Sei sulla pagina 1di 80

MICHEL FOUCAULT

L’ORDINE DEL DISCORSO


E ALTRI INTERVENTI

Nuova edizione

Einaudi
L’ordine del discorso è il testo della lezione inaugurale al Collège de France, letta il 2 dicembre 1970.
Per ragioni d’orario, alcuni passaggi erano stati ridotti e modificati nella lettura. Qui sono stati ripresi.
Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui,
forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Piú che
prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni
inizio possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare
una voce senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato
concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione,
nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando, per un attimo,
sospesa. Inizi, non ce ne sarebbero dunque; e invece d’essere colui donde
viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una
sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile.
Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un
pezzo, superando in anticipo tutto quel che sto per dire) una voce che parlasse
cosí: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole sinché
ce ne sono, bisogna dirle sinché mi trovino, sinché mi dicano – strana pena,
strana colpa, bisogna continuare, è forse già cosa fatta, mi hanno forse già
detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla
porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta».
C’è in molti, penso, un simile desiderio di non dover cominciare, un simile
desiderio di ritrovarsi, d’acchito, dall’altra parte del discorso, senza aver
dovuto considerare dall’esterno ciò che esso poteva avere di singolare, di
temibile, di malefico forse. A questo augurio cosí comune, l’istituzione
risponde sull’ironico, perché essa rende solenni gli esordii, perché li attornia
d’un cerchio di attenzione e di silenzio, e impone loro, per segnalarli da piú
lontano, forme ritualizzate.
Il desiderio dice: «Non vorrei dover io stesso entrare in quest’ordine
fortuito del discorso; non vorrei aver a che fare con esso in ciò che ha di
tagliente e di decisivo; vorrei che fosse tutt’intorno a me come una
trasparenza calma, profonda, indefinitamente aperta, in cui gli altri
rispondessero alla mia attesa e in cui le verità, ad una ad una, si alzassero;
non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice».
E l’istituzione risponde: «Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui
per mostrarti che il discorso è nell’ordine delle leggi; che da tempo si vigila
sulla sua apparizione; che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo
disarma; e che, se gli capita d’avere un qualche potere, lo detiene in grazia
nostra, e nostra soltanto».
Ma forse quest’istituzione e questo desiderio non sono altro che due
risposte opposte ad una stessa inquietudine: inquietudine nei confronti di ciò
che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta;
inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a
cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine
nell’avvertire dietro a questa attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli
che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite,
dominazioni, servitú attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sí gran
tempo le asperità.
Ma che c’è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i
suoi discorsi proliferano indefinitamente? Dov’è dunque il pericolo?

Ecco l’ipotesi che vorrei avanzare questa sera, per fissare il luogo – o forse
il molto provvisorio teatro – del lavoro che faccio: suppongo che in ogni
società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata,
organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la
funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento
aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità.
In una società come la nostra si conoscono, naturalmente, le procedure
d’esclusione. La piú evidente, ed anche la piú familiare, è quella
dell’interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può
parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può
parlare di qualunque cosa. Tabú dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto
privilegiato o esclusivo del soggetto che parla: si ha qui il gioco di tre tipi
d’interdetto che si incrociano, si rafforzano o si compensano, formando un
reticolo complesso che non cessa di modificarsi. Noterò solo che, ai nostri
giorni, le regioni in cui il reticolo è piú fitto, in cui si moltiplicano le caselle
nere, sono le regioni della sessualità e della politica: come se il discorso,
lungi dall’essere l’elemento trasparente o neutro nel quale la sessualità si
placa e la politica si pacifica, fosse uno dei siti in cui esse esercitano, in modo
privilegiato, alcuni dei loro piú temibili poteri. Il discorso, in apparenza, ha
un bell’essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e
assai rapidamente, il suo legame col desiderio e col potere. E non vi è nulla di
sorprendente in tutto questo: poiché il discorso – la psicanalisi ce l’ha
mostrato – non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio;
e poiché – questo, la storia non cessa di insegnarcelo – il discorso non è
semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per
cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.
Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non piú un
interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso alla opposizione
tra ragione e follia. Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discorso
non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia
considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza,
non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un atto o un
contratto, non potendo nemmeno, nel sacrificio della messa, permettere la
transustanziazione e fare del pane un corpo; capita anche, in compenso, che le
si attribuiscano, all’opposto di ogni altra parola, strani poteri, quello di dire
una verità nascosta, quello di annunciare l’avvenire, quello di vedere del tutto
ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può scorgere. È curioso
constatare che per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa,
oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità. O cadeva nel
nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione
ingenua o scaltrita, una ragione piú ragionevole di quella della gente
ragionevole. In ogni modo, esclusa o segretamente investita dalla ragione, in
senso stretto essa non esisteva. La follia del folle si riconosceva attraverso le
sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano
mai accolte né ascoltate. Mai, prima della fine del XVIII secolo, un medico
aveva avuto l’idea di sapere ciò che era detto (come era detto, perché era
detto), in questa parola che pur tuttavia stabiliva la differenza. Tutto
l’immenso discorso del folle si risolveva in rumore; e la parola non gli era
data che simbolicamente, sul teatro in cui si faceva avanti, disarmato e
riconciliato, poiché vi sosteneva la parte della verità colla maschera.
Mi si dirà che tutto questo è finito, oggi, o che sta per aver fine; che la
parola del folle non è piú dall’altra parte della separazione; che non è piú resa
nulla e senza effetto; che al contrario ci mette in agguato; che vi cerchiamo
un senso, o l’abbozzo o le rovine di un’opera; e che siamo riusciti a
sorprenderla, questa parola del folle, in ciò che noi stessi articoliamo, nel
minuscolo strappo attraverso cui quel che diciamo ci sfugge. Ma tanta
attenzione non prova che la vecchia partizione non sia piú valida; basta
riflettere a tutta la armatura del sapere attraverso cui decifriamo questa
parola; basta pensare a tutta la rete di istituzioni che consente a qualcuno –
medico, psicanalista – di ascoltare questa parola e che consente nello stesso
tempo al paziente, di venir a portare, o a trattenere disperatamente, le sue
povere parole; basta riflettere a tutto questo per sospettare che la partizione,
lungi dall’essere cancellata, agisce altrimenti, secondo linee diverse,
attraverso nuove istituzioni, e con effetti che non sono affatto gli stessi. E
quand’anche il ruolo del medico non fosse che quello di prestare orecchio a
una parola finalmente libera, l’ascolto si esercita pur sempre nel
mantenimento di una cesura. Ascolto di un discorso che è investito dal
desiderio, e che si crede, per la sua piú grande esaltazione e la sua piú grande
angoscia, carico di terribili poteri. Se occorre veramente il silenzio della
ragione per guarire i mostri, basta che il silenzio sia in allarme, ed ecco la
partizione mantenuta.
È forse arrischiato considerare l’opposizione del vero e del falso come un
terzo sistema d’esclusione, accanto a quelli di cui ho parlato. Come si
potrebbe ragionevolmente paragonare la costrizione della verità con
partizioni come quelle, partizioni che sono arbitrarie in partenza o che
comunque si organizzano attorno a contingenze storiche; che sono non solo
modificabili, ma in continuo spostamento; che sono sorrette da tutto un
sistema di istituzioni che le impongono o le riconfermano; che non si
esercitano infine senza costrizione, o senza almeno una parte di violenza.
Certo, se ci si situa a livello di una proposizione, all’interno di un discorso,
la partizione tra il vero e il falso non è né arbitraria, né modificabile, né
istituzionale, né violenta. Ma se ci si situa su altra scala, se ci si pone la
questione di sapere quale è stata, qual è costantemente, attraverso i nostri
discorsi, questa volontà di verità che ha attraversato tanti secoli della nostra
storia, o qual è, nella sua forma generalissima, il tipo di partizione che regge
la nostra volontà di sapere, allora vediamo profilarsi qualcosa come un
sistema d’esclusione (sistema storico, modificabile, istituzionalmente
costrittivo).
Partizione storicamente costituita, senz’altro. Poiché, già nei poeti greci
del VI secolo, il discorso vero – nel senso forte e valorizzato del termine – il
discorso vero per cui si aveva rispetto e terrore, quello al quale bisognava pur
sottomettersi, perché regnava, era il discorso pronunciato da chi di diritto, e
secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la giustizia e attribuiva
a ciascuno la sua parte; era il discorso che, profetizzando il futuro, non solo
annunziava quel che stava per accadere, ma contribuiva alla sua
realizzazione, comportava l’adesione degli uomini e si tramava cosí col
destino. Ed ecco che un secolo piú tardi la piú alta verità non risiedeva piú
ormai in quel che il discorso era o in quel che faceva, bensí in quel che
diceva: un giorno è venuto in cui la verità si è spostata dall’atto ritualizzato,
efficace e giusto, d’enunciazione, verso l’enunciato stesso: verso il suo senso,
la sua forma, il suo oggetto, il rapporto colla sua referenza. Tra Esiodo e
Platone si è stabilita una certa partizione, che ha separato il discorso vero e il
discorso falso; partizione nuova perché ormai il discorso vero non è piú il
discorso prezioso e desiderabile, poiché non è piú il discorso legato al potere.
Il sofista è cacciato.
Questa partizione storica ha senza dubbio dato la forma generale che le è
propria alla nostra volontà di sapere. Ma non ha per questo cessato di
spostarsi: le grandi mutazioni scientifiche possono forse essere lette talora
come le conseguenze di una scoperta, ma possono anche essere lette come
l’apparizione di nuove forme nella volontà di verità. C’è senza dubbio una
volontà di verità, nel XIX secolo, che non coincide, né per le forme messe in
gioco, né per i campi d’oggetti cui si rivolge, né per le tecniche su cui poggia,
con la volontà di sapere che caratterizza la cultura classica. Risaliamo un po’
indietro: tra il XVI e il XVII secolo (e soprattutto in Inghilterra) è apparsa una
volontà di sapere che, anticipando i contenuti attuali, disegnava piani
d’oggetti possibili, misurabili, catalogabili; una volontà di sapere che
imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza),
una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere piú che
leggere, verificare piú che commentare); una volontà di sapere che
prescriveva (e con modalità piú generali di ogni strumento determinato) a che
livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere
verificabili ed utili. È come se, a partire dalla grande partizione platonica, la
volontà di sapere avesse la sua propria storia, che non è quella delle verità
costrittive: storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia delle funzioni e
posizioni del soggetto conoscente, storia degli investimenti materiali, tecnici,
strumentali della conoscenza.
Ora, questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su
di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto
uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, come il sistema dei libri,
dell’editoria, delle biblioteche, come i circoli eruditi una volta, i laboratori
oggi. Ma essa è anche riconfermata, senza dubbio piú profondamente, dal
modo in cui il sapere è messo in opera in una società, dal modo in cui è
valorizzato, distribuito, ripartito, e in certo qual modo attribuito. Ricordiamo
qui, a titolo puramente simbolico, il vecchio principio greco: l’aritmetica può
ben riguardare le città democratiche, poiché insegna i rapporti d’eguaglianza,
ma solo la geometria deve essere insegnata nelle oligarchie, poiché essa
dimostra le proporzioni nell’ineguaglianza.
Credo insomma che questa volontà di verità, cosí sorretta da un supporto e
da una distribuzione istituzionali, tenda ad esercitare sugli altri discorsi –
parlo sempre della nostra società – una sorta di pressione e quasi un potere di
costrizione. Penso anche al modo in cui la letteratura occidentale ha dovuto
da secoli cercar sostegno sul naturale, sul verosimile, sulla sincerità, persino
sulla scienza, in breve sul discorso vero. Penso inoltre al modo in cui le
pratiche economiche, codificate come precetti o ricette, al caso come morale,
hanno dal XVI secolo cercato di fondarsi, di razionalizzarsi e di giustificarsi
su una teoria delle ricchezze e della produzione; penso inoltre al modo in cui
un insieme prescrittivo come il sistema penale ha cercato le sue basi o la sua
giustificazione, dapprima naturalmente in una teoria del diritto, poi, a partire
dal XIX secolo, in un sapere sociologico, psicologico, medico, psichiatrico:
come se la parola stessa della legge non potesse piú essere autorizzata, nella
nostra società, se non da un discorso della verità.
Dei tre grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso, la parola
interdetta, la partizione della follia e la volontà di verità, è del terzo che ho
parlato piú a lungo.
Verso di esso, infatti, da secoli, han continuato ad esser sospinti i primi;
sempre piú, infatti, esso cerca di prenderli su di sé, per modificarli e fondarli
ad un tempo; se i primi due, infine, non cessano di diventare piú fragili, piú
incerti nella misura in cui vengono ora attraversati dalla volontà di verità,
questa non cessa in compenso di rafforzarsi, di diventare piú profonda ed
inaggirabile.
E tuttavia, è di essa che si parla meno. Come se per noi la volontà di verità
e le sue peripezie fossero mascherate dalla verità stessa nel suo necessario
svolgimento. E la ragione è forse questa: se il discorso vero non è piú, in
effetti, dai greci, quello che risponde al desiderio o quello che esercita il
potere, che cos’è dunque in gioco, nella volontà di verità, nella volontà di
dirlo, questo discorso vero, se non il desiderio e il potere? Il discorso vero,
che la necessità della sua forma affranca dal desiderio e libera dal potere, non
può riconoscere le volontà di verità che lo attraversa; e la volontà di verità,
quella che si è imposta a noi da moltissimo tempo, è siffatta che la verità
ch’essa vuole non può non mascherarla.
Cosí, non ci appare allo sguardo se non una verità che è ricchezza,
fecondità, forza dolce ed insidiosamente universale. E ignoriamo in
compenso la volontà di verità, come prodigioso macchinario destinato ad
escludere. Tutti coloro che, puntualmente nella nostra storia, hanno cercato di
aggirare questa volontà di verità e di rimetterla in questione contro la verità,
proprio là dove la verità si dà a giustificare l’interdetto e a definire la follia,
tutti costoro, da Nietzsche ad Artaud a Bataille, devono servirci da segni,
senza dubbio altieri, per il lavoro di ogni giorno.

Esistono evidentemente altre procedure di controllo e di delimitazione del


discorso. Quelle di cui ho finora parlato si esercitano in certo qual modo
dall’esterno; esse funzionano come sistemi d’esclusione; esse concernono
senza dubbio la parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio.
Si può, credo, isolarne un altro gruppo. Procedure interne, poiché sono i
discorsi stessi che esercitano il loro proprio controllo; procedure che fungono
piuttosto da principî di classificazione, d’ordinamento, di distribuzione, come
se si trattasse questa volta di padroneggiare un’altra dimensione del discorso:
quella dell’evento (événement) e del caso.
Al primo posto, il commento. Suppongo, senza per altro esserne
certissimo, che non ci siano molte società in cui non esistono narrazioni
salienti che si raccontano, si ripetono, si fanno variare; formule, testi, insiemi
ritualizzati di discorsi che si recitano, secondo circostanze ben determinate;
cose dette una volta e che si conservano, perché vi si presagisce qualcosa
come un segreto o una ricchezza. In breve, si può avere il sospetto che ci sia,
assai regolarmente nelle società, una sorta di dislivello tra i discorsi: i discorsi
che «si dicono» col trascorrer dei giorni e cogli scambi, e che passano con
l’atto stesso che li ha pronunciati; e i discorsi che sono all’origine di un certo
numero di atti nuovi, di parole che li riprendono, li trasformano o parlano
d’essi; insomma, i discorsi che, indefinitamente, al di là della loro
formulazione, sono detti, restano detti, e sono ancora da dire. Questi discorsi,
nel nostro sistema di cultura, li conosciamo: sono i testi religiosi o giuridici;
sono inoltre quei testi curiosi, quando si consideri il loro statuto, che si
definiscono «letterari»; in certa misura, certi testi scientifici.
È certo che questa sfasatura non è né stabile, né costante, né assoluta. Non
vi è, da una parte, la categoria, data una volta per tutte, dei discorsi
fondamentali o creatori; e poi, dall’altra, la congerie di quelli che ripetono,
chiosano e commentano. Non pochi testi salienti si confondono e
scompaiono, e talora dei commenti vengono ad occupare il posto primitivo.
Ma i punti d’applicazione hanno un bel cambiare, la funzione resta; e il
principio d’una sfasatura si trova senza posa rimesso in gioco. Il radicale
annullamento di questo dislivello non può mai essere che gioco, utopia o
angoscia. Gioco alla Borges di un commento che non sarà altro che la
ricomparsa parola per parola (ma questa volta solenne e attesa) di ciò che
commenta; gioco ancora di una critica che parlasse all’infinito di un’opera
che non esiste.
Sogno lirico d’un discorso che rinasce in ciascuno dei suoi punti
assolutamente nuovo e innocente, e che riappare senza tregua, con piena
freschezza, a partire dalle cose, dai sentimenti o dai pensieri. Angoscia di
quel malato di Janet per il quale il minimo enunciato era come «parola del
Vangelo», nascondendo inesauribili tesori di senso e meritando d’essere
indefinitamente ripreso, ricominciato, commentato: «Quando penso – diceva
non appena leggeva o ascoltava – quando penso a questa frase che sta ancora
per andarsene nell’eternità e che non ho forse ancora del tutto compresa».
Ma chi non vede che si tratta qui ogni volta di annullare uno dei termini
della relazione, e non di sopprimere il rapporto stesso? Rapporto che non
cessa di modificarsi attraverso i tempi; rapporto che assume, in un’epoca
data, forme molteplici e divergenti; l’esegesi giuridica è molto diversa (e
questo da moltissimo tempo) dal commento religioso; una sola e stessa opera
letteraria può dar luogo, simultaneamente, a tipi di discorso assai distinti:
l’Odissea come testo primario è ripetuta, nello stesso periodo, nella
traduzione di Bérard, nelle indefinite spiegazioni del testo, nell’Ulisse di
Joyce.
Per il momento, vorrei limitarmi ad indicare che, in ciò che globalmente si
definisce un commento, la sfasatura tra il primo e il secondo testo svolge due
ruoli che sono solidali. Da una parte, esso consente di costruire (e
indefinitamente) nuovi discorsi: l’incombere del primo testo, la sua
permanenza, il suo statuto di discorso sempre riattualizzabile, il senso
molteplice o nascosto di cui passa per essere detentore, la reticenza e la
ricchezza essenziali che gli si attribuiscono, tutto questo fonda una possibilità
aperta di parlare. Ma, d’altra parte, il commento ha come unico ruolo, quali
che siano le tecniche messe in opera, di dire infine ciò che era
silenziosamente articolato laggiú. Deve, secondo un paradosso che sposta
sempre ma cui non sfugge mai, dire per la prima volta quel che tuttavia era
già stato detto e ripetere instancabilmente ciò che, nondimeno, non era mai
stato detto. L’indefinito spumeggiare dei commenti è lavorato dall’interno dal
sogno di una ripetizione mascherata: al suo orizzonte, non vi è forse
nient’altro che ciò che era al suo punto di partenza, la semplice recitazione. Il
commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso
consente certo di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione
che sia questo testo stesso ad esser detto e in qualche modo compiuto.
L’aperta molteplicità, l’alea, sono trasferite, dal principio del commento, da
ciò che rischierebbe di essere detto, al numero, alla forma, alla maschera, alla
circostanza della ripetizione. Il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento
del suo ritorno.
Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Esso è,
sino a un certo punto, complementare al primo. Si tratta dell’autore. L’autore
considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato
o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi,
come unità ed origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza.
Questo principio non opera ovunque, né in modo costante: esistono,
tutt’intorno a noi, non pochi discorsi che circolano, senza che detengano il
loro senso o la loro efficacia da un autore cui sarebbero attribuiti: parole
quotidiane, tosto cancellate, decreti o contratti che han bisogno di firmatari,
non d’autore, ricette tecniche che si trasmettono nell’anonimato. Ma, nei
campi in cui la attribuzione a un autore è di regola – letteratura, filosofia,
scienza – è palese ch’essa non svolge sempre la stessa funzione; nell’ordine
del discorso scientifico l’attribuzione ad un autore era, nel Medioevo,
indispensabile, in quanto costituiva un indice di verità. Si riteneva che una
proposizione detenesse dall’autore stesso il suo valore scientifico. Dal XVII
secolo, questa funzione non ha cessato di venir meno, nel discorso
scientifico: l’autore non serve piú, quasi, che a dare il nome ad un teorema,
ad un effetto, ad un esempio, ad una sindrome. In compenso, nell’ordine del
discorso letterario, e a partire dallo stesso periodo, la funzione dell’autore non
ha cessato di rafforzarsi: tutte le narrazioni, tutti i poemi, tutti i drammi o
commedie che si lasciavano circolare nel Medioevo in un anonimato almeno
relativo, ecco che ora si chiede loro (o si esige da essi che dicano) donde
provengono, chi li ha scritti; si chiede che l’autore renda conto dell’unità del
testo che va sotto il suo nome; gli si chiede di rivelare, o almeno di portarsi
appresso, il senso nascosto che li attraversa; gli si chiede di articolarli sulla
sua vita personale e sulle sue esperienze vissute, sulla storia reale che li ha
visti nascere. L’autore è ciò che dà all’inquietante linguaggio della finzione le
unità, i nodi di coerenza, l’inserzione nel reale.
So bene che mi si dirà: «Ma lei sta parlando dell’autore, come la critica lo
reinventa a cose fatte, quando la morte è venuta e non rimane che una massa
ingarbugliata di scartafacci; bisogna pur, allora, rimettere un po’ di ordine in
tutto questo; immaginare un progetto, una coerenza una tematica che si
chiedono alla coscienza o al la vita di un autore, effettivamente forse un po’
fittizio. Ma questo non impedisce che sia ben esistito, quest’autore reale,
quest’uomo che ha fatto irruzione tra tutte le parole usate, portando in esse il
suo genio o il suo disordine».
Sarebbe assurdo, certo, negare l’esistenza dell’individuo che scrive e che
inventa. Ma io penso che – almeno a partire da una certa epoca – l’individuo
che si mette a scrivere un testo all’orizzonte del quale si aggira un’opera
possibile, riprenda su di sé la funzione dell’autore: ciò che scrive e ciò che
non scrive, ciò che delinea, anche a titolo di scarabocchio provvisorio, come
abbozzo dell’opera, e ciò che lascerà cadere come parole quotidiane, tutto
questo gioco di differenze è prescritto dalla funzione d’autore, come egli la
riceve dalla sua epoca, o come a sua volta la modifica. Può ben sconvolgere,
infatti, l’immagine tradizionale che ci si fa dell’autore; ma è pur sempre a
partire da una nuova posizione dell’autore che ritaglierà, in tutto ciò che
avrebbe potuto dire, in tutto ciò che dice ogni giorno, ogni istante, il profilo
ancora tremolante della sua opera.
Il commento limitava il caso del discorso col gioco di un’identità che ha la
forma della ripetizione e dello stesso. Il principio dell’autore limita questo
medesimo caso col gioco d’una identità che ha la forma dell’individualità e
dell’io.
Bisognerebbe anche riconoscere in quelle che vengono chiamate non le
scienze, ma le «discipline», un altro principio di limitazione. Principio pur
esso relativo e mobile. Principio che consente di costruire, ma secondo un
gioco angusto.
L’organizzazione delle discipline si oppone tanto al principio del
commento che a quello dell’autore. A quello dell’autore, in quanto una
disciplina vien definita da un campo d’oggetti, da un insieme di metodi, da un
corpus di proposizioni considerate come vere, da un gioco di regole e di
definizioni, di tecniche e di strumenti: tutto questo costituisce una sorta di
sistema anonimo a disposizione di chi voglia o possa servirsene, senza che il
suo senso o la sua validità siano legati a colui che ne è stato il possibile
inventore. Ma il principio della disciplina si oppone anche a quello del
commento: in una disciplina, a differenza dal commento, ciò che si suppone
in partenza non è un senso che deve essere riscoperto, né un’identità che deve
essere ripetuta; bensí ciò che è richiesto per la costruzione di nuovi enunciati.
Perché ci sia disciplina, occorre dunque che vi sia possibilità di formulare, e
di formulare indefinitamente, nuove proposizioni.
Ma c’è di piú; e forse c’è di piú perché ci sia di meno: una disciplina non è
la somma di tutto ciò che può essere detto di vero a proposito di qualcosa;
non è neppure l’insieme di tutto ciò che può essere, su di uno stesso dato,
accettato in virtú di un principio di coerenza o di sistematicità. La medicina
non è costituita dal totale di ciò che si può dire di vero sulla malattia; la
botanica non può essere definita colla somma di tutte le verità che
concernono le piante. Le ragioni di questo sono due: innanzitutto la botanica
o la medicina, come ogni altra disciplina, sono fatte tanto di errori che di
verità, errori che non sono residui o corpi estranei, ma che hanno funzioni
positive, un’efficacia storica, un ruolo spesso indissociabile da quello delle
verità. Ma occorre, inoltre, perché una proposizione appartenga alla botanica
o alla patologia, che risponda a condizioni in un certo senso più rigide e piú
complesse della verità pura e semplice: in ogni caso, a condizioni diverse.
Essa deve rivolgersi a un piano d’oggetti determinato: a partire dalla fine del
XVII secolo, per esempio, perché fosse «botanica», una proposizione ha
dovuto riguardare la struttura visibile della pianta, il sistema delle sue
somiglianze prossime o lontane o la meccanica dei suoi fluidi (ed essa non
poteva piú conservare, come accadeva ancora nel XVI secolo, i suoi valori
simbolici, o l’insieme delle virtú o proprietà che le si riconoscevano
nell’Antichità). Ma, senza appartenere ad una disciplina, una proposizione
deve utilizzare strumenti concettuali o tecnici di tipo ben definito; a partire
dal XIX secolo una proposizione non era piú medica, essa cadeva «fuori dalla
medicina» e assumeva valore di fantasma individuale o di imagerie popolare
se metteva in gioco nozioni ad un tempo metaforiche qualitative e sostanziali
(come quelle di ostruzione, di liquidi riscaldati o di solidi disseccati); essa
poteva, essa doveva fare appello, in compenso, a nozioni altrettanto
metaforiche, ma costruite su un altro modello, funzionale e fisiologico questa
volta (era l’irritazione, era l’infiammazione o la degenerazione dei tessuti).
C’è di piú: per appartenere ad una disciplina, una proposizione deve poter
iscriversi in un certo tipo d’orizzonte teorico: basti ricordare che la ricerca
della lingua primitiva, tema perfettamente recepito sino al X V I I I secolo,
bastava, nella seconda metà del XIX , a far cadere qualsiasi discorso non dico
nell’errore, ma nella chimera, nella fantasticheria, nella pura e semplice
mostruosità linguistica.
Entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false; ma
essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di
una scienza è piú e meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è
l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza
posa credenze senza memoria; ma forse non ci sono errori in senso stretto,
poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una
pratica definita; in compenso, si aggirano dei mostri, la cui forma cambia
colla storia del sapere. Insomma, una proposizione deve rispondere a
complesse e pesanti esigenze per poter appartenere all’insieme di una
disciplina; prima di poter dirsi vera o falsa, essa deve essere, come direbbe G.
Canguilhelm, «nel vero».
Ci si è spesso chiesti come mai sia stato possibile che i botanici e i biologi
del XIX secolo non abbiano visto che quel che Mendel diceva era vero. Il fatto
è che Mendel parlava di oggetti, metteva in opera metodi, si poneva su un
orizzonte teorico che erano estranei alla biologia del suo tempo. Naudin
aveva, certo, prima di lui, affermato la tesi che i caratteri ereditari sono
discreti; tuttavia, per quanto nuovo o strano fosse, questo principio poteva far
parte – almeno a titolo di enigma – del discorso biologico. Mendel, dal canto
suo, costituisce il carattere ereditario come oggetto biologico assolutamente
nuovo, grazie ad una filtrazione mai utilizzata sino allora: lo svincola dalla
specie, lo svincola dal sesso che lo trasmette; e il campo ove l’osserva è la
serie indefinitamente aperta delle generazioni in cui appare e scompare
secondo regolarità statistiche. Nuovo oggetto che invoca nuovi strumenti
concettuali, e nuovi fondamenti teorici. Mendel diceva il vero, ma non era
«nel vero» del discorso biologico del suo tempo: con simili regole non si
formavano oggetti e concetti biologici; è occorso tutto un mutamento di
scala, il dispiegamento di tutto un nuovo piano d’oggetti nella biologia,
perché Mendel entrasse nel vero e le sue proposizioni apparissero allora (in
buona parte) esatte. Mendel era un mostro vero, e per questo la scienza non
poteva parlarne; mentre Schleiden, per esempio, una trentina d’anni prima,
negando in pieno XIX secolo la sessualità vegetale, ma secondo le regole del
discorso biologico, non formulava che un errore disciplinare.
È sempre possibile dire il vero nello spazio di una esteriorità selvaggia; ma
non si è nel vero se non ottemperando alle regole di una «polizia» discorsiva
che si deve riattivare in ciascuno dei suoi discorsi.
La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso.
Essa gli fissa dei limiti col gioco d’una identità che ha la forma di una
permanente riattualizzazione delle regole.
Si ha l’abitudine di vedere nella fecondità d’un autore, nella molteplicità
dei commenti, nello sviluppo di una disciplina, altrettante infinite risorse per
la creazione dei discorsi. Forse; ciò non toglie che esse restino pur sempre
principî di costrizione; ed è probabile che non si possa render conto del loro
ruolo positivo e moltiplicatore, se non si prende in considerazione la loro
funzione restrittiva e costrittiva.

