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ISBN 978-88-7018-852-3
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Silvano Facioni
Simone Regazzoni
Francesco Vitale
Derridario
Dizionario della decostruzione
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Se le parole e i concetti acquistano


senso solo all’interno di concatenazioni di
differenze, è possibile giustif icare il
proprio linguaggio, e la scelta dei termini,
solo all’interno di una topica e di una
strategia storiche. La giustificazione non
può essere dunque assoluta e definitiva.
Essa risponde a uno stato di forze e traduce
un calcolo storico.
J. DERRIDA, Della grammatologia
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RITORNARE A DERRIDA

Il Derridario è più e meno di un dizionario.


È più di un dizionario, perché può essere considerato un
dizionario d’autore – il lessico di Jacques Derrida –, ma anche
un dizionario relativo a un settore specifico o a una singola tec-
nica o disciplina: la decostruzione, la filosofia, la letteratura, la
psicoanalisi, la politica, la biologia. Potrebbe essere un diziona-
rio biografico, che ricostruisce le storie che hanno accompagna-
to l’invenzione e l’uso di certi lemmi da parte di Jacques
Derrida. Quindi anche un dizionario di neologismi. Di sicuro un
dizionario plurilingue o di barbarismi, dato che i lemmi proven-
gono da un’altra lingua, il francese, ed in molti casi sono stati
elaborati in relazione ad altre lingue: il greco, l’ebraico, il lati-
no, il tedesco, l’inglese, l’italiano, lo spagnolo. D’altra parte
“plus d’une langue”, “più di una lingua”, è forse l’unica defini-
zione che lo stesso Derrida ha dato della decostruzione.
È meno di un dizionario, perché in nessuno di questi casi
risulterà esaustivo.
Il Derridario è composto da diciassette voci soltanto, per
un’opera che conta più di ottanta volumi pubblicati, seminari
inediti in corso di pubblicazione, senza tenere conto di quanto
comunque resterebbe del lascito di Jacques Derrida (e chi tra
noi ha avuto l’occasione di sprofondarvi è convinto che tutto
resti ancora da leggere). Quindi avrà buon gioco chi vorrà eser-
citarsi nel reperimento delle voci assenti – per quanto, in molti
casi, si tratti semplicemente di riconoscerne la presenza all’in-

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terno di quelle prescelte, seguendo peraltro espliciti riferimenti.


Abbiamo preferito un numero ridotto di voci alle quali dedicare
uno sguardo analitico, piuttosto che tante voci: c’era il rischio di
riproporre un elenco di definizioni (operazione già di per sé
ingenua), se non addirittura degli apoftegmi privi di argomenta-
ta giustificazione.
Il Derridario non è esaustivo, perché non avevamo inten-
zione che lo fosse.
Anche solo immaginare un dizionario esaustivo dei lemmi
di Jacques Derrida implicherebbe una presunzione che non ci
appartiene, e che anzi intendiamo esplicitamente contestare: l’i-
dentificazione obiettiva e obiettivante di un corpus nella sua
totalità ormai inerte, e quindi la possibilità di sezionarne le parti
che lo compongono, decretandone la morte attraverso l’erezio-
ne del monumento.
Altra è la nostra presunzione: affermare la vita di questo
corpus – o meglio “la sopravvivenza” – al di qua/al di là della
semplice opposizione tra “la vita la morte”.
La scelta delle voci, e più in generale la decisione di pro-
porre un dizionario della decostruzione, è dettata da questa esi-
genza. Che questa sia oggi la posta in gioco rispetto al lascito di
Jacques Derrida è evidente e non deve sorprendere nessuno,
tanto meno chi ha tentato e tenta di dipanarne la tramatura, attra-
verso la lettura e l’interpretazione. A proposito dell’eredità,
Derrida ha scritto: “Un’eredità non si raccoglie mai, non è mai
una con se stessa. La sua unità presunta, se ce n’è, non può con-
sistere che nell’ingiunzione a riaffermare scegliendo. Si deve
vuol dire si deve filtrare, passare al setaccio, criticare, si deve
fare selezione tra più possibili che abitano la stessa ingiunzione.
E l’abitano in modo contraddittorio intorno ad un segreto. Se la
leggibilità di un lascito fosse data, naturale, trasparente, univo-
ca, se essa non facesse appello e non sfidasse allo stesso tempo
l’interpretazione, non si avrebbe da ereditarne. Se ne sarebbe
affetti come da una causa – naturale o genetica. Si eredita sem-
pre da un segreto – che dice ‘leggimi, ne sarai mai capace?’. La

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scelta critica invocata da ogni riaffermazione dell’eredità è


anche, come la memoria stessa, la condizione di finitezza.
L’infinito non eredita, non si eredita. L’ingiunzione stessa (sce-
gli e decidi in ciò che erediti, dice sempre) non può essere una
che dividendosi, strappandosi, differendo essa stessa, parlando
in una volta più volte – e a più voci” (SM 40 [25-26]).
Se questo vale in ogni tempo e per qualsiasi eredità di un
certo peso (basti pensare alla storia dell’eredità hegeliana, alla
famigerata divisione tra una “destra” e una “sinistra”, ai liquida-
tori della prima e dell’ultima ora, all’istituzione dell’Hegel-
Archiv di Bochum con i suoi apparati e protocolli di proprietà e
legittimazione, ma anche ai tanti eretici ai quali forse è legata la
sua autentica “sopravvivenza” – Marx, Nietzsche, Freud, Kojève,
Bataille, fino a Derrida), è facile immaginare la pluralità di voci
che fanno appello all’eredità dell’autore della disseminazione.
Derrida, in vita, non si è mai opposto alla deriva dissemi-
nale che i suoi testi hanno subito e/o suscitato. Pur rimarcando,
in certi casi, la sua personale distanza da certe letture della deco-
struzione, Derrida non ha mai pensato di istituire una dogmati-
ca decostruttiva, né tanto meno una scuola o, peggio, una setta.
Non perché, come ancora pensa qualcuno, per Derrida l’inter-
pretazione sia un gioco inane, senza valore, un esercizio retori-
co-letterario, un virtuosismo stilistico. Ma perché ogni interpre-
tazione implica scelta e decisione, che non possono essere pre-
determinate da un codice prefissato; perché il valore dell’inter-
pretazione non dipende dalla sua adeguazione ad una presunta
intenzione autoriale celata al di fuori dei testi, ma dagli effetti
che produce.
È questo il punto: possiamo solo limitarci a constatare il
ripresentarsi di spinte feticiste e settarie, per quanto paradossali
possano apparire nell’epoca delle tele-tecnologie che, come
Derrida ci ha insegnato, destrutturano irrimediabilmente l’illu-
sione di uno spazio chiuso, intatto e protetto da ogni alterazio-
ne; un’illusione che, tra l’altro, ha animato – forse ossessionato
– la cultura occidentale e che va decostruita come tale.

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E tuttavia, se questi sono fenomeni che si ripetono in ogni


tempo, ogni volta che ne va di un lascito di un certo peso, ben
diversa è la situazione del lascito là dove le interpretazioni si
sono assunte, e si assumono, la responsabilità di assicurare
all’eredità un qualche avvenire.
Se l’avvenire, come ha scritto Derrida, appartiene agli spet-
tri, ai ritornanti (revenants), ebbene ritornare a Derrida signifi-
ca oggi ritornare all’avvenire della decostruzione.
È questo lo spazio in cui si inscrive il Derridario.
Posto che siamo ben consapevoli della legittimità e della
relativa fecondità dei vari tentativi che si sono mossi e conti-
nuano a muoversi in questo spazio, pretendendo, spesso, più o
meno consciamente, di stabilirne i confini e quindi anche l’or-
ganizzazione interna, con il Derridario vogliamo indicare le
nostre coordinate: non in vista della terra promessa di un nuovo
dogma, ma per aprire la strada per letture a venire.
Questa prospettiva, dettata dall’avvenire, ha animato la
nostra decisione e la scelta delle voci. L’eventuale lettore, quin-
di, non vi troverà che sporadici riferimenti allo stato di cose pre-
sente. Né vi troverà espliciti riferimenti a quegli autori ai quali,
altrove, riconosciamo il merito di averci aperto la strada.
Il Derridario ritorna a Derrida per affrontare direttamente,
senza mediazioni, il corpus derridiano, provando così a rispon-
dere all’ingiunzione che ci viene dal lascito.
La scelta delle voci segue tre direttrici essenziali che si
intersecano in più punti.
1. Alcune voci sono tratte dalle prime opere. Si tratta di
quelle attraverso cui è possibile risalire all’elaborazione teorica
della decostruzione, ma la cui gittata arriva fino all’ultimo
periodo del pensiero di Derrida (ARCHI-SCRITTURA, AUTO-AFFE-
ZIONE, DECOSTRUZIONE, DIFFERAENZA, LUTTO, LA VITA LA MORTE,
SOPRAVVIVENZA).
2. Altre sono tratte dalle opere più recenti. Sono voci rela-
tive alla presunta svolta etico-politica del pensiero di Derrida, e
comunque agli aspetti della decostruzione oggi più dibattuti, il

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cui respiro va ben al di là della ristretta cerchia degli studi filo-


sofici. In questo caso si è mostrata l’articolazione sistematica di
tali voci nel contesto dell’intera opera di Derrida, a partire dal-
l’origine di questi temi nella prima elaborazione teorica della
decostruzione (DEMOCRAZIA A VENIRE, AUTOIMMUNITÀ, LEGGE,
CHŌRA, TESTIMONIANZA).
3. Un’altra serie comprende proprio quelle voci che sfug-
gono ad un nostro preciso intendimento ma delle quali ricono-
sciamo l’importanza. In questo caso abbiamo sondato il terreno,
rilevato tracce antiche e a lungo tralasciate, avanzato delle ipo-
tesi, aperto percorsi tanto più significativi in quanto permettono
di fare piazza pulita di alcuni luoghi comuni che riteniamo par-
ticolarmente fuorvianti (DONO, LETTERATURA, MESSIANICO,
SEGRETO, TUTT’ALTRO).
That’s all

SILVANO FACIONI
SIMONE REGAZZONI
FRANCESCO VITALE

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AVVERTENZA

Le opere di Derrida sono citate usando le abbreviazioni riportate


nella Legenda, seguite dal numero di pagina dell’originale francese e
dal numero di pagina della traduzione italiana tra parentesi quadra, e.g.
Gr 227 [219]. Nel caso in cui l’originale francese non sia edito, viene
citata tra parentesi quadra la sola traduzione italiana. Là dove è parso
opportuno sono state apportate alcune modifiche alle traduzioni italia-
ne.
I termini in maiuscoletto che compaiono nelle voci, e.g. ARCHI-
SCRITTURA, segnalano che il termine è, a sua volta, una voce. Le frecce
➞ seguite da un termine in maiuscoletto rinviano alla voce omonima.
I fuochi semantici che compaiono in calce alle voci segnalano
alcune costellazioni concettuali collegate alla voce in questione.
Ogni voce è stata scritta da un singolo Autore. Le sigle in calce
alle voci (S.F., S.R., F.V.) segnalano, ogni volta, l’Autore della voce
(Silvano Facioni, Simone Regazzoni, Francesco Vitale).

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DERRIDARIO
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ARCHI-SCRITTURA
[ARCHI-ÉCRITURE]

Il termine appare per la prima volta e diffusamente in Della


grammatologia. A prima vista si direbbe un sinonimo di DIFFE-
RAENZA. Tuttavia in seguito Derrida preciserà in che modo se ne
distingue: la differaenza, in virtù della sua portata illimitata, in
quanto cioè è presa nel movimento stesso di cui è la legge, è dif-
ferenziazione di sé, “si lascia sottomettere ad un certo numero
di sostituzioni non-sinonimiche, secondo la necessità del conte-
sto” (Ma 13 [40]). L’archi-scrittura è uno di questi sostituti.
Altri, disseminati nella tramatura della differaenza, sono la trac-
cia, la spaziatura, la riserva, il pharmakon, l’imene, il supple-
mento, lo spettro...
L’archi-scrittura dunque si distingue dalla DIFFERAENZA in
relazione al contesto in cui produce effetti determinati: l’artico-
lazione tra le condizioni irriducibili dell’esperienza e i processi
di significazione semio-linguistica, e quindi anche i processi di
elaborazione delle oggettività ideali, le formazioni del sapere.
Allo stesso tempo, però, attraverso il riferimento alla scrittura, il
termine permette di rinviare alla rimozione di tali condizioni
all’interno dell’ordine del discorso della metafisica della pre-
senza, spiegandone le ragioni profonde.
La scrittura infatti, da Platone a Husserl, passando per
Rousseau, Hegel, Saussure, fino ad un certo strutturalismo che
a quest’ultimo si ispira, è sempre stata pensata quale semplice
strumento empirico, tecnica al servizio della parola viva, e cioè
quale sistema di rappresentazione convenzionale deputato alla

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trasmissione di un significato che si presuppone di per sé costi-


tuito e pienamente presente nell’intimità di un’ipseità (anima,
soggetto, coscienza, ecc.) che a sua volta si presume pienamen-
te presente a se stessa nella produzione ed espressione dei pro-
pri significati. È bene sottolineare che in tale concezione il
significato trova naturale, spontanea, immediata, compiuta
espressione solo nella parola viva, mentre la funzione della
scrittura consisterebbe solo nella sua registrazione tecnica, cioè
arbitraria e convenzionale. È su tale privilegio della parola viva
– l’elemento stesso del logos – che si viene formando la storia
della scrittura fonetico-alfabetica, o il suo mito, dato che una
scrittura puramente fonetica è non solo di fatto, ma di diritto
impossibile. Di qui la connotazione della tradizione della meta-
fisica della presenza quale “fono-logocentrismo” (Gr 21-41 [28-
48]): “Il sistema linguistico associato alla scrittura fonetico-
alfabetica è quello nel quale si è prodotta la metafisica logocen-
trica determinando il senso dell’essere come presenza”(Gr 64
[68]).
Per questo la scrittura è sempre stata considerata un male
necessario: se da un lato supplisce ai limiti empirici dell’allocu-
zione verbale diretta, permettendo la conservazione e diffusione
dei prodotti della significazione, dall’altro, per la sua stessa
natura di doppio artificiale e meccanico, è considerata causa di
ambiguità, corruzione, perversione, dispersione, perdita del
senso. La scrittura infatti, in tanto assicura la SOPRAVVIVENZA
della significazione in quanto la scioglie dalla sua dipendenza
dalla presenza viva della coscienza che la produce e che si pre-
sume ne garantisca così la fondatezza e quindi la verità. La mec-
canica della scrittura implica per struttura l’assenza e quindi la
possibilità della morte del locutore. Da questo deriva la trama-
tura tra scrittura, morte, LUTTO, SOPRAVVIVENZA, TESTIMONIANZA
quale attestazione testamentaria, che s’intesse lungo tutta l’ope-
ra di Derrida: “Questa deriva essenziale legata alla scrittura
come struttura iterativa, sciolta da ogni responsabilità assoluta,
dalla coscienza come autorità in ultima istanza, orfana e privata

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dell’assistenza del padre, è proprio ciò che condannava Platone


nel Fedro. Se il gesto di Platone è, come io credo, il gesto filo-
sofico per eccellenza, si ha qui la misura della posta in gioco nel
nostro discorso” (Ma 376 [405]. Gr 51-55 [57-61]).
In Della grammatologia Derrida intraprende la DECOSTRU-
ZIONE di tale tradizione, per mostrare che la discriminazione
della scrittura si è imposta per difendere il principio della pre-
senza, dell’identità di per sé costituita, autonoma e indipenden-
te rispetto all’alterità in generale, di contro quindi alla relazione
differenziale che di ciò che è presente è piuttosto la condizione
irriducibile (➞ DIFFERAENZA): “Archi-scrittura di cui qui voglia-
mo indicare la necessità e delineare il nuovo concetto; e che
continuiamo a chiamare scrittura solo perché comunica essen-
zialmente con il concetto volgare di scrittura. Questo non ha
potuto imporsi storicamente che per la dissimulazione dell’ar-
chi-scrittura, per il desiderio di una parola che scaccia il suo
altro e il suo doppio e lavora a ridurre la sua differenza. Se per-
sistiamo a chiamare scrittura questa differenza è perché, nel
lavoro di repressione storica la scrittura era, per situazione,
destinata a significare ciò che della differenza è più temibile.
Essa era ciò che più da vicino minacciava il desiderio della paro-
la viva, ciò che l’intaccava dal di dentro e dal suo comincia-
mento” (Gr 83 [85-86]).
La repressione della scrittura all’interno della metafisica
della presenza sarebbe dunque il sintomo di una rimozione ben
più profonda, addirittura fondatrice: la rimozione della relazio-
ne differenziale quale condizione irriducibile dell’esperienza e
quindi di tutto ciò che si dà nell’ordine della presenza. In questa
prospettiva, la decostruzione della tradizione della metafisica
della presenza non mira alla semplice riabilitazione della scrit-
tura empirica, quanto alla desedimentazione della rimozione che
fonda e struttura tale tradizione. È attraverso questo stesso
movimento di desedimentazione che Derrida arriverà a rilevare
le condizioni di possibilità del senso, riformulandole in termini
di archi-scrittura.

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Ma prima ancora di ripercorrere in estrema sintesi le tappe


che hanno reso possibile tale rielaborazione, è necessario preci-
sare che la scrittura, in tanto appare quale sintomo della rimo-
zione della differaenza, in quanto si tratta della rimozione delle
condizioni di possibilità dell’esperienza stessa, e dunque di una
rimozione necessariamente impossibile, i cui effetti perturbanti
non possono non assillare il sistema che si fonda su tale rimo-
zione, la metafisica della presenza nella sua apparente stabilità
e pervasività: “Rimozione non riuscita: in via di decomposizio-
ne storica. È questa decomposizione che ci interessa, è questa
non-riuscita che conferisce al suo divenire una certa leggibilità
e ne limita l’opacità storica [...]. La forma sintomatica del ritor-
no del represso: la metafora della scrittura che assilla [hante] il
discorso europeo, e le contraddizioni sistematiche nell’esclusio-
ne della traccia. La rimozione della scrittura come di ciò che
minaccia la presenza e la padronanza dell’assenza” (ED 293
[255]).
In apertura di Della grammatologia Derrida repertoria una
lunga serie di testimonianze in cui è possibile rilevare il ritorno
del rimosso: il ricorso al modello della scrittura in contesti
molto diversi fra loro: cinema, pittura, fotografia, coreografia,
scultura... In particolare, biologia e cibernetica: “Tutto ciò per
descrivere non soltanto il sistema di notazione che si aggiunge
secondariamente a queste attività ma l’essenza e il contenuto di
queste stesse attività. [...]. Questa situazione si è annunciata già
da sempre. Perché proprio ora sta per farsi riconoscere come tale
e a cose fatte [après coup]?” (Gr 19-20 [27]).
Ma per quali vie Derrida si è imbattuto nella repressione
della scrittura quale sintomo di una rimozione più profonda e
generale? Come si è aperta la strada della scrittura quale sinto-
mo della differaenza irriducibile e quindi quale grimaldello per
scardinare la chiusura della metafisica della presenza?

Il termine archi-scrittura, come detto, appare per la prima


volta in Della grammatologia, ma la sua necessità s’impone fin

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dall’Introduzione a L’origine della geometria di Husserl.


Derrida prende in esame la descrizione fenomenologica
della genesi delle oggettività ideali a partire dalla loro evidenza
per la singola coscienza che le produce per la prima volta. Se
un’oggettività ideale (un teorema, un concetto, una forma di
conoscenza) per essere vera deve essere intellegibile per tutti ed
in ogni tempo, indipendentemente dalle condizioni empiriche e
contingenti della sua produzione, e quindi dalla singolarità della
coscienza che la produce in un momento dato, in condizioni
date, allora – afferma Husserl – la sua costituzione dipende
strettamente dalla possibilità del linguaggio, vale a dire non di
un linguaggio empirico determinato ma dalla possibilità del lin-
guaggio in generale.
La necessità di questa informazione, secondo Derrida,
impone di pensare “l’originalità del linguaggio costituente”,
rispettando la riduzione del linguaggio empirico storicamente
costituito (OG 72 [131]). La possibilità del linguaggio deve
essere intesa in termini di condizioni di possibilità e cioè nel-
l’ordine delle condizioni “trascendentali”: “Parliamo qui di lin-
guaggio trascendentale nella misura in cui, da un lato, questo è
‘costituente’ in rapporto all’oggettività ideale e, dall’altro, non
si confonde, nella sua pura possibilità, con alcuna lingua empi-
rica di fatto” (OG 71 n. [130 n.]).
Derrida a questo punto si allontana dal commento della
lezione husserliana per trarne alcune conseguenze delle quali
Husserl non sembra poter rendere conto: in prima istanza, rile-
va nella reciproca co-implicazione di registrazione e trasmissio-
ne, caratteristica del linguaggio, la condizione di produzione
dell’idealità (OG 72 [131]). L’idealità non è prodotta nell’inti-
mità di una singola coscienza e poi conservata e trasmessa gra-
zie al linguaggio, inteso come semplice strumento rappresenta-
tivo, protesi tecnica, esterna e subordinata alla coscienza, origi-
ne vivente ma finita dell’idealità. L’idealità si costituisce come
tale soltanto attraverso questo processo di sedimentazione e pro-
spezione del senso, che non a caso Derrida definisce in termini

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tecnici e cioè come “registrazione” e, più precisamente, come


“telecomunicazione”.
La produzione dell’idealità implica in se stessa e necessa-
riamente, già all’interno della singola coscienza che la produce,
la possibilità dell’iscrizione, la registrazione in una forma che
ne garantisca la prospezione, e cioè l’iterabilità indefinita al di
là del presente vivente della sua produzione. Se così non fosse,
il prodotto ideale resterebbe inaccessibile per una coscienza
altra da quella che l’ha prodotto in quel dato istante presente, ed
in linea di principio per la stessa coscienza in un momento altro
da quello singolare e contingente della sua produzione. Dunque
la costituzione dell’idealità all’interno della singola coscienza
implica già e necessariamente la relazione all’altro, attraverso
l’iscrizione in una forma che deve essergli accessibile; all’altro
che io stesso sono in un momento altro da quello del presente
vivente, singolare e contingente della produzione dell’idealità.
Per Derrida è necessario compiere un passo ulteriore: la
possibilità dell’iscrizione del senso in una lingua non è suffi-
ciente a garantire la costituzione dell’idealità: questa infatti
resterebbe legata alla comunicazione orale, dipenderebbe dun-
que da condizioni empiriche contingenti.
Per lo stesso Husserl – osserva Derrida – è necessaria la
scrittura: “È la possibilità della scrittura che assicurerà la tradi-
zionalizzazione assoluta dell’oggetto, la sua oggettività ideale
assoluta, vale a dire la purezza del suo rapporto con una sogget-
tività trascendentale universale. Essa lo farà emancipando il
senso dalla sua evidenza attuale per un soggetto reale e dalla sua
circolazione attuale all’interno di una comunità determinata”
(OG 84 [141]).
La possibilità della scrittura è la condizione irriducibile
della costituzione del senso. La scrittura intesa come pura pos-
sibilità dell’iscrizione e non come una qualsiasi scrittura empi-
rica storicamente data: “Quindi, la scrittura non è più solamen-
te l’ausiliario mondano e mnemonico di una verità il cui senso
d’essere farebbe a meno in se stesso di ogni registrazione. Non

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soltanto la possibilità o la necessità d’essere incarnata in una


grafia non è più estrinseca e fattuale in rapporto all’oggettività
ideale: essa è la condizione sine qua non del suo compimento
interno. Finché non è impressa nel mondo, o piuttosto finché
non può esserlo, finché non è nella condizione di prestarsi ad
una incarnazione che, nella purezza del suo senso, è più di una
segnalazione o di un abito, l’oggettività ideale non è pienamen-
te costituita. L’atto di scrittura è quindi la più alta possibilità di
ogni ‘costituzione’” (OG 86 [142-143).
La scrittura è dunque la condizione di possibilità dell’idea-
lità. Bisogna intenderla però come pura possibilità dell’iscrizio-
ne e non semplicemente come una scrittura empiricamente
determinata, in quanto tale possibilità garantisce l’intelligibilità
del senso in assenza delle condizioni contingenti da cui ha ori-
gine, e dunque l’iterabilità in linea di principio indefinita in
assenza non solo del referente e del destinatario, ma anche di
ogni intenzionalità soggettiva realmente presente. È in questo
senso “trascendentale” che bisognerà intendere il ricorso al ter-
mine archi-scrittura. Ed infatti, già nell’Introduzione del 1962
Derrida afferma che la pura possibilità dell’iscrizione, quale
condizione di possibilità della produzione dell’idealità, è già
all’opera nella singolarità vivente umana quale condizione di
possibilità dell’esperienza e quindi del suo determinarsi quale
coscienza: “Prima di aver luogo fra più individui, il riconosci-
mento e la comunicazione del ‘medesimo’ hanno luogo all’in-
terno della coscienza individuale: dopo l’evidenza viva e transi-
toria, dopo lo svanire di una ritenzione finita e passiva, il senso
può essere ri-prodotto come il ‘medesimo’ nell’attività di una
rammemorazione; esso non è tornato nel nulla. È in questo recu-
pero d’identità che si annuncia l’idealità come tale in generale
in un soggetto egologico” (OG 81-82 [139-140]).
Nella relazione all’alterità in generale che costituisce l’e-
sperienza, la singolarità vivente umana conserva l’intuizione
immediata attraverso la ritenzione: allo stesso tempo però la
scioglie dalla sua occorrenza presente e viva perché singolare e

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contingente, e quindi le conferisce già una prima determinazio-


ne ideale – l’identità – che può essere riprodotta al di là del qui-
adesso dell’intuizione immediatamente presente, la inscrive
cioè in una forma iterabile, indefinitamente riconoscibile, dun-
que già oggettiva. Se così non fosse, non solo non vi sarebbe
alcuna possibilità per la produzione ideale in generale, ma nem-
meno per l’elaborazione dell’esperienza: se la singolarità viven-
te umana non fosse già da sempre in grado di sciogliere l’intui-
zione dalla sua presenza immediata e viva, producendone la
traccia in una forma altra da quella, in vista di un riferimento
ulteriore, la sua vita consisterebbe in un flusso intuitivo indi-
stinto, la negazione stessa della possibilità dell’esperienza e
quindi della coscienza che si forma e vive in virtù di questa
struttura irriducibile.
È a questo punto che per Derrida si rende necessario radi-
calizzare la ricerca trascendentale in una prospettiva che, pur
restando fenomenologica, intende risalire alle condizioni di pos-
sibilità dell’esperienza ben al di qua dello stadio al quale si arre-
sta per principio la fenomenologia. La fenomenologia infatti si
arresta all’orizzonte della coscienza costituita, non può spinger-
si fino a rilevare nella dinamica della traccia differenziale che
produce la ritenzione (in senso sia oggettivo che soggettivo), la
condizione irriducibile tanto dell’esperienza quanto della
coscienza che si costituisce attraverso di essa. Già
nell’Introduzione a L’origine della geometria di Husserl Derrida
aveva marcato questo limite, alludendo (via Hyppolite) al pas-
saggio che invece aveva compiuto Hegel: risalire alla genesi del-
l’esperienza della coscienza a partire dalla sua costituzione
naturale quale individualità vivente (OG 58-59 [118-119]).
Derrida tornerà esplicitamente su questo passaggio in Della
grammatologia (39-41 [45-48]) e poi in Il pozzo e la piramide
(Ma).
È per questo che, per risalire alle condizioni di possibilità
dell’esperienza si rende necessario decostruire il “principio dei
principi” della fenomenologia husserliana: il “presente vivente”

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quale forma originaria della datità dei fenomeni per la coscien-


za e quindi fonte di ogni intenzionalità espressiva (Ausdruck)
riempita di significato (Bedeutung), che Derrida traduce con
“vouloir-dire”: “voler-dire”. Bisogna quindi passare per La voce
e il fenomeno.

Per Husserl il “presente vivente” è costituito dall’intreccio


della percezione immediata (istante-sensazione) con la ritenzio-
ne (ricordo primario) e la protensione (attesa primaria). Husserl
però tiene a distinguere rigorosamente la ritenzione dalla “ri-
rap-presentazione” (Vergegenwärtigung): afferma una conti-
nuità omogenea tra percezione e ritenzione nell’elemento della
presenza viva e immediata, mentre tra la ritenzione e la sfera
della ri-rap-presentazione, che comprende, secondo gradi diver-
si, la memoria, il segno, la lingua, la scrittura, l’idealità, vi
sarebbe solo una relazione di rinvio più o meno mediata ma
sempre esteriore.
Per sostenere tali distinzioni Husserl incorre in un’eviden-
te incongruenza: l’assoluta presenza a sé della coscienza come
“presente vivente” si fonda sulla presenza immediata della
coscienza all’intuizione, ma per attingere a quest’ultima la
coscienza deve riferirsi all’impressione passata, non più presen-
te, conservata attraverso la ritenzione: la dinamica della riten-
zione implica necessariamente il rinvio ad un passato che, per
quanto prossimo, non è dell’ordine della presenza intuitiva ma
piuttosto della ri-rap-presentazione iterabile. La ritenzione
infatti scioglie l’intuizione dalla sua occorrenza puntuale e con-
tingente, producendone una traccia in vista di un riconoscimen-
to a venire, e cioè di un atto di rimemorazione. Affinché questo
differimento sia possibile la traccia deve necessariamente diffe-
renziarsi dalla presenza puntuale e contingente, tanto del dato
intuitivo quanto della coscienza che lo intuisce. Se così non
fosse, sarebbe impossibile, per la stessa coscienza, riferirsi allo
stesso dato in un momento altro del flusso dell’esperienza; se
così non fosse, l’esperienza sarebbe un flusso intuitivo indistin-

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to e omogeneo, non vi sarebbe cioè né esperienza né coscienza.


Questa si costituisce solo in virtù della traccia ritenzionale che
non reca l’impressione intuitiva del dato – la presenza viva – ma
il tratto differenziale che permette di distinguere il dato dal flus-
so temporale intuitivo ed allo stesso tempo di riferirsi ad esso in
un momento altro dello stesso flusso temporale.
Il presente vivente non è dunque origine semplice, puntua-
le coincidenza della coscienza con se stessa ma relazione diffe-
renziale della percezione presente al suo altro che, producendo-
ne la traccia, ne rende possibile l’iterazione e quindi la costitu-
zione: “Dal momento che si ammette questa continuità dell’a-
desso e del non-adesso, della percezione e della non-percezione
nella zona di originarietà comune all’impressione originaria e
alla ritenzione, si accoglie l’altro nell’identità a sé
dell’Augenblick [‘batter d’occhio’; la puntualità dell’istante]: la
non-presenza nel batter d’occhio. [...]. Questa alterità è la con-
dizione della presenza, della presentazione, e dunque della
Vorstellung in generale, prima di tutte le dissociazioni che
potrebbero produrvisi. La differenza tra la ritenzione e la ripro-
duzione, tra il ricordo primario e il ricordo secondario, è la dif-
ferenza, che Husserl vorrebbe radicale, non tra la percezione e
la non-percezione ma tra due modificazioni della non-percezio-
ne” (VPh 101 [101]).
La coscienza quindi è effetto e non origine di tale dinami-
ca della ri-rap-presentazione. Il presente in rapporto al quale si
costituisce la coscienza è già da sempre e necessariamente spa-
zializzato, attraverso la ritenzione, in una traccia costituita
all’ordine dell’iterazione a venire e proprio per questo è suscet-
tibile di essere articolato secondo gradi diversi: la memoria, il
segno, la lingua, la scrittura, l’idealità oggettiva: “Senza ridurre
l’abisso che può infatti separare la ritenzione dalla ri-presenta-
zione, senza nascondersi che il problema dei loro rapporti non è
null’altro che quello della storia della vita e del divenire-
cosciente della vita, si deve poter dire a priori che la loro radi-
ce comune, la possibilità della ri-petizione sotto la sua forma più

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generale, la traccia nel senso più universale, è una possibilità


che deve non solo abitare la pura attualità dell’adesso, ma costi-
tuirla con il movimento stesso della differaenza che vi introdu-
ce” (VPh 103 [103]).
Se la pura possibilità dell’iscrizione in una traccia iterabile
è già all’opera all’interno della singola coscienza quale condi-
zione di possibilità dell’esperienza, allora bisogna ammettere
che questa si costituisce come una scrittura, e cioè secondo
quella struttura funzionale – l’iterabilità – che la tradizione attri-
buisce alla scrittura empirica, relegandola però nella sfera, este-
riore e subordinata alla coscienza, dell’artificio tecnico stru-
mentale, con tutte le connotazioni negative che, come visto, ne
conseguono e che sono tutte riconducibili alla minaccia della
differenza. Bisogna ammettere piuttosto che se una scrittura
“avant la lettre”, e cioè un’archi-scrittura, è la condizione irri-
ducibile dell’esperienza, allora è necessario reinscrivere quelle
stesse connotazioni negative attribuite alla scrittura empirica
nell’ordine delle condizioni di possibilità dell’esperienza e
quindi riformulare le condizioni di possibilità della significa-
zione semio-linguistica quale articolazione ulteriore dell’archi-
scrittura generale, e perciò al di qua dell’opposizione gerarchi-
ca tra lingua e scrittura. Bisogna infine ammettere che tanto la
lingua quanto la scrittura sono, allo stesso titolo e sullo stesso
piano, articolazioni dell’archi-scrittura generale, che funziona-
no cioè secondo la dinamica e la struttura della traccia differen-
ziale.

Per comprendere l’articolazione tra l’archi-scrittura quale


condizione irriducibile dell’esperienza e la archi-scrittura quale
condizione della significazione semio-linguistica, per Derrida è
sufficiente trarre profitto dalla lezione di Saussure, che proprio
in questo passaggio trova piena giustificazione: a Saussure si
deve infatti l’affermazione del carattere arbitrario e differenzia-
le del segno, del significante quanto del significato e quindi
della significazione in generale, al di qua di ogni presunta

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distinzione gerarchica tra sostanza fonica e sostanza grafica del


segno (distinzione ancora sostenuta da Saussure e per la quale,
secondo Derrida, il linguista ginevrino resta erede del fono-
logocentrismo metafisico): “Saussure è innanzitutto quello che
ha posto l’arbitrarietà del segno e il carattere differenziale del
segno al principio della semiologia generale, in particolare della
linguistica [...]. Non ci può essere arbitrarietà se non perché il
sistema dei segni è costituito da differenze, non da termini pieni.
Gli elementi della significazione funzionano non grazie alla
forza compatta dei loro nuclei ma grazie alla rete di opposizio-
ni che li distinguono e li rapportano gli uni agli altri [...]. Ora,
questo principio della differenza, come condizione della signifi-
cazione, affetta la totalità del segno, cioè a un tempo la faccia
del significato e quella del significante [...]. Se ne trarrà come
prima conseguenza, che il concetto significato non è mai pre-
sente in se stesso, in una presenza sufficiente che rinvierebbe
solo a se stessa. Ogni concetto è in via di diritto ed essenzial-
mente inscritto in una catena o in un sistema all’interno del
quale esso rinvia all’altro, agli altri concetti, per gioco sistema-
tico di differenze. Tale gioco, la differaenza, non è più, allora,
semplicemente un concetto ma la possibilità della concettualità,
del processo e del sistema concettuale in generale” (Ma 10
[37]).
In conclusione: l’archi-scrittura mostra l’articolazione tra
esperienza e processi di significazione, rispondendo così alla
domanda essenziale di cui qualsiasi filosofia che si pretenda
tale deve farsi carico. Allo stesso tempo però, dimostra che la
nostra tradizione di pensiero si è costituita sulla rimozione della
sua stessa condizione di possibilità: la sottomissione della scrit-
tura alla trascrizione di una parola viva presunta essere espres-
sione piena di un significato presunto essere presente in una
coscienza presunta essere pienamente presente a se stessa, altro
non è che il sintomo maggiore di tale rimozione.
In particolare, l’archi-scrittura impone di ammettere che
l’esperienza stessa si costituisce come archi-scrittura, tramatura

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di tracce, e cioè come testo, prima di qualsiasi scrittura empiri-


ca all’origine del testo comunemente inteso. Ne consegue che è
impossibile risalire o attingere ad una qualche presenza quale
origine o telos della significazione. La presenza a sé della
coscienza è un effetto e non l’origine della catena testuale in cui
si trova inscritta. La significazione semio-linguisitca è solo
un’emergenza nella rete testuale generale, in linea di principio
illimitata, nella quale intervengono anche istanze differenti da
quelle della coscienza a se stessa presente: da quelle individua-
li ma incoscienti a quelle inter-soggettive, storiche e istituziona-
li. Una rete di cui possiamo isolare e decifrare porzioni deter-
minate, ma che per principio non è possibile saturare. È in que-
sto senso che bisogna intendere un’altra locuzione derridiana
destinata a suscitare scandalo sulla scena della filosofia: “Non
c’è fuori-testo” (Gr 227; [219]), come esplicitamente indicato
prima in Paraggi (Pa 127-128 [184-185]) e poi in Limited Inc.
(LI 253 [204]; 272-273 [220-221]).
Ne consegue che l’attività di decifrazione del testo genera-
le come di quello ordinario, non si risolve nella riesumazione,
presunta neutrale e oggettiva, di un significato, inteso quale con-
tenuto di una coscienza padrona di sé che si esprime attraverso
la produzione di significanti più o meno trasparenti (Gr 228
[220]). L’attività di decifrazione deve tenere conto della pluralità
di istanze che intervengono nella genesi e nella struttura del
testo. È piuttosto e necessariamente dell’ordine del performati-
vo: la misura del suo valore è la capacità di produrre effetti nel
contesto in cui interviene. È attività trasformatrice e perciò stes-
so affermatrice, il che non vuol dire arbitraria, senza regole. È
piuttosto dell’ordine della TESTIMONIANZA e del credito al quale
è in grado di dare luogo e corso. Implica in se stessa, l’assun-
zione di una responsabilità che nessun protocollo scientifico-
accademico potrà garantire fino in fondo. La responsabilità di
giustificare interventi, prelievi, disarticolazioni e riarticolazioni
operati all’interno di precise catene testuali, per differirne l’ela-
borazione significante. Solo trasformando il testo che interpre-

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ta, l’attività di decifrazione si fa carico della sua eredità, si assu-


me la responsabilità di assicurargli una certa sopravvivenza.

FUOCHI SEMANTICI: alterità, disseminazione, fonologocentrismo,


genesi, gramma, ipseità, iterabilità, performativo, metafisica,
rinvio, ri-rap-presentazione, scrittura, segno, spaziatura, testo,
traccia, voce, voler-dire.

F.V.

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AUTO-AFFEZIONE
[AUTO-AFFECTION]

Derrida dedica all’auto-affezione alcune densissime pagine


di portata decisiva in Della grammatologia, il testo in cui è più
evidente l’intenzione di chiarire la matrice teorica della deco-
struzione (Gr 145-147 [143-145]; 221-223 [213-215]; 235-238
[227-230]; 405-411 [379-385]). Derrida isola nell’esperienza
dell’auto-affezione la matrice della metafisica della presenza e
quindi ne coglie la struttura più generale e pervasiva, ben al di
qua della delimitazione heideggeriana che, pur restando valida
entro certi limiti, vi si trova piuttosto inscritta. All’origine del
pensiero che pensa l’essere dell’ente all’ordine di un’ipostatizza-
zione del presente, quindi come presenza stabile, permanente,
ostensibile e manipolabile – la metafisica della presenza per
Heidegger – vi sarebbe una struttura universale dell’esperienza:
l’auto-affezione. All’origine, non in senso storico ma strutturale:
l’auto-affezione, per Derrida, è la condizione di possibilità del-
l’esperienza, intesa quale articolazione specifica – animale,
umana – delle condizioni di possibilità della vita del vivente in
generale. Attraverso l’auto-affezione, quindi, Derrida arriva a
rendere conto tanto delle ragioni che hanno permesso l’imporsi
della metafisica della presenza, quanto di ciò che dell’esperien-
za resiste, irriducibile, alla sua infeudazione nella metafisica
della presenza.
In questa prospettiva, è importante evidenziare che, se è
vero che Derrida fa sua la determinazione heideggeriana della
metafisica della presenza, proprio attraverso il ricorso all’auto-

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affezione la disloca radicalmente: articolando la possibilità della


metafisica della presenza alla possibilità della vita del vivente in
generale e quindi alla struttura universale dell’esperienza,
Derrida può circoscrivere la determinazione heideggeriana come
un effetto secondo, storicamente determinato di questa articola-
zione più profonda.

Per seguire questa traccia bisogna innanzitutto esaminare


nel dettaglio alcuni passaggi di Della grammatologia, segnalan-
do la difficoltà di rendere nella lingua italiana l’uso del termine
“affection” e dei suoi derivati: qualsiasi resa diversa da quella di
seguito adottata, ne potrà superare l’evidente difficoltà, rischian-
do però di dissolverne il senso. L’affezione deve essere intesa
come l’effetto di un contatto, al di qua di ogni sua determinazio-
ne specifica e discriminante: affezione esterna/interna; corpo-
rea/psichica; sensibile/ideale. Queste determinazioni specifiche,
così come l’opposizione che le sostiene, costituiscono piuttosto
l’articolazione ulteriore dell’auto-affezione intesa come la con-
dizione ultima dell’individualità animale umana, la possibilità
stessa del suo essere-vivente; articolazione ulteriore che, all’in-
terno della concettualità metafisica, si è venuta determinando
sotto i nomi di anima, soggetto, coscienza, Dasein... tutti varia-
zione della stessa struttura che Derrida in tempi più recenti ha
designato come “ipseità”: “L’auto-affezione è una struttura uni-
versale dell’esperienza. Qualsiasi vivente è in potenza di auto-
affezione. E solo un essere capace di simbolizzare, vale a dire di
auto-affettarsi, può lasciarsi affettare dall’altro in generale.
Questa possibilità – altro nome della ‘vita’ – è una struttura gene-
rale articolata dalla storia della vita e che dà luogo a delle opera-
zioni complesse e gerarchizzate” (Gr 236 [228]).
L’individualità vivente si costituisce come tale in virtù della
capacità di identificarsi quale sostrato – attivo e passivo insieme
– degli effetti della propria attività vivente. In quanto è capace di
riferirsi a se stessa attraverso le affezioni che patisce in rapporto
all’alterità in generale dalla quale si differenzia per essere se stes-

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sa, dall’ambiente quale orizzonte della soddisfazione dei bisogni


elementari e della riproduzione ma anche di ciò che minaccia la
vita (➞LA VITA LA MORTE). Affinché questo sia possibile, l’indi-
vidualità vivente deve essere già da sempre in grado di conser-
vare la traccia delle affezioni che patisce dall’alterità in genera-
le, per poterle riconoscere come tali in ulteriori occorrenze e per
potersi rapportare a se stessa come il sostrato delle affezioni nella
loro occorrenza ulteriore. L’individualità vivente deve essere già
da sempre capace di padroneggiare le affezioni che patisce dal-
l’esterno, di riprodurle a piacimento, in absentia, indipendente-
mente dalla loro prima occorrenza, e quindi di auto-affettare se
stessa attraverso di esse. È questa la matrice – si potrebbe azzar-
dare biologica – di cui l’esperienza umana rappresenta l’artico-
lazione ulteriore. È questa infatti la struttura ultima dei processi
di rammemorazione e idealizzazione attraverso i quali l’espe-
rienza si viene elaborando nel corso della sua evoluzione indivi-
duale e storica (➞ARCHI-SCRITTURA): “L’auto-affezione, il quan-
to-a-sé o il per-sé, la soggettività guadagna in potenza ed in
padronanza dell’altro nella misura in cui il suo potere di ripeti-
zione si idealizza. L’idealizzazione è qui il movimento attraverso
il quale l’esteriorità sensibile, quella che mi affetta o mi serve da
significante, si sottomette al mio potere di ripetizione, a ciò che
mi appare perciò come la mia spontaneità e che mi sfugge sem-
pre meno” (Gr 236 [228]).
Se l’auto-affezione è la condizione irriducibile dell’indivi-
dualità vivente umana, allora questa per essere se stessa deve dif-
ferire da se stessa, per affettare se stessa deve rapportarsi a sé
come all’altro in generale, non può entrare in contatto con se
stessa se non nell’elemento dell’esteriorità. L’esteriorità quindi è
la condizione irriducibile dell’interiorità, il che significa che non
è possibile sciogliere l’interno dall’esterno, che l’esterno costi-
tuisce l’interiorità dell’interno fissandola all’esterno e, infine,
che l’individualità vivente umana non potrà mai costituirsi per
sé, indipendente e autonoma rispetto all’alterità in generale, non
potrà mai essere piena presenza a sé, padrona della differenza

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che minaccia la conservazione della vita ma allo stesso la rende


possibile (➞DIFFERAENZA). L’auto-affezione è già da sempre e
per sempre auto-etero-affezione: “L’auto-affezione costituisce lo
stesso (auto) dividendolo. La privazione della presenza è la con-
dizione dell’esperienza, vale a dire della presenza” (Gr 237
[229]).
Ne La voce e il fenomeno è ancor più chiaro il vincolo che
lega l’auto-affezione, quale possibilità della vita, al movimento
irriducibile della DIFFERAENZA: “L’auto-affezione non è una
modalità d’esperienza che caratterizza un ente che sarebbe già se
stesso (autos). Essa produce lo stesso come rapporto a sé nella
differenza da sé, lo stesso come il non identico” (VPh 92 [120]).
La metafisica della presenza si impone all’esperienza pro-
prio come reazione contro la dinamica della differenza che ne
costituisce la condizione di possibilità ma allo stesso tempo ne
minaccia la sovranità, la padronanza assoluta e incondizionata su
se stessa e, quindi, sull’alterità in generale. È per sfuggire alla
legge della differenza che il pensiero occidentale ha cercato ripa-
ro in un’esperienza auto-affettiva pura. In un’esperienza sulla
quale fondare il mito di una interiorità pienamente presente a sé
stessa, di una identità pienamente padrona di sé e dell’alterità in
generale; un mito al quale sottomettere tutte le ulteriori articola-
zioni dell’esperienza, tutti i processi di idealizzazione attraverso
i quali si è costituita la nostra cultura, che così si è trovata infeu-
data all’ordine della presenza.

All’interno della tradizione maggiore della filosofia, la


rimozione della dinamica della differenza – il differire da sé,
l’essere-altro – quale condizione irriducibile dell’auto-affezio-
ne avviene attraverso la valorizzazione dell’esperienza audio-
fonica intesa quale auto-affezione pura. Derrida la definisce
anche come l’esperienza dell’intendersi-parlare: attraverso la
voce, da Platone ad Husserl, è possibile pensare una produzio-
ne di significati che sembra poter fare a meno di ogni ricorso
all’esteriorità, allo spazio, alla dimensione sensibile e materiale

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del significante. In particolare, la voce interiore sarebbe l’ele-


mento assolutamente trasparente, spontaneo e naturale, attra-
verso il quale la coscienza, producendo significati, affetta
immediatamente se stessa nell’elemento di una pura interiorità
ideale (il pensiero). La parola viva, la voce proferita, sarebbe
solo l’espressione esteriore che permette la trasmissione inter-
soggettiva dei significati, senza intaccare la purezza auto-affet-
tiva dell’esperienza interiore, tanto della loro produzione quan-
to della loro apprensione. Dunque, l’esperienza audio-fonica
permetterebbe di pensare un rapporto a sé che, pur essendo
puramente ideale, interiore, non sensibile, sarebbe ancora del-
l’ordine dell’affezione e cioè del contatto sensibile, immediato
e perciò intuitivo. “È a partire da questo schema che bisogna
intendere la voce. Il suo sistema richiede che essa sia immedia-
tamente intesa da colui che la emette. Essa produce un signifi-
cante che sembra non cadere nel mondo, fuori dall’idealità del
significato, ma restare protetto, nel momento stesso in cui rag-
giunge il sistema audio-fonico dell’altro, nell’interiorità pura
dell’auto-affezione. [...]. Il colloquio è dunque una comunica-
zione tra due origini assolute che, se si può rischiare questa for-
mula, si auto-affettano reciprocamente, ripetendo in eco imme-
diato l’auto-affezione prodotta dall’altro. L’immediatezza è qui
il mito della coscienza. La voce e la coscienza di voce – vale a
dire la coscienza tout court come presenza a sé – sono il feno-
meno di un’auto-affezione vissuta come soppressione della dif-
feraenza. Questo fenomeno, questa soppressione presunta della
differaenza, questa riduzione vissuta dell’opacità del signifi-
cante sono l’origine di ciò che si chiama la presenza. È presen-
te ciò che non è assoggettato al processo della differaenza. Il
presente è ciò a partire da cui si crede di poter pensare il tempo,
cancellando la necessità inversa: pensare il presente a partire
dal tempo come differaenza” (Gr 236 [228]).
È per questo che Derrida definisce fonologocentrismo l’or-
dine della metafisica della presenza. Da Platone e Aristotele, da
Rousseau a Hegel, fino a Saussure, Husserl e al di là, tutte le

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volte che la parola viva viene privilegiata rispetto alla scrittura


quale mezzo di produzione e trasmissione del senso, del pensie-
ro, del sapere, del vero, ciò accade, più o meno consapevolmen-
te, per mantenere fermo il presupposto fondamentale della meta-
fisica della presenza: l’illusione di un’auto-affezione pura, vale a
dire di un’interiorità pura, determinata quale immediata, intuiti-
va presenza a sé (dell’anima, del soggetto, della coscienza), intat-
ta e indipendente rispetto all’alterità in generale, alla quale si rap-
porta quindi in piena e sovrana autonomia (➞ARCHI-SCRITTURA).
In definitiva, il pensiero di un’auto-affezione pura pensa di
poter pensare se stesso come Dio, di potersi elevare, nell’ele-
mento dell’auto-affezione pura, al pensiero (che si fa) (di) Dio:
“L’alterità infinita della sostanza divina non si interpone come un
elemento di mediazione o di opacità nella trasparenza del rap-
porto a sé e della purezza dell’auto-affezione. Dio è il nome e l’e-
lemento di ciò che rende possibile un sapere di sé assolutamente
puro e assolutamente presente a sé. L’intelletto infinito di Dio è
l’altro nome del logos come presenza a sé, da Cartesio a Hegel e
malgrado tutte le differenze che separano i differenti luoghi e
momenti nella struttura di quest’epoca. Ora, il logos non può
essere infinito e presente a sé, non può prodursi come auto-affe-
zione, se non attraverso la voce: ordine del significante per il
quale il soggetto esce da sé in sé, non impresta fuori di sé il signi-
ficante che emette e che l’affetta allo stesso tempo. Tale è alme-
no l’esperienza – o coscienza – della voce: dell’intendersi-parla-
re. Essa si vive e si dice come esclusione della scrittura, vale a
dire dell’appello ad un significante ‘esterno’, ‘sensibile’, ‘spa-
ziale’ che interrompe la presenza a sé” (Gr 146 [144]).

La metafisica della presenza si fonda dunque sull’illusione


di un’auto-affezione pura, sulla possibilità di una presenza a sé
puramente immediata, intuitiva, vale a dire sulla possibilità di
un’auto-affezione puramente temporale, in virtù della quale l’e-
sperienza dovrebbe potersi rapportare a se stessa senza differire
da sé nel suo decorso temporale, senza dover passare per l’alte-

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rità in generale, senza doversi rapportare all’altro in generale per


essere se stessa. È a partire da questa struttura fondamentale del-
l’auto-affezione temporale che è possibile includere nella meta-
fisica della presenza tanto la definizione kantiana del tempo
quale forma pura della sensibilità e quindi quale condizione del
senso interno, quanto la definizione husserliana del presente
vivente quale fonte della coscienza. Il che significa includere
nella metafisica della presenza proprio quei momenti della
nostra tradizione nei quali Heidegger aveva riconosciuto i primi
tentativi di sottrarre il pensiero della temporalità all’autorità
metafisica del presente per radicarlo nella costituzione originaria
dell’esperienza. Non solo, attraverso l’auto-affezione è possibile
includere lo stesso Heidegger nella metafisica della presenza
(DE 157-158 [103-104]), in particolare l’Heidegger di Essere e
Tempo e di Kant e il problema della metafisica (Gr 265 [254]).
Per una dimostrazione sarebbe necessario ricostruire le raf-
finatissime analisi che Derrida, in Ousia e Grammé (Ma 31-78
[59-104]), dedica alla trattazione heideggeriana della tempora-
lità, incrociandole con la decostruzione del “presente vivente”
husserliano in La voce e il fenomeno. Almeno un indice: in La
voce e il fenomeno, al momento di mostrare la struttura essen-
zialmente metafisica della descrizione husserliana del “presente
vivente”, Derrida ricorre alla locuzione “auto-affezione pura”,
precisando che la preleva da Heidegger, il quale, in Kant e il pro-
blema della metafisica, la usa in un contesto che Derrida ritiene
analogo: proprio la determinazione kantiana del senso interno
quale auto-intuizione temporale pura (VPh 68 [96]; 93 [121]; Ma
34 [61]; 41 [68]; 48-54 [76-82]).
Il pensiero non si sottrae alla metafisica della presenza fin-
ché pensa la costituzione del sé (che sia l’io penso, il senso inter-
no, la coscienza intenzionale, il Dasein) nell’elemento di un’au-
to-affezione puramente temporale, e cioè senza differenza, senza
riferimento all’altro in generale e quindi alla spazialità in gene-
rale quale condizione irriducibile di questo riferimento. Piuttosto
la si conferma esplicitandone un motivo tradizionale, nella sua

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declinazione propriamente moderna: la metafisica del soggetto


come presenza a sé. Per questo è necessario pensare l’irriducibi-
le relazione differenziale tra spazio e tempo quale condizione di
possibilità dell’esperienza (➞DIFFERAENZA).
È questo dunque il luogo in cui la posizione di Derrida
diverge, dislocandola, dalla posizione heideggeriana. È secondo
la traiettoria aperta da questa divergenza che bisogna interpreta-
re i numerosi distinguo rispetto ad Heidegger, che Derrida dis-
semina lungo la sua opera: a proposito della prossimità del
Dasein al senso dell’essere, della gettatezza, della temporalità
autentica come cura, delle distinzioni autentico/inautentico, ori-
ginario/derivato implicate in Essere e Tempo e in Kant e il pro-
blema della metafisica; così come a proposito di un certo privi-
legio della voce, dell’abitare, della giustizia come “Fuge” e
“Versammlung” nel cosiddetto secondo Heidegger. Senza per
questo svalutare il peso del lascito heideggeriano nell’apertura
di orizzonte in cui si inscrive il cammino di Derrida.

