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Einaudi
L’ordine del discorso è il testo della lezione inaugurale al Collège de France, letta il 2 dicembre 1970.
Per ragioni d’orario, alcuni passaggi erano stati ridotti e modificati nella lettura. Qui sono stati ripresi.
Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui,
forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Piú che
prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni
inizio possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare
una voce senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato
concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione,
nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando, per un attimo,
sospesa. Inizi, non ce ne sarebbero dunque; e invece d’essere colui donde
viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una
sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile.
Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un
pezzo, superando in anticipo tutto quel che sto per dire) una voce che parlasse
cosí: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole sinché
ce ne sono, bisogna dirle sinché mi trovino, sinché mi dicano – strana pena,
strana colpa, bisogna continuare, è forse già cosa fatta, mi hanno forse già
detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla
porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta».
C’è in molti, penso, un simile desiderio di non dover cominciare, un simile
desiderio di ritrovarsi, d’acchito, dall’altra parte del discorso, senza aver
dovuto considerare dall’esterno ciò che esso poteva avere di singolare, di
temibile, di malefico forse. A questo augurio cosí comune, l’istituzione
risponde sull’ironico, perché essa rende solenni gli esordii, perché li attornia
d’un cerchio di attenzione e di silenzio, e impone loro, per segnalarli da piú
lontano, forme ritualizzate.
Il desiderio dice: «Non vorrei dover io stesso entrare in quest’ordine
fortuito del discorso; non vorrei aver a che fare con esso in ciò che ha di
tagliente e di decisivo; vorrei che fosse tutt’intorno a me come una
trasparenza calma, profonda, indefinitamente aperta, in cui gli altri
rispondessero alla mia attesa e in cui le verità, ad una ad una, si alzassero;
non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice».
E l’istituzione risponde: «Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui
per mostrarti che il discorso è nell’ordine delle leggi; che da tempo si vigila
sulla sua apparizione; che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo
disarma; e che, se gli capita d’avere un qualche potere, lo detiene in grazia
nostra, e nostra soltanto».
Ma forse quest’istituzione e questo desiderio non sono altro che due
risposte opposte ad una stessa inquietudine: inquietudine nei confronti di ciò
che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta;
inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a
cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine
nell’avvertire dietro a questa attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli
che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite,
dominazioni, servitú attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sí gran
tempo le asperità.
Ma che c’è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i
suoi discorsi proliferano indefinitamente? Dov’è dunque il pericolo?
Ecco l’ipotesi che vorrei avanzare questa sera, per fissare il luogo – o forse
il molto provvisorio teatro – del lavoro che faccio: suppongo che in ogni
società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata,
organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la
funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento
aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità.
In una società come la nostra si conoscono, naturalmente, le procedure
d’esclusione. La piú evidente, ed anche la piú familiare, è quella
dell’interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può
parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può
parlare di qualunque cosa. Tabú dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto
privilegiato o esclusivo del soggetto che parla: si ha qui il gioco di tre tipi
d’interdetto che si incrociano, si rafforzano o si compensano, formando un
reticolo complesso che non cessa di modificarsi. Noterò solo che, ai nostri
giorni, le regioni in cui il reticolo è piú fitto, in cui si moltiplicano le caselle
nere, sono le regioni della sessualità e della politica: come se il discorso,
lungi dall’essere l’elemento trasparente o neutro nel quale la sessualità si
placa e la politica si pacifica, fosse uno dei siti in cui esse esercitano, in modo
privilegiato, alcuni dei loro piú temibili poteri. Il discorso, in apparenza, ha
un bell’essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e
assai rapidamente, il suo legame col desiderio e col potere. E non vi è nulla di
sorprendente in tutto questo: poiché il discorso – la psicanalisi ce l’ha
mostrato – non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio;
e poiché – questo, la storia non cessa di insegnarcelo – il discorso non è
semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per
cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.
Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non piú un
interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso alla opposizione
tra ragione e follia. Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discorso
non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia
considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza,
non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un atto o un
contratto, non potendo nemmeno, nel sacrificio della messa, permettere la
transustanziazione e fare del pane un corpo; capita anche, in compenso, che le
si attribuiscano, all’opposto di ogni altra parola, strani poteri, quello di dire
una verità nascosta, quello di annunciare l’avvenire, quello di vedere del tutto
ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può scorgere. È curioso
constatare che per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa,
oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità. O cadeva nel
nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione
ingenua o scaltrita, una ragione piú ragionevole di quella della gente
ragionevole. In ogni modo, esclusa o segretamente investita dalla ragione, in
senso stretto essa non esisteva. La follia del folle si riconosceva attraverso le
sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano
mai accolte né ascoltate. Mai, prima della fine del XVIII secolo, un medico
aveva avuto l’idea di sapere ciò che era detto (come era detto, perché era
detto), in questa parola che pur tuttavia stabiliva la differenza. Tutto
l’immenso discorso del folle si risolveva in rumore; e la parola non gli era
data che simbolicamente, sul teatro in cui si faceva avanti, disarmato e
riconciliato, poiché vi sosteneva la parte della verità colla maschera.
Mi si dirà che tutto questo è finito, oggi, o che sta per aver fine; che la
parola del folle non è piú dall’altra parte della separazione; che non è piú resa
nulla e senza effetto; che al contrario ci mette in agguato; che vi cerchiamo
un senso, o l’abbozzo o le rovine di un’opera; e che siamo riusciti a
sorprenderla, questa parola del folle, in ciò che noi stessi articoliamo, nel
minuscolo strappo attraverso cui quel che diciamo ci sfugge. Ma tanta
attenzione non prova che la vecchia partizione non sia piú valida; basta
riflettere a tutta la armatura del sapere attraverso cui decifriamo questa
parola; basta pensare a tutta la rete di istituzioni che consente a qualcuno –
medico, psicanalista – di ascoltare questa parola e che consente nello stesso
tempo al paziente, di venir a portare, o a trattenere disperatamente, le sue
povere parole; basta riflettere a tutto questo per sospettare che la partizione,
lungi dall’essere cancellata, agisce altrimenti, secondo linee diverse,
attraverso nuove istituzioni, e con effetti che non sono affatto gli stessi. E
quand’anche il ruolo del medico non fosse che quello di prestare orecchio a
una parola finalmente libera, l’ascolto si esercita pur sempre nel
mantenimento di una cesura. Ascolto di un discorso che è investito dal
desiderio, e che si crede, per la sua piú grande esaltazione e la sua piú grande
angoscia, carico di terribili poteri. Se occorre veramente il silenzio della
ragione per guarire i mostri, basta che il silenzio sia in allarme, ed ecco la
partizione mantenuta.
È forse arrischiato considerare l’opposizione del vero e del falso come un
terzo sistema d’esclusione, accanto a quelli di cui ho parlato. Come si
potrebbe ragionevolmente paragonare la costrizione della verità con
partizioni come quelle, partizioni che sono arbitrarie in partenza o che
comunque si organizzano attorno a contingenze storiche; che sono non solo
modificabili, ma in continuo spostamento; che sono sorrette da tutto un
sistema di istituzioni che le impongono o le riconfermano; che non si
esercitano infine senza costrizione, o senza almeno una parte di violenza.
Certo, se ci si situa a livello di una proposizione, all’interno di un discorso,
la partizione tra il vero e il falso non è né arbitraria, né modificabile, né
istituzionale, né violenta. Ma se ci si situa su altra scala, se ci si pone la
questione di sapere quale è stata, qual è costantemente, attraverso i nostri
discorsi, questa volontà di verità che ha attraversato tanti secoli della nostra
storia, o qual è, nella sua forma generalissima, il tipo di partizione che regge
la nostra volontà di sapere, allora vediamo profilarsi qualcosa come un
sistema d’esclusione (sistema storico, modificabile, istituzionalmente
costrittivo).
Partizione storicamente costituita, senz’altro. Poiché, già nei poeti greci
del VI secolo, il discorso vero – nel senso forte e valorizzato del termine – il
discorso vero per cui si aveva rispetto e terrore, quello al quale bisognava pur
sottomettersi, perché regnava, era il discorso pronunciato da chi di diritto, e
secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la giustizia e attribuiva
a ciascuno la sua parte; era il discorso che, profetizzando il futuro, non solo
annunziava quel che stava per accadere, ma contribuiva alla sua
realizzazione, comportava l’adesione degli uomini e si tramava cosí col
destino. Ed ecco che un secolo piú tardi la piú alta verità non risiedeva piú
ormai in quel che il discorso era o in quel che faceva, bensí in quel che
diceva: un giorno è venuto in cui la verità si è spostata dall’atto ritualizzato,
efficace e giusto, d’enunciazione, verso l’enunciato stesso: verso il suo senso,
la sua forma, il suo oggetto, il rapporto colla sua referenza. Tra Esiodo e
Platone si è stabilita una certa partizione, che ha separato il discorso vero e il
discorso falso; partizione nuova perché ormai il discorso vero non è piú il
discorso prezioso e desiderabile, poiché non è piú il discorso legato al potere.
Il sofista è cacciato.
Questa partizione storica ha senza dubbio dato la forma generale che le è
propria alla nostra volontà di sapere. Ma non ha per questo cessato di
spostarsi: le grandi mutazioni scientifiche possono forse essere lette talora
come le conseguenze di una scoperta, ma possono anche essere lette come
l’apparizione di nuove forme nella volontà di verità. C’è senza dubbio una
volontà di verità, nel XIX secolo, che non coincide, né per le forme messe in
gioco, né per i campi d’oggetti cui si rivolge, né per le tecniche su cui poggia,
con la volontà di sapere che caratterizza la cultura classica. Risaliamo un po’
indietro: tra il XVI e il XVII secolo (e soprattutto in Inghilterra) è apparsa una
volontà di sapere che, anticipando i contenuti attuali, disegnava piani
d’oggetti possibili, misurabili, catalogabili; una volontà di sapere che
imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza),
una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere piú che
leggere, verificare piú che commentare); una volontà di sapere che
prescriveva (e con modalità piú generali di ogni strumento determinato) a che
livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere
verificabili ed utili. È come se, a partire dalla grande partizione platonica, la
volontà di sapere avesse la sua propria storia, che non è quella delle verità
costrittive: storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia delle funzioni e
posizioni del soggetto conoscente, storia degli investimenti materiali, tecnici,
strumentali della conoscenza.
Ora, questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su
di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto
uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, come il sistema dei libri,
dell’editoria, delle biblioteche, come i circoli eruditi una volta, i laboratori
oggi. Ma essa è anche riconfermata, senza dubbio piú profondamente, dal
modo in cui il sapere è messo in opera in una società, dal modo in cui è
valorizzato, distribuito, ripartito, e in certo qual modo attribuito. Ricordiamo
qui, a titolo puramente simbolico, il vecchio principio greco: l’aritmetica può
ben riguardare le città democratiche, poiché insegna i rapporti d’eguaglianza,
ma solo la geometria deve essere insegnata nelle oligarchie, poiché essa
dimostra le proporzioni nell’ineguaglianza.
Credo insomma che questa volontà di verità, cosí sorretta da un supporto e
da una distribuzione istituzionali, tenda ad esercitare sugli altri discorsi –
parlo sempre della nostra società – una sorta di pressione e quasi un potere di
costrizione. Penso anche al modo in cui la letteratura occidentale ha dovuto
da secoli cercar sostegno sul naturale, sul verosimile, sulla sincerità, persino
sulla scienza, in breve sul discorso vero. Penso inoltre al modo in cui le
pratiche economiche, codificate come precetti o ricette, al caso come morale,
hanno dal XVI secolo cercato di fondarsi, di razionalizzarsi e di giustificarsi
su una teoria delle ricchezze e della produzione; penso inoltre al modo in cui
un insieme prescrittivo come il sistema penale ha cercato le sue basi o la sua
giustificazione, dapprima naturalmente in una teoria del diritto, poi, a partire
dal XIX secolo, in un sapere sociologico, psicologico, medico, psichiatrico:
come se la parola stessa della legge non potesse piú essere autorizzata, nella
nostra società, se non da un discorso della verità.
Dei tre grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso, la parola
interdetta, la partizione della follia e la volontà di verità, è del terzo che ho
parlato piú a lungo.
Verso di esso, infatti, da secoli, han continuato ad esser sospinti i primi;
sempre piú, infatti, esso cerca di prenderli su di sé, per modificarli e fondarli
ad un tempo; se i primi due, infine, non cessano di diventare piú fragili, piú
incerti nella misura in cui vengono ora attraversati dalla volontà di verità,
questa non cessa in compenso di rafforzarsi, di diventare piú profonda ed
inaggirabile.
