Popopolo d’Italia »35.
Così tutti i legami possibili fra l’impresa di
Fiume ed una rivoluzione popolare in Italia sono
rotti. La « marcia su Róma » si farà a destra.
L’occupazione di Fiume, prolungandosi, fornirà
al fascismo il modello per le sue milizie e per le
sue uniformi, il nome per le sue squadre, il suo
grido di guerra e la sua liturgia. Mussolini
copierà da D’Annunzio tutto l’apparato scenico,
ivi compresi i dialoghi con la folla. Sa che
D’Annunzio è soprattutto poeta e non potrà
andare lontano. Egli aspetta pazientemente la

130
sua successione. D’Annunzio sarà vittima del più
grande plagio che si sia mai visto. « Poiché la
conquista fascista dell’Italia — nota con la sua
abituale finezza il conte Sforza — è stata la
copia più letterale, e meno originale, del
tumultuoso poema che fu, per D’Annunzio,
l’avventura di Fiume. »36

Note al capitolo quarto

1 Cfr. pp. 32-34.

2 In un « avvertimento » del « Popolo d’Italia », 21 giugno 1919.

3 «Popolo d’Italia», 9 luglio (B.P.Í., n. 116, pp. 5-6). Editoriale:

Nell’attesa: « Un’Italia isolata non può restare, nè può vivere.


Due direzioni si delineano allora: una socialista che vorrebbe
portare l’Italia nel blocco delle repubbliche cosidette proletarie
d’Oriente e un’altra che tende a riaccostare l’Italia col mondo
tedesco. Certo è che se la Francia si ostina nella sua politica, noi
saremo forzati a scegliere » (cfr. anche n. 5 del capitolo
precedente). [Ad aggravare la situazione « contribuì l’ufficio
propaganda della 3a armata (quello del duca d’Aosta).
Sotto forma di notiziario diffuse scritti anti-francesi e anti-inglesi
fra le truppe e la popolazione », E. Caviglia, Il conflitto di Fiume,
cit., p. 44.]
4 Sulle conclusioni della commissione internazionale
d’inchiesta, L. Federzoni, Il trattato di Rapallo, Bologna,
Zanichelli, 1921, pp. 229-30 [E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, p.
108-18].
5 Il generale V. E. Pittaluga, comandante delle truppe italiane di
Fiume, ha lasciato passare la colonna di Ronchi dopo un colloquio
con D’Annunzio, come narra egli stesso nella « Rivista d’Italia »
del settembre 1923. Cfr. a questo proposito anche: gen. Giovanni
Marietti, « La Stampa », del 1° settembre 1929. Per il periodo che
va dalla fine agosto alla fine settembre 1919 (preparazione della
marcia e insediamento) cfr. Mario Maria Martini, La passione di
Fiume, Diari - Cronache - Documenti, Milano, Sonzogno, 1919 [T.

131
Antongini, Vita segreta di Gabriele D’Annunzio, Milfano,
Mondadori, 1944, pp. 51-7].
6 Molti elementi del problema fiumano e adriatico si trovano

nella bibliografìa generale della Conferenza di Versailles (cfr.


Cap. III, n. 34). Sul problema e le vicende fiumane specie del ‘19,
cfr. Chiurco, I, 170-90, con abbondante bibliografia; B.P.J., n. 120,
121 e 122; Alceste de Ambris, La questione di Fiume, Roma, La
Fronda, 1920 (i vari progetti e le trattative cogli Alleati); P. H.
Michel, La pensée politique de G. D’Annunzio et l’affaire de
Fiume, in « Revue ¿’Histoire dé la Guerre Mondiale », Paris,
Juillet 1923, pp. 119-43; E. Coselschi, La marcia di Ronchi,
Firenze, Vallecchi, 1929; G. Ferrero, Da Fiume a Roma, pp. 9-16 e
21; R. Farinacci, Storia della rivoluzione fascista, vol. I, pp. 151-
66, 217-47; Adolfo Giuliotti, « Disobbedisco ». Vicende
dell’impresa fiumana: 12 settembre 1919-31 dicembre 1920, La
Spezia, Tipografia Moderna, 1933 [Gen. Badoglio, Rivelazioni su
Fiume, Roma, De Luigi, 1946; Enrico Caviglia, Il conflitto di
Fiume, Milano, Garzanti, 1948.] Sui precedenti e gli sviluppi
diplomatici cfr. la letteratura sul trattato di Rapallo (Cap. VII, n.
8). Sui sequestri di navi e sull’azione di Giulietti cfr. nota 32 e
Cap. VII, n. 17.
7 Sulla condotta di Nitti, cfr. Nitti, L’opera di Nitti, pp. 197-223;

Appendice X (Nitti). Sull’esonero del generale Donato Etna,


comandante del Corpo d’armata di Torino, cfr. Chiurco, I, pp.
189-90 [e « La Sera» di Milano, 20 settembre 1932].
8 Sul D’Annunzio e Nietzsche, cfr. B. Croce, La letteratura della
nuova Italia, 2a ed., IV, Bari, Laterza, 1922, p. 32.
9 Citazione dalla Gloria, p. 42.

10
CHIURCO, I, 188-9 E M. M. MARTINI, La passione di
Fiume, p. 103.
11 Decreto del 16 ottobre, e cfr. M. M. Martini, La passione di

Fiume, pp. 131-2. Le elezioni del 26 ottobre danno i seguenti


risultati: Iscritti: 10.331. Votanti: 7.155. Per la lista d’Unità
nazionale favorevole all’annessione all’Italia: 6.999 voti.
12 Badoglio è nominato Commissario straordinario militare
per la Venezia Giulia il 13 novembre, dopo l’esonero del generale
di Robilant il quale aveva rappresentato l’Italia nella
Commissione internazionale d’inchiesta sui fatti di Fiume.
Badoglio rientrerà a Roma il 23 dicembre, per assumervi la carica
di Capo di S. M. dell’esercito. Due giorni prima il comando delle
truppe della Venezia Giulia viene affidato al generale Caviglia. [P.
Badoglio, Rivelazioni su Fiume, pp. 17 seg.; E. Caviglia, Il

132
conflitto di Fiume, pp. 138 seg.].
13 Cfr. Appendice X (Nitti).

14 B.P.I., n. 124, p. 9. Nell’allocuzione pronunciata il 9


settembre 1920 al Teatro Fenice a Fiume D’Annunzio leggerà il
testo del « giuramento » redatto dall’ammiraglio Millo il giorno
stesso della spedizione, 14 novembre 1919: « Il comandante di
Fiume con il cacciatorpediniere F. Nullo, la flottiglia di Mas e
un battaglione misto ha approdato a Zara. Io ho giurato sul mio
onore di soldato e di marinaio italiano che la Dalmazia
determinata dal Patto di Londra è sempre Italia », G. Moscati,
Le Cinque Giornate di Fiume, Milano, Ed. Carnaro, 1929, p. 176.
Cfr. anche Nitti, L’opera di Nitti, pp. 187-8. Sulla spedizione
di Zara (13-15 novembre), cfr. A. Giuliotti, « Disobbedisco », pp.
97-102. Un comunicato governativo comparso nei giornali del 23
novembre 1919 deplora l’operato dell’amm. Millo, lasciandolo
tuttavia al Comando di Zara.
15 Nella seduta del 15 dicembre il Consiglio nazionale s’era

pronunciato con 46 voti contro 8 per l’accettazione senza riserve


delle proposte governative, fatte per mezzo di Badoglio. Questi
aveva inviato valendosi del maggiore Giuriati, il 23 novembre, un
progetto di compromesso. D’Annunzio aveva risposto con un
contro-progetto, respinto dal governo italiano verso la fine del
mese. Ma le trattative continuarono; I’ll dicembre nuove proposte
son fatte da Roma, a cui Giuriati e Rizzo si mostrano favorevoli. Il
voto del Consiglio nazionale decise D’Annunzio al plebiscito del
18 dicembre.
16 D’Annunzio con decreto del 21 dicembre annullò la
votazione. Sono concordi tutti i rappresentanti dei vari partiti
fiumani ad affermare che il 75 o l’80 per cento degli elettori
aveva votato pel compromesso Badoglio (cfr. Ezio Riboldi, «
Avanti! », 28 luglio 1920). Il Comandante s’era ben accorto della
mutata atmosfera e del malcontento generale: « Fiumani, egli
scriveva lo stesso giorno, perché queste grida? perché questo
furore? perché questa angoscia? La voce di Fiume è mutata. Non
la riconosco più. La voce di Fiume si è fatta aspra come s’è
intorbidata la sua acqua… Fiume è a un tratto assalita da una
febbre maligna come al principio dei contagi mortali… Siamo stati
ora invasi dalla pestilenza romana? Che è mai accaduto? » («
Vedetta d’Italia », 21 dicembre 1919).
17 [L. Gasparotto, Diario di un deputato, p. 136: « 20
dicembre 1919: Da Zara l’ammiraglio Millo scrive a D’Annunzio
rompendo la solidarietà. Lo segue Rizzo, che lascia Fiume.
Entrambi propongono al Comandante l’accettazione delle

133
proposte del governo italiano»].
18 «Gazzetta del Popolo», 24 dicembre 1919 (B.P.L, n. 124, p.

9). D’Annunzio reagì violentemente contro Pedrazzi e il suo


articolo (v. Nino Daniele, Fiume bifronte, « I Quaderni della
Libertà », 25 gennaio 1933, Sau Paulo del Brasile, p. 6).
19 Sull’azione di Torrigiani in favore di Fiume, Giuseppe Leti

scriverà in un articolo commemorativo: « A torto o a ragione…


Torrigiani promosse la gesta di Ronchi, come lo stesso
D’Annunzio riconobbe in un momento storico solenne. E nei
giorni della più grande miseria di Fiume, Torrigiani inviò a Fiume,
d’accordo colla Banca italiana di sconto e col Governo,
larghissimo corredo di vettovaglie, di medicinali e di indumenti »
(« Libertà », Parigi, 8 settembre 1932). Nella protesta contro le
devastazioni fasciste delle logge, il Gran Maestro Torrigiani
scriverà, il 18 settembre 1924: « Rammenterò Fiume,
rammenterò tutte le rivendicazioni adriatiche, per le quali
alzammo primi la voce e intraprendemmo la propaganda e
l’azione quando in Italia non ci pensava nessuno. Eccedemmo
persino; ma era bene anche eccedere, affinché i
rappresentanti responsabili d’Italia potessero meglio chiedere ed
ottenere », D. Saudino, La genesi del fascismo, Documento IX, pp.
336-8.
20 MARIA RYGIER, La franc-maçonnerie italienne ecc., pp. 51-

3. Dopo il 1908, v’erano in Italia due massonerie che


corrispondevano al Grande Oriente ed alla Grande Loggia di
Francia. Saranno tutte e due disciolte dal governo fascista. Il
Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani, Domizio
Torrigiani, sarà condannato al confino. Il « Commendatore » di
quella di « rito scozzese antico ed accettato », Raul Palermi, tipo
consumato di avventuriero senza scrupoli, il cui nome è stato
fatto in Francia all’epoca dell’affare Caillaux, diventerà un
collaboratore di Mussolini.
21 Cfr. pp. 61-62.

22 Sempre secondo il lodo: « Sull’impresa dannunziana


all’interno Mussolini afferma d’essere egli stato tra coloro che
l’avevano sconsigliata, sia parlandone con D’Annunzio stesso
verso il 10 ottobre, sia più tardi, per lettera ed anche a mezzo di
terze persone (Pedrazzi, De Ambris, Bianchi) ». Però aggiunge: «
Quando una di queste persone mi affermò che lo sbarco di
D’Annunzio con 70 o 80 mila uomini e la sua marcia su Roma
erano, malgrado il contrario consiglio mio e di altri,
ancora possibili, io gli risposi che se D’Annunzio avesse marciato,
io avrei marciato con lui ». In realtà Mussolini, pur intrattenendo

134
un clima d’eccitazione e valendosi della minaccia che Fiume
rappresenta per lo stato italiano (cfr. p. es. i suoi articoli nel «
Popolo d’Italia » del 29 settembre e del 2 ottobre 1919), sa che
non c’è niente da fare e arriva talvolta a proclamarlo. Nel suo
editoriale del 22 dicembre 1919 su La repubblica di Modigliani
egli confessa: « La realtà è che la rivolta di D’Annunzio, che noi
approviamo con tutto l’animo, non può diventare la
rivolta dell’Italia, sia in regime di monarchia, sia in regime di
repubblica ».
23 « I nostri bersaglieri con Ceccherini in testa — Andranno

da Cagoia e gli faran la festa. »


24 II testo della lettera di Giuriati, diretta all’avv. Piero Pieri,

segretario del Fascio di Trieste, è stato ripubblicato da


quest’ultimo in un articolo del «Popolo d’Italia» (19 giugno 1938),
consacrato al disegno dannunziano di marciare su Roma. Da
quell’articolo, e da un altro pubblicato poco prima da Edmondo
Mazzuccato (21 maggio 1938) risulta chiaramente che Mussolini
ha sconsigliato l’impresa, e ch’egli ha continuato ad opporvisi
anche nell’estate 1920. Di passaggio a Trieste, egli, racconta il
Mazzuccato, così si espresse: « Da Fiume si vede la cosa in modo
ben diverso da come la vedo io da Milano, ed ho il dovere di dirlo,
per non creare illusioni: c’è la questione di Fiume e c’è
la situazione interna del paese da considerare. Se D’Annunzio si
muove, chi resta a Fiume? £ ammesso che si possa tener Fiume e
muoversi nello stesso tempo? Vi dò per sicuro il successo fino al
Tagliamento con l’aiuto armato degli squadristi giuliani e con
l’adesione di qualche reparto dell’esercito, ma poi saremmo
bloccati da un improvviso sciopero generale che ci impedirebbe di
fare un passo avanti: perché i socialisti e le Confederazioni del
lavoro farebbero il giuoco del Governo. Non bastano le armi,
occorre avere con noi i ferrovieri, i telegrafi, le poste, i
servizi pubblici in una parola, perché il problema è prima politico
poi militare ».
25 Alfredo Rocco ha raccontato più tardi d’essersi recato con
Francesco Coppola a Fiume nell’ottobre 1919 al fine di
persuadere D’Annunzio a marciare su Trieste, anche per evitare «
assolutamente » le elezioni generali in Italia. Secondo i due
strateghi nazionalisti, « all’annunzio dell’occupazione di Trieste, a
Roma tutto sarebbe crollato ». Il Comandante sembrò convinto
dei loro argomenti e deciso ad agire, ma la cosa non ebbe séguito.
(Vedi A. Rocco, Scritti e discorsi politici, Milano, A. Giuffrè, 1938,
pp. 740-1, articolo dell’ottobre 1923). [Agli inizi di giugno già si
ventilavano specie attorno al duca d’Aosta piani di colpo di stato.
« Il duca d’Aosta e alcuni generali ed ammiragli condividevano le

135
idee del partito nazionalista, e con esso si compromettevano,
appoggiandolo nei suoi piani rivoluzionari… I generali Giardino,
Badoglio, Grazioli e gli ammiragli Cagni, Millo incoraggiavano…
Si era formato fra le truppe ancora mobilitate un ambiente
sensibilissimo ad ogni propaganda che volesse condurle ad un
gesto di protesta e di rivolta contro lo stato italiano », E. Caviglia,
Il conflitto di Fiume, p. 69. Fra i generali che complottavano col
duca d’Aosta il Caviglia nomina Sailer, che « non era riuscito
dalla guerra netto da ombre pavide », e Gandolfo, che « s’era
mostrato insufficiente a Vittorio Veneto »: all’uno e all’altro « si
prestava un’occasione per rifarsi una fama sotto l’egida del
Principe », Id., p. 70.] Versioni spesso strampalate di congiure
militari circolarono sulla stampa all’epoca, come quella diffusa
dall’« Informatore della Stampa » del 10 giugno 1919, B.P.Z., n.
114, p. 11. [cfr. E. Caviglia, pp. 70-1, che riproduce anche il testo
pubblicato da quell’Agenzia, pp. 188-222. Preoccupazioni circa
una impresa « boulangista » si trovano in alcune lettere del
carteggio Turati-Kuliscioff, del settembre 1919, cfr. più
oltre, nota 33. Su un progetto nazionalista di sbarco dannunziano
ad Ancona, per marciare su Roma cfr. la lettera dell’avv. Oddo
Marinelli, in « L’Europeo », 20 marzo 1949.]
25 Su Errico Malatesta: Max Nettlau, Das Leben eines
Anarchisten, Berlin, Der Syndakalist, 1922 e Errico Malatesta,
New York, « Il Martello », 1922; Max Nettlau, Malatesta e la
guerra, in « Adunata dei refrattari », New York, 29 ottobre-17
dicembre 1932 e in « Freedom Bulletin », Londra, dicembre 1933;
L. Fabbri, E. M. e i tempi di « Umanità Nuova » (1920-1922), nel
«Risveglio anarchico di Ginevra», 22 luglio 1933, riprodotto come
prefazione del I volume degli Scritti (Ginevra, 1934); Id., articolo
nell’Almanacco libertario pro vittime politiche, 1933, Ginevra,
Carlo Frigerio, 1933; A. Borghi, E. M. in 60 anni di lotte
anarchiche, Parigi, Tipografia Sociale, 1933; L. Fabbri, El
pensamiento de Malatesta, Barcellona, Guilda de Amigos del
Libro, 1935. Malatesta morì a Roma il 2 luglio 1932. Egli è una
delle più nobili figure che s’incontrino nella storia delle lotte
sociali di tutti i tempi. Davanti alle deliranti manifestazioni che
accolsero il suo ritorno in Italia egli scriveva: « Esaltare un uomo
è cosa politicamente pericolosa ed è moralmente malsano per
l’esaltato e per gli esaltatori » (« Volontà », quindicinale
anarchico, Ancona, 16 gennaio 1920). Pur non perdendo mai di
vista l’azione materiale che deve « dare il colpo di spalla » e far
crollare il sistema presente, egli ha sentito sempre vivamente la
necessità che tale azione trovasse un contrappeso « nei
rivoluzionari che agiscono per un ideale, e che siano ispirati e

136
guidati dall’amore per gli uomini, per tutti gli uomini », perché
senza di esso, « una tale rivoluzione divorerà se medesima » e
farà capo « ad una nuova tirannia ». Trascorse gli ultimi anni
della sua vita a Roma, angariato dalla polizia fascista e
lavorando come elettricista. In una lettera a Clara Mesnil del 5
maggio 1928 egli scrive: « Che vita, amica cara! Sorvegliato
giorno e notte da uno stuolo di poliziotti, che mi seguono
dappertutto, che arrestano, molestano, portano in prigione e di là
al confino chiunque viene a vedermi, o semplicemente mi saluta
per la strada. Non poter far nulla nel paese e non poterne uscire!
».
27 « Risale alle prime settimane del 1920 l’idea che si ebbe per

qualche momento, tra una piccola cerchia di rivoluzionari, di


utilizzare la situazione creata da Gabriele D’Annunzio con
l’occupazione di Fiume… Malatesta fu dei pochissimi (il
principale anzi) mescolati alle brevi trattative di quel momento
intorno al progetto », L. Fabbri, prefazione al 1° volume degli
Scritti, p. 12. Sul progetto vedi gli accenni di E. Malatesta, in
Scritti, I, pp. 12-53, 67-8, 209.
28 Parole ricordate, da Luigi Fabbri. Altre dello stesso senso
rivolse Malatesta nell’aprile 1920 a Luigi Bertoni, cfr. « Risveglio
anarchico », Ginevra, 30 luglio 1932.
29 Cfr. Cap. I, n. 3 e A. Rosmer, La Semaine rouge en Italie.

Conversazione con Malatesta, in « Vie Ouvrière », n. 115, 5 luglio


1914, pp. 1-19.
30 Uscendo una sera dal Consiglio nazionale del Partito
socialista che si tenne a Milano nell’aprile 1920, mi accompagnai
con Giuseppe Giulietti sino alla sede dell’« Avanti! ». Nel percorso
egli mi raccontò della congiura, dandomi dei particolari sulla
preparazione dell’impresa e imprecando contro coloro che
l’avevan fatta fallire. Secondo Nino Daniele (Fiume bifronte, p. 12
nota) il tentativo avrebbe dovuto aver luogo all’epoca dello
sciopero ferroviario (fine gennaio 1920, cfr. p. 115: «
La Federazione dei Lavoratori del Mare era pronta al largo di
Ancona con tre bastimenti carichi di armi, che, fallito l’accordo,
dovettero poi fingere di sbarcare carbone ».
31 Questo giornale iniziò le pubblicazioni a Milano nel
febbraio 1920; dovrà sospenderle il 23 marzo 1921 in séguito
all’attentato del Diana (cfr. p. 184), continuerà come settimanale
a Roma, dove ridiventerà quotidiano il 1° luglio 1921.
32 Quest’episodio del Persia ebbe anche vasta eco alla
Camera, ove Nitti negò che il suo carico fosse destinato alla
Russia. Su di esso si è impegnata una vivace polemica tra l’«

137
Avanti! » e il capitano Giulietti, che per impedire la partenza del
piroscafo aveva provocato a Genova lo sciopero e chiesto ai
socialisti che questo fosse esteso a tutta l’Italia. L’« Avanti! » del
16 dicembre 1919, scrive: « Lo sciopero generale pel Persia —
inscenato dalla Massoneria di cui Giulietti è la lunga mano —
significava creare una tale situazione interna per cui
avrebbero avuto buon gioco gli avventurieri di Fiume e il nostro
paese avrebbe potuto essere facilmente, in momento di tanto
subbuglio, alla mercè di pochi pescatori nel torbido. Era quello
che volevano i fiumani. ” È per la Russia ”, ci gridava Giulietti. ”
Non beviamo ”, rispondevamo noi. E ci rifiutammo di pubblicare
la provocazione allo sciopero generale… La salvezza della Russia
e tutta la faccenda del Persia son state un magnifico pretesto
trovato da Giulietti e dalla Massoneria italiana, d’accordo coi
fiumaroli, per indurre il Partito socialista italiano e la C.G.L. ad
un’azione da piazza che avrebbe in quel momento giovato solo
all’imperialismo italiano ». L’« Avanti! » aggiunge (è certo Serrati
che scrive), che i fondi del Persia hanno servito a pagare gli Arditi
inviati a Milano (cfr. p. 61). Una risposta di Giulietti è nell’«
Avanti! » del 23 dicembre. Si legge nel diario di Adolfo Giuliotti,
alla data del 14 ottobre 1919: « È giunto il capitano Giulietti della
F.I.L.M. Egli è stato ricevuto da D’Annunzio; alle sei i marinai del
Persia hanno offerto un banchetto a D’Annunzio, a Rizzo e
Giulietti» (« Disobbedisco », p. 73) [Cfr. P. Badoglio, Rivelazioni
su Fiume, pp. 198-200]. Cfr. anche Cap. VII, n. 17.
33 Ciò era implicito nell’atteggiamento ufficialmente assunto
dal Partito socialista verso l’impresa di Fiume. Il 13 settembre
1919 un comunicato della Direzione del partito dichiarava: È la
stessa minoranza faziosa la quale quattro anni fa, complice il
governo, trascinò il Paese nelle calamità della guerra, ma essa
ora trova la classe lavoratrice italiana preparata e agguerrita, per
approfittare degli inevitabili conflitti che potranno determinarsi
fra le classi dirigenti e la casta militare » (« Avanti! », 14
settembre). Tutt’altra nota, e nobilissima, è nel discorso di Turati
del 28 settembre alla Camera («Critica Sociale», 1919, n. 19, p.
255-61). [Serrati aveva sull’« Avanti! » sconfessato questo
discorso, chiamandolo un altro « infortunio sul lavoro ». Cfr. la «
Critica Sociale » del 1° ottobre 1948, pp. 439-42, ove sono
pubblicate alcune lettere del carteggio Turati-Kuliscioff, che
fanno rivivere le loro impressioni e le loro ansie del settembre
1919 circa l’impresa fiumana, l’indisciplina dell’esercito e della
marina, il pericolo di una dittatura militare (si fanno i nomi dei
generali Giardino e Grazioli tra gli aspiranti « continuatori del
Cadorna, a cui Caporetto tagliò la via alla dittatura militare »), le

138
ripercussioni sulla politica interna. Convocato da Nitti, come gli
altri capi dei partiti politici, al Consiglio della Corona del 25
settembre, Turati rispose spiegando in una lettera al Presidente
le ragioni del suo rifiuto.]
34 In una lettera del 1930 a Luigi Fabbri, Malatesta spiega: «

Si trattò, al principio del 1920, di un progetto insurrezionale, di


una specie di marcia su Roma se la si vuol chiamar così. Il primo
ideatore della cosa, il quale avrebbe potuto avere da Fiume
soccorso di uomini e specialmente di armi, metteva come
condizione sine qua non il concorso o almeno l’approvazione dei
socialisti, e ciò sia per maggiore sicurezza di riuscita, sia perchè
temeva che lo potessero qualificare di agente dannunziano. Vi
furono in proposito un paio di riunioni a Roma; i socialisti non ne
vollero sapere, e così non se ne fece nulla» (E. M., Scritti, I, p.
12).
35 Nel « Popolo d’Italia » del 17 febbraio 1920, Mussolini

sotto il titolo: L’operetta nell’epopea - Come doveva scoppiare la


rivoluzione, così narra: « Si parla di un convegno a Roma durante
lo sciopero ferroviario: organizzatori, socialisti, anarchici. Fra di
essi, Giuseppe Giulietti. Si doveva mettere al corrente D’Aragona
e G. Bianchi. Uno dei convenuti denunciò la cosa alla C.G.T. [sic,
ma leggi C.G.L. (N.d.E.).] e al Partito e si giustificò così: — Poiché
fra gli organizzatori presenti al raduno barricadero uno vi era di
preminente fede… fiumarola (G. Giulietti), il delatore sospettò che
una rivoluzione scoppiata nelle attuali circostanze avrebbe potuto
giovare… a D’Annunzio, favorendo i disegni e i sogni di conquista
della Penisola del Poeta-Soldato — ». Tutt’altra reazione quella
di Dino Grandi, il quale due anni dopo, dopo aver constatato che il
tentativo fiumano non aveva « superato i confini dell’episodio »,
aggiunge: « Se il socialismo italiano avesse avuto un altro animo,
un’altra mentalità, forse le cose non sarebbero andate così. Ma
invece così andarono» («Popolo d’Italia », 3 aprile 1922). Si noti
che nell’avversione profonda a ogni sorta di « fiumanesimo »
s’accordavano all’interno del Partito socialista tanto il
massimalista Serrati che il riformista Mazzoni, il quale al
convegno « concentrazionista » di Reggio Emilia, nell’ottobre
1920, denuncierà la congiura, nonché « il filo massonico che
parte da Fiume e passa per Giulietti e Malatesta — che non ha
smentito d’essere un massone dormiente ». Tra i dirigenti fiumani
gli elementi di « destra » videro di mal’occhio questi progetti. Il
maggiore Rejna, comandante dei Granatieri di Ronchi, spiega in
una lettera del 27 luglio 1920 a D’Annunzio le ragioni per cui non
intende più ritornare a Fiume, tra cui la seguente: « Fui sempre
contrario a qualsiasi idea di rivoluzione militarista… perché ero

139
convinto che se noi continuavamo l’azione anti-costituzionale, non
noi, ma i Malatesta l’avrebbero finita… Tu eri favorevole al
progetto di un colpo di Stato militarista-anarchico a Roma e per
questo proteggevi i vari elaboratori di simili progetti (ricordo tutti
quelli usciti dalla Segreteria Speciale). Tu imponevi e dicevi di
voler andare a Roma, a Trieste, a Spalato. Tu volevi un colpo di
Stato per innalzare il duca d’Aosta ». Questa lettera fu pubblicata
nell’« Avanti! » del 28 agosto 1920. Essa diede luogo a una
Commissione d’inchiesta, la cui relazione fu pubblicata nel «
Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia » del 3
settembre 1920. [Cfr. anche E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, pp.
158-60. Stiracchiato tra gli elementi di destra e quelli di
sinistra, D’Annunzio continua ancora per un certo tempo a
vagheggiare l’impresa. Luigi Gasparotto ricorda nel suo Diario di
un deputato, alla data del 9 maggio 1920: « Il fiorentino
Brambilla mi parla per conto di D’Annunzio. Da Fiume egli
progetta di fare una marcia su Roma, per rovesciare il governo e
instaurare un nuovo ordine. Mi chiede se aderisco. Rispondo di
no. » (p. 142).]
36 Les bâtisseurs de l’Europe moderne, cap. XXVII, pp. 283-311:
D’Annunzio, ou les origines littéraires du fascisme. E anche, dello
stesso, gli articoli nell’« Europe Nouvelle » (Parigi), 17 ottobre
1931 e nella Dpêche de Toulouse, 5 marzo 1938.

140
Capitolo Quinto

NITTI. GIOLITTI. DON STURZO






Alle elezioni del novembre 1919, le masse
hanno manifestato la loro ostilità alla guerra e la
loro esigenza di giustizia sociale votando per i
socialisti e per i « popolari ». Questi due partiti
hanno, da soli, la maggioranza alla nuova
Camera: 256 mandati su 508 seggi. Dal punto di
vista parlamentare, non vi è maggioranza
possibile che per una di queste tre
combinazioni: socialisti e popolari — socialisti,
democratici e liberali — popolari, democratici e
liberali. I socialisti hanno avuto 1.840.600 voti
e 156 eletti, cioè il 32% nel paese e al
Parlamento. Sono dunque lontani dalla
maggioranza assoluta. La proporzionale ha
salvato i partiti conservatori da una più
dura disfatta, e il Mezzogiorno è rimasto,
malgrado la guerra, la loro grande riserva. Sui
156 socialisti, 131 sono eletti nell’Italia del
nord, nella vallata del Po ed in Toscana, il
Mezzogiorno continentale non ha dato che 10
eletti, di cui 5 nelle Puglie: nessun deputato
socialista nelle Isole. Ciononostante, i socialisti
sono più vicini al potere di quel che non
indichino le cifre, nella misura in cui essi

141
possono interpretare le aspirazioni di tutto il
popolo italiano, e convogliarne il malcontento
profondo. Tre strade sembrano aprirsi davanti a
loro: abbandonare il Parlamento e preparare l’«
azione diretta » nel paese; restarvi, creando nel
paese il « secondo potere » che dovrà
rimpiazzarlo; realizzare nel Parlamento e nel
paese le alleanze indispensabili al compimento
della rivoluzione democratica. Il Partito
socialista, incapace d’azione diretta come di
manovra politica di grande ampiezza, scalpiterà
senza partire per tre anni, fino a che il fascismo
taglierà in sua assenza, contro di lui, il nodo del
potere.
Mussolini che, esulcerato dalla disfatta
elettorale, si tiene un poco in disparte, ha molto
ben capito quanto una tale situazione può
offrirgli. Commentando un articolo dell’« Avanti!
», secondo il quale il Partito socialista deve «
lasciare alla borghesia il compito di liquidare
da sola le passività della guerra, se vi riesce »,
scrive una settimana dopo le elezioni:
No, cari signori. I socialisti tesserati — e non tutti! —
possono comprendere le trascendenti ragioni di queste
vostre ’’dilazioni ” prudenziali, ma il corpo elettorale, no. La
massa che ha votato per voi lo ha fatto credendovi —
illusióne o realtà, lo vedremo! — gli unici capaci di districare
l’aggrovigliata matassa e di avviare sulle strade di un più
ampio benessere e di una più grande libertà il popolo
italiano. Voi non potete decentemente sottrarvi a questo
impegno. E per saldare questi obblighi, due strade vi
rimangono: o la conquista totale e globale del potere politico,
attraverso la insurrezione delle strade, poiché non avete la
maggioranza in Parlamento, oppure la collaborazione —
avveduta, saggia e cautelata — con gli altri partiti, sulla base
di un compromesso programmatico accettabile per tutti. La
prima ipotesi significa la guerra civile e l’inevitabile

142
schiacciamento del partito e delle organizzazioni operaie,
con da ultimo l’apparire inevitabile di una sciabola
dittatoriale; la seconda strada, invece, quella che crea,
sviluppa, fortifica le condizioni necessarie e sufficienti per
le estreme realizzazioni. Non vogliamo formulare una terza
ipotesi: il nullismo fuori e la cagnara dentro 1.

Tre mesi dopo, Mussolini è già persuaso che si


sta avverando proprio questa terza ipotesi.
La grande, la strombazzata vittoria elettorale del partito
socialista è una rivelazione clamorosa d’insufficienza e di
impotenza. Nullismo riformista e nullismo rivoluzionario. Né
azione parlamentare, né azione di piazza. Lo spettacolo di un
gran partito che all’indomani di una sua grande vittoria si
esaurisce nella vana ricerca del punto di applicazione delle
sue forze e non fa la riforma e non tenta la rivoluzione, ci
diverte. È la nostra vendetta ed è venuta più presto di
quanto non avessimo sperato2.

Infatti il Partito socialista si trova in un vicolo


chiuso da cui non sa uscire, e che lo condanna
ad oscillare da una tattica alla tattica opposta,
ed a fare ogni volta « un passo avanti, due
indietro ». Il manifesto lanciato nell’agosto 1919
dalla frazione massimalista, che domina
nel partito, si pronuncia per una rivoluzione
senza transizioni e senza indugio: «
L’instaurazione della Società Socialista — dice il
manifesto — non può essere compiuta con
un decreto o con una deliberazione di qualsiasi
Parlamento o Costituente. Sono egualmente da
rigettarsi e da condannarsi come pericolose ed
insidiose le forme ibride di collaborazione tra
parlamento e consigli dei lavoratori… Si deve
invece spingere il Proletariato alla conquista
violenta del potere politico ed economico che
dovrà essere affidato interamente ai Consigli
degli operai e dei contadini, Consigli che

143
avranno nello stesso tempo funzione
legislativa ed esecutiva ». Al Congresso
nazionale del Partito socialista che ha luogo a
Bologna, ai primi dell’ottobre 1919, questa
frazione liquida il vecchio programma del
partito, soprattutto perché questo programma
ammetteva la lotta « intesa a conquistare i
poteri pubblici (stato, comuni, amministrazioni
pubbliche, ecc.) per trasformarli, di strumento
che oggi sono di oppressione e di
sfruttamento, in uno strumento per
l’espropriazione economica e politica della
classe dominante »3. Il nuovo programma, al
contrario, afferma che quegli organismi « non
possono in alcun modo trasformarsi in
organismi di liberazione del proletariato ». Che
fare allora al Parlamento, nei municipi
conquistati? La mozione massimalista vittoriosa
a Bologna lo spiega: il partito deve lottare « sul
terreno elettorale e dentro gli organismi dello
Stato borghese per la più intensa propaganda
dei princìpi comunisti, e per agevolare
l’abbattimento di detti organi della
dominazione borghese » . 4

Così, i 156 deputati e, tra qualche mese, i


2800 comuni socialisti non dovrebbero
occuparsi d’altro che della propaganda
rivoluzionaria e del sabotaggio dello stato.
In pratica, i deputati e i sindaci socialisti
consacrano la loro attività migliore, come prima
della guerra, a suggerire e a reclamare lavori
pubblici, a creare dei sindacati e
delle cooperative, a fare dell’amministrazione
ordinaria, a volte della eccellente

144
amministrazione. Tutto procede come se, fra
questo riformismo pratico che quasi si vergogna
di sé e le proclamazioni massimaliste, non ci
fosse né contraddizione, né legame. Ciascuno
tira dalla sua parte per una specie di divisione
del lavoro di cui nessuno si scandalizza. A
Mosca, il risultato del Congresso di Bologna,
che ha ratificato ad unanimità l’adesione alla
Terza Internazionale, è salutato come un grande
successo 5. Tuttavia Lenin scrive verso la fine di
ottobre a Serrati, per mettere in guardia il
proletariato italiano contro « una insurrezione
prematura », aggiungendo degli elogi ed un
consiglio: « Il meraviglioso lavoro dei comunisti
italiani serve di garanzia che essi riusciranno ad
acquistare alla causa del comunismo tutto il
proletariato industriale ed agricolo, nonché
tutti i piccoli proprietari, e allora la vittoria della
dittatura del proletariato sarà definitiva »6. Gli
elogi sono immeritati, e il consiglio non sarà
seguito. Il lavoro del partito non è «
meraviglioso » — tutt’altro — e invece di
sforzarsi di guadagnare « tutto il proletariato
industriale ed agricolo, nonché i piccoli
proprietari », il partito continua a ubriacarsi di
parole, a redigere sulla carta dei progetti di
Soviet, abbandonando a se stesse le
commissioni di fabbrica nel Nord e i contadini
affamati di terra nel Mezzogiorno.
Una grande parte dei piccoli proprietari locali
resta, o passa, «otto il controllo del « Partito
popolare italiano », che si è costituito or ora7.
Questo partito ha ottenuto alle elezioni del
novembre più di un milione di voti e conta un

145
centinaio di eletti. Il Vaticano ne ha permessa la
creazione alla fine del 1918 per drizzare una
barriera contro la marea socialista montante.
Inoltre, « non pochi liberali — assicura Tittoni —
contavano di avere in esso un alleato contro il
socialismo »8.
Il Partito popolare nasce così con due anime:
l’una democratica e avida di grandi riforme,
l’altra essenzialmente reazionaria. L’opposizione
delle due correnti si manifesta in séguito
sempre più. Gli elementi conservatori, nota don
Sturzo, « appena si delinea e prende corpo
il fenomeno agrario-fascista, sentono una nuova
attrazione e si distaccano dal partito »9. Ma,
indipendentemente da questo equivoco iniziale,
il P.P.I. è chiamato, durante gli anni 1919-1920,
a svolgere, nel suo insieme, soprattutto un
compito conservatore, per le posizioni che ha
adottato e grazie al caos socialista.
Mussolini, qualche giorno dopo la nascita del
partito, nel gennaio 1919, se ne è reso
perfettamente conto.
L’avvenimento del giorno nella politica nazionale — scrive
— è la fondazione del Partito Popolare Italiano… Il
programma è ” democratico ”. Oseremmo dire, troppo
democratico… Nel complesso il programma del nuovo partito
ha moltissimi punti di contatto con quello di altri partiti. È un
programma rinnovatore o, in certi suoi postulati, come quelli
che concernono la politica estera, ” sovversivo ”. Ma ciò che
differenzia il neo-partito dagli altri di estrema, è e sarà la
tattica. Il partito popolare italiano non può uscire,
nell’adozione dei suoi mezzi di lotta, dal terreno della
più stretta legalità. Sarà quindi un partito elettorale. In
questo senso può giuocar una parte assai grande nella vita
nazionale. È solo questo partito che può sperar di

146
contendere ai socialisti le masse rurali, negli imminenti
comizi elettorali10.

È infatti ciò che avviene. Per due anni, il


movimento socialista non trova contro di sé —
all’infuori della sua propria insufficienza — altri
avversari che il nuovo partito. Il P.P.I. solo si
oppone alla Costituente 11, impedisce il
monopolio socialista nel dominio sindacale, e
soprattutto nelle campagne, ché l’Italia resta,
malgrado la guerra, un paese essenzialmente
rurale. Nella misura in cui un « pericolo
bolscevico » è esistito in Italia, è il Partito
popolare che l’ha stornato 12.
La doppia anima del Partito popolare rende
difficile la collaborazione con i socialisti, che da
parte loro non vi sono punto preparati. Di qui
hanno origine le crisi ministeriali successive che
logorano i due soli capi di cui dispone allora la
borghesia italiana: Nitti e Giolitti.
Nitti ha compiuto, dall’epoca del suo avvento
al potere, un’opera considerevole13.
Sinceramente liberale, ha una profonda cultura
storica ed economica14 e, eccezione rara tra gli
uomini di stato italiani, conosce a fondo i grandi
stati moderni, soprattutto l’Inghilterra, la
Germania, gli Stati Uniti. Nessuna delle
tendenze, nessuno degli ingranaggi della
finanza internazionale gli sfugge. Nello stesso
tempo, — e questo curioso amalgama spiega in
gran parte la sua superiorità e i suoi difetti — è
rimasto, per origine e per temperamento,
l’uomo del Mezzogiorno, formatosi in un
ambiente sociale arretrato, privo totalmente di

147
partiti organizzati e di forze operaie
d’avanguardia. Egli è arrivato molto presto in
primo piano nella vita politica, come molti altri
della élite meridionale, che non hanno avuto da
guadagnarsi i galloni di caporale nelle lotte
locali. I vincoli che essi hanno con la loro terra
sono dei vincoli personali, di simpatia, di
prestigio o di rango sociale, e fra la loro forte
cultura, spesso cosmopolita, e la vita locale, non
vi è alcun rapporto. Si sono formati da soli, e
quando ritornano a casa loro da Napoli,
da Roma, o da Londra, trovano un’atmosfera
come di famiglia, una clientela devota, di cui
hanno bisogno e con cui hanno in comune la «
filosofia », fatta di buon senso, di furberia e di
adattamento. È grazie ai loro studi, grazie ad
uno sforzo intellettuale, che essi sono saltati
dalla chiusa vita provinciale alla grande
capitale: non vi è stato concatenamento e
progresso d’esperienze umane. Non bisogna
meravigliarsi che Nitti, per esempio, sia scettico
e scaltro come un big man della City, e fatalista
come un contadino della Basilicata. L’enorme
ritardo del Mezzogiorno sull’Italia del Nord
costringe gli uomini di stato ad una politica di
lento avviamento; essi hanno, d’altra parte,
grazie alla loro viva intelligenza ed alla loro
cultura, il gusto della grande politica. Non
possono conciliare le due tendenze che
condannandosi a molta pazienza e a molta
misura all’interno del paese, e riservando le
loro audacie per la politica estera. Nitti ha
sempre voluto realizzare, in fondo, una politica
paternalista, seppure di grande apertura. Lui

148
che sarebbe stato un grand commis sotto Luigi
XIV o sotto Giuseppe II, non era preparato al
giuoco e all’urto dei partiti e delle classi che,
nel dopoguerra, non permettevano più di « fare
il bene » del popolo senza restare in contatto
stretto con lui, senza dargli la sensazione
ch’esso partecipava direttamente alla vita
politica e che un’èra nuova era cominciata.
Come Giolitti, come Turati, Nitti è rimasto un
uomo dell’anteguerra. Il suo programma
economico e sociale è ancora quello di quei «
discorsi ai giovani » che egli aveva raccolto
nella sua Italia all’alba del XX secolo, il
documento più caratteristico del liberalismo
chiaroveggente degli anni intorno al 1900 15.
Nitti non crede alla possibilità di una rivoluzione
in Italia. « E l’Italia, ama constatare, è forse il
solo paese di Europa che non ha avuto mai in
due mila anni né una vera rivoluzione, né una
vera guerra di religione. » 16 Diffida di tutti i
cambiamenti politici, in parte per spirito
conservatore, ma soprattutto per scetticismo di
storico e di economista. È ostile all’idea
della Costituente, con la quale tutti hanno
amoreggiato, e il suo liberalismo classico, che la
guerra non ha intaccato, lo spinge contro ogni
idea di socialismo di stato, di controllo
sull’industria e sulle banche.
A costringerlo ancor più nella via di un
riformismo prudente e un poco « giorno per
giorno », concorre anche la grave situazione
economica dell’Italia, che pone al governo dei
problemi urgenti e lo travaglia senza tregua.
La crisi economica, ritardata e in qualche

149
maniera mascherata da fenomeni transitori, si
annuncia chiaramente in Italia all’inizio del
1920 e raggiunge di un colpo una grande
intensità. Le difficoltà di approvvigionamento
si fanno sentire, il problema del carbone diviene
« sempre più angoscioso ». L’Inghilterra non ne
concede più di 300 mila tonnellate per mese
invece delle 800 mila necessarie, e facendole
pagare a un prezzo molto elevato imposto agli
importatori. Bisogna ridurre il numero dei
treni, chiudere in parte le fabbriche. Bisogna
limitare le altre importazioni: grano, zucchero,
carne congelata. Queste sono anche rese difficili
dal rialzo dei cambi, sui quali si deve stabilire
un controllo verso la metà dell’aprile
1920. D’altra parte, l’economia italiana non ha
ancora saputo « realizzare » il cambiamento di
congiuntura, e adattarvisi. La febbre speculativa
continua, si creano delle nuove imprese, perché
si attende, con la pace, un’èra di espansione e di
prosperità. Così la richiesta di crediti si
accresce e, con essa, la circolazione fiduciaria.
All’estero, la caduta dei prezzi all’ingrosso, già
cominciata, annunzia che un nuovo equilibrio è
divenuto inevitabile.
Nitti si sforza di far fronte ad una simile
situazione, di cui non si nasconde la gravità,
soprattutto in ciò che concerne le finanze
pubbliche. In una lettera ai suoi elettori,
nell’ottobre 1919, lancia un grido di allarme: «
Le spese effettive dello stato superano di circa
tre volte le entrate effettive; tutte le aziende
industriali dello stato sono passive; il prezzo del
pane è ancora al di sotto del costo e il governo

150
rimette qualche miliardo all’anno; il debito dello
stato cresce ancora di circa un miliardo al mese;
le spese militari, dopo un anno che la guerra
è finita, rappresentano ancora ogni mese una
cifra superiore alle spese militari dell’anno
prima della guerra »17. Nitti moltiplica le misure
e gli interventi, dispiega una grande attività, e
lancia, nel novembre 1919, un prestito che
ha un successo considerevole, poiché raggiunge
in pochi mesi 21 miliardi di lire. Più tardi, dopo
la sua eliminazione dal potere, ricorderà o farà
ricordare la lunga lista dei decreti che ha
emanato; dirà che ha dato i primi colpi di timone
per uscire dalla tempesta, i più difficili e i
più ingrati. Ciò che è vero, ma che non poteva
evitare e non ha evitato la sua caduta.
Nell’atmosfera del 1919-1920, la sua formula «
produrre più e consumare meno » non apriva
all’Italia ed al suo popolo alcuna prospettiva. In
un mondo sempre più impoverito, coi bisogni di
vita nuova creati dalla guerra e liberati dalla
pace, questa formula era fuori di ogni realtà,
della realtà psicologica immediata, e anche,
della realtà economica.
D’altra parte, Nitti non aveva potuto trovare
gli appoggi politici indispensabili per governare.
Avrebbe sì voluto, come Giolitti, indurre i
socialisti a còDaborare al potere: la lotta feroce
che i due uomini di stato si fanno è, anche, in
parte, una lotta a chi arriverà il primo a domare
la fiera. I socialisti, di cui i più sono rimasti
fedeli agli antichi amori con Giolitti, sono ostili a
Nitti a causa della sua politica interna. Nitti ha
riorganizzato le forze di polizia, quasi inesistenti

151
all’inizio del 1919, e creato la « guardia regia »,
impiegata attivamente nella repressione delle
manifestazioni popolari, anche delle più
pacifiche. Tra l’ottobre del 1919 è il maggio
1920, qualche centinaio di operai e contadini
sono stati uccisi e feriti in tutte le regioni
d’Italia. Socialisti e fascisti se la prendono con il
« poliziotto ». E, soprattutto, i socialisti si
sottraggono alle responsabilità del potere, né si
potrebbe fare a meno del loro concorso, se non
realizzando, anche senza di essi, il loro
programma del 1917, e cercando altri alleati.
Nitti non è uomo di simile tempra. Ci se ne
rende ben conto esaminando la sua politica
agraria. Egli aveva creato nel dicembre 1917,
quando era ministro del Tesoro,
l’Opera nazionale combattenti (O.N.C.), a cui
aveva accordato una forte dotazione per
l’acquisto di terre destinate agli ex combattenti
coltivatori18. Questa iniziativa, che non manca di
audacia al momento in cui è concepita, è del
tutto insufficiente per la « fame di terra » dei
contadini, di tutti i contadini. Sotto la pressione
delle occupazioni di terre che si moltiplicano,
Nitti emana successivamente due decreti 19,
mirando molto più a frenare le occupazioni,
che a realizzare una riforma agraria. Il primo di
questi decreti dà ai prefetti il potere di
consentire, nelle condizioni determinate, alle
occupazioni delle terre incolte, là dove
è necessario stimolare la produzione agricola e
mettere fine alla occupazione violenta ed
arbitraria delle terre da parte della popolazione;
il secondo, pubblicato in un momento in cui la

152
situazione si è aggravata, è ancora più
restrittivo, poiché specifica che: i terreni
suscettibili di essere occupati temporaneamente
sono unicamente i terreni non coltivati o
insufficientemente coltivati; l’occupazione non
poteva del resto essere consentita che alle
associazioni o ai corpi legalmente costituiti, che
avessero già messo delle terre a coltura e ne
possedessero. Con tali preoccupazioni, entro tali
limiti, Nitti non può certamente sostituirsi,
con una azione sociale ardita, al « nullismo »
massimalista20.
Quanto agli altri alleati, i soli possibili erano i
popolari. Ora, Nitti, data la sua formazione,
comprende male questo nuovo partito cresciuto
come una fungaia nella serra calda del
dopoguerra. Il suo giuoco è troppo personale
per piegarsi alle esigenze politiche del Partito
popolare, il cui segretario, don Sturzo, vuol fare
un gran partito all’inglese, definito dal suo
programma, a cui va subordinata la sua tattica
nel paese e al Parlamento. Inoltre i popolari, che
sono stati quasi tutti neutralisti, e che devono
soprattutto a quest’atteggiamento il loro
successo elettorale, considerano Nitti come
troppo compromesso dalla sua partecipazione ai
governi della guerra. Gli rimproverano anche le
sue « debolezze » verso i loro concorrenti, i
socialisti. Durante lo sciopero dei ferrovieri, nel
gennaio 1920, i sindacati « bianchi » avevano
dato l’ordine di continuare il lavoro, e lo
sciopero non solamente era terminato con un
accordo firmato con la sola organizzazione «
rossa », la quale l’aveva scatenato, ma il

153
ministro dei Lavori pubblici aveva abbandonato
alle rappresaglie del Sindacato dei ferrovieri gli
organizzati cattolici che non avevano seguito i
suoi ordini21. I popolari approfittano così della
prima crisi ministeriale — nel marzo 1920 — per
reclamare le dimissioni collettive del governo e
per formulare il loro programma
22
minimo . Nitti, forte dell’appoggio del
Vaticano, con il quale è in trattative per la
questione romana, pensa per qualche tempo di
far a meno del concorso dei popolari, e
forma senza essi il suo nuovo ministero, che non
dura che qualche settimana23: alla terza crisi, i
popolari ritornano all’ovile, troppo tardi per
salvare il governo, ormai condannato 24. Per
alleggerire il bilancio della, forte spesa
del prezzo politico del pane, Nitti promulga un
decreto-legge aumentante il prezzo del pane di
50 centesimi al chilo. L’opposizione di sinistra e
quella di destra insorgono contro questa misura.
Mussolini prende posizione nel suo giornale: «
Paghi chi più ha, e si lasci l’attuale
prezzo politico per i non abbienti, i lavoratori e
gl’impiegati » 25. Davanti alla tempesta Nitti
ritira il decreto per trasformarlo in progetto di
legge, ma le decisioni ostili di quasi tutti i
gruppi della Camera lo obbligano a dar le
dimissioni 26.
La caduta di Nitti non provoca alcuna
sorpresa, poiché tante forze e tante circostanze
vi hanno contribuito. Mussolini, che, all’avvento
di Nitti, aveva dichiarato, secondo la formula
rituale, di attenderlo ai fatti, che aveva

154
approvato le sue misure fiscali — come
approverà quelle di Giolitti —, vuole adesso «
avere la sua pelle », perché Nitti lo ha fatto
arrestare per qualche ora, nel novembre 1919,
ed ha ordinato delle perquisizioni alle sedi
dei Fasci per cercare delle armi. L’esercito non
gli è favorevole, perché egli ha rimandato a casa
centinaia di generali e migliaia di ufficiali in
soprannumero, e perché non ha voluto fare la
spedizione in Georgia contro i Soviet, spedizione
preparata dal governo precedente (Orlando).
I nazionalisti sono furiosi contro di lui pel suo
atteggiamento nella questione di Fiume e per la
sua volontà di riavvicinarsi alla Jugoslavia, e non
cessano di organizzare contro di lui delle
manifestazioni. Il 24 maggio —
giorno anniversario dell’entrata dell’Italia in
guerra, non celebrato ufficialmente — arriva a
Roma una delegazione di dalmati e di fiumani.
Ne seguono una dimostrazione violenta e una
severa repressione, con numerose vittime
da una parte e dall’altra (otto morti e trenta
feriti), e ciò indebolisce considerevolmente il
governo.
L’opposizione di destra sente che il momento
è venuto di concentrare i suoi sforzi per
abbatterre Nitti e, con lui, la sua politica estera.
Durante i primi mesi del 1920, mentre gli
scioperi si moltiplicano nel paese e
D’Annunzio infierisce a Fiume, Nitti si batte a
Londra, a Parigi, a S. Remo per fare trionfare
una politica intelligente di ricostruzione
europea, che sarebbe vantaggiosa anche
per l’Italia. D’accordo con Lloyd George, egli si

155
pronunzia per il ritorno alla normalità, per la
ripresa dei rapporti commerciali con i Sovieti,
per l’imposizione alla Germania di una cifra
globale e ragionevole a titolo di riparazione. Il
governo francese si ostina in quella stessa
politica che porterà al sabotaggio della
Conferenza di Cannes per opera di Miller and:
esso è ostile ad ogni concessione alla Germania
« che pagherà », a ogni riavvicinamento con
la Russia, intorno alla quale si vuol mantenere il
« cordone sanitario ». Così, nazionalisti e fascisti
italiani trovano nella loro opposizione a Nitti
tutti gli incoraggiamenti efficaci da parte
dell’ambasciatore di Francia a Roma, Barreré,
che segue a questo riguardo le istruzioni di
Clemenceau. Costui aveva dichiarato, dopo le
elezioni del novembre 1919, che «farebbe
qualsiasi azione e autorizzerebbe qualunque
mezzo » per impedire che Vitalia ceda
alla marea rivoluzionaria. L’ambasciata di
Francia a Roma — lo si denuncia alla Camera
e nella stampa — è divenuta « il quartier
generale della campagna contro i socialisti
», che sono rimasti « pericolosamente »
wilsoniani. La Conferenza di Spa è convocata
per il 25 marzo. Barrère ha dichiarato: « Nitti
non vi andrà », e Nitti è rovesciato l‘11 maggio,
il giorno stesso in cui i delegati italiani
e jugoslavi hanno finalmente preso contatto a
Pallanza27.
La successione è aperta; dopo qualche
settimana di crisi, Nitti, al principio di giugno, è
definitivamente eliminato, soprattutto perché il
successore è pronto: Giovanni Giolitti28. Giolitti

156
ha, come Mussolini, una rivincita personale da
prendere. Non ha voluto l’intervento dell’Italia
nella guerra nella primavera del 1915, non
l’ha voluto soprattutto in quel momento e nelle
condizioni nelle quali andava preparandosi.
Allontanato dal governo da una congiura di
palazzo, è stato investito con ingiurie e minacce:
Salandra aveva spinto contro di lui i « Fasci » e i
nazionalisti, ai quali aveva abbandonato la
strada. Giolitti vuole tornare al potere, far
blocco con i socialisti, realizzare un certo
numero di riforme politiche, economiche e
fiscali e ricondurre, finalmente, l’ordine nel
paese. Tollera Nitti, gli presta anche i suoi
uomini, ma lo considera come un luogotenente
che gli deve cedere il posto al momento scelto
da lui. Nitti, del resto, non è punto di questo
parere. Prima delle elezioni generali, il 12
ottobre 1919, Giolitti pone la sua candidatura al
potere con il celebre discorso di Dronero.
Questo discorso è prima di tutto una terribile
requisitoria contro la classe dirigente italiana, «
contro le minoranze audaci e i governi
senza intelligenza e senza coscienza », che son
riusciti « a portare in guerra un popolo senza la
sua volontà », contro coloro che « gettarono
l’Italia in guerra senza prevedere nulla, senza
accordi precisi sulle questioni politiche e
coloniali, senza neanche ricordare l’esistenza di
necessità economiche, finanziarie, commerciali,
industriali ». Dopo avere steso un bilancio di ciò
che Vitalia ha perduto in vite umane e in
ricchezze, Giolitti lancia il suo programma
di governo. Nei rapporti internazionali, far di

157
tutto per evitare una nuova guerra. Chiamare
tutte le nazioni a far parte della Società delle
Nazioni, appoggiarsi sulle
forze dell’internazionalismo operaio, abolire la
diplomazia segreta, riservare ai soli Parlamenti
il diritto di dichiarare la guerra e di concludere
la pace. Per la liquidazione del passato, egli
prevede delle inchieste « solenni » sopra
le responsabilità incorse, sulla maniera con cui
sono stati esercitati i pieni poteri, sulla
stipulazione e l’esecuzione dei grandi contratti
di forniture, « per far conoscere al paese come
si sono sperperate decine di miliardi ». Contro la
crisi finanziaria, propone l’abolizione delle
spese militari, l’imposta progressiva sull’insieme
dei redditi e sulle successioni, un prelevamento
straordinario sulla ricchezza, soprattutto sui
benefici di guerra. Si abbandona ad un attacco
virulento contro le forze reazionarie « che, dice,
non potranno più prevalere, perché le classi
privilegiate della società che condussero
l’umanità al disastro, non possono più reggere
da sole il mondo, i cui destini devono d’ora
innanzi passare nelle mani dei popoli »29.
Al momento in cui fu pronunziato, questo
discorso fu accolto dagli urli di tutta la stampa
nazionalista e conservatrice. Nitti si era
affrettato a prendere posizione conto un tal
programma, e soprattutto contro l’inchiesta
sulla guerra, che avrebbe « acceso nuove
passioni»30, rispondendogli il 31 ottobre31 con
una sua lettera agli elettori. Da questo
momento, notano i giornali, « la rottura fra Nitti
e Giolitti può considerarsi come definitiva » 32.

158
Qui comincia infatti, tra i due uomini di stato,
una lotta di estrema asprezza. La loro rivalità,
che si complica con un conflitto d’interessi fra le
più grandi banche italiane, la Commerciale
(B.C.I.) e la Sconto (B.I.S.), prende delle forme
inaudite: Giolitti giunge a provocare contro Nitti
la petizione di un noto ricattatore alla Camera,
in merito a pretesi rapporti con la B.I.S., a
far stampare dei manifestini clandestini, mentre
dal suo canto Nitti fa sorvegliare gli ordini di
Giolitti in Borsa. Cercano tutti e due di
eliminarsi: ad ogni crisi ministeriale fino alla
marcia su Roma, l’uno oppone il suo veto
alla candidatura dell’altro, ciò che falsa tutte le
soluzioni, accresce il discredito del Parlamento
paralizzandolo, e facilita le manovre dei fascisti
é dei conservatori33.
Nella lotta, Giolitti è e rimane il più forte.
Conosce a fondo l’amministrazione, dove ha
fatto una gran parte della sua carriera, ha una
lunga esperienza di uomini, dei quali sa
utilizzare meglio ancora le debolezze che le
qualità. Uomo della burocrazia, non ha la stessa
ripugnanza di Nitti per l’intervento dello stato
nell’economia; uomo della neutralità, è più
vicino di lui ai socialisti ed ai popolari. Alla
vigilia di tornare al potere, chiede ai socialisti di
partecipare al suo governo, poiché è disposto
a fare « grandi cose ». Turati gli risponde: «
Dovremmo accettare personalmente. I nostri
non ci seguirebbero. E non siamo gente che ha
l’ambizione di andare al governo ». Giolitti
replica: « Io ho il convincimento di essere
utile in questo momento al paese e quindi

159
formerò il governo. Prenderò la maggioranza
dove la trovo » 34. Fa anche appello ai popolari.
Don Sturzo non è favorevole alla collaborazione
con Giolitti. Ha per il grande corruttore
della vita politica una profonda avversione.
Giolitti ne ha altrettanta per lui: questo
piemontese geloso della laicità dello stato, non
vorrà mai incontrare un capo di partito in
tonaca35. Don Sturzo teme il metodo di Giolitti
che vuole servirsi dei cattolici, — come lo ha
fatto nel 1913 36, — per dissociare e ridurre i
partiti, e non, come don Sturzo vorrebbe, per
iniziare una politica di accordi o di concorrenza
dei grandi partiti sulla base di programmi
ben determinati. Il Vaticano, che ha tentato
invano di salvare Nitti, è ostile a Giolitti, perché
teme il suo programma finanziario e la sua
concezione delle « due parallele » — lo stato e la
chiesa — che non hanno bisogno d’incontrarsi.
Fra le misure annunziate da Giolitti, quella
che mira alla trasformazione di tutti i titoli in
nominativi preoccupa specialmente la chiesa,
che ha nei titoli al portatore un mezzo per
eludere la legge sui beni ecclesiastici e per
conservarne la proprietà per interpósta
persona37.
Tuttavia niente può impedire ormai l’avvento
di Giolitti. Quasi tutti l’attendono come un
salvatore, hanno fiducia in lui. La borghesia
italiana, che, nel 1915, ha aderito alla guerra
per sbarazzarsi del movimento operaio, che
stava per divenire troppo potente, si getta
adesso per le stesse ragioni nelle braccia
dell’uomo della neutralità, del « traditore »

160
Giolitti. I suoi più feroci avversari di allora,
come Sonnino, lo supplicano di accettare il
potere. Ci si ricorda che Giolitti, prima della
guerra — al tempo in cui « si era felici », — ha
provato la sua maestria nell’incantare il
serpente socialista. « Coloro che — scrive
Guglielmo Ferrero — gli avevano strappata (nel
1914), senza saperlo, la bacchetta magica dalle
mani e che l’avevano spezzata, si rivolgevano al
vecchio mago, affinché ripetesse gli antichi
prodigi. »38 I nazionalisti, i suoi più violenti
avversari durante la guerra, l’accettano ora,
poiché sperano che Giolitti, che s’interessa
soprattutto alla politica interna, abbandonerà il
cammino troppo europeo preso da Nitti.
Mussolini è disposto ad andare con lui, se può
così approssimarsi al potere. Egli proclama che
la dichiarazione ministeriale di Giolitti «
coincide quasi letteralmente con i postulati
fascisti »39. Quanto ai popolari, il loro Gruppo
parlamentare ha già deciso, malgrado l’avviso
contrario di don Sturzo, di partecipare al nuovo
governo.
Con l’avvento al potere di Giolitti, la grave
scissione del 1914-15, che ha diviso in due la
borghesia, è sormontata. Non si parlerà più di «
neutralisti » e « interventisti »40. Intorno a
Giolitti, l’uomo dell’anti-guerra, l’uomo del
discorso di Dronero e della finanza «
demagogica », si ricostituisce per qualche
tempo l’« unione nazionale ».

161
Note al capitolo quinto

1« Popolo d’Italia », 22 novembre 1919.

2 « Popolo d’Italia », 26 febbraio 1920.

3 Adottato al Congresso di Genova dell’agosto 1892, in cui

nacque il « Partito dei lavoratori italiani », diventato al Congresso


successivo di Reggio Emilia (1893) il «Partito socialista dei
lavoratori italiani». Cfr. A. Angiolini e Ciacchi, Socialismo e
socialisti in Italia, Firenze, Nerbini, 1919, I, pp. 208-17.
4 Il principio della revisione del programma di Genova era

stato adottato dalla direzione massimalista del Partito nella


riunione di Roma del 12 luglio 1919 («Avanti!», 13 luglio). Sul
Congresso di Bologna vedi: Resoconto stenografico del XVI
Congresso del P.S.I. (Bologna, 5-8 ottobre 1919), Milano, S. E.
Avanti, 1920; Almanacco Socialista 1920, Milano, S. E. Avanti, pp.
396-407. Le mozioni presentate sono anche in G. Lazzeri, La
scissione socialista, Milano, Modernissima, 1921, pp. 193-201.
5 La Direzione del P.S.I. aveva rifiutato di partecipare alla

Conferenza di Berna convocata dalla Seconda Internazionale (2-9


febbraio 1919), cfr. Almanacco Socialista 1920, pp. 164-71; Lewis
L. Lorwin, l’Internazionale et la classe ouvrière, Paris, Gallimard,
1933, pp. 124-6, 139-41; il 19 marzo 1919 essa delibera il
distacco dhlla Seconda e l’adesione alla Terza Internazionale («
Avanti! », 20 marzo; Almanacco Socialista 1920, pp. 397-8; A.
Malatesta, La crisi socialista, pp. 33-5). In conseguenza di questo
voto il P.S.I. si astiene anche dal partecipare alla Conferenza
internazionale di Lucerna (agosto 1919, Almanacco Socialista, pp.
171-6). L’adesione a Mosca è votata, su proposta Serrati e «
per acclamazione » dal Congresso di Bologna, nella seduta del 7
ottobre. Subito dopo si tiene ad Imola, insieme coi delegati esteri
venuti pel Congresso, un convegno « per la propaganda per la
Terza Internazionale », in cui i presenti si impegnano ad un
lavoro intenso per « provocare da parte delle singole Sezioni il
distacco dalla Seconda Internazionale e l’adesione alla Terza »
(Almanacco Socialista 1920, pp. 218-20). Il Consiglio nazionale
del partito tenutosi a Milano nell’aprile 1920 si pronuncia per la
creazione di « un unico ufficio per l’Europa occidentale della
Terza Internazionale » e nello stesso senso conclude una
riunione tenutasi in quell’occasione di partiti o di frazioni di
partiti aderenti alla Terza Internazionale (« Comunismo », n. 14,
1920, pp. 969 e 973).
6 Appendice I (A. Balabanoff).