In conclusione è necessario evidenziare che l’illusione del-


l’auto-affezione pura non si manifesta solo attraverso il privile-
gio auto-intuitivo della voce, che pure ne resta la marca princi-
pale all’interno della tradizione maggiore della cultura occiden-
tale. Fermo restando l’assioma per il quale non vi sono parole,
nomi, concetti di per se stessi metafisici, dato che è solo il loro
funzionamento all’interno di una costruzione concettuale che ne
permette l’inclusione all’ordine della metafisica della presenza
(Di 12 [50]), allora, attraverso il paradigma dell’auto-affezione è
possibile estendere la portata della metafisica ben al di là (o al di
qua) della delimitazione heideggeriana. In particolare, è possibi-
le sospettare della valorizzazione di tutta una serie di termini,
così come della loro relativa distribuzione gerarchica:
dentro/fuori; interiore/esteriore; proprio/improprio; puro/impu-
ro; autentico/inautentico; familiare/estraneo; autoctono/stranie-
ro; corpo proprio/protesi ed ancora, della valorizzazione dell’im-
mediatezza, della prossimità. Con una serie di effetti decostrutti-

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vi che si propagano a cascata intaccando irrimediabilmente la


tenuta dell’edificio classico della cultura occidentale: dalla filo-
sofia all’economia, alla letteratura, all’architettura; dalla retorica
alla linguistica, alla semiotica; dalla biologia alla psicoanalisi, al
diritto, alla politica... ma rivelando anche, sorprendentemente, il
debito con la metafisica contratto da quegli stessi autori che con
maggior forza hanno tentato di destituirne l’autorità indiscussa:
e così, non solo da Platone ad Hegel ma anche Marx, Nietzsche,
Freud, Benjamin, Husserl, Heidegger, Artaud, Bataille, Foucault,
Lacan, Lévinas... Vale a dire: molti degli autori dei quali Derrida
si considera erede e compagno di strada, autori con i quali
Derrida dialoga ininterrottamente lungo tutta la sua opera, attra-
verso i quali viene elaborando l’irriducibile posizione della deco-
struzione.
In particolare, secondo il paradigma dell’auto-affezione
pura è possibile inscrivere nella metafisica della presenza anche
il privilegio dell’esperienza tattile e auto-tattile sul quale Derrida
si sofferma in un’opera recente, il cui rilievo teorico più genera-
le non sembra essere stato ancora riconosciuto: Le toucher. Jean-
Luc Nancy. Derrida ravvisa un certo privilegio dell’esperienza
tattile e auto-tattile nella più recente tradizione fenomenologica
francese. In autori come Lévinas, Merleau-Ponty, Franck,
Chrétien, il tatto sembra offrire la possibilità di sottrarre la feno-
menologia alle maglie della metafisica. Per Derrida si tratta di
un’illusione, e precisamente, ancora e sempre, dell’illusione di
un’auto-affezione pura: “Non si tratta di negare la possibilità di
un’esperienza tattile del toccante-toccato. Ma prendendo atto di
ciò che implica il suo esempio manuale o digitale (quale miglio-
re esempio, quale esempio paradigmatico o ‘filo conduttore’ del-
l’analisi), ci chiediamo se vi sia una pura auto-affezione del toc-
cante o del toccato, dunque una pura esperienza immediata del
corpo puramente proprio, del corpo proprio vivente, puramente
vivente. O se, al contrario, questa esperienza non sia già assilla-
ta [hantée], almeno, ma costitutivamente assillata, da qualche
etero-affezione legata alla spaziatura, poi alla spazialità visibile:

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per la quale l’intruso, l’ospite, un ospite desiderato o indesidera-


bile, un altro in soccorso o un parassita da rigettare, un phar-
makon che, disponendo già del suo alloggio sul posto, abita spet-
tralmente qualsiasi foro interiore” (LT 205 [229-230]).
Per Derrida, il privilegio dell’auto-affezione tattile, lungo
una tradizione che affonda le sue radici ancora in Platone e
Aristotele, configura solo una variante della metafisica della pre-
senza, che Derrida definisce aptocentrica. Questa non implica
un ripensamento della sua prima definizione della metafisica
quale fonologocentrismo. La tradizione aptocentrica non è alter-
nativa a quella del fonologocentrismo, ne svela piuttosto il fondo
comune – l’intuizionismo – così come il movente più profondo:
il desiderio di una presenza auto-affettiva pura, senza differenza:
“Giacché ciò intorno a cui, senza combattere, dibattiamo qui,
cos’altro è se non l’intuizionismo? Non tale o talaltro intuizioni-
smo che, in un campo problematico determinato, si opporrebbe
a qualche posizione avversa, al formalismo, al concettualismo,
ecc. No, tentiamo piuttosto di identificare un intuizionismo
costitutivo della filosofia stessa, del gesto che consiste nel filo-
sofare – ed anche del processo di idealizzazione che consiste nel
ritenere il tatto nello sguardo per assicurare a questo il pieno di
presenza immediata richiesto da qualsiasi ontologia o da qual-
siasi metafisica. [...]. Da Platone a Bergson, da Berkeley o de
Biran a Husserl e al di là, una stessa costrizione formale non
cessa di esercitarsi: c’è certo l’egemonia ben nota di un’eidetica,
come figura o aspetto, dunque come forma visibile esposta allo
sguardo incorporeo, ma questa supremazia non obbedisce essa
stessa all’occhio se non nella misura in cui un intuizionismo apti-
co la porta a compimento, la riempie, soddisfa il movimento
intenzionale di un desiderio, come desiderio di presenza.
Giacché il desiderio, certo, è da se stesso, naturalmente intuizio-
nista. Dal momento che è privato d’intuizione. Ed è la sua prima
contraddizione mortale, il segno precursore della sua fine: il suo
telos. Il telos è aptico-intuizionista” (LT 138-139 [155-156]).
D’altra parte questo fondo aptico era già chiaro in Della

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grammatologia: “Nella struttura generale dell’auto-affezione,


nel darsi una presenza o un godimento, l’operazione del toccan-
te-toccato accoglie l’altro nella sottile differenza che separa l’a-
gire dal patire. E il fuori, la superficie esposta del corpo, signifi-
ca, marca per sempre la divisione che travaglia l’auto-affezione”
(Gr 235 [227]).

Il pensiero dell’auto-affezione pura non è solo una vana


illusione, un errore della teoria, ma un’illusione pericolosa che,
assecondando il desiderio di una presenza pura e incondizionata,
senza differenza, si illude di potersi fondare sulla rimozione delle
proprie condizioni di possibilità, sulla rimozione delle condizio-
ni di possibilità dell’esperienza e cioè della vita stessa. Pensiero
pericoloso perché per affermare la pienezza della vita contro la
morte – la differenza – rimuove la differenza quale condizione
della vita (SM 276-279 [218-220]). “La storia della metafisica è
il volersi-intendere-parlare assoluto. Questa storia è chiusa
quando questo assoluto infinito si appare come la sua propria
morte. Una voce senza differenza, una voce senza scrittura è in
una volta assolutamente viva e assolutamente morta” (VPh 115
[143]).
In definitiva, all’origine della metafisica il desiderio di una
presenza piena, pura, assoluta che, per escludere la differenza,
scambia la vita per la morte. Per comprendere l’origine, la neces-
sità e la forza di questo desiderio ed allo stesso tempo opporgli
altre forze (Vo 57 [59]), è necessario pensare insieme LA VITA E
LA MORTE nella DIFFERAENZA che distinguendole le rinvia l’una
all’altra.

FUOCHI SEMANTICI: alterità, aptocentrismo, fonologocentrismo,


giustizia, intendersi-parlare, ipseità, iterabilità, legame, metafi-
sica, scrittura, sovranità, spaziatura, spettralità.
F.V.

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AUTOIMMUNITÀ
[AUTO-IMMUNITÉ]

La nozione biologica di autoimmunità compare tardi nel-


l’opera derridiana. Prima del 1993, e della pubblicazione di
Spettri di Marx, non c’è traccia nei testi editi da Derrida di que-
sta nozione che indica una patologia in cui si ha, in un organi-
smo, produzione di anticorpi specifici contro i costituenti del-
l’organismo stesso, e a cui Derrida farà riferimento nei termini
di una “logica generale”, di uno “schema” la cui portata è senza
limiti (Vo 175 [179]). Ciò però non significa che la nozione di
autoimmunità rappresenti un corpo estraneo che, ad un certo
punto, sarebbe stato innestato nel discorso della decostruzione:
l’autoimmunità è piuttosto una riformulazione, in termini
immunologici, di una logica già esaminata da Derrida. L’analisi
della “logica” del pharmakon come rimedio e al contempo vele-
no e, ancor più chiaramente, l’analisi del rapporto tra pulsione
di morte e pulsioni conservatrici in Al di là del principio di pia-
cere di Freud anticipano il discorso sulla logica generale del-
l’autoimmunità, benché non la esauriscano. E questo perché il
discorso sul vivente, sulla vita del vivente, sul bios e sul biopo-
litico (“biopolitica” è un termine che compare in Speculare – su
“Freud” in riferimento alle “cellule bio-politiche”, CP 388
[125]) è presente da sempre nel discorso della DECOSTRUZIONE.
Solo una lettura superficiale e banalizzante della nozione di
scrittura può evitare di riconoscere questa evidenza. In
Speculare – su “Freud” che, vale la pena ricordarlo, è l’estratto
di un seminario del 1975 dal titolo La vita la morte (➞LA VITA

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LA MORTE) Derrida scrive a proposito delle pulsioni conservatri-


ci: “Sono i guardiani della vita ma per ciò stesso le sentinelle o
i satelliti della morte. Le sentinelle della vita (Lebenswachter)
vegliano sulla vita, la sorvegliano, guardano e hanno riguardo,
montano la guardia presso di essa. Assistono. Ma queste stesse
pulsioni sono ‘originariamente’ ‘guardie’ o ‘satelliti’
(Trabanten) della morte. E lo sono originariamente, come dire
ch’esse lo sono state […] Satelliti di la vita la morte […] Ciò
che conserva la vita resta nella sfera di ciò che riserba la morte”
(CP 383 [119-120]). Ecco una logica che ritroveremo all’opera
nell’autoimmunità: ciò che protegge, difende, ripara, salva dalla
morte, al contempo minaccia di morte ciò che protegge. Non ci
si difende se non esponendosi al rischio di una ritorsione contro
di sé da parte di ciò che era destinato a salvare il sé.
È quanto Derrida dice in Spettri di Marx introducendo, per
la prima volta, la nozione di autoimmunità. È nel contesto di un
saggio in cui Derrida, confrontandosi per la prima volta con
Marx, si interroga sul rapporto tra vita e morte, sulla spettralità,
sul lavoro del lutto, nel loro rapporto al politico, che viene intro-
dotto il concetto di autoimmunità destinato a non abbandonare
più, fino agli ultimi testi editi, la scena di una DECOSTRUZIONE
che si mostrerà sempre più attenta alla questione del vivente e
della vita, fino a farne il centro del proprio discorso. Ecco un
primo punto che vale la pena sottolineare: l’ingresso sulla scena
della DECOSTRUZIONE della nozione biologica di autoimmunità si
inscrive nel contesto di una più marcata attenzione, da parte di
Derrida, verso tematiche politiche che, in termini più precisi,
dovrebbe essere letta come attenzione verso la questione del
vivente, della vita del vivente, visto che, precisa Derrida in Stati
canaglia, “il vecchio nome di vita resta forse l’enigma del poli-
tico attorno a cui giriamo senza sosta” (Vo 22 [23]). Lo stesso
concetto di DEMOCRAZIA che ispira la DECOSTRUZIONE del politi-
co e in cui è all’opera la logica autoimmunitaria è essenzial-
mente legato alla questione della vita del vivente: “È verso l’in-
calcolabile di un altro pensiero della vita, del vivente della vita

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che vorrei arrischiarmi qui con il vecchio nome, ancora nuovis-


simo e forse impensato di ‘democrazia’” (Vo 24 [24]).
In Spettri di Marx Derrida non spiega il perché di questa
scelta terminologica; e neppure definisce il concetto di autoim-
munità. E tuttavia, per la prima volta articola il rapporto tra DIF-
FERAENZA e vita in termini di autoimmunità. Parlando di Marx e
Stirner scrive: “Entrambi amano la vita, il che va bene ma non
va mai da sé per degli esseri finiti: sanno che la vita non va
senza la morte, e che la morte non è al di là, fuori della vita, a
meno che non si inscriva l’al di là all’interno, nell’essenza del
vivente. Essi condividono entrambi, manifestamente come voi e
me, una preferenza incondizionata per il corpo vivente. Ma pro-
prio per questo conducono una guerra senza fine contro tutto
quel che lo rappresenta, che non è corpo vivente, ma che gli
spetta (revient): la protesi e la delega, la ripetizione, la diffe-
raenza. Essi non vogliono sapere che l’io vivente è auto-immu-
ne. Per difendere la sua vita, per costituirsi in io vivente unico,
per rapportarsi, come il medesimo, a se stesso, l’io-vivente è
necessariamente portato ad accogliere l’altro all’interno (la dif-
feraenza del dispositivo tecnico, l’iterabilità, la non-unicità, la
protesi, l’immagine di sintesi, il simulacro – e ciò comincia con
il linguaggio, prima di lui –, altrettante figure della morte); deve
dunque dirigere allo stesso tempo a suo favore e contro di sé le
difese immunitarie apparentemente destinate al non-io, al nemi-
co, all’opposto, all’avversario” (SM 224 [178]). Che cosa signi-
fica che l’io-vivente è autoimmune? Significa che l’io, dovendo
già accogliere l’altro in sé per costituirsi come tale, dovendo in
altri termini portare il non-io in sé per costituirsi come io-viven-
te, dovrà rivolgere le difese immunitarie destinate a difenderlo
dal non-io al contempo a suo favore e contro di sé. Perché l’al-
tro – il nemico, il non-io, l’avversario – è inscritto al cuore del-
l’io. Ogni procedimento immunitario volto a proteggere l’io dal
non-io, il sé dall’altro, sarà già sempre un procedimento rivolto
contro il sé e l’io che albergano l’altro, dunque un procedimen-
to autoimmunitario.

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Ora per comprendere in che modo il concetto di autoim-


munità opera nel corpus derridiano occorre rivolgersi a un altro
testo, Fede e Sapere, in cui Derrida analizza la questione della
religione nel suo rapporto al sacro, al santo, al salvo e all’im-
mune. È qui che la questione dell’autoimmunità viene affronta-
ta in modo approfondito e articolato. Data la complessità e la
densità del testo, proviamo a seguire passo passo l’argomenta-
zione derridiana. Da prima Derrida annuncia, in nota, che pre-
sto si tratterà di parlare di autoimmunità. E lo fa a partire da
un’analisi di quello che definisce l’oggetto stesso della religio-
ne: l’indenne, l’indennità della vita. Leggiamo la nota:
“Indemnis: che non ha subito danno o pregiudizio, damnum;
quest’ultima parola avrebbe generato ‘danno’ (per esempio ‘con
grave danno’) e proviene da dap-no-m, affiliato a daps, dapis,
cioè il sacrificio offerto agli dei in compensazione rituale. Si
potrebbe parlare in quest’ultimo caso di indennizzo, e qua e là ci
serviremo di questa parola per designare al contempo il proces-
so di compensazione e la restituzione, talvolta sacrificale, che
ricostituisce la purezza intatta, l’integrità sana e salva, una pro-
prietà e una proprietà non lesa. È ciò che dice insomma la paro-
la ‘indenne’: il puro, il non contaminato, l’intoccato o il santo
prima di ogni profanazione, ogni ferita, ogni offesa, ogni lesio-
ne. Spesso è stato scelto per tradurre heilig (sacro, santo e salvo,
intatto) in Heidegger. Dal momento che la parola heilig sarà al
centro di queste riflessioni, dovevamo chiarire fin d’ora l’uso
che faremo di ‘indenne’, ‘indennità’, ‘indennizzo’. Più avanti vi
associeremo, e con regolarità, le parole ‘immune’, ‘immunità’,
‘immunizzazione’, e soprattutto ‘autoimmunità’” (FS 38 n.12
[25-26 n. 12]). Si faccia attenzione a questo passaggio: Derrida
comincia a tradurre l’indennità, e ciò che ad essa si associa, nel
lessico dell’immunità. Perché? Perché il lessico dell’immunità
possiede una risorsa in più rispetto a quello dell’indennità: pos-
siede il termine “autoimmunità” che presto sarà necessario a
Derrida per descrivere la logica stessa dell’indennizzazione o
meglio la “pulsione dell’indenne”. Parlando delle due fonti della

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religione, Derrida individua infatti una di esse nella “pulsione


dell’indenne, di ciò che resta allergico alla contaminazione,
salvo da se stesso, auto-immunemente” (FS 42 [29]). Nel pro-
cesso di indennizzazione, nella pulsione di indennizzazione
come pulsione che mira a ricostituire una purezza sana e salva
si inserisce, al limite, qualcosa che ha i tratti di un doppio per-
turbante che minaccia di dare la morte: una sorta di veleno al
cuore del rimedio, per riprendere la a-logica del pharmakon.
Derrida qui non dice e non spiega ancora nulla circa la portata
di questa autoimmunità la cui ombra si allunga sulla pulsione di
indennizzazione. Ma, se si tiene conto del fatto che “indenniz-
zazione” si può già tradurre con “immunizzazione”, è possibile
cogliere come il processo di indennizzazione-immunizzazione
sia assillato e minacciato da un altro movimento che rischia di
distruggere proprio ciò che si tratta di salvare: il sé, il sé del se
stesso. O, per usare il lessico, dell’immunologia: il Self. Alla
pulsione dell’indenne accade qualcosa di simile a quanto acca-
de alle pulsioni conservatrici – queste guardie della vita che
riservano la morte di cui Derrida parlava commentando il testo
di Freud Al di là del principio di piacere. È quanto Derrida defi-
nisce “terrificante ma fatale logica dell’autoimmunità dell’in-
denne” (FS 67 [48]).

Ma in che cosa consiste questa logica illogica o a-logica?


Come opera? Partiamo dalla definizione biologica di autoim-
munità. Con “autoimmunità” si intende, usualmente, una rea-
zione immunitaria contro i costituenti del proprio organismo,
che consiste nella produzione di auto-anticorpi contro auto-anti-
geni dovuta alla perdita della capacità, da parte dell’organismo,
di riconoscere i propri componenti. Derrida, che accorda allo
schema autoimmunitario una portata che eccede i limiti di un
processo biologico specifico, fornisce nei suoi testi due defini-
zioni di autoimmunità, propendendo però per un’interpretazio-
ne dell’autoimmunità che si discosta dalla definizione medico-
scientifica del termine. Non si tratta né di negare né di mini-

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mizzare questo fatto. E nemmeno di riconoscerlo per dedurre,


banalmente, che Derrida si sarebbe sbagliato o avrebbe fatto un
uso improprio di un concetto scientifico. Si tratta piuttosto di
capire come funziona lo schema autoimmunitario senza limiti
nel testo di Derrida.
Cominciamo con l’analizzare perché Derrida introduce il
concetto di autoimmunità nella sua opera. “Perché parlare così
di autoimmunità? Perché determinare in modo così ambiguo la
minaccia, il pericolo, la scadenza, lo scacco, l’incagliamento
accidentale e l’incagliamento intenzionale, ma anche la salvez-
za, il salvataggio, la salute o la sicurezza, come tante assicura-
zioni diabolicamente autoimmunitarie, virtualmente capaci non
solo di auto-distruggersi in modo suicida, ma di rivolgere così
una certa pulsione di morte contro l’autos stesso, contro l’i-
pseità che un suicidio degno di questo nome ancora presuppor-
rebbe? È per poter collocare al centro del mio discorso la que-
stione della vita e del vivente, della vita e della morte, la vita la
morte” (Vo 173 [177-178]). Derrida afferma che l’autoimmunità
permette di collocare al centro del discorso della DECOSTRUZIO-
NE, e più precisamente della DECOSTRUZIONE del politico, la
nozione di vita, della vita del vivente. E al contempo fornisce
una definizione di autoimmunità che, da un lato, è in accordo
con la definizione medica, dall’altro evoca la nozione psicoana-
litica di pulsione di morte. L’autoimmunità come processo attra-
verso cui un vivente si auto-distrugge distruggendo il proprio sé,
l’autos, viene così letto da Derrida come un processo in cui il
vivente si autodistrugge rivolgendo contro di sé la pulsione di
morte. Derrida non cita mai direttamente Freud parlando di
autoimmunità, ma questa interpretazione dell’autoimmunità
come pulsione di morte che il vivente rivolge contro di sé per
auto-distruggersi richiama chiaramente qualcosa che Freud
aveva già teorizzato nei termini di tendenza o pulsione di auto-
distruzione quale espressione di una pulsione di morte che non
può mancare in nessun processo vitale. Ora, se nel caso sopra
evocato Derrida parla dell’autoimmunità come processo di

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auto-distruzione del sé, in altri contesti a questa definizione se


ne affianca o se ne sostituisce un’altra: quella dell’autoimmu-
nità come logica illogica che spinge un vivente a proteggersi
contro le proprie protezioni, a distruggere ciò che lo protegge, a
distruggere, in altri termini, le proprie difese immunitarie. Que-
sta seconda definizione si allontana dalla definizione biologica
di autoimmunità. Nel corso del dialogo con Giovanna Borrado-
ri sull’11 settembre, Derrida, dopo aver precisato che la logica
autoimmunitaria si estende senza limite, definisce così l’au-
toimmunità: “Un processo auto-immunitario è, lo si sa, quello
strano comportamento del vivente per il quale, in maniera quasi
suicida, esso si impegna a distruggere ‘se stesso’, le proprie pro-
tezioni, ad immunizzarsi contro la ‘propria’ immunità” (Au 145
[102]). In questo passo, accanto alla definizione dell’autoim-
munità come auto-distruzione, troviamo quella dell’autoimmu-
nità come processo in cui un organismo distrugge le proprie pro-
tezioni, come immunizzazione dall’immunità. Torniamo ora a
Fede e Sapere e vediamo la prima definizione che Derrida for-
nisce di autoimmunità: “È soprattutto nel campo della biologia
che il lessico dell’immunità ha sviluppato la sua autorità. La
reazione immunitaria protegge l’indennità del corpo proprio
producendo degli anticorpi contro gli antigeni estranei. Quanto
al processo di autoimmunizzazione che qui ci interessa in parti-
colare, come è noto esso consiste, per un organismo vivente, nel
proteggersi dalla propria auto-protezione distruggendo le pro-
prie difese immunitarie. Dal momento che il fenomeno di que-
sti auto-anticorpi si estende a una zona molto più larga della
patologia e visto che si ricorre sempre più spesso a virtù positi-
ve di immunodepressori destinati a limitare i meccanismi di
rigetto e a facilitare la tolleranza di certi trapianti d’organo, ci
avvarremo di questo allargamento e parleremo di una sorta di
logica generale dell’auto-immunizzazione” (FS 67-68 n. 23 [48
n. 23]). Qui Derrida intende chiaramente l’autoimmunità come
protezione di un organismo dalla propria protezione immunita-
ria. Cosa però che gli permette di mettere in rapporto la dimen-

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sione patologica dell’autoimmunità con alcune virtù associate


agli immunodepressori. L’autoimmunità dunque sarebbe l’im-
munizzazione dalla propria immunità, la difesa dalle proprie
difese come distruzione delle proprie difese. È in questo senso,
ad esempio, che Derrida legge il rapporto tra religione e tele-
tecnoscienza. Da un lato la religione si allea alla tele-tecno-
scienza, dall’altro “sostiene una guerra terribile contro ciò che
la protegge minacciandola, secondo quella doppia struttura con-
traddittoria: immunitaria e autoimmunitaria” (FS 71 [51]).
Ritroviamo questa lettura dell’autoimmunità anche in Stati
canaglia quando Derrida parla dell’autoimmunità come di una
“logica illogica attraverso cui un vivente può spontaneamente
distruggere, in modo autonomo, ciò stesso che, in lui, è destina-
to a proteggerlo contro l’altro, a immunizzarlo contro l’intrusio-
ne aggressiva dell’altro” (Vo 173 [177]).

Ci si potrebbe limitare a prendere atto del fatto che la nozio-


ne di autoimmunità lavora nel testo derridiano come una genera-
lizzazione e una riarticolazione del concetto biologico di autoim-
munità. Ma ci sono indizi testuali importati che ci possono aiu-
tare a comprendere perché la riarticolazione del concetto di
autoimmunità da parte di Derrida abbia prodotto un’idea di
autoimmunità come processo di immunizzazione dalle proprie
difese, immunizzazione dall’immunizzazione stessa. Le tracce
più evidenti sono in Fede e Sapere. Come abbiamo visto, Derrida
mette in relazione autoimmunità e immunodepressori. Il che
significa che la riarticolazione del concetto di autoimmunità
avvicina questa nozione all’immunodeficienza che indica una
patologia caratterizzata da deficit immunologico. Ora se c’è una
malattia che più volte viene evocata nei testi di Derrida questa è
proprio la sindrome da immunodeficienza acquisita, vale a dire
l’HIV (Ci 89, 186; FL 92 [105]; Ré 68; Ap 109 [53]). Che cosa
accade dunque? Derrida non spiega nulla su questo punto. Ma
una cosa è certa: vi sono sindromi da immunodeficienza che pos-
sono presentare caratteri assimilabili a patologie autoimmuni, tra

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di esse anche l’AIDS. E che Derrida abbia in mente il virus del-


l’HIV quando riarticola l’autoimmunità potrebbe essere testimo-
niato da una differenza testuale sintomatica tra l’edizione france-
se di Fede e Sapere e quella italiana che, ricordiamolo, è stata
pubblicata un anno prima di quella francese. In una nota del sag-
gio Derrida, parlando della difesa che, nell’enciclica Evangelium
vitae, viene fatta dell’amore coniugale come luogo proprio della
riproduzione della vita, scrive (edizione francese, 1996): “seule
immunité supposée, avec le célibat des prêtres, contre le virus de
l’immuno-déficience humaine (VIH)” (FS 40 n. 13). Il passo è
chiarissimo: Derrida nomina il virus dell’immunodeficienza
acquisita: l’HIV. Stesso passo, traduzione italiana (edizione ita-
liana, 1995): “sola immunità con il celibato dei preti, contro quel-
la malattia autoimmune” (FS 27 n. 13). Nel passaggio dalla tra-
duzione italiana (1995) all’edizione originale francese (1996)
“quella malattia autoimmune” diventa “le virus de l’immuno-
déficience humaine (VIH)”. Difficile pensare che sia un caso o
una svista del traduttore. Piuttosto si dovrebbe parlare di una
variante testuale che dice precisamente ciò che emerge già da
una attenta lettura dei testi, e cioè che la logica dell’autoimmu-
nità generale elaborata da Derrida incorpora, via HIV, una logica
dell’immunodeficienza. O meglio: quando Derrida parla di
autoimmunità ha in mente una certa interpretazione dell’AIDS
(sostenuta dall’immunologo Jean Claude Ameisen) come malat-
tia in cui il sistema immunitario attacca se stesso, si autoimmu-
nizza immunizzandosi dalla propria immunità.
Nello spazio del politico, la DEMOCRAZIA in quanto figura
che manca di ipseità, è la figura che in modo privilegiato incar-
na l’auto-co-immunità, l’immunità che ossessiona ogni comu-
nità. “Il pensiero del politico è sempre stato un pensiero della
differaenza e il pensiero della differaenza un pensiero del poli-
tico, del contorno e dei limiti del politico, in particolare intorno
all’enigma o al double bind autoimmunitario del democratico”
(Vo 64 [66]). Questo double bind può declinarsi in differenti
modi, ma al fondo dice la pulsione di morte rivolta contro lo

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DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 49

stesso, contro l’essere sé di un sé che assilla il cuore di ogni


comunità rendendola auto-co-immunità: “Questa pulsione di
morte […] tormenta in silenzio ogni comunità, ogni auto-co-
immunità, e in verità la costituisce come tale, nella sua iterabi-
lità, nella sua eredità, nella sua tradizione spettrale. Comunità
come co-mune auto-immune: nessuna comunità che non intrat-
tenga la propria autoimmunità, un principio di autodistruzione
sacrificale che danneggia il principio di protezione di sé (del
mantenimento dell’integrità intatta di sé) e ciò in vista di una
qualche sopravvivenza invisibile e spettrale. Questa attestazione
auto-conservatrice tiene in vita la comunità auto-immune, la
mantiene cioè aperta a qualcosa d’altro e di più di se stessa: l’al-
tro, l’a venire, la morte, la libertà, la venuta o l’amore dell’altro,
lo spazio tempo di una messianicità spettralizzante di là da ogni
messianismo” (FS 79 [57]). Questa autoimmunità inscritta al
cuore della comunità di cui la DEMOCRAZIA è la figura privile-
giata è ciò che permette di esporre lo spazio del politico all’e-
vento dell’altro, ciò che permette vale a dire di inscrivere l’in-
condizionalità come esposizione disarmata all’evento al cuore
del potere sovrano che alberga nel democratico. In Politiche del-
l’amicizia Derrida descrive l’incondizionale come ciò che “sin
dall’inizio avrà inscritto una forza auto-decostruttrice nel moti-
vo stesso della democrazia, la possibilità e il dovere per la
democrazia di de-limitarsi da se stessa” (PA 129 [132]).
L’incondizionale si lega dunque all’auto-decostruttibilità auto-
immunitaria inscritta al cuore della DEMOCRAZIA che la espone
senza condizione, senza protezioni e difese immunitarie, all’e-
vento dell’altro.

FUOCHI SEMANTICI: auto-decostruzione, evento, comunità, biolo-


gia, biopolitica, indenne, ipseità, pharmakon, pulsione, tele-tec-
nologie.
S.R.

49
DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 50

CHŌRA
[KHŌRA]

Parlare di chōra (termine che, in greco antico, significa


“spazio”, “terra”, “contrada”, “regione”) significa parlare di un
certo privilegio accordato da Derrida a questo nome greco
incriptato al cuore della cosmogonia platonica del Timeo e, dun-
que, al cuore dell’architettura filosofica del pensiero di Platone
in cui chōra nomina lo spazio che permette l’articolazione del
paradigma e dell’imitazione del paradigma, del sensibile e del-
l’intelligibile. Rispetto al primo e al secondo genere, all’intelli-
gibile e al sensibile che Platone chiama anche il padre e il figlio,
chōra è il terzo genere come madre che genera il figlio riceven-
do l’impronta dal padre. Ma questo terzo genere in cui si pro-
duce la genesi del cosmo, non essendo né sensibile né intellegi-
bile, non è. Niente di essente – e tuttavia non mero niente, nulla
o vuoto – chōra c’è come spazio, matrice, porta impronte, ricet-
tacolo, in cui la copia dell’eidos si situa producendosi, così,
nella differenza dall’eidos che è. Per questo Platone parla di
“terzo genere oscuro e difficile”, di “specie invisibile e amorfa
difficilissima da comprendere” al cui cospetto il logos è impo-
tente ma che, al contempo, il logos non può semplicemente
ignorare o espellere. Tutto accade come se al cuore della filoso-
fia platonica – là dove occorre articolare, nel modo più rigoro-
so possibile, la spinosa questione del rapporto e della separa-
zione (chorismos) tra sensibile e intelligibile – si aprisse una
voragine, un abisso (in greco chasma) che rischia di decostruire
l’edifico della filosofia platonica e, più in generale, della meta-

50
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fisica. “Il discorso su chōra non avrà aperto, tra il sensibile e


l’intelligibile, non appartenendo né all’uno né all’altro, dunque
né al cosmo come dio sensibile né al dio intelligibile, uno spa-
zio apparentemente vuoto – benché non sia senza dubbio il
vuoto? Non ha nominato un’apertura spalancata, un abisso o
chasma? Non è dopo questo chasma, ‘in’ lui, che questa scis-
sione tra il sensibile e l’intelligibile, cioè tra il corpo e l’anima,
può avere luogo o prendere posto?” (Kh 44-45 [60]). È qui che
si focalizza l’attenzione di Derrida: nel luogo abissale della
DECOSTRUZIONE all’opera già nel testo platonico, o meglio, tra il
testo platonico e il suo fuori, prima di qualsiasi intervento dal di
fuori che radicalizzi un processo già da sempre all’opera.
Ora, se nell’ambito del lavoro della DECOSTRUZIONE l’uso
strategico, e temporaneo, dei vecchi nomi della tradizione meta-
fisica (paleonimie) per destrutturare quella stessa tradizione a
partire da ciò che la eccede è operazione usuale e indispensabi-
le, con chōra ci troviamo di fronte a un nome che, non per ric-
chezza semantica (chōra non ha senso né referente, per
Derrida), ma per posizione, occupa un posto privilegiato nel-
l’ambito della DECOSTRUZIONE, al punto che Derrida arriverà a
dedicare a chōra un intero testo che porta semplicemente, come
titolo, il suo nome: il nome dell’altro, o meglio, del “tutt’altro
senza volto” (➞TUTT’ALTRO) che irrompe al cuore della filoso-
fia: “Chōra ci arriva, e come il nome. E quando un nome arriva,
dice subito più del nome, l’altro del nome e l’altro tout court, di
cui annuncia precisamente l’irruzione” (Kh 15 [45]). Il privile-
gio di chōra non è tuttavia un unicum nella strategia decostrut-
tiva: spostandoci dal piano ontologico a quello politico (e tenen-
do ben presente che tra i due c’è, per Derrida, non solo analogia
strutturale, ma interdipendenza), Derrida accorda alla DEMO-
CRAZIA, al nome di “democrazia”, un privilegio analogo. E non
a caso: Derrida parla infatti della DEMOCRAZIA come della chōra
del politico. In questo senso il lavoro di Derrida con il quasi-
concetto oscuro e difficile di chōra che fa segno verso una forza
di esposizione senza potere è già politico, perché lavora per un

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DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 52

altro spazio iper-politico illocalizzabile secondo le coordinate


dell’ontotopolitologia classica.

Chōra fa la sua prima comparsa molto presto nel corpus


derridiano ne La farmacia di Platone (1968), per poi non abban-
donare più il percorso della DECOSTRUZIONE fino all’ultimo testo
edito da Derrida in vita, Stati canaglia. Fin dalla sua prima
apparizione, è chiara la portata di questo nome che Derrida scri-
ve quasi sempre senza articolo – cosa che non accade con altre
paleonimie o quasi-concetti come pharmakon, ARCHI-SCRITTU-
RA, DIFFERAENZA, ecc. –, come se chōra fosse una sorta di nome
proprio: “Ecco il passaggio al di là di tutte le opposizioni del
‘platonismo’, verso l’aporia dell’iscrizione originaria” (Di 186
[186]). Chōra eccede le opposizioni di sensibile/intelligibile,
vero/falso, fuori/dentro, presente/assente, attivo/passivo,
mito/logos: in questo senso è aporetica (né sensibile né intelli-
gibile, ecc.). Il che non significa che chōra sia coincidentia
oppositorum: e sensibile e intelligibile. Come scrive Derrida,
radicalizzando ulteriormente la forza di sottrazione di chōra
rispetto a qualsiasi tipo di concettualizzazione, “essa oscilla tra
due generi di oscillazioni. La doppia esclusione (né/né) e la par-
tecipazione (e/e, al contempo questo e quello)” (Kh 19 [47]). E
ancora: “Sotto il nome di chōra, il luogo non apparterrebbe né
al sensibile né all’intelligibile, né al divenire né al non-essere (la
chōra non è mai descritta come un vuoto), né all’essere: la quan-
tità o la qualità dell’essere si misurano, secondo Platone, in rap-
porto alla sua intelligibilità. Tutte le aporie, che Platone non dis-
simula, significherebbero che c’è là qualche cosa che non è né
un essente né un niente ma che nessuna dialettica, nessuno sche-
ma partecipazionista, nessuna analogia permetterebbe di riarti-
colare con qualche filosofema, quale che sia: né ‘in’ Platone né
nella storia che il platonismo inaugura e comanda. Il né-né non
si lascia più convertire in e-e” (Ps 567 [206]).

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Il fatto stesso che Derrida parli di chōra piuttosto che di “la


chōra” sottolinea l’impossibilità di far riferimento, attraverso il
nome, a qualcosa: senso o referente. Se chōra è ciò che permet-
te l’articolazione di sensibile e intelligibile, eccedendola, essa
non è niente di essente, e il nome di chōra fa segno verso una X
indefinibile e impensabile: “Lo si sarà notato, diciamo ora chōra
e non, come ha sempre voluto la convenzione, la chōra, o anco-
ra, come avremmo potuto fare per precauzione, la parola, il con-
cetto il significato di chōra. Questo per diverse ragioni di cui la
maggior parte sono già evidenti. L’articolo definito presuppone
l’esistenza di una cosa, l’essente chōra a cui, attraverso un nome
comune, sarebbe facile riferirsi. Ora ciò che è detto di chōra, è
che questo nome non designa nessuno dei tipi di essente cono-
sciuti, riconosciuti o, se preferite, ricevuti dal discorso filosofi-
co, vale a dire dal logos ontologico che fa la legge nel Timeo:
chōra non è né sensibile né intelligibile” (Kh 29-30 [53]). Il che
però non significa che chōra sia, per Derrida, solo un nome, un
mero significante; benché non sia niente di essente chōra non si
riduce al suo nome: “Giammai pretenderemo proporre la parola
giusta per chōra, né chiamarla infine, essa stessa, al di là di tutti
i giri e le circonlocuzioni della retorica, né infine abbordarla,
essa stessa, per ciò che sarà stata, fuori da ogni punto di vista,
fuori da ogni prospettiva anacronica. Il suo nome non è un nome
giusto. È promesso all’incancellabile anche se ciò che nomina,
chōra, non si riduce soprattutto, al suo nome” (Kh 24-25 [51]).
Se infatti chōra non è niente di essente, c’è chōra tuttavia: e que-
sto “c’è” indica il modo di questa X che eccede i modi in cui
può dirsi l’essere, dunque i suoi significati e il significato in
generale. “C’è chōra; ci si può persino interrogare sulla sua phy-
sis e sulla sua dynamis, almeno interrogarsi provvisoriamente a
loro riguardo, ma ciò che c’è là non è” (Kh 30 [53]).

Non essendo pensabile né attraverso il logos né attraverso


il mythos, chōra non appartiene, a rigore, all’edificio della filo-
sofia platonica: chōra è il luogo atopico, illocalizzabile e inap-

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DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 54

propriabile, in cui si situa questa filosofia stessa (e per metoni-


mia la filosofia tout court) ponendosi così, all’origine, in sé già
fuori di sé, incorporando in sé, fin dall’origine, e al cuore del-
l’origine, un TUTT’ALTRO di cui non potrà mai riappropriarsi.
Chōra è lo spazio atopico della filosofia che la filosofia non rie-
sce a interiorizzare con il lavoro del logos: ed incorpora, così,
in-sé-fuori-di-sé, includendolo senza comprenderlo, senza
poterlo comprendere – spazio clandestino di una resistenza infi-
nita che resiste alla sovranità del logos.
La questione di chōra si pone come la questione di una X
che sfugge alla possibilità di nominazione come ad ogni possi-
bile determinazione ontologica. E tuttavia c’è un termine che
Derrida usa per parlare di questa X innominabile di chōra: ed è
“struttura”. Benché non sia nulla di essente, di chōra si può par-
lare in termini di struttura. O meglio: proprio perché non è nulla
di essente di chōra si può parlare in termini di struttura: “Si trat-
terebbe proprio di una struttura e non di qualche essenza della
chōra, non avendo la questione dell’essenza più senso a suo
riguardo” (Kh 25 [51]). La scelta terminologica di Derrida è pre-
cisa, e rimanda ad altri luoghi del corpus derridiano in cui la
questione della struttura o meglio della strutturalità della strut-
tura viene affrontata (ED 409 [359]). La struttura intesa come
strutturalità della struttura non è altro che una strutturalità
archioriginaria che rende possibile l’articolazione di ogni strut-
tura intesa come sistema di elementi differenziali in rapporto tra
di loro. In un testo del 1959, “Genesi e struttura” e la fenome-
nologia, Derrida parla di una apertura strutturale della struttura
o strutturalità della struttura come luogo illocalizzabile: “E
anche se si arriva a pensare che l’apertura della struttura è ‘strut-
turale’, cioè essenziale, si è già passati a un ordine eterogeneo al
primo: la differenza tra struttura minore – necessariamente chiu-
sa – e la strutturalità di un’apertura, forse è proprio questo il
luogo illocalizzabile in cui la filosofia mette le radici” (ED 230
[200]). Al di là del fatto che qui Derrida utilizzi ancora il termi-
ne “essenziale”, si può ben dire che chōra come struttura sia il

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DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 55

luogo illocalizzabile, atopico, che apre e destruttura il sistema


platonico.
Ma in che senso chōra è l’apertura strutturale del sistema
platonico? Nel senso che essendo ciò che permette all’eidos di
ripetersi/differenziarsi nel fenomeno, essa è la condizione di pos-
sibilità e al contempo di impossibilità dell’eidos – visto che l’ei-
dos come “ciò che è” è ciò che deve poter essere ripetuto/diffe-
renziato/imitato in quanto paradigma. Senza questa possibilità,
l’eidos non sarebbe ciò che è: dunque chōra quale istanza di ite-
rabilità/differenziabilità si inscrive al cuore dell’eidos disartico-
landone la presenza. “L’eidos è ciò che può essere sempre ripe-
tuto come il medesimo. L’idealità e l’indivisibilità dell’eidos è il
suo poter-essere-ripetuto” (Di 153 [153]). Ecco l’aporia dell’i-
scrizione originaria. Chōra come apertura strutturale, come strut-
turalità della struttura comunica inevitabilmente con la DIFFE-
RAENZA intesa appunto come “origine strutturata e differente
delle differenze” (Ma 12 [39]). Derrida mette in comunicazione
questi due quasi concetti fondamentali per la DECOSTRUZIONE
attraverso Eraclito e l’idea dell’Uno che differisce da sé: “‘L’uno
che differisce da sé’, l’hen diapheron heautoi di Eraclito, ecco
forse l’eredità greca cui sono più fedelmente docile e che tento
di ‘pensare’ nella sua affinità – sorprendente lo concedo, e di
primo acchito così improbabile – con una certa interpretazione
dell’ininterpretabile chōra” (NG 273). Incriptata al cuore dell’o-
rigine, chōra non è un’altra e più originaria origine, ma un
TUTT’ALTRO dall’origine incriptato dentro e fuori l’origine che
rende impossibile la costituzione di un’origine pura. In questo
senso criptico chōra è un’esteriorità che lavora all’interno della
metafisica onto-teologica senza appartenerle. “Dall’interiorità
aperta di un corpus, di un sistema, di una lingua o di una cultu-
ra, chōra situerebbe la spaziatura astratta, il luogo stesso, il luogo
dell’esteriorità assoluta” (FS 33 [21]) scrive Derrida in Fede e
Sapere, testo in cui il privilegio di chōra emerge in tutta la sua
portata. “Chōra, la ‘prova di chōra’, sarebbe, almeno secondo
l’interpretazione che ho ritenuto di poter tentare, il nome di un

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luogo, un nome di luogo, e molto singolare, per questa spaziatu-


ra che, non lasciandosi dominare da alcuna istanza teologica,
ontologica o antropologica, senza età, senza storia e più ‘antico’
di tutte le opposizioni (per esempio sensibile/intelligibile), non si
annuncia nemmeno come ‘al di là dell’essere’, secondo una via
negativa. All’improvviso chōra resta assolutamente impassibile
ed eterogenea rispetto a tutti i processi di rivelazione storica o di
esperienza antropoteologica, che però ne presuppongono l’astra-
zione. Non sarà mai entrata nella religione e non si lascerà mai
sacralizzare, santificare, umanizzare, teologizzare, coltivare, sto-
ricizzare. Radicalmente eterogenea al sano e al salvo, al santo e
al sacro, non si lascia mai indennizzare. E non si può nemmeno
dire al presente, perché chōra non si presenta mai come tale. Non
è né l’Essere, né il Bene, né Dio, né l’Uomo, né la Storia. Gli
resisterà sempre, sarà sempre stata (e nemmeno un futuro ante-
riore potrà riappropriare far flettere o riflettere una chōra senza
fede né legge) il luogo stesso di una resistenza infinita, di una
restanza infinitamente impassibile: un tutt’altro senza volto” (FS
34-35 [22-23]).

Chōra, per usare un altro quasi-concetto che Derrida mutua


dagli psicoanalisti Abraham e Torok, è una cripta intesa come un
fuori all’interno e all’esterno del dentro dell’edificio filosofico:
non semplicemente una specie di inconscio filosofico, ma qual-
cosa di radicalmente altro (➞LUTTO). Che cos’è una cripta? È
Derrida a porre la questione in apertura dell’introduzione a Il
verbario dell’uomo dei lupi di Abraham e Torok. Risposta: “Un
luogo compreso in un altro ma rigorosamente separato da lui,
isolato dallo spazio generale […] un fuori escluso all’interno del
dentro” (Fo 12-13 [51]). Chōra come cripta, dunque, e più radi-
calmente ancora (le due cose non si escludono) come un fanta-
sma exocriptico o eterocritpico che ritorna a partire dall’incon-
scio dell’altro. Se c’è una revenance, una ritornanza di chōra al
cuore della filosofia, essa non è semplicemente il ritorno di un
rimosso della filosofia, ma il ritorno di un fantasma che viene

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da uno spazio radicalmente altro, TUTT’ALTRO spazio come crip-


ta dell’altro. Derrida non esplicita mai il rapporto tra cripta, exo-
criptica e chōra (benché un rapporto tra chōra e cripta emerga
proprio dalle ultime pagine di Fede e Sapere), ma per pensare
fino in fondo il privilegio della posizione di chōra come
TUTT’ALTRO senza volto che eccede non solo la tradizione meta-
fisica, ma anche l’orizzonte giudaico-cristiano, occorre spinger-
si al limite dell’eterocriptica, e a partire da qui leggere la que-
stione del modello egiziano all’opera nel Timeo. Analizzando la
messa in scena del Timeo, Derrida vede in essa alcuni motivi
che anticipano, per una sorta di analogia, la sequenza di chōra
come porta-impronte. Fra questi vi è quello che, citando Marx,
Derrida chiama “modello egiziano”. Platone presenta l’Egitto
come il luogo-archivio in cui si conserva per iscritto la memoria
dei tempi più antichi; Derrida commenta: “Come il mito della
sua origine, la memoria di una città si vede confidata non solo a
una scrittura ma alla scrittura dell’altro, al segretariato di un’al-
tra città […] La memoria vivente deve esiliarsi nelle vestigia
grafiche di un altro luogo, che è anche un’altra città e un altro
spazio politico” (Kh 70 [71-72]).
Quest’altro luogo come luogo del TUTT’ALTRO gioca un
ruolo importante nell’ultima fase del pensiero derridiano poiché
diventa il nome di una apertura radicale, disarmata e senza pote-
re, ma non senza forza, che permette, senza con ciò renderlo e
ridurlo a un possibile, di dare luogo all’evento. “Essa [chōra]
darebbe luogo – senza mai donare nulla – a ciò che si chiama la
venuta dell’evento. Più che donare, chōra riceve, e del resto
Platone stesso la presenta come ‘ricettacolo’. Anche se viene
‘prima di tutto’, essa non esiste di per sé. Senza appartenere a
ciò cui essa fa posto, senza far parte, senza esserne parte, e
senza essere altra cosa o qualcuno d’altro, non donando nulla e
nulla d’altro, essa darebbe luogo. Chōra prima del ‘mondo’,
prima della creazione, prima del dono e dell’essere – chōra che
c’è forse ‘prima’ di ogni ‘c’è’ come ‘es gibt’ […]. Su di esso,
forse, su ciò che riceve qui il nome di chōra, un appello verreb-

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be così a prendere slancio: l’appello a un pensiero dell’evento a


venire, della democrazia a venire, della ragione a venire” (Vo
14-15 [14-15]). Chōra non ha alcuna potenza e non è nulla: e
proprio per questo ha la forza di esporsi incondizionatamente
all’evento. Essa dona luogo all’evento nella misura in cui lascia
spazio per l’evento e, più in generale, per l’a-venire di ciò che
viene.

FUOCHI SEMANTICI: cripta, evento, impossibile, interpretazione,


iper-politica, iterabilità, nome, restanza, struttura.

S.R.

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DECOSTRUZIONE
[DÉCONSTRUCTION]

Con il termine decostruzione si è soliti identificare la filo-


sofia di Derrida. Ma al di là della necessità storiografica di eti-
chettare con un nome il pensiero di un autore, il termine “deco-
struzione” – che indubbiamente si inscrive al cuore del pensie-
ro di Derrida –, a rigore, non nomina un tipo di filosofia e nep-
pure in insieme teorico ben preciso. Benché la decostruzione
abbia trovato nel decostruzionismo una forma di consolidamen-
to teorico e metodologico, Derrida ha sempre rifiutato di identi-
ficare decostruzione e decostruzionismo, ricordando in più
occasioni che la decostruzione non è niente: né un metodo, né
una teoria, né un concetto, né una pratica e nemmeno (o tanto-
meno) una filosofia. “Direi che anche sul versante dove gene-
ralmente si cerca di situare la ‘decostruzione’ (virgolette entro
virgolette), anche lì i ‘decostruzionisti’ e il ‘decostruzionismo’
rappresentano uno sforzo di riappropriarsi, addomesticare, nor-
malizzare questa grafia per ricostruire una nuova ‘teoria’, ovve-
ro il ‘decostruzionismo’ con il suo metodo e le sue regole, i suoi
criteri di distinzione tra uso e menzione, la serietà della sua
disciplina e delle sue istituzioni, ecc.” (ST [35]). La decostru-
zione, dunque, non è né una nuova filosofia, né metodo di inter-
pretazione o di analisi. “La decostruzione non è un metodo e
non può essere trasformata in metodo. Soprattutto se si accen-
tua in questa parola il significato procedurale o tecnico” (Ps 390
[11]). Per questo la decostruzione non può essere identificata
con una forma di radicalizzazione nichilista dell’ermeneutica,

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vale a dire con una forma di interpretazione senza limiti e senza


senso.
Che cos’è dunque la decostruzione? In primo luogo: ciò
che resiste a qualsiasi tentativo di definizione e riappropriazio-
ne teorica, a qualsiasi tentativo di ricostruzione. Ora, quando
Derrida mette l’accento su questo tipo di resistenza della deco-
struzione alla teoria, se da un lato si sottrae all’esigenza di una
definizione della decostruzione, dall’altro suggerisce – proprio
in questo modo – come la decostruzione lavora, che cosa fa, in
effetti, questa cosa indefinibile che si sarà chiamata “decostru-
zione”. La decostruzione resiste alla teoria e alla ricostruzione:
e, così facendo, mostra come al cuore di ogni costruzione teori-
ca si inscriva un punto di eccedenza che resiste alla teoria, ne
impedisce la chiusura totalizzante, rende ogni costruzione teori-
ca un’architettura instabile che può essere sollecitata proprio a
partire dal suo eccesso – o, in altri termini, a partire dalla deco-
struzione già all’opera nel cuore stesso di ogni costruzione teo-
rica. “La decostruzione, allora, resiste alla teoria perché dimo-
stra l’impossibilità della chiusura, ovvero della chiusura di un
insieme o di una totalità entro una rete organizzata di teoremi,
leggi, regole, metodi” (ST [46]).
Quando Derrida provocatoriamente afferma: “Che cosa non
è la decostruzione? Ma tutto! Che cos’è la decostruzione? Ma
niente!” (Ps 392 [12]), sta precisamente dicendo che la deco-
struzione non è niente di definibile e ricostruibile in termini teo-
rici, perché è il movimento stesso di auto-decostruzione che
impedisce qualsiasi chiusura teorica; un movimento inscritto in
ogni struttura teorica. Per questo la decostruzione della metafisi-
ca logocentrica non è un intervento che, dall’esterno, Derrida
avrebbe operato sul canone della tradizione occidentale, bensì
una sorta di intensificazione tramite sollecitazione di un movi-
mento già all’opera al cuore di questa stessa tradizione. Quando
Derrida lavora su Platone, su Husserl o su Kant, non destabiliz-
za edifici teorici in sé stabili, ma fa lavorare altrimenti elementi
di instabilità che, relegati nei margini di quegli edifici, ne produ-

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cono la disarticolazione: una disarticolazione che non è demoli-


zione o distruzione, ma apertura.

Ma da dove arriva la parola decostruzione? Derrida se ne


serve per la prima volta in Della grammatologia per tradurre i
termini heideggeriani di Destruktion e Abbau. “Quando ho scel-
to questa parola, o quando mi si è imposta, credo fosse in Della
grammatologia, non credevo che le sarebbe stato riconosciuto
un ruolo così centrale nel discorso che allora mi interessava. Tra
le altre cose, provavo a tradurre e a adattare alle mie esigenze le
parole heideggeriane di Destruktion o di Abbau. Entrambe
significavano in questo contesto una operazione rivolta alla
struttura o all’architettura tradizionale dei concetti fondatori
dell’ontologia o della metafisica occidentale” (Ps 388 [8]). La
decostruzione si colloca dunque nella scia del progetto heideg-
geriano di Destruktion della metafisica. E tuttavia, a differenza
dell’operazione heideggeriana, la decostruzione non mira a
recuperare un senso originario e obliato dell’essere, ma a desta-
bilizzare le strutture concettuali della tradizione onto-teologica
per aprirle a un’invenzione dell’impossibile come venuta di un
evento che rompe con i possibili stessi già inscritti in quella tra-
dizione. L’impossibilità di fornire una definizione della deco-
struzione nella forma di un giudizio d’essenza per cui S è P è
legata a questo: la decostruzione lavora al cuore dell’onto-teo-
logia come istanza di destabilizzazione dell’onto-teologico.
“Tutte le frasi del tipo ‘la decostruzione è X’ o ‘la decostruzio-
ne non è X’ mancano a priori di pertinenza, diciamo che esse
sono almeno false. […] Uno degli obiettivi principali di ciò che
nei testi si chiama ‘decostruzione’ è precisamente la delimita-
zione dell’onto-teologico e in primo luogo di questo indicativo
presente della terza persona: S è P” (Ps 392 [12]). Per questo
nessuna ricostruzione della decostruzione come ontologizzazio-
ne è possibile o anche solo auspicabile. L’ontologia è un esorci-
smo nei confronti della decostruzione che lavora al cuore del-
l’essere stesso.