E tuttavia, è di essa che si parla meno. Come se per noi la volontà di verità
e le sue peripezie fossero mascherate dalla verità stessa nel suo necessario
svolgimento. E la ragione è forse questa: se il discorso vero non è piú, in
effetti, dai greci, quello che risponde al desiderio o quello che esercita il
potere, che cos’è dunque in gioco, nella volontà di verità, nella volontà di
dirlo, questo discorso vero, se non il desiderio e il potere? Il discorso vero,
che la necessità della sua forma affranca dal desiderio e libera dal potere, non
può riconoscere le volontà di verità che lo attraversa; e la volontà di verità,
quella che si è imposta a noi da moltissimo tempo, è siffatta che la verità
ch’essa vuole non può non mascherarla.
Cosí, non ci appare allo sguardo se non una verità che è ricchezza,
fecondità, forza dolce ed insidiosamente universale. E ignoriamo in
compenso la volontà di verità, come prodigioso macchinario destinato ad
escludere. Tutti coloro che, puntualmente nella nostra storia, hanno cercato di
aggirare questa volontà di verità e di rimetterla in questione contro la verità,
proprio là dove la verità si dà a giustificare l’interdetto e a definire la follia,
tutti costoro, da Nietzsche ad Artaud a Bataille, devono servirci da segni,
senza dubbio altieri, per il lavoro di ogni giorno.
Questi sono i compiti, o meglio alcuni dei temi, che sorreggono il lavoro
che vorrei fare qui nei prossimi anni. Si possono rintracciare subito alcune
esigenze di metodo ch’essi comportano.
Un principio di rovesciamento innanzitutto: là dove, secondo la tradizione,
si crede di riconoscere la scaturigine dei discorsi, il principio del loro
proliferare e della loro continuità, nelle figure che sembrano svolgere un
ruolo positivo, come quella dell’autore, della disciplina, della volontà di
verità, bisogna piuttosto riconoscere il gioco negativo d’un ritaglio e d’una
rarefazione del discorso.
Ma, una volta rintracciati tali principî di rarefazione, una volta che si sia
cessato di considerarli come un’istanza fondamentale e creatrice, cosa si
scopre al di sotto di essi? Si deve forse ammettere la virtuale pienezza d’un
mondo di discorsi ininterrotti? Qui occorre far subentrare altri principî di
metodo.
Un principio di discontinuità: il fatto che ci siano sistemi di rarefazione
non significa che sotto di essi, al di là di essi, possa regnare un gran discorso
illimitato, continuo e silenzioso, che verrebbe ad essere, da essi, represso o
rimosso, e che noi avremmo il compito di far sorgere restituendogli infine la
parola. Non bisogna immaginare un non detto o un impensato, che percorrano
il mondo e si intreccino con tutte le sue forme e tutti i suoi eventi, e che si
tratterebbe di articolare o di finalmente pensare. I discorsi devono essere
trattati come pratiche discontinue, che si incrociano, si affiancano talora, ma
anche si ignorano o si escludono.
Un principio di specificità: non risolvere il discorso in un gioco di
significati precostituiti; non immaginarsi che il mondo ci volga un viso
leggibile, che non avremmo piú che da decifrare; il mondo non è complice
della nostra conoscenza; non esiste una provvidenza prediscorsiva che lo
disponga a nostro favore. Occorre concepire il discorso come una violenza
che noi facciamo alle cose, in ogni caso come una pratica che imponiamo
loro; e proprio in questa pratica gli eventi del discorso trovano il principio
della loro regolarità.
Quarta regola, quella dell’esteriorità: non andare dal discorso verso il suo
nucleo interno e nascosto, verso il cuore di un pensiero o di un significato che
si manifesterebbero in esso; ma, a partire dal discorso stesso, dalla sua
apparizione, e dalla sua regolarità, andare verso le sue condizioni esterne di
possibilità, verso ciò che dà luogo alla serie aleatoria di quegli eventi e che ne
fissa i limiti.
Quattro nozioni devono dunque servire da principio regolativo alla analisi:
quella di evento, quella di serie, quella di regolarità, quella di condizione di
possibilità. Esse si oppongono, come si vede, termine a termine: l’evento alla
creazione, la serie all’unità, la regolarità alla originalità, e la condizione di
possibilità al significato. Queste quattro ultime nozioni (significato,
originalità, unità, creazione), hanno, in modo assai generale, dominato la
storia tradizionale delle idee, ove, di comune accordo, si cercava il punto
della creazione, l’unità di un’opera, di un’epoca o di un tema, il contrassegno
dell’originalità individuale, e il tesoro indefinito dei significati nascosti.
Aggiungerò soltanto due osservazioni. Una concerne la storia. Si mette
spesso all’attivo della storia contemporanea l’aver abolito i privilegi accordati
un tempo all’evento singolare e l’aver fatto apparire strutture di lunga durata.
Certo. Non sono tuttavia sicuro che il lavoro degli storici sia stato fatto
proprio in questa direzione. O meglio non penso che ci sia una sorta di
ragione inversa tra l’individuazione dell’evento e l’analisi della lunga durata.
Sembra, al contrario, che proprio rinserrando al massimo la grana
dell’evento, spingendo il potere di risoluzione dell’analisi storica fino alle
mercuriali, agli atti notarili, ai registri parrocchiali, agli archivi portuari
seguiti anno per anno, settimana per settimana, si siano visti profilarsi, al di là
delle battaglie, delle dinastie o delle assemblee, fenomeni massicci di portata
secolare o plurisecolare. La storia, cosí come la si pratica oggi, non si
allontana dagli eventi; al contrario, essa non fa che ampliarne il campo; ne
scopre senza posa nuovi strati, piú superficiali o piú profondi; ne isola
incessantemente nuovi insiemi ove sono talora numerosi, densi e
intercambiabili, talora rari e decisivi: dalle variazioni quasi quotidiane dei
prezzi si arriva alle inflazioni secolari. Ma l’importante è che la storia non
considera un evento senza definire la serie di cui fa parte, senza specificare il
modo d’analisi da cui dipende, senza cercar di conoscere la regolarità dei
fenomeni e i limiti di probabilità della loro emersione, senza interrogarsi sulle
variazioni, le inflessioni e l’andatura della curva, senza determinare le
condizioni da cui queste dipendono. Certo, la storia da un pezzo non cerca
piú di comprendere gli avvenimenti con un gioco di cause ed effetti
nell’informe unità di un grande divenire, vagamente omogeneo o duramente
gerarchizzato; ma non per ritrovare strutture anteriori, estranee, ostili
all’evento, quanto piuttosto per stabilire le serie diverse, incrociate, divergenti
spesso ma non autonome, che consentono di circoscrivere il «luogo»
dell’evento, i margini della sua alea, le condizioni della sua apparizione.
Le nozioni fondamentali che ora si impongono non sono piú quelle di
coscienza e di continuità (con i problemi loro correlativi della libertà e della
causalità), non sono quelle di segno e di struttura, bensí quelle di evento e di
serie, col gioco di nozioni loro connesse; regolarità, alea, discontinuità,
dipendenza, trasformazione; grazie a un tale insieme, l’analisi dei discorsi cui
penso si articola non certo sulla tematica tradizionale che i filosofi di ieri
prendono ancora per «storia viva», ma sul lavoro effettivo degli storici.
Ma, per ciò stesso, tale analisi pone problemi filosofici, o teorici,
senz’altro temibili. Se i discorsi devono essere trattati innanzitutto come
insiemi di eventi discorsivi, che statuto si deve dare a questa nozione di
evento che è stata cosí di rado presa in considerazione dai filosofi? L’evento
non è, certo, né sostanza né accidente, né qualità o processo; l’evento non è
dell’ordine dei corpi. E tuttavia esso non è immateriale; esso prende effetto, è
effetto, a livello della materialità; esso ha il suo luogo e la sua consistenza
nella relazione, nella coesistenza, nella dispersione, nel ricupero,
nell’accumulo, nella selezione d’elementi materiali; non è né l’atto né la
proprietà di un corpo; si produce come effetto di e in una dispersione
materiale. Diciamo che la filosofia dell’evento dovrebbe procedere nella
direzione, paradossale a prima vista, d’un materialismo dell’incorporeo.
D’altra parte, se gli eventi discorsivi devono essere trattati secondo serie
omogenee, ma discontinue le une rispetto alle altre, quale statuto si deve dare
a questo discontinuo? Non si tratta, beninteso, né della successione degli
istanti del tempo, né della pluralità dei diversi soggetti pensanti; si tratta di
cesure che frantumano l’istante e disperdono il soggetto in una pluralità di
posizioni e di funzioni possibili. Una tale discontinuità colpisce e invalida le
piú piccole unità tradizionalmente riconosciute o quelle meno facilmente
contestate: l’istante e il soggetto. E, sotto di essi, indipendentemente da essi,
bisogna concepire tra queste serie discontinue, relazioni che non sono
dell’ordine della successione (o della simultaneità) in una (o piú) coscienze;
bisogna elaborare – al di fuori delle filosofie del soggetto e del tempo – una
teoria delle sistematicità discontinue. Infine, se è vero che queste serie
discorsive e discontinue hanno ciascuna, entro certi limiti, la loro regolarità,
sicuramente non è piú possibile stabilire tra gli elementi che le costituiscono
legami di causalità meccanica o di necessità ideale. Bisogna accettare di
introdurre l’alea come categoria nella produzione degli eventi. Qui ancora si
avverte l’assenza di una teoria che permetta di pensare i rapporti del caso e
del pensiero.
Di modo che nella sottile sfasatura che ci si propone di mettere in opera
nella storia delle idee e che consiste nel trattare, non tanto rappresentazioni
che possono esserci dietro i discorsi, quanto i discorsi come serie regolari e
distinte di eventi, in questa sottile sfasatura, temo di riconoscere qualcosa
come un piccolo (e forse odioso) macchinario che consente di introdurre alla
radice stessa del pensiero, il caso, il discontinuo e la materialità. Triplice
pericolo che una certa forma di storia cerca di scongiurare raccontando lo
svolgimento continuo d’una necessità ideale. Tre nozioni che dovrebbero
consentire di legare alla pratica degli storici la storia dei sistemi di pensiero.
Tre direzioni che dovrà seguire il lavoro di elaborazione teorica.
Seguendo questi principî e riportandomi a quest’orizzonte, le analisi che
mi propongo di condurre si dispongono secondo due insiemi. Da una parte
l’insieme «critico» che mette in opera il principio del rovesciamento: cercare
di individuare le forme dell’esclusione, della limitazione, dell’appropriazione
di cui parlavo poc’anzi; mostrare come si sono elaborate, in risposta a quali
bisogni, come si sono modificate e spostate, quale costrizione hanno
effettivamente esercitato, in che misura sono state aggirate. D’altra parte,
l’insieme «genealogico» che mette in opera gli altri tre principî: come si sono
formate, attraverso, a dispetto o coll’appoggio di tali sistemi di costrizione,
delle serie di discorsi; quale è stata la norma specifica di ciascuna, e quali
sono state le loro condizioni di apparizione, di crescita, di variazione.
L’insieme critico innanzitutto. Un primo gruppo di analisi potrebbe
riguardare ciò che ho definito come funzioni d’esclusione. Mi è capitato
tempo addietro di studiarne una, relativa a un determinato periodo: si trattava
della partizione tra follia e ragione all’epoca classica. Piú tardi, si potrebbe
cercare di analizzare un sistema di interdetto di linguaggio: quello che
riguarda la sessualità dal XVI al XIX secolo; si tratterebbe di vedere non certo
come si sia progressivamente e felicemente annullato, bensí come si sia
spostato e riarticolato da una pratica della confessione in cui le condotte
interdette erano nominate, classificate, gerarchizzate, e nel modo piú
esplicito, sino alla comparsa, dapprima ben timida, ben ritardata, della
tematica sessuale nella medicina e nella psichiatria del XIX secolo; questi non
sono ancora, certo, che punti di riferimento un po’ simbolici, ma si può già
scommettere che le scansioni non sono quelle che si credono, e che gli
interdetti non hanno sempre tenuto il luogo che ci si immagina.
Per ora, vorrei dedicarmi al terzo sistema d’esclusione. E lo considero in
due modi. Da una parte, vorrei cercar di rintracciare come si sia costituita, ma
anche come sia stata ripetuta, riconfermata, spostata la scelta della verità
all’interno della quale siamo presi, e che non facciamo che rinnovare; mi
situerò dapprima all’epoca della sofistica e dei suoi inizi con Socrate, o
almeno con la filosofia platonica, per vedere come il discorso efficace, il
discorso rituale, il discorso carico di poteri e di pericoli si sia a poco a poco
allineato sulla partizione tra discorso vero e discorso falso. Mi situerò poi alla
svolta tra il XVI e il XVII secolo, in un’epoca in cui appare, soprattutto in
Inghilterra, una scienza dello sguardo, dell’osservazione, dell’accertamento,
una certa filosofia naturale indubbiamente inseparabile dall’insediamento di
nuove strutture politiche, inseparabile anche dall’ideologia religiosa: di certo,
una nuova forma della volontà di sapere. Il terzo punto di riferimento, infine,
saranno gli inizi del XIX secolo, con i grandi atti fondatori della scienza
moderna, con la formazione d’una società industriale e l’ideologia
positivistica che l’accompagna. Tre sezioni nella morfologia della nostra
volontà di sapere; tre tappe del nostro filisteismo.