162
7 Sul P.P.I.: Giulio de Rossi, Il primo anno di vita del Partito

Popolare Italiano, Roma, F. Ferrari, 1920; Il programma del P.P.I.


illustrato dal dott. Alessandro Cantorno, 3a ed., Torino, Soc. Ed.
Internazionale, 1920; Amar, Il P.P.I. - Sua natura - Sua storia -
Accuse, Asti, Tip. M. Varisco, 1924; don Luigi Sturzo, Riforma
statale e indirizzi politici, Firenze, Vallecchi, 1923 (in appendice i
principali appelli del P.P.I.); Luigi Sturzo, Popolarismo e fascismo,
Torino, Gobetti, 1924; Luigi Sturzo, L’Italie et le fascisme, Paris,
Alcan, 1927; A. Cappa, Due rivoluzioni mancate, Foligno, F.
Campitelli, 1923, pp. 63-115, con sguardo sul movimento
cristiano-sociale in Europa; D. Russo, Mussolini et le fascisme,
Parigi, Plon, 1923, pp. 19-25; Ernesto Vercesi, Il movimento
cattolico in Italia (1870-1922), Firenze, La Voce, 1923, pp.
146 sgg., Cesare dagli Ochhi, Cosa ho pensato del fascismo
quand’ero popolare, Bologna, L. Cappelli, 1923, pp. 48-51; Piero
Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Bologna, L. Cappelli 1924, pp.
50-68 [Torino, Einaudi, 1964 (N.d.E.).]. [G. Perticone, La politica
italiana nell’ultimo trentennio, II, Roma, Leonardo, 1945, pp. 286-
95; A. C. Jemolo, Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Torino,
Einaudi, 1949, pp. 573-84.] Per taluni antecedenti cfr. R. MURRI,
Dalla Democrazia Cristiana al P.P.I., Firenze, Battistelli, 1920. La
Federazione della terra (C.G.L.) contava nel 1920, 889.085
aderenti, in grandissima maggioranza salariati agricoli; la
Federazione « bianca » contava 944.812 membri, di cui solo
94.961 erano salariati: 741.262 appartenevano alla Federazione
bianca dei mezzadri e piccoli affittuari, e 108.589 a quella dei
piccoli proprietari (A. Serpi eri, La guerra e le classi rurali
italiane, Bari Laterza, 1933, pp. 290-2). Su don Sturzo v. spec.
Piero Gobetti, Dal bolscevismo al fascismo, Torino, Gobetti, 1923,
p. 19-25; E. Vercesi, Il movimento cattolico in Italia, cap. XX, pp.
186-96 e il curioso giudizio di Maurice Vaussard sulla « Revue
bleue » del 18 giugno 1921: « Come avviene sovente agli uomini
di temperamento autoritario, la rudezza dei suoi procedimenti
dissimula sovente l’assenza di una linea direttrice precisa, non la
mancanza di volontà, ma di certezza intellettuale » (art.: La crise
du P.P.I., p. 193).
8 T. Tittoni, Nuovi scritti di politica interna ed estera, pp. 281-7:

Il Partito popolare e il fascismo.


9 L. STURZO, Popolarismo e fascismo, p. 18.

10 « Popolo d’Italia », 20 gennaio 1919.

11 Vi fu ostile anche Enrico Malatesta, che la considerava «

una buffonata » (sue dichiarazioni nell’« Avanti! » del 1° gennaio


1920); al polo opposto Giuseppe Rensi la combatte nei suoi

163
Princìpi di politica impopolare (Bologna, Zanichelli, 1920), perchè
« la Costituente è bolscevismo » (pp. 36-43 e 83-5).
12 « Il Partito popolare, nei suoi quattro anni di vita, fu, più

che un innovatore, un equilibratore. Recò poco del suo


programma sostanziale nello stato, ma permise allo stato di
vivere. Non attuò le grandi promesse del 1919, ma cepperò alla
salvezza del paese, partecipando costantemente al Governo nel
periodo del maggiore pericolo », I. Bonomi, Dal socialismo al.
fascismo, pp. 81-2; « Obbiettivamente, cioè
storicamente, l’avvento al governo del Partito popolare, nel
momento e nelle forme in cui avvenne, annullò di un colpo ogni
possibilità di successo all’azione violenta dei due estremismi:
massimalista e dannunziano », A. Cappa, Due rivoluzioni
mancate, p. 118.
13 Egli stesso l’ha illustrata per interposta persona in due

libri: V. Nitti, L’opera di Nitti, Torino, Gobetti, 1924; Enrico


Flores, Eredità di guerra, Napoli, Ceccoli, 1925. Giudizi di
avversari sulla sua personalità e sulla sua politica: Maffeo
Pantaleoni, La fine provvisoria di un’epopea, pp. 256-312 (articolo
del 1917); V. Bruzzolesi, Giolitti, Novara, De Agostini, 1921, pp.
193-209; Generale Filareti, Eolo, Giano, Mercurio, Saggi politici,
Firenze, Vallecchi, 1921, pp. 69-87 (Giano è Nitti); G. Ferrero, Da
Fiume a Roma, (molto severo), pp. 17-22, 48-53. Vedi anche L.
Hautecoeur, L’opportunisme politique de M. Nitti, in « La Vie des
Peuples » (Parigi), 20 giugno 1920, pp. 322-46. Acuto giudizio in
P. Gobetti, Dal bolscevismo al fascismo, Torino, Gobetti, 1923, pp.
9-10.
14 [Nitti ha dato egli stesso una bibliografia sommaria delle
sue opere in un’appendice alle Meditazioni dall’esilio, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1947, pp. 493-511. Egli ha scritto
una prefazione alla 2a edizione del libro del Flores, Eredità di
guerra, Roma, Ed. di Politica, 1937 e un volume di ricordi:
Rivelazioni, Dramatis personae, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1948].
15 Torino-Roma, Roux e Vi arengo, 1901.

16 V. Nitti, L’opera di Nitti, p. 100.

17 Lettera del 29 ottobre 1919, estratti in V. Nitti, L’opera di

Nitti, pp. 124-32; integralmente nel « Messaggero » di Roma del


31 ottobre 1919.
18 V. Nitti, L’opera di Nitti, pp. 34-5.

19 Sulle invasioni del 1919 e sulla legislazione relativa cfr. L.

Einaudi, La condotta economica e le conseguenze sociali della

164
guerra, p. 200 sgg. - Decreto Visocchi, del 2-9-1919, e decreto
Falcioni del 22-4-1920.
20 Questa « riforma agraria » fu criticata a destra e a sinistra,

giudicata troppo demagogica (A. Serpieri, La guerra e le classi


rurali italiane, pp. 347-9; L. Einaudi, La condotta economica ecc.,
pp. 307-9) o troppo conservatrice. Nel Congresso della
Federazione della terra (C.G.L.) tenutosi a Bologna nel giugno
1919: « l’on. Mazzoni investe questa istituzione (O.N.C.) che
tende a vincolare la terra ad una parte dei lavoratori a danno
della generalità ed a perpetrare le illusioni anti-economiche della
piccola proprietà ». Mazzoni si eleva contro il trattamento di
favore riservato dal decreto agli ex-combattenti, egli conclude la
sua critica « dimostrando — applauditissimo — che ciò
che occorre è la socializzazione della terra fra tutti, nell’interesse
dell’intera collettività » (« Battaglie sindacali », 21 giugno 1919).
21 Questo Ministro era Chimienti. L. Sturzo parla in
Popolarismo e fascismo della sua « vigliaccheria » (p. 25). Nitti
era rimasto assente da Roma per tutto il mese di gennaio per
assistere alla Conferenza interalleata che stava esaminando il
dissidio italo-jugoslavo.
22 Era composto di nove punti, di cui ecco i più importanti: 1.
Politica estera di pacificazione con tutti i popoli e riconoscimento
delle autonomie nazionali; politica interna di rispetto della libertà
individuale e collettiva e ferma resistenza agli elementi di
disgregazione anarchica dell’ordine sociale; 2. Rappresentanza
proporzionale per le prossime elezioni amministrative municipali
e provinciali, voto politico ed amministrativo alle donne; 3.
Riconoscimento di tutte le organizzazioni di classe e
rappresentanza proporzionale di queste organizzazioni in tutti i
Consigli e Commissioni centrali e locali; 5. Istituzione dell’esame
di stato per le licenze di diploma per le scuole secondarie,
abolizione delle disposizioni regolamentari che tendono ad
impedire lo sviluppo dell’insegnamento privato; 6. Istituzione
delle Camere regionali di agricoltura e riforma degli organismi di
arbitrato dei conflitti di lavoro; legge agraria per lo
spezzettamento della grande proprietà, la colonizzazione
interna, il riscatto della terra da parte del contadino per la
formazione della piccola proprietà; 7. Riforma fiscale che risolve
il problema finanziario aumentando la progressività e praticando
larghi prelievi sulle fortune realizzate durante la guerra… Testo
in G. De Rossi, Il primo anno di vita del P.P.I., pp. 328-30. Essi
figurano nell’appello lanciato dalla Direzione del P.P.I. nella notte
dell’11 marzo 1920, nel quale si esigevano le dimissioni collettive
del ministero, prendendo così posizione contro il

165
rimaneggiamento parziale desiderato da Nitti, a cui era
favorevole Filippo Meda.
25 L’esperimento di un ministero senza popolari durò dal 13
marzo al 12 maggio. Sull’atteggiamento del Vaticano, favorevole
a Nitti: Appendice X (Nitti); L. Sturzo, Popolarismo e fascismo, p.
31; Amar, Il P.P.I., pp. 30-1. Tra gli uomini politici italiani
Giovanni Amendola è quello che ha avuto, durante questa crisi, la
visione più lucida e più coerente del problema fondamentale che
si poneva all’Italia del dopoguerra, sulla base dei risultati delle
elezioni del 16 novembre. Lo prova il suo primo discorso alla
Camera — del 26 marzo 1920 —, pronunciato nel corso del
dibattito sul secondo ministero Nitti, a cui i popolari avevano
rifiutato di partecipare. In quel discorso, elevandosi dalle
schermaglie parlamentari a un’analisi della « crisi organica » che
paralizzava la politica italiana, Amendola si sforza, tra le
interruzioni beote dei deputati socialisti e anche dei popolari, di
richiamarli al nocciolo di quel problema: « Noi dobbiamo renderci
conto, egli dice, che vi è una stasi fatale nella vita politica del
nostro paese e che questa stasi fatale è dovuta al fatto che né il
Paese, né la Camera hanno risolto finora il problema
politico fondamentale, vale a dire della costituzione di una
maggioranza ». La politica estera, i problemi del Mezzogiorno e
specie la sua crisi agraria, la liquidazione delle industrie di
guerra, la crisi finanziaria esigono un programma e una
continuità di governo per attuarlo. Ma quel governo non può
essere che un governo di coalizione: « Questa Camera
non consente a nessuno dei partiti rappresentati qua dentro
l’attuazione di un programma proprio di Governo, indipendente
da accordi e da intese con altri partiti o con altri gruppi qua
dentro esistenti. Pertanto il problema politico, di fronte al quale ci
troviamo, consiste nello stabilire se vi sono possibilità di accordi e
di intese fra gruppi diversi, i quali possano collaborate per
costituirsi insieme una maggioranza di Governo ». Egli crede che
un denominatore comune d’azione sia possibile tra socialisti
collaborazionisti e popolari. Rivolgendosi ai primi, egli chiede
loro:
« Se la collaborazione (sia pure salvo tutte le idealità e poste
tutte le condizioni che voi credeste di porre) vi pare utile ai fini
della vostra dottrina politica e corrispondente agli interessi del
paese, non pensate che l’ora della collaborazione sia questa e non
più tardi? ». Ai socialisti massimalisti ammonisce: « Se voi avete
le capacità o la potenza di imporci un ordine nuovo, il vostro
ordine, fatelo… Ma non vi riducete ad essere un ostacolo bruto
sulla via del vostro Paese ». Ai popolari, dopo aver deplorato

166
ch’essi spesso accompagnino un programma sensato nel
Parlamento — su cui l’intesa sarebbe possibile — con discorsi
demagogici nel paese, osservando che « in questo caso non si è
mantenitori dell’ordine, ma mantenuti del disordine », egli rivolge
vive esortazioni perchè, nella vexata quaestio delle libertà
dell’insegnamento, essi non assumano posizioni di intransigenza,
incompatibile sia coi doveri dello stato che con una politica di
coalizione. - Testo del discorso in G. Amendola, Una battaglia
liberale, Torino, Gobetti, 1924, pp. 45-81. (La questione della «
libertà dell’insegnamento » sarà sollevata dai popolari un anno
dopo, nel marzo 1922, per giustificare la loro opposizione ai
tentativi di Turati in favore d’una collaborazione social-popolare,
v. Cap. IX, n. 24). [Il discorso di Amendola entusiasmò Turati, il
quale così ne scrisse alla Kuliscioff la sera stessa del giorno in cui
fu pronunciato: « Discorso quadrato, pensoso, serio… Bisognava
ascoltarlo, sia per deferenza, sia per infrenare un po’ (stavolta mi
aiutò anche Modigliani) le interruzioni idiote e i chiassi brutali del
nostro Gruppo. In sostanza il tuo amico, con serietà e con garbo,
fece una requisitoria serrata contro la impotente e contradditoria
clamorosità socialista, e contro l’egoismo e le contraddizioni dei
popolari… Si volse specialmente a Treves e a me, domandandoci
se non crediamo che il momento di collaborare per salvare l’Italia
non sia questo. Quesito formidabile, a cui non era
possibile rispondere… la vera risposta, cioè che sentiamo che
sarebbe non la nostra collaborazione, ma il nostro suicidio ».]
24 Sturzo era contrario all’entrata dei popolari nel ministero
Nitti, benché questi avesse accettato il loro programma (L.
Sturzo, Popolarismo e fascismo, p. 33). Ancor più ostile a Giolitti,
egli propendeva per un ministero Bonomi, a cui d’altro lato il «
neutralismo » dei deputati popolari rimproverava l’atteggiamento
avuto durante la guerra. Su questa crisi cfr. G. De Rossi, Il primo
anno di vita del P.P.I., pp. 22-41. Il terzo ministero Nitti fu creato
il 22 maggio 1920, con la partecipazione di due ministri, di
Rodino e Micheli, e di quattro sottosegretari popolari. Nel corso
della crisi Turati, in un’intervista al « Resto del Carlino »
(18 maggio), affermò la necessità d’un governo fondato sul
binomio Giolitti-Nitti, i due capi dovendo completarsi invece di
paralizzarsi a vicenda. Ma Giolitti espose alla « Tribuna » (28
maggio) le proprie vedute, in un’intervista che fu considerata
dalla stampa come un « siluro » lanciato contro il terzo ministero
Nitti. (Cfr. G. Giolitti, Memorie della mia vita, II, pp. 559-63).
[Turati non volle votare contro il ministero Nitti e, solo dei
socialisti, nella seduta del 12 maggio 1920 si allontanò dall’aula.
Così ne scrive lo stesso giorno ad Anna Kuliscioff: «

167
Quando cominciò l’appello nominale, io me ne andai alla ferrovia.
Tomai quando si faceva il contrappello e non entrai nell’aula. Dico
che quel voto è un abbominio. Dico che i miei compagni sono dei
delinquenti. Mi ero rivolto a Treves, a Prampolini e qualche altro,
chiedendo loro cosa ne pensassero: erano d’accordo che era un
voto idiota, ma a nessuno passò neppure per la mente che dunque
si dovesse separarsi… Me ne andai ben deciso a ribellarmi da
solo… In sostanza si votava insieme e a favore della destra
salandrina, dei popolari, dei pirati che fanno l’arrembaggio alla
nave ministeriale, contro la politica estera nostra… mentre l’Italia
sta per risolvere a Pallanza la questione adriatica, secondo
i nostri voti (ed ora Pasic e Trumbic torneranno a Belgrado
perché non trovano un Governo in Italia!), mentre l’Italia
dovrebbe pur raccogliere a Spa i frutti della onesta ed accorta
politica internazionale che noi propugnamo. Si votava per lo
sfacelo dello Stato e di ogni disciplina morale. Si votava per il
buio, per l’equivoco, e — indubbiamente — per la reazione. Tutto
ciò è follia criminale e non uno, non uno che resista ».
All’intervista del « Resto del Carlino » accenna Turati in
una lettera alla Kuliscioff del 7 maggio: « Oggi avrai in tutti i
giornali d’Italia — telegrafato — e dovrai vedere nel « Carlino » il
mio ” binomio ” (Nitti-Giolitti), che mi procura congratulazioni da
moltissimi (eppure è l’uovo di Colombo), ma che — appunto
perché rispecchia il senso comune — non troverà chi lo covi ».
Vedi anche nota 34.]
25 « Popolo d’Italia », 9 luglio 1920.

26 Il decreto sul prezzo del pane è del 4; le dimissioni di


Nitti del 9; l’incarico a Giolitti dell’11 e la formazione del suo
ministero del 15 giugno. [Nella prefazione alla 2a ed. del Flores,
Eredità di guerra, Nitti afferma di essere caduto, nella questione
del prezzo del pane, in una trappola tesagli da due banchieri, pp.
27-8.]
27 Appendice X (Nitti); Cfr. Nitti, L’opera di Nitti, p. 46 sg.
pp. 225-6; M. Missiroli, Una battaglia perduta, pp. 154, 163-70. Il
documento di Clemenceau, pubblicato dal « Resto del Carlino »,
provoca una interrogazione alla Camera del deputato socialista
Umberto Bianchi (29 luglio 1920).
28 Su Giolitti: G. G., Memorie della mia vita, con uno studio
di Olindo Malagodi, Milano, Treves, 1922, 2 voll.; Giolitti, a cura
di Luigi Salvatorelli, Milano, Risorgimento, 1920; V. Bruzzolesi,
Giolitti, Novara, De Agostini, 1921. [Un equo giudizio d’insieme in
Luigi Degli Occhi, Storia politica italiana, Milano, Dall’Oglio,
1946, pp. 17-107).

168
29 Testo in V. Bruzzolesi, Giolitti, pp. 53-86 (con qualche
scorrettezza) e cfr. G. Giolitti, Memorie della mia vita, II, pp. 555-
9. Giolitti ribadiva gli stessi concetti nell’intervista del 28 maggio
1920 alla « Tribuna » (cfr. nota 24).
30 Intervista al «Messaggero», 18-19 ottobre 1919

31 Cfr. Cap. V, n. 17.

32 « Epoca », 31 ottobre.

33 Appendice V (Cianca); Appendice X (Nitti); Appendice XI

(Rosselli).
34 Appendice II (Baldini). [Malgrado i suoi sentimenti di
rivolta contro la tattica parlamentare del Partito socialista, Turati
aveva dato la stessa risposta poco prima a Nitti, il quale avrebbe
voluto farlo incontrare col re: « Nitti mi mandò un bigliettino
riservato, dicendomi che il Re teneva molto a vedermi per aver
consiglio sulla soluzione della crisi. Aggiungeva però che non
faceva alcun passo prima d’aver parlato meco. Gli risposi
immediatamente per iscritto che non avrei avuto il consenso del
Partito, che non era il caso di sollevare la questione, che —
ragione assorbente — io non rappresento ora neppure la minima
frazione del mio Gruppo, tantoché fui solo ieri e sono solo oggi a
non votare » (lettera del 12 maggio 1920 ad Anna Kuliscioff, e cfr.
anche nota 24).]
35 G. Ferrero, Da Fiume a Roma, p. 80; L. Sturzo,
Popolarismo e fascismo, pp. 32, 33, 43-4. [L’avversione di Giolitti
per don Sturzo influirà sul suo atteggiamento verso il fascismo. In
una lettera del 1° gennaio 1923 a Luigi Ambrosini (cfr. Cap. X, n.
314), in cui giustifica la sua benevola attesa verso il nuovo
regime, egli scrive: « Le cose erano giunte ad un punto che un
pretucolo intrigante, senza alcuna qualità superiore, dominava
tutta la politica italiana, e ciò unicamente per raggiungere
meschini fini elettorali ».]
36 Nel 1916, in vista delle elezioni politiche dell’ottobre, i
dirigenti cattolici decisero di appoggiare i candidati governativi,
purché accettassero di impegnarsi per iscritto su talune questioni
(scuole, organizzazioni professionali, congregazioni religiose,
ecc.) in un senso favorevole o non ostile ai princìpi e agli interessi
cattolici. Il « patto » così concluso, che prese il nome del suo
promotore conte Gentiioni, fu attuato coll’appoggio del governo;
Giolitti intendeva in tal modo assicurarsi una larga maggioranza
alla Camera e nello stesso tempo arginare la spinta a sinistra che
poteva risultare dal suffragio allargato, da lui stesso introdotto
l’anno precedente [sul patto Gentiioni, A. C. Jemolo, Chiesa

169
e Stato in Italia negli ultimi cento anni, pp. 535-41].
37 Nell’opporsi a queste misure il P.P.I. era influenzato (non

senza qualche resistenza da parte di taluni dei suoi dirigenti) dal


Vaticano. [Il cardinale Gasparri, «specialmente turbato dal
disegno giolittiano della nominatività dei titoli che avrebbe
rovinato le casse ecclesiastiche, di Giolitti non voleva saperne »,
F. Crispolti, Pietro Gasparri intimo, nella « Stampa » del 23
novembre 1939]
38 G. Ferrero, Da Fiume a Roma, p. 53. Claudio Treves
scrive nella « Critica Sociale »: « La borghesia si rivolge un’altra
volta, fiduciosa, all’uomo cui essa attribuiva il magico potere di
rimettere l’ordine. Giolitti salvaci! Giolitti fa’ il miracolo » (1920,
n. 12, pp. 177-8).
39 Articolo di commento al discorso di Giolitti del 24 giugno

alla Camera («Popolo d’Italia», 25 giugno). Due settimane prima


Mussolini aveva fatto dichiarare dall’assemblea del Fascio
milanese ch’essa attendeva Giolitti « senza fissarsi in
atteggiamento aprioristico, alla prova dei fatti » («Popolo d’Italia
», 12 giugno).
40 « L’onorevole Giolitti, salendo al Governo, ha risolto, con la

sua presenza, un problema che pareva, a prima vista, insolubile:


ha creato il fronte unico della borghesia, eliminando il tragico
dissidio che la spezzava in due. Non si parla più di interventisti e
di neutralisti », M. Missiroli, Una battaglia perduta, p. 182.

170
Capitolo Sesto

GRANDEZZA E DECADENZA DEL


MASSIMALISMO






Dopo l’armistizio, e soprattutto dopo le
elezioni del novembre 1919, si produce una
corsa verso la Confederazione del lavoro « rossa
», a cui partecipano tutte le categorie, ivi
comprese quelle degli impiegati privati,
dei tecnici, dei funzionari dello stato: in
parecchie località associazioni di piccoli
commercianti aderiscono alla Camera del
lavoro. I 321.000 tesserati che la C.G.L.
contava alla vigilia della guerra divengono,
verso la fine del 1920, 2.200.000. Questo stesso
fenomeno si produce, del resto, in tutti i paesi;
in Francia, la C.G.T. passa da un milione di soci
nel 1914, a due milioni e 400 mila all’inizio
del 1920; in Germania, i due milioni e mezzo del
1913 toccano gli otto milioni nel 1920;
nell’Inghilterra stessa, le statistiche diligenti
della Trade Unions danno, per lo stesso periodo,
un aumento da 1.572.391 a 4.317.537
nel numero degli aderenti. Una epidemia di
scioperi si produce, raggiungendo il suo
massimo nel 1920, in Italia come altrove: sarà
vinta dovunque dalla doccia fredda della crisi

171
economica 1.
Nel gennaio 1920 scioperano i
postelegrafonici ed i ferrovieri: fra la fine del
febbraio e la fine del marzo si moltiplicano gli
scioperi dei lavoratori dell’agricoltura
nelle province di Ferrara, di Mantova, di
Novara, di Pavia, di Padova, di Verona, di
Arezzo, di Parma. L’ondata trascina anche le
organizzazioni « bianche » (cattoliche)
di Soresina (Cremona)2. Tutti questi scioperi
hanno un carattere nettamente economico,
poiché tendono a portare i salari al livello
sempre crescente del costo della vita.
Non obbediscono a nessun piano prestabilito: i
ferrovieri entrano in lotta il 20 gennaio e, il 21,
gli impiegati delle Poste e dei Telegrafi
riprendono il lavoro; gli scioperi agricoli si
succedono nel Nord senza alcun legame fra
di loro né con le occupazioni di terre che
avvengono nel Mezzogiorno3. È un’enorme
dispersione di energie, un séguito ininterrotto di
sussulti che finiscono per paralizzare, in certe
zone rurali, la produzione per diverse settimane
e addirittura per mesi, ma il loro coefficiente
politico resta nullo. C’è, in questa propensione a
ricorrere allo sciopero, in questa ostinazione a
lottare, un segno dei tempi, un riflesso delle
inquietudini e delle speranze delle masse. Il
minimo fatto può provocare l’arresto del
lavoro4. A volte, gli scioperi nascono da un
malcontento generale e diffuso, come nel
maggio in Carnia, regione che gli austriaci
occuparono durante la guerra, e dove

172
troppi sono i problemi rimasti senza soluzione.
In qualche caso, le rivendicazioni « politiche »
passano in primo piano, come nello sciopero
generale del mese di aprile a Torino, il cui scopo
è il riconoscimento dei Consigli di fabbrica da
parte degli industriali, e che si chiude invece
con una grave disfatta per gli operai5.
Questo sciopero è proclamato in séguito ad un
incidente che ben rivela lo stato d’animo
esistente in quell’epoca in certi centri
industriali. Il governo ha deciso l’adozione dell’«
ora legale », dell’ora estiva, e la direzione della
FIAT mette avanti di un’ora le lancette del
grande orologio della fabbrica. La Commissione
operaia le rimette sulla vecchia ora. La
direzione la convoca e le propone: « Seguite, se
volete, l’ora solare, ma lasciate che
l’orologio vada con gli altri orologi della città ».
Nessun accordo è possibile; la direzione licenzia
i membri della Commissione di fabbrica e lo
sciopero è proclamato6. L’« ora legale » è
un’eredità della guerra, è un intervento dello
stato nella vita quotidiana degli operai, e questi
non ne vogliono sapere. A Torino, questa
resistenza è spontanea; in altri centri, come a
Bologna, a Cremona 7, la Camera del lavoro si
rifiuta ufficialmente di applicare l’ora legale.
Mussolini, dopo aver chiamato questo
movimento « la prima grande rivoluzione del
popolo italiano contro i suoi reggitori », dà la
sua adesione incondizionata: « Anch’io, scrive il
6 aprile 1920 nel suo giornale, sono contro Fora
legale, perché rappresenta un’altra forma di
intervento e coercizione statale. Io non faccio

173
una questione di politica, di nazionalismo o di
utilità: parto dall’individuo e punto contro
lo stato… Abbasso lo stato sotto tutte le sue
specie e incarnazioni. Lo stato di ieri, di oggi, e
di domani. Lo stato borghese e quello socialista.
A noi che siamo i morituri dell’individualismo,
non resta, per il buio presente e per il tenebroso
domani, che la religione assurda ormai,
ma sempre consolatrice dell’ANARCHIA ». E
l’articolo termina così, con questa parola:
anarchia, stampata in grassetto.
I conflitti tra i manifestanti e la forza pubblica
si moltiplicano: ed è sempre questa che ha
l’ultima parola, perché si trova tutte le volte
davanti a delle masse tanto disarmate quanto
eccitate. Quando restano dei morti sulla strada
— e ce ne sono quasi sempre — gli operai
reagiscono proclamando lo sciopero generale.
Spesso, i ferrovieri fermano i treni su cui
viaggia la guardia regia, o i vagoni carichi di
munizioni destinate alla guerra contro i Soviet.
Nel primo semestre del 1920, si hanno le
prime occupazioni di fabbrica8, dopo quella di
Dalmine del marzo 19199. La tensione
raggiunge il suo culmine nel giugno, con la
rivolta di Ancona, dove i soldati, appoggiati dalla
popolazione operaia della città, si rifiutano
di partire per l’Albania. Malgrado la resistenza
organizzata in certi quartieri, la rivolta è
rapidamente domata 10.
Questi moti, questi sussulti prendon la mano
all’organizzazione operaia e socialista.
L’ipersensibilità delle masse vien trattata da
essa con una specie di doccia scozzese di

174
raccomandazioni di calma e di promesse di
rivoluzione. Il manifesto redatto il 25 giugno
1920, subito dopo gli avvenimenti di Ancona,
dalla Direzione del Partito socialista, dal Gruppo
parlamentare socialista e dalla C.G.L., si
pronuncia contro le azioni locali: « La situazione
attuale indica che la crisi si accelera
nell’approssimarsi dello scontro formidabile fra
borghesia e proletariato. Per la necessità di
affrontare la nuova lotta con tutte le nostre
energie, gli organismi dirigenti il movimento
proletario in Italia debbono mettere in guardia i
lavoratori da mosse che potrebbero essere
dannose e pregiudizievoli al
movimento d’insieme… Lavoratori! La
rivoluzione proletaria non può essere opera di
un gruppo di uomini, né compiuta in un’ora.
Essa è il risultato di una formidabile
preparazione compiuta attraverso sforzi immani
e una disciplina ferrea » 11.
Urto formidabile… preparazione formidabile.
Dietro questo linguaggio, non vi era
assolutamente niente. La barca andava alla
deriva col suo carico di speranze. E mentre i
capi sindacalisti e socialisti esitano, la
borghesia comincia a riaversi. Certi sintomi la
incoraggiano: gli Arditi hanno potuto, nell’aprile
1919, incendiare l’« Avanti! » e, nel novembre,
gettare delle bombe sul corteo socialista a
Milano, senza che ne seguisse la minima seria
reazione. Il 1° dicembre, durante la seduta reale
alla Camera, i deputati socialisti abbandonano
l’aula al grido di « Viva la repubblica! ». La sera
stessa, gruppi di studenti e di ufficiali danno

175
loro la caccia per le vie di Roma, e ne feriscono
alcuni. Tutto finisce da una parte con
acclamazioni al re in piazza del Quirinale e
dall’altra con uno sciopero generale di
protesta12. La classe operaia protesta quasi
dappertutto. Ogni città ha il suo sciopero
generale, i suoi morti, e il furore popolare sfocia
talvolta in una sommossa, come a Mantova,
dove, in séguito alle aggressioni di Roma, la
folla invade la stazione e divelle i binari, bastona
tutti gli ufficiali che incontra, dà l’assalto alla
prigione, libera i detenuti e mette fuoco al
fabbricato 13. Sempre a Roma, il 12 maggio
1920, gli spazzini scioperano e squadre di
studenti e di altri volontari li sostituiscono. In
luglio, i tranvieri pavesano le vetture in rosso
per festeggiare uno sciopero vittorioso. La
massa del pubblico che, a causa di questo
sciopero, ha dovuto fare delle lunghe camminate
a piedi con un calore torrido, è esasperata: si
monta sulle vetture, si strappano le bandiere, si
picchiano i conduttori. Nel pomeriggio,
studenti, nazionalisti e Arditi saccheggiano la
tipografia dell’« Avanti! » e danneggiano le
macchine. Reazione solita: la Camera del lavoro
proclama lo sciopero generale, e solo grazie alla
polizia si può impedire la distruzione
della tipografia dell’« Epoca », che aveva
pubblicato l’edizione romana dell’« Avanti! ». In
serata, alcuni deputati socialisti, tra cui
Modigliani, vengono gravemente feriti14.
Nello stesso mese, fascisti, Arditi e legionari
incendiano a Trieste la sede delle organizzazioni
slovene, il Balkan 15.

176
Questi non sono che segni premonitori,
scaramuccie di avamposti, lasciate alle iniziative
e alle reazioni locali, e nelle quali operano
soprattutto i « franchi tiratori » dei gruppi
fascisti e nazionalisti. Accanto a tali episodi, vi è
lo sforzo metodico di organizzazione delle classi
possidenti. Il 7 marzo 1920, in un momento in
cui le lotte operaie raggiungono il grado più alto
d’intensità, si riunisce a Milano la prima
Conferenza nazionale degli industriali italiani. Si
crea la Confederazione generale dell’industria;
essa comprende tutta la grande e i tre quarti
della media e della piccola industria e,
strettamente legata alla Associazione delle
società per azioni, eserciterà nella vita della
nazione un ruolo preponderante. Nel corso di
questa riunione viene elaborato un piano
completo e preciso di azione comune: tutto vi è
previsto, dall’organizzazione centralizzata di
tutti gli industriali fino ai metodi di lotta contro i
sindacati operai e alla riabilitazione politica
di Giovanni Giolitti16. La nuova Confederazione
ottiene subito il suo primo successo con la
stroncatura dello sciopero generale di Torino, lo
sciopero « delle lancette » 17. Poco dopo, il 18
agosto, si costituisce la Confederazione generale
dell’agricoltura che si consoliderà
rapidamente, raggruppando tutte le forme della
grande e della media proprietà rurale e
dell’industria agricola 18. Industriali ed agrari
non combatteranno più in ordine sparso. Alle
azioni intermittenti e localizzate dell’azione
operaia, potranno opporre una forza di difesa e
di attacco organizzata su di una base nazionale

177
e fortemente centralizzata.
Il cambiamento di congiuntura si manifesta
soprattutto con il ritorno di Giolitti al potere 19.
Mentre, nel popolo, la questione della guerra
continua a tener il proletariato organizzato
lontano da una parte degli ex combattenti e da
talune categorie di classi medie (studenti,
ufficiali, liberi professionisti), in alto,
guerrafondai e neutralisti di ieri s’adoprano
insieme per riprendere interamente il
controllo della situazione.
I socialisti non sono entrati nel nuovo governo,
ma Giolitti non ha rinunziato al loro aiuto. Nelle
sue dichiarazioni alla Camera, egli si spinge fin
dove può per guadagnarsi la loro fiducia. Spera
di poter ricominciare con i metodi che avevan
dato un così buon risultato prima della guerra:
eliminare, grazie a un dosaggio opportuno della
protezione doganale, i conflitti d’interessi fra
industriali ed agrari; far partecipare ai benefìci
di questa protezione certe categorie del
proletariato industriale dell’Italia del Nord e i
salariati agricoli della Valle del Po, basi della
potenza politica e sindacale del movimento
socialista. Ma il 1920 non è il 1910. Il Partito
socialista e la C.G.L. non sono più le
organizzazioni di una « aristocrazia » operaia:
nuove masse sono in moto; per guidarle si
richiede ben altro che gli espedienti e le ricette
di un tempo. La crisi economica, che si aggrava
di giorno in giorno, rende l’antico compromesso
difficile, poiché non lascia più uri margine
sufficiente per soddisfare tutti gli appetiti.
Inoltre, il Partito socialista che ha promesso la

178
rivoluzione senza muovere un dito per
prepararla, che ha saltato a piè pari dal
programma del 1917 a quello dei « Soviet
», attende che la crisi « insolubile » lo sospinga
al potere. Quando Giolitti propone ai socialisti di
entrare nel suo ministero, Turati, il capo della «
destra », si rifiuta, perche sa che il partito non
lo seguirebbe20.
Del marxismo, Turati ha soprattutto assimilato
la nozione dello stretto rapporto tra l’evoluzione
economica e le trasformazioni politichese la
persuasione che l’emancipazione dei lavoratori
dev’essere opera « dei lavoratori stessi ». I
socialisti devono educare, preparare la
classe operaia perché arrivi ad esser capace di
autonomia. La tenacia con la quale Turati si è
battuto per la legge delle otto ore in Italia non è
del semplice « riformismo »: questa riduzione
delle ore di lavoro, di cui già Marx nel
1864 aveva salutato, nell‘Indirizzo inaugurale, «
gli immensi benefìci fisici, morali ed intellettuali
» per la classe operaia, può permettere a questa
di accrescere le sue cognizioni e di meglio
armarsi per la lotta. Turati vede il progresso del
socialismo come una corrente in cui
confluiscano tutti gli impulsi verso l’avvenire
che sono nelle cose e negli animi. Lo vede come
una marcia armoniosa, senza troppi sbalzi, fatta
di aggiustamenti successivi, guidata da
una volontà chiara. Delle masse sempre più
coscienti. Una borghesia sempre più
intelligente. Delle masse che sanno attendere ed
una borghesia che sa rassegnarsi all’inevitabile.
Collaborazione di esecutori testamentari di un

179
mondo del quale bisogna volere ed accettare la
fine. Per questo non gli salta in mente di andare
al governo senza le masse, ancor meno contro di
esse. Non è per viltà; non ha fatto, come quel
papa di Dante, per viltade il gran rifiuto.
Quando nel 1911 Bissolati risponde all’appello
del re, Turati pone così la questione: «
Partecipazione al potere? Si dovrebbe, forse;
non si può certamente ». Vi è un
ostacolo insormontabile: la impreparazione delle
masse. « Che è oggi, il socialismo, in Italia?
Esso, delle moltitudini, appena ha sfiorato
l’epidermide; dove penetrò un pò più a fondo,
nelle oasi meglio organizzate, servì, né
poteva altrimenti, interessi non spregevoli certo,
ma limitati ed angusti. »21 Con un tale
strumento, come poter partecipare? Turati vuole
una politica e non un’avventura personale22. Per
questa ragione è stato, nel 1911-1912, ostile alla
guerra d’Africa, perché essa avrebbe distratto il
popolo italiano dalla formazione lenta e penosa
della sua coscienza civica. Così, malgrado le sue
simpatie per il Belgio e per l’Intesa, egli non ha
aderito alla guerra nel 1914, perché ne temeva
le conseguenze sullo spirito delle masse. La
spinta delle folle negli anni 1919-20 non
gli appariva che come risultato di una « psicosi
di guerra ». Il quadro classico ed armonioso del
divenire socialista, come lui l’aveva concepito, è
ormai spezzato, e Turati sente che lo «
strumento » della politica che avrebbe in animo
di condurre gli manca ora più che mai.
Quando interviene, il 28 giugno, alla Camera
per rispondere alla dichiarazione ministeriale di

180
Giolitti, deve farlo a titolo personale 23. Il suo
discorso ammirevole, dove si proclama la
necessità di « rifare Vitalia » grazie ad « un
sistema organico e coordinato di immediati
provvedimenti, suscitatori di tutte le energie
latenti e audacemente rinnovatrici dello Stato e
della Nazione », cade nell’indifferenza generale.
E poiché la montagna non è venuta a lui,
Turati non andrà alla montagna. Il socialismo
italiano ha un destino ben tragico, poiché l’alta
coscienza di taluni suoi capi gli è fatale quanto
l’incoscienza degli altri.
Un altro esponente del socialismo, Claudio
Treves, collaboratore da lunghi anni della rivista
di Turati, la « Critica Sociale »24, così descrive
la situazione italiana, in un discorso pronunziato
alla Camera il 30 marzo, all’epoca della prima
crisi nittiana: « La crisi, il suo tragico è proprio
in questo, che voi non potete più imporci il
vostro ordine e noi non possiamo ancora imporvi
il nostro »25. In realtà, l’antico ordine sociale
sussisteva e si consolidava, mentre l’ordine
nuovo era avvolto in una nebbia impenetrabile.
Per dissiparla, un gruppo di giovani intellettuali,
a capo dei quali era Antonio Gramsci, aveva
compiuto a Torino uno sforzo considerevole di
elaborazione dottrinale e di organizzazione
pratica, partendo dal movimento dei Consigli di
fabbrica, che avevano raggiunto in questa città
un certo grado di maturità e di forza. Ma
lo sforzo di questi elementi era annullato
dall’incomprensione del Partito socialista e
soprattutto dalla loro inesperienza e dal loro
isolamento 26. La Direzione massimalista del

181
Partito socialista, imperturbabile, continuava a
scombiccherare dei progetti di Soviet. Il
Consiglio nazionale di Firenze nel gennaio 1920
aveva dato mandato alla Direzione di procedere,
nel termine di « non oltre due paesi »,
alla costituzione « definitiva » dei Consigli dei
lavoratori27. Al Consiglio nazionale che si tenne
a Milano in aprile i due mesi sono ormai
trascorsi, ma si proclama di nuovo « la necessità
dei Soviet » e si invita ancora una volta
la Direzione del partito « a creare questi
organismi proletari ». Perché la Direzione non
venga meno al suo compito, le si fornisce uno
statuto dei Soviet, dove, in qualche diecina di
articoli, tutto è previsto pel loro funzionamento.
Non mancano che i Soviet… E perché la
Direzione del partito deve impiantare dall’alto i
Soviet, per generazione burocratica? Per
conquistare il potere? Per abbattere
la controrivoluzione nascente? No: si tratta
soprattutto di « ostacolare, paralizzare
l’esperimento social-democratico », di impedire
« il consolidarsi del parlamentarismo borghese »
e di distruggere le illusioni democratiche che
sono « le più pericolose ». Bisogna, per questo,
« intensificare e completare l’opera di
preparazione per il rovesciamento violento dello
stato borghese e per l’instaurazione
della dittatura proletaria »28. Completare la
preparazione non era facile; come completare
ciò che non era mai esistito? La preparazione,
d’altronde, non poteva consistere che
in un’azione politica tendente a raggruppare
attorno ad un programma di governo tutti coloro

182
che erano sospinti dalle loro sofferenze, dalle
loro illusioni, dal loro bisogno di giustizia verso
un ordine nuovo. La Direzione del partito non
poteva nemmeno porsi un tale problema. Le
chiacchiere, le fanfaronate, che permettono il
mantenimento di una certa popolarità fra le
masse, finiscono per annebbiare i cervelli, già
poco resistenti, di coloro che se ne servono. I
fumi dell’alcool fatturato vanno alla testa di
quelli che lo versano, senza dar loro per questo
più coraggio, né più decisione. Al contrario, le
formule sulla « crisi inevitabile e prossima » del
regime, sull’impossibilità della borghesia di
uscirne, qualunque cosa faccia, agiscono
come stupefacenti. Esse rimpiazzano il contatto
con la realtà con una sorta di monomania
delirante e inoffensiva, sulla quale la borghesia
si sforza di gettare, alla prima occasione, la
camicia di forza. Queste formule « estremiste
» sono il prodotto di una passività profonda che
esse mantengono e aggravano. Si crea una
psicologia parassitarla, quella dell’erede al
capezzale di un morente — la borghesia — del
quale non val nemmeno la pena di
scorciar l’agonia. Attendendo l’eredità, ormai
assicurata, la vita politica italiana si trasforma
in un banchetto permanente in cui il capitale
della rivoluzione « prossima » si dissipa in orgie
di parole.
Ma le masse prendono il giuoco assai più sul
serio, mentre continuano ad « attendere » la
rivoluzione. La C.G.L., i cui capi riformisti
firmano, nell’estate 1920 a Mosca, un patto per
« il trionfo della rivoluzione sociale e della

183
repubblica universale dei Soviet »29, invita
nello stesso tempo gli operai italiani ad
accettare la nuova legge sulle assicurazioni
sociali, fondata sul triplice contributo dello
stato, dei datori di lavoro e degli assicurati.
Gli operai, che non hanno voluto saperne
dell’ora legale, si rifiutano di versare la loro
parte. Quale scopo hanno le assicurazioni
sociali, se si è alla vigilia della
rivoluzione? Perché pagare, se si avrà ben
presto « tutto il potere »? Lo sbalzo fra il
sistema delle assicurazioni sociali e la «
Repubblica Universale dei Soviet » è troppo
grande: le masse non comprendono. Inoltre,
mentre la C.G.L., conduce la campagna in favore
della legge, le Camere del lavoro di Bologna e di
Torino decidono che gli operai non devono
versare la loro parte, e si arriva persino,
nelle officine Bianchi di Milano, allo sciopero di
protesta. Si produce una « crisi di autorità » del
movimento operaio, parallelamente alla crisi di
autorità dello stato: questa si risolverà prima di
quell’altra30.
Nei primi giorni del suo avvento al potere,
Giolitti reprime la rivolta di Ancona31 e prende
la decisione di ritirare le truppe italiane
dall’Albania. Inizia così quel ruolo di liquidatore
della crisi borghese che lo mette, in settembre,
davanti ad un avvenimento pericoloso:
l’occupazione delle fabbriche da parte degli
operai in tutto il paese. La Federazione degli
operai metallurgici (F.I.O.M.) aveva cominciato
in maggio la discussione di un contratto di
lavoro con gli industriali, decisi a rifiutare ogni

184
concessione. « Da quando è finita la guerra gli
industriali hanno continuato a calar le brache.
Ora basta. E cominciamo da voi metallurgici. »32
Quest’atteggiamento indica che ad ogni modo vi
è qualcosa di cambiato nella situazione.
Da parte sua la F.I.O.M., che ha già dovuto
sostenere lunghi scioperi per arrivare a
concludere alcuni contratti regionali, non vuole
più esporsi ad un nuovo sciopero
che rischierebbe di durare parecchi mesi. Gli
operai ne uscirebbero spossati, senz’alcuna
certezza di vittoria. Bisogna trovare qualcosa di
diverso dallo sciopero, arma di cui tanto ci si è
serviti che è ormai spuntata. D’altra parte i
sintomi della crisi industriale si fanno sempre
più evidenti, e il campo di manovra si restringe.
Per queste ragioni gli strateghi della F.I.O.M.,
che appartengono tutti all’ala destra del Partito
socialista, decidono, davanti all’intransigenza
ostinata e maldestra degli industriali,
di impiegare lo « sciopero bianco ». Gli
industriali si preparano a rispondere all’«
ostruzionismo » con la serrata. Gli operai
saranno così costretti allo sciopero che
avrebbero voluto, ora, evitare. Quando a Milano,
il 30 agosto, la direzione dell’Alfa Romeo fa
evacuare le sue officine e chiude le porte per
liquidare lo « sciopero bianco », la F.I.O.M. dà
l’ordine agli operai di occupare le fabbriche, per
prevenire ed impedire la serrata, per spezzare
nelle mani degli industriali questa temibile
arma. L’occupazione delle fabbriche, che si è
spesso rappresentata come una specie di punto
culminante di una febbre rivoluzionaria, è, alla

185
sua origine, un semplice ersatz dello sciopero
divenuto troppo difficile, un mezzo più
economico per imporre il nuovo contratto
collettivo di lavoro. I dirigenti della F.I.O.M.
hanno scelto la via del minimo sforzo: pensano
che l’occupazione delle fabbriche provocherà
l’intervento del governo, e alcuni di essi
carezzano anche — senza osar confessarla — la
speranza che l’occupazione abbia uno sbocco
politico con la partecipazione dei socialisti al
potere33.
Il 31 agosto, gli operai invadono 280
stabilimenti metallurgici di Milano. Il
movimento si estende nei due giorni successivi a
tutta l’Italia, oltrepassando a volte gli ordini dei
dirigenti. Si comincia dalle officine
metallurgiche, ma queste officine hanno bisogno
di materie prime e di accessori che sono forniti
da altre industrie, e l’occupazione si allarga a
queste perché le prime possano continuare a
lavorare. La direzione degli stabilimenti
passa alle Commissioni interne di fabbrica, che
si sforzano di continuare la produzione. In
questo compito, le Commissioni operaie non
possono contare che su se stesse, perché tutti
gli ingegneri, e quasi tutti i tecnici e gli
impiegati hanno abbandonato le officine per
ordine dell’organizzazione padronale. La
produzione in corso prosegue assai bene, ma la
difficoltà dell’approvvigionamento delle materie
prime si fa presto sentire. Anche il denaro per
pagare i servizi fa difetto; non se ne è trovato
gran che nelle casse aperte dopo l’occupazione.
I primi entusiasmi cadono, una parte degli

186
operai si stanca di rimanere tutto il giorno
nell’officina; verso la fine del movimento,
vien loro proibito di uscire, per tema che non
ritornino più. Così le « guardie rosse » che
stanno alle porte per difendere l’officina contro
ogni attacco eventuale sono impiegate ad
impedire la diserzione di una parte
considerevole del personale34. Le Commissioni
operaie spiegano un’attività spesso ammirevole,
con alto sentimento della loro responsabilità,
con vivo senso dell’« onore proletario » per tutto
ciò che si attiene alla disciplina del lavoro e
al rispetto della proprietà divenuta « comune »;
rivolgendosi incessantemente, benché sempre
meno ascoltate, alla coscienza degli operai. Le
poche settimane di occupazione richiedono agli
operai — queste « appendici delle macchine » —
una tale profusione di energia morale, un
tale sforzo verso forme superiori di attività, che
lo storico imparziale deve considerarle fra le più
belle pagine dell’idealismo proletario,
dell’idealismo nel più preciso senso della parola.
Ma questo quadro ha le sue ombre, e le ombre
si accumulano a misura che lo slancio iniziale
si indebolisce. Gli episodi di violenza —
ingegneri tenuti a forza nelle officine — son
tuttavia minimi e presto frenati; non s’è quasi
versato sangue: i morti si contano sulle dita di
una sola mano, e son tutti dovuti ad iniziative
isolate di qualche scalmanato. Poca cosa, se si
tien conto dell’estensione e della gravità del
sommovimento che si sta producendo, e delle
migliaia di officine e dei milioni di operai che
l’occupazione ha coinvolto.

187
Impressionati, gli industriali della metallurgia
destituiscono la loro delegazione che con la sua
insolenza e la sua testardaggine ha provocato il
movimento; la sostituiscono con una nuova
commissione, più conciliante e decisa a cercare
un accordo. Da tutte le parti si moltiplicano i
passi presso i dirigenti socialisti e sindacalisti
perché accedano ad un compromesso. Il
direttore del « Corriere della Sera », il senatore
Albertini, si reca da Turati per dirgli che il
momento è giunto per i socialisti di andare al
potere. I dirigenti della Banca commerciale
assicurano la F.I.O.M. della loro benevola
neutralità ed offrono e chiedono dei pegni in
caso di una conclusione rivoluzionaria del
movimento. Il prefetto di Milano, a nome
del governo, si sforza di riconciliare i due
avversari. Mussolini pure prende le sue
precauzioni: proclama nel suo giornale che i
fascisti non hanno nessuna intenzione
di attaccare le officine occupate35 e va in
persona, lui così orgoglioso, all’albergo ove
abita Buozzi, il segretario generale della
F.I.O.M., per dichiarargli che continuerà a
sostenere il movimento36.
Bisogna riprendere i negoziati con gli
industriali, ormai decisi a Cedere su tutti i
punti? Rispondere no, equivale a dare l’ordine di
un’insurrezione generale, perché è impossibile
tenere gli operai nelle officine senza offrir
loro nuovi obbiettivi da raggiungere. Non si può
uscire da questa situazione che con la fuga in
avanti. L’insurrezione armata è impossibile,
perché non vi è niente di pronto. Le masse si

188
sentono sicure dietro i muri dell’officina,
non tanto per il loro armamento, spesso
primordiale ed insufficiente, quanto perché esse
considerano le officine come pegni che il
governo esiterà a distruggere a colpi di cannone
per sloggiarne gli occupanti. Da questo
atteggiamento « difensivo » alla lotta aperta
della strada, la differenza è grande, e gli operai
lo sentono, più o meno confusa-mente. A Torino
stessa, dove pure vi è un’avanguardia audace e
meglio armata che altrove, i capi comunisti si
astengono da ogni iniziativa in questo senso e
frenano i gruppi che hanno preparato, alla Fiat,
dei camion per una sortita.
La scelta della tattica da seguire è la
questione che si pone al Consiglio nazionale
della C.G.L., convocato a Milano il 10 settembre,
in accordo con la Direzione del Partito
socialista. Le due organizzazioni hanno
convenuto, qualche giorno prima, che « qualora
per l’ostinatezza padronale non si giungesse
sollecitamente a soddisfacente soluzione del
conflitto », la lotta operaia prenderà
come obiettivo « il controllo sulle aziende per
arrivare alla gestione collettiva ed alla
socializzazione di ogni forma di produzione ». La
rivendicazione immediata è quella del controllo;
la « socializzazione » è rimandata ad un
lontano avvenire. Porre come obbiettivo il
controllo, equivale a dichiarare che non vi è
l’intenzione di spingersi oltre; è dichiarare che
si evacueranno le officine, una volta che esso
sarà raggiunto. La Direzione del Partito
socialista non è « massimalista » per niente e

189
non vuole prendere a suo carico la disillusione
inevitabile delle masse. Un « patto d’alleanza »
fra la C.G.L. e il P.S.I., concluso alla fine del
191837, lascia a questo la direzione
degli scioperi politici. Si discute dunque per
sapere se lo sciopero è politico o sindacale.
Dietro questo bizandneggiare si nasconde la
paura comune delle responsabilità: la
C.G.L. offre ai massimalisti ed ai comunisti che
sono alla testa del partito di prendere la
direzione del movimento, sapendo assai bene
che non hanno alcuna intenzione di assumerla.
Dopo che il Consiglio nazionale di Milano si è
pronunciato a maggioranza per la tesi «
sindacale », il segretario del partito, Gennari, si
limita a dichiarare: « Il patto d’alleanza
stabilisce che per tutte le questioni di carattere
politico la Direzione del Partito può assumere la
responsabilità di avocare a sè la direzione del
movimento e la Confederazione s’impegna di
non ostacolare il movimento stesso. In questo
momento, la Direzione del Partito non intende
valersi di questa facoltà. Potrebbe darsi che in
séguito, per mutate circostanze, la Direzione
ritenga opportuno fare appello al patto, stabilito
fra noi e voi, e sono certo che ciascuno farà
onore a tale patto »38.
Questa vaga illusione al futuro non impegna
niente. La realtà è tutt’altra. La Direzione del
partito ha perduto dei mesi interi a predicare la
rivoluzione, non ha niente previsto, niente
preparato: quando i voti di Milano dànno la
maggioranza alla tesi confederale, i dirigenti del
partito tirano un sospiro di sollievo. Liberati

190
adesso da ogni responsabilità, possono gridare a
piena gola al « tradimento » della C.G.L.; hanno
così qualche cosa da offrire alle masse che
hanno abbandonato al momento decisivo, felici
che un tale epilogo permetta loro di « salvare
la faccia ».
La classe operaia italiana, per parte sua, non
salva proprio niente. Essa si è creduta alla
soglia del potere, è uscita dalle vecchie strettoie
e vede invece il solito orizzonte, un istante
spalancatosi, richiudersi di nuovo davanti a lei.
Tutti proclamano che è vittoriosa,
anche Mussolini: « Quella che si è svolta in
Italia, in questo settembre che muore — scrive
— è stata una rivoluzione, o, se si vuole essere
più esatti, una fase della rivoluzione cominciata
— da noi — nel maggio 1915. L’accessorio più o
meno quarantottesco che dovrebbe
accompagnare le rivoluzioni, secondo i piani e le
romanticherie di certi ritardatari, non c’è
stato… Ciononostante una rivoluzione si è
compiuta e si può aggiungere, una grande
rivoluzione. Un rapporto giuridico plurisecolare
è stato spezzato… »39. Ma la classe operaia si
considera piuttosto beffata e vinta, e non si
inganna.
L’occupazione delle fabbriche denota il
declino del movimento operaio, la fine senza
gloria del « massimalismo », il cui cadavere
continuerà ad ingombrare il campo di battaglia,
fino a che i becchini fascisti lo spazzeranno.
Un sensibile voltafaccia si produce ben presto
nella psicologia operaia: « l’inizio della saggezza
», secondo Mussolini. Gli avversari ne sono non

191
disarmati, ma resi più aggressivi, più decisi alle
rappresaglie. I Fasci, anemici e quasi inesistenti
prima del settembre 1920, si moltiplicano negli
ultimi tre mesi dell’anno. Non è il fascismo che
ha vinto la rivoluzione, è l’inconsistenza della
rivoluzione che provoca il sorgere del fascismo.
La borghesia ha ricevuto, con l’occupazione
delle fabbriche, uno choc psicologico che spiega
il suo furore e che determina i suoi
atteggiamenti successivi. Gli industriali si sono
sentiti colpiti nei loro diritti di proprietà e di
comando; si sono visti soppiantati nelle officine,
dove il lavoro continuava bene o male, in loro
assenza. Hanno ricevuto la scossa di colui che è
stato rasentato dalla morte, e che, tornando alla
vita, si sente un « uomo nuovo ». Dopo qualche
giorno di amarezza e d’incertezza, in cui
mostrano soprattutto un gran rancore contro
Giolitti 40, che « non li ha difesi », e ha imposto
loro per decreto il controllo delle industrie, la
precipitazione avviene nel senso di una lotta a
morte contro la classe operaia e contro lo «
stato liberale ».
I « vincitori » di ieri, d’altra parte, sono
demoralizzati: essi hanno compiuto uno sforzo
sovrumano, hanno bevuto alle sorgenti
inebrianti della produzione libera, per ritrovarsi
alfine nell’atmosfera della vigilia e, ciò che è
più grave, senza prospettive pel futuro. Le armi
introdotte o fabbricate nelle officine durante
l’occupazione sono scoperte poco a poco e
sequestrate dalla polizia. Apparentemente
niente è cambiato. La F.I.O.M. ha firmato « il
suo miglior concordato »41, le

192
Commissioni operaie di fabbrica sono quelle
stesse che hanno diretto la produzione. Ma le
distanze tra operai ed industriali sono state
soppresse: è impossibile, da un lato come
dall’altro, ricominciare come prima. Gli
industriali hanno sentito l’occupazione come
una macchia sui loro blasoni. Le officine restano
abitate da spiriti maligni, che bisogna
esorcizzare. A Torino, il senatore Agnelli,
presidente della Fiat, pensa di riuscirvi
concedendo le officine agli operai in gestione
cooperativa42. Analoghe proposte son fatte
da altri, senza risultato. I dirigenti della F.I.O.M.
vorrebbero consolidare la vittoria ottenuta
andando al potere. Una partecipazione nata da
tali circostanze, come conseguenza e come
pegno della vittoria, pensano, darebbe alle
masse la sensazione tangibile del successo,
eviterebbe la loro demoralizzazione. Sentono,
inoltre, che il concordato strappato è l’ultimo
che la loro organizzazione ha potuto concludere,
e che le posizioni conquistate non si
potranno tenere di fronte alla controffensiva
inevitabile di una borghesia esasperata. Ora,
l’occupazione delle fabbriche, ha, per il
momento, « radicalizzato » le masse e, invece
di imporre la partecipazione, l’ha resa
psicologicamente impossibile.
L’esorcismo si farà per azione diretta e
violenta: l’ora del fascismo è arrivata.

Note al capitolo sesto

193
1 Questi fatti sono provati dalla statistica degli scioperi degli
anni 1919-1922 che prendiamo dall’« Annuaire de la Statistique
générale de France» (Parigi, Imprimerie Nationale, 1931,
«Tableaux rétrospectifs», p. 245):

a) numero dei conflitti (scioperi e serrate).


b) numero degli scioperanti e dei colpiti dalle serrate (in
migliaia).
La Germania è Percezione che conferma la regola, perché il
numero degli scioperi non comincia a diminuire che a partire dal
1925, quando la crisi economica si presenta sganciata dalle
incidenze dell’inflazione.
2 Iniziatosi a fine maggio 1920, questo movimento, durante il

quale si costituirono i « consigli di cascina », dette luogo ad


episodi di violenza analoghi a quelli degli scioperi « rossi ». Cfr.
pp. 317-18.
3 Iniziatesi nell’agosto 1919 nell’Agro romano (cfr. pp. 28 e
101), queste invasioni di terre continuano durante tutto il 1920
specialmente in Sicilia. L’episodio più celebre è quello della
rivolta di Ribera (Palermo) ai primi di febbraio 1920, in cui il duca
di Bivona, Grande di Spagna, fu tenuto prigioniero nel suo
castello — poi devastato — finché non sottoscrisse tutte le
richieste dei contadini. Una forte ripresa delle sommosse si ebbe
nel settembre-ottobre, sempre in Sicilia, dove in talune province
quasi tutti i latifondi furono occupati da masse impazienti dei
ritardi burocratici con cui operavano le Commissioni agrarie
provinciali e si applicavano i decreti regolanti l’occupazione e
l’attribuzione delle terre incolte. Sovente l’iniziativa veniva da ex-
combattenti o dai popolari. Una corrispondenza da Palermo,
pubblicata nell’« Avanti! » del 5 ottobre, rende con grande
vivezza lo spirito e i caratteri di queste azioni di massa. Sotto il
governo Giolitti il ministro dell’Agricoltura, il popolare Micheli,

194
prese nuove misure legislative (decreto nella « Gazzetta Ufficiale
» del 21 ottobre e cfr. la sua importante intervista alla « Tribuna
» del 22), ma il movimento finì coll’esaurirsi. Il Partito socialista
se ne occupò molto tardi e, in genere, con sospetto e malavoglia.
Alla riunione di Firenze della Direzione (19-20 ottobre) Gennari
accennò agli avvenimenti di Sicilia, dove, egli disse, « da parte dei
contadini si procede all’invasione delle terre piuttosto
caoticamente, senza un piano preciso e una visione esatta del
problema ». Fu lamentato che « non un solo deputato socialista
sia andato ad assistere i 150.000 contadini in sciopero
nella provincia di Trapani », dove le occupazioni si erano
praticate su larga scala. Il problema del latifondo siciliano fu
esaminato nel congresso socialista siciliano tenutosi a Palermo il
13-15 novembre, sulla base di un rapporto d’Olindo Gorni («
Battaglie sindacali », 20 novembre 1920), ma non si andò più in
là. La Direzione massimalista del partito rivelava il fondo del suo
pensiero in questo commento di Serrati: « A tutti è noto che il
movimento della occupazione delle terre fatto, sopra tutto in
Sicilia, da combattenti e da popolari, fu un movimento
demagogico, piccolo-borghese, inteso a mistificare le masse
agricole » (« Comunismo », 15 febbraio 1921). Sui moti agrari di
Sicilia e sull’atteggiamento del P.P.I. nella questione del
latifondo, cfr. M. Pernot, L’expérience italienne, Parigi, Grasset,
1924, pp. 197-210.
4 Sulla « scioperomania », cfr. Appendice III (Buozzi). Alle
Ferriere piemontesi di Torino, « si smise un giorno di lavorare
perché era corsa la voce che il fratello d’un operaio aveva fatto
domanda di entrare nelle Guardie Regie » (O. Camuri,
L’occupazione delle fabbriche, in « Nuova Antologia », 16 marzo
1934, p. 262); « I tramvieri di Torino privano di comunicazioni per
due giorni una grande città perché uno dei loro, attraversando
una via, è stato urtato e ferito da un camion di ignoto proprietario
» (G. Prato, Il Piemonte e gli effetti della guerra ecc., Bari,
Laterza, 1928, p. 144).
5 Sorto alla Fiat per la questione dell’ora legale (v. nota
seguente) il 22 marzo 1920, il conflitto si sviluppa su ben altro
terreno. Lunedì 29 gli industriali proclamano la serrata e fanno
occupare le fabbriche dalle truppe. Il 9 aprile un referendum
indetto tra gli operai decide di accettare le proposte conciliative
del prefetto; l’esito di questo voto è sancito, non senza vivaci
opposizioni, dall’assemblea dei commissari di riparto. Ma quando,
l‘11 aprile, i rappresentanti operai s’incontrano cogli industriali
per discutere la ripresa del lavoro, questi ultimi esigono delle «
precisazioni » sul regolamento d’officina e sul funzionamento

195
delle Commissioni interne. Così a partire dal 13 aprile è deciso lo
sciopero generale di solidarietà coi metallurgici, d’accordo tra la
F.I.O.M., la Camera del lavoro e la Sezione socialista (a tendenza
comunista). Nell’ordine del giorno che lo proclama si denuncia «
l’intenzione da parte della Lega Industriale di attentare alle
Commissioni interne, impedendo l’ulteriore sviluppo di questi
organismi che si son dimostrati… atti a diventare strumento di
nuove conquiste ». Il n. del 14 aprile dell’« Avanti! » piemontese
esce con una vignetta di Scalarmi, una mano che impugna una
rivoltella e, nello sfondo, un’officina. A partire dal 15 aprile
quest’edizione dell’« Avanti! » diventa il « Bollettino quotidiano
dello sciopero generale ». Il numero seguente, del 16 aprile, ha
per titolo: L’insurrezione della classe operaia e contadina per la
libertà degli organi del suo potere; il 19 aprile si proclama
l’estensione dello sciopero a tutto il Piemonte, riflesso quasi
meccanico destinato a coprire la sconfitta ormai inevitabile: i
primi segni evidenti ne appaiono il 21 aprile e tre giorni dopo
si annunzia la ripresa del lavoro: La battaglia è finita, la guerra
continua. L’ultimo bollettino del Comitato di sciopero conclude: «
I Commissari di riparto, rilevata la mancata estensione del
movimento per il controllo operaio a tutta l’Italia, riconosce che
gli industriali, sostenuti dalla forza armata della borghesia, hanno
ancora una volta imposto la loro volontà… Questa prima e non
ultima battaglia per il comunismo dimostra che nell’ora presente
è vana la resistenza passiva del proletariato….. Questa battaglia è
finita, la guerra continua ».
Il carattere politico, anzi istituzionale dello sciopero era dunque
chiarissimo nella coscienza e nella volontà dei dirigenti torinesi,
animatori del movimento dei Consigli di fabbrica, di cui Antonio
Gramsci era il teorico. Le loro posizioni ideologiche, politiche e
tattiche erano state formulate negli editoriali — quasi tutti di
Gramsci — dell’« Ordine nuovo » settimanale. Il bilancio
dell’esperienza d’aprile fu tracciato nell’editoriale: Superstizioni e
realtà dell’8 maggio 1920.
Ma ugual coscienza di quel carattere politico ebbero assai
presto anche gli industriali, e su piano nazionale. La
Confederazione dell’industria, (creatasi il 9 marzo 1920) (cfr. p.
119), aveva infatti approvato una relazione del suo segretario, on.
Olivetti, ove si affermava che « in officina non possono coesistere
due poteri » (il testo di questa relazione fu pubblicato nell’«
Ordine Nuovo » settimanale del 15 maggio) e aveva deciso di dar
battaglia su questo terreno, invitando i soci e le associazioni
federate a comunicare immediatamente « alla Presidenza della
Lega i fatti che siano anche indirettamente manifestazione

196
dell’istituto dei Consigli di Fabbrica e dei Commissari di Reparto,
con espresso divieto ai Soci e alle Organizzazioni di compiere atto
alcuno che possa compromettere la questione ». Poco prima dello
sciopero di marzo-aprile la Lega industriale di Torino invitava le
ditte aderenti « a non voler riconoscere organismi rappresentativi
operai che si staccassero dalle solite forme sindacali » (cfr. A.
Tasca, I Consigli di fabbrica e la Rivoluzione Mondiale. Relazione
letta all’Assemblea della Sezione socialista torinese la sera del 13
aprile 1920. Torino, Tip. dell’Alleanza cooperativa torinese,
1921, p. 37-39).
Giuseppe Prato, professore d’economia notoriamente legato
agli industriali, scriveva in proposito: « La battaglia, impostata
così sopra una essenziale questione di principio, era troppo
decisiva perché tutto il mondo industriale, esasperato da
preoccupazioni senza numero e senza esempio, non sentisse che
occorreva far fronte a tutta oltranza e ad ogni costo. Il gruppo
metallurgico, che nell’estate precedente aveva dovuto piegare il
capo… si accinge alla lotta con ferma decisione di
condurla vigorosamente» (Il Piemonte e gli effetti della guerra
ecc., pp. 147-8).
Questa vittoriosa controffensiva degli industriali torinesi riempì
d’entusiasmo Mussolini, che cantò gloria nel « Popolo d’Italia »: «
A costo di scandalizzare qualche altra dozzina di mummie o di
scimmie urlatrici, noi diciamo qui alto e forte che la potente
Associazione industriale torinese — l’A.M.M.A. — stroncando con
la sua ferma resistenza l’immonda speculazione del pus torinese,
ha bene meritato della Nazione e della stessa classe operaia
italiana ».
Lo sciopero d’aprile aggravò anche il conflitto tra il gruppo
torinese dell’« Ordine Nuovo » e la F.I.O.M. e lo stesso P.S.I. Nel
pensiero di Antonio Gramsci lo sviluppo dei Consigli di fabbrica,
quali egli li aveva concepiti, doveva trasformare radicalmente
spirito, strutture e compiti sia del Partito socialista che delle
organizzazioni sindacali. Movimento dei Consigli e nascita di un
vero Partito comunista erano, in questa concezione, strettamente
associati, come risulta dal rapporto redatto da Gramsci e inviato
nell’estate del 1920 al Comitato esecutivo della Internazionale
comunista su Il movimento comunista torinese (ripubblicato in «
Stato Operaio », Parigi, 1927, II, pp. 641-50). Questo « piano »
— qualunque ne fossero le possibilità concrete — si urtò allo
spirito conservatore e burocratico dei dirigenti massimalisti del
partito, che rimproveravano al gruppo torinese d’aver creato il
movimento dei Consigli « non come movimento generale
derivante da deliberazione di Partito e ad opera degli organismi

197
centrali, ma come iniziativa locale », e di aver condotto il
movimento d’aprile « all’infuori della Direzione del
Partito, ignorandola spesso ed evitandola talvolta, sempre
tacendo ad essa la portata e gli scopi ultimi del movimento »
(Relazione politica della Direzione del Partito al Congresso di
Livorno, a firma Gennari, Roma, Tip. L. Morara, 1921; cfr. anche
P. Nenni, Storia di quattro anni, pp. 76-8).
L’urto tra i comunisti torinesi e la F.I.O.M. sulla questione dei
Consigli di fabbrica datava da più tempo: i dirigenti metallurgici
avevano subito avvertito le conseguenze possibili di quel
movimento sui rapporti tra i comitati d’officina, le masse e
l’organizzazione sindacale. Fin dal Congresso straordinario della
F.I.O.M. tenutosi a Firenze il 9-11 novembre 1919 la grande
maggioranza aveva rivendicato alla organizzazione sindacale
tutta intera « la responsabilità del movimento e dell’azione
di classe dentro e fuori della fabbrica »; il conflitto d’aprile pose
in forma acuta il problema dei rapporti tra i Consigli e i sindacati,
che fu ridiscusso al congresso straordinario della F.I.O.M.
tenutosi a Genova dal 20 al 24 maggio 1920, un mese dopo la
liquidazione dello sciopero torinese. Vi fu approvato un ordine del
giorno che, riconfermando le deliberazioni del Congresso di
Firenze, riservava, tra l’altro « al Congresso della C.G.L. ogni
definitiva decisione circa la istituzione dei Consigli di Azienda e la
determinazione delle funzioni che debbono svolgere
nella fabbrica finché permane il regime industriale » (cfr. la
relazione Buozzi al Congresso nazionale della F.I.O.M. del 27-28
aprile 1924, « Battaglie Sindacali », 24 aprile).
Sul movimento dei Consigli di fabbrica in Italia, v. per la
dottrina e l’azione di A. Gramsci e del suo gruppo le collezioni
dell’« Ordine Nuovo », settimanale e quotidiano e un articolo di
U. Terracini nell’ Almanacco Socialista 1920, p. 94-120. Le
ragioni dell’adesione degli anarchici al movimento sono esposte
in un articolo di « Volontà » (Ancona, 1° giugno 1920) e in un
ordine del giorno votato al Congresso anarchico di Bologna («
Volontà » 1° agosto 1920). Dal punto di vista della F.I.O.M.:
Mario Guarnieri, I Consigli di Fabbrica, Città di Castello, Il Solco,
1921; E. Colombino, La tragedia rivoluzionaria in Europa,
Firenze, Bemporad, 1921, pp. 132-57. Documentazione utile in
F. Magri, La crisi industriale e il controllo operaio, Milano,
Unitas, 1922, pp. 213-49 (esperienze estere); pp. 251-80 (in
Italia).
6 Una cronaca della prima fase del conflitto (quella delle «

lancette ») è nell’« Avanti! » del 25 marzo 1920. Cfr. Appendice


III (Buozzi). Cfr. anche sulla questione sollevata dell’« ora legale

198
», F. Magri, La crisi industriale e il controllo operaio, pp. 37-41.
Analisi critica dello sciopero in L. Einaudi, La condotta economica
ecc., pp. 323-5.
7 I popolari della provincia si rifiutano di seguire
quest’ordine; ne nascono incidenti a Casalbuttano, dove i « rossi »
proclamano lo sciopero generale; i « bianchi » chiamano in loro
aiuto i contadini e si giunge infine ad un accordo, ciascuna delle
parti rinunziando a una mezz’ora (Chiurco, II, 53).
8 Tra febbraio e giugno 1920, occupazione di fabbriche, con

tentativi più o meno effimeri di gestione operaia, si ebbero a


Sestri Ponente (18 febbraio), a Viareggio (Officine Ansaldo, 19
febbraio), a Pont Canavese e Torre Pellice (Cotonifici Mazzonis,
28 febbraio), ad Asti (Stabilimento per la lavorazione del legno, 2
marzo), a Napoli (Officine meccaniche Miani e Silvestri, 24
marzo), a Sesto San Giovanni (Stab. Spadaccini, 4 giugno), a
Piombino (Uva, 10 giugno). Sul « caso Mazzonis » cfr. La C.G.L.
nel sessennio ecc., pp. 61-2; L. Einaudi, La condotta economica
ecc., pp. 319-22; G. Prato, Il Piemonte e gli effetti ecc., pp. 145-6;
F. Magri, La crisi industriale e il controllo operaio, pp. 35-
6. Un’analisi critica delle esperienze di Sestri Ponente e Torre
Pellice è data nell’« Ordine Nuovo » settimanale, 13 marzo 1920.
9 Cfr. pp. 44-45.
10 Un primo racconto dei fatti — scoppiati il 26 giugno — è
in una corrispondenza da Ancona nell’« Avanti! » del 30 giugno.
(La C.G.L. nel sessennio ecc., p. 78). Cfr. inoltre: « Volontà »,
Ancona, 1o luglio 1920; « Avanti! », 28 luglio 1920, inchiesta di
Andrea Viglongo su Gli insegnamenti di Ancona-, E. Malatesta,
Scritti, I, 16-17; Chiurco, II, 81-3; « Stato Operaio », Parigi, 1932,
I, pp. 332-9 e II, 432. Gli insorti albanesi avevano attaccato le
truppe italiane nella notte dal 5 al 6 giugno. Un altro grave
episodio d’insubordinazione ebbe luogo a Trieste, dove nella notte
dall’ 11 al 12 giugno scoppiava una rivolta nel reparto degli Arditi
che dovevano partire per l’Albania (M. Risolo, Il fascismo nella
Venezia Giulia, Trieste, Ed. C.E.L.V.I., 1932, pp. 46-9).
Sulla politica seguita da Giolitti v. Memorie della mia vita, II, pp.
567-71 e V. Bruzzolesi, Giolitti, pp. 133-8. D’Annunzio aveva
offerto al ministro della Guerra di Giolitti (Bonomi) l’invio di un
battaglione fiumano in Albania (cfr. « Bollettino Ufficiale del
Comando di Fiume d’Italia », n. 28, 12 agosto 1920). Sulle
vicende albanesi e le loro ripercussioni cfr. B.P.I., nn. 139-143 [E.
Caviglia, Il conflitto di Fiume, pp. 176-9. Una serie di articoli sulla
rivolta d’Ancona sono stati pubblicati nel settimanale para-
comunista dell’emigrazione italiana di New York, « Unità del

199
Popolo» dal 21 dicembre 1940 all’11 gennaio 1941, firmati Mario
Poggi].
11 « Avanti! », 25 giugno e La C.G.L. nel sessennio ecc., pp.