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Né metodo, né teoria, la decostruzione si lega inesorabil-


mente alla singolarità di una pratica di scrittura ogni volta unica,
e che ogni volta inventa la propria pratica e i propri effetti che
eccedono i limiti di qualsiasi calcolo. La singolarità della scrit-
tura di Derrida, che sfida le regole della buona scrittura filoso-
fica, risponde all’esigenza di evitare qualsiasi riappropriazione
teorica della decostruzione. Si tratta, ogni volta, di inventare:
vale a dire di far venire e lasciar venire l’evento. Ma per fare
questo non c’è regola, calcolo, metodo. Per questo la scrittura
decostruttiva sembra più simile alla scrittura letteraria che non a
quella filosofica. E tuttavia, questa incondizionata necessità di
resistere alla teoria e al metodo non può evitare che si produca-
no, anche per la decostruzione, effetti di metodo e di teoria quali
inevitabili cristallizzazioni e generalizzazioni di interventi ogni
volta singolari. Non c’è infatti idioma, unicità, singolarità che
non sia in sé ripetibile: ed è a partire da questa iterabilità (che è
in sé essenzialmente decostruttiva in quanto decostruisce il
sogno dell’unicità o dell’idioma puro) che qualcosa come una
decostruzione si profila. È lo stesso Derrida a riconoscerlo:
“Credo vi sia naturalmente un desiderio, in chiunque parli o
scriva, di firmare in maniera idiomatica, vale a dire insostituibi-
le. Ma non appena vi è marca, vale a dire possibilità di ripeti-
zione, non appena vi è linguaggio, la generalità è entrata in
scena e l’idioma si compone con qualcosa che non è idiomatico.
Con una lingua comune, con concetti, leggi, norme generali. E
di conseguenza, anche se si tenta di preservare l’idioma dal
metodo, poiché lei ha parlato di metodo, da un sistema di rego-
le di cui altri potranno disporre, che altri potranno applicare,
anche se si vuole preservare, dunque, l’idioma dal metodo…
ebbene, per il fatto che l’idioma non è puro, vi è già del metodo
[…]. Detto questo, al contempo, ho tentato di sottolineare in che
cosa, per esempio, delle questioni decostruttive non potevano
dare luogo a dei metodi, vale a dire a delle procedure tecniche
trasponibili da un contesto a un altro. In ciò che scrivo, penso vi
siano anche delle regole generali, delle procedure trasponibili

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per analogia – ed è ciò che si chiama un insegnamento, un sape-


re, delle applicazioni –, ma queste regole sono prese da un con-
testo in cui l’elemento è ogni volta unico, e là non può lasciarsi
totalmente metodologizzare. In effetti, questa singolarità non è
pura, ma esiste” (PS 213-214).

La decostruzione oscilla così tra singolarità e metodo che


si ricompongono in quella che Derrida stesso definisce la “stra-
tegia generale della decostruzione” (Po 56 [52]) che lavora sulle
opposizioni concettuali della metafisica. Una strategia il cui
percorso è “avventuroso” perché senza un fine che lo orienti:
“Avventuroso perché questa strategia non è una semplice strate-
gia nel senso in cui si dice che la strategia orienta la tattica a par-
tire da uno scopo finale, un telos o dal tema di un dominio, di
una padronanza, di una riappropriazione ultima del movimento
e del campo. Strategia infine senza finalità, si potrebbe chiama-
re tattica cieca, erranza empirica, se il valore di empirismo non
prendesse esso stesso tutto il suo senso dalla sua opposizione
alla responsabilità filosofica” (Ma 6-7 [33]). La strategia gene-
rale della decostruzione si articola secondo due momenti.
1. In primo luogo, si tratta di rovesciare le opposizioni
gerarchiche prodotte dalla tradizione metafisica. Questo primo
momento, benché non sufficiente a produrre l’effettiva deco-
struzione della metafisica, è fondamentale perché mostra come
il campo concettuale della metafisica non sia costituito sempli-
cemente da opposizioni concettuali che si tratterebbe di neutra-
lizzare, bensì da opposizioni gerarchiche da sovvertire facendo
lavorare i concetti subordinati contro i concetti che occupano la
posizione di potere subordinante: “Uno dei due termini coman-
da l’altro (assiologicamente, logicamente, ecc.) e sta più in alto.
Decostruire l’opposizione equivale allora, anzitutto, a rovescia-
re in un determinato momento la gerarchia. Trascurare questa
fase di rovesciamento significa dimenticare la struttura conflit-
tuale e subordinante dell’opposizione. E dunque significa pas-
sare troppo rapidamente, perdendo ogni presa con l’opposizione

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precedente, a una neutralizzazione che, praticamente, lascia il


campo anteriore nello stato in cui si trova e priva di ogni mezzo
per intervenirvi effettivamente” (Po 57 [53]). Trascurare il
momento del rovesciamento per passare immediatamente alla
neutralizzazione rappresenta l’illusione di una fuoriuscita dalla
metafisica che in effetti non produce altro che un rafforzamen-
to delle opposizioni metafisiche stesse. Occorre invece strategi-
camente far leva sul polo concettuale subordinato per rovescia-
re l’opposizione e, quindi, eccederla. Ma come si opera il rove-
sciamento? Operare il rovesciamento significa mostrare come il
termine superiore – che si pensa in termini di presenza, identità,
originarietà – si costituisca a partire dall’esclusione da sé del-
l’altro termine e viva di essa. Accade così che il derivato e
subordinato si scopre necessario alla costituzione dell’originario
– che dunque non sarà più tale. Affinché tuttavia il rovescia-
mento non si trasformi in una nuova gerarchia concettuale inver-
tita e speculare, occorre cogliere il momento in cui il rovescia-
mento fa segno verso l’eccesso archi-originario a partire da cui
il sistema delle opposizioni si struttura. Se infatti il primo, l’o-
rigine, ha bisogno, per costituirsi, di escludere il suo altro, di
differenziarsi dall’altro o di ripetersi/alterarsi nell’altro (si pensi
all’eidos platonico che si differenzia dalla copia sensibile, la
esclude da sé e si duplica e ripete in essa), l’origine in sé non è
più tale, non è più semplice, non è più identica a se stessa, e non
è dunque più origine perché porta in sé fuori di sé, come propria
condizione di possibilità e impossibilità, l’alterità, la differaen-
za. Questo punto di eccesso inscritto al cuore delle strutture con-
cettuali della metafisica è la condizione di possibilità delle
opposizioni gerarchiche e al contempo la condizione di impos-
sibilità della loro rigorosa purezza.
2. A questo punto irrompe un terzo termine che, né concet-
to, né parola, nomina ciò che – niente di essente – rende possi-
bile l’articolazione del primo e del secondo. Il terzo termine non
viene a rilevare dialetticamente gli altri due, ma a scardinare
l’opposizione del primo e del secondo in quanto mostra come

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l’origine della struttura gerarchica non sia un termine pieno e


presente, che subordina gli altri come derivati, supplementi o
copie, ma un’alterità inscritta al cuore dell’origine come un
fuori interno ed esterno al dentro. La decostruzione non è dun-
que un’analisi che mette capo a un elemento semplice: essa è
piuttosto un’iper-analisi che non giunge a un termine stabile e
semplice, ma fa segno verso “un’alterità sottratta a ogni proces-
so di presentazione attraverso il quale noi potremmo chiamarla
a comparire in persona” (Ma 21 [49]). Ma questa operazione,
per essere efficace, deve avvenire nel corpo di una strategia di
scrittura in cui lavori lo stile: “Bisogna quindi, mediante una
scrittura doppia, stratificata, scalata e scalante, marcare lo scar-
to fra l’inversione che abbassa ciò che sta in alto, decostruendo-
ne la genealogia sublimante o idealizzante, e l’irrompente emer-
genza di un nuovo ‘concetto’, concetto che non si lascia più, né
mai si è lasciato, comprendere nel regime antico” (Po 57 [53]).
La strategia generale della decostruzione è così essenzial-
mente inventiva, nel senso che fa e lascia venire, nella scrittura,
un tutt’altro inassimilabile al concetto. In questo la decostruzio-
ne è precisamente impossibile: essa pensa e opera nella dimen-
sione dell’impossibile come apertura all’evento che, in quanto
tale, rompe con il regime della possibilità. L’impossibilità della
decostruzione deve dunque essere intesa sia come impossibilità
di ridurre la decostruzione a un metodo e a una teoria, sia come
necessità per la decostruzione di pensare nella dimensione del-
l’impossibile, dell’evento impossibile da fare e lasciare venire:
“È impossibile, ma nessuno ha mai detto che la decostruzione,
in quanto tecnica o metodo, fosse possibile. Essa non pensa che
nella dimensione dell’impossibile e di ciò che si annuncia anco-
ra come impensabile” (MP 131-132 [109]). La decostruzione
impossibile non è altro che una certa esperienza dell’impossibi-
le, dell’evento come impossibile: ciò che viene al di là del pote-
re stesso, ciò che viene senza che sia possibile riappropriarsene
nella forma di una potenzialità a produrre l’evento. L’evento
impossibile da fare e lasciare venire non è alla portata di nessun

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metodo e di nessun potere. “Direi che essa [la decostruzione]


non perde niente a confessarsi impossibile, e quanti se ne ralle-
grassero troppo in fretta non perdono nulla nell’attendere. Il
pericolo per un compito di decostruzione sarebbe piuttosto la
possibilità, e diventare un insieme disponibile di procedure
regolate, di pratiche metodiche, di cammini accessibili.
L’interesse della decostruzione, della sua forza e del suo deside-
rio, se ne ha, è una certa esperienza dell’impossibile: vale a dire,
ci ritornerò, alla fine di questa conferenza, dell’altro, l’espe-
rienza dell’altro come invenzione dell’impossibile, in altri ter-
mini come la sola invenzione possibile” (Ps 26-27 [28]).

Ora, la relazione tra decostruzione ed evento deve però


essere pensata ancor più a fondo, fino ad arrivare a una sorta di
rovesciamento, spesso trascurato da alcuni interpreti e tuttavia
di importanza centrale per la decostruzione: la decostruzione
impossibile come invenzione dell’evento impossibile è anche, e
in primo luogo, l’evento. Dire che la decostruzione è l’evento
non significa arrivare infine a definire concettualmente la deco-
struzione – visto che l’evento è, appunto, l’impossibile –, ma
segnalare che la decostruzione non attende l’iniziativa di un sog-
getto, ad esempio Jacques Derrida, o la scrittura in senso stret-
to, per prodursi; perché la decostruzione è in primo luogo ciò
che accade. Vi è decostruzione non appena, e in ogni luogo in
cui qualcosa ha luogo, accade. Non appena c’è, c’è decostruzio-
ne: “Per esempio, un’asserzione, una dichiarazione, una dichia-
razione vera, sarebbe questa – e io la sottoscriverei: la decostru-
zione non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un
metodo. Neanche un discorso, un atto, una pratica. È ciò che
accade, che sta accadendo in quel che si chiama società, politi-
ca, diplomazia, economia, realtà storica, e così via. La deco-
struzione è l’evento” (ST [45]). E ancora: “Non è sufficiente
dire che la decostruzione non saprebbe ridursi a qualche stru-
mentalità metodologica, a un insieme di regole e procedure tra-
sponibili. Non è sufficiente dire che ogni ‘evento’ di decostru-

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zione resta singolare, o in ogni caso il più vicino possibile a


qualcosa come un idioma e una firma. Bisognerebbe anche pre-
cisare che la decostruzione non è un atto o una operazione. Non
solo perché vi sarebbe in essa qualcosa di ‘passivo’ o di ‘pazien-
te’ (più passivo della passività, direbbe Blanchot, che la passi-
vità che viene opposta all’attività). Non solo perché essa non
dipende da un soggetto (individuale o collettivo) che ne avrebbe
l’iniziativa e l’applicherebbe a un oggetto, un testo, un tema,
ecc. La decostruzione ha luogo, è un evento che non attende la
deliberazione, la coscienza o l’organizzazione di un soggetto, e
nemmeno la modernità. Ciò si decostruisce [ça se déconstruit].
Il ciò [ça] non è qui una cosa impersonale che si opporrebbe a
una qualche soggettività egologica. È in decostruzione (Littré
diceva: ‘decostruirsi… perdere la propria costruzione’). E il ‘si’
del ‘decostruirsi’, che non è la riflessività di un io o di una
coscienza, porta con sé tutto l’enigma” (Ps 391 [11]). C’è dun-
que un doppio fronte della decostruzione: c’è una decostruzio-
ne già da sempre all’opera come evento: all’opera prima ancora
di ricevere il nome stesso di decostruzione; e c’è una decostru-
zione come risposta e “intensificazione massima di una trasfor-
mazione in corso” (FL 23-24 [56]).
Ci si potrebbe allora chiedere perché mai dovrebbe essere
preferibile intensificare la decostruzione in corso piuttosto che
limitarla o contenerla. È chiaro come Derrida non possa rispon-
dere a una tale domanda giustificando, in termini filosofici, l’e-
sigenza della decostruzione – che sarebbe così riappropriata
proprio a ciò che si tratta di decostruire. E tuttavia Derrida non
si sottrae alla necessità di una risposta. Se la decostruzione è ciò
che apre all’evento e, al contempo, è l’evento stesso, si tratta di
dire che la venuta dell’evento è ciò che non si deve impedire. In
nome di cosa? In nome di una incondizionata preferenza per
l’avvenire stesso, per la venuta dell’altro. Ecco ciò che orienta –
nella dimensione dell’impossibile – la decostruzione. Al fondo
la risposta è semplice e quasi disarmante: è meglio che ci sia
dell’avvenire piuttosto che il nulla. “La venuta dell’evento è ciò

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che non si può né si deve mai impedire, un altro nome dell’av-


venire stesso. Non che sia buono, buono in sé, il fatto che tutto
o qualsiasi cosa accada; non che si debba rinunciare a impedire
che alcune cose avvengano (non vi sarebbe allora alcuna deci-
sione, alcuna responsabilità, etica, politica o di altro genere), ma
ci si oppone sempre e soltanto a eventi che si pensa sbarrino
l’avvenire o portino la morte, a eventi che mettono fine alla pos-
sibilità dell’evento, all’apertura affermativa per la venuta del-
l’altro” (Ec 19 [12]).

È qui che la decostruzione incontra le questioni della giusti-


zia come indecostruibile e della DEMOCRAZIA. Da un lato Derrida
afferma che: “Non c’è democrazia senza decostruzione, non c’è
decostruzione senza democrazia” (PA 128 [131]). Dall’altro
sostiene che la decostruzione “è” la giustizia. Anche con la giu-
stizia, proprio come con l’evento, Derrida ricorre a una quasi-
definizione, affermando che la decostruzione è la giustizia: “La
giustizia in se stessa, se esiste qualcosa di simile, al di fuori o al
di là del diritto, non è decostruibile. Non più della decostruzione
stessa, se esiste qualcosa di simile. La decostruzione è la giusti-
zia” (FL 34 [64]). L’indecostruibile giustizia non è un ideale che
orienterebbe e conterrebbe la decostruzione, bensì la condizione
di possibilità della decostruzione che coincide con la decostru-
zione stessa. “L’indecostruibilità della giustizia rende la deco-
struzione possibile, anzi si confonde con essa” (FL 35 [64]). Le
due cose non si escludono: perché l’indecostruibile è la condi-
zione di possibilità della decostruzione a sua volta in decostru-
zione. Derrida afferma: “L’indecostruibile giustizia rende possi-
bile la decostruzione” (SM 56 [40]). Al contempo, però, per non
rischiare di fare dell’indecostruibile (giustizia) un qualcosa che,
anche al di là dell’essenza o al di là dell’essere, al di là del dirit-
to, ritrovi l’unità di una sovra-essenzialità che raccoglie e unisce
armonizzando (SM 55-56 [38-39]), Derrida precisa che l’indeco-
struibile giustizia è tale poiché è in decostruzione. In Spettri di
Marx, Derrida definisce così l’indecostruibile giustizia “la con-

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dizione indecostruibile di ogni decostruzione, certo, ma una con-


dizione a sua volta in decostruzione” (SM 56 [40]).
Se, dunque, l’indecostruibile giustizia è la condizione di
possibilità indecostruibile della decostruzione, non è tale per il
fatto di essere immune da decostruzione, ma proprio per il fatto
di “essere” in decostruzione. Ed è a partire da questo essere già
da sempre in decostruzione dell’indecostruibile giustizia che
procede quello che potremmo definire l’esercizio della deco-
struzione. Nella giustizia la decostruzione trova la propria irri-
ducibile possibilità e la propria ingiunzione (il “bisogna deco-
struire”), senza che tuttavia questa possibilità e questa ingiun-
zione possano essere ricondotte a un qualcosa, a un trascenden-
tale, a un qualche fondamento ontologico-etico-giuridico-politi-
co: esse sono l’impossibile. Se c’è un’ingiunzione a decostruire
essa risuona come un appello sempre insoddisfatto a una giusti-
zia a venire più giusta di qualsiasi concretizzazione etica, poli-
tica, giuridica. In questo senso la decostruzione è già da sempre
etica e politica. O meglio, iper-etica e iper-politica. La giustizia
della decostruzione resta a-venire: ciò che deve venire come
l’avvenire irriducibile a un (presente) futuro; ciò che si deve fare
come l’impossibile: evento sempre a-venire e sospeso sul filo di
un incancellabile forse. “‘Forse’, bisogna sempre dire forse per
la giustizia” (FL 61 [83]). Perché non c’è certezza, né sapere, né
calcolo, né speranza per questa giustizia di cui la decostruzione
è folle, “folle di questo desiderio di giustizia” (FL 56 [79]).
Come (la) decostruzione, la giustizia è allora l’evento, l’a-veni-
re dell’evento: “La giustizia resta a venire, essa deve venire, è a-
venire, essa dispiega la dimensione stessa di eventi irriducibil-
mente a venire. Essa avrà sempre questo a-venire e l’avrà sem-
pre avuto. Forse è per questo che la giustizia, in quanto non è
semplicemente un concetto giuridico o politico, apre all’avveni-
re la trasformazione, il rimaneggiamento o la rifondazione del
diritto e della politica” (FL 60-61 [82-83]).
La giustizia sarebbe allora, per la decostruzione, una sorta
di “idea”? È Derrida stesso a introdurre questo termine nella

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formula virgolettata “idea della giustizia”, per poi però mettere


subito in guardia contro la tentazione di assimilare questa idea
di giustizia indecostruibile, sempre a-venire, impossibile, al
contenuto di una promessa messianica. Ma, al contempo,
Derrida precisa tra parentesi: “Dico contenuto e non forma, poi-
ché in una promessa, qualunque essa sia, non manca mai una
forma messianica, una certa messianicità” (FL 56 [79]). Se l’i-
dea di giustizia non è un’idea messianica, la promessa di giusti-
zia all’opera nella decostruzione non si produce senza quello
che in Spettri di Marx Derrida definisce “messianismo senza
contenuto” o “messianismo deserto (senza contenuto e senza
messia identificabili)” (SM 112 [87]), o meglio MESSIANICO:
“Diciamo il messianico: la venuta dell’altro, la singolarità asso-
luta e inanticipabile di ciò che viene come giustizia” (SM 56
[40]; Ec19 [12]).

FUOCHI SEMANTICI: altro, evento, giustizia, impossibile, indeco-


struibile, invenzione, iper-analisi, iterabilità, scrittura, singola-
rità, strategia, trasformazione.

S.R.

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DEMOCRAZIA
[DÉMOCRATIE]

In Politiche dell’amicizia Derrida scrive: “Che cosa resta o


resiste ancora nel concetto decostruito (o decostruibile) della
democrazia per orientarci senza fine? Per ordinarci non solo di
impegnarci nella decostruzione ma di conservare il vecchio
nome? E di decostruire ancora in nome di una democrazia a
venire?” (PA 127 [129]). È da qui che occorre partire per son-
dare la portata del significante “democrazia” nella strategia
della DECOSTRUZIONE. Perché qui emerge chiaramente come nel
vecchio nome greco di “democrazia” resista qualcosa che orien-
ta senza fine la DECOSTRUZIONE. Ma che cosa nomina, dunque,
“democrazia”, per Derrida? Di che cosa è il nome questo vec-
chio nome greco di “democrazia” per avere ancora la forza di
ordinare la DECOSTRUZIONE? E che cosa significa il sintagma
“democrazia a venire”?
Democrazia non è semplicemente un concetto politico che,
a partire dagli anni Novanta, sarebbe entrato nell’orbita del pen-
siero derridiano per essere sottoposto a un radicale ripensamen-
to volto a tracciare le coordinate di uno spazio altro dal politico,
e a tutti gli effetti ultrapolitico, che avesse il nome di “democra-
zia a venire”. Una ricostruzione di questo tipo, benché certo non
scorretta dal punto di vista storiografico, rischierebbe di non
cogliere il lavoro specifico – e capitale – svolto dal significante
“democrazia” nella strategia di pensiero di Derrida. Certo, il
nome di “democrazia” è un vecchio nome greco, una paleoni-
mia; e lo stesso Derrida precisa che il suo mantenimento è que-

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stione strategica e di contesto e che “questo nome greco, demo-


crazia, […] durerà il tempo necessario, ma non di più” (PA 128
[131]). E tuttavia Derrida non vi rinuncia mai come invece
rinuncia, ad esempio, al nome “comunità”. Il nome di “demo-
crazia” non solo resiste all’interno della strategia decostruttiva,
ma ha in essa una posizione privilegiata al punto di orientare la
DECOSTRUZIONE stessa: la DECOSTRUZIONE opera in nome della
democrazia e della democrazia a venire. Il nome “democrazia”,
in altri termini, non ha lo stesso ruolo giocato da concetti quali
ospitalità, amicizia, sovranità, nell’ambito della DECOSTRUZIONE.
Ma, più in generale, si potrebbe dire – e tenendo bene a mente
una certa traducibilità dei significanti chiave del pensiero derri-
diano – che nessun altro significante ha la stessa portata di
democrazia nel pensiero derridiano se non quelli di DECOSTRU-
ZIONE e giustizia. E questo perché, precisamente, il rapporto tra
DECOSTRUZIONE e democrazia è di coimplicazione quasi-trascen-
dentale, per cui l’una è la condizione di possibilità dell’altra. E
lo stesso vale per la giustizia visto che “la giustizia rende la
decostruzione possibile, e al limite si confonde con essa” (FL 35
[64]). La DECOSTRUZIONE – che al limite si confonde con la giu-
stizia stessa – è dunque radicalmente democratica.
È Derrida stesso – che in una lettera si è definito “fedele
alla sinistra democratica” – a enunciare chiaramente la formula
di questo rapporto: “Non c’è democrazia senza decostruzione,
non c’è decostruzione senza democrazia” (PA 128 [131]).
Formula che richiama quella usata da Derrida nel testo che apre
Du droit à la philosophie in cui, per la prima volta, compare il
sintagma democrazia a venire. In questo testo del 1990
(Privilège. Titre justificatif et remarques introductives) Derrida
afferma che non c’è democrazia senza una certa “democrazia in
filosofia” o una certa “democrazia filosofica”, intendendo con
questa formula un diritto per tutte e per tutti ad aver accesso alla
filosofia. “Perché la democrazia filosofica, la democrazia in
filosofia sia possibile (e non c’è democrazia in generale senza
ciò, e la democrazia, quella che resta sempre a venire, è anche

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un concetto filosofico), bisogna essere formati alla filosofia”


(DPh 53). Non c’è DECOSTRUZIONE senza democrazia e vicever-
sa; ma, al contempo, non c’è democrazia senza democrazia in
filosofia. In questo senso si può ben dire che la DECOSTRUZIONE
operi in nome della democrazia fuori e dentro la filosofia, e per
una democrazia a venire fuori e dentro la filosofia. Cosa con-
fermata da un discorso del 1991 presso l’UNESCO, dal titolo Il
diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico: “Mi sem-
bra impossibile dissociare il motivo del diritto alla filosofia ‘dal
punto di vista cosmopolitico’ dal motivo di una democrazia a
venire […] non credo che il diritto alla filosofia (che una istitu-
zione internazionale come l’UNESCO ha il dovere di far rispet-
tare e di cui ha il dovere di estendere l’effettività) sia dissocia-
bile da un movimento di effettiva democratizzazione” (DPhC
41-42 [41]).

Per comprendere a pieno il valore della coimplicazione


quasi trascendentale tra DECOSTRUZIONE e democrazia occorre
partire da un dato che accomuna entrambi i significanti coim-
plicati: nel caso di democrazia come di DECOSTRUZIONE, Derrida
non solo non offre nessuna definizione concettuale, ma afferma
che tale definizione è, di diritto e di fatto, impossibile. Perché
democrazia come DECOSTRUZIONE non hanno essenza e signifi-
cato stabile; sono nomi che non rinviano a niente di essente: non
a una cosa, e nemmeno a un concetto.
Alla domanda “che cos’è la democrazia o la democrazia a
venire per Derrida?” non c’è risposta possibile, dunque non c’è
nemmeno la possibilità, sulla base di questa domanda, di artico-
lare un discorso filosofico che indaghi l’essenza della democra-
zia. Ma è proprio a partire da qui, da questo limite come impos-
sibilità di una risposta nella forma di un giudizio di essenza (S
è P) in merito alla democrazia, che Derrida pensa la democrazia
(e la democrazia a venire) come ciò che, precisamente, sfugge
all’essenza e al concetto. In questo senso il nome di “democra-
zia” fin dall’origine avrà fatto segno verso uno spazio che ecce-

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de i limiti del politico quale spazio dell’Uno sovrano e comuni-


tario (spazio del raccoglimento, della presenza a sé, dell’iden-
tità, del potere). In particolare il privilegio accordato da Derrida
al significante “democrazia” è anche un modo preciso di smar-
carsi rispetto a tutti i tentativi di ripensamento critico o deco-
struttivo della comunità messi in atto da Bataille, Blanchot,
Nancy, Agamben, Esposito. Non a caso Derrida non si serve
quasi mai del termine “comunità”; le due uniche occorrenze
sono “comunità dell’interrogazione sulla possibilità dell’inter-
rogazione” (ED 118 [100]), formula usata per definire la filoso-
fia nel saggio Violenza e metafisica, e “comunità anacoretica”,
formula utilizzata a commento di alcuni passaggi sui filosofi
dell’avvenire in Al di là del bene e del male di Nietzsche (PA 54
[50]). Perché? Perché privilegiare “democrazia” rispetto a
“comunità”? Non si tratta in ogni caso di decostruire vecchi
concetti? La scelta di Derrida in favore della democrazia non è
certo arbitraria, bensì strategica (la DECOSTRUZIONE è essenzial-
mente strategica): il significante “democrazia”, a differenza di
“comunità”, sembra già far segno verso uno spazio in DECO-
STRUZIONE, uno spazio in DIFFERAENZA. In altri termini il nome
“democrazia” ci ingiunge di ereditare non tanto un vecchio con-
cetto ma ciò che “dimenticato, rimosso, misconosciuto o impen-
sato nel ‘vecchio’ concetto e in tutta la sua storia, veglierebbe
ancora, emanando dei segni e dei sintomi di sopravvivenza a
venire attraverso tutti gli antichi e stanchi tratti” (PA 127 [129]).
Si tratta allora di riprendere e intensificare ciò che qui è già
all’opera nella democrazia.
La forza del significante “democrazia” risiede proprio nel
fatto che, piuttosto che significare qualcosa di dato, fa segno
verso qualcosa che ancora non c’è ma che si annuncia nel nome,
si promette nel nome, e più radicalmente si dona come promes-
sa. Detto altrimenti: la democrazia avrà sempre avuto la struttu-
ra di una promessa, o meglio, di una promessa dell’impossibile.
Parlando del dovere di rispondere all’appello della memoria
europea, Derrida scrive: “Lo stesso dovere ingiunge di assume-

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re il retaggio europeo, e unicamente europeo, di un’idea di


democrazia, ma anche di riconoscere che questa, così come l’i-
dea di diritto internazionale, non è mai data, che il suo statuto
non è neanche quello di un’idea regolatrice in senso kantiano,
ma è piuttosto qualcosa che resta da pensare e a venire: non che
debba venire infallibilmente domani, non la democrazia (nazio-
nale e internazionale, statale o trans-statale) futura, ma una
democrazia che deve avere la struttura della promessa – e dun-
que la memoria di ciò che porta l’avvenire qui e ora” (AC [52]).
La democrazia che ha la struttura di una promessa possiede la
peculiarità di non avere né essenza né oggetto e nemmeno con-
cetto, come più volte ribadisce Derrida: “Forse qui, in questa
stessa parola, in questo concetto, ne va di un’essenza senza
essenza e senza oggetto. Si tratta persino di un concetto senza
concetto” (Vo 56 [58]).
Ma non è tutto. Questa costitutiva mancanza di essenza
della democrazia implica anche che, per Derrida, non vi sia
un’idea di democrazia: “Non esiste paradigma assoluto, costitu-
tivo o costituzionale, non esiste idea assolutamente intelligibile,
non esiste eidos, non esiste alcuna idea della democrazia. In
fondo non esiste nemmeno un ideale democratico” (Vo 62 [64-
65]). L’inconsistenza ontologica della democrazia è, così, asso-
luta. Questo nome non rinvia né a un concetto né a un’idea, o
ideale, né a una cosa. Il fatto che resti a venire non significa che
sia a venire perché la sua “restanza” eccede ogni riappropria-
zione ontologica. “Se mi è capitato di scrivere che essa [la
democrazia] ‘resta’ a venire, tale restanza, come sempre nei
miei testi, almeno a partire da Glas, tale democrazia in restanza
o in giacenza si sottrae a qualsiasi dipendenza ontologica. Essa
non costituisce la variante di un ‘è’, di una copula ontologica
che segna il presente dell’essenza, dell’esistenza, addirittura
della sostanza sostanziale o soggettiva” (Vo 131 [136]). Il che
però non significa che non ci sia democrazia, ma che il “c’è”
della democrazia non ha mai la forma di un essente presente
identificabile in un qui e ora, in una delle varie forme che la

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democrazia avrà preso in un qui e ora a partire dalla sua origine


greca fino alla sua espansione globale. “Anche quando c’è
democrazia, questa non esiste mai, non è mai presente, resta il
tema di un concetto non presentabile” (PA 339 [361]). Vale per
lo spazio della democrazia ciò che, nell’ambito della cosmolo-
gia platonica, vale per CHŌRA: spazio libero pronto a ricevere
tutte le forme ma che, in sé, non è niente di essente, niente di ciò
che riceve. Non a caso Derrida ha potuto dire che la democrazia
a venire è la CHŌRA del politico (Vo 120 [124-125]).
È chiaro come la democrazia, in forza di questa sua essen-
za senza essenza, non rinvii solo a CHŌRA ma anche a un altro
quasi-concetto chiave per la DECOSTRUZIONE derridiana, vale a
dire a DIFFERAENZA. Se la democrazia non è niente di essente e
non si dà mai nella forma di un essente presente è perché la
democrazia “è” in un rapporto di differenza con sé, “è” attra-
versata e decostruita dalla DIFFERAENZA. In questo senso l’unico
giudizio di essenza possibile in merito alla democrazia è quello
che confessa: la democrazia è DIFFERAENZA. Unico giudizio pos-
sibile, naturalmente, solo in quanto strutturalmente impossibile,
poiché la DIFFERAENZA non è niente di essente, ma ciò a partire
da cui si producono la differenza e i differenti. “La democrazia
non è ciò che è se non nella differaenza attraverso cui essa si dif-
ferisce e differisce da se stessa. Essa non è ciò che è se non spa-
ziandosi al di là dell’essere e persino della differenza ontologi-
ca; essa è (senz’essere) uguale e propria a se stessa solo in quan-
to inadeguata e impropria, al medesimo tempo in ritardo e in
anticipo su di sé” (Vo 63 [66]).

Pensando la democrazia attraverso la DIFFERAENZA, Derrida


inserisce un ulteriore elemento di analisi nel suo discorso attor-
no alla democrazia. La mancanza di essenza della democrazia
viene declinata da Derrida anche nei termini di una mancanza di
ipseità della democrazia come impossibilità per la democrazia di
raccogliersi nell’unità di un se stesso, in quell’ipseità che signi-
fica al contempo identità e potere. La democrazia infatti non è

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solo senz’essere e senza essenza, ma sfida l’ipseità del se stesso


in quanto differisce da se stessa. Il che non significa dire sem-
plicemente che la democrazia non è identica a sé, bensì che essa
rompe con la logica dell’ipseità, dell’essere sé di un sé in cui si
uniscono l’identità e il potere. Rompendo con l’ipseità la demo-
crazia non rompe dunque solo con l’identità, ma anche con il
potere che si costituisce proprio nell’essere sé di un sé. La demo-
crazia è per Derrida “sprovvista di ipseità” (Vo 61 [64]). “È il
senso proprio, il senso stesso dello stesso (ipse, metipse, meti-
psissimus, meisme, même), è il se stesso, lo stesso, il propria-
mente stesso del se stesso, che manca alla democrazia. La demo-
crazia e l’ideale stesso della democrazia si definiscono attraver-
so questa mancanza del proprio e dello stesso” (Vo 61 [64]). Che
la democrazia sia differenziale, che sia DIFFERAENZA e in DIFFE-
RAENZA significa che essa è in sé, nel suo concetto senza concet-
to, disgiunta da sé, disaggiustata e out of joint nella sua presenza
sé, aperta all’altro e all’avvenire, già da sempre a venire.
La formula “democrazia a venire” dunque non dice altro
che questo essere-in-differaenza della democrazia. O se si pre-
ferisce: l’essere-in-decostruzione della democrazia. La demo-
crazia a venire è la democrazia che si fa pienamente carico della
sua struttura differaenziale. Il sintagma “democrazia a venire”
non è altro che un’esplicitazione di questa essenza senza essen-
za della democrazia. Il c’è della democrazia non è perché sem-
pre a venire. La formula “a venire” non è altro che una confi-
gurazione del c’è della democrazia. “L’‘a venire’ non significa
soltanto la promessa, ma anche il fatto che la democrazia non
esisterà mai, nel senso dell’esistenza presente: non perché essa
resterà differita ma perché resterà sempre aporetica nella sua
struttura” (Vo 126 [131]). Se non c’è sapere per la democrazia è
perché per essa non c’è essenza, perché il suo “c’è” è promesso
all’a venire. Al contempo però la “a” dell’avvenire dice anche
qualcosa dell’ingiunzione: declina in termini di ingiunzione ciò
che DIFFERAENZA diceva in termini di struttura. La democrazia in
DIFFERAENZA come democrazia a venire è una democrazia che

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occorre fare e lasciare venire: è l’ingiunzione stessa della demo-


crazia: “L’ingiunzione democratica non consiste né nel rimette-
re a più tardi né nel lasciarsi regolare, rassicurare, tranquillizza-
re o consolare da un ideale o da un’Idea regolatrice. Essa si
manifesta nell’urgenza e nell’imminenza di un a-venire, laddo-
ve la a dell’a-venire declina verso l’ingiunzione, così come
verso l’attesa messianica, la a disgiuntiva di una differaenza”
(Vo 153-154 [157-158]).
Ora, pensare la democrazia come DIFFERAENZA significa
ripensare, da un lato, la spazio-temporalità della democrazia e,
dall’altro, l’auto-decostruzione inscritta al cuore della democra-
zia nei termini dell’AUTOIMMUNITÀ. L’auto-decostruzione
autoimmunitaria della democrazia rende la democrazia uno spa-
zio politico assolutamente vulnerabile, esposto a tutti i rischi.
Compreso il rischio del “peggio a venire” come ad esempio un
attacco nucleare terroristico che distrugga la democrazia stessa
(Vo 148 [153]). Per questo la democrazia è al contempo lo spa-
zio politico che si espone, senza difese, al rischio del peggio e
all’a venire. Perché non c’è possibilità di venuta dell’evento se
non là dove c’è una vulnerabilità esposta, vale a dire in uno spa-
zio di cui sia danneggiata o decostruita la protezione. “Se un
evento degno di questo nome deve arrivare è necessario, al di là
di qualsiasi controllo, che agisca su una passività. Esso deve col-
pire una vulnerabilità esposta, senza immunità assoluta, senza
indennità, nella sua finitudine e in modo non orizzontale, lad-
dove non è ancora o non è già più possibile affrontare, e fron-
teggiare, l’imprevedibilità dell’altro. Da questo punto di vista
l’autoimmunità non è un male assoluto” (Vo 210 [216]).

Per alcuni aspetti la democrazia a venire potrebbe apparire


simile a un’idea regolatrice in senso kantiano. Ma Derrida non
manca mai di ricordare come “l’idea di una democrazia a veni-
re” non sia riducibile all’idea regolatrice in senso kantiano.
L’idea regolatrice, almeno secondo un uso corrente e approssi-
mativo della nozione, rimanda infatti a qualcosa che resta nel-

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l’ordine del possibile, di un possibile ideale rinviato all’infinito.


“Esso partecipa di ciò che, al termine di una storia infinita,
dipenderebbe ancora dal possibile, dal virtuale e dalla potenza,
da ciò che qualcuno, un certo ‘io posso’, ha il potere di conse-
guire, teoricamente, e in forma che non resta al riparo da un
qualche fine teleologico” (Vo 123 [127]). La democrazia a veni-
re rompe con l’ordine del possibile per collocarsi sotto il titolo
dell’impossibile, vale a dire sotto il titolo di ciò che resta estra-
neo all’“io posso”, al potere del soggetto singolare o collettivo.
Ma che cos’è l’impossibile? Per Derrida questo termine non ha
nulla di negativo, ma rimanda all’evento reale inteso come ciò
che piomba su di me qui e ora, in atto e non in potenza. La
democrazia a venire è l’urgenza di questo evento reale impossi-
bile: è al contempo lo spazio che resta radicalmente aperto all’e-
vento e il venire dell’evento. La democrazia a venire avviene
sempre qui e ora, come l’impossibile, come ciò di cui non ci si
può riappropriare nemmeno sotto la forma di un’idealizzazione.
“Questo im-possibile non è quindi un’idea (regolatrice) o un
ideale (regolatore). È ciò che vi è di più innegabilmente reale. E
sensibile. Come l’altro. Come la differaenza irriducibile e non
riappropriabile dell’altro” (Vo 123 [128]).
Ora, se è vero che l’idea di democrazia a venire non è defi-
nibile, tuttavia Derrida in Stati canaglia individua cinque punti
focali attorno a cui condensare alcuni aspetti di questo enigma-
tico sintagma.
1. La democrazia a venire funziona come arma di critica
militante contro qualsiasi politica o retorica che presenti come
democrazia esistente, e presente, ciò che resta inadeguato all’e-
sigenza democratica. “A venire” significa in questo senso che la
democrazia non esisterà mai nel senso dell’esistenza presente
perché resterà sempre aporetica nella sua struttura. Inoltre
democrazia a venire prende in conto la storicità dell’unico siste-
ma che accoglie in sé il diritto all’autocritica e alla perfettibilità.
In democrazia si ha il diritto di criticare tutto pubblicamente
compresa l’idea stessa di democrazia.

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2. La democrazia a venire è uno spazio a venire nel senso


di aperto all’evento inteso come venuta senza orizzonte d’attesa
di ciò che arriva e di chi arriva.
3. La democrazia a venire mira a un’estensione del demo-
cratico al di là delle frontiere statuali-nazionali, in direzione di
uno spazio giuridico-politico internazionale che, senza abolirla,
sappia inventare nuove forme di sovranità.
4. La democrazia a venire è in un essenziale rapporto con
la giustizia intesa come ciò che, al di là del diritto, resta a veni-
re e apre all’avvenire la trasformazione dello spazio giuridico-
politico: “La giustizia resta a venire, ha a venire, è a-venire, essa
dispiega la dimensione stessa di eventi irriducibilmente a veni-
re” (FL 60 [82-83]).
5. La democrazia a venire oscilla tra un’analisi neutra e
constativa del concetto senza concetto di democrazia e il perfor-
mativo che ingiunge di fare venire la democrazia. A sua volta,
però, la a di democrazia a venire esita tra il performativo (fare
venire) e il MESSIANICO come esposizione meta-performativa a
ciò che viene e chi viene, come lasciare venire (Vo 133 [138]).

Democrazia a venire esplicita così il senso di vuoto e di


mancanza che si cela al cuore della democrazia. È Derrida stes-
so a confessarlo: “Come se ‘democrazia a venire’ significasse
non tanto ‘democrazia a venire’ (con tutto quello che resta da
dirne e che tenterò a poco a poco di precisare), quanto piuttosto
‘concetto a venire della democrazia’, accezione se non insussi-
stente quanto meno non ancora avvenuta, ancora incompiuta,
della parola ‘democrazia’: senso in attesa, ancora vuoto o in
vacanza, della parola o del concetto di democrazia. Come se
confessassi da più di dieci anni, girando intorno a una confes-
sione che traduco qui (due punti, aperte virgolette): ‘In fin dei
conti, se tentiamo di ritornare all’origine, non sappiamo ancora
che cosa avrà voluto dire democrazia, né che cos’è la democra-
zia. Perché la democrazia non si presenta, non si è ancora pre-
sentata, ma verrà. Aspettando, non rinunciamo a servirci di una

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parola la cui eredità è innegabile ma il cui senso è ancora otte-


nebrato, offuscato, riservato. Né la parola né la cosa ‘democra-
zia’ sono ancora presentabili” (Vo 28 [28]).
Che il discorso di Derrida attorno alla democrazia come
democrazia a venire prenda la forma di una confessione non
deve stupire. Perché, come ricorda lo stesso Derrida in Salvo il
nome, la confessione non consiste nel sapere e nel far sapere:
essa si avvicina piuttosto all’apofasi e alla teologia negativa: “Il
suo atto non si riduce a informare, a insegnare, a far sapere.
Estraneo al sapere, dunque a qualsiasi determinazione e a qual-
siasi attribuzione predicativa, la confessione condivide questo
destino con il movimento apofatico […] La confessione non
consiste a far sapere” (SN 23 [132]). Lo stesso Derrida d’altra
parte mette in rapporto esplicitamente il proprio discorso o
meglio la propria confessione sulla democrazia con l’apofasi e
la teologia negativa: “Come se, anziché cominciare da una defi-
nizione rigorosa di ciò che è propriamente e di ciò che significa
al presente la ‘democrazia’, avessi invece ceduto alla virtù apo-
fatica di una certa teologia negativa inconfessata” (Vo 27-28
[28]). È importante sottolinearlo: il discorso di Derrida sulla
democrazia senza concetto, senza essenza, senza presenza, rin-
via precisamente ed esplicitamente alla teologia negativa, ben-
ché non si riduca ad essa. In questo senso si può ben dire che il
discorso di Derrida sulla democrazia e le sue confessioni di sin-
cero democratico restino assillate dallo spettro della teologia
politica o ultra-politica e, nello specifico, di una teologia politi-
ca o ultra-politica negativa. Sempre in Salvo il nome Derrida
afferma: “La difficoltà del ‘senza’ si propaga in ciò che ancora
chiamiamo politica, morale e diritto i quali sono al contempo
minacciati e promessi all’apofasi. Prendete l’esempio della
democrazia, dell’idea di democrazia, della democrazia a venire
[…] Il suo cammino passa forse oggi, nel mondo, attraverso le
aporie della teologia negativa che abbiamo schematicamente
analizzato (SN, 108-109 [174]). È inevitabile che si instauri con
ciò un parallelo tra il nome della democrazia e il nome di Dio

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della teologia negativa o al limite, per riprendere una formula di


Derrida, di “un Dio che si decostruisce fin nella sua ipseità” (Vo
216 [222]). È lo stesso Derrida a mettere in rapporto i due nomi:
Dio e democrazia. “Tale esoterismo sembra strano per una
democrazia, persino per questa democrazia a venire che voi non
definite più di quanto l’apofasi non definisca Dio” (SN 109-110
[175]). E ancora: “La democrazia a venire sarà un dio a venire?
O più di uno? Sarà il nome a venire di un dio o della democra-
zia?” (Vo 113 [117]). Questo parallelo tra il nome di Dio e il
nome di democrazia è tanto più stringente se si pensa che la
temporalità della democrazia a venire è una temporalità che rin-
via, nella sua struttura, al MESSIANICO senza messianismo. La
scelta di parlare della democrazia attraverso il linguaggio del-
l’apofasi solleva però il problema – che più in generale vale per
la DECOSTRUZIONE stessa – del rapporto tra la democrazia e un
discorso attorno ad essa che sembra riservato a pochi.
Come può un discorso che parla in nome della democrazia,
come può la DECOSTRUZIONE essere un discorso riservato a
pochi? Si tratta di un’obiezione che è affidata a una delle voci
che compaiono in Salvo il nome: “Tale esoterismo sembra stra-
no per una democrazia a venire che voi non definite più di quan-
to l’apofasi non definisca Dio. Il suo a-venire sarebbe gelosa-
mente pensato, vigilato, appena insegnato da certuni. Molto
sospetto” (SN 109-110 [175]). È lo stesso Derrida in Stati cana-
glia a spiegare il senso dell’obiezione: “Questa voce intendeva
significare che non era questo il linguaggio più democratico,
cioè il più raccomandabile, per raccomandare la democrazia. Un
avvocato della democrazia avrebbe dovuto imparare a parlare al
popolo, a parlare democraticamente della democrazia” (Vo 121
[126]). Ora questa voce non può essere liquidata semplicemen-
te come tentazione populista cui la DECOSTRUZIONE dovrebbe
resistere. È Derrida stesso in qualche modo ad affermare che
occorre mantenere una doppia ingiunzione: “Comprendetemi, si
tratta di mantenere una doppia ingiunzione. Due desideri con-
correnti dividono la teologia apofatica, al bordo del non-deside-

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rio, intorno al chasma e al caos di chōra: quello di essere com-


presi da tutti (comunità, koine) e quello di custodire o di confi-
nare il segreto nei limiti molto stretti di coloro che l’intendono
bene, come segreto, e sono dunque capaci o degni di serbarlo. Il
segreto, non più che la democrazia o il segreto della democra-
zia, non deve, non può d’altronde essere affidato in eredità a
chiunque” (SN 110 [175]).

FUOCHI SEMANTICI: avvenire, evento, giustizia, impossibile,


performativo, politico, promessa, restanza, sovranità, teologia
negativa.

S.R.

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DIFFERAENZA
[DIFFÉRANCE]

La parola “différance” non esiste(va) nella lingua francese:


è un’invenzione di Jacques Derrida. Come un’emissione sonora
ad una frequenza troppo alta, sollecita i timpani del filosofo, che
non la può percepire se non come irritante. Addirittura uno scan-
dalo, visto che viene dall’interno dell’accademia a sconvolgerne
i rituali consolidati (e cioè da un giovane allievo di Jean
Hyppolite, cattedratico del Collège de France, primo traduttore
francese della Fenomenologia dello Spirito di Hegel).
In rapporto di omofonia con la parola “différence” – la dif-
ferenza sostantivata –, la terminazione in “-ance” può essere
colta solo attraverso la notazione grafica, segnalando così una
certa necessità del ricorso alla scrittura. Ma non è (solo) per rom-
pere i timpani del filosofo che Derrida (vi) introduce la différan-
ce: la “a” serve ad evidenziare l’irriducibile dimensione dinami-
ca della differenza. A questa, il filosofo tradizionale sarebbe
strutturalmente sordo, e di questa dinamica si tratta di rendere
conto, come della sordità che le si oppone (Ma I-XXV [5-26]).
La differaenza è la matrice della DECOSTRUZIONE derridiana,
la traccia della sua irriducibile originalità, la trama che si intesse
e si dipana in tutta la sua opera secondo un fascio di propagazio-
ne a cascata. Anche lì dove, alla lettera, non sarà più citata, per
Derrida si tratterà sempre di rilevare gli effetti destabilizzanti che
produce all’interno dell’ordine del discorso costituito. In quanto
questo si fonda ed erige in un sistema di opposizioni gerarchica-
mente orientato al privilegio dell’identità, di contro a tutto ciò

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che le si oppone: il presente di contro al divenire, lo stabile di


contro al mutevole, l’ideale di contro al sensibile, l’attivo di con-
tro al passivo, l’infinito di contro al finito...
Alla lettera – e con buona pace di chi s’illude di poter trac-
ciare un solco tra un primo Derrida grammatologo e un secondo
etico-politico – la DIFFERAENZA è ancora presente nel 2003, al
cuore della questione della democrazia a venire (DEMOCRAZIA):
“La democrazia è differenziale, essa è differaenza, rinvio e spa-
ziatura. È per questo che, lo ripeto, il motivo della spaziatura,
dell’intervallo o dello scarto, della traccia come scarto, del dive-
nire-spazio del tempo o del divenire-tempo dello spazio, gioca
un tale ruolo, a partire da Della grammatologia e in La diffe-
raenza” (Vo 63 [66]).

La differaenza impone di pensare che tutto ciò che è (pre-


sente) differisce da sé per essere se stesso, è in quanto in rappor-
to ad altro, dunque non è se non in questa relazione differenziale
all’alterità in generale. Bisogna dunque rilevare la relazione diffe-
renziale quale condizione di possibilità di ciò che la tradizione
ipostatizza in termini di opposizione: “Si potrebbero riprendere
così tutte le coppie di opposizioni sulle quali è costruita la filoso-
fia e di cui vive il nostro discorso per vedervi non l’opposizione
cancellarsi ma annunciarsi una necessità tale che uno dei termini
vi appaia come la differenza dell’altro, come l’altro differito nel-
l’economia dello stesso (l’intelligibile come differente dal sensi-
bile, come sensibile differito; il concetto come intuizione differi-
ta-differente; la cultura come natura differita-differente; tutti gli
altri della physis – techne, nomos, thesis, società, libertà, storia,
spirito, ecc. – come physis differente” (Ma 18 [46]).
Ne consegue che non vi è identità di per sé costituita, in se
stessa e a se stessa presente, indipendente dall’alterità in genera-
le, opposta all’altro in generale. In quanto irriducibile condizio-
ne di possibilità di tutto ciò che è presente, la differaenza rende
conto dell’impossibilità di risalire o pervenire ad una presenza
piena, assoluta, autonoma, indipendente e sovrana, rispetto

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all’alterità in generale, che la si declini in chiave archeologica


(fondamento) o teleologica (telos regolativo o idea speculativa),
che la si evochi in un orizzonte intuitivo, in uno puramente a
priori, o nella sintesi speculativa di entrambi gli orizzonti. In par-
ticolare, risulta impossibile descrivere la coscienza, nella forma
della presenza a sé, quale identità autonoma e indipendente, e
quindi quale sorgente del senso: “Si viene dunque a porre la pre-
senza – e particolarmente la coscienza, l’essere presso di sé della
coscienza – non più come la forma-matrice assoluta dell’essere
ma come una ‘determinazione’ e come un ‘effetto’. Determina-
zione o effetto all’interno di un sistema che non è più quello della
presenza ma quello della differaenza” (Ma 17 [45]).
Se la differaenza – il differire, l’essere altro – è l’irriducibi-
le condizione di possibilità di tutto ciò che si staglia nell’ordine
della presenza, allora deve essere intesa quale condizione di pos-
sibilità tanto dell’ente quanto dell’esperienza. E quindi quale
condizione dell’elaborazione dell’esperienza in configurazioni
dotate di senso: tanto della significazione semio-linguistica ordi-
naria quanto della produzione concettuale, delle oggettività idea-
li del sapere: “Perché il presente sia se stesso, bisogna che un
intervallo lo separi da ciò che non è tale, ma questo intervallo che
lo costituisce come presente deve anche, al tempo stesso, divide-
re il presente in se stesso, spartendo così, insieme al presente,
tutto ciò che si può pensare a partire da esso, cioè ogni ente, nella
nostra lingua metafisica, in particolare la sostanza o il soggetto.
Dato che questo intervallo si costituisce, si divide dinamicamen-
te, esso è ciò che si può chiamare spaziatura, divenire-spazio del
tempo o divenire-tempo dello spazio (temporeggiamento). Ed è
questa costituzione del presente, come sintesi ‘originaria’ e irri-
ducibilmente non semplice, dunque stricto sensu, non-originaria,
di marchi, di tracce di ritenzioni e protensioni (per riprodurre
qui, per analogia e provvisoriamente, un linguaggio fenomenolo-
gico e trascendentale che si rivelerà fra poco inadeguato) che io
propongo di chiamare archi-scrittura, archi-traccia o differaen-
za” (Ma 13 [40]).

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Per l’articolazione tra l’esperienza e l’elaborazione del


senso (tra pensiero ed essere in termini tradizionali) quale effet-
to della differaenza rinviamo alla voce ARCHI-SCRITTURA. Qui è
necessario evidenziare che con la differaenza non abbiamo a che
fare con un gioco di prestigio linguistico-concettuale: la diffe-
raenza permette di rendere conto di quel “differire da sé” in cui
già Hegel aveva riconosciuto la condizione irriducibile di tutto
ciò che si viene determinando nell’ordine del finito, e cioè nella
sfera della natura (che Hegel non a caso definiva “la sfera della
contraddizione irrisolta”). Non a caso, nel saggio La différance,
Derrida adduce quale giustificazione sufficiente della sua inven-
zione, la possibilità di tradurre una precisa locuzione hegeliana:
“differente Beziehung”. Nella Filosofia della natura del 1805
Hegel afferma (contro Kant) che spazio e tempo si determinano
in “rapporto differenziante”, differenziandosi l’uno dall’altro:
nessuno dei due è di per sé determinato, indipendentemente dal-
l’altro, ma solo in questo rapporto di differenziazione reciproca.
La relazione differenziale è la loro irriducibile condizione di pos-
sibilità. E dato che tutto ciò che si staglia nella sfera della natu-
ra, nell’ordine del finito, e quindi la stessa esperienza umana, è
determinato in questo intreccio spazio-temporale, allora la rela-
zione differenziale, il differire da sé, l’essere altro, ne è la condi-
zione. La differaenza, in quanto divenire spazio del tempo, dive-
nire tempo dello spazio, traduce alla perfezione questa dinamica
già riconosciuta da Hegel. La differaenza però, non serve solo a
tradurre questa intuizione hegeliana, ma a rendere conto della
sua irriducibilità, della propagazione necessaria ed inarrestabile
dei suoi effetti al di là della sfera della finitezza naturale nella
quale la relega Hegel (SM 60 [43-44]; 245 [194]).
La tradizione maggiore del pensiero occidentale infatti, si
è fondata ed eretta, con le sue istituzioni, sulla rimozione della
dinamica della differenza quale condizione di possibilità di tutto
ciò che è. Esemplarmente proprio in Hegel: la dialettica specu-
lativa può essere considerata come la macchina più efficace che

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la tradizione abbia mai concepito per suturare, su di un piano


ideale (il regno dello spirito), la ferita che la differenza infligge
al desiderio di un’identità sana e salva, intatta e pura, immune
da ogni possibile contaminazione con l’alterità. Nella logica
hegeliana, la dinamica della differenza viene stabilizzata in
opposizione con l’identità e superata attraverso la negazione
determinante, opera della contraddizione. E tuttavia la differen-
za non può essere pensata negli stessi termini e sullo stesso
piano dell’identità senza rimuovere la sua irriducibile dinamica
generativa.
Al contrario, per Derrida è necessario, pur restando fedele
ad Hegel, risalire alla necessità stessa del movimento dialettico
quale condizione dell’esperienza, ben al di qua delle determina-
zioni dello Spirito Soggettivo di Hegel, e cioè fino a riformulare
le condizioni della genesi del vivente che, ad un certo stadio, si
costituisce come coscienza: “Perché se si pensa conveniente-
mente l’orizzonte della dialettica – al di là di un hegelismo con-
venzionale -, forse si capisce che essa è il movimento indefinito
della finitezza, dell’unità della vita e della morte, della differen-
za, della ripetizione originaria” (ED 364 [320]).
Solo in questa prospettiva è possibile rilevare la differaen-
za nella sua portata irriducibile e illimitata, e cioè quale condi-
zione di possibilità di quell’essere vivente che si organizza come
coscienza, dunque alle soglie dell’articolazione differenziale del
vivente e del non-vivente, nella necessità stessa che spinge il
vivente a tale organizzazione (Gr 95 [96-97]).
Hegel, che pur aveva aperto questa strada, l’aveva percorsa
seguendo il faro del Sapere Assoluto, della coscienza chiara a se
stessa, dell’elevazione dello spirito al di sopra della natura,
occultando quanto egli stesso aveva potuto rilevare: l’elemento
notturno, non-cosciente, dal quale emerge l’esperienza della
coscienza (Gl passim).