Esiste, credo, un terzo gruppo di procedure che consentono il controllo dei


discorsi. Non si tratta questa volta di padroneggiare i poteri ch’essi portano
con sé, ma di scongiurare gli accidenti della loro apparizione; si tratta di
determinare le condizioni della loro messa in opera, di imporre agli individui
che li tengono un certo numero di regole, e di non permettere cosí a tutti di
accedervi. Rarefazione, questa volta, dei soggetti parlanti; nessuno entrerà
nell’ordine del discorso se non soddisfa a certe esigenze o se non è, d’acchito,
qualificato per farlo. Piú precisamente: tutte le regioni del discorso non sono
egualmente aperte e penetrabili; alcune sono saldamente difese (differenziate
e differenzianti), mentre altre sembrano quasi aperte ai quattro venti e poste,
senza preliminare restrizione, a disposizione di ogni soggetto parlante.
Vorrei, su questo tema, ricordare un aneddoto cosí bello che si teme non
sia vero. Esso riconduce ad una sola figura tutte le costrizioni del discorso:
quelle che ne limitano i poteri, quelle che ne padroneggiano le apparizioni
aleatorie, quelle che operano una selezione tra i soggetti parlanti. Agli inizi
del XVII secolo, lo shogûn aveva sentito dire che la superiorità degli europei –
in fatto di navigazione, di commercio, di politica, di arte militare – era dovuta
alla loro conoscenza della matematica. Desiderò impadronirsi d’un sapere
cosí prezioso. Siccome gli avevano parlato di un marinaio inglese che
possedeva il segreto di quei meravigliosi discorsi, lo fece venire nel suo
palazzo e ve lo trattenne. Da solo a solo con questi, prese lezioni. Apprese la
matematica. Conservò, in effetti, il potere, e visse vecchissimo. Solo nel XIX
secolo vi furono matematici giapponesi. Ma l’aneddoto non si conclude qui:
esso ha un versante europeo. La storia vuole infatti che quel marinaio inglese,
Will Adams, sia stato un autodidatta: un carpentiere che, avendo lavorato in
un cantiere navale, aveva imparato la geometria. Si deve forse vedere, in
questo racconto, l’espressione di uno dei grandi miti della cultura europea?
Al sapere monopolizzato e segreto della tirannia orientale, l’Europa
opporrebbe la comunicazione universale della conoscenza, lo scambio
indefinito e libero dei discorsi.
Ora, questo tema, naturalmente, non resiste all’esame. Lo scambio e la
comunicazione sono figure positive che operano all’interno di sistemi
complessi di restrizione; e non potrebbero di certo funzionare
indipendentemente da essi. La forma piú superficiale e piú visibile di questi
sistemi di restrizione è costituita da ciò che si può raggruppare sotto il nome
di rituale; il rituale definisce la qualificazione che devono possedere gli
individui che parlano (e che, nel gioco di un dialogo, dell’interrogazione,
della recitazione, devono occupare una certa posizione e formulare un certo
tipo di enunciati); esso definisce i gesti, i comportamenti, le circostanze, e
tutto l’insieme di segni che devono accompagnare il discorso; esso fissa
infine l’efficacia supposta o imposta delle parole, il loro effetto su coloro cui
sono rivolte, i limiti del loro valore costrittivo. I discorsi religiosi, giudiziari,
terapeutici, e in parte anche quelli politici, non sono quasi dissociabili da
questa utilizzazione di un rituale che determina per i soggetti parlanti sia
proprietà singolari che ruoli convenuti.
Di funzionamento parzialmente diverso sono le «società di discorso», che
hanno la funzione di conservare o di proteggere dei discorsi, ma per farli
circolare in uno spazio chiuso, per distribuirli solo secondo regole strette e
senza che i detentori vengano spossessati da questa stessa distribuzione. Uno
dei modelli arcaici ci è fornito da quei gruppi di rapsodi che possedevano la
conoscenza dei poemi da recitare, o eventualmente da far variare o da
trasformare; ma questa conoscenza, pur avendo avuto come fine una
recitazione del resto rituale, era protetta, difesa e conservata, in un
determinato gruppo, dagli esercizi mnemonici, sovente assai complessi, che
implicava; l’apprendimento faceva entrare in un gruppo e in un segreto che la
recitazione manifestava ma non divulgava; tra la parola e l’ascolto i ruoli non
erano permutabili.
Ovviamente, non ne restano piú molte, di queste «società di discorso», col
gioco ambiguo del segreto e della divulgazione. Ma non ci si inganni: anche
nell’ordine del discorso vero, anche nell’ordine del discorso pubblicato e
libero da ogni rituale, si esercitano ancora forme di appropriazione di segreto
e di non-intercambiabilità. Potrebbe pur sempre darsi che l’atto dello scrivere,
cosí come è oggi istituzionalizzato nel libro, nel sistema dell’editoria e nel
personaggio dello scrittore, abbia luogo in una «società di discorso» diffusa
forse, ma certamente costrittiva. La differenza dello scrittore,
incessantemente opposta da lui stesso all’attività di ogni altro soggetto
parlante o scrivente, il carattere intransitivo che attribuisce al suo discorso, la
fondamentale singolarità che già da tempo accorda alla «scrittura»,
l’affermata dissimmetria tra la «creazione» e qualsiasi messa in gioco del
sistema linguistico, tutto questo manifesta nella formulazione (e tende del
resto a riproporre nel gioco delle pratiche) l’esistenza di una certa «società di
discorso». Ma ne esistono ancora non poche altre, che funzionano con
modalità del tutto diverse secondo un altro regime di esclusione e di
divulgazione: si pensi al segreto tecnico o scientifico, si pensi alle forme di
diffusione e di circolazione del discorso medico; si pensi a coloro che si sono
appropriati il discorso economico o politico.
A prima vista, le «dottrine» (religiose, politiche, filosofiche) costituiscono
l’opposto d’una «società di discorso»: in esse il numero degli individui
parlanti, anche se non era fissato, tendeva ad essere limitato; e solo tra di loro
il discorso poteva circolare ed essere trasmesso. La dottrina, al contrario,
tende a diffondersi; e unicamente mettendo in comune un solo ed identico
insieme di discorsi, degli individui, per quanto numerosi si immaginino,
definiscono la loro reciproca appartenenza. La sola condizione richiesta,
apparentemente, è il riconoscimento delle stesse verità e l’accettazione di una
certa regola – piú o meno duttile – di conformità coi discorsi convalidati; se
non fossero che questo, le dottrine non sarebbero talmente diverse dalle
discipline scientifiche, e il controllo discorsivo riguarderebbe solo la forma o
il contenuto dell’enunciato, non il soggetto parlante. Ora, l’appartenenza
dottrinale mette in causa sia l’enunciato che il soggetto parlante, e l’uno
attraverso l’altro. Essa mette in causa il soggetto parlante attraverso e a
partire dall’enunciato, come dimostrano le procedure d’esclusione e i
meccanismi di rigetto che subentrano quando un soggetto parlante ha
formulato uno o piú enunciati inassimilabili; l’eresia e l’ortodossia non
dipendono da un’esagerazione fanatica dei meccanismi dottrinali; esse li
concernono fondamentalmente. Ma, all’opposto, la dottrina mette in causa gli
enunciati a partire dai soggetti parlanti, nella misura in cui la dottrina vale
sempre come segno, manifestazione e strumento d’una preliminare
appartenenza – appartenenza di classe, di statuto sociale o di razza, di
nazionalità o di interesse, di lotta, di rivolta, di resistenza o di accettazione.
La dottrina lega gli individui a certi tipi di enunciazione per legare gli
individui tra di loro, e differenziarli per ciò stesso da tutti gli altri. La dottrina
effettua un duplice assoggettamento: dei soggetti parlanti ai discorsi, e dei
discorsi al gruppo, per lo meno virtuale, degli individui parlanti.
Infine, su scala assai piú vasta, bisogna pur riconoscere piani di
separazione molto netti in ciò che si potrebbe chiamare l’appropriazione
sociale dei discorsi. L’educazione ha un bell’essere, di diritto, lo strumento
grazie al quale ogni individuo, in una società come la nostra, può accedere a
qualsiasi tipo di discorso; si sa bene ch’essa segue nella sua distribuzione, in
ciò che permette e in ciò che vieta, le linee segnate dalle distanze, dalle
opposizioni e dalle lotte sociali. Ogni sistema di educazione è un modo
politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i
saperi ed i poteri ch’essi comportano.
Mi rendo ben conto che è assai astratto separare, come ho appena fatto, i
rituali della parola, le società di discorso, i gruppi dottrinali e le
appropriazioni sociali. Essi si legano, per lo piú, gli uni agli altri e
costituiscono come dei grandi edifici che assicurano la distribuzione dei
soggetti parlanti nei vari tipi di discorso e l’appropriazione dei discorsi da
parte di una certa categoria di soggetti. Diciamo, in una parola, che son
queste le grandi procedure d’assoggettamento del discorso. Cos’è, dopo tutto,
un sistema d’insegnamento, se non una ritualizzazione della parola; se non
una qualificazione e una assegnazione di ruoli per i soggetti parlanti; se non
la costituzione d’un gruppo dottrinale almeno diffuso; se non una
distribuzione e un’appropriazione del discorso coi suoi poteri e i suoi saperi?
Che cos’è la «scrittura», se non un simile sistema di assoggettamento, che
assume forse forme un po’ diverse, ma le cui grandi scansioni sono analoghe?
Forse che il sistema giudiziario, forse che il sistema istituzionale stesso della
medicina, sotto certi aspetti almeno, non costituiscono sistemi simili di
assoggettamento del discorso?

Mi chiedo se un certo numero di temi della filosofia non son venuti a


rispondere a questi giochi di limitazioni e di esclusioni, e forse, addirittura, a
rafforzarli.
Innanzitutto a risponder loro, proponendo una verità ideale come legge del
discorso e una razionalità immanente come principio del loro svolgimento, e
riconfermando altresí un’etica della conoscenza che non promette la verità se
non al desiderio della verità stessa e al solo potere di pensarla.
A rafforzarli poi con un diniego che investe questa volta la realtà specifica
del discorso in generale.
Da quando i giochi e il commercio dei sofisti sono stati esclusi, da quando
ai loro paradossi è stata messa, con piú o meno sicurezza, la museruola,
sembra che il pensiero occidentale abbia provveduto che il discorso avesse il
minor posto possibile tra il pensiero e la parola; sembra che abbia provveduto
che il discorso apparisse soltanto come un certo apporto tra pensare e parlare;
una sorta di pensiero rivestito dei suoi segni e reso visibile dalle parole o, al
contrario, le strutture stesse della lingua messe in gioco, e producenti un
effetto di senso.
Questa antichissima elisione della realtà del discorso nel pensiero
filosofico ha assunto non poche forme nel corso della storia. La si è ritrovata
recentissimamente sotto l’aspetto di piú temi che ci sono familiari.
Potrebbe essere che il tema del soggetto fondatore permetta di elidere la
realtà del discorso. Il soggetto fondatore, infatti, è incaricato di animare
direttamente colle sue mire le forme vuote della lingua; è lui che,
attraversando lo spessore o l’inerzia delle cose vuote, riprende,
nell’intuizione, il senso che vi si trova deposto; è lui inoltre che, al di là del
tempo, fonda orizzonti di significati che la storia non dovrà piú che spiegare,
e dove le proposizioni, le scienze, gli insiemi deduttivi troveranno in fin dei
conti il loro fondamento. Nel suo rapporto col senso, il soggetto fondatore
dispone di segni, di impronte, di tracce, di lettere. Ma non ha bisogno, per
manifestarli, di passare per l’istanza singolare del discorso.
Il tema che lo fronteggia, quello dell’esperienza originaria, svolge un ruolo
analogo. Esso suppone che, a fior dell’esperienza, prima ancora che abbia
potuto riprendersi nella forma di un cogito, significati preliminari, già detti in
certo qual modo, percorressero il mondo, lo disponessero tutt’intorno a noi e
l’aprissero d’acchito a una sorta di primitivo riconoscimento. Cosí, una
primaria complicità col mondo fonderebbe per noi la possibilità di parlar di
esso, in esso, di designarlo e di nominarlo, di giudicarlo e finalmente di
conoscerlo nella forma della verità. Se discorso c’è, che cosa può mai essere,
allora, nella sua legittimità, se non una lettura discreta? Le cose mormorano
già un senso che il nostro linguaggio non ha piú che da far sorgere; e questo
linguaggio, sin dal suo piú rudimentale progetto, ci parlava già di un essere di
cui è una sorta di nervatura.
Anche il tema della mediazione universale è, credo, un modo di elidere la
realtà del discorso. E questo malgrado l’apparenza. Poiché pare, a prima
vista, che nel ritrovare ovunque il movimento di un logos che innalza le
singolarità sino al concetto e che consente alla coscienza immediata di
dispiegare alla fine tutta la razionalità del mondo, si metta al centro della
speculazione il discorso stesso. Ma questo logos, a dire il vero, non è che un
discorso già tenuto, o meglio sono le cose stesse e gli eventi che si fanno
insensibilmente discorso dispiegando il segreto della loro propria essenza. Il
discorso non è quasi piú che il luccicare di una verità che sta per nascere ai
suoi propri occhi; e tutto può alla fine prender la forma del discorso, tutto può
dirsi e il discorso può dirsi a proposito di tutto, perché tutte le cose, avendo
manifestato e scambiato il loro senso, possono rientrare nell’interiorità
silenziosa della coscienza di sé.
Sia dunque in una filosofia del soggetto fondatore, che in una filosofia
dell’esperienza originaria o in una filosofia dell’universale mediazione, il
discorso non è niente piú che un gioco, di scrittura nel primo caso, di lettura
nel secondo, di scambio nel terzo, e questo scambio, questa lettura, questa
scrittura non mettono mai in gioco che i segni. Il discorso si annulla cosí,
nella sua realtà, ponendosi a disposizione del significante.
Quale civiltà, in apparenza, ha avuto, piú della nostra, rispetto per il
discorso? Dove lo si è meglio e piú onorato? Dove lo si è, pare, piú
radicalmente liberato dalle sue costrizioni e piú universalizzato? Ora mi
sembra che dietro questa apparente venerazione del discorso, dietro questa
apparente logofilia, si celi una sorta di timore. È come se degli interdetti,
degli sbarramenti, delle soglie, dei limiti, fossero stati disposti in modo da
padroneggiare, almeno in parte, la grande proliferazione del discorso, in
modo da alleggerire la sua ricchezza della parte piú dannosa e da organizzare
il suo disordine secondo figure che evitano quel che vi è di piú
incontrollabile; è come se si fossero voluti cancellare sinanco i segni della sua
irruzione nei giochi del pensiero e della lingua. C’è sicuramente nella nostra
società, e immagino in tutte le altre, per quanto con un profilo e scansioni
diverse, una profonda logofobia, una sorta di sordo timore contro questi
eventi, contro questa massa di cose dette, contro il sorgere di tutti questi
enunciati, contro tutto ciò che ci può essere, in questo, di violento, di
discontinuo, di battagliero, di disordinato e di periglioso, contro questo brusio
incessante e confuso del discorso. E se si vuole – non dico deporre questo
timore – bensí analizzarlo nelle sue condizioni, nel suo gioco e nei suoi
effetti, occorre, credo, risolversi a tre decisioni alle quali il nostro pensiero,
oggi, resiste un poco, e che corrispondono ai tre gruppi di funzioni che ho
testé evocati: rimettere in questione la nostra volontà di verità; restituire al
discorso il suo carattere d’evento; toglier via infine la sovranità del
significante.