Mi piacerebbe anche riprendere la stessa questione, ma da un’angolatura
del tutto diversa: vorrei cioè misurare l’effetto di un discorso a pretesa
scientifica – discorso medico, psichiatrico, ed anche discorso psicologico –
sull’insieme di pratiche e di discorsi prescrittivi costituito dal sistema penale.
Lo studio delle perizie psichiatriche e del loro ruolo nella penalità servirà da
punto di partenza e da materiale di base a quest’analisi.
In questa prospettiva critica, ancora, ma ad un altro livello, bisognerebbe
fare l’analisi delle procedure di limitazione del discorso, tra cui quelle che ho
definite poc’anzi come i principî dell’autore, del commento, della disciplina.
In questa prospettiva si possono considerare un certo numero di studi. Penso,
per esempio, ad un’analisi che riguarderebbe la storia della medicina dal XVI
al XIX secolo; si tratterebbe non tanto di rintracciare le scoperte fatte o i
concetti messi in opera, quanto di nuovamente comprendere, nella
costruzione del discorso medico, ma anche in tutta l’istituzione che lo
sorregge, lo trasmette, lo rafforza, come siano stati messi in gioco il principio
dell’autore, quello del commento, quello della disciplina; cercar di sapere
come sia stato esercitato il principio del grande autore: Ippocrate, Galeno,
certo, ma anche Paracelso, Sydenham o Boerhaave; come sia stata esercitata,
sino al XIX secolo inoltrato, la pratica dell’aforisma e del commento, come gli
sia stata a poco a poco sostituita la pratica del caso, della raccolta di casi,
dell’apprendimento clinico su di un caso concreto; secondo quale modello,
infine, la medicina abbia cercato di costituirsi come disciplina, poggiando
dapprima sulla storia naturale, poi sull’anatomia e la biologia.
Si potrebbe anche considerare in qual modo la critica e la storia letteraria
nel XVIII e nel XIX secolo abbiano costituito il personaggio dell’autore e la
figura dell’opera, utilizzando, modificando e spostando i procedimenti
dell’esegesi religiosa, della critica biblica, dell’agiografia, delle «vite»
storiche o leggendarie, dell’autobiografia e delle memorie. Bisognerebbe
anche, un giorno, studiare il ruolo svolto da Freud nel sapere psicanalitico,
assai diverso senz’altro da quello di Newton nella fisica (e di tutti i fondatori
di discipline), assai diverso anche da quello che può svolgere un autore nel
campo del discorso filosofico (fosse pure, come Kant, all’origine di un altro
modo di filosofare).
Ecco dunque alcuni progetti per l’aspetto critico del compito, per l’analisi
delle istanze del controllo discorsivo. Quanto all’aspetto genealogico, esso
riguarda la formazione effettiva dei discorsi sia all’interno dei limiti di
controllo, sia all’esterno, sia il piú delle volte da entrambe le parti della
limitazione. La critica analizza i processi di rarefazione, non solo, ma quelli,
inoltre, di raggruppamento e di unificazione dei discorsi; la genealogia studia
la loro formazione dispersa, discontinua e regolare insieme. A dire il vero,
questi due compiti non sono mai del tutto separabili; non ci sono, da una
parte, le forme del rigetto, dell’esclusione, del raggruppamento o
dell’attribuzione, e, dall’altra, a un livello piú profondo, lo sgorgare
spontaneo dei discorsi, che, subito prima o subito dopo la loro
manifestazione, si trovano sottoposti alla selezione e al controllo. La
formazione regolare del discorso può integrare, in certe condizioni e fino a un
certo punto, le procedure di controllo (è quel che succede, per esempio,
quando una disciplina assume forma e statuto di discorso scientifico); e
inversamente le figure del controllo possono prender corpo all’interno di una
formazione discorsiva (cosí la critica letteraria come discorso costitutivo
dell’autore): cosicché ogni compito critico, mettendo in questione le istanze
di controllo, deve di certo analizzare nello stesso tempo le regolarità
discorsive attraverso cui esse si formano; e ogni descrizione genealogica deve
prendere in considerazione i limiti che operano nelle formazioni reali. Tra
l’impresa critica e quella genealogica la differenza non è tanto di oggetto o di
ambito, quanto di punto d’attacco, di prospettiva e di delimitazione.
Alludevo poc’anzi a uno studio possibile: quello degli interdetti che
colpiscono il discorso della sessualità. Sarebbe difficile e astratto, in ogni
caso, condurre questo studio senza analizzare al contempo gli insiemi dei
discorsi, letterari, religiosi o etici, biologici e medici, ed anche giuridici, in
cui è in gioco la sessualità, e in cui questa viene nominata, descritta,
metaforizzata, spiegata, giudicata. Siamo ben lungi dall’aver costituito un
discorso unitario e regolare della sessualità; forse non ci si arriverà mai e
forse non stiamo andando affatto in questa direzione. Non importa. Gli
interdetti non hanno la stessa forma e non operano allo stesso modo nel
discorso letterario e in quello della medicina, in quello della psichiatria o in
quello della direzione spirituale. E, inversamente, queste diverse regolarità
discorsive non rafforzano, non aggirano o non spostano gli interdetti allo
stesso modo. Lo studio non potrà dunque essere condotto se non secondo
pluralità di serie in cui si trovano ad operare interdetti che, almeno in nafte,
sono diversi in ciascuna di esse.
Si potrebbero anche considerare le serie di discorsi che, nel XVI e nel XVII
secolo, riguardano la ricchezza e la povertà, la moneta, la produzione, il
commercio. Si ha qui a che fare con insiemi di enunciati assai eterogenei,
formulati dai ricchi e dai poveri, dai dotti e dagli ignoranti, dai protestanti o
dai cattolici, dagli ufficiali regi, dai commercianti o dai moralisti. Ognuno ha
la sua forma di regolarità, ed anche i suoi sistemi di costrizione. Ciascuno di
loro non prefigura esattamente l’altra forma di regolarità discorsiva che
assumerà l’andamento di una disciplina e che si chiamerà «analisi delle
ricchezze», poi «economia politica». Proprio a partire da essi, tuttavia, si è
formata una nuova regolarità, riprendendo od escludendo, giustificando o
rimuovendo tali o tal’altri dei loro enunciati.
Si potrebbe anche pensare ad uno studio che riguarderebbe i discorsi
relativi all’eredità, come li si possono trovare, ripartiti e dispersi sino agli
inizi del XX secolo, attraverso discipline, osservazioni, tecniche, ricette
diverse; si tratterebbe allora di mostrare con quale gioco d’articolazione
queste serie si sono alla fin fine ricomposte nella figura, epistemologicamente
coerente e riconosciuta dall’istituzione, della genetica. È il lavoro che ha
appena compiuto François Jacob, con una luminosità e un sapere
difficilmente comparabili.
Cosí devono alternarsi, vicendevolmente sorreggersi e completarsi le
descrizioni critiche e le descrizioni genealogiche. La parte critica dell’analisi
si rivolge ai sistemi d’avvolgimento del discorso; essa cerca di rintracciare, di
individuare tali principî di ordinamento, di esclusione, di rarità del discorso.
Diciamo, per giocare sulle parole, ch’essa pratica una disinvoltura applicata.
La parte genealogica dell’analisi si rivolge, in compenso, alle serie della
formulazione effettiva del discorso: essa cerca di coglierlo nel suo potere
d’affermazione; e con ciò intendo non un potere che si opporrebbe a quello di
negare, ma il potere di costituire ambiti d’oggetti, a proposito dei quali si
potranno affermare o negare proposizioni vere o false. Chiamiamo positività
questi ambiti d’oggetti; e diciamo, per giocare una seconda volta sulle parole,
che se lo stile critico è quello della studiosa disinvoltura, l’umore genealogico
sarà quello d’un positivismo felice.
In ogni modo, una cosa almeno deve essere sottolineata: l’analisi del
discorso cosí intesa non svela l’universalità di un senso, essa mette in luce il
gioco della rarità imposta, con un fondamentale potere di affermazione.
Rarità e affermazione; rarità, infine, dell’affermazione, e non continua
generosità del senso, e non monarchia del significante. E ora quelli che hanno
lacune di vocabolario dicano – se ciò suona loro meglio di quanto lor non
parli – che questo è strutturalismo.
1 Edizione originale: Titres et Travaux, Paris 1969. Si tratta della plaquette, redatta e pubblicata a
cura dello stesso Foucault, di presentazione e candidatura alla cattedra di Storia dei sistemi di pensiero
del Collège de France, Ripubblicata in Dits et écrits, I, 1954-1969, a cura di Daniel Defert e François
Ewald, Gallimard, Paris 1994, vol. I, pp. 842-46. Traduzione dal francese di M. Bertani.
Relazione prima1
Signor amministratore, miei cari colleghi, sono trascorsi quasi due anni da
quando Jean Hyppolite aveva reso partecipi molti di noi, per altro
pubblicamente, di un progetto rispetto al quale gli avevo dato il mio pieno
consenso. Il destino ha voluto che oggi fossi solo, e proprio nell’occasione
della sua morte, a riprenderlo, proponendovi di creare una cattedra di Storia
dei sistemi di pensiero.
I.
1 Relazione di Jules Vuillemin di fronte all’Assemblea dei docenti del Collège de France del 30
novembre 1969 in vista della creazione di una cattedra di Storia dei sistemi di pensiero (erede di quella
intestata a Jean Hyppolite). Edita in D. Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Paris 1991, pp. 366-71
(traduzione dal francese di Valeria Zini).
Relazione seconda1
1 Relazione di Jules Vuillemin di fronte all’Assemblea dei docenti del Collège de France del 12
aprile 1970 per la presentazione della candidatura di Michel Foucault alla cattedra di Storia dei sistemi
di pensiero. Edita in D. Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Paris 1991, pp. 372-76 (traduzione dal
francese di Valeria Zini).
Postfazione
di Mauro Bertani
Quello che il lettore ha appena finito di leggere, o di rileggere, è un vero e proprio manifesto teorico,
un programma di ricerca minuzioso e dettagliato, che gli anni di lavoro venuti dopo si incaricheranno di
realizzare e, in qualche caso, di correggere, di trasformare, o addirittura di smentire, con tutta una serie
di promesse non mantenute, ma anche di aperture insospettate; un testo nel quale, se anche non per la
prima volta, certo comunque con una chiarezza esemplare, quel formidabile inventore e creatore di
concetti, o come lui preferiva definirsi, quel bracconiere, quell’armaiolo, quel fabbricante di strumenti
sempre destinati a servire e funzionare all’interno di una lotta, di uno scontro, di un affrontamento
suscitati dall’attualità, che egli è stato, Foucault dichiara che è dalla parte dell’«astuto sofista» che
dovrà venire situata la sua impresa teorica. Dalla parte, cioè, di un progetto che, in esplicita opposizione
alla grande e nobile tradizione filosofica votata alla ricerca di una verità eterna ed assoluta, ha elaborato
«una pratica ed una teoria del discorso essenzialmente strategica», come dirà nel 1973, una pratica che
fa cioè, dei discorsi, delle armi, e che nel progetto teorico delineato ne L’ordine del discorso viene
messa in atto in vista della realizzazione di tre obiettivi, questi: «Rimettere in questione la nostra
volontà di verità; restituire al discorso il suo carattere di evento; togliere via infine la sovranità del
significante». Preludio ad una elaborazione del concetto di discorso (e di sapere) che sempre piú
chiaramente ne rigetterà l’elaborazione more psychoanalytico o la concezione sub specie semiologiae
che in quegli anni dominavano la scena teorica, e che comporterà il ricorso ad un tipo di analisi che non
farà piú riferimento all’ordine simbolico e «al grande modello della lingua e dei segni», come dirà poi,
bensí a quello «della guerra e della battaglia», destinato a sua volta a conferire alla storia una
intelligibilità che è quella «delle lotte, delle strategie e delle tattiche», senza che all’orizzonte possa
profilarsi nessuna dialettica destinata a schivarne «il carattere violento, sanguinoso, mortale», la realtà
bellicosa, aleatoria, virtualmente indecidibile. Un progetto in cui l’eterno e il contingente, l’empirico e
il trascendentale, il finito e l’infinito (di una filosofia o di una battaglia teorica congiunturale), si
embricano inestricabilmente, fino a confondersi, fino ad essere, forse, la parodia l’uno dell’altro.