Su questa strada è necessario passare per Freud (Gr 98 [99];


407 [381-382]), e certamente in compagnia di Nietzsche (Gr 103

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[103]). Non a caso questi tre nomi, insieme a quello di Lévinas,


ritornano come punti di riferimento in La differaenza (Ma 14-15
[41-42]; 18-22 [46-49]; 29 [57]).
Bisogna passare per Freud e la scena della scrittura, pub-
blicato immediatamente dopo la pubblicazione su rivista di Della
grammatologia ma significativamente presente nella tramatura
della versione definitiva (Gr 67 [71]; 103 [103]): “Che il presen-
te in generale non sia originario ma ricostituito, che non sia la
forma assoluta, pienamente viva e costituente dell’esperienza,
che non ci sia una purezza del presente vivente, è questo il tema
formidabile per la storia della metafisica, che Freud ci invita a
pensare attraverso una concettualità inadeguata alla cosa stessa.
Questo pensiero è indubbiamente il solo che non trovi il suo
esaurimento nella metafisica o nella scienza” (ED 314 [274]).
In Freud e la scena della scrittura, Derrida si occupa delle
ricerche che il fondatore della psicoanalisi dedica, lungo l’intero
arco della sua opera, alla descrizione del sistema psichico. Per
Freud la memoria costituisce il fenomeno dal quale prendere le
mosse. La possibilità della memoria va però individuata nell’ar-
ticolazione tra il movimento ritenzionale incosciente e la memo-
ria cosciente. Derrida rileva che in tali descrizioni si impone il
ricorso al modello della traccia, tanto che il sistema psichico può
essere descritto in termini di “scrittura”, “si potrebbe dire di
scrittura trascendentale nel caso che, con Husserl, si vedesse
nella psiche una regione del mondo. Ma poiché si tratta del caso
di Freud che vuole rispettare nello stesso tempo l’essere nel-
mondo dello psichico, il suo essere locale, e l’originalità della
sua topologia, irriducibile ad ogni intra-mondanità ordinaria,
forse è necessario pensare che quello che descriviamo qui come
lavoro della scrittura cancella la differenza trascendentale tra ori-
gine del mondo e essere nel mondo. La cancella mentre la pro-
duce” (ED 315 [274]).
L’indagine freudiana rispetta il principio metodico della
ricerca trascendentale, la porta però ad una radicalità alla quale
la fenomenologia per principio non può arrivare: la stratificazio-

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ne inconscia del movimento ritenzionale sulla quale si articola la


memoria cosciente. Questo perché Freud descrive le condizioni
di possibilità del sistema psichico in funzione della possibilità
della vita stessa che si organizza un sistema psichico. L’indagine
di Freud, nella lettura di Derrida, porta dunque al punto in cui la
differenza tra empirico e trascendentale si mostra come una pos-
sibilità seconda e derivata (pensiero cosciente/oggettività ideale)
per un sistema psichico che si è già organizzato attraverso il
movimento della traccia ritenzionale per rispondere alla neces-
sità della vita - non di questa o quella necessità data di fatto - e
cioè per essere se stesso. Allo stesso modo, per Derrida, la diffe-
renza ontico-ontologica di Heidegger è una derivazione “intra-
metafisica” della differaenza (Gr 38 [44-45]; Ma 23 [55-56]).
In questa prospettiva Derrida rileva che, per Freud, la trac-
cia che produce il movimento ritenzionale attraverso il quale si
forma il sistema psichico, è una traccia puramente differenziale.
È la traccia delle differenze di forza tra l’intensità dell’impres-
sione che occorre nel flusso percettivo e la resistenza che le
oppone l’organismo per garantirsi la sopravvivenza. A questo
livello di profondità, della presenza del dato percettivo non c’è
traccia nel movimento ritenzionale, o meglio c’è solo la traccia
delle differenze di intensità che le impressioni lasciano nel siste-
ma: “La memoria non è dunque una proprietà dello psichismo tra
le altre, è l’essenza stessa dello psichismo. Resistenza e perciò
stesso apertura all’effrazione della traccia. [...]. La traccia come
memoria non è una facilitazione pura che sia sempre possibile
recuperare come semplice presenza, è la differenza inafferrabile
e invisibile tra le facilitazioni. Sappiamo quindi già che la vita
psichica non è la trasparenza del senso né l’opacità della forza,
ma la differenza nel lavoro delle forze. Nietzsche diceva questo”
(ED 290 [260]; Ma 45-46 [18-19]).
Fin dalla sua prima stratificazione inconscia, la traccia si
forma secondo la necessità della sua iterazione: si riferisce al
dato percettivo differenziandosi da questo, recando il marchio di
questa dif-ferenza; solo così può differirne la presenza, e cioè

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permettere una referenza al dato in un’altra occorrenza e quindi


in assenza del dato stesso. Solo così, nell’interesse della vita stes-
sa, si costituisce qualcosa come la memoria: “Le tracce non pro-
ducono dunque lo spazio della loro iscrizione se non si danno il
periodo della loro cancellazione. Fin dall’origine, nel ‘presente’
della loro prima impressione, sono costituite dalla duplice forza
di ripetizione e cancellazione, di leggibilità e di illeggibilità. [...]
la ‘percezione’, il primo rapporto della vita al suo altro, aveva già
da sempre preparato la rappresentazione” (ED 334 [292]).
E tuttavia, una volta riconosciuta la matrice inconscia della
dinamica della traccia ritenzionale, per Derrida è necessario rile-
varne alcune conseguenze inaggirabili: tra inconscio e coscienza
non c’è rapporto di traduzione trasparente, la memoria, nella riat-
tivazione cosciente della traccia, non si muove in un elemento
continuo e omogeneo ed in vista di una qualche presenza da
qualche parte afferrabile. Bisogna quindi riconoscere l’impossi-
bilità di ricostruire secondo una linearità continua ed omogenea
la concatenazione delle tracce ritenzionali. Bisogna piuttosto
ammettere che la traccia presente non è necessariamente ed
esclusivamente l’effetto di una riproduzione della traccia imme-
diatamente passata, secondo una temporalità lineare e continua.
La riproduzione attuale della traccia, è piuttosto ricostruzione a
posteriori, effetto locale delle differenze di forza che sovradeter-
minano la ritenzione e la distribuzione delle tracce che costitui-
scono l’archivio mobile e stratificato della singolarità vivente
umana, prima della sua costituzione quale coscienza a se stessa
presente e quindi della temporalità lineare che le è propria: “Il
testo cosciente non è dunque una trascrizione poiché non c’è
stato da trasporre, da trasferire un testo presente altrove sotto l’a-
spetto dell’inconscio. Perché il valore di presenza può anche
pericolosamente contaminare il concetto d’inconscio. Dunque
non c’è una verità inconscia da ritrovare in quanto sarebbe scrit-
ta altrove. Non c’è testo scritto e presente altrove, che darebbe
luogo senza esserne modificato, ad un lavoro e ad una tempora-
lizzazione (quest’ultima se si sta alla lettera freudiana appartiene

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alla coscienza) che sarebbero esterni ad esso, fluttuanti sulla sua


superficie. Non c’è testo presente in generale e non c’è neppure
testo presente-passato, un testo passato come essente stato-pre-
sente. Il testo non è pensabile nella forma, originaria o modifi-
cata, della presenza. Il testo inconscio è già intessuto di tracce
pure, di differenze in cui si uniscono il senso e la forza, testo che
non è presente in nessun posto, costituito da archivi che sono già
da sempre delle trascrizioni. Degli stampi originari. Tutto comin-
cia con la riproduzione. Già da sempre, cioè depositi di un senso
che non è mai stato presente, il cui presente significato è sempre
ricostituito a posteriori, nachträglich, in un secondo momento, in
modo supplementare: nachträglich significa anche supplementa-
re” (ED 313 [273]; Gr 98 [99]). È a partire da qui che va intesa
la connotazione della differaenza quale ritardo, rinvio, differi-
mento temporale (Ma 19-22 [46-49]).

A questo punto bisogna compiere l’ultimo passo verso il


fondo senza fondo della differaenza, ancora con Freud ma già al
di là o meglio al di qua della traccia freudiana: per Freud il siste-
ma psichico si organizza secondo la dinamica della traccia diffe-
renziale per difendere la possibilità della vita: per difendersi
dalla possibilità della presenza di ciò che la minaccia. Per
Derrida bisogna dunque pensare la differaenza quale condizione
irriducibile dell’economia della morte attraverso la quale si
costituisce il vivente in quanto vivente: “Indubbiamente la vita si
difende attraverso la ripetizione, la traccia, la differaenza. Ma
bisogna intendersi su questa formulazione; non c’è una vita pre-
sente in primo luogo, che in seguito arriva a proteggersi, a rin-
viarsi, a riservarsi nella differaenza. Quest’ultima costituisce
l’essenza della vita. O meglio: la differaenza, non essendo un’es-
senza, non essendo nulla, non è la vita se l’essere è determinato
come ousia, presenza, essenza/esistenza, sostanza o soggetto.
Bisogna pensare la vita come traccia prima di determinare l’es-
sere come presenza. È la sola condizione per poter dire che la
vita è la morte, che la ripetizione e l’al di là del principio di pia-

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cere sono originari e congeniti a ciò stesso che essi trasgredisco-


no” (ED 302 [262]).
La différance rinvia a questo passaggio quale snodo decisi-
vo e irriducibile della sua tramatura, ma anche come “il punto
della più grande oscurità”, “l’enigma stesso della differaenza”
(Ma 19-20 [47]). Di fronte a questa oscurità ci pare si arrestino,
deviino o sprofondino le interpretazioni correnti dell’opera di
Jacques Derrida. Per sciogliere tale enigma ci pare necessario
compiere un ultimo passo che, attraverso Freud, ci permetterà di
intendere, al di là di Freud, la differaenza quale condizione della
vita. Ci pare quindi necessario rinviare la differaenza per inten-
derla risuonare nella sua stessa oscurità, alla voce LA VITA LA
MORTE. Qui ci limitiamo ad osservare che se un desiderio di iden-
tità pura anima e struttura la nostra tradizione, se, in questa tra-
dizione, la differenza è vissuta e rimossa come la ferita della fini-
tezza, che tuttavia è e resta la condizione irriducibile della sin-
golarità vivente umana, allora, da un lato, bisogna riconoscere
che si tratta di una rimozione per noi necessariamente precaria se
non impossibile; dall’altro, bisogna cominciare a rendere conto
degli effetti che la differenza produce, non eluderli come una
minaccia (per la costituzione dell’identità psichica, sociale, poli-
tica, ecc.) ma elaborarli in quanto condizioni della nostra esi-
stenza (psichica, sociale, politica, ecc.). In definitiva, bisogna
riconoscere che se la differaenza è la condizione irriducibile
della nostra esistenza, non solo della nostra morte ma, indiffe-
rentemente, della nostra vita, allora la minaccia più grave, la
minaccia assoluta, viene dalla sua rimozione (SM 224-225 [178-
179]).

FUOCHI SEMANTICI: alterità, archivio, economia della morte, ite-


rabilità, metafisica, rinvio, ritardo, spaziatura, supplemento,
testo, traccia.

F.V.

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DONARE
[DONNER]

Se è innegabile considerare Donare il tempo. 1. La moneta


falsa come l’opera che, nel 1991, ha catalizzato l’attenzione
della critica filosofica intorno alla questione del donare (e del
vasto e frastagliato campo semantico che vi si connette), è altre-
sì incontestabile constatare che proprio tale questione ha costan-
temente accompagnato il pensiero di Derrida e, dunque, è
necessario ripercorrerne le coordinate, soprattutto per rimettere
in discussione il principio di una periodizzazione della riflessio-
ne derridiana che vorrebbe separare la rilettura del progetto
fenomenologico degli esordi dalla curvatura verso le questioni
etico-politiche che, invece, avrebbero scandito un non meglio
precisato “secondo momento” di tale riflessione.
Nell’Avvertenza che precede Donare il tempo, lo stesso
Derrida, dopo aver sommariamente elencato i “motivi indisso-
ciabili” votati alla questione del dono (“speculazione e destina-
zione, promessa, sacrificio, ‘sì’, affermazione originaria, even-
to, invenzione, venuta, ‘vieni’”), accenna alla lunga storia
dell’“insieme di questioni che si organizzavano da molto tempo
attorno a quella del dono” (DT 9 [1]), e che avevano trovato una
prima occasione di sviluppo durante un seminario svolto presso
l’École normale supérieure nel 1977-78 e l’anno successivo a
Yale: si tratta degli anni in cui i seminari di Derrida si occupano
di letteratura, di traduzione, del problema della Cosa declinata a
partire da Heidegger, Blanchot, Freud, ed è dunque importante
tenere presente non soltanto tale orizzonte, ma anche le ulterio-

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ri indicazioni che – sempre nell’Avvertenza – sagomano il breve


spazio di una nota in cui si dichiara che unitamente ai temi del
“proprio”, dell’“economia”, della “traccia”, del “nome” e
soprattutto del “resto”, in quasi tutti i testi degli anni ’60 e ’70 -
ed in particolare, a detta dell’autore, in opere come Glas (1974)
e La verità in pittura (1978) – è possibile rintracciare il plesso
teorico in cui compaiono il dono e il donare.
Una mera ricognizione dei loci in cui si sviluppano le que-
stioni legate al dono rischia però di dispiegarsi nell’orizzontalità
di una descrizione diacronica che mette da parte la verticalità
sincronica che le lega vicendevolmente ed esautora o neutraliz-
za la portata anti-ideologica (e/o anti-metafisica) di cui sono
sintomo ed indice: il donare non costituisce, in senso proprio, né
un’urbanizzazione, né un dispositivo e nemmeno un paradigma
che permetta di cogliere un presunto “nocciolo” del percorso
derridiano, ma indica piuttosto il solco o l’impronta in cui tale
percorso si scopre ricondotto al punto di partenza, come se – e
al donare pertiene massimamente non tanto la risorsa del “come
se” kantiano, quanto la “grammatica del condizionale […] per
annunciare l’incondizionato, l’eventuale o il possibile evento
dell’incondizionato impossibile, il tutt’altro” (UC 76 [62]) –
rappresentasse (al di fuori di ogni rappresentazione) il punto cri-
tico (la crepa?) che ne autorizza la verifica e, insieme, vi appar-
tiene come suo costitutivo momento.
In questo senso la lettura di Hegel e quella di Husserl e
Heidegger illustrano con estrema precisione l’impossibilità di
un’identificazione speculativa o fenomenologica dell’evento
dono o, meglio, mostrano come il dono e il donare indicizzino
quell’impossibile che insiste nel pensiero; già ne La differaenza
(l968), infatti, il “punto della massima oscurità, l’enigma stesso
della differaenza” si produce come “deviazione economica”
della presenza e, simultaneamente, “come rapporto alla presen-
za impossibile, come dispendio [dépense] senza riserva, come
perdita irreparabile della presenza, usura irreversibile dell’ener-
gia, addirittura come pulsione di morte e rapporto al tutt’altro

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che in apparenza interrompe ogni economia” (Ma 20 [47-48]),


mentre in Donare il tempo tale deviazione si dispiegherà come
contestazione della metafisica del presente, e cioè del segno, del
significante, del significato o del valore. Se l’oikos-nomia, nella
tradizione filosofica, viene considerata come l’orizzonte tra-
scendentale della donazione, sarà necessario verificarne gli
assetti a partire dalla testualità “archi-originaria” in cui prende
senso, perché “non c’è problematica del dono se non a partire da
una problematica conseguente della traccia e del testo” (DT 130
[102]) e, dunque, la semplice contrapposizione tra dono ed eco-
nomia non è in grado di ricapitolare l’intreccio semantico di cui
il primo è effetto testuale (sia che si tratti di un precipitato onto-
teologicamente determinato, sia che si tratti del correlato del-
l’intuizione fenomenologica); il dono può essere detto an-eco-
nomico (e non anti-economico) solo se gli viene riconosciuta la
disappropriante “appartenenza” a quella logica dello scambio (o
logica tout-court) di cui smargina i bordi e di cui, non casual-
mente, anche la tradizione abramica (ebraismo, cristianesimo,
islam) rende testimonianza attraverso l’idea (o l’ideale) di una
“incalcolabile” ricompensa, o “ritorno”, o “restituzione” di
quanto donato. Lo strutturale rinviarsi di dono e sacrificio illu-
stra potentemente il paradigma onto-teologico all’opera nell’e-
conomia indecidibile e segreta (un’economia segreta del SEGRE-
TO) del dono: dalle analisi compiute a partire da Hegel lungo
Glas, fino alle letture di Patočka e Kierkegaard di Donare la
morte, il legame dono-sacrificio (quello “interrotto” di Isacco,
quello “compiuto” di Cristo) sollecita le determinazioni storiche
per verificare la logica economica che le sostiene e che, da ulti-
mo, si arresta di fronte ad una irriducibile “violenza” il cui
“effetto”, come si vedrà, consiste essenzialmente nella “follia” e
nell’“oblio”, vale a dire nei “paradossi strutturali” che mettono
in movimento, facendoli slittare, il piano dell’economia “gene-
rale” e quello dell’economia “ristretta”.

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L’esposizione all’alterità implicata nella dinamica donare-


prendere comporta una violenza che non è accidentale o contin-
gente: “una tale violenza può essere considerata come la condi-
zione stessa del dono, la sua impurità costitutiva, dato che il
dono è coinvolto in un movimento di circolazione, destinato al
riconoscimento, alla conservazione, all’indebitamento, al credi-
to, ma anche dato che, al di là del circolo stesso, ha il dovere di
essere eccessivo e quindi sorprendente. La violenza sembra irri-
ducibile, nel circolo e al di fuori di esso, per ripeterlo o per
interromperlo” (DT 186 [147]).
E sarà proprio in questa violenza (che non può essere con-
siderata, in senso stretto, originaria, perché ad implodere, qui, è
proprio l’idea di origine) e, soprattutto, negli “effetti” da essa
inscindibili (perché non c’è nemmeno un’economia “causa-
effetto”), che andranno ricercati i primi momenti del percorso
derridiano. In un testo fondamentale apparso nel 1967 e dedica-
to alla lettura di Hegel compiuta da Georges Bataille, Derrida
pone le basi per la riconsiderazione dell’idea di “economia” che,
nel corso del tempo, investirà l’ambito psicoanalitico (l’econo-
mia pulsionale di Freud), quello antropologico (essenzialmente
Mauss e Benveniste), quello letterario (da Sollers a Baudelaire,
da Genet a Joyce), quello “teologico” (dalla teologia mistica di
Dionigi o Silesius, a Michel de Certeau) e quello etico-politico
(in Spettri di Marx la decostruzione si annuncia a partire dal-
l’indecostruibilità della giustizia, del dono e del loro intreccio):
nel dramma che “è, prima di tutto testuale”, si gioca infatti l’im-
presa batailleana di contestazione del “progetto servile di con-
servare la vita – il fantasma della vita – nella presenza” (ED 390
[343]) che sarebbe all’opera nel sistema hegeliano e, in partico-
lare, nella nozione di Aufhebung in cui il discorso “si sfiata nel
riappropriarsi ogni negatività, nel trasformare la messa in gioco
in investimento, per ammortizzare la dépense assoluta, per dare
un senso alla morte e, nello stesso tempo, per rendersi cieco al
senza-fondo del non-senso a cui attinge e in cui si esaurisce il
fondo del senso” (ED 378 [333]).

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Il passaggio dall’economia ristretta all’economia generale


che si consuma nella lettura batailleana di Hegel mette dunque al
proprio centro l’istanza di una “consumazione” che se, da un
lato, costituisce “la macchia cieca dell’hegelismo”, dall’altro non
può fare a meno di assumere l’intero paradigma speculativo
hegeliano per farlo slittare verso una non-concettualità che è, let-
teralmente, “insostenibile” (ovvero intrinsecamente aporetica: la
non-concettualità della “consumazione” non deve dar luogo a
“resti”, ma solo a partire da “resti” insussumibili si può parlare
di non-concettualità) e che, non di meno, apre un varco al di là
dell’orizzonte del sapere assoluto: la scrittura di Bataille, che si
colloca al di là del sistema di opposizioni (positivo/negativo,
senso/non-senso, scambio economico/dépense, e così di seguito)
su cui si è costruita l’economia del senso, si espone all’ecceden-
za che sfonda la circolarità delle significazioni e si consegna ad
una non- pertinenza in cui vanno a fondo le istanze della riserva,
della produzione, del telos, del riconoscimento, del sapere.

Non è casuale che la traccia di una scrittura eteroclita


rispetto alla “certezza di sé e alla sicurezza del concetto” affio-
ri a partire da Hegel: è infatti – come mostra Glas (1974) – nel
movimento dialettico del costituirsi del senso che è possibile
rinvenire i resti insussumibili, gli scarti inassimilabili, le scorie
del discorso che, attraverso il loro resistere, costituiscono la rete
ultra-semantica che affetta e intacca le riflessioni sul dono.
Se si presta attenzione all’opposizione metafisica tra
“scambio” e “dono” è possibile verificare come già nella dialet-
tica hegeliana “la donazione del dono si intende qui prima del
per-sé, prima di ogni soggettività e di ogni attività”, e dunque “il
dono, la donazione del dono, il dono puro non si lascia pensare
dalla dialettica a cui tuttavia dà luogo” (Gl 271 [1102]): gli indi-
ci che “in-determinano” il dono (incalcolabile, indecidibile,
impossibile, incondizionale), nei quali il prefisso negativo “in”
vorrebbe indicarne la sottrazione all’ordine di qualsivoglia for-
malizzazione, mostrano altresì che, proprio riguardo al dono, si

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tratta di pensarne anzitutto la “strizione” [striction], vale a dire


il movimento economico che esso inaugura. Il dono, al pari
della “strizione” che ne è, in un certo senso, la matrice, è dun-
que “in posizione di trans-categoria trascendentale, trascenden-
tale del trascendentale” (Gl 272 [1106]): considerato come
“anti-economico”, il dono esibisce la potenza di un legame che
opera, simultaneamente, dentro e fuori l’ordine del pensiero, ed
anzi inaugura il movimento stesso del pensiero come processo
in cui l’originaria indeterminatezza donandosi/determinandosi
deve potersi consumare nel suo stesso procedere (secondo una
necessità che Derrida chiama il “fatum del dono” e che proprio
perché “giunge a comprimere l’energia folle del dono, quanto
provoca è forzatamente un contro-dono, uno scambio, nello spa-
zio del debito”, Gl 270 [1098]).
Una consumazione che si produce come incendio (o, asse-
condando la traduzione derridiana dell’Opfer di Hegel “brucia-
tutto”/“olocausto/holos-caustos”), ovvero come follia che azze-
ra ogni referenza semantica (compresa quella che potrebbe attri-
buire un senso alla follia) e che concerne “un momento in cui
questa follia comincia a bruciare la parola o lo stesso senso
‘dono’ e a disseminarne senza ritorno le ceneri così come i ter-
mini o i germi” (DT 68 [51]): l’opposizione dono-scambio
(figura dell’insieme di opposizioni ontologiche) è così travolta
da una follia che “impegna la storia dell’essere ma non le appar-
tiene” (Gl 270 [1098]), ed è per questo che l’enigmatica abissa-
lità del donare non garantirà il troppo semplice rovesciamento
tra “donare” e “essere”, quanto il suo disseminarsi nell’impre-
vedibilità di un “colpo di dono” [coup de don] il cui effetto sarà
la storia stessa del pensiero, per cui “se si può parlare di dono
nella lingua della filosofia o della filosofia della religione, si
deve dire che l’olocausto, il dono puro, […] si trattengono
donandosi, non fanno mai altro che scambiarsi secondo l’anello
circolare. Dono per sé” (Gl 271 [1102]).
Preso nel circolo dell’iterabilità/alterazione, dunque, il
dono non si contrappone allo scambio e non rappresenta il rove-

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scio dell’economico, ma “ri-presenta” la condizione di possibi-


lità/impossibilità dello scambio e dell’economico i quali, a loro
volta, possono sussistere solo se iscritti da sempre in quella con-
sumazione di cui interrompono l’accadere proprio perché la de-
terminano temporalizzandola e sottomettendola alla legge –
tutta metafisica – della circolarità “dare-ricevere-ricambiare”.
La catena semantica che si genera intorno al donare mette
anzitutto in discussione “il vettore che si potrebbe denominare il
processo di propriazione (appropriazione, espropriazione,
presa, presa di possesso, dono e scambio, padronanza, servitù,
ecc.)… [che] organizza la totalità del processo di linguaggio o
di scambio simbolico in generale, ivi compresi, perciò, tutti gli
enunciati ontologici” (Ep 108, 110; [100, 103]), e dunque sarà
possibile interrogare il dono e il donare solo abbandonando una
sua supposta essenza, oppure uscendo dalla cornice di un’onto-
logia (magari debole o semplice), perché non si tratta di partire
da un “dato” che consentirebbe il movimento a ritroso verso
un’origine, quanto di muoversi intorno e dentro gli “effetti” del
dono che sono sempre in atto e, per questo, inafferrabili o
comunque inscindibili da quanto al dono sembrerebbe contrap-
porsi (scambio, economia, utile, ecc.).

Anche riguardo al dono è all’opera la “logica” o il “gioco”


della DIFFERAENZA, la produzione di effetti differenziali non pre-
ceduti (trascendentalmente o ontologicamente) da una “presen-
za” o da un “presente” (noetico), ed è per questo che, al pari di
“riserva”, “archi-scrittura”, “supplemento”, “pharmakon”, è pos-
sibile ricondurlo a quella “catena nella quale la differaenza si
lascia sottomettere ad un certo numero di sostituzioni non sino-
nimiche, a seconda della necessità del contesto” (Ma 13 [40]):
qualunque sia il posto occupato dal dono nella catena “non sino-
nimica” (precisazione fondamentale che permette alla differaen-
za e alla decostruzione di determinarsi come paradossale logica
della singolarità), occorre riconoscere come il campo tensionale
di forze che mette in gioco non sia riconducibile ad un ordine

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simbolico (il quale, come viene sottolineato in DT 26 [15], “apre


e costituisce l’ordine dello scambio e del debito, la legge o l’or-
dine della circolazione in cui il dono si annulla”) che ne neutra-
lizzerebbe l’irrompere riconducendolo in un quadro categoriale,
ma ad un ordine trans-simbolico in cui anche il “non-ritorno” che
permette al dono di differenziarsi dallo scambio è inscritto nella
“ripetizione” che struttura la traccia. In questo senso, allora, il
dono è sempre, in un certo senso, spettrale, vale a dire che il suo
effettivo, storico accadere, è già da sempre (pre)determinato
dalle dinamiche spazio-temporali della revenance: come sottoli-
neato in Glas, “il prototipo del dono è dunque l’anello, la vera
nuziale o il collier, la catena. L’anello, la catena dell’anniversario
anulare non è più un dono tra gli altri, esso libera il dono stesso,
il dono stesso di sé (Selbst) per sé, il presente per sé. Il dono
nomina quanto si fa presente” (Gl 271 [1102]).
Il “presente” del dono (sia che si tratti dell’ordine dello
“spaziamento”, sia di quello del “temporeggiamento”) è struttu-
ralmente ossessionato dal “ritorno” spettrale che se neutralizza
l’evento (la novità dell’evento), non di meno indica l’impossibi-
le inscrizione dell’evento in quella struttura di ripetizione che è
la condizione di possibilità del “presente” (qui nel duplice senso
di estasi temporale e di dono): il dono, possibile e impossibile,
detta le condizioni del suo evenire (ed è dunque, almeno in
apparenza, condizione “quasi trascendentale” di possibilità) e
sbarra tale condizioni, le “impossibilizza” senza annullarne gli
effetti. Da qui l’intreccio semantico tra dono, tempo ed evento
che governa la scrittura di Donare il tempo e che situa la posi-
zione derridiana in uno spazio teorico inassimilabile alla rifles-
sione socio-antropologica, fenomenologica, psicoanalitica e
metafisica.
La necessità di “separarsi” dalla tradizione metafisica e
dall’insieme di antropologie che hanno veicolato il pensiero del
dono, si compie a partire dall’“accecante evidenza” di un assio-
ma che travaglia ogni indicizzazione del dono: “non c’è dono, se
ce n’è, che in ciò che interrompe il sistema o il simbolo, in una

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partizione senza ritorno e senza ripartizione, senza l’essere-con-


sé del dono-contro-dono” (DT 25-26 [15]).
Prima ancora che di un’eventuale “logica” del dono, biso-
gnerà occuparsi del carattere “assiomatico” dell’elaborazione
derridiana, perché è proprio nell’apparente incontrovertibilità
delle descrizioni fenomenologiche che si gioca la sfida che que-
sto pone al pensiero: l’evidenza delle descrizioni (su cui, a parti-
re da Mauss, si è costituito il sapere antropologico sul dono) si
rovescia nell’impossibilità di una descrizione, perché il dono non
può essere assunto quale simbolo, segno, significante, dispositi-
vo, di un sistema (politico, economico, teologico). Il linguaggio
è, in questo senso, il primo sistema significante che, nell’impos-
sibile “cont(r)atto” col dono, assiste al proprio disfarsi: “se per
esempio il dono fosse impossibile, il nome ‘dono’, ciò che il lin-
guista o il grammatico crede di riconoscere come un nome, non
sarebbe un nome. Per lo meno non nominerebbe ciò che si crede
nomini, cioè l’unità di un senso che sarebbe quello del dono. A
meno che il dono sia l’impossibile ma non l’innominabile, né
l’impensabile, e in questo scarto tra l’impossibile e il pensabile
si apra la dimensione in cui c’è dono” (DT 22 [12]).
Del dono, dunque, si può parlare sempre e solo a condizio-
ne di riconoscere che ogni discorso “non nominerebbe ciò che si
crede nomini”: insuperabile aporia in cui la nominazione (com-
preso, ovviamente, l’orizzonte teorico a cui appartiene e in cui si
situano la narrazione, la storia, la descrizione) viene, per così
dire, “colpita” dal dono che ne ridiscute la strutturale economia,
sottraendola alla presenza fenomenica o all’intenzionalità del
voler-dire, per trasformarla, in senso stretto, nella nominazione
dell’innominabile. Il dono, dunque, è il nome dell’impossibile
che proprio “in ragione” dell’annullamento che produce
nell’“atto” del suo accadere (nell’istante già ordinato alla sintesi
temporalizzatrice che annulla l’istante mentre accade), “deve”
essere nominato: nel “dovere” del nome, del dare il nome a quan-
to, da ultimo, si sottrae al potere della nominazione, è forse rico-
noscibile l’avanzare di una LEGGE che obbliga impedendo e

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impedisce obbligando, secondo la logica del double bind che


proprio nel dono (nell’economia che “mette in circolo”) ritrova
la sua “paradossale” esemplarità. Nella legge del dono, del dono
impossibile e dell’impossibile (come) dono, Derrida lavora su
quanto chiama “una sorta di illusione trascendentale del dono”
(DT 46 [32]) e che, in un certo senso, può essere assunta come la
matrice della questione (del) trascendentale (sia kantiano, sia
husserliano) che agita e inquieta tutto il percorso derridiano, per-
ché se “questo scarto tra, da una parte, il pensiero, il linguaggio
o il desiderio e, dall’altra parte, la conoscenza, la filosofia, la
scienza, l’ordine della presenza, è anche uno scarto tra il dono e
l’economia” (DT, 46 [32]), allora l’implicazione disgiuntiva tra
dono ed economia aprirà lo spazio/scarto in cui la storia del dono
(la storia come dono, come storia del dono, come irruzione o
interruzione del dono, come oblio del dono, come follia del
dono, ecc.) mostrerà, proprio attraverso i suoi incalcolabili effet-
ti, che parlare del dono è possibile solo se si dichiara in-consi-
stente il parlar(n)e, vale a dire solo se si abradono i contorni che
permettono ad una storia di accadere e di essere raccontata. In
altri termini, nell’“eventualità del dono” è possibile riconoscere
solo “principi di disordine, cioè principi senza principio” (DT
157 [123]): sia il dono, sia l’evento (mai scindibili e accomunati
dall’incondizionatezza del loro evenire) si intrecciano nel para-
dosso che consiste nel mostrare la necessaria relazione tra “la
fortuna, il caso, l’alea, la tyche” che perturba, lacerandolo, l’or-
dine della narrazione, e “l’istanza donatrice animata da un voler-
donare e innanzitutto dal voler-dire, dall’intenzione-di-donare al
dono il suo senso di dono” (DT 157 [123]). Al pari dell’evento di
cui - più e prima ancora che essere annuncio – è irruzione non
anticipata o anticipabile, il dono “sarebbe ciò che non obbedisce
al principio di ragione: è, deve essere, ha il dovere di essere senza
ragione, senza perché e senza fondamento” (DT 197 [156]): il
legame tra dono e LETTERATURA, ovvero tra ordini an-economici
che rispondono soltanto alle e delle leggi che si “donano” da se
stessi, senza fare appello a nessuna eteronomia metafisica

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(logos), o politica (nomos), o teologica (Dio), è, per questo, un


legame da sempre e per sempre segreto, stretto tra l’oblio e la fol-
lia che sono aspetti di una temporalità indeterminabile o non
riconducibile ad un soggetto cartesianamente inteso: come
mostrano sia La moneta falsa di Baudelaire, sia La lettera ruba-
ta di Poe (che ha rappresentato l’occasione di un problematico
scambio con Lacan intorno alle questioni del significante e della
“destinerranza” [destinerrance] che sono anche, in un certo
senso, modulazioni degli “effetti di dono”), il dono non costitui-
sce il tema, l’argomento, la “trama” dei racconti, quanto piutto-
sto il consumarsi della scrittura nel tempo del suo stesso produr-
si, l’annullamento dell’economia che, strutturalmente, annoda
“circolarmente” autore, narratore, protagonista, lettore.
L’opposizione husserliana tra “presentazione” [Gegen-
wärtigung] e “ripresentazione” [Vergegenwärtigung] che, come
nota Derrida, è assimilabile all’opposizione tra “ricordo primario
(che fa parte di quello originario ‘in senso lato’) e ricordo secon-
dario” (Di 168 [164]), può dunque essere considerata come effet-
to di una scrittura “sovrana” che precede e dà inizio a qualunque
identità (del soggetto, della stessa scrittura, del loro incrociarsi e,
a partire da Platone, del reciproco subordinarsi) ma che è mossa
da un “oblio” che nessuna economia dialettica memoria/oblio
potrà recuperare: nel già citato saggio dedicato a Bataille (in cui
il problema del “dispendio” [dépense] può essere considerato
come la matrice delle successive analisi sul dono), Derrida scrive
che “[la scrittura sovrana] deve iniziare l’identità della sovranità
che è sempre in discussione. Perché la sovranità non ha identità,
non è sé, per-sé, a sé, presso di sé. […] essa deve spendersi senza
riserva, perdersi, perdere conoscenza, perdere la memoria di sé,
l’interiorità a sé; contro l’Erinnerung, contro l’avarizia che si assi-
mila al senso, essa deve praticare l’oblio, l’active Vergesslichkeit
di cui parla Nietzsche e, estremo sovvertimento della signoria,
non cercare più di farsi riconoscere” (ED 389 [343]).
L’oblio del dono dichiara, in un certo senso, l’assenza di
quell’identità che costituisce il fondamento del legame sociale,

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ed è per questo che l’oblio si embrica costitutivamente con la fol-


lia che, a sua volta, mette in discussione proprio il legame socia-
le: il dono – contrariamente a quanto affermato dall’etno-antro-
pologia, da certa sociologia e, soprattutto, dalla tradizione meta-
fisica – non può essere considerato come “esemplare” o “para-
digmatico” di una qualche originaria donazione dell’essere e del
tempo (come avviene nell’heideggeriano Es gibt Sein, es gibt
Zeit), né può essere assunto nell’orizzonte fenomenologico del
rapporto tra Gegebenheit e Reduktion, né, ancora, può essere
ricondotto ad un qualche potere naturale, un’attitudine originaria
a donare (“se non deve seguire un programma, seppure inscritto
nella physis, un dono non deve essere generoso” DT 205 [161]).
L’ontologia e la fenomenologia (saperi massimamente
“economici”), entrambe fondate su un’istanza di “ritorno” (l’es-
sere o trascendentalità dell’atto noetico), non possono fare a
meno di elaborare un’economia ristretta in cui anche l’assoluta
inanticipabilità dell’evento-dono viene ricondotta nell’orizzonte
di una calcolabilità o di una previsione e, dunque, di una “pre-
senza” (conoscenza, riconoscenza, ringraziamento, oggetto)
che, di fatto, ne annulla il carattere paradossale, vale a dire il
non essere proprio (nessuna proprietà, nessuna verità, nessuna
possibilità), e lo precipita verso la sua fine: “per non aver presa
sull’altro, la sorpresa del dono puro dovrebbe avere la genero-
sità di non donare niente che sorprenda e che appaia come dono,
niente che si presenti come presente, niente che sia; […] ne va
qui del dono come del resto senza memoria, senza permanenza
e senza consistenza, senza sostanza né sussistenza; ne va qui di
quel resto che è, senza essere/esserlo [sans l’être], al di là del-
l’essere, epekeina tes ousias. Il segreto di ciò di cui non si può
parlare, ma che non si può più tacere” (DT 186-187 [147-148]).

FUOCHI SEMANTICI: sacrificio, scrittura, ospitalità, iterabilità,


gramma, evento, performativo, destinerranza, metafisica.
S.F.

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LA VITA LA MORTE
[LA VIE LA MORT]

“La vie la mort” è il titolo che lega una serie di seminari


tenuti da Jacques Derrida nel 1975 a Parigi presso l’École nor-
male Supérieure. Delle tre articolazioni che ne costituiscono la
tramatura conosciamo solo l’ultima: Speculare su Freud, la parte
centrale di La Carte postale: “Il testo sui bordi del quale tente-
rebbe di tenersi questo discorso, è Al di là del principio di piace-
re di Freud. Lo estraggo in effetti da un seminario che seguiva il
tragitto di tre cicli: prendendo spunto ogni volta da una spiega-
zione con un certo testo di Nietzsche, si era impegnato innanzi-
tutto in una problematica ‘moderna’ della biologia, della genetica,
dell’epistemologia o della storia delle scienze della vita (letture di
Jacob, Canguilhem, ecc). Secondo ciclo: ritorno a Nietzsche poi
spiegazione con la lettura heideggeriana di Nietzsche. Poi, qui, la
terza e ultima” (CP 278 [1]).
Attraverso Nietzsche e Freud, attraverso l’eredità nietzschea-
na, denegata ma incorporata nel testo freudiano, Derrida intende
decostruire i presupposti filosofico-metafisici delle moderne
scienze della vita. In particolare, l’opposizione tra la vita e la
morte. Non per destituire tali scienze di ogni fondamento ma per
rilevare al di qua dell’opposizione tra la vita e la morte ciò che la
rende possibile ed allo stesso tempo ne impedisce la soluzione-
determinazione a favore dell’uno o dell’altro termine. Al di là di
Nietzsche e Freud, per Derrida si tratta di rilevare la DIFFERAENZA
quale condizione irriducibile della genesi e della struttura del
vivente in generale e quindi dell’emergenza della struttura psichi-

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ca della singolarità vivente umana. Secondo una esigenza a ben


vedere già presente in La voce e il fenomeno, esplicitamente posta
nel saggio La différance e ulteriormente perseguita in Glas. In
particolare nell’ampia parte dedicata ai passaggi conclusivi della
Filosofia della natura di Hegel, lì dove cioè Hegel elabora la
mediazione speculativa dalla natura allo spirito attraverso la
morte naturale quale esito della vita animale sessualmente diffe-
renziata e determinata. Non a caso lo spettro di Hegel si aggira
più o meno furtivo tra le pagine di Speculare su Freud (CP 422ss.
[161ss.]), ed alle sue spalle evidentemente quello di Lacan.

In Al di là del principio di piacere, alla luce delle acquisizio-


ni scientifiche dell’epoca, ma ampiamente rielaborate, Freud pro-
pone una serie di riflessioni speculative sulla natura del vivente.
Introduce, quale base dei fenomeni vitali e quindi della costitu-
zione dell’apparato psichico individuale, l’opposizione tra pulsio-
ni di morte e pulsioni di vita: le prime tendono alla distruzione
delle unità vitali, al livellamento radicale delle tensioni e al ritor-
no allo stato inorganico indifferenziato. Le seconde mirano a con-
servare le unità vitali esistenti e a costituirne altre più complesse.
In particolare, è essenziale rilevare che attraverso l’introdu-
zione della pulsione di morte, Freud arriva a determinare ciò che
vi sarebbe di più fondamentale in ogni pulsione: il ritorno ad uno
stato precedente. Dunque una tendenza regressiva che mira a
ristabilire forme meno differenziate, al limite prive di differenze
di livello energetico. In definitiva, all’origine della vita la pulsio-
ne di morte, il ritorno allo stato inorganico indifferenziato.
Derrida intende decostruire e quindi scongiurare proprio
questo esito finale – la pulsione di morte quale pulsione delle pul-
sioni, quale matrice e padrona della vita biologica e psichica –
attraverso una lettura serrata del testo di Freud ma certamente
orientata al di là (o forse sarà meglio dire al di qua) di Freud.
Innanzitutto Derrida rileva che la pulsione di morte è all’o-
pera fin dall’inizio di Al di là del principio di piacere, ben prima
della sua esplicita formulazione: secondo le acquisizioni della

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psicoanalisi dalle quali Freud prende avvio, l’apparato psichico


tende al soddisfacimento del piacere concupiscente (Lust). Di
fatto Freud definisce il piacere quale diminuzione dello stato di
eccitazione dell’organismo, raggiungimento di uno stato di quie-
te indifferente agli stimoli. In base al “principio di piacere” l’ap-
parato psichico tende a guadagnare e mantenere lo stato di ecci-
tazione più basso possibile, in questo senso, risponde già all’ordi-
ne della pulsione di morte.
In particolare, nota Derrida, per lo stesso Freud, il “principio
di realtà” che, per conservare la vita dell’apparato psichico, impo-
ne al “principio di piacere” una deviazione e quindi un ritardo
(Umweg) del soddisfacimento immediato del desiderio, in quanto
questo può essere pericoloso per la vita, non gli si oppone sem-
plicemente. Al contrario funziona all’ordine del “principio di pia-
cere”, è lo stesso “principio di piacere” che per essere se stesso,
per realizzarsi quale principio vivente dell’apparato psichico deve
differenziarsi da se stesso, essere altro da sé: “principio di realtà”.
Quest’ultimo è l’effetto della deviazione differenziante attraverso
la quale il principio di piacere si rapporta a se stesso per essere se
stesso. Ciò che rende possibile tale relazione tra “principio di pia-
cere” e “principio di realtà”, e cioè la vita stessa dell’apparato psi-
chico, è appunto la deviazione che differendo il soddisfacimento
immediato del piacere – la presenza piena – apre la possibilità del
differire da sé in rapporto all’altro, in vista dell’essere se stesso:
in definitiva, la DIFFERAENZA: “Il principio di realtà non impone
nessuna inibizione definitiva, nessuna rinuncia al piacere, soltan-
to una deviazione (détour) per differire la soddisfazione, la staf-
fetta di una differaenza (Aufschub). Durante questa ‘lunga devia-
zione’ (auf dem langen Umwege zur Lust), il principio di piacere
si sottomette, provvisoriamente ed in una certa misura, al suo pro-
prio luogotenente. Questo, rappresentante, schiavo o discepolo
informato, disciplinato disciplinante, gioca anche il ruolo del pre-
cettore al servizio del padrone. [...]. Dacché un’istanza autoritaria
si sottomette al lavoro di un’istanza secondaria o dipendente
(padrone/schiavo, maestro/discepolo) che si trova in contatto con

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la ‘realtà’ – definendosi questa per la possibilità stessa di questa


transazione speculativa –, non c’è più opposizione, come a volte
si crede, tra il principio di piacere e il principio di realtà. È lo stes-
so differente, in differaenza da sé. Ma la struttura di differaenza
può allora aprire ad un’alterità ancora più irriducibile di quella
che si presta all’opposizione. Proprio perché il principio di piace-
re non contratta che con se stesso, non conta e non specula che
con se stesso o con la propria metastasi, proprio perché si invia
tutto ciò che vuole e non incontra insomma opposizione alcuna,
esso scatena in sé l’altro assoluto” (CP 301-302 [29-30]).
La DIFFERAENZA, il differire da sé, l’essere altro da sé, in
quanto rende possibile il rinvio, il passare, lo scambio da un prin-
cipio all’altro, dell’uno con l’altro, è la condizione irriducibile
della vita del vivente. Né l’uno né l’altro principio quindi, dato
che l’affermazione dell’uno contro l’altro porterebbe necessaria-
mente alla morte, né, soprattutto, la semplice opposizione dei
principi che come tale implica l’indipendenza dell’uno rispetto
all’altro e quindi l’annullamento della relazione differenziale,
vale a dire la vita, vale a dire la morte: “Il piacere puro e la realtà
pura sono dei limiti ideali, come dire delle finzioni. Altrettanto
distruttrici e mortali tanto l’uno che l’altra. Tra i due, la deviazio-
ne differente forma dunque l’effettività stessa del processo, del
processo ‘psichico’ quale processo ‘vivente’. Tale ‘effettività’
dunque non è mai presente o data. Essa ‘è’ ciò che del dono non
è mai presentemente donante né donato. Il y a (es gibt) – ciò dà
(ça donne), la differaenza. Dunque non si può nemmeno parlare
di effettività, di Wirklichkeit, se almeno e nella misura in cui que-
sta era ordinata al valore di presenza. La deviazione ‘sarebbe’ così
la radice comune, altrettanto dire differente, dei due principi, radi-
ce a se stessa strappata, necessariamente impura e strutturalmen-
te votata al compromesso, alla transazione speculativa. I tre ter-
mini – due principi più o meno la differaenza – non ne fanno che
uno, lo stesso diviso, poiché il secondo principio (di realtà) e la
differaenza non sono che degli ‘effetti’ del principio di piacere
modificabile. Ma da qualsiasi capo (bout) la si prenda, questa

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struttura a un-due-tre termini, è la morte. Alla fine (Au bout), e


questa morte non è opponibile, essa non è differente, nel senso
dell’opposizione, dai due principi e dalla loro differaenza. Essa è
inscritta, per quanto sia non inscrivibile, nel processo di questa
struttura – più avanti diremo strittura. Se la morte non è opponi-
bile, essa è, già, la vita la morte” (CP 304-305 [31-32]).
La dinamica differenziale de la vita la morte, quale condi-
zione irriducibile del vivente, appare ancora più evidente nel
momento in cui Freud, una volta introdotta la pulsione di morte
quale pulsione fondamentale, risolve l’apparente contraddizione
di questa con le pulsioni di auto-conservazione, le pulsioni di vita.
Le pulsioni di vita lavorano al servizio della pulsione di morte in
quanto il loro ruolo consisterebbe nel difendere l’organismo dalle
minacce provenienti dal mondo esterno per garantire all’organi-
smo la morte ad esso immanente, la possibilità di morire la pro-
pria morte. Le pulsioni di vita dunque non si oppongono alla pul-
sione di morte, sono la stessa pulsione nel suo differire (deviare,
ritardare) da sé. Per questo, secondo Derrida è possibile cogliere
la LEGGE che regola l’economia più generale delle pulsioni, al di
qua della pulsione di morte: la legge del proprio: “Quando Freud
parla di Todestrieb, Todesziel, Umwege zum Tode, ed anche di un
‘eigenen Todesweg des Organismus’, egli dice proprio la legge de
la-vita-la-morte come legge del proprio. La vita e la morte non si
oppongono che per servirla. Al di là di tutte le opposizioni, senza
identificazione o sintesi possibile, si tratta proprio di un’econo-
mia della morte, di una legge del proprio (oikos, oikonomia) che
governa la deviazione e cerca infaticabilmente l’evento proprio, la
sua propria propriazione (Ereignis) piuttosto che la vita e la
morte, la vita o la morte. L’allungamento o l’abbreviazione della
deviazione sarebbero al servizio di questa legge propriamente
economica o ecologica del se stesso come proprio, dell’auto-affe-
zione auto-mobile del fort:da” (CP 381-382 [118-119]).
Al di là della logica del proprio quale piena appropriazione
di sé attraverso la propria morte, la morte propria, appropriata –
la logica di Freud ma anche di Heidegger, e di una certa tradizio-

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ne filosofica –, bisogna riconoscere che, se attraverso le pulsioni


l’organismo vivente tende ad appropriarsi di se stesso, ciò signi-
fica che il vivente è già da sempre espropriato da se stesso. Ciò
significa che per l’organismo vivente appropriarsi di se stesso
significa fare propria la propria condizione di espropriazione irri-
ducibile. Vale a dire: la deviazione, il rinvio, il differire da sé, l’es-
sere altro da sé – la DIFFERAENZA – quale condizione irriducibile
dell’essere se stesso, della vita, della morte, senza appropriazione
di sé assoluta e incondizionata, che la si pensi come la vita o come
la morte, all’ordine della loro opposizione derivata. “Bisogna
innanzitutto auto-affettarsi della propria morte (ed il sé non esiste
innanzitutto, prima di questo movimento di auto-affezione), far sì
che la morte sia l’auto-affezione della vita o la vita auto-affezio-
ne della morte. Tutta la differaenza si installa nel desiderio (il
desiderio non è che questo) di questa auto-telia. Essa si auto-dele-
ga e non perviene che a differirsi essa stessa nel (suo) tutt’altro,
in un tutt’altro che dovrebbe non essere più il suo. Non c’è nome
proprio che non si chiami o non faccia appello a questa legge del-
l’oikos. Nella conservazione del proprio, al di là dell’opposizione
vita/morte, il suo privilegio è altrettanto la sua vulnerabilità, si
può perfino dire la sua improprietà essenziale, l’esappropriazione
che lo costituisce. [...]. La struttura esappropriatrice è dunque
irriducibile e indecomponibile. Essa guida alla rimozione. Essa
impedisce sempre alla riappropriazione di chiudersi o di com-
piersi in cerchio, circolo economico o di famiglia” (CP 381-385
[118-122]).
Questo non significa far saltare la legge del proprio, scio-
gliere la possibilità stessa della costituzione della singolarità
vivente e dell’apparato psichico nel dispendio assoluto di un’ane-
conomia assoluta: espropriazione assoluta: morte. Bisogna pensa-
re diversamente l’economia del proprio quale condizione irridu-
cibile del vivente e quindi dell’emergenza della singolarità viven-
te umana, e cioè a partire dalla condizione di espropriazione che
impone all’organismo di legarsi a sé attraverso il legame delle
pulsioni di vita/di morte.