Questi sono i compiti, o meglio alcuni dei temi, che sorreggono il lavoro
che vorrei fare qui nei prossimi anni. Si possono rintracciare subito alcune
esigenze di metodo ch’essi comportano.
Un principio di rovesciamento innanzitutto: là dove, secondo la tradizione,
si crede di riconoscere la scaturigine dei discorsi, il principio del loro
proliferare e della loro continuità, nelle figure che sembrano svolgere un
ruolo positivo, come quella dell’autore, della disciplina, della volontà di
verità, bisogna piuttosto riconoscere il gioco negativo d’un ritaglio e d’una
rarefazione del discorso.
Ma, una volta rintracciati tali principî di rarefazione, una volta che si sia
cessato di considerarli come un’istanza fondamentale e creatrice, cosa si
scopre al di sotto di essi? Si deve forse ammettere la virtuale pienezza d’un
mondo di discorsi ininterrotti? Qui occorre far subentrare altri principî di
metodo.
Un principio di discontinuità: il fatto che ci siano sistemi di rarefazione
non significa che sotto di essi, al di là di essi, possa regnare un gran discorso
illimitato, continuo e silenzioso, che verrebbe ad essere, da essi, represso o
rimosso, e che noi avremmo il compito di far sorgere restituendogli infine la
parola. Non bisogna immaginare un non detto o un impensato, che percorrano
il mondo e si intreccino con tutte le sue forme e tutti i suoi eventi, e che si
tratterebbe di articolare o di finalmente pensare. I discorsi devono essere
trattati come pratiche discontinue, che si incrociano, si affiancano talora, ma
anche si ignorano o si escludono.
Un principio di specificità: non risolvere il discorso in un gioco di
significati precostituiti; non immaginarsi che il mondo ci volga un viso
leggibile, che non avremmo piú che da decifrare; il mondo non è complice
della nostra conoscenza; non esiste una provvidenza prediscorsiva che lo
disponga a nostro favore. Occorre concepire il discorso come una violenza
che noi facciamo alle cose, in ogni caso come una pratica che imponiamo
loro; e proprio in questa pratica gli eventi del discorso trovano il principio
della loro regolarità.
Quarta regola, quella dell’esteriorità: non andare dal discorso verso il suo
nucleo interno e nascosto, verso il cuore di un pensiero o di un significato che
si manifesterebbero in esso; ma, a partire dal discorso stesso, dalla sua
apparizione, e dalla sua regolarità, andare verso le sue condizioni esterne di
possibilità, verso ciò che dà luogo alla serie aleatoria di quegli eventi e che ne
fissa i limiti.
Quattro nozioni devono dunque servire da principio regolativo alla analisi:
quella di evento, quella di serie, quella di regolarità, quella di condizione di
possibilità. Esse si oppongono, come si vede, termine a termine: l’evento alla
creazione, la serie all’unità, la regolarità alla originalità, e la condizione di
possibilità al significato. Queste quattro ultime nozioni (significato,
originalità, unità, creazione), hanno, in modo assai generale, dominato la
storia tradizionale delle idee, ove, di comune accordo, si cercava il punto
della creazione, l’unità di un’opera, di un’epoca o di un tema, il contrassegno
dell’originalità individuale, e il tesoro indefinito dei significati nascosti.
Aggiungerò soltanto due osservazioni. Una concerne la storia. Si mette
spesso all’attivo della storia contemporanea l’aver abolito i privilegi accordati
un tempo all’evento singolare e l’aver fatto apparire strutture di lunga durata.
Certo. Non sono tuttavia sicuro che il lavoro degli storici sia stato fatto
proprio in questa direzione. O meglio non penso che ci sia una sorta di
ragione inversa tra l’individuazione dell’evento e l’analisi della lunga durata.
Sembra, al contrario, che proprio rinserrando al massimo la grana
dell’evento, spingendo il potere di risoluzione dell’analisi storica fino alle
mercuriali, agli atti notarili, ai registri parrocchiali, agli archivi portuari
seguiti anno per anno, settimana per settimana, si siano visti profilarsi, al di là
delle battaglie, delle dinastie o delle assemblee, fenomeni massicci di portata
secolare o plurisecolare. La storia, cosí come la si pratica oggi, non si
allontana dagli eventi; al contrario, essa non fa che ampliarne il campo; ne
scopre senza posa nuovi strati, piú superficiali o piú profondi; ne isola
incessantemente nuovi insiemi ove sono talora numerosi, densi e
intercambiabili, talora rari e decisivi: dalle variazioni quasi quotidiane dei
prezzi si arriva alle inflazioni secolari. Ma l’importante è che la storia non
considera un evento senza definire la serie di cui fa parte, senza specificare il
modo d’analisi da cui dipende, senza cercar di conoscere la regolarità dei
fenomeni e i limiti di probabilità della loro emersione, senza interrogarsi sulle
variazioni, le inflessioni e l’andatura della curva, senza determinare le
condizioni da cui queste dipendono. Certo, la storia da un pezzo non cerca
piú di comprendere gli avvenimenti con un gioco di cause ed effetti
nell’informe unità di un grande divenire, vagamente omogeneo o duramente
gerarchizzato; ma non per ritrovare strutture anteriori, estranee, ostili
all’evento, quanto piuttosto per stabilire le serie diverse, incrociate, divergenti
spesso ma non autonome, che consentono di circoscrivere il «luogo»
dell’evento, i margini della sua alea, le condizioni della sua apparizione.
Le nozioni fondamentali che ora si impongono non sono piú quelle di
coscienza e di continuità (con i problemi loro correlativi della libertà e della
causalità), non sono quelle di segno e di struttura, bensí quelle di evento e di
serie, col gioco di nozioni loro connesse; regolarità, alea, discontinuità,
dipendenza, trasformazione; grazie a un tale insieme, l’analisi dei discorsi cui
penso si articola non certo sulla tematica tradizionale che i filosofi di ieri
prendono ancora per «storia viva», ma sul lavoro effettivo degli storici.
Ma, per ciò stesso, tale analisi pone problemi filosofici, o teorici,
senz’altro temibili. Se i discorsi devono essere trattati innanzitutto come
insiemi di eventi discorsivi, che statuto si deve dare a questa nozione di
evento che è stata cosí di rado presa in considerazione dai filosofi? L’evento
non è, certo, né sostanza né accidente, né qualità o processo; l’evento non è
dell’ordine dei corpi. E tuttavia esso non è immateriale; esso prende effetto, è
effetto, a livello della materialità; esso ha il suo luogo e la sua consistenza
nella relazione, nella coesistenza, nella dispersione, nel ricupero,
nell’accumulo, nella selezione d’elementi materiali; non è né l’atto né la
proprietà di un corpo; si produce come effetto di e in una dispersione
materiale. Diciamo che la filosofia dell’evento dovrebbe procedere nella
direzione, paradossale a prima vista, d’un materialismo dell’incorporeo.
D’altra parte, se gli eventi discorsivi devono essere trattati secondo serie
omogenee, ma discontinue le une rispetto alle altre, quale statuto si deve dare
a questo discontinuo? Non si tratta, beninteso, né della successione degli
istanti del tempo, né della pluralità dei diversi soggetti pensanti; si tratta di
cesure che frantumano l’istante e disperdono il soggetto in una pluralità di
posizioni e di funzioni possibili. Una tale discontinuità colpisce e invalida le
piú piccole unità tradizionalmente riconosciute o quelle meno facilmente
contestate: l’istante e il soggetto. E, sotto di essi, indipendentemente da essi,
bisogna concepire tra queste serie discontinue, relazioni che non sono
dell’ordine della successione (o della simultaneità) in una (o piú) coscienze;
bisogna elaborare – al di fuori delle filosofie del soggetto e del tempo – una
teoria delle sistematicità discontinue. Infine, se è vero che queste serie
discorsive e discontinue hanno ciascuna, entro certi limiti, la loro regolarità,
sicuramente non è piú possibile stabilire tra gli elementi che le costituiscono
legami di causalità meccanica o di necessità ideale. Bisogna accettare di
introdurre l’alea come categoria nella produzione degli eventi. Qui ancora si
avverte l’assenza di una teoria che permetta di pensare i rapporti del caso e
del pensiero.
Di modo che nella sottile sfasatura che ci si propone di mettere in opera
nella storia delle idee e che consiste nel trattare, non tanto rappresentazioni
che possono esserci dietro i discorsi, quanto i discorsi come serie regolari e
distinte di eventi, in questa sottile sfasatura, temo di riconoscere qualcosa
come un piccolo (e forse odioso) macchinario che consente di introdurre alla
radice stessa del pensiero, il caso, il discontinuo e la materialità. Triplice
pericolo che una certa forma di storia cerca di scongiurare raccontando lo
svolgimento continuo d’una necessità ideale. Tre nozioni che dovrebbero
consentire di legare alla pratica degli storici la storia dei sistemi di pensiero.
Tre direzioni che dovrà seguire il lavoro di elaborazione teorica.
Seguendo questi principî e riportandomi a quest’orizzonte, le analisi che
mi propongo di condurre si dispongono secondo due insiemi. Da una parte
l’insieme «critico» che mette in opera il principio del rovesciamento: cercare
di individuare le forme dell’esclusione, della limitazione, dell’appropriazione
di cui parlavo poc’anzi; mostrare come si sono elaborate, in risposta a quali
bisogni, come si sono modificate e spostate, quale costrizione hanno
effettivamente esercitato, in che misura sono state aggirate. D’altra parte,
l’insieme «genealogico» che mette in opera gli altri tre principî: come si sono
formate, attraverso, a dispetto o coll’appoggio di tali sistemi di costrizione,
delle serie di discorsi; quale è stata la norma specifica di ciascuna, e quali
sono state le loro condizioni di apparizione, di crescita, di variazione.
L’insieme critico innanzitutto. Un primo gruppo di analisi potrebbe
riguardare ciò che ho definito come funzioni d’esclusione. Mi è capitato
tempo addietro di studiarne una, relativa a un determinato periodo: si trattava
della partizione tra follia e ragione all’epoca classica. Piú tardi, si potrebbe
cercare di analizzare un sistema di interdetto di linguaggio: quello che
riguarda la sessualità dal XVI al XIX secolo; si tratterebbe di vedere non certo
come si sia progressivamente e felicemente annullato, bensí come si sia
spostato e riarticolato da una pratica della confessione in cui le condotte
interdette erano nominate, classificate, gerarchizzate, e nel modo piú
esplicito, sino alla comparsa, dapprima ben timida, ben ritardata, della
tematica sessuale nella medicina e nella psichiatria del XIX secolo; questi non
sono ancora, certo, che punti di riferimento un po’ simbolici, ma si può già
scommettere che le scansioni non sono quelle che si credono, e che gli
interdetti non hanno sempre tenuto il luogo che ci si immagina.
Per ora, vorrei dedicarmi al terzo sistema d’esclusione. E lo considero in
due modi. Da una parte, vorrei cercar di rintracciare come si sia costituita, ma
anche come sia stata ripetuta, riconfermata, spostata la scelta della verità
all’interno della quale siamo presi, e che non facciamo che rinnovare; mi
situerò dapprima all’epoca della sofistica e dei suoi inizi con Socrate, o
almeno con la filosofia platonica, per vedere come il discorso efficace, il
discorso rituale, il discorso carico di poteri e di pericoli si sia a poco a poco
allineato sulla partizione tra discorso vero e discorso falso. Mi situerò poi alla
svolta tra il XVI e il XVII secolo, in un’epoca in cui appare, soprattutto in
Inghilterra, una scienza dello sguardo, dell’osservazione, dell’accertamento,
una certa filosofia naturale indubbiamente inseparabile dall’insediamento di
nuove strutture politiche, inseparabile anche dall’ideologia religiosa: di certo,
una nuova forma della volontà di sapere. Il terzo punto di riferimento, infine,
saranno gli inizi del XIX secolo, con i grandi atti fondatori della scienza
moderna, con la formazione d’una società industriale e l’ideologia
positivistica che l’accompagna. Tre sezioni nella morfologia della nostra
volontà di sapere; tre tappe del nostro filisteismo.
Mi piacerebbe anche riprendere la stessa questione, ma da un’angolatura
del tutto diversa: vorrei cioè misurare l’effetto di un discorso a pretesa
scientifica – discorso medico, psichiatrico, ed anche discorso psicologico –
sull’insieme di pratiche e di discorsi prescrittivi costituito dal sistema penale.
Lo studio delle perizie psichiatriche e del loro ruolo nella penalità servirà da
punto di partenza e da materiale di base a quest’analisi.
In questa prospettiva critica, ancora, ma ad un altro livello, bisognerebbe
fare l’analisi delle procedure di limitazione del discorso, tra cui quelle che ho
definite poc’anzi come i principî dell’autore, del commento, della disciplina.
In questa prospettiva si possono considerare un certo numero di studi. Penso,
per esempio, ad un’analisi che riguarderebbe la storia della medicina dal XVI
al XIX secolo; si tratterebbe non tanto di rintracciare le scoperte fatte o i
concetti messi in opera, quanto di nuovamente comprendere, nella
costruzione del discorso medico, ma anche in tutta l’istituzione che lo
sorregge, lo trasmette, lo rafforza, come siano stati messi in gioco il principio
dell’autore, quello del commento, quello della disciplina; cercar di sapere
come sia stato esercitato il principio del grande autore: Ippocrate, Galeno,
certo, ma anche Paracelso, Sydenham o Boerhaave; come sia stata esercitata,
sino al XIX secolo inoltrato, la pratica dell’aforisma e del commento, come gli
sia stata a poco a poco sostituita la pratica del caso, della raccolta di casi,
dell’apprendimento clinico su di un caso concreto; secondo quale modello,
infine, la medicina abbia cercato di costituirsi come disciplina, poggiando
dapprima sulla storia naturale, poi sull’anatomia e la biologia.
Si potrebbe anche considerare in qual modo la critica e la storia letteraria
nel XVIII e nel XIX secolo abbiano costituito il personaggio dell’autore e la
figura dell’opera, utilizzando, modificando e spostando i procedimenti
dell’esegesi religiosa, della critica biblica, dell’agiografia, delle «vite»
storiche o leggendarie, dell’autobiografia e delle memorie. Bisognerebbe
anche, un giorno, studiare il ruolo svolto da Freud nel sapere psicanalitico,
assai diverso senz’altro da quello di Newton nella fisica (e di tutti i fondatori
di discipline), assai diverso anche da quello che può svolgere un autore nel
campo del discorso filosofico (fosse pure, come Kant, all’origine di un altro
modo di filosofare).
Ecco dunque alcuni progetti per l’aspetto critico del compito, per l’analisi
delle istanze del controllo discorsivo. Quanto all’aspetto genealogico, esso
riguarda la formazione effettiva dei discorsi sia all’interno dei limiti di
controllo, sia all’esterno, sia il piú delle volte da entrambe le parti della
limitazione. La critica analizza i processi di rarefazione, non solo, ma quelli,
inoltre, di raggruppamento e di unificazione dei discorsi; la genealogia studia
la loro formazione dispersa, discontinua e regolare insieme. A dire il vero,
questi due compiti non sono mai del tutto separabili; non ci sono, da una
parte, le forme del rigetto, dell’esclusione, del raggruppamento o
dell’attribuzione, e, dall’altra, a un livello piú profondo, lo sgorgare
spontaneo dei discorsi, che, subito prima o subito dopo la loro
manifestazione, si trovano sottoposti alla selezione e al controllo. La
formazione regolare del discorso può integrare, in certe condizioni e fino a un
certo punto, le procedure di controllo (è quel che succede, per esempio,
quando una disciplina assume forma e statuto di discorso scientifico); e
inversamente le figure del controllo possono prender corpo all’interno di una
formazione discorsiva (cosí la critica letteraria come discorso costitutivo
dell’autore): cosicché ogni compito critico, mettendo in questione le istanze
di controllo, deve di certo analizzare nello stesso tempo le regolarità
discorsive attraverso cui esse si formano; e ogni descrizione genealogica deve
prendere in considerazione i limiti che operano nelle formazioni reali. Tra
l’impresa critica e quella genealogica la differenza non è tanto di oggetto o di
ambito, quanto di punto d’attacco, di prospettiva e di delimitazione.
Alludevo poc’anzi a uno studio possibile: quello degli interdetti che
colpiscono il discorso della sessualità. Sarebbe difficile e astratto, in ogni
caso, condurre questo studio senza analizzare al contempo gli insiemi dei
discorsi, letterari, religiosi o etici, biologici e medici, ed anche giuridici, in
cui è in gioco la sessualità, e in cui questa viene nominata, descritta,
metaforizzata, spiegata, giudicata. Siamo ben lungi dall’aver costituito un
discorso unitario e regolare della sessualità; forse non ci si arriverà mai e
forse non stiamo andando affatto in questa direzione. Non importa. Gli
interdetti non hanno la stessa forma e non operano allo stesso modo nel
discorso letterario e in quello della medicina, in quello della psichiatria o in
quello della direzione spirituale. E, inversamente, queste diverse regolarità
discorsive non rafforzano, non aggirano o non spostano gli interdetti allo
stesso modo. Lo studio non potrà dunque essere condotto se non secondo
pluralità di serie in cui si trovano ad operare interdetti che, almeno in nafte,
sono diversi in ciascuna di esse.
Si potrebbero anche considerare le serie di discorsi che, nel XVI e nel XVII
secolo, riguardano la ricchezza e la povertà, la moneta, la produzione, il
commercio. Si ha qui a che fare con insiemi di enunciati assai eterogenei,
formulati dai ricchi e dai poveri, dai dotti e dagli ignoranti, dai protestanti o
dai cattolici, dagli ufficiali regi, dai commercianti o dai moralisti. Ognuno ha
la sua forma di regolarità, ed anche i suoi sistemi di costrizione. Ciascuno di
loro non prefigura esattamente l’altra forma di regolarità discorsiva che
assumerà l’andamento di una disciplina e che si chiamerà «analisi delle
ricchezze», poi «economia politica». Proprio a partire da essi, tuttavia, si è
formata una nuova regolarità, riprendendo od escludendo, giustificando o
rimuovendo tali o tal’altri dei loro enunciati.
Si potrebbe anche pensare ad uno studio che riguarderebbe i discorsi
relativi all’eredità, come li si possono trovare, ripartiti e dispersi sino agli
inizi del XX secolo, attraverso discipline, osservazioni, tecniche, ricette
diverse; si tratterebbe allora di mostrare con quale gioco d’articolazione
queste serie si sono alla fin fine ricomposte nella figura, epistemologicamente
coerente e riconosciuta dall’istituzione, della genetica. È il lavoro che ha
appena compiuto François Jacob, con una luminosità e un sapere
difficilmente comparabili.
Cosí devono alternarsi, vicendevolmente sorreggersi e completarsi le
descrizioni critiche e le descrizioni genealogiche. La parte critica dell’analisi
si rivolge ai sistemi d’avvolgimento del discorso; essa cerca di rintracciare, di
individuare tali principî di ordinamento, di esclusione, di rarità del discorso.
Diciamo, per giocare sulle parole, ch’essa pratica una disinvoltura applicata.
La parte genealogica dell’analisi si rivolge, in compenso, alle serie della
formulazione effettiva del discorso: essa cerca di coglierlo nel suo potere
d’affermazione; e con ciò intendo non un potere che si opporrebbe a quello di
negare, ma il potere di costituire ambiti d’oggetti, a proposito dei quali si
potranno affermare o negare proposizioni vere o false. Chiamiamo positività
questi ambiti d’oggetti; e diciamo, per giocare una seconda volta sulle parole,
che se lo stile critico è quello della studiosa disinvoltura, l’umore genealogico
sarà quello d’un positivismo felice.
In ogni modo, una cosa almeno deve essere sottolineata: l’analisi del
discorso cosí intesa non svela l’universalità di un senso, essa mette in luce il
gioco della rarità imposta, con un fondamentale potere di affermazione.
Rarità e affermazione; rarità, infine, dell’affermazione, e non continua
generosità del senso, e non monarchia del significante. E ora quelli che hanno
lacune di vocabolario dicano – se ciò suona loro meglio di quanto lor non
parli – che questo è strutturalismo.