74-76. Subito dopo gli avvenimenti d’Ancona, C.G.L. e Direzione


del partito, dopo aver respinto la proposta di sciopero generale,
lanciarono un manifesto — che fu letto da Costantino Lazzari il 29
giugno alla Camera — in cui si strombazzava: « Lavoratori,
soldati! Tenetevi pronti ad ogni evento. Stringetevi fraternamente
la mano. Il primo tentativo di nuove spedizioni, il proseguire delle
operazioni militari in Albania… vi trovino pronti agli ordini che in
tali casi sapremo dare. Prima che si inizino nuove guerre, contro
una nuova guerra, alla prima minaccia di una nuova guerra il
vostro dovere o proletari, o soldati, è questo soltanto: rivoluzione!
Se la borghesia lo vorrà, accetteremo la lotta e sarà proseguita
sino in fondo » (La C.G.L. nel sessennio, pp. 76-7). Nella sua
già citata relazione al Congresso di Livorno così il segretario del
partito, Egidio Gennari, spiega l’atteggiamento della Direzione: «
La direzione del Partito… non credette di estendere il movimento
che non dava soverchio affidamento anche perché mancava la
resistenza del Governo circa l’occupazione di Vallona: ciò che
avrebbe portato all’estensione sicura della rivolta nelle file
dell’esercito… Da diverse parti i gruppi borghesi sollevavano
speranze e ci facevano balenare adesioni ad un nostro
movimento; ma il partito non si prestò a nessun tentativo di
conquiste democratiche o social-democratiche, per le quali non
ritiene di dover spargere nemmeno una stilla di sangue proletario
» (Relazione politica ecc., p. 13).
12 Appendice VIII (Modigliani).

13 Sui fatti di Mantova: Chiurco, I, 229-9; « Volontà », Ancona,


16 gennaio 1920.
14 Appendice VIII (Modigliani). Lo sciopero dei tramvieri era
stato proclamato in tutta Italia il 14 luglio per solidarietà coi
ferrovieri secondari, essi pure in sciopero.
15 Il 14 luglio, in seguito all’eccidio di Spalato dell’ll luglio.
Cfr. Chiurco, II, 91-3; M. Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia,
pp. 57-62.
16 A. Gramsci, Les origines du cabinet Mussolini, in «
Correspondance Internationale », n. 89, 20 novembre 1922, p.
682. Il testo della mozione votata dagli industriali in quella
riunione è in P. Nenni, Storia di quattro anni, pp. 69-70. Cenno
sulla C.G.I. in Mario Viana, Sindacalismo, pp. 186-93.
17 Cfr. supra n. 5.

200
18 « I conflitti del lavoro e le gravi questioni di politica agraria

hanno provocato il consolidamento e la trasformazione del


Segretariato agricolo nazionale della nuova Confederazione
Generale dell’Agricoltura, come organismo essenzialmente
politico, di battaglia e di resistenza coordinante tutte le forze
della proprietà e dell’industria agricola », R. Bachi, L’Italia
economica nel 1920, Città di Castello, S. Lapi, 1921, p. 302. Cfr.
anche A. Serpieri, La guerra e la classe rurale italiana, pp. 328-
33. Cenno alla C.G.A. in M. Viana, Sindacalismo, pp. 169-86.
19 Cfr. pp. 106-7.

20 P. 106. Di Filippo Turati, cfr. essenzialmente, la collezione

della «Critica Sociale» (1890-1926) e inoltre: F. T., Trenta anni di


« Critica Sociale », a cura di Alessandro Levi, Bologna, Zanichelli,
1921; Le vie maestre del socialismo, a cura di Rodolfo Mondolfo,
Bologna, 1921; Filippo Turati, con una scelta degli scritti e dei
discorsi a cura di G. Lazzeri, Milano, Caddeo, 1921; Agli Elettori
del Collegio di Milano -Il Programma, Milano, Critica Sociale,
1919; Rifare Vitalia, Discorso pronunciato alla Camera il 26
giugno 1920, Milano, Lega Nazionale delle Cooperative, 1920;
Ciò che l’Italia insegna, Parigi, Edizione del P.S.I., 1933. [Filippo
Turati attraverso le lettere di corrispondenti, 1880-1925, a cura
di Alessandro Schiavi, Bari, Laterza, 1947. La pubblicazione
del carteggio Turati-Kuliscioff, ora affidata allo Schiavi, costituirà
un documento di prim’ordine non solo per il pensiero di Turati e
della sua nobilissima e intelligente compagna e collaboratrice, ma
anche per la storia politica e sociale dell’Italia nell’ultimo quarto
del sec. XIX e nel primo del XX. È vivamente da augurarsi che
questa pubblicazione, che è in ottime mani, possa aver luogo
entro breve tempo. Un primo volume è già uscito: F. Turati - A.
Kuliscioff, Carteggio (1° maggio 1898-giugno 1899), a cura di A.
Schiavi, Torino, Einaudi, 1949 [vol. V: Dopoguerra e fascismo
(1919-22), Torino, 1953; Voò. VI: Il delitto Matteotti e l’ Aventino
(1923-25) Torino, 1959 (N.d.E.).] Sempre a cura dello Schiavi
sono state raccolte le commemorazioni e necrologie scritte da
Turati: F. Turati, Uomini della politica e della cultura,
Bari, Laterza, 1950, e usciranno i Discorsi parlamentari, per
iniziativa della Camera dei Deputati. Schiavi ha pure dato in
opuscolo una commemorazione turatiana inedita di Garibaldi, che
risale al giugno 1891: F. Turati, Garibaldi, l’uomo del popolo, Ed.
Soc. Romagnola, Forlì, 1949. Un testo inedito molto importante,
che è dei primi anni dopo la guerra, su: La politica del non
intervento è in « Critica Sociale », 1° ottobre 1948, pp. 443-8.]
Sul pensiero e sull’azione di Turati manca ancora uno studio
completo, impossibile del resto prima della pubblicazione del

201
suo carteggio. Utili elementi in: Generale Filareti, Eolo, Giano,
Mercurio, pp. 15-67 (Eolo è Turati); P. Gobetti, La rivoluzione
liberale, pp. 76-81; articoli necrologici apparsi ne « La Libertà »,
organo della Concentrazione antifascista di Parigi a partire dal n.
del 31 marzo 1932, e specie la commemorazione di Claudio
Treves (Ivi, 26 maggio, raccolte in opuscolo: Serie « Liberissima
», Parigi, S.F.I.C., 1932) e lo scritto di Carlo Rosselli, Filippo
Turati e il socialismo italiano, nei « Quaderni di Giustizia e
Libertà », n. 3, giugno 1932. L’Almanacco Socialista 1933,
Parigi, edito dal P.S.I., contiene parecchi articoli consacrati a
Turati (di Arturo Labriola, O. Morgari, Ornella Buozzi, Franco
Clerici, L. Campolonghi, A. Tasca). [Interessanti le pagine
consacrate a Turati in Luigi Degli Occhi, Storia politica italiana,
Milano, Dall’Oglio, 1946, pp. 109-87. Ferruccio Parri ha narrato
in un articolo de l’« Umanità » (9 ottobre 1948) le drammatiche
vicende dell’espatrio di Treves e di Turati alla fine del 1926; nel
numero del 12 ottobre dello stesso giornale si possono leggere i
discorsi pronunciati a Milano nella manifestazione pel
trasferimento delle ceneri di Turati e di Treves dal « Pére
Lachaise » al Monumentale. Cfr. ancora A. Poggi, Turati giudicato
da Bebel (« Umanità », 20 ottobre).]
21 F. Turati, Trent’anni di « Critica Sociale », pp. 163-64.

22 Turati non muterà mai parere su questo punto. Cfr.


Appendice II (Baldini). Rispondendo a un’inchiesta nel « Corriere
del Parlamento », egli scrive: « Io non penso che il Partito
Socialista, se gli eventi non ve lo travolgano a forza — la qual
cosa considererei come una grande sciagura — abbia oggi
l’interesse e la capacità, abbia il dovere e il diritto di assumere, in
Italia, il Governo, tanto meno di collaborarvi direttamente con
uomini proprii. Sia perché questi sarebbero abbandonati dalle
masse, che hanno ancora una mentalità prevalentemente
negativa…, sia perché le masse, mentre da un lato li
sconfesserebbero, dall’altro pretenderebbero da essi… la luna nel
pozzo» («Critica Sociale», 1920, n. 6, pp. 83-5).
23 Appendice VIII (Modigliani). Nell’ordine del giorno che
Turati dovette presentare a titolo personale, un paragrafo aveva
specialmente allarmato i « pensatori » del massimalismo
nostrano: « La Camera, vi si diceva, convinta… che, di fronte al
confessato minacciante fallimento dello Stato e della Nazione e
all*imperversante disordine cronico sul terreno politico,
amministrativo, economico, morale — conseguenza fatale e
preveduta della guerra nefasta, sboccata in una pace egualmente
rovinosa per tutti i ceti e per lo stesso divenire storico del
proletariato — s’impone come urgente una nuova disciplina

202
sociale di tutte le classi, a cominciare dalla capitalistica, ecc. »
(testo dell’o.d.g. nell’opuscolo citato: Rifare l’Italia). Il Gruppo
parlamentare socialista, prodotto delle elezioni del novembre
1919, riunitosi la mattina del 26 giugno, in cui Turati doveva
parlare, stilò il seguente comunicato: « Mentre ieri il Comitato
del Gruppo era riunito per il disimpegno dei suoi lavori
parlamentari, venne a conoscenza dell’ordine del giorno
presentato dall’on. Turati e reso di pubblica ragione. Il Comitato,
esaminato il contenute dottrinale e tattico di questo ordine del
giorno, esprime il suo dissenso dall’ordine del giorno stesso ».
Quattro mesi prima Mussolini, a proposito del « programma
di lavoro socialista » presentato da Turati al Comitato direttivo
del Gruppo (testo in «Critica Sociale», 1920, n. 5, pp. 66-8)
scriveva: «Incontro al programma di Turati potrebbe realizzarsi la
concentrazione di tutte le forze rinnovatrici della vita nazionale.
Ma il programma di Turati è destinato a rimanere sulla carta,
finché Turati è legato e immobilizzato dai ceppi della disciplina di
partito» («Popolo d’Italia», 26 febbraio).
24 Cfr. di Treves: Polemica Socialista, Bologna, Zanichelli,
1921; Come ho veduto la guerra, 2a ed., Milano, Rassegna
Internazionale, 1921. Una biografia intellettuale di Claudio
Treves è impresa ardua, ma varrebbe la pena tentarla [Leo
Valiani, Il giornalista Claudio Treves, in «Avanti!», 10 ottobre
1948].
25 Mussolini ha commentato questo discorso in un articolo tra
i più lucidi da lui scritti: « La verità è che accanto alla ” crisi
borghese ”, c’è la crisi del socialismo. Si direbbe che si
condizionano a vicenda. Si potrebbe aggiungere che la crisi del
socialismo è ancora più grave e più tragica di quella che travaglia
le classi politiche dominanti del vecchio mondo… Non canti e
grida, o compagnoni del socialismo; non sbornie di parole; non
gesti da commedia: se pensaste al domani e al destino che può
attendervi, vi tremerebbero le vene e i polsi; c’è — si dice —
un’espiazione borghese, ma si dimentica di aggiungere che
domani potrebbe avere il suo corollario nell’espiazione socialista
» (« Popolo d’Italia », 1° aprile 1920).
26 Su Antonio Gramsci e su l’« Ordine Nuovo » cfr. supra, n. 5;

P. Gobetti, La rivoluzione liberale, pp. 69, 82-93; Id., Dal


bolscevismo al fascismo, p. 32-3; Fabrizio (U. Calosso), Gramsci e
l’« Ordine Nuovo », in « Quaderni di Giustizia e Libertà », n. 8,
agosto 1933, pp. 71-9; Gramsci, raccolta di scritti a cura del
P.C.I., Parigi, Edizioni Italiane di Cultura, 1938 [nuova edizione:
Roma, Rinascita, 1948. Cfr. anche il discorso commemorativo
pronunciato da Paimiro Togliatti all’Università di Torino il 23

203
aprile 1949 (« Unità », 1° maggio) e l’articolo di U. Calosso:
Gobetti tra Gramsci e Einaudi (« Mondo », 14 maggio
1949). L’editore Einaudi ha iniziato la pubblicazione delle opere
di A. Gramsci:
I. Lettere dal carcere (Torino, 1947); 2. Il materialismo
storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948); 3. Gli intellettuali
e l’organizzazione della cultura (1949); 4. Il Risorgimento (1949).
Si tratta, per questi tre volumi, di note estratte dai quaderni
compilati da Gramsci in carcere. Un interesse non minore
presenterebbe la raccolta dei suoi articoli usciti nell’« Ordine
Nuovo » settimanale e quotidiano e delle note: Sotto la mole — se
fosse possibile ricuperarne il testo non censurato — scritti, se ben
ricordiamo, nella stampa socialista torinese durante la
guerra]. [Di Gramsci è in seguito apparso: Note sul Machiavelli,
sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi, 1949; Letteratura e
vita nazionale, ivi, 1930; Passato e presente, ivi 1951; « L’Ordine
Nuovo » (1919-20), ivi, 1954; Scritti giovanili (1914-18)-, ivi,
1958; Sotto la Mole (1916-20), ivi, 1960; 2000 pagine di Gramsci
(1914-37), Il Saggiatore, Milan), 1964 (N.d.E.).]
27 Ordine del giorno votato il 12 gennaio. Sul Consiglio
nazionale di Firenze, Almanacco Socialista 1920, pp. 451-6.
28 Il progetto Bombacci-Gennari sui Soviet presentato al
Consiglio nazionale di Milano è in Almanacco Socialista 1920, pp.
462-8. Su questo Consiglio Cfr. ivi, pp. 458-70; « Comunismo », 1°
maggio 1920; Relazione politica della Direzione del Partito al
Congresso di Livorno, pp. 10-11. Ad esso il gruppo dell’« Ordine
Nuovo» presentò, a nome della sezione e della federazione
provinciale di Torino, un rapporto redatto da Gramsci: Per un
rinnovamento del Partito Socialista (testo nell’« Ordine Nuovo »
settimanale, 8 maggio 1920).
29 Questo patto fu firmato a Mosca il 15 luglio 1920 (testo

nella relazione presentata da D’Aragona e Baldini al Congresso


confederale di Livorno su i Rapporti internazionali, Milano, La
Tipografica, 1921, pp. 7-9 e in Almanacco Socialista 1921, Milano,
C. E. Avanti, pp. 197-8). D’Aragona riferì sul proprio operato a
Mosca nella riunione del Consiglio direttivo della C.G.L. tenutasi
a Reggio Emilia il 25 agosto 1920 e vi lesse il testo adottato, che
fu approvato « all’unanimità ». Vedi le riserve e le critiche in
proposito di Amedeo Bordiga nei nn. 26 e 27 (17 e 24 ottobre
1920) de «Il Soviet», organo della frazione
comunista astensionista che si pubblicava a Napoli.
30 Il decreto, che risaliva al 21 aprile 1919, sulle nuove leggi

d’assicurazione d’invalidità e vecchiaia doveva entrare in vigore il

204
1° luglio 1920; a questa data la C.G.L. aveva lanciato un
manifesto in favore della sua applicazione. Davanti alle reazioni
operaie e anche sindacali Mussolini scriveva in un articolo del 29
luglio: La crisi della « loro » autorità: « La demagogia inghiotte il
partito, lo esautorizza, lo ridicolizza. La sua ’ crisi di autorità ” è
ben più grave di quella che attraversa lo stato, perché gli organi
di quelli che dovrebbero essere i « poteri » socialisti sono
rudimentali e non dispongono di forze inquadrate. Questa crisi
dell’autorità socialista avrà sviluppi ulteriori ».
31 Cfr. p. 117.

32 Appendice III (Buozzi).

33 Sulle discussioni preliminari e sulle vicende


dell’occupazione delle fabbriche cfr., oltre all’Appendice III:
Bureau International du Travail, Le conflit de la métallurgie en
Italie - Le controle syndacal de l’industrie, Studi e Documenti,
Serie A, n. 2, 24 settembre 1920 e n. 11, 5 novembre 1920;
Francesco Magri, La crisi industriale e il controllo operaio, pp.
43-64; B.P.I., 1920, n. 145 e 146; Roberto Michels, Ueber
die Versuche einer Besetzung der Betriebe durch die Arbeiter in
Italien (September 1920) in « Archiv für Sozial Wissenschaft und
Sozialpolitik », 48 B., 2 h., Tübingen, 1921, pp. 469-503;
Almanacco Socialista 1921, pp. 325-50; B. Buozzi, L’occupazione
delle fabbriche in Almanacco Socialista 1935 (Parigi, ed. del
P.S.I.), pp. 76-8; La C.G.L. nel sessennio ecc., pp. 81-98;
Resoconto stenografico del Congresso confederale di Livorno
(Milano, Coop. Grafica degli Operai, 1922), pp. 66-8:
intervento Bensì, pp. 162-8: intervento Buozzi, pp. 251-4:
intervento D’Aragona; E. Malatesta, Scritti, I, 153-5; Giolitti,
Memorie della mia vita, II, pp. 596-604; A. Labriola, Le due
politiche, Napoli, Morano, 1924, pp. 291-311: il discorso da lui
pronunciato come ministro del Lavoro al Senato il 26 ottobre
1920; R. BACHI, L’Italia economica nel 1920, pp. 106-7 e 344-50;
Raoul Ghezzi, Comunisti Industriali Fascisti a Torino (1920-23),
Torino, Eredi Botta, 1923, p. 46 sgg.; P. Nenni, Storia di
quattro anni, pp. 97-109; G. Prato, Il Piemonte e gli effetti della
guerra ecc., pp. 149 sgg. e cfr. indicaz, bibliogr. a p. 154 n. e 158
n.; L. EINAUDI, La condotta economica ecc., pp. 326-36; Louis
HAUTECOEUR, L’agitation des ouvriers métallurgistes en Italie,
S.E.I.E., Parigi, 1920; D. Russo, Mussolini et le fascisme, pp. 35-8;
A. Cappa, Due rivoluzioni mancate, Foligno, Campitelli, 1923, p.
127-46; Ugo Camuri, L’occupazione delle fabbriche in « Nuova
Antologia », 16 marzo 1934; M. Finzi, L’occupazione
delle fabbriche, Bologna, Cappelli, 1935; « Stato Operaio »
(Parigi), 1930, II, 55: Nel X anniversario dell’occupazione delle

205
fabbriche, pp. 635-55, 717-33, 733-8.
34 Cfr. le diffide contro gli assenti alla Fiat Centro e
all’Ansaldo San Giorgio in « Corriere della Sera », 16 settembre
1920.
35 Il 26 agosto Mussolini scrive sul « Popolo d’Italia »: «
Finché l’agitazione dei metallurgici non esorbiterà dai suoi limiti
strettamente economici e non degenererà in violenze contro gli
uomini o contro le macchine, noi la seguiremo con simpatica
attenzione. Il ” caso per caso ” è essenzialmente fascista ». Il 5
settembre denunzia aspramente le Voci insensate di un eventuale
attacco fascista contro gli stabilimenti occupati: « Finché la
vertenza non esorbita dai limiti di un contrasto d’interessi per
scivolare in quello di un assalto bolscevico alla nazione, i fascisti
milanesi e italiani non hanno motivo di cambiare il loro
atteggiamento che è stato di simpatia verso le richieste di
miglioramenti avanzate dalle maestranze ».
36 Cfr. Appendice III (Buozzi).

37 « Lo sciopero, dice il patto, e le agitazioni di carattere


politico nazionale saranno proclamati e diretti dalla Direzione del
Partito, udito il parere della C.G.L…. Lo sciopero e le agitazioni di
carattere economico nazionale saranno proclamati e diretti dalla
Confederazione, udito il parere della Direzione del Partito. »
38 Appendice III (Buozzi).

39 « Popolo d’Italia », 27 settembre 1920. Cfr. anche il suo

discorso del 20 settembre a Pola (Chiurco, II, 268).


40 Gli industriali di Torino avevano inviato il 10 settembre a
Giolitti a Bardonecchia una protesta contro « l’assenteismo
completo del Governo che confina colla connivenza con i violatori
del diritto e delle leggi statutarie », invocando un pronto
intervento in difesa della proprietà e della libertà personale, e
aggiungendo che « il contegno del Governo toglie qualsiasi
fiducia ai difensori delle presenti istituzioni sulla capacità del
Governo stesso alla tutela delle libertà statutarie ». Poco
turbato da questa intimazione, Giolitti convoca il 15 settembre a
Torino, all’Hôtel Bologne i rappresentanti delle parti. Al termine
della discussione egli, premesso che « la C. G. del L. ha formulato
la richiesta di modificare i rapporti finora intercorsi fra datori di
lavoro ed operai, in modo che questi ultimi, traverso i loro
Sindacati, siano investiti della possibilità di un controllo sulle
industrie »; che la C.G.L. si propone, « con simile controllo di
conseguire un miglioramento nei rapporti disciplinari tra datori e
prenditori d’opera ed un aumento della produzione, al quale è a

206
sua volta subordinata una fervida ripresa della vita economica
del Paese », decide per decreto di costituire una commissione
paritetica di membri nominali dalla C.G.I. e dalla C.G.L., « la
quale formuli quelle proposte che possano servire al Governo per
la presentazione di un progetto di legge allo scopo di organizzare
le industrie sulla base dell’intervento degli operai al controllo
tecnico e finanziario o all’amministrazione delle industrie ». Su
questo convegno cfr. Appendice III (Buozzi); La C.G.L. nel
sessennio ecc., pp. 97-8; «Corriere della Sera», 16 settembre
1920 con articolo di L. Einaudi favorevole all’esperimento
del controllo operaio, benché scettico sui risultati; V. Bruzzolesi,
Giolitti, pp. 139-52; M. Missiroli, Una battaglia perduta, pp. 171-
2. Quanto allo stato d’animo degli industriali, così lo descrive
Ottavio Pastore in un editoriale dell’« Avanti! » piemontese (22
settembre): « Non vi è industriale il quale non si trovi in uno stato
di eccitazione e di furore, da fargli concepire i più pazzi propositi,
da quello di rifiutare apertamente l’accettazione degli accordi, a
quello di sabotarne i risultati nella applicazione pratica, a quello
di abbattere in Parlamento o sulla piazza l’odiato Governo… La
Presidenza della Lega Industriale torinese si è dimessa. Altre
dimissioni si annunziano e tutto il ceto capitalistico matura
propositi di vendetta e di rivincità ».
41 Appendice III (Buozzi). Fu firmato il 1° ottobre a Milano

dal prefetto Lusignoli, da Federico Jarach per gli industriali e da


Bruno
Buozzi per la F.I.O.M. Suo testo in B.I.T., Le conflit de la
métallurgie en Italie, n. 11, 5 novembre 1920, pp. 10-13.
42 Fin dal 29 settembre il Comitato della F.I.O.M. prendeva
posizione contro queste proposte: « Il Comitato ha avuto notizia
di numerose proposte di costituzione di cooperative di categoria
avanzate direttamente dagli industriali agli operai. Poiché con tali
insidiose proposte che contrastano con i princìpi della vera
cooperazione di classe, gli industriali tentano di staccare dalle
masse gruppi di operai specializzati, il Comitato ha deciso di
mettere in guardia i compagni nell’accettare e di invitare le
Sezioni a vigilare per impedire che si combinino trucchi a danno
dell’Organizzazione e degli operai » (« Avanti! », 30
settembre). Sulle offerte della direzione della Fiat e l’opposizione
delle organizzazioni politiche e sindacali di Torino cfr.
specialmente l’« Avanti! » piemontese del 1° ottobre, del 7
ottobre (articolo di Togliatti, Cooperativa o schiavitù?), del 9
ottobre 1920. E anche on. R. Roberto, La « Fiat cooperativa », in
«Comunismo», 1-15 ottobre 1920, pp. 30-1.

207
Capitolo Settimo

LA CONTRORIVOLUZIONE «POSTUMA E
PREVENTIVA» 1






La fine della occupazione delle fabbriche
lascia tanto negli operai che negli industriali
l’impressione d’una sconfitta subita. Gli operai
hanno ottenuto, oltre il contratto collettivo, il «
controllo sindacale dell’industria »2. Ma cos’è ai
loro occhi questa vaga Commissione istituita
dal decreto del 15 settembre, in confronto del
miraggio intravisto per qualche settimana nelle
fabbriche occupate? Gli industriali sono stati
costretti alla capitolazione, senza che un
gendarme o un soldato si sia mosso per
sloggiare gli operai dagli stabilimenti; hanno
dovuto firmare, ad occhi chiusi, un concordato
sul quale avevano prima perfino rifiutato la
discussione, e subire, per ordine di Giolitti, il
controllo sull’industria. Sia gli uni che gli altri
sono turbati e « senza prospettive », ma
industriali ed agrari covano un sordo furore e
sono pronti a tutto, a vendere la loro anima al
diavolo, pur di ottenere, in una
maniera qualunque, la rivincita. Gli incendi che
ben presto distruggeranno a centinaia le sedi
delle organizzazioni operaie e socialiste e le

208
case dei lavoratori « rosse » o anche « bianche
», il sangue che sarà versato apparirà loro come
il rito di una cerimonia espiatoria, necessaria
per purificare il tempio violato della proprietà.
Giolitti non si impensierisce punto delle
imprecazioni che vengono lanciate contro di lui
e si dispone a sfruttare a fondo la situazione
divenuta ora favorevole — pensa — ai suoi
disegni. Il blocco della borghesia si
costituisce, grazie al cemento patriottico: il 4
novembre 1920, per la prima volta dopo
l’armistizio, si celebra solennemente la vittoria,
a Roma e in tutte le grandi città, senza che si
produca il minimo incidente. Alle elezioni
amministrative, che hanno luogo poco dopo,
quasi dappertutto i partiti borghesi lottano sulla
base del « blocco nazionale ». Il Partito popolare
ha deciso, per suo conto, di fare lista a parte,
ma il Vaticano disapprova la sua intransigenza
e la sconfessa pubblicamente. In alcune grandi
città, come a Torino e a Milano, i popolari
entrano nel blocco, in séguito a pressioni venute
da Roma. A Torino, il cardinale Gasparri scrive
una lettera affermando che « ove l’intesa è
necessaria per impedire l’avanzata socialista,
l’intesa è un dovere »3; a Milano, il cardinale
Ferrari interviene nel medesimo senso4. I
fascisti, che sono ancora quantità trascurabile,
appoggiano dovunque le liste del blocco
nazionale. A Milano, Mussolini, reso prudente
dall’esperienza del novembre 1919, si oppone ai
suoi amici che vorrebbero presentare una lista
fascista: « La nostra partecipazione alla lotta —
scrive il 17 ottobre — aumenta all’infinito la

209
probabilità di vittoria degli avversari, perché
basterà presentare una lista nella quale siano
compresi dei fascisti perché questa gente si
precipiti alle urne pur di sconfiggere la lista.
Questo è palese e voi lo sapete benissimo. Noi
non abbiamo nemmeno la speranza di arrivare
ad avere la minoranza »5. Questo prova che,
al momento in cui l’ondata « massimalista »
comincia a diminuire, le forze del fascismo — di
questo fascismo che avrebbe « salvato l’Italia
dalla rivoluzione » — sono ancora inconsistenti.
Le elezioni amministrative si svolgono in un
periodo di attesa e di transizione. I socialisti
ottengono la maggioranza in 2162 comuni su
8059 e in 25 province su 69. Conquistano la
maggioranza dei comuni in Emilia e in Toscana,
dove si scatenerà, qualche settimana dopo
le elezioni, l’offensiva fascista. Il successo
socialista, però, s’accompagna di alcune ombre:
esso è troppo grande per permettere al Partito
socialista di continuare a segnare il passo; ma
non lo è abbastanza per spingerlo a
prendere coraggiosamente le sue responsabilità.
D’altra parte, la coalizione borghese, che si è
battuta bene, è riuscita a sottrarre alla marea
rossa dei centri importanti: Roma, Venezia,
Spezia, Brescia, Genova, Pisa, Napoli, Bari,
Palermo. Essa ottiene delle vittorie significative
a Firenze e soprattutto a Torino, la città «
comunista ». La corrente del 1919-1920 rivela in
modo indubbio dei movimenti di riflusso.
Raggiunti questi resultati, Giolitti vuole
procedere oltre, e per questo gli occorre
liquidare la questione di Fiume, causa

210
permanente di torbidi e di indisciplina
nell’esercito, che rode lo stato come un cancro6.
Giolitti tenta un colpo da maestro: comprar
Mussolini e separarlo da D’Annunzio, e vi
riesce7. Gli riesce così bene, che crede di avere
Mussolini in mano, ma si sbaglia di grosso.
Le trattative si svolgono a Milano pel tramite del
prefetto Lusignoli che, fino alla marcia su Roma,
sarà l’intermediario tra Giolitti e Mussolini. Il
Trattato di Rapallo con la Jugoslavia vien
firmato il 12 novembre 1920: la Dalmazia, salvo
Zara, rimane alla Jugoslavia, alla quale
vien ceduta anche una parte del porto di Fiume:
Susak8. Mussolini, di cui si ricordano gli
attacchi del gennaio 1919 contro Bissolati9,
scrive lo stesso giorno: « Ci
dichiariamo francamente soddisfatti per ciò che
è successo alla frontiera orientale e crediamo
che tale soddisfazione sarà condivisa
dall’unanimità dell’opinione pubblica italiana.
Anche per Fiume, la soluzione di Rapallo non è
l’ideale, che sarebbe l’annessione, ma è la
migliore fra quelle che sono state progettate
fino ad oggi ». Il giorno dopo, rincara: « L’Italia
ha bisogno di pace per riprendersi, per
rifarsi, per incamminarsi sulle strade della sua
immancabile grandezza. Solo un pazzo od un
criminale può pensare a scatenare nuove
guerre, che non siano imposte da un’improvvisa
aggressione. Per questo noi riteniamo buoni gli
accordi per il confine orientale e per Fiume ».
Nello stesso articolo Mussolini prende posizione
contro i nazionalisti che egli accusa di
imperialismo ed ai quali rimprovera di «

211
ipnotizzarsi sull’Adriatico o in alcune isole o
sponde dell’Adriatico ». Questo articolo riempie
di stupore i legionari di Fiume, che trattano
Mussolini di « parassita » e di « traditore » e
proclamano che « il grande uomo di via
Cannobio10 si sta sgonfiando ». Al Comitato
centrale dei Fasci, a Milano, spira vento di
rivolta. Mussolini, per sventar l’opposizione,
presenta lui stesso un ordine del giorno di
compromesso, in cui si dichiara che il
Trattato di Rapallo è « sufficiente ed accettabile
per il confine orientale, insufficiente per Fiume,
inaccettabile per la Dalmazia ». Un membro del
Comitato centrale, Cesare Rossi, vota contro «
perché condivide completamente lo spirito e i
criteri espressi nei due penultimi articoli di
Mussolini » 11.
Con questa manovra, Mussolini evita la
rottura con i Fasci, e tien fede lo stesso al suo
accordo con Giolitti, perché da questo momento
l’opinione pubblica italiana esita e abbandona
ogni resistenza. Non è tuttavia il denaro che ha
avuto in questo mercato il ruolo essenziale.
Per Mussolini, il nuovo atteggiamento presenta
altri vantaggi di carattere personale. Si è
sbarazzato degli impegni che aveva preso in
estate con D’Annunzio, in vista di un’azione non
ancora ben definita che questi avrebbe
diretto. D’altra parte, egli pensa che Giolitti può
arrivare a costituire un governo di
concentrazione dove prenderebbero posto i
liberali, i popolari, i fascisti e, forse, la
destra socialista: Mussolini potrebbe fare parte
del Gabinetto 12. Infine Giolitti e il suo ministro

212
della Guerra, Bonomi, sono animati dalle
migliori intenzioni verso i fascisti, perché
sperano di utilizzarli contro i socialisti.
Mussolini respinge dunque in questo momento
ogni idea di « marcia su Roma »13. A Roma
arriverà lo stesso, grazie alla coalizione
parlamentare che Giolitti solo può mettere in
piedi. Coperto a sinistra dai socialisti, ostili a
D’Annunzio, e alla sua destra da Mussolini,
Giolitti può tentare il gran colpo.
Il giorno stesso in cui nella penisola gli operai
occupano le fabbriche, D’Annunzio pubblica a
Fiume la « Costituzione » della « Reggenza
Italiana del Quarnaro » 14. È un misto di
corporativismo medievale e di
sindacalismo moderno, di governo personale e
di vago sovietismo, ciò che varrà ad alienargli le
simpatie dei nazionalisti, ben più reazionari che
patrioti. L’articolo IX di questa Costituzione dice
testualmente:
Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio
assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la
più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere
riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può
esser lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne
disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo
legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di
scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza
resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole
all’economia generale.

Tutto ciò è molto nebuloso, e Mussolini ha


scritto della prosa ben più incendiaria. Ma
D’Annunzio è un poeta e i poeti sono talvolta
prigionieri dei loro sogni. Una tale «
Costituzione » rischia di valorizzare certe

213
rivendicazioni sociali a scapito delle
rivendicazioni nazionali, proprio mentre la
borghesia mette da parte le sue
rivendicazioni nazionali, per liquidare una volta
tanto le rivendicazioni sociali delle masse
popolari. Questa borghesia, ed anche
i nazionalisti, si allontanano da lui; al momento
critico, l’ammiraglio Millo lascerà cadere i suoi
impegni15. Il 9 settembre 1920, D’Annunzio
proclama a un tempo l’indipendenza dello stato
del Quarnaro e la sua nuova Costituzione e
provoca così una rottura col Consiglio
nazionale di Fiume. La situazione economica
della città diviene difficile. L’acqua, il gas,
l’energia elettrica, il carbone mancano.
I negoziati tra D’Annunzio ed un consorzio
di finanzieri per un prestito falliscono 16. Nei
primi giorni di settembre, i legionari
s’impadroniscono, sempre con l’aiuto della
Federazione dei marittimi, del Cogne, piroscafo
italiano carico di merci in. prevalenza estere»
destinate all’Argentina17. Appena conosciute le
stipulazioni del Trattato di Rapallo
18, D’Annunzio fa occupare le isole di Orbe e di

Cherso, cedute da questo Trattato alla


Jugoslavia 19. Ma Giolitti è ora deciso a mettere
fine, in breve tempo, a questo caos.
Il generale Caviglia inizia il blocco del
littorale di Fiume, per impedire nuove
scorribande dei legionari. Una delegazione di
parlamentari italiani va da D’Annunzio per
proporgli un compromesso, ma D’Annunzio
respinge ogni intesa ed esige il riconoscimento

214
della Reggenza del Quarnaro da parte del
governo di Roma.
Due cacciatorpediniere ed una torpediniera
della flotta italiana si ribellano ed arrivano a
Fiume per mettersi a disposizione del «
Comandante »20. Il blocco effettivo della città
comincia: D’Annunzio risponde proclamando lo
stato di guerra tra la Reggenza del Quarnaro e
Vitalia21. La vigilia di Natale le truppe italiane
attaccano: alcuni colpi tirati sul palazzo del
governatore, l’ostilità del Consiglio nazionale e
della popolazione decidono D’Annunzio a
capitolare. Egli ha giurato senza dubbio di
versare fino alla sua ultima goccia di sangue su
quella terra sacra, ma si persuade ormai che «
non vale la pena di gettare la vita oggi in
servizio di un popolo che non si cura di
distogliere neppure per un attimo dalle
gozzoviglie natalizie la sua ingordigia » 22.
D’Annunzio è un attore che non può recitare
davanti ad un teatro vuoto: il superuomo che è
in lui non può fare a meno del pubblico.
Il 31 dicembre, vien firmato un accordo
definitivo e si costituisce a Fiume un governo
provvisorio 23. D’Annunzio abbandona la città e
si reca in Italia dove non potrà più, malgrado i
suoi sforzi e quelli dei suoi amici, recitare una
parte di primo piano.
I Fasci fanno molto rumore a proposito degli
avvenimenti di Fiume: Mussolini, nel « Popolo
d’Italia », gonfia i titoli e moltiplica le ingiurie,
ma non tenta il minimo gesto di solidarietà24.
Durante l’epopea di Fiume, sognando di dirigere

215
una crociata nazionale e sociale alla testa di
tutti gli oppressi, D’Annunzio ha finito per
perdere il contatto con il paese.
« L’orizzonte dello spìrito di Fiume — proclama — è vasto
come la terra. Dove vi è un oppresso che stringa i denti sotto
la pressura, dov’è un vinto che abbia tutto perduto fuorché il
bruciore della vendetta, dov’è un insorto che vada armato
d’un ramo d’albero o d’un sasso contro le mitragliatrici e
contro il cannone, là giunge la luce di Fiume25… Tutti gli
insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro
segno. E gli inermi saranno armati. E la forza sarà opposta
alla forza. E la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e
liberi… contro le razze di preda e contro la casta degli usurai
che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, la
crociata nuovissima ristabilirà la giustizia vera26.

Queste dichiarazioni ricordano quel «


nazionalismo rivoluzionario » che a Mosca dei
veri capi si preparano a sfruttare: il Congresso
dei popoli d’Oriente si tiene a Bakou nel
settembre 1920. Ma gli operai che
hanno occupato le fabbriche, e i contadini che
continuano ad occupare le terre ignorano
D’Annunzio, e i socialisti non vedono
nell’impresa di Fiume che un’avventura
grottesca. Il direttore dell’« Avanti! », Serrati, è
stupito e tutto indignato perché Lenin gli ha
parlato di D’Annunzio come di un rivoluzionario;
un « massimalista » italiano non può riconoscere
un alleato, sia pur provvisorio, in quel
D’Annunzio che « non ha mai temuto di trarre al
servizio di una bella causa le forze più
pericolose » 28. Più D’Annunzio volge i suoi
sguardi verso il mondo in crisi, più si
esclude dalla politica italiana29. Una volta
ancora, il filo tra Fiume e Roma è tagliato: sarà

216
riannodato a Milano da Mussolini.
Condotta la C.G.L. in un vicolo cieco grazie
alla « Commissione paritetica » e guarito
l’ascesso di Fiume, Giolitti non attende più che
la scissione socialista per completare il suo
piano 30. I socialisti dispongono ancora, alla fine
del 1920, di una forza imponente: 156 deputati
al Parlamento, circa un terzo nei Comuni, più di
un terzo nei Consigli provinciali, 8 mila
cooperative, 2 milioni di aderenti alla C.G.L.
Come utilizzare questa forza, come farla
pesare attivamente sulla politica e sui destini
del paese? 31 La grande esperienza
dell’occupazione delle fabbriche spingerà alfine
il Partito socialista verso un obbiettivo
qualsiasi? 32
L’ora della conquista « diretta e violenta » del
potere è definitivamente trascorsa. Nel corso
dei recenti avvenimenti, nessuno vi ha pensato,
e Lenin stesso non l’ha creduta possibile: « Noi
non vogliamo una seconda Ungheria »,
dichiara33. Ma egli spera che la situazione
ritornerà favorevole e chiede al Partito socialista
di cacciare dai suoi ranghi Turati ed i suoi amici.
« Espellere i riformisti dal partito e appoggiare
subito un governo Turati », consiglia a Serrati34.
Ma i massimalisti italiani non potranno eseguire
che la prima parte di questo piano, e solo due
anni dopo. La campagna che si conduce contro
i « riformisti », e che porta alla prima scissione
— quella di Livorno — rende la seconda parte
del piano inapplicabile. Come possono coloro
che cacciano Turati in nome della lotta « contro

217
tutti i compromessi », pensare e
voler concludere subito dopo un compromesso
proprio con lui? La scissione così si produce
aggiungendo un nuovo equivoco a quelli che già
pesano sul movimento socialista: l’equivoco
comunista. Il partito socialista conta, alla
fine del 1920, 4367 sezioni e 216.327 aderenti;
al Congresso di Livorno, che si tiene nel gennaio
1921, i «massimalisti » (centristi) ottengono la
maggioranza con 98.028 voti; i comunisti
seguono con 58.183; la destra non ottiene che
14.625 voti35. Questa scissione non riesce punto
a liberare e a precisare le tendenze, per
restituirle alla loro propria funzione. I
comunisti, alla testa del partito in settembre,
sono stati incapaci quanto gli altri; formato un
nuovo partito, essi saranno spinti a sinistra per
« infantilismo » e per il bisogno di differenziarsi.
I massimalisti, incalzati a sinistra dai comunisti,
non osano guardare in faccia la situazione e si
immobilizzano tra le due tendenze estreme,
ripetendo sempre il vecchio motivo: «
Nella situazione attuale — dichiara Serrati — il
solo risultato della conquista del potere sarebbe
che le responsabilità, che pesano attualmente
sulla borghesia, passerebbero al Partito
socialista »36. La destra, nella sua Conferenza
di Reggio Emilia, non osa arrivare al fondo delle
sue conclusioni, cioè arrivare ad una
conclusione qualsiasi. Finirà anche per votare,
senza convinzione, per semplice
manovra politica, l’adesione alla Terza
Internazionale, limitandosi a reclamare «
l’autonomia interpretativa e l’applicazione dei

218
21 punti secondo le condizioni di ogni Paese ».
La destra si preoccupa di salvaguardare l’unità
del partito e soprattutto quella dei sindacati
(legati al partito dal Patto di alleanza) e cerca
un rifugio nella macchia della procedura 37.
Ognuno è schiavo delle formule di cui si è
servito fino ad ora, mentre le circostanze stanno
mutando profondamente. La stessa paura delle
responsabilità, la stessa mancanza di sincerità
che non hanno permesso prima di portare i fatti
al livello delle formule, impediscono adesso di
ricondurre le formule al livello dei fatti. La
scissione è tanto inevitabile quanto vana38.
La situazione economica continua ad
imbrigliare seria* mente la forza dei sindacati,
pur avviandosi, nel suo insieme, verso un certo
equilibrio.
Quando già sembrava, a molti, inevitabile lo sfacelo
dell’economia italiana — scriveva il professor G. Mortara
nelle sue Prospettive economiche — la simultanea azione di
più circostanze capovolse il corso degli eventi. A ricondurre
la normalità concorse potentemente e principalmente
l’attenuarsi dei fattori economici di turbamento. La caduta
dei prezzi sul mercato mondiale, il freno posto alle emissioni
di cartamoneta, l’avviamento all’equilibrio degli scambi fra
l’Italia e l’Estero, contennero il rialzo del costo della vita e
resero gradualmente minore l’ampiezza delle oscillazioni
di esso. D’altra parte, il disagio di parecchie industrie,
provocando una vasta disoccupazione, aggravata per il
ristagno delle correnti migratorie, distolse gli operai che
ancora avevano lavoro dal porsi al rischio di perderlo39.

Nel corso del primo trimestre del 1921, il


numero degli scioperanti è sceso, nei confronti
dello stesso periodo dell’anno precedente, da
493.914 a 148.796, e quello delle giornate di
lavoro perdute da 6.268.900 a 1.644.250: una

219
diminuzione di circa il 77 e l’80% 40. Nel suo
articolo di fine d’anno, nel 1920, Mussolini
constata che, « da tre mesi a questa parte, la
psicologia della massa operaia italiana si è
profondamente modificata »41. Giolitti
riesce, nel febbraio 1921, ad abolire il prezzo
politico del pane. I deputati socialisti, che
avevano su questa questione rovesciato Nitti, si
limitano ad un’opposizione formale,
giustificandosi con « l’apatia delle masse per
questa battaglia condotta in loro nome »42.
Il fascismo si afferma in Italia alla fine del
1920 e soprattutto nel corso del primo semestre
del 1921, in un’epoca in cui la febbre del
dopoguerra è fortemente diminuita, in cui «
l’ordine » sta per essere ristabilito dal duplice
concorso dei fattori economici e della
disgregazione del Partito socialista. La grande
avanzata fascista comincia nella Valle del Po ed
in Toscana, dove gli agrari sono alle prese, là
con i salariati, qui con i mezzadri. È da questa
epoca che data un fenomeno decisivo per il
corso degli avvenimenti: l’irruzione dei « rurali
» nei ranghi fascisti43. Nel 1919, Mussolini
pensava che i Fasci non avrebbero potuto
sorgere che nelle città44; verso la fine del 1920
gli agrari « scoprono » il fascismo, lo adottano,
lo improntano del loro spirito. Tutti i loro
rancori e i loro furori vi sono immessi: «
Nell’anima dell’agrario e del contadino
arricchito — si è notato — l’odio,
questo sentimento atavico di diffidenza verso
chiunque aspiri a una nuova ripartizione della
terra, si risveglia. Il nemico è oggi il salariato

220
organizzato, come ieri era il vagabondo. Contro
di lui tutto diviene legittimo »45. Già in
talune località gli agrari avevano costituito dei
gruppi di combattimento, le cui tradizioni e
l’esempio non sono senza influenza sui Fasci
nascenti. Il conflitto raggiunge ben presto
un’asprezza estrema. È come un’ordalia
barbara, che conclude venti anni di lotte; dopo
un tal « giudizio di Dio », il vincitore si annette il
vinto, corpo e beni.
La pianura del Po, dove si produsse l’urto, è
una regione a cultura intensiva e ad altissimo
rendimento. Da secoli, le terre vi sono strappate
alle acque stagnanti, ai canneti, alla malaria.
Questo sforzo ammirevole si intensifica, verso la
fine del XIX secolo, grazie ai nuovi
processi tecnici, ai capitali accumulati dai
singoli, al credito dello stato, alle nuove
condizioni del mercato interno. Si drenano le
acque, terre grasse e fertili emergono;
sorgono le strade, le case, le piantagioni. La
produzione per ettaro è molto elevata: 17
quintali di grano contro i 10 di media del regno,
e, nelle terre « ricostrutte », si arriva fino ai
25 e 30, a volte anche più. Altre culture si
diffondono largamente: la canapa e soprattutto
la barbabietola, a cui sono garantiti alti profitti
grazie alla protezione doganale sullo zucchero.
L’economia rurale e l’attività industriale che da
queste dipendono dànno così un reddito
considerevole: i proprietari da un lato e i
lavoratori dall’altro cercano di accapparrarne il
più possibile. Ma mentre per quelli non si tratta
che di profitti, per questi è una questione di vita

221
o di morte. La popolazione è sovrabbondante e
non vuole emigrare; dopo la guerra non lo
potrà. Bisogna dunque trovare del lavoro sul
posto e, poiché nessuno riesce ad impiegarsi in
media che per 120 o 130 giorni l’anno, bisogna
che i salari siano assai elevati per permettere di
non morire di fame il resto dell’anno. Attraverso
lotte memorabili, che si rinnovano
frequentemente alla vigilia del raccolto, e che
durano a volte dei mesi, le organizzazioni
operaie hanno ottenuto che l’assunzione della
mano d’opera passi per l’ufficio sindacale di
collocamento. Altre clausole sul numero degli
operai agricoli da impiegare per ettaro, sulla
gestione delle trebbiatrici, sullo scambio diretto
dei servizi fra fattorie, rispondono alle stesse
preoccupazioni. L’accordo si fa spesso a spese
dello stato, la cui politica doganale mantiene gli
alti prezzi dei prodotti agricoli e che decreta
lavori pubblici per assorbire una parte della
mano d’opera. Nel dopoguerra, questa soluzione
si presenta più difficile, data la caduta dei prezzi
agricoli e la crisi economica generale. La lotta
per la ripartizione della rendita incide ora sul
capitale: i proprietari agrari che, nel passato,
hanno sempre resistito con testardaggine, sono
sempre meno disposti a cedere46.
Da parte degli operai, il sistema non si regge
che grazie ad una grandissima disciplina, cioè al
monopolio della mano d’opera. Questa
integrazione di regole molto precise,
minuziosamente stabilite e controllate, che
ricordano quelle delle antiche corporazioni, e di
una cultura altamente progressiva non è la

222
minore singolarità di questa vasta regione. Chi
non passa attraverso la lega « contadina » e,
accettando un salario più basso, lavora
tutto l’anno, riduce la porzione vitale degli altri,
che lo vessano senza pietà. Il « giallo » è
boicottato; il fornaio gli deve rifiutare il pane;
egli è trattato come un lebbroso, come pure sua
moglie e i suoi bambini: intorno a lui si fa
il vuoto, sicché egli deve piegarsi o abbandonare
il paese. Multe e taglie sono imposte ai
proprietari che l’hanno impiegato e che hanno
violato il contratto di lavoro47. Il sistema, per
funzionare, deve essere « totalitario », perché
ogni breccia che si apre può ridurre gli altri
lavoratori alla fame48. Si diffida allo stesso
tempo della piccola proprietà, e ci si sforza di
impedirne lo sviluppo49. Non si tratta punto di
un pregiudizio teorico: la piccola proprietà si
sottrae in parte imponibile della mano d’opera,
poiché il piccolo contadino o il fittavolo, e le loro
famiglie non seguono la giornata legale e non
lasciano che poco margine ai « turni » di lavoro
per i salariati. Il grande sviluppo dell’economia
e della tecnica rurale in questa pianura la fanno
più adatta, del resto, alla grande impresa, in cui
il contratto di lavoro si applica in pieno, e
meglio può controllarsi. Dopo la guerra, i rurali
ai quali si è parlato di « diritto alla terra », e
soprattutto i figli dei piccoli proprietari e dei
fittavoli — fra cui molti si sono guadagnati le
spalline — sono mossi da un’esigenza
di autonomia, di « farsi Una vita », di « tentare
la fortuna », che urta contro l’ostacolo dei
regolamenti corporativi. La Federazione dei

223
lavoratori della terra indice lunghi scioperi e
forza fittavoli e mezzadri a parteciparvi: questi
sono autorizzati a falciare la metà del raccolto,
quella che spetta loro, ma devono lasciare nei
campi l’altra metà, la parte del proprietario.
Quale che possa esser la necessità e la validità
di una tale tattica, lo spettacolo di ricchezze
considerevoli abbandonate e a volte perdute
ferisce nel fondo dell’anima il contadino nel suo
amore per la terra, che fa esitare a volte anche
il semplice salariato. L’opinione pubblica
accetta male queste forme di lotta, di cui
non vede lo scopo, e che gli interessati stessi
seguono sì con disciplina, ma non senza una
certa « cattiva coscienza ». Ad un tratto, delle
fessure si producono nel blocco delle forze che
dirige e controlla la Federazione della terra,
ed è là che s’introduce e passa l’offensiva
fascista. L’organizzazione « rossa » è
onnipotente solo grazie al monopolio: quindi
basta che in una località un gruppo di
salariati ceda alla prospettiva di poter lavorare
tutto l’anno o di possedere un pezzo di terra,
perché gli agrari abbiano partita vinta, poiché il
« sistema » non regge più, e niente può
arrestare lo sbandamento una volta che questo
sia iniziato. A che cosa le « leghe » operaie
avrebbero potuto aggrapparsi per impedirlo?
Come ristabilire l’unità dei lavoratori rurali nella
resistenza e nella lotta? Per parare al pericolo di
cui l’offensiva agraria minaccia il « sistema », la
vecchia tattica non basta più, poiché non offre
altra prospettiva che quella di indire ogni anno
uno, due, tre mesi di sciopero per imporre a

224
ciascuno la sua congrua porzione di giornate di
lavoro. Il sistema non lo si può salvare altro che
portandolo più avanti, rimpiazzando la disputa
sulla divisione dei redditi, ormai insufficienti
per tutti, colla conquista della « terra ai
contadini ». Certi dirigenti della Federazione
della terra se ne rendono conto e al Congresso
della C.G.L. nel febbraio 1921 si adotta un
progetto per la « socializzazione della terra »,
preparato dal deputato socialista dott. G.
Piemonte50. In ogni provincia deve crearsi una «
comunanza agricola », alla quale gradualmente
passerà la terra, salvo quella che appartiene ai
piccoli proprietari. Gli organi amministratori di
questa « comunanza » sono formati
esclusivamente dai rappresentanti diretti dei
lavoratori agricoli e delle loro associazioni. I
poteri di questi organi sono amplissimi;
possono ordinare, per semplice via d’usciere,
l’espropriazione delle proprietà terriere e il loro
passaggio a cooperative agricole. Gli antichi
proprietari sono indennizzati con titoli che
dànno un interesse del 3%, ammortizzabile in
un periodo che non può superare i 50 anni. È lo
Stato che deve fornire le centinaia di milioni
necessari ogni anno al riscatto della terra e al
suo sfruttamento. Tutto è previsto, come nel
progetto dei Sovieti di Gennari e di Bombacci51.
È il sogno di Làssalle, tradotto in un progetto
di legge. Poiché si tratta infatti di un progetto
che il gruppo socialista deve presentare e
difendere alla Camera. La rivoluzione agraria
dipende dunque dal governo e dalla
sua maggioranza. Ma i socialisti non fanno parte

225
di questa maggioranza e non vogliono o non
possono andare al governo. Inoltre, il relatore,
per difendersi dalle critiche della « sinistra »,
che rimprovera al progetto di « addormentare lo
spirito rivoluzionario » e di prevedere
una indennità di espropriazione, spiega che i
titoli che si dànno agli antichi proprietari, «
possono facilmente essere seguiti attraverso i
passaggi di proprietà e saranno facilmente
rintracciabili e perseguibili il giorno in cui il
comunismo trionfante riterrà opportuno colpirli
con nuove gravezze od annullarli ». Siccome la
Camera non può votare un tale progetto,
bisognerebbe fare dei princìpi che lo ispirano
almeno una leva per un’azione delle masse
rurali decise ad instaurare un nuovo regime
agrario. Ma il progetto è stato elaborato
precisamente per rimpiazzare la pressione
diretta delle masse rurali con una conquista
graduale e legale, e niente si è previsto per
imporla o, caso mai, per raggiungere lo stesso
scopo per altre vie. Senza considerare che il
progetto lascia praticamente al di fuori, almeno
per un certo tempo, i contadini del
Mezzogiorno, e che non fa posto alla piccola
proprietà: il piccolo proprietario non potrà
ingrandire il suo lotto, anche se è insufficiente; i
fittavoli e i mezzadri dovranno rinunciare ad
ogni speranza di possedere le loro terre, poiché
la espropriazione li colpisce insieme ai
proprietari. Tutt’al più, se il decreto è fatto nel
corso dell’anno agricolo, si lasceranno sul posto
fino alla fine dell’anno, poi si espelleranno «
senza alcuna indennità corrispondente ». La

226
loro sola prospettiva è quella di diventare dei
proletari membri di questa cooperativa agricola
che altri avrà costituito, e che assumerà la
gestione della terra, il che significa, per essi,
nell’avvenire immediato, la perdita di ogni
indipendenza e la decadenza di ogni loro diritto.
Questo progetto realizza così il duplice successo
di essere troppo rivoluzionario per poter
passare mai al Parlamento, e di rendere estranei
alla rivoluzione, ed anche di aizzare contro
di essa milioni di famiglie contadine, la grande
maggioranza della popolazione rurale italiana.
Sui 280 Comuni dell’Emilia, 223 sono in mano
dei socialisti. Gli agrari che vivono in città o in
campagna, i loro figli, i loro amici, i loro
fornitori e i loro clienti serrano i pugni di fronte
alla onnipotenza dei sindacati operai. Le
carriere onorifiche pubbliche sono chiuse
quasi completamente a tutta la borghesia rurale
ed anche alla piccola borghesia, se non sono
inquadrate nelle organizzazioni socialiste. Il
proprietario agrario era stato per lunghi anni il
padrone assoluto del paese, il capo del
Comune, il dirigente di tutte le istituzioni
pubbliche locali e provinciali. È eliminato
dappertutto. In campagna deve fare i conti con
la lega e con l’ufficio di collocamento;
sul mercato, con la cooperativa socialista che
fissa i prezzi; nel Comune, con la lista rossa, che
passa con maggioranza schiacciante. Non più
profitti, onori, potere, né per lui, nè pei suoi
figli. Un odio profondo si accumula,
aspettando il momento di sfogarsi52. Certe
Camere del lavoro, come quelle di Bologna, di

227
Reggio Emilia, di Ravenna, controllano quasi
tutta la vita economica della loro
provincia. Hanno organizzato i salariati, i piccoli
coltivatori, i coloni; decidono del prezzo delle
derrate che distribuiscono in un gran numero di
Comuni attraverso la rete delle cooperative.
Proprietari, commercianti, intermediari di
ogni specie vedono, giorno per giorno, ridotto il
loro « spazio vitale » dallo sviluppo delle
cooperative e del socialismo municipale. È per
questo che il loro odio è diretto soprattutto
contro le « realizzazioni » ammirevoli che
l’organizzazione operaia crea e fa progredire in
tutti i campi. « Vedi — diceva un grande
proprietario della provincia di Ravenna — non
abbiamo mica paura di Bombacci; è Baldini che
ci fa paura perché, colla sua Federazione delle
cooperative, ci fa sostituire dappertutto. »53
Ecco perché la violenza fascista si è esercitata
soprattutto contro le istituzioni create dal
socialismo riformista. Queste
istituzioni, sviluppandosi, e collegandosi fra
loro, assorbono a poco a poco nel loro ambito
tutta la vita politica ed economica della regione.
Le vecchie caste, davanti a questa crescita della
nuova struttura sociale, si sentono minacciate
di asfissia. Il socialismo, con i successi stessi
delle sue imprese, grida loro ogni giorno: vita
mea, mors tua, e, così premute, le caste
condannate si aggrappano alla vita e seguono
fino alla fine la stessa logica: mors tua, vita mea.
Il movimento socialista che ha già contro di sè
i grandi agrari, che sta perdendo il controllo
della piccola borghesia rurale, i cui figli,

228
ritornati dalla guerra, vogliono restare « padroni
in casa loro », si aliena anche la
piccola borghesia cittadina. Questa ha atteso
per un po’ di tempo che i socialisti « facessero
qualche cosa ». Ma poiché non accade niente di
veramente nuovo, essa comincia a dubitare; il
vecchio odio del « proletario dal colletto
inamidato » contro il proletario in tuta non è più
travolto da una grande corrente di speranze
comuni e distilla di nuovo i suoi sordidi
fermenti. Inoltre, l’atteggiamento del Partito
socialista verso gli ex-combattenti è ispirato
unicamente da preoccupazioni settarie. La Lega
proletaria degli ex-combattenti, creata nel 1919,
non è che una succursale del partito e della
frazione « massimalista » che vi domina
incontrastata. Essa si propone di impedire che
gli ex-combattenti siano trascinati, « grazie alle
concessioni governative, sul terreno della
collaborazione e degli accomodamenti ». Il suo
scopo politico è quello stesso del partito: la
preparazione della rivoluzione sociale, i
Sovieti, la dittatura del proletariato La C.G.L.,
ha, nel suo programma, una lista di
rivendicazioni in favore degli excombattenti,
completa e soddisfacente, ma il partito
relega tutto questo all’ultimo piano55. Come
potevano gli excombattenti affidare la difesa dei
loro interessi a questo partito che raccomanda
pubblicamente alle sezioni « la più grande
severità per l’ammissione dei membri vecchi e
nuovi », perché « stima incompatibile con il
socialismo la presenza nel partito di tutti coloro
che hanno dato alla guerra una esplicita

229
adesione di fatto »?56. In questa maniera — nota
un antico combattente — « il grido di Abbasso la
guerra!, in pratica, significa
57
dappertutto: Abbasso i combattenti! ».
Vi sono pertanto in Italia alcune centinaia di
migliaia di ex-combattenti senza convinzioni
politiche precise, che la guerra ha preso
giovanissimi e che ha restituiti col solo capitale
delle sofferenze sopportate e delle gesta
compiute. Come possono abbandonare un tal
viatico, se i socialisti non dànno loro niente in
cambio? Quale crimine hanno commesso,
perché delle barriere ostili si drizzino da tutte le
parti contro di loro? « Se è una vecchia
menzogna o una esagerazione polemica —
scrive un altro ex-combattente — l’affermazione
che i reduci venivano sputacchiati o aggrediti, è
però assolutamente indiscutibile che noi tutti
venimmo allontanati, tenuti d’occhio, in
sospetto, considerati come appestati. »58
Mussolini ben comprese quale buona occasione
gli offriva l’accecamento dei suoi avversari. Uno
dei suoi amici scrive che i « neutralisti
» s’ingannano, quando credono « che chi ha
fatto la guerra sul serio, cioè due o tre milioni di
italiani, tornata la pace, sputino sulla guerra in
cui hanno combattuto »59. Al contrario, con il
tempo, il ricordo delle sofferenze svanisce, il
passato si idealizza, e poiché non si apre
davanti a loro nessuna prospettiva d’avvenire,
gli ex-combattenti si ripiegano sul loro passato,
che difendono, difendendo la « Vittoria ». È lo
stato d’animo soprattutto degli ufficiali, cioè di
quasi tutti gli elementi della piccola e

230
media borghesia che hanno preso parte alla
guerra.
Quando si scorrono pazientemente i giornali
dell’epoca, si può constatare che gli episodi di
aggressione contro gli ufficiali sono stati
relativamente poco numerosi. I più gravi si son
prodotti a titolo di rappresaglia per le
aggressioni, nelle vie di Roma, di deputati
socialisti da parte di ufficiali nazionalisti o
fascisti. Sarebbe tuttavia errato l’attenersi ad un
semplice criterio statistico. Quando un ufficiale
è ingiuriato o percosso, tutti gli altri si
sentono umiliati e colpiti in lui, nel loro spirito e
nella loro carne. L’affronto subito si gonfia di
tutte le reazioni di una sensibilità esasperata. La
stampa borghese si incarica di moltiplicarne e
prolungarne la eco, di generalizzare e
falsare l’episodio con invenzioni nefande, atte a
suscitare l’odio e a renderlo irreducibile, come
in Francia, allorché si raffigura il « rosso » che
sputa sulla tomba del Milite ignoto60. Inoltre, a
partire dall’autunno 1920, lo stato interviene
direttamente per utilizzare questo stato
d’animo per un fine reazionario. Poco tempo
prima un colonnello, inviato dal ministero della
Guerra, ha percorso tutta l’Italia, costituendo
dei nuclei di ufficiali, stabilendo dei legami,
diffondendo parole d’ordine fra i comandanti di
divisione. Il suo rapporto, pubblicato un anno
dopo, contiene già un piano preciso di offensiva
antisocialista ed una analisi assai esatta delle
forze e soprattutto delle debolezze del
movimento che si vuole soffocare. Secondo il
colonnello A. R., per evitare influenze sovversive

231
nell’esercito, bisogna ridurre il periodo di ferma
e creare « un saldo inquadramento di ufficiali e
sottufficiali volontari, a ferma piuttosto lunga,
ben pagati e selezionati con cura ». Siccome
questo esercito di mestiere non sarebbe
sufficiente, « ai 300 mila soldati obbligati al
servizio, dice un rapporto, ai 250 mila mercenari
dei quali presto disporremo, bisogna aggiungere
— per sostenere, correggerne e affiancarne
l’azione — una milizia d’idealisti, fatta dei
più esperti, dei più valorosi, dei più forti e
aggressivi fra di noi. Bisogna che essa compia
azione di resistenza e azione politica insieme,
che riesca, in questi duri momenti a infondere
sangue, vita e omogeneità nelle forze nazionali
per portarle alla vittoria ». Dopo avere insistito
sulla necessità di un comando unico, politico e
militare, il rapporto dà alcuni consigli strategici:
« Creare squadre, compagnie, battaglioni
almeno nei quadri, se non è
possibile raggiungere l’organico, nei quali agli
idonei della nostra classe sia un obbligo
appartenere ». Così i meno esperimentati,
passando successivamente dai compiti più
semplici ai più difficili, potranno raggiungere il
loro scopo.
Parziali azioni destinate a fiaccare la tracotanza locale di
alcuni centri più accesi nella furia sovvertitrice, mentre
varranno a demoralizzare e spezzare il nemico, saranno
un’ottima scuola per la nostra milizia. In tal caso, però,
avvertenza da usarsi sarà sempre quella di avere una o più
basi d’operazione a distanza sufficiente dal punto da colpire,
nei quali ammassare i mezzi, iniziare l’azione, e alle quali
poter ritornare sicuri, senza dar sospetto, a riordinarsi, se
eventualmente un momentaneo insuccesso avvenisse. Questo
se da noi si iniziassero azioni punitive locali.