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In questa prospettiva Derrida rileva una pulsione più antica,


ancora più fondamentale della pulsione di morte, condizione di
ogni altra pulsione e quindi della costituzione dell’organismo
vivente, rispetto alla quale la pulsione di morte è solo un effetto
secondo e derivato. Come tale, la pulsione di morte segnala solo
la possibilità del prevalere di una pulsione parziale nella costitu-
zione dell’apparato psichico individuale (ma anche sovra-indivi-
duale): la possibilità, nefasta e da scongiurare, tanto nell’indivi-
duo quanto a livello sovra-individuale, del predominio della pul-
sione sadica: l’affermazione di una pulsione di potere sull’altro,
fatto oggetto di appropriazione violenta è in definitiva mortale,
per sé e per l’altro, proprio perché arresta la dinamica differen-
ziale de la vita la morte.
Per scongiurare gli effetti nefasti di questa pulsione di pote-
re sadica Derrida rileva dunque una pulsione di potere più antica
e più generale, condizione irriducibile di ogni altra pulsione, che
definisce “pulsione di impresa”. Per comprenderne il senso biso-
gna innanzitutto rilevare che lo stesso Freud ad un certo punto
riconosce quale condizione originaria e decisiva per la costituzio-
ne dell’apparato psichico una funzione generale più antica rispet-
to al “principio di piacere”: “Questa ‘funzione’ (Funktion), è il
Binden, l’operazione che consiste nel legare, incatenare, stringe-
re, imbavagliare, serrare, bendare. Ma cosa? Ebbene, ciò che è
altrettanto originario che questa funzione di strittura, cioè le forze
e le eccitazioni pulsionali, l’X di cui non si sa che cosa sia prima
che sia bendato, precisamente e rappresentato da dei rappresen-
tanti. Giacché questa funzione precoce e decisiva consiste nel
legare e nel rimpiazzare: legare è allo stesso tempo supplire, sosti-
tuire e dunque rappresentare, rimpiazzare, mettere un Ersatz al
posto di ciò che la strittura inibisce o proibisce. Legare è dunque
anche distaccare, distaccare un rappresentante, inviarlo in mis-
sione, liberare una missiva per compiere, a destinazione, il desti-
no di ciò che essa rappresenta. Effetto di posta. Di postino prepo-
sto all’invio. Nello stesso enunciato, descrivendo una sola e stes-

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sa operazione, una sola e stessa funzione, Freud dice che essa


consiste nel legare (binden) i processi primari e nel rimpiazzare
(ersetzen) i processi primari che hanno la padronanza (maîtrise)
nella vita pulsionale con dei processi secondari: spostamento,
rimpiazzo di padronanza, strittura come distaccamento supple-
mentare. Il secondario è l’invio supplementare” (CP 420 [159]).
Questa funzione deve legare le pulsioni dei processi primari
– che altrimenti sciolte porterebbero alla dissoluzione dell’appa-
rato psichico – attraverso l’elaborazione di formazioni secondarie
che le rappresentano ma allo stesso tempo le sostituiscono, rin-
viandone irriducibilmente la presenza.
Per Freud tale funzione del legame è sì indipendente dal
“principio di piacere” ma allo stesso tempo preparerebbe il terre-
no per la sua instaurazione al servizio in ogni caso della ancor più
generale pulsione di morte. Per Derrida è necessario sciogliere la
funzione di legame dall’orientamento teleologico che le impone
Freud sottomettendola al “principio di piacere” e quindi alla pul-
sione di morte, per riconoscervi l’irriducibile condizione di pos-
sibilità delle pulsioni costituenti il vivente e quindi l’apparato psi-
chico, di cui la pulsione di morte sarebbe solo una possibilità
seconda, derivata e non la padrona assoluta ed esclusiva: “Qui due
tempi, due predicati, due temi descrittivi. La Bindung è un atto
preparatorio all’esercizio del PP [principio del piacere]. In quan-
to tale, non è ancora il PP [principio del piacere], essa prepara sol-
tanto il terreno per la padronanza (maîtrise) di quest’ultimo [...].
In seguito, una volta preparato il terreno, essa introduce il padro-
ne, e, secondo tempo, lo installa, lo assicura, l’afferma e lo con-
ferma nella sua padronanza. La Bindung deborda dunque la
padronanza come l’assise della sua condizione. Nessuna padro-
nanza che non sia preparata, introdotta e confermata attraverso la
Bindung, per vie traverse (par la bande) o attraverso la posta. Non
c’è padronanza senza di ciò e non si comprende ciò che altrimen-
ti vuol dire padroneggiare” (CP 421 [160]).
Sciogliere la funzione del legame dall’orientamento teleolo-
gico che le impone Freud significa riconoscerne la portata irridu-

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cibile nella costituzione della unità vivente e quindi di ogni for-


mazione unitaria conseguente: “La forza di strittura, la capacità di
legarsi, resta in rapporto con ciò che c’è da legare (che dà e si dà
da legare), la potenza legando il legante al legabile. [...]. Ben inte-
so quel che diciamo qui vale già per ciò che chiamiamo l’‘insie-
me’ stesso. Se questa parola deve rinviare ad un’‘unità’ che non è
rigorosamente né quella del soggetto, né quella della coscienza,
dell’inconscio, della persona, dell’anima e/o del corpo, del socius
o di un ‘sistema’ in generale, è necessario che l’insieme in quan-
to tale si leghi a se stesso per costituirsi come tale. Ogni essere-
insieme, anche se la sua modalità non si limita a nessuna di quel-
le che abbiamo appena messo in serie, comincia per legar-si, con
un legar-si in un rapporto differenziale a sé. Esso si invia e si spe-
disce così. Esso si destina. Il che non vuol dire: esso arriva” (CP
429 [168]).
Per Derrida questa funzione irriducibile del legame ci per-
mette di cogliere l’essenza e la dinamica delle pulsioni, le condi-
zioni irriducibili della vita del vivente e quindi della costituzione
dell’apparato psichico: legare a sé l’irriducibile differire da sé
attraverso formazioni sostitutive, tese ad assicurare il rapporto a
sé quale auto-etero-affezione (➞ AUTO-AFFEZIONE) e quindi una
padronanza su di sé che per struttura non può essere mai assoluta
e incondizionata, non può essere esperita, pensata, descritta in ter-
mini di presenza piena ma, al di qua dell’opposizione tra la vita e
la morte, quale SOPRAVVIVENZA. È questa struttura irriducibile
delle pulsioni che Derrida definisce pulsione d’impresa, approfit-
tando dell’occorrenza occasionale del termine nel testo freudiano
(Bemächtigungstrieb), deviandone però il senso dalla pulsione di
potere sadica, alla quale lo associa Freud, verso le condizioni di
possibilità delle pulsioni in generale: “Si tratta dunque di una
semplice allusione ma ciò che essa designa fa appello alla singo-
larità di una pulsione che non si lascerebbe ridurre a nessun’altra.
Ed essa ci interessa tanto più che, irriducibile a nessun’altra, essa
sembra avere parte in tutte le altre nella misura in cui tutta l’eco-
nomia del principio di piacere e del suo al di là si regola su dei

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rapporti di ‘padronanza’. Si può allora prendere in considerazio-


ne un privilegio quasi trascendentale di questa pulsione di padro-
nanza, pulsione di potenza o pulsione di impresa. Quest’ultima
denominazione mi pare preferibile: essa marca meglio il rapporto
all’altro, perfino nell’impresa su di sé. Poi questa parola si mette
subito in comunicazione con il lessico del dare/donare (donner),
del prendere, dell’inviare o del destinare [...]. La pulsione di
impresa deve essere anche il rapporto a sé della pulsione: nessu-
na pulsione che non sia spinta a legarsi a sé e ad assicurarsi la
padronanza di sé quale pulsione. Di qui la tautologia trascenden-
tale della pulsione di impresa: è la pulsione quale pulsione, la pul-
sione di pulsione, la pulsionalità della pulsione. Si tratta ancora di
un rapporto a sé come rapporto all’altro, l’auto-affezione di un
fort:da che si dà, si prende, si invia e si destina, si allontana e si
riavvicina del suo passo, all’altro” (CP 430 [170]).
In questo senso, la pulsione d’impresa è la pulsione delle
pulsioni, l’essenza della pulsione e quindi del vivente in generale
e dell’apparato psichico in particolare. Rispetto a questa, la pul-
sione di morte è solo un effetto derivato e secondo, conseguenza
del prevalere patologico di una pulsione di potere che mira all’ap-
propriazione assoluta di sé attraverso l’appropriazione assoluta
dell’altro: alla morte stessa in nome di una vita piena, pura, asso-
luta, incondizionata: “La purezza della vita è la morte” (Gl 124-
153 [512-631]). Una pulsione di potere che può essere ricono-
sciuta all’opera tanto nella costituzione dell’ipseità pensata nella
nostra tradizione filosofica quanto nella pratica politica che ad
essa si ispira da sempre. Una pulsione di potere che per struttura
– per la dinamica stritturante de la vita la morte che pure la rende
possibile – è necessariamente destinata a fallire e proprio nella
sua piena riuscita, che resta da scongiurare (deviare, rinviare, dif-
ferire...): “Detto altrimenti il motivo del potere è più originario e
più generale del principio di piacere, è indipendente da questo, è
il suo al di là. Ma non si confonde con la pulsione di morte o la
compulsione di ripetizione, esso ci dà di che descriverle e gioca a
loro riguardo, come riguardo ad una ‘padronanza’ del principio di

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piacere, il ruolo di predicato trascendentale. Al di là del principio


di piacere – il potere. Vale a dire le poste. Ma non per questo si
dirà, malgrado la funzione trascendentale alla quale abbiamo
appena alluso, al di là della pulsione di morte – il potere – o le
poste. Questo perché, per quanto quello che si descrive a titolo di
pulsione di morte o di coazione a ripetere proceda da una pulsio-
ne di potere e ne prenda in prestito tutti i suoi tratti caratteristici,
esso eccede nondimeno il potere. È in una volta la ragione e lo
scacco, l’origine e il limite del potere. [...]. Non c’è dunque che
differaenza di potere. Da cui le poste” (CP 432 [172]).

Per concludere provvisoriamente è necessario rilevare che è


proprio a partire dalla funzione del legame, essenziale per la vita
del vivente e quindi per la costituzione dell’apparato psichico, che
bisogna intendere l’elaborazione dell’esperienza in termini di
ARCHI-SCRITTURA: la dinamica della traccia differenziale quale
condizione irriducibile dei processi di elaborazione del senso,
senza per questo ridurre i diversi gradi di specificità che li strut-
turano (dai processi psichici intra-individuali alle formazioni
ideali del linguaggio e dei differenti tipi di discorso scientifico,
passando – e si tratta di un passaggio decisivo – per la LETTERA-
TURA).
È per questo che la locuzione “la vita la morte” ritorna dopo
quasi vent’anni e solo due brevi apparizioni – ma importanti – in
Paraggi e Donare il tempo (Pa 208 [261-262], 214 [267-268]; DT
25 [14], 132 [103]), in Spettri di Marx (SM 94 [73], 235 [186]).
Vale a dire, lì dove Derrida si intromette nel corpo a corpo tra
Marx e Stirner, impegnati a scongiurare gli spettri dello spirito
hegeliano, il potere delle rappresentazioni ideali/ideologiche, per
restaurare l’uomo nell’immanenza piena di ciò che entrambi cre-
dono sia la vita: “Tutti e due amano la vita, il che è sempre sot-
tinteso ma non va mai da sé per degli esseri finiti: essi sanno che
la vita non va senza la morte, e che la morte non è al di là, fuori
della vita, salvo a inscrivervi l’al di là all’interno, nell’essenza del
vivente. Essi condividono tutti e due, apparentemente come voi e

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me, una preferenza incondizionata per il corpo vivente. Ma a


causa di ciò stesso, conducono una guerra senza fine contro tutto
ciò che lo rappresenta, che non è lui ma che gli ritorna: la protesi
e la delegazione, la ripetizione, la differaenza. Il me vivente è
auto-immune, essi non vogliono saperlo. Per proteggere se stesso,
la sua vita, per costituirsi in un unico me vivente, per rapportarsi
come lo stesso a se stesso, esso è necessariamente portato ad
accogliere l’altro all’interno (la differaenza del dispositivo tecni-
co, l’iterabilità, la non unicità, la protesi, l’immagine di sintesi, il
simulacro, e ciò comincia con il linguaggio, prima di lui, altret-
tante figure della morte), esso deve dunque dirigere in una volta,
per se stesso e contro se stesso, le difese immunitarie apparente-
mente destinate al non-me, al nemico, all’opposto, all’avversario”
(SM 224 [178]).
È dunque a partire dalla dinamica irriducibile de la vita la
morte che bisogna intendere tanto il discorso più recente di
Derrida, a proposito di AUTOIMMUNITÀ e sovranità, dell’animale,
quanto la parola che lo ha accompagnato lungo tutta la vita e oltre,
l’ultima parola, quella alla quale Derrida ha confidato forse la
propria sopravvivenza: “sopravvivenza”: “E questa questione
sarebbe una questione di vita o di morte, la questione de la-vita-
la-morte, prima di essere una questione dell’essere, dell’essenza
o dell’esistenza. Essa aprirebbe ad una dimensione del sopra-
vivere o della sopravvivenza irriducibile e all’essere e a qualsiasi
opposizione del vivere e del morire” (SM 235 [186]).

FUOCHI SEMANTICI: alterità, destinerranza, economia della morte,


esappropriazione, genesi, invio, ipseità, iterabilità, legame, meta-
fisica, proprio, protesi, pulsione, ri-rap-presentazione, simulacro,
sovranità, strittura, supplemento.

F.V.

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LEGGE
[LOI]

Potrebbe sembrare incongruo muoversi all’interno di un


campo semantico ampio e frastagliato come quello delineato dal
termine legge, significante in cui coagulerebbero motivi disse-
minati senza ordine (senza legge?) nell’opera derridiana.
Inoltre, la tensionalità semantico-categoriale tra legge e termini
come “giustizia” e “diritto” si direbbe spostare da subito l’at-
tenzione verso un orizzonte giuridico-morale-politico che, pre-
sente come esigenza o effetto, non costituisce l’ambito privile-
giato delle ricerche di Derrida né prima, né dopo il 1989, anno
in cui Drucilla Cornell organizzò presso la Cardozo Law School
un convegno dal titolo Decostruzione e possibilità della giusti-
zia a seguito del quale Derrida divenne sempre più presente
negli studi di carattere giuridico.
Ma, pur senza prescindere da questa curvatura legata alle
vicende storiche della decostruzione, è opportuno ricordare che
già nel programma grammatologico della prima metà degli anni
’60 è messa a tema la ricerca delle “leggi” che hanno determi-
nato la configurazione “fallologocentrica” dei sistemi filosofici
e, dunque, la questione della legge è presente in filigrana in
ognuno dei percorsi singolari che modulano la decostruzione.
Sarà dunque presente nel dibattito tra “genesi” e “struttura” nel
quadro della fenomenologia, o nel rapporto tra la necessità del-
l’iscrizione per la produzione del senso e la legge del rimando
differenziale che istituisce le opposizioni; nella “legge del gene-

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re” (come recita il titolo di uno studio dedicato a Blanchot) o


nell’analisi del racconto di Kafka Davanti la legge in cui ven-
gono sviluppate riflessioni fondamentali sulla letteratura, o nel-
l’insieme di questioni trattate nei seminari che dagli anni ’90
arrivano fino all’ultimo svoltosi nel 2003 e radunati sotto il tito-
lo generale Questioni di responsabilità; nella legge del logos
rintracciata nei testi dedicati a Platone, o nella “posizione” del-
l’inconscio (almeno secondo la lettura che ne hanno dato Freud
e Lacan). Trasversalmente, obliquamente, ubiquitariamente, la
legge si configura come matema che permette di misurare la
distanza e le differenze rispetto ad autori e testi che, tra l’altro,
sono stati letti proprio muovendo in direzione della “legge” che
presiedeva alla loro elaborazione.
Rispetto a pratiche ermeneutiche o a riduzioni trascenden-
tali in cui le regole che organizzano la costituzione del senso
costituiscono l’orizzonte in cui il primato delle idealità orienta e
pre-determina il metodo stesso, la DECOSTRUZIONE non conosce
regole perché risponde unicamente alla legge della sua produ-
zione (ed è questa una delle ragioni dei suoi numerosi frainten-
dimenti o del rifiuto che incontra negli ambienti accademici) e
non conosce nessuna “purezza”, nessun elemento semplice: si
chiede Derrida in un testo del 1979 dedicato a Blanchot “se ci
fosse, situata nel cuore della legge stessa, una legge di impurità
o un principio di contaminazione? Se la condizione di possibi-
lità della legge fosse l’a priori di una contro-legge, un assioma
di impossibilità che ne farebbe impazzire il senso, l’ordine e la
ragione?” (Pa 254 [303-304]).
Nessun dualismo “gnostico” percorre l’ipotesi derridiana,
perché legge e contro-legge si determinano vicendevolmente
come possibili e, insieme, impossibili, senza per questo deriva-
re da una qualche idealità o “sostanza”: è, piuttosto, nel reci-
proco rinviarsi che si istituiscono, prima ancora che lo stesso
nominarle le determini come opposizioni che si definiscono
scartandosi una dall’altra, e per tale ragione si dovrà lavorare
non sulle determinazioni – effetto storico – ma sull’idea di lega-

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me (declinato lungo le opere come “banda”, double bind,


Binden) in cui è possibile rintracciare la radice prima del nomos
(da nemein = spartire, distribuire), prima delle distinzioni tra lex
e jus, law e right, loi e droit o dell’ampio e non trascurabile
vocabolario del diritto.
Ma se di radice si tratta, occorre sgombrare il campo da
qualunque tentazione onto-metafisica e, insieme, riconoscere
come il giudizio che regolamenta il sapere filosofico (sia esso
predicativo o prescrittivo) mantiene un rapporto con la “forma”-
legge che non è possibile aggirare e che, anzi, si tratta di mette-
re “in abisso”, individuando luoghi e topologie che – inevitabil-
mente – smargineranno confini disciplinari e metodologici che
pure intrattengono un idiomatico (non universalizzabile) rap-
porto con la legge che li determina e, in un certo senso, ne cer-
tifica l’esistenza.
Nonostante l’individuazione di “luoghi” e opere che metto-
no a tema la legge risulti problematica, è possibile identificare
almeno un triennio in cui il lavoro di Derrida (considerato anche
il seminario ancora inedito tenuto nell’anno 1980/81 dal titolo Le
Respect in cui Kant e Freud vengono letti a partire dalla doman-
da sulla legge) ricerca lo strutturale embricarsi di legge e LETTE-
RATURA: nella lettura di Blanchot e Kafka, dieci anni prima del-
l’incontro della Cardozo Law School (in cui invece l’autore prin-
cipale sarà Benjamin), si concentrano le domande relative alla
legge che inaugurano nuove strategie ricapitolando quanto già
sviluppato. Centrale, in questo senso, La farmacia di Platone, in
cui – come recita l’incipit – “Un testo è un testo solo se nasconde
al primo sguardo, al primo venuto, la legge della sua composizio-
ne e la regola del suo gioco” (Di 79 [103]): se ogni testo (che è la
determinazione specifica della scrittura) è sottoposto all’istanza
di una legge, questa – come era già accaduto con il Rousseau di
Della grammatologia – si occulterà dietro il “supplemento” inso-
stenibile per la natura e per la ragione, ovvero dietro l’economia
che sostiene la pericolosità e l’irrinunciabilità di quanto “trasgre-
disce ed insieme rispetta l’interdetto” (Gr 223 [215]).

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L’intero lessico derridiano produce un confronto con l’i-


stanza della legge in ognuna delle occorrenze in cui compare,
prima ancora di complicarsi a partire dai riferimenti alla “giu-
stizia” o al campo semantico aperto dall’idea di “istituzione”:
nella condanna platonica della scrittura (origine storica della sua
subordinazione alla voce e all’oralità) è presente l’idea che essa
sia, letteralmente, “fuori-legge”, dissociata dal nomos che, per
Platone, è associato al logos.
Nella lettura di Platone emerge il primato della parola-legge
di contro alla scrittura che, al contrario, indicherà sempre un
“fuori” indomabile e, soprattutto, governato da una legge sua pro-
pria irriducibile a quella che istituisce l’unità di logos e nomos:
“La scrittura è una traccia perduta, semente non vitale, tutto ciò
che nello sperma si sperpera senza riserva, forza smarrita fuori
dal campo della vita, incapace di generare, di rilevarsi e di rige-
nerarsi. Invece, la parola viva fa fruttificare il capitale, non devia
la potenza seminale verso un godimento senza paternità. Nel suo
seminario, essa si conforma alla legge” (Di 190-191 [180]).
È nell’opposizione tra oralità e scrittura inaugurata da
Platone (e ripetuta da Rousseau e Saussure) che si insinua quel-
la “legge della trasgressione” verificabile solo attraverso le “tra-
sgressioni della legge” che pure si insinuano nelle opposizioni
metafisiche, ed è nella considerazione della scrittura come
“bastarda” e, per questo, sempre “fuori-legge” che diviene pos-
sibile misurare – nell’irriducibile simultaneità di un doppio
movimento – la potenza della legge e il suo opporsi a se mede-
sima: è “nella” legge che il discorso, sia dialettico sia trascen-
dentale, incontra la propria risorsa e il proprio limite, perché il
bordo che la determina non si produce a partire da un’esteriorità
(un’assenza di legge) ma la attraversa dall’interno, dividendola
all’infinito e riproducendone gli effetti. La lettura di Hegel pro-
posta in Glas ri-marca la posta in gioco teorica e le aporie che,
letteralmente, “stringono” ogni discorso sulla legge curvandolo
verso il campo trascendentale: “La strizione non si lascia più

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accerchiare come categoria ontologica, e nemmeno – semplice-


mente – come categoria, fosse pure una trans-categoria, un tra-
scendentale. La strizione – quanto serve per pensare all’ontolo-
gico o al trascendentale – è dunque anche in posizione di trans-
categoria trascendentale, trascendentale del trascendentale.
Tanto più che non può non produrre l’effetto ‘filosofico’ che
produce. Qui non c’è da scegliere: ogni volta che si fa un discor-
so contro il trascendentale, una matrice – la stessa strizione –
costringe il discorso a mettere il non-trascendentale, il fuori del
campo trascendentale, l’escluso, in posizione strutturante. La
matrice in questione costituisce l’escluso come trascendentale
del trascendentale, come simil-trascendentale, come contrab-
bando trascendentale” (Gl 272 [1106]).
La legge, comunque la si intenda, non sfugge alla logica
trascendentale: è in relazione ad una non-legge, all’altro dalla
legge, al “fuori” della legge che la storia del pensiero filosofico
ne ha pensato l’intero campo semantico, sempre “stretta” (da
qui la “strizione” derridiana che, in Glas, è effetto di “strettura”)
in quella legge della legge in cui un termine (o, coniugando fal-
locentrismo freudiano e fonocentrismo saussuriano, un “signifi-
cante”) assume il privilegio che gli consente di rendere possibi-
le, pur facendone parte, la catena, la serie, l’elenco.
Sembrerebbe impossibile tentare una fuoriuscita dal
discorso trascendentale, soprattutto nel momento in cui si prova
a parlare di legge, ignorando magari il double bind che, nell’ir-
riducibile simultaneità di un punto non storicizzabile, impone e
impedisce la rappresentazione, ma è proprio a partire da tale
“impossibile” che occorre ricominciare a pensare il (pro)porsi
stesso della legge, secondo una logica che riconosce nel
(rap)presentabile l’istanza di una trasgressione, perché “forse la
stessa legge travalica qualsiasi rappresentazione, forse non è
mai dinanzi a noi, come ciò che si pone in una figura e si com-
pone una figura. (Il guardiano della legge e l’uomo di campagna
non sono ‘davanti alla legge’, Vor dem Gesetz, dice il titolo di
Kafka, se non al prezzo di non giungere mai a vederla, di non

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poter mai giungere ad essa. Essa non è né presentabile né rap-


presentabile e l’‘entrata’ in essa, secondo un ordine che l’uomo
di campagna interiorizza e si dà, è differita fino alla morte). Si
è spesso pensato alla legge come a ciò che precisamente pone,
si pone e si raccoglie nella composizione (thesis, Gesetz, detto
altrimenti quanto regge l’ordine della rappresentazione) e l’au-
tonomia presuppone sempre la rappresentazione, come pure la
tematizzazione, il divenir-tema. Ma la legge stessa non arriva
forse, non ci arriva, se non trasgredendo la figura di ogni rap-
presentazione possibile” (Ps 142-143 [155]).

Prima, dunque, di verificare le modulazioni che connetto-


no diritto, etica e responsabilità (come è avvenuto nel lungo
confronto tra Derrida e Lévinas) ma che, proprio in virtù del
loro ingresso in scena, rischiano di offuscare l’istanza della
legge o quantomeno di costituirla quale indice di un reale onto-
logicamente determinato, si dovrà riconsiderare l’ordine della
rappresentazione e, in particolare, il versante linguistico secon-
do il quale il linguaggio si produrrebbe come “espressione” (di
un dentro – che si suppone già costituito – in un fuori): c’è un
lavoro della legge (anche nelle sue dimensioni linguistiche o
semiotiche) che si auto-decostruisce mentre si pone (perché non
si dà legge senza “posizione”), che sposta il margine tra “den-
tro” e “fuori” impedendosi di consistere come ordine simbolico
saturante. A “comandare” la trasgressione della rappresentazio-
ne che struttura la legge o, in altri termini, ad ingiungere la tra-
sgressione della trasgressione è la “performatività”, unico ipo-
tizzabile “fondamento” della legge: fondamento paradossale
perché, come Derrida scrive in Fede e Sapere, “la legge della
legge, l’istituzione dell’istituzione, l’origine della costituzione,
è un evento ‘performativo’ che non può appartenere all’insieme
che fonda, inaugura o giustifica” (FS 32 [20]). Nonostante la
fragilità che la caratterizza, la distinzione tra “constativo” e
“performativo” costituisce il chiasmo della legge: nel rapporto
alla verità o all’istituzione, nel legame con le istanze etiche o

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politiche, nelle modulazioni della responsabilità, nell’intreccio


tra universalità e singolarità, occorre sorvegliare la frontiera tra
la constatività e la performatività del sapere riconoscendone la
strutturale mobilità o la circolarità di un invio che è il “doppio
legame” che sfonda il presunto carattere fondativo della legge e
lo proietta nella “legge del testo in generale” che percorre l’in-
tera riflessione derridiana e che è stata spesso letta come invito
al puro gioco disarticolante e, alla fine, nichilista. Proprio la
“legge del testo in generale”, invece, marca il legame costituti-
vo tra istituzione (indice storico della legge) e pratica della
decostruzione: “Ogni testo, ogni elemento del corpus riproduce
o trasmette ereditariamente, in modo prescrittivo o normativo,
una o più ingiunzioni: radunatevi secondo certe regole, una
certa scenografia, una certa topografia delle anime e dei corpi,
formate un certo tipo di istituzione per leggermi e scrivermi,
organizzate un certo tipo di scambio e di gerarchia per interpre-
tarmi, valutarmi, custodirmi, tradurmi, ereditare da me, farmi
sopravvivere [...] O inversamente: se mi interpretate (nel senso
della decifrazione o in quello della trasformazione performati-
va) dovrete assumere questa o quella forma istituzionale. Ma
appartiene ad ogni testo che simile ingiunzione dia luogo ad
un’indecidibilità e a un double bind, vale a dire apre e chiude
una sovradeterminazione non dominabile. È la legge del testo in
generale” (DPh 422).
Il carattere strutturalmente performativo della legge la
intreccia irrimediabilmente alla TESTIMONIANZA e alla letteratu-
ra, come mostrano i testi che analizzano esplicitamente le opere
letterarie (in particolare Kafka e Blanchot) e i coaguli aporetici
che mettono in campo: paradossi nei quali la legge dichiara
l’impossibilità di essere, insieme, fondante e fondata, pur nella
necessità di una sua assunzione quale “principio” di un ordine,
una gerarchia, una classificazione, un sistema rispetto ai quali si
mantiene irriducibile.
Il rischio di una contrapposizione “pura” tra constativo e
performativo e, dunque, di una ricaduta dello schema opposi-

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zionale metafisico, può essere superato solo se la performatività


della legge viene assunta nell’ordine della decisione e della
responsabilità, ovvero solo se si accoglie l’idea di una radicale
eterogeneità della decisione rispetto al programma, al calcolo,
all’insieme di valutazioni che pure devono (forma imperativa
richiesta dalla legge che scompare nel momento in cui una deci-
sione viene presa) essere compiute perché decisione possa darsi:
“Che una decisione non possa diventare un oggetto o un tema
per la conoscenza è il luogo stesso della violenza. [...] La vio-
lenza accompagna l’istituzione di ogni legge – questa istituzio-
ne non può che essere violenta non perché è una violenza che
accompagna la trasgressione della legge, ma perché sino ad
allora non vi è legge. Ciò che precede la legge non può essere
violento per la legge. Il movimento violento che impone la legge
è una violenza tanto asimmetrica quanto eterogenea a qualsiasi
trasgressione che possa essere identificata nel nome della legge.
Una volta che questa istituzione ha avuto luogo, si può natural-
mente sempre contestare – e questa è la storia di tutte le rivolu-
zioni – l’imposizione della legge, sostenere che è stata violenta
e ingiusta, cercare riparazione, rivoltarsi contro di essa e via di
seguito” (NM [47]).

Il rapporto legge-violenza era stato modulato in Forza di


legge come “forza”, termine chiave dei testi “decostruttivi” in
cui però, precisa Derrida, “si tratta sempre della forza differen-
ziale, della differenza come differenza di forza, della forza come
differaenza o forza di differaenza (la differaenza è una forza dif-
ferita-differente” (FL 20 [54]): solo attraverso la strategia della
DIFFERAENZA è possibile approssimarsi a quanto viene conside-
rato come legge che, allora, si imporrà come “possibilità dell’e-
sercizio della decostruzione” (FL 36 [65]) o, in altri termini,
come impossibile esperienza dell’abisso in cui sprofondano le
relazioni tra legge, diritto e giustizia. Se Benjamin, attraverso il
cortocircuito semantico che lega “forza” e “violenza” [Gewalt],
sostiene che è la fondazione stessa del diritto, la sua posizione,

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ad essere violenta, Derrida richiama il carattere di ripetizione


che struttura l’idea stessa di fondazione o posizione che, allora,
non potrà mai dirsi “pura”, perché la possibilità della ripetizio-
ne è inscritta “al centro dell’originario. Meglio, o peggio, è
inscritta in questa legge d’iterabilità, sta sotto la sua legge o
davanti alla sua legge” (FL 94 [106]). Non si dà legge, vale a
dire fondazione o posizione senza “contaminazione differaen-
ziale” o, in altri termini, “l’iterabilità nell’originarietà, ed è ciò
che chiamerò la decostruzione all’opera” (FL 98-99 [109]).
L’importanza del termine “forza” verrà ulteriormente sottolinea-
ta durante l’ultimo seminario svolto nel 2002-2003 dedicato alla
“sovranità”, attraverso la discussione dell’impossibile traduzio-
ne del tedesco Walten che ricorre in Heidegger come ciò che
paralizza l’uomo e, nello stesso tempo, deve essere assunto dal-
l’uomo, che viene accostato da Derrida alla “pulsione” [Trieb]
di cui parla Freud: “sono tentato di pensare che un tale Walten
(che pure non indica né una cosa né qualcuno, né l’uomo né
Dio, ma l’esercizio di una forza archioriginaria, di un potere, di
una violenza, prima di ogni determinazione fisica, psichica, teo-
logica, politica, dirò presto addirittura ontica o ontologica), il
Walten è forse indissociabile dal Trieben” (S2 158 [151]).
L’accostamento tra “pulsione” e “potenza/violenza”, nonostante
Derrida non richiami la sua lettura di Benjamin di tredici anni
prima, mostra con estrema chiarezza che il discorso della legge
(genitivo soggettivo e oggettivo) è inscindibile dall’abbandono
di un’idea di “purezza” che pure sembra essere il carattere prin-
cipale di essa: la tradizione metafisica ha occultato (o censura-
to) l’autodecostruirsi della legge innescato dal suo stesso
(pro)porsi e ne ha rovesciato le istanze istituendola come il
“luogo” a partire dal quale fosse possibile pensare il suo “altro”
o, ma si tratta dello stesso, il suo “fuori”.
La catena semantica generata dalla legge (responsabilità,
decisione, giustizia, testimonianza) può essere ricondotta alla
nozione di istituzione (comprese le determinazioni storico-poli-
tiche di tale termine) e quest’ultima, a sua volta, alla nozione di

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“iscrizione” elaborata come possibilità di una “traccia istituita”


o ARCHI-SCRITTURA che rapporta, istituendole, le determinazioni
e, più ancora, che si configura come “origine scritta: tracciata e
da quel momento inscritta in un sistema, in una figura che essa
non domina più” (ED 169 [145]): la supposta originarietà della
legge occulta il suo derivare, la disappropriazione (già da sem-
pre) del suo “proprio”, il suo marcarsi come effetto di una rela-
zione che non si svolge tra determinazioni già costituite (la
legge e il suo “fuori”) quanto piuttosto come loro condizione di
possibilità. La legge, in altri termini, non è in nessun modo
separabile dalle effettualità del diritto, nonostante il radicale
contrasto che sembra opporla ad esso, ed il conflitto tra univer-
salità e singolarità che sembra caratterizzare il rapporto legge-
diritto, unitamente alle aporie in cui tale conflitto precipita (pos-
sibilità e impossibilità della responsabilità, testimonianza e
spergiuro, sovranità e incondizionalità), può essere ricondotto,
da ultimo, alla domanda che inaugura la lettura derridiana di
Davanti alla legge di Kafka proposta nel 1982 durante una
decade di Cerisy-la-Salle dedicata a Lyotard: “come giudicare?”
è la domanda che fa segno (interrompendo e interrogando il
“dispositivo teorico-ontologico” che vorrebbe subordinarla al
“cosa è?”) verso la legge e verso l’insieme di strategie discorsi-
ve che inaugura o che ad essa rimandano.
Già nel seminario dell’inizio degli anni ’80 dedicato a Kant
(ma anche ad Heidegger e Freud) era stata interrogata la simbo-
licità del bene morale e, soprattutto, il “come se” [als ob] che
mostrava, tra l’altro, come Kant “introducesse virtualmente nar-
ratività e finzione nel cuore stesso del pensiero della legge, nel
momento in cui questa si mette a parlare e ad interpellare il sog-
getto morale” (PL 108 [75]): nel racconto di Kafka torna con
insistenza la duplice costrizione di una legge che vuole separar-
si dalla (sua) storia occultando la (propria) origine e, insieme, il
racconto di questa non-storia, di questa impossibilità, di questo
paradigma che corrode al proprio interno la sua ragion d’essere,
costringendo chi vi si ritrova impigliato (nel racconto di Kafka

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il guardiano e l’uomo di campagna sono legati ad un medesimo


destino) nella finzione di una storia che impone la propria legge
sottraendosi ad un contenuto determinato. Si tratta, in altri ter-
mini, di riconoscere come l’aver-luogo della legge non permet-
ta di identificare una sua origine (come mostra l’assassinio del
padre che è all’origine della legge morale secondo il Freud di
Totem e tabù): “Evento senza evento, evento puro in cui nulla
capita, evenemenzialità di un evento che esige e annulla il rac-
conto nella sua finzione” (PL 117 [83]).
È in questo senso allora che, come accade con il “quasi tra-
scendentale”, Derrida dichiara che la legge fa segno verso un
“quasi evento” che si marca narrativamente e che, più ancora,
potrebbe essere considerato come “origine” della legge ed “ori-
gine” della letteratura, entrambe “fondate” da un TUTT’ALTRO
che risponde solo di sé e a sé: “La legge interdice interferendo e
differendo la ‘feraenza’, il rapporto, la relazione, la referenza.
L’origine della differaenza, ecco ciò che non bisogna e che non
si può avvicinare, presentare, rappresentare e soprattutto pene-
trare. Ecco la legge della legge, il processo di una legge riguar-
do alla quale non si può mai dire ‘eccola’, qui o là” (PL 122
[88]).
Slegata da qualunque forma di sapere, indeterminata (non
è né naturale, né morale, né politica, né giuridica), la legge è
neutra (anche nel senso che non possiede un genere grammati-
cale o sessuale, come illustra l’analisi della “femminilità” della
legge sviluppata nella lettura di La follia del giorno di
Blanchot), ed è nella neutralità della sua indeterminazione che
accade o si produce l’obbligo di risponder(n)e, vale a dire l’ob-
bligo di assumer(n)e l’idioma, la singolarità dell’indirizzo, la
“monolingua” (che sarà sempre, allora, una “nomolingua”) che,
in Il monolinguismo dell’altro, assume sempre la forma di una
legge antinomica e (auto)contraddittoria: “1. Non si parla mai
che una sola lingua – o piuttosto un solo idioma. 2. Non si parla
mai una sola lingua – o piuttosto non c’è idioma puro” (MAt 23
[12]).

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Antinomica, la legge della lingua non può non prodursi


come effetto o marca che si (rap)presenteranno come lingua
della legge: lingua/legge idiomatica da sempre, da subito affer-
rata da una pulsione genealogica che non è altro che tentativo
(sempre interdetto) di appropriazione di quanto non possiede
alcuna “proprietà”.
Ma in questa “rivincita [della lingua] al cuore della legge”
la lingua dichiara la propria “follia” e, insieme, la “follia” della
legge, ed è in questo “gesto non molto originale” che si annida
una considerazione che deve poter valere come impossibile
esergo di ogni considerazione sulla legge: “Ho sempre sospetta-
to la legge, come la lingua, di essere folle, in ogni caso l’unico
luogo e la prima condizione della follia” (MAt 25 [14]).

FUOCHI SEMANTICI: femminile, giustizia, lingua, responsabilità,


topologia, fallologocentrismo, inconscio, cripta.

S.F.

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LETTERATURA
[LITTÉRATURE]

Solo a partire dalla consapevolezza dell’impossibilità di


determinare la letteratura come ente o di rintracciarle uno spa-
zio proprio o, ancora, di decidere per una sua ancillarità o uti-
lizzazione funzionale alla filosofia (magari senza discutere la
legittimità di un binomio in cui ognuno dei due termini si lasce-
rebbe definire dalle procedure e dalle categorie dell’altro), è
ipotizzabile un’approssimazione alla pratica derridiana tutta
intrinseca all’irriducibilità categoriale delle opere cosiddette
“letterarie”. Irriducibilità che, proprio a motivo della negazione
di un’essenza e, al contrario, del suo costituirsi come esperien-
za storica o, meglio, storico-giuridica – la letteratura non è poe-
sia né belle lettere perché a differenza di queste, “la specificità
relativamente moderna della letteratura come tale custodisce un
rapporto essenziale e stretto con un momento della storia del
diritto” (PL 132 [97]) –, non consente di identificare uno speci-
fico o un’esemplarità ma accade essa stessa come “esempio di
ciò che avviene ovunque, ogni volta che c’è traccia […] e persi-
no dinnanzi ad ogni speech act in senso stretto” (Pa 90 [124]).
Durante la discussione della tesi di dottorato di Stato avve-
nuta il 2 giugno 1980, Derrida racconta che già nel 1957 aveva
progettato una tesi dal titolo L’idealità dell’oggetto letterario in
cui si trattava di “piegare, più o meno violentemente, le tecniche
della fenomenologia trascendentale all’elaborazione di una
nuova teoria della letteratura, del tipo di oggetto ideale molto
particolare che è l’oggetto letterario, idealità ‘incatenata’, avreb-

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be detto Husserl, incatenata alla lingua cosiddetta naturale,


oggetto non matematico o non matematizzabile ma tuttavia dif-
ferente dagli oggetti dell’arte plastica o musicale, vale a dire da
tutti gli esempi privilegiati da Husserl nelle sue analisi dell’og-
gettività ideale” (DPh 443). Questo lavoro non vedrà mai la
luce, ed anche se Derrida non ha elaborato una teoria della let-
teratura, non è illegittimo proiettare molte delle analisi che ha
dedicato alle “opere letterarie” nell’orbita prodotta dal rigore
epistemologico (e non metodologico) che caratterizza il proget-
to fenomenologico soprattutto riguardo al problema della gene-
si degli oggetti ideali o alla questione del rapporto tra intenzio-
nalità e scrittura: anche per la letteratura il nodo teorico sarà
anzitutto legato al costituirsi dell’iscrizione come scrittura “let-
teraria” non a partire da un essenzialismo ancora derivato dal
carattere logocentrico che informa la critica letteraria (sia nella
sua versione tradizionalmente “semantica”, sia nella versione
“strutturalista”), ma a partire da “una struttura di resistenza alla
concettualità filosofica che pretendeva dominare e comprende-
re [i testi], sia direttamente sia attraverso categorie derivate dal
terreno filosofico: le categorie dell’estetica, della retorica o
della critica tradizionali” (Po 94 [84]).
Proprio il movimento intorno a questa “struttura di resi-
stenza” si è modulato, nel corso del tempo, come “desiderio di
salvare nell’iscrizione ininterrotta, sotto forma di memoria, ciò
che succede – o manca di succedere” (CE 254): l’evento e la sua
mancanza, vale a dire l’evento come mancanza e la mancanza
come modalità inanticipabile di irruzione dell’evento istituisco-
no e – insieme – contestano qualunque forma di iscrizione che
si pretenda trasparente a se medesima e inaugurano la possibi-
lità di “dire tutto” che, come si vedrà, costituisce lo spazio della
letteratura. In questo senso, allora, la letteratura verrà definiti-
vamente svincolata dall’ingenuità che caratterizza la referenzia-
lità tetica propria della lettura fenomenologica come pure dall’i-
poteca metafisica che caratterizza i “contenuti” ricercati dalla
lettura ermeneutica: “Non c’è testo che sia in se stesso lettera-

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rio. La letterarietà non è un’essenza naturale, una proprietà


intrinseca del testo. È il correlato di un rapporto intenzionale al
testo, rapporto intenzionale che integra in sé, come una compo-
nente o uno strato intenzionale, la coscienza più o meno impli-
cita delle regole convenzionali o istituzionali, in ogni caso socia-
li. [...]. Credo necessario questo linguaggio di tipo fenomenolo-
gico anche se, ad un certo punto, esso deve cedere il posto a
quanto, nella situazione di scrittura o lettura, in particolare let-
teraria, mette in crisi la fenomenologia e il concetto stesso di
istituzione o di convenzione” (CE 263-264).
Le opere che hanno permesso a Derrida di decostruire sia
l’autorappresentazione della letteratura, sia l’idea stessa di una
critica letteraria intesa come lettura alla ricerca di un significa-
to, indicano un percorso che non è possibile considerare come
parallelo e/o secondario rispetto ai testi istituzionalmente filo-
sofici (tra i quali, proprio per le rilevanti conseguenze teoriche
rispetto al problema della letteratura, è doveroso segnalare
Firma Evento Contesto del 1971): dall’attenzione rivolta a
Bataille, Artaud, Mallarmé, Sollers a partire dagli anni ’60, pas-
sando attraverso Genet, Ponge, Kafka, Joyce, Blanchot, Celan,
Cixous, si profila una mobile mappatura in cui è presente l’ela-
borazione dei precipitati teorici maggiori e, insieme, il loro con-
tinuo rilancio. Rilancio che si modula come contestazione del
principio di “competenza” generalmente considerato come pre-
supposto dell’analisi letteraria e che “presuppone che si possa
distinguere rigorosamente il sapere (come atto o come situazio-
ne) dall’evento di cui tratta, e soprattutto dalle equivocità delle
marche scritte o orali, insomma delle grammofonie. La compe-
tenza presuppone la possibilità di un metadiscorso neutro e uni-
voco su un campo di obiettività, testuale o meno” (UG 99 [81]).
Nessun metadiscorso intorno alla letteratura che finirebbe
con il rinchiudere le analisi nella circolarità di rimandi tra autore,
testo e lettura: si tratta invece di riconoscere che l’unicità e la
non-esemplarità di un testo (in)criptano comunque “una legge e
una tipologia dell’idioma” (Si 23 [49-50]), e sarà proprio nella

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compresenza e nel reciproco scartarsi di legge e idioma che viene


dichiarata sia l’impossibilità del metadiscorso proprio della
“competenza” del lettore, sia l’impossibilità di un’“appartenen-
za” dell’opera ad un qualche genere letterario o estetico o poeti-
co indipendentemente dalle marche che pure possono segnalarla.
L’economia messa in gioco dalla marca non si lascia formalizza-
re né in termini genealogici né secondo il succedersi di sequenze
(come ad esempio la sequenza scrittura + lettura + interpretazio-
ne): è smarcandosi dal testo che produce che la marca d’apparte-
nenza diviene metonimo della testualità generale in cui “questo
tratto supplementare e distintivo, marca dell’appartenenza o del-
l’inclusione, non dipende da nessun genere e da nessuna classe.
La rimarcazione di appartenenza non appartiene. [...] Un testo
non saprebbe appartenere a nessun genere. Ogni testo partecipa
a uno o più generi, non c’è testo senza genere, c’è sempre del
genere e dei generi ma questa partecipazione non è mai un’ap-
partenenza. […] Tale assioma di non-chiusura o di incompletez-
za incrocia dentro di sé la condizione di possibilità e la condizio-
ne di impossibilità di una tassonomia” (Pa 264-265 [312-313]).
La pratica della DECOSTRUZIONE (nonostante il fraintendi-
mento prodotto nel 1975 dall’assimilazione di Derrida alla
cosiddetta Yale school) viene dunque messa alla prova nel chia-
smo tra una LEGGE e una singolarità, intendendo quest’ultima sia
come carattere dell’opera sia come carattere della lettura: “Una
singolarità assoluta, assolutamente pura, se ce ne fosse, nemme-
no apparirebbe e, in ogni caso, non si darebbe a leggere. Per
divenire leggibile, occorre che si spartisca, che partecipi e
appartenga. [...] La singolarità non è mai puntuale, mai chiusa
come un punto o un pugno. È un tratto, un tratto differenziale e
differente da sé: differente con sé. La singolarità differisce da se
medesima, si differisce per essere quanto è e per ripetersi nella
sua singolarità” (CE 286).
È dunque il chiasmo che insinua nel presunto carattere di
“letterarietà” di alcuni testi il lavoro di una singolarità inconfes-
sabile che rovescia la stessa possibilità di un significato (maga-

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ri “te(le)ologicamente” presente nell’opera) e convoca il lettore


come “destinatario che partecipa alla scena dell’inconfessabile,
di un inconfessabile criptato, testardo, criptato e taciuto, crypté-
tu, un inconfessabile che resta inconfessato nella confessione
stessa e autentificato come tale” (Ge 42). “Inconfessabile” è una
paleonimia a cui è appesa l’impossibilità di un’autofondazione
della lettura (perché il lettore è sempre letto dal testo che legge
ed è il controfirmatario che “riconosce” l’unicità della firma di
un testo), come pure l’impossibilità che la firma sfugga all’ite-
rabilità che presiede la scrittura: come già per il teatro di Artaud,
anche per la letteratura occorre riconoscere la mai raggiunta o
raggiungibile tensione verso un linguaggio non imitativo o sem-
plicemente fonosimbolico che Derrida chiama “glossopoiesi”,
la quale “ci conduce al limite del momento in cui la parola non
è ancora nata, quando l’articolazione non è già più il grido, ma
non è ancora il discorso, quando la ripetizione è quasi impossi-
bile, e con quest’ultima, è quasi impossibile la lingua in genera-
le: la separazione tra il concetto e il suono, tra il significato e il
significante, tra pneumatico e grammatico, tra la libertà della
traduzione e quella della tradizione, il movimento dell’interpre-
tazione, la differenza tra l’anima e il corpo, tra il signore e il
servo, Dio e l’uomo, l’autore e l’attore” (ED 352 [309]).
Il SEGRETO della letteratura (genitivo oggettivo e soggetti-
vo) scaturisce dal “quasi” che lacera l’apparentemente inoltre-
passabile trascendentalità della scrittura e apre uno squarcio nel
presente della ripetizione a cui è consegnata anche l’autorialità
del nome proprio che lavora il proprio LUTTO per farsi “nomina-
zione” prima di ogni possibile separazione (è qui che la lettera-
tura si scarta da sé partecipando, come “racconta” la colonna di
scrittura dedicata a Genet in Glas, al proprio funerale): “La
grande posta in gioco del discorso – dico bene discorso – lette-
rario: la trasformazione paziente, ingegnosa, quasi animale o
vegetale, infaticabile, monumentale, derisoria o piuttosto rivol-
ta alla derisione, del proprio nome proprio, rebus, in cose, in
nomi di cose” (Gl 11 [63]).

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Occorre dunque verificare l’effettiva determinazione dei


confini della letteratura a partire dalla nominazione, dal nome
proprio, dalla firma e da tutti i “luoghi” solo apparentemente
irriducibili rispetto al testo (o al paratesto) in cui operano: la
nominazione (denotativa o connotativa) istituisce sempre e
comunque una tassonomia, anche quando pretende sottrarsene,
ed è contro la violenza originaria della nominazione – “dare un
nome è sempre, come ogni atto di nascita, sublimare una singo-
larità e indicarla, consegnarla alla polizia” (Gl 13 [71]) – che
l’opera letteraria e/o poetica tenta di prodursi, sia consumando-
si affinché non permangano “resti” che si lascerebbero classifi-
care dentro generi, sia producendo ipertroficamente “resti” che
sospendono ogni ipotizzabile classificazione. Come accade per
la lettura di Davanti alla legge di Kafka, se è un “doppio pro-
blema” ad investire ogni opera letteraria: “chi decide, chi giudi-
ca, e secondo quali criteri, dell’appartenenza di questo racconto
alla letteratura?” (PL 103 [70]), sarà intorno a tale duplicità,
all’oscillazione di piani argomentativi che si raccoglieranno il
punto di crisi di ogni piano con l’altro ed il “con-testuale” inva-
ginarsi dell’aporia secondo cui “questo nome di letteratura
essendo forse destinato a rimanere improprio, senza concetto e
senza referenza assoluta, senza criterio, la ‘letteratura’ avrebbe
qualcosa a che fare con questo dramma del nome, con la legge
del nome ed il nome della legge” (PL 104 [71]). L’andare a
fondo di ogni criterio referenziale fa segno verso la letteratura
che, per questo, potrà essere inseguita lungo la frontiera che la
determina come tale necessitandola a superarsi, vale a dire a
considerare il suo stesso superamento come effetto letterario,
“ad occupare un luogo sempre aperto ad una sorta di giuridicità
sovversiva” (PL 134 [98]).
Sovversione (giuridica perché trascendentale) all’opera nel
franare del paradigma mimetologico (come mostra la lettura di
Mallarmé in La doppia seduta), considerato l’orizzonte catego-
riale fondativo del discorso letterario in cui lavora la biunivocità

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di uno scambio semantico saturato, senza residui, e la cui


“norma, il suo ordine, la sua legge, è la presenza del presente”
(Di 238 [217]): la catena paleonimica di innesto, imene, bianco,
piega, seme, marca, rintracciata a partire dalla lettura di
Mallarmé (Mimique) scaturisce dalla differenza (avviata con la
lettura di Nombres di Sollers) tra la “polisemia” che “propone
sempre le sue molteplicità, le sue variazioni nell’orizzonte,
almeno, di una lettura integrale e senza rottura assoluta, senza
scarto insensato, orizzonte di una parusia finale del senso final-
mente decifrato, rivelato, divenuto presente nella ricchezza
ricomposta delle sue determinazioni” (Di 425 [357]) e la “dis-
seminazione”, in cui “il seminale si dissemina senza essere mai
stato se stesso e senza ritorno a sé” (Di 426 [57]).
Tale differenza si modulerà, nel corso del tempo, come
distanza dal “raccoglimento” (Versammlung) heideggeriano o, a
proposito della poesia, come antecedenza del “poema” sulla
“poiesi” (PS 307: “Prima di ogni poiesi c’è solo poema. […]
non c’è verso, non c’è nulla da fare (poiein), né ‘poesia pura’,
né retorica pura, né reine Sprache, né ‘porsi-in-opera-della-
verità’”); o ancora, trent’anni dopo la lettura di Sollers, per
rimarcare la frontiera tra ermeneutica e “lettura-scrittura disse-
minale” che “si conduce anche verso un resto o un eccedente
irriducibile. L’eccesso di questo resto si sottrarrebbe ad ogni rac-
coglimento ermeneutico” (Bé 47).
Centrale è la distanza dal progetto ermeneutico che non
lascia residui e, per questo, non apre verso quel “performativo
sintetico di una promessa e di una memoria che condiziona ogni
impegno” (UG 94-95 [78]) indicato dalla “firma”: struttural-
mente distinta dal “nome proprio” e a questo non pienamente
riconducibile, la firma smargina le “proprietà” dei nomi e, prin-
cipalmente, dei nomi propri (nella disappropriazione letteratura
e firma trovano il loro “s-legame”), perché mette in abisso il
movimento scrittura/ripetizione (declinazione “letteraria” del
fort:da freudiano), come mostrano le eteronimie all’opera in
Ponge, in cui nel rovesciamento del nome proprio in nome

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comune (Ponge/éponge) si gioca “il dramma che opera e


costruisce ogni firma, [che] è questa ripetizione insistente,
incessante, tendenzialmente infinita di quanto resta, ogni volta,
irrimpiazzabile” (Si 23 [50]). La firma, allora, in qualità di sin-
golarità irriducibile, mette in gioco una logica interamente gio-
cata sui paradossi della singolarità: “la logica dell’opera, spe-
cialmente in letteratura, è una ‘logica’ della firma, una parados-
sologia della marca singolare, dunque dell’eccezionale e del
contro esempio” (CE 277). Anche sul versante della prosa lette-
raria, come nell’opera di Genet, si assiste all’incessante prolife-
rare di “innesti del nome proprio. Lotta, lavoro, scavo, con con-
seguenze nefaste, ondate di repressione, contro il desiderio di
ricostruire, a partire dalla firma autografa della vergine, la forza
genealogica […] Al limite, del testo, del mondo, non resterà che
un’enorme firma, pregna di tutto ciò che avrebbe precedente-
mente inghiottito ma gravida solo di sé” (Gl 48 [211]). Una
strutturale impurità opera nella letteratura e appende la sua
legge agli assiomi di impossibilità che culminano nell’iterarsi
della firma, vale a dire della singolarità, fratta nel suo s-partirsi
e, per questo, letteralmente “alterata”: “per funzionare, cioè per
essere leggibile, una firma deve avere una forma ripetibile, ite-
rabile, imitabile […] È la sua medesimezza che, alterando la sua
identità e la sua singolarità, ne divide il sigillo” (Ma 392 [422]).
La firma, nella lettura di Celan proposta in Schibboleth —
per Paul Celan, verrà declinata come unicità della data in cui si
mostra “qualcosa dell’essenza del poema oggi, per noi ora. Non
l’essenza della modernità o della post-modernità poetica, non di
un’epoca o di un periodo in una qualche storia della poesia, ma
ciò che accade ‘oggi’ di ‘nuovo’ alla poesia, ai poemi, ciò che
accade loro in questa data” (Sc 19 [14]): nell’irripetibile unicità
di una “data”, nel “qui e ora” in cui la scrittura si consegna, si
indirizza, si invia smarcandosi da mittenti e destinatari, è in
gioco un movimento di sottrazione e presenza, ripetibilità-sin-
golarità irriducibile che promette e testimonia ed in cui proprio
la data deve dividersi e ripetersi “perché se non sospende in lei

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questo tratto unico che la tiene legata all’evento senza testimo-


ne, senza altro testimone, resta intatta, ma assolutamente inde-
cifrabile” (Sc 32 [27]).
Data, firma e TESTIMONIANZA non inclinano verso una qual-
che forma di engagement o verso interpretazioni poetico-politi-
che: è piuttosto verso le nozioni di libertà e di DEMOCRAZIA A
VENIRE – “La letteratura è libera. Dovrebbe esserlo. La sua
libertà è anche quella che promette una democrazia” (PM 398)
– che la riflessione si curva, e la torsione è costitutiva del movi-
mento iscrizione-escrizione che governa l’istituzione letteratura,
perché il paradosso determinatosi storicamente la considera,
appunto, come istituzione del tutto ‘an-istituzionale’, libera di
rispondere di sé solo a sé medesima, con la conseguenza che tale
libertà, iperbolizzando le nozioni di responsabilità, testimonian-
za, democrazia a venire, annoda strutturalmente principio lette-
rario e principio democratico: “La letteratura è storica, da parte
a parte, possiede atti, luoghi di nascita, tradizioni, eredità; e la
democrazia è il solo ‘regime’ che, accogliendo per principio la
propria autocritica e riconoscendo la sua perfettibilità indefini-
ta, si definisce promettendosi – attraverso e nella sua storicità,
attraverso e secondo il suo stesso a-venire” (QD 209 [179]).