Insomma, niente lacrime, ma opere (non necessariamente di bene), ovvero del lavoro, ancora e sempre,
interminabile, possibilmente accompagnato da una certa gaiezza. Questa la funzione protrettica affidata
al testo che il lettore ha tra le mani. Anche se tutto ciò non deve farci dimenticare che siamo comunque
di fronte ad un discorso solenne. L’ordine del discorso è infatti il testo della lezione inaugurale di
Foucault al Collège de France pronunciata il 2 dicembre 1970. Alla riedizione del testo abbiamo
aggiunto, in appendice, Titoli e lavori, che è invece la plaquette di candidatura al Collège de France
redatta e pubblicata a cura dello stesso Foucault nel 1969, nella quale – com’è tenuto a fare chiunque si
candidi di fronte all’Assemblea dei professori del Collège – egli presenta una breve sintesi dei propri
lavori e delle proprie ricerche anteriori, insieme ad un’altrettanto rapida esposizione delle linee generali
del progetto d’insegnamento che ha in animo di sviluppare nel corso dell’attività a venire. A completare
il dossier relativo agli esordi dell’avventura foucaultiana al Collège, i due interventi di J. Vuillemin.
Filosofo appartato e autore di un’opera austera e rigorosa, titolare della cattedra di «Filosofia della
conoscenza» al Collège, sarà Vuillemin, sostenuto da Dumézil e Canguilhem, a proporre all’Assemblea
dei professori la trasformazione della cattedra di «Storia del pensiero filosofico», che era stata di J.
Hyppolite, in cattedra di «Storia dei sistemi di pensiero». Quattro mesi dopo, ratificata l’istituzione
della suddetta cattedra, sarà di nuovo Vuillemin a presentare la candidatura alla titolarità di Foucault. I
due testi sono dunque un documento significativo della vicenda istituzionale ed intellettuale di
Foucault, e, pur nella loro brevità, anche una interpretazione perspicua della sua opera, di cui viene cosí
indicata l’intenzione di fondo: costituire un’epistemologia non cartesiana, che per venire realizzata
esige due condizioni: «eliminare il soggetto conservando i pensieri, e tentare di costruire una storia
senza natura umana». È appena il caso di notare che qualunque asserzione relativa alla effettiva
realizzazione di tale progetto dovrà essere sospesa – pena la caricatura – fino a quando non disporremo,
nella loro integralità, dei materiali relativi alla lunga e perigliosa navigazione di Foucault al Collège.
Per molto tempo ancora dovremo continuare ad affidarci a L’ordine del discorso per conoscere gli
esordi dei tredici anni di ricerca e lavoro – per una certa parte animati, è vero, da una «pigrizia
febbrile», com’egli stesso la chiamava, ma in ogni caso indiscernibili, com’egli dirà, da una serie di
«offensive disperse e discontinue» volte a mostrare «l’immensa e proliferante criticabilità delle cose,
delle istituzioni, delle pratiche, dei discorsi» – svolto da Foucault al Collège de France. Per descrivere il
quale proveremo a partire da una definizione, questa: il Collège è un luogo «in cui la parola è libera»,
come pare abbia detto P. Valery ad un ufficiale tedesco durante l’occupazione, per notare subito che
proprio alla parrhêsia, al «dir vero», al «parlar franco», alla «libera parola», al «coraggio della verità»
proferita dinanzi al potere, anche a rischio della vita, saranno dedicate le ultime ricerche di Foucault e i
suoi ultimi corsi. È sotto questo segno, dunque, che si chiuderà un’avventura intellettuale straordinaria,
o che tale almeno pare a chi ha potuto assistere al divenire di un insegnamento che, al di sotto delle
peripezie e delle traversie, delle svolte e delle modificazioni talvolta improvvise ed impreviste, mostra,
a chi abbia la pazienza di guardare con un po’ di attenzione, una coerenza ed una continuità rare, e che
costituisce una parte essenziale e imprescindibile della sua opera, indispensabile ai fini di una
intelligenza effettiva del suo pensiero. Senza il riferimento a tale versante del suo lavoro, infatti, ogni
commento e interpretazione della sua opera risulteranno inevitabilmente approssimativi e parziali, nei
casi migliori, vani e futili in tutti gli altri. E questo nonostante Foucault si sia mostrato a piú riprese
incline a definire il suo lavoro al Collège, con una modestia non si sa quanto simulata, come una serie
«di piste di ricerca, di idee, di schemi, di linee generali», ovvero di «strumenti», di «frammenti», messi
a disposizione di chi volesse eventualmente applicarli altrimenti o volesse metterli diversamente alla
prova in altre ricerche. I corsi, in ogni caso, andranno a costituire, accanto alle «linee di
attualizzazione» (Deleuze dixit) degli interventi raccolti nei Dits et écrits, e in maniera persino piú
radicale di quanto facciano i libri, quelle che potremmo arrischiarci a definire le «linee di
problematizzazione» del suo lavoro, per quanto essi mostrano di un pensiero perennemente inquieto,
costantemente vigile e pronto a rimetter se stesso in discussione, capace di rischiare ipotesi ardite o di
enunciare in maniera folgorante sintesi inaspettate, deliberatamente «perturbanti», che ci fanno vedere
sotto una luce nuova oggetti a lungo fin troppo familiari – ma in fondo, non è forse proprio questo ciò
che ogni grande pensatore fa o dovrebbe fare (garantendo cosí in sovrappiú a noi, poveri commentatori
o modesti amanuensi, la possibilità di pensare e lavorare per molto tempo ancora)? Un pensiero a tratti
persino esitante, incerto, scandito da discontinuità e forse persino da quelle che Deleuze chiamerà delle
«crisi»; un pensiero che attraverserà una serie di campi e di oggetti cosí eterogenei da non aver avuto
eguali nella storia intellettuale del secolo appena trascorso – dalle teorie penali alle istituzioni punitive,
dal discorso psichiatrico al discorso storico-politico della guerra, dalle discipline al biopotere, dal
pastorato cristiano al liberalismo, dal problema del governo di sé e degli altri a quello dell’epimeleia
heautou – ma di cui non verrà mai smarrita l’unità problematica. E comunque, quale che fosse
l’effettivo convincimento di Foucault a proposito della natura del lavoro da lui svolto al Collège, si
tratta di materiali e strumenti di lavoro e di pensiero che ci fanno intravedere una nuova dimensione
della sua ricerca, a partire da cui non sarà piú possibile parlarne come si faceva prima che essa venisse
strappata a un tranquillo e rassicurante oblio.
Cominciamo, dunque, con quella «ben curiosa istituzione», come egli ripeteva sovente, un po’ sul
serio e un po’ scherzando, che è il Collège. Il suo nucleo originario risale al 1530, allorché Francesco I,
su progetto di Guillaume Budé, aveva insediato cinque Lecteurs royaux, con docenti che tenevano corsi
pubblici, pagati dal Tesoro. La nuova istituzione incontrerà da subito l’opposizione della Sorbonne,
dato che il Collegium avrà l’esplicita funzione di incunearsi nel sistema delle Facoltà – Teologia,
Diritto, Medicina ed Arti – dell’Università di Parigi rompendo, com’è stato detto, il rigido monopolio
di una lingua – il latino – di una tradizione – la Scolastica – e di una corporazione – quella dei docenti –
che ancora vi regnavano, inoculando nel sistema dei saperi e del pensiero dell’epoca quanto
cominciavano a mettere a disposizione – come recita una nobile e vetusta tradizione – la riscoperta
delle fonti classiche e l’emergere del nuovo «spirito» rinascimentale. Non è senza significato che alle
prime tre, ancora nel 1798, in Der Streit der Facultatën Kant riservasse la designazione di Facoltà
superiori, a cui era potuta arrivare infine a contrapporsi la Facoltà inferiore proprio, e solo, grazie
all’opera di un «Governo illuminato» intento «a liberare lo spirito umano dalle sue catene» e ad
assicurare a tal fine la «libertà di pensare» – un Governo che proprio cosí facendo si mostrava idoneo
«ad ottenere un’obbedienza maggiormente sollecita». Un Governo siffatto, tuttavia, aggiungeva Kant,
doveva restare «estraneo alla questione intorno alla verità», di cui è chiamata a «parlare
pubblicamente» solo la Facoltà inferiore, in totale autonomia «dagli ordini del Governo». Senza una
tale libertà, infatti, «la verità non potrebbe venire alla luce», mentre grazie ad essa gli verrà, in cambio,
di essere «sufficientemente edotto su ciò che possa essergli vantaggioso o svantaggioso», nonché la
possibilità di trovare, proprio in tale libertà e nella perspicacia che gliene deriverebbe, assai piú che
nella propria autorità assoluta, «i mezzi per raggiungere i suoi fini». Com’è evidente, il pensiero ha
ormai acquisito la consapevolezza di essere un elemento fondamentale all’interno dei processi di
allestimento e funzionamento dei dispositivi di potere, che ormai gli stati moderni non possono piú
funzionare senza fare ricorso al soccorso del sapere, ed insieme che tutto ciò è destinato a provocare
un’ambiguità profonda nello statuto del pensiero e del sapere. Un’ambiguità inaggirabile, che
comporterà di lí in poi per il pensiero un compito nuovo nei confronti di se stesso, quello della
«critica». È appena il caso di notare che appunto come «storia critica del pensiero» a Foucault capiterà
sovente di definire il proprio progetto politico-filosofico, che a smontare pezzo per pezzo il processo
storico, con tutte le sue molteplici variazioni e trasformazioni, di connessione e combinazione tra
regimi di verità e pratiche di governo, si dedicherà.
Tutto ciò si dipanerà all’interno di un’istituzione dotata di poco piú di una cinquantina di cattedre in
cui, allorché una cattedra si rende vacante, è l’Assemblea dei professori a decidere con quale
insegnamento la si debba sostituire, e a designare i candidati tra i quali il ministro dovrà poi scegliere
quello che verrà nominato per mezzo di decreto presidenziale. La designazione ed il reclutamento, poi,
non sono vincolati al possesso di nessun grado universitario, ma solo ai lavori originali, alle prospettive
innovative, alle scoperte di cui chi viene designato si è mostrato capace. Nella effettiva pratica
didattica, libera da qualsivoglia controllo e vincolo, come si è detto, ogni docente si impegna a fornire,
attraverso il suo insegnamento, un rendiconto regolare della sua ricerca. Queste, dunque, le
caratteristiche salienti della «Maison» – come nel gergo dei suoi membri il Collège viene chiamato – in
cui professeranno il loro insegnamento, personaggi che fanno ormai parte della storia delle scienze,
delle lettere e piú di recente anche delle arti, e i cui corsi diventeranno talvolta, come ad esempio nel
caso di Bergson, degli «eventi mondani» non privi di risonanze e persino di (modesti) effetti politici.
M. Foucault vi era stato eletto nel corso di due sedute di voto assai contrastate. Il 30 novembre 1969
l’Assemblea dei professori approva la cattedra di «Storia dei sistemi di pensiero». In lizza, oltre a
Foucault, P. Ricoeur e Y. Belaval. Il 12 aprile 1970 la stessa Assemblea ratifica, a maggioranza,
l’elezione nominale di Foucault, ma l’Accademia delle Scienze morali e politiche non ratifica il voto.