232
Ecco ancora un quadro delle forze avversarie,
in un momento in cui il declino del movimento
socialista, già cominciato, non è ancora così
evidente:
Gli spiriti irrequieti e rivoluzionari non posseggono
carattere organizzativo. Generalmente si tratta di gruppi
incomposti, eterogenei e non affiatati, che agiscono
impulsivamente per una ragione emotiva momentanea. Le
armi in loro possesso non possono essere molte, né
distribuite con ordine. Gruppi organici per il loro
funzionamento non ve ne sono. Le munizioni non possono
essere che scarse e inadeguate per una lunga resistenza. I
gruppi politici che concorrono ad alimentare questi esaltati
hanno uomini coraggiosi e abili, ma mescolati con fatui
parolai, gli uni e gli altri dotati di limitatissimo spirito
d’osservazione circa la tattica, le armi, le forze dell’ordine, il
collegamento, la coordinazione necessaria, l’azione stessa.
Per le condizioni e abitudini di vita, i mezzi a disposizione dei
turbolenti sono limitatissimi; ogni tentativo di affiatamento e
di preparazione resta locale, al massimo tenta di arrivare
fino ai limiti della regione… La possibilità di una lunga ed
oculata preparazione viene a mancare. Quindi spinti da
emozioni momentanee i rivoltosi si adunano generalmente in
masse per eccitarsi a vicenda, per trovare i capi, gli indirizzi.
I più restano incerti, senza iniziativa. Si suggestionano del
chiasso e del numero, si ingannano a vicenda sulle armi e
sugli avvenimenti. Ai primi insuccessi seguono la disillusione
e lo scompiglio61.

Questa istantanea della situazione è stata


presa prima che il movimento operaio subisse la
prostrazione successiva all’occupazione delle
fabbriche. Dopo, il pericolo di una insurrezione
delle masse popolari, che il rapporto aveva già
escluso, è totalmente sparito. Non è dunque più
necessaria l’applicazione integrale del
programma del colonnello A. R. « esperto
militare per la guerra civile ». Il governo però…
non rimane inattivo. Il 20 ottobre, il ministro

233
della Guerra del Gabinetto Giolitti, l’ex-socialista
Bonomi, proprio colui che Mussolini aveva fatto
espellere nel 1912 dal partito, dirama una
circolare62 in cui si dispone che gli ufficiali in
corso di smobilitazione (ve ne sono circa 60
mila) siano inviati nei centri più importanti, con
l’obbligo di aderire ai « Fasci di Combattimento
», che dovranno dirigere e inquadrare:
saranno loro corrisposti i 4/5 dello stipendio.
Così i Fasci potranno realizzare essi stessi la
parte del programma del colonnello A. R. circa
le « azioni punitive locali » e più tardi anche
sorpassarla, perché hanno assicurato il concorso
efficace e indispensabile dello stato.
La partita diviene ben presto disperata per il
movimento socialista, come rivelano gli
avvenimenti di Bologna del 21 novembre 1920.
A Bologna, alle elezioni amministrative, la lista
socialista, composta quasi interamente
di elementi di estrema sinistra, ha ottenuto
18.170 voti contro 7985 del blocco nazionale e
4.694 dei popolari: il suffragio universale si è
dunque pronunciato e la vittoria, anche tenendo
conto del grande numero di astensioni, è stata
netta63. I fascisti locali, furiosi dello scacco
subito, dichiarano su tutti i toni che
impediranno all’amministrazione socialista di
funzionare64. Alla vigilia dell’insediamento del
Consiglio, affiggono un foglio dattilografato con
il quale annunziano la battaglia per l’indomani,
invitando le donne e i ragazzi a restare lontani
dal centro della città, dove si trova il palazzo del
Municipio, il Palazzo D’Accursio. Che potevano
fare i vincitori, investiti di un mandato

234
indiscutibile da parte della grande maggioranza
della popolazione? Indirizzarsi al prefetto,
allo stato, per chiedere di fare rispettare questo
mandato, di assicurarne l’esercizio. Ma se
qualcuno avesse osato proporlo, sarebbe stato
considerato come « traditore » dalla muta degli
schiamazzatori, quella stessa che perderà
la testa ai primi colpi tirati dai fascisti. Poiché lo
stato non è che « il Comitato esecutivo della
borghesia », non gli si può chieder niente. In
realtà, deputati e sindaci socialisti, segretari di
sindacato e di Camere del lavoro passano molto
tempo nei corridoi dei ministeri e delle
prefetture, per domande di ogni genere:
concessione di lavori pubblici, crediti alle
cooperative, nomina o licenziamento di un
funzionario, magari anche una croce di «
cavaliere ». Tutto ciò non urta i princìpi o è
peccato veniale. Ma come chiedere allo stato di
intervenire per difendere una amministrazione
municipale, per fare rispettare le istituzioni
democratiche, in quella stessa Bologna dove il
Congresso del Partito socialista, poco più di un
anno prima, ha dichiarato che queste istituzioni
dovranno essere abbattute e dove la sezione
locale è in maggioranza comunista? 65 Passano
fra la Camera del lavoro e le autorità
dei negoziati, che sfociano in un vago
compromesso: sembra che si sia preso
l’impegno di non issare la bandiera rossa. Alla
sezione, invece, si è deciso: « contro i fascisti
ci difenderemo da noi ». Così si trasportano
delle casse di bombe a Palazzo d’Accursio; si
distribuiscono delle rivoltelle: questo lavoro è

235
affidato ad elementi inesperti e, come spesso
accade, ad agenti provocatori. Dopo che
il Consiglio, nella seduta d’insediamento* ha
eletto a sindaco il comunista Gnudi, questi si
presenta al balcone per salutare la folla riunitasi
nella piazza: gli altri lo circondano con le
bandiere delle sezioni. Si lanciano dei piccioni
con delle piccole banderuole rosse attaccate alla
coda. È la più brillante impresa del
massimalismo bolognese. Appena il nuovo
sindaco appare, la folla lo acclama, ma i
fascisti, che stanno in agguato in ranghi serrati
ed armati agli angoli della piazza, cominciano a
sparare. Succede un parapiglia: dal balcone del
Municipio, gli incaricati della « difesa » lanciano
delle bombe. Le rivoltelle fasciste e le bombe
municipali fanno 9 morti ed un centinaio
di feriti, tutti socialisti o simpatizzanti.
All’interno, il crepitio e gli scoppi seminano
panico e collera. Dalla tribuna del pubblico
partono dei colpi di revolver contro i
banchi della minoranza e colpiscono
mortalmente l’avvocato Giordani, ex-
combattente, nazionalista e massone, uno
degli elementi più concilianti fra gli avversari
della nuova amministrazione 66. Gli avvenimenti
di Palazzo d’Accursio determinano a Bologna, in
Emilia, in tutta l’Italia, una precipitazione di odii
accumulati e una furiosa ondata di violenza. Il
cadavere dell’ex-combattente Giordani è
sfruttato fino al delirio; si dimenticano la
provocazione fascista, l’illegalità armata contro
un’amministrazione regolarmente eletta, i nove
morti socialisti. Non si vede più che l’ex-

236
combattente, condottosi eroicamente in guerra,
ucciso « in un agguato », dagli « antinazionali ».
Si crea un’atmosfera di furore in cui gli
avversari si scagliano gli uni contro gli altri; gli
esitanti si allontanano o passano ai fascisti. I
socialisti, che non hanno saputo né sfruttare la
loro posizione di legalità, né organizzare la
illegalità, vedono buttarsi contro di loro ad un
tempo e le squadre fasciste e la forza pubblica.
L’èra delle violenze, delle rappresaglie delle «
spedizioni punitive » comincia67.
Un conflitto che avviene a Ferrara nel
dicembre, vicino al Castello Estense, in
condizioni più o meno simili, provoca un’uguale
ritorsione68. Ma, nella provincia di Ferrara, un
altro fattore concorre al successo del
fascismo. Perché è qui che si produce, all’inizio
del 1921, la prima grande frana che provoca il
rapido crollo di ogni resistenza delle istituzioni
operaie. La provincia di Ferrara è stata la terra
di elezione del sindacalismo rivoluzionario e
antisocialista69. Tra il 1907 e il 1913, scioperi
agricoli di estrema violenza si sono succeduti
sotto la guida di Umberto Pasella, futuro
segretario generale dei Fasci, di Michele
Bianchi, futuro Quadrumviro della marcia su
Roma, e di altri esponenti, che passeranno quasi
tutti al sindacalismo fascista. Quando la
resistenza padronale si prolungava, non si
rimaneva a corto di risorse, poiché « un solo
fiammifero », spiegavano, poteva distruggere il
raccolto dell’agrario ostinato. Le masse rurali di
questa provincia sono sempre state preda facile
dei demagoghi, degli amici e collaboratori di

237
Mussolini; la propaganda socialista non vi ha
messo profonde radici, ciò che spiega in parte
perché la zona di Ferrara sia stata la prima a
cedere alla pressione fascista. Adattandosi
all’ambiente locale, i fascisti lanciarono la
parola d’ordine della terra a chi la lavora, senza
attendere la futura « socializzazione ».
L’Associazione agraria si lascia persuadere a
cedere qualche migliaio di ettari in affitto
diretto ai coltivatori individuali, che sfuggono
così al lavoro contingentato. Si tratta,
generalmente, delle terre peggiori, e di una
iniziativa che non oltrepasserà proporzioni
modestissime. L’insieme dei salariati della
provincia pagherà con una miseria
accresciuta questi pochi « villaggi di Potemkine
», ma i fascisti possono gridare: « Vedete, i
socialisti vi promettono tutto, e non vi dànne
niente; vi impediscono perfino di divenire dei
coltivatori diretti, dei proprietari. I Fasci hanno
insediato centinaia di famiglie che potranno
lavorare tutto l’anno sulla loro terra ». Come un
grido di panico può trascinare nella fuga tutto
un esercito, questo grido di speranza — per
quanto ingannevole — trascina le masse rurali,
tanto più che le spedizioni punitive si
moltiplicano, e che il terrore riesce a portare a
termine ciò che la speranza ha intrapreso70. Le
« leghe » contadine, che il « sistema »
tradizionale non protegge più, passano in blocco
ai sindacati fascisti, sotto l’insegna della lotta
contro la « tirannia socialista ». È nella
provincia di Ferrara che sorge, il 25 febbraio
1921, nel Comune di S. Bartolomeo in Bosco, il

238
primo sindacato fascista, nella sede della
vecchia lega socialista71. Le cooperative
seguono ben tosto i sindacati e le scorribande
dei camion di camicie nere impongono le
dimissioni delle amministrazioni socialiste. Nel
novembre 1920, i socialisti avevano conquistato
tutti i ventun Comuni della provincia: verso la
fine dell’aprile 1921, quattro amministrazioni
reggono ancora e non tarderanno, esse pure, ad
essere disciolte o a dar le dimissioni72.
La « spedizione punitiva » diviene, verso la
fine del 1920, il metodo abituale di espansione
del fascismo. Esso è stato applicato su larga
scala nella Venezia Giulia, dove i gruppi fascisti
hanno l’appoggio aperto delle autorità locali e
dove la lotta contro il « bolscevismo » —
cioè contro le Cooperative operaie, le Casse
malattie e i Circoli di cultura, ereditati dal
socialismo austriaco — si accompagna a una
violenta pressione sulle popolazioni slovene e
croate. La sede delle organizzazioni slovene
a Trieste è incendiata nel luglio 1920 73, in
ottobre si hanno l’attacco contro il quotidiano
socialista « Il Lavoratore »74 e la distruzione
della Camera del lavoro di Fiume75.
A partire dall’inizio del 1921, pur
aggravandosi nella Venezia Giulia, dove serve
soprattutto le rivendicazioni nazionaliste, questa
forma di azione dilaga nella Valle del Po, coi
caratteri e coi metodi che finiranno per
prevalere nel fascismo e lo accompagneranno
fino alla marcia su Roma. Nella valle padana, la
città è, in generale, meno « rossa » della

239
campagna, perché in città si trovano i ricchi
agrari, gli ufficiali delle guarnigioni, gli studenti
delle Università, i funzionari, i redditieri, i
membri delle professioni liberali, i
commercianti. È in queste categorie che si
reclutano i fascisti e sono queste che forniscono
i quadri delle prime squadre armate. La
spedizione punitiva parte infatti quasi sempre
da un centro urbano e irraggia nelle campagne
circostanti. Montate su camion,
armate dall’Associazione agraria o dai
magazzini dei reggimenti, le « Camicie nere » si
dirigono verso il luogo che è l’obbiettivo della
loro spedizione. Arrivate, cominciano
col bastonare tutti coloro che incontrano per le
strade, e che non si scoprono al passaggio dei
gagliardetti o che portano una cravatta, un
fazzoletto, una sciarpa rossi. Se qualcuno si
rivolta, se si scorge un minimo gesto di difesa,
se un fascista è ferito o un poco malmenato, la
« punizione » si estende. Ci si precipita alla
sede della Camera del lavoro, del sindacato,
della cooperativa, alla Casa del popolo, si
sfondano le porte, si buttano nella strada i
mobili, i libri, le merci, si versano dei bidoni di
benzina: qualche minuto dopo, tutto è in preda
alle fiamme. Coloro che si trovano nei locali
vengono selvaggiamente picchiati o uccisi. Le
bandiere son bruciate o portate via come trofei.
Più spesso, la spedizione parte con uno scopo
preciso, quello di « ripulire » il luogo. I camion
si arrestano allora proprio davanti le sedi
delle organizzazioni « rosse » che vengono
distrutte. Gruppi di fascisti vanno alla ricerca

240
dei « capi », sindaco e consiglieri comunali,
segretario della « lega », presidente
della cooperativa: si impone loro di dimettersi,
si « bandiscono » per sempre dal paese, sotto
pena di morte o di distruzione delle loro case.
Se sono riusciti a mettersi in salvo, ci si vendica
sulle loro famiglie. « Tutti i giorni, partono
spedizioni punitive. Il camion fascista arriva
al tale paese diretto verso tal capolega. Si
tratta, prima. Poi, o il capolega cede, o la
violenza terrà luogo della persuasione. Accade
quasi sempre, che le trattative raggiungono lo
scopo. Se no, la parola è alle rivoltelle.
»76 Quando il dirigente locale malgrado tutto
resiste, lo si sopprime. Si arriva di notte davanti
alla sua casa, lo si chiama, con una scusa
qualunque, per non urtarsi nella sua diffidenza:
appena apre la porta, si scaricano le armi su di
lui, lo si abbatte sulla soglia. Spesso egli si
lascia prelevare, purché si risparmino i suoi, per
evitare loro il tragico spettacolo. I fascisti lo
conducono in un campo, dove poi lo si ritrova
morto al mattino. A volte si divertono a
trasportarlo sul loro camion ed a lasciarlo
nudo, legato ad un albero, a qualche centinaio di
chilometri di distanza, dopo avergli inflitto le più
atroci torture77. Il terrore è mantenuto con le
minacce e con le intimazioni che i Fasci
spediscono e pubblicano, senza che la
minima sanzione intervenga mai da parte della
magistratura e del governo. Così il marchese
Dino Perrone Compagni può inviare
impunemente, nell’aprile 1921, a un sindaco
di un villaggio della Toscana, la lettera

241
seguente:
Dato che Vitalia deve essere degl’italiani e non può, quindi,
essere amministrata da individui come voi, facendomi
interprete dei vostri amministrati e dei cittadini di qua, vi
consiglio a dare, entro domenica, 17 aprile, le dimissioni da
Sindaco, assumendovi voi, in caso contrario, ogni
responsabilità di cose e di persone. E se ricorrete alle
autorità per questo mio pio, gentile ed umano consiglio, il
termine suddetto vi sarà ridotto a mercoledì 13, cifra che
porta fortuna. Firmato: Dino Perrone Compagni - Piazza
Ottaviani, 1 - Firenze.

L’autore di questa ingiunzione firma col suo


nome, su carta intestata dei Fasci, e aggiunge il
suo indirizzo: è sicuro che niente verrà a
disturbare lui e i suoi amici, e a impedire la
spedizione annunziata. 78
L’offensiva fascista raggiunge, nelle prime
settimane del 1921, il massimo della violenza e
della ferocia. È impossibile comprendere gli
avvenimenti italiani, se non si riesce a misurare,
con una certa approssimazione, l’ampiezza
del fenomeno e se non lo si segue nella sua
esplosione e diffusione territoriale.
Nella Venezia Giulia, l’offensiva fascista si
complica e si alimenta della lotta contro gli «
allogeni » che, nelle campagne, sull’altopiano
del Carso, costituiscono la quasi totalità della
popolazione. I Fasci hanno qui una
missione quasi ufficiale: rappresentano l’«
italianità » che si vuole imporre alla regione. Le
autorità, le forze di polizia e l’esercito
collaborano con essi apertamente. Sono
anche aiutati dalle sovvenzioni e dall’appoggio
delle società minerarie del Carso e degli
armatori, che vogliono tenere in freno gli operai

242
dei numerosi cantieri navali, da Trieste fino a
Pola; degli agrari, che spingono all’attacco al
Sud, nella zona più fertile dell’Istria. In tutta
questa regione, le cui frontiere, per tanto tempo
discusse, sono state appena fissate, e dove è
rimasta di fatto aperta la questione di Fiume,
l’Italia non ha smobilitato. Tra la
popolazione slava ed i « regnicoli » non vi è
nessun contatto; gli italiani, salvo qualche città,
si sentono in territorio occupato: così i Fasci
vengono formati in gran parte dagli ufficiali
delle guarnigioni, dai funzionari e da altri
elementi importati dalla penisola che continuano
in certo modo la guerra di « liberazione » contro
gli slavi e contro i « comunisti ». Le istituzioni
operaie, i preti che predicano in sloveno ed i
villaggi dove solo i gendarmi sono italiani,
costituiscono gli obbiettivi di questa guerra.
A Trieste, il quotidiano socialista e la sede
centrale delle organizzazioni slovene hanno già
subito, nel corso del 1920 79, attacchi fascisti, i
quali si rinnovano e si moltiplicano all’inizio del
1921. «Il Lavoratore», organo del Partito
socialista, che i comunisti avevano occupato con
un colpo di mano il 29 gennaio, in séguito alla
scissione del Congresso di Livorno, è incendiato
una seconda volta, il 9 febbraio, dai fascisti80.
Gli operai rispondono, come sempre, con lo
sciopero generale. Ma è nella zona rurale
dell’Istria, che va lungo la costa da Pirano a
Pola, che ha inizio « l’opera sistematica di
distruzione di tutto ciò che è bolscevico »81,
sempre con l’aiuto diretto della forza pubblica.
Così, « la sera del 20 gennaio 1921,

243
previo accordo con le truppe del Presidio, con
l’Arma dei carabinieri, e della Guardia di
Finanza si procede all’assalto della Camera del
lavoro » di Dignano. Il 28 febbraio la Camera del
lavoro di Trieste è attaccata per la terza volta e
interamente distrutta. Per rappresaglia
contro l’incendio della Camera del lavoro gli
operai di Muggia, vicino a Trieste, appiccano il
fuoco ai cantieri navali di San Marco, che sono,
essi pure, distrutti. « Veniva allora fatta
intervenire la truppa della brigata Sassari e
s’impegnava coi ribelli una battaglia… Dalla
aeroscuola di Portorose, un aeroplano fascista si
spingeva sulla rocca rivoltosa in ricognizione.
Nella notte dall’1 al 2 marzo, i fascisti di Trieste
e dell’Alta Istria si concentravano a Pirano;
requisito un vapore si recavano a Muggia;
la nave, spenti i lumi si avvicina cauta, i fascisti
sbarcavano e così davano fuoco alla Casa del
Popolo distruggendola completamente. »83
Al principio di aprile tre gravi incidenti si
producono nelle campagne di Carnizza, nel sud
dell’Istria. Una squadra di azione fascista di
Dignano piomba in questa zona, dove arresta e
porta via uno slavo, proprietario di un albergo.
Questo atto arbitrario provoca la rivolta. Le
campane suonano a stormo nei villaggi
circostanti, i contadini slavi accorrono e la
banda fascista è costretta a ritirarsi con il suo
prigioniero verso Carnizza dove è assediata dai
contadini. La truppa, i carabinieri, i fascisti si
mobilitano ed una lotta accanita si inizia; come
durante la guerra, si impiegano il filo spinato e
le mitragliatrici. La guerriglia dura più giorni.

244
Finalmente, le forze dell’« ordine » hanno il
sopravvento; « le popolazioni ribelli
erano costrette ad abbandonare i villaggi dati
alle fiamme e cosi gli abitati di Segotti,
Vareschi, Zuechi e Mormorano furono in parte
distrutti nella battaglia o dal fuoco » 84. L’azione
continua nelle miniere dell’Arsa (Albona),
dove gli operai sono in sciopero e armati:
l’autorità militare decide l’occupazione della
zona, che è attaccata per terra e per mare. Dopo
qualche scaramuccia, si ha ragione
della resistenza dei minatori. A partire da
questo momento, le squadre fasciste che, nel
corso di questi conflitti, hanno potuto
completare la loro organizzazione e il loro
armamento, passano in tutta la regione alla «
distruzione metodica » delle organizzazioni
politiche, sindacali, cooperative, culturali della
classe operaia. Tutti i circoli di cultura » dei
sobborghi e della periferia di Trieste vengono
distrutti. Qualche settimana dopo, una
pubblicazione socialista fa il bilancio di questa
offensiva: « Delle decine e decine di Camere del
Lavoro e Case del Popolo della regione, solo tre
o quattro sono ancora in piedi, due delle quali,
Trieste e Pola, funzionanti in locali provvisori o
addirittura fra le macerie degli edifici distrutti.
Degli altri cento Circoli di cultura esistenti nella
regione, non uno solo si è salvato »85.
Nella Valle del Po, è soprattutto il fascismo
agrario che infierisce, servendosi delle squadre
di combattimento che sorgono dapprima nei
centri urbani della regione. Dopo gli
avvenimenti di Palazzo d’Accursio di Bologna e

245
quelli del Castello Estense di Ferrara86, la
tensione, arrivata al limite estremo, si scarica in
una sequela di « spedizioni punitive ». Il 24
gennaio, dei colpi d’arma da fuoco sono tirati a
Modena su di un corteo fascista: due squadristi
sono uccisi: uno di essi apparteneva
alle squadre venute da Bologna per l’occasione.
Le Camere del lavoro di Modena e di Bologna
sono immediatamente incendiate87. Il Ministro
dell’Interno — è Giolitti — ordina la revoca delle
licenze di porto d’arme nelle tre province di
Bologna, Modena e Ferrara88. Mussolini, nel «
Popolo d’Italia », protesta violentemente contro
questa misura89. A Bologna e a Ferrara, i Fasci,
le associazioni « liberali » e le organizzazioni
padronali decidono di rifiutare la consegna delle
armi. A Modena, « i
rappresentanti dell’Associazione militari in
congedo, Associazione combattenti, Fascio
modenese di Combattimento,
Associazione pensionati dello Stato, Ass. Ordine
e Libertà, Sezione modenese del P.P.I., Gruppo
democratico-liberale, Sezione modenese del
Partito liberale, Associazione
Cacciatori, Federazione Agricoltori della
Provincia di Modena, Associazione
commercianti e industriali, ecc., associandosi
completamente all’ordine del giorno delle
Associazioni bolognesi e ferraresi, dichiarano di
non riconoscere la costituzionalità del decreto
ministeriale, nè la legalità dell’ordine prefettizio
e mentre chiedono al Governo la
revoca immediata, pronti in caso contrario a
qualsiasi azione di resistenza, invitano i cittadini

246
a non consegnare le armi »90. A Ferrara, i Fasci
ordinano e ottengono la chiusura dei magazzini
e delle officine in segno di protesta, e
una serrata generale nelle tre province91. I
decreti non sono ritirati, ma una settimana
dopo, a Bologna, il « Comitato d’azione contro il
disarmo » può constatare, con viva
soddisfazione, come sia piccolo il numero di
coloro che hanno consegnato le armi92. I più
accaniti nell’impedire ogni pacificazione sono gli
agrari, principali animatori e profittatori
dell’offensiva fascista.
Nella provincia di Bologna, le spedizioni e gli
atti di terrorismo si fanno più frequenti,
soprattutto dopo la riunione del Congresso
provinciale fascista (3 aprile), consacrato e
festeggiato colla distruzione di numerosi «
circoli » operai e socialisti del capoluogo93.
Nella provincia di Ferrara, l’azione in grande
stile comincia più tardi, ai primi di marzo, e si
compie in maggio, quando le spedizioni si fanno
« innumerevoli », a tal punto, nota lo storico
fascista, « che non si possono più elencare:
leghe, organizzazioni, tutto crolla »94. Il 26
maggio, Italo Balbo, che ha ordinato e diretto
tutte le spedizioni senza mai essere disturbato
dalle autorità pubbliche, è arrestato a Ferrara,
perché trovato con una rivoltella.
Appena divulgatasi la notizia dell’arresto, in città si aveva
grande fermento. Varie colonne di fascisti al canto degli
inni patriottici, mentre le campane delle chiese principali
suonavano a stormo, svegliavano la cittadinanza ed all’una di
notte una mobilitazione fascista, essendo convenute
immediatamente in città anche le squadre della campagna,

247
assediava il Castello minacciandone la occupazione e
imponeva alla Questura il rilascio dell’arrestato, che, tra il
giubilo della folla, veniva posto in libertà e parlava ai
fascisti. A Balbo viene poi offerta con pubblica sottoscrizione
una nuova arma 95.

Due mesi prima, il dirigente delle squadre di


azione di Bologna, Arpinati, autore di numerosi
assassini e di altre violenze, era stato messo in
libertà tre giorni dopo il suo arresto, in séguito a
manifestazioni analoghe 96.
Nella provincia di Mantova, dove, dopo le
tragiche giornate del dicembre 1919 97, la calma
non era più stata turbata, gli agrari profittano
dell’offensiva fascista per denunciare il patto
agricolo98. A Mantova stessa, il 20 aprile, si
distruggono la Camera del lavoro confederale e
l’Università popolare; il giorno seguente, con
l’aiuto dei fascisti arrivati in camion dalla
campagna, la Camera del lavoro sindacalista, il
Circolo dei ferrovieri, l’appartamento
del deputato socialista Dugoni subiscono la
medesima sorte. L’Associazione agraria dichiara
che non vi sarà più lavoro che per gli iscritti al
Fascio. Le spedizioni punitive fanno una
ecatombe di leghe, di cooperative, di istituzioni
operaie: la persona e le abitazioni dei capi-lega
sono particolarmente prese di mira. A S.
Giovanni del Dosso, dopo la distruzione della
lega, si diminuiscono i salari, si portano le ore di
lavoro giornaliere da 8 a 10, non si può entrare
nel paese che con un lasciapassare del Fascio. A
Bruscoldo, un camion arriva davanti alla
cooperativa locale, un bell’edificio di cui i
lavoratori sono orgogliosi. È già notte. I fascisti

248
vi si precipitano gridando: « Abbasso il re! viva
D’Annunzio! ». Una parte di essi si mette a
guardia della porta centrale, l’altra entra nel
caffè. Con gli occhi fuori delle orbite, con il viso
alterato, gridano: In alto le mani! I lavoratori
presenti, che stavano giuocando a carte o
leggendo i giornali, obbediscono.
Vengono perquisiti: nemmeno un temperino.
Dall’interno, i fascisti, rivoltelle in pugno, li
fanno uscire tutti uno per uno. Sulla porta, altri
li attendono, armati di pugnali e di bastoni
ferrati. Tutti devono traversare il tragico
corridoio. Mentre il bastone cade sulla testa e
sulle spalle di colui che passa, un colpo di
pugnale lo colpisce nella schiena. Vi sono così
38 feriti di arma bianca, tra cui dei vecchi, tre
mutilati di guerra, un ragazzo di 14 anni. Ad
operazione finita, gli squadristi sacchegiano i
locali, spaccano i mobili, distruggono i registri.
Ad un colpo di fischietto saltano nei camion,
dopo aver vuotato il cassetto del gerente, e
spariscono nella notte.
L’odio del commerciante contro la cooperativa
uguaglia quello dell’agrario contro la « lega ». A
Ostiglia, centro importante della provincia,
esiste una fiorente cooperativa di consumo,
istallata in una delle più belle case
della cittadina, con un caffè, che è il più
frequentato di tutti. La direzione del Fascio
interviene e prende la decisione seguente: «
L’Amministrazione della Cooperativa è invitata a
liquidare il suo patrimonio, a vendere i suoi
immobili entro la fine del mese di maggio,
avendo gli esercenti il diritto di esercitare il loro

249
mestiere senza sentirsi danneggiati dalla
Cooperativa ». L’amministrazione
della cooperativa ottiene, a gran pena, una
proroga di un mese ma, a fine giugno, deve
eseguire il decreto del Fascio 99.
Una lunga tradizione di propaganda del
socialismo « evangelico » di Camillo
Prampolini100 e le sue ammirevoli realizzazioni
non salvano punto Reggio Emilia e la sua
provincia dalla tormenta fascista. A Reggio, il
municipio socialista ha organizzato, con un
successo indiscutibile e a vantaggio della
popolazione, i servizi farmaceutici, la
distribuzione del latte e della carne, la
produzione del pane; gestisce o controlla
numerosi spacci di generi alimentari, ristoranti,
un mulino. Nella provincia, le cooperative
agricole coltivano 2227 ettàri di terra; 86
cooperative di consumo riuniscono, nel 1920,
16.800 membri e la cifra d’affari supera i 53
milioni di lire. È un nuovo sistema sociale di
produzione e di distribuzione che si urta alla
coalizione di tutti gli interessi particolari
che vengono lesi. Á partire dalla metà di marzo,
precisa ancora Chiurco, « cominciano a sorgere
i Fasci e a decadere, invase e devastate, le
organizzazioni rosse ». La Camera del lavoro di
Reggio è incendiata l’8 aprile. Verso la metà di
maggio un gran numero di leghe -e di Uffici
sindacali di collocamento hanno già subito la
stessa sorte; 16 amministrazioni socialiste, fra
cui quella del capoluogo, hanno dovuto dare le
dimissioni; centinaia di lavoratori sono stati
selvaggiamente picchiati, diecine di

250
organizzatori e di consiglieri socialisti sono stati
banditi dalla provincia ad opera dei Fasci101. In
aprile vengono incendiate, in provincia di
Parma, fra l’altro, le Case del popolo di
Salsomaggiore e di Borgo San Donnino. Nella
stessa città di Parma, dove la resistenza al
fascismo è molto viva, vien devastata la Casa del
popolo dell’Unione sindacale. Il 19 aprile dei
colpi d’arma da fuoco sono scambiati dalle due
parti; il mattino seguente, lo sciopero generale è
proclamato e la polizia si dà da fare per
arrestare un gran numero di « sovversivi » e per
portar loro via le armi di cui dispongono per la
difesa delle loro organizzazioni. I fascisti
pensano così di avere via libera e passano
all’attacco. Ma i lavoratori si difendono;
impegnano « una vera battaglia in Borgo
Naviglio con lancio di pietre e tegole dai tetti;
intervengono le autoblinde, scoppiano le
bombe, si hanno vari feriti ». Il giorno seguente,
nuova battaglia della polizia per arrestare e
disarmare quelli che hanno tentato di opporsi
all’attacco fascista 102. Il 23 aprile, in occasione
dell’inaugurazione del Fascio, una squadra
di ex-legionari fiumani — dei carabinieri la
precedono rivoltella in pugno — attacca e
saccheggia, a Piacenza, la Cooperativa vinicola
103. Così, in poche settimane, tutte le città che si

susseguono sull’antica via Emilia, da Bologna a


Piacenza, subiscono l’invasione fascista e sono
sottoposte ad un regime di terrore.
Solidamente installato nel triangolo Bologna-
Ferrara-Piacenza, lo squadrismo fascista
raggiunge nello stesso tempo, a nord-est la

251
provincia di Rovigo, a nord-ovest quella di Pavia.
Nella provincia di Rovigo — il Polesine — non vi
è nessuna forma di « bolscevismo » da
sopprimere. I conflitti sociali hanno sempre
avuto uno sviluppo pacifico104. Il capo dei
socialisti di questa zona è Giacomo Matteotti,
riformista — nel miglior senso della parola
— per convinzione e per passione. Il 28 febbraio
1921 scade l’antico concordato agricolo. Le
organizzazioni operaie propongono di iniziare i
negoziati per il nuovo concordato. Gli agrari,
che si sono accorti qual vento soffi dalla
vallata del Po e sovrattutto da Ferrara, si
rifiutano e vogliono profittare della situazione
per sbarazzarsi delle « leghe », degli uffici di
collocamento, dell’organizzazione operaia come
tale. Le « spedizioni », che non hanno niente da
« punire », se non l’esistenza stessa di una
massa di lavoratori uscita dall’ignoranza e dalla
servitù, si moltiplicano a partire dalla fine di
febbraio e raggiungono immediatamente un
grado inaudito di violenza. Matteotti e le
Camere del lavoro danno ai lavoratori la parola
d’ordine: « Restate nelle vostre case; non
rispondete alle provocazioni. Anche il silenzio,
anche la viltà sono talvolta eroici » 105.
Questo atteggiamento non disarma le squadre
fasciste, che percorrono la zona su camion
forniti dagli agrari o presi a prestito dalla
Commissione di requisizione dei cereali, i cui
servizi sono assicurati dalla autorità militare. Le
« leghe » sono chiuse o distrutte, le municipalità
socialiste devono dare le dimissioni: è il caso,
per esempio, di quella di Occhiobello — uno dei

252
primi paesi guadagnati dalla propaganda
socialista — che, nel marzo, deve rinunciare al
suo mandato: eppure essa era stata eletta, nel
novembre 1920, con 1100 voti contro 160 per le
altre liste. Questa rinuncia non preserva, del
resto, questo Comune da nuove spedizioni. Il 1°
maggio, la Camera del lavoro e la cooperativa vi
sono incendiate dai fascisti arrivati da ogni
parte in camion. « Cadono ogni giorno, nota
Chiurco, nuove Camere del lavoro e
organizzazioni. »106 Le squadre fasciste possono
essere fiere della loro opera: non una sola
organizzazione sindacale o cooperativa esiste o
funziona più; decine di morti; fra quattro e
cinque mila i feriti e i torturati; più di mille case
private invase, più di trecento saccheggiate,
incendiate. Gli agrari hanno partita vinta.
Giacomo Matteotti lo constata in un
nuovo discorso alla Camera: « Distrutta ogni
tessitura di vita civile, isolato ogni Comune
dall’altro, e ogni lavoratore dal suo vicino, la
lotta agraria è anche perduta; i contadini
chiedono a uno a uno il lavoro ai padroni, e la
Camera del lavoro di Rovigo 107, già invasa e
distrutta nelle cose materiali, si scioglie ai primi
del mese di aprile ».
Da Ferrara e dal Polesine, la marea monta nel
Veneto. Fra il febbraio e il maggio, le Camere
del lavoro di Vicenza, di Padova, di Belluno, di
Udine, capoluoghi di provincia, sono distrutte,
con molte altre dei centri meno importanti 108.
Le spedizioni prendono sempre più — qui
come dappertutto — il carattere di vere
operazioni militari: il 10 aprile ha luogo, per

253
esempio, una « spedizione punitiva in grande
stile » a Mossano (Vicenza). « Si concentrano
colà circa 400 fascisti in particolar modo di
Vicenza, Montegaldello, Poiana e Noventa, che
invadono da punti diversi e
contemporaneamente il paese, mettendolo a
ferro e a fuoco. Sette case vengono invase, tutte
le suppellettili e i mobili sono distrutti e
bruciati. A qualcuna viene appiccato il fuoco.
Numerosissime le bastonature inflitte. » 109 Il 24
aprile, altra « spedizione in grande stile » a
Poiana, sempre nella provincia di Vicenza. « I
fascisti, montati su camion, invadono il paese,
occupano la Cooperativa rossa e il teatro e
infliggono una severa punizione agli assessori e
consiglieri comunali socialisti, che vengono tutti
prelevati dalle rispettive abitazioni. I
carabinieri costringono poi i fascisti ad
allontanarsi. » Ma ritornano cinque giorni dopo:
« Il 29, arriva a Poiana un camion di fascisti di
Badia, i quali, dopo aver tagliati i fili
del telefono, possono operare indisturbati. Il
sindaco comunista è bastonato, la di lui casa
bruciata. È poi costretto a rassegnare le
dimissioni con tutta la Giunta ». Il 10 maggio, i
fascisti di Udine fanno una spedizione in
camion a Pordenone. Vi sono accolti a colpi di
revolver e di bombe. Uno di loro, uno studente
di 18 anni, ex-legionario fiumano, è ucciso, altri
sono feriti. « I fascisti, rinforzati da forti nuclei
di zone vicine, costringevano i sovversivi a
ritirarsi nel paese vicino di Torre, ove venivano
stretti d’assedio con mitragliatrici ed era
impiegato nell’azione anche un cannone.

254
S’impegnava una battaglia, nella quale
intervenivano a coadiuvare l’opera dei
fascisti anche le truppe del presidio di Udine e
veniva espugnata la rocca bolscevica. » L’azione
si allarga grazie alla partecicipazione di squadre
venute da Vittorio Veneto, dal Friuli, da Venezia,
da Trieste. «Continuava nei giorni successivi —
prosegue, — diretta da Giunta (capo del Fascio
di Trieste), l’opera di redenzione della zona, con
devastazioni di sedi rosse e nere, perquisizioni
ed arresti. »110 Attraverso queste province il
territorio dell’occupazione fascista si allarga,
all’est, alla Venezia Giulia, già conquistata 111 e,
ad ovest, alla regione di Trento e dell’Alto Adige
che cadranno solo poco prima della marcia
su Roma 112.
Posta tra l’Emilia e il Piemonte, la provincia di
Pavia è interamente agricola: il circondario di
Mortara — la Lomellina — fa parte di questa
zona di risaie e abbraccia tutta la parte piana
della provincia di Novara. Più intimo ancora —
se possibile — che nelle altre province
della Valle del Po, è qui il legame fra lo sviluppo
del fascismo e la lotta degli agrari contro i
sindacati « rossi » ed i loro uffici di
collocamento. In questo circondario, alle
elezioni del novembre, i socialisti hanno vinto in
45 Comuni su 50, e hanno avuto i 14 seggi del
Consiglio provinciale. A Mortara, già prima delle
elezioni, degli industriali, di cui due
multimilionari e grandi profittatori della
guerra, avevano ingaggiato delle squadre di
bravi armati, pagati quaranta lire al giorno, che
terrorizzavano la città. Nel febbraio 1921 il

255
Fascio sorse, soprattutto per iniziativa di
elementi venuti dal di fuori: un colonnello in
congedo, uno studente di Pavia, Lanfranconi,
che sarà uno dei primi deputati fascisti, ed altri
« declassati » di ogni specie, che gli industriali e
gli agrari accolgono a braccia aperte e ai quali
forniscono considerevoli mezzi finanziari.
Come nel Polesine, è proprio in quest’epoca che
sta per scadere il concordato di lavoro per i
salariati agricoli. Gli operai sono bene
organizzati, si appoggiano ad una fitta rete
di municipi, di leghe, di cooperative, e non v’è
nessuna speranza di vincerli sul terreno della
legalità. Le squadre fasciste si costituiscono
rapidamente e si mettono all’opera. Le autorità
le proteggono perché, ci rivela Chiurco, «
il sottoprefetto di Mortara, cav. David,
simpatizzava pei fascisti », e, nel circondario
vicino, quello di Voghera, « era sottoprefetto il
cav. Morelli, padre di un ardente fascista e
simpatizzante per i Fasci » 113. Tutti gli
agricoltori della zona sono tassati, i maggiori
quattro lire, gli altri due lire per pertica 114.
Tutti pagano, perché sanno bene che la vittoria
sulle organizzazioni operaie li ripagherà con
largo profitto. Qualche mese dopo, tutto il «
sistema » delle istituzioni operaie è interamente
distrutto 115.
Tuttavia, in nessuna parte d’Italia, forse, si è
arrivati a superare in violenza e in crudeltà
l’azione del fascismo nella gentil Toscana. In
questa regione, il proletariato agricolo è meno
numeroso che in Emilia (12,80%
della popolazione totale, invece del 23,20%); la

256
forma dominante di conduzione agricola è la
mezzadria, che occupa un poco più della metà
della popolazione rurale. Socialisti e popolari si
disputano l’influenza sui mezzadri, e l’offensiva
fascista, che tende a rinforzare i diritti dei
proprietari, se la prende tanto con le leghe «
bianche » quanto con quelle « rosse ». Una delle
prime « spedizioni punitive » in Toscana ha
luogo contro i coloni « bianchi » del Mugello: il
14 dicembre 1920, un contadino è ucciso a S.
Fiero « Sieve. Quattro esponenti fascisti,
denunciati per partecipazione all’assassinio,
sono interrogati e rilasciati: due tra essi, l’ex-
capitano Chiostri e l’ex-sottotenente Capanni,
figureranno come candidati dei Fasci sulla lista
del blocco nazionale e saranno tra gli eletti di
quella lista nel maggio 1921. L’azione fascista
ha il suo epicentro a Firenze, dove esplode
soprattutto a partire dalla fine di febbraio: il 27,
bomba su un corteo di fascisti, che uccidono
nella serata un capo comunista,
Lavagnini116; l’indomani, sciopero generale e
conflitti nel quartiere popolare di S. Frediano,
dove si alzano delle barricate. Un giovane
fascista, Berta, figlio di un industriale,
incontra un gruppo di manifestanti, che lo
pugnalano e lo gettano in Arno. Nei sobborghi
della città, gli operai alzano le barricate per
difendere le sedi delle loro organizzazioni. A
Scandicci, i carabinieri e i fascisti vengono
accolti a colpi di fucile e con le bombe; devono
indietreggiare e abbandonare il loro camion, che
viene incendiato. Ritornano all’attacco. « Sul
ponte della Greve la truppa incontrava le prime

257
barricate. Il Ronchi (capitano dei carabinieri)
ordinava — sotto la sua responsabilità e
iniziativa — il fuoco. Veniva messa in azione
l’artiglieria e le auto-blindate, e i colpi
sfondavano le barricate danneggiando il ponte.
La forza pubblica e i fascisti riuscivano così
a penetrare nell’abitato; vengono piazzati i
cannoni contro la sede sovversiva (Casa del
Popolo) che è così in parte demolita, e sono
abbattute altre barricate con lo stesso mezzo. »
A questo momento, i fascisti, che trovano la via
libera, « dànno l’assalto al Municipio, riportando
trionfalmente a Firenze armi e bandiere rosse ».
A Bagno a Ripoli, i bersaglieri sparano con le
mitragliatrici; a Ponte a Ema deve intervenire il
cannone; zuffe violente scoppiano in tutti i
sobborghi popolari. I soldati e i carabinieri che
rientrano dalle loro incursioni sono
acclamati dalla folla. In tutte le località, si
genera nei lavoratori uno stato d’animo fatto di
esasperazione e di terrore e, per queste due
ragioni, i fucili sparano da soli. Una psicosi
difensiva, quasi da bestia traccheggiata,
determina qua e là sussulti di una violenza
inaudita. Così, ad Empoli, vicino a Firenze, si
annunzia un arrivo di fascisti. Tutto il paese è in
armi, e, appena due camion si avvicinano alle
prime case, una raffica di colpi da fuoco li
investe; si tira su di essi da tutte le parti; gente
sui tetti fa cadere delle tegole, altri lanciano
dalle finestre dei vasi ed ogni sorta di proiettili.
Gli invasori erano semplicemente dei meccanici
di marina, vestiti in borghese, che andavano a
Firenze per rimpiazzare i ferrovieri in sciopero.

258
Un camion ne è incendiato, l’altro a gran pena si
salva; questo massacro, che costa otto morti ed
una diecina di feriti, provoca scene selvagge.
Poco dopo si attua una concentrazione di
squadre fasciste e di truppa. Il paese è invaso, la
Casa del popolo bruciata117. Due giorni dopo, il
4 marzo, a Siena, i fascisti attaccano la Casa del
popolo ove degli operai si sono trincerati. I
fascisti e i carabinieri li accerchiano: 200 uomini
di truppa sono con loro. Dopo qualche ora di
lotta, « piazzate le mitragliatrici in Piazza del
Monte dei Paschi e portati dalla fortezza di
Santa Barbara dei cannoncini da 65 che
sparavano contro l’edificio due colpi, per
ottenere la resa del covo comunista
(sic), questo, dopo un ultimo assalto, si
arrendeva, esponendo la bandiera bianca ». I
fascisti possono allora compiere la loro opera: la
Casa del popolo viene incendiata « con la
benzina fornita da volenterosi, tra i quali il cav.
Morelli del Consorzio Agrario » 118. La furia
distruggitrice del fascismo si allarga
rapidamente a tutta la regione,
grazie soprattutto alla collaborazione attiva dei
Fasci di Firenze, di Pisa e di Siena. Le Camere
del lavoro dei centri più importanti sono
incendiate: a Lucca il 31 marzo, ad Arezzo il 12
aprile, a Prato il 17 aprile, a Pisa il 2 maggio,
a Grosseto il 28 giugno 119. Le squadre fasciste
si organizzano anche per la conquista
dell’Umbria: fra il 22 marzo, giorno in cui la
Camera del lavoro e tutte le istituzioni operaie
di Perugia sono distrutte, e il 26 aprile, in cui è
la volta di Terni, questa regione passa

259
interamente sotto il controllo dei Fasci 120.
Nella campagna romana e nel Mezzogiorno,
l’offensiva fascista si sviluppa molto lentamente,
salvo nelle Puglie, dove le organizzazioni
operaie sono molto forti e dove l’attrito tra le
classi è assai acuto. Le Puglie costituiscono, nel
Mezzogiorno, un’eccezione: l’agricoltura vi ha
fatto dei progressi molto più sensibili che in
ogni altro luogo; vi si conosce la grande impresa
agricola industrializzata (grano, vino, olio), e la
sua contropartita, un proletariato rurale molto
numeroso. Come in Emilia, la questione
dei salari, del minimo di mano d’opera
impiegata per ettaro e degli uffici di
collocamento, è per i lavoratori una questione «
vitale » che provoca dei conflitti frequenti.
Non è a caso che le Puglie sono la sola regione
del Mezzogiorno

Le distruzioni fasciste nel primo semestre


1921

260

N. B. - Questo quadro non ha che un valore
molto approssimativo. I dati su cui è fondato
sono tratti dalla Storia della rivoluzione fascista
di Chiurco, storico ufficiale del partito e non
sono guari omogenei. Si parla, spesso, in
questa pubblicazione, della distruzione di « tutte
le organizzazioni rosse » d’una località o d’una
zona, senz’altro particolare. La distruzione di un
solo edifìcio — Casa del popolo, Camera del
lavoro — implica quella di tutte le
organizzazioni che vi avevano la loro sede, ma
non abbiamo potuto tenerne conto, se non per
Torino. Se si fossero potuti integrare questi dati

261
statistici per tutte le altre località e regioni, la
penultima colonna, quella dei sindacati operai,
sarebbe aumentata di parecchie decine d’unità.
Il totale delle organizzazioni d’ogni specie,
distrutte durante il primo semestre del 1921, è
indubbiamente superiore di qualche centinaia
d’unità a quello che abbiamo potuto ricostruire.
Anche l’inchiesta pubblicata agli inizi del 1922
dal Partito socialista fascismo - Inchiesta
socialista, Libr. Ed. Avanti, Milano, 1922) —
inchiesta che il Chiurco ha d’altronde
saccheggiato, senza citarla — è molto
incompleta, perché rinuncia spesso a proseguire
l’enumerazione delle violenze e delle distruzioni
fasciste, specialmente per la Venezia Giulia, le
province di Ferrara, Rovigo, ecc. Inoltre, come
lo spiega la prefazione di quell’Inchiesta, i
rapporti in essa utilizzati « non arrivano che al
maggio o al giugno dell’anno scorso (1921): e
ancora di quell’epoca manca tutta la Romagna,
la provincia di Modena, una gran parte della
Toscana, dell’Umbria, del Lazio, del Mantovano,
del Piacentino, del Parmense ». Il quadro non
tien conto delle semplici « spedizioni punitive »,
che ammontano per lo stesso periodo a
parecchie migliaia, né delle violenze individuali,
né delle semplici chiusure di locali, né delle
dimissioni forzose di amministrazioni
municipali, né delle distruzioni di case o di
magazzini privati, né dei bandi, né delle altre
forme di terrorismo. Sul numero relativamente
infimo di caduti e feriti fascisti nei conflitti del
1919-21, cfr. G. Salvemini, The fascist
Dictatorship in Italy, Londra, J. Cape, 1925, pp.

262
35-7, 102-7.


dove sorge subito un movimento fascista
analogo a quello che si è scatenato nella Valle
del Po. Questo movimento ha le stesse origini;
l’offensiva degli agrari persegue lo stesso scopo:
il ristabilimento dell’onnipotenza
padronale, impiega lo stesso metodo: la
distruzione delle organizzazioni operaie. Già
prima della guerra, i proprietari avevano al loro
soldo delle squadre di « bravi », dei
mazzieri incaricati di ridurre alla ragione i
lavoratori recalcitranti, ed anche di forzarli, il
giorno delle elezioni, a votare per il candidato
padronale. Queste squadre erano formate in
gran parte di gente che aveva avuto, o che
aveva ancora conti da regolare con la giustizia,
e a cui le nuove funzioni assicuravano
l’impunità, grazie alla collusione tra le autorità e
gli agrari, grandi elettori e artefici delle
maggioranze governative. L’appartenenza alla
squadra li copriva come il diritto di asilo nel
Medioevo.
Nel dopoguerra, lo sviluppo delle
organizzazioni operaie non permette un simile
metodo, se non applicato su scala ben più vasta,
con una migliore organizzazione e un miglior
armamento. I Fasci sorgono nelle Puglie
per realizzare la nuova formula; i pregiudicati
sono incorporati nelle squadre dei Fasci, dirette
da studenti, da ufficiali congedati, quasi tutti
figli di agrari o appartenenti a quella piccola
borghesia del Mezzogiorno molto povera,

263
affamata, avida di prestigio e di onori121.
L’azione fascista si attacca ai centri urbani
perché nelle Puglie i contadini vivono
agglomerati nelle città, da dove partono ogni
mattina per andare a lavorare nelle grandi
tenute, spesso distanti molti chilometri, e ove
rientrano ogni sera. Sulla piazza della città ogni
mattina l’agente del proprietario viene ad
ingaggiare i braccianti; in passato era lui che
imponeva il salario della giornata, mentre ora
deve subire il controllo, almeno parziale, della
Camera del lavoro locale. Distruggere la
Camera del lavoro, vuol dire colpire la
resistenza contadina al cuore, mortalmente.
Così quando il 22 febbraio, a Minervino Murge,
trenta fascisti entrano di sorpresa nella Camera
del lavoro e l’incendiano, e quando, l’indomani,
squadre fasciste si concentrano a Bari per
dare l’assalto alle sedi operaie, la reazione è
immediata e violenta. Quel giorno si teneva, a
Bari, il Congresso provinciale della Federazione
dei lavoratori della terra, il quale proclama lo
sciopero generale. I lavoratori sentono che
la miseria nera, la schiavitù dalla quale sono
appena usciti li guata di nuovo; fascista,
mazziere e agrario sono tutt’uno e, in questi
grossi borghi ove tutti si conoscono, nessuno
l’ignora. Il furore dei contadini si dirige
d’istinto contro le masserie dei proprietari
fascisti: gruppi armati percorrono la campagna
per incendiarle. Squadre di mazzieri a cavallo,
come nelle epoche più remote, li inseguono ed
una lotta feroce si impegna, che neppur la notte
può sospendere. I lavoratori esasperati uccidono

264
il bestiame, abbattono gli alberi, mentre i
fascisti dirigono i loro colpi soprattutto contro le
sedi delle organizzazioni « rosse ».
Una corrispondenza apparsa nel « Popolo
d’Italia » del 25 febbraio descrive così la
situazione:
Dopo i fatti di ieri sera l’eccitazione della massa dei
contadini è vivissima. Numerosi contadini si sono fermati in
città 122 senza che dai dirigenti della Camera del lavoro,
ormai distrutta dalle fiamme, sia stato proclamato lo
sciopero… Numerosi sono i gruppi dei fascisti e dei contadini
che si aggirano per le strade apparentemente calmi, ma
pronti a scagliarsi gli uni contro gli altri ai primi incidenti. Si
vive in un ambiente di tormentosa ansia e si teme da un
momento all’altro qualche cosa di grave. Comitive armate
battono le campagne per dare la caccia ai fascisti. Le
forze distaccate sono insufficienti a tutelare l’ordine in città.
È quindi impossibile ch’esse possano perlustrare le
campagne ove i contadini commettono numerosi atti di
rappresaglia. Squadre di fascisti armati si incontrano nelle
campagne, per verificare lo stato delle masserie attaccate
dai socialisti e per vendicare i parenti e gli amici.

E l’indomani:
A Minervino Murge, l’agitazione continua 123. La lotta è
aspra nelle campagne. A Terlizzi, questa notte, ad ora
imprecisata, veniva da ignoti appiccato il fuoco alla Camera
del lavoro. Notizie gravissime arrivano da Conversano, ove
pare si combatta nelle strade colle bombe a mano. A
Cerignola è stato proclamato lo sciopero generale in segno di
protesta per i fatti di Bari. I leghisti hanno incendiato la
masseria dei fascisti Caradonna124.

Ma la polizia, la truppa intervengono a fianco


dei fascisti, per facilitare il loro successo, o per
difenderli contro le rappresaglie dei contadini.
La lotta diviene rapidamente ineguale. Fra il
marzo e il maggio, delle Camere del lavoro di
Taranto, Bari, Corato, Andria, Barletta non

265
restano più che dei muri calcinati125. I Fasci
costituiscono i primi sindacati « economici », i
contratti di lavoro sono lacerati, gli agrari
intendono di nuovo imporre la loro volontà
nell’assunzione della mano d’opera agricola.
Hanno ormai nelle mani un’arma terribile per
arrivare alla distruzione dei sindacati liberi,
perché coloro che si ostinano a restarvi non
trovano più una sola ora di lavoro e sono
condannati — ora che l’emigrazione è divenuta
quasi impossibile — a morire di fame con le loro
famiglie 126.
Così, alla metà del 1921, la « occupazione »
fascista si estende a tutta la Venezia Giulia, a
una parte del Veneto, a tutta la vallata del Po,
salvo Cremona, Parma e le Romagne, ad una
grande parte della Toscana, dell’Umbria e delle
Puglie. Nel Piemonte, il contagio ha colpito
la provincia di Alessandria, soprattutto i
circondari di Casale e di Novi Ligure 127, e la
zona delle risaie nella provincia di Novara 128.
Restano all’ingrosso intatte le provincie di Como
e di Torino, ma, in questa città, il 25 aprile, i
fascisti hanno potuto occupare e incendiare la
grande Casa del popolo di corso Siccardi, sede
della Camera del lavoro e di tutte le istituzioni
operaie, senza che vi sia stata alcuna reazione
diretta. I comunisti che, dopo la
scissione, hanno nelle mani quasi la totalità
delle organizzazioni locali, e che avevano spesso
diffidato i fascisti dal toccare la Casa del popolo,
minacciandoli, essi e gli industriali che li
sovvenzionavano, della legge del taglione, non
hanno potuto fare altro che dichiarare, come

266
dappertutto in simili circostanze, uno sciopero
generale di protesta. Dopo ventiquattro ore, i
fascisti possono ritirarsi con tutti gli onori e il
prestigio di una vittoria clamorosa acquistata a
poco prezzo129. La Lombardia, eccettuate le
province di Pavia e di Mantova, è ancora quasi
completamente illesa. Nella sua capitale,
Milano, l’attentato del 23 marzo al Teatro Diana,
ove una macchina infernale, messa
dagli anarchici che volevano protestare contro
l’arresto di Malatesta, uccide diciotto persone e
ne ferisce un centinaio, suscita rappresaglie. I
fascisti attaccano non solamente il giornale
anarchico « Umanità Nuova », ma ne
approfittano per incendiare e distruggere la
nuova sede dell’« Avanti! », il quotidiano dei
socialisti per nulla implicati in quel fatto. Così la
nuova sede subisce, a due anni di distanza,
la stessa sorte della vecchia, alla quale gli Arditi
di Mussolini avevano appiccato il fuoco
nell’aprile 1919. Nelle Marche e nel resto
dell’Italia centrale e meridionale, il movimento
fascista non è che agli inizi. Come si può vedere
dal quadro ancora incompleto che abbiamo
tracciato, nel corso del primo semestre del
1921, i fascisti hanno distrutto in Italia 17
giornali e tipografie, 59 Case del popolo, 110
Camere del lavoro, 83 Leghe contadine, 151
Circoli socialisti, 151 Circoli di cultura. Quasi
tutte queste distruzioni si sono prodotte fra il
marzo e il maggio, e soprattutto nelle zone
rurali ove gli agrari prendono, grazie ai Fasci, la
loro rivincita sulle organizzazioni operaie. Un
giornale filofascista, il « Giornale d’Italia »,

267
esprime allora il carattere essenziale dell’azione
fascista, chiamandola « una Jacquerie borghese
» 130.
In tutte le regioni « invase », molteplici e
costanti complicità legano la forza pubblica ai
Fasci. A Trieste, il 9 febbraio 1921, i fascisti
attaccano il quotidiano « Il Lavoratore », e la
polizia interviene per arrestare i comunisti che
hanno tentato di difendere il loro giornale, la
loro tipografia 131. I fascisti di Siena, che
partono per una spedizione a Foiano della
Chiana, ricevono in partenza armi e munizioni
alla sede del distretto militare 132. In genere, ciò
si fa apertamente. Se le autorità militari non vi
si prestano, provvedono allora gli ufficiali
fascisti. Chiurco racconta che a Taranto, per
esempio, « sotto la responsabilità del fascista
Nicola Schiavone, sottotenente del 9° Fanteria,
si riesce a strappare alla Polveriera della
Caserma Rossarol una cassa di P. O. e dai
Magazzini di S. Paolo, dove l’ufficiale era agli
arresti di fortezza, 24 moschetti modello 91 »
133. La forza pubblica non fornisce solamente le

armi: partecipa spesso alle « spedizioni punitive


». A questo riguardo un volontario di guerra,
Mario Cavallari, racconta quanto avveniva in
provincia di Ferrara alla fine del marzo 1921:
I fascisti, nelle loro spedizioni, sono seguiti da camion di
carabinieri che cantano essi pure gli inni fascisti. In Porto
Maggiore, dopo un doloroso episodio nel quale resta ucciso
un fascista, una spedizione di oltre un migliaio di fascisti
sparge nella notte il terrore con ferimenti, incendi, lancio di
bombe, invasioni delle case, percosse brutali e tutto ciò sotto
gli occhi della forza pubblica. C’è di più: a mano a mano che
giungevano i camion carichi di fascisti, i carabinieri

268
bloccavano gli accessi al paese, chiedevano se fossero armati
e, ove non lo fossero, li rifornivano di armi e munizioni. Le
perquisizioni nelle case e gli arresti non venivamo fatti dai
carabinieri ma dagli stessi fascisti. Alla stazione di Ponte-
lagoscuro, per due giorni vi è un picchetto misto, formato
da carabinieri e da fascisti, col compito di perquisire quanti
scendono dai treni per lasciar passare quelli che risultano
fascisti e respingere gli altri134.

Le testimonianze in questo senso sono


innumerevoli. Ecco, a titolo d’esempio, quelle
che ci forniscono due squadristi. La prima è
tratta dalle memorie, scritte nel 1922, da uno
dei capi delle squadre di azione del Fascio di
Firenze, Umberto Banchelli: « Il fascismo,
bisogna bene confessarlo, dichiara, poteva
svilupparsi e avere il braccio semilibero, perché
in molti funzionari ed ufficiali della Benemerita
e di altre armi, esso trovava cuori ed
ideali italiani che vedevano con piacere correre
alla riscossa. Fra i gregari e i sottufficiali delle
stesse armi era poi una gara ad aiutare il Fascio
» 135. Ecco come si esprime uno studente
fascista, membro delle squadre d’azione, in
una specie di confessione pubblica da lui inviata
ad un giornale comunista. Questa lettera, scritta
un poco più tardi, caratterizza bene la
situazione qual’era all’inizio dell’offensiva
fascista. Mostra i pregiudizi, gli odi, gli
interessi, in ima parola, i motivi essenziali che
armano il braccio del capo fascista, quando
questi non è semplicemente un mercenario o un
bandito.
Con noi sono gli ufficiali dell’esercito che ci forniscono di
armi e munizioni. Siamo potentemente e intelligentemente
organizzati. Abbiamo tra le vostre file i nostri informatori,
onde è che noi possiamo regolare meglio la nostra azione,

269
senza gravi rischi… Vi facciamo disarmare dalla polizia
prima di venirvi incontro, non per paura di voi, che fate
compassione, ma perché il nostro sangue è prezioso e non va
sprecato contro l’abbietta e vile plebaglia.

L’autore della lettera prosegue esponendo le


sue concezioni sull’avvenire del paese:
L’Italia non può essere bolscevica. Essa non è un paese
industriale. Gli operai bisogna che si adattino a diventar
contadini. I vostri organizzati li metteremo a lavorare per lo
sfruttamento delle forze idrauliche e gli altri li manderemo ai
campi a coltivare le regioni paludose e malariche; e così,
mentre daranno ricchezza al paese, troveranno la doccia
contro i loro bollori rivoluzionari. È tempo, poi, che finisca
questo lusso dei contadini che mandano le loro figlie vestite
di seta, meglio delle più distinte signorine della borghesia.