La libertà della letteratura non deriva da nessuna ontologia,


ma procede da una possibilità e un rischio che si declinano come
esperienza aperta-verso e mossa-da TUTT’ALTRO, vale a dire
come “un indirizzo, un certo modo di indirizzarsi. Questa riven-
dicazione è l’atto letterario stesso” (QD 206 [177]): nell’indi-
rizzo, nel rivolgersi-a entra prepotentemente in gioco l’alea di
una responsabilità non riconducibile a nessuna regola o a nessu-
na etica e che non (ri)conosce altro tribunale che non sia quello
della letteratura stessa. È necessario “sentirsi responsabili di non
essere responsabili davanti questa o quella legge particolare.
Rispondere di quanto scrivo, in letteratura, significa che non
devo rendere conto a nessuno, né alla polizia, né allo Stato, né
all’Università, né alla Famiglia, né alla Religione” (DP 108

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[106]): è in vista di tale (iper)responsabilità che il diritto di esi-


stere della letteratura mostra la propria inalienabilità, perché il
suo “non-proprio” consiste nell’impossibilità di una resa che si
modula come possibilità di “tutto dire, tutto accettare, tutto rice-
vere, tutto soffrire e tutto simulare” (De 30 [107]).
Nel “tutto” della letteratura si dichiara l’impossibile identi-
ficazione di un discorso che pretenda definirla in termini di
essenza (“la letteratura si regge forse sul bordo di tutto, quasi al
di là di tutto, compresa se stessa” CE 267) e, simultaneamente,
si insinua – illuminando gli atti che produce o gli eventi che
accoglie – il segreto che la fa coincidere solo con se medesima
in cui appello e risposta, responsabilità e singolarità, diritto ed
evento sopraggiungono come già da sempre differiti, già eredi di
una storia o di una filiazione che dovrà essere rinnegata per
poter essere confessata (tradìta nel suo essere tràdita), lungo una
memoria senza oggetto o ricordo che, proprio in ragione del-
l’impossibilità di esporsi o dichiararsi, non potrà che assumere
la forma della richiesta di perdono: “Nessuna letteratura che non
chieda, fin dalla sua prima parola, perdono” (DM 208-209
[185]), scrive Derrida in pagine che commentano il capitolo 22
di Genesi (la “legatura” di Isacco), ed è sulla scena impossibile
di un perdono impossibile che la letteratura scopre, nella scon-
finata abissalità della propria origine, il segreto – “tutto” il
segreto – del suo consegnarsi, perché se “tutto è segreto nella
letteratura e non c’è segreto dietro di essa, ecco il segreto di
questa strana istituzione” (PM 398), allora frana anche l’ipotesi
di una Urszene ricomponibile. Nel franare delle ipotesi avanza,
come se si muovesse fra macerie, la richiesta di perdono che
assume la scena abramica (indice di un’alleanza impossibile tra
autonomia della libertà ed eteronomia delle condizioni che pure
la permettono) quale immemoriale santità di una storia che la
letteratura – erede della sua stessa libertà – non può non tradire
e di cui, nel momento in cui tradisce, chiede perdono, perché
“tra tutte le ragioni di chiedere perdono di quanto si scrive o
anche di quanto si dice, c’è ancora questa: la quasi-sacralizza-

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zione della letteratura è apparsa nel momento in cui un’appa-


rente de-sacralizzazione dei testi biblici era all’opera. La lette-
ratura, allora, come erede fedele infedele, come erede spergiu-
ro, chiede perdono perché tradisce. Tradisce la sua verità” (PM
398).

FUOCHI SEMANTICI: iterabilità, diritto, scrittura, firma, innesto,


data, singolarità, performativo, traccia, marca, imene.

S.F.

140
DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 141

LUTTO
[DEUIL]

Derrida ha più volte affrontato, nel corso degli anni, la que-


stione del lutto e del suo lavoro. E “lavoro del lutto” non è solo
una parte del sottotitolo di un testo interamente dedicato al
tema, vale a dire Spettri di Marx, ma anche il titolo originale
inglese (The Work of Mourning) della raccolta di tutti i testi
scritti e pubblicati da Derrida in occasione della morte di filo-
sofi e scrittori amici; testi in cui la questione del lutto (e del suo
lavoro) non è solo tematizzata, ma già all’opera. Questi testi,
d’occasione, sono di grande importanza per comprendere la
portata del lavoro del lutto nell’opera di Derrida, proprio perché
sono, al contempo, lavoro filosofico sul lavoro del lutto e lavo-
ro del lutto all’opera nel lavoro filosofico. Non c’è lavoro sul
lutto infatti che non sia già un lavoro del lutto; ma, più in gene-
rale, non c’è lavoro, produzione – anche quando si tratta di dare
o produrre la vita – che non sia già in sé assillato dallo spettro
del lavoro del lutto. Nel testo di commemorazione di Louis
Marin Derrida scrive: “Non si può tenere un discorso sul ‘lavo-
ro del lutto’ senza prendervi parte, senza farsi partecipi della
morte, e innanzitutto della propria. Nel farsi partecipi della pro-
pria morte, che alla fine giunge a dire ‘io sono morto’, ‘io
morii’, come questo libro ci fa capire, bisognerebbe poter dire –
io ci ho provato una volta –, che ogni lavoro è anche lavoro del
lutto. Ogni lavoro in generale lavora al lutto. Di per sé. Anche
quando ha il potere di far nascere, anche quando e soprattutto
quando premedita di dare la vita e di dare a vedere. Il lavoro del

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lutto non è una specie tra altre possibili, un’attività del genere
‘lavoro’; non è per niente una figura particolare della produzio-
ne in generale. Non c’è dunque metalinguaggio nel linguaggio
in cui si impegna un lavoro del lutto” (CF 177-178 [159-160]).
Derrida, che ha dichiarato “non ho imparato ad accettare la
morte” (AV 24), non ha mai smesso di lavorare al lutto, facen-
done una continua esperienza di pensiero e di vita, sintetizzata
in quella formula magistrale che, trasformando in un verbo un
sostantivo, suona così “io postumo come respiro” (Ci 28 [29]).
Si possono citare molti esempi – occorrenze, passaggi, testi
– in cui Derrida lavora al lutto sottoponendolo a un lavoro deco-
struttivo che rimette in questione l’opposizione, teorizzata da
Freud, tra lutto e melanconia. Ma prima di qualsiasi ricostruzio-
ne dei contesti in cui Derrida lavora al lutto occorre fare una
premessa e mostrare che il lavoro del lutto è intimamente con-
nesso con la DECOSTRUZIONE come autodecostruzione autoim-
munitaria della vita in generale. La logica della vita, della vita
del vivente in generale, è già da sempre una logica autoimmuni-
taria de LA VITA LA MORTE in cui la morte non si oppone sempli-
cemente alla vita, ma lavora al cuore della vita; non c’è dunque
vita che non sia fin da subito SOPRAVVIVENZA a una morte già
inscritta, fin dall’origine, al cuore della vita stessa. La stessa
nozione di ARCHI-SCRITTURA, solo in apparenza lontana dalle
questioni su LA VITA LA MORTE, non nomina altro che il tempo
morto all’opera nella presenza di ogni vivente: “L’archi-scrittu-
ra come spaziatura non può darsi come tale, nell’esperienza
fenomenologica di una presenza. Essa marca il tempo morto
nella presenza del presente vivente, nella forma generale di ogni
presenza. Il tempo morto è all’opera” (Gr 99 [100]). Il che signi-
fica che non c’è rapporto a sé della vita, né rapporto all’altro,
che non implichi già da sempre un certo lavoro del lutto. Noi
viventi siamo già da sempre dei sopravvissuti in lutto che devo-
no farsi carico della spettralità stessa di questa SOPRAVVIVENZA.
E tuttavia, il lavoro del lutto all’opera nella DECOSTRUZIONE
e come DECOSTRUZIONE non è il lavoro del lutto teorizzato da

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Freud in opposizione alla melanconia come suo scacco. Il lavo-


ro del lutto all’opera nella DECOSTRUZIONE è già un lavoro del
lutto in DECOSTRUZIONE. Derrida non ha mai smesso di contesta-
re la norma e la normalità del lavoro del lutto come introiezio-
ne idealizzante dell’altro, come interiorizzazione del ricordo che
assimila l’altro a sé, affermando la necessità dello scacco per
questo lavoro, la necessità, vale a dire, di una certa melanconia
che venga a destabilizzare la supposta normalità del lavoro del
lutto. La DECOSTRUZIONE, si potrebbe allora dire, è un’altra espe-
rienza del lutto come modalità di rapportarsi, senza assimilarlo
né scacciarlo, allo spettro, al di là dei limiti di una certa idea
normale di lutto teorizzata da Freud, e al di là di un’ontologiz-
zazione dei resti come risposta e difesa contro ciò che minaccia
di destabilizzare ogni pensiero, ingenuo e scaltro al contempo,
della vita, della presenza, della presenza a sé del presente viven-
te. Questo è ben evidente in Spettri di Marx in cui il punto di
vista della DECOSTRUZIONE non è quello della realtà vivente,
della realtà effettiva (Wirklichkeit) che lavora per scongiurare lo
spettro, vale a dire per riappropriarlo a sé, ma quello della Cosa
spettrale, dell’alterità inassimilabile che destabilizza l’orizzonte
di ogni presenza e gli spazi, politici o sociali, che a partire da
una certa idea di presenza si pensano. In un’intervista con Éli-
sabeth Roudinesco, Derrida ha affermato: “Spettri di Marx è
forse anche, in effetti, un libro sulla melanconia in politica, sulla
politica della melanconia: politica e ‘lavoro del lutto’, riuscito o
non riuscito, quando riesce male o sembra impossibile. Da
molto tempo, ‘lavoro’ io stesso al lutto, se così si può dire, o mi
lascio lavorare dalla questione del lutto, dalle aporie del ‘lavoro
del lutto’, sulle risorse e i limiti del discorso psicoanalitico a
questo riguardo, e su una certa coestensività tra lavoro generale
e lavoro del lutto” (QD 131 [113]).

Ma quali sono i limiti del discorso psicoanalitico sul lutto


che si tratterebbe di decostruire? Per Freud, l’insorgere in alcu-
ni soggetti della melanconia, invece del lutto, è sintomo di una

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disposizione patologica del soggetto. Per Derrida, al contrario,


la melanconia deve destabilizzare la sicurezza del lavoro del
lutto supposto normale, al fine di salvaguardare l’alterità del-
l’altro da una normalità del lavoro del lutto che rischia sempre
di essere la “buona coscienza di un’amnesia”: perché l’accogli-
mento dell’altro in me, tramite il lavoro della memoria interio-
rizzante, rischia sempre di dimenticare, appunto, l’altro, l’alte-
rità dell’altro, in un movimento di divorazione senza resto. In
Béliers, Derrida sintetizza così la sua posizione circa il lavoro
del lutto: “Secondo Freud, il lutto consiste nel portare l’altro in
sé. Non vi è più mondo, è la fine del mondo per l’altro alla sua
morte, e io accolgo in me questa fine del mondo, io devo porta-
re l’altro e il suo mondo, il mondo in me: introiezione, interio-
rizzazione del ricordo (Erinnerung), idealizzazione. La melan-
conia accoglierebbe lo scacco e la patologia di questo lutto. Ma
se io devo (è l’etica stessa) portare l’altro in me per essergli
fedele, per rispettarne l’alterità singolare, una certa melanconia
deve protestare ancora contro il lutto normale. Essa non deve
mai rassegnarsi all’introiezione idealizzante. Essa deve prote-
stare contro quanto ne dice Freud con una sicurezza tranquilla,
come per confermare la norma della normalità. La ‘norma’ non
è altro che la buona coscienza di un’amnesia. Essa ci permette
di dimenticare che custodire l’altro all’interno di sé, come sé, è
già dimenticarlo. Lì comincia l’oblio. Occorre dunque la melan-
conia. In questo luogo, la sofferenza di una certa patologia detta
la legge […]” (Bé 74).
Quest’altra legge contesta la normalità della norma e apre
così alla possibilità di non dimenticare l’altro nella memoria
assimilatrice, di non dimenticare l’altro in sé: poiché è l’altro
come altro, l’altro in sé, se mai qualcosa di simile si dà, che si
dimentica quando lo si custodisce fedelmente in sé, quando lo si
interiorizza dentro di sé come ricordo. Attraverso la sofferenza
della melanconia passa la possibilità di un’altra memoria del-
l’altro, che non dimentica l’altro nella misura in cui non lo assi-
mila a sé. Non si tratta però di prendere partito per la melanco-

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nia contro il lutto supposto normale. Tra il successo di un lavo-


ro del lutto che fallisce poiché, interiorizzandolo nella memoria,
assimilandolo a sé, dimentica l’altro, e lo scacco di un lutto che
riesce poiché lascia l’altro all’altro, a un oblio che ne custodisce
puramente l’alterità dimenticandolo, l’altro rischia sempre di
andare perduto. Se si trattasse semplicemente di scegliere tra
lutto o melanconia si arriverebbe in ogni modo a dimenticare
l’altro, a non rispondere in maniera giusta alla legge che ingiun-
ge di portare l’altro morto vivo in me fuori di me.
L’ingiunzione dell’altro, l’ingiunzione spettrale che a parti-
re dall’altro assente comanda di non dimenticarlo e di portarlo
nella memoria come altro, espone dunque l’esperienza del lutto
all’aporia insolubile che Derrida ha descritto in Memorie – per
Paul de Man. In questa aporia si cerca un’altra esperienza del
lavoro del lutto come lutto impossibile, come lavoro che non ha
il potere di compiersi, e che lavora a rinunciare al proprio pote-
re, lavora allo scacco e, dunque, a fare il lutto del proprio pote-
re, il lutto del lavoro del lutto, per esporsi così, disarmato, ad
accogliere l’altro e a portarlo senza riappropriarlo a sé: “Non
possiamo vivere questa esperienza che nella forma dell’aporia,
aporia del lutto e della prosopopea: il possibile rimane impossi-
bile, il successo fallisce, l’interiorizzazione fedele che porta
l’altro e lo comporta in me (in noi), vivo e morto a un tempo, fa
dell’altro una parte di noi, tra noi – in tal modo l’altro pare non
essere più l’altro, dal momento che lo piangiamo e lo portiamo
in noi, come un bambino prima di nascere, come un avvenire. Al
contrario, lo scacco riesce: l’interiorizzazione che abortisce è il
rispetto dell’altro come altro, una sorta di tenero rifiuto, un
movimento di rinuncia che lo lascia solo, fuori, laggiù, nella sua
morte, fuori di noi. Possiamo accettare questo schema? Non
credo, anche se vi è in esso una parte di dura e innegabile neces-
sità, quella stessa che rende il vero lutto impossibile” (MP 54
[45]).
È in questa impossibilità per il lutto di compiere e portare
a termine il proprio lavoro che si tratta di pensare un altro lavo-

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ro del lutto che non si opponga più semplicemente alla melan-


conia come il suo altro patologico, ma la porti in sé come suo
limite e sua risorsa che fa del lutto un lavoro infinito d’impossi-
bile appropriazione dell’altro: unico modo, in sé aporetico, di
portare in sé, in sé fuori di sé, l’altro come altro. Quest’altro
lavoro del lutto al di là della semplice opposizione tra lutto e
melanconia, obbliga a pensare un’altra topologia e un’altra topi-
ca del soggetto in grado di rendere conto del paradosso secondo
cui l’io porta l’altro in sé come altro, lo porta in sé senza por-
tarlo in sé, lo porta in sé fuori di sé, in un fuori incluso-escluso
all’interno-esterno del dentro, in un fuori esterno/interno allo
spazio del suo forum, del suo foro interiore. È l’altro, la legge
dell’altro a dettare questa logica paradossale che eccede i limiti
onto-topologici e i limiti dell’autonomia del soggetto. La porta-
ta di questa legge è quella di una responsabilità come risposta
che si impegna per l’altro senza poter-sapere, là dove il poter-
sapere di un soggetto, singolare o collettivo, si espone, nella
passività senza passività, nella debolezza affermativa di un sì
come risposta all’origine, all’altro che non è più alla propria
portata, alla portata di un’appropriazione a sé. L’altro è già in
me, prima di me, e mi porta: “Io devo allora portarlo, portarti,
là dove il mondo si ritira, è la mia responsabilità. Ma io non
posso più portare l’altro, né te, se portare vuol dire includere in
se-stessi, nell’intuizione della propria coscienza egologica. Si
tratta di portare senza appropriarsi. Portare non vuol più dire
‘comportare’, includere, comprendere in sé, ma portarsi verso
l’inappropriabilità infinita dell’altro, all’incontro della sua tra-
scendenza assoluta all’interno stesso di me, vale a dire in me
fuori di me. E io non sono, io non posso essere, io non devo
essere che a partire da questa strana portata dislocata dell’infi-
nitamente altro in me” (Bé 76).

Ora, in quest’altro portare che non comporta appropriazio-


ne, e che si porta verso l’altro come verso il limite dell’appro-
priabilità e del potere dell’ipseità, è in gioco non solo un’altra

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portata del lavoro del lutto, ma anche un’altra idea di soggetto


che non si dà se non a partire da questa portata dell’altro dislo-
cato in me fuori di me, che io porto e che al contempo mi porta.
Io sono significherà allora: io sono la portata dell’altro, di un
altro come TUTT’ALTRO, ogni altro che porto nella misura in cui,
ed è la misura senza misura di una dislocazione, sono portato
dall’altro. Ecco l’hantise, l’ossessione dell’io, l’io come essere-
ossessionato. Se tutto ciò riguarda il lavoro del lutto, non riguar-
da, con ciò, solo il momento effettivo della morte, ma anche
quella che si suppone essere l’effettività stessa della vita, ciò che
si crede di riconoscere, nella sua effettività, sotto questo nome.
Perché non c’è vita, con-vivere, essere con l’altro, in cui non sia
già all’opera un lavoro del lutto; non c’è vita, non c’è rapporto
a sé nella vita né c’è rapporto all’altro vivente, se non a partire
dalla possibilità della morte, la mia morte e la morte dell’altro
che, prima ancora di essere effettiva, è già qui, abita e assilla il
cuore stesso della vita e del con-vivere: “L’‘io’ [moi] e il ‘noi’ di
cui parliamo sorgono e si costituiscono in quanto tali solo attra-
verso questa esperienza dell’altro, e dell’altro come colui che
può morire lasciando in me o in noi questa memoria dell’altro.
La terribile solitudine, la mia o la nostra, alla morte dell’altro, è
ciò che costituisce quel rapporto con sé che chiamiamo ‘sé’ o
‘noi’, ‘tra noi’, ‘soggettività’, ‘intersoggettività’, ‘memoria’. La
possibilità della morte ‘accade’, se così posso dire, ‘prima’ di
queste diverse istanze rendendole possibili. Bisogna precisare:
la possibilità della morte dell’altro, come della mia o della
nostra, istruisce il mio rapporto con l’altro e la finitudine della
memoria” (MP 52-53 [43-44]). L’essere presso di sé e l’essere
con l’altro sono dunque già da sempre un essere con lo spettro
che disloca, sloga e slega e disaggiusta qualsiasi illusione, che
non sarà con ciò meno forte, di presenza viva e di comunità di
presenti viventi, sani, salvi, immunizzati dalla morte.

Quando Derrida parla del lavoro del lutto al di là della sem-


plice opposizione tra lutto e melanconia, gioca al contempo

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sulla contaminazione di un’altra opposizione: quella tra introie-


zione e incorporazione. “Introiezione/incorporazione, tutto si
gioca sul limite che le separa e le oppone. Da un fòro, l’altro, da
un dentro, l’altro, l’uno nell’altro e, al tempo stesso, fuori del-
l’altro” (Fo 15 [53]), scrive Derrida in Fors (“fuorché”, “eccet-
to”, “tranne”, ma anche, come plurale di for, “fori” nel senso di
“fori interiori”), prefazione criptica a Il verbario dell’uomo dei
lupi di Nicolas Abraham e Maria Torok. Parlando, in Spettri di
Marx, di una politologia del trauma e di una topologia del lutto
precisa: “di un lutto interminabile, di fatto e di diritto, senza
normalità possibile, senza limite affidabile, nella realtà o nel
concetto, tra l’introiezione e l’incorporazione” (SM 160 [125]).
Che Derrida abbia in mente l’opposizione tra introiezione e
incorporazione teorizzata da Abraham e Torok si evince chiara-
mente dalla prima nota di Spettri di Marx in cui Derrida affer-
ma, rinviando tra gli altri testi anche a Fors, che il suo saggio è
la prosecuzione di percorsi anteriori attorno al lavoro del lutto e
“sulla frontiera problematica tra incorporazione e introiezione,
sulla pertinenza effettiva ma limitata di questa opposizione con-
cettuale, come di quella che separa lo scacco e il successo nel
lavoro del lutto, la patologia e la normalità del lutto” (SM 24 n.
1 [222 n. 3]).
L’introiezione, secondo Maria Torok, è un accrescimento
dell’Io tramite l’inclusione di un oggetto d’amore. Poiché, secon-
do Ferenczi, l’amore dell’uomo non può che ricadere su se stes-
so, non può che essere di natura autoerotica, l’introiezione esten-
de questo amore autoerotico a oggetti esterni includendoli nel-
l’Io. Con l’introiezione non vi è semplice incorporazione del-
l’oggetto: piuttosto tramite l’oggetto viene inclusa nell’Io la libi-
do incosciente che si rapporta all’oggetto; il fine dell’introiezio-
ne non è la compensazione, ma l’accrescimento dell’Io tramite
l’oggetto che svolge un ruolo mediatore nell’introiezione della
libido. Commentando quest’articolo, Derrida scrive: “L’introie-
zione definita da Ferenczi è il processo che permette di estende-
re gli investimenti auto-erotici. Includendovi l’oggetto, da qui il

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nome, essa allarga l’io. Essa non si ripiega: vince, si propaga,


assimila, progredisce. […] Riferendosi a questa definizione
Maria Torok precisa che l’introiezione non include solo l’ogget-
to ma le pulsioni che a esso si rapportano” (Fo 16 [53-54]).
L’incorporazione viene invece definita dalla Torok come un
meccanismo che sorge allorché l’introiezione si trova davanti a
un ostacolo insormontabile: quando, per un qualche motivo,
l’introiezione diventa impossibile, si impone l’incorporazione.
A differenza dell’introiezione, che è un processo lento, progres-
sivo, l’incorporazione è istantanea e fantasmatica: di fronte
all’impossibilità di introiettare l’oggetto, e con esso le pulsioni,
essa incorpora magicamente l’oggetto che per una qualche
ragione viene a mancare al suo compito consistente nel media-
re l’introiezione del desiderio. Senza qui entrare in una detta-
gliata ricostruzione delle cause che rendono impossibile l’in-
troiezione, vediamo come Derrida sintetizza e rielabora questo
processo: “Per Maria Torok, l’‘incorporazione propriamente
detta’, nella sua ‘specificità semantica’ interviene al limite stes-
so dell’introiezione, quando questa, per una ragione o per un’al-
tra, si arena [échoue]. Davanti all’impotenza del processo di
introiezione (progressivo, lento, laborioso, mediato, effettivo),
l’incorporazione si impone: fantasmatica, immediata, istanta-
nea, magica, talvolta allucinatoria” (Fo 17 [54-55]).
Ma vi sono altri due elementi specifici che caratterizzano
l’incorporazione: 1) essa opera segretamente, all’insaputa
dell’Io, essendo un atto illegittimo che rifiuta il verdetto della
realtà (l’assenza dell’oggetto), mentre l’introiezione, il cui stru-
mento privilegiato è la nominazione, opera apertamente; 2) l’in-
corporazione segreta è anche criptica, poiché installa all’interno
del soggetto un caveau segreto, una cripta in cui conserva l’og-
getto sparito, l’altro morto. Ciò che non può essere introiettato
viene incorporato, preso in sé fuori di sé, nello spazio segreto di
una cripta. “L’incorporazione è una sorta di furto per riappro-
priarsi l’oggetto-piacere. Ma la riappropriazione è simultanea-
mente rigettata: da qui il paradosso di un corpo estraneo [étran-

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ger] conservato come straniero [étranger] ma allo stesso tempo


escluso da un Io [moi] che quindi non ha più a che fare con l’al-
tro, solamente con se stesso. Quanto più conserva l’estraneo
come straniero in sé, tanto più lo esclude. Mima l’introiezione.
Ma per questa mimica la cui logica è terribile, la clandestinità è
essenziale” (Fo 17-18 [55]).
La topologia che l’incorporazione criptica produce è essen-
zialmente paradossale, in quanto struttura una sorta di inconscio
artificiale all’interno dell’Io e fuori dall’Io: “L’enclave criptico,
tra ‘l’inconscio dinamico’ e ‘l’Io dell’introiezione’ forma, all’in-
terno dell’Io, dello spazio generale dell’Io, una sorta di sacca di
resistenza, la ciste indurita di un ‘inconscio artificiale’. Un divi-
sorio separa l’interno dall’interno. Il foro più interno (la cripta
come inconscio artificiale, come artefatto dell’Io) diviene l’ec-
cetto [hormis] (eccettuato, salvo, fuori), il fuori (foris) per il foro
esterno (Io) che la include senza comprenderlo, al fine di non
comprenderci niente. Il foro interno (Io) si è messo all’esterno
della cripta o, se si preferisce, ha costituito ‘in sé’ la cripta come
foro esterno” (Fo 21 [58]). La cripta è un altro foro in-scritto
fuori del forum interiore, fòri escluso/incluso, (for)cluso dal
forum: “all’interno di questo forum, spazio del libero scambio
per discorsi e oggetti, la cripta costituisce un altro foro: chiuso
[un autre for: clos], quindi interno a lui stesso, interno segreto
all’interno del grande spazio aperto, e al contempo, esterno a
esso, esterno all’interno” (Fo 12-13 [51]). È su queste distinzio-
ni che interviene il lavoro di DECOSTRUZIONE derridiana: distin-
zioni che sono già, d’altra parte, in sé, attraversate dalla deco-
struzione. Senza arrivare a cancellare la differenza tra introie-
zione e incorporazione, e senza sminuire l’importanza che tale
differenza gioca a livello clinico, Derrida afferma che uno dei
due movimenti è strutturalmente già intaccato dall’altro: e que-
sto perché l’esigenza stessa di conservare l’altro come altro
destabilizza il limite tra l’introiezione e l’incorporazione.
Parlando dell’incorporazione Derrida scrive: “Firmando la per-
dita d’oggetto, ma anche il rifiuto del lutto, una tale manovra è

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estranea, e a dire il vero opposta, al processo di introiezione.


Fingo di prendere il morto vivente, intatto, salvo (fuorché) in me
[sauf (fors) en moi], ma è per rifiutare, in maniera necessaria-
mente equivoca, di amarlo come parte vivente, morto salvo in
me, secondo il processo di introiezione, come farebbe il lutto
detto ‘normale’. Per cui ci si potrà, certo, domandare se conser-
vi o no l’altro come altro (vivo morto) in me. Questa questione
della conservazione o dell’appropriazione generale dell’altro
come altro sarà sempre decisiva, ma non confonde, di un equi-
voco essenziale, il limite che fa passare tra l’introiezione e l’in-
corporazione?” (Fo 16-17 [54]).
L’incorporazione che opera al limite dell’introiezione non
si compie; è essa stessa assillata della nostalgia dell’introiezio-
ne, e marca così l’effetto di un lutto impossibile e interminabi-
le, in cui si gioca la possibilità di portare l’altro senza né esclu-
derlo né appropriarlo a sé. La destabilizzazione strutturale del-
l’opposizione, la sua essenziale DECOSTRUZIONE, è dovuta all’al-
tro, all’alterità dell’altro che non permette a nessuno dei due
movimenti di chiudersi su di sé, di chiudersi sul loro altro morto
come sulla propria morte. In altri termini: l’altro inassimilabile,
l’altro che resta e resiste come una restanza inappropriabile,
decostruisce ogni processo di riappropriazione: “Resta il fatto
che l’alterità dell’altro installa in ogni processo di appropriazio-
ne (prima ancora di qualsiasi opposizione tra introiettare e
incorporare) una ‘contraddizione’ o meglio, o peggio, visto che
la contraddizione comporta sempre il telos di un toglimento,
un’irrisoluzione indecidibile che impedisce loro per sempre di
chiudersi sulla loro coerenza propria e ideale, detto altrimenti in
ogni caso sulla propria morte [leur mort]” (Fo 26 [61]).

FUOCHI SEMANTICI: altro, appropriazione, cripta, forclusione,


incorporazione, introiezione, ipseità, melanconia, morte, politica.

S.R.

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MESSIANICO
[MESSIANIQUE]

Una manciata d’anni e un numero relativamente ristretto di


opere offrono un quadro allo stesso tempo preciso e mobile del
problema messianico che comincia a comparire in Spettri di Marx
(1993) e prosegue poi principalmente in Fede e sapere... (1995),
in Ecografie della televisione (1993/96) e in Marx & Sons (1999,
la lunga risposta al dibattito suscitato dopo la pubblicazione di
Spettri di Marx). Premessa fondamentale e non schivabile, prima
di ogni discorso, è la necessità di sottrarre il “messianismo” alle
determinazioni storico-religiose che ha assunto nell’ebraismo, nel
cristianesimo e nell’Islam (determinazioni che Derrida raduna
nell’aggettivo “abramiche”): è nella (e come) sottrazione che il
“messianico” derridiano si insinua nel discorso producendo
immediatamente sia una distanza dalla nota tesi benjaminiana
della “debole forza messianica” (la debolezza non appartiene
all’ordine della sottrazione), sia una modifica terminologica che
si articolerà nel sintagma “messianico [o messianicità] senza mes-
sianismo” o “messianico senza contenuto”, lasciandolo bilicare –
non senza equivoci – sulla soglia che divide le figure storiche dal-
l’idea di struttura e, anzi, permettendo al sintagma di porsi come
“fondo universale e quasi trascendentale di questa struttura del
‘senza messianismo’” (MS 73 [282]).
La sottrazione, anche se non satura i significati della prepo-
sizione “senza”, disidentifica il “messianico”, impedendone la
cattura in quell’orizzonte teologico che, più di ogni altro, ha svi-
luppato le questioni connesse all’idea di salvezza, di giudizio della

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storia, di fine del tempo, mentre la disidentificazione lo proietta


nell’orbita concettuale che aveva già dato luogo alla DIFFERAENZA,
intorno a cui Derrida ha scritto che “non è, non esiste, non è un
essente-presente (on), quale che sia; e saremo anche portati a
rimarcare tutto ciò che essa non è, cioè tutto; e di conseguenza che
essa non ha né esistenza né essenza. Essa non rileva nessuna cate-
goria dell’ente, sia esso presente o assente. E tuttavia ciò che si
rimarca così della differaenza non è teologico” (Ma 6 [32]).

Anche il messianico senza messianismo non appartiene


all’ordine teologico che potrebbe spiegarne origine e ruolo nel-
l’economia di una storia della salvezza, seppure – al di là delle
intenzioni – il termine non può non risuonare nell’eco delle con-
notazioni che lungo la storia si sono stratificate su di esso, e che
richiederanno a loro volta di essere decostruite, nella consapevo-
lezza che proprio il sovraccarico semantico apre il problema del-
l’impossibilità di decidere tra la priorità della struttura universale
e le figure storiche o viceversa: “mi è difficile decidere se la mes-
sianicità senza messianismo (come struttura universale) preceda e
condizioni ogni figura storica e determinata del messianismo (in
tal caso ne sarebbe radicalmente indipendente e gli resterebbe ete-
rogenea: il nome stesso diverrebbe accessorio), o se il pensiero
stesso di questa indipendenza non ha potuto prodursi o rivelarsi
come tale, divenire possibile, attraverso gli avvenimenti ‘biblici’
che nominano il messia e gli conferiscono una figura determina-
ta” (MS 79-80 [286-287]).
Nell’impossibilità di stabilire un prius, il “messianico senza
messianismo” si pone nel “crocevia ma anche nell’incontro di due
stili di pensiero (speech act theory e onto-fenomenologia dell’esi-
stenza temporale o storica)” (MS 72 [281]), ed è proprio il dupli-
ce richiamo a tali stili a giustificare sia il ricorso a questo termi-
ne, sia il suo rimanere “relativamente arbitrario o estrinseco; il
suo valore è quello di una retorica o di una pedagogia” (MS 79
[286]): retorica o pedagogia che, qui, dovranno essere considera-
te sia negli effetti di pensiero sia nelle istanze che li producono, al

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di qua del rapporto che vede intrecciarsi “da una parte, la memo-
ria di una rivelazione storica determinata, sia essa ebraica o ebrai-
co-cristiana e, dall’altra, una figura relativamente determinata del
messia” (MS 72-73 [282]).
Le precisazioni derridiane, perciò, non vanno intese come
una retorica di presa di distanza che in realtà finirebbe con il riba-
dire proprio le idee da cui intende smarcarsi: il termine “messia”
funziona solo nella misura in cui se ne riconosce la portata sim-
bolica (né metaforica né metonimica) rispetto ad un’apertura lin-
guisticamente inanticipabile: “Ho detto spesso, e lo ripeto, che
sono disposto ad abbandonare in ogni momento la parola ‘mes-
sia’, ‘messianicità’, una volta che sono stato compreso. [...] Io
cerco di far comprendere la ‘cosa’ a partire da ciò che sappiamo
essere l’attesa del messia, ma ciò che cerco di far comprendere
non dipende necessariamente dalla parola ‘messia’. Non mi è dif-
ficile immaginare che in un’altra lingua, in un’altra cultura, con
un’altra memoria, non solo si vive, ma anche si descrive quel che
vado descrivendo, senza fare il minimo riferimento non solo al
messianismo ma al messianico” (CS 28).
Al pari di CHŌRA, anche il “messianico senza messianismo”
introduce il pensiero di un’eterogeneità dello spazio e del tempo
sottratta o, meglio, resistente alla riappropriazione teologica,
semantica, politica, in nome di un avvenire svincolato dagli sche-
mi temporali metafisici o trascendentali. In questo senso, allora,
l’indecidibilità del sintagma esprime immediatamente la condi-
zione di possibilità dell’evento (l’equivalenza tra “evento” e mes-
sianico dichiara il “denudamento” di quest’ultimo rispetto alle
configurazioni storiche) che, per essere tale, non può non preci-
pitare nel suo contrario impedendo al sintagma stesso di “signifi-
care” al di fuori dell’apertura che in e con esso si annuncia: sin-
tagma né nominale né verbale, perché il “senza” abrade l’idea di
nome come pure quella di verbo che ne consentirebbero l’inseri-
mento in una sequenza argomentativa: “il senza si auto-affetta di
tutt’altro (senza senza senza...). È dunque infinitamente passivo
nei confronti del tutt’altro che lo affetta o l’abborda” (Pa 92

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[151]). L’AUTO-AFFEZIONE del “messianico senza messianismo”


investe il sintagma costituito da un aggettivo e un sostantivo rove-
sciati nelle loro funzioni linguistiche dalla preposizione “senza”
che – secondo l’etimo – deriverebbe da (ab)sentia(m), la quale
introduce una biunivocità che impedisce la saturazione semantica
e mantiene aperti tutti i possibili livelli di significazione: “infini-
tamente passivo”, il “messianico senza messianismo” lavora alla
propria cancellazione attraverso le interruzioni provocate dal
TUTT’ALTRO. Ma l’infinita passività rinvia anche alla “forza debo-
le” che, nonostante la suggestione benjaminiana, occupa Derrida
sul versante di un pensiero della DEMOCRAZIA che rimetta in
discussione la distinzione austiniana tra “constativo” e “perfor-
mativo” a partire dalla venuta di un evento “che precede qualsia-
si cronofenomenologia, qualsiasi rivelazione, qualsiasi ‘come
tale’ e qualsiasi ‘come se’, qualsiasi dogmatica e qualsiasi stori-
cità antropoteologica” (Vo 14 [14]).

La domanda che agita la riflessione derridiana verrà proposta


in forma diretta nella conferenza di apertura degli Stati generali
della Psicoanalisi: è possibile avanzare l’ipotesi di un “al di là del-
l’al di là, un al di là della pulsione di morte e dunque della pulsio-
ne di crudeltà?” (EA 47). Si tratta dunque di pensare il “messiani-
co senza messianismo” come istanza di un pensiero della vita e
della SOPRAVVIVENZA non simbolizzabile, vale a dire non ricondu-
cibile ad un’economia del possibile: “messianico senza messiani-
smo” deve leggersi sempre anche come messianismo senza mes-
sianico, senza precipitazione nella puntualità di un istante, di un
luogo, di un’identità che sarebbe possibile nominare. In altri ter-
mini, se il messianico fa segno verso un al di là del messianismo
(soprattutto, ma non esclusivamente, quello “abramico”), que-
st’ultimo non potrà risolversi in una presenza o in un presente, e
dunque nessuna essenza o sostanza “messianica” sarà possibile
estrarne, né sarà possibile ricondurne atti o parole nell’orizzonte di
un’attesa data: la biunovicità del sintagma deve essere continua-
mente riproposta per evitare sia una lettura culturalista sia una let-

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tura trascendentalista, entrambe vincolate ad un ordine dell’appa-


rire in o da cui potranno tutt’al più avvenire “fantasmi”, ma mai un
arrivante (nome senza nome del messianico), il quale “deve esse-
re assolutamente altro, un altro che mi attendo di non attendere,
che non attendo, la cui attesa è fatta di una non attesa, un’attesa
senza ciò che si chiama in filosofia orizzonte d’attesa, quando un
certo sapere anticipa ancora e ammortizza in anticipo” (Ec [14]).
L’arrivante richiama l’idea di venuta messianica, perché solo
come venturus (a-venire) è possibile pensarne il tratto o il pas-
saggio: ma allora come pensare ciò che viene come a-venire?
Come non cadere nella trappola dell’anticipazione (forma massi-
mamente rappresentativa della presenza) in cui, di nuovo, la
determinazione di quanto arriva finisce con il saturare l’attesa
recidendone ogni sporgenza? Come lasciare che la venuta non si
concluda ma rimanga aperta oltre il suo stesso aprirsi? È possibi-
le una venuta messianica senza annuncio e, dunque, senza attesa?
L’orizzonte d’attesa è superato solo se l’arrivo è una caduta: se
l’evento “non cade dall’alto, ciò vuol dire che lo vedo venire, che
c’è un orizzonte d’attesa. Orizzontalmente io lo vedo venire, lo
pre-vedo, lo pre-dico mentre l’evento è ciò che può essere detto
ma mai predetto” (PI 97). La verticalità attiene al messianico
come a ciò che ac-cade al di là dell’annuncio e dell’attesa, ed è
per questo che né il religioso né il politico – indipendentemente
dalle forme storiche che assumono – possono assumersi il com-
pito (né tanto meno detenere il potere) di stabilirne l’identità: non
possono, letteralmente, de-cidere, perché il messianico interrom-
pe gli ordini e i legami che li strutturano in nome di un a-venire
che non sarà mai (stato) presente. Si comprende allora l’afferma-
zione derridiana secondo cui un pensiero di ciò e di chi viene non
può essere disgiunto da un “ateismo strutturale che caratterizza a
priori ogni rapporto a ciò che viene e a chi viene: pensare l’avve-
nire è poter essere ateo” (PI 21), e tale ateismo potrà dirsi real-
mente “radicale” solo se “si ricorda di Dio, un ateismo iper-mne-
sico che, qui adesso, oggi e domani, riguardo a ciò che viene, lega
in sé l’impegno della promessa messianica (non il messianismo),

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lo spirito rivoluzionario, lo spirito di giustizia e di emancipazione


e, per retrò che possa apparire qui o lì a quanti hanno interesse a
crederlo, un certo spirito di un certo Marx” (PI 23).
Sarà a partire da Spettri di Marx che, non casualmente, un
pensiero (sul) messianico comincerà a precisarsi, al di là di qual-
che accenno disseminato prima degli anni ’90: in questa opera e
nella risposta agli interventi che aveva suscitato (Marx & Sons), il
messianico viene dichiarato (e non definito) “una struttura dell’e-
sperienza più che una religione”, e l’utilizzazione del termine
“proprio lì dove nessuna figura dell’arrivante, per quanto esso o
essa si annunci, dovrebbe pre-determinarsi, prefigurarsi, e neppu-
re prenominarsi” viene fatta seguire dalla domanda circa la possi-
bilità di una “eredità ateologica del messianico” (SM 266 [210]).
Un termine culturalmente (sovra)determinato, carico di passato e
di storia, proiettato nell’orbita di un’eredità che ricomprende e
perfora tutte le figure storiche: se è a partire da esse che si deve
ipotizzare un “denudamento” che permetta di “corrispondere a
quel che deve essere ospitalità assoluta, il ‘sì’ all’arrivante, il
‘vieni’ all’avvenire inanticipabile” (SM 266 [211]), non sarà a
causa del permanere di una sostanza attraverso il divenire delle
forme, ma in nome di “una vulnerabilità o una sorta di impotenza
assoluta” che è la struttura dell’esperienza e, più ancora, dell’e-
vento. La minaccia che attraversa strutturalmente ogni evento e
che, anzi, lo permette e annuncia, è la vulnerabilità del “fuori atte-
sa” che permette all’evento di costituirsi sempre come messiani-
co: “un evento non meriterebbe il suo nome, non farebbe accade-
re niente se non facesse che dispiegare, esplicitare, attualizzare ciò
che era già possibile, vale a dire, insomma, se riconducesse a svol-
gere un programma o applicare una regola generale a un caso.
Perché ci sia evento, occorre che esso sia possibile, certo, ma
anche che ci sia un’interruzione eccezionale, assolutamente sin-
golare, nel regime di possibilità. […] L’evento, se ce n’è, non è
l’attualizzazione di un possibile, un semplice passaggio all’atto,
una realizzazione, una effettuazione, il compimento teleologico di
una potenza, il processo di una dinamica dipendente da ‘condi-

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zioni di possibilità’. L’evento non ha niente a che vedere con la


storia, se si intende la storia come processo teleologico. Esso deve
interrompere in una certa maniera questo tipo di storia” (PM 309).
“Evento”, “messianico”, “esperienza”, “altro”, “arrivante”,
si dispongono in un intreccio che è impossibile sciogliere, ed è
proprio nella LEGGE che governa tale reciproco rinviarsi che si
mostra, da un lato, la pensabilità di quel legame che prende il
nome di DEMOCRAZIA a venire e, dall’altro, il darsi di questa come
impossibile, vale a dire come al di là di ogni pensabile assetto
politico legato ad un programma o ad una rappresentanza-rappre-
sentazione. L’impossibilità dell’evento si produce come “apostro-
fe performativa” che, però, “non dice ancora, semplicemente, né
il desiderio, né l’ordine, né la preghiera, né la domanda, che
annuncia, certo, e può in seguito rendere possibili” (Ec [12]): è il
“vieni” in direzione dell’evento a permettergli di essere pensato,
di contro alla tradizione metafisica che, invece, ha sempre pensa-
to l’evento come condizione perché sia possibile pensare una
venuta. Se la schisi prodotta dal primato dell’evento sul “vieni” o
dal “vieni” sull’evento può essere ricondotta alla differenza tra cri-
stianesimo (in cui il “vieni”, che chiude il libro dell’Apocalisse, si
riferisce a Gesù Cristo, alfa e omega che istituisce la storia) ed
ebraismo (in cui il “vieni” costituisce un’invocazione messianica
priva di “contenuti”, perché sia il messia, sia l’epoca messianica
non vengono definiti nei loro caratteri essenziali né dalla Torah né
dalla tradizione), occorre comunque sottolineare che tale differen-
za scaturisce come temporalizzazione e aprés-coup di un “mes-
sianico” non storicizzabile, il quale non potrà determinarsi antici-
patamente “né come soggetto, io, coscienza, né come animale, dio
o persona, uomo o donna, vivente o non vivente” (Ec [13]).
Il “vieni” messianico, come appello (all’) altro, è già da sem-
pre inscritto nella logica del tutt’altro al quale cor-risponde anche
se “non scambia niente, non comunica niente, non dice niente,
non mostra, descrive, definisce, constata niente, nel momento in
cui si pronuncia, niente che sia qualcosa o qualcuno, oggetto o
soggetto” (Pa 26 [90]).

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Il “niente”, il “senza”, il “denudamento” messianici sono


riconducibili all’infigurabile figura del deserto e, più ancora, del
“deserto nel deserto” – en abyme rispetto a sé – che “fa segno
verso l’altro, deserto abissale e caotico, se il caos descrive innan-
zitutto l’immensità, la dismisura, la disproporzione nella béance
di una bocca aperta – nell’attesa o nell’appello di quanto qui,
senza sapere, sopra-nominiamo il messianico” (SM 56 [40]): al
deserto, che non è né spazio né luogo – “terzo luogo che potreb-
be essere stato più dell’archi-originario, il luogo più anarchico e
anarchiviabile che ci sia, non l’isola né la Terra promessa” (FS 29
[18]) – non può essere attribuita alcuna consistenza ontologica,
alcun rinvio ad altro rispetto a sé, e nemmeno una negatività sem-
pre troppo nostalgica della pienezza. Esso si sopra-nomina come
dilatazione della bocca aperta “nell’attesa o nell’appello”, vale a
dire come nome di quella (mono)lingua che, altrove, Derrida
aveva accostato al deserto per indicare sia la prossimità di chi la
parla, sia il suo permanere “lontana, eterogenea, inabitabile e
deserta”. Prossimità e distanza in cui, al pari del messianico al
quale si intreccia, la lingua diviene domanda (attesa e appello?),
domanda di lingua, “deserta come un deserto nel quale bisogna
portare avanti, far portare avanti, costruire, progettare persino l’i-
dea di una strada e la traccia di un ritorno, un’altra lingua anco-
ra?” (MAt 109 [78]).
La lingua, il deserto, il messianico si ritrovano indissolubil-
mente uniti e, per questo, attraversati dalla stessa “tentazione”
(ma anche “aporia”) che nello scritto Fede e Sapere. Le due fonti
della “religione” nei limiti della semplice ragione (1994-95)
aveva inquietato il problema della pensabilità di una religione
“universale”, oltre il paradigma abramico: la messianicità senza
messianismo – al pari della rivelabilità (Offenbarkeit) – è indi-
pendente dalle figure determinate di quest’ultimo, vale a dire da
quella rivelazione (Offenbarung) che sappiamo essere il proprium
delle religioni abramiche, oppure “il pensiero stesso di tale indi-
pendenza non abbia potuto prodursi o rivelarsi come tale, diveni-
re possibile, se non attraverso gli eventi ‘biblici’ che nominano il

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messia e gli assegnano una figura determinata” (MS 80 [286-


287])?
L’obiezione che – in forma interrogativa – Derrida muove ad
Heidegger (è attraverso l’evento storico della rivelazione che si
manifesta la rivelazione della rivelabilità?) può dunque essere
posta anche in relazione al problema del messianico senza mes-
sianismo: e se fosse attraverso le figure determinate del messiani-
smo che si manifesta la messianicità del messianico? L’aporia non
può essere risolta: se la logica che la governa organizza “il pas-
saggio impossibile, rifiutato, denegato o interdetto, o addirittura,
indicando forse un’altra cosa ancora, il non-passaggio, un evento
di venuta o di avvenire che non ha più la forma del movimento
che consiste nel passare, traversare, transitare, il ‘passare’ di un
evento che non avrebbe più la forma o l’andatura del passo:
insomma una venuta senza passo” (Ap 25 [9]), allora il messiani-
co non può nemmeno costituire – in senso proprio – un problema,
perché di fronte ad esso ci si scopre “singolarmente esposti nella
nostra unicità assoluta e assolutamente nuda, e cioè disarmati, in
balia dell’altro, incapaci perfino di rifugiarci dietro quanto
potrebbe promettere l’interiorità di un segreto” (Ap 31 [12]).
Del messianico senza messianismo, dunque, non è possibile
parlare in termini di “problema”, mentre le nozioni di “venuta” e
di “attesa”, oltre a correlarsi chiasmaticamente, si delineano come
le uniche modalità del suo consegnarsi alla parola: nell’attesa e
nella venuta, infatti, sempre si dice (di) un’assenza, (di) un “non”,
(di) un “senza” che disattivano qualunque determinazione seman-
tica perché svuotano di significato i significanti che le ospitano.
Sarà tale negatività all’opera a consentire che il messianico diven-
ga il nome di una disgiuntura che tiene unite (ma al di fuori del-
l’anello di una corrispondenza o di una sovrapposizione) attesa e
venuta. In altri termini, non si tratta di istituire un rapporto tra
estasi temporali (il futuro per l’attesa, il presente per la venuta),
quanto di riconoscere una DIFFERAENZA all’opera nel e a partire
dal messianico: DIFFERAENZA che si produce – al pari della
Lichtwesen che costituisce il primo momento della religione natu-

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rale nella Fenomenologia dello Spirito hegeliana – come “diffe-


renza senza soggetto, gioco senza lavoro, esempio senza essenza,
sprovvisto di se medesimo (Selbst), una specie di significante
senza significato, lo spreco di un ornamento senza corpo proprio,
l’assenza totale di proprietà, di verità, di senso, un dispiegamento
appena manifesto di forme che si distruggono immediatamente”
(Gl 266 [1082]).
Attesa senza attesa (formula già blanchottiana), ma anche
venuta senza arrivo, vale a dire aperta prima di ogni determinabi-
le evento o al di là di qualunque destinazione, come accade –
secondo un passaggio talmudico più volte citato da Derrida che lo
riprende da Blanchot – al messia alle porte di Roma il quale, alla
domanda su quando arriverà, risponde “Oggi” destabilizzando
l’ordine che assumono le estasi temporali e stabilendo una insu-
perabile differenza tra presenza e venuta: secondo l’interpretazio-
ne derridiana, “colui che, forse, verrà, di fatto è già venuto, ed è
questa la struttura messianica. [...] Conseguentemente l’avvenire
di cui parliamo non è semplicemente il futuro presente; non è una
parousia o una presenza del domani, è un altro rapporto alla pre-
senza di ciò che viene” (CS 31).
Gli orizzonti culturali ebraici e cristiani (plurali perché ela-
borati in molteplici tradizioni) rappresentano, in un certo senso,
l’eredità che occorre decostruire sia per mostrarne il carattere nor-
mativo e insieme derivativo, sia per verificare la possibilità di un
pensiero non semplicemente “altro” da essi (come alcune letture
iconoclaste della decostruzione tendono a sottolineare), ma “pre-
sente” come loro condizione di possibilità e di impossibilità,
come indeterminabile “fuori” dei loro orizzonti: il “messianico”,
unitamente a chōra, sarà il doppio nome della “duplicità di queste
origini. Perché qui l’origine è la duplicità stessa, l’una e l’altra.
Nominiamo queste due fonti, pozzi o piste ancora invisibili nel
deserto” (FS 30 [19]).
La duplicità all’origine, la duplicità dell’origine chiama un
nome in cui si dice anzitutto l’inanticipabilità di una storia, il suo
interrompersi prima ancora del suo svolgersi, vale a dire prima di

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ogni immaginabile “prima”, in nome di un’esposizione alla “sor-


presa assoluta” che, “sebbene prenda sempre la forma fenomeni-
ca della pace o della giustizia, deve, esponendosi tanto astratta-
mente, attendersi (attendere senza attendersi) il meglio e il peg-
gio, visto che l’uno non si dà mai senza la possibilità aperta del-
l’altro” (FS 30-31 [19-20]).
Il “messianico” si annuncia come esposizione desertificante
in cui il “vieni”, l’attesa (senza attesa), l’“arrivante”, attraversano
la strutturale impensabilità della promessa che annunciano: apo-
ria della promessa che è sempre, “in una volta, nello stesso tempo,
infinita e finita nel suo principio: infinita perché deve potersi por-
tare al di là di ogni programma possibile, ché a non promettere
che il calcolabile e il certo non si promette più; finita perché a
promettere l’infinito all’infinito non si promette più niente di pre-
sentabile, e dunque non si promette più. Per essere promessa, una
promessa deve poter essere intenibile e dunque poter non essere
una promessa (perché una promessa intenibile non è una promes-
sa). Conclusione: non si constaterà mai, non diversamente dal
dono, che c’è o che c’è stata promessa. Non lo si stabilirà mai con
un giudizio determinante o teorico” (Av 26 [48]).
Il “messianico” non potrà non essere “senza messianismo”,
perché, al pari della promessa, il suo essere “infinito” è il suo
essere “finito”, come l’aporia di una storia sospesa alla duplicità
di un’origine dal doppio nome e per questo senza telos o escha-
ton riconoscibili: promessa messianica di un “deserto nel deser-
to” che è astrazione in cui – al di là della tradizione – è possibile
che si “liberi, senza disconoscere la fede, una razionalità univer-
sale e la democrazia politica che ne è indissociabile” (FS 32 [21]).

FUOCHI SEMANTICI: evento, religione, presenza, trascendentale,


memoria, assenza, performativo, arrivante, attesa, lingua.

S.F.