Le ricerche di cui ho tentato di presentarvi il disegno, non avrei potuto


intraprenderle, lo so bene, se non avessi avuto l’ausilio di modelli e di
sostegni. Credo di dover molto a G. Dumézil, poiché fu lui ad incitarmi al
lavoro ad un’età in cui credevo ancora che scrivere sia un piacere. Ma devo
anche molto alla sua opera; mi perdoni se ho allontanato dal loro senso o
sviato dal loro rigore quelli che sono i suoi testi, e che oggi ci dominano; fu
lui ad insegnarmi ad analizzare l’economia interna d’un discorso in tutt’altro
modo che coi metodi dell’esegesi tradizionale o con quelli del formalismo
linguistico; lui mi insegnò a rintracciare, da un discorso all’altro, col gioco
dei confronti, il sistema delle correlazioni funzionali; lui mi apprese come
descrivere le trasformazioni d’un discorso e i rapporti coll’istituzione. Se ho
voluto applicare un simile metodo a tutt’altri discorsi che non fossero
narrazioni leggendarie o mitiche, è perché l’idea mi è stata fornita dai lavori
degli storici della scienza, e soprattutto di G. Canguilhem, che avevo davanti
agli occhi; devo a lui d’aver capito che la storia delle scienze non è
necessariamente irretita nella alternativa: cronaca delle scoperte, o
descrizione delle idee e opinioni che costeggiano la scienza dalla parte della
sua genesi indecisa o dalla parte dei suoi esiti esteriori; ma che si poteva, che
si doveva, fare la storia della scienza come d’un insieme, coerente e
trasformabile ad un tempo, di modelli teorici e di strumenti concettuali.
Ma penso che il mio debito vada, in grandissima parte, a Jean Hyppolite.
So bene che la sua opera è posta, agli occhi di molti, sotto il regno di Hegel, e
che tutta la nostra epoca, o colla logica, o coll’epistemologia, o con Marx o
con Nietzsche, cerca di sottrarsi a Hegel; e quel che ho cercato di dire poco fa
sul discorso è ben poco fedele al logos hegeliano.
Ma sfuggire realmente a Hegel presuppone che si valuti esattamente
quanto costi staccarsi da lui; presuppone che si sappia sino a dove Hegel,
insidiosamente forse, si sia accostato a noi; presuppone che si sappia, in ciò
che ci permette di pensare contro Hegel, quel che è ancora hegeliano; e di
misurare in cosa il nostro ricorso contro di lui sia ancora, forse, un’astuzia
ch’egli ci oppone e al termine della quale ci attende, immobile e altrove.
Ora, se siamo in piú di uno ad essere in debito nei confronti di J.
Hyppolite, è perché instancabilmente egli ha percorso per noi e prima di noi il
cammino con il quale ci si scosta da Hegel, ci si distanzia, e con il quale ci si
trova ricondotti a lui ma in altro modo, poi di nuovo costretti ad
abbandonarlo.
Innanzitutto J. Hyppolite aveva avuto cura di dare una presenza alla
grande ombra un po’ fantomatica di Hegel che si aggirava dal XIX secolo, e
con la quale oscuramente ci si batteva. Con una traduzione, quella della
Fenomenologia dello spirito, aveva conferito a Hegel questa presenza; e che
Hegel stesso sia ben presente in questo testo francese, lo dimostra il fatto che
è capitato ai tedeschi di consultarlo per capir meglio quel che, almeno per un
istante, ne diventava la versione tedesca.
Ora, di questo testo, J. Hyppolite ha cercato e ha percorso tutte le vie
d’uscita, come se la sua inquietudine fosse: si può ancora filosofare là dove
Hegel non è piú possibile? Una filosofia può ancora sussistere, che non sia
piú hegeliana? Quel che è non hegeliano nel nostro pensiero è
necessariamente non filosofico? E ciò che è antifilosofico è per forza non
hegeliano? In tal modo non cercava solo di fare la descrizione storica e
meticolosa di questa presenza che ci aveva data: voleva farne uno schema
d’esperienza della modernità (è possibile pensare al modo hegeliano le
scienze, la storia, la politica e la sofferenza di tutti i giorni?), e voleva,
inversamente, fare della nostra modernità la prova dell’hegelismo, e, quindi,
della filosofia. Per lui, il rapporto con Hegel era il luogo di un’esperienza, di
un confronto da cui non era mai certo che la filosofia uscisse vincitrice. Non
si serviva affatto del sistema hegeliano come d’un universo rassicurante; vi
vedeva il rischio estremo preso dalla filosofia. Di qui, credo, gli spostamenti
che ha operati, non dico all’interno della filosofia hegeliana, ma su di essa, e
sulla filosofia come Hegel la concepiva; di qui inoltre tutta un’inversione di
temi. La filosofia, invece di concepirla come la totalità finalmente capace di
pensarsi e di riprendersi nel movimento del concetto, J. Hyppolite ne faceva,
sullo sfondo di un orizzonte infinito, un compito senza termine: sempre
presto alzata, la sua filosofia non era pronta a concludersi mai. Compito senza
termine, compito sempre ricominciato dunque, destinato alla forma e al
paradosso della ripetizione: la filosofia, come inaccessibile pensiero della
totalità, era per Hyppolite quel che poteva esserci di ripetibile nell’estrema
irregolarità dell’esperienza; era quel che si dà e si sottrae come questione
incessantemente ripresa nella vita, nella morte, nella memoria: cosí, il tema
hegeliano del compimento nella coscienza di sé, egli lo trasformava in un
tema dell’interrogazione ripetitiva. Ma, essendo ripetizione, la filosofia non
era ulteriore rispetto al concetto; essa non doveva proseguire l’edificio
dell’astrazione, essa doveva sempre tenersi discosta, rompere colle sue
generalità acquisite e rimettersi in contatto con la non-filosofia; essa doveva
accostarsi quanto piú possibile non a ciò che la conclude, ma a ciò che la
precede, a ciò che non si è ancora destato alla sua inquietudine; essa doveva
riprenderle per pensarle, non per ridurle, la singolarità della storia, le
razionalità regionali della scienza, la profondità della memoria nella
coscienza; appare cosí il tema di una filosofia presente, inquieta, mobile
lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia, non esistendo tuttavia
che grazie ad essa e rivelando il senso che questa non-filosofia ha per noi.
Ora, se essa è nel ripetuto contatto con la non-filosofia, che cos’è l’inizio
della filosofia? Essa è forse già là, segretamente presente in ciò che non è lei,
cominciando a formularsi a mezza voce nel mormorio delle cose? Ma, allora,
il discorso filosofico non ha piú ragion d’essere; oppure deve forse
cominciare su una fondazione arbitraria ed assoluta insieme? Si vede cosí
sostituirsi al tema hegeliano del movimento proprio all’immediato quello del
fondamento del discorso filosofico e della sua struttura formale.
Infine, ultimo spostamento, che J. Hyppolite ha operato sulla filosofia
hegeliana: se la filosofia deve cominciare come un discorso assoluto, che ne è
della storia e cos’è questo inizio che inizia con un individuo singolare, in una
società, in una classe sociale, e in mezzo a lotte?
Questi cinque spostamenti, conducendo al limite estremo della filosofia
hegeliana, facendola senz’altro passare dall’altro lato dei suoi propri limiti,
convocano a volta a volta le grandi figure salienti della filosofia moderna che
J. Hyppolite non ha cessato di confrontare a Hegel: Marx con le questioni
della storia, Fichte col problema dell’inizio assoluto della filosofia, Bergson
col tema del contatto con la non-filosofia, Kierkegaard col problema della
ripetizione e della verità, Husserl col tema della filosofia come compito
infinito legato alla storia della nostra razionalità. E, al di là di queste figure
filosofiche, si scorgono tutti i campi del sapere che J. Hyppolite invocava
attorno alle sue questioni: la psicanalisi con la strana logica del desiderio, la
matematica e la formalizzazione del discorso, la teoria dell’informazione e la
sua applicazione nell’analisi del vivente, insomma tutti i campi a partire dai
quali si può porre la questione d’una logica e d’un’esistenza che non cessano
di annodare e di sciogliere i loro legami.
Penso che quest’opera, articolata in alcuni libri di primaria importanza, ma
piú ancora investita in ricerche, in un insegnamento, in una perpetua
attenzione, in uno stimolo e in una generosità di ogni giorno, in una
responsabilità apparentemente amministrativa e pedagogica (cioè in realtà
doppiamente politica), è venuta a contatto, ha formulato i fondamentali
problemi della nostra epoca. Siamo in molti ad essergli infinitamente debitori.
Proprio perché gli ho senza dubbio preso a prestito il senso e la possibilità
di quel che faccio, proprio perché molto spesso mi ha rischiarato quando
tentavo alla cieca, ho voluto porre il mio lavoro sotto il suo segno, e ho tenuto
a concludere, evocandolo, la presentazione dei miei progetti. Verso di lui,
verso questa mancanza – ove sento e la sua assenza e la mia carenza – si
incrociano le questioni che ora mi pongo.
Poiché gli debbo tanto, capisco bene che la scelta che avete fatto
invitandomi ad insegnare qui è, in gran parte, un omaggio che gli avete reso;
vi sono profondamente riconoscente dell’onore che mi avete reso, ma non vi
sono meno riconoscente per quel che gli spetta in questa scelta. Se non mi
sento pari al compito di succedergli, so, in compenso, che, se questa fortuna
avesse potuto esserci concessa, sarei stato, questa sera, incoraggiato dalla sua
indulgenza.
E capisco meglio perché avevo tanta difficoltà a cominciare, poco fa. Ora
so bene qual è la voce che avrei voluto mi precedesse, che mi portasse, che
m’invitasse a parlare e che si stabilisse nel mio proprio discorso. So cosa
c’era di tanto temibile nel prendere la parola, poiché la prendevo in questo
luogo ove l’ho ascoltato, e ove non c’è piú, lui, per intendermi.
Appendici
Titoli e lavori1
Lavori precedenti.
Nella Storia della follia nell’età classica ho cercato di stabilire ciò che in
una determinata epoca era possibile conoscere intorno alla malattia mentale.
Mi sono occupato di un sapere che si manifesta, ovviamente, all’interno delle
teorie mediche che nominano e classificano i diversi tipi patologici e che
tentano, inoltre, di spiegarli. Un tale sapere fa però la sua comparsa anche
nell’ambito dei fenomeni di opinione, in particolare nel timore suscitato dai
folli fin dai tempi piú remoti; ma emerge anche nella dinamica variabile delle
forme di credulità che circondano i folli, o ancora nel modo in cui vengono
rappresentati a teatro o vengono raffigurati nelle opere di carattere letterario.
In tutti questi casi a servirmi da guida hanno potuto essere, in piú occasioni,
le analisi già svolte da altri storici. Una dimensione, invece, mi è sembrata del
tutto inesplorata. Ho ritenuto che fosse necessario cercare di capire in che
modo i folli erano riconosciuti, scartati ed esclusi dalla società, internati e
sottoposti a un trattamento. Ho creduto necessario individuare quali
istituzioni fossero destinate ad accoglierli e a trattenerli al proprio interno – e
a curarli, talvolta; quali istanze fossero deputate a decidere della loro follia e
in base a quali criteri; quali metodi venissero messi in atto per assoggettarli,
per sottometterli a castigo o, nel caso, per guarirli. In breve, mi è sembrato
necessario stabilire all’interno di quale reticolo di istituzioni e di pratiche il
folle si trovasse imprigionato e al contempo definito. Ne è risultato che non
appena si esamini con cura il funzionamento di tale reticolo, insieme alle
giustificazioni che, nelle diverse epoche, ne venivano fornite, esso appare del
tutto coerente e assai ben organizzato e funzionante. Vi possiamo trovare
all’opera infatti tutto un sapere puntuale e articolato. Ha cominciato cosí a
profilarsi davanti ai miei occhi un nuovo oggetto: il sapere investito
all’interno di sistemi complessi di istituzioni. Un sapere al cui riguardo si
imponeva un metodo ben preciso: invece di percorrere, come si fa sovente e
volentieri, unicamente la biblioteca formata dai soli libri di carattere
scientifico, diventava necessario esplorare un insieme di archivi, di cui
potevano all’occorrenza far parte tanto dei decreti quanto dei regolamenti,
tanto dei registri ospedalieri o carcerari quanto degli atti di carattere legale. È
cosí presso l’Arsenal o presso gli Archives nationales che ho avviato l’analisi
di un sapere il cui corpo visibile non è tanto costituito dal discorso teorico o
scientifico, e neppure dalla letteratura, quanto da una pratica quotidiana e
regolata.
L’esempio della follia mi è tuttavia sembrato non sufficientemente topico;
nel XVII e nel X V I I I secolo la psicopatologia è ancora troppo rudimentale
perché la si possa distinguere da un semplice gioco di opinioni tradizionali.
Ho ritenuto, per contro, che la medicina clinica, nel momento della sua
nascita, ponesse il problema in termini assai piú rigorosi. Agli inizi del XIX
secolo, infatti, essa risulta legata a una serie di scienze già ben consolidate, o
comunque in via di costituzione, come ad esempio la biologia, la fisiologia,
l’anatomia patologica; d’altra parte, però, essa risulta collegata a tutto un
insieme di istituzioni, come gli ospedali, le istituzioni di carattere
assistenziale o le cliniche destinate all’insegnamento, ma anche a delle
pratiche, come ad esempio le inchieste di natura amministrativa. Mi sono
allora chiesto in che modo, tra questi due sistemi di riferimenti, un sapere
abbia potuto formarsi, trasformarsi e svilupparsi, fornendo alla teoria
scientifica nuovi campi d’osservazione, sottoponendole problemi inediti od
oggetti che fino a quel momento non erano stati scorti. Ma mi sono anche
chiesto in che modo, per contro, abbiano potuto esservi importate delle
conoscenze scientifiche, e come queste abbiano potuto in qualche caso
assumere il valore di prescrizioni e di norme etiche. L’esercizio della
medicina, infatti, non si limita a comporre, in una mistura instabile, una
scienza rigorosa ed una tradizione incerta. È piuttosto strutturata come un
sistema di sapere che ha il suo peculiare equilibrio e la sua specifica
coerenza.
Diventava dunque possibile ammettere l’esistenza di campi di sapere che
non potevano venire propriamente identificati con delle scienze, e che
tuttavia non erano riducibili a semplici abitudini mentali. Per questa ragione
ho allora tentato, ne Le parole e le cose, un’esperienza del tutto diversa:
sospendere, ma senza comunque abbandonare il progetto di tornarvi sopra un
giorno, tutto il versante pratico ed istituzionale, e prendere invece in esame,
in relazione ad un’epoca determinata, una molteplicità di tali campi di sapere
(quelli delle classificazioni naturali, della grammatica generale e dell’analisi
delle ricchezze, nel corso del XVII e del XVIII secolo) e di analizzarli
sistematicamente, uno dopo l’altro, per definire il tipo di problemi da essi
posti, i concetti a cui hanno fatto ricorso, le teorie che hanno messo alla
prova. Diventava cosí possibile non solo definire l’«archeologia» interna di
ciascuno di tali ambiti, considerati indipendentemente l’uno dall’altro, ma
anche individuare, tra l’uno e l’altro, delle identità, delle analogie, degli
insiemi di differenze, che diventava necessario descrivere. Emergeva cosí una
configurazione globale, che se pure era ben lontana dalla possibilità di
caratterizzare lo spirito classico in generale, organizzava tuttavia in maniera
coerente un’intera regione della conoscenza empirica.
Mi sono trovato dunque in presenza di due gruppi di risultati ben distinti:
da un lato, avevo potuto constatare l’esistenza specifica e relativamente
autonoma di «saperi investiti»; e dall’altra, avevo potuto osservare delle
relazioni sistematiche all’interno dell’architettura propria a ciascuno di essi.
Diventava cosí necessaria una messa a punto. Ho tentato di abbozzarla ne
L’Archeologia del sapere, dove ho stabilito che tra l’opinione e la
conoscenza scientifica è possibile riconoscere l’esistenza di un livello
particolare, che lí propongo di designare come quello del sapere. Si tratta di
un sapere che prende corpo non solo all’interno dei testi teorici o degli
strumenti d’esperienza, ma anche in tutto un insieme di pratiche e di
istituzioni, senza esserne tuttavia il puro e semplice risultato, o l’espressione
cosciente solo a metà. Esso comporta infatti delle regole che gli sono
specifiche, e che caratterizzano pertanto la sua esistenza, il suo
funzionamento e persino la sua storia. Si tratta di regole che in qualche caso
sono peculiari di un solo ambito, ma che in altri casi possono risultare
comuni a piú ambiti. Può persino capitare che altre regole ancora siano
generali per un’intera epoca. L’ultima osservazione, infine, è che lo sviluppo
di tale sapere nonché le sue trasformazioni mettono in gioco delle relazioni
causali complesse.
Progetto d’insegnamento.
Il lavoro che dovrà venire svolto di qui in avanti risulta governato da due
imperativi. Il primo, di non perdere mai di vista il riferimento ad un esempio
concreto che possa fungere da terreno d’esperienza per l’analisi; il secondo,
di elaborare sempre i problemi teorici in cui mi è capitato di incorrere o in cui
mi potrà accadere di incappare in futuro.
1) Il settore scelto come esempio privilegiato e al quale, per un certo
periodo di tempo, ho deciso di attenermi, è rappresentato dal sapere relativo
all’ereditarietà. Si tratta di un sapere che si è sviluppato, nei corso del XIX
secolo, a partire dalle tecniche di allevamento, dai tentativi effettuati per
ottenere il miglioramento delle specie, dai tentativi di mettere a punto delle
colture intensive, dagli sforzi fatti per lottare contro le epidemie animali e
vegetali, per giungere infine alla costituzione di una genetica la cui data di
nascita può venire fissata agli inizi del XIX secolo. Da un lato, il sapere in
questione si trovava a dover rispondere a una serie di esigenze economiche e
a un insieme di condizioni storiche del tutto particolari. Infatti, i cambiamenti
nelle dimensioni e nelle forme di sfruttamento delle proprietà rurali,
nell’equilibrio dei mercati, negli standard di redditività richiesti, nel sistema
dell’agricoltura coloniale, hanno profondamente trasformato tale sapere. E
non hanno modificato solo la natura dell’informazione che lo concerne, bensí
anche la sua quantità e la sua scala. D’altro lato, tale sapere risultava ricettivo
rispetto a una serie di conoscenze che potevano essere acquisite da scienze
come la chimica o la fisiologia animale e vegetale (ne reca testimonianza
l’utilizzazione dei concimi azotati o la tecnica dell’ibridazione, resa possibile
a sua volta dalla teoria della fecondazione vegetale, definita nel corso del
XVIII secolo). Una simile duplice dipendenza, tuttavia, non lo ha privato delle
sue caratteristiche e delle sue forme di regolazione interna. Esso ha infatti
potuto dar vita tanto a delle tecniche adattate (come quelle dei Vilmorin per il
miglioramento delle specie), quanto a dei concetti epistemologicamente
fecondi (come ad esempio quello di tratto ereditario, almeno precisato, se non
propriamente definito, da Naudin). Non si è dunque ingannato, Darwin,
allorché troverà proprio nella pratica umana dell’ereditarietà il modello che
avrebbe consentito di comprendere l’evoluzione naturale delle specie.
2) Per quanto concerne i problemi teorici che sarà necessario elaborare, mi
sembra sia possibile raccoglierli in tre gruppi.
Dovremo innanzitutto cercare di dare uno statuto a tale sapere: dove
individuarlo, tra quali limiti e quali strumenti scegliere per fornirne la
descrizione (nell’esempio proposto, come si può vedere, il materiale
disponibile è enorme, e va dalle abitudini quasi mute e trasmesse per mezzo
della tradizione, fino alle sperimentazioni ed ai precetti debitamente
trasmessi). Ma dovremo anche cercare di stabilire quali siano stati i suoi
strumenti e i suoi canali di circolazione, e inoltre se si è diffuso in maniera
omogenea in tutti i gruppi sociali e in tutte le regioni. Infine, dovremo tentare
di determinare quali possano essere stati i differenti livelli di un tale sapere, i
suoi gradi di coscienza, le sue possibilità di assestamento e di correzione. Il
problema teorico che cosí emerge è allora quello di un sapere sociale e
anonimo che non assume come modello o fondamento quello della
conoscenza individuale e cosciente.
Un altro gruppo di problemi concerne l’elaborazione del sapere in
questione in modo da trasformarlo in discorso scientifico. Tali passaggi, tali
trasformazioni e tali soglie sono ciò che presiede, in un certo senso, alla
genesi di una scienza, Ma invece di cercare, come è stato fatto in taluni
progetti di tipo fenomenologico, la genesi originaria di una scienza, il suo
progetto fondamentale e le sue condizioni primitive ed essenziali di
possibilità, dovremo piuttosto tentare di osservarne gli esordi aleatori,
insidiosi e molteplici. È talvolta possibile reperire e datare il testo decisivo
che costituisce, per una determinata scienza, il suo atto di nascita e in un certo
senso la sua carta iniziale (nell’ambito che mi servirà da esempio, i testi di
Naudin, di Mendel, di De Vries o di Morgan possono, di volta in volta,
aspirare a tale ruolo). Ma la cosa importante è piuttosto di determinare quale
trasformazione ha dovuto essere realizzata prima di tutti loro, attorno ad essi
e persino al loro interno, affinché un sapere potesse assumere lo statuto e la
funzione di conoscenza scientifica. Detto in altro modo, siamo qui di fronte al
problema teorico della costituzione di una scienza allorché la si vuole
analizzare non tanto in termini trascendentali, bensí in termini di storia.
Il terzo gruppo di problemi, infine, ha a che fare con la causalità
nell’ordine del sapere. È da molto tempo che sono state stabilite delle
correlazioni globali tra eventi e scoperte, o tra necessità di carattere
economico e sviluppo di un determinato ambito della conoscenza (si sa, ad
esempio, quale importanza abbiano avuto le grandi epidemie vegetali del XIX
secolo nello studio delle varietà, delle loro capacità di adattamento e della
loro stabilità). Ma bisognerebbe stabilire in maniera assai piú precisa in che
modo – ovvero per mezzo di quali canali e in base a quali codici – il sapere,
mettendo in atto scelte e modificazioni, comincia a registrare dei fenomeni
che fino a quel momento gli erano rimasti del tutto esteriori, in che modo
esso diventa ricettivo nei confronti di processi che gli erano risultati fino ad
allora estranei, e in che modo, infine, una trasformazione che si è verificata in
una delle sue regioni o ad uno dei suoi livelli, può venire trasmessa altrove e
lí produrre tutti i suoi effetti.
L’analisi di questi tre gruppi di problemi sarà sicuramente in grado di far
emergere il sapere in base al suo triplice aspetto: esso infatti caratterizza,
raggruppa e coordina un insieme di pratiche e di istituzioni; ma è anche il
luogo perennemente in divenire di costituzione delle scienze; ed è, infine,
l’elemento di una causalità complessa nella quale si trova imprigionata la
storia delle scienze. Nella misura in cui, in un’epoca determinata, esso
presenta delle forme e degli ambiti ben specificati, lo si potrà di conseguenza
decomporre in diversi sistemi di pensiero. Come si può osservare, non si
tratta assolutamente di determinare il sistema di pensiero di un’epoca ben
definita, ma neppure qualcosa che potrebbe essere intesa come la sua
«visione del mondo». Si tratta, al contrario, di identificare i differenti insiemi,
ciascuno dei quali reca un tipo di sapere del tutto particolare; ciascuno dei
quali correla dei comportamenti, delle regole di condotta, delle leggi, delle
abitudini o delle prescrizioni; ciascuno dei quali forma cosí delle
configurazioni al contempo stabili e suscettibili di trasformazione. Si tratta,
inoltre, di definire tra tutti questi diversi ambiti delle relazioni che potranno
avere carattere conflittuale, ma potranno anche essere relazioni di prossimità
o di scambio. I sistemi di pensiero risultano cosí essere le forme all’interno
delle quali, in un’epoca determinata, i saperi acquistano la loro singolarità,
acquisiscono un loro equilibrio ed entrano infine in comunicazione gli uni
con gli altri.
Nella sua formulazione piú generale, il problema con il quale ho avuto a
che fare presenta, forse, alcune analogie con quello che la filosofia si era già a
sua volta posta alcune decine di anni or sono. Collocata tra una tradizione
riflessiva della coscienza pura e un empirismo della sensazione, la filosofia si
era data il compito di trovare non tanto la genesi, o il legame, o la superficie
di contatto, bensí di individuare una terza dimensione: quella della percezione
e del corpo. La storia del pensiero esige forse, ai nostri giorni, un
riadattamento dello stesso ordine. Tra le scienze già consolidate (di cui è fatta
spesso la storia) e i fenomeni d’opinione (che sono gli storici a saper
affrontare), sarebbe necessario intraprendere la storia dei sistemi di pensiero.
Ma facendo cosí emergere la specificità del sapere, non ci si limita solo a
definire un livello di analisi storica fino ad ora trascurato. Si potrebbe anzi
ritenere che cosí facendo si finisce per essere costretti a reinterrogare la
conoscenza stessa, le sue condizioni e infine anche lo statuto del soggetto che
conosce.

1 Edizione originale: Titres et Travaux, Paris 1969. Si tratta della plaquette, redatta e pubblicata a
cura dello stesso Foucault, di presentazione e candidatura alla cattedra di Storia dei sistemi di pensiero
del Collège de France, Ripubblicata in Dits et écrits, I, 1954-1969, a cura di Daniel Defert e François
Ewald, Gallimard, Paris 1994, vol. I, pp. 842-46. Traduzione dal francese di M. Bertani.
Relazione prima1

Signor amministratore, miei cari colleghi, sono trascorsi quasi due anni da
quando Jean Hyppolite aveva reso partecipi molti di noi, per altro
pubblicamente, di un progetto rispetto al quale gli avevo dato il mio pieno
consenso. Il destino ha voluto che oggi fossi solo, e proprio nell’occasione
della sua morte, a riprenderlo, proponendovi di creare una cattedra di Storia
dei sistemi di pensiero.
I.

Prima di esporre le ragioni che, a parer mio, depongono a favore di questa


creazione per la novità e l’originalità dell’impresa che consentirebbe di
istituire, lasciate che io provi innanzitutto a situarla all’interno della
tradizione della filosofia in generale e, piú in particolare, di quella del
Collège de France.
Sarà possibile farsi un’idea piú chiara della natura di questa tradizione
risalendo alla ragione principale per la quale, con singolare insistenza, i
moderni criticano il dualismo stabilito da Descartes tra l’anima e il corpo, il
pensiero e l’estensione.
Tuttavia, come ricorda un libro ormai classico che dobbiamo ad uno dei
nostri colleghi, ridurre Descartes a tale dualismo vorrebbe dire
misconoscerlo. Significherebbe ignorare la teoria dell’unione sostanziale tra
questo stesso pensiero e questa stessa estensione. Ciò che l’autore delle
Meditazioni intendeva sostenere è che se ogni sostanza, separatamente
considerata, può esser conosciuta attraverso un’idea chiara e distinta, la loro
unione – dato che le sensazioni e i sentimenti che ne risultano e che la
esprimono sono semplicemente «guide per la vita» e non rappresentazioni
veramente oggettive – resta per principio refrattaria alla luce dell’intelligenza,
e le appartiene per natura la proprietà di commuoverci senza darci chiarezza.
È forse per ignoranza o per malafede che la tradizione filosofica entro cui
s’inscrive il progetto di cui vi parlo rifiuta la teoria cartesiana dell’unione? Vi
convincerete facilmente che non è cosí. La dicotomia istituita da Descartes tra
la chiarezza e distinzione delle idee e l’oscurità del senso, infatti, non può che
provocare ripulsa in tutti coloro che si rifiutano di considerare il fatto
dell’unione, vale a dire la vita stessa, come estraneo allo sviluppo concreto
della conoscenza, e che si sforzano di ritrovare, al di qua della separazione tra
idea e materia, l’unità dell’esperienza che sorregge entrambe.
Un tale sforzo caratterizza, in generale, la filosofia contemporanea sul
nostro continente. Piú in particolare, contraddistingue una tendenza che
fiorisce al Collège de France. Cosí, dal Saggio sui dati immediati della
coscienza a Le due fonti della morale et della religione, la metafisica
bergsoniana non ha cessato di delimitare e di descrivere l’intuizione della
durata, inaccessibile tanto a coloro che la frantumano e la materializzano
nello spazio quanto a quelli che la isolano come oggetto di riflessione pura
nell’eternità delle idee. Si rilegga, inoltre, Maurice Merleau-Ponty. La
Fenomenologia della percezione poneva direttamente il filosofo all’interno
dell’esperienza del corpo proprio, che non consiste né nel fascio di reazioni
riflesse a cui crede di poterlo ridurre il fisiologo nel suo laboratorio, né nella
coscienza trascendentale in cui lo sublima l’idealismo filosofico. Un libro
postumo, pubblicato in questo mese, ricorda il tema, unico nelle sue
molteplici variazioni. «Il pensiero – dice l’autore – non è il percepito, la
conoscenza non è la percezione, la parola non è un gesto tra tutti gli altri
gesti, ma è il tramite del nostro movimento verso la verità, cosí come il corpo
lo è dell’essere nel mondo». Dovrò infine ricordare che, nel suo progetto
d’insegnamento di storia del pensiero filosofico, Jean Hyppolite aveva
ricondotto le sue meditazioni alla formula del giovane Hegel «pensare la
Vita», terminando la sua esposizione con l’impegno di «misurare il senso
della Verità nel contesto dell’esperienza umana»?

La cattedra di Storia dei sistemi di pensiero di cui ho l’onore di proporvi la


creazione sarebbe destinata a continuare, rinnovandola, la tradizione non
cartesiana di cui ho parlato, e della quale non ho bisogno di mostrare
l’importanza, avendo fatto riferimento a filosofi che l’hanno a loro volta
illustrata.
Sarebbe però necessario, per procedere secondo le consuetudini, che vi
mostrassi ora come l’insegnamento proposto arrivi a distinguersi dal
vitalismo, dalla fenomenologia e dall’hegelismo. Basterà tuttavia, a far
emergere tutto questo, l’analisi positiva del progetto.
Non mi addentrerò nell’esposizione dei temi che costituiscono la materia
di questo progetto, né dei metodi specifici che vi si applicano: formazione di
una scienza dell’ereditarietà, criminalità e criminologia. Mi limiterò a
descriverne l’intenzione filosofica generale e a mostrarne lo spirito.
II.

Cosa si dovrà intendere, in primo luogo, per «pensieri»?