Dopo aver sottolineato la mancanza di veri


capi nelle file socialiste, aggiunge: « Se aveste
un uomo veramente capace e fedele, non
tarderemmo a farlo imprigionare o (perché no?)
a sopprimerlo, giacché il fine giustifica i mezzi
». Questo studente figlio di agrari, è il
dirigente tipo di una squadra fascista 136.
È tempo di chiedersi: cosa fa il governo, lo
stato, di fronte a questa situazione? I funzionari
locali simpatizzano spesso con i Fasci o con i
loro potenti protettori. E a Roma Giolitti non
intende impegnarsi in alcuna azione seria,
poiché si propone di sciogliere il Parlamento e
di includere i fascisti nel blocco nazionale. I
socialisti alla Camera cominciano a presentare
degli ordini del giorno per domandare al
governo di fare rispettare la legge. Il 31 gennaio
1921, Matteotti svolge una mozione in
questo senso, la prima di una serie che
continuerà sino alla marcia su Roma 137. Giolitti

270
giudica tutto sul piano del negoziato, del
compromesso, del do ut des. Quale contropartita
possono offrirgli i socialisti? La partecipazione
al governo, la sola che conterebbe per lui, quella
che sollecita da lungo tempo, è più che mai
impossibile. I socialisti riformisti sono rimasti in
minoranza in seno al Partito socialista, anche
dopo il distacco dei comunisti. I massimalisti
continuano a dominarvi, e sono sovrattutto
preoccupati di coprirsi sulla sinistra contro gli
attacchi dei comunisti, che li incalzano con una
polemica astiosa, con una concorrenza
demagogica: la sorte del popolo italiano non
pesa gran che sulle loro bilance.
I rapporti di forza divengono fatalmente
sfavorevoli al movimento operaio e socialista, il
quale, paralizzato dalla sua crisi interna, che la
scissione di Livorno ha aggravato, deve lottare
nello stesso tempo contro l’esercito fascista,
contro una borghesia industriale e specie
agraria decisa a prendere la sua rivincita, e
contro lo stato, i cui organi periferici
concorrono, o con la loro passività davanti ai
crimini, o, più spesso, con un aiuto attivo, al
successo dell’azione fascista. Se si osserva la
situazione nei suoi fattori reali, l’inferiorità nella
quale finisce per trovarsi la classe operaia in
Italia di fronte alla offensiva fascista non ha
niente d’inesplicabile, di misterioso e neppur
di inatteso. Del resto se, a questa epoca, nel
campo socialista si è ben lontani dall’essere
d’accordo sulle ragioni di tale debolezza, il
sentimento di essa si radica ormai, anche se non
lo confessano, in un certo numero di capi e in

271
una parte delle masse.
La rapidità e l’ampiezza del crollo del «
sistema » socialista, in regioni ove questo
sistema aveva basi antiche e solide, non si
spiega però interamente con le cause notate fino
ad ora. Bisogna aggiungervi ancora il carattere
militare dell’offensiva fascista, che le assicura,
fin dagli inizi, una superiorità indiscutibile,
poiché porta la lotta su di un piano, su cui
l’avversario, potente e superiore sotto tanti
riguardi, non ha alcuna seria preparazione.
L’offensiva fascista prende subito e con un
crescendo impressionante il carattere di una
guerra di movimento. All’inizio, la spedizione
contro una località non è quasi mai fatta dai
fascisti della stessa località, piccola minoranza
isolata ed esposta alle rappresaglie. È dal centro
più vicino che i camion arrivano, carichi di
persone assolutamente sconosciute nel paese.
Se i « rossi » sono forti, e se si teme che restino
ancora sul posto troppe armi, anche dopo
le razzie della polizia compiacente, si
concentrano forze armate sufficienti per
annientare l’avversario che
intendesse difendersi. Si distruggono i locali
delle organizzazioni, si liquidano le
amministrazioni comunali, si uccidono o
si esiliano i dirigenti: dopo di che il Fascio
locale, fino ad allora quasi inesistente,
s’ingrossa con L’adesione dei reazionari d’ogni
risma, e di coloro che prima avevano paura dei
socialisti, e che hanno ora paura dei fascisti. Per
la conquista dei grandi centri si mobilitano le
forze della provincia, si fa appello, se è

272
necessario, a quelle delle province vicine. Più
tardi l’offensiva si sviluppa in azioni di grande
ampiezza: le spedizioni divengono
interprovinciali e interregionali, e l’armata
fascista, di cui ogni « occupazione » estende il
reclutamento, si concentra, si sposta, e,
estremamente mobile, conquista l’una dopo
l’altra le fortezze nemiche.
Si creano così solidarietà attive tra località,
tra province, tra gruppi di provincie; vi è
scambio permanente di prestazioni,
collaborazione quasi automatica al primo
richiamo, qualora una di esse sia minacciata o
se si tratta di partire alla conquista di un centro
importante. Si costituiscono sempre più nelle
spedizioni dei binomi e dei trinomi di Fasci, che
prendono l’abitudine di operare insieme: Trieste
e Fiume; Bologna e Modena; Bologna, Modena e
Ferrara; Brescia e Verona; Verona e
Mantova; Firenze, Pisa e Siena; Casale,
Alessandria e Mortara. Se si tratta di
conquistare Grosseto, dove il Fascio è
impotente, si comincia coll’inviare da Firenze
quattro fascisti ben allenati, per incoraggiare e
guidare i fascisti locali. Dopo si prepara la
spedizione: il segretario del Fascio di Siena 138 «
ordina che due auto vadano a portare l’ordine di
mobilitazione ai Fasci limitrofi alla linea Siena-
Chiusi, pronti per una concentrazione su
Grosseto ». I lavoratori di questa città si
appostano nelle campagne
circostanti attendendo i fascisti. Quando questi
arrivano, la loro prima automobile è fermata, si
viene alle mani ed essi devono fare marcia

273
indietro lasciando un morto sul terreno. Altre
squadre arrivano nel frattempo, e si accampano
intorno alla città, ancora inaccessibile. Dei
rinforzi giungono d’ogni parte, fin da Firenze e
da Perugia, distanti almeno cento chilometri. Le
porte della città sono forzate nella notte:
Grosseto, ove i fascisti eran quasi ignoti,
è occupata e passa essa pure sotto il loro
controllo 139. Quando i fascisti di Milano
vogliono fare una spedizione a Greco Milanese,
centro comunista alla periferia della città,
chiedono aiuto ai Fasci dell’Emilia e della
Toscana, che inviano numerose squadre. Questi
aiuti molteplici formano la valanga e, allargando
il campo di azione, permettono di raggiungere
degli obiettivi assai distanti e di sommergere
intere regioni. Come l’occupazione fascista può,
fra il marzo e l’aprile 1921, guadagnare tutta
l’Umbria? Le ondate partite da Firenze, Arezzo,
Siena investono Perugia; rinforzate dall’apporto
di Perugia, si lanciano su Foligno, Todi e
Umbertide; da Perugia, Foligno, Todi,
Umbertide, Assisi, Spoleto, raggiungono l’ultimo
centro della resistenza socialista: Terni. Tutto
ciò in poche settimane 140. I Fasci hanno grandi
possibilità, sia di concentrazione che di
espansione. Quando si inaugura un
Fascio, soprattutto in una località che non è
ancora stata conquistata, dei rappresentanti di
numerosi altri Fasci, a volte molto distanti,
vengono ad assistere alla cerimonia,
che provoca spesso alla sua volta incidenti e «
spedizioni »: allorché si inaugura il Fascio di
Casale Monferrato, per esempio, sono presenti

274
le delegazioni dei Fasci di Torino, Biella,
Vercelli, Milano, Genova. Quanto
all’irraggiamento dell’azione, il Fascio di Pisa
organizza delle spedizioni punitive che toccano
un centinaio di località della Toscana, fra le
quali alcune molto lontane. Il Fascio di Parma
invia i suoi uomini a Reggio Emilia, Ferrara,
Modena, Milano, Spezia, in diversi centri della
Toscana, e fino a Trieste e a Fiume. Anche i
Fasci dei piccoli centri hanno grande mobilità
ed iniziativa. Per dare un esempio tra centinaia,
il Fascio di Poggio Rusco (Mantova), in
più dell’azione che spiega sul territorio della sua
provincia, partecipa alle spedizioni di
Crevalcuore (Bologna), Pozzolengo, Desenzano e
Rivoltella (Brescia), Peschiera e Nogara
(Verona), ed ancora a quelle di Bologna e di
Verona del maggio 1921; più tardi si spingerà
fino a Parma, Bolzona, Trento141. Un
piccolissimo Fascio della provincia di Mantova,
riportiamo da Chiurco, « fu attivo in
spedizioni innumerevoli di cui è indice sicuro la
somma di 300.000 lire di benzina spese per
rifornimento di automezzi » 142.
Invece non vi sono quasi esempi di attacchi
socialisti contro le sedi dei Fasci, o di
antifascisti che siano andati da una località ad
un’altra minacciata dagli squadristi. L’azione
socialista d’anteguerra e il successo socialista
del dopoguerra avevano creato in Italia —
all’epoca del telefono e della ferrovia — diverse
centinaia di piccole « repubbliche », di « oasi »
socialiste, senza comunicazioni tra loro, come
nel Medioevo, ma senza i bastioni che

275
difendevano allora le città. Il socialismo
risultava dalla somma di qualche migliaio di «
socialismi » locali. La mancanza di una
coscienza nazionale compiuta, il campanilismo
municipale hanno costituito un gravissimo
handicap per il socialismo italiano. Il fascismo si
adatta esso pure alle condizioni locali, per una
specie di mimetismo, ma ha sul movimento
operaio una immensa superiorità colle
sue possibilità di spostamento e di
concentrazione basate su una tattica militare. I
63 Comuni della provincia di Rovigo, la
provincia di Matteotti, tutti in mano dei
socialisti, sono occupati uno dopo l’altro, senza
che mai l’idea venga loro di unirsi per opporsi,
nel punto minacciato, alle forze superiori. Le
campane non hanno mai suonato, come
all’epoca della Grande Rivoluzione, per dare
l’allarme ai contadini: nella Valle del Po, la «
grande paura » non ha fatto che aggravare
l’isolamento. Trenta, cinquanta fascisti armati
sono, in ciascun paese, al momento in
cui arrivano, più forti dei lavoratori locali. I
fascisti sono quasi tutti degli Arditi e degli ex-
combattenti, guidati da ufficiali; sono spesso
trapiantati, come lo si è al fronte, e possono
vivere ovunque. I lavoratori, al contrario,
si agglomerano intorno alla loro Casa del
popolo, come altre volte le capanne dei
contadini attorno al castello: ma il castello
difendeva, sia pur angariandolo, il villaggio:
la Casa del popolo, invece, ha bisogno di essere
difesa. I lavoratori sono legati alla loro terra,
ove hanno, nel corso di lunghe lotte, realizzato

276
conquiste ammirevoli. Questa situazione lascia
al nemico tutte le superiorità: quella
della offensiva sulla difensiva, quella della
guerra di movimento sulla guerra di posizione.
Nella lotta tra il camion e la Casa del popolo, è il
primo che deve vincere e vincerà.
Vi sono ancora, da parte dei lavoratori, altre
inferiorità psicologiche, che impediscono loro di
organizzarsi anche per la difensiva, anche per la
« guerra di posizione ». Il popolo italiano non ha
né tradizioni rivoluzionarie, né passione per le
armi. Coloro che l’hanno contratta al fronte,
sono stati respinti nelle file fasciste. Il militante
operaio, per il solo fatto di tirar fuori la rivoltella
dalla sua tasca, si pone e si sente fuori della
legge. Si rammenti come il sentimento di essere
hors la loi abbia paralizzato anche i cannonieri
di Hanriot che si trovavano il 9 Termidoro alla
porta della Convenzione. Il fascista invece
si sente protetto, è sicuro dell’impunità, anche
quando uccide e incendia. Inoltre per il
lavoratore, la Casa del popolo, la Camera del
lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre
generazioni, tutto il loro « capitale », la
prova concreta del cammino compiuto dalla loro
classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato.
I lavoratori vi si sono affezionati, ed esitano, per
istinto, a servirsene come se si trattasse di un
semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in
fortezza, se si tiene alla casa. Così non si ritrova
nei lavoratori italiani alcunché di quella volontà
demoniaca degli ultimi difensori della Comune,
che frapponevano una barriera di fuoco tra essi

277
e i Versagliesi. Per i fascisti, la Casa del popolo
non è che un bersaglio. Quando le fiamme si
elevano da queste belle costruzioni, il cuore
degli operai è straziato, invaso da una cupa
disperazione, quasi paralizzato dall’orrore,
mentre gli assalitori alzano grida selvagge di
gioia 143. Di queste « oasi » di socialismo che
coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta
più, alla fine della guerra civile, che un cupo
deserto.
Se la resistenza operaia fosse stata
organizzata, avrebbe potuto ostacolare la
marcia del fascismo? Senza alcun dubbio,
questa resistenza avrebbe potuto mettere il
fascismo a dura prova: se, nel bilancio delle
spedizioni fasciste, si fossero iscritte ogni volta
forti perdite, i fascisti avrebbero rinunziato a
fare dell’assassinio uno sport, secondo la
formula di cui si valse Mussolini nell’aprile
1921 per definire certe imprese degli
squadristi144. Ma il fattore militare del successo
fascista è diventato decisivo nella misura in cui
la classe operaia, il movimento socialista hanno
perduto la partita sul terreno politico. Gli
avvenimenti che vanno dalla seconda metà del
1921 all’ottobre 1922 dimostrano ancor più
chiaramente che l’inferiorità militare della
classe operaia italiana è stata la conseguenza di
una inferiorità politica, dovuta all’atmosfera «
massimalista » nella quale essa era immersa.
L’azione fascista è stata, molto prima delle
grandi adunate, un’azione di squadre, di piccoli
gruppi, di quel genere d’azioni a cui gli Arditi si
erano allenati facendo il servizio di pattuglia al

278
fronte. Ora, il massimalismo italiano era un
massimalismo di folle amorfe, caotiche, senza
coesione di spirito né di prospettive. Tutti si
sentivano sicuri in seno alle grandi masse
percorse come da moti peristaltici, e bagnanti in
una specie di euforia giocosa, insolente e
facile. Era il formicaio alla mercè della legione.
D’altra parte, anche organizzata, la lotta non
poteva decidersi se non a Roma, e in vista del
potere. L’impotenza a tradursi sul piano politico
condannava fin dall’inizio l’azione armata della
classe operaia, anche se essa avesse potuto
organizzarsi, e se tale impotenza, a sua volta,
non le avesse impedito di organizzarsi.
Animato e trascinato dalla facilità relativa del
suo compito, potendo far giuocare la molla della
legalità e quella dell’illegalità, che i socialisti gli
abbandonano entrambe, il movimento fascista
prende, durante il primo trimestre del 1921, uno
sviluppo prodigioso, che non si arresterà più.
Nel mese di luglio 1920, i Fasci sono in numero
di 108, « costituiti o in via di costituzione
»145. Verso la metà di ottobre, qualche
settimana dopo l’occupazione delle fabbriche,
sono 190 146; alla fine dell’anno oltrepassano gli
800; raggiungono il migliaio nel febbraio 1921;
237 Fasci nuovi si costituirono nell’aprile, 197 in
maggio 147: in novembre, al congresso del
partito, se ne contano 2200 148. Nella classe
operaia, paralizzata dalla scissione politica e
dalla crisi economica, il regresso è evidente. Gli
industriali passano all’offensiva a Torino:
uno sciopero alla Fiat e alle officine Michelin è

279
spezzato 149; gli operai devono arrendersi senza
condizioni, e in queste officine, dove qualche
mese prima aveva sventolato la bandiera rossa e
dove tutto il movimento della mano d’opera era
controllato dalla Commissione operaia, i padroni
eliminano ora gli « insubordinati » 150. Giolitti
si frega le mani. Egli s’immagina che, liquidata
l’occupazione delle fabbriche, firmato il Trattato
di Rapallo, regolato l’affare di Fiume, soppresso
il prezzo politico del pane, può permettersi di
dare una buona lezione ai socialisti e di sottrarsi
nello stesso tempo alla pressione eccessiva dei
popolari. Perciò scioglie la Camera 151, con la
speranza che le nuove elezioni ridurranno le
schiere parlamentari di questi due partiti. « Io
resto il padrone — pensa — e prendo poi i
socialisti nel governo. » Perché questa
operazione riesca, bisogna che i socialisti e i
popolari siano indeboliti nel paese e che il
terrore del fascismo li spinga ad accettare le sue
condizioni. Egli lascia dunque che il fascismo
infierisca, che la forza pubblica l’appoggi, che
il ministero della Guerra gli fornisca dei quadri
e che le autorità militari gli consegnino le armi.
Il suo ministro della Giustizia, Fera, massone,
spedisce una circolare alla magistratura per
invitarla a lasciar dormire le pratiche sugli atti
criminali dei fascisti. Le amministrazioni
socialiste, attaccate dai fascisti, sono disciolte
per decreto ministeriale « per ragioni di ordine
pubblico »: quella di Bologna il 2 aprile, quelle
di Modena, Ferrara, Perugia e centinaia di altre
poco dopo. I fascisti entrano nel
blocco nazionale e figurano sulle sue liste. La

280
loro azione terroristica è per ciò stesso «
legalizzata »: lo stato « liberale » compie così il
suo primo ed irreparabile gesto di suicidio. Da
questo punto di vista, Giolitti è stato, assai più
di Mussolini, il Giovan Battista del fascismo.
Socialisti, comunisti e popolari restano al di
fuori del blocco nazionale e, contrariamente alle
previsioni di Giolitti, la nuova Camera è ancor
meno maneggevole della prima. Le elezioni del
maggio 1921 non producono
grandi spostamenti. Il totale dei voti socialisti e
comunisti sorpassa — con i risultati delle nuove
province — di circa 20 mila i voti socialisti del
1919, l’annata « rossa », Il numero di votanti si
è accresciuto, in rapporto al 1919. di 700 mila
152 e la proporzione è passata dal 52 al 56% del

totale degli iscritti. I due partiti operai


mantengono, insieme, all’incirca le vecchie
posizioni, e non retrocedono che nella Valle del
Po, ove le elezioni si fanno in un’atmosfera di
terrore. Anche svolgendosi su scala ridotta, la «
campagna » elettorale dei partiti operai esige
una somma d’eroismo straordinaria. Nelle
regioni « occupate » dai fascisti, socialisti e
comunisti non possono quasi tenere delle
riunioni, soprattutto nelle campagne; i loro
giornali e i loro bollettini sono sequestrati
dovunque, anche agli uffici postali, e bruciati. I
militanti conosciuti devono allontanarsi dal
paese il giorno delle elezioni, o restare chiusi in
casa.
I vecchi quadri dei partiti operai non sono
intaccati, se non dove i fascisti impediscono
materialmente di votare. I popolari

281
progrediscono. I piccoli partiti, come succede
sempre in una situazione politica tesa, sono
spinti a destra e spariscono. Sui 700 mila nuovi
votanti, più d’un quinto son guadagnati dai
popolari, gli altri dal blocco nazionale. Lo
spostamento si riduce dunque a poco più di
mezzo milione di voti su sei milioni e mezzo
di votanti. Per i partiti operai, si tratta della
perdita di una ventina di mandati: 139 nel 1921
(123 socialisti e 16 comunisti), contro 156 nel
1919, e poiché il numero dei deputati è passato
alla Camera da 508 a 535, socialisti e comunisti
non rappresentano più che il 26% del totale dei
seggi, contro il 30% nel 1919 153. Tuttavia il
problema della maggioranza parlamentare non è
sensibilmente modificato: socialisti e popolari —
questi ultimi avendo guadagnato dei voti ed una
diecina di seggi — restano i due gruppi più forti.
La grande operazione concepita e tentata da
Giolitti è completamente fallita154. I fascisti ne
sono i veri profittatori. Mussolini è stato eletto
capolista a Milano ed a Bologna e la nuova
Camera conta un gruppo fascista di 35
membri155.
Ciononostante, la lotta è appena incominciata
e la decisione è ancor lontana. Un primo
spostamento a destra si è realizzato.
Profitteranno i partiti operai della
lezione? Nulla, per ora, lo lascia prevedere. I
socialisti si rallegrano della loro « vittoria » e P«
Avanti! » l’esalta a titoli di scatola: « I proletari
italiani hanno sommerso sotto una valanga di
schede rosse la reazione fascista »156. I
comunisti, ancor più accecati, hanno condotto la

282
loro campagna assai più contro i socialisti che
contro i fascisti, dando la parola d’ordine: « Le
elezioni del maggio 1921 devono essere il
processo del partito socialista »157. Mussolini,
in preda alla gioia insolente del suo trionfo,
sente che la sua ora si avvicina, quella che
attende fin dal 1914, l’ora della vendetta e del
potere.

Note al capitolo settimo

1 Cfr. per questa formula, più oltre, il Primo epilogo, n. 13.

2 In realtà il controllo sarà inghiottito dagli avvenimenti


insieme con le altre posizioni operaie e socialiste. La delegazione
operaia nella Commissione preparatoria presentò nell’ottobre
1920 due progetti, l’uno di Baldesi sul controllo sindacale e l’altro
di Buozzi sulle « norme per il controllo sull’osservanza dei
regolamenti e sull’assunzione e sul licenziamento del personale »;
la discussione diretta cogli industriali non avendo dato alcun
risultato, poiché le trattative furono rotte su entrambi i progetti,
la delegazione operaia presentò una propria relazione alla
presidenza del Consiglio (« Avanti! », 14 novembre). Giolitti fece
redigere dai propri servizi un decreto sul controllo (per categorie
d’industrie e non per fabbrica), che fu presentato poi al Consiglio
superiore dell’industria e a quello del lavoro nel gennaio 1921.
Ovunque la discussione riprese e i rappresentanti degli industriali
opposero obbiezioni pregiudiziali di principio: l’Associazione degli
industriali lombardi chiese che il progetto fosse « abbandonato o
respinto » (« Corriere della Sera », 23 febbraio). Il progetto
giunse nella prima settimana di marzo alla Camera, ove si arenò
definitivamente. Giolitti constata che esso « fu lasciato in disparte
» e che « neanche il Partito socialista ebbe più ad insistere per la
discussione » (Memorie della mia vita, II, p. 603); la C.G.L. dà
come spiegazione di questo abbandono… l’ostruzionismo
parlamentare contro l’aumento del pane, il quale avrebbe «
impedito al Gruppo parlamentare di battersi sulla questione del
controllo » (La C.G.L. nel sessennio, p. 105). Poiché i socialisti
rinunciano a condurre sul prezzo del pane contro Giolitti la

283
violenta lotta che avevano condotta contro Nitti (cfr. p. 102) la
ragione suddetta è priva di qualsiasi fondamento. In realtà la
posizione del controllo corrispondeva ad una fase offensiva ormai
superata, mentre nella Direzione del partito massimalisti e
comunisti, che la condannavano come troppo « riformista », si
coalizzano per liquidarla; nella discussione consacrata a questo
problema il 2 novembre Terracini presenta una mozione sul
controllo come « arma di propaganda rivoluzionaria tesa alla
conquista del potere da parte del proletariato » e Serrati dichiara
che il controllo può interessare « solo in quanto può mutarsi in
arma di sommovimento » (« Avanti! », 4 novembre 1920). Sui
progetti di controllo presentati alla fine del 1920 e agli inizi del
1921: Bureau International du Travail, Studi e Documenti, Serie
B., n. 7, 28 febbraio 1921: Le controle syndical sur l’industrie’, F.
MAGRI, La crisi industriale e il controllo operaio, pp. 280-327;
La C.G.L. nel sessennio ecc., pp. 99-105. Per le tesi comuniste sul
controllo: Il controllo operaio, articoli di P. Togliatti, Bukharin,
ecc., « Problemi della Rivoluzione», n. 4, Milano, Soc. Ed. Avanti,
1921; B.P.I., n. 154, pp. 17-19, n. 155, p. 6 [Italo Mario Sacco,
Storia del sindacalismo in Italia, Milano, I.S.P.I., 1942].
3 Lettera del 22 settembre 1920 a Filippo Crispolti, che la

riproduce in Pietro Gasparri intimo, in « La Stampa », 23


novembre 1934.
4 Don Sturzo si espresse in senso contrario all’atteggiamento

assunto, sotto l’influenza del cardinal Ferrari, dalla sezione


milanese del P.P.I. L’on. Cesare Nava, che aveva appoggiato la
coalizione, minacciò di dimettersi. « L’Osservatore Romano »
sconfessò il 18 febbraio don Sturzo, dichiarando che i « consigli
del cardinal Ferrari avevano l’approvazione del Vaticano» (B.P.I.,
n. 155, p. 6).
5 Intervento di Mussolini all’assemblea del Fascio di Milano, «

Popolo d’Italia », 17 ottobre; suo articolo del 7 novembre: Alle


urne! [Secondo Cesare Rossi, Mussolini com’era, pp. 92-4,
Mussolini, prima favorevole all’astensione, si decise all’ultimo
momento ad appoggiare la lista del blocco].
6 L. Sturzo, L’Italie et le fascisme, p. 47: « Il colpo di mano

di D’Annunzio su Fiume fu il punto di partenza della


disgregazione dell’autorità politica »; L. Salvatorelli,
Nazionalfascismo, Torino, Gobetti, 1923, pp. 51-5: Anarchia
statale, P. Nenni, Storia di quattro anni, p. 37: « L’impresa
fiumana accelerò la disgregazione e il discredito dello Stato »,
ecc.
7 Emilio Lussu, che l’aveva attinto a buona fonte, racconta ad

284
Alceste de Ambris: « Giolitti aveva preparato il bombardamento di
Fiume nel più gran segreto. Neppure i suoi colleghi del ministero
ne sapevano nulla, ivi compreso Bonomi, che pure era ministro
della Guerra. Però alla vigilia del giorno fissato da lui e dallo
Stato Maggiore per l’inizio delle operazioni, Giolitti sentì il dovere
di riunire i ministri, per metterli al corrente della decisione e
averne l’approvazione. Tutti i ministri, difatti, approvarono
quanto Giolitti aveva predisposto, ma alcuni manifestarono
qualche ansia per le difficoltà interne che potevano sorgere. ”
Che cosa faranno i fascisti? ”. ” I fascisti — disse con tranquilla
voce Giolitti — non si muoveranno ” Ma Mussolini?… ”. Il vecchio
ascoltava con viso impassibile, appena mosso da una lieve smorfia
sardonica. Non rispose parola quando fu fatto il nome di
Mussolini ma con un gesto di muta eloquenza sollevò una busta,
strofinandola lentamente fra l’indice e il pollice della destra, bene
in vista dei colleghi. Questi capirono il latino e ogni
preoccupazione scomparve. Mussolini aveva intascato la
bustarella. Per conto suo si poteva bombardare Fiume
tranquillamente », A. De Ambris, Mussolini, la leggenda e l’uomo,
Marsiglia, E.S.I.L., 1931, pp. 36-7 [Opinione contraria in C. Rossi,
Mussolini com’era, p. 228]. .
8 Sul Trattato di Rapallo: G. Giolitti, Memorie della mia vita, II,

571-8 e V. Bruzzolesi, Giolitti, pp. 153-76; G. de Benedetti, La


pace di Fiume, v. testo del Trattato a pp. 71-89; Luigi Federzoni,
Il Trattato di Rapallo, con un’appendice di documenti, Bologna,
Zanichelli, 1921; Massimo Rocca, Il Trattato di Rapallo, Milano,
1921; Carlo Sforza, Pensiero e azione di una politica estera
italiana, e Bari, Laterza, 1924; G. Salvemini, Dal Patto di Londra
alla Pace di Roma, e specialmente il suo discorso del 24 novembre
1920 alla Camera, pp. 323-52 e la risposta di Federzoni del 26
novembre in: Presagi alla Nazione, pp. 177-213; B.P.I., n. 150, pp.
1-5, n. 151, pp. 1-4. Un libro verde sulle trattative sarà pubblicato
a Roma nel luglio 1921 [E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, pp. 198-
203, 215 s.].
9 Cfr. p. 49.

10 È la strada in cui ha sede il « Popolo d’Italia » a Milano.


11 « Popolo d’Italia », 16 settembre 1920.

12 Mussolini conta, a questo riguardo, sulla scissione socialista,


ormai imminente, dopo la quale il Governo dovrà indire le elezioni
generali: « Può determinarsi solo così, egli scrive, il fatto nuovo
che conduca al potere quelli che saranno gli ” epurati ” del
prossimo congresso socialista. Il grido: Al potere! lanciato così
spesso in questi ultimi tempi da Claudio Treves potrà diventare

285
realtà attraverso alla successione degli eventi che abbiamo
prospettato » (« Popolo d’Italia », 3 ottobre 1940). n Nella
relazione Pasella al 3° Congresso fascista di Roma si dichiara:
« Ci tenemmo sempre a disposizione del Comandante e
nell’estate 1920 fu inviato a D’Annunzio, a mezzo di un incaricato
speciale del Comitato Centrale, un importante documento steso
da Mussolini ed approvato alla unanimità dal Comitato Esecutivo
» (« Popolo d’Italia », 8 novembre 1921; Chiurco, III, 582). Si
trattava di un progetto di marcia da Fiume su Roma (Chiurco, V,
5-8). Sull’esistenza di questo piano non può «sservi dubbio
[specie dopo la testimonianza di C. Rossi, Mussolini qual era, pp.
224-5]. Quando fu esso inviato? Nell’estate 1920, dice la relazione
Pasella. Ora, nell’estate 1920 Mussolini era andato a Fiume e vi
aveva visto D’Annunzio; rientrato, egli aveva pubblicamente
espresso al Fascio di Trieste parere sfavorevole all’impresa,
destinata ad arenarsi, anche in caso di successo iniziale (Cap. IV,
n. 24). Mussolini non credeva assolutamente alla possibilità di
una marcia su Roma, come affermerà pochi mesi dopo nel suo
discorso di Trieste (cfr. p. 230). D’altro lato, il « documento » fu
certamente spedito. Gioverebbe conoscerne il testo, ma anche
senza di esso v’è una spiegazione plausibile. D’Annunzio pesta da
Fiume contro le trattative italo-jugoslave e preme su Mussolini, il
quale è nel frattempo entrato in relazione con Lusignoli, e cioè
con Giolitti. Per uscire da questo ginepraio, in cui l’han spinto e la
complessità della situazione e le sue nuove ambizioni governative,
egli redige un piano « preciso e completo » (Chiurco, V, 6) e lo
manda a D’Annunzio. Ma, come provano le testimonianze di
Mazzuccato, (Cap. IV, n. 24), egli stesso ha sconsigliato a più
riprese al Fascio di Trieste, su cui aveva una grande influenza, ad
impegnarsi nell’avventura, la quale non era possibile
precisamente che col suo concorso. Sicché il gesto di Mussolini
era destinato a cader nel vuoto, come cadde. [I dati precisi riferiti
da Cesare Rossi nel libro citato concorrono a questa
interpretazione. Il documento di Mussolini fu inviato non
nell’estate 1920, nu
« ad autunno inoltrato » e « con tutti i particolari del caso ». La
marcia doveva « battere bandiera repubblicana » e i membri di
casa Savoia dovevano essere trattati con riguardo, ma « internati
in un’isola ». Ciò solo basta a sottolineare il carattere puramente
tattico e quasi provocatorio del documento, che lasciava a
D’Annunzio l’intera responsabilità dell’impresa, dopo averne
accentuate le condizioni che la rendevano più che mai
inattuabile.] Che D’Annunzio avesse già ricevuto o no il progetto
Mussolini, è certo che nell’ ottobre 1920 egli invitò a Fiume

286
Mussolini, il quale, dopo aver accettato il colloquio « si sottrasse
all’ultima ora alla promessa già fatta, recandosi a Roma anziché a
Fiume » (A. De Ambris, Mussolini, p. 34). Ai primi di ottobre
D’Annunzio doveva aver concepito qualche speranza
nell’appoggio da parte dei Fasci, poiché il 5 di quel mese riempie
la scheda d’adesione al Fascio fiumano di combattimento
(riprodotta in Chiurco, III, 212). Mussolini, rifiutò poi,
nel dicembre, mentre il blocco si stringeva intorno alla città, l’atto
di solidarietà atteso, il gesto energico di difesa che D’Annunzio gli
aveva fatto chiedere per mezzo di un emissario (ivi, pp. 34-5).
Vedi anche la nota 24.
14 « Popolo d’Italia », 1o settembre 1920: Un documento di

vita e di storia: Gli « Statuti » della Reggenza del Carnaro. Questi


statuti, letti da D’Annunzio la sera del 30 agosto, furono
pubblicati nel « Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia
» (n. 31, 1° settembre) e in ornata edizione presso la Fronda
(Roma, 1920). Alla « Mostra della Rivoluzione » del 1932 han
figurato i 113 fogli della Carta del Carnaro, scritti a matita e
indirizzati a Senatore Borletti il 24 agosto 1920, cfr. P.N.F. -
Mostra della Rivoluzione Fascista, Bergamo, Istituto d’Arti
Grafiche, 1933, p. 147 [E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, pp. 185-
8.]. Alceste de Ambris « illustra » in un discorso del 9 settembre «
il nuovo ordinamento costituzionale della Reggenza » proclamata
lo stesso giorno (« Vedetta d’Italia », 10 settembre).
15 Cfr. p. 79 e Cap. IV, n. 14, Giolitti parla di un tentativo di
Millo per dissuadere D’Annunzio dall’agire in Dalmazia (Memorie
della mia vita, II, p. 584). Mussolini giustificherà il suo
atteggiamento del dicembre, tra l’altro, colla « defezione di Millo
» (p. 230). [D’Annunzio tratterà pubblicamente l’ammiraglio di «
spergiuro »: L. Gasparotto, Diario di un deputato, pp. 149-50 e E.
Caviglia, Il conflitto di Fiume, p. 249.]
16 I rapporti tra D’Annunzio e la popolazione fiumana erano

diventati cattivi. Il Comandante e i suoi collaboratori esercitano


sulla città una dittatura assoluta; l’ambiente morale è poco
buono; vedi a questo riguardo il coraggioso discorso di Salvemini
alla Camera nella seduta del 7 ottobre. [E il rapporto scritto più
tardi dal generale Sante Ceccherini, in E. Caviglia, Il conflitto di
Fiume, pp. 204-11.]
17 [« Esisteva in Italia un’organizzazione socialista della gente

di mare, guidata da un abile intraprendente romagnolo (Giulietti).


Egli era riuscito a farsi una buona posizione economica e politica,
rivendicando al personale dei piroscafi paghe e trattamenti
possibili solo durante la guerra e subito dopo, quando i noli erano

287
altissimi. Non aveva convinzioni profonde. Contribuiva a demolire
l’autorità dello Stato, ed intanto poteva appagare le sue ambizioni
e le sue passioni. Sebbene antinazionalista era in relazione con il
movimento dannunziano, perché sovversivo, e consentiva ad
organizzare la cattura delle navi mercantili in navigazione per
farle tradurre a Fiume. Il piroscafo da catturare era comandato
da ufficiali comprati allo scopo o comunque consenzienti.
Imbarcavano nel porto di partenza alcuni emissari armati, e dopo
una commedia di aggressione con pistole alla mano, il capitano,
protestando, cambiava rotta e si dirigeva a Fiume. Così avvenne
la cattura del piroscafo ” Cogne ” il 5 settembre 1920, e questo
incidente contribuì a preparare ¡’epilogo », E. Caviglia, Il conflitto
di Fiume, pp. 188-9. E cfr. pp. 189-91, 245, le vicende delle
pratiche pel riscatto del piroscafo e della merce, condotte da
Senatore Borletti]. Cfr. Cap. IV, p. 77.
18 Cfr. p. 145.

19 In un comunicato del 12 il « Governo della Reggenza »

dichiara « di non riconoscere né oggi né mai qualsiasi accordo fra


gli Stati finitimi concluso in pregiudizio di quel pegno che non
può essere ritolto al vincitore dal vinto »; il mattino del giorno
seguente ha luogo l’occupazione delle isole di Veglia e di Arbe e
della zona Nord del « Corpus separatum » [E. Caviglia, Il conflitto
di Fiume, pp. 225-8, 244-5].
20 Il cacciatorpediniere Bronzetti e la torpediniera 68 P. N.

entrano nel porto di Fiume il 6 novembre; il cacciatorpediniere


Espero il 9 novembre.
21 Il blocco è proclamato a partire dalle ore 18 del 21
dicembre. Lo stesso giorno D’Annunzio ordina: « Articolo unico:
In tutto il territorio terrestre e insulare della Reggenza Italiana
del Carnaro è proclamato lo stato di guerra a partire dalla
mezzanotte ».
22 Proclama agli italiani del 26 dicembre 1920.

23 Sugli ultimi mesi dell’impresa fiumana: Giolitti, Memorie


della mia vita, II, pp. 581-7; Chiurco, II, pp. 199-204; pp. 218-65 e
III, pp. 9-15; G. Moscati, Le Cinque Giornate di Fiume, Milano,
Ed. Carnaro,1929; A. de Ambris, Dalla frode al fratricidio,
Novembre-Dicembre 1920, Roma, La Fronda, 1921; M. Risolo, Il
problema in Venezia Giulia, pp. 173-81, pp. 191-9; Corrado Zoli,
Le giornate di Fiume, Bologna, Zanichelli, 1921; A. Giuliotti, «
Disobbedisco! », La Spezia, Tip. Moderna, 1933; B.P.I., n. 152,
pp. 8-11, n. 153, pp. 1-8 [E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, Milano,
Garzanti, 1948].

288
24 Mussolini fu in fondo estraneo ai vari progetti di marcia su

Roma che furono ventilati verso la fine del 1920, poco prima o
poco dopo la firma del Trattato di Rapallo. Uno di essi è
denunziato in un manifesto lanciato dalle organizzazioni politiche
e sindacali di sinistra, che parla della « congiura militare dei
D’Annunzio, Giardino e De Giorgis » per impedire l’accordo colla
Jugoslavia (« Avanti! », 22 ottobre). Il giorno seguente lo stesso
giornale dà i seguenti particolari: « Per arrivare al loro scopo in
questi quaranta giorni hanno predisposto un piano preciso di
combattimento: Zara, Fiume, Pola, Trieste dovrebbero formare il
quartier generale: con gli arditi, con le truppe regolari
accantonate nella Venezia Giulia, con la marina, contano di
disporre di circa centomila uomini. Contemporaneamente
un’azione fascista in grande stile dovrebbe concentrarsi a Milano,
Bologna e Roma. Con tale mossa, confidano di ottenere l’adesione
del re per la formazione di un Ministero Giardino
D’Annunzio-Thaon di Revel, oppure di giungere anche alla
proclamazione di una Repubblica democratica con programma di
riforme arditissime tanto per infinocchiare il paese. Il lavorio
ferve: ingaggiamento di arditi, diffusione di danaro nella regia
guardia, in parte già conquistata, almeno nei suoi capi, alla
causa… Il colpo dovrebbe scoppiare quando giungesse notizia di
una conclusione con i jugoslavi, o anche prima, a
momento opportuno. A Roma l’altro ieri ne dava il segnale
Federami con il suo discorso all’Augusteo ». Sulla stampa di quei
giorni circolano altri nomi, come quelli di Badoglio e di Millo;
Giardino e Caviglia smentiscono, quest’ultimo con particolare
energia (« Giornale d’Italia » e « Corriere della Sera » del 26) e il
26 Millo ha un colloquio con Giolitti. Da Fiume l’ufficio stampa
del Comando dichiara in un comunicato che D’Annunzio non ha
alcuna inclinazione per l’operetta e che d’altro lato « nessun
allarme dato a Trieste potrà impedire il Comandante di fare
ciò che la Storia gli detta ». È difficile di sceverare in questa ridda
di notizie e di « rivelazioni » la parte della realtà e
dell’immaginazione, i fatti concreti e la semplice velleità. A
montare il complotto furono certamente i nazionalisti, come rivelò
più tardi Alfredo Rocco; i loro piani però caddero nel vuoto: « La
conclusione degli accordi di Rapallo era imminente, dopo di che
le rinuncie sarebbero diventate irretrattabili. La vita sociale ed
economica era paralizzata e si veniva disfacendo. La
dittatura apparve, ancora, una necessità urgente. E il pensiero
corse all’unico centro fortemente organizzato di resistenza
nazionale che allora esistesse: Fiume. Un piano d’azione fu
minutamente discusso, nell’ottobre 1920, nel seno del Comitato

289
centrale dell’Associazione Nazionalista, riunito d’urgenza. L’«
Idea Nazionale » intensificò la sua campagna per la
dittatura. Roberto Forges Davanzati, consigliere delegato
dell’Associazione, per il collegamento e le decisioni, si recò più
volte a Fiume, dove, intanto, uno dei nostri, Corrado Zoli,
valoroso combattente e esperto di cose militari, assumeva
l’Ufficio di Sottosegretario di Stato. Il pellegrinaggio a Fiume si
intensificò; anch’io vi ritornai tra la fine di ottobre e i primi di
novembre. Anche allora tutto sembrava deciso, ma si
indugiò, perché Fiume era indissolubilmente legata al problema
adriatico, finché il Trattato di Rapallo veniva a creare
l’irreparabile e le giornate del Natale 1920 soffocavano nel
sangue ogni speranza di riscossa fiumana » (A. Rocco, Scritti e
discorsi politici, II, p. 742). Nelle giornate di dicembre un gruppo
di Arditi, riunito a Milano intorno a Mario Carli e al suo giornale «
Testa di Ferro » preparò d’accordo con alcuni anarchici (tra cui lo
studente Antonio Pietropaolo, implicato poi nell’attentato
del Diana) degli attentati terroristici, che la polizia sventò
arrestando tutti il 27, ciò che le fu tanto più facile ch’essa teneva
in mano, grazie ai suoi informatori, le fila della congiura (cfr. il «
Tempo » del 31 dicembre 1920 e nell’« Adunata dei refrattari »
del 29 luglio 1933 l’articolo di UGO FEDELI, A proposito
dell’attentato del Diana). In quegli stessi giorni ebbe luogo a
Roma una perquisizione presso Giovanni Preziosi, sospetto
d’aver partecipato ai progetti d’insurrezione in Italia («Popolo
d’Italia», 28 dicembre).
25 NINO DANIELE, Fiume bifronte, p. 24.

26 Discorso Italia e Vita del 24 ottobre 1919.

27 Questo aspetto del movimento fiumano è stato ricordato da


Dino Grandi in un articolo del « Popolo d’Italia » (3 aprile 1922):
« Il fiuminesimo ha per molto tempo rappresentato il centro
ideale di rivolta di tutto il popolo italiano contro la santa alleanza
di Versailles, la tragica e fiera protesta di tutte le Nazioni
proletarie d’Oriente e d’Occidente — Italia in prima linea —
contro il capitalismo franco-inglese, uscito dalla guerra tiranno e
padrone assoluto del mondo. I contatti, le intese, mai smentite,
tra D’Annunzio e i movimenti rivoluzionari delle Nazioni oppresse
d’Oriente, e gli stessi massimalisti russi dimostrano come
D’Annunzio avesse compreso fin dall’inizio che il problema
fiumano era qualcosa di più di una rivendicazione territoriale
dell’irredentismo adriatico ». Questo orientamento si accentuò ai
primi del 1920, coincidendo coll’assunzione di Alceste de Ambris
a capo-gabinetto e coll’istituzione a Fiume, il 12 gennaio, di un «
Ufficio estero », la cui direzione fu affidata al « filocomunista

290
belga », d’origine polacca, Leon Kochnitzky (v. di costui: La
Quinta Stagione e i Centauri di Fiume, Bologna, Zanichelli,
1922, spec. pp. 139 sgg.; cf. Nino Daniele, Fiume bifronte, p. 12).
I documenti di questa attività internazionale furono raccolti nel
maggio in un Libro violetto: COMMANDEMENT DI FIUME, Actes
et communiqués du Bureau des Relations Extérieures du 28
novembre 1919 au Ier mai 1920 (Fiume, 1920). Esso comprende,
tra l’altro, il sunto d’un discorso pronunciato da De Ambris il 16
gennaio al teatro « Fenice », ove la nuova politica è chiaramente
enunciata: Fiume non è sola; combattono con lei l’Irlanda, l’Egitto
oppressi dall’Inghilterra, l’America Latina spogliata dagli Stati
Uniti. Occorre lasciar cadere l’Occidente e volgeri verso Oriente,
dove Russia e Romania potranno « dare a Fiume e
all’Italia carbone, petrolio, e grano »; una lettera a Henri
Barbusse e al gruppo Clarté, invitati a venire a Fiume per
rendersi conto che Fiume « è la verità dei tempi nuovi », poiché
col suo diritto essa afferma quello dell’Irlanda, dell’Austria
tedesca, dell’Egitto e di tutto l’Islam, dell’India, della China, della
Repubblica dei Soviet in lotta contro Kolciak e Denikin;
l’annunzio, dei primi di febbraio, che il Comando di Fiume
s’è dichiarato « pronto a entrare in relazioni dirette col Governo
di Mosca » e che « tra breve queste relazioni saranno
normalmente stabilite e le conseguenze se ne faranno sentire »;
una lettera a Zaglùl Pascià in favore dell’indipendenza dell’Egitto;
una lettera al rappresentante della Turchia a Berna contro
l’occupazione degli Stretti da parte degli inglesi e pel ritorno di
Costantinopoli ai turchi; un messaggio all’Irlanda martire e,
infine, il manifesto del 27 aprile per la costituzione della « Lega di
Fiume » che deve raggruppare balcanici, tedeschi, ungheresi,
egiziani, ecc., raggruppando attorno « al vessillo di Fiume gli
oppressi del mondo intero » (cfr. su questa Lega le dichiarazioni
dello stesso D’Annunzio a un giornalista austriaco, riprodotte nel
« Popolo d’Italia del 17 aprile). [D’Annunzio creò a Parigi fin
dall’autunno 1919 una specie di delegazione diplomatica,
affidandola a Tom Antongini, coll’incarico di mantenere i rapporti
con i rappresentanti dei paesi suscettibili di aiutare politicamente
e materialmente l’impresa di Fiume; nel gennaio 1920 vi
mandò in missione Giovanni Giuriati. Cfr. Tom Antongini, Vita
segreta di Gabriele D’Annunzio, Milano, Mondadori, 1944, pp.
724-47: Intermezzo diplomatico.] I motivi della politica nazional-
rivoluzionaria di D’Annunzio son da lui riprodotti o rielaborati in:
Per l’Italia degli Italiani, Milano, Bottega di Poesia, 1923. [Talora
nazionalismo e « internazionalismo » si ricongiungono in
quest’attività di D’Annunzio, come quando egli cercò alleati
balcanici per provocare un’insurrezione in Jugoslavia, E..

291
Caviglia, Il conflitto di Fiume, pp. 189-90.]
28 Per Vitalia degli Italiani, p. 285, a proposito del colloquio del

giugno 1922 con Cicerin (cfr. pp. 302-3). In una corrispondenza


da Roma all*« Avanti! » (28 ottobre 1920) si afferma « senza tema
di smentita, che mesi or sono l’antibolscevico D’Annunzio
indirizzava a Cicerin, ministro degli Esteri per il governo dei
Soviet, un telegramma per chiedere al comunismo russo aiuti
materiali e morali. Il Governo russo non gli rispose ».
29 « Colla creazione dello Stato di Fiume D’Annunzio era
diventato un elemento fondamentale della politica estera
dell’Italia, ma si era eliminato dal giuoco della politica interna,
sulla quale egli non aveva più che un’influenza indiretta », C.
Malaparte, Technique du Coup d’État, Parigi, Grasset, 1931, pp.
233-5.
30 « Giolitti dopo l’occupazione delle fabbriche attendeva la

scissione socialista », C. Sforza, Les bâtisseurs de l’Europe


moderne, p. 242. [La scissione era già in atto nelle decisioni della
Direzione del P.S.I., riunitasi dal 28 settembre al 1° ottobre 1920,
in cui una maggioranza di sette (Gennari, Terracini, Regent,
Tuntar, Casucci, Marziale, Bellone) contro cinque (Serrati, Bara
tono, Giacomini, Zannerini, Barri) si era pronunciata per
l’accettazione senza riserve delle 21 condizioni di Mosca (B.P.I.,
n. 147, pp. 5-9). Testo delle 21 condizioni in Almanacco Socialista
1921, pp. 176-86; A. Malatesta, La crisi socialista, pp. 92-101; G.
Lazzeri, La scissione socialista, Milano, Modernissima, 1921, pp.
221-8].
31 Per le elezioni amministrative il P.S.I. aveva preso un
atteggiamento altrettanto « intransigente » e fanfarone che per le
elezioni politiche dell’anno prima. Nella circolare inviata alla
federazione e alle sezioni nell’agosto 1920 dalla Segreteria del
partito (testo in « Comunismo », 1920, n. 23, pp. 1576-80) si
richiama l’ordine del giorno votato « alla unanimità » dal
Consiglio nazionale di Milano dell’aprile precedente, il quale «
segna la linea politica della battaglia amministrativa ». A
redigere quell’ordine del giorno s’eran messi due professori, l’uno
di matematica, Gennari, l’altro, ahimè, di filosofìa, Adelchi
Baratono, e ne era uscito un testo verbosamente violento, che
proclamava: « I comuni non debbono essere conquistati che allo
scopo di impadronirsene e paralizzare tutti i poteri, tutti i
congegni dello Stato borghese, allo scopo di rendere più facile e
sicura, di accelerare la rivoluzione proletaria e lo stabilirsi della
dittatura del proletariato ». In realtà, i comuni conquistati dai
socialisti fecero della buona o cattiva gestione (più spesso buona

292
che cattiva) e niente più, salvo qualche gesto « simbolico » atto a
mettere un po’ di polvere rossa sull’ordinaria amministrazione.
Sui risultati delle elezioni amministrative della fine del 1920: U.
Giusti, Le correnti politiche italiane, pp. 29-37; 109-10;
Almanacco Socialista 1921, pp. 361-3.
32 Nella relazione al Congresso confederale di Livorno si
legge: « Dopo quasi due anni dall’armistizio, dopo grandi scioperi
politici e economici, si deve constatare che non si è effettuato né
il programma minimo, né il programma intermedio, né il
programma massimo. Si è vissuto alla giornata; si è fatto quel che
si è potuto subendo piuttosto che dominando gli avvenimenti »
(La C.G.L. nel sessennio ecc., p. 116). La sola conquista — delle
otto ore — richiesta sin dal programma del 1917 e posta in primo
piano dal Congresso nazionale metallurgico del novembre 1918 —
fu realizzata agli inizi del 1919; essa tuttavia non ebbe sanzione
legale che nel marzo 1923.
33 Appendice I (A. Balabanoff).

34 « A un certo punto della nostra conversazione, racconta

Serrati, poiché non si vincevano facilmente le mie obbiezioni,


Lenin parve cambiar discorso e poi riprese sùbitamente: ”
Separatevi dalla frazione Turati e poi fate alleanza con essa ”. La
proposta mi fece sorridere (« Comunismo », 1921, n. 11, p. 599).
35 Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del
P.S.I., (Livorno gennaio 1921), Milano, Ed. Avanti, 1921;
Almanacco Socialista 1921, pp. 417-55. Il Congresso di Livorno
era stato preceduto dai convegni delle tre frazioni che vi si
affrontarono: quello della « Concentrazione socialista» a Reggio
Emilia (10-11 ottobre); quello dei «Comunisti unitari »
(massimalisti) a Firenze (20-21 novembre); quello dei
comunisti ad Imola (28-29 novembre). Cfr. B.P.I., n. 153, pp. 13-
14, n. 154, pp. 9-15.
36 « Avanti! », 20 ottobre 1920.

37 Appendice Vili (Modigliani). Vedi anche la relazione


presentata da Gino Baldesi a nome della frazione di
concentrazione al Congresso socialista di Livorno, su: Indirizzo
politico del Partito e rapporti colla Terza Internazionale, Milano,
Tip. E. Lazzari, 1921. Mussolini, che da qualche tempo ventilava
l’ipotesi di un ministero di coalizione (p. 146) non nasconde la sua
disillusione per l’esito del convegno di Reggio: « Appare chiaro
che la preoccupazione dell’unità ha sabotato i propositi di
sincerità. La crisi del partito continua e diventa cronica » («
Popolo d’Italia », 13 ottobre).

293
38 « I socialisti inseguivano il miraggio di una rivoluzione alla

russa, che, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione,


rimandavano all’indomani, e che non fecero mai, sia per lo scarso
spirito rivoluzionario dei capi, sia per la forza ancor grande della
borghesia, sia per il lealismo ancor saldo dell’esercito e della
marina, sia per la situazione di dipendenza dell’Italia dall’Intesa.
Incapaci di fare la rivoluzione, se la presero fra di loro
accusandosi di tradimento, e si scissero in molte frazioni », A.
Tilgher, La crisi mondiale, Bologna, Zanichelli, 1921, p. 214.
39 Prospettive economiche 1925, Città di Castello, « Leonardo

da Vinci », 1925, pp. 421-2.


40 Comunicato del ministero del Lavoro, 7 settembre 1921.

41 « Popolo d’Italia, 31 dicembre 1920. Fin dal 27 agosto

Mussolini aveva scritto: « Quanto all’Occidente, appare chiaro da


molti sintomi che il periodo acuto dell’infezione bolscevica è
sorpassato ». E il 7 dicembre: « Il bolscevismo italiano rantola
ormai per terra, colpito a morte ».
42 Relazioni del G.P.S. al Congresso di Milano, p. 6: « Man

mano il Gruppo si convince dell’inutilità del proprio sforzo di


fronte all’ostinazione del Governo e all’apatia delle masso. Giolitti
parla di un ostruzionismo «lungo, ma non energico» (Memorie
della mia vita, II, p. 595) e don Sturzo di « farsetta » (Popolarismo
e fascismo, p. 380). Vedi anche n. 2.
43 Verso la fíne del 1920 « il moto di rivolta dalle città dilaga
nelle campagne: tutte le grandi e piccole istituzioni del socialismo
vengono travolte… Il fascismo italiano da minoranza tende a
diventare massa. Non c’è dubbio che l’immissione di tanti
elementi nuovi altera, qua e là, più o meno profondamente, la
fisionomia originaria del Fascismo… Nella valle Padana il
fascismo è, oggi, in gran parte rurale » (« Popolo d’Italia », 1°
giugno 1922, da « Gerarchia »). E. cfr. Antonio Gramsci, L’Italie
et la Conférence de Gênes, in « Correspondance Internationale
», n. 28, 12 aprile 1922, p. 7: le origini agrarie del fascismo.
44 Cfr. p. 57.

45 P. Nenni, Six ans de guerre civile, p. 9.

46 Sulla situazione sociale agraria nella valle del Po vedansi le

tesi antisocialiste in Arrigo Serpieri, La guerra e le classi rurali


italiane, pp. 156 sgg.; F. Virgili, « Giornale d’Italia » del 6
dicembre 1919 (riprodotta in Chiurco, I, pp. 29-32). Chiurco, II,
pp. 271-304 (esempi di taglie imposte ai proprietari, ecc.). Un
giudizio più acuto e più equilibrato in: M. Missiroli, Il fascismo e
la crisi italiana, pp. 20 sgg. e Una battaglia perduta, pp. 245-54,

294
che spiega le ragioni economiche e sociali del « monopolio »
socialista della mano d’opera.
47 Critiche socialiste ai metodi di lotta agraria adottati nella

pianura padana non mancarono. Per Bologna cfr. Appendice II


(Baldini) e Rustí -cus, « Avanti! », 9, 10, 12 e 13 febbraio 1921;
per Ferrara, l’art, di Mario Cavallari nella « Critica Sociale »
(921, n. 9, p. 134): « La predicazione massimalista trova qui il
terreno già preparato dalla passata predicazione violenta del
sindacalismo, e le Leghe si credono onnipotenti… Un poco
ponderato contratto agricolo, credendo di strappare una
conquista formidabile, sopprime l’istituto dell’ ” obbligatorietà ”
nelle campagne, di consuetudine centenario, allontanando
violentemente il contadino da quella sua terra cui era legato da
tradizioni e vincoli insopprimibili, istituisce invece un Ufficio di
collocamento di classe che, per la impreparazione degli elementi
e dell’organismo, è il germe di malcontenti che covano. Çomincia
la serie delle multe imposte dalla Lega a chi, o mancava ai patti, o
si credeva che portasse danno diretto o indiretto alla Lega ».
48 Contro questi metodi si pronunciarono gli anarchici: « Un
errore, e uno dei più gravi, fu di obbligare i lavoratori avversi
all’organizzazione ad entrare nelle leghe. Questi furono i primi a
sbandarsi e, passati all’altra parte, furono i primi ” squadristi ”. I
fatti hanno dato ragione agli anarchici, che nel loro Congresso del
luglio 1920 a Bologna, affermando che ” tutti hanno il diritto di
lavoro e che le organizzazioni debbono essere il risultato della
crescente coscienza dei lavoratori e non imposte colla forza ”,
protestarono contro il sistema dell’organizzazione obbligatoria, ”
violazione della libertà che ben presto ridonda a danno delle
organizzazioni economiche del proletariato privandole di
contenuto idealista e di ogni spirito di lotta e che costituisce un
germe di dissoluzione nel loro seno » (C. Berneri, « Il Martello »,
New York, 7 aprile 1928. I deliberati del Congresso anarchico di
Bologna sono in « Volontà », Ancona, 1° agosto 1920).
49 Questa diffidenza che ha prevalso nel partito nei confronti
della invasione delle terre del 1919-1920 (Cap. V, n. 20), e il cui
riflesso si ritrova nei progetti Ciccotti (v. n. 48) e Piemonte sulla «
socializzazione della terra » (p. 148-50), era implicita nella
mentalità « massimalista ». In polemica con Mosca, Serrati aveva
affermato « non potersi, dovunque e prima della rivoluzione,
tenere un atteggiamento favorevole al mantenimento della
piccola e media proprietà terriera » (« Comunismo, 15 ottobre
1920, p. 78). Nel suo discorso del 7 ottobre 1920 al
congresso degli Indipendenti tedeschi ad Halle, Zinoviev aveva
criticato la posizione di Serrati, che al 2° Congresso

295
dell’Internazionale s’era astenuto dal voto delle tesi sulla
questione agraria. Per un equo giudizio, va osservato che in
queste obbiezioni di Serrati c’era anche una certa resistenza
a considerare il problema della piccola proprietà terriera
unicamente dal punto di vista della strategia della conquista del
potere. I comunisti intendevano servirsi della « fame di terra » dei
contadini prima della rivoluzione per ottenerne il concorso, salvo
poi a spogliarli della terra una volta il potere preso e consolidato,
com’è accaduto in Russia. L’ostilità socialista alla piccola
proprietà, dettata da ragioni in parte ideologiche e in parte (e più,
nella valle padana) pratiche, resistè anche all’offensiva fascisti.
Nella seduta dell’ll febbraio 1921, il Consiglio nazionale
della Federazione della terra vota un o.d.g. contro i progetti del
P.P.I. favorevoli alla piccola proprietà (« Avanti! », 12 febbraio) e
decide di impostare al Congresso confederale di Livorno la
questione della « socializzazione della terra ». Nel Consiglio
generale delle leghe agricole della provincia di Bologna (23-25
febbraio 1921), si afferma da un lato la necessità di « indirizzare i
proletari alla coltivazione collettiva della terra con metodi
collettivi e non individuali » e di « seppellire per sempre
il sistema antiproletario ed egoistico della terra a
compartecipazione ed a piccolo affitto » (« Giornale del Popolo »,
Roma, 3 marzo 1921).
50 Un primo progetto di « socializzazione della terra » fu
adottato dalla Federazione della terra al suo primo convegno del
dopoguerra (Bologna, 13-15 giugno 1919); esso era stato
preparato da Francesco Ciccotti. Nelle « Battaglie sindacali » del
21 giugno si legge a questo riguardo: « Il Congresso dei 400.000
contadini confederati ha deliberato di attuare la socializzazione
della terra », che consiste, nel progetto Ciccotti, nella creazione
di un « demanio del proletariato » passato in proprietà dello stato
e gestito dalla Federazione dei lavoratori della terra, costituitasi
in cooperativa di produzione e dalle cooperative di consumo,
che coi prodotti di questa gestione avrebbero attuato « un
calmiere permanente in tutta Italia». Il progetto Piemonte fu
pubblicato nella relazione presentata al Congresso confederale di
Livorno su le Socializzazioni (Milano, La Tipografica, 1921). Il
Congresso di Livorno non si è occupato di questa relazione né, in
genere, del problema agrario; il tema dominante fu quello
dell’avvenuta scissione in seno al Partito socialista e delle sue
conseguenze politiche. Il progetto Piemonte fu presentato il 17
dicembre 1921 alla Camera, che ne approvò la « presa in
considerazione », e tutto finì lì. Esso non era stato presentato
prima, perché

296
Gennari, segretario del partito, giudicandolo troppo « riformista
», vi si era opposto (Relazione politica della Direzione del Partito
al Congresso di Livorno, p. 21). A proposito delle critiche da me
formulate circa questo progetto leggo in una nota di Buozzi: «
Tasca ironizza progetto Piemonte, il quale poteva essere uno
strumento di propaganda agitatoria, ed era anche un tentativo
per trascinare il partito fuori della sua inerzia ».
51 Nella relazione a Livorno sulle Socializzazioni figura anche
un progetto di Umberto Bianchi sulla « socializzazione del
sottosuolo », tipico di quel socialismo burocratico che è alla base
di tanti piani di cosiddetta « nazionalizzazione » di servizi e
d’industrie. Il Bianchi aveva presentato in proposito un disegno di
legge il 24 giugno 1920 alla Camera, e creato un Consorzio
minerario che fece presto fallimento (U. Bianchi, La
socializzazione del sottosuolo, Firenze, Bemporad, 1921; F.
Magri, La crisi industriale e il controllo operaio, pp. 142-9). Dello
stesso un altro progetto sulla « socializzazione delle industrie
elettriche » (« Comunismo », 1° settembre 1920, pp. 212-16; F.
Magri, La crisi industriale ecc., pp. 149-53). Non mancò neppure
un progetto di gestione sindacale delle ferrovie (Sigismondo
Balducci, Le ferrovie ai ferrovieri, « Critica sociale», 15 novembre
1920, pp. 153-4).
52 Appendice III (Buozzi).

55 Appendice I (Baldini).

54
CESARE SEASSARO, La Lega Proletaria fra Mutilati e
Reduci di Guerra, in Almanacco Socialista 1920, p. 436. Il primo
Congresso della Lega si tenne a Milano dal 29 giugno al 2 luglio
1919.
55 Il programma della C.G.L. in favore dei combattenti, che

risale alla fine del 1918, è in: La C.G.L. nel sessennio ecc., p. 518.
56 « Avanti! », 19 marzo 1919. Il 2 luglio dello stesso anno la

Direzione del partito « riconferma la già presa deliberazione che


coloro i quali, o per espulsione o per dimissione, furono
allontanati dal Partito per colpa di interventismo, non possono
assolutamente ottenere la riammissione nelle nostre file ».
57 Appendice VII (Lussu); E. Lussu, Marcia su Roma e
dintorni, Parigi, Critica, 1931, pp. 7-12; Appendice X (Nitti), (il
caso Grandi); sullo stato d’animo del combattente: I. Balbo, Diario
1922, Milano, Mondadori, 1932, pp. 5-8; G. Ferrero, Da Fiume a
Roma, indica come prima causa del rovesciamenti della situazione
in Italia: « il sentimento patriottico offeso dall’universalismo
oltraggioso dei socialisti e dalla brutalità con cui le moltitudini

297
avevano, per manifestare l’odio contro la guerra, confuso nelle
loro maledizioni guerra e vittoria, combattenti e pescecani » (p.
90); Giovanni Zibordi in « Critica Sociale »: « Il proletariato
identificò la guerra con chi l’aveva fatta, sfogò sui soldati,
sugli ufficiali, sulla divisa, su tutto ciò che gli rammentava la
guerra, l’avversione politica contro di questa. Non comprese, non
valutò, non seppe rispettare e disarmare e ” mobilitare » lo stato
d’animo di chi aveva combattuto con fede e tornava a casa con
orgoglio comprensibile; commise errori psicologici enormi,
moltiplicò intorno a sé e contro di sé gli equivoci, le antipatie, i
nemici (1921, n. 7, p. 100 e cf. Critica socialista del fascismo,
Bologna, L. Cappelli, 1922). Nenni narra che al 2° Congresso
dell’Internazionale comunista, Carlo Radek avrebbe detto che il
più grave errore del movimento socialista italiano era stata la sua
politica verso gli ex-combattenti (La lutte de classe en Italie,
Parigi, Ed. della Nouvelle Revue Socialiste, 1930, p. 135 n.).
58 MARIO MARIANI, Le origini del fascismo, Parigi, 1927, pp.