Solo due mesi dopo il ministro dell’Educazione nazionale renderà comunque effettiva la sua nomina e
Foucault potrà cosí entrare nei ranghi del Collège. L’elezione di Foucault veniva dopo la sua breve
esperienza di docente, tra il dicembre 1968 e la nomina al Collège, presso il Dipartimento di Filosofia
del Centro universitario sperimentale di Vincennes, alla cui costituzione – cosí come a quella del primo
dipartimento universitario consacrato alla psicoanalisi – Foucault aveva partecipato direttamente,
delineandone l’impianto e decidendo il reclutamento dei docenti. Prima di Vincennes, Foucault aveva
insegnato all’Università di Tunisi, dove aveva potuto assistere, prima dell’esplosione in Europa del
Maggio ’68, alla nascita di un movimento studentesco che avrebbe, per un certo tratto di strada,
accompagnato e persino fiancheggiato. Anche l’esperienza di Vincennes vedrà Foucault impegnato ad
opporsi ai tentativi da subito messi in atto da parte dell’amministrazione per ridisegnare il progetto di
università sperimentale, e a fronteggiare la repressione degli apparati di polizia. La breve stagione
dell’insegnamento a Vincennes è per Foucault però soprattutto l’occasione per avviare un progetto di
ricerca sul problema della sessualità. Progetto che era stato annunciato, in filigrana, già nella «Préface»
a Folie et Déraison, anche se lí ancora nei termini di una storia degli interdetti e delle «forme
continuamente cangianti e ostinate della repressione» che la investono, e che verrà rilanciato poco
tempo dopo, nelle pagine finali dell’Archeologia del sapere, là dove, tra le «altre archeologie»,
Foucault immaginava l’esempio di una «descrizione della “sessualità”» incentrata, piuttosto che sui
comportamenti, sulle interpretazioni o sulle valorizzazioni che di essa sono state messe in atto nelle
diverse epoche della storia, sulla «pratica discorsiva» in essa implicata. Una descrizione siffatta
Foucault la concepiva orientata a far emergere un certo «modo di parlare» della sessualità, a sua volta
investito all’interno di un sistema di divieti e di valori, e pertanto destinata a compiersi in direzione «di
ciò che si potrebbe chiamare l’etica». È appena il caso di notare che troviamo qui indicato, in filigrana,
l’intero programma delle Storia della sessualità. Per parte loro, tanto la prolusione inaugurale quanto la
plaquette cercheranno di precisare tale progetto. La prima, indicando nell’analisi del «sistema di
interdetto di linguaggio» relativo alla sessualità dal XVI al XIX secolo una prima modalità di
realizzazione della parte «critica» del progetto di descrizione archeologica, volto a mostrare come tale
interdetto si sia «spostato e riarticolato da una pratica della confessione», sino alla sua riapparizione nel
campo della medicina e della psichiatria. La seconda, indicando nel sapere relativo all’ereditarietà e
nella costituzione della genetica il campo di applicazione del modello d’analisi sopra ricordato, e
destinato a dar luogo a una serie di sondaggi genealogici che lo condurranno, via la presa in conto del
problema dell’apparizione dell’igiene razziale, all’elaborazione del concetto di biopotere. E del resto,
sempre al termine dell’ Archeologia del sapere, poche righe dopo aver evocato il problema della
sessualità, Foucault indicava proprio nel «sapere politico» l’altro oggetto passibile di un’analisi volta a
far emergere la «pratica discorsiva determinata e descrivibile» che permea un sapere inteso non piú
come una «secondaria teorizzazione della pratica», ma nemmeno come «una applicazione della teoria»,
bensí come il luogo in cui vengono elaborati, ed eventualmente messi in atto, «dei comportamenti, delle
lotte, dei conflitti, delle decisioni e delle tattiche». Anche qui siamo di fronte all’originaria delineazione
di quella che negli anni a venire diventerà l’analisi del potere, e poi della governatività, in termini di
forze, con punti di applicazione e di resistenza, di scontro, di affrontamento, e di possibile
affrancamento. Vale a questo proposito la pena di ricordare che poche settimane dopo la lezione
inaugurale al Collège, insieme a J.-M. Domenach e a P. Vidal-Naquet, Foucault aveva annunciato la
costituzione del «Groupe d’Information sur les prisons». Strumento d’inchiesta e di mobilitazione
sociale intorno alle prigioni, cassa di risonanza delle iniziative dei prigionieri, il G.I.P. costituirà per
alcuni anni l’esperienza militante piú importante per Foucault e uno dei luoghi, insieme ai corsi al
Collège, in cui verrà elaborato il libro del 1975. Partecipando nel febbraio 1971 alla creazione del
G.I.P., Foucault cominciava a sperimentare una nuova figura del suo proprio «militantismo», quello che
caratterizzerà di lí in poi il lavoro dell’«intellettuale specifico» che, in relazione alla prigione, non mira
affatto a riformare (ma neppure a «sovvertire») il regime carcerario, bensí a fornire un’analisi di ciò che
la prigione è, del modo in cui essa funziona, descrivendo quelli che ne sono le vittime e consentendo
alle loro richieste e alle loro rivendicazioni di riecheggiare all’interno di una società che cerca
accanitamente di rendere inaudibili le loro voci. È nella sequela della mobilitazione a fianco dei
prigionieri, della militanza e delle iniziative di lotta contro gli episodi che agli inizi degli anni settanta
inaugurano la stagione di un rinnovato razzismo e di una rinata xenofobia, coinvolgendo non solo gli
apparati di polizia ma anche le organizzazioni della destra nazi-fascista e talune frange del partito
comunista francese, che Foucault prenderà parte attiva a tutta una serie di iniziative di carattere
militante: tra esse, a partire dall’agosto del 1971, l’avvio di una serie di contatti con gli ambienti
dell’opposizione politica iraniana. Piú avanti sarà l’epoca dell’impegno a fianco di Solidarnosc, e di
innumerevoli altre iniziative, prese di posizione, lotte e battaglie.
Ma a prescindere da tale «militantismo», è bene precisare subito che non è possibile intendere
appieno il progetto predisposto da Foucault nel quadro del suo lavoro al Collège se non lo si colloca
sullo sfondo della diagnosi da lui delineata a proposito della nostra modernità filosofica ne Le parole e
le cose. Lí Foucault indicava nel pensiero di Kant il momento in cui si realizza la definitiva chiusura
dell’episteme classica e la contemporanea apertura di quella moderna, allorché, a ridosso dell’emergere
di quelle nuove «empiricità» che sono la vita, il lavoro ed il linguaggio, sorte dal disfarsi
dell’adeguazione rigorosa perseguita dal pensiero classico, nel Discorso, del linguaggio e delle cose,
aveva posto la domanda decisiva sulle condizioni e i limiti della conoscenza, a cui aveva risposto
assegnando all’intelletto la funzione legislatrice (quid juris). Alla teoria classica della conoscenza
fondata sul presupposto di una corrispondenza armonica tra soggetto e oggetto, di un accordo tra ordine
delle idee e ordine delle cose, Kant sostituisce il principio di una dipendenza necessaria dell’oggetto dal
soggetto, ovvero il principio secondo cui è la sintesi a priori a rendere possibile l’inserimento di un
oggetto nel campo della conoscenza. Con la critica kantiana, insomma, la rappresentazione verrà
interrogata sul suo fondamento, sui suoi limiti, sulla sua origine e, una volta cosí circoscritta, verrà fatto
emergere il problema della sua possibilità e della modalità di connessione di rappresentazioni tra loro
diverse, e infine delle condizioni che definiscono la forma universalmente valida di tale connessione.
Ma ponendo la questione della possibilità stessa di ogni conoscenza a partire dai suoi limiti di diritto, la
critica kantiana ha sanzionata per la prima volta, sosteneva Foucault ne Le parole e le cose,
quell’«evento della cultura europea» che è «il ritirarsi del sapere e del pensiero al di fuori dello spazio
della rappresentazione» e che ha suscitato il problema dell’a priori, ovvero delle «condizioni a partire
dalle quali può esistere ogni rappresentazione del mondo in generale». E sarà proprio questo evento ad
inaugurare lo spostamento progressivo della riflessione filosofica verso un nuovo spazio, delimitato
dalle nuove «empiricità» della vita, del lavoro e del linguaggio, in cui potrà insinuarsi e
progressivamente insediarsi quello «strano allotropo empirico-trascendentale» che è l’uomo, nella sua
«posizione ambigua di oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce». Incipit cosí l’epoca
della finitudine di cui Kant avvierà l’analitica, e che per Foucault si riassume nell’ultima delle domande
kantiane, quella formulata nella Logica. L’uomo di cui però ora si parla è quello «dominato dal lavoro,
dalla vita e dal linguaggio», quei «quasi-trascendentali», come li chiamava, da cui solo potranno ormai
venire i contenuti del suo sapere – l’economia politica, la biologia, la filologia – il cui nuovo modo
d’essere è quello del tempo e della storia: la positività della prima si situa infatti in quella «cavità
antropologica» che costituisce lo spazio in cui la vita e la morte si fronteggiano, e che fa sí che il valore
cessi di essere un segno per diventare il risultato di una produzione; quella della seconda dipende a sua
volta dall’introduzione di una «discontinuità radicale» nel quadro degli esseri e nella rivelazione della
storicità della vita, radice comune dell’essere e del non essere; quella della terza, infine, sarebbe
apparsa quando si è mostrato che il linguaggio si radica non dal lato delle cose percepite ma da quello
del soggetto nella sua attività. È dunque un «postulato antropologico» quello che Foucault rinviene nel
cuore della «analitica della finitudine»: a partire dal momento in cui il sapere non si dispiega piú sullo
sfondo «unificato e unificatore» di una mathesis – come avveniva in Cartesio o Leibniz – si pone con
Kant la questione dei rapporti tra ambito formale e ambito trascendentale, insieme a quello dei rapporti
tra l’ambito delle empiricità e il fondamento trascendentale della conoscenza, al centro dei quali si
profila sempre l’attività sovrana di un soggetto che produce e riflette, imponendo loro le sue leggi, i
contenuti dell’esperienza. E sarà sempre e solo la presenza (a sé) di questo soggetto a consentire di
riportare e adeguare l’esperienza, il mondo, la storia, all’omogeneità e alla trasparenza della sua propria
coscienza. Anche nelle filosofie non riflessive del XIX secolo non vi sarà contenuto dell’esperienza
che non sia interamente ricondotto all’intenzione segreta che la anima, al senso nascosto e allusivo,
oppure dimenticato e rimosso, che le conferisce significato. A partire da Kant, insomma, il soggetto
umano è stato collocato a fondamento di tutte le positività, ovvero è diventato, e proprio a partire dalla
sua finitudine, la condizione di possibilità della loro conoscenza, e al contempo è diventato un elemento
tra gli altri nell’universo delle cose empiriche, oggetto a sua volta di una conoscenza possibile. Con
Kant, sosteneva Foucault nella sua opera del 1966, che del modo d’essere dell’uomo ha fatto «l’a priori
storico che dal XIX secolo funge da suolo quasi evidente per il nostro pensiero», viene inaugurata la
«soglia della nostra modernità», destinata a restare inesorabilmente irretita nell’ambiguità costitutiva di
un soggetto, l’uomo, in cui l’empirico e il trascendentale si richiamano e si invertono costantemente
l’uno nell’altro, con tutte le conseguenze che ne discenderanno, come Foucault mostrerà nelle sue
ricerche successive, tanto sul piano dei processi di oggettivazione messi in atto dai saperi che intorno
all’uomo si sono formati, quanto su quello della possibilità di autocostituirsi come soggetto libero e
autonomo di azione morale e politica.
Kant era dunque stato il primo a sostenere l’identità delle condizioni dell’esperienza e delle
condizioni dell’oggetto dell’esperienza. Nietzsche, invece sarà colui che rigetterà con la maggiore
radicalità l’idea di una coalescenza tra conoscenza e oggetto da conoscere, unitamente a quella
dell’unità, identità e sovranità del soggetto che conosce. La conoscenza è un risultato storico, l’effetto
di una battaglia. Non a caso il corso del 1970-1971 inizia affrontando il problema della posizione del
soggetto rispetto alla volontà di sapere e, correlativamente, quello della verità «che ha anch’essa una
storia». Lo fa a partire dall’esame di due modelli teorici: quello aristotelico e quello nietzscheano. Con
il primo farebbe la sua comparsa, sostiene Foucault, l’idea di un «naturale desiderio di conoscere»,
universale e disinteressato, e una concezione della verità come adaequatio, che sarebbero servite, per
l’essenziale, a rimuovere quelli che già a quell’epoca chiama i «giochi della verità», ovvero una verità
che emerge da rapporti di forza determinati, da lotte, interessi, saperi temibili, volontà inconfessabili.
Da Nietzsche, viceversa, Foucault deriva l’idea della conoscenza della verità come produzione di verità
attraverso il gioco di una serie interminabile di «falsificazioni concertate» che, a partire da un conflitto
in cui si affrontano interessi, istinti, impulsi, desideri, istituisce la linea di separazione tra il vero e il
falso. E il modello di una conoscenza fondamentalmente interessata, prodotta come «evento» e legata
«alla lotta, all’odio ed alla malvagità» verrà messo alla prova sulla base di casi ed esempi tratti dalla
storia e dalle istituzioni arcaiche greche e relative alle concezioni ed all’amministrazione della giustizia.
Esaminando tali procedimenti giudiziari Foucault mostra come lí la verità sia sempre il risultato di una
serie di messe alla prova, all’interno di un conflitto e di un affrontamento rischioso e virtualmente
aleatorio, decisa in genere da una prova di forza. I corsi dei due anni successivi riprenderanno la storia
delle forme di verità a partire dalla pratica penale. Verrà allora analizzato il caso dell’inchiesta, che si
introduce nella pratica giudiziaria a partire dal modello dell’inquisizione ecclesiastica e che è
contemporanea alla nascita delle grandi monarchie, che fungerà da matrice di buona parte dei saperi
empirici dell’età moderna e che Foucault correla strettamente alla nascita della società disciplinare. Con
l’apparizione dell’esame, infine, emerge un procedimento di fabbricazione della verità che sarà
decisivo per la moderna «società punitiva», in cui la giustizia non si limiterà piú a stabilire l’eventuale
responsabilità di un atto, bensí potrà punire un individuo solo se dotata di conoscenze relative alla sua
anima. Nasce l’obbligo di occuparsi dell’homo psychologicus, di cui si incaricheranno le cosiddette
scienze umane.