Tra la psicofisica o la psicofisiologia da una parte, la riflessione dall’altra,
la fenomenologia della percezione aveva definito un oggetto specifico al
livello dell’esperienza che noi abbiamo del nostro corpo. Allo stesso modo,
tra gli annali che censiscono le opinioni degli uomini e la storia tradizionale
delle scienze che studia la formazione delle idee nella misura in cui queste
vengono espresse in un linguaggio specifico e ben definito, prende posto la
descrizione dei pensieri. Si tratta di condotte e comportamenti non ancora
oggettivati o riflessi nella rappresentazione elaborata dalla teoria scientifica,
dall’arte o dalla letteratura, e la loro descrizione ha come fine di mostrare a
quale esperienza individuale e sociale dà luogo il legame che intrecciano con
determinate istituzioni, con alcune tecniche, con certe pratiche.
Cosí, ad esempio, lo studio dei sistemi di detenzione potrebbe fornirci, a
proposito della libertà, lumi che non si trovano né nella storia secondo
Michelet né nella metafisica secondo Kant. Allo stesso modo, lo studio degli
ospedali, e del modo in cui vi si trattano i malati, lascia vedere, della vita e
della morte, quello che né la filosofia né la storia della medicina mostrano.
Noi siamo a tal punto abituati alle istituzioni nelle quali viviamo che
tendiamo a considerarle come fatti di natura, per altro privi di incidenza sul
nostro modo di considerare l’universo. Quanto ai concetti, i libri di carattere
teorico ce li descrivono in termini cosí astratti che la loro data e la loro
origine ci appaiono estranee alla loro natura, al punto che ci è facile
immaginarli interamente preformati nel cielo delle idee, in paziente attesa che
un qualche uomo di scienza li presenti sulla scena del mondo. I pensieri,
invece, almeno nel senso che diamo qui a questa parola, sono prima di tutto
delle relazioni, viventi e vissute, tra la pratica e la teoria, tra l’istituzione e il
concetto.
È possibile anche vedere in che modo i pensieri, attraverso i nessi che li
collegano alle istituzioni, si distinguono dalle realtà intermediarie o dalle
ricerche delle origini di cui il vitalismo e la fenomenologia facevano il loro
oggetto. Per differenziarli dalle figure hegeliane, basterà far intravedere, in
breve, il metodo che il loro studio richiede.
La posizione di Hegel, nella misura in cui pretende di conciliare
l’individualità storica con la totalità razionale, rischia sempre di annullare in
quest’ultima ciò che la prima può avere di specifico o di singolare. I pensieri,
al contrario, sono formazioni plurali e contingenti.
Come potrebbe, del resto, essere altrimenti, dal momento che ci si propone
di analizzare dei tipi di comportamenti anziché le catene dei concetti o le
grandi epoche della civiltà entro cui, secondo Hegel, s’incarnava, seguendo
leggi necessarie, lo spirito del tempo? I pensieri sono affidati ad archivi
diversi e deperibili. Questa relazione richiede alla filosofia che li studia di
assoggettarsi ad un metodo nuovo. Per quanto concerne la predisposizione
dei documenti, questo metodo nuovo è quello della storia. Oltre che negli
scritti e nei discorsi, i suoi archivi si trovano nei registri degli ospedali, in
quelli della polizia, in quelli dei manicomi. Per questa ragione i pensieri si
trovano associati a contenuti empirici determinati, alla cui formazione ed
evoluzione si addicono ritmi lenti e profondi, al di sotto dei cambiamenti
improvvisi delle opinioni e della storia breve dei concetti.
III.

Proviamo dunque a considerarli, sia là dove sono piú coinvolti nelle


pratiche e nelle istituzioni, sia là dove – come saperi piuttosto che come
scienze – si avvicinano ai concetti teorici senza tuttavia confondersi con essi.
In nessun caso i pensieri sono entità che potrebbero esser colte in una
condizione di isolamento. Formano piuttosto dei sistemi, e sono proprio
questi che ora dobbiamo considerare piú da vicino.
La storia classica delle scienze era concentrata unicamente sullo studio
delle continuità. Credeva pertanto di aver tracciato lo sviluppo di una nozione
quando ne aveva individuato l’origine nell’Antichità classica o preclassica, e
dopo che ne aveva ripercorso le eclissi, le rinascite e le trasformazioni sino al
momento in cui poteva prender posto nel corpo costituito di una scienza.
Cosí, una storia dell’atomismo prende generalmente le mosse da Leucippo e
Democrito, e colloca sullo stesso piano un insieme di speculazioni, di
osservazioni, di calcoli, di esperimenti e di teorie che comprende dati del
tutto eterocliti come il materialismo filosofico, la speculazione antica e
alchemica sugli elementi, la nozione euclidea di corpi regolari, il calcolo
degli indivisibili, la teoria chimica degli elementi, ovvero, in sintesi, sia il
clinamen di Epicuro che il salto quantico.
Si vede da subito quanto sia pericoloso interpretare gli atomi degli Antichi
attraverso le idee dei Moderni, come se queste ultime potessero rischiarare
d’un tratto i dati confusi e incerti del passato e garantire cosí alle concezioni
da loro prescelte un fondamento oggettivo e uno statuto scientifico.
Ugualmente pericoloso risulta anche paragonare due stati talora molto vicini
di quella che ci appare come una stessa disciplina, cedendo in quel caso, per
un movimento naturale della mente, a quelle che Bergson chiamava le
illusioni retrospettive. Attraverso procedimenti di questo genere noi
rischiamo costantemente di oltrepassare i limiti di un determinato sistema
discorsivo, facendo dire a una parola o a un’idea piú di quanto potessero
contenere, considerato l’insieme delle parole e delle idee entro le quali esse si
trovavano definite o per lo meno situate. È molto difficile prendere coscienza
di tali limiti quando viviamo e pensiamo all’interno del sistema che essi
ancora delimitano. Costituiscono infatti un orizzonte famigliare e proprio per
questo quasi impercettibile, ed impongono un corso regolato benché non
immediatamente visibile alle pratiche e alle speculazioni degli uomini.
Considerare le parole e le idee entro questi legami che formano un
sistema, e dunque entro le leggi che le raggruppano e le distinguono, significa
vederle come pensieri. In altri termini, come pratiche istituzionalizzate o a
titolo di saperi empirici, definiscono, dal punto di vista in cui noi ci poniamo,
dei veri e propri a priori storici – che per altro non potremmo ricondurre ad
un canone unico – l’indagine sui quali, specifica per ogni epoca e per ogni
insieme di saperi, mostrerà i nessi interni ed i rapporti con altri insiemi.
Quando assume come proprio oggetto dei saperi empirici relativamente
autonomi rispetto alle istituzioni, lo studio dei sistemi di pensiero dà luogo, in
particolare, ad una epistemologia comparata che pone meglio in evidenza la
natura delle relazioni che li governano. Può infatti accadere che tra piú
sistemi differenti, come ad esempio la grammatica generale, la storia naturale
e l’analisi delle ricchezze nel XVIII secolo, tali relazioni siano analoghe,
anche se gli elementi che servono loro come argomenti specifici non hanno
nulla in comune nella loro sostanza. Si possono allora individuare
correlazioni e differenze tra questi sistemi, che contribuiscono a precisare la
loro individualità. Può anche accadere che, indipendentemente dai criteri
tassonomici che consentono di classificare gli elementi, noi riusciamo a
cogliere regole di derivazione i cui termini non sono dati al livello degli
elementi, benché questi siano necessariamente utilizzate per approdare ad
essi. La sintassi propria a tali sistemi può essere concepita come una serie
ordinata di operazioni, secondo il modello – ripreso dalla scienza nello stesso
momento in cui la pedagogia lo abbandona – di quelle operazioni che
svolgevamo a scuola allorché imparavamo ad analizzare grammaticalmente
una frase. È dunque, ad esempio, l’insieme e l’ordine di queste regole astratte
a cambiare e, tramite loro, si completerà il paragone a proposito delle
relazioni tra elementi concreti e superficiali.
Se si vogliono esempi piú vicini a noi, si osservino gli sviluppi attuali di
un certo gruppo di scienze umane. Si esamini l’uso che la linguistica,
l’etnologia, la mitologia, la storia delle religioni fanno di concetti come quelli
di opposizione differenziale, di sistema di opposizioni, di comparazione tra
sistemi. Si potrà scorgere in quest’uso una nuova illustrazione di quelli che
sono i sistemi di pensiero che ci si propone di studiare, con la differenza forse
che quelli che si costituiscono oggi sotto i nostri occhi prendono coscienza
molto piú chiaramente, rispetto a quanto avessero fatto i loro predecessori,
della loro natura e delle affinità che li avvicinano gli uni agli altri.
IV.

Restano da considerare i sistemi di pensiero nel tempo, resta da descrivere


il modo in cui essi appaiono, si stabiliscono, cadono in disuso, e restano da
paragonare tra loro queste storie specifiche. Per esempio, i sistemi piú
strettamente legati e come asserviti alle pratiche istituzionali si svilupperanno
in maniera del tutto diversa da quelli che dispongono di maggior libertà in
rapporto a tali pratiche. Anche quando tra loro si rivelassero correlazioni ed
analogie, essi vivranno, a causa del loro asservimento o della loro libertà,
tempi del tutto peculiari. Gli uni potranno aspettare a lungo prima che il
sapere pratico che li costituiva inizialmente si trovi sistematizzato o
legittimato in opere teoriche; per gli altri, invece, non si osserverà un tale
scarto tra quei due momenti. Analogamente, se esaminiamo in che modo un
sistema di pensiero si sostituisce ad un altro, come ad esempio la biologia ha
preso il posto della storia naturale, si scorgono all’opera delle soglie di
rottura, dei modi di spezzare, di conservare, di reinterpretare e di prendere a
prestito che sembravano specifici di quei sistemi e di cui nulla a priori
assicura o anche solo suggerisce che li si ritroverà entro altre successioni
studiate pur entro sistemi vicini o per cosí dire omologhi.
Attraverso l’insieme delle sue considerazioni relative al tempo, una storia
dei sistemi di pensiero evoca le altre storie. Essa sembra inizialmente non
distinguersi dalle altre se non per il suo ambito e per l’attenzione scrupolosa
che rivolge ad una singolare suddivisione della cronologia e dei ritmi. Ma,
stando ai suoi intenti, queste differenze ne nasconderebbero un’altra, piú
profonda e rivelatrice di un progetto filosofico originale. Basterà tuttavia un
breve cenno a tale riguardo per consentirmi di concludere facendo ritorno al
mio proposito di partenza.
Quando lo storico interpreta i suoi documenti, in genere nel momento
stesso in cui ne stabilisce il significato per cosí dire interno – questa è
un’iscrizione funeraria, questo è un contratto di matrimonio, quest’altra è una
promessa di vendita, ecc. – cerca di inferire e di ricostruire l’intenzione
umana che ciascuno esprime e, attraverso quella, il significato sociale del
comportamento dell’individuo, del tipo di individui, del gruppo, della classe
sociale, ecc., di cui tali documenti sono rivelatori.
In base alla natura del documento scelto come caratteristico, la storia
cambierà stile, insistendo ora su individui e avvenimenti, ora su collettività e
lunghi periodi. Ma, in ogni caso, si partirà dalla supposizione che un
documento esprima il movimento di un soggetto che è necessario decifrare.
Cosí l’uomo funge sempre da elemento intermedio tra le parole e le cose, e se
qualche nuova idea fa la sua apparizione si sarà in diritto di domandare: chi
l’ha inventata? Quale individuo o quale gruppo? Chi l’ha diffusa e utilizzata?
In modo che non è estendendo a delle comunità la responsabilità delle
innovazioni che comunque ci si sbarazza della nozione di soggetto creatore.
Per la storia dei sistemi di pensiero, al contrario, gli attori che credono di
farla non occupano piú il proscenio. Parlare, tenere discorsi «significa
certamente agire; ma non equivale ad esprimere ciò che si pensa, né a
tradurre quel che si sa, né a mettere in gioco le strutture di una lingua». Di
conseguenza «un cambiamento nell’ordine del discorso non presuppone da
parte dei locutori né idee nuove, né invenzioni, né creatività», ma solamente
una serie di trasformazioni che possono essere trovate al livello stesso del
discorso e che si verificano entro una pratica anonima.
La storia dei sistemi di pensiero non è dunque per nulla una storia
dell’uomo o degli uomini che li pensano. In fin dei conti, è perché resta preso
nei termini di quest’ultima alternativa che il conflitto tra materialismo e
spiritualismo oppone fratelli nemici, cioè che si contrappongono, certo, sulla
stessa identica questione: come soggetti dei pensieri si scelgono degli
individui o dei gruppi, ma in ogni caso pur sempre dei soggetti. Chi provasse
a dubitarne, rilegga la frase di Marx, spesso citata, che distingue dall’ape
l’architetto in base al fatto che questi costruisce la casa dapprima nella sua
testa. L’abbandono di questo dualismo e la costituzione di un’epistemologia
non cartesiana, come si vede, esigono di piú: eliminare il soggetto
conservando i pensieri, e tentare di costruire una storia senza natura umana.

1 Relazione di Jules Vuillemin di fronte all’Assemblea dei docenti del Collège de France del 30
novembre 1969 in vista della creazione di una cattedra di Storia dei sistemi di pensiero (erede di quella
intestata a Jean Hyppolite). Edita in D. Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Paris 1991, pp. 366-71
(traduzione dal francese di Valeria Zini).
Relazione seconda1

Signor amministratore, miei cari colleghi, Michel Foucault si presenta al


primo posto per la cattedra, che voi avete deciso di creare, di Storia dei
sistemi di pensiero. È venuto a incontrare ciascuno di voi. Vi ha consegnato
un profilo biografico, una nota bibliografica e una relazione sul suo
insegnamento.
Io mi limiterò dunque a ripercorrere brevemente davanti a voi la sua
carriera intellettuale, analizzando in ordine cronologico le opere principali
che la contrassegnano. Prenderò poi in esame alcuni aspetti
dell’insegnamento che è proposto alla vostra approvazione.
I.

È un episodio della storia del pensiero quello che M. Foucault, all’incirca


quindici anni fa, si è proposto di rintracciare in Storia della follia nel XVII e
XVIII secolo. Quel libro lo ha reso celebre. I lettori hanno avvertito da subito
che l’autore aveva, su alcuni aspetti fondamentali, modificato o addirittura
rovesciato la tradizione di tale storia.
In primo luogo, Foucault aveva dovuto riconsiderare la scelta dei
materiali analizzati. Quando ci si accontentava di fare la storia di un concetto
o di una teoria, ci si rifaceva ai trattati scientifici e alla letteratura filosofica o
religiosa. Ma, prima di essere un concetto medico, la follia rappresenta in una
società una certa modalità di separazione tra gli individui, una esclusione che
possiede i suoi criteri, i suoi riti e le sue sanzioni. La medicina interviene solo
in un secondo momento per giustificare, spiegare, ed eventualmente
rettificare gli effetti di questa separazione. È stato dunque necessario
ricercare in che modo, nell’epoca classica, si scoprivano e si riconoscevano i
folli, quali erano il loro statuto, il loro regime, le loro istituzioni. Gli archivi
della polizia e delle case d’internamento, le regolamentazioni legali o
consuetudinarie, gli atti di giustizia hanno fornito all’autore le sue fonti. Ha
studiato gli imperativi economici e sociali a cui rispondeva l’«internamento»,
dal momento che a fianco dei malati di mente, e al loro stesso titolo,
venivano messi i disoccupati, gli oziosi, i vecchi indigenti; le case
d’internamento mostravano in che modo la società classificava, sottoponeva a
costrizione, reprimeva e curava.
Una storia del pensiero cosí concepita ha per materiali principali gli
archivi anziché i testi, le istituzioni e le tecniche piuttosto che le teorie. Di
conseguenza, si scopre il pensiero nelle sue forme collettive, spogliate delle
varianti individuali. In questa prospettiva, le trasformazioni lente tendono a
distaccarsi dalle invenzioni originali e il ruolo delle determinazioni
economiche, politiche e sociali diventa piú importante di quello della
coerenza logica.
Diventava a quel punto possibile chiedersi se analisi di questo tipo
restavano valide anche quando ci si lasciava alle spalle nozioni vaghe come
quella di «follia», per applicarle a forme di pensiero piú sistematiche. Questa
estensione ha condotto l’autore ad apportare una seconda modifica alla storia
tradizionale del pensiero: modifica che concerne in questo caso l’ambito
dell’analisi. È stato questo l’oggetto del libro Nascita della clinica,
un’archeologia dello sguardo medico [1963]. Di solito, l’interesse si
suddivide tra i fenomeni d’opinione e le scienze rigorose, abbandonando il
campo intermedio delle conoscenze empiriche che, pur non potendo
pretendere al rango di scienza, nondimeno possono presentare, nel corso della
loro storia, una certa regolarità.
Per un oggetto di tal genere, la medicina clinica forniva un esempio
privilegiato. A una prima considerazione, due fatti colpiscono lo storico. La
medicina empirica sembra soggetta a tutta una serie di elementi esteriori,
legata come essa è, nella sua esistenza e nel suo sviluppo, a istituzioni e a
condizioni economiche o sociali. Da un altro lato, essa dipende dal progresso
di scienze come la chimica, la fisiologia, la biochimica, e ricorre
costantemente alle tecniche di laboratorio. Sembra dunque essere il luogo
d’incontro di scienze diverse e di condotte pratiche. Se si pensa che quasi
tutte le scoperte dei primi clinici (Bichat, Laennec, Bayle) hanno dovuto
essere non rettificate ma puramente e semplicemente abbandonate, come si
potrebbe cercarvi la fase iniziale di una scienza? La storia della clinica,
tuttavia, mostra che si tratta in quel caso di un sapere specifico, costituito da
concetti specifici (come quelli di «tessuto» o di «focolaio lesionale»), di
metodi caratteristici (come il quadro dei segni patognomonici), e di
osservazioni passibili di essere confermate o smentite. Malgrado tutti gli
errori di fatto da cui ha preso le mosse, la clinica deteneva già i principî di
metodo che le avrebbero ben presto consentito di eliminare quegli errori e di
stabilire nuove verità. Il fatto è che essa possedeva, a partire dagli inizi del
XIX secolo, una relativa autonomia ed una sua certa fecondità scientifica.
Cosí, la storia del pensiero aveva interesse a raggruppare e a caratterizzare
degli insiemi di conoscenze e di tecniche che possiamo chiamare dei saperi
per distinguerli tanto dalle semplici opinioni quanto dalle scienze
propriamente dette.
Come analizzare questi saperi e come individualizzarli? Anche in questo
caso la storia tradizionale del pensiero non sembrava offrire gli strumenti
necessari per l’analisi. O accettava, infatti, la suddivisione tradizionale delle
scienze per seguire lo sviluppo continuo di ciascuna di esse, oppure riusciva a
cogliere i loro legami e la loro unità solo descrivendo lo spirito di un’epoca.
Occorreva dunque, questa volta, modificare il punto di vista dell’analisi. Solo
uno studio comparativo avrebbe permesso di sfuggire agli scogli che
attendono al varco la storia del pensiero: la monografia e la metafisica.
Questa comparazione può farsi in due direzioni, dato che è possibile
mettere a confronto diversi saperi simultanei, oppure differenti forme di
saperi successive. Il primo metodo consentirà di individuare famiglie di
saperi; il secondo di cogliere il loro processo di trasformazione. Le parole e
le cose [1966] è stato dedicato a stabilire questo duplice confronto.
All’epoca classica, grammatica generale, storia naturale e analisi delle
ricchezze comportavano un certo numero di elementi comuni: nozioni come
quelle di segno e di ordine, metodi come la ricostituzione di una genesi a
partire da uno stato primitivo e semplice, teorie come quelle della
rappresentazione. Foucault ha cercato di determinare quale uso ciascuna delle
discipline studiate poteva fare di questi elementi comuni, secondo quale
schema specifico li distribuiva; in cosa erano analoghe, in cosa differenti. Si
delineavano cosí dei sistemi di pensiero intermediari, in virtú della loro
estensione, tra conoscenze particolari e le forme piú generali del pensiero.
Inoltre, ciascuna di queste discipline ha subito, verso la fine del XVIII
secolo, una modificazione importante e doppiamente significativa. In primo
luogo ha preso forma una serie di discipline nuove: la grammatica storica ha
sostituito la grammatica generale, la storia naturale ha fatto posto alla
biologia, e l’economia politica ha rimpiazzato l’analisi delle ricchezze. In
secondo luogo, questa trasformazione si è operata in modo improvviso,
attraverso un rinnovamento generale dei concetti e dei metodi, che ha
spezzato la vecchia parentela di queste discipline. Bisognava dunque
analizzare non la fortuna di un’idea o di una teoria, ma la solidarietà di questi
cambiamenti simultanei, la loro gerarchia, le nuove connessioni che ne
sarebbero risultate.
Queste tre linee d’indagine suggeriscono che era possibile orientare la
storia del pensiero verso lo studio dei sistemi i quali, piuttosto che scienze o
rapsodie di opinioni, formano dei saperi e che si trovano investiti all’interno
di istituzioni, tecniche, comportamenti. Veniva ad essere cosí definito il
compito di una storia dei sistemi di pensiero.
II.