43-4.
59 Citato da T. Nanni, Bolscevismo e fascismo, B. Mussolini, p.
211; « Nel primo momento il soldato che ritorna dalle trincee non
ricorda che lo strazio del dolore sofferto e il bruciore delle
ingiustizie patite… Più tardi, quando i ricordi delle piccole miserie
della sua vita di combattente sono svaniti, nasce in lui l’orgoglio
di aver contribuito al grande avvenimento di cui avverte, nella
nuova atmosfera nascente, la crescente esaltazione », I. Bonomi,
Dal socialismo al fascismo, Roma, Formiggini, 1924.
60 Su questa base si produce uno spontaneo flusso di ufficiali
ed excombattenti verso i Fasci. Giovanni Zibordi ha potuto a
ragione insistere sul fatto che il fascismo è stato, tra l’altro, anche
« una rivoluzione militare » (Critica socialista del fascismo, pp. 16
sgg.). Già si son visti i rapporti tra Fasci ed Arditi (p. 43).
Innumerevoli le testimonianze sulla partecipazione di ufficiali ed
ex-combattenti alla creazione dei Fasci: A. Chiurco, III, 71, 87 sg.,
115, 173, 176, 235, 342, 621; IV, 22, 49 sg., 127, 236, 278, 289,
290, 337, 431-2 e passim; C. A. Avenati, Come è nato il Fascio di
Torino, il 28 marzo 1919: « Era l’assemblea
composta prevalentemente di ufficiali di complemento, quali
ancora in uniforme, quali già congedati. Baccon, di Susa, vestiva
la divisa di alpino, e come lui, il tenente Spander, il capo
manipolo degli arditi, Cherasco » («La Stampa », 25 marzo 1931).
61 «Ordine Nuovo», 2 ottobre 1921. Risale suppergiù alla
stessa epoca (1920) un altro documento, scritto questo da un
capo fascista dell’Emilia, pubblicato dall’« Ordine Nuovo » del 17

298
agosto 1922, da cui stralciamo il passo seguente: « Le Camere del
Lavoro sono organismi localistici, nessuna coesione maggiore
rappresenta la Confederazione del Lavoro, che funziona solo
come organo amministrativo. Anche la Direzione del Partito
Socialista è un organo amministrativo, ed il
movimento veramente bolscevico s’impernia in Camere del
Lavoro e Sezioni e Federazioni socialiste slegate le lune dalle
altre… Tutta la fatuità insurrezionale non ha caratteri di
omogeneità. Mancano organi direttivi centrali, ogni avvenimento
è una germinazione spontanea locale, regionale… Al Partito
Socialista mancano i mezzi, lo spirito e il senso di
responsabilità, per dare mano alla formazione di quadri militari,
ufficiali e sottufficiali, che affiatati, coordinati, collegati con
comunicazioni sicure e sufficienti possano poi al momento
opportuno inquadrare le masse volenterose e farle agire in uno
sforzo concorde e razionale. Esistono elementi operai capaci di
gettarsi in rivolta e conflitto, ma il metodo e il tempo
avranno ragione di loro ».
62 Si tratta di una circolare dell’Ufficio comando di stato
maggiore. Secondo Antonio Gramsci (Les origines du cabinet
Mussolini, in « Corr. Internationale », 20 novembre 1922, p. 682
[cfr. ora in « Rivista storica del socialismo», 13-14, pp. 627-29.
(N.d.E.)] il Gabinetto Giolitti, formato il 15 giugno 1920, fu un
ministero di compromesso collo stato maggiore, rappresentato da
Bonomi, ministro della Guerra: « Un lavoro febbrile di
organizzazione contro-rivoluzionaria cominciò allora, data
la minaccia dell’occupazione delle fabbriche, prevista dagli stessi
dirigenti riformisti della F.I.O.M., riunitisi al Convegno di
Genova… In luglio il Ministero della Guerra, Bonomi in testa,
cominciò la smobilitazione di 60.000 ufficiali alle condizioni
seguenti: Gli ufficiali furono smobilitati conservando i quattro
quinti del loro stipendio; la maggior parte furono inviati nei centri
politici più importanti coll’obbligo di aderire ai Fasci di
combattimento ». Più tardi Bonomi negherà d’aver preso
quest’iniziativa e si lagnerà d’esser stato « tradito » dall’alto
comando dell’esercito. Nella prefazione ai discorsi di I. Bonomi
raccolti in Dieci anni di Politica italiana (Milano, Unitas, 1924)
Ferruccio Rubbiani così risponde a quanto era stato affermato
sulla circolare d’ottobre 1920: « L’affermazione non è che il
riflesso di uno strano equivoco in cui era caduto un
generale comandante in una zona dell’Italia centrale,
nell’interpretare la richiesta di informazioni sull’attività dei Fasci
di combattimento, richiesta fatta da uno dei parecchi uffici
d’informazione dello Stato Maggiore dell’Esercito. E poiché

299
l’equivoco che aveva dato luogo a una circolare di detto
comandante non si ripetesse, lo Stato Maggiore — e questa
volta a firma del suo capo generale Badoglio, di accordo col
ministro della Guerra on. Bonomi — emanava nello stesso ottobre
1920 una esplicita circolare a tutti i grandi Comandi militari
d’Italia, per rilevare l’errore in cui taluno era caduto e per
affermare che l’esercito, seguendo le sue gloriose tradizioni, ’’era
e rimaneva estraneo alle competizioni di parte, essendo soltanto
lo strumento di tutta la Nazione per la difesa dei suoi diritti ” » (p.
38). Cfr. Appendice III (Buozzi); Appendice Vili (Modigliani);
Appendice XI (Rosselli).
63 Questi risultati traducono tuttavia una situazione che ha già

toccato il suo apice, e in seno alla quale profonde reazioni già


maturano. Giovanni Zibordi così ne indica i fattori: « Le masse
tornate dalla guerra con animo iroso e gesto spavaldo, fecero
sentire in città, con manifestazioni, con scioperi, con cortei, la
loro forza e la loro minaccia. La popolazione urbana ne fu offesa,
chi nell’interesse, chi negli ideali, chi nella quiete, chi
nell’estetica. Pertanto a Bologna si sommarono insieme, nella
rivolta contro il Socialismo, gli Agrari in difesa del loro egoismo di
classe, e la popolazione scandalizzata da forme di lotta che
lasciavano perire i raccolti; gli esercenti in difesa della loro
cassetta contro le buone e sane opere municipali del Comune
rosso, e la cittadinanza irritata e spaventata per le troppo
frequenti agitazioni, per certa baldanza sguaiata delle masse; gli
intellettuali stanchi di essere governati dalla plebe e i mutilati e
reduci, feriti nei loro sentimenti più naturali da una avversione
alla guerra che pareva appuntarsi contro di loro » (Critica
Socialista del fascismo, p. 34). Sull’ambiente bolognese vedi
anche Appendice IX (Nenni).
64 Segni dell’attività fascista già s’erano avuti il 20 settembre,

in cui un gruppo di Arditi aveva messo in fuga dei manifestanti


ostili e nell’attacco del 4 novembre alla Camera del lavoro. In
questa occasione l’on. Ercole Buceo, leader massimalista e
segretario della Camera del lavoro, aveva mostrato una tale viltà,
che per essa, in altri tempi, egli avrebbe dovuto essere
squalificato ed eliminato (Vedi C. Valente, La ribellione
antisocialista di Bologna, Cappelli, 1921, pp. 170 sgg. e la sua
pietosa autodifesa in « Umanità Nova » del 12 febbraio 1922).
Bucco finì nell’emigrazione come agente fascista.
65 Il documento del capo fascista sopra citato (cfr. nota 61),

scritto pochi mesi, forse poche settimane prima dei fatti di


Bologna, è invece tutto permeato della necessità di includere lo
stato nella mobilitazione antisocialista: « Lo stato, benché oggi sia

300
rappresentato da uno sgoverno invece che da un Governo, è la
espressione più alta della nostra potenza… Perciò penetrazione
energica, conquista di tutti i suoi organi, piccoli e grandi,
conquista contro i deboli, contro i tentennamenti della
nostra stessa classe ». Uopo aver accennato alla necessità di
guadagnare i carabinieri, le guardie regie, l’esercito, il suo
rapporto conclude: « Le forae dello Stato sono l’appoggio
naturale dell’azione di riscossa che andiamo ad iniziare, sono il
fulcro della leva… L’azione dei fasci non mira a rovesciare lo
Stato, ma a conquistarlo per mantenerlo ».
66 Sui fatti del 21 novembre e sulla situazione della valle

padana che li ha preparati e che ne ha permesso lo sfruttamento


in senso anti-operaio e anti-socialista: Appendice Vili (Modigliani);
fonti fasciste: C. Valente. La ribellione anti-socialista di Bologna,
pp. 181 sgg.; Chiurco, II, 167-97, con numerosi documenti alla
rinfusa, secondo il « metodo » di questo scriteriato compilatore;
Vico PELLIZZARI, L’eccidio di Palazzo d’Accursio, Verona,
Mondadori, 1923; fonti socialiste: Fascismo - Inchiesta
socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Milano, Soc. Ed. Avanti,
1922, pp. 238-42; L. Fabbri, Controrivoluzione preventiva,
Bologna, L. Cappelli, 1922, pp. 31-4; G. Zibordi, « Critica Sociale
», 1921, n. 2, pp. 23-5 e Critica socialista del fascismo, spec. pp.
31 sgg.; F. Turati, « Critica Sociale », 1920, n. 23, pp. 356-7: suo
intervento del 24 novembre 1920 alla Camera; Mario Mariani, Le
origini del fascismo, Parigi, 1927, pp. 21-7; sui fatti e specie sui
problemi agrari e sociali della zona, cfr. la relazione
della Commissione parlamentare d’inchiesta (Camera dei deputati
- Atti Parlamentari, Legislatura XXV, doc. XXI), che fu pubblicato
integralmente nel « Resto del Carlino » (1° febbraio 1921 e cfr.
M. Missiroli, Un documento definitivo, nel « Tempo » del 1°
marzo); ci fu anche una relazione di minoranza, redatta da
Alceste della Seta, e pubblicata nell’« Ordine Nuovo » del 2 e 4
febbraio 1921. Un processo pei fatti di Bologna si svolse dopo la
marcia su Roma. Interessanti le disposizioni del questore Poli e
del vice-questore La Polla («Popolo d’Italia», 22 febbraio
1923). Cfr. anche Appendice I (Baldini). Ai fatti di Bologna
consacra alcune pagine (pp. 55-7) il volume Barbarie rossa.
Riassunto cronologico delle gesta compiute dai socialisti italiani
dal 1919 in poi. Edito a cura del C. C. dei Fasci italiani di
combattimento, Roma, 1921. Si tratta di una sommaria, affrettata
e malfida compilazione.
67 Tra le numerose corrispondenze inviate ai giornali cfr. Gigi

Miche-lotti, Azioni e reazioni nell’esasperato ambiente di Bologna


in « Stampa », 27 gennaio 1921. Le forze in conflitto si contano: il

301
Consiglio nazionale della Federazione dei lavoratori della terra
che si tiene a Milano è sulla difensiva (« Avanti! » 11-13 febbraio
1921), mentre il Congresso agrario nazionale, che si tiene a
Roma, manifesta propositi di battaglia, specie contro gli uffici di
collocamento (« Tempo », 16-18 febbraio).
68 20 settembre 1920. Cfr. Chiurco, 11. 212-13.

69 Sui precedenti sindacal-rivoluzionari del fascismo ferrarese

cfr. A. Zerboglio, Il fascismo, Bologna, L. Cappelli, 1922, p. 25 n.;


tesi fascista sulla situazione nel Ferrarese: E. Torsiello, Il
tramonto delle baronie rosse, Ferrara, Taddei, 1921.
70 Sull’atteggiamento dei Fasci e dell’Agraria in quel di
Ferrara, cfr. Mussolini, Fascismo e terra, nel « Popolo d’Italia »,
19 febbraio 1921. 11 29 marzo lo stesso giornale annunzia che «
sono ormai 3.000 gli ettari di terreno messi dai proprietari a
disposizione del Fascio per dare la terra a chi la lavora ». Nel suo
discorso di Ferrara (4 aprile), Mussolini plaude a « quella
rivoluzione agraria che deve dare ai contadini, senza trapassi
epilettici, il possesso della terra » (Discorsi politici, p. 182). Il
capo dell’Agraria ferrarese, comm. Vico Mantovani, spiega in
un’intervista al « Resto del Carlino » (15 marzo) che il suo
programma « non si discosta » da quello dei Fasci e lo riassume
così: « Frazionamento graduale della proprietà terriera, anche
attraverso al ripiego transitorio dell’affittanza, considerata come
preparazione all’enfiteusi » (cfr. M. MissiROLi, Il fascismo e la
crisi italiana, pp. 33-8). In un Messaggio ai contadini, l’esperto
fascista in politica rurale, Gaetano Polverelli dichiara: « I Fasci fin
da ora interverranno presso i proprietari per ottenere la cessione
delle terre, che saranno messe a disppsizione vostra, sotto
eque forme di patto » e promette l’« abolizione completa
dell’avventiziato e del salariato» («Popolo d’Italia», 1° aprile). Si
tratta d’un vero «pesce d’aprile », poiché il fascismo attenua il
suo programma agrario e soprattutto la sua azione man mano che
l’offensiva squadrista elimina le resistenze dei « rossi » o dei «
bianchi ». Già la stessa relazione Polverelli, pubblicata nel «
Popolo d’Italia » del 27 gennaio 1921, era molto prudente,
spiegando che i Fasci « si propongono tendenzialmente di
ottenere che la terra sia di chi la lavora », ma che « non bisogna
quotizzare, oggi, il latifondo, e tanto meno la grande azienda ». Si
tratta, soprattutto, di battere l’avversario politico: « Il carattere
primo che dovremo dare alla nostra azione agraria sarà di recisa
implacabile ostilità alla propaganda social-comunista ». Le
adunate regionali dei Fasci, che si tengono poco dopo, e per le
quali è stata scritta la relazione Polverelli, ne riflettono e ne
accentuano la prudenza: così la veneta («Popolo d’Italia», 15

302
febbraio); la lombarda (ivi, 22 febbraio: « Ad evitare errate
interpretazioni della formula: la terra a chi la lavora, il fascismo
ritiene necessario che la frase stessa debba essere
convenientemente spiegata… e cioè interpretata veramente solo
come un principio tendenziale »); la ligure (ivi, 9 marzo); la
bolognese (ivi, 5 aprile: insiste sul carattere « graduale » delle
soluzioni proposte), ecc. Molto vago l’accenno al problema
agrario nel manifesto dei Fasci alla Vigilia delle elezioni del 1921:
esso ne addita la soluzione « nella graduale creazione di una
democrazia rurale e non nelle assurde socializzazioni » (ivi, 15
aprile). Durante tutto il 1921 si continua ad andar molto cauti
(cfr. p. es. « Popolo d’Italia », 9 ottobre: linee programmatiche;
ivi, 19 ottobre: rapporto Dante Dini al Fascio di Milano, ecc.). Al
Congresso di Roma del novembre l’o.d.g. Polverelli si limita a
dichiarare che il fascismo « attraverso la cointeressenza e la
mezzadria deve elevare il coltivatore alla dignità e alla
responsabilità del possesso terriero »: ogni accenno a
distribuzioni di terra e a rapide misure è scomparso. Il « mito » di
Ferrara è già spento.
71 CHIURCO, III, 87-91. Questo sindacato fu fondato da un
fascista locale, ex-combattente, che era stato boicottato, lui e la
sua famiglia, dalla lega « per quattro generazioni di seguito ».
72 Gli agrari ne approfittarono per imporre un patto colonico

molto gravoso (cfr. la relazione della Camera del lavoro di


Ferrara alla C.G.L. in « Battaglie sindacali », 11 giugno 1921).
Non solo si liquidarono così le organizzazioni « rosse », ma
l’offensiva fu condotta anche contro l’« Unione del lavoro »
bianca, che Vico Mantovani, nell’intervista citata (nota 70)
dichiara doversi considerare « fra i nostri avversari », perché «
calando in fretta sui luoghi dov’è passato il fascismo », e dove i
rossi sono stati eliminati, rappresenta ancora un elemento di
resistenza al nuovo monopolio sindacale agrario-fascista.
73 Cfr. pp. 118-19 e Cap. VI, n. 15.
74 « Il Lavoratore » è distrutto il 14 ottobre 1920. V. la lunga

e minuta cronaca dei fatti, nell’« Avanti! » del 24.ottobre e M.


Risolo, Il Fascismo nella Venezia Giulia, pp. 125-9 (V. p. 000).
75 La Camera del lavoro di Pola era stata incendiata il 25

settembre
1920, tre giorni dopo il discorso che Mussolini aveva tenuto in
quella città, M. Risolo, Il Fascismo nella Venezia Giulia, pp. 109-
10.
76 Corrispondenza da Ferrara al « Giornale d’Italia » del 25

303
gennaio
1921, Chiurco, III, 52.
77 « Nel cuore della notte, mentre i galantuomini sono nelle
proprie case a dormire, arrivano i camion di fascisti nei paeselli,
nelle campagne, nelle frazioni composte di poche centinaia di
abitanti; arrivano accompagnati naturalmente dai capi della
Agraria locale, sempre guidati da essi, poiché altrimenti non
sarebbe possibile conoscere nell’oscurità, in mezzo alla campagna
sperduta, la casetta del capolega, o il piccolo miserello Ufficio di
collocamento. Si presentano davanti a una casetta e si sente
l’ordine: Circondare la casa. Sono venti, sono cento
persone munite di fucili e di rivoltelle. Si chiama il capolega e gli
si intima di scendere. Se il capolega non discende, gli si dice: Se
non scendi ti bruciamo la casa, tua moglie e i tuoi figliuoli. Il
capolega discende; se apre la porta lo pigliano, lo legano, lo
portano sul camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili,
fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in
mezzo alla campagna, nudo, legato ad un albero! Se il capolega è
un uomo di fegato e non apre e adopera le armi per la sua difesa,
allora è l’assassinio immediato, cento contro uno ». Discorso di
Giacomo Matteotti alla Camera nella seduta del 10 marzo 1921,
cfr. « Critica Sociale », 1921, n. 7, pp. 105-6.
78 La lettera di Perrone Compagni al sindaco di Roccastrada è
in Fascismo - Inchiesta socialista, p. 556. Questo Perrone
Compagni era il terrore della Toscana. Aveva a sua disposizione
delle squadre in cui patrioti esasperati si accompagnano a degli
sbarbatelli e a dei professionisti del delitto. « Un secolo prima —
scrive Pietro Nenni nei suoi Sei anni di guerra civile in Italia —
questo nobile marchese sarebbe stato un brigante da leggenda;
nel dopoguerra si atteggiava a difensore dell’ordine al servizio dei
proprietari terrieri. Il governo fascista ne ha fatto un prefetto »
(Parigi, Valois, 1930, pp. 102-3).
79 Cfr. pp. 164-65.

80 «Avanti!», 11 febbraio 1921; «Ordine Nuovo», 15 febbraio:

Come fu distrutto « il Lavoratore »; A. Oberdörfer, Il Socialismo


a Trieste nel dopoguerra, Firenze, Vallecchi, 1922, pp. 144-151.
81 CHIURCO, III, 127.

82 CHIURCO, III, 119.

83 CHIURCO, III, 102-4.

84
CHIURCO, III, 170-1; «POPOLO D’ITALIA», 6 APRILE
1921.

304
85 Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 34-56; M. Risolo, Il

Fascismo nella Venezia Giulia, Trieste, C.E.L.V.I., 1932. Sulle


condizioni politiche generali della Venezia Giulia vedi la relazione
presentata il 4 ottobre 1920 da Giuseppe Passigli al Convegno di
Trieste del Gruppo parlamentare socialista («Comunismo», 1-15
ottobre 1920, pp. 32 sgg.). Un’analisi approfondita della
situazione è in Aldo Oberdörfer, Il fascismo nella Venezia Giulia,
«Critica Sociale», 1921, n. 1, pp. 167-70 e n. 9, pp. 296-9.
84 Cfr. 161-63.

87 CHIURCO, III, 36-7. SULL’AZIONE SQUADRISTA IN


PROVINCIA DI MODENA, Fascismo - Inchiesta socialista, pp.
304-11.
88 Ordine del 24 gennaio, « in applicazione dell’art. 16 della

legge di Pubblica Sicurezza ».


89 «Popolo d’Italia», 26 gennaio 1921.

90 « Popolo d’Italia », 2 febbraio.

91 « In seguito ai dibattiti parlamentari, il Governo emette il

decreto sul disarmo. Ebbene i fascisti pubblicamente dichiarano


di non consegnare le armi; nessuno di essi viene né perquisito, né
arrestato. Per il solo fermo di uno di essi, trovato in una via
sospetta a notte tarda armato di rivoltella, viene inscenata una
serrata degli esercenti e degli industriali: l’autorità si affretta ad
ordinarne il rilascio. Viceversa, perquisizioni vengono operate
nelle leghe e nelle case dei leghisti e, dove si trova qualche arma,
vengono immediatamente tratti in arresto i detentori. Più tardi,
forse nell’intento di dimostrare la non connivenza del Governo
con le spedizioni fasciste, il Prefetto pubblica un decreto portante
divieto di circolazione degli autoveicoli. Non per questo le
spedizioni in camion cessano e, benché alla sede del Fascio, in
una via centralissima, vi sia di guardia continuamente un
picchetto di carabinieri, vi entrano e ne escono camion carichi di
fascisti armati », Mario Cavallari, La situazione in provincia di
Ferrara, in «Critica Sociale», 1921, n. 9, p. 134.
92 « Popolo d’Italia », 5 febbraio.

93 Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 253-63.

94 CHIURCO, III, 425. SULL’AZIONE SQUADRISTA IN


PROVINCIA DI FERRARA CFR. Fascismo - Inchiesta socialista,
pp. 216-37; M. Cavallari, La situazione in provincia di Ferrara,
loc. cit., pp. 133-5 e cf. pp. 181-4. Un memoriale sulla situazione
del Ferrarese fu presentata qualche mese dopo dall’on. Zirardini
al governo («Avanti!», ed. milanese, 8 ottobre 1921).

305
95 CHIURCO, III, 314.

96 Arrestato alla Stazione di Milano il 15 marzo per un


mandato di cattura per tre mancati omicidi avvenuti poco prima a
Pieve di Cento e per altre violenze nel Ferrarese, Arpinati fu
rimesso in libertà nel pomeriggio del 18.
97 Cfr. p. 119.

98 Mario Missiroli riferisce le nuove condizioni imposte alle

leghe dei contadini, rese pubbliche dall’on. Dugoni: « a) Riunione


della lega alla presenza di quattro delegati del Fascio per
controllarne la discussione e le deliberazioni; b) Obbligo di
iscrizione al Fascio senza diritto di discuterne lo statuto e il
programma e rinuncia alla tessera della Confederazione del
lavoro; c) Non sarà assunto al lavoro chi non sia munito della
tessera del Fascio; d) Ufficio di collocamento fatto funzionare con
impiegati del Fascio; e) Dieci ore di lavoro, di cui otto pagate e
due a beneficio del Fascio; f) Ai conduttori di fondi non fascisti,
specie piccoli e medi affittuari e proprietari e mezzadri è fatto
obbligo di valersi, per la trebbiatura del frumento e frumentone
ecc. di macchine possedute da soci del Fascio e di macchinisti
aderenti al Fascio. A coloro che si rifiuteranno e si serviranno di
altre macchine, fu fatta minaccia di incendiarle e fu dichiarato
che saranno rifiutati i buoi per le arature », Il fascismo e la crisi
italiana, pp. 42-3.
99 Fascismo - Inchiesta socialista, pp.» 57-8; « Critica Sociale

», 1921, n. 10, pp. 153-7; corrispondenza da Mantova all’« Avanti!


», 21 agosto 1921. Un caso tipico di crollo, in qualche ora, di tutte
le posizioni socialiste è quella di Carpi, cfr. « Popolo d’Italia », 29
gennaio 1921.
100 Su Camillo Prampolini e il movimento reggiano: Giovanni
Zibordi, Camillo Prampolini e i lavoratori reggiani, Bari, Laterza,
1930; Id., Il movimento socialista e operaio di Reggio Emilia, in
Almanacco Socialista 1919, pp. 283-99; articoli necrologici nella «
Libertà » di Parigi, organo della Concentrazione antifascista, 30
luglio 1931, 9 agosto (commento di Turati), 18 agosto
(commemorazione di Luigi Campolonghi, pubblicata anche in
opuscolo: Camillo Prampolini e il suo tempo, Parigi, Res publica,
1932) [Renato Marmiroli, Camillo Prampolini, Firenze, G.
Barbera, 1948].
101 CHIURCO, III, 421-2; Fascismo - Inchiesta socialista, pp.

199-215; «Critica Sociale», 1921, n. 10, pp. 149-53; n. 11, pp.


165-7. Nel «Popolo d’Italia » del 12 giugno 1938 cenno
bibliografico su: Ugo Galazzini, Genesi del fascismo reggiano,

306
Reggio Emilia, Officine Grafiche Fasciste.
102 CHIURCO, III, 203; Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 264-

85.
103 CHIURCO, III, 292-4. In quel giorno, nel rione popolare di

via taverna, s’era organizzata la resistenza. Chiurco spiega che «


a porre fine alla sparatoria sopraggiunge il tenente giovanni
mosconi, ufficiale ancora in attività di servizio, coi suoi
mitraglieri. le armi vengono piazzate e il tenente mosconi apre il
fuoco contro le case donde si continuava a sparare
rabbiosamente. ridotti al silenzio i ribelli con il provvido aiuto
delle mitragliatrici, tutte le case vengono bloccate e perquisite. il
rastrellamento frutta una cinquantina d’arresti. i fascisti hanno
un solo ferito ». sull’azione squadrista nel piacentino, Fascismo -
Inchiesta socialista, pp. 286-303.
104 EMILIO ZANELLA, Dalla « barbarie » alla civiltà nel

Polesine. L’opera di Nicola Badaloni, Milano, A.N.S., Problemi del


lavoro, 1931.
105 In « Critica Sociale », 1921, n. 7, pp. 105-7.

106 CHIURCO, III, 406-7.

107 G. Matteotti, Il terrore bianco nel Polesine, in « Critica


Sociale », 1921, n. 11, p. 63; Fascismo - Inchiesta socialista, pp.
23-8.
108 A Vicenza il 25 gennaio 1921 (Chiurco, III, 412); a Padova

il 6 aprile (Chiurco, III, 409); a Belluno nell’aprile (Chiurco, III,


411 e cfr. per l’azione squadrista in provincia, Fascismo -
Inchiesta socialista, pp. 29-33); a Udine l’8 maggio (Chiurco, III,
260).
109 Tutte le citazioni tra virgolette son tratte dalla Storia della
Rivoluzione fascista di Chiurco.
1,0 CHIURCO, III, 413-17.
111 pp. 000-0.

112 Per le prime operazioni fasciste nel Trentino e nell’Alto

Adige (febbraio-aprile 1921), Chiurco, III, 214-30.


113 CHIURCO, III, 404.

114 Misura agraria locale equivalente a m2 769.

115 Sull’azione fascista in provincia di Pavia, Fascismo -


Inchiesta socialista, pp. 79-106 e particolarmente nella Lomellina,
pp. 107-33.
116 Spartaco Lavagnini era il segretario regionale del

307
Sindacato ferrovieri. Su questi avvenimenti: Chiurco, III, 91-8. Sui
fatti di Firenze, « Popolo d’Italia », 1° marzo 1921 e cfr. G.
Salvemini, The fascist Dictatorship in Italy [ora in Opere: Scritti
sul fascismo, I, pp. 3-298, Milano, Feltrinelli, 1963 (N.d.E.)+,
London, J. Cape, 1928, T. I. pp. 84-9, 97-100.
117 I fatti di Empoli sono del 1° marzo 1921. Versione fascista
in Chiurco, III, pp. 107-9; Giuseppe Gregori, La strage di Empoli,
Roma, Casa Ed. Pinciana, 1932.
118 CHIURCO, III, 110-13. I DIFENSORI AL MOMENTO
DELLA RESA CONTAVANO UNA VENTINA DI FERITI. UN
PRIMO ASSALTO ALLA CAMERA DEL LAVORO DI SIENA AVEVA
GIÀ AVUTO LUOGO UN ANNO PRIMA, IL 7 MARZO 1920
(CHIURCO, II, 32).
119 Sull’azione squadrista in Toscana (provincie di Firenze,

Grosseto, Arezzo, Siena, Pisa), Fascismo - Inchiesta socialista, pp.


312-57. Particolare ripercussione ebbe in Toscana il conflitto di
Foiano della Chiana (17 aprile 1921). Secondo Chiurco (III, 195-
6), degli autocarri fascisti, partiti da Firenze all’alba del 17 « per
una gita di propaganda nella regione » (sic), furono attaccati
durante il viaggio di ritorno a un chilometro da Foiano: tre
fascisti uccisi e parecchi altri feriti. I fatti si svolsero ben
altrimenti. La « gita di propaganda » del 17 era stata
preceduta da un’altra spedizione, il 12 aprile. Uno dei
partecipanti racconta che quel giorno « una cinquantina di
squadristi fascisti, unitamente ad alcuni fascisti aretini, partirono
da Arezzo con due camions diretti a Foiano della Chiana, ove,
occupata la Cooperativa rossa, distribuirono gratis
alla popolazione le merci che vi si trovavano » (Bruno Frollini,
Squadrismo fascista, Firenze, Vallecchi, 1933, pp. 200 sgg.).
Nuova spedizione il 17. Durante questa « gita di propaganda »
viene distrutta la sezione comunista del Pozzo. « Tale
devastazione inasprisce maggiormente gli animi, la voce ne corse
fino a Foiano, che dista pochi chilometri dal Pozzo, e prevedendo
di dover subire nuove violenze, molti lavoratori si allontanano dal
paese » (Fascismo - Inchiesta socialista, p. 342). Gli squadristi
fascisti giunsero a Foiano verso le 8. Sempre secondo il racconto
di Frullini « nessun sovversivo fu trovato poiché, prudentemente
si erano squagliati ». I fascisti affiggono dei manifesti, poi si
recano a Marciano dove « fu somministrata qualche botta » e
presa la bandiera rossa del comune. Il segretario della sezione
comunista locale, ex Ardito di guerra, è caricato sul camion e poi
« fatto scendere e, colpito con due ceffoni, gettato per terra ».
Una violenta grandine ricacciò i fascisti verso Foiano, donde poi
una parte di essi ridiscese in camion: fu in questo momento che

308
un gruppo di contadini, armati di fucili e di roncole, li attaccò.
Voci di sevizie sui cadaveri, diffuse dalla stampa fascista, furono
inventate di sana pianta. L’episodio si ridusse quindi a
una mischia tra contadini esasperati e squadristi scorazzanti la
regione armati per la solita « spedizione punitiva ». La «
rappresaglie » furono terribili. Secondo lo stesso Chiurco, una
ventina di squadristi senesi, dopo aver ricevuto « armi e
munizioni dal distretto militare », parte per Firenze e giunge
nella notte dal 17 al 18 a Foiano, insieme con una squadra venuta
da Perugia. Nel pomeriggio del 18 arrivano altre squadre:
una ancora da Siena e altre da Firenze, San Giovanni Valdarno,
Montevarchi. Sul posto, nel paese semi-deserto, « si costituisce
un tribunale fascista, e vengono fatte alcune esecuzioni capitali
dei capi responsabili (?)»; « case di coloni, complici della tragica
imboscata, sono date alle fiamme » (Chiurco, III, 196-7 e
Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 342-3). V. anche G. Salvemini,
The fascist Dictatorship, T. I, pp. 89-92.
120 CHIURCO, III, 133-7 E 234. PER L’AZIONE SQUADRISTA
NELL’UMBRIA, Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 358-85.
121 Sul « mazzierismo » pugliese: G. De Falco, Il fascismo
milizia di classe, Bologna, L. Cappelli, 1921, pp. 17 sgg. Cfr.
anche l’articolo dello stesso nel « Giornale del Popolo » del 26
febbraio 1921 e quello di Giuseppe di Vittorio, ivi, 6 marzo.
122 Anziché andare come ogni giorno al loro lavoro nelle «

masserie ».
123 Sui fatti di Minervino Murge e sullo sciopero del febbraio
1921: Chiurco, III, 70-80.
124 Giuseppe Caradonna fu eletto deputato alle elezioni del

maggio 1921 nella circoscrizione di Bari-Foggia.


125 La Camera del lavoro di Barletta fu distrutta nella notte

del 17 aprile, cfr. « Critica Sociale », 1921, n. 9, pp. 131-3: I


mazzieri a Barletta.
126 Sull’azione squadrista nelle Puglie, Fascismo - Inchiesta
socialista, pp. 392-406.
127 Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 166-90; Chiurco, III,
117-19, e, pei fatti di Casale del 6 marzo 1921, pp. 394-8.
128 Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 191-8; Chiurco, III,
399.
129 Incendio e devastazione del 25 aprile 1921: cfr. «Ordine

Nuovo», 28 e 29 aprile, 3 maggio; Fascismo - Inchiesta socialista,


pp. 153-62.

309
130 26 gennaio 1921.

131 Il « Popolo d’Italia » dell’ll febbraio narra, sotto il


titolo: Trieste italiana innalza il rogo per il giornale nemico della
patria, che i fascisti avevan tentato di dar l’assalto al giornale, ma
i comunisti si difendevano sparando. Allora interviene la polizia,
che arresta i difensori, i quali « vengono solidamente legati e
caricati su camions militari… Intanto i fascisti riescono ad
infiltrarsi in via delle Giudecche. In un attimo irrompono nei locali
e vi appiccano il fuoco ». Fra gli arrestati vi è il leader comunista
Tuntar, che pochi giorni prima aveva capeggiato la banda che
aveva preso possesso del « Lavoratore », scacciandone i socialisti
(v. p. 161).
132 V. n. 119.

133 CHIURCO, III, 268.

134 « Critica Sociale », 1921, n. 9, pp. 134-5. Per


Portomaggiore v. Appendice III (Buozzi).
135 Memorie di un fascista, Firenze, Vallecchi, 1922, p. 14.

136 Questa lettera, pubblicata prima dall’« Ordine Nuovo » è

riprodotta in A. Labriola, Le due politiche. Fascismo e


comunismo, Napoli, Morano, 1924, pp. 181-4.
137 Nel corso di questa discussione, i comunisti presentarono

alla Camera la seguente mozione: « La Camera, ritenendo che il


Governo, come rappresentante di classe, non può difendere il
proletariato ed è anche costretto a servirsi della violenza per
soffocarne e impedirne ogni e ulteriore conquista, passa
all’ordine del giorno ».
138 È Chiurco stesso, l’autore della Storia della Rivoluzione
fascista.
139 CHIURCO, III, 385-7; U. BANCHELLI, Memorie di un
fascista, pp, 50-1: «Alla spedizione concorsero moltissimi fasci
della regione», Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 330-5.
140 CHIURCO, III, 133-7.

141 CHIURCO, III, 400.

142 Si tratta del Fascio di Roverdella. Un altro Fascio, quello


di Revere, « combatte a Borgantino (Polesine), Nogara, Cerea e
Sanguinetto (Verona), Lonigo (Vicenza), Mirandola (Modena),
Reggiolo (Reggio Emilia) », Chiurco, III, 403.
143 Giovanni Zibordi parla di « paralisi psichica », Critica

Socialista del fascismo, pp. 44-6.


144 «Popolo d’Italia», 19 aprile 1921.

310
145 « Popolo d’Italia », 3 luglio 1920.

146 Relazione Pasella al C.N. dei Fasci tenutosi a Milano il 10

ottobre 1920, « Popolo d’Italia », 12 ottobre e Chiurco, II, 139.


147 CHIURCO, III, 241-6 E 318-21. IN UNA INTERVISTA AL

«GIORNALE D’ITALIA » MUSSOLINI DICHIARA: « I FASCI


ITALIANI DI COMBATTIMENTO SONO NELL’ORA ATTUALE
CIRCA 1.400 DISSEMINATI IN TUTTE LE REGIONI D’ITALIA,
NON ESCLUSI I PIÙ REMOTI VILLAGGI» («POPOLO D’ITALIA»,
22 MAGGIO 1921).
148 Relazione Pasella al Congresso di Roma: « Nel dicembre

1920 si contano circa 800 Fasci; nel febbraio 1921 si sorpassano i


1.000. Nel maggio erano raddoppiati, tanto che oggi presentiamo
un’organizzazione forte di 2.200 Fasci, con oltre 320.000 iscritti
», (« Popolo d’Italia », 8 novembre 1921 e Chiurco, III, 580).
Queste cifre van prese come indicazione generica, perché, come
già si è osservato (Cap. III, n. 58) l’aritmetica fascista è su questo
tema molto imprecisa.
149 Alla fine gennaio 1921 la Direzione della Fiat comunica

che dovrà licenziare almeno il 10 per cento degli operai, e cioè


1300 su 13.000.
Si trovò allora una via d’uscita: riduzione dell’orario
settimanale a 44 ore e licenziamento di quegli operai che
risultassero avere altre possibilità di guadagno. Circa 500 operai
furono licenziati a questo titolo. Per salvare i restanti, le
Commissioni interne fanno accettare una riduzione d’orario a 40
ore settimanali. Giovanni Agnelli e l’ing. Fornaca osservano che vi
sono ordinazioni di materiale bellico che, se
accettate, risolverebbero la crisi. Le C. I. non ne voglion sapere: «
Avremo una guerra dunque? I metallurgici accettano la riduzione
del lavoro e rifiutano di preparare nuove armi di guerra»
(«Ordine Nuovo», 12 febbraio). Verso la metà di febbraio la
Direzione della Fiat propone la riduzione della settimana
lavorativa a 24 ore, come condizione per evitare i licenziamenti.
La C. E. della Camera del lavoro, della Sezione metallurgica e i
rappresentanti della Sezione comunista respingono — il 15 —
ogni riduzione al di sotto di 36 ore settimanali e invocano
l’intervento degli organi centrali sindacali (« Ordine Nuovo », 16
febbraio). Una lettera è inviata il giorno stesso alla Direzione
della Fiat invitandola a soprassedere ad ogni applicazione anche
minima delle progettate riduzioni d’orario. La Direzione replica
immediatamente: « La gravità della crisi attuale, della quale non
sembra essersi reso esattamente conto cotesta Federazione
(metallurgica), non permette assolutamente di continuare

311
coi sistemi dilatori finora usati… Entro mezzogiorno di domani noi
impartiremo in ogni caso le precise disposizioni per la
diminuzione del personale e delie ore di lavoro ». Il 16 mattina i
rappresentanti operai locali si incontrano con Agnelli per
chiedergli di sospendere le misure in attesa dell’intervento degli
organi centrali. Buozzi arriva da Milano: è d’accordo per rifiutare
i licenziamenti e la lavorazione di materiale bellico e suggerisce
di portare la discussione sul terreno puramente tecnico. La
sera stessa nella riunione delle Commissioni interne, dei
Commissari di reparto e dei gruppi comunisti d’officina una
minoranza chiede l’esclusione di Buozzi dalle trattative;
l’assemblea vota un ordine del giorno in cui si afferma che « la
crisi è artificialmente provocata dagli industriali », si diffidano
questi ultimi « dal far qualsiasi licenziamento », si rifiuta «
recisamente la riduzione dell’orario a meno di 36 ore settimanali
» e si respinge « qualsiasi proposta per la lavorazione del
materiale bellico » (« Ordine Nuovo », 17 febbraio). Nelle
trattative colla Fiat un accordo è raggiunto sulla base delle 36 ore
settimanali, evitando i licenziamenti. Il 17 l’assemblea dei
Commissari di reparti accetta quest’accordo, nonché un
esperimento di cottimo collettivo (« Ordine Nuovo », 18
febbraio). Ma dopo qualche settimana la vertenza riprende; la
Direzione della Fiat torna alla carica coi licenziamenti e il 3 aprile
essa annunzia la chiusura degli stabilimenti « di fronte
all’opposizione sistematica delle organizzazioni operaie e delle
Commissioni interne in riguardo ai licenziamenti imposti dalle
circostanze e di fronte all’abusiva permanenza nelle officine di
numerosi operai licenziati » (Chiurco, III, 162); il giorno 5 gli
stabilimenti Fiat sono occupati militarmente. La Direzione nello
stesso tempo dichiara apertamente che intende modificare il
regime interno d’officina: « La Direzione ritiene indispensabile
che sia meglio disciplinata l’organizzazione interna del lavoro ed
intende quindi che la disciplina e l’autorità nell’interno della
fabbrica siano unicamente esplicate dai propri organi, senza
inframmettenze arbitrarie »; essa esige la liquidazione del
regolamento provvisorio concordato nell’ottobre 1920 dopo
l’occupazione (« Ordine Nuovo », 6 aprile). La serrata comincia; il
23 aprile la Fiat propone uno schema d’accordo che è respinto
dagli operai, dopo di che essa apre le iscrizioni e con successo,
sicché il 6 maggio l’organizzazione deve invitare gli operai a
riprendere il lavoro (« Ordine Nuovo », 7 maggio), ciò ch’essi
avevano ormai fatto in gran parte, (cfr. su questa vertenza: R.
Ghezzi, Comunisti Industriali Fascisti a Torino, pp. 115-17,
135 sgg.). Alla Michelin il conflitto sorse per le stesse ragioni: gli
operai si opponevano ai licenziamenti e proclamavano lo sciopero

312
bianco: il lavoro fu interrotto nel reparto presse quando queste
erano ancora cariche: « Intanto nelle presse la gomma brucia: ma
nessuno si è curato di impedire il danno voluto dalla Ditta e
provocato dalla sua intransigenza. Il danno si aggira sulle 50.000
lire, a quanto pare, ed è un’ottima lezione agli industriali » («
Ordine Nuovo », 13 marzo). La ditta fa occupare militarmente lo
stabilimento e anche qui la serrata determina la sconfìtta totale
dell’organizzazione operaia verso la fine del mese.
150 Giuseppe Prato osserva che i licenziamenti iniziati negli
stabilimenti metallurgici e meccanici nei primi mesi del 1921
furono « occasione ad oculate epurazioni» (Il Piemonte e gli
effetti ecc., p. 158). Quanto alla Michelin, furono licenziati tutti i
membri della Commissione interna e tutti i Commissari di reparto
(« Ordine Nuovo », 26 marzo).
151 Decreto del 7 aprile 1921, che convoca i comizi pel 15

maggio.
152 Di cui 265.000 nelle province redente, che votano per la

prima volta.
153 Analisi compiuta dei risultati elettorali in Almanacco
Socialista 1922, pp. 460-78. Sui precedenti immediati e sulla
campagna cfr. B.P.I., nn. 159, 160, 161.
154 « Giolitti volle tentare il supremo colpo delle elezioni
politiche per galvanizzare, coll’aiuto dei fascisti, il Partito
democratico-liberale e ridurre a ragionevole numero, sì da
dominarli, popolari e socialisti… e arrivare, attraverso questo
piano, al vieni meco (suo vecchio sogno) o chiamare i socialisti
unitari e temperati con lui al governo », L. Sturzo, Popolarismo e
fascismo, pp. 46-7 e cf. 352; M. Missiroli, Il fascismo e la crisi
italiana, p. 57; G. Ferrero, Da Fiume a Roma, pp. 78-9; E. Lussu,
Marcia su Roma e dintorni, p. 17; C. Sforza, Les bâtisseurs de
l’Europe moderne, p. 243. [T. Tittoni, Politici Guerrieri Poeti,
Milano, Garzanti, 1939, p. 65: « Nell’anno 1921 Giolitti non aveva
che un proposito, diminuire le file dei socialisti e più ancora
quelle dei popolari da lui particolarmente e sempre avversati ».]
155 Mussolini dopo aver pensato a una tattica variante
secondo le condizioni ed i rapporti di forza locali, « dal semplice
fiancheggiamento dei partiti nazionali affini, alla formazione d’un
blocco di cui i fascisti devono esser il perno, alla lotta su liste
esclusivamente fasciste nelle plaghe ormai conquistate » («
Popolo d’Italia », 2 aprile 1921), si orientò quasi subito per « la
costituzione di blocchi nazionali ». In un primo ordine del giorno
votato a Milano il 7 aprile dal C. C. dei Fasci, Mussolini pone la
condizione «che partiti, gruppi, associazioni che parteciperanno

313
ai blocchi accettino sinceramente lo spirito del movimento e i
capisaldi del programma fascista» (Chiurco, III, 179), ma, partito
da questa posizione di relativa intransigenza, più comoda per
trattare, egli presenta il 15 aprile un programma molto
conciliante verso le « congregazioni economiche » reclamando «
la fìne del collettivismo statale » e la protezione doganale
dell’industria; verso i cattolici, dichiarandosi « non alieno
dall’attenuare se non abolire il monopolio scolastico dello Stato
»; verso i combattenti, chiedendo « la loro sistemazione definitiva
», e infine verso le destre nazionali, richiamandosi al discorso di
politica estera del febbraio a Trieste (cfr. p. 225) e
pronunciandosi per una politica « di pacifica espansione italiana
nel Mediterraneo ed oltre Oceano » (Chiurco, III, 180).
156 P. Nenni, Sei anni di guerra civile in Italia, Parigi, Cerconi,

1929, p. 41.
157
PARTITO COMUNISTA D’ITALIA, Manifesto ed altri
documenti poli tici, Roma, P.C.d’I. 1922, p. 46.

314
Capitolo Ottavo

IL FASCISMO AL BIVIO






Nella relazione che precedeva il decreto di
scioglimento della Camera, Giolitti scriveva: «
La seria soluzione delle più gravi questioni
sociali sarà agevolata dal fatto che le classi
lavoratrici hanno superato quel periodo di
vaghe aspirazioni rivoluzionarie, che furono e
sono grave ostacolo ad ogni progresso. Sarebbe
logico che i lavoratori invitassero i loro
rappresentanti tutti a prendere nella
vita politica una parte attiva, anziché limitarsi
alla funzione di sola critica » 1. Ma il risultato
delle elezioni fatte contro i socialisti e contro i
popolari rende impossibile la collaborazione dei
due partiti con Giolitti. I socialisti gli
rimproverano, in più, la sua tolleranza verso i
fascisti e il sangue che questi ultimi hanno
potuto impunemente versare; i popolari son mal
disposti nei suoi confronti, perché non ha
chiamato i rappresentanti dei sindacati cattolici
nella commissione d’inchiesta sull’industria e
perché ha abbandonato il progetto del suo
ministro dell’Istruzione, Benedetto Croce,
sull’esame di stato, progetto a cui il Vaticano e i
popolari tenevan molto2. Queste

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nuove doglianze, aggiungendosi alle vecchie,
drizzano una barriera di rancore contro Giolitti,
che deve così rinunciare all’operazione per la
quale aveva fatto le elezioni.
Giolitti non ha nemmeno la riconoscenza dei
fascisti, che a lui pur tanto devono. Alla vigilia
delle elezioni generali, Mussolini ha scritto nel
suo giornale che i blocchi elettorali « sono
anche una piattaforma governativa di domani »,
e che devono « fornire gli uomini atti a
reggere il governo in Italia » 3. Pensa, senza
dubbio, a un ministero di coalizione, di cui egli
farebbe parte. Coalizione con chi? Nel maggia
1920, alla Conferenza nazionale dei Fasci, che si
è tenuta a Milano, Mussolini ha tentato
un primo sondaggio in questa direzione. Si
mette in regola colle « congregazioni
economiche » pronunciandosi contro tutte le
esperienze di « socialismo di Stato »,
proclamando che bisogna « spogliare lo Stato di
tutte le sue funzioni che lo rendono idropico e
vulnerabile, riducendolo alla concezione
manchesteriana »; rassicura la monarchia,
l’esercito, i conservatori mettendo da parte la
questione « pregiudiziale » in favore di un
regime repubblicano. « Il problema della
repubblica non è un problema essenziale
in questo momento, perché oggi come oggi non
ci si ferma ad una repubblica democratica: ed il
popolo una volta lanciato andrebbe molto più
oltre. » Non esclude la collaborazione con i
socialisti di destra, se costoro facessero « una
rettifica di tiro »4; e tenta di guadagnarsi i
popolari facendo votare, malgrado un discorso

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anticlericale di Marinetti, una mozione
sull’insegnamento libero, che è ima delle
principali rivendicazioni della chiesa5. In questi
aggiustamenti e in questi raddrizzamenti di
programma vi è una nota che domina: un
nazionalismo sempre più sfrenato. Per il
momento si tiene ancora a formule che
ricordano quelle di D’Annunzio delle Odi navali.
« Il popolo italiano, dichiara, deve essere
necessariamente espansionista; deve seguire
una politica audacemente marinara. L’avvenire
d’Italia deve essere sul mare. »6 Qualche
settimana, dopo, all’inizio del luglio, precisa il
suo programma di politica estera. In questo
campo, il lavoro di revisione del programma
fascista « della prima ora » è compiuto.
Nel marzo 1919, alla riunione di piazza San
Sepolcro, Mussolini aveva accettato i princìpi
dell# Sociçtà delle Nazioni, pur interpretandoli
in tal modo, che non ne restava niente 7.
Dichiara adesso che « il Fascismo non crede alla
vitalità e ai princìpi che ispirano la cosidetta
Società delle Nazioni »; chiede la revisione del
trattato di Versaglia, vuole che l’Italia si svincoli
gradatamente « dal gruppo delle nazioni
plutocratiche occidentali » e si avvicini alle «
Nazioni nemiche »: Austria, Germania, Bulgaria,
e che essa « rivendichi » nel campo coloniale, « i
diritti e le necessità della nazione»8. Nel
febbraio 1921, a Trieste, — città ove risiedono le
potenti compagnie di armatori che gli hanno
fornito somme importanti — dopo
avere ricordato il programma del luglio 1920,
termina il suo discorso con una grande tirata: «

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È destino che il Mediterraneo9 torni nostro. È
destino che Roma torni ad essere la città
direttrice della civiltà in tutto
l’Occidente d’Europa. Innalziamo la bandiera
dell’Impero, del nostro imperialismo »10.
Molte ragioni spingono Mussolini verso il
potere, non il semplice desiderio di trovarvi
comunque un portafoglio. Vi entrerà, se sarà
necessario, dalla porta di servizio, ma è la
politica estera che lo appassiona, poiché in essa
soltanto la sua « volontà di potenza » può essere
soddisfatta. Questo « imperialismo » ch’egli
proclama, è la politica fatta per lui, che non può
essere attuata che da lui. Come potere arrivarvi
con la Camera uscita dalle elezioni del 15
maggio? I socialisti e i popolari che occupano in
questa Camera la metà circa dei seggi, sono mal
disposti verso Giolitti: non si può dunque far
niente con loro se non distaccandosi da
quest’ultimo. Mussolini ha altre ragioni ancora.
Giolitti avrebbe nel Gabinetto di
concentrazione la parte principale e — solido e
scaltro com’è — farebbe fallire le ambizioni di
Mussolini, che si comprometterebbe così agli
occhi degli squadristi senza aver raggiunto il
suo scopo. Un tradimento per nulla, non è di suo
gusto. Così, durante la campagna elettorale, egli
ha avuto la precauzione di sganciarsi il più
possibile da Giolitti11 e, una volta eletto, prende
apertamente posizione contro di lui12.
Mussolini pensa per un po’ di tempo ad
abbattere Giolitti per costituire lui stesso un
governo di coalizione. L’operazione dipende dai

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popolari, che restano, alla loro maniera,
democratici, e i cui sindacati esigono grandi
riforme sociali. Egli prepara il terreno
separandosi bruscamente dalle destre e
soprattutto dai nazionalisti. Ecco perché egli fa
riprendere dal Consiglio nazionale fascista di
Milano (2-3 giugno 1921) la formula
repubblicana che era stata lasciata cadere 13;
egli fa votare allo stesso tempo l’autonomia del
Gruppo parlamentare fascista di fronte agli altri
gruppi e l’astensione dei deputati fascisti dalla
seduta che aprirà la nuova legislatura, alla quale
il re sarà presente e leggerà il solito discorso 14.
Così si prepara la grande manovra politica che
egli abbozza prendendo per la prima volta la
parola alla Camera, il 21 giugno 1921.
Questo primo discorso è furiosamente
nazionalista: Mussolini solleva la questione del
Ticino, dell’Alto Adige, di Fiume, del
Montenegro, e rigetta tutta intera la politica del
conte Sforza, ministro degli Affari esteri del
Gabinetto Giolitti. Nello stesso tempo, egli
lancia più di un ponte verso i popolari: il
fascismo « non predica e non pratica
l’anticlericalismo », non è legato con la
massoneria; accetta in gran parte le tesi dei
popolari sul divorzio, sulla libertà
di insegnamento, sulla proprietà rurale, sul
decentramento amministrativo. Al di là dei
popolari, Mussolini si rivolge al Vaticano: se il
papato rinuncia ai suoi sogni di
potere temporale, lo stato gli darà « gli aiuti
materiali, le agevolazioni materiali per le scuole,
chiese, ospedali o altro che una potenza profana

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ha a sua disposizione ». Oltre il problema dei
rapporti tra fascisti e Partito popolare, vi è
quello dei rapporti tra Italia e Vaticano: il loro
riavvicinamento, la loro collaborazione sono
necessari, perché « la tradizione latina e
imperiale di Roma oggi è rappresentata dal
Cattolicesimo ».
Un’altra parte del discorso di Mussolini è
consacrata ai rapporti tra fascisti e socialisti.
Dalle prime parole, egli dichiara che il suo
discorso sarà « nettamente antidemocratico e
antisocialista », ciò che gli permette in
seguito di impostare più liberamente le sue
offerte e le sue minacce. Non fa ai socialisti
alcuna concessione, si abbandona contro di essi
ad una critica che vuole essere
persino dottrinale. Già in un articolo del 14
gennaio, egli aveva proclamato che « il
capitalismo è appena agli inizi della sua storia »,
ed ora rinnova il suo atto di fede davanti alla
Camera: « Comincia adesso la vera storia del
capitalismo ». Poiché il capitalismo è all’altezza
del suo compito, lo stato deve rinunziare a tutte
le sue funzioni economiche: « Dovete abolire lo
Stato collettivista, così come c’è stato trasmesso
per necessità di cose dalla guerra e ritornare
allo Stato manchesteriano » 15. Mussolini non
rinuncia nemmeno a mettere in rilievo il suo
successo personale: i socialisti, « dopo sette
anni di fortunose vicende vedono innanzi a sé,
nell’atteggiamento orgoglioso
dell’eretico, l’uomo che essi espulsero dalla loro
chiesa ortodossa ». Bisognerà che riconoscano
di avere sbagliato strada; che sul terreno della

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violenza, da essi stessi scelto, sono stati e
saranno battuti. Non può essere altrimenti,
poiché le masse operaie « sono naturalmente,
oserei dire santamente, pacifondaie, perché
esse rappresentano sempre le riserve statiche
della società umana, mentre il rischio, il
pericolo, il gusto dell’avventura sono stati
sempre il compito, il privilegio delle piccole
aristocrazie » 16. Vi sono gli estremisti del
socialismo, i comunisti. « Conosco i
comunisti. Li conosco perché parte di loro sono i
miei figli spirituali; e riconosco, con una
sincerità che può parere cinica, che io per primo
ho infettato codesta gente, quando ho introdotto
nella circolazione del socialismo italiano un
po’ di Bergson mescolato a molto Blanqui. » Ma
questa gente, aggiunge, ha mal digerito questo
cibo. I fascisti fanno una distinzione fra il Partito
socialista e la Confederazione generale del
lavoro. « Il nostro atteggiamento verso
la Confederazione generale del lavoro potrebbe
modificarsi in seguito, se la Confederazione
stessa, ed i suoi dirigenti lo meditano da un
pezzo, si distaccasse dal partito
politico socialista. » A queste condizioni, il
disarmo reciproco è possibile, e Mussolini
dichiara desiderarlo, perché « andando avanti di
questo passo, la Nazione corre serio pericolo di
precipitare nell’abisso » 17.
Facendo queste proposte, del resto così
prudenti e sottoposte a tante condizioni,
Mussolini è forse « sincero »? Se fossimo
costretti a rispondere a questa domanda con un
sì o con un no, la nostra risposta sarebbe: sì.

321
Non già che egli ritorni anche per un attimo ai
suoi antichi amori: Mussolini è persuaso che
l’èra del capitalismo sta appena iniziandosi, e
che, come scriverà un mese dopo il suo discorso,
« la nuova realtà del domani — ripetiamolo per
l’ennesima volta — sarà capitalistica » 18. Le
notizie che vengono dalla Russia, ove domina la
fame, e dove la N.E.P. rimpiazza il « comunismo
di guerra », lo persuadono che si è ovunque in
piena restaurazione. Poiché l’avvenire
appartiene al capitalismo, il socialismo non
ha alcuna speranza di imporsi: si tratta di
scegliere tra un passato quasi morto e delle
possibilità future illimitate: la scelta di Mussolini
è già fatta. D’altra parte, che cosa rischia con
questi sondaggi? Assolutamente niente. Se
Giolitti realizzasse la collaborazione con i
socialisti, questi ultimi entrerebbero nel
ministero a bandiere spiegate, e imporrebbero
le loro condizioni. È precisamente per
questa ragione che Mussolini, nel suo discorso,
si dichiara « anti-giolittiano, perché non mai
come in questi giorni fu assidua la
corrispondenza d’amorosi sensi fra l’onorevole
Giolitti e il gruppo parlamentare socialista ». Ma
se la combinazione si fa per iniziativa e sotto il
controllo di Mussolini, nella nuova costruzione i
fascisti non saranno i parenti poveri e i socialisti
vedranno le loro esigenze frenate. Inoltre,
Mussolini conosce bene la situazione del Partito
socialista e sa che questo non potrà trarre
alcun profitto dall’operazione. Il Partito
socialista, nella sua grande maggioranza è ostile
alla partecipazione; i comunisti gli sparano

322
addosso a palle infuocate. Se la destra del
partito, i dirigenti della C.G.L. entrassero al
governo, perderebbero una parte della loro
influenza sulle masse e, in ogni caso, partito e
sindacati sarebbero indeboliti da una furiosa
lotta intestina. Indeboliti nel paese, nelle masse,
i socialisti e i sindacalisti riformisti sarebbero
nello stesso tempo indeboliti al Parlamento.
Così, che il nuovo governo si faccia senza di
essi, o con una parte di essi, il processo di
disgregazione del movimento socialista
non potrebbe che continuare ed aggravarsi.
Mussolini sente infine che gli è impossibile
orientare la politica estera dell’Italia nella
direzione che desidera, finché il paese
è dilaniato dalla guerra civile. Che la guerra
civile cessi, che i socialisti siano spinti, vinti e
sempre più divisi, al governo, l’offensiva fascista
avrà raggiunto lo stesso una gran parte dei suoi
scopi. Mussolini può dunque
attendere tranquillamente l’evoluzione socialista
e desiderare « sinceramente » che essa si faccia
nel senso che ha preveduto e sollecitato 19.
Giolitti, da parte sua, prepara una soluzione
analoga. Ha testé stroncato uno sciopero di
funzionari delle amministrazioni centrali, delle
Poste e Telegrafi e delle Finanze, che subiscono
uno scacco totale e che devono riprendere il
loro lavoro senza condizioni e sotto la
minaccia di severe sanzioni. Ma allo stesso
tempo adesca i dirigenti della C.G.L., cedendo al
« Consorzio operaio metallurgico », società
cooperativa di produzione che è una emanazione
della F.I.O.M., cinque grandi stabilimenti

323
statali: gli arsenali di Napoli e di Venezia, le
fabbriche d’armi di Terni, Genova e Gardone,
allo scopo di ottenerne una gestione meno
onerosa e di alleggerire così il bilancio
dello Stato. Il « bolscevismo » italiano è ormai
ben poco pericoloso, se si possono affidare, alla
fine del maggio 1921, arsenali e fabbriche
d’armi a quella stessa Federazione metallurgica
che aveva, otto mesi prima, deciso l’occupazione
delle fabbriche. Come elemento principale della
sua grande manovra, Giolitti fa elaborare ed
approvare dalle commissioni parlamentari
nuove tariffe doganali (progetto Alessio) che
segnano una svolta importante
dell’economia italiana. Barriere doganali elevate
« difenderanno » di nuovo l’industria e
l’agricoltura nazionali20. Dirigenti della C.G.L. e
dirigenti industriali sono d’accordo su
questo punto, poiché quella misura « creerà del
lavoro » e permetterà di nuovo una certa
ripartizione di sopraprofitti fra capitalisti ed
operai sindacati del Nord. Giolitti ha posto così
le basi della politica economica ch’era stata la
sua prima della guerra e spera che questa «
collaborazione » economica porti alla
partecipazione al governo degli esponenti
socialisti, o almeno dei dirigenti sindacali. Ma
non potrà raccogliere i frutti dell’opera sua.
Cinque giorni dopo il primo discorso di
Mussolini, il ministero Giolitti è rovesciato alla
Camera su di un ordine del giorno presentato
dai socialisti, e al quale si sono associati i
fascisti21.
Una volta eliminato Giolitti, Mussolini è

324
lontano dall’avere via libera. Dall’interno stesso
del movimento fascista sorgono degli ostacoli e
s’accumulano davanti a lui sulla via che
dovrebbe condurlo al potere. Un certo
malessere regna nelle file in séguito al suo
atteggiamento di fronte al Trattato di Rapallo e
all’impresa di D’Annunzio a Fiume22. Egli deve
consacrare una parte del discorso pronunciato a
Trieste, il 6 febbraio 1921, alla propria difesa
personale. « Nel novembre 1920, non si
poteva pensare ad una rivoluzione per annullare
un trattato di pace [quello di Rapallo] che,
buono o cattivo, era accettato dal 99 per cento
degli italiani!… Pensavo anche che era
pericoloso imbottigliarsi in un’opposizione
armata al trattato, rimanendo in un punto
periferico della Nazione, come Fiume. » E a
coloro che gli rimproverano di non avere iniziato
un movimento rivoluzionario per salvare Fiume,
Mussolini risponde con un riassunto delle
sue concezioni tattiche, dal quale trasparisce la
sua enorme superiorità, sotto questo aspetto, su
coloro che lo circondano e, anche, sui socialisti
sedicenti rivoluzionari:
I fasci di combattimento, dice, non hanno mai promesso di
fare la rivoluzione in Italia, in caso di un attacco a Fiume,
e specialmente dopo la defezione di Millo23. Io, poi,
personalmente, non ho mai scritto o fatto sapere a
D’Annunzio che la rivoluzione, in Italia, dipendeva dal mio
capriccio… La rivoluzione non è una ” boîte à surprise ” che
scatta a piacere… La storia, raccolta di fatti lontani, insegna
poco agli uomini; ma la cronaca, storia che si fa sotto agli
occhi nostri, dovrebbe essere più fortunata. Ora, la cronaca
ci dice che le rivoluzioni si fanno con l’esercito, non contro
l’esercito; colle armi, non senza le armi; con movimenti di
reparti inquadrati, non con masse amorfe, chiamate a

325
comizi di piazza. Riescono quando le circonda un alone di
simpatia da parte della maggioranza; se no, gelano e
falliscono. Ora, nella tragedia fiumana, esercito e marina non
defezionarono. Certo rivoluzionarismo fiumano dell’ultima
ora non si definiva: andava da taluni anarchici24 a taluni
nazionalisti. Secondo taluni ” emissari ”, si poteva mettere
insieme il diavolo e l’acqua santa, la nazione e l’antinazione;
Misiano e Delcroix. Ora io dichiaro che respingo tutti i
bolscevismi, ma qualora dovessi, per forza, sceglierne
uno, prenderei quello di Mosca e di Lenin, non foss’altro
perché ha proporzioni gigantesche, barbariche, universali…
Non si sanava un episodio di guerra civile, scatenando più
ampia guerra, in un momento come quello che si attraversa,
e nessuno è capace di prolungare o di creare
artificiosamente situazioni storiche conchiuse e superate25.