Il corso del 1973-1974, costituisce una ripresa ed uno sviluppo delle questioni esaminate nel «grande
libro» del 1961. Situato tra l’analisi delle dottrine e dei sistemi penali esaminati nei due anni precedenti,
e l’analisi dei dispositivi di normalizzazione che verrà approfondita nei corsi successivi e che lo
condurrà ad affrontare l’indagine sul biopotere e sulle tecnologie e le pratiche di «governo», questo
corso è anche l’occasione per precisare l’analisi del passaggio dal potere di sovranità al potere
disciplinare. Ma in esso Foucault affronta soprattutto la formazione del manicomio come struttura
terapeutica. All’interno del dispositivo psichiatrico cosí predisposto, analizza in particolare il
montaggio di un sapere medico sulla follia a partire dall’emergere di fenomeni come l’ipnotismo o
l’isteria, attraverso la descrizione del modo in cui l’infanzia è diventata oggetto d’intervento da parte
del complesso psico-pedagogico; esamina inoltre in che modo sia stata elaborata una dottrina come
quella della degenerazione, ricostruisce i rapporti che per la nascente psichiatria la follia intrattiene con
esperienze come quelle della droga o del sogno, delinea la costruzione medica di un corpo sessuale ed
infine mostra il ruolo svolto da questo complesso sistema di saperi e di poteri nella nascita della
psicoanalisi. Sullo sfondo di tali analisi, tuttavia, la cura di Foucault è soprattutto di mostrare come,
attraverso una serie di pratiche che vanno dalla procedura dell’interrogatorio alla presentazione dei
malati, si sia costituito un «discorso di verità» che ha fatto della psichiatria un formidabile «agente di
intensificazione» del reale, preposto all’allestimento e al controllo di forme di identità e di individualità
che sono ancora le nostre, come ad esempio è avvenuto a partire dal momento in cui attraverso
l’allestimento dell’interrogatorio la psichiatria ha predisposto una modalità straordinariamente efficace
per fissare l’individuo alla norma della sua identità, tanto sociale quanto, eventualmente, patologica. Il
corso in questione si iscrive pertanto, a pieno diritto, nel progetto di una «storia della verità» che
abbiamo qui assunto come la linea profonda ed essenziale dell’intero tragitto foucaultiano. E in esso
vediamo profilarsi uno schema che possiamo leggere come una prima e remota prefigurazione di ciò
che costituirà, come vedremo, l’asse di riferimento delle pagine finali della «storia della verità»
delineata da Foucault, vale a dire la dissociazione tra soggetto di conoscenza e soggetto etico, tra verità
e scienza, tra «sapere di spiritualità» e «sapere di conoscenza» esaminata nei corsi degli anni ottanta.
Prendendo in esame lo statuto della pratica scientifica, nel corso su Il potere psichiatrico Foucault
sostiene che a far corpo con tale pratica è una «tecnologia dimostrativa della verità». Il sapere
scientifico si è edificato, cioè, sulla base del presupposto che la verità sia presente ovunque, anche nei
recessi piú infimi e trascurabili della realtà, che sempre sia possibile porre la questione della verità, e
che nessuno, in linea di principio, sia particolarmente qualificato, o al contrario delegittimato, ad
enunciarla, alla sola condizione di saper individuare i momenti piú propizi, di dotarsi dei punti di vista
piú agevoli e di possedere gli strumenti (categorie per pensarla e linguaggio per formularla) piú
opportuni per coglierla, stanandola là dove essa se ne sta celata. La verità della scienza, insomma, è
quella che, assumendo come già dato e definito il rapporto tra soggetto e oggetto, procede unicamente
dal metodo e dalle sue regole, si diceva già nel corso del 1973-1974, che rendono possibile la scoperta,
la constatazione e la dimostrazione con valore universale. A questa verità Foucault contrapponeva
un’altra serie, quella della «verità-folgore», della «verità-rituale», ovvero di una verità che si produce
come «evento», che ha la sua geografia, il suo calendario, «i suoi messaggeri o i suoi operatori
privilegiati ed esclusivi», individuati in coloro che «possiedono il segreto dei luoghi e dei tempi» e che
si sono sottoposti alle prove destinate a qualificare, a proferire le parole opportune, o a compiere i gesti
rituali necessari. Si tratta di una verità «dispersa, discontinua, lacunosa», che non rivendica (e non
aspira a) nessuna universalità, e destinata a «verificarsi solo di tanto in tanto, solo dove voglia e solo in
certi luoghi», ovvero a certe «condizioni», come dirà nel 1984, e in particolare alla condizione che si
sia disposti a pagare un certo prezzo, quello che chiamerà «il lavoro di sé su di sé», l’epimeleia
heautou. In tale verità non è questione di metodo, dice dieci anni prima, bensí di «strategia»; non di
apofantica, bensí di produzione; ad essere in gioco, in essa, non è un rapporto di conoscenza come
quello che lega l’oggetto al soggetto, bensí una relazione di potere, ovvero qualcosa di «rischioso,
reversibile, bellicoso». Piuttosto che ricostruire, allora, la storia della verità in termini di oblio
dell’Essere (come voleva Heidegger), mantenendo inalterati i privilegi e il primato della conoscenza, a
partire da cui soltanto un oblio potrebbe prodursi, o in quelli di resto risultante dall’avvento del discorso
della scienza (quel resto in cui Lacan riconoscerà ciò su cui potrà formarsi quel «soggetto nel soggetto,
trascendente il soggetto» che sarà il soggetto dell’inconscio), questo nuovo capitolo del progetto
genealogico di rimessa in discussione della nostra volontà di verità mostrerà piuttosto «come la verità-
conoscenza non sia in fondo che una regione e un aspetto, divenuto è vero ormai pletorico e che ha
assunto dimensioni gigantesche, ma in ogni caso pur sempre un aspetto, o un’altra modalità, della verità
come evento e della tecnologia di questa verità-evento». Tutt’al piú, si tratterà di descrivere quali effetti
e quali conseguenze siano venute dal fatto che, nella storia dell’occidente, la verità secondo il modello
della conoscenza scientifica abbia colonizzato e «invaso in maniera parassitaria la verità-evento»,
assoggettandola fino al punto da esercitare su di essa «un rapporto di potere che è forse irreversibile».
Anche il corso dell’anno successivo, nel suo insieme dedicato all’esame dei diversi meccanismi di
costituzione e trasformazione delle tecnologie di controllo applicate alle diverse forme dell’anormalità
pericolosa – i mostri umani, gli incorreggibili, gli onanisti – che hanno avviato e consentito di
approntare nuove modalità di presa in carico e di gestione della vita, una volta fatti reagire l’uno
sull’altro il «discorso dell’ereditarietà» e il «discorso della sessualità», affronta la questione della verità
a proposito dei discorsi a cui potrà essere attribuito un valore di verità «perché discorsi dotati di uno
statuto scientifico o formulati esclusivamente da persone qualificate, all’interno di un’istituzione
scientifica». Il funzionamento di tali discorsi di verità all’interno della pratica penale, già studiata nei
corsi del 1971-1972 e del 1972-1973, ne fa dei «discorsi che possono uccidere». Ma piú che sul
versante dei rapporti tra verità e giustizia, già indagati negli anni precedenti, vale la pena di soffermarsi
sugli sviluppi relativi al problema della confessione contenuti nel corso del 1974-1975 e destinati ad
essere ripresi negli anni successivi. Nel corso in questione, infatti, Foucault si sofferma a lungo sul
passaggio dalla confessione tariffata alla confessione necessaria e obbligatoria all’interno del rituale
cristiano della penitenza nel Medioevo, ma non perché gli interessi fare la storia di un’istituzione e di
un sacramento, bensí perché nell’idea di una confessione retta dai principî della regolarità, della
continuità e della esaustività, Foucault vede profilarsi una trasformazione decisiva nei nostri regimi di
verità, e con essi delle modalità di esercizio del potere all’interno della società occidentale: appare cioè
una nuova modulazione della tecnica (antica) dell’esame di coscienza, in cui «il potere e il sapere del
prete e della Chiesa si trovano implicati», e che andrà incontro ad un ulteriore rafforzamento e
perfezionamento in quella fase di «cristianizzazione in profondità» che comincia ad essere realizzata
secondo Foucault a partire dal XVI secolo, epoca in cui si assiste, contemporaneamente, alla
formazione degli stati moderni e al rafforzarsi «dell’inquadramento cristiano dell’esistenza individuale»
attraverso il dispiegarsi «di un immenso dispositivo di discorso ed esame, di analisi e di controllo» reso
possibile dal fatto che ormai «tutto o quasi tutto ciò che ha a che fare con la vita, l’azione, i pensieri di
un individuo» dovrà passare al filtro della confessione. Attraverso l’analisi della progressiva
generalizzazione ed estensione del «diritto d’esame» applicato al foro interiore della coscienza Foucault
avvia una prima delineazione di quella forma di governo delle anime e delle condotte degli individui
destinata a metter capo al fenomeno della «direzione di coscienza» e che tre anni dopo chiamerà
«potere pastorale». Un potere che investe la vita nella sua totalità e fin nel piú infimo dettaglio
attraverso la predisposizione di un dispositivo discorsivo all’interno del quale «tutti i comportamenti,
tutte le condotte, tutti i rapporti con gli altri, tutti i pensieri, tutti i piaceri, tutte le passioni (...) dovranno
essere filtrati» e che renderà possibile quel «racconto totale dell’esistenza» che costituisce per Foucault
la parte piú segreta delle tecniche d’esame e delle procedure di medicalizzazione, aurora di tutte le
psicologie che si metteranno di lí a poco a decifrare i misteri dell’anima, ritenendo di poterli
identificare nelle leggi del desiderio e nella logica delle pulsioni, avendo dimenticato (o facendo finta di
non sapere) che già la pratica confessionale aveva delineato quella che Foucault chiama nel 1975 una
«anatomia della voluttà», una «cartografia peccaminosa del corpo», che nelle spire della concupiscenza
bracca la verità segreta dell’anima. La sessualità – il dispositivo di sessualità, come verrà chiamato ne
La volontà di sapere dell’anno dopo – si trova iscritta da gran tempo, dunque, negli arcana
conscientiae, e proprio intorno ad essa si annoderà inoltre la biopolitica dei moderni stati nazionali che
verrà esaminata nel corso del 1976.
Ma è solo in occasione dei corsi del 1977-1978 e del 1978-1979 che il progetto genealogico di una
«storia dei ‘regimi di veridizione’» verrà rigorosamente e metodicamente articolata alla storia del
pastorato, assunto come modello e matrice del «governo degli uomini» e iscritto nella piú generale
storia delle «arti di governo», di cui nei corsi in questione verranno esaminati alcuni momenti topici,
come la ragion di stato, lo stato di polizia e quel sistema del «governo frugale» che è il liberalismo nelle
sue diverse versioni. Definito il governo come l’insieme delle tecniche destinate a «dirigere il
comportamento degli uomini» e a «guidare gli individui nel corso di tutta la loro vita, una volta che li si
è posti sotto l’autorità di una guida responsabile di ciò che fanno e di ciò che accade loro», Foucault
può cominciare ad abbandonare le analisi del dressage e delle pratiche di disciplinamento che
trovavano nei corpi e nei gesti il loro oggetto ed il loro campo d’applicazione. Al loro posto vediamo
emergere progressivamente, come posta in gioco della governatività, i soggetti in quanto tali, i loro
pensieri, le loro condotte, destinati ad essere esaminati tanto sul versante dei processi di oggettivazione
che li investiranno, quanto su quello delle virtualità di soggettivazione e di possibilità di un’arte di
vivere che lasciano intravedere. Sullo sfondo, eredità che resta ancor oggi in buona parte inesplorata, il
problema del biopotere, ovvero l’emergere del problema della regolazione e della sicurezza di una
società, del controllo di un territorio, della gestione della vita di una popolazione, e infine della
fabbricazione di un soggetto (di soggetti) di ragione, da parte di un potere dotato di tecniche, di regole e
di un regime di razionalità specifici. Ma è nell’idea e nella pratica di un potere di tipo pastorale che
Foucault rinviene, come si è detto, il modello originario del governo degli uomini. Esso ha un materiale
e un punto d’applicazione: una «molteplicità in movimento»; un telos: fare il bene della molteplicità su
cui si esercita, assicurare «la salvezza del gregge»; una forma: la dedizione, lo zelo, e insomma la
«cura» del pastore che veglia e serve il gregge fino al sacrificio di sé; una modalità («paradossale», la
definisce Foucault) di esercizio: si applica alla molteplicità ma mira ad essere «individualizzante». Ed
una sola istituzione ha «coagulato» i temi del potere pastorale in meccanismi precisi e istituzioni
definite, impiantandone i dispositivi all’interno dell’impero romano ed organizzando cosí un tipo di
potere «che nessun’altra civiltà ha conosciuto», che sarà il piú strano e caratteristico, ma anche quello
destinato alla fortuna piú ampia e duratura. La chiesa aspirerà infatti ad un «governo quotidiano» degli
uomini nella loro «vita reale» guidandone le anime e la condotta in vista della salvezza e sulla scala
dell’intera umanità, esercitando cosí un potere che non mira semplicemente a sottomettere, persuadere
o costringere gli uomini, ma che è una vera e propria – e forse la sola – «arte di governare gli uomini»
che gli stati moderni non faranno che investire in una pratica politica calcolata e riflessa. E
cominciando già nel 1978 a studiare Cassiano, Girolamo, Benedetto, che nei corsi del 1979-1980 e del
1981-1982 saranno oggetto di un’analisi sistematica, Foucault mostra come tale potere pastorale abbia
a che fare in maniera costitutiva con il problema della verità: se il suo telos è la salvezza di omnes et
singulatim, esso dovrà da un lato assicurarne la sottomissione alla volontà divina, ma ciò potrà avvenire
solo a condizione di «professare una certa verità». E attraverso un confronto serrato con l’esperienza
greca di rapporto con la verità, su cui non cesserà di tornare, Foucault comincia a mostrare come nel
modello pastorale cristiano vengano predisposti alcuni schemi di governo delle anime e delle condotte,
come l’istanza dell’«obbedienza pura», della «dipendenza integrale», della «servitú integrale» di cui
studia le primitive occorrenze all’interno della vita cenobitica, che a differenza di ciò che avveniva per
il cittadino greco, non mirano in alcun modo ad assicurare il «dominio di sé», come dice nel 1978,
bensí a rendere possibile una sottomissione che fa dunque del processo di «individualizzazione» un
problema capitale, indiscernibile dal problema della verità. Proprio a partire da quest’epoca Foucault
comincia a dichiarare che «oggi la questione fondamentale è Tertulliano» (il nome proprio poteva
variare), avviando un confronto sistematico, che svilupperà nei corsi successivi, sulla direzione di
coscienza nell’Antichità e nel cristianesimo dei primi secoli, mostrando come nel secondo divenga
essenziale l’esame di coscienza, attraverso il quale dovrà venir formato su di sé e a partire da sé «un
certo discorso di verità» che sarà proprio ciò per mezzo di cui potrà essere instaurato un certo legame
con il direttore di coscienza e con esso una forma di potere che è essenzialmente una relazione di
«obbedienza individuale, esaustiva, totale e permanente» orientata alla salvezza. Fa cosí la sua
comparsa una nuova figura della verità, «una verità segreta, una verità dell’interiorità, una verità
dell’anima nascosta», attraverso la quale verrà assicurato un rapporto di «obbedienza integrale» e
destinata a render possibile nel soggetto una «identificazione analitica», un assoggettamento per
estromissione dell’ego come forma nucleare dell’individuo, e una «soggettivazione» per via di
produzione di una verità interiore.