M. Foucault si propone di proseguirne diversi aspetti particolari. In primo


luogo, continuare gli inventari cominciati, individuare dei nuovi sistemi,
analizzarli nella organizzazione che è loro propria e nelle trasformazioni che
li interessano; in secondo luogo, provare quali strumenti richiede un’analisi di
questo genere, quali metodi e quali concetti siano piú adatti alla storia dei
saperi; infine porre i problemi teorici che derivano da questo studio.
L’insegnamento, al Collège de France, dovrebbe avere il compito di dare
corso a questi tre livelli di ricerche.
Ogni anno una parte delle lezioni potrebbe essere dedicata alla
continuazione delle indagini storiche. Una tra queste è già pronta. Essa
concerne il sapere relativo all’ereditarietà nel XIX secolo. Si tratta certo, in
questo caso, di un sapere «investito», nel senso che è stato dato in precedenza
a questa espressione: esso era all’opera nelle pratiche dell’agronomia e
dell’allevamento e, prima ancora della sua elaborazione in una biologia
dell’ereditarietà, è stato proprio tale sapere a permettere nella pratica la
ricerca e la determinazione di varietà interessanti, la costituzione di
discendenze pure, la conservazione di certe mutazioni; il progresso delle
tecniche agricole del XIX secolo è stato legato, per una sua parte, allo
sviluppo di questo sapere. Si tratta inoltre di un insieme di conoscenze che, se
non risultano scientifiche dal punto di vista della genetica contemporanea,
non si limitano tuttavia ad una semplice collezione di opinioni tradizionali e
formano un «sapere» dotato di una propria coerenza. Se ne vedrà la prova nel
fatto che Darwin ha potuto assumere la pratica umana dell’allevamento come
modello dell’evoluzione delle specie; o ancora nel fatto che la nozione di
tratto ereditario discreto e recessivo è stata acquisita a livello di questa
pratica, prima ancora di aver ricevuto il suo statuto fisiologico. Infine, questo
sapere può essere caratterizzato in maniera differenziale: lo si può paragonare
a quello che era un secolo prima, prima della trasformazione della proprietà
fondiaria, della costituzione delle grandi imprese agricole, del passaggio ad
una coltura intensiva, dello sviluppo delle coltivazioni coloniali,
dell’organizzazione di un insegnamento e di una ricerca agronomica. Lo si
dovrebbe confrontare con ciò che la fisiologia dell’epoca poteva conoscere
dei meccanismi della riproduzione, e con ciò che la medicina sapeva della
trasmissione delle malattie ereditarie; infine, sarebbe necessario individuare
la trasformazione in virtú della quale questo sapere e queste diverse
conoscenze scientifiche si sono integrate all’inizio del xx secolo in una
scienza dell’ereditarietà.
È prevista anche una seconda ricerca. Essa dovrebbe continuare, in un
certo senso, la Storia della follia, ma relativamente a un’altra epoca e con un
oggetto un po’ differente. Si tratterebbe di determinare in che modo, nel XIX
secolo, si è cercato di costituire un sapere della devianza (al contempo
patologia, psicologia, sociologia del crimine, delle nevrosi, dei disadattamenti
sociali); questo sapere è stato reso possibile dall’esistenza di tutta una serie di
meccanismi di controllo (amministrativo, politico, medico) e a sua volta ne
ha rettificato l’uso. Esso si è a sua volta fondato, d’altra parte, su conoscenze
o tecniche, come la statistica, la psicoanalisi, la genetica. Ma questo sapere
non è fino ad ora diventato scienza, e forse non lo sarà mai. Tuttavia è per
suo tramite che la nostra società afferma alcuni dei suoi valori fondamentali e
garantisce le separazioni che la proteggono.
La parte restante dell’insegnamento potrebbe essere dedicata – un anno su
due – sia a questioni di metodo sia a problemi teorici.
Le questioni di metodo dovrebbero essere oggetto, secondo Foucault, di
un lavoro di équipe. La storia dei sistemi di pensiero non può infatti limitarsi
al commentario dei testi, e avrà da guadagnare ispirandosi all’esempio che le
viene fornito da altre discipline. Con l’aiuto degli storici, M. Foucault si
propone di determinare qual è il corpus dei documenti di cui ci si dovrà
interessare, quali archivi sono significativi, quali serie omogenee possono
esser stabilite, di quale trattamento quantitativo sono suscettibili (legandosi
alle ricerche sul sapere relativo all’ereditarietà, si potrebbe cercare – ad
esempio – di determinare le serie documentarie che permettono di individuare
la trasmissione e la diffusione delle tecniche agricole nel XIX secolo). Con
l’aiuto dei linguisti, andrà alla ricerca dei metodi che possono essere utilizzati
per fare l’analisi semantica dei contenuti e per stabilire la tipologia delle
diverse forme di discorso (si potrà ad esempio studiare la qualificazione del
crimine all’interno dei testi giuridici, delle opere letterarie, dei lavori di
medicina del XIX secolo). Esaminerà infine in che modo, nello studio delle
civiltà diverse dalla nostra, si fa l’inventario delle tecniche e delle
conoscenze, in che modo le si mette in relazione con condizioni economiche
e forme sociali (si potrebbe stabilire questo confronto a proposito del sapere
medico, in un’epoca determinata, nella società europea e nelle civiltà arabo-
musulmane). È mediante il ricorso a questi metodi che la storia del pensiero
potrà affrancarsi dallo stile interpretativo e impressionista che l’ha
caratterizzata fino ad oggi.
Anche i problemi teorici dovranno essere a loro volta considerati. Al
primo posto, la teoria della conoscenza: in che cosa, se si ammette l’esistenza
dei saperi, si deve modificare questa teoria che nella sua forma classica non
riconosce loro un posto? Il sapere, infatti, non appartiene né all’ordine
dell’esperienza sensibile né a quello del pensiero puro. Da una parte, secondo
Foucault, serve quale condizione di possibilità a conoscenze che, senza di
esso, non potrebbero né apparire né coordinarsi; e tuttavia esso ha, a sua
volta, un’esistenza storicamente limitata: si forma attraverso il tempo e a
partire da condizioni determinate, funziona per una certa durata, e in costante
correlazione con un contesto tecnico, economico, materiale; scompare infine
in seguito ad un certo numero di trasformazioni di cui alcune riguardano la
sua organizzazione interna, le altre invece le sue condizioni esteriori. Alla
luce di simili considerazioni, M. Foucault riprenderà l’esame tanto della
concezione formalista delle condizioni a priori della conoscenza quanto della
concezione fenomenologica dei significati che sono in gioco nell’esperienza.
Il secondo problema che si propone di trattare è quello del soggetto; il
carattere collettivo e anonimo del sapere non deve forse rimettere in
questione il ruolo che la filosofia assegna in genere al soggetto e alla
coscienza? Il sapere deve certo essere ritrovato al livello delle coscienze
individuali, nella pratica degli uomini di un’epoca, nel loro comportamento,
nelle loro decisioni, o nei loro discorsi; ma d’altra parte il sistema che collega
e rende coerenti i diversi elementi di questo sapere sfugge a coloro stessi che
lo vivono; gli individui possono sí possedere delle conoscenze, utilizzare dei
concetti, fare delle scoperte, introdurre delle novità rese possibili da questo
sapere; resta tuttavia il fatto che essi non ne possiedono consapevolmente né
il principio di regolarità, né le condizioni di trasformazione. Le idee, le opere
e le pratiche sono definite all’interno di questo sapere. Si dovrà dunque
assegnare uno statuto a questo «inconscio» del sapere, confrontandolo ad
altre regolarità di carattere inconscio, sia individuali (come quelle di cui si
occupa la psicoanalisi) che collettive (come quelle studiate dalla linguistica o
dall’etnologia).
M. Foucault esaminerà, infine, il problema della causalità nell’ordine del
pensiero; le trasformazioni del sapere non seguono lo sviluppo regolare di
una genesi, e tuttavia non sono il risultato diretto e immediato di processi
esterni, che colpiscono la coscienza umana, arrivando ad iscriversi al suo
interno. Le questioni tradizionali della storicità delle conoscenze devono
essere riprese a partire dall’esistenza dei saperi come sistemi determinati,
evolutivi e investiti negli elementi materiali di una civiltà.

1 Relazione di Jules Vuillemin di fronte all’Assemblea dei docenti del Collège de France del 12
aprile 1970 per la presentazione della candidatura di Michel Foucault alla cattedra di Storia dei sistemi
di pensiero. Edita in D. Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Paris 1991, pp. 372-76 (traduzione dal
francese di Valeria Zini).
Postfazione
di Mauro Bertani