Malgrado questa arringa, la questione di


D’Annunzio e di Fiume sarà uno dei temi attorno
a cui si salderà l’opposizione che si delinea nelle
file fasciste contro Mussolini. Una maggior
difficoltà poi risulta ancora dalla situazione
interna del paese. Come Mussolini potrebbe
arrivare al potere per le vie legali, le sole che
sono aperte per ora, data l’atmosfera di guerra
civile in cui si trova l’Italia? Egli ha contribuito
più di ogni altro a crearla. È lui che ha scritto
nel suo giornale, il 28 gennaio: « È chiaro che i
fascisti devono stringere le file, perfezionare
— in ogni senso — la loro organizzazione e
quando l’occasione si presenta, picchiare nel
mucchio senza perdersi in distinzioni superflue
». Il 5 febbraio, dopo la discussione alla Camera
sulle violenze fasciste: « Non c’è che un rimedio:
picchiare sodo! E confidiamo che, a poco a
poco, pestando sui crani, si snebbieranno i
cervelli ». Il 1° marzo dichiara che le violenze
non cesseranno, « sino a quando dal campo
avverso non sarà levata, e sinceramente, la

326
bandiera bianca della resa »; il 13, che bisogna
« continuare come prima, meglio di prima ». E il
13 aprile, indirizzandosi ai socialisti: « Noi
siamo decisi ad abbreviare — con appropriati e
tempestivi interventi a ferro freddo e caldo26 —
la vostra triste agonia». E ancora il 4 maggio, in
un discorso pronunziato a Milano alla vigilia
delle elezioni: « Finché sarà necessario noi
continueremo a picchiare più o meno
delicatamente i crani dei nostri avversari, finché
la verità non si sarà fatta strada nei loro cervelli
»27.
Questa azione ha già dato i suoi resultati più
importanti: l’organizzazione operaia è
sensibilmente indebolita, il « nemico » è già
ridotto alla difensiva o all’impotenza. La
violenza fascista, prolungandosi, rischia ora di
compromettere il piano di Mussolini, di
togliergli tutte le possibilità di manovra politica.
Il 28 aprile, ha scritto un articolo nel quale
richiama i fascisti alla moderazione: « Si tratta
pei fascisti di non perdere alla loro volta il
senso del limite. Questa perdita può sabotare
una grande vittoria. Quando si è vinto, è
pericoloso cercare di stravincere… Il Fascismo
non deve contribuire ad una rinascita del pus 28
come le infinite bestialità del pus hanno giovato
allo sviluppo del fascismo… Reso innocuo il pus,
non bisogna turbare la Nazione, ma aiutarla a
riprendere il suo faticoso cammino verso la pace
interna ed esterna. Il mònito, il comandamento
dell’ora è questo: se il Fascismo perde il ” senso
del limite ” perderà la sua vittoria »29. Queste
preoccupazioni determinano gli atteggiamenti

327
successivi di Mussolini, e spiegano perché,
non appena in taluni ambienti parlamentari
liberali si lancia l’idea di un « patto di
pacificazione » 30, egli vi si associ proponendosi
con ciò un duplice fine: entrare al governo e
riprendere in mano il movimento fascista che
comincia a sfuggirgli. La lotta per il patto di
pacificazione è, ai suoi occhi, nello stesso tempo
una lotta per il potere in seno al movimento
fascista e una lotta per il potere in seno allo
stato.
In realtà il movimento fascista, enormemente
accresciutosi, non è più facilmente manovrabile,
anche perché esso deve questo rapido sviluppo
alla sua partecipazione elettorale al blocco
nazionale, di tendenza nettamente reazionaria, e
soprattutto all’irruzione in massa, nelle sue file,
di elementi agrari della Valle del Po e della
Toscana. Mussolini incontra una prima
resistenza quando si tratta di decidere se i
deputati fascisti debbano o ho assistere alla
seduta inaugurale della nuova legislatura 31. Gli
elementi di destra e i nazionalisti vogliono
parteciparvi, per rendere omaggio al te:
Mussolini vuole che il gruppo dei deputati
fascisti si tenga in disparte e conservi una intera
libertà di azione. I suoi contraddittori sono
inoltre ostili ad ogni collaborazione con i
socialisti e vagheggiano un ministero di
concentrazione orientato a destra. Contro di essi
Mussolini tenta di mobilitare, ravvivando la «
tendenza repubblicana », il fascismo della prima
ora, i « vecchi » fascisti contro i nuovi venuti: «
Come nel novembre 1919 accadde al Pus, scrive

328
il 25 maggio, così — fatalmente! — è accaduto a
noi. Nel Fascismo si sono nascoste delle ” inclite
viltà ” di gente che aveva paura degli altri o
paura di noi; si sono insinuati nel Fascismo
egoismi rapaci e refrattari ad ogni spirito di
conciliazione nazionale,,e anche non mancano
coloro che del prestigio della violenza fascista si
sono serviti per i loro miserabili calcoli personali
o che la violenza intesa come mezzo hanno
tramutato in violenza fine a se stessa ». E
termina il suo articolo con un appello: « Fascisti
della vigilia, fascisti dell’azione, difendete il
fascismo! ». Due giorni dopo, il « Popolo d’Italia
» esce con un gran titolo: « Fascisti di tutta
Italia, contro tutte le deviazioni, per la vecchia
strada, avanti! ». Il 29, Mussolini minaccia di
indicare ai suoi accoliti un nuovo bersaglio: «
Dopo avere pestato a sinistra, perché il
Fascismo, non pesterebbe un poco fra i suoi
nemici di destra? »32. Insiste nello stesso
tempo perché i Fasci non disarmino, perché «
perfezionino » l’organizzazione e le loro squadre
di azione33. Quando il Gruppo parlamentare
socialista annuncia l’intenzione di chiedere alla
nuova Camera un’inchiesta sulle
violenze fasciste, Mussolini minaccia una marcia
su Roma… preventiva: « Sin da questo
momento, i fascisti di tutto il Lazio, dell’Umbria,
dell’Abruzzo, della Toscana, della Campania
sono moralmente impegnati a concentrarsi
a Roma al primo appello che sarà lanciato dagli
organi direttivi del nostro movimento » 34. Una
mobilitazione armata contro un’inchiesta
parlamentare: ecco la situazione italiana verso

329
la metà del 1921.
Per arrivare al potere, Mussolini vuol disporre
delle risorse dell’azione legale ed illegale35. Gli
è necessario, da un lato, di mantenere il
contatto con la massa fascista, con gli
squadristi. Non bisogna che questi ultimi
dubitino troppo presto che il fascismo sta per «
parlamentizzarsi ». Ecco perché, il 13 giugno, i
deputati fascisti, rivoltella in pugno, cacciano il
deputato comunista Misiano dalla Camera,
senza provocare, del resto, alcuna reazione36.
Nel paese, si produce di nuovo, nel giugno-
luglio, un movimente contro il carovita, e questa
volta sono i Fasci che ne prendono l’iniziativa. A
Trieste, le squadre fasciste salgono sui battelli
che arrivano dall’Istria, carichi di legumi e di
frutta, e ingiungono ai contadini di cederli
a prezzo bassissimo. A Napoli, impongono ai
caffè e ai ristoranti una riduzione del 50% sui
prezzi. A Firenze, le squadre percorrono le
strade con dei cartelli: « Produttori e
commercianti! Si dà tempo due giorni per
ribassare i prezzi! »37 Gli episodi di violenza si
moltiplicano e spesso i fascisti operano per
conto proprio, imponendo delle taglie ai
commercianti che tengono alla loro tranquillità.
Mussolini approva, pur facendo qualche riserva,
sconsigliando l’imposizione di calmieri, al fine di
non allarmare troppo i suoi sovvenzionatori. «
Non dimentichiamo in questo momento, uno dei
postulati fondamentali del Fascismo: quello che
esige la fine di ogni bardatura di guerra, di ogni
intervento statale nelle vicende dell’economia, il
ripristino della libertà economica,

330
condizione necessaria e sufficiente per il ritorno
alla normalità. »38 È la tesi delle grandi
Confederazioni dell’industria e del commercio.
Ma poiché un nuovo ministero è in
formazione, Mussolini si sforza di preparare gli
spiriti ad una partecipazione fascista al governo.
Con Salandra39, con Meda, e anche, se
necessario, con Giolitti. « L’atteggiamento
del gruppo parlamentare fascista, dichiara l’8
giugno, potrà subire qualche modificazione
anche nei riguardi del ministero Giolitti,
secondo le circostanze. »40 E fino al 27 giugno,
il giorno stesso del voto alla Camera che
rovescia Giolitti, si riserva una porta aperta da
questo lato41. Si sente vicino alla mèta, e non
vorrebbe che i nuovi eletti o i vecchi reazionari
impediscano la sua riuscita. « Io vigilo sempre
— dichiara, perché amici e nemici l’intendano —
in specie quando il vento mutevole gonfia le
vele della mia fortuna. »42 Però, alla riunione del
2 giugno del Gruppo parlamentare fascista, se
riesce a spuntarla nella questione della «
tendenza repubblicana », non riesce a imporre
la sua disciplina per l’astensione dalla seduta «
reale »: con 18 voti contro 15, il gruppo decide
che i deputati saranno personalmente liberi di
partecipare o no43. All’inizio di luglio,
cominciano i negoziati per il patto di
pacificazione ed è su questo punto che
Mussolini dà battaglia al Consiglio nazionale dei
Fasci (12-13 luglio). Riesce con gran pena a fare
accettare una risoluzione che distingue
nell’esercizio della violenza fascista fra le

331
organizzazioni politiche e i sindacati, e autorizza
i Fasci « là dove la situazione lo consenta, ad
accedere ad accordi d’ordine locale coi
rappresentanti delle organizzazioni operaie ».
L’opposizione al patto di pacificazione viene
sovrattutto da parte dei Fasci di combattimento
delle regioni « occupate », che temono di
perdere i vantaggi acquisiti con la tattica della
quale sono gli « inventori ». Le loro
preoccupazioni sono espresse da Farinacci, di
Cremona: « Se noi permettiamo ai rossi
di riprendere la loro propaganda impunemente
— egli dice alla riunione del Consiglio nazionale
— allora tutta l’opera nostra rischia di andare
all’aria ». I rappresentanti della Venezia Giulia,
dell’Emilia, della Toscana, ove domina lo
squadrismo, riprendono lo stesso argomento: «
Per ora — dicono i rappresentanti della Toscana
— si diano legnate con maggior giudizio, ma non
si deve mollare Mussolini non ottiene il voto
della risoluzione che con molta difficoltà.
Protesta che la situazione è cambiata e che il
patto di pacificazione può servire a dividere
gli avversari: « Parlare di una classe operaia
italiana che oggi sia tesa verso la realizzazione
bolscevica è dire cosa assurda. Ognuno di noi
può constatare che lo stato d’animo delle masse
operaie è fondamentalmente diverso da quello
di due anni fa. Il fatto che i socialisti
verrebbero a trattare la pace con noi, non
scaverebbe più profondo il solco tra socialisti,
comunisti ed anarchici? Noi dobbiamo seguire
una tattica, che è quella di dividere i nemici per
batterli e per separarli… Il nostro ordine del

332
giorno non chiude tutte le porte, anzi apre uno
spiraglio… Sarebbe bene cercare di separare la
Confederazione dal gruppo dei partiti sovversivi.
Quando, domani, le leghe, le cooperative, le
federazioni andassero verso l’autonomia, noi
avremmo una formidabile posizione nella vita
nazionale »45. Mussolini impiega qui tutti gli
argomenti che possono persuadere i refrattari;
pensa quello che dice ma non dice tutto quello
che pensa, poiché il suo scopo è di arrivare alla
firma del patto di pacificazione il più presto
possibile, in qualunque modo, al fine di
preparare lo sbocco politico che egli intravede e
sul quale punterà per qualche settimana. Il suo
piano si precisa: separare la C.G.L. dal Partito
socialista, e costituire in séguito una specie di «
partito laburista », grazie ad una coalizione fra
la C.G.L. ed i sindacati « nazionali » che
cominciano a sorgere un po’ dappertutto.
L’autonomia, che sgancerà la C.G.L., scrive il 2
luglio, « da tutti i partiti socialisti e non
socialisti », significherebbe « un passo verso la
realizzazione dell’unità del proletariato e quindi
la creazione di un partito del lavoro che ridurrà
al minimo l’importanza dei partiti politici
socialisti ». Mussolini riprende qui, nelle nuove
circostanze determinate dal successo iniziale del
fascismo, il suo piano dei primi mesi del 1919
46.
Perché una tale manovra riesca,
bisognerebbe che il movimento fascista non si
trasformasse in partito politico, il che non
lascerebbe più adito a un « partito del lavoro
»; lo scopo che Mussolini persegue sarebbe
allora compromesso. È molto più facile

333
trascinare in una coalizione governativa i capi
della C.G.L. e una parte degli esponenti fascisti,
utilizzando la piattaforma comune di un «
partito del lavoro », che non includervi un
partito fascista tendente a creare dal nulla una
nuova organizzazione sindacale destinata ad
eliminare e a rimpiazzare la C.G.L. Perciò
Mussolini dichiara, circa la trasformazione del
movimento fascista in partito politico: « Non ne
vogliamo sapere »47.
Una volta impegnato in questa direzione, non
può fermarsi, poiché è impaziente di arrivare al
potere. Il 19 luglio, il Gruppo parlamentare
fascista che è, come al solito, più « a destra »
dei fascisti di base, vota un ordine del giorno
favorevole alla pacificazione48. Dopo
questo voto, ch’egli stesso ha provocato,
Mussolini dichiara che si considera
personalmente impegnato e che dal
séguito degli avvenimenti « dipenderà la sua
ulteriore linea di condotta nei confronti del
Fascismo italiano ». Che i fascisti non temano di
essere ridotti all’inazione dopo la fine della
guerra civile, perché il fascismo « deve agitare e
risolvere i formidabili problemi dell’espansione
dell’Italia nel mondo »49.
Diversi sintomi, che non sfuggono
all’attenzione sempre sveglia di Mussolini, gli
dimostrano che bisogna fare presto. Nelle file
operaie, la spinta verso il fronte unico comincia
a farsi sentire: formazioni « rosse » di
combattimento e gli Arditi del popolo hanno
sfilato per la prima volta ai primi di luglio per le

334
vie di Roma50; i legionari di D’Annunzio e, con
essi, una parte degli Arditi ex combattenti, si
sono separati dai Fasci51. Inoltre, ciò che è assai
più grave, il governo Bonomi, che è succeduto
a quello di Giolitti, sembra deciso a mettere
qualche remora alle imprese fasciste e alla
complicità di cui godono presso le autorità
locali52. L’episodio di Sarzana viene al momento
buono per far riflettere gli esponenti fascisti — o
almeno quelli che sono capaci di riflessione —
sulla forza reale delle squadre di
combattimento, quando esse si scontrano con la
potenza dello stato. L’urto si è prodotto a
Sarzana il 21 luglio: per la prima volta,
dopo sette mesi di violenze, tollerate o favorite,
una « spedizione fascista » si è vista sorgere di
fronte i rappresentanti dello stato, decisi a non
lasciarla passare. Cinquecento fascisti di
Firenze, Pisa, Lucca, Viareggio si sono
concentrati a Sarzana, dove occupano la
stazione. Là si trova il capitano dei carabinieri
Jurgens, con otto militi e tre soldati. Il capo del
piccolo esercito fascista è quell’Amerigo Dumini
che assassinerà tre anni dopo Matteotti; egli
si rivolge al capitano e gli spiega gli scopi della
spedizione. I fascisti si propongono
l’investimento della città, per ottenere «
pacificamente o con la forza » la liberazione di
dieci fascisti di Carrara, arrestati in seguito a
violenze di ogni sorta commesse nella
Lunigiana. Esigono allo stesso tempo che si
consegni loro un ufficiale dell’esercito, il
sottotenente Nicodemi, che avrebbe
schiaffeggiato il capo dei fascisti arrestato, un

335
certo Renato Ricci, a cui Mussolini affiderà più
tardi il compito di organizzare i
Balilla. Quest’accusa non ha alcun fondamento,
come dichiarerà più tardi lo stesso Ricci, ma
l’ultimatum fascista non è per questo meno
perentorio. Mentre Dumini sta parlamentando
con il capitano dei carabinieri, i fascisti,
impazienti di ogni indugio, si serrano intorno al
piccolo gruppo: basta con le chiacchiere,
gridano. I soldati si mettono in posizione di
sparo e, un colpo di rivoltella essendo partito
dalle file fasciste, sparano a bruciapelo sulla
massa diventata minacciosa ed aggressiva.
Alcuni fascisti cadono, uccisi o feriti. Gli
squadristi, abituati a battersi quasi sempre
contro gente disarmata ed a contare sull’aiuto
della forza pubblica, perdono la testa davanti ad
una decina di fucili che, questa volta, hanno
sparato, e si dànno a una pazza fuga. Nel
rapporto scritto in séguito agli avvenimenti di
Sarzana, lo squadrista Umberto Banchelli,
che lo firma in qualità di « capo di Stato
Maggiore della spedizione », spiega perché
l’avventura è così mal finita. « La spedizione di
Sarzana, afferma, non è che un episodio
normale, di quando il Fascismo si sarebbe
trovato innanzi a gente disposta a tener fermo…
Le squadre troppo abituate a vincere innanzi a
un nemico che quasi sempre fuggiva o
debolmente reagiva, non hanno potuto né
saputo far fronte. » Lo stesso Banchelli spiega
anche nelle Memorie, già citate 53, che il
fascismo non ha potuto svilupparsi che grazie
all’appoggio degli ufficiali, dei carabinieri e

336
dell’esercito: i dieci fucili hanno messo in
fuga cinquecento fascisti, non solo perché hanno
sparato, ma perché sparando, hanno messo una
volta tanto fuori legge gli squadristi, sbalorditi
di trovarsi bruscamente dall’altra parte della
barricata. Inoltre, questa presenza e
quest’azione dei rappresentanti dello stato
dissipa, come per un colpo di bacchetta magica,
il terrore che precede ed accompagna la «
spedizione punitiva ». La popolazione di Sarzana
era stata messa in allarme dai ferrovieri di un
treno, contro cui le colonne fasciste
avvicinandosi alla città avevano sparato dei
colpi di fucile; essa si teneva quindi sulla
difensiva. Quando si viene a sapere ciò che è
successo sulla piazza della stazione, gruppi
armati, uscendo nelle terre circostanti e aiutati
dai contadini esasperati, dànno la caccia ai
fascisti, che lasciano una decina di morti,
appesi agli alberi o annegati nei pantani, e
diverse decine di feriti. La forza pubblica
interviene ancora, ma, questa volta, per
proteggere dal furore popolare i fascisti in
ritirata54.
In séguito a questi avvenimenti, in molte
località, i fascisti si mobilitano e fanno
dimostrazioni: a Bologna, in città e in provincia,
i Fasci proclamano, in accordo con gli
industriali, la serrata delle officine e la chiusura
dei negozi in segno di protesta; a Padova, i
fascisti occupano la Torre dell’università,
suonano a stormo e impongono la chiusura dei
caffè e dei negozi affiggendo delle scritte per il
« lutto nazionale »; vicino a Carrara, « due

337
comunisti — racconta Chiurco, — sono uccisi dai
fascisti esasperati per l’eccidio di Sarzana »55.
Ma i dirigenti dei Fasci lanciano un manifesto
alla nazione, il cui linguaggio è assai prudente e
che contiene un appello alla tregua.
Mussolini vede bene che, se la torbida
situazione creata dal terrorismo fascista si
prolunga, la reazione del paese e l’intervento
dello stato diventano inevitabili e si rischia
di perdere tutto. Così, nel discorso che
pronuncia alla Camera, l’indomani degli
avvenimenti di Sarzana, egli offre « il
ramoscello d’olivo »56 e, il 23 luglio, espone
apertamente, davanti ai socialisti sconcertati, la
formula della politica di domani:
Penso che si va presto o tardi ad una nuova e grande
coalizione e sarà quella delle tre grandi forze efficienti in
questo momento nella vita del paese… Un socialismo che
dovrà correggersi e già comincia: notevole il voto
confederale contro i comunisti, soprattutto notevole il nuovo
punto di vista della Confederazione generale del lavoro per
ciò che riguarda lo sciopero dei servizi pubblici; la forza dei
popolari che esiste, che è potente, anche perché si appoggia,
non so con quanto profitto per la religione, alla forza
immensa del cattolicismo; e finalmente non si può
negare l’esistenza di un terzo movimento complesso,
formidabile, eminentemente idealistico, che raccoglie la
parte migliore della gioventù italiana. Credo che a queste tre
forze coalizzate sopra un programma che deve costituire il
minimo común denominatore, spetterà domani il compito di
condurre la Patria a più prospere fortune57.

Pronunciando questo discorso, Mussolini non


fa un semplice gesto senza conseguenze. Per
diverse settimane, è dominato da queste
preoccupazioni: il paese sta distaccandosi dal
fascismo, e il fascismo nello stesso tempo

338
sta sottraendosi al suo controllo personale.
Rischia dunque di esser sommerso col fascismo,
ed egli vuole invece salvarsi, anche contro di
esso, se necessario. « Se io arrivo al potere —
confida allora ai capi liberali dei quali vuol
procacciarsi ¡’appoggio — io rivolgerò le
mitragliatrici contro i fasci, se non rinsaviscono.
» Vuole impedire in ogni caso la formazione di
un governo « antifascista », con partecipazione
o sostegno socialista. Ha dunque tutto da
guadagnare da una tregua: per quello che essa
può permettere e per quello che può impedire.
Donde la sua volontà di riuscire.
Così, dopo il discorso del 23 luglio, egli
intensifica nel suo giornale la campagna in
favore delle sue tesi. Vuole anzitutto rassicurare
quella parte della borghesia che è allarmata
dalla prospettiva di una partecipazione
socialista al potere. Non c’è nessun pericolo da
temere, dice. Se tra gli uomini della C.G.L. noi
avremo domani qualche ministro, essi « avranno
a sinistra avversari irriducibili in una eventuale
frazione intransigente del partito, nei comunisti,
nei sindacalisti e negli anarchici », cosicché «
saranno abbastanza intelligenti per tenere nel
debito conto la forza libera e non dogmatizzata
del Fascismo ». Il fuoco continuo che li colpirà
da sinistra li costringerà a venire a patti col
fascismo, di cui finiranno prigionieri.
D’altra parte, « i Baldini, i Turati, i Baldesi non
potranno, sul terreno della realtà, fare di più
degli altri; porteranno, essendo nuovi, un
maggior spirito volontaristico e finiranno per
rinsanguare la classe politica dominante, che

339
è stata deficiente durante questi sette anni ed è
qua e là colpita da marasma senile. Spezzato il
cinto di castità socialista il prossimo futuro
vedrà allargate notevolmente le possibilità dei
Governi »58. Il 27 luglio, prende il toro fascista
per le corna, in un editoriale: Ritorno al
principio, che è il documento più caratteristico
della posizione che ha preso e che vorrebbe far
prendere al movimento fascista:
Il problema, nei confronti del Fascismo, rimane ed è un
problema di disciplina. Il Consiglio Nazionale ha emanato, da
Roma, delle norme specifiche (circa la violenza)59: o
seguirle, o andarsene. È necessario seguirle, se si vuole
salvare e la nazione e il Fascismo. La Nazione è venuta a noi
quando il nostro movimento si annunciava come il tramonto
di una tirannide; la Nazione ci ripudierebbe quando il nostro
movimento prendesse gli aspetti di una nuova tirannide. Il
Fascismo di questi ultimi tempi, in talune zone, non somiglia
affatto al primo; non è intonato ai criteri che ispirarono la
creazione del Fascismo, il quale era un movimento di difesa
della Nazione, non già una organizzazione
puramente semplicemente repressiva a difesa di taluni
interessi particolari. Il Fascismo del 1919 e del 1920, era una
minoranza quasi trascurabile dal punto di vista numerico, ma
era fortissimo e nello stesso tempo saggio.

Dopo aver dato come esempio il fascismo di


Milano, e ricordato un passaggio ben noto di
Machiavelli, Mussolini conclude: « Ora è
urgente, è necessario ritirare il Fascismo al suo
principio. Domani potrebbe essere troppo tardi
».
Il patto di pacificazione è firmato a Roma, il 2
agosto, dai rappresentanti del Consiglio
nazionale dei Fasci, dal Partito socialista, dai
Gruppi parlamentari fascista e socialista, dalla
C.G.L. e da De Nicola, presidente della Camera,

340
che ha favorito molto attivamente le trattative.
Le cinque delegazioni, dice l’art. 2 del patto, « si
impegnano a fare immediata opera, perché
minacce, vie di fatto, rappresaglie, punizioni,
vendette, pressioni e violenze personali di
qualsiasi specie, abbiano subito a cessare ». I
due partiti « si impegnano al rispetto delle
organizzazioni economiche » (art. 4); le
infrazioni alle regole del patto saranno
sottoposte ad un giudizio arbitrale e, a questo
scopo, delle commissioni saranno insediate in
ogni provincia. La prima firma apposta in calce
al documento è quella di Benito Mussolini60.
Questi passa allora all’offensiva per vincere le
resistenze che si annunciano nel campo fascista.
Il patto, proclama, è un fatto compiuto.
Dichiaro qui, in prima persona, assumendomi tutte le
responsabilità morali e materiali della mia dichiarazione, che
vi ho messo tutta la mia buona volontà e che quando ho visto
accettato l’essenziale, ho buttato in mare taluni dei dettagli
che appartenevano all’accessorio. Aggiungo anche che
difenderò con tutte le mie forze questo trattato di pace il
quale, a mio avviso, assurge all’importanza di un
avvenimento storico, anche per la sua singolarità senza
precedenti, e che metterò in pratica il vecchio proverbio che
dice: Chi non usa le verghe, non ama suo figlio. Óra, se
il Fascismo è mio figlio, — com’è stato fin qui universalmente
riconosciuto in migliaia di manifestazioni che devo, fino a
prova contraria, ritenere sincere — io, con le verghe della
mia fede, del mio coraggio, della mia passione, o lo
correggerò o gli renderò impossibile la vita. La battaglia è
vinta. Noi potremmo cantare vittoria. Ma io sono l’uomo
perennemente inquieto del domani. Non so fermarmi. La
vittoria è un fatto: ora mi travaglia il modo col quale la
vittoria può essere utilizzata… Dal mio punto di vista la
situazione è di una semplicità lapalissiana: se il Fascismo
non mi segue nessuno potrà obbligarmi a seguire il
Fascismo.

341
Lo stesso giorno (3 agosto), in una intervista
al « Resto del Carlino », precisa: « Certo la pace
poteva-essere dettata a condizioni più dure un
mese fa: prima cioè che la stella del Fascismo,
che aveva brillato per tanto tempo all’orizzonte,
impallidisse un po’ per i fatti di Viterbo, di
Treviso, di Roccastrada… Il Trattato di
pacificazione risolve la crisi del Fascismo, nel
senso che l’elemento politico avrà d’ora innanzi
la netta e decisa egemonia sull’elemento dirò
così militare ».
Quali erano questi avvenimenti che, secondo il
parere di Mussolini, avevano tanto colpito e
indisposto l’opinione pubblica? Viterbo era stata
occupata il 9 luglio da una squadra venuta da
Roma e comandata da Giuseppe Bottai, futuro
ministro delle Corporazioni e futuro
governatore di Roma61. A Treviso, il 13 luglio,
colonne di fascisti, venute da Padova e da
Bologna, avevano distrutto le sedi del giornale
repubblicano e di un giornale popolare e
commesso ogni sorta di violenze 62; a
Roccastrada, nella Maremma toscana, il 23
luglio, una « spedizione punitiva » aveva fatto
tredici morti ed una ventina di feriti nella
popolazione: le case del sindaco e dei consiglieri
del paese, che non avevano voluto dimettersi,
erano state incendiate63. Questi fatti non sono
gran che diversi da centinaia e da migliaia di
episodi di violenza che si ripetono da sei mesi in
varie regioni d’Italia e grazie ai quali i Fasci
hanno instaurato la loro dittatura. Si
cercherebbe invano nel « Popolo d’Italia », al
momento in cui si sono prodotti, un cenno

342
qualunque di biasimo; non vi si trovano che
giustificazioni e incoraggiamenti a
continuare. Qualche settimana, qualche giorno
dopo, Mussolini li cita per spiegare la necessità
di un raddrizzamento e per esigerlo dai fascisti.
Il fatto è che, per arrivare ove vuole arrivare,
egli giudica indispensabile sganciarsi da
simili imprese. Il « ritorno alla normalità »
coincide con i suoi interessi e con le sue
ambizioni.
La ribellione fermenta nelle file fasciste contro
il patto di pacificazione 64. Il centro dello scisma
si trova a Bologna. Dino Grandi, che sarà poi
ambasciatore d’Italia a Londra, è la nuova e
giovanissima stella che sorge sull’orizzonte del
fascismo. Avvocato, ex-combattente, direttore
del giornale fascista « L’Assalto », è il teorico
dell’opposizione, l’anti-Mussolini. Questi lo
prende direttamente di petto. La lotta tra il «
vecchio » fascismo milanese e il neo-fascismo di
Bologna comincia. Mussolini rimprovera a
Grandi di non essere venuto al fascismo che da
qualche mese, e di aver chiamato Bologna: « la
culla del fascismo ». E continua:
I fascisti emiliani vogliono dare un addio al Fascismo
italiano? Dal punto di vista personale la cosa mi lascia
indifferente o quasi. Per me, il Fascismo non è fine a se
stesso; era un mezzo per ristabilire un equilibrio nazionale,
per agitare taluni valori spirituali negletti… Gran parte di ciò
è stato raggiunto. Il Fascismo può dividersi, scomporsi,
frantumarsi, decadere, tramontare. Se sarà necessario
vibrare martellate potenti, per affrettare la sua rovina, io mi
adatterò all’ingrata bisogna. Il Fascismo che non è più
liberazione, ma tirannia; che non è più salvaguardia
della Nazione, ma difesa di interessi privati e delle caste più
opache, sorde, miserabili che esistano in Italia; il Fascismo

343
che assume questa fisionomia, sarà ancora Fascismo, ma non
è più il Fascismo, quale fu concepito da me, in uno dei
momenti più oscuri della recente storia italiana. Siamo in
troppi, e quando la famiglia aumenta la secessione è quasi
fatale. Venga, se deve venire, e i socialisti si rallegrino! La
loro vittoria non è nel trattato di pace, ma in questa crisi di
indisciplina, in questa cecità spaventevole, che sta per
perdere una parte del Fascismo italiano…
Non s’erano — dunque — mai accorti del cerchio di odio
che minacciava di soffocare col cattivo, anche il buon
Fascismo? Non si erano — dunque — accorti che il Fascismo
— anche presso le popolazioni non socialiste — era diventato
sinonimo di terrore? Io ho spezzato questo cerchio; ho aperto
il varco fra i reticolati di quest’odio, di questa ormai
irrefrenabile esasperazione di vaste masse popolari che ci
avrebbe travolti; ho ridato al Fascismo tutte le possibilità,
indicato le strade di tutte le grandezze attraverso una tregua
civile — sacrosanta ai fini della Nazione e dell’Umanità — ed
ecco che si sparano — come dopo le solite beghe dei vecchi
partiti — le grosse artiglierie della polemica e della
diffamazione, a base di denunce, delazioni, tradimenti e
simili tristi buffonerie. Orbene: è tempo che il
Fascismo italiano sputi ciò che pensa, ciò che vuole. Il
trattato di pacificazione è il reagente che deve precipitare la
selezione… Il Fascismo può fare a meno di me? Certo, ma
anch’io posso benissimo fare a meno del Fascismo. Io parlo
chiaro, come l’uomo che avendo molto dato, non chiede
assolutamente nulla: salvo a ricominciare65.

Questo linguaggio non arriva né a persuadere,


né ad intimidire l’opposizione. Al contrario,
Grandi ed i suoi amici organizzano una riunione
dei Fasci dell’Emilia e della Romagna, che si
tiene a Bologna il 17 di agosto. La città è
tappezzata di affissi oltraggiosi per il « Duce
»: Chi ha tradito, tradirà; si cantano dei motivi
antimussoliniani. Questa adunata regionale si
trasforma in conferenza dell’opposizione, perché
numerosi rappresentanti di altre province vi
sono intervenuti. I Fasci di Bologna, Ferrara,
Cremona, Modena, Piacenza, Rovigo, Forlì,

344
Venezia si dichiarano « completamente estranei
al patto di pacificazione ». È tutta la Valle del
Po, è il fascismo agrario che proclama la sua
dissidenza. Mussolini è accusato di viltà; si
denuncia senza ambagi il suo giuoco, che giunge
a sacrificare il fascismo, ad allearlo con i «
marxisti », per soddisfare la sua ambizione
personale. Nella discussione, intervengono, fra
gli altri, Italo Balbo, di Ferrara, i deputati
Oviglio, Farinacci, Vicini, Piccinato e Marsich.
Quest’ultimo constata: « Noi siamo a una
svolta del Fascismo. Mussolini lo ha sentito, ma
mi dà l’impressione che si sia perduto. Vi sono
infatti due soluzioni: una parlamentare e una
nazionale. Noi siamo per la soluzione nazionale;
egli in questo momento è per la
soluzione parlamentare ». Dino Grandi si
pronuncia per il completamento della
rivoluzione fascista, contro il
compromesso parlamentare, per l’abbandono
dei postulati, ormai sorpassati, del fascismo del
1919, per un fascismo « delle nostre nuove
generazioni ». Questo fascismo trova il
suo punto di partenza a Fiume. « Io non sono
stato un legionario, dice, ma ho visto nella notte
di Ronchi66, il primo battesimo del Fascismo
italiano. È sulla notte di Ronchi e sul
sindacalismo nazionale della costituzione
fiumana che noi dobbiamo trovare i caposaldi e
le basi di quello Stato di cui dobbiamo preparare
ad ogni costo il terreno per il domani »67.
Subito dopo la riunione di Bologna, Mussolini
dà le dimissioni dalla Commissione esecutiva dei
Fasci. È furioso e depresso: « La partita è ormai

345
chiusa, egli dichiara. Chi è sconfitto, deve
andarsene. Ed io me ne vado dai primi posti.
Resto e spero di restare semplice gregario del
Fascio Milanese »68. Qualche giorno dopo
Cesare Rossi, vice segretario generale dei Fasci,
segue il suo esempio. Nella sua lettera di
dimissioni, constata che la maggioranza
delle organizzazioni fasciste « in clamorosi voti
di Congressi Regionali e, quel che più conta, con
gli atti di ogni giorno ha dimostrato la sua recisa
ed assoluta ostilità al rispetto e all’applicazione
del trattato di tregua ». Non ci voleva molta
attitudine alla critica per prevedere che
l’irruzione degli ultimi arrivati « venuti
soprattutto quando il nemico batteva in ritirata
», e lo zelo sospetto delle « vecchie cariatidi
delle consorterie clerico-agrarie », stavano per
cancellare i lineamenti originali del fascismo.
Infatti, il fascismo, « per l’opera delle sue masse
locali, per un’infinità di episodi che fanno tutta
la cronaca e la storia del movimento fascista di
questi ultimi tempi, laddove appare
come dominatore è divenuto un puro, autentico
ed esclusivo movimento di conservazione e di
reazione »69.
Noi solamente Mussolini è battuto, ma
l’opposizione non si contenta del suo primo
successo. In settembre, convoca due nuove
conferenze: una a Ferrara, l’altra a Todi
(Umbria)70. A partire da questo momento,
numerose Federazioni provinciali denunciano il
patto di pacificazione, che esse non hanno mai
accettato71. I dissidenti organizzano anche una
« marcia fascista » su Ravenna, in occasione

346
delle feste per il secentesimo anniversario
della morte di Dante. Le colonne arrivano da
Ferrara, da Bologna, da Modena: partiti il 10
settembre in numero di almeno tremila,
inquadrati come un esercito, completamente
equipaggiati, dopo una marcia di tre giorni
sulle strade dell’Emilia i fascisti entrano
cantando le loro canzoni di morte nella « città
del silenzio ». Lungo la strada, per allenarsi,
hanno distrutto qualche circolo socialista. A
Ravenna piombano su tutti coloro che non si
scoprono a tempo al passaggio dei gagliardetti
fascisti; degli operai, dei preti sono picchiati a
sangue e anche dei forestieri, venuti per i
festeggiamenti, fra cui Johann Joergensen,
lo storico di San Francesco. Vi sono proteste,
incidenti. La mattina stessa del 12, i fascisti
devastano e saccheggiano cinque circoli
socialisti della città e dei dintorni, la Camera del
lavoro e la Federazione delle cooperative. Sulla
via del ritorno, le colonne distruggono tutto ciò
che non hanno avuto il tempo di distruggere
venendo. Se Dante avesse potuto levarsi dalla
sua tomba, avrebbe rinnovato l’apostrofe di
Sordello
Ahi! Serva Italia di dolore ostello
Nave senza nocchiero in gran tempesta
E ora in te non stanno sanza guerra
Li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.

Gli stessi costumi, ma senza il fiero coraggio e


una certa grandezza di quei tempi. Ciò che
caratterizza questa grande « spedizione » è che
si tratta di una manifestazione di forza

347
dell’opposizione. I suoi capi vi son tutti:
Grandi Bologna, Balbo di Ferrara, Misuri di
Perugia, Caradonna delle Puglie. Hanno voluto
dimostrare che sono ben decisi a continuare le
loro imprese e a impiegare i loro
metodi72. Mussolini si sente sempre più isolato e
covando la sua amarezza, che egli lascia
scorgere di tempo in tempo, comincia a
chiedersi se non stia per sacrificare
inutilmente il suo prestigio e se, dopo aver
perduto la prima delle battaglie che ha
ingaggiato, non stia per perdere anche l’altra,
quella sul piano governativo. Di fronte agli
avvenimenti di Ravenna, il cui senso non gli,
sfugge, non ha una parola di deplorazione. Al
contrario, egli ingiuria, nel « Popolo d’Italia »,
Nullo Baldini, il deputato socialista di Ravenna,
che, magra risorsa, ha presentato
73
un’interpellanza alla Camera . È il primo passo
di una nuova manovra con la quale Mussolini,
sforzandosi di « salvare la faccia», si propone di
riguadagnare il grosso dell’esercito fascista, che
si è ribellato contro di lui. Egli si rende
conto che il piano politico concepito da lui e
lanciato nel discorso del 23 luglio non è
realizzabile. Questo piano ha drizzato contro di
lui la maggioranza dei fascisti e non gli ha
guadagnato alcun’altra forza.
I conservatori sono furiosi perché il nuovo
atteggiamento di Mussolini punta su una
partecipazione socialista al potere, che
metterebbe fra le bande fasciste e le
organizzazioni socialiste e operaie lo schermo
dello stato. Essi, scrive Mussolini, che « ancora

348
di recente imploravano l’elemosina umiliante di
un po’ di collaborazione socialista » 74, adesso
che il pericolo è passato, trovano che «
Mussolini manca di stile ». Nel « Giornale
d’Italia » del 18 agosto — il giorno dopo la
Conferenza di Bologna e le dimissioni di
Mussolini — il senatore Bergamini75
scrive infatti: « C’è forse sotto questa incostanza
mussoliniana la mancanza di solide
convinzioni… Certo è che in questa precipitosa
liquidazione del fascismo, Mussolini manca
di stile… Il Duce se ne va troppo presto,
rumorosamente, con ostentazione, mentre le
schiere vittoriose nel complesso continuano qua
e là una dura guerriglia contro i residui
dell’esercito sconfitto ». Mussolini recalcitra
sotto la facile ironia di questi profittatori del
fascismo e risponde che non ha da ricevere
lezioni da nessuno, e che il suo stile è quello di
uno « che non ha la pretesa burlesca di
continuare a fare il generale quando il suo
esercito gli rifiuta ogni obbedienza e disciplina…
». « Io ho voluto, precisa, fermamente voluto un
Trattato di pacificazione. Orbene, centinaia di
fascisti non ne vogliono sapere e lo dichiarano
esplicitamente. Non sono io che me ne
vado, sono gli altri che mi costringono ad
andarmene, poiché il loro voto me in particolar
modo colpisce e squalifica. »76 Il « Giornale
d’Italia » espone nella sua risposta le
sue preoccupazioni, che sono quelle degli agrari
che lo sovvenzionano:
Noi non attendiamo con impazienza che si sviluppi la crisi
del Fascismo, tanto è vero che abbiamo cortesemente

349
rimproverato a Mussolini di apparire desideroso di
affrettarla. Per noi, lo abbiamo detto più volte, la funzione
del Fascismo è essenzialmente transitoria, ma appunto per
questo il Fascismo non va liquidato se non gradatamente,
man mano che si renda superfluo. Abbiamo detto mancanza
di stile riferendoci non al solo ultimo episodio delle
dimissioni, ma alla eccessiva fretta mostrata da Mussolini in
tutto l’ultimo periodo, dall’inizio delle trattative di pace
in qua… Noi, che polemizziamo oggi stesso con Mussolini,
riconosciamo che egli ha ragione quando dice che bisogna
spezzare il fronte unico anti-fascista, che occorre
assolutamente non mettere il fascismo in contrasto con gli
organi dello stato del quale esso è sostenitore e integratore e
che urge riconciliare l’opinione pubblica col fascismo.
La crisi di tendenza non deve portare alla liquidazione del
fascismo, mentre si vanno formando in molte località i
nuclei di « Arditi del Popolo », e mentre i socialisti turatiani
fanno sforzi inauditi per portare il partito al governo o,
quanto meno, per catturare il governo. È probabile che nel
prossimo congresso socialista la tendenza collaborazionista
sarà battuta e sarà un bene per l’Italia, dato che l’andata dei
socialisti, anche con una semplice puntarella, al governo in
questo momento, provocherebbe, a nostro avviso,
l’indebolimento dello Stato. Intanto è fittissimo il lavorio per
costituire il blocco dei socialisti coi riformisti, coi
democratico-sociali e forse anche coi democratici liberali per
dare vita ad un ministero libero-radico-socialista. Questo
lavorio sarà probabilmente spezzato dal congresso socialista
che riaffermerà la intransigenza. Ma è già non di meno
notevole l’affannarsi di qualche frazione di sinistra per
creare una situazione basata sull’alleanza fra la democrazia
e il socialismo, che sposterebbe verso l’estrema
sinistra l’asse del governo del paese.
La prematura crisi del fascismo è dannosissima e più
nociva ancora sarebbe la immediata disgregazione del
fascismo stesso, poiché indebolirebbe le forze politiche
nazionali e conservative per lasciare arbitre dei destini del
paese le forze ultra democratiche… Sarebbe dunque un
errore per i fascisti liquidare ora la loro forza spiccatamente
nazionale e conservativa per lasciare libero il campo ad una
situazione a fondo inevitabilmente democratico, nella quale i
socialisti sarebbero i veri dominatori77.

Dal canto loro, i nazionalisti, nota il « Popolo

350
d’Italia », « sono politicamente in agguato »78 e
il loro giornale, « L’Idea Nazionale », che è
anche l’organo dell’industria pesante e dei
fornitori di guerra, scopre che il fascismo non è
nato a Milano nel marzo 1919; ma « a
Bologna nel dicembre 1920 ». Mussolini ha
dunque contro di sè il suo proprio movimento, la
grande borghesia industriale e agraria, i
nazionalisti, e si rende conto che non disarmerà
mai i socialisti, nemmeno i socialisti di destra.
Ora, egli è ben deciso a non lavorare per il re di
Prussia, cioè a non puntare su una politica di cui
non sarebbe personalmente l’arbitro e il
profittatore.
I socialisti non hanno visto nella crisi
fascista che l’imbarazzo in cui si trova Mussolini
e, invece di approfittarne sul piano politico,
contemplano la scena, con gli occhi accecati dal
loro risentimento, rallegrandosi di questa «
rivincita » insperata e che essi credono
definitiva. Già nel suo discorso alla Camera sugli
avvenimenti di Sarzana (22 luglio) Mussolini si
era lagnato che i socialisti non avessero risposto
alle sue proposte se non
chiamandolo Maddaleno pentito79. Al momento
delle sue dimissioni l’« Avanti » ha un « ghigno
di gioia », ch’egli non dimenticherà facilmente
80.

Il Partito socialista si trova più che mai in un


vicolo cieco, perché il patto di pacificazione non
ha fatto che aggravare la sua impotenza. Il 10
agosto la Direzione del partito approva il patto e
il 12 la stessa Direzione vota un ordine del
giorno contro ogni qualsiasi partecipazione al

351
governo. Così, a due giorni di distanza, il partito
prende due decisioni che si annullano
reciprocamente, e, ciò che è più grave, senza
rendersi conto della loro contraddizione. Che
significa il patto, poiché lo si è firmato
e approvato? Si tratta forse di due eserciti in
lotta che concludono una specie di tregua
provvisoria? Ma non vi è sul terreno, dal punto
di vista militare, che un solo esercito, quello
delle squadre fasciste. Il movimento degli Arditi
del popolo comincia appena ad organizzarsi, e,
del resto, coll’art. 5 del patto, il Partito
socialista ha dichiarato di esser loro « estraneo
». È evidente che l’accordo non può essere
mantenuto che in nome di qualche cosa che
vada al di là delle posizioni iniziali dei due
avversari: una certa nozione dell’interesse
generale del paese, compromesso dalla guerra
civile, il riconoscimento di un certo valore
positivo ed autonomo delle libertà
democratiche, che la classe operaia ha tutto
l’interesse di salvaguardare. I fascisti della base
si ribellano un po’ dappertutto e gridano con i
loro mandanti della grossa borghesia agraria ed
industriale: la legalità ci uccide81. La difesa dei
risultati raggiunti dal movimento operaio non è
possibile, nella situazione concreta dell’Italia,
che se lo stato mantiene la sua neutralità e se,
in certe regioni, interviene per ristabilire le
funzioni essenziali della vita pubblica, che
l’offensiva fascista ha soppresso. Ma lo stato è
privo di ogni potere se il paese non è dietro di
lui. Ridurre le banche fasciste alla ragione non
gli è possibile che se i lavoratori stessi accettano

352
l’imperativo di questo « interesse generale » al
quale lo stato dovrebbe subordinare con tutti
i mezzi le orde scatenate degli squadristi.
Orbene, il Partito socialista discute con
Mosca, con la Terza Internazionale, alla quale
aderisce ancora, secondo la decisione del suo
ultimo congresso82. A Mosca non si ha che
un’idea molto approssimativa di ciò che
succede in Italia, e del resto, dopo lo scacco
della marcia su Varsavia e l’allontanamento di
ogni prospettiva di rivoluzione prossima su scala
mondiale, l’Italia non è più, agli occhi dei russi,
che una pedina di mediocre importanza
sullo scacchiere europeo. Nel Partito socialista
si tiene a mantenere una certa investitura
ufficiale da Mosca, perché ciò permette di
difendersi contro la concorrenza accanita dei
comunisti. Ma così il partito diviene prigioniero
delle posizioni comuniste. Ci si batte contro i
comunisti a colpi di formule, ma queste formule,
impiegate per la lotta di tendenza, si ritrovano e
pesano sul piano della politica generale, dove è
in giuoco la sorte della classe operaia e del
popolo italiano83. Di tanto in tanto il
manganello fascista fa cadere la benda dagli
occhi, ma la si rimette subito, precipitosamente,
quando si deve passare dalla constatazione dei
fatti alle conclusioni politiche e tattiche. Si
oscilla così tra la millanteria e la codardia, tra
l’intransigenza « simbolica » e la rassegnazione
davanti all’« inevitabile ». Per un momento si
può credere che il sangue versato, che le
fiamme degli incendi stiano per suscitare una
nuova coscienza politica, ma ogni volta si

353
indietreggia davanti alla confessione che
bisognerebbe fare, alla decisione da prendere: si
ha molta più paura di non parere « rivoluzionari
» che di lasciare il fascismo occupare a poco a
poco tutta Vitalia.
I comunisti, che non hanno firmato il patto 84,
gridano: « Nessuna conciliazione è possibile; tra
noi e il fascismo non vi è che una lotta a morte;
fascismo o comunismo ». Praticamente lottano
contro i fascisti né più né meno degli altri, ma la
loro posizione costituisce per il fascismo un
preziosissimo contributo. Per essi, tutto è
fascismo: lo stato, la borghesia, la democrazia, i
socialisti. Bisogna quindi battersi su tutti i
fronti: contro i socialisti, contro la democrazia,
contro la borghesia, contro lo stato, contro i
fascisti. Mettere tutto insieme nel sacco, il che «
semplificherà » la lotta. Non ci sarà da misurare
e dirigere i colpi. In realtà i comunisti non
conducono la lotta seriamente e a fondo che
contro i socialisti85: è là che raccolgono i loro
allori, in un giuoco serrato di sfrenata
concorrenza. Il Partito comunista si oppone
anche alla partecipazione dei suoi membri agli
Arditi del popolo, che denuncia come una «
manovra della borghesia »86. In un comunicato
del 7 agosto, l’esecutivo di questo partito
dichiara: « Gli Arditi del Papolo si propongono, a
quanto sembra, di realizzare la reazione
proletaria agli eccessi del fascismo,
coll’obiettivo di ristabilire ” l’ordine e la
normalità della vita sociale ”. L’obiettivo dei
comunisti è ben diverso: essi tendono a
condurre la lotta proletaria fino alla vittoria

354
rivoluzionaria; essi si pongono dal punto di vista
dell’antitesi implacabile tra dittatura della
reazione borghese e dittatura della rivoluzione
proletaria ». È il Partito comunista che deve
organizzare, solo, senza i socialisti e contro di
essi, le formazioni armate che devono battere
tutti gli avversari, e fare in più la
rivoluzione87. In realtà, tutto ciò non è che
demagogia settaria e impotente: dei comunisti si
batteranno in qualche zona, tireranno qualche
colpo di rivoltella in certe località,
parteciperanno malgrado il veto del partito a
gruppi di Arditi del popolo, ma il Partito
comunista, in quanto tale, resterà praticamente
assente dalla lotta e faciliterà sensibilmente con
la sua tattica la vittoria del fascismo.
Resterebbe una via d’uscita: impegnare nella
lotta contro il fascismo lo stato, con le sue
enormi risorse, ma questa via è chiusa, perché il
Partito socialista non permette al Gruppo
parlamentare né appoggio, né partecipazione.
Questo partito che ha rifiutato la Costituente,
che voleva « i Sovieti dappertutto », non può
reclamare niente sul piano politico da questo
stato che si propone puramente e
semplicemente di « spezzare ». I socialisti
non possono domandare a questo stato di
sbarazzarli dal loro più pericoloso avversario,
per fare poi, ugualmente e a modo loro, la «
marcia su Roma ». Così il patto di pacificazione
resta alla mercè dei mille incidenti che
continuano a opporre ai lavoratori, in tutte le
regioni d’Italia, i fascisti decisi a non restituire
le posizioni conquistate e a non rinunciare ai

355
metodi che ne hanno permesso la rapida
conquista. Non vi è un « braccio secolare »
per fare rispettare i princìpi che il patto ha
enunciato. Niente interviene ad allargare la
breccia che si è prodotta nel fascismo, per
rendere l’opposizione tra le due
tendenze irreparabile, per « compromettere »
Mussolini e i suoi amici sul nuovo cammino, in
modo che non possano più uscirne. Così la crisi
fascista, abbandonata a se stessa, può risolversi
senza gran difficoltà.
Il problema è per Mussolini il seguente: come
riprendere in mano il movimento fascista e
come fame uno strumento più maneggevole
della sua politica personale, quella che gli
detteranno le circostanze e la cura dei
suoi interessi? In febbraio, al momento del
discorso di Trieste, si dichiara ostile alla
trasformazione del fascismo in partito politico e
lo è ancora alla fine di maggio88. La rivolta delle
squadre di combattimento, il ruolo dominante
che esse hanno avuto nell’opposizione alle sue
direttive, lo persuadono ora che bisogna
trasformare il movimento fascista in partito, per
potergli imporre una disciplina. Lui che ha
orrore dei programmi, questi « dogmi e
pregiudizi o già superati o che possono esser
superati dal continuo svolgersi dei fatti »,
accetta l’idea di un programma, poiché il partito
ne suppone uno. Il 23 agosto, sei giorni dopo il
pronunciamento di Bologna, un collaboratore
del « Popolo d’Italia » pubblica un articolo per
sostenere che: « il fascismo deve decidersi a
diventar partito o a morire ». Mussolini ne

356
approfitta per annunciare la sua conversione:
In un’altra parte del giornale, uno scrittore fascista, non
degli ultimi venuti, affronta un problema fondamentale che si
compendia in questa domanda: il Fascismo deve diventare
un partito? Dopo lunghe riflessioni e un attento esame della
situazione politica, io sono giunto a rispondere in modo
affermativo… Un dilemma è stato imposto dalle origini e dal
corso della crisi fascista: o si costituisce un partito, o si fa un
esercito… A mio avviso il problema va risolto in questi
termini: bisogna costituire un partito, così solidamente
inquadrato e disciplinato, che possa, quando sia necessario,
trasmutarsi in un esercito capace di agire sul terreno della
violenza, sia per attaccare, sia per difendersi. Bisogna
dare un’anima al partito, cioè un programma. I postulati
teorici e pratici devono essere riveduti e allargati, taluni di
essi aboliti. Le settimane che ci separano dalla riunione
nazionale di Roma dovrebbero essere e saranno dedicate alla
elaborazione delle tavole programmatiche del partito fascista
italiano89.

Si noti la prudenza di un simile linguaggio.


Mussolini non propone punto di sopprimere le
squadre di combattimento; vuole solamente che
lo squadrismo non possa impedire al partito di
compiere la sua funzione politica. L’esperienza
della crisi ministeriale di giugno e del patto di
pacificazione gli hanno dimostrato che il
fascismo rischia di non poter più sfruttare le
risorse dell’azione legale e politica, riducendosi
a una pericolosa impresa di guerra civile, ove
finirebbe col mobilitare contro di lui la
maggioranza del paese e coll’urtarsi all’azione
repressiva dello stato. Mussolini vuol potere
puntare su ambedue le carte, evitare che
l’intolleranza e le impazienze degli squadristi gli
tolgano le armi legali, di cui sente che il
fascismo ha ancora bisogno. All’inizio del
settembre pensa ad un partito fascista del

357
lavoro. È la transizione fra il progetto ormai
defunto di un « partito laburista » e la nuova
formula. « La parola lavoro ci vuole », afferma,
nel nome del nuovo partito90. Due settimane
dopo, propone semplicemente: «Partito
fascista». Il nuovo partito non sorgerà sulla base
di una coalizione di sindacati, come lo
intravedeva all’inizio del luglio, ma su quella di
una integrazione dei Fasci e delle loro squadre
di combattimento, sottomesse finalmente ad una
disciplina politica. Invece di realizzare « l’unità
del proletariato », esso creerà i suoi
propri sindacati: è la tesi dei dissidenti di
Bologna che trionfa, e che Mussolini adotta
tacitamente91. Senza dubbio egli è dimissionario
dopo la sua lettera del 17 agosto, ma non ha
punto rinunciato alla lotta. Se il piano politico
del 23 luglio è abbandonato92, gli resta la lotta
per l’egemonia in seno al movimento fascista.
Sbarazzatosi del suo « laburismo », che ha
gettato via come una zavorra, può
adesso manovrare più liberamente in vista del
prossimo congresso nazionale. Comincia col
chiedere — senza ottenerlo — che questo
congresso si tenga a Milano, ove l’ambiente gli è
favorevole, e non a Roma93. Nello stesso
tempo, si preoccupa dell’atteggiamento del
ministero Bonomi, che sembra deciso ad opporsi
alla « illegalità » fascista. A Modena, la guardia
regia ha sparato contro i dimostranti fascisti,
che hanno lasciato alcuni morti sul terreno.
Emozione e scandalo94. Sono state decise delle
restrizioni al porto d’arme e alla circolazione dei
camion, ciò che rischia di intralciare le

358
scorribande delle camicie nere95. Le autorità
locali non applicano gli ordini ministeriali, di cui
si servono soprattutto per colpire gli sparuti
nuclei degli « Arditi del popolo » Tuttavia, qua e
là, le squadre fasciste incontrano qualche
difficoltà. I Fasci esigono che il Gruppo
parlamentare fascista passi alla
opposizione aperta contro il ministero Bonomi,
ma Mussolini si oppone « ad una violenta azione
antiministeriale »: bisogna prima di tutto,
afferma il 7 settembre, risolvere la crisi fascista,
costituire il partito. Un’offensiva rischierebbe
di precipitare la situazione nel senso di un
blocco e dunque di un governo antifascista e,
forse, riporterebbe Nitti al potere; Bonomi è
ancora il minor male97.
I Fasci, che si sono sviluppati grazie a
facilitazioni di ogni sorta ottenute dalle autorità
pubbliche, non possono sopportare questa
nuova atmosfera di controlli e di restrizioni. Il
direttorio del Fascio di Firenze pubblica il
30 settembre il manifesto seguente: «
Pochissimi cittadini hanno sentito il dovere di
esporre il tricolore per i tragici fatti di Modena e
nessun esercente ha chiuso il proprio magazzino
nemmeno per mezz’ora. Di fronte
all’ostilità palese o nascosta della cittadinanza, e
in special modo della borghesia ricca e
gaudente, che ha applaudito l’azione fascista
fino a quando essa coincideva coi propri
materiali interessi, i fascisti dichiarano
formalmente di ritirarsi fin da oggi dalla lotta »;
essi sono decisi « a rimanere con l’arma al
piede »98. Appena si accorge che i fascisti

359
non sono più appoggiati dallo stato, la
popolazione fa il vuoto attorno ad essi e non
obbedisce più alle loro ingiunzioni. Il Fascio di
Venezia, anche lui, « si disinteressa
completamente della lotta » e lascerà d’ora in
avanti « alla borghesia di provvedere alla
propria difesa » 99. Mussolini reagisce contro
questa ondata di panico. « Quella tal curiosa,
paradossale, mai vista epidemia — scrive l‘8
ottobre — dilaga fra i Fasci che, nell’agosto
scorso, si agitarono per respinger il patto di
Roma. Dopo il Fascio di Firenze, ecco quelli di
Ferrara, Padova, Venezia, tutti Fasci ”
sterministi ”, che si ritirano ” a vita privata “.
La gravità estrema delle decisioni prese dai
fascisti che ” rinunciano ” sta appunto in ciò: nel
dare l’impressione che quella che fu difesa fino
a ieri, è appunto la borghesia che meno lo
meritava. » E poiché l’ordine del giorno
proclama « l’avversione assoluta » contro il
ministero Bonomi, Mussolini risponde su questo
punto: « Cosa significa, in concreto? E se
domani il dilemma non avesse che due termini:
Bonomi o Nitti, si può sapere dove andrebbe a
pencolare l’assolutismo del Direttorio fascista di
Venezia? » 100.
Il Congresso del partito si riunisce e Mussolini
presenta nel « Popolo d’Italia » le nuove « linee
programmatiche » del partito 101. La
liquidazione del programma del 1919
è compiuta, il « socialismo » della prima ora
lascia definitivamente il posto ad un
nazionalismo « integrale ». Alla base di tutto, vi
è la « Società Nazionale », perché la « legge

360
essenziale della vita nel mondo non è
l’unificazione delle varie società… ma la loro
feconda e augurabile pacifica concorrenza ». Lo
stato deve rinunciare ad ogni monopolio
nell’ordine economico; un suo compito
specifico è « dedicare la somma delle sue
attività al rinvigorimento, allo sviluppo, alla
espansione della Nazione italiana per il
raggiungimento dei suoi grandi fini storici e
mondiali ». Appello alle energie e alle iniziative
individuali, che costituiscono « il fattore più
possente e operoso della produzione economica
» e rinuncia assoluta « alle statizzazioni,
socializzazioni, municipalizzazioni ». Abolizione
di tutte le misure fiscali « demagogiche » e
esonero da ogni imposta per « quella parte dei
redditi che sia stata trasformata in capitale
tecnico o strumentale ». In politica interna, «
restaurazione dell’autorità dello Stato nazionale
», agnosticismo in fatto di regime, creazione a
lato del Parlamento dei Consigli nazionali
tecnici dotati di poteri legislativi. Interdizione
degli scioperi nei servizi pubblici. In
materia sindacale, il fascismo aiuterà le
minoranze proletarie che stanno ponendosi sul
terreno nazionale. In materia religiosa: « piena
libertà alla Chiesa cattolica nell’esercizio del
suo ministero spirituale; soluzione del dissidio
con la Santa Sede ». I paragrafi consacrati alla
politica estera cominciano con l’affermazione,
già più volte ripetuta, che « il Fascismo non
crede alla vitalità ed ai princìpi che ispirano la
cosidetta Società delle Nazioni » e
riprendono tutti i punti ricordati o enunciati nel

361
discorso di febbraio a Trieste 102. Per ciò che
concerne l’esercito, il programma del 1919
aveva fatto delle concessioni allo spirito
pacifista e democratico degli ex-combattenti,
reclamando la sostituzione dell’esercito
permanente con « una milizia nazionale con
brevi periodi di istruzione e compito
esclusivamente difensivo »103. Il nuovo
programma esige al contrario, « una
organizzazione militare proporzionata
alle necessità attuali e eventuali di una Nazione
in continuo sviluppo qual è l’Italia». Lo scarto
fra queste due formule, la loro netta opposizione
misurano tutto il cammino percorso dalla
ideologia fascista dal marzo 1919. A coloro che
rimproverano al nuovo programma una
mancanza di originalità, Mussolini risponde,
qualche giorno dopo, il 14 ottobre,
riassumendolo in alcune formule rimbombanti: «
Da tutte le sètte socialiste siamo
irreparabilmente distinti, perché respingiamo
ogni e qualsiasi internazionalismo, ogni e
qualsiasi intervento statale nelle
faccende dell’economia… Dalle diverse scuole
della democrazia e del liberalismo ci divide il
nostro convincimento di uno Stato fortissimo e
quindi ridotto alle sue funzioni
primordiali politico-morali e di una politica
estera espansionistica, coraggiosa, italiana ».
Mussolini propone allo stesso tempo uno
schema di statuto, e fissa il compito ed i
rapporti degli organi dirigenti del partito
(Congresso nazionale, Comitato centrale,
Commissione esecutiva, Consiglio

362
nazionale, Segreteria politica), delle Federazioni
e delle Sezioni. Questo statuto, pubblicato alla
vigilia del Congresso di Roma, sottopone le «
squadre d’azione » al controllo dei
dirigenti politici dei Fasci; queste squadre «
dipendono politicamente e disciplinarmente dal
Direttorio di ciascuna sezione ». Ogni tendenza
all’autonomia deve essere repressa. L’elemento
« politico » deve avere il sopravvento
sull’elemento « militare ».
All’epoca del Congresso di Roma (7-10
novembre), i fascisti che, nel 1920, non avevano
che un centinaio di Fasci con 30 mila aderenti,
contano 2200 Fasci e 320 mila iscritti. Questi si
reclutano soprattutto nella borghesia agraria e
nelle classi medie. Un censimento fatto
allora dalla Segreteria del partito concernente
151.644 iscritti, mette in luce la composizione
sociale del movimento: 18.084 proprietari
terrieri, 13.878 commercianti, 4269 industriali,
9981 membri di professioni liberali, 7209
impiegati di stato, 14.988 impiegati privati,
1680 insegnanti, 19.783 studenti. Questi 90.000
membri costituiscono la parte militante dei
Fasci, i sovvenzionatori, i capi e i quadri attivi
delle spedizioni punitive. Vi sono, con
essi, 36.847 lavoratori agricoli, in maggioranza
membri delle « leghe » socialiste, passati ai
Fasci sotto la pressione dell’offensiva
squadrista, e 23.418 lavoratori industriali,
reclutati soprattutto nelle amministrazioni
pubbliche, tra gli scaricatori di porto, e nelle
regioni che i Fasci hanno occupato
militarmente. In séguito a questa occupazione, i

363
Fasci hanno ereditato anche 138 cooperative e
614 sindacati operai, con 64.000 iscritti, di cui
due terzi nell’Emilia, nella Toscana e nel Veneto
104. La massa operaia, nelle città come nelle

campagne, è paralizzata, ed in certe regioni


domata, ma essa resta fedele alle
organizzazioni socialiste o cattoliche. La vera, la
sola forza reale del movimento fascista è per il
momento quella che gli viene dalle squadre di
azione. Anche il Congresso di Roma non riesce
che prendendo il carattere di una parata
militare, di un‘adunata. Mussolini lo vede molto
chiaramente. Alla vigilia del Congresso, incontra
a Roma i capi dell’opposizione e conclude con
essi un compromesso. L’opposizione, che si
sente in maggioranza, rinuncia a mettere in
stato d’accusa Mussolini e il Comitato centrale
del partito, a condizione che non si parli più del
patto di pacificazione. Mussolini accetta, poiché
vuole ad ogni costo evitare che si arrivi ad un
voto, dal quale sarebbe certamente battuto. La
prospettiva di essere pubblicamente sconfessato
in pieno Congresso lo esaspera e lo dispone a
rinnegare tutto. Grandi spiega davanti al
Congresso l’atteggiamento dell’opposizione. Noi
vogliamo evitare la scissione, dichiara, a
condizione « che del trattato non se ne parli mai
più assolutamente, né qui, né in altra sede ».
Mussolini, che ha visto la sua popolarità
compromessa, sale alla tribuna e dichiara a sua
volta che « certamente il trattato appartiene al
passato », non è più che « un episodio
retrospettivo » 105. Grandi e Mussolini si
abbracciano, ed il congresso, dove fino ad allora

364
partigiani ed avversari del patto si erano urtati
riservando i loro applausi all’uno o all’altro dei
due capi, li saluta con una sola ovazione e si
mette a cantare, ad urlare Giovinezza. La
discussione sul rapporto morale aveva
contrapposto, il primo giorno, le due correnti.
Un rappresentante di Torino era venuto alla
tribuna per deplorare « che il Fascismo si sia
posto a braccetto con gli agrari e con gli
aguzzini dei lavoratori »; mentre uno squadrista
aveva dichiarato: « Noi non dovevamo firmare
alcuna tregua, perché siamo dei soldati ». La «
riconciliazione » fra i due capi, il secondo
giorno, taglia corto ad ogni polemica.
Pronunziano uno dopo l’altro un discorso sulla
questione programmatica. Mussolini riprende i
punti che ha già pubblicato nel « Popolo d’Italia
»106,. insistendo ancora una volta sulla
opposizione ad ogni statalismo o collettivismo in
economia: « In materia economica siamo
liberali, nel senso più classico della parola » e,
dopo aver criticato la costituzione
107
dannunziana del Quarnaro , aggiunge: « Noi,
liberali in economia, non lo saremo in politica ».
Afferma inoltre la necessità di una svolta a
destra, legata ad una politica imperialista.
Fa l’elogio di Crispí, il quale « ebbe il coraggio,
in un momento in cui l’Italia sembrava dominata
dalla politica del piede di casa, di portare l’Italia
nel Mediterraneo, in Africa, perché sentiva che
non ci può essere grandezza nazionale se la
Nazione stessa non è sospinta da un’idea di
impero ». Bisogna che un popolo senta questo
pungolo, senza di che è condannato alla

365
decadenza ed alla morte.
Grandi pronuncia un discorso ben più ricco di
idee e di vedute, che è una critica senza pietà
dei recenti atteggiamenti di Mussolini, ch’egli
evita però di nominare. Vi è, dice, conflitto fra
fascismo parlamentare e fascismo nazionale. «
Dopo le elezioni, il Fascismo si è trasformato ad
un tratto da movimento sentimentale in
movimento politico e si è imprigionato entro
l’orbita rappresentativa del Parlamento prima di
avere una ben precisa fisionomia. Per questo
finora ha proceduto a tentoni e non ha
saputo trovare la sua strada. » Bisogna
rinnovare a fondo le istituzioni e cominciare col
rinnovare la ideologia stessa del fascismo. È
nell’eredità di Fiume, nella costituzione
del Quarnaro che si ritrova il germe di questo
doppio rinnovamento, il cui senso « può
riassumersi in queste tre parole: libertà,
nazione, sindacalismo ». Invece di mettersi al
rimorchio dei conservatori, del Vaticano, o
del riformismo socialista, il fascismo deve
diventare l’animatore di una nuova democrazia
nazionale, di una democrazia sindacale, che
permetterà di fare aderire le masse allo stato
nazionale. « Lo Stato deve risolversi in un
grande e potente istituto di sindacati. Noi
concepiamo la democrazia non come un mezzo
ma come un fine. » Grandi risponde su questo
punto a Mussolini che, nel suo discorso, aveva
detto che « la democrazia può essere un
mezzo, non mai un fine ». Il fascismo, conclude
Grandi, sta per elaborare in se stesso,
lentamente, i germi dello stato futuro. « Il

366
nostro congresso non è che la prefazione di un
gran libro che sarà scritto dalla nostra
generazione. »108
La massa dei partecipanti al Congresso assiste
alle discussioni come a uno spettacolo, senza
afferrarne il senso profondo, salutando con
ovazioni interminabili i due discorsi. Così riesce
facile ai dirigenti di chiudere subito la
discussione e far votare un ordine del giorno,
che affida al Consiglio nazionale il compito di
dare una forma definitiva al programma del
partito, integrando il programma di Mussolini
con quello di Grandi109.
Questo compito poteva apparire ben arduo,
data l’opposizione formale dei due programmi.
Ma la soluzione adottata permetteva di
guadagnar tempo e di salvaguardare Punita del
partito. D’altronde, le masse fasciste non si
interessano per niente alle questioni
ideologiche; esse vogliono soprattutto
continuare a picchiare sui socialisti, e basta loro
sapere che Mussolini e Grandi si sono
messi d’accordo per lasciar cadere il patto di
pacificazione. Inoltre, il conflitto programmatico
era falsato da un incrocio di formule e di fatti
che impediva di ricondurlo a posizioni precise e
coerenti. Mussolini, che è « conservatore »,
ha pensato durante qualche settimana ad una
collaborazione con i socialisti, che i conservatori
sperano veder liquidati una volta per sempre
grazie al manganello fascista. Grandi, che parla
di nuovo Risorgimento, che vorrebbe andar
incontro alle masse e trasportare su scala
italiana la repubblica del Quarnaro, si appoggia

367
sui fascisti della Valle del Po, ispirati e guidati
dagli agrari, la casta più sordida e più ostile ai
lavoratori. Mussolini non nasconde la
sua sfiducia verso i sindacati fascisti,
soprattutto se si pretende costruire su di essi
uno « Stato sindacale », ma Grandi, che vuole
essere rivoluzionario e sindacalista, è il capo del
fascismo delle « spedizioni punitive », le quali
stanno estirpando il sindacalismo fino alle radici
in un terzo dell’Italia. Mussolini, che vuole la
collaborazione con la C.G.L,. si eleva contro
D’Annunzio, che sogna una « riconciliazione
nazionale » di cui la C.G.L. sarebbe il
perno, mentre Grandi, che si proclama il
discepolo di D’Annunzio, vuole distruggere la
C.G.L. fin nelle fondamenta. Mussolini, che
tende a una dittatura personale, ha parlato, fino
alla vigilia del Congresso, di pacificazione e di
collaborazione: Grandi, che ha parlato di
democrazia e di sindacalismo, vuole che
l’offensiva delle camicie nere sia spinta fino
all’annientamento dell’avversario. Da un lato
come dall’altro, non vi è alcuna corrispondenza
fra le formule e i fatti, fra i « princìpi » e le forze
che dovrebbero realizzarli; e questa « commedia
degli equivoci » finisce per facilitare la sutura
fra le due tendenze. L’ideologia reazionaria di
Mussolini deve fatalmente raggiungere
le truppe reazionarie di Grandi e, a partire da
questo momento, l’unità sarà ricostituita. Tanto
più che Mussolini è deciso a tutto per ricondurre
a sè gli squadristi: butta a mare il patto di
pacificazione, firma per primo un telegramma di
omaggio inviato dal Congresso a D’Annunzio, fa