Lo sviluppo di una «pastorale della salvezza», modello e matrice di tutta la storia delle arti di
governo in occidente (e di cui la medicina sarà una delle grandi manifestazioni), provocherà anche tutta
una serie di fenomeni di resistenza, rivolta, insubordinazione, contro-condotte (l’ascetismo come
«esercizio di sé su di sé», i movimenti comunitari, la mistica, eccetera) che Foucault comincia proprio
allora a raccogliere sotto la rubrica della «spiritualità», e che contemporaneamente ritiene di poter
leggere all’opera in ciò che veniva designato allora come «rivoluzione islamica» in Iran, nella quale
egli leggeva la riapparizione di una «spiritualità politica», ovvero del tentativo di «aprire nella politica
anche una dimensione spirituale» per mezzo della quale ottenere però soprattutto una trasformazione
nella «soggettività». Insomma, la volontà di rinnovare l’esistenza nella sua interezza, questo sarebbe
l’esperienza spirituale, dove la religione funzionerebbe come «lo spirito di un mondo senza spirito»,
secondo la formula di Marx che, sosteneva Foucault, «non citiamo mai». E proprio in termini di
spiritualità, come vedremo, egli comincia la propria rilettura della filosofia nell’antichità e nella tarda
antichità. Non senza avere prima mostrato, però, le analogie, ma anche le differenze, tra il modello
pastorale del potere e le arti di governo che appaiono a partire dalla fine del XVI secolo, allorché è lo
stato a fare il suo ingresso nell’ambito della pratica e del pensiero degli uomini e ad emergere come
posta in gioco fondamentale, ma anche semplice «peripezia», all’interno della piú generale storia della
«governatività». Dalla «ragion di stato» al liberalismo, si tratterà per Foucault di far emergere come la
questione dei regimi di verità continui ad essere centrale anche in queste nuove modalità di esercizio
della pratica di governo. Anche nel triangolo disegnato da sovranità, disciplina e gestione di governo
agli inizi dell’età moderna, allorché l’obiettivo fondamentale diventa la popolazione e i meccanismi
essenziali saranno quelli della sicurezza, la razionalità intrinseca alla nuova arte di governo implicherà
una certa «produzione di verità». Non sarà piú, però, la verità di un dogma che viene «inculcato» in un
individuo – che cosí verrà fissato ad una identità – nello stesso momento in cui gli viene estorto «il
segreto della sua verità interiore». Al posto degli arcana conscientiae appaiono ora, sostiene Foucault,
gli arcana imperii, relativi a tutto ciò che è necessario conoscere intorno alla popolazione, alle
ricchezze disponibili, alle forze reali e virtuali di cui dispone uno stato, e che è necessario conoscere per
assicurarne il sovrappiú di forza e potenza nel tempo dei grandi scontri e della concorrenza tra gli stati.
Di qui l’apparizione della statistica, della Polizeiwissenschaft, e successivamente dell’economia
politica, altrettanti dispositivi attraverso cui viene predisposto il sapere dello stato sullo stato volto ad
assicurare la «modernità amministrativa» e il «governo razionale» degli uomini, delle risorse e infine
della stessa «vita», attraverso la felicità degli individui e la forza dello stato. Con la «ragione
economica» che nasce a partire dall’avvento della fisiocrazia, poi, è una nuova tappa dei processi di
applicazione della governatività che viene percorsa: appare una entità «quasi-naturale» che verrà
designata come «società civile» e che esigerà a sua volta un tipo specifico di conoscenza scientifica
indispensabile al buon governo. Ne conseguirà una progressiva naturalizzazione della popolazione, che
per un lato darà luogo ad una supposta regolazione spontanea della meccanica degli interessi, ed in cui
il mercato, come dirà Foucault nel corso del 1978-1979, diventa il luogo e il meccanismo di formazione
della verità, il «luogo di veridizione» della pratica di governo, e l’economia politica il regime di verità
necessario destinato a garantire non «il minor governo», bensí «un governo frugale», ovvero un altro
tipo di razionalità, su cui si eserciterà la riflessione liberale, per la quale la libertà è diventata, secondo
Foucault, un elemento indispensabile allo stesso esercizio del governo. Ma per l’altro assisteremo
invece allo sviluppo parossisitico dei meccanismi di presa in carico e gestione della popolazione nella
sua supposta naturalità. Di qui lo sviluppo di tutte quelle scienze – dalla medicina sociale alla
demografia all’eugenismo – destinate a fornire gli strumenti e gli schemi d’intelligibilità razionale dei
nuovi insiemi diventati oggetto dell’arte di governo sviluppatasi a partire dalla fine del Settecento (ciò
permette a Foucault di sostenere che quello che consentiranno di fare le nuove forme di razionalità, ad
esempio durante il regime nazista, non costituisce affatto un’anomalia o una mostruosità rispetto ad una
supposta «scienza normale»). Con il liberalismo, sostiene Foucault, non è la libertà come «universale»
ad ottenere finalmente diritto di cittadinanza nella pratica di governo – la libertà non è un «dato» –
bensí è una nuova «gestione» delle libertà ad essere messa in atto all’interno di una ragion governativa
che ha strutturalmente «bisogno di libertà», che è «consumatrice di libertà». Il liberalismo, insomma,
emerge come arte di governo (pratica riflessa) che si propone di suscitare e fabbricare instancabilmente
della libertà. Come tale, l’arte liberale di governare deve innanzitutto fare i conti col problema
essenziale della sicurezza, delle strategie che consentiranno di aggirare o eliminare il «pericolo», i
«pericoli» immanenti alla dinamica delle relazioni tra interessi individuali e interessi collettivi. Se
infatti il liberalismo emerge come tecnica che si innesta sulla meccanica degli interessi, non potrà
evitare di intervenire sui pericoli che da tale meccanica si producono allestendo dei «meccanismi di
sicurezza/libertà». E proprio intorno alla «cultura del pericolo» da esso suscitato sorgerà quella
«formidabile estensione delle procedure di controllo, costrizione e coercizione» che investirà lo stato di
funzioni nuove, destinandolo alla fine a farsi carico «del problema della vita».
Che sia nelle forme della razionalità scientifica resa necessaria dalle pratiche di governo (con gli
effetti di oggettivazione da essa prodotte, e che Foucault aveva cominciato a descrivere fin da Folie et
déraison) o che sia nella forma della conoscenza di sé a partire dalle esigenze di controllo delle anime e
delle condotte in vista della salvezza (con gli effetti di soggettivazione che ne verranno), in ogni caso
l’intera storia della «governatività» occidentale poggia sulla lunga successione di diversi regimi di
verità, altrettante modulazione della «volontà di verità» che da subito Foucault aveva individuato al
cuore dell’esperienza dell’uomo occidentale. Rispetto a tutto ciò, la vocazione «critica» della
genealogia, che ormai Foucault definisce «ontologia critica di noi stessi», ovvero «analisi storica dei
limiti che ci sono imposti» e «sperimentazione del loro possibile superamento», provocherà un
progressivo arretramento del terreno dell’indagine, finendo col concentrarsi sul versante delle pratiche
di soggettivazione. Via la ripresa dei problemi legati alla pratica penitenziale e confessionale nel
cristianesimo primitivo, a partire dal corso del 1979-1980 Foucault sarà condotto a intrecciare sempre
piú strettamente la storia dei «regimi di veridizione» con quella che aveva chiamato «una storia del
soggetto». Attraverso l’analisi di pratiche come l’exomologesi (l’atto di fede) e l’exagouresis Foucault
approfondisce l’indagine, già avviata nel 1978, relativa al modo in cui attraverso la conferma della
propria credenza si manifesta una verità e si afferma la propria adesione ad essa, vale a dire il soggetto
crede alle verità che gli sono rivelate ed insegnate, ed insieme si impegna in una serie di obblighi
(relativi al maestro, alla comunità di appartenenza, ecc.); e del modo in cui attraverso l’obbligo di
confessione che si impone tra direttore di coscienza e discepolo all’interno delle prime istituzioni
monastiche si disegna una nuova figura del rapporto di dipendenza nella direzione spirituale. Essa
comporta infatti l’obbligo di esaminare permanentemente la propria coscienza, quello di enunciare nel
modo piú esaustivo e permanente possibile i moti piú segreti del pensiero e dell’anima, al fine di
potervi decifrare l’opera del maligno e in vista della creazione – sotto le specie dell’umiltà, della
mortificazione e dell’obbedienza come finalità immanenti – di un certo tipo di relazione di sé con se
stessi ispirata per l’essenziale al modello della rinuncia a sé, della «distruzione della forma del sé». La
verbalizzazione permanente degli arcana conscientiae, inoltre, servirà a predisporre quel nuovo modo
di governare gli uomini che Foucault aveva già cominciato ad analizzare negli anni precedenti.
L’analisi della soggettivazione cristiana apre però anche la strada a ciò che impegnerà Foucault negli
anni successivi, ovvero l’analisi delle scuole filosofiche dell’antichità greco-romana, che mai gli
apparirà «ammirevole» o esemplare, e a cui pure si dedicherà ormai definitivamente al fine di redigere
«l’inventario delle differenze» nei modi di costituzione della soggettività nel suo rapporto con la verità.
L’attraversamento della filosofia antica consente infatti a Foucault di far emergere un insieme di
pratiche, a partire dall’esame di coscienza, che risulta però del tutto diverso (anche quando hanno la
stessa forma o ricorrono allo stesso materiale, le finalità e le modalità ne trasformano radicalmente la
sostanza) da quelle che avranno corso nel cristianesimo. Già nelle lezioni del 1979-1980 emerge allora
un’altra figura della verità, in cui l’obbedienza del discepolo al maestro di verità non è che una fase
necessaria, ma transitoria, in vista della saggezza, ovvero dell’autocostituzione e del dominio di sé, in
cui l’incorporazione dei discorsi veri ha di mira per l’essenziale una salvezza interpretata nei termini di
un soggetto libero ma anche sufficientemente ben formato e saldo, capace di resistere alle avversità ed
alle sventure. L’anno successivo sarà allora la volta di quei «processi di soggettivazione» che hanno a
che fare con ciò che nel 1976 aveva chiamato il «dispositivo di sessualità», quello che attraverso la
lunga dinastia che comincia con l’analisi della concupiscenza e della carne nelle pratiche confessionali,
giunge fino all’«ermeneutica del soggetto di desiderio», variante decisiva dell’esperienza dell’homo
psychologicus, quello stesso in cui noi oggi crediamo di poter riconoscere il principio della nostra
identità e la nostra verità. E proprio a disfare tale pretesa verità del soggetto saranno dedicati gli ultimi
tre anni di corso al Collège. Quello del 1981-82, in particolare, contiene l’ultimo e definitivo tornante
della «piccola storia della verità», come l’aveva chiamata dieci anni prima. Foucault vi introduce infatti
una contrapposizione, quella tra spiritualità e conoscenza. In tutta l’antichità (con la sola eccezione di
Aristotele) spiritualità e filosofia (di cui cura di sé e conoscenza di sé sono l’espressione fondamentale)
hanno proceduto appaiate, e se pure con diverse modulazioni all’interno delle differenti scuole
filosofiche, sono risultate indissociabili l’una dall’altra. La domanda fondamentale della filosofia antica
è sempre stata «a che prezzo posso avere accesso alla verità?», ovvero quali trasformazioni, quali
modificazioni dovrò operare su me stesso per accedere alla verità? E reciprocamente: quali
trasformazioni di me stesso mi consentirà di effettuare la conoscenza della verità? Solo da una
circolarità di questo genere tra conoscenza del vero e trasformazione di colui che conosce potrà venire
la salvezza del soggetto, ovvero una forma di vita, uno stile di esistenza in cui «il fatto di conoscere il
vero, di dire il vero, di praticare e di mettere in atto il vero potrà consentire al soggetto non solo di agire
come deve, ma anche di essere come deve e vuole essere». In quella che Foucault chiama la «cultura
del sé» la conoscenza della verità implica e presuppone una «pratica della verità», di cui fan parte gli
«esercizi», il sistema dell’askêsis, e la parrhêsia, ovvero di tutto ciò che consente di trasformare «il
logos in ethos». L’askêsis, come insieme regolato e calcolato delle procedure che consentono a un
individuo di trasformare sistematicamente i discorsi veri in principî di comportamento moralmente
accettabili, appare allora come ciò che fa sí che il «dir vero» divenga il «modo d’essere del soggetto».