Ci sono uomini che passano nel


mondo come una lama tagliente
D. GROSSMAN

Quello che il lettore ha appena finito di leggere, o di rileggere, è un vero e proprio manifesto teorico,
un programma di ricerca minuzioso e dettagliato, che gli anni di lavoro venuti dopo si incaricheranno di
realizzare e, in qualche caso, di correggere, di trasformare, o addirittura di smentire, con tutta una serie
di promesse non mantenute, ma anche di aperture insospettate; un testo nel quale, se anche non per la
prima volta, certo comunque con una chiarezza esemplare, quel formidabile inventore e creatore di
concetti, o come lui preferiva definirsi, quel bracconiere, quell’armaiolo, quel fabbricante di strumenti
sempre destinati a servire e funzionare all’interno di una lotta, di uno scontro, di un affrontamento
suscitati dall’attualità, che egli è stato, Foucault dichiara che è dalla parte dell’«astuto sofista» che
dovrà venire situata la sua impresa teorica. Dalla parte, cioè, di un progetto che, in esplicita opposizione
alla grande e nobile tradizione filosofica votata alla ricerca di una verità eterna ed assoluta, ha elaborato
«una pratica ed una teoria del discorso essenzialmente strategica», come dirà nel 1973, una pratica che
fa cioè, dei discorsi, delle armi, e che nel progetto teorico delineato ne L’ordine del discorso viene
messa in atto in vista della realizzazione di tre obiettivi, questi: «Rimettere in questione la nostra
volontà di verità; restituire al discorso il suo carattere di evento; togliere via infine la sovranità del
significante». Preludio ad una elaborazione del concetto di discorso (e di sapere) che sempre piú
chiaramente ne rigetterà l’elaborazione more psychoanalytico o la concezione sub specie semiologiae
che in quegli anni dominavano la scena teorica, e che comporterà il ricorso ad un tipo di analisi che non
farà piú riferimento all’ordine simbolico e «al grande modello della lingua e dei segni», come dirà poi,
bensí a quello «della guerra e della battaglia», destinato a sua volta a conferire alla storia una
intelligibilità che è quella «delle lotte, delle strategie e delle tattiche», senza che all’orizzonte possa
profilarsi nessuna dialettica destinata a schivarne «il carattere violento, sanguinoso, mortale», la realtà
bellicosa, aleatoria, virtualmente indecidibile. Un progetto in cui l’eterno e il contingente, l’empirico e
il trascendentale, il finito e l’infinito (di una filosofia o di una battaglia teorica congiunturale), si
embricano inestricabilmente, fino a confondersi, fino ad essere, forse, la parodia l’uno dell’altro.
Insomma, niente lacrime, ma opere (non necessariamente di bene), ovvero del lavoro, ancora e sempre,
interminabile, possibilmente accompagnato da una certa gaiezza. Questa la funzione protrettica affidata
al testo che il lettore ha tra le mani. Anche se tutto ciò non deve farci dimenticare che siamo comunque
di fronte ad un discorso solenne. L’ordine del discorso è infatti il testo della lezione inaugurale di
Foucault al Collège de France pronunciata il 2 dicembre 1970. Alla riedizione del testo abbiamo
aggiunto, in appendice, Titoli e lavori, che è invece la plaquette di candidatura al Collège de France
redatta e pubblicata a cura dello stesso Foucault nel 1969, nella quale – com’è tenuto a fare chiunque si
candidi di fronte all’Assemblea dei professori del Collège – egli presenta una breve sintesi dei propri
lavori e delle proprie ricerche anteriori, insieme ad un’altrettanto rapida esposizione delle linee generali
del progetto d’insegnamento che ha in animo di sviluppare nel corso dell’attività a venire. A completare
il dossier relativo agli esordi dell’avventura foucaultiana al Collège, i due interventi di J. Vuillemin.
Filosofo appartato e autore di un’opera austera e rigorosa, titolare della cattedra di «Filosofia della
conoscenza» al Collège, sarà Vuillemin, sostenuto da Dumézil e Canguilhem, a proporre all’Assemblea
dei professori la trasformazione della cattedra di «Storia del pensiero filosofico», che era stata di J.
Hyppolite, in cattedra di «Storia dei sistemi di pensiero». Quattro mesi dopo, ratificata l’istituzione
della suddetta cattedra, sarà di nuovo Vuillemin a presentare la candidatura alla titolarità di Foucault. I
due testi sono dunque un documento significativo della vicenda istituzionale ed intellettuale di
Foucault, e, pur nella loro brevità, anche una interpretazione perspicua della sua opera, di cui viene cosí
indicata l’intenzione di fondo: costituire un’epistemologia non cartesiana, che per venire realizzata
esige due condizioni: «eliminare il soggetto conservando i pensieri, e tentare di costruire una storia
senza natura umana». È appena il caso di notare che qualunque asserzione relativa alla effettiva
realizzazione di tale progetto dovrà essere sospesa – pena la caricatura – fino a quando non disporremo,
nella loro integralità, dei materiali relativi alla lunga e perigliosa navigazione di Foucault al Collège.
Per molto tempo ancora dovremo continuare ad affidarci a L’ordine del discorso per conoscere gli
esordi dei tredici anni di ricerca e lavoro – per una certa parte animati, è vero, da una «pigrizia
febbrile», com’egli stesso la chiamava, ma in ogni caso indiscernibili, com’egli dirà, da una serie di
«offensive disperse e discontinue» volte a mostrare «l’immensa e proliferante criticabilità delle cose,
delle istituzioni, delle pratiche, dei discorsi» – svolto da Foucault al Collège de France. Per descrivere il
quale proveremo a partire da una definizione, questa: il Collège è un luogo «in cui la parola è libera»,
come pare abbia detto P. Valery ad un ufficiale tedesco durante l’occupazione, per notare subito che
proprio alla parrhêsia, al «dir vero», al «parlar franco», alla «libera parola», al «coraggio della verità»
proferita dinanzi al potere, anche a rischio della vita, saranno dedicate le ultime ricerche di Foucault e i
suoi ultimi corsi. È sotto questo segno, dunque, che si chiuderà un’avventura intellettuale straordinaria,
o che tale almeno pare a chi ha potuto assistere al divenire di un insegnamento che, al di sotto delle
peripezie e delle traversie, delle svolte e delle modificazioni talvolta improvvise ed impreviste, mostra,
a chi abbia la pazienza di guardare con un po’ di attenzione, una coerenza ed una continuità rare, e che
costituisce una parte essenziale e imprescindibile della sua opera, indispensabile ai fini di una
intelligenza effettiva del suo pensiero. Senza il riferimento a tale versante del suo lavoro, infatti, ogni
commento e interpretazione della sua opera risulteranno inevitabilmente approssimativi e parziali, nei
casi migliori, vani e futili in tutti gli altri. E questo nonostante Foucault si sia mostrato a piú riprese
incline a definire il suo lavoro al Collège, con una modestia non si sa quanto simulata, come una serie
«di piste di ricerca, di idee, di schemi, di linee generali», ovvero di «strumenti», di «frammenti», messi
a disposizione di chi volesse eventualmente applicarli altrimenti o volesse metterli diversamente alla
prova in altre ricerche. I corsi, in ogni caso, andranno a costituire, accanto alle «linee di
attualizzazione» (Deleuze dixit) degli interventi raccolti nei Dits et écrits, e in maniera persino piú
radicale di quanto facciano i libri, quelle che potremmo arrischiarci a definire le «linee di
problematizzazione» del suo lavoro, per quanto essi mostrano di un pensiero perennemente inquieto,
costantemente vigile e pronto a rimetter se stesso in discussione, capace di rischiare ipotesi ardite o di
enunciare in maniera folgorante sintesi inaspettate, deliberatamente «perturbanti», che ci fanno vedere
sotto una luce nuova oggetti a lungo fin troppo familiari – ma in fondo, non è forse proprio questo ciò
che ogni grande pensatore fa o dovrebbe fare (garantendo cosí in sovrappiú a noi, poveri commentatori
o modesti amanuensi, la possibilità di pensare e lavorare per molto tempo ancora)? Un pensiero a tratti
persino esitante, incerto, scandito da discontinuità e forse persino da quelle che Deleuze chiamerà delle
«crisi»; un pensiero che attraverserà una serie di campi e di oggetti cosí eterogenei da non aver avuto
eguali nella storia intellettuale del secolo appena trascorso – dalle teorie penali alle istituzioni punitive,
dal discorso psichiatrico al discorso storico-politico della guerra, dalle discipline al biopotere, dal
pastorato cristiano al liberalismo, dal problema del governo di sé e degli altri a quello dell’epimeleia
heautou – ma di cui non verrà mai smarrita l’unità problematica. E comunque, quale che fosse
l’effettivo convincimento di Foucault a proposito della natura del lavoro da lui svolto al Collège, si
tratta di materiali e strumenti di lavoro e di pensiero che ci fanno intravedere una nuova dimensione
della sua ricerca, a partire da cui non sarà piú possibile parlarne come si faceva prima che essa venisse
strappata a un tranquillo e rassicurante oblio.
Cominciamo, dunque, con quella «ben curiosa istituzione», come egli ripeteva sovente, un po’ sul
serio e un po’ scherzando, che è il Collège. Il suo nucleo originario risale al 1530, allorché Francesco I,
su progetto di Guillaume Budé, aveva insediato cinque Lecteurs royaux, con docenti che tenevano corsi
pubblici, pagati dal Tesoro. La nuova istituzione incontrerà da subito l’opposizione della Sorbonne,
dato che il Collegium avrà l’esplicita funzione di incunearsi nel sistema delle Facoltà – Teologia,
Diritto, Medicina ed Arti – dell’Università di Parigi rompendo, com’è stato detto, il rigido monopolio
di una lingua – il latino – di una tradizione – la Scolastica – e di una corporazione – quella dei docenti –
che ancora vi regnavano, inoculando nel sistema dei saperi e del pensiero dell’epoca quanto
cominciavano a mettere a disposizione – come recita una nobile e vetusta tradizione – la riscoperta
delle fonti classiche e l’emergere del nuovo «spirito» rinascimentale. Non è senza significato che alle
prime tre, ancora nel 1798, in Der Streit der Facultatën Kant riservasse la designazione di Facoltà
superiori, a cui era potuta arrivare infine a contrapporsi la Facoltà inferiore proprio, e solo, grazie
all’opera di un «Governo illuminato» intento «a liberare lo spirito umano dalle sue catene» e ad
assicurare a tal fine la «libertà di pensare» – un Governo che proprio cosí facendo si mostrava idoneo
«ad ottenere un’obbedienza maggiormente sollecita». Un Governo siffatto, tuttavia, aggiungeva Kant,
doveva restare «estraneo alla questione intorno alla verità», di cui è chiamata a «parlare
pubblicamente» solo la Facoltà inferiore, in totale autonomia «dagli ordini del Governo». Senza una
tale libertà, infatti, «la verità non potrebbe venire alla luce», mentre grazie ad essa gli verrà, in cambio,
di essere «sufficientemente edotto su ciò che possa essergli vantaggioso o svantaggioso», nonché la
possibilità di trovare, proprio in tale libertà e nella perspicacia che gliene deriverebbe, assai piú che
nella propria autorità assoluta, «i mezzi per raggiungere i suoi fini». Com’è evidente, il pensiero ha
ormai acquisito la consapevolezza di essere un elemento fondamentale all’interno dei processi di
allestimento e funzionamento dei dispositivi di potere, che ormai gli stati moderni non possono piú
funzionare senza fare ricorso al soccorso del sapere, ed insieme che tutto ciò è destinato a provocare
un’ambiguità profonda nello statuto del pensiero e del sapere. Un’ambiguità inaggirabile, che
comporterà di lí in poi per il pensiero un compito nuovo nei confronti di se stesso, quello della
«critica». È appena il caso di notare che appunto come «storia critica del pensiero» a Foucault capiterà
sovente di definire il proprio progetto politico-filosofico, che a smontare pezzo per pezzo il processo
storico, con tutte le sue molteplici variazioni e trasformazioni, di connessione e combinazione tra
regimi di verità e pratiche di governo, si dedicherà.
Tutto ciò si dipanerà all’interno di un’istituzione dotata di poco piú di una cinquantina di cattedre in
cui, allorché una cattedra si rende vacante, è l’Assemblea dei professori a decidere con quale
insegnamento la si debba sostituire, e a designare i candidati tra i quali il ministro dovrà poi scegliere
quello che verrà nominato per mezzo di decreto presidenziale. La designazione ed il reclutamento, poi,
non sono vincolati al possesso di nessun grado universitario, ma solo ai lavori originali, alle prospettive
innovative, alle scoperte di cui chi viene designato si è mostrato capace. Nella effettiva pratica
didattica, libera da qualsivoglia controllo e vincolo, come si è detto, ogni docente si impegna a fornire,
attraverso il suo insegnamento, un rendiconto regolare della sua ricerca. Queste, dunque, le
caratteristiche salienti della «Maison» – come nel gergo dei suoi membri il Collège viene chiamato – in
cui professeranno il loro insegnamento, personaggi che fanno ormai parte della storia delle scienze,
delle lettere e piú di recente anche delle arti, e i cui corsi diventeranno talvolta, come ad esempio nel
caso di Bergson, degli «eventi mondani» non privi di risonanze e persino di (modesti) effetti politici.
M. Foucault vi era stato eletto nel corso di due sedute di voto assai contrastate. Il 30 novembre 1969
l’Assemblea dei professori approva la cattedra di «Storia dei sistemi di pensiero». In lizza, oltre a
Foucault, P. Ricoeur e Y. Belaval. Il 12 aprile 1970 la stessa Assemblea ratifica, a maggioranza,
l’elezione nominale di Foucault, ma l’Accademia delle Scienze morali e politiche non ratifica il voto.
Solo due mesi dopo il ministro dell’Educazione nazionale renderà comunque effettiva la sua nomina e
Foucault potrà cosí entrare nei ranghi del Collège. L’elezione di Foucault veniva dopo la sua breve
esperienza di docente, tra il dicembre 1968 e la nomina al Collège, presso il Dipartimento di Filosofia
del Centro universitario sperimentale di Vincennes, alla cui costituzione – cosí come a quella del primo
dipartimento universitario consacrato alla psicoanalisi – Foucault aveva partecipato direttamente,
delineandone l’impianto e decidendo il reclutamento dei docenti. Prima di Vincennes, Foucault aveva
insegnato all’Università di Tunisi, dove aveva potuto assistere, prima dell’esplosione in Europa del
Maggio ’68, alla nascita di un movimento studentesco che avrebbe, per un certo tratto di strada,
accompagnato e persino fiancheggiato. Anche l’esperienza di Vincennes vedrà Foucault impegnato ad
opporsi ai tentativi da subito messi in atto da parte dell’amministrazione per ridisegnare il progetto di
università sperimentale, e a fronteggiare la repressione degli apparati di polizia. La breve stagione
dell’insegnamento a Vincennes è per Foucault però soprattutto l’occasione per avviare un progetto di
ricerca sul problema della sessualità. Progetto che era stato annunciato, in filigrana, già nella «Préface»
a Folie et Déraison, anche se lí ancora nei termini di una storia degli interdetti e delle «forme
continuamente cangianti e ostinate della repressione» che la investono, e che verrà rilanciato poco
tempo dopo, nelle pagine finali dell’Archeologia del sapere, là dove, tra le «altre archeologie»,
Foucault immaginava l’esempio di una «descrizione della “sessualità”» incentrata, piuttosto che sui
comportamenti, sulle interpretazioni o sulle valorizzazioni che di essa sono state messe in atto nelle
diverse epoche della storia, sulla «pratica discorsiva» in essa implicata. Una descrizione siffatta
Foucault la concepiva orientata a far emergere un certo «modo di parlare» della sessualità, a sua volta
investito all’interno di un sistema di divieti e di valori, e pertanto destinata a compiersi in direzione «di
ciò che si potrebbe chiamare l’etica». È appena il caso di notare che troviamo qui indicato, in filigrana,
l’intero programma delle Storia della sessualità. Per parte loro, tanto la prolusione inaugurale quanto la
plaquette cercheranno di precisare tale progetto. La prima, indicando nell’analisi del «sistema di
interdetto di linguaggio» relativo alla sessualità dal XVI al XIX secolo una prima modalità di
realizzazione della parte «critica» del progetto di descrizione archeologica, volto a mostrare come tale
interdetto si sia «spostato e riarticolato da una pratica della confessione», sino alla sua riapparizione nel
campo della medicina e della psichiatria. La seconda, indicando nel sapere relativo all’ereditarietà e
nella costituzione della genetica il campo di applicazione del modello d’analisi sopra ricordato, e
destinato a dar luogo a una serie di sondaggi genealogici che lo condurranno, via la presa in conto del
problema dell’apparizione dell’igiene razziale, all’elaborazione del concetto di biopotere. E del resto,
sempre al termine dell’ Archeologia del sapere, poche righe dopo aver evocato il problema della
sessualità, Foucault indicava proprio nel «sapere politico» l’altro oggetto passibile di un’analisi volta a
far emergere la «pratica discorsiva determinata e descrivibile» che permea un sapere inteso non piú
come una «secondaria teorizzazione della pratica», ma nemmeno come «una applicazione della teoria»,
bensí come il luogo in cui vengono elaborati, ed eventualmente messi in atto, «dei comportamenti, delle
lotte, dei conflitti, delle decisioni e delle tattiche». Anche qui siamo di fronte all’originaria delineazione
di quella che negli anni a venire diventerà l’analisi del potere, e poi della governatività, in termini di
forze, con punti di applicazione e di resistenza, di scontro, di affrontamento, e di possibile
affrancamento. Vale a questo proposito la pena di ricordare che poche settimane dopo la lezione
inaugurale al Collège, insieme a J.-M. Domenach e a P. Vidal-Naquet, Foucault aveva annunciato la
costituzione del «Groupe d’Information sur les prisons». Strumento d’inchiesta e di mobilitazione
sociale intorno alle prigioni, cassa di risonanza delle iniziative dei prigionieri, il G.I.P. costituirà per
alcuni anni l’esperienza militante piú importante per Foucault e uno dei luoghi, insieme ai corsi al
Collège, in cui verrà elaborato il libro del 1975. Partecipando nel febbraio 1971 alla creazione del
G.I.P., Foucault cominciava a sperimentare una nuova figura del suo proprio «militantismo», quello che
caratterizzerà di lí in poi il lavoro dell’«intellettuale specifico» che, in relazione alla prigione, non mira
affatto a riformare (ma neppure a «sovvertire») il regime carcerario, bensí a fornire un’analisi di ciò che
la prigione è, del modo in cui essa funziona, descrivendo quelli che ne sono le vittime e consentendo
alle loro richieste e alle loro rivendicazioni di riecheggiare all’interno di una società che cerca
accanitamente di rendere inaudibili le loro voci. È nella sequela della mobilitazione a fianco dei
prigionieri, della militanza e delle iniziative di lotta contro gli episodi che agli inizi degli anni settanta
inaugurano la stagione di un rinnovato razzismo e di una rinata xenofobia, coinvolgendo non solo gli
apparati di polizia ma anche le organizzazioni della destra nazi-fascista e talune frange del partito
comunista francese, che Foucault prenderà parte attiva a tutta una serie di iniziative di carattere
militante: tra esse, a partire dall’agosto del 1971, l’avvio di una serie di contatti con gli ambienti
dell’opposizione politica iraniana. Piú avanti sarà l’epoca dell’impegno a fianco di Solidarnosc, e di
innumerevoli altre iniziative, prese di posizione, lotte e battaglie.
Ma a prescindere da tale «militantismo», è bene precisare subito che non è possibile intendere
appieno il progetto predisposto da Foucault nel quadro del suo lavoro al Collège se non lo si colloca
sullo sfondo della diagnosi da lui delineata a proposito della nostra modernità filosofica ne Le parole e
le cose. Lí Foucault indicava nel pensiero di Kant il momento in cui si realizza la definitiva chiusura
dell’episteme classica e la contemporanea apertura di quella moderna, allorché, a ridosso dell’emergere
di quelle nuove «empiricità» che sono la vita, il lavoro ed il linguaggio, sorte dal disfarsi
dell’adeguazione rigorosa perseguita dal pensiero classico, nel Discorso, del linguaggio e delle cose,
aveva posto la domanda decisiva sulle condizioni e i limiti della conoscenza, a cui aveva risposto
assegnando all’intelletto la funzione legislatrice (quid juris). Alla teoria classica della conoscenza
fondata sul presupposto di una corrispondenza armonica tra soggetto e oggetto, di un accordo tra ordine
delle idee e ordine delle cose, Kant sostituisce il principio di una dipendenza necessaria dell’oggetto dal
soggetto, ovvero il principio secondo cui è la sintesi a priori a rendere possibile l’inserimento di un
oggetto nel campo della conoscenza. Con la critica kantiana, insomma, la rappresentazione verrà
interrogata sul suo fondamento, sui suoi limiti, sulla sua origine e, una volta cosí circoscritta, verrà fatto
emergere il problema della sua possibilità e della modalità di connessione di rappresentazioni tra loro
diverse, e infine delle condizioni che definiscono la forma universalmente valida di tale connessione.
Ma ponendo la questione della possibilità stessa di ogni conoscenza a partire dai suoi limiti di diritto, la
critica kantiana ha sanzionata per la prima volta, sosteneva Foucault ne Le parole e le cose,
quell’«evento della cultura europea» che è «il ritirarsi del sapere e del pensiero al di fuori dello spazio
della rappresentazione» e che ha suscitato il problema dell’a priori, ovvero delle «condizioni a partire
dalle quali può esistere ogni rappresentazione del mondo in generale». E sarà proprio questo evento ad
inaugurare lo spostamento progressivo della riflessione filosofica verso un nuovo spazio, delimitato
dalle nuove «empiricità» della vita, del lavoro e del linguaggio, in cui potrà insinuarsi e
progressivamente insediarsi quello «strano allotropo empirico-trascendentale» che è l’uomo, nella sua
«posizione ambigua di oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce». Incipit cosí l’epoca
della finitudine di cui Kant avvierà l’analitica, e che per Foucault si riassume nell’ultima delle domande
kantiane, quella formulata nella Logica. L’uomo di cui però ora si parla è quello «dominato dal lavoro,
dalla vita e dal linguaggio», quei «quasi-trascendentali», come li chiamava, da cui solo potranno ormai
venire i contenuti del suo sapere – l’economia politica, la biologia, la filologia – il cui nuovo modo
d’essere è quello del tempo e della storia: la positività della prima si situa infatti in quella «cavità
antropologica» che costituisce lo spazio in cui la vita e la morte si fronteggiano, e che fa sí che il valore
cessi di essere un segno per diventare il risultato di una produzione; quella della seconda dipende a sua
volta dall’introduzione di una «discontinuità radicale» nel quadro degli esseri e nella rivelazione della
storicità della vita, radice comune dell’essere e del non essere; quella della terza, infine, sarebbe
apparsa quando si è mostrato che il linguaggio si radica non dal lato delle cose percepite ma da quello
del soggetto nella sua attività. È dunque un «postulato antropologico» quello che Foucault rinviene nel
cuore della «analitica della finitudine»: a partire dal momento in cui il sapere non si dispiega piú sullo
sfondo «unificato e unificatore» di una mathesis – come avveniva in Cartesio o Leibniz – si pone con
Kant la questione dei rapporti tra ambito formale e ambito trascendentale, insieme a quello dei rapporti
tra l’ambito delle empiricità e il fondamento trascendentale della conoscenza, al centro dei quali si
profila sempre l’attività sovrana di un soggetto che produce e riflette, imponendo loro le sue leggi, i
contenuti dell’esperienza. E sarà sempre e solo la presenza (a sé) di questo soggetto a consentire di
riportare e adeguare l’esperienza, il mondo, la storia, all’omogeneità e alla trasparenza della sua propria
coscienza. Anche nelle filosofie non riflessive del XIX secolo non vi sarà contenuto dell’esperienza
che non sia interamente ricondotto all’intenzione segreta che la anima, al senso nascosto e allusivo,
oppure dimenticato e rimosso, che le conferisce significato. A partire da Kant, insomma, il soggetto
umano è stato collocato a fondamento di tutte le positività, ovvero è diventato, e proprio a partire dalla
sua finitudine, la condizione di possibilità della loro conoscenza, e al contempo è diventato un elemento
tra gli altri nell’universo delle cose empiriche, oggetto a sua volta di una conoscenza possibile. Con
Kant, sosteneva Foucault nella sua opera del 1966, che del modo d’essere dell’uomo ha fatto «l’a priori
storico che dal XIX secolo funge da suolo quasi evidente per il nostro pensiero», viene inaugurata la
«soglia della nostra modernità», destinata a restare inesorabilmente irretita nell’ambiguità costitutiva di
un soggetto, l’uomo, in cui l’empirico e il trascendentale si richiamano e si invertono costantemente
l’uno nell’altro, con tutte le conseguenze che ne discenderanno, come Foucault mostrerà nelle sue
ricerche successive, tanto sul piano dei processi di oggettivazione messi in atto dai saperi che intorno
all’uomo si sono formati, quanto su quello della possibilità di autocostituirsi come soggetto libero e
autonomo di azione morale e politica.
Kant era dunque stato il primo a sostenere l’identità delle condizioni dell’esperienza e delle
condizioni dell’oggetto dell’esperienza. Nietzsche, invece sarà colui che rigetterà con la maggiore
radicalità l’idea di una coalescenza tra conoscenza e oggetto da conoscere, unitamente a quella
dell’unità, identità e sovranità del soggetto che conosce. La conoscenza è un risultato storico, l’effetto
di una battaglia. Non a caso il corso del 1970-1971 inizia affrontando il problema della posizione del
soggetto rispetto alla volontà di sapere e, correlativamente, quello della verità «che ha anch’essa una
storia». Lo fa a partire dall’esame di due modelli teorici: quello aristotelico e quello nietzscheano. Con
il primo farebbe la sua comparsa, sostiene Foucault, l’idea di un «naturale desiderio di conoscere»,
universale e disinteressato, e una concezione della verità come adaequatio, che sarebbero servite, per
l’essenziale, a rimuovere quelli che già a quell’epoca chiama i «giochi della verità», ovvero una verità
che emerge da rapporti di forza determinati, da lotte, interessi, saperi temibili, volontà inconfessabili.
Da Nietzsche, viceversa, Foucault deriva l’idea della conoscenza della verità come produzione di verità
attraverso il gioco di una serie interminabile di «falsificazioni concertate» che, a partire da un conflitto
in cui si affrontano interessi, istinti, impulsi, desideri, istituisce la linea di separazione tra il vero e il
falso. E il modello di una conoscenza fondamentalmente interessata, prodotta come «evento» e legata
«alla lotta, all’odio ed alla malvagità» verrà messo alla prova sulla base di casi ed esempi tratti dalla
storia e dalle istituzioni arcaiche greche e relative alle concezioni ed all’amministrazione della giustizia.
Esaminando tali procedimenti giudiziari Foucault mostra come lí la verità sia sempre il risultato di una
serie di messe alla prova, all’interno di un conflitto e di un affrontamento rischioso e virtualmente
aleatorio, decisa in genere da una prova di forza. I corsi dei due anni successivi riprenderanno la storia
delle forme di verità a partire dalla pratica penale. Verrà allora analizzato il caso dell’inchiesta, che si
introduce nella pratica giudiziaria a partire dal modello dell’inquisizione ecclesiastica e che è
contemporanea alla nascita delle grandi monarchie, che fungerà da matrice di buona parte dei saperi
empirici dell’età moderna e che Foucault correla strettamente alla nascita della società disciplinare. Con
l’apparizione dell’esame, infine, emerge un procedimento di fabbricazione della verità che sarà
decisivo per la moderna «società punitiva», in cui la giustizia non si limiterà piú a stabilire l’eventuale
responsabilità di un atto, bensí potrà punire un individuo solo se dotata di conoscenze relative alla sua
anima. Nasce l’obbligo di occuparsi dell’homo psychologicus, di cui si incaricheranno le cosiddette
scienze umane.
Il corso del 1973-1974, costituisce una ripresa ed uno sviluppo delle questioni esaminate nel «grande
libro» del 1961. Situato tra l’analisi delle dottrine e dei sistemi penali esaminati nei due anni precedenti,
e l’analisi dei dispositivi di normalizzazione che verrà approfondita nei corsi successivi e che lo
condurrà ad affrontare l’indagine sul biopotere e sulle tecnologie e le pratiche di «governo», questo
corso è anche l’occasione per precisare l’analisi del passaggio dal potere di sovranità al potere
disciplinare. Ma in esso Foucault affronta soprattutto la formazione del manicomio come struttura
terapeutica. All’interno del dispositivo psichiatrico cosí predisposto, analizza in particolare il
montaggio di un sapere medico sulla follia a partire dall’emergere di fenomeni come l’ipnotismo o
l’isteria, attraverso la descrizione del modo in cui l’infanzia è diventata oggetto d’intervento da parte
del complesso psico-pedagogico; esamina inoltre in che modo sia stata elaborata una dottrina come
quella della degenerazione, ricostruisce i rapporti che per la nascente psichiatria la follia intrattiene con
esperienze come quelle della droga o del sogno, delinea la costruzione medica di un corpo sessuale ed
infine mostra il ruolo svolto da questo complesso sistema di saperi e di poteri nella nascita della
psicoanalisi. Sullo sfondo di tali analisi, tuttavia, la cura di Foucault è soprattutto di mostrare come,
attraverso una serie di pratiche che vanno dalla procedura dell’interrogatorio alla presentazione dei
malati, si sia costituito un «discorso di verità» che ha fatto della psichiatria un formidabile «agente di
intensificazione» del reale, preposto all’allestimento e al controllo di forme di identità e di individualità
che sono ancora le nostre, come ad esempio è avvenuto a partire dal momento in cui attraverso
l’allestimento dell’interrogatorio la psichiatria ha predisposto una modalità straordinariamente efficace
per fissare l’individuo alla norma della sua identità, tanto sociale quanto, eventualmente, patologica. Il
corso in questione si iscrive pertanto, a pieno diritto, nel progetto di una «storia della verità» che
abbiamo qui assunto come la linea profonda ed essenziale dell’intero tragitto foucaultiano. E in esso
vediamo profilarsi uno schema che possiamo leggere come una prima e remota prefigurazione di ciò
che costituirà, come vedremo, l’asse di riferimento delle pagine finali della «storia della verità»
delineata da Foucault, vale a dire la dissociazione tra soggetto di conoscenza e soggetto etico, tra verità
e scienza, tra «sapere di spiritualità» e «sapere di conoscenza» esaminata nei corsi degli anni ottanta.
Prendendo in esame lo statuto della pratica scientifica, nel corso su Il potere psichiatrico Foucault
sostiene che a far corpo con tale pratica è una «tecnologia dimostrativa della verità». Il sapere
scientifico si è edificato, cioè, sulla base del presupposto che la verità sia presente ovunque, anche nei
recessi piú infimi e trascurabili della realtà, che sempre sia possibile porre la questione della verità, e
che nessuno, in linea di principio, sia particolarmente qualificato, o al contrario delegittimato, ad
enunciarla, alla sola condizione di saper individuare i momenti piú propizi, di dotarsi dei punti di vista
piú agevoli e di possedere gli strumenti (categorie per pensarla e linguaggio per formularla) piú
opportuni per coglierla, stanandola là dove essa se ne sta celata. La verità della scienza, insomma, è
quella che, assumendo come già dato e definito il rapporto tra soggetto e oggetto, procede unicamente
dal metodo e dalle sue regole, si diceva già nel corso del 1973-1974, che rendono possibile la scoperta,
la constatazione e la dimostrazione con valore universale. A questa verità Foucault contrapponeva
un’altra serie, quella della «verità-folgore», della «verità-rituale», ovvero di una verità che si produce
come «evento», che ha la sua geografia, il suo calendario, «i suoi messaggeri o i suoi operatori
privilegiati ed esclusivi», individuati in coloro che «possiedono il segreto dei luoghi e dei tempi» e che
si sono sottoposti alle prove destinate a qualificare, a proferire le parole opportune, o a compiere i gesti
rituali necessari. Si tratta di una verità «dispersa, discontinua, lacunosa», che non rivendica (e non
aspira a) nessuna universalità, e destinata a «verificarsi solo di tanto in tanto, solo dove voglia e solo in
certi luoghi», ovvero a certe «condizioni», come dirà nel 1984, e in particolare alla condizione che si
sia disposti a pagare un certo prezzo, quello che chiamerà «il lavoro di sé su di sé», l’epimeleia
heautou. In tale verità non è questione di metodo, dice dieci anni prima, bensí di «strategia»; non di
apofantica, bensí di produzione; ad essere in gioco, in essa, non è un rapporto di conoscenza come
quello che lega l’oggetto al soggetto, bensí una relazione di potere, ovvero qualcosa di «rischioso,
reversibile, bellicoso». Piuttosto che ricostruire, allora, la storia della verità in termini di oblio
dell’Essere (come voleva Heidegger), mantenendo inalterati i privilegi e il primato della conoscenza, a
partire da cui soltanto un oblio potrebbe prodursi, o in quelli di resto risultante dall’avvento del discorso
della scienza (quel resto in cui Lacan riconoscerà ciò su cui potrà formarsi quel «soggetto nel soggetto,
trascendente il soggetto» che sarà il soggetto dell’inconscio), questo nuovo capitolo del progetto
genealogico di rimessa in discussione della nostra volontà di verità mostrerà piuttosto «come la verità-
conoscenza non sia in fondo che una regione e un aspetto, divenuto è vero ormai pletorico e che ha
assunto dimensioni gigantesche, ma in ogni caso pur sempre un aspetto, o un’altra modalità, della verità
come evento e della tecnologia di questa verità-evento». Tutt’al piú, si tratterà di descrivere quali effetti
e quali conseguenze siano venute dal fatto che, nella storia dell’occidente, la verità secondo il modello
della conoscenza scientifica abbia colonizzato e «invaso in maniera parassitaria la verità-evento»,
assoggettandola fino al punto da esercitare su di essa «un rapporto di potere che è forse irreversibile».
Anche il corso dell’anno successivo, nel suo insieme dedicato all’esame dei diversi meccanismi di
costituzione e trasformazione delle tecnologie di controllo applicate alle diverse forme dell’anormalità
pericolosa – i mostri umani, gli incorreggibili, gli onanisti – che hanno avviato e consentito di
approntare nuove modalità di presa in carico e di gestione della vita, una volta fatti reagire l’uno
sull’altro il «discorso dell’ereditarietà» e il «discorso della sessualità», affronta la questione della verità
a proposito dei discorsi a cui potrà essere attribuito un valore di verità «perché discorsi dotati di uno
statuto scientifico o formulati esclusivamente da persone qualificate, all’interno di un’istituzione
scientifica». Il funzionamento di tali discorsi di verità all’interno della pratica penale, già studiata nei
corsi del 1971-1972 e del 1972-1973, ne fa dei «discorsi che possono uccidere». Ma piú che sul
versante dei rapporti tra verità e giustizia, già indagati negli anni precedenti, vale la pena di soffermarsi
sugli sviluppi relativi al problema della confessione contenuti nel corso del 1974-1975 e destinati ad
essere ripresi negli anni successivi. Nel corso in questione, infatti, Foucault si sofferma a lungo sul
passaggio dalla confessione tariffata alla confessione necessaria e obbligatoria all’interno del rituale
cristiano della penitenza nel Medioevo, ma non perché gli interessi fare la storia di un’istituzione e di
un sacramento, bensí perché nell’idea di una confessione retta dai principî della regolarità, della
continuità e della esaustività, Foucault vede profilarsi una trasformazione decisiva nei nostri regimi di
verità, e con essi delle modalità di esercizio del potere all’interno della società occidentale: appare cioè
una nuova modulazione della tecnica (antica) dell’esame di coscienza, in cui «il potere e il sapere del
prete e della Chiesa si trovano implicati», e che andrà incontro ad un ulteriore rafforzamento e
perfezionamento in quella fase di «cristianizzazione in profondità» che comincia ad essere realizzata
secondo Foucault a partire dal XVI secolo, epoca in cui si assiste, contemporaneamente, alla
formazione degli stati moderni e al rafforzarsi «dell’inquadramento cristiano dell’esistenza individuale»
attraverso il dispiegarsi «di un immenso dispositivo di discorso ed esame, di analisi e di controllo» reso
possibile dal fatto che ormai «tutto o quasi tutto ciò che ha a che fare con la vita, l’azione, i pensieri di
un individuo» dovrà passare al filtro della confessione. Attraverso l’analisi della progressiva
generalizzazione ed estensione del «diritto d’esame» applicato al foro interiore della coscienza Foucault
avvia una prima delineazione di quella forma di governo delle anime e delle condotte degli individui
destinata a metter capo al fenomeno della «direzione di coscienza» e che tre anni dopo chiamerà
«potere pastorale». Un potere che investe la vita nella sua totalità e fin nel piú infimo dettaglio
attraverso la predisposizione di un dispositivo discorsivo all’interno del quale «tutti i comportamenti,
tutte le condotte, tutti i rapporti con gli altri, tutti i pensieri, tutti i piaceri, tutte le passioni (...) dovranno
essere filtrati» e che renderà possibile quel «racconto totale dell’esistenza» che costituisce per Foucault
la parte piú segreta delle tecniche d’esame e delle procedure di medicalizzazione, aurora di tutte le
psicologie che si metteranno di lí a poco a decifrare i misteri dell’anima, ritenendo di poterli
identificare nelle leggi del desiderio e nella logica delle pulsioni, avendo dimenticato (o facendo finta di
non sapere) che già la pratica confessionale aveva delineato quella che Foucault chiama nel 1975 una
«anatomia della voluttà», una «cartografia peccaminosa del corpo», che nelle spire della concupiscenza
bracca la verità segreta dell’anima. La sessualità – il dispositivo di sessualità, come verrà chiamato ne
La volontà di sapere dell’anno dopo – si trova iscritta da gran tempo, dunque, negli arcana
conscientiae, e proprio intorno ad essa si annoderà inoltre la biopolitica dei moderni stati nazionali che
verrà esaminata nel corso del 1976.
Ma è solo in occasione dei corsi del 1977-1978 e del 1978-1979 che il progetto genealogico di una
«storia dei ‘regimi di veridizione’» verrà rigorosamente e metodicamente articolata alla storia del
pastorato, assunto come modello e matrice del «governo degli uomini» e iscritto nella piú generale
storia delle «arti di governo», di cui nei corsi in questione verranno esaminati alcuni momenti topici,
come la ragion di stato, lo stato di polizia e quel sistema del «governo frugale» che è il liberalismo nelle
sue diverse versioni. Definito il governo come l’insieme delle tecniche destinate a «dirigere il
comportamento degli uomini» e a «guidare gli individui nel corso di tutta la loro vita, una volta che li si
è posti sotto l’autorità di una guida responsabile di ciò che fanno e di ciò che accade loro», Foucault
può cominciare ad abbandonare le analisi del dressage e delle pratiche di disciplinamento che
trovavano nei corpi e nei gesti il loro oggetto ed il loro campo d’applicazione. Al loro posto vediamo
emergere progressivamente, come posta in gioco della governatività, i soggetti in quanto tali, i loro
pensieri, le loro condotte, destinati ad essere esaminati tanto sul versante dei processi di oggettivazione
che li investiranno, quanto su quello delle virtualità di soggettivazione e di possibilità di un’arte di
vivere che lasciano intravedere. Sullo sfondo, eredità che resta ancor oggi in buona parte inesplorata, il
problema del biopotere, ovvero l’emergere del problema della regolazione e della sicurezza di una
società, del controllo di un territorio, della gestione della vita di una popolazione, e infine della
fabbricazione di un soggetto (di soggetti) di ragione, da parte di un potere dotato di tecniche, di regole e
di un regime di razionalità specifici. Ma è nell’idea e nella pratica di un potere di tipo pastorale che
Foucault rinviene, come si è detto, il modello originario del governo degli uomini. Esso ha un materiale
e un punto d’applicazione: una «molteplicità in movimento»; un telos: fare il bene della molteplicità su
cui si esercita, assicurare «la salvezza del gregge»; una forma: la dedizione, lo zelo, e insomma la
«cura» del pastore che veglia e serve il gregge fino al sacrificio di sé; una modalità («paradossale», la
definisce Foucault) di esercizio: si applica alla molteplicità ma mira ad essere «individualizzante». Ed
una sola istituzione ha «coagulato» i temi del potere pastorale in meccanismi precisi e istituzioni
definite, impiantandone i dispositivi all’interno dell’impero romano ed organizzando cosí un tipo di
potere «che nessun’altra civiltà ha conosciuto», che sarà il piú strano e caratteristico, ma anche quello
destinato alla fortuna piú ampia e duratura. La chiesa aspirerà infatti ad un «governo quotidiano» degli
uomini nella loro «vita reale» guidandone le anime e la condotta in vista della salvezza e sulla scala
dell’intera umanità, esercitando cosí un potere che non mira semplicemente a sottomettere, persuadere
o costringere gli uomini, ma che è una vera e propria – e forse la sola – «arte di governare gli uomini»
che gli stati moderni non faranno che investire in una pratica politica calcolata e riflessa. E
cominciando già nel 1978 a studiare Cassiano, Girolamo, Benedetto, che nei corsi del 1979-1980 e del
1981-1982 saranno oggetto di un’analisi sistematica, Foucault mostra come tale potere pastorale abbia
a che fare in maniera costitutiva con il problema della verità: se il suo telos è la salvezza di omnes et
singulatim, esso dovrà da un lato assicurarne la sottomissione alla volontà divina, ma ciò potrà avvenire
solo a condizione di «professare una certa verità». E attraverso un confronto serrato con l’esperienza
greca di rapporto con la verità, su cui non cesserà di tornare, Foucault comincia a mostrare come nel
modello pastorale cristiano vengano predisposti alcuni schemi di governo delle anime e delle condotte,
come l’istanza dell’«obbedienza pura», della «dipendenza integrale», della «servitú integrale» di cui
studia le primitive occorrenze all’interno della vita cenobitica, che a differenza di ciò che avveniva per
il cittadino greco, non mirano in alcun modo ad assicurare il «dominio di sé», come dice nel 1978,
bensí a rendere possibile una sottomissione che fa dunque del processo di «individualizzazione» un
problema capitale, indiscernibile dal problema della verità. Proprio a partire da quest’epoca Foucault
comincia a dichiarare che «oggi la questione fondamentale è Tertulliano» (il nome proprio poteva
variare), avviando un confronto sistematico, che svilupperà nei corsi successivi, sulla direzione di
coscienza nell’Antichità e nel cristianesimo dei primi secoli, mostrando come nel secondo divenga
essenziale l’esame di coscienza, attraverso il quale dovrà venir formato su di sé e a partire da sé «un
certo discorso di verità» che sarà proprio ciò per mezzo di cui potrà essere instaurato un certo legame
con il direttore di coscienza e con esso una forma di potere che è essenzialmente una relazione di
«obbedienza individuale, esaustiva, totale e permanente» orientata alla salvezza. Fa cosí la sua
comparsa una nuova figura della verità, «una verità segreta, una verità dell’interiorità, una verità
dell’anima nascosta», attraverso la quale verrà assicurato un rapporto di «obbedienza integrale» e
destinata a render possibile nel soggetto una «identificazione analitica», un assoggettamento per
estromissione dell’ego come forma nucleare dell’individuo, e una «soggettivazione» per via di
produzione di una verità interiore.
Lo sviluppo di una «pastorale della salvezza», modello e matrice di tutta la storia delle arti di
governo in occidente (e di cui la medicina sarà una delle grandi manifestazioni), provocherà anche tutta
una serie di fenomeni di resistenza, rivolta, insubordinazione, contro-condotte (l’ascetismo come
«esercizio di sé su di sé», i movimenti comunitari, la mistica, eccetera) che Foucault comincia proprio
allora a raccogliere sotto la rubrica della «spiritualità», e che contemporaneamente ritiene di poter
leggere all’opera in ciò che veniva designato allora come «rivoluzione islamica» in Iran, nella quale
egli leggeva la riapparizione di una «spiritualità politica», ovvero del tentativo di «aprire nella politica
anche una dimensione spirituale» per mezzo della quale ottenere però soprattutto una trasformazione
nella «soggettività». Insomma, la volontà di rinnovare l’esistenza nella sua interezza, questo sarebbe
l’esperienza spirituale, dove la religione funzionerebbe come «lo spirito di un mondo senza spirito»,
secondo la formula di Marx che, sosteneva Foucault, «non citiamo mai». E proprio in termini di
spiritualità, come vedremo, egli comincia la propria rilettura della filosofia nell’antichità e nella tarda
antichità. Non senza avere prima mostrato, però, le analogie, ma anche le differenze, tra il modello
pastorale del potere e le arti di governo che appaiono a partire dalla fine del XVI secolo, allorché è lo
stato a fare il suo ingresso nell’ambito della pratica e del pensiero degli uomini e ad emergere come
posta in gioco fondamentale, ma anche semplice «peripezia», all’interno della piú generale storia della
«governatività». Dalla «ragion di stato» al liberalismo, si tratterà per Foucault di far emergere come la
questione dei regimi di verità continui ad essere centrale anche in queste nuove modalità di esercizio
della pratica di governo. Anche nel triangolo disegnato da sovranità, disciplina e gestione di governo
agli inizi dell’età moderna, allorché l’obiettivo fondamentale diventa la popolazione e i meccanismi
essenziali saranno quelli della sicurezza, la razionalità intrinseca alla nuova arte di governo implicherà
una certa «produzione di verità». Non sarà piú, però, la verità di un dogma che viene «inculcato» in un
individuo – che cosí verrà fissato ad una identità – nello stesso momento in cui gli viene estorto «il
segreto della sua verità interiore». Al posto degli arcana conscientiae appaiono ora, sostiene Foucault,
gli arcana imperii, relativi a tutto ciò che è necessario conoscere intorno alla popolazione, alle
ricchezze disponibili, alle forze reali e virtuali di cui dispone uno stato, e che è necessario conoscere per
assicurarne il sovrappiú di forza e potenza nel tempo dei grandi scontri e della concorrenza tra gli stati.
Di qui l’apparizione della statistica, della Polizeiwissenschaft, e successivamente dell’economia
politica, altrettanti dispositivi attraverso cui viene predisposto il sapere dello stato sullo stato volto ad
assicurare la «modernità amministrativa» e il «governo razionale» degli uomini, delle risorse e infine
della stessa «vita», attraverso la felicità degli individui e la forza dello stato. Con la «ragione
economica» che nasce a partire dall’avvento della fisiocrazia, poi, è una nuova tappa dei processi di
applicazione della governatività che viene percorsa: appare una entità «quasi-naturale» che verrà
designata come «società civile» e che esigerà a sua volta un tipo specifico di conoscenza scientifica
indispensabile al buon governo. Ne conseguirà una progressiva naturalizzazione della popolazione, che
per un lato darà luogo ad una supposta regolazione spontanea della meccanica degli interessi, ed in cui
il mercato, come dirà Foucault nel corso del 1978-1979, diventa il luogo e il meccanismo di formazione
della verità, il «luogo di veridizione» della pratica di governo, e l’economia politica il regime di verità
necessario destinato a garantire non «il minor governo», bensí «un governo frugale», ovvero un altro
tipo di razionalità, su cui si eserciterà la riflessione liberale, per la quale la libertà è diventata, secondo
Foucault, un elemento indispensabile allo stesso esercizio del governo. Ma per l’altro assisteremo
invece allo sviluppo parossisitico dei meccanismi di presa in carico e gestione della popolazione nella
sua supposta naturalità. Di qui lo sviluppo di tutte quelle scienze – dalla medicina sociale alla
demografia all’eugenismo – destinate a fornire gli strumenti e gli schemi d’intelligibilità razionale dei
nuovi insiemi diventati oggetto dell’arte di governo sviluppatasi a partire dalla fine del Settecento (ciò
permette a Foucault di sostenere che quello che consentiranno di fare le nuove forme di razionalità, ad
esempio durante il regime nazista, non costituisce affatto un’anomalia o una mostruosità rispetto ad una
supposta «scienza normale»). Con il liberalismo, sostiene Foucault, non è la libertà come «universale»
ad ottenere finalmente diritto di cittadinanza nella pratica di governo – la libertà non è un «dato» –
bensí è una nuova «gestione» delle libertà ad essere messa in atto all’interno di una ragion governativa
che ha strutturalmente «bisogno di libertà», che è «consumatrice di libertà». Il liberalismo, insomma,
emerge come arte di governo (pratica riflessa) che si propone di suscitare e fabbricare instancabilmente
della libertà. Come tale, l’arte liberale di governare deve innanzitutto fare i conti col problema
essenziale della sicurezza, delle strategie che consentiranno di aggirare o eliminare il «pericolo», i
«pericoli» immanenti alla dinamica delle relazioni tra interessi individuali e interessi collettivi. Se
infatti il liberalismo emerge come tecnica che si innesta sulla meccanica degli interessi, non potrà
evitare di intervenire sui pericoli che da tale meccanica si producono allestendo dei «meccanismi di
sicurezza/libertà». E proprio intorno alla «cultura del pericolo» da esso suscitato sorgerà quella
«formidabile estensione delle procedure di controllo, costrizione e coercizione» che investirà lo stato di
funzioni nuove, destinandolo alla fine a farsi carico «del problema della vita».
Che sia nelle forme della razionalità scientifica resa necessaria dalle pratiche di governo (con gli
effetti di oggettivazione da essa prodotte, e che Foucault aveva cominciato a descrivere fin da Folie et
déraison) o che sia nella forma della conoscenza di sé a partire dalle esigenze di controllo delle anime e
delle condotte in vista della salvezza (con gli effetti di soggettivazione che ne verranno), in ogni caso
l’intera storia della «governatività» occidentale poggia sulla lunga successione di diversi regimi di
verità, altrettante modulazione della «volontà di verità» che da subito Foucault aveva individuato al
cuore dell’esperienza dell’uomo occidentale. Rispetto a tutto ciò, la vocazione «critica» della
genealogia, che ormai Foucault definisce «ontologia critica di noi stessi», ovvero «analisi storica dei
limiti che ci sono imposti» e «sperimentazione del loro possibile superamento», provocherà un
progressivo arretramento del terreno dell’indagine, finendo col concentrarsi sul versante delle pratiche
di soggettivazione. Via la ripresa dei problemi legati alla pratica penitenziale e confessionale nel
cristianesimo primitivo, a partire dal corso del 1979-1980 Foucault sarà condotto a intrecciare sempre
piú strettamente la storia dei «regimi di veridizione» con quella che aveva chiamato «una storia del
soggetto». Attraverso l’analisi di pratiche come l’exomologesi (l’atto di fede) e l’exagouresis Foucault
approfondisce l’indagine, già avviata nel 1978, relativa al modo in cui attraverso la conferma della
propria credenza si manifesta una verità e si afferma la propria adesione ad essa, vale a dire il soggetto
crede alle verità che gli sono rivelate ed insegnate, ed insieme si impegna in una serie di obblighi
(relativi al maestro, alla comunità di appartenenza, ecc.); e del modo in cui attraverso l’obbligo di
confessione che si impone tra direttore di coscienza e discepolo all’interno delle prime istituzioni
monastiche si disegna una nuova figura del rapporto di dipendenza nella direzione spirituale. Essa
comporta infatti l’obbligo di esaminare permanentemente la propria coscienza, quello di enunciare nel
modo piú esaustivo e permanente possibile i moti piú segreti del pensiero e dell’anima, al fine di
potervi decifrare l’opera del maligno e in vista della creazione – sotto le specie dell’umiltà, della
mortificazione e dell’obbedienza come finalità immanenti – di un certo tipo di relazione di sé con se
stessi ispirata per l’essenziale al modello della rinuncia a sé, della «distruzione della forma del sé». La
verbalizzazione permanente degli arcana conscientiae, inoltre, servirà a predisporre quel nuovo modo
di governare gli uomini che Foucault aveva già cominciato ad analizzare negli anni precedenti.
L’analisi della soggettivazione cristiana apre però anche la strada a ciò che impegnerà Foucault negli
anni successivi, ovvero l’analisi delle scuole filosofiche dell’antichità greco-romana, che mai gli
apparirà «ammirevole» o esemplare, e a cui pure si dedicherà ormai definitivamente al fine di redigere
«l’inventario delle differenze» nei modi di costituzione della soggettività nel suo rapporto con la verità.
L’attraversamento della filosofia antica consente infatti a Foucault di far emergere un insieme di
pratiche, a partire dall’esame di coscienza, che risulta però del tutto diverso (anche quando hanno la
stessa forma o ricorrono allo stesso materiale, le finalità e le modalità ne trasformano radicalmente la
sostanza) da quelle che avranno corso nel cristianesimo. Già nelle lezioni del 1979-1980 emerge allora
un’altra figura della verità, in cui l’obbedienza del discepolo al maestro di verità non è che una fase
necessaria, ma transitoria, in vista della saggezza, ovvero dell’autocostituzione e del dominio di sé, in
cui l’incorporazione dei discorsi veri ha di mira per l’essenziale una salvezza interpretata nei termini di
un soggetto libero ma anche sufficientemente ben formato e saldo, capace di resistere alle avversità ed
alle sventure. L’anno successivo sarà allora la volta di quei «processi di soggettivazione» che hanno a
che fare con ciò che nel 1976 aveva chiamato il «dispositivo di sessualità», quello che attraverso la
lunga dinastia che comincia con l’analisi della concupiscenza e della carne nelle pratiche confessionali,
giunge fino all’«ermeneutica del soggetto di desiderio», variante decisiva dell’esperienza dell’homo
psychologicus, quello stesso in cui noi oggi crediamo di poter riconoscere il principio della nostra
identità e la nostra verità. E proprio a disfare tale pretesa verità del soggetto saranno dedicati gli ultimi
tre anni di corso al Collège. Quello del 1981-82, in particolare, contiene l’ultimo e definitivo tornante
della «piccola storia della verità», come l’aveva chiamata dieci anni prima. Foucault vi introduce infatti
una contrapposizione, quella tra spiritualità e conoscenza. In tutta l’antichità (con la sola eccezione di
Aristotele) spiritualità e filosofia (di cui cura di sé e conoscenza di sé sono l’espressione fondamentale)
hanno proceduto appaiate, e se pure con diverse modulazioni all’interno delle differenti scuole
filosofiche, sono risultate indissociabili l’una dall’altra. La domanda fondamentale della filosofia antica
è sempre stata «a che prezzo posso avere accesso alla verità?», ovvero quali trasformazioni, quali
modificazioni dovrò operare su me stesso per accedere alla verità? E reciprocamente: quali
trasformazioni di me stesso mi consentirà di effettuare la conoscenza della verità? Solo da una
circolarità di questo genere tra conoscenza del vero e trasformazione di colui che conosce potrà venire
la salvezza del soggetto, ovvero una forma di vita, uno stile di esistenza in cui «il fatto di conoscere il
vero, di dire il vero, di praticare e di mettere in atto il vero potrà consentire al soggetto non solo di agire
come deve, ma anche di essere come deve e vuole essere». In quella che Foucault chiama la «cultura
del sé» la conoscenza della verità implica e presuppone una «pratica della verità», di cui fan parte gli
«esercizi», il sistema dell’askêsis, e la parrhêsia, ovvero di tutto ciò che consente di trasformare «il
logos in ethos». L’askêsis, come insieme regolato e calcolato delle procedure che consentono a un
individuo di trasformare sistematicamente i discorsi veri in principî di comportamento moralmente
accettabili, appare allora come ciò che fa sí che il «dir vero» divenga il «modo d’essere del soggetto».
L’ascesi antica, insomma, non aveva per nulla l’obiettivo della rinuncia a sé, bensí quella di consentire
di fare di se stessi il fine della propria esistenza, di costituirsi come soggetti; per nulla di assicurare la
sottomissione del soggetto alla legge, bensí di legarlo alla verità. Da un lato, essa dovrà permettere «di
acquisire i discorsi veri di cui avremo bisogno in tutte le circostanze, gli eventi e le peripezie della vita,
per stabilire un rapporto adeguato, pieno e compiuto con noi stessi»; dall’altro, essa sarà anche «ciò che
permette a ciascuno di diventare a sua volta il soggetto di tali discorsi veri, ovvero di diventare il
soggetto che dice il vero» e che proprio in virtú del fatto di enunciare la verità risulta salvato. E tale
«soggettivazione del discorso vero», come la chiama Foucault, all’interno di una pratica e di un
esercizio di sé su se stessi, costituisce il fondamento della «spiritualità» antica. Da cui discende anche
la parrhêsia, poiché solo una simile trasformazione, una vera e propria «conversione», renderà il
soggetto capace di tenere un discorso la cui verità è manifestata dalla sua condotta, «dal modo in cui
effettivamente vive». L’adaequatio ricercata dalla spiritualità antica, pertanto, non è (innanzitutto)
quella tra la cosa e l’idea, bensí quella «tra il soggetto che parla e dice il vero, e il soggetto che si
comporta come esige tale verità». Ma un certo giorno (un giorno che dura ancora) qualcosa è cambiato
nei rapporti tra la filosofia e la spiritualità, che ha cessato di essere la struttura immanente
dell’esperienza della verità dell’uomo occidentale. Quel certo giorno Foucault l’ha definito «il
momento cartesiano» (anche se in realtà cominciato con la nascita della teologia, e forse persino con
Aristotele, per culminare con Kant), allorché ha cominciato a disfarsi la coalescenza tra cura di sé e
conoscenza di sé, tra il pensiero filosofico e le sue «condizioni di spiritualità», e si è stabilito che è
sufficiente «che il soggetto sia quello che è, per avere, nella conoscenza, un accesso alla verità che gli
viene dischiuso dalla sua specifica struttura di soggetto». È diventato sufficiente, per il soggetto,
rispettare le regole e i principî universali del metodo – costituendosi cosí a sua volta come soggetto
universale di conoscenza – per riconoscere come verità «ciò che è evidente». «Il soggetto come tale è
diventato capace di verità», una verità diventata conoscenza esatta e certa di un campo di oggetti che ha
reso possibile l’estensione progressiva del dominio del soggetto sulla realtà a partire dalla conoscenza
che ne ha, di cui farà parte anche la conoscenza (oggettiva) che potrà avere di se stesso a partire dalla
trasparenza della coscienza a se stessa. E se con Descartes prende il via l’oggettivazione della realtà,
quel che resta della cura di sé e delle esigenze della spiritualità verrà progressivamente incorporato
all’interno del pastorato cristiano, a partire dal quale apparirà un nuovo e diverso modo di
soggettivazione ed oggettivazione, quello che condurrà all’ermeneutica del soggetto di desiderio che
Foucault aveva cominciato a studiare nei corsi degli anni precedenti. Un soggetto che si trova ora
intrappolato in una nuova e diversa modalità della veridizione: l’obbligo di «dire la verità su se stesso»,
l’obbligo per il soggetto dell’enunciazione di diventare «il riferimento dell’enunciato», grazie alla
confessione destinata a diventare il luogo di rivelazione dei segreti della coscienza. Ma questo esito non
era inevitabile, e quello che siamo diventati non risponde ad alcuna fatalità o necessità. Altre vie
sarebbero state possibili, altre lo sono state. Come ad esempio nell’esperienza del discorso vero
socratico, o in quello cinico, dove il dir vero si lega al rischio della morte assunto coraggiosamente
come manifestazione di una relazione di sé con se stessi definito dalla libertà che conferisce
all’esistenza un’unità, una forma ed uno stile che sono la testimonianza vivente della verità. Rispetto a
cui poco importa che avvenga nei modi dello scandalo permanente, del rifiuto di essere governati, o in
quelli della perseveranza che nasce dalla volontà di governare se stessi.
Per essere franchi, abbiamo qui inteso sostenere, ancora una volta, la natura eminentemente politica
del lavoro di Foucault. In molti hanno infatti ritenuto di poter affermare che il Foucault «finale», quello
della lunga «plongée» nel mondo antico e tardo antico, quello della sedicente riscoperta dell’etica, della
cura di sé, della spiritualità, fosse un Foucault che aveva abbandonato, addirittura rigettato, il problema
della politica, andando alla ricerca di «una soluzione di ricambio». Ora, se pure è vero che aveva preso
le distanze da un certo militantismo, non si congederà però mai da una volontà persistente e persino
accanita di problematizzazione della politica. Tra i molti luoghi che si potrebbero citare, basti ricordare
quel che affermava ancora poco prima di morire, allorché rammentava che porre il problema etico, per
lui, significava porre il problema della «pratica della libertà», o meglio della «pratica riflessa della
libertà», piuttosto che quello della «liberazione» (e della «rivoluzione»), aggiungendo subito, però, che
la libertà è «in se stessa politica», e lo è esattamente negli stessi termini in cui lo è, e perché lo è, la
verità. La questione politica, insomma, «è la verità stessa», come aveva detto già nel 1976. Ecco allora
quel che afferma otto anni dopo: «Dopotutto, perché la verità? Perché, piú ancora che di noi stessi, ci
curiamo della verità? E in ogni caso, perché ci curiamo di noi stessi solo avendo cura della verità?
Abbiamo qui a che fare con una questione fondamentale, che è forse la questione stessa dell’occidente:
che cosa ha fatto sí che tutta quanta la cultura occidentale abbia cominciato a gravitare attorno ad un
obbligo di verità che ha poi assunto una serie di forme assai differenti le une dalle altre? Nulla, fino ad
ora, ha mostrato che sarebbe possibile definire una strategia del tutto diversa. È allora solo nel campo
definito da tale obbligo di verità che ci potremo spostare, in qualche caso muovendo contro gli effetti di
dominio che possono essere legati a strutture di verità o a istituzioni che si fan carico della verità.
Insomma, non si sfugge al dominio della verità giocando un gioco del tutto diverso da quello della
verità, bensí giocandolo diversamente, o giocando un altro gioco, un’altra partita, o altre carte, ma
sempre restando nel gioco della verità. E lo stesso avviene nel caso della politica, in cui è possibile
procedere alla critica del politico – a partire, ad esempio, dalle conseguenze dello stato di dominio che
tale politica induce – senza che sia possibile farlo in altro modo se non giocando un certo gioco di
verità, mostrando che cosa ne consegua o mostrando che vi sono altre possibilità razionali, o
insegnando agli individui quel che essi non sanno sulla loro propria situazione». Quel che Foucault non
ha mai fatto, è ricavare da tali «insegnamenti» le istruzioni e le linee di condotta da adottare, il codice
da approvare, la «legge» da applicare, rifuggendo con rigore e determinazione da qualunque tentazione
normativa, a differenza dei tanti che non cessano di dirci ciò che sarebbe necessario fare o quello che
dovremmo essere. Tutt’al piú due raccomandazioni: primo, non confessare mai; e poi, rifiutare quello
che siamo, ovvero «quel tipo di individualità che ci è stato imposto per cosí tanti secoli». Fino alla fine,
dunque, i rapporti tra la filosofia e la politica hanno continuato ad essere per Foucault decisivi,
inaggirabili, fondamentali. Dire la verità al potere, la sola forma di coraggio che alla fine riconoscesse
insieme agli atti di cui si è capaci di assumersi direttamente la responsabilità, significava infatti anche,
per lui, chiedere al potere di dire la verità, ma senza prescriverla: «Niente è piú inconsistente di un
regime politico indifferente nei confronti della verità; ma niente è piú pericoloso di un sistema politico
che pretenda di prescriverla. La funzione del dir vero non deve assumere la forma della legge, allo
stesso modo in cui sarebbe vano credere che tale funzione risieda a tutti gli effetti nei giochi spontanei
della comunicazione. Il compito del dir vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un
obbligo da cui nessun potere potrebbe esimersi. Salvo imporre il silenzio della servitú». Che il lavoro
sia infinito, e che nessuna «liberazione» sia promessa come definitiva, non deve indurci ad abdicare
rispetto al nostro «compito». E del resto talvolta accade che, a partire da un soprassalto di coraggio e
dignità degli uomini, o anche dei popoli, la verità faccia irruzione, ma come «evento», appunto, e senza
garanzie. Strana attualità (politica) di Foucault. Nulla, tuttavia, ci autorizza a ritenere (ma la cosa non
sarebbe neppure auspicabile), e piuttosto tutto ci induce a pensare il contrario, che un giorno il secolo
sarà foucaultiano.
Il libro