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SEGRETO
[SECRET]

Matrice di qualunque produzione segnica e sempre in riser-


va rispetto all’accadere storico di essa, cifra quasi trascendenta-
le dell’inscrizione (il “quasi” dice l’impossibile/possibile conti-
guità del segreto al trascendentale), il segreto attraversa – foran-
done la tramatura argomentativa o smarginandone i contesti –
l’opera derridiana come l’impensabile del concetto stesso di
opera: ripiegato all’infinito su se stesso, en abyme rispetto alle
forme che lo sagomano nonostante nulla enuncino (non se ne dà
contenuto rivelabile o occultabile), il segreto è all’opera come
insaturabilità dell’opera, come eccedenza sempre mancante o
come mancanza che non manca di mancare, nascosto rispetto a
tutti gli ipotizzabili segreti che potrebbero offrire riparo alle
regole e ai giochi che compongono la legge di composizione di
un testo. Nonostante una più marcata insistenza del termine e la
sua esplicita tematizzazione siano storicamente databili a parti-
re dagli anni ’90 (oltre ai testi pubblicati, Derrida dedicherà un
intero seminario al segreto nel ’91-’92), le questioni teoriche
inaugurate dal segreto sono presenti fin dai primi testi pubblica-
ti, indicizzate in una catena di nomi che, pur senza essere sino-
nimi, possono essere ricondotti verso quella “res(is)tance” in
cui si incrociano l’idea di “resto” spettrale e non dialettizzabile
(della scrittura, del testo, del senso) e l’idea di “resistenza”
(all’analisi, alle genealogie semantiche o concettuali). Paradig-
ma del double bind che orienta la pratica della DECOSTRUZIONE
senza per questo consumarsi in essa, il segreto appartiene alla

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topologia senza luogo in cui l’identità (testuale, politica, lettera-


ria, etica) si scopre alterata nel suo stesso ripetersi (come mostra
il sanscrito itara da cui deriverebbero, in latino, iter e alter) e,
dunque, si sorprende come impossibilità dell’autòs, non-coinci-
denza di sé con sé, raddoppiamento spettrale: indecidibile, il
segreto insinua nelle manifestazioni testuali il TUTT’ALTRO “né
fenomenale né noumenale” che “resta segreto sotto tutti i nomi
ed è la sua irriducibilità al nome stesso che lo fa segreto” (Pas
58; 61 [119-120]). Nella selva delle manifestazioni testuali, la
scrittura letteraria costituisce l’ambito in cui è possibile interro-
gare il cuore del segreto, perché se appartiene al proprio della
LETTERATURA il poter “dire tutto senza toccare il segreto” (Pas
67 [123]), allora “il segreto della letteratura è il segreto stesso”
(Ge 27): è nell’indecidibilità tra finzione e realtà, ordine narra-
tivo e fattualità, singolarità dell’evento e iterazione di scrittura e
lettura che si gioca una struttura di esemplarità che sarà tale per-
ché sottratta al potere decisionale il quale, al contrario, appar-
tiene alle istituzioni in cui un segreto – per quanto negato, man-
tenuto, vincolante – resterà sempre condizionale. Si tratterà,
allora, di mostrare le leggi che vincolano indissolubilmente il
segreto alla letteratura, vale a dire a quanto si indicizza come
firma, singolarità, TESTIMONIANZA, senza per questo consegnar-
lo all’universalità di una definizione, di un concetto, di un gene-
re: al di fuori della sua stessa LEGGE, irriducibile rispetto alla
semiosi e all’ermeneutica, il segreto non si lascia trascinare
verso le derive del Geheimnis heideggeriano e nemmeno verso
l’oscillazione tra ascosità e visibilità che ne ha storicamente
determinato la sagomatura onto-semantica, perché ognuna di
queste determinazioni dissimula un’“inseità” ontologica che
proprio dal segreto viene contestata e decostruita.
In questo senso si potrebbe affermare che il segreto è la
decostruzione “in atto” e che la decostruzione è il segreto “all’o-
pera”: “atto” e “opera” sono metonimi di un lavoro che dichia-
ra – nella simultaneità “anacronica” che le sottrae al calcolo o
alla decisione –, la performatività evenemenziale dell’opera e

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l’impossibilità dell’esperienza dell’atto. Performativo impossi-


bile, il segreto non (si) custodisce più di quanto non (si) espon-
ga, ed esprime la radicale non-identità a sé, l’“idioma”: “il
segreto, cioè in primo luogo la separazione, il senza-rapporto,
l’interruzione” (Ps 206 [243]). Si tratta, come lo stesso Derrida
riconosce, di “una strategia, entro una scena filosofica determi-
nata, per cui si vuole insistere sulla separazione e sull’isola-
mento” (GS 53), anche rispetto al Verstehen ermeneutico che
esautora nel consenso la condizione di possibilità della comuni-
cazione: “che ci sia del non-tematizzabile, del non-oggettivabi-
le, del non-condivisibile. Ed è un segreto assoluto, è l’ab-solu-
tum stesso nel senso etimologico del termine, ossia ciò che è
rescisso dal legame, staccato, e che non si può legare” (GS 51).
La “strategia” permette anche di assumere il segreto non solo
come significante allotrio “dentro” l’orizzonte filosofico-politi-
co, letterario, psicoanalitico, teologico ma, più ancora, come
eccedenza rispetto alla possibilità di un orizzonte, come cifra
irriducibile al codice che pure permette di decifrare: senza oriz-
zonte (perché privo di contenuto), il segreto, nonostante le ana-
logie, non rappresenta neppure un dispositivo o un paradigma
sostituibile e non funziona come riserva, ma lavora piuttosto
come istanza “criptica” la cui verbalizzazione può – tutt’al più
– darsi come effetto. Analogamente alla “cripta” (studiata insie-
me a Nicolas Abraham e Maria Torok) che governa il carattere
segreto dell’“incorporazione” di contro all’“introiezione” pro-
pria del lavoro del LUTTO, il segreto mantiene una parassitarietà
che è la forma del suo iterarsi e, insieme, l’impossibilità del suo
meridiano disvelarsi: se l’iterazione si produce come “ossessio-
ne” [hantise] e “rivenire spettrale” [revenance] (da non confon-
dere con il ritorno del rimosso) in cui non è “presente” alcun
fantasma, sarà possibile ipotizzare tutt’al più “un’exocriptica,
una eterocriptica”, perché “il ‘ventriloquo’ eterocriptico parla
da una topica estranea al soggetto” (Fo [73-74]). L’impossibilità
del disvelamento scaturisce direttamente dal fatto che “l’alterità
dell’altro installa nei processi di appropriazione (prima ancora

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di ogni opposizione tra introiettare e incorporare), una ‘contrad-


dizione’, o meglio, o peggio – se la contraddizione comporta
sempre il telos di un recupero –, un’irrisoluzione indecidibile
che impedisce loro di chiudersi sulla propria coerenza ideale,
ovvero ed in ogni caso, sulla propria morte” (Fo [61]). Al di là
delle preoccupazioni storico-filologiche, il rimando di “cripta”
e segreto permette di discutere implicazioni che rimarrebbero
inindagate e finirebbero col confinare la riflessione sul segreto
nell’imprecisato ambito di un pensiero para-teologico aggancia-
to, da un lato, al pensiero neo-platonico e, dall’altro, alle scrit-
ture mistiche: il segreto (cripta della cripta) convoca il progetto
fenomenologico per sottoporlo alla prova critica del programma
anasemico (che Abraham aveva chiamato in un primo tempo
“transfenomenologia” e poi anche “archi-psicoanalisi”), che
verifica “la legge di un’altra generazione” secondo la quale lo
stesso inconscio non può essere considerato in termini di oppo-
sizione o di riserva in attesa di decifrazione, perché l’alterità
della cripta blocca topologia ed economia che vorrebbero – let-
teralmente – impadronirsene: “la Cosa stessa è criptica. Non
nella cripta (fòro dell’Io), ma attraverso la cripta e
nell’Inconscio” (Fo [67]).
Il legame tra “cripta” e “topica” precipita nel segreto che
ha a che fare con un “fuori-luogo” o “non-luogo” che convoca
la DIFFERAENZA come “spaziamento” e come impossibile
“nome” dell’impossibile: nella Prière d’insérer che accompa-
gna Passioni (1992), Derrida – riferendosi anche a Chōra e a
Salvo il nome – scrive che in ognuno dei saggi è in questione “la
questione del nome […]. Il nome: cosa si chiama in questo
modo? Cosa si intende sotto il nome di nome? E cosa accade
quando si d(on)a un nome? Cosa si d(on)a? Non si offre una
cosa, non si libera niente e tuttavia avviene qualcosa che consi-
ste nel d(on)are, come Plotino aveva detto del Bene, ciò che non
si ha. Che succede soprattutto quando si deve sopra-nominare,
ri-nominando proprio laddove, precisamente, il nome viene a
mancare? Cosa fa del nome proprio una sorta di sopra-nome, di

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pseudonimo o di criptonimo singolare e nello stesso tempo sin-


golarmente intraducibile?” (Pas).
Se fosse possibile immaginare un palindromo semantico (e
non alfabetico), si potrebbe sostenere che “nome” e “segreto” si
dicono nel “medesimo” termine che non è né l’uno né l’altro e
che è l’uno e l’altro: (il) segreto è il nome, (il) nome è il segre-
to, vale a dire, assecondando la catena associativa che ne deriva,
che non si dà nome che non sia in qualche modo attraversato (o
barrato) da un’alterità che ne impedisce la coincidenza con se
medesimo e dichiara dunque illusoria la pretesa di auto-consi-
stenza, così come non si dà segreto che, seppure al di là del con-
tenuto o di un supposto “referente”, non sia da ultimo ricondu-
cibile ad una “nominalità” (magari nella massima rarefazione
costituita dal silenzio), ovvero ad una qualche “localizzazione”.

È in questo senso, allora, che Chōra (1987) rappresenta


indubbiamente una pista significativa, soprattutto se messo in
relazione a quanto Derrida scriverà/disegnerà insieme a Peter
Eisenman in cui il riferimento alla CHŌRA del Timeo platonico è
legato ad una scrittura “se così si può dire, senza una parola, un
pezzo eterogeneo, senza origine né destinazione apparente,
come un frammento venuto, senza più fare segno verso alcuna
totalità (perduta o promessa)” (Ps 113 [134]): prima del dise-
gno, quasi si trattasse di un tentativo di “illustrare” ovvero, let-
teralmente, di gettare un fascio di luce (lux) su quanto non smet-
te di presentarsi come enigma, Derrida scrive che riguardo alla
CHŌRA a rimanere enigmatica è “l’allusione alla figura del setac-
cio (plókanon, arnese o corda intrecciata, 52e), alla chōra come
crible/setaccio (sieve, sift, mi piace anche questa parola inglese).
C’è, nel Timeo, un’allusione per figura che non so interpretare
e che tuttavia mi sembra decisiva. Dice qualcosa come il movi-
mento, la scossa (seíesthai, seíen, seiómena), il sisma nel corso
del quale ha luogo una selezione di forze o di sementi, un setac-
cio (crible), un filtraggio, là dove tuttavia il luogo rimane impas-
sibile, indeterminato, amorfo, ecc.” (Ps 114 [135]).

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Nella CHŌRA come “setaccio” il segreto a cui sembrerebbe


irriducibilmente legata, perché l’etimo della parola francese
secret proviene dal termine latino secretum composto dal pre-
fisso di separazione se(d) e dal verbo cernere il quale, legato
prevalentemente all’agricoltura, significa “passare al setaccio
(cribrum, da cui anche crible)”: CHŌRA e segreto trovano un
legame semantico più ancora che nell’idea di separazione, in
quella, comune ad entrambi, di “passaggio, filtraggio” ovvero,
come scrive Derrida, di “movimento, scossa, sisma” a partire da
un crivello che, in senso stretto, indica un “buco”, un vuoto
attraverso cui passa quanto viene setacciato. Il segreto funziona
come “memoria di una sineddoche o di una metonimia errante.
Errante, vale a dire senza ripresa possibile in una qualche tota-
lità di cui essa rappresenterebbe solo il pezzo staccato: né fram-
mento né rovina” (Ps 113 [134]): irretito nello spazio della reto-
rica, il segreto non rappresenta l’“archi-lessema” su cui potreb-
bero lavorare le principali figure della traslazione quali la meto-
nimia o la sineddoche, perché sia l’istituzione retorica sia l’ap-
parato argomentativo a cui dà luogo vengono evacuati da una
“memoria” che non si riferisce ad una passata presenza o ad un
contenuto, quanto ad una performatività di cui il segreto è trac-
ciatura. In Passioni si dispiegherà meridianamente quell’oscilla-
zione che impedisce al segreto di configurarsi “come rappre-
sentazione dissimulata di un soggetto cosciente” o come “con-
tenuto di una rappresentazione incosciente”: “Noi testimoniamo
di un segreto senza contenuto, senza contenuto separabile dalla
sua esperienza performativa, dalla sua tracciatura performativa
(non diremo della sua enunciazione performativa o della sua
argomentazione proposizionale)” (Pas 56 [118]).
La “tracciatura performativa” che impedisce la fenomena-
lizzazione del segreto fa segno anche verso quell’“incondizio-
nalità” che non possono sopportare – pena il loro implodere – né
la religione, né la filosofia, né la morale, né la politica o il dirit-
to, e che invece costituisce il “più proprio” della letteratura: “Il
segreto della letteratura, è dunque il segreto stesso. È il luogo

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segreto in cui essa si istituisce come la possibilità stessa del


segreto, il luogo in cui comincia, la letteratura come tale, il
luogo della sua genesi o della sua genealogia propria” (Ge 27).
Il segreto e la letteratura non si coimplicano estrinseca-
mente, ma si producono – letteralmente – come con-naturati,
secondo un gioco di forze dinamicamente reciproco che mette
in campo una “struttura bifida” che impedisce qualunque deter-
minazione in termini di essenza o di tode ti: il segreto deco-
struisce la letteratura annullando i confini tra realtà e finzione,
mentre la letteratura disarticola l’opposizione nascondi-
mento/disvelamento che ha determinato storicamente (e/o meta-
fisicamente) la riflessione sul segreto, ed è per questo che non è
possibile nemmeno stabilire una gerarchia o una sequenza che
renda il segreto una sorta di ineffabile “fondamento” della lette-
ratura o, viceversa, la letteratura come luogo del possibile mani-
festarsi di un non meglio definito segreto. I luoghi derridiani in
cui si dispiega maggiormente il problema del segreto sono le
analisi delle opere narrative di Maurice Blanchot ed Hélène
Cixous, di Baudelaire o, via Kierkegaard, del racconto biblico
della “legatura” di Isacco (Genesi 22), perché “la letteratura
[…] ha una struttura tale che il suo segreto è tanto più sigillato
e indecidibile quanto più non consiste, alla fine, in un contenu-
to nascosto, ma in una struttura bifida che può mantenere in
riserva indecidibile proprio quanto essa confessa, mostra, mani-
festa, esibisce, espone senza fine” (Ge 43).

Il gioco di forze all’opera nella “struttura bifida” possiede


anche un carattere violento, una “forza di legge” in cui si annun-
cia la potenza di irruzione dell’alterità che del segreto è, insieme,
stigma e testimonianza (“Il segreto, piuttosto che qualcosa, piut-
tosto che un qualunque ‘cosa’, è sempre una o un ‘chi’, il dive-
nire ‘chi’ di un ça, e che mantiene il segreto a cui lui o lei è tenu-
to/a”, Ge 31), e che lo “apparenta” al dominio del sacro il quale,
a sua volta, avvolge e accompagna le rivelazioni storiche da cui
scaturiscono le religioni e il sapere teologico. È alla tradizione

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cristiana occidentale (e, in particolare, alla resa latina di kryptos


con absconditus) che risale la determinazione del segreto come
di ciò che si sottrae alla vista e all’osservazione, come ciò che si
identifica con il nascosto: privilegio della dimensione ottica (si
pensi alla “chiusura” degli occhi o della bocca indicata dal verbo
myo da cui deriverebbero sia “mistero”, sia “mistica”, sia l’inte-
ro campo dell’iniziazione misterica) su cui si è impiantato “il les-
sico della criptica greca” che pure “si estende al di là del visibi-
le. E nella storia di questa semantica, il criptico è giunto ad allar-
gare il campo segreto al di là del non visibile verso tutto ciò che
resiste alla decrittazione: il segreto come illeggibile o indecifra-
bile piuttosto che come invisibile” (DM 124 [121]).
Che si tratti della cultura greca (Platone e un certo neopla-
tonismo) o di quella greco-ebraico-cristiana, la griglia catego-
riale dell’“illeggibilità” ripropone la questione della “tracciatu-
ra” del segreto e delle catene terminologiche generatesi lungo la
storia del pensiero, come quelle che legano Geheimnis, Heim,
Heimat ed anche il freudiano Unheimliche, in cui sono rintrac-
ciabili ontologizzazioni che si sono declinate come dialettiche
del proprio e dell’estraneo, del manifesto e dell’occulto, dell’i-
neffabile e del dimostrabile. Nella lettura derridiana Heidegger
e Freud vengono ricondotti verso “due pensieri che si portano
ugualmente ma differentemente al di là di un’assiomatica del sé
o del presso di sé come ego cogito, della coscienza o dell’inten-
zionalità rappresentativa” (DM 127 [124]) ma, nello stesso
tempo, si costituiscono come il bersaglio critico di una rifles-
sione in cui il segreto non “appartiene” né ad un sapere, né a
contenuti identificabili e, più ancora, non può consistere nem-
meno in un “per-sé”: “espropriazione assoluta”, il segreto radi-
calizza l’estraneità del “proprio” sottraendosi – da qui la sua
struttura universale – a qualsiasi “appartenenza” di ordine ideo-
logico o religioso. Il plesso dispiegato dal legame segreto-lette-
ratura-violenza-sacro (compresi gli incroci che produce e dai
quali è prodotto) deve essere, da ultimo, ricondotto verso la con-
statazione che la “potenza” della letteratura e del segreto che la

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anima consiste nella “grazia che vi è fatta di ritirarvi o negarvi


il potere e il diritto di decidere, di trinciare, tra realtà e finzione,
testimonianza e invenzione, effettività e fantasma, fantasma del-
l’evento ed evento del fantasma, ecc.” (Ge 58): potenza etero-
nomica, il segreto è esperibile e sperimentabile come legge
venuta da “altro” a cui non è dato nemmeno corrispondere, per-
ché nessuna simmetria può ricomprenderne l’estraneità, così
come nessun diritto può addomesticarne il potere. In questo
senso, già nella lettura hegeliana sviluppata in Glas, il segreto
viene individuato come Mittelpunkt in cui l’Ebreo appare come
momento dialettico e, insieme, punto di resistenza
all’Aufhebung che scandisce il costituirsi della società umana,
perché il tabernacolo – il sancta sanctorum più interno al
Tempio che si trovava a Gerusalemme, “luogo e figura dell’in-
finito” in cui “si stabilisce la nazione ebraica” – appare vuoto e
dichiara in questo modo che “il più familiare, segreto, proprio,
l’Heimliche del Geheimnis si presenta come il più estraneo, il
più perturbante (unheimliche)” (Gl 61 [262]). Anche in questo
caso, il richiamo all’Ebreo e alla lettura hegeliana dell’ebraismo
non deve apparire estrinseco, se è vero che Derrida tornerà nuo-
vamente sul segreto intessendolo con il tallith (lo scialle di pre-
ghiera utilizzato dall’ebreo) inteso come indice di una singola-
rità (“il segreto dello scialle avvolge un solo corpo” Voi 45 [40])
che viene “secreta” e, per questo, aperta da e per sempre dal
tutt’altro che la costituisce: non si tratta, in altri termini, di
ricondurre il problema del segreto in un orizzonte religioso o
teologico, quanto di considerarlo come il significante di un’e-
conomia en abyme (l’economia del Padre, del “principio”, del
senso, nell’episodio della legatura di Isacco da parte di Abramo
narrata in Genesi 22) racchiusa nella formula “plus de secret,
plus de secret” (DM 137 [131]) in cui origine e fine, moltiplica-
zione e annullamento, invasione e ritiro, sbarrano la strada alle
ermeneutiche che vorrebbero “sapere”, ovvero determinare un
ordine economico a partire dall’incommensurabile “an-econo-
micità” del segreto stesso.

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Il significante “segreto” (matrice dell’economia delle


significazioni) può dunque dar “luogo” a differenti linguaggi
proprio a partire dalla sua “topolitologia” impossibile, come
mostrano sia le teologie mistiche di Dionigi ed Eckhart, sia la
lettura che di esse ha compiuto Heidegger (nonostante la curva-
tura in direzione dello spazio come extensio di natura cartesia-
na): anche per il segreto si tratta di pensare un “luogo” imme-
diatamente differenziato da sé, vale a dire separato o, che è lo
stesso, da sempre stretto nell’opposizione tra negazione di sé e
negazione di questa negazione: “Come non divulgare un segre-
to? Come non dire? Come non parlare? Sensi contraddittori e
instabili danno a una siffatta domanda la sua oscillazione senza
fine: come fare perché il segreto resti segreto? Come farlo sape-
re, perché il segreto del segreto – come tale – non resti segreto?
Come evitare questa stessa divulgazione? […] C’è un segreto
della denegazione e una denegazione del segreto. Il segreto
come tale, come segreto, separa e istituisce già una negatività, è
una negazione che nega se stessa. Che si de-nega. De-negazio-
ne che non le sopraggiunge accidentalmente, che è essenziale e
originaria. […] L’enigma di cui parlo qui… è la spartizione
[partage] del segreto. Non solo lo spartire il segreto con l’altro,
[…] ma soprattutto il segreto in se stesso spartito, la sua (s)par-
tizione propria, ciò che divide l’essenza di un segreto che non
può apparire, foss’anche a uno solo, senza cominciare a perder-
si, a divulgarsi, quindi a dissimularsi, come segreto, mostrando-
si: dissimulando la sua dissimulazione. Non c’è segreto come
tale, lo de-nego” (Ps 165-166 [195-196]).
Lungi dal poter essere assimilato ad una forma di apofasi
(come avviene nella teologia negativa) o proiettato nell’ineffa-
bilità mistica dei nomi divini (come le tradizioni abramiche non
hanno mancato di fare), il segreto non mantiene alcuna sopraso-
stanzialità (il platonico epekeina tes ousias), ma si inscrive da
subito come differaenza che evacua le riappropriazioni ontolo-
gizzanti perché insinua in ognuna di esse l’istanza di tutt’altro,
vale a dire l’istanza di un idioma che sfida il metalinguaggio

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riconducendone gli effetti verso “il miraggio di un’altra lingua”


(MAt 44 [28]).
Lingua altra, dell’altro, del tutt’altro che è, forse, l’altro
nome della letteratura, il segreto si costituisce come assoluta
illeggibilità che permette alla letteratura di esistere e alla leggi-
bilità delle marche (di ogni marca) di strutturarsi, che è come
dire che c’è sempre più di uno non solo a parlare, ma più anco-
ra a lasciarsi parlare, secondo la legge incondizionale di una
sempre violabile inviolabilità: “l’inviolabilità del segreto non
dipende da nessun altro dispositivo se non da quello, completa-
mente scoperto, dell’essere-in-due-a-parlare. Essa è la possibi-
lità della non-verità su cui si regge o in cui si fa ogni verità pos-
sibile. Essa dice dunque la (non-)verità della letteratura, dicia-
mo il segreto della letteratura: ciò che la finzione letteraria ci
dice del segreto, della (non-)verità del segreto, ma anche un
segreto la cui possibilità assicura la possibilità della letteratura”
(DT 194 [153]).

FUOCHI SEMANTICI: double bind, spettralità, cripta, inconscio,


alterità, resto, nome, evento, impossibile, testo, ripetizione.

S.F.

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SOPRAVVIVENZA
[SURVIE – SURVIVANCE]

“Preferite sempre la vita e affermate senza posa la soprav-


vivenza... Vi amo e vi sorrido da dove io sia” (CF [7]). Così si
conclude il breve testo, scritto a mano, letto Il 12 ottobre 2004
in occasione dei funerali di Jacques Derrida. Il momento del
lutto, ancora vivo, non deve limitarne la lettura. Per quanto
abbia a che fare con il LUTTO – ma in un senso molto preciso –
la questione della sopravvivenza è eminentemente teoretica,
costituisce, forse, il cuore stesso della DECOSTRUZIONE. Pulsa,
segretamente, lungo tutta la sua elaborazione.
Per dirla brutalmente: con la sopravvivenza Derrida indica
la via per cogliere la declinazione della DIFFERAENZA quale irri-
ducibile condizione di possibilità della vita del vivente, al di qua
della presunta opposizione tra la vita e la morte (➞LA VITA LA
MORTE) che ha sempre organizzato e orientato la determinazio-
ne del senso di questi termini, con tutto ciò che questo ha potu-
to comportare tanto dal punto di vista della nostra esperienza
quanto delle istituzioni preposte a governarla, non ultime le isti-
tuzioni del sapere.
Per coglierne la portata è necessario risalire alle primissime
occorrenze, apparentemente occasionali, e cioè ad alcune tra le
prime pubblicazioni di Jacques Derrida. Per quanto sia vano ten-
tare di ricostruire un ordine cronologico della stesura dei testi
pubblicati da Derrida tra il 1963 e il 1967, tutte frutto di un unico
fermento, è possibile definire la prima occorrenza del termine in
un saggio del 1964 dedicato al poeta di origine ebraica Edmond

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Jabès. Un testo enigmatico in cui la questione della sopravviven-


za emerge, nell’ultima pagina, dall’intreccio di altre questioni
che, una volta dipanate, lasciano intravedere la decostruzione a
venire: la parola, la scrittura, il libro, la LETTERATURA, la vita, la
morte, il gramma, la DIFFERAENZA: “Scrivere, non significa
confondere ancora l’ontologia e la grammatica? [...] Le interro-
gazioni scritte, rivolte alla letteratura, tutte le torture che le si
infliggono, sono sempre da essa e in essa trasfigurate, snervate,
dimenticate; diventate modificazioni di sé, attraverso sé, in sé,
mortificazioni, vale a dire, come sempre, astuzie della vita.
Quest’ultima non nega se stessa nella letteratura, se non per
sopravvivere meglio. Per meglio essere. Essa non si nega più di
quanto si affermi: si differisce e si scrive come differaenza. I libri
sono sempre libri di vita (l’archetipo sarebbe quel Libro della Vita
redatto dal Dio degli Ebrei) o di sopravvivenza (i cui archetipi
sarebbero i Libri dei Morti redatti dagli Egiziani)” (ED 116 [97]).
La vita è la DIFFERAENZA, per essere, deve differirsi, per dif-
ferirsi deve lasciare traccia del proprio differire, deve scriversi
secondo una possibilità della scrittura che precede la scrittura
empirica e della quale però è possibile fare esperienza attraver-
so la LETTERATURA. O almeno una certa letteratura che, al di qua
delle istituzioni letterarie, tenta di rendere conto di se stessa
quale esperienza, perché “la letteratura pura è la non-letteratura,
o la morte stessa” (ED 116 [97]). Non a caso, subito di seguito,
Derrida cita Blanchot per affermare il proprio favore nei con-
fronti dei libri di “sopravvivenza” rispetto a quelli di “vita”.
Infatti, quando Derrida porrà finalmente in primo piano la que-
stione della sopravvivenza sarà ancora in compagnia di
Blanchot (Pa 130-131 [187-188]). Ma prima di passare a
Sopravvivere, testo che risale al 1979, è necessario registrare
ancora due occorrenze, fra quelle che compongono La scrittura
e la differenza.

Se la sopravvivenza, quale condizione irriducibile della


vita del vivente, appare fin dall’inizio legata alla DIFFERAENZA,

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per cominciare a comprenderne la ragione e soprattutto l’artico-


lazione con l’esperienza della scrittura, bisogna riconoscervi
innanzitutto la condizione irriducibile dell’esperienza
(➞ARCHI-SCRITTURA). In Freud e la scena della scrittura (1966)
– testo chiave da questo punto di vista – Derrida riprende l’ana-
logia proposta da Freud per spiegare il funzionamento dell’ap-
parato percezione/memoria e quindi la genesi della struttura psi-
chica che contraddistingue la vita di una particolare forma
vivente esposta a determinati stimoli: si tratta del “notes magi-
co”, una singolare macchina di scrittura, capace di trattenere le
tracce che vengono impresse sulla sua superficie, conservando
questa intatta e pronta a ricevere nuove impressioni. Per Freud,
la percezione costituisce la superficie dell’apparato psichico che
seleziona gli stimoli che possono penetrarvi, difendendolo da
quelli pericolosi. L’analogia con la scrittura – osserva Derrida –
diventa necessaria nel momento in cui si tratta di spiegare la
ritenzione degli stimoli all’interno dell’apparato psichico (la
memoria): “Ma tutto ciò riguarda ancora soltanto la ricezione o
la percezione, l’apertura della superficie più superficiale all’in-
cisione del graffio. Non si ha ancora scrittura nella piattezza di
questa extensio. Bisogna rendere conto della scrittura come trac-
cia che sopravvive al presente del graffio, alla puntualità, alla
stygmé. [...]. La scrittura supplisce la percezione, prima ancora
che questa si manifesti a se stessa. La ‘memoria’ o la scrittura
sono l’apertura di questo manifestarsi stesso. Il ‘percepito’ non
si offre alla lettura se non al passato, al di sotto della percezio-
ne e dopo di essa” (ED 331 [289]).
Alla voce ARCHI-SCRITTURA abbiamo chiarito nel dettaglio
la struttura di questo meccanismo e le sue implicazioni. Qui è il
caso di sottolineare che il ricorso alla sopravvivenza per descri-
verne la funzione, non è metaforico ma strettamente congruen-
te: in questi termini, l’archi-scrittura risponde all’esigenza
essenziale del vivente, è l’origine stessa della vita in rapporto
all’alterità in generale dalla quale dipende. È la possibilità di
una traccia sciolta (differente) dalla percezione immediata, alla

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quale si riferisce solo in quanto già trascorsa, che permette di


costituire il presente ma in vista di un riferimento ulteriore, a
venire (differito). In termini fenomenologici, fin dall’inizio, per
la coscienza che si costituisce attraverso la ritenzione, non vi è
traccia del presente vivente della percezione, ma sempre e solo
traccia del differire di questo presente, orientato all’avvenire:
“La ‘percezione’, il primo rapporto della vita al suo altro, l’ori-
gine della vita, aveva già da sempre preparato la rappresentazio-
ne” (ED 334 [292]).
Ne consegue che, se la tradizione filosofica ha sempre pen-
sato la vita in termini di presenza piena, senza differenza, allo-
ra, una volta riconosciuta la dinamica dell’archi-scrittura in fun-
zione della vita del vivente, questa deve essere ripensata, a rigo-
re, in termini di sopravvivenza: il presente vivente è già da sem-
pre passato – quindi morto – per la coscienza che non può più
riattingervi nel suo come tale. Ne consegue che se la tradizione
fonda la vita della coscienza nella sua presenza in questo pre-
sente vivente, allora, dal punto di vista dell’archi-scrittura, la
coscienza si costituisce come sopravvivenza e quindi, in defini-
tiva, come elaborazione del lutto rispetto a questa perdita irri-
ducibile.
Elaborazione che può risolversi in modi diversi, rispetto ai
quali è necessario distinguere la sopravvivenza intesa quale
declinazione della differaenza e quindi quale condizione della
vita del vivente. Se il nihilismo può essere interpretato come
l’incapacità totale e reattiva di elaborare questa perdita, il peri-
colo più grave viene dalla dialettica hegeliana che, al contrario,
sembra in grado di farne l’economia.

L’ultima occorrenza rilevata da La scrittura e la differenza


permette di cogliere questo problema. Si tratta di un passaggio
decisivo del saggio dedicato a Bataille e al suo “hegelismo senza
riserve”: l’interpretazione della lotta per il riconoscimento tra
Signore e Servo quale momento della costituzione della
coscienza nella Fenomenologia dello Spirito ( “Herr” si traduce

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in italiano anche con “padrone”, in francese con “maître”).


Luogo fondamentale e inaggirabile per la filosofia che verrà.
Una lunga analisi sarebbe qui necessaria, limitiamoci all’essen-
ziale. In prima istanza, la pretesa al riconoscimento quale
coscienza, tanto del servo quanto del signore, comporta il
rischio dell’annientamento dell’uno da parte dell’altro, e quindi
il rischio di vanificare ciò stesso che ognuna pretende di affer-
mare: la possibilità stessa della coscienza che dipende dal rico-
noscimento da parte dell’altra. Il signore, per primo e perché
investe di più in questa lotta, si rende conto del rischio mortale
al quale va incontro e preferisce conservare la vita. Hegel
descrive questo passaggio in termini di “sopravvivenza”.
Derrida cita, commenta e traduce il passo hegeliano: “Esporsi
alla morte pura e semplice, significa dunque rischiare la perdita
assoluta del senso, nella misura in cui questo passa necessaria-
mente attraverso la verità del signore e della coscienza di sé. Si
rischia di perdere l’effetto, il beneficio del senso che si voleva
così guadagnare al gioco. Questa morte pura e semplice, questa
morte muta e senza rendimento, Hegel la chiamava negatività
astratta, in opposizione alla ‘negazione della coscienza che sop-
prime in modo tale che essa conserva e ritiene ciò che è sop-
presso’ e che, ‘perciò stesso sopravvive al fatto di divenire-sop-
pressa (und hiemit sein Aufgehoben-werden überlebt). In questa
esperienza, la coscienza di sé apprende che la Vita le è altret-
tanto essenziale che la pura coscienza di sé’. Risata di Bataille.
Per un’astuzia della vita, vale a dire della ragione, la vita è dun-
que rimasta in vita. Un altro concetto di vita era stato furtiva-
mente introdotto al suo posto, per restarvi, per non esservi mai,
non più che la ragione, ecceduto. Questa vita non è la vita natu-
rale, l’esistenza biologica messa in gioco nella signoria, ma una
vita essenziale che si salda alla prima, la ritiene, la fa operare
alla costituzione della coscienza di sé, della verità e del senso.
Tale è la verità della vita. Con questo ricorso all’Aufhebung che
conserva la posta, resta signora del gioco, lo limita, lo lavora
dandogli forma e senso, questa economia della vita si restringe

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alla conservazione, alla circolazione e alla riproduzione di sé,


come del senso; di qui tutto ciò che ricopre il nome di signoria
sprofonda nella commedia” (ED 375-376 [331]).
L’Aufhebung, la matrice logica della dialettica speculativa,
già per Heidegger la forma più evoluta della metafisica della
presenza, permette di descrivere la costituzione – la vita – della
coscienza (e quindi del senso) in termini di “sopravvivenza”. E
tuttavia questa forma di “sopravvivenza” elude proprio ciò che
vi è di più necessario nella struttura della sopravvivenza elabo-
rata da Derrida: la necessità biologica della morte quale condi-
zione irriducibile della vita del vivente e quindi anche della
coscienza, nel suo differirsi/differenziandosi. La elude sovrap-
ponendo alla vita biologica, animale, la vita dello spirito; sosti-
tuendo cioè alla dinamica biologica del vivente quella
dell’Aufhebung che produce l’elemento ideale del senso in cui
regna lo spirito quale entità individuale onnicomprensiva: il
sapere. Per l’individuo naturale non è infatti possibile conser-
varsi, sopravvivere al proprio annientamento, se non su di un
piano meramente ideale (La colonna di sinistra di Glas deve
essere letta quale sviluppo di queste note dedicate alla vita,
riportate all’interno dell’intero sistema hegeliano).
È su questo piano, sul piano dell’elaborazione del senso e
quindi del sapere, che è già possibile cogliere la portata ulterio-
re della sopravvivenza elaborata da Derrida: eludere la morte,
sul piano dell’elaborazione del senso significa eludere l’assen-
za di senso, la perdita assoluta del senso quale sua irriducibile
condizione di possibilità; significa imporre al vivente che ognu-
no di noi è la signoria di una concezione del senso – con le sue
istituzioni e i relativi protocolli – che non risponde alla sua esi-
genza irriducibile: (sopra)vivere. Significa produrre l’illusione
di una coscienza signora di se stessa e dell’alterità che sarebbe
in grado di dominare compiutamente attraverso le proprie ela-
borazioni ideali (le istituzioni del sapere, della politica, dell’e-
conomia, delle religioni, della società...). Un’illusione di vita
piena e incondizionata dietro la quale si cela la morte stessa,

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l’annientamento totale della possibilità della sopravvivenza,


oggi all’ordine del giorno nella tanto dibattuta, ma comunque
elusa, questione ecologica.

A questo punto, possiamo abbordare il testo intitolato


Sopravvivere. Certamente uno dei più ostici della produzione
derridiana, proprio perché si tratta di rendere conto, senza tra-
dirla, di una certa “illeggibilità” quale origine e condizione del
“racconto” in generale – cioè al di qua di ogni istituzione lette-
raria – attraverso la lettura di un racconto di Blanchot – L’arrêt
de mort – che ne mette in scena la “verità”, al di qua di ogni pos-
sibile formulazione tetica, discorsiva, obiettiva della verità, che
appunto la tradirebbe (Pa 130-131 [187-188]).
Attraverso il racconto di Blanchot, secondo Derrida, è pos-
sibile risalire alla sopravvivenza tanto quale struttura dinamica
del vivente, quanto quale condizione dell’elaborazione delle for-
mazioni ideali, attraverso le quali diamo senso all’esperienza (la
parola, la scrittura, i testi, i libri, le istituzioni…). Anche in que-
sto caso sarebbe necessaria una lunga analisi, limitiamoci all’es-
senziale, segnalando che il testo avrebbe dovuto trattare di The
Triumph of Life di Shelley e non di Blanchot, comunque sicuri di
non esaurirne tutta la portata: “Nei limiti di questo schizzo, pro-
porrò il frammento staccato, esso stesso incompiuto, di una let-
tura più sistematica di Shelley, lettura guidata dai problemi del
racconto come riaffermazione (sì, sì) della vita in cui il sì, che
non dice niente, non descrive nient’altro che se stesso, che la
performance del suo proprio evento di affermazione, si ripete, si
cita, si dice sì a se stesso come altro, secondo l’anello, recita un
impegno [engagement] che non avrebbe luogo al di fuori di que-
sta ripetizione di una performance senza presenza. Questo strano
anello non dice sì alla vita che nell’equivoco sovradeterminante
del trionfo della vita, del trionfo sulla vita, del trionfo marcato
nel sopra di un sopravvivere” (Pa 149 [205]).
Qui riconosciamo esplicitamente la cornice entro la quale
è possibile inscrivere quell’affermazione della sopravvivenza

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alla quale Derrida, con le sue ultime parole, ha richiamato il


nostro impegno.
Il racconto – prima della sua sottomissione all’ordine del-
l’istituzione chiamata letteratura – attesta innanzitutto se stesso
attraverso le tracce in cui si inscrive, attestando la necessità del-
l’attestazione di sé, e cioè del ricorso alla traccia, altra dal pre-
sente vivente che dovrebbe attestare, quale condizione irriduci-
bile della vita del vivente. Se dal punto di vista delle convenzio-
ni letterarie appare perfino ovvio riconoscere che l’evento nar-
rato si costituisce attraverso la sua narrazione, tant’è che solo
altre convenzioni permettono di ricondurlo ad un presente vis-
suto ma passato (➞ TESTIMONIANZA), sembra più difficile accet-
tare che questo valga anche per la vita del vivente. E tuttavia, per
Derrida è la necessità stessa alla quale risponde la struttura del
vivente a spingerlo a ricorrere all’altro da sé, all’altro dal pre-
sente vivente – la traccia – per rapportarsi a sé e quindi essere
se stesso e cioè vivente. E questo prima del suo costituirsi in
coscienza ed esperienza (sul privilegio della letteratura in que-
sta prospettiva, PS 356). È infatti attraverso la traccia elaborata
dall’archi-scrittura che il vivente può legarsi a se stesso secon-
do quella dinamica immanente riconosciuta attraverso Freud, al
di là di Freud (LA VITA LA MORTE). Le tracce istituite di cui si
compone il racconto, così come ogni altra forma di scrittura
empirica, sono solo prodotti più evoluti di questa dinamica del
vivente che dobbiamo interpretare in termini di sopravvivenza
per delle ragioni che ora dovrebbero apparire più chiare ma sulle
quali è il caso di soffermarsi ancora. “Questo ‘vivere, sopravvi-
vere’, in questi paraggi, ritarda ad un tempo la vita e la morte su
una linea (quella del sopra la meno sicura) che dunque non è né
di un’opposizione netta né di un’adeguazione stabile. Esso dif-
ferisce, come la differaenza, al di là dell’identità e della diffe-
renza. Il suo elemento è proprio quello di un racconto formato
di tracce, di scrittura, d’allontanamento, di tele-grafia. Il telefo-
no e il telegramma non sono che dei modi di questa telegrafia
nella quale la traccia, il grafema in generale, non sopravvengo-

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no alla struttura telica ma la marcano a priori ” (Pa 179-180


[234-235]).
La logica immanente al vivente non è la conservazione del-
l’identità, della presenza a sé, intatta e pura di contro all’alterità,
alla differenza, non è la conservazione della vita di fronte alla
morte, evento presunto naturale, esterno e contingente rispetto
alla vita (Pa 155 [211]). La logica del vivente ha una struttura
telica, è la ri-affermazione di sé, e cioè la spinta di se stesso oltre
il presente verso l’avvenire. In termini fenomenologici potrem-
mo dire che la logica immanente al vivente è la protensione di
sé attraverso le tracce della relazione all’alterità in rapporto alle
quali il vivente si pone (si afferma) come tale e cioè come dif-
ferirsi temporale attraverso l’elaborazione e conservazione di
tracce che però differiscono dal presente vivente in vista di un
riferimento a venire. È per questo, in ultima analisi che bisogna
ripensare la vita del vivente in termini di sopravvivenza, per
rimarcare cioè che la vita del vivente dipende dalla possibilità di
distaccarsi dal presente vivente, da ciò che la tradizione pensa
come il proprio della vita, rilanciandosi al di là di questo attra-
verso quell’alterità irriducibile che non costituisce una semplice
minaccia per la vita ma anche la sua irriducibile condizione di
possibilità. In un certo senso, chiarito meglio altrove (➞ LA VITA
LA MORTE), il vivente fin dall’origine deve rinunciare a sé, alla
vita pensata secondo una concezione tradizionale, e arrischiarsi
a ricorrere all’alterità, es-porsi all’altro dalla vita, e cioè alla
morte secondo quella stessa concezione, per essere se stesso e
cioè per legarsi a sé attraverso le tracce che lascia di se stesso in
rapporto all’alterità.

In ultima istanza, se la vita del vivente consiste a priori in


questo protendersi verso l’avvenire, al di là di un presunto pre-
sente vivente, questo allora è solo un effetto, secondo e deter-
minato, non l’origine del movimento vivente che quindi, rispet-
to alla concezione tradizionale della vita, deve essere pensato in
termini di sopravvivenza.

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Attraverso la sopravvivenza è dunque possibile riscrivere


genesi e struttura dell’elaborazione dell’esperienza in formazio-
ni ideali dotate di senso (la parola, la scrittura, i libri, i testi, le
istituzioni…), secondo l’apertura di un a-venire ancora possibi-
le e per il quale dobbiamo impegnare la nostra attestazione,
all’ordine di quella protensione differenziale/differenziante che
struttura la coscienza secondo la sua irriducibile determinazio-
ne biologica quale apertura all’alterità in generale.
È quanto Derrida riterrà di esplicitare in Spettri di Marx,
attraverso la questione della spettralità delle formazioni ideali,
insistendo poi, in testi più recenti quali Fede e Sapere, Dimora,
Poétique et politique du témoignage, sull’articolazione tra archi-
scrittura e testimonianza, non a caso ancora in compagnia di
Blanchot.
Non solo, è in questa stessa prospettiva che Derrida inscri-
ve anche i problemi della scrittura e della lettura, della traduzio-
ne ed interpretazione dei testi (nel senso della scrittura empiri-
ca) e quindi della trasmissione dell’eredità che questi costitui-
scono per noi. In Sopravvivere sono già visibili queste due
traiettorie a partire dalle quali è possibile pensare, tra l’altro,
tutt’altra ermeneutica. Ci limitiamo a rilevarle, segnalando che
entrambe incrociano la problematica dell’elaborazione del lutto,
posto che chi scrive sopravvive nelle tracce che lascia di se stes-
so, all’altro che se ne fa erede attraverso la lettura, al quale però
l’origine del lascito resta a priori inaccessibile (illeggibile) e dal
quale, allo stesso tempo, la sopravvivenza (di chi? di cosa?)
dipende: “Un testo non vive che se esso sopra-vive [sur-vit], ed
esso non sopra-vive che se esso è in una volta traducibile e intra-
ducibile (sempre in una volta, et : ama, allo ‘stesso’ tempo).
Totalmente traducibile, esso scompare come testo, come scrittu-
ra, come corpo di lingua. Totalmente intraducibile, anche all’in-
terno di ciò che si crede essere una lingua, muore ugualmente.
La traduzione trionfante non è dunque né la vita né la morte del
testo, soltanto o già la sua sopravvivenza. Se ne dirà lo stesso di
ciò che io chiamo scrittura, marca, traccia, ecc. Ciò [ça] non

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vive né muore, ciò sopravvive. E ciò non ‘comincia’ se non con


la sopravvivenza (testamento, iterabilità, restanza, cripta, distac-
camento destrutturante in rapporto alla reazione o direzione
‘vivente’ di un ‘autore’ che non si annegherebbe nei paraggi del
suo testo” (Pa 147-149 [204-206]; DT 130-132 [102-104]).
“L’evento inenarrabile della sopravvivenza tiene il racconto con
il fiato sospeso, il tempo di un lasso di tempo interminabile che
non è soltanto il tempo del raccontato: il raccontante (tra la voce
narrante e la voce narrativa) è anche e innanzitutto un sopravvi-
vente. E questa sopravvivenza è anche un rivenire [revenance]
spettrale (il sopravvivente è sempre un fantasma) che si rimarca
e mette in scena dall’inizio, nel momento in cui il carattere
postumo, testamentario e scritturale del racconto viene a dispie-
garsi” (Pa 181-182 [236-237]; SM 235 [185]).

A questo punto, non resta che citare un ultimo passo da


Sopravvivere per accedere al senso di quelle che già da ora non
possiamo più considerare le ultime parole di Derrida: “La ri-
affermazione, il racconto della vita marca il suo trionfo discreto
in una ‘gaiezza’ (le parole ‘gaio’ o ‘gaiezza’ ritornano cinque o
sei volte) il cui ricordo terrifica, ‘sarebbe sufficiente ad uccide-
re un uomo’. Gaiezza, riaffermazione, trionfo (del) sopra: sulla
vita e della vita, sopra-vita, in una volta tra vita e morte nella
cripta, più-che-vita, non-più-vita, rinvio [sursis] e ipervitalità,
supplemento di vita che vale più che la vita e che la morte,
trionfo della vita e della morte. Sopravvivenza che vale più che
la verità, e che sarebbe, se almeno essa fosse, la Cosa per eccel-
lenza: sopra-verità [sur-vérité]” (Pa 166 [222]).
Ri-affermare la sopravvivenza significa quindi affermare la
vita, al di qua dell’opposizione tradizionale tra vita e morte, al
di qua di una concezione della vita – quella elaborata all’inter-
no della nostra tradizione – intesa come presenza piena, identità
puntuale con se stessa in un presente presunto vivente, assoluto
e incondizionato rispetto all’alterità alla quale si rapporterebbe
da questa auto-posizione sovrana. Una vita, questa, che tutt’al

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più possiamo attribuire al Dio della metafisica, secondo le sue


varianti storiche e che, una volta proiettata o imposta al vivente
naturale, sembra confondersi con la morte stessa, nella sua stes-
sa denegazione: la DIFFERAENZA, la relazione all’alterità costitui-
sce infatti, l’irriducibile condizione di possibilità della vita del
vivente ma anche, ad un tempo, ciò che la es-pone irriducibil-
mente alla morte; eludere l’una possibilità – la morte – signifi-
ca rimuovere anche l’altra – la vita –. È dunque in nome della
vita, di un’altra concezione ed esperienza della vita, che Derrida
impegna la nostra attestazione per l’avvenire. Perché la possibi-
lità dell’a-venire, di contro al presente presunto vivente e alla
sua fissazione, è la dimensione che struttura a priori la vita del
vivente ed è a partire da questa struttura che dovremmo ripen-
sare le strutture e le istituzioni in cui viene ad inscriversi assu-
mendo senso (le istituzioni del sapere, della politica, dell’eco-
nomia, delle religioni, della società...).
Così si chiude Apprendre à vivre enfin, l’intervista conces-
sa da Derrida a Jean Birnbaum, in attesa di una morte ormai
prossima: “Come ho già ricordato, dall’inizio, e molto prima
delle esperienze della sopravvivenza che al momento sono mie,
ho marcato che la sopravvivenza [survie] è un concetto origina-
le, che costituisce la struttura stessa di ciò che chiamiamo l’esi-
stenza, il Dasein se vuole. Noi siamo strutturalmente dei soprav-
viventi, marcati da questa struttura della traccia, del testamento.
Ma, avendo detto questo, non vorrei lasciare libero corso all’in-
terpretazione secondo la quale la sopravvivenza è piuttosto dalla
parte della morte, del passato, che della vita e dell’avvenire. No,
tutto il tempo, la decostruzione è dalla parte del sì, dell’affer-
mazione della vita. Tutto quel che dico – dopo Pas, almeno, in
Paraggi – della sopravvivenza quale complicazione dell’opposi-
zione vita/morte, procede nel mio lavoro da un’affermazione
incondizionale della vita. La sopravvivenza è la vita al di là della
vita, la vita più che la vita, e il discorso che io tengo non è mor-
tifero, al contrario, è l’affermazione di un vivente che preferisce
il vivere e dunque il sopravvivere alla morte, giacché la soprav-

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vivenza, non è semplicemente ciò che resta, è la vita la più


intensa possibile” (AV 54).

FUOCHI SEMANTICI: affermazione, alterità, economia della


morte, evento, gramma, incondizionalità, interpretazione, itera-
bilità, legame, lettura, marca, performativo, metafisica, resto,
rinvio, scrittura, spettralità, testo, traccia, traduzione.

F.V.

186
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TESTIMONIANZA
[TÉMOIGNAGE]

Attraverso la testimonianza Derrida risale all’articolazione


tra la singolarità dell’esperienza e la sua elaborazione in confi-
gurazioni dotate di senso. Infatti, una volta posta l’ARCHI-SCRIT-
TURA quale struttura ultima dell’esperienza, non è più possibile
attingervi quale origine o telos del senso nella forma di una pre-
senza ostensibile: “Dal momento che c’è parola, ciò può dirsi
della traccia in generale, della possibilità che essa è, l’intuizio-
ne diretta non ha più alcuna possibilità” (Pas 68 [125]).
Evitando qualsiasi deriva nichilista, bisogna piuttosto risa-
lire alla struttura performativa dell’elaborazione del senso.
Proprio l’esperienza della testimonianza permette di rilevare
tale struttura, ed allo stesso tempo di coglierne la portata più
generale: la relazione all’altro implicata nell’esperienza della
testimonianza non condiziona solo l’elaborazione del senso a
partire dalla singolarità dell’esperienza, ma anche ogni possibi-
le forma di legame con l’altro, al di qua di tutte le determina-
zioni del legame incarnate nelle diverse forme storiche di comu-
nità che ci sono note: religiose, politiche, scientifiche, ecc., tutte
fondate, all’ordine della metafisica della presenza, su di un rigi-
do principio identitario (in Politiche dell’amicizia esemplar-
mente esposto nella logica schmittiana dell’ostilità amico/nemi-
co, variante moderna del modello platonico esplicitamente
assunto).
In questa prospettiva, attraverso la testimonianza è possibi-
le rilevare la membratura dell’opera derridiana e cioè l’articola-

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zione immanente tra la rielaborazione della questione del senso


in termini di archi-scrittura, e quella etico-politica, posta in ter-
mini di responsabilità, giustizia, DEMOCRAZIA. Quindi ricucire
quell’apparente cesura che molti interpreti avrebbero intravisto
tra un primo Derrida decostruzionista efferato dei valori della
tradizione, ed un secondo, sensibile alle emergenze etiche e
politiche delle quali la stessa decostruzione sarebbe in qualche
modo (ir)responsabile (FL).
Da questo punto di vista, Fede e Sapere (1993) costituisce
la vera e propria cerniera che, attraverso la testimonianza, tiene
insieme l’opera del filosofo francese (Spettri di Marx, Politiche
dell’amicizia e Forza di legge, i testi in cui la questione etico-
politica emerge quale posta in gioco della decostruzione, ven-
gono pubblicati tra il ’93 e il ’94, e sono tutti in qualche modo
inscritti in Fede e Sapere): “Nella testimonianza, la verità è pro-
messa al di là di ogni prova, di ogni percezione, di ogni mostra-
zione intuitiva. Anche quando mento o spergiuro (e sempre e
soprattutto quando lo faccio), prometto la verità e domando
all’altro di credere all’altro che io sono, là dove io sono il solo a
poterne testimoniare e dove mai l’ordine della prova o dell’in-
tuizione saranno riducibili e omogenei a questa fiduciarietà ele-
mentare, a questa ‘buona fede’ promessa o richiesta.
Quest’ultima, certo non è mai pura da ogni iterabilità né da ogni
tecnica, dunque da ogni calcolabilità. Giacché essa promette
anche la sua ripetizione dal primo istante. Essa è impegnata in
ogni indirizzo all’altro. Gli è dal primo istante co-estensiva e
condiziona così ogni ‘legame sociale’, ogni interrogazione, ogni
sapere, ogni performatività ed ogni performance tele-tecno-
scientifica, nelle sue forme le più sintetiche, artificiali, proteti-
che, calcolabili. L’atto di fede che esige l’attestazione porta, per
struttura, al di là di qualsiasi intuizione e di qualsiasi prova, di
ogni sapere” (FS 96-97 [70]; SM 227 [180]).
Proprio secondo queste coordinate ci pare necessario rico-
struire, sia pure in estrema sintesi, l’elaborazione dell’esperien-
za della testimonianza: Derrida l’affronta esplicitamente in due

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testi apparentemente marginali rispetto alle problematiche etico-


politche in primo piano in quegli stessi anni, dedicati all’inter-
pretazione di due opere letterarie: Dimora, dedicato a L’instant
de ma mort di Maurice Blanchot e Poétique et politique du
témoignage, dedicato a Aschenglorie di Paul Celan. Il primo
ripropone una conferenza dal titolo Fiction e témoignage del
1995, il secondo, del 2000, riprende le fila di un discorso su
Celan cominciato tempo addietro con Schibbolet, testo di una
conferenza tenuta nel 1984.
Tuttavia l’interesse per la testimonianza risale almeno a
Circonfession redatto a cavallo tra il 1989 e il 1990, e tematiz-
zato una prima volta nella sua articolazione con la questione
dell’archi-scrittura in Donare il tempo (DT 198 [157]), un testo
del 1991, la cui datazione resta però problematica, in quanto
parte della sua stesura risale almeno al 1977-78.
Fin dall’inizio questo interesse è strettamente legato alla
dimensione performativa quale condizione dell’attestazione
testimoniale, irriducibile all’ordine del sapere constativo, al
regime della prova verificabile, ai criteri del discorso “vero”
fondati sul valore della presenza. In particolare è collegato, a più
riprese e fin da Donare il tempo (DT 192n [185n]), alla locu-
zione agostiniana “fare la verità”, tratta da un testo che, per
Derrida, costituisce la matrice di un genere – l’autobiografia –
capace di sollecitare l’opposizione tra la finzione letteraria e il
discorso vero, sulla quale si fonda l’autorità legittima e legitti-
mante della filosofia, l’elemento stesso del sapere, nella decli-
nazione del sapere di sé (Confessioni, XI, I, 1). E proprio attra-
verso Agostino, Derrida rileva la necessaria implicazione della
scrittura nell’attestazione testimoniale: “Si tratta in effetti di
‘fare’ la verità in uno stile, un libro e davanti a dei testimoni” (Ci
48 [49]). “[Agostino] parla di ‘fare la verità’ (veritatem facere);
ciò non ritorna a rivelare, a svelare né ad informare nell’ordine
della ragione cognitiva. A testimoniare forse. Risponde all’in-
terrogazione della testimonianza pubblica, ossia scritta. [...].
Voglio ‘fare la verità’, dice, nel mio cuore, davanti a te, median-

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te la confessione, ma anche nel ‘mio scritto davanti a molti testi-


moni’” (SN 24 [133]; De 28 [106]).