L’ascesi antica, insomma, non aveva per nulla l’obiettivo della rinuncia a sé, bensí quella di consentire
di fare di se stessi il fine della propria esistenza, di costituirsi come soggetti; per nulla di assicurare la
sottomissione del soggetto alla legge, bensí di legarlo alla verità. Da un lato, essa dovrà permettere «di
acquisire i discorsi veri di cui avremo bisogno in tutte le circostanze, gli eventi e le peripezie della vita,
per stabilire un rapporto adeguato, pieno e compiuto con noi stessi»; dall’altro, essa sarà anche «ciò che
permette a ciascuno di diventare a sua volta il soggetto di tali discorsi veri, ovvero di diventare il
soggetto che dice il vero» e che proprio in virtú del fatto di enunciare la verità risulta salvato. E tale
«soggettivazione del discorso vero», come la chiama Foucault, all’interno di una pratica e di un
esercizio di sé su se stessi, costituisce il fondamento della «spiritualità» antica. Da cui discende anche
la parrhêsia, poiché solo una simile trasformazione, una vera e propria «conversione», renderà il
soggetto capace di tenere un discorso la cui verità è manifestata dalla sua condotta, «dal modo in cui
effettivamente vive». L’adaequatio ricercata dalla spiritualità antica, pertanto, non è (innanzitutto)
quella tra la cosa e l’idea, bensí quella «tra il soggetto che parla e dice il vero, e il soggetto che si
comporta come esige tale verità». Ma un certo giorno (un giorno che dura ancora) qualcosa è cambiato
nei rapporti tra la filosofia e la spiritualità, che ha cessato di essere la struttura immanente
dell’esperienza della verità dell’uomo occidentale. Quel certo giorno Foucault l’ha definito «il
momento cartesiano» (anche se in realtà cominciato con la nascita della teologia, e forse persino con
Aristotele, per culminare con Kant), allorché ha cominciato a disfarsi la coalescenza tra cura di sé e
conoscenza di sé, tra il pensiero filosofico e le sue «condizioni di spiritualità», e si è stabilito che è
sufficiente «che il soggetto sia quello che è, per avere, nella conoscenza, un accesso alla verità che gli
viene dischiuso dalla sua specifica struttura di soggetto». È diventato sufficiente, per il soggetto,
rispettare le regole e i principî universali del metodo – costituendosi cosí a sua volta come soggetto
universale di conoscenza – per riconoscere come verità «ciò che è evidente». «Il soggetto come tale è
diventato capace di verità», una verità diventata conoscenza esatta e certa di un campo di oggetti che ha
reso possibile l’estensione progressiva del dominio del soggetto sulla realtà a partire dalla conoscenza
che ne ha, di cui farà parte anche la conoscenza (oggettiva) che potrà avere di se stesso a partire dalla
trasparenza della coscienza a se stessa. E se con Descartes prende il via l’oggettivazione della realtà,
quel che resta della cura di sé e delle esigenze della spiritualità verrà progressivamente incorporato
all’interno del pastorato cristiano, a partire dal quale apparirà un nuovo e diverso modo di
soggettivazione ed oggettivazione, quello che condurrà all’ermeneutica del soggetto di desiderio che
Foucault aveva cominciato a studiare nei corsi degli anni precedenti. Un soggetto che si trova ora
intrappolato in una nuova e diversa modalità della veridizione: l’obbligo di «dire la verità su se stesso»,
l’obbligo per il soggetto dell’enunciazione di diventare «il riferimento dell’enunciato», grazie alla
confessione destinata a diventare il luogo di rivelazione dei segreti della coscienza. Ma questo esito non
era inevitabile, e quello che siamo diventati non risponde ad alcuna fatalità o necessità. Altre vie
sarebbero state possibili, altre lo sono state. Come ad esempio nell’esperienza del discorso vero
socratico, o in quello cinico, dove il dir vero si lega al rischio della morte assunto coraggiosamente
come manifestazione di una relazione di sé con se stessi definito dalla libertà che conferisce
all’esistenza un’unità, una forma ed uno stile che sono la testimonianza vivente della verità. Rispetto a
cui poco importa che avvenga nei modi dello scandalo permanente, del rifiuto di essere governati, o in
quelli della perseveranza che nasce dalla volontà di governare se stessi.
Per essere franchi, abbiamo qui inteso sostenere, ancora una volta, la natura eminentemente politica
del lavoro di Foucault. In molti hanno infatti ritenuto di poter affermare che il Foucault «finale», quello
della lunga «plongée» nel mondo antico e tardo antico, quello della sedicente riscoperta dell’etica, della
cura di sé, della spiritualità, fosse un Foucault che aveva abbandonato, addirittura rigettato, il problema
della politica, andando alla ricerca di «una soluzione di ricambio». Ora, se pure è vero che aveva preso
le distanze da un certo militantismo, non si congederà però mai da una volontà persistente e persino
accanita di problematizzazione della politica. Tra i molti luoghi che si potrebbero citare, basti ricordare
quel che affermava ancora poco prima di morire, allorché rammentava che porre il problema etico, per
lui, significava porre il problema della «pratica della libertà», o meglio della «pratica riflessa della
libertà», piuttosto che quello della «liberazione» (e della «rivoluzione»), aggiungendo subito, però, che
la libertà è «in se stessa politica», e lo è esattamente negli stessi termini in cui lo è, e perché lo è, la
verità. La questione politica, insomma, «è la verità stessa», come aveva detto già nel 1976. Ecco allora
quel che afferma otto anni dopo: «Dopotutto, perché la verità? Perché, piú ancora che di noi stessi, ci
curiamo della verità? E in ogni caso, perché ci curiamo di noi stessi solo avendo cura della verità?
Abbiamo qui a che fare con una questione fondamentale, che è forse la questione stessa dell’occidente:
che cosa ha fatto sí che tutta quanta la cultura occidentale abbia cominciato a gravitare attorno ad un
obbligo di verità che ha poi assunto una serie di forme assai differenti le une dalle altre? Nulla, fino ad
ora, ha mostrato che sarebbe possibile definire una strategia del tutto diversa. È allora solo nel campo
definito da tale obbligo di verità che ci potremo spostare, in qualche caso muovendo contro gli effetti di
dominio che possono essere legati a strutture di verità o a istituzioni che si fan carico della verità.
Insomma, non si sfugge al dominio della verità giocando un gioco del tutto diverso da quello della
verità, bensí giocandolo diversamente, o giocando un altro gioco, un’altra partita, o altre carte, ma
sempre restando nel gioco della verità. E lo stesso avviene nel caso della politica, in cui è possibile
procedere alla critica del politico – a partire, ad esempio, dalle conseguenze dello stato di dominio che
tale politica induce – senza che sia possibile farlo in altro modo se non giocando un certo gioco di
verità, mostrando che cosa ne consegua o mostrando che vi sono altre possibilità razionali, o
insegnando agli individui quel che essi non sanno sulla loro propria situazione». Quel che Foucault non
ha mai fatto, è ricavare da tali «insegnamenti» le istruzioni e le linee di condotta da adottare, il codice
da approvare, la «legge» da applicare, rifuggendo con rigore e determinazione da qualunque tentazione
normativa, a differenza dei tanti che non cessano di dirci ciò che sarebbe necessario fare o quello che
dovremmo essere. Tutt’al piú due raccomandazioni: primo, non confessare mai; e poi, rifiutare quello
che siamo, ovvero «quel tipo di individualità che ci è stato imposto per cosí tanti secoli». Fino alla fine,
dunque, i rapporti tra la filosofia e la politica hanno continuato ad essere per Foucault decisivi,
inaggirabili, fondamentali. Dire la verità al potere, la sola forma di coraggio che alla fine riconoscesse
insieme agli atti di cui si è capaci di assumersi direttamente la responsabilità, significava infatti anche,
per lui, chiedere al potere di dire la verità, ma senza prescriverla: «Niente è piú inconsistente di un
regime politico indifferente nei confronti della verità; ma niente è piú pericoloso di un sistema politico
che pretenda di prescriverla. La funzione del dir vero non deve assumere la forma della legge, allo
stesso modo in cui sarebbe vano credere che tale funzione risieda a tutti gli effetti nei giochi spontanei
della comunicazione. Il compito del dir vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un
obbligo da cui nessun potere potrebbe esimersi. Salvo imporre il silenzio della servitú». Che il lavoro
sia infinito, e che nessuna «liberazione» sia promessa come definitiva, non deve indurci ad abdicare
rispetto al nostro «compito». E del resto talvolta accade che, a partire da un soprassalto di coraggio e
dignità degli uomini, o anche dei popoli, la verità faccia irruzione, ma come «evento», appunto, e senza
garanzie. Strana attualità (politica) di Foucault. Nulla, tuttavia, ci autorizza a ritenere (ma la cosa non
sarebbe neppure auspicabile), e piuttosto tutto ci induce a pensare il contrario, che un giorno il secolo
sarà foucaultiano.
Il libro
L’ O R D I N E D E L D I S C O R S O È I L T E S T O D E L L A L E Z I O N E I N A U G U R A L E D I M I C H E L
Foucault al Collège de France, e costituisce ancor oggi, pur nella sua brevità, un
documento di grande importanza per comprendere l’inflessione che il cantiere
foucaultiano avrebbe conosciuto a partire dagli anni settanta. In esso, infatti, l’autore
pone al centro delle proprie preoccupazioni teoriche, per la prima volta in maniera
esplicita, la questione dei rapporti tra discorso, verità e potere, delineando il progetto
critico e genealogico che avrebbe sviluppato e approfondito negli anni successivi.
Ne L’ordine del discorso Foucault analizza in particolare le varie forme in cui in
ogni società la produzione del discorso è al tempo stesso controllata e selezionata, in
modo da scongiurarne i poteri e i pericoli, e poterlo cosí padroneggiare. Questione piú
che mai di drammatica attualità.
Alla riedizione del testo si è aggiunta la plaquette di candidatura al Collège de
France, intitolata Titoli e lavori, nella quale Foucault offre una illuminante sintesi di
tutte le sue ricerche anteriori, illustrando il cammino percorso fino ad allora, e
delineando alcuni dei problemi e dei campi che avrebbero dovuto essere oggetto delle
sue indagini e del suo insegnamento negli anni a venire.
A completare il dossier relativo agli esordi dell’avventura foucaultiana, i due
interventi con i quali Jules Vuillemin sosterrà la candidatura di Foucault alla
prestigiosa istituzione.
Nella Postfazione che chiude il volume, infine, Mauro Bertani rievoca alcuni dei
temi e dei problemi affrontati da Foucault nel corso dei tredici anni di ricerche febbrili
e di insegnamento instancabile, fino a poco prima della morte, al Collège de France.
L’autore
Michel Foucault (Poitiers, 1926 - Parigi, 1984), la cui opera ha rinnovato in modo
decisivo lo studio delle scienze umane, ha insegnato al Centro universitario
sperimentale di Vincennes e, dal 1970 al 1984, al Collège de France. Tra le sue
opere, sono disponibili nel catalogo Einaudi: Nascita della clinica («Biblioteca
Einaudi»), Sorvegliare e punire («ET Saggi»), Il discorso, la storia, la verità
(«Einaudi contemporanea»), L’ordine del discorso («Piccola Biblioteca Einaudi
Nuova serie»), Mal fare, dir vero («Piccola Biblioteca Einaudi Nuova serie»).
Altri libri importanti: Storia della follia, Le parole e le cose (entrambi Rizzoli),
La volontà di sapere e L’uso dei piaceri (Feltrinelli).
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