L’ O R D I N E D E L D I S C O R S O È I L T E S T O D E L L A L E Z I O N E I N A U G U R A L E D I M I C H E L
Foucault al Collège de France, e costituisce ancor oggi, pur nella sua brevità, un
documento di grande importanza per comprendere l’inflessione che il cantiere
foucaultiano avrebbe conosciuto a partire dagli anni settanta. In esso, infatti, l’autore
pone al centro delle proprie preoccupazioni teoriche, per la prima volta in maniera
esplicita, la questione dei rapporti tra discorso, verità e potere, delineando il progetto
critico e genealogico che avrebbe sviluppato e approfondito negli anni successivi.
Ne L’ordine del discorso Foucault analizza in particolare le varie forme in cui in
ogni società la produzione del discorso è al tempo stesso controllata e selezionata, in
modo da scongiurarne i poteri e i pericoli, e poterlo cosí padroneggiare. Questione piú
che mai di drammatica attualità.
Alla riedizione del testo si è aggiunta la plaquette di candidatura al Collège de
France, intitolata Titoli e lavori, nella quale Foucault offre una illuminante sintesi di
tutte le sue ricerche anteriori, illustrando il cammino percorso fino ad allora, e
delineando alcuni dei problemi e dei campi che avrebbero dovuto essere oggetto delle
sue indagini e del suo insegnamento negli anni a venire.
A completare il dossier relativo agli esordi dell’avventura foucaultiana, i due
interventi con i quali Jules Vuillemin sosterrà la candidatura di Foucault alla
prestigiosa istituzione.
Nella Postfazione che chiude il volume, infine, Mauro Bertani rievoca alcuni dei
temi e dei problemi affrontati da Foucault nel corso dei tredici anni di ricerche febbrili
e di insegnamento instancabile, fino a poco prima della morte, al Collège de France.
L’autore

Michel Foucault (Poitiers, 1926 - Parigi, 1984), la cui opera ha rinnovato in modo
decisivo lo studio delle scienze umane, ha insegnato al Centro universitario
sperimentale di Vincennes e, dal 1970 al 1984, al Collège de France. Tra le sue
opere, sono disponibili nel catalogo Einaudi: Nascita della clinica («Biblioteca
Einaudi»), Sorvegliare e punire («ET Saggi»), Il discorso, la storia, la verità
(«Einaudi contemporanea»), L’ordine del discorso («Piccola Biblioteca Einaudi
Nuova serie»), Mal fare, dir vero («Piccola Biblioteca Einaudi Nuova serie»).
Altri libri importanti: Storia della follia, Le parole e le cose (entrambi Rizzoli),
La volontà di sapere e L’uso dei piaceri (Feltrinelli).
Dello stesso autore

Nascita della clinica


Sorvegliare e punire
Microfisica del potere
Il discorso, la storia, la verità
Mal fare, dir vero
Titolo originale L’ordre du discours
© 1971 Éditions Gallimard, Paris
Per l’appendice Titres et Travaux
© 1994 Éditions Gallimard, Paris
© 1972 e 2004 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Traduzioni di Alessandro Fontana, Mauro Bertani e Valeria Zini.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere


copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso
in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato
specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle
quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo
testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei
diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