Dunque non è un caso che Derrida interroghi la questione


della testimonianza quasi esclusivamente attraverso testimo-
nianze poetiche e letterarie. Testimonianza e LETTERATURA
dipendono dalla stessa possibilità: la possibilità di un’attesta-
zione sciolta dall’autorità legittimante del discorso vero, della
prova, del sapere constativo. In questo senso, la possibilità della
letteratura, quale manifestazione oggettiva di un diritto di paro-
la in linea di principio illimitato è essenzialmente legata alla
possibilità della democrazia, anzi le due si condizionano reci-
procamente, non c’è l’una senza l’altra. Deve essere quindi
chiaro che l’interesse derridiano per la letteratura è fin dal prin-
cipio segnato, tra l’altro, dal problema della LEGGE, del diritto,
del politico, della democrazia.
La possibilità della finzione costituisce infatti tanto la
minaccia quanto la risorsa irriducibile della testimonianza, ciò
che permette un’attestazione assolutamente singolare quale
appunto deve essere una testimonianza per essere tale, ed allo
stesso tempo, ciò che le impone l’assunzione di una responsabi-
lità quale condizione dell’attestazione – l’impegno, la promessa
di dire il vero: “se il testimoniale è di diritto irriducibile al fin-
zionale, non c’è testimonianza che non implichi strutturalmente
in se stessa la possibilità della finzione, del simulacro, della dis-
simulazione, della menzogna e dello spergiuro – vale a dire
anche della letteratura, dell’innocente o perversa letteratura che
gioca innocentemente a pervertire tutte queste distinzioni. Se
questa possibilità che essa sembra proibire fosse effettivamente
esclusa, se la testimonianza, di lì, divenisse prova, informazio-
ne, certezza o archivio, essa perderebbe la sua funzione di testi-
monianza. Per restare testimonianza, essa deve dunque lasciarsi
assillare [hanter]. Deve lasciarsi parassitare da ciò stesso che
esclude dal suo foro interiore, la possibilità almeno della lette-
ratura. È su questo limite indecidibile che tenteremo di restare.

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Questo limite è una chance e una minaccia, in una volta la risor-


sa della testimonianza e della finzione letteraria, del diritto e del
non-diritto, della verità e della non-verità, della veracità e della
menzogna, della fedeltà e dello spergiuro” (De 30-31 [107]; Pa
182 [237]; 192 [246-247]; CC 26-27).
La scelta dei due testi di Blanchot e Celan è strettamente
motivata, dato che – secondo Derrida – la testimonianza ne
costituisce il movente essenziale, non solo di questi singoli testi,
ma dell’interpretazione della letteratura che in essi è possibile
trovare inscritta. Di fatto, la relazione tra “finzione” e “verità” è
uno dei moventi che orientano la lettura derridiana dell’opera
letteraria di Blanchot fin dagli anni settanta (Pa 10 [76]).
Nel caso di L’instant de ma mort, si tratta di rilevare, attra-
verso la finzione letteraria, la possibilità di attestare l’esperien-
za nella sua irriducibile singolarità, nel suo stesso irrimediabile
sottrarsi all’ordine della presenza ostensibile, al regime della
prova e della verifica: è per questo che Blanchot ricorre alle
strutture della narrazione di finzione per costruire una sorta di
testimonianza autobiografica in favore della sua partecipazione
alla resistenza partigiana nel corso della seconda guerra mon-
diale e quindi smentire i sospetti di una sua adesione al regime
di Pétain. È perché la testimonianza responsabile è in se stessa
un atto performativo – promessa di verità e richiesta di fiducia
senza autorità legittimante – che è necessario ricorrere alle strut-
ture della letteratura di finzione, e non ad una qualche prova di
ordine generale.
La necessità/impossibilità del rinvio all’esperienza singola-
re diventa la condizione irriducibile della produzione della trac-
cia – del testo autobiografico, letterario, poetico, psicoanalitico
o altro che sia, al di qua cioè di ogni convenzionale distinzione
di genere. Aschenglorie, per Derrida, costituisce la chiave per
interpretare la poesia di Celan, la sua stessa idea di poesia,
all’ombra di una vera e propria poetica della testimonianza: la
poesia di Celan rielabora la traccia dell’esperienza come il
SEGRETO irriducibile intorno al quale si tesse tanto la trama della

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scrittura quanto l’appello alla sua decifrazione. Un appello in


cui l’essenziale non è tanto l’esito della decifrazione – una pre-
tesa esaustività che il testo stesso esclude in quanto appello alla
decifrazione – ma l’istituirsi, l’accadere di una relazione con
l’altro capace di fare spazio alla singolarità dell’esperienza
senza violarne il segreto costitutivo.
Questo per Derrida risultava già evidente nell’uso da parte
di Celan della datazione, più o meno cifrata, all’interno ed all’e-
sterno delle proprie opere, al quale è in gran parte dedicato il
testo Schibboleth. In particolare, lì dove il testo, a partire dal-
l’ordine dato della significazione, in cui la singolarità dell’espe-
rienza si dissolve irrimediabilmente nella generalità del segno
convenzionale ed arbitrario, inventa la propria regola, tanto di
iscrizione quanto di decifrazione, costituendo così in se stesso
un atto performativo irriducibilmente singolare, e cioè capace di
istituire le proprie condizioni di decifrazione.
È in questa prospettiva che, attraverso la lettura di Celan,
Derrida arriva ad affermare che “qualsiasi testimonianza
responsabile impegna un’esperienza poetica della lingua” (PPT
521) implicando una irriducibile dimensione performativa,
come esplicitamente affermato in Dimora: “Vi è qui un’abilità
del testimone che ci ricorda che l’atto testimoniale è poetico o
non è, dal momento che deve inventare la sua lingua e formarsi
in un incommensurabile performativo” (De 109 [158]).

A questo punto è necessario rilevare nel dettaglio che cosa


attesta l’esperienza della testimonianza. Il testimone, come tale,
fa appello alla credenza dell’altro in rapporto a qualcosa, un
evento, al quale dichiara di essere stato presente ma che non è
più presente, che è irriducibilmente sottratto al regime della pre-
sentazione intuitiva, constativa, quindi all’ordine della prova e
del sapere. Questo vale per ogni testimonianza e fa di ogni testi-
monianza un atto performativo: “Il testimone marca o dichiara
che qualche cosa gli è o gli è stata presente, che non lo è ai desti-
natari ai quali il testimone è legato da un contratto, un giura-

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mento, una promessa, da una fede giurata la cui performatività


è costitutiva della testimonianza e fa di questa un pegno, un
impegno” (PPT 528).
Indubbiamente è possibile, di fatto, elaborare varie proce-
dure di verifica della testimonianza, per inscriverla nel regime
della prova all’ordine del sapere, e questo è quanto attesta la sto-
ria delle istituzioni religiose, giuridiche e scientifiche, nel loro
intreccio inestricabile. E tuttavia proprio la necessità di queste
convenzioni storicamente determinate testimonia dell’irriduci-
bilità della condizione ultima della testimonianza.
Il testimone testimonierà sempre di un evento passato al
quale sarà stato presente nella sua irriducibile singolarità, ma un
evento non più presente e necessariamente impresentabile nella
sua presenza intuitiva. E questo vale innanzitutto per lo stesso
testimone. In rapporto alla presenza passata, al mio essere stato
presente a qualcosa, sono già da sempre nella condizione di
impossibilità di addurre prove nell’ordine della dimostrazione
intuitiva, innanzitutto rispetto a me stesso. Io posso solo attesta-
re il mio essere stato presente nell’unica forma possibile e cioè
la ri-rap-presentazione [Wergegenwärtigung] costituita in vista
dell’iterazione rammemorativa, una forma che, in se stessa, non
implica, non può implicare, nessun rapporto di continuità, quin-
di necessità, con la presenza alla quale può solo rinviare attra-
verso la traccia che costituisce l’esperienza (➞ ARCHI-SCRITTU-
RA): “Chiunque testimonia non apporta una prova. È qualcuno
la cui esperienza, in principio singolare e insostituibile (anche se
può essere confrontata con altre per divenire prova, per divenire
probante in un dispositivo di verificazione) viene ad attestare,
giustamente, che qualche ‘cosa’ gli è stata presente. Questa
‘cosa’ non gli è più presente, certo, nel modo della percezione
nel momento in cui l’attestazione si produce; ma essa gli è pre-
sente, se egli allega questa presenza, in quanto presentemente ri-
rap-presentata nella memoria” (PPT 528).
L’attestazione testimoniale rispetta e mette in rilievo le con-
dizioni di possibilità dell’esperienza – l’archi-scrittura –, allo

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stesso tempo permette di cogliere la necessità strutturale di un


atto performativo quale condizione di ogni possibile attestazio-
ne dotata di senso: l’impegno, la promessa di dire il vero, l’atto
di fede richiesto, costituiscono una “specie di giuramento tra-
scendentale” (De 60 [127]).
Nella testimonianza, come nell’archi-scrittura di cui è
un’articolazione concreta, la ritenzione dell’esperienza nella sua
singolarità dipende necessariamente dalla possibilità della sua
iterazione. In tanto possiamo rinviare alla singolarità dell’espe-
rienza in quanto questa già da sempre si inscrive in una traccia
iterabile, e quindi è già da sempre offerta alla possibilità della
marca significante, che può solo rinviare alla singolarità dell’e-
sperienza senza addurne la presenza viva e puntuale: “Questo
non-accesso diretto o immediato del destinatario all’oggetto
della testimonianza, è ciò che marca l’assenza di questo ‘testi-
mone del testimone’ alla cosa stessa. Questa ab-senza è altret-
tanto essenziale. Essa sospende così alla parola o alla marca
della testimonianza in quanto essa è dissociabile da ciò di cui
testimonia: nemmeno il testimone è presente, certo, presente-
mente presente a ciò che ricorda, non vi è presente nel modo
della percezione, in quanto testimonia, nel momento in cui testi-
monia; non è più presente, adesso, a ciò a cui dice essere stato
presente, a ciò che dice di aver percepito; anche se egli dice
essere presente, presentemente presente, qui adesso, attraverso
ciò che si chiama memoria, la memoria articolata ad un lin-
guaggio, al suo essere stato presente” (PPT 527).
Della presenza dunque non c’è altra esperienza possibile
che quella dell’attestazione postuma. Un’attestazione in cui io
devo impegnarmi ad affermare come mia la rappresentazione
che rielaboro attraverso la memoria. È solo nella forma di tale
attestazione responsabile che io posso legarmi a me stesso, e
cioè all’altro che io sono innanzitutto per me stesso in un
momento altro da quello dell’esperienza puntualmente presente
ed in se stessa ineffabile: “Nella testimonianza, la presenza a sé,
condizione classica della responsabilità, deve essere coestensiva

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alla presenza ad altra cosa, all’essere-stato presente ad altra cosa


e alla presenza all’altro, per esempio al destinatario della testi-
monianza. È a questa condizione che il testimone può risponde-
re, e rispondere di se stesso, essere responsabile della sua testi-
monianza, come del giuramento con il quale vi si impegna e lo
garantisce” (PPT 529).
La relazione all’alterità in generale, ciò che impone l’in-
scrizione dell’esperienza in una traccia iterabile fin dalla sua
prima ritenzione, è ciò che mi impone di rapportarmi quale
erede e testimone alla mia esperienza e quindi è anche ciò che
mi permette di attestare me stesso: singolarità di una “coscien-
za” necessariamente differita nella relazione all’altro che la
costituisce come tale. L’esperienza della mia singolarità è dun-
que possibile solo nella forma dell’attestazione responsabile nei
confronti dell’altro, che dipende da questa originaria apertura
all’alterità in generale che la rende possibile.

A questo punto è possibile indicare almeno le tracce del


percorso che, attraverso la testimonianza, porta Derrida ad iso-
lare la struttura ultima del legame “con altri” in vista di una
comunità a venire, differente dalle forme di comunità che cono-
sciamo e per la quale forse il nome – comunità – non è nemme-
no più adeguato. Vale a dire, le tracce che guideranno Derrida a
riformulare la questione del politico in termini di democrazia a
venire.
Proprio in Fede e Sapere, Derrida individua nell’atto di
fede, necessariamente implicato nella testimonianza, la struttu-
ra ultima di ogni indirizzo all’altro, le condizioni di possibilità
del legame con altri al di qua di ogni determinazione storica di
questo. Derrida risale, via Benveniste, alla matrice latino-cri-
stiana della nozione e dell’esperienza del legame [religio] che
fonda le nostre comunità, in Occidente e nel mondo in via di
occidentalizzazione, con uno scopo molto preciso: dissociare la
fede dal sacro, i due elementi che, tenuti insieme, fondano la
nostra idea e la nostra esperienza della religione all’ordine di

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una pulsione identitaria intimamente reattiva nei confronti del-


l’altro, vissuto sempre e comunque come una minaccia per l’in-
tegrità della comunità. Attraverso lo stesso movimento a ritroso,
è possibile sciogliere l’atto di fede, necessariamente implicato
nella testimonianza, da ogni fede religiosa determinata che pure
rende possibile, e che tuttavia in queste concrete forme storiche
si trova subordinato all’economia del sacro.
Si tratta di rilevare nell’atto di fede implicato nella testi-
monianza le condizioni irriducibili di ogni indirizzo all’altro,
ciò per cui ognuno è già da sempre legato all’altro in quanto ne
va della possibilità di attestare se stesso: “Questa estensione
della detta implicazione di giuramento può sembrare straordina-
ria e abusiva, perfino stravagante, ma io la credo legittima, per-
fino irrecusabile. Essa obbliga a tenere ogni indirizzo all’altro
per una testimonianza. Ogni volta che io parlo o manifesto qual-
cosa ad altri (autrui), io testimonio nella misura in cui anche se
non dico o non mostro la verità, anche se, dietro la ‘maschera’,
io mento, nascondo o tradisco, ogni enunciato implica ‘io ti dico
la verità, io ti dico ciò che io penso, io testimonio davanti a te di
ciò di cui testimonio davanti a me, e che è presente a me stesso
(singolarmente, insostituibilmente). E ti posso sempre mentire.
Dunque io sono davanti a te come davanti ad un giudice, davan-
ti alla legge o al rappresentante della legge. Dacché testimonio,
sono davanti a te come davanti alla legge ma allo stesso tempo,
a te che sei mio testimone, a te che testimoni della mia testimo-
nianza, tu sei anche giudice ed arbitro, giudice e parte altrettan-
to che giudice e arbitro’” (PPT 533).
In ogni indirizzo all’altro sono necessariamente implicite
tanto la promessa di dire il vero quanto la richiesta di un atto di
fede nella mia attestazione. Ma in questa attestazione e nell’at-
to di fede richiesto all’altro, non ne va soltanto dell’attestazione
di tale o tal altra esperienza particolare. Nell’atto di fede richie-
sto in ogni indirizzo all’altro ne va innanzitutto e irriducibil-
mente della possibilità del senso, e cioè dell’attestazione della
mia singolarità, che dipende dunque dall’altro, dall’atto di fede

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che l’altro, senza alcun riferimento ad un’autorità superiore, può


concedermi o meno.
A questo punto, tra l’altro, appare chiara la portata deco-
struttiva del ricorso derridiano al “performativo” elaborato nella
teoria austiniana degli atti linguistici, per la quale bisogna risali-
re a Firma Evento Contesto (Ma 365-393 [395-424]): la perfor-
matività, l’efficacia dell’atto testimoniale, non dipende più –
come in Austin – dal protocollo convenzionale in cui il perfor-
mativo si inscrive, ma dall’altro che eventualmente controfirma
l’atto testimoniale. La performatività dell’atto testimoniale quin-
di è irriducibilmente passiva, senza potere né possibilità di cal-
colo rispetto alla propria efficacia, e solo in questa misura si può
dire che è dell’ordine dell’evento e cioè irriducibile ad ogni
intenzione performativa di produrne: “Quel che caratterizza un
evento è precisamente il fatto che disfa qualsiasi performatività,
che accade, precisamente, al di là di qualsiasi potere performati-
vo. [...]. È questo limite della performatività che, di fatto, traccia
la linea che analizziamo adesso. L’interesse che portiamo alla
teoria degli atti di linguaggio all’Università è forse in rapporto
con l’illusione che, utilizzando degli enunciati performativi, pro-
duciamo degli eventi, padroneggiamo la storia. L’evento è asso-
lutamente imprevedibile, cioè al di là di qualsiasi performatività.
È lì che una firma interviene” (CC 21; Vo 123 [127]).
Nell’atto di fede implicato in ogni indirizzo all’altro ne va
quindi della mia singolarità come di quella dell’altro, dal
momento che nell’attestazione della mia singolarità chiedo
all’altro di farsi giudice ma anche testimone della mia attesta-
zione e quindi della mia singolarità, e per questo faccio fede, ho
necessariamente bisogno di fare fede alla singolarità dell’espe-
rienza altrui, alla testimonianza dell’altro, nelle stesse condizio-
ni in cui si trova il destinatario della mia.
È questa la struttura irriducibile del legame, in cui, nel
legame con altri, senza garanzia e senza autorità, ne va del lega-
me con me stesso, la possibilità stessa della singolarità, della
mia come di quella dell’altro, di ogni altro inteso come assolu-

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tamente altro e cioè inaccessibile nella sua sorgente assoluta,


innanzitutto per se stesso.
Ne consegue che il legame con altri non lega delle presen-
ze autonome e di per sé costituite, magari nella forma di
coscienze a se stesse presenti. Il legame con altri non è dell’or-
dine di una presenza comune, di un’identità superiore capace di
sciogliere e risolvere le differenze secondo l’economia della dia-
lettica del riconoscimento di matrice hegeliana: “L’etica pura, se
ce n’è, comincia dalla dignità rispettabile dell’altro come l’as-
soluto dissimile, riconosciuto come non riconoscibile, addirittu-
ra come irriconoscibile, al di là di ogni sapere, di ogni cono-
scenza e di ogni riconoscimento: il prossimo come simile o
come somigliante nomina non il principio ma la fine o la rovina
dell’etica pura, se ce n’è” (Vo 90 [94]).
Si tratta piuttosto di un legame che già da sempre lega sin-
golarità nell’inaccessibilità stessa della loro presenza innanzi-
tutto per se stesse; un legame che vincola alla distanza infinita
che separa le singolarità le une dalle altre, in quanto ognuna
assolutamente altra rispetto all’altra; un legame che esclude
l’assimilazione, implicando la possibilità sempre aperta della
relazione che non è tale se non nella differenza infinita – la dif-
feraenza – che separa ognuno da ogni altro come assolutamente
altro, allo stesso tempo rinviando l’uno all’altro, agli altri: “Non
c’è opposizione – fondamentale – tra ‘legame sociale’ e ‘slega-
me [déliaison] sociale’. Un certo slegame che interrompe è la
condizione del ‘legame sociale’, la respirazione stessa di qual-
siasi ‘comunità’. Non c’è lì nemmeno il nodo di una condizione
reciproca, piuttosto la possibilità aperta allo scioglimento di
ogni nodo, alla cesura e all’interruzione. Lì si aprirebbe il socius
o il rapporto all’altro come segreto dell’esperienza testimoniale
– dunque di una certa fede. […]. Questa dis-giunzione interrut-
tiva ingiunge una specie di uguaglianza incommensurabile nella
dissimmetria assoluta” (FS 98-99 [71-72]).
Certamente la struttura della comunità che conosciamo,
nelle diverse forme storiche attraverso cui la conosciamo, ha

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potuto incorporare tali condizioni del legame, riducendone però


lo spettro di possibilità per proteggersi dalla minaccia implicita
in questa esposizione all’altro priva di ogni garanzia.
Con Derrida ci accorgiamo che in questa dinamica di auto-
difesa su cui si fonda la comunità, attraverso la sottomissione, la
repressione, il sacrificio dell’altro, la comunità rimuove le pro-
prie condizioni di possibilità, e dunque è la comunità stessa a
minacciare se stessa in nome di se stessa, della propria identità
pura e indenne, sana e salva (SM 277-279 [218-220]).
È piuttosto a partire da questa dissimmetria irriducibile e
insaturabile che costituisce la singolarità vivente umana rispetto
all’altro, a se stessa come altro, che bisogna elaborare forme di
legame in grado di ospitare quell’alterità che già da sempre l’a-
bita quale sua condizione spettrale: “Là, in questa testimonian-
za offerta non a sé, ma all’altro, si produce l’orizzonte di tradu-
cibilità – dunque di amicizia, di comunità universale, di decen-
tramento europeo, al di là dei valori di philia, di carità, e di tutto
ciò che vi si può associare, al di là persino dell’interpretazione
europea del nome dell’Europa” (SN 98 [169]).

FUOCHI SEMANTICI: alterità, amicizia, auto-biografia, diritto,


evento, fede, fiducia, finzione, firma, giuramento, giustizia, ite-
rabilità, legame, marca, menzogna, presenza, performativo, ri-
rap-presentazione, scrittura, singolarità, testo, traccia.

F.V.

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TUTT’ALTRO
[TOUT AUTRE]

Formula giocata sul raddoppiamento (“tout autre est tout


autre”), disseminata lungo l’opera come riserva in cui le argo-
mentazioni precipitano e raggiungono il fondo senza fondo
della loro irriducibilità, o come indice in cui le medesime fanno
cenno verso la possibilità di un’oltranza di senso o significato
non presentato (e forse non presentabile), il tutt’altro viene
spiegato in Donare la morte come “la proposizione stessa del-
l’eterologia più irriducibile” (DM 115 [115]) che si dispiega a
partire dal gioco tra “tutto” (che può assumere il valore di
aggettivo pronominale o di avverbio di quantità) e “altro” (che,
invece, può definirsi come sostantivo oppure come aggettivo o
predicato).
La traiettoria semantica dispiegata dall’“eterologia” ha per-
messo, nel corso del tempo, la sedimentazione del novero di
accuse, fraintendimenti, attacchi e liquidazioni della pratica
decostruzionista, che è stata considerata – proprio in nome del
tutt’altro che la produce e che produce – una sorta di ripiega-
mento (ultra)metafisico dell’insieme di presupposizioni metafi-
siche che intendeva disassemblare: lo spettro della cosiddetta
“teologia negativa” che – via Plotino e magari Kierkegaard o
Heidegger – ossessiona parte della storia del pensiero filosofi-
co, è stato evocato anche a proposito di Derrida, dimenticando
però che proprio lo spettro impedisce l’appropriazione metafisi-
ca e, per questo, sottrae la pratica eterologica al recupero cate-
goriale messo in opera da procedure del pensiero dominate dal

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principio “S è P” o dalla costituzione di opposizioni binarie


“pure” o immuni da infiltrazioni.
In un’intervista rilasciata poco dopo l’uscita di Glas,
Derrida, prendendo spunto da un passo dei Viaggi di Gulliver,
tenta una delle sue prime approssimazioni all’“impossibile”
chiamandolo (sulla scorta di Swift) “la-cosa-che-non-è”, e
dichiara che “al di là dei filosofemi e post-filosofemi così tra-
vagliati, patinati, ricombinati, infinitamente scaltri, che trattano,
in ogni loro stato, la morte, il nulla, la negazione, la denegazio-
ne, l’idealizzazione, l’interiorizzazione, ecc. (parlo qui di un
luogo e di un momento di me in cui li conosco troppo, in cui mi
conoscono troppo), tento di sperimentare nel mio corpo un
tutt’altro rapporto all’incredibile ‘cosa-che-non-è’” (PS 54).
In questo frammento di risposta (il cui ritaglio è forse un
“tutt’altro” rapporto con l’idea di lettura, qui di un’intervista),
condensano alcuni dei motivi che guidano il movimento derri-
diano in direzione (e non certo “sul”) del tutt’altro: la morte e le
sue modulazioni categoriali, come pure il corpo o, ancora, l’im-
possibile, non sono soltanto motivi che la tradizione filosofica
ha ontologizzato intramandoli in un orizzonte metafisico soste-
nuto da coppie ontologicamente determinate (morte/vita;
corpo/anima; “cosa-che-non-c’è”/essente), ma costituiscono i
termini di un tutt’altro rapporto con il tutt’altro che si smarca da
gerarchizzazioni o dialettizzazioni, perché mette in discussione
la tesi di una presunta “purezza” originaria (del senso, dell’es-
sere, del segno) da cui discenderebbero.
Contrariamente a quanto si sarebbe indotti a credere,
tutt’altro fa cenno verso la “non purezza”, ed è per questo che la
formula può essere rintracciata in contesti diversi: “Questa ete-
rogeneità e la legge della contaminazione tra il tutt’altro di que-
sta eterogeneità e la sua regolare riappropriazione (inclusio-
ne/esclusione, ridialettizzazione economica, ecc.) è senza dub-
bio ciò che mi ha più costantemente inquietato nella mia lettu-
ra, segnatamente quella dei ‘Greci’ (Platone o Aristotele, per
esempio), ma che ha anche impedito a questa lettura di identifi-

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care, di determinare un’identità a sé, un’immanenza a sé del


Greco, come d’altronde di ogni corpo linguistico, discorsivo,
sistemico o testuale. Non è solo il non-Greco che mi ha attirato
nel Greco (si tratta insomma di sapere cosa significhi ‘nel’), non
è solo l’altro dal Greco, […], ma il tutt’altro del Greco, della sua
lingua e del suo logos, questa figura del tutt’altro per lui infigu-
rabile” (NG 260).
È l’“identità a sé, l’immanenza a sé” di “ogni corpo lingui-
stico, discorsivo, sistemico o testuale”, che il tutt’altro si trove-
rebbe a, letteralmente, s-figurare in nome del già menzionato
rapporto (il “nel”) di cui l’appropriazione identitaria sarebbe
effetto e non causa. In questa direzione si muove l’indecidibilità
semantica della formula tutt’altro: in francese, “tutt’altro” [tout
autre] può generare sia “tutt’altro”, sia “ogni altro”, sia “total-
mente altro”, ed è nelle pieghe del suo articolato campo seman-
tico che la riflessione derridiana si incunea per produrre – di
volta in volta – smottamenti di ordine disciplinare, metodologi-
co, paradigmatico, storico-critico.
Non è dunque casuale la presenza del tutt’altro nella lettu-
ra dell’opera di Lévinas: dalle pagine di Violenza e metafisica
(che, tra l’altro, vedono comparire di sfuggita l’Abramo kierke-
gaardiano che – trentacinque anni dopo – assumerà una posi-
zione centrale proprio in relazione al tutt’altro di cui si discute
in Donare la morte) in cui l’esortazione levinassiana a ripetere
il parricidio di Parmenide affinché “l’altro, il tutt’altro, possa
manifestarsi come ciò che è, prima della verità comune, in una
certa non-manifestazione e in una certa assenza” (ED 135
[115]), viene considerata soprattutto a partire dalle derive e
dalle aporie in cui rischia di rimanere intrappolata (“ma quello
che qui un Greco [Platone] non ha potuto fare, come riuscirà a
farlo un non-Greco se non travestendosi da Greco, parlando
greco, fingendo di parlare greco per potersi avvicinare al re?”
(ED 135 [115]), fino al testo del 1980 In questo medesimo
momento in quest’opera eccomi in cui, assecondando in alcuni
passaggi i tratti retorici della retractatio, Derrida recupera la

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domanda già posta nel 1964 rilanciandola però in direzione


della “traccia” come impossibile “presenza” all’opera nella
scrittura di Lévinas: “Come scrive, quindi? Come ciò che scrive
fa opera e Opera nell’opera? Cosa fa, per esempio e in modo
eminente, quando scrive al presente, nella forma grammaticale
del presente, per dire ciò che non si presenta e non sarà mai stato
presente, in quanto il (cosid)detto presente non si presenta che
in nome di un Dire che lo deborda, al di fuori e al di dentro, infi-
nitamente, come una sorta di anacronia assoluta, quella di un
tutt’altro che, per quanto incommensurabilmente eterogeneo
alla lingua del presente e al discorso del medesimo, vi lascia pur
tuttavia una traccia: sempre improbabile ma ogni volta determi-
nata, questa e non un’altra? Come fa a inscrivere o a lasciarsi
inscrivere il tutt’altro nella lingua dell’essere, del presente, del-
l’essenza, del medesimo, dell’economia, ecc., nella sua sintassi
e nel suo lessico, sotto la sua legge?” (Ps 165-166 [181]).
Legato alla scrittura, il tutt’altro dichiara, nell’atto, nel
“momento” (vale a dire nello spazio e nel tempo) del suo
(im)porsi, l’impossibilità di uno spazio e di un tempo capaci di
raccoglierlo o di rispondere, perché è solo a partire da tale
(im)posizione che uno “spazio” e un “tempo” (considerati come
forme, categorie, orizzonti, estasi o comunque li si voglia deter-
minare) possono, a loro volta, essere pensati: “presente” e “trac-
cia”, compreso il loro confliggere o il loro vicendevole esclu-
dersi includendosi uno nell’altra, residuano come “effetto” di
un’“anacronia assoluta” che è forse solo il nome di una disloca-
zione innominabile “all’interno senza dentro della lingua ma
aperta al di fuori del tutt’altro” (Ps 187 [205]).
Le riduzioni ontologiche che vorrebbero ricondurre il
tutt’altro nell’orizzonte di una serialità metafisica (ma forse si
potrebbe dire nell’orizzonte tout court) non riescono a misurare
la portata del loro stesso gesto che consiste, da ultimo, nel voler
ridurre le stesse condizioni di possibilità che permettono il
costituirsi della struttura metafisica qua talis: l’economia cui
mette capo il pensiero metafisico, così come la rappresentazio-

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ne che produce, impediscono quell’“invenzione” che è la chan-


ce del tutt’altro, vale a dire l’irruzione di quanto, non essendo
“né soggetto né oggetto, né un io, né una coscienza, né un incon-
scio” (Ps 53 [58]), non si lascia anticipare o prevedere, pro-
grammare o calcolare, e la cui venuta (l’in-venire) coincide con
la DECOSTRUZIONE stessa (“Prepararsi a questa venuta dell’altro
è ciò che si può chiamare decostruzione”, Ps 53 [58]).
L’insistenza sul carattere “aleatorio” sottrae il percorso der-
ridiano all’orbita “etica” che sembra costituire (al di là delle for-
zature in cui è stata spesso costretta) il discorso levinassiano,
perché sia l’“altro”, sia il tutt’altro non possono essere ricon-
dotti alle filosofie della relazione, alle ermeneutiche dialogiche,
alle teorie della comunicazione e finanche alla differenza ses-
suale che di queste è spesso l’inesplicato presupposto o l’incon-
sapevole deriva: il tutt’altro non si lascia dis-locare al di fuori o
al di là di un sistema di segni, ma “opera” già, già da sempre,
come “effrazione marcante del dire, di un dire che non è più par-
ticipio presente ma già una passata della traccia, un performare
(del) tutt’altro” (Ps 191 [211]). Solo, dunque, attraverso il movi-
mento differenziale di un’economia del medesimo si potrà ipo-
tizzare l’impossibile tutt’altro che – nella simultaneità conflit-
tuale di un’anacronia dell’evento che coincide con il suo dia-
cronico manifestarsi – costituisce la condizione e la cancella-
zione di ogni principio economico. Solo attraverso una differen-
te (perché differita o rilanciata oltre i suoi stessi limiti) conside-
razione del rapporto tra etica e scrittura si potrà sottrarre il
tutt’altro alla presa ideologica che lo vede assoggettare od ospi-
tare il soggetto (come in Lévinas), o che lo immagina costituire
quell’inconscio che – ad esempio in Lacan – “sovverte il sog-
getto”: sarà nell’ultima riflessione derridiana dedicata all’ani-
male che precipiteranno i matemi di un pensiero del “vivente”
che ricapitola stazioni e movimenti in cui la fatica di pensare,
prima ancora di ancorarsi ad un “oggetto”, a “questo” o “quel-
lo”, alla “Cosa”, al “fantasma”, al “voler-dire”, si scopre insi-
diata (o, meglio, “spettrata”) proprio da un “ritornare” che “non

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ha tanto a che fare con un ‘automatismo di ripetizione’ (quello


degli automi che girano intorno a noi da tanto tempo), ma ci fa
piuttosto pensare tutto quello, tutt’altro, da cui risulta una coa-
zione a ripetere: che tutt’altro è tutt’altro” (SM 273 [216]).
Arco voltaico tra singolarità e universalità, del tutt’altro
non si dà sapere perché nei suoi interstizi coagula l’eccesso di
significazione che indicizza – sfrangiandone i bordi – l’espe-
rienza della problematica frontiera tra piano etico e piano reli-
gioso: “‘tout autre est tout autre’ significa che ‘tout autre è sin-
golare’, che tutto è singolarità, dunque anche che tutto è ciascu-
no, proposizione che sigilla il contratto tra l’universalità e l’ec-
cezione della singolarità, quella del ‘chiunque’” (DM 121
[119]).

Una frontiera che è condizione dell’istituzione di un’eco-


nomia tra l’etico e il religioso: nella lettura di Timore e tremore
di Kierkegaard, l’eccedenza del religioso sull’etico presente nel-
l’abissale richiesta rivolta ad Abramo di sacrificare il figlio
Isacco, viene assunta da Derrida come legge di un’economia
che, da una parte, chiede ad Abramo di rinunciare ad ogni
appropriazione sacrificando proprio l’economia, mentre dall’al-
tra, restituendogli il figlio, gli permette di guadagnare proprio
ciò a cui aveva rinunciato. Circolarità aporetica dell’economia,
della legge, della legge dell’economia (vale a dire di quanto pre-
siede alla determinazione del vivente, umano o meno), il tutt’al-
tro si impone nel percorso filosofico derridiano come nome
della complicazione originaria dell’origine che aveva già pro-
dotto (1953-54) lo studio del problema della genesi in Husserl,
ed è dunque come modulazione della “legge della contamina-
zione differenziale” (PG VII [51]) che deve poter essere com-
preso, di contro alla deriva che lo costituirebbe come presunto
“nocciolo” resistente alla stessa decostruzione. Occorre insiste-
re su quest’ultimo punto, perché – anche se non esclusiva – l’in-
sistenza del tutt’altro nei testi che si riferiscono a questioni eti-
che (o, ad esempio, alla lettura di Lévinas) ha suggerito l’idea di

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una “svolta etica” del pensiero di Derrida a partire dagli anni


’80, mentre già nelle prime opere è possibile ritrovarlo come
centrale rispetto a quanto riceverà il nome di traccia, DIFFERAEN-
ZA, ARCHI-SCRITTURA: “Non si può pensare la traccia istituita
senza pensare la ritenzione della differenza in una struttura di
rimando in cui la differenza appaia come tale e permetta così
una certa libertà di variazione tra i termini pieni. [...] L’‘immo-
tivazione’ del segno richiede una sintesi in cui il tutt’altro si
annuncia come tale – senza alcuna semplicità, alcuna identità,
alcuna rassomiglianza o continuità – in ciò che non è esso stes-
so. Si annuncia come tale: qui c’è tutta la storia, a partire da ciò
che la metafisica ha determinato come il ‘non vivente’ fino alla
coscienza, passando per tutti i livelli dell’organizzazione anima-
le” (Gr 68-69; [72-72]).
Messo in campo come la condizione stessa della storia e
dell’insieme di opposizioni rispetto alle quali l’immotivazione
del segno non conclude verso nessuna purezza, il tutt’altro infil-
tra le coppie metafisiche che vorrebbero neutralizzarlo attraver-
so una logica della “strettura” in patente contrasto con la logica
della “cesura”. La “strettura” del tutt’altro non produce opposi-
zione ma è in differaenza perché, come spiega lo stesso Derrida,
il “distacco” che marca non chiude, non sutura e, dunque, non
consegna il tutt’altro al lavoro dialettico ma, al contrario, lo
rende possibile proprio in ragione del suo eccedersi: “La logica
del distacco come cesura porta all’opposizione, è una logica,
cioè una dialettica dell’opposizione. Ho già mostrato, altrove,
che il suo scopo era quello di rilevare la differenza. Quindi di
suturare. La logica del distacco come strettura è tutt’altro. In
differaenza: essa non sutura mai” (VP 389 [321]).

Prima dell’iperbole “etica” in cui tutt’altro marcherebbe


l’alterità dell’alterità, è importante riconoscere la logica che
questo innesca o, in ogni caso, la catena semantica di cui, più
che essere significante, è matrice di contro-significazione: al
pari della differaenza, di cui è modulazione e non presupposto,

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tutt’altro costituisce la riserva non economizzabile del sistema


che produce. In questo senso deve essere inteso il prefisso “con-
tro”: nessuna opposizione, ma la simultaneità di (contro)effetti
che occorre lasciar accadere al di là dell’intenzione (conscia o
inconscia che sia) o dell’evidenza che riconosce al pensiero
un’alterità solo se la aggancia ad esso, solo se la co-stringe in un
qualche ordine rappresentativo. Qui il senso della differenza tra
“strettura” e “strizione” (vale a dire tra il tutt’altro e l’altro):
archi-originaria, in ritardo rispetto alle sue tracce, la “strettura”
non può nemmeno promettere di farsi trovare, mentre la “stri-
zione” recupera sempre il legame con l’ente (magari nella forma
heideggeriana della “differenza ontologica”) e si lascia modula-
re in sequenze (logiche o temporali) formalizzabili secondo
schemi classici. Tra la “strettura” e la “strizione” l’abisso di
tutt’altro costituisce l’inoltrepassabile frontiera della descrizio-
ne fenomenologica o della presa categoriale in generale, perché
la relazione che instaura – relazione che non è dialogo, non è
scambio, non è rapporto – è strutturata da una sottrazione, da un
“senza” letteralmente indescrivibile o – non casualmente –
descrivibile ricorrendo alla LETTERATURA o alla poesia: è nelle
analisi dedicate a Blanchot che il “senza” del tutt’altro si annun-
cia come pensiero (dell’) impossibile il quale “gioca come uno
strano meccanismo, né un’energia né un funzionamento. [...] Il
senza avrà camminato. Passo del senza/nessun senza. E avrà
investito il paleonimo di un tutt’altro, archi-antico, più che anti-
co, protetto dal paleonimo ma senza rapporto con lui. [...] il
senza si auto-destina al tutt’altro (senza senza senza). È dunque
infinitamente passivo nei confronti del tutt’altro che lo designa
o lo abborda” (Pa 91-92 [150-151]).
Prima ancora di una eventuale assunzione come signifi-
cante di un’alterità immanente al teologico, al politico, allo psi-
coanalitico, tutt’altro lavora come sottrazione paleonimica che
neutralizza la possibilità stessa di un ordine di senso in cui attri-
buire un ruolo al significante, ed è proprio tale funzione di sot-
trazione che se, da una parte, impedisce la sua cattura in un

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sistema teorico o in un quadro assiologico, dall’altra lo espone


ad una presa “negativa” che rischia di trasformarlo in polo dia-
lettico o, più ancora, mistico. Occorre dunque precisare che
l’orbita semantica che contribuisce a delineare appartiene alla
più ampia questione del “vivente” e della SOPRAVVIVENZA, come
mostrano con estrema precisione le pagine in cui il tutt’altro
viene messo in relazione con l’animale, ed in cui – attraverso
Lévinas e Lacan – viene discusso “il pregiudizio antropocentri-
co di derivazione cartesiana, vale a dire epiprometeo-giudeo-cri-
stiano-islamico” (AQD [152-153]) che sembra dominare incon-
trastato proprio laddove si tenta – come nel caso dell’animale –
di pensare l’alterità svincolandola dalle rappresentazioni che,
alla fine, la riducono ad una proiezione o al semplice “negativo”
del soggetto umano.
Attraverso Lacan e Lévinas il tutt’altro viene problemati-
camente riferito alla questione dell’alterità: la contiguità seman-
tica tra “altro” e tutt’altro, infatti, potrebbe spingere a ritenere
quest’ultimo come una sorta di iperbole del primo, mentre solo
a partire dallo svuotamento semantico (di nuovo il “senza”) del
termine “altro” si potrà abbordare l’“altro” termine, vale a dire
anche l’altro dal termine, l’altro dalla terminologia in genere,
l’altro al di là del tutto, al di là di ogni possibile differenza (com-
presa quella sessuale), l’altro dell’altro; “termine” che investe il
supposto “soggetto” non dall’esterno, da un “fuori” che, anche
se non identificabile, farebbe ancora riferimento ad uno spazio,
ad un orizzonte. Tutt’altro “mette termine” al soggetto, all’io, e
disallinea la puntualità della presenza, la incripta prima del suo
giungere a sé, nell’anarchica (non simbolizzabile) memoria in
cui LA VITA LA MORTE si determinano vicendevolmente a partire
dalla relazione differenziale che le istituisce: qui si deve coglie-
re la differenza di Derrida rispetto a Lévinas, perché se l’alterità
del tutt’altro non lo costituisce come fenomeno di una non feno-
menicità, allora non si tratterà di assumere eticamente il suo
evenire, quanto di riconoscere nell’impossibilità di un’assunzio-
ne etica l’unica possibilità “etica” di assunzione. In altri termi-

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ni: del tutt’altro derridiano non si può parlare nei termini di una
“transascendenza” (come dice Lévinas mutuando il termine da
Wahl), perché l’ordine a cui rinvia non ne permette la definizio-
ne come Dio o come LEGGE.
Al pari della traccia, tutt’altro cancella od evacua il suo
“presentarsi” sotto le spoglie dell’altro, anche e soprattutto
quando tali “spoglie” pretendono sovvertire l’ordine cartesiano
del soggetto (come accade con l’inconscio di Freud/Lacan o con
l’etica di Lévinas), perché interrompe la specularità di simme-
trie rispetto all’idea stessa di soggetto o all’ordine “tolemaico”
ad essa connesso: refrattario al movimento endiadico che lo vor-
rebbe come “qualità” da riservare “a Dio, a un solo altro in ogni
caso” oppure “a ogni altro: altrimenti detto a ciascuno, a ogni
uno, per esempio a ciascun uomo e a ciascuna donna, ovvero a
ciascun vivente, umano o meno” (DM 116 [116]), tutt’altro è il
nome del tutt’altro (dal) nome della cripta in cui il pensiero è,
letteralmente, infestato, assillato, ossessionato dal segreto che
porta ma che non sa decifrare. Decifrazione sempre possibile e,
dunque, per sempre impossibile.

FUOCHI SEMANTICI: eterologia, impossibile, identità, ontologia,


sì, spaziatura, traccia, cripta, archi-origine, metafisica, anacro-
nia, strizione, strettura.

S.F.

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DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 211

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211
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213
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Volume II (2002-2003), a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca
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DERRIDARIO 24-05-2012_opuscula 25/05/12 10:33 Pagina 217

INDICE DEI CONCETTI

Alterità 17, 21, 24, 28, 30-32, 34, AUTOIMMUNITÀ 11, 40-49, 78,
39, 64, 65, 85, 86, 88, 93, 97, 117, 142.
109, 117, 143-145, 151, 165- Avvenire 10, 65, 67-69, 74, 75,
167, 169, 173, 176, 179, 77, 80, 83, 145, 154, 156, 157,
182-186, 195, 199, 206-208. 160, 161, 177, 182, 185.
Amicizia 49, 71, 72, 187, 188,
199. Biologia 7, 18, 37, 46, 49, 106.
Anacronia 203, 204, 209. Biopolitica 40, 49.
Appropriazione 60, 62, 63, 75,
100, 110, 111, 112, 115, 117, CHŌRA 11, 50-58, 76, 83, 154,
127, 129, 136, 146, 149, 151, 161, 166-168.
154, 165, 200-202, 205. Comunità 20, 48, 49, 70, 74, 83,
Aptocentrismo, aptocentrico 38, 147, 187, 195, 196, 198, 199.
39. Credito 27, 97.
Archi-origine, archi-originario 64, Cripta 56-58, 129, 149-151, 165,
96, 199, 207, 209. 166, 173, 184, 208, 209.
ARCHI-SCRITTURA 10, 15, 17, 18,
Data 137, 140.
21, 25, 26, 31, 34, 52, 86, 87,
100, 116, 127, 142, 176, 177, DECOSTRUZIONE 7-11, 17, 29, 35,
181, 187-189, 193, 194, 206. 37, 40, 41, 45, 49, 51, 52, 55,
59-63, 65-74, 76, 77, 82, 97,
Archivio 57, 91, 93, 190.
100, 118, 124-126, 142, 143,
Arrivante 156-158, 162. 150, 151, 161, 164, 175, 185,
Autobiografia 189. 188, 204, 205.
AUTO-AFFEZIONE 10, 29, 30-39, DEMOCRAZIA 42, 48, 49, 51, 58,
110, 111, 114, 115, 155. 68, 71-83, 85, 138, 162, 190,
Auto-decostruzione 49, 60, 78. 195.

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Destinerranza 104, 105, 117. Fonologocentrismo 26, 28, 33,


DIFFERAENZA 15, 18, 25, 26, 33, 38, 39.
42, 48, 55, 64, 76-79, 84-90, Forclusione 150, 151.
92-93, 95, 100, 108-111, 116,
117, 125, 128, 153, 172, 175, Genesi 19, 22, 27, 28, 50, 54, 88,
177, 181, 198, 206. 106, 117, 118, 129, 169, 176,
Diritto 37, 68, 69, 72, 73, 75, 79- 183, 205.
81, 118, 120, 123, 125, 127, Giuramento 194, 195, 196, 199.
130, 137-140, 168, 171, 190, Giustizia 36, 39, 68-70, 72, 80,
191, 199. 83, 97, 118, 121, 125, 126, 129,
Disseminazione 9, 28, 136. 157, 162.
DONO 57, 94-105, 109, 162. Gramma 28, 175, 184.
Double bind 48, 103, 120, 122,
124, 163, 173. Identità 17, 21, 22, 24, 32, 64, 74,
76, 77, 84-86, 88, 93, 104, 137,
Economia della morte 92, 93, 155, 156, 164, 165, 181, 182,
110, 117, 186. 184, 187, 198, 199, 202, 206,
Esappropriazione 111, 117. 209.
Eterologia 200, 209. Imene 15, 136, 140.
Evento 49, 57, 58, 61, 62, 65-70, Impossibile 14, 18, 23, 27, 55, 58,
78-80, 83, 94, 95, 101, 103, 61, 65, 66, 67, 69, 70, 73, 74,
105, 110, 123, 128, 131, 132, 76, 79, 83, 86, 93, 95, 98, 101-
138, 139, 154, 155, 156-158, 103, 122, 125, 126, 129, 134,
160-162, 164, 171, 173, 180- 139, 143, 145, 146, 149, 151,
182, 184, 186, 192, 193, 197, 158, 160, 163, 165, 166, 172,
199, 204. 173, 201, 203, 204, 207, 209.
Incondizionalità 49, 127, 168,
Fallologocentrismo, fallogocentrico 186.
118, 129. Inconscio 56, 91, 92, 114, 119,
Fede 43, 46-48, 55-57, 123, 152, 129, 150, 166, 173, 204, 209.
159, 162, 183, 188, 191, 193- Incorporazione 148-151, 165.
199. Indenne 43, 44, 49, 199.
Femminile, femminilità 128, 129. Indecostruibile 68-70.
Fiducia, fiduciarietà 188, 191, 199. Innesto 136, 140.
Finzione 127, 128, 164, 169, 171, Intendersi-parlare 32, 34, 39.
173, 189, 190, 191, 199. Interpretazione 8, 9, 44, 45, 48, 55,
Firma 66, 132, 134-138, 140, 58, 59, 60, 133, 134, 161, 177,
164, 197, 199. 183, 185, 186, 189, 191, 199.

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Introiezione 143, 144, 148-151, Melanconia 142-147, 151.


165. Memoria 9, 23, 24, 57, 74, 75,
Invenzione 7, 61, 66, 70, 84, 87, 89-91, 104, 105, 131, 136, 139,
94, 171, 204. 144, 145, 147, 154, 162, 168,
Invio 112, 113, 117, 124. 176, 193, 194, 208.
Iper-analisi 65, 70. Menzogna 190, 191, 199.
Iper-politica 52, 58, 69. MESSIANICO 11, 70, 80, 82, 152-
Ipseità 16, 28, 30, 39, 45, 48, 49, 162.
76, 77, 82, 115, 117, 146, 151. Metafisica 15-18, 28-30, 32-39,
Iterabilità 20, 21, 25, 28, 39, 42, 50, 51, 55, 57, 60, 61, 63, 64,
49, 55, 58, 62, 70, 93, 99, 105, 74, 86, 89, 90, 93, 95, 96, 98,
117, 126, 134, 140, 184, 186, 100, 101, 103, 105, 117, 120,
188, 199. 126, 131, 158, 169, 179, 185-
187, 200, 202, 203, 206, 209.
LA VITA LA MORTE 8, 10, 31, 40, Morte 8, 10, 16, 31, 39-42, 44,
41, 45, 93, 106, 110, 112, 115, 45, 48, 49, 68, 88, 92, 93, 95-
116, 117, 142, 174, 175, 181, 97, 106-117, 123, 141, 142,
182, 208. 144, 145, 147, 151, 155, 166,
Legame 39, 96, 99, 103-105, 111, 174, 175, 178, 179, 181-186,
113, 114, 116, 117, 123, 124, 200-202, 206.
136, 158, 165, 166, 168, 170,
186, 187, 188, 195, 197-199, 207. Ontologia 38, 61, 100, 105, 138,
LEGGE 11, 15, 32, 53, 56, 100-103, 175, 209.
110, 111, 118-129, 132-138, Ospitalità 72, 105, 157.
144-146, 155, 158, 163, 164,
166, 169, 171, 173, 188, 190, Performativo 27, 28, 80, 83, 105,
196, 201, 203, 205, 209. 123, 124, 136, 140, 155, 162,
Lingua, linguaggio 7, 19, 20, 23- 165, 186, 191, 192, 194, 197,
25, 30, 42, 55, 62, 82, 84, 86, 199.
99, 100, 102, 103, 116, 117, Pharmakon 15, 38, 40, 44, 49,
123, 128, 129, 131, 132, 134, 52, 100.
142, 154, 159, 162, 170, 173, Politico 41, 45, 48, 49, 51, 52, 57,
183, 192, 194, 197, 202, 203. 69, 71, 74, 76, 78, 80, 83, 85,
LUTTO 10, 16, 41, 56, 134, 141- 97, 102, 118, 156, 158, 165,
148, 150, 151, 165, 174, 177, 190, 195, 207.
183. Presenza 15-18, 22-24, 26, 27,
29-39, 55, 64, 74, 77, 81, 85,
Marca 36, 62, 129, 133, 136, 137, 86, 90-92, 95, 97, 100, 102,
140, 173, 183, 194, 199. 103, 105, 108, 109, 113, 114,

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133, 136, 137, 142, 143, 147, 121, 131, 132-134, 136, 137,
155, 156, 161, 162, 168, 177, 140, 163, 164, 167, 175-177,
179, 180, 182, 184, 187, 189, 180, 181, 183, 189, 192, 199,
191, 193-195, 198, 199, 202, 203, 204.
203, 208. Segno 23-26, 28, 38, 51, 53, 64,
Promessa 70, 74, 75, 77, 83, 94, 65, 73, 74, 96, 102, 127, 128,
136, 156, 157, 162, 167, 188, 135, 155, 159, 167, 168, 192,
190, 191, 193, 194, 196. 201, 206.
Proprio 34, 37, 45, 46, 77, 95, Singolarità 19, 21, 22, 61-63, 70,
105, 110, 111, 117, 127, 134- 91, 93, 100, 107, 111, 114, 124,
137, 139, 145, 160, 161, 164, 127, 128, 133, 135, 137, 139,
166, 170, 171, 182. 140, 164, 171, 187, 191-199,
Protesi 19, 36, 42, 117. 205.
Pulsione 40, 43-45, 48, 49, 95, SEGRETO 8, 11, 83, 96, 104, 105,
107, 108, 110, 112-117, 126, 134, 139, 149, 150, 160, 163-
129, 155, 196. 173, 191, 192, 198, 209.
Sì 92, 146, 157, 180, 209. m
Religione 43, 44, 47, 56, 99, 138, Simulacro 42, 117, 190.
157, 159, 160, 162, 168, 195. SOPRAVVIVENZA 8-10, 16, 28, 49,
Responsabilità 8, 16, 27, 28, 63, 74, 90, 114, 117, 142, 155, 174-
68, 119, 123, 124-127, 129, 185, 208.
138, 139, 146, 188, 190, 194. Sovranità 32, 39, 54, 72, 80, 83,
Restanza 56, 58, 75, 83, 151, 184. 104, 117, 126, 127.
Resto 95, 105, 136, 144, 163, Spaziatura 15, 28, 37, 39, 55, 56,
173, 186. 85, 86, 93, 142, 209.
Rinvio 23, 28, 85, 92, 93, 109, Spettralità 39, 41, 142, 173, 183,
111, 159, 184, 186, 191. 186.
Ripetizione 31, 40, 62, 88, 91, 92, Strategia 51, 63, 65, 70, 71, 72,
101, 115, 117, 126, 134, 136, 125, 165.
137, 173, 180, 188, 205. Strittura 110, 112-114, 117.
Ri-rap-presentazione 23, 24, 28, Struttura 16, 17, 22, 25, 27, 29-
117, 193. 31, 34, 35, 39, 47, 54, 55, 58,
Ritardo 76, 92, 93, 108, 207. 60, 61, 63, 64, 74, 75, 77, 79,
82, 93, 101, 106, 109-111, 114,
Sacrificio 43, 94, 96, 105, 199. 115, 118, 123, 126, 131, 150,
Scrittura 15-18, 20, 21, 23-27, 34, 152, 153, 157, 161, 164, 169,
39, 40, 57, 61, 62, 65, 66, 70, 170, 176, 179-183, 185, 187,
84, 89, 98, 101, 104, 105, 120, 188, 195, 197, 198, 203, 206.

220
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Supplemento 15, 93, 100, 117, 175-177, 181, 183, 185-187,


120, 184. 191, 193-195, 197, 199, 203,
204, 206, 209.
Tele-tecnologie 9, 49. Traduzione 91, 94, 134, 183, 186.
Teologia negativa 81-83, 172, Trascendentale 19, 20-22, 69, 72,
200. 73, 86, 89, 90, 96, 99, 101, 103,
TESTIMONIANZA 11, 16, 27, 124, 115, 116, 121, 122, 128, 130,
126, 127, 138, 164, 169, 171, 135, 152, 162, 163, 194.
181, 183, 187-197. Trasformazione 67, 69, 70, 80,
Testo 27-29, 40, 43-45, 47, 51, 124, 134.
52, 54, 55, 63, 67, 91-93, 96, TUTT’ALTRO 51, 54-57, 65, 95,
97, 106, 120, 124, 131, 132- 111, 128, 154, 158, 164, 171,
135, 137, 163, 173, 183, 184, 173, 200-09.
186, 191, 192, 199.
Topologia 172. Voce 23, 28, 32, 33-39, 82, 107,
Traccia 15, 18-25, 28, 30, 31, 40, 121, 184.
84-86, 89-93, 95, 96, 98, 101, Voler-dire 23, 28, 102, 103, 204.
116, 121, 127, 130, 140, 159,

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INDICE

RITORNARE A DERRIDA 7

Avvertenza 12

ARCHI-SCRITTURA 15
AUTO-AFFEZIONE 29
AUTOIMMUNITÀ 40
CHŌRA 50
DECOSTRUZIONE 59
DEMOCRAZIA 71
DIFFERAENZA 84
DONARE 94
LA VITA LA MORTE 106
LEGGE 118
LETTERATURA 130
LUTTO 141
MESSIANICO 152
SEGRETO 163
SOPRAVVIVENZA 174
TESTIMONIANZA 187
TUTT’ALTRO 200

Legenda 211
Indice dei concetti 217
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Finito di stampare
nel mese di giugno 2012
per i tipi de “il nuovo melangolo”
dalla Microart - Recco (Ge)

Fotocomposizione e impaginazione:
Type&Editing - Genova

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