368
dell’ipernazionalismo. Lui che, qualche mese
prima, difendeva il Trattato di Rapallo,
interrompe il discorso di un delegato che si
lagna che l’Italia abbia infine forze armate alla
frontiera jugoslava, gridando: « Ci siamo noi! Si
farà una spedizione punitiva a Lubiana ». Vivi
applausi, segnala a questo momento il resoconto
del Congresso 110.
Un episodio, d’importanza grandissima per
l’evoluzione interna del fascismo, precipita il
riavvicinamento delle due correnti. Le bande
della Toscana e dell’Emilia sono arrivate a
Roma, equipaggiate come per una spedizione
punitiva. Nelle strade della capitale, gli
squadristi si buttano su tutti coloro che portano
una cravatta rossa o che non si scoprono al loro
passaggio, come hanno l’abitudine di fare nella
« loro » Firenze o nella « loro » Bologna.
Alla stazione uccidono un ferroviere. Sciopero
generale di protesta. Il governo è preoccupato.
Che i fascisti scorribandino nelle altre città, non
è grave. Ma a Roma, vi sono le ambasciate, il
Vaticano, i pellegrinaggi… Gli incidenti si
moltiplicano, i fascisti si sentono circondati da
una atmosfera di odio e di disapprovazione. Si
vendicano lasciando all’interno dell’Augusteo, la
grande sala dove si è tenuto il Congresso,
rottami e immondizie d’ogni sorta 111. Mussolini
parla in piena Camera di una «
incomprensione fra i fascisti e la popolazione
romana »112, Grandi, di dimenticanza e di «
ingratitudine ». Ciononostante la lezione ha
servito all’uno e all’altro. Mussolini ha «
scoperto » che il solo fascismo che conta è

369
quello delle squadre di combattimento, delle
quali deve riguadagnare la fiducia, se vuole
disporre di una forza reale nel suo gioco. Grandi
ha compreso che la Valle del Po non è tutta
l’Italia e che, anche là dove gli pare d’aver
trionfato, il fascismo non può mantenersi se lo
stato non vi si presta. Scrive poco dopo a questo
proposito: « La presa di possesso violenta e
dittatoriale dei poteri dello Stato è apparsa
in certi momenti una urgente ed impellente
necessità. Necessità tanto più evidente quanto
più tale specie di rivoluzione appariva facile e
possibile… Le giornate di Roma
hanno cancellato questa illusione. A Roma, nel
novembre scorso, tutti noi avemmo la
sensazione precisa che qualsiasi tentativo di
violenza barricadiera non avrebbe fecondato
e preparato alcun domani migliore dell’oggi —
dato che la coscienza dello Stato nuovo non era
e non è ancora maturata nel cuore delle
moltitudini » 113. La « spedizione punitiva » non
basta, ci vuole l’azione politica, « un processo
lento, quotidiano, intimo ed assiduo ». Chi, fra
i capi della opposizione, potrebbe incaricarsene?
Sono tutti uomini giovani, senza esperienza,
bruscamente posti davanti ad una realtà che
fino allora avevano ignorato. Mussolini è il solo
uomo della situazione, quegli che ha, da più
mesi, denunciato il pericolo di una rottura tra il
paese e il fascismo. Da questa rottura gli «
sterminatori » della opposizione hanno avuto a
Roma l’inattesa rivelazione. Si riconosce ora che
il suo « opportunismo » era dettato dalla
situazione, ch’egli solo può dirigere l’azione

370
politica del fascismo, il quale senza di lui si
romperebbe la testa. Così, poco tempo dopo
essere stato messo in minoranza al Congresso,
egli appare come il solo capo possibile
del fascismo, l’unico, il « Duce ». Il movimento
di rivolta cominciato contro di lui, e davanti al
quale egli ha abbandonato le prime posizioni,
diventate insostenibili, si affievolisce e il
fascismo ritorna da Mussolini, a
Mussolini. Questo ritorno si fa malgrado certi
incidenti prodottisi l’ultimo giorno del
Congresso. I delegati
dell’opposizione propongono Roma, invece di
Milano, come sede centrale del partito, per
ridurre l’influenza personale di Mussolini. Su
questo punto le due tendenze votano, e la
proposta è adottata a forte maggioranza. Gli
oppositori accolgono il risultato con applausi,
che esasperano Mussolini. Si legge la lista della
Commissione esecutiva dei fasci: il primo nome
è quello di Mussolini, il secondo quello di
Grandi. Allora Mussolini si alza e dichiara di non
accettare. All’assemblea che lo acclama per
forzargli la mano, risponde: « È inutile che
insistiate, ciò significa che non mi conoscete. Io
non accetto » 114. I suoi amici, al contrario,
lo conoscono bene, perché Mussolini, pur non
facendo dichiarazione formale di accettazione,
partecipa alla prima riunione del nuovo
Comitato esecutivo. Egli sente troppo bene che
la situazione si volge in suo favore, ed egli
recita per un po’ la commedia, solo perché gli
occorre ancora un po’ di tempo per digerire
l’affronto subito a Roma. Se lo potesse, gli

371
piacerebbe esercitare una piccola rappresaglia
contro i fascisti: lasciarli soli a sbrogliarsela,
aspettare a Milano, al « Popolo d’Italia », che
vengano un giorno a pregarlo di riprendere la
direzione del movimento. « Bisogna fare —
aveva scritto alla vigilia del Congresso —
l’esperienza di un fascismo ” spersonalizzato »
115
La situazione politica non gli permette questo
piacere. I gruppi parlamentari « democratici »,
che vanno da Giolitti a Nitti, hanno cominciato
le trattative per la loro fusione e per la
formazione di un gruppo parlamentare unico 116.
La fusione si attua alla fine di novembre: da 150
a 160 deputati aderiscono alla nuova
formazione. I fascisti, sbarazzatisi del patto di
pacificazione 117, che non li ha mai gran che
vincolati, riprendono le loro imprese: assassinio
del deputato socialista Di Vagno nelle Puglie
118, assassinio del presidente della Deputazione

provinciale di Cremona, il socialista Boldori119,


massacrato a colpi di bastone sulla strada. I
fascisti fanno di lui questo elogio funebre: « Non
è colpa nostra se il suo cranio era così poco
resistente ». Si ha anche un nuovo assalto
contro « Il Lavoratore » di Trieste, e l’assassinio
d’un tipografo che provoca uno sciopero
generale di protesta, proclamato dalla
Federazione dei lavoratori del libro in tutta
Italia 120.
Il governo dirama nuove circolari sul «
disarmo dei cittadini » ed ordina delle
perquisizioni per ricercare e sequestrare le

372
armi. Queste disposizioni restano lettera morta,
perché il governo si ferma a mezza strada,
lasciando alle autorità locali l’iniziativa
eventuale dello scioglimento delle formazioni
armate. Questo scioglimento, « deve portare
immediatamente, dice la circolare, alla
occupazione dei locali, al sequestro delle armi,
alla revoca del porto d’armi a tutti membri dei
corpi armati e, eventualmente, alla loro
denunzia all’autorità giudiziaria, se si
constatano casi estremi contemplati dagli
articoli 253 e 254 del C. P. » per coloro che «
organizzano dei corpi armati e ne fanno parte »
121
. Ma quanti prefetti e sottoprefetti si
decideranno a giungere sino allo scioglimento,
di cui restano gli arbitri e cioè alla sola misura
realmente decisiva? La circolare lascia la porta
aperta a tutte le evasioni, a tutte le tolleranze.
Le autorità locali fanno qualche perquisizione,
ma è soprattutto nelle Case del popolo e
nelle sedi dei sindacati socialisti, per prendervi
quelle poche armi che vi potevano essere
rimaste e lasciare così la via libera all’attacco
fascista. Dei gruppi di Arditi del popolo sono
arrestati, e ogni volta la magistratura li
condanna senza pietà 122. Per fare rispettare la
legge, le autorità dovrebbero occupare tutti i
locali fascisti, di dove partono le spedizioni
punitive, arrestare tutti i membri delle squadre
di combattimento 123. Le armi, che si
dovrebbero ricercare in queste sedi, sono state
spesso fornite dalle autorità militari. Quando
una perquisizione è decisa, i dirigenti del Fascio
sono preavvisati ed hanno tutto il tempo

373
di trasportarle in luogo sicuro: è già molto che
non le nascondano nelle cantine stesse della
polizia o della prefettura. Così non si trova mai
niente, e l’indomani le squadre partono di
nuovo, armate sui loro camion, passando
tranquillamente sotto le finestre della polizia,
ove si sta redigendo un rapporto precisante che
la perquisizione, benché durata lungo tempo,
non ha scoperto alcunché che legittimi una
misura qualsiasi dell’autorità prefettizia. Il
governo si rende conto che le disposizioni che
ha preso sono inefficaci, e progetta di sciogliere
per decreto le squadre di combattimento.
Appena i dirigenti del Partito fascista hanno
sentore di questa intenzione, mettono le mani
avanti e, il 15 dicembre 1921, dànno l’ordine
seguente:
A tutte le Sezioni del Partito! A tutte le Squadre di
Combattimento!
Corre pei giornali notizia di una prossima offensiva del
Governo contro il Fascismo… Sezioni del Partito e Squadre
di Combattimento formano un insieme inscindibile. A datare
dal giorno 15 dicembre 1921, tutti gli iscritti alle sezioni
fanno parte delle squadre di combattimento… Lo
scioglimento delle squadre di combattimento risulterà
pertanto praticamente impossibile se prima il Governo non
avrà dichiarato fuori legge il Partito Nazionale Fascista in
blocco 124.

La sfida è lanciata. Volete sciogliere le


squadre di combattimento? Ma tutto il partito
passa in queste squadre 125. Sciogliete dunque il
partito, se osate. E il governo, bene inteso, non
oserà. Il suo capo, Bonomi, è stato eletto in
maggio, a Mantova, su una lista del blocco
nazionale, insieme coi fascisti126. Egli moltiplica

374
le circolari, che nessuno applica, come quelle
grida dei governatori spagnoli di Milano sulla
carestia e sulla peste di cui parla Manzoni nel
suo romanzo. I fascisti hanno giuocato d’audacia
e lo stato indietreggia. Nello stesso tempo, la
crisi interna del fascismo fa un nuovo passo
avanti verso la sua soluzione: il pericolo comune
unisce « sezioni » e « squadre », serra i loro
ranghi. Invece della secessione fascista, che
doveva permettere a Mussolini ed ai suoi amici
di inserirsi nello stato, si assistè, verso la fine
dell’anno, all’unificazione del fascismo nella
lotta contro lo stato.

Note al capitolo ottavo

1 Testo della relazione al re in V. Bruzzolesi, Giolitti, pp. 221-7.

2 Il progetto Croce era stato respinto dai socialisti,


democratici e liberali in sede di commissione il 12 febbraio 1921.
Cfr. L. Sturzo, Popolarismo e fascismo, p. 38.
3 «Popolo d’Italia», 11 maggio 1921.

4 « Popolo d’Italia », 25 maggio 1920. Già al momento della

prima caduta di Nitti, Mussolini pronosticava un ministero Meda,


aggiungendo di non aver pregiudiziali contro « la partecipazione
al potere dei socialisti di destra» («Popolo d’Italia», 12 maggio).
5 « Popolo d’Italia », 25 maggio 1920.
6 Queste linee programmatiche si ritrovano, con lievi
attenuazioni, nell’appello del Partito fascista per le elezioni del
1921, v. Cap. VII, n. 155.
7 Cfr. p. 54-55.

8 « Popolo d’Italia », 3 luglio 1920.

9 Secondo Mussolini, « l’Italia sarà la potenza destinata a


dirigere dal Mediterraneo tutta la politica europea » (discorso di
Pola del 20 settembre 1920, Chiurco, II, 270); egli si scaglia

375
contro coloro che si « ipnotizzano » sull’Adriatico, mentre le
possibilità vere dell’espansione italiana sono nel Mediterraneo
(«Popolo d’Italia», 73 novembre); invoca l’autonomia economica
dell’Italia, perché « solo a questo patto essa può diventare la
nazione dominatrice del bacino del Mediterraneo («
Popolo d’Italia», 8 gennaio 1921); la «solida disciplina» che il
fascismo vuole e necessaria perché l’Italia sia « la nazione
mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni » (discorso di
Bologna, « Popolo d’Italia », 6 aprile).
10 Discorso del 6 febbraio, Scritti e discorsi, II, 148. La « linea

generale » di questa politica è espressa nel discorso elettorale di


Mussolini a Milano: « Il programma di politica estera del fascismo
è in una parola: espansionismo » (« Popolo d’Italia », 5 maggio).
Tutte queste idee e queste formule son da lui riprese nelle « linee
programmatiche » pubblicate prima del Congresso di Roma
(«Popolo d’Italia», 9 ottobre).
11 Vedi spec. « Popolo d’Italia », 26 aprile 1921, in cui giudica

Giolitti « un uomo soverchiato da altre forze ». Alla vigilia dello


scrutinio, a Settimelli che gli chiede se considera « come
assolutamente inconciliabile una collaborazione ministeriale
fascista », risponde: « Con Giolitti, sì. Con altri elementi, il caso
sarà vagliato da punti di vista essenzialmente realistici » («
Popolo d’Italia », 13 maggio).
12 Nella prima intervista data dopo la sua trionfale elezione al

« Giornale d’Italia », Mussolini dichiara che il gruppo fascista


sarà all’opposizione, poiché le elezioni « hanno dato torto a
Giolitti » il quale « non può rappresentare nessuna delle forze
dinamiche della vita politica italiana, che sono tre: popolari,
socialisti e fascisti » (« Popolo d’Italia », 22 maggio).
13 Mussolini aveva già preso posizione nella citata intervista

al « Giornale d’Italia », dichiarando: « Il Fascismo non ha


pregiudiziali monarchiche o repubblicane, ma è tendenzialmente
repubblicano… Il gruppo fascista si asterrà ufficialmente dal
prendere parte alla seduta reale ». Egli risponde poi alle
polemiche suscitate dalle sue dichiarazioni con una serie di
quattro articoli, nell’ultimo dei quali (« Popolo d’Italia », 27
maggio) scrive: « Sfido chiunque a trovare in questo giornale,
prima, durante e dopo la guerra qualche cosa che anche da
lontano rassomigli a un atto d’adesione alla dinastia. La parola re
non è mai stata scritta con la maiuscola su queste colonne ». Il
fascismo non è legato né alla sorte della monarchia né alla
istituzione della repubblica. « L’avvenire è incerto e l’assoluto
non esiste. Ecco perché ripudiamo le camicie di Nesso delle

376
pregiudiziali che non ci consentono di agire liberamente sul
terreno mobile e complesso della vita e della storia ».
14 Ma cfr. p. 234.

15 Questa tesi è costante, in questi anni, nel futuro teorico del

« tutto nello Stato ». Cfr. i suoi articoli del 7 gennaio e del 2


giugno 1921 e la relazione di Piero Marsich su « la posizione
teorico-pratica del fascismo di fronte allo Stato» («Popolo
d’Italia», 21 gennaio 1921 e cfr. pp. 52-3.
16 « Noi non temiamo in nessun modo il bluff rivoluzionario
socialista. Il proletariato è intimamente, inguaribilmente
pacifondaio. Non si batte », aveva egli scritto fin dal 26 giugno
1920. E cfr. soprattutto l’articolo del « Popolo d’Italia », del 19
ottobre 1920.
17 Scritti e discorsi, II, pp. 165-8.

18 « Popolo d’Italia », 29 luglio. Idea in lui tenace: « La


grande èra del capitalismo sta per cominciare », (« Popolo d’Italia
», 12 aprile 1922).
19 Secondo una testimonianza di Massimo Rocca, Mussolini
gli diceva ancora alla fine del 1921 che il Partito socialista era,
come tale, insopportabile, ma che - se si fosse potuto formare un
governo « d’ordine e di riforma, capace di opporsi colle
mitragliatrici a qualsiasi rivolta, anche a quella dei fascisti,
sarebbe stato saggio e giusto di far posto, nel nuovo ministero,
alla Confederazione Generale del Lavoro, che rappresentava
qualche milione di proletari e ch’era diretta dai socialisti
moderati », Fascisme et antifascisme, Parigi, Alcan, 1930, p. 45.
20 Sulle tariffe Alessio cfr. R. Bachi, L’Italia economica nel
1921, pp. 283-9; Agostino Lanzillo, Le rivoluzioni del dopoguerra,
Città di Castello, Il Solco, 1922, pp. 196-206, dove si parla di un «
attentato protezionista »; G. Mortara, Prospettive economiche
1922, Città di Castello, S. Lapi, 1922, pp. 283-9. Le tariffe furono
attuate con decreto legge 9 giugno 1921.
21 Nella seduta del 26 giugno dopo un dibattito sulla politica

estera del governo (difesa il giorno prima davanti alla Camera dal
ministro Sforza), si erano associati nel voto contrario a quella
politica socialisti, comunisti, repubblicani, Nitti e i suoi amici,
liberali di destra, fascisti e nazionalisti. Il governo aveva ottenuto
la maggioranza di 234 voti contro 200, maggioranza però
indebolita dalle riserve fatte, pur votando pel governo, dal gruppo
della democrazia sociale. Il giorno dopo Giolitti faceva decidere in
Consiglio dei ministri le dimissioni, rifiutando poi (’incarico
propostogli dal re di formare un nuovo Gabinetto. Ivanoe Bonomi,

377
designato dopo un rifiuto di De Nicola, poteva il 4
luglio presentare al re la lista del suo ministero, ottenendo alla
Camera — dopo una discussione durata dal 18 al 23 luglio — la
fortissima maggioranza di 302 voti contro 136.
In un primo momento la Direzione del P.S.I. aveva consentito, a
richiesta della maggioranza del Gruppo parlamentare socialista,
che questi « potesse assumere atteggiamenti tattici tali per cui,
scartata in modo assoluto ogni e qualsiasi parvenza di
collaborazionismo, i deputati non dovessero ostacolare a priori il
tentativo che altri partiti si proponessero di fare, per attuare
sinceramente e durevolmente una politica contraria al perdurare
dell’uso della violenza contro il movimento proletario ». Ma subito
dopo la presentazione di Bonomi alla Camera, la Direzione del
partito, spaventata d’aver avuto tanto coraggio — e cioè
d’aver accettato l’idea di un’eventuale astensione del gruppo dal
voto, per non far il giuoco dei fascisti — ordinò al gruppo di
votare contro il ministero Bonomi (A. Malatesta, La crisi
socialista, pp. 154-7). Questa decisione della Direzione fu letta da
Giovanni Bacci il 21 luglio alla riunione del gruppo e contro di
essa la frazione Turati-Modigliani-Giulio Casalini ecc., protestò,
dichiarando che avrebbe obbedito « per disciplina di partito », ma
lasciando « alla direzione tutta la responsabilità del suo
atteggiamento », cfr. n. 164, pp. 4-10; n. 165, pp. 5-8; n. 166, p. 7.
22 Pp. 145-46.

23 Pp. 79 e 147.
24 Pp. 81-82.

25 Scritti e discorsi, II, pp. 144-7.

26 « A ferro freddo o caldo »: è anche questa una formula di


D’Annunzio per i pugnali degli Arditi.
27 Due giorni dopo lo scrutinio il Comitato centrale dei Fasci
esige delle « rappresaglie » sistematiche: « Si fa obbligo a tutti i
Fasci di combattimento di rispondere con immediate e inesorabili
rappresaglie contro l’aggressione e gli aggressori se individuati, e
quando ciò non sia possibile, si ordina di tenere responsabili i
capi locali (comunisti e socialisti). Quei Fasci che non si
atterranno a queste precise disposizioni saranno proposti al
Comitato centrale per la radiazione », « Popolo d’Italia », 18
maggio.
28 Partito socialista ufficiale.

29 Già dal marzo 1921 si trova, mescolato ancora al feroce


hallalì, qualche accenno alla tregua. « Se i socialisti disarmano
sul serio, i fascisti disarmeranno a loro volta », (« Popolo d’Italia

378
», 5 marzo). Questa ancor saltuaria resipiscenza ha un fine
politico; Mussolini è impaziente di inserirsi « ufficialmente » nella
vita italiana e di giungere al governo, con Giolitti o contro Giolitti,
poco importa. Il 12 marzo vuol continuare fazione violenta, ma «
per imporre a chiunque il nostro sacrosanto diritto di cittadinanza
ideale e politica in Italia ». Verso la fine del mese la tregua gli
appare come un momento di quell’evoluzione politica da
lungo tempo attesa. Egli si augura che il Partito socialista « getti
definitiva* mente alle ortiche quell’insurrezionismo pel quale non
è assolutamente tagliato », poiché allora « si determinerà una
situazione di fatto nuova che avrà ripercussione sul nostro
atteggiamento» («Popolo d’Italia», 26 marzo). Lo spettacolo dei
funerali delle vittime del Diana, a cui ha concorso tutta la
cittadinanza — assenti i soli comunisti — lo colpisce e Mussolini,
sensibile ai grandi movimenti di folla, scrive: « Quella di ieri è
stata la prima giornata di tregua dopo la turbinosa lotta di
due anni… Non ci siamo persuasi che quel che è stato possibile,
oggi, davanti alla Morte, può essere, qualora lo si voglia, ancora
più possibile davanti a tutte le manifestazioni della vita » («
Popolo d’Italia », 28 marzo).
30 [Secondo Cesare Rossi, l’iniziativa è stata presa da quattro

deputati ex-combattenti: i socialisti Zaniboni ed Ellero, i fascisti


Acerbo e Giuriati. Il presidente della Camera, De Nicola, accettò
di patrocinarla; C. Rossi, Mussolini com’era, p. 105.]
31 Pp. 225-26.

32 E già il 26 maggio: « Non è detto che le spedizioni punitive


debbano sempre avere per mèta i circoli buiosi del pus ».
33 « Le gerarchie devono soprattutto ” perfezionare ” sino ai

limiti del possibile l’inquadramento delle nostre forze. I dirigenti


dei 1500 Fasci sanno che cosa intendiamo col verbo ”
perfezionare ” » (« Popolo d’Italia», 7 giugno 1921).
34 « Popolo d’Italia », 50 maggio.

35 « Questa è la forza vera del movimento fascista: nel


sommare in sé tutte le risorse di un’organizzazione e di un’azione
extra-legale, e tutta la protezione o le passive complicità della
legge », G. Zibordi, Critica socialista del fascismo, p. 46.
34 CHIURCO, III, 325-6. La « rassegna comunista » così
commenta quest’episodio: « i comunisti che tendono alla
distruzione del parlamento, non soltanto metaforica, non possono
dolersi se un loro rappresentante venga cacciato dal palazzo
dell’assemblea elettiva. essi vedono confermate nei fatti le ragioni
della loro critica. e non possono non compiacersene; mentre si

379
augurano di essere presto in grado di cacciare essi, armi alla
mano, tutti gli altri, compresa la nota cocotte internazionale
Madama Maggioranza » (n. 5, 30 giugno 1921, p. 203).
37 Su questi moti cfr. G. Zibordi, Critica socialista del fascismo,

pp. 57-8; per Firenze cfr. XI. Banchelli, Memorie di un fascista,


pp. 14 sg., 43 sg.
38 « Popolo d’Italia », 19 giugno 1921. Un ordine del giorno del

Consiglio nazionale dei Fasci (Milano, 13 luglio) « impegna tutti i


Fasci d’Italia a perseverare nella campagna pel ribasso dei prezzi
», ma « astenendosi da ogni inutile eccesso e senza violentare fa
leggi economiche » («Popolo d’Italia », 14 luglio).
39 A proposito del discorso tenuto a Bari da Salandra durante

la campagna elettorale egli scrive: « Con questo discorso vibrante


di fede e pieno di coraggio, Fon. Salandra torna al primo posto
sulla scena politica italiana» («Popolo d’Italia», 10 maggio 1921).
Al «Giornale d’Italia », che gli aveva chiesto a chi eventualmente
andrebbero le simpatie e la collaborazione dei fascisti, Mussolini
risponde: « Ad un ministero capitanato da un interventista che
potrebbe essere Salandra o qualche altro uomo nuovo. Io per
esempio non vedrei malvolentieri un ministero Meda. I Fasci
invece si opporrebbero con tutti i mezzi a una
eventuale risurrezione di Nitti » (« Popolo d’Italia », 22 maggio).
40 Intervista al « Giornale d’Italia » (riprodotta nel « Popolo
d’Italia » del 9 giugno).
41 Intervista al « Messaggero » riprodotta nel « Popolo d’Italia
» del 28 giugno, in cui egli non crede « testamentario » il discorso
pronunciato da Giolitti all’apertura della Camera, malgrado il
voto che ne seguì e dichiara approvarlo « in moltissimi punti ».
Per le sue dichiarazioni precedenti cfr. p. 225 e n. 11.
42 « Se per avventura queste mie idee non incontrano
l’approvazione dal Fascismo, non me ne importa affatto. Io sono
un capo che precede, non un capo che segue. Io vado — anche e
soprattutto — contro corrente e non mi abbandono mai, e vigilo
sempre ecc. ». « Popolo d’Italia », 24 maggio.
43 La seconda parte dell’ordine del giorno votato dal Consiglio
nazionale a Milano « riafferma l’antipregiudizialismo nell’ambito
della tendenzialità repubblicana », delibera « che il gruppo non
partecipa alla seduta reale della nuova Camera », ma lascia
libertà ai singoli deputati d’ottemperare o no a questa « mera
formalità ». La minoranza si è contata su un o.d.g. Terzaghi,
pronunciandosi per la tesi di Mussolini. Il Consiglio nazionale dei
Fasci, che si tiene contemporaneamente dà la sua « completa

380
adesione » a questa tesi (cfr. « Popolo d’Italia », 4 giugno
e Chiurco, III, 326-7). Fra i più ferventi patrocinatori della
partecipazione alla seduta reale sono De Vecchi, Valentino Coda,
Paolucci e in genere gli elementi nazionalisti. La Giunta esecutiva
nazionalista, riunitasi a Roma il 25 maggio, aveva dato istruzioni
alle sezioni affinché i loro membri che facevano parte dei Fasci «
si adoperassero attivamente allo scopo di impedire che nei Fasci
prevalesse la tendenza repubblicana, che potrebbe seriamente
compromettere la compagine delle forze nazionali » («Popolo
d’Italia», 26 maggio). Di fronte a questi tentativi di «noyautage »,
il Consiglio nazionale mentre si associa alla tesi Mussolini,
si pronuncia contro « le estranee inframmettenze nei Fasci » e
invita « i Fasci tutti a non far ricoprire cariche e a non dare
incarico alcuno a quei soci che fossero iscritti nei partiti politici ».
Nello stesso tempo esso precisa che le direttive politiche sono
tracciate dal Comitato centrale e dal Consiglio nazionale, e non
dal Gruppo parlamentare.
44 Pp. 232-33. Su queste prime trattative cfr. Chiurco, IV,
435-6. Ivanoe Bonomi ha preso l’iniziativa di mettere in presenza
le parti, convocando a Roma per mezzo del prefetto di Milano i
dirigenti fascisti.
Pasella e Cesare Rossi son ricevuti il giorno 16 luglio da
Bonomi, che vede lo stesso Mussolini e prepara così la riunione
del 21 tra fascisti, C.G.L., Direzione del P.S.I. e comunisti: questi
ultimi non aderiscono (Chiurco, III, 58). Ma un voto del 22 luglio
del Consiglio nazionale dei Fasci ostile — dopo i fatti di Sarzana
— a Bonomi elimina questi come intermediario; le trattative sono
allora riprese direttamente da Giuriati e Pasella pei fascisti,
Ellero, Zaniboni e Giovanni Bacci pei socialisti. Decisa la
creazione di una commissione paritetica, il presidente della
Camera, on. De Nicola, è scelto come arbitro (Chiurco, III, 470).
45 Sul Consiglio nazionale del 12-13 luglio: « Popolo d’Italia »,
13 e 14 luglio; Chiurco, III, 441-3.
46 Pp. 43 sg. In questi ultimi tempi, e in ragione del suo
ministerialismo, il problema è diventato ai suoi occhi più attuale:
« Se la C.G.T. [sic, ma leggi C.G.L. (N.d.T.).] vuole salvarsi — egli
scrive nel « Popolo d’Italia » del 14 maggio 1921 — deve rendersi
nettamente autonoma da tutti i partiti, nel qual caso cambia
anche il nostro atteggiamento »; pochi giorni dopo, nell’intervista
al « Giornale d’Italia », in cui si pronuncia per una collaborazione
socialista al governo, egli insiste sul fatto che « i collaborazionisti
si reclutano maggiormente fra i leaders della C.G.L.» («Popolo
d’Italia», 22 maggio). Cfr. Cap. VII, n. 37 e anche pp. 146, 227-28,

381
232.
47 « Popolo d’Italia », 26 maggio. Già nel discorso del 6
febbraio a Trieste, Mussolini s’è dichiarato « contrario alla
trasformazione del fascismo in un vero e proprio partito, legato,
impastoiato di dogmi e a pregiudizi o già superati o che possono
essere superati dal continuo svolgersi dei fatti ».
48 Nello stesso senso si pronuncia dopo un aspro dibattito il

Consiglio dei Fasci riunito a Roma il 21.


In questa occasione Farinacci si dimette dal C. C. dei Fasci, per
protestare contro il Patto e contro « l’atteggiamento pacifista che
svalorizza la nostra forza ». Cfr. il testo della sua lettera in R.
Farinacci, Squadrismo, Roma, Ardita, 1933, pp. 94-6 e cf. P.
Pantaleo, Il fascismo cremonese, Cremona, «Cremona Nuova»,
1931, pp. 83-4. E da questo momento la minoranza del Consiglio
nazionale, mal rassegnata, comincia ad organizzare la resistenza.
Piero Bolzon nel suo libro: Oltre il muro e la fossa, narra, a
quanto ne riferisce Chiurco (III, 510), che nel corso di quel
Consiglio e in reazione al « parlamentarismo » dei neo-
deputati un gruppo aveva deciso di convocarsi in una riunione
segreta, di cui fu affidata l’organizzazione a Gino Calzabini.
49 « Popolo d’Italia », 22 luglio.

50 Si era formato a Roma un « Comitato di difesa proletaria »


che aveva organizzato la sua prima manifestazione il 6 luglio.
Così la descrive il « Popolo d’Italia » (7 luglio): « Alle 17 si è
tenuto un comizio all’Orto Botanico. Mentre si pronunziavano gli
sproloqui, la nuova milizia rossa, composta di circa 500 giovani,
capitanati dal noto ex-tenente Argo Secondari, si è esibita
movendosi da un capo all’altro dell’Orto e riscuotendo larga
messe di applausi ». Sul prudente atteggiamento dell’« Avanti! »
all’iniziativa, cfr. P. Nenni, Storia di quattro anni, pp. 152-3.
51 Nella seduta del 13 luglio del C. N. dei Fasci, Marsich
aveva presentato un o.d.g. contro « le oblique manovre » tentate
da Nitti e dal Paese « per dividere i legionari e gli arditi dai
fascisti ». Un convegno di Arditi tenutosi allora a Roma aveva
votato l’incompatibilità dell’appartenenza ai Fasci, sicché Piero
Bolzon aveva lasciato la direzione del loro giornale, « L’Assalto ».
Secondo De Vecchi si era sorpresa « anche la buona fede di
D’Annunzio » e Bottai credeva necessario inviare una
commissione al Comandante, obbligandolo a riceverla e
provocando « dichiarazioni esplicite dopo aver francamente
parlato e esposti i fatti » (« Popolo d’Italia », 14 luglio). Sui
rapporti di D’Annunzio col fascismo cfr. 145 sg., 229 sg. (crisi
della fine del 1920) e 301 sg. (crisi del 1921-22).

382
52 « Nell’assumere la direzione della politica italiana, dichiara

la sua prima circolare, intendo mantener fermo il proposito che la


legge sia dovunque e da tutti rispettata, giacché entro i suoi limiti
è la libertà necessaria ai partiti per la loro funzione e pel loro
sviluppo: fuori di questo limite è la licenza, che va severamente
repressa» («Popolo d’Italia », 7 luglio).
53 Cfr. pp. 186-88.

54 Una cronistoria di quest’episodio è in U. Banchielli, Memorie

di un fascista, pp. 61 sg., 217-18; Chiurco, III, 459-60; « Popolo


d’Italia », 22 e 28 luglio. Dichiarazioni del capitano Jurgens a
propria difesa nella « Nazione » di Firenze del 23 luglio.
Un’inchiesta ufficiale fu affidata dal governo all’ispettore comm.
Trani. Testimonianza socialista in « La Libertà » (Parigi), 19 luglio
1930: Umberto Tonelli, I fatti di Sarzana.
55 Per Bologna, « Popolo d’Italia », 22 luglio; per Padova e

Carrara, Chiurco, III, 467-8.


56 Discorso del 22, Scritti e discorsi, II, 191.

57 Scritti e Discorsi, II, pp. 196-7. Cfr. qui p. 225 e n. 12, e «

Popolo d’Italia » del 28 giugno, in cui, commentando il voto sul


nuovo ministero presieduto da Bonomi, Mussolini scrive: « Anche
questo primo voto politico ha dimostrato che, in realtà, sole forze
politiche dominanti l’assemblea sono i popolari, i socialisti, i
fascisti, perché hanno forze imponenti al loro séguito nel Paese ».
58 «Popolo d’Italia», 26 luglio 1921.

59 Si tratta delle norme votate il 22 luglio, Chiurco, III, 469.

60 Testo del Patto in Chiurco, III, 492-3; P. Nenni, Storia di


quattro anni, pp. 155-6. Una dichiarazione del P.S.I. dello stesso
giorno è in A. Malatesta, La crisi socialista, pp. 160-2. Il Patto è
stato firmato, oltre che dal Presidente De Nicola, da Cesare Maria
De Vecchi, Giovanni Giuriati, Cesare Rossi, Umberto Pasella,
Gaetano Polverelli, Nicola Sansanelli pei fascisti: da Giovanni
Bacci, Emilio Zannerini, Elia Musatti, Oddino Morgan per la
Direzione e pel Gruppo parlamentare del P.S.I.; da Gino Baldesi,
Alessandro Galli, Ernesto Caporali per la C.G.T. [sic, ma leggi
C.G.L. (N.d.E.).] Negarono la loro adesione, per ragioni diverse,
popolari e repubblicani. [Sul patto e sul dissenso Mussolini-
Grandi al riguardo, C. Rossi, Mussolini com’era, pp. 105-9.]
61 CHIURCO, III, 439.
62 CHIURCO, III, 447-50; « POPOLO D’ITALIA », 14 LUGLIO

1921: « UN FORTE Nucleo di squadre d’azione fasciste bolognesi


e padovane, in perfetto assetto guerresco, giunse a Trento in

383
spedizione punitiva. Distruzione dei locali e delle macchine del
giornale repubblicano « La Riscossa » e del giornale popolare « Il
Piave ». V. anche D. Roncorà, Ricordi squadristi, in « Popolo
d’Italia », 14 marzo 1938.
63 Il sindaco di Roccastrada era quello a. cui il marchese

Perrone Compagni aveva inviata la lettera comminatoria di cui a


pag. 167. Su questa spedizione del 24 luglio: Chiurco, 472-3;
Fascismo - Inchiesta socialista, pp. 336-9; G. Salvemini, The
fascist Dictatorship in Italy, I, 92-4.
64 Pag. 236 e n. 48. « Il movimento fascista fu sorpreso
dall’ordine del suo capo. Il bolscevismo era debellato, ma
rimaneva ancora la forza politica ed economica del proletariato
organizzato. Se questa forza non fosse stata dispersa, se alle
leghe rosse e bianche non fosse stata rotta la spina dorsale, per
raccoglierne poi i resti nelle corporazioni fasciste, il dominio dei
vecchi partiti conservatori — che dietro alle spalle dei giovani
fascisti, guardavano al loro immancabile avvenire — non
sarebbe stato nè certo, nè sicuro… Così il fascismo dell’Emilia,
della Romagna, della Toscana, si rifiutava di ratificare il patto di
pacificazione », I. BoNOMI, Dal socialismo al fascismo, p. 119.
65 «Popolo d’Italia», 7 agosto 1921. Nello stesso articolo
Mussolini si difende dall’accusa di voler essere « una specie di
padrone » del fascismo italiano: « Io sono un ” duce ” per modo di
dire. Ho lasciato correre questa parola, perché se non piaceva a
me, piaceva agli altri ». Vedasi quanto aveva dichiarato dieci
settimane prima, p. 234 e n. 42.
66 P. 76.

67 Un resoconto della riunione di Bologna è nel « Popolo


d’Italia » del 18 agosto, nello stesso numero in cui Mussolini
annunzia le sue dimissioni. L’ordine del giorno Oviglio in essa
votato è riprodotto in R. Farinacci, Squadrismo, pp. 96-7. In una
corrispondenza da Mantova all’« Avanti! » (21 agosto), si narra
che il fascismo di questa provincia è contro il trattato di pace, e
che in talune località del basso Mantovano, « nei paesetti ove è
signore il manganello dell’agrario fegatoso s’ode a quando a
quando il ritornello: A Mussolini il traditore -Botte botte in
quantità ».
68 « Popolo d’Italia » del 18 agosto: Nelle file! Le dimissioni di
Mussolini sono respinte due giorni dopo dalla C. E. dei Fasci
(Chiurco, III, 504); il Consiglio nazionale, riunitosi a Firenze il 26-
27 agosto, prende una deliberazione analoga e fissa al 24-27
ottobre la data del Congresso (Chiurco, III, 506-7).

384
69 « Popolo d’Italia », 21 agosto. La lettera di Cesare Rossi è

anche riprodotta in « Il Nuovo Paese » (Parigi), giugno 1926, pp.


38-40.
70 CHIURCO, III, 510. AL CONVEGNO DI FERRARA
(SETTEMBRE) PARTECIPARONO: BALBO, PASELLA, GIURIATI,
CARADONNA, LUIGI FREDDI, CHIURCO, CODELUPPI E
QUALCHE ALTRO; A QUELLO DI TODI: PIERO BOLZON, PIERO
MARSICH, GINO CALZA-BINI, GRANDI, ARPINATI,
CARADONNA, PASELLA.
71 Il Patto è denunziato dai fascisti toscani il 20 settembre,

dalla federazione umbro-sabina, il 22, da quella di Venezia il 28,


ecc., Chiurco, III, 522, 526, 535.
12.L
72 Per la marcia su Ravenna cfr. I. Balbo, Diario 1922, pp. 11-

12; CHIURCO, III, 518-19; L. FABBRI, La contro-rivoluzione


preventiva, pp. 66-7.
73 « Popolo d’Italia », 13 settembre 1921.

74 «Popolo d’Italia», 26 luglio 1921.

75 Bergamini dopo la marcia su Roma farà personalmente la


conoscenza dello « stile » fascista, giacché non sarà risparmiato
dai manganelli delle camicie nere e dovrà lasciare il suo giornale.
76 «Popolo d’Italia», 19 agosto 1921: L’ora dei sermoni.

77 Questa risposta del « Giornale d’Italia », della sera del 19,


è riprodotta integralmente nel « Popolo d’Italia » del 20.
78 « Popolo d’Italia » 19 agosto, corrispondenza di Gaetano
Polverelli da Roma.
79 Così Turati lo stesso giorno nel suo discorso alla Camera («
Critica Sociale », 1921, n. 15, p. 229). Il discorso di Mussolini del
23 luglio, che proponeva una coalizione dei tre partiti di massa
(cfr. p. 239), produce solo un effetto di « sorpresa », di cui si fa
eco la relazione del Gruppo parlamentare al Congresso di Milano
(Roma, Tip. Camera dei Deputati, 1921, p. 27), e non provoca nei
socialisti alcuna reazione di ordine politico. Mario Missiroli s’era
invece gettato con avida speranza sulla svolta che, a suo giudizio,
l’atteggiamento di Mussolini poteva e doveva determinare: «
Dall’alleanza fra fascisti e socialisti rinascerà la democrazia,
quella nuova democrazia, che si farà banditrice di tutte le idee
socialiste, salvando, però, il concetto di nazione e riaffermando
il patriottismo fra le moltitudini popolari. Quel giorno avremo
risolto il tremendo problemi dell’adesione cordiale delle grandi
masse allo Stato », Il fascismo e la crisi italiana, p. X.

385
80 Vedi il suo editoriale nel « Popolo d’Italia » del 20 agosto

1921: Ghigno di gioia.


81 Nel suo discorso al Congresso socialista di Bologna F.
Turati aveva ricordato il passo seguente dell’introduzione scritta
nel 1895 da Engels per la nuova edizione de Le lotte di classe in
Francia di Marx: « L’ironia della storia mondiale capovolge ogni
cosa. Noi, i ” rivoluzionari ”, i ” sovversivi ”, noi caviamo ben
maggior profitto dai mezzi legali che illegali e dalle vie di fatto. I
partiti dell’ordine, come essi si chiamano, trovano il loro abisso in
quello stesso ordinamento che si son dati. Ridotti alla
disperazione, gridano con Odilon Barrot: la légalité nous tue, la
legalità è la nostra morte; la legalità che invece a noi tende
i muscoli e ravviva il sangue » (« Critica Sociale », 1920, p. 268).
82 Al Congresso di Livorno del P.S.I. (gennaio 1921) era stata

votata al l’unanimità, malgrado l’esplicita condanna pronunciata


contro i socialisti dal rappresentante di Mosca, il bulgaro
Kabacieff, una mozione Bentivoglio che riaffermava « pienamente
» la sua adesione alla Terza Internazionale, rimettendo al
prossimo Congresso di questa « la decisione della controversia »
e impegnandosi « fin d’ora ad accertare le conclusioni »
(Almanacco Socialista 1922, p. 264 e A. Malatesta, La
crisi socialista, pp. 127-8). Turati era contro questa mozione, ma
Modigliani lo dissuase, per ragioni d’opportunità, dal manifestare
il suo dissenso («Critica Sociale», 1921, n. 20, p. 312). Questa
unanimità era stata resa possibile dall’equivoca mozione votata
dai « concentrazionisti » a Reggio Emilia (p. 151). Kabacieff aveva
dichiarato a Livorno che l’I. C. respingeva « tutte le mozioni,
all’infuori di quella della frazione comunista » (cfr. « Ordine
Nuovo », 21 gennaio 1921; Le P.S.I. e l’I.C., Petrograd, 1921, pp.
139-45; G. Lazzeri, La scissione socialista, Milano, Modernissima,
1921, pp. 231-67) e un radiogramma del C. E. dell’I. C., del 25
gennaio, al Partito comunista lo qualificava come « l’unica
sezione dell’I. C. in Italia » (Le P.S.I. e l’I.C., p. 154). Contro
questa decisione il P.S.I. interpose appello (estratto del ricorso in
A. Malatesta, La crisi socialista, pp. 141-2), che fu esaminato dal
III Congresso dell’I. C. (Mosca, giugno-luglio 1921). A questo
Congresso, ove interverranno in rappresentanza del P.S.I.
Lazzari, Maffi e Riboldi (che formeranno poi il gruppo
filocomunista dei « terzinternazionalisti »), fu ribadita
come condizione dell’accettazione del P.S.I. nelle fila
dell’Internazionale l’espulsione di « coloro che hanno partecipato
alla conferenza di Reggio Emilia e di coloro che li difendono »
(Almanacco Socialista 1922, pp. 264-72; La questione italiana al
terzo Congresso dell’I. C., Roma, Ed. del P.C.I., 1921; G. Lazzeri,

386
La scissione socialista, pp. 143-4). Tornati da Mosca i tre «
pellegrini », e udita la loro relazione, la Direzione del partito il 12
agosto si limitava a confermare genericamente l’adesione alla
Terza Internazionale, facendo tuttavia una concessione col
dichiarare « incompatibile la presenza nel Partito di quanti
affermino princìpi collaborazionisti e compartecipazionisti » (A.
Malatesta, La crisi socialista, p. 165). Ma un manifesto polemico
del C. E. dell’I. C. ai « lavoratori italiani » provocava una vivace
risposta di Serrati a nome della Direzione del partito (manifesto e
risposta in « Comunismo », 16-31 agosto 1921). Ormai si
marciava rapidamente verso la rottura: il 7 settembre
quella Direzione « prendeva atto » della situazione creatasi «
contro la sua volontà », e si proponeva di chiamare « intorno a sé
tutte le forze socialiste internazionali che si trovavano sullo stesso
terreno » (A. Malatesta, La crisi socialista, pp. 168-71). La rottura
è consacrata al Congresso di Milano, dove i delegati di Mosca
dichiarano che « il P.S.I. si è messo — coscientemente e
definitivamente — fuori dell’Internazionale comunista ». La
direzione massimalista del partito tuttavia non si rassegnò mai
ufficialmente a questo « fatto compiuto ». Più rapida e più
netta fu, su questo piano, l’evoluzione della C.G.L. La scissione
avvenuta pochi giorni prima nel P.S.I. dava la possibilità ai
dirigenti confederali di iniziare al Congresso di Livorno, sotto
l’usbergo del Patto d’alleanza col partito, un primo movimento di
disucco. Infatti, rinnovare « l’adesione incondizionata (sic)
all’iniziativa per la creazione dell’Internazionale dei Sindacati
rossi », ma subordinata all’impegno di « conservare comunque i
rapporti tra la C.G.L. e il P.S.I. », significava,
praticamente, rompere sul terreno sindacale come il partito aveva
rotto sul terreno politico (cfr. C.G.L., Resoconto stenografico del
X Congresso della Resistenza, Livorno, 26 febbraio - marzo 1921,
Milano, Coop. Grafica, 1921, pp. 299-345; L. D’Aragona - G.
Baldesi, Rapporti internazionali, Milano, La Tipografica, 1921;
Almanacco socialista 1922, pp. 139, 141-2). I delegati della C.G.L.
(Giuseppe Bianchi, Carlo Azimonti) andarono ancora al Congresso
dell’I.S.R. che si tenne a Mosca nell’estate del 1921
(Premier Congrès International des Syndicats Révolutionnaires,
3-19 luglio 1921, Mosca 1921: cfr. il loro intervento nella seduta
del 13; Almanacco Socialista 1922, pp. 48-50), ma poi il Consiglio
nazionale di Verona, tenutosi ai primi di novembre 1921, dopo
un’adesione platonica ai « principi dell’Internazionale Rossa »,
decideva che la C.G.L. sarebbe rimasta nelle fila
dell’organizzazione sindacale internazionale di Amsterdam, di
tendenza social-democratica (Almanacco Socialista 1922, pp. 154-

387
5; A. Malatesta, La crisi socialista, pp. 193-4)
83 Sicché il Congresso socialista di Milano (10-15 ottobre
1921), mentre consacrava la rottura coll’Internazionale
comunista, non aveva alcuna ripercussione positiva né sulla
tattica del partito, né sulla vita politica italiana. Cfr. Almanacco
Socialista 1922, pp. 480-517; A. Malatesta, La crisi socialista, pp.
171-82; Rinaldo Rigola, Il XVII congresso del P.S.I., Firenze, «
Problemi del lavoro», ottobre 1921, pp. 1-24. Il discorso di Turati
a questo congresso è in « Critica Sociale », 1921, n. 20, pp. 308-
15, quello di Modigliani fu raccolto in opuscolo. I discorsi e altre
dichiarazioni dei delegati di Mosca a Milano sono state raccolte a
cura del Partito comunista in un opuscolo: C. Zetkin e E.
Waletski, Il P.S.I. sulla via del riformismo, Roma, 1921. E cfr.
B.P.I., nn. 167-170.
84 Il P.C.I. il 27 luglio dichiara con un telegramma che non

parteciperà « ad alcuna riunione partiti aventi scopo pacificazione


o disarmo », P.C.I., Manifesti ed altri documenti politici, pp. 94-5.
E la « Rassegna comunista » commenta: « Ci sono i comunisti…
che danno un gran fastidio, perché sono fonte di implacabile
preoccupazione, perché rifiutano sdegnosamente ogni contatto
pacificatore, invitano e inquadrano la folla per la santa violenza
rivoluzionaria. Lo Stato avrà dai ministri fascisti e
socialdemocratici l’incarico di sbrigarsela col comunismo. A
meraviglia! Poiché proprio con lo Stato il comunismo vuole
regolare i conti, proprio lo Stato esso si prefigge di assalire per le
realizzazioni delle sue finalità » (n. 7, 30 luglio 1921, p. 308).
85 « L’azione comunista fu, fino al 1922, quasi insignificante.
Si può dire che il Partito Comunista limitò il suo lavoro in questo
periodo agli attacchi contro i socialisti ed al tentativo di liquidare
il Partito Socialista… Anche nella predicazione della resistenza
armata al fascismo i comunisti avevano di mira un fine polemico
nei confronti dei massimalisti piuttosto che un fine generale di
difesa del proletariato ». P. Nenni, Storia di quattro anni, p. 195,
n. In tutti questi anni il P. C. adotta verso i socialisti una tattica
d’intransigenza e di aperta ostilità; esso dichiara che « si deve
assolutamente evitare la formazione e la permanenza in carica di
giunte e deputazioni miste di socialisti e di comunisti », e
denunziare anche sul terreno della resistenza locale i
socialdemocratici, « che una psicologia debole ed errata potrebbe
indurre i meno coscienti a considerare come possibili alleati nel
pericolo », P.C.I., Manifesti ed altri documenti politici, pp. 31, 35.
86 Articolo di Umberto Terracini, « Correspondance
Internationale », n. 24, 31 dicembre 1921, p. 152.

388
87 P.C.I., Manifesti ecc., pp. 294. Nello stesso comunicato si

afferma che « l’inquadramento militare proletario, essendo


l’estrema e più delicata forma d’organizzazione della lotta di
classe, deve realizzare il massimo di disciplina e deve essere a
base di partito. La sua organizzazione deve strettamente
dipendere da quella politica del partito di classe ». Esso denuncia
poi la posizione presa dagli organi centrali degli Arditi del popolo,
che si sono dichiarati « al di sopra dei partiti » (cfr. l’art. 4 del
loro programma, riprodotto nell’« Umanità Nova » del 15
dicembre 1921).
88 p. 236.

89 Nello stesso tempo egli continua a prendere le sue


precauzioni contro ogni eccessiva rigidezza di programma. Così
egli scrive in una lettera a Michele Bianchi, in occasione
dell’apertura della scuola di propaganda e cultura fascista a
Milano: « Il Fascismo italiano, pena la morte, o, peggio, il
suicidio, deve darsi un ’’corpo” di dottrina. Non saranno, non
devono essere delle camicie di Nesso che ci vincolino per
l’eternità — poiché il domani è misterioso e impensato — ma
devono costituire una norma orientatrice della nostra quotidiana
attività politica e individuale », « Popolo d’Italia », 27 agosto.
90 Nel suo discorso alla riunione del Gruppo parlamentare

fascista (« Popolo d’Italia », 8 settembre). In questo momento egli


resiste ancora alla tendenza di Grandi, che critica più che mai il
patto di pacificazione, perché la sua clausola di rispetto delle
organizzazioni sindacali, significherebbe, se mantenuta e
rispettata, « la morte dei sindacati economici ». D’altro lato
Mussolini non vuol « fermarsi al sindacalismo », perché « non
sappiamo ancora dove si potrà andare a finire ». Egli esita
ad inoltrarsi per questa via, perché non ha ancora del tutto
rinunciato al suo « tripartitismo » politico. Perciò pubblica nello
stesso numero del giornale un intervento di Guido Pighetti,
contrario a che il nuovo partito crei le proprie organizzazioni
sindacali, che vorrebbe invece riunissero, coi fascisti, i
democratici, i liberali e anche i socialisti riformisti.
91 « Popolo d’Italia », 29 settembre.

92 Mussolini, a dir vero, per un certo tempo ancora non lo


abbandonerà interamente; vi ritornerà a più riprese, ogni volta
che la situazione generale gli sembrerà minacciosa e un governo
di coalizione il solo modo di giungere al potere. Cfr. per esempio
l’intervista da lui data al « Resto del Carlino » subito dopo il
Congresso di Roma (« Popolo d’Italia », 13 novembre 1921) e la
testimonianza di Massimo Rocca (p. 146 e qui n. 19).

389
93 In una lettera aperta al C. E. dei Fasci, « Popolo d’Italia »,

16 settembre 1921.
94 Sui fatti di Modena del 26 settembre, ove fu ferito anche il
deputato fascista Marco Antonio Vicini, cfr. CHIURCO, III, 528-35
e l’articolo violentissimo di Mussolini in « Popolo d’Italia », 28
settembre.
95 Il Consiglio dei ministri del 27 settembre aveva deciso
talune restrizioni sulle armi e sui veicoli; il C. E. dei Fasci decide
una « manifestazione di lutto e di protesta » pel 2 ottobre. Nuove
disposizioni sono emanate dal governo in una circolare del 5
ottobre ai prefetti.
96
L. FABBRI, Contro-rivoluzione preventiva, pp. 40-3;
CHIURCO, III, 536, 558; IV, 46, 74, ecc.
97 Alla riunione del Gruppo parlamentare fascista, « Popolo
d’Italia », 8 settembre.
98 CHIURCO, III, 541.

99 CHIURCO, III, 536-7.

100 Mussolini sta appunto svolgendo una campagna contro il


pericolo di un governo Nitti (cfr. spec. « Popolo d’Italia », 4
ottobre), in ciò d’accordo col « Giornale d’Italia », che negli stessi
giorni denunzia « il lavoro di retroscena di Nitti per tornare al
potere ». Il pericolo appare tanto più serio, che il prof. Bonaiuti
parla nel « Secolo » del 30 settembre di una conversazione ch’egli
ha avuto col cardinal Gasparri da cui risulterebbe che Nitti è «
l’uomo della conciliazione col Vaticano » (cfr. p. 102 e Appendice
X [Nitti]). Certo anche per parare a questo colpo Mussolini parla,
nel programma proposto al nuovo partito della necessaria «
soluzione del dissidio con la Santa Sede ».
101 « Popolo d’Italia », 9 ottobre: Le linee programmatiche del

Partito Fascista. Si tratta di un documento non ancora approvato


dall’apposita Commissione. Mussolini gli dà, pubblicandolo, la sua
adesione; al Congresso di Roma egli dichiarerà che i princìpi ivi
esposti non sono tutti suoi, ma ch’esso li ha « elaborati ».
102 Cfr. p. 225.
103 Pp. 53-4.

104
Relazione Pasella nella seduta del 7 novembre 1921,
«Popolo d’Italia», 8 novembre; Chiurco, III, 582-3.
105 Il Patto sarà ufficialmente dichiarato decaduto a partire
dal 15 novembre, prendendo pretesto dagli incidenti di Roma (p.
263 e qui n. 117). [Eppure, poco prima del Congresso, Mussolini

390
si era recato, accompagnato da De Vecchi, dal presidente del
Consiglio, I. Bonomi, e gli aveva detto: « Noi abbiamo le stesse
origini: siamo stati entrambi socialisti e interventisti. Ero di
sinistra e resto di sinistra. Ma voglio uscire dall’illegalità ”
squadrista ” con un patto di conciliazione. Lasciatemi tenere un
congresso fascista a Roma e io farò trionfare questa tesi », «
Corriere della Sera », 1° giugno 1949: intervista di Indro
Montanelli con I. Bonomi; il quale aggiunge che, a suo avviso, « in
quel momento Mussolini era sincero ».]
106 Pp. 255-56.

107 Mussolini ha preso posizione contro di essa alla vigilia del

Congresso: « Che la Carta del Carnaio possa fornire il programma


a un partito che vive e agisce in una determinata realtà storica —
principalmente in quella italiana — è difficile sostenere. I ” piani ”
di Governo o di regime tracciati in anticipo — al tavolino —
muoiono sotto l’urto della realtà spietata. La storia dovrebbe
insegnare qualcosa, e anche la sorte della Federazione legionari,
che doveva in particular modo bandire il verbo del Camaro. Il
Fascismo è destinato a rappresentare nella storia della politica
italiana una sintesi fra le tesi indistruttibili dell’economia liberale
e le nuove forze del mondo del lavoro », « Popolo d’Italia »,
4 novembre.
108 Per le discussioni del Congresso cfr. «Popolo d’Italia», 8-11

novembre; Chiurco, III, 580-98. Il discorso di Mussolini è in


Scritti e discorsi, II, pp. 199-206; quello di Grandi in Le origini e
la missione del fascismo, Bologna, Cappelli, 1923.
109 Quest’ordine del giorno, presentato da Michele Bianchi e

votato a grande maggioranza nella seduta del 9, accettava « quali


postulati fondamentali del Fascismo quelli illustrati nel suo
discorso da Mussolini, integrati dai discorsi dei relatori » e
demandava « al Consiglio Nazionale di convocarsi entro Fanno
corrente con il compito di dare la forma definitiva al programma e
allo statuto del Partito Nazionale Fascista ». Il resoconto del
«Corriere della Sera» (10 novembre) precisa che l’o.d.g. Bianchi «
è approvato per alzata e seduta, a maggioranza dei tre quarti dei
presenti. Rimangono seduti in maggior parte i fascisti
dell’Emilia, della Romagna e del Veneto ». Parecchi degli
oppositori erano ostili alla trasformazione dei Fasci in partito,
poiché vi vedevano una minaccia alle iniziative locali e allo stesso
squadrismo: il 28 settembre, nella Commissione preparatoria del
programma s’eran pronunciati contro questa trasformazione De
Stefani, Bolzon, e Marsich e il 22 ottobre, all’assemblea dei
fascisti bolognesi, Grandi e Oviglio. Il voto del

391
Congresso costituiva dunque, su questo punto, una vittoria di
Mussolini, vittoria le cui conseguenze eserciteranno una grande
influenza sugli sviluppi della situazione politica durante tutto il
1922. Ai comunisti sfugge interamente l’importanza dell’evento.
Essi prevedono « l’assorbimento del fascismo in un qualunque
partito parlamentare »; le organizzazioni fasciste di battaglia non
potranno impedirlo; esse morderanno il freno, « ma non avranno
che da attendere, per rompere gli ozi della molla
politica parlamentare, il segno non lontano dell’assalto della
piazza proletaria al crollando edificio della democrazia borghese
» (« Rassegna Comunista », n. 12, 15 ottohre 1921, p. 552).
110 « Popolo d’Italia », 10 novembre 1921.

111 Sugli incidenti di Roma cfr. Chiurco, III, 590-2, 594, 596,

598-605; « Avanti! » (Milano) 10-17 novembre. In una circolare


del 17 novembre così ne parla Dino Perrone Compagni: « A Roma
l’iniziativa di alcune Squadre di far togliere il cappello ai cittadini,
senza tener conto né della stagione, né della lunga durata dello
sfilamento ha creato al Partito Nazionale Fascista serii imbarazzi,
per la qualità delle persone colpite, e per la reazione giustissima
dei cittadini, che non intendono togliere il cappello a dei
gagliardetti sui quali è scritto: Me ne frego. Ho dovuto io stesso
vedere, come alcuni squadristi non diano retta ad alcun comando
e intendano fare quello che vogliono, facendo del fascismo solo
uno strumento di violenza » (Chiurco, III, 610-11).
112 Discorso alla Camera del 1° dicembre 1921, Scritti e
discorsi, II, p. 214.
113 Articolo: Il mito e la realtà, nel «Popolo d’Italia» del 3 aprile

1922.
114 « Popolo d’Italia », 11 novembre 1921.

115 Quest’era, almeno, il proposito ch’egli aveva manifestato

alla vigilia del Congresso: « Ci sarà una ” spersonalizzazione ” del


Fascismo, della quale cosa io, in particolar modo, mi compiacerò.
Questo si voleva da alcuni e questo deve, accadere. È
un’esperienza che bisogna fare » (« Popolo d’Italia », 4 novembre
e cfr. anche ivi, 6 novembre). Ritornando su questo episodio nelle
sue «memorie» egli scrive: « In questa occasione io desideravo
vivamente spogliare il partito del carattere personale che aveva
assunto sotto l’impronta della mia volontà. Ma ero convinto, per
l’evidenza dei fatti, ch’esso non poteva vivere e prosperare senza
il mio comando, la mia direzione, la mia protezione e il
mio impulso » (Ma Vie, in « Candide », 9 agosto 1928).
116 Una prima riunione aveva avuto luogo il 5 novembre a

392
Montecitorio, presenti una sessantina di deputati favorevoli alla
fusione delle forze democratiche costituzionali nel Parlamento e
nel paese (« Tribuna », 6 novembre). Il 26 novembre fu decisa la
fusione dei due gruppi: democratico-liberale (80 membri) è
democratico-sociale (63 membri), che avrebbero così formato il
più forte gruppo della Camera. Ma l’iniziativa, già fragile in sè,
perché i rapporti così stabiliti lascian fuori i due capi: Giolitti e
Nitti, ha soprattutto una punta rivolta contro i popolari, sicché
essa perderà, sul piano della stabilità ministeriale, ben più
di quanto la fusione le faceva guadagnare. Mussolini se ne rese
conto: « La democrazia mal sopporta che i popolari abbiano ben
tre ministri e mezza dozzina di sottosegretari. L’evento avrà
immediate ripercussioni d’ordine ministeriale? È improbabile…
Un ministero senza popolari non è possibile, sino a quando i
socialisti staranno sull’Aventino » (« Popolo d’Italia », 27
novembre 1921). I nodi verranno al pettine durante la crisi di
febbraio 1922 (pp. 221 e seg.).
117 Il patto di pacificazione è stato denunziato dal C. C. dei
Fasci e dal Consiglio nazionale il 15 novembre (cfr. n. 106).
Mussolini in un articolo del « Popolo «d’Italia » dello stesso
giorno tiene ad evocare a sè il merito della decisione: « Il trattato
di pacificazione da oggi è denunziato e decaduto. Ne prendano
nota tutti… Il Congresso di Roma non denunciò il trattato (sic): si
limitò a discuterlo. Da oggi il trattato è morto e seppellito »’. E
due giorni dopo: « Io che mi assunsi, a suo tempo, la
responsabilità della stipulazione del trattato, mi assumo,
oggi, tranquillamente quella della denunzia ».
118 Ucciso a Mola di Bari il 25 settembre, Chiurco, III, 526-
7; Almanacco Socialista 1922, pp. 222-3.
Ucciso l‘11 dicembre. Cfr. « Umanità Nova », 15 dicembre;
B.P.I., n. 173, p. 12.
120 24 novembre 1921.

121 La più importante di queste circolari è del 23 dicembre;

essa riguarda tutte le organizzazioni armate che risultano tali, «


tanto pei nomi che assumono (Arditi del Popolo, Guardie rosse,
Squadre d’azione, Cavalleria delle squadre. Cavalieri della Morte,
ecc.), quanto pei loro statuti e regolamenti » (Chiurco, III, 633-5).
Testo completo in « Umanità Nova », 25 dicembre II « Popolo
d’Italia » del 24 l’annuncia: « Ancora una circolare di Bonomi ».
Sugli intenti governativi perseguiti con queste disposizioni cfr. il
discorso del presidente Bonomi del 6 dicembre alla Camera, in I.
Bonomi, Dieci anni di politica italiana, Milano, Unitas, 1924.
122 P. 254.

393
123 L’organizzazione di queste squadre, strettamente legata a

quella del Partito fascista, era l’oggetto di pubbliche cure da


parte dei suoi dirigenti. Nella riunione di Roma del Comitato
centrale del 20 novembre si delibera « di procedere alla
costituzione di un Ispettorato Generale delle Squadre di
combattimento che in accordo con la Segreteria politica preveda
a) a coordinare l’organizzazione delle squadre che dovranno
adottare norme disciplinari e criteri di istruzione simili nonché
uniformi-tipo; b) a dettare e disporre quanto sia necessario per la
maggiore efficenza delle squadre; c) a mantenere il collegamento
fra le squadre ecc. », Chiurco, III, 612.
124 Circolare a firma Bianchi. Lo stesso giorno il « Popolo

d’Italia » scrive: « Ci rifiutiamo di credere che il Governo abbia in


animo di effettuare un provvedimento non solo illiberale, ma
assurdo e totalmente inutile; perché siamo in grado di annunziare
che anche contro la volontà del Governo le squadre
continueranno ad esistere… Squadre e Fascismo sono la stessa
cosa… Si abbia piuttosto il coraggio di sciogliere il Partito
», Chiurco, III, 629-30.
125 Infatti, secondo il nuovo Statuto-regolamento del P.N.F.,

approvato a Firenze dal Consiglio nazionale (20 dicembre), « le


squadre di combattimento, dopo i recenti deliberati della
Direzione del partito, si compongono di tutti i fascisti », « Popolo
d’Italia », 21 dicembre.
126 Un sunto del discorso da lui pronunciato il 5 maggio in
quell’occasione è nel «Popolo d’Italia» del 6 maggio 1921.

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INDICE

NASCITA E AVVENTO DEL FASCISMO 9


Indice 10
Premessa 13
NOTA PREMESSA ALL’EDIZIONE FRANCESE 26
Capitolo Primo. L’INTERVENTO DELL’ITALIA IN
28
GUERRA E LA CRISI DELLO STATO
Note al capitolo primo 38
Capitolo Secondo, LA RIVOLUZIONE
43
DEMOCRATICA DEL 1919
Note al capitolo secondo 61
Capitolo Terzo. MUSSOLINI E IL FASCISMO DELLA
74
«PRIMA ORA»
Note al capitolo terzo 104
Capitolo Quarto. LA RIVOLUZIONE TRAVERSA
119
L’ADRIATICO
Note al capitolo quarto 131
Capitolo Quinto. NITTI. GIOLITTI. DON STURZO 141
Note al capitolo quinto 162
Capitolo Sesto. GRANDEZZA E DECADENZA DEL
171
MASSIMALISMO
Note al capitolo sesto 193
Capitolo Settimo. LA CONTRORIVOLUZIONE
208
«POSTUMA E PREVENTIVA» 1
Note al capitolo settimo 283
Capitolo Ottavo. IL FASCISMO AL BIVIO 315
Note al capitolo ottavo 375

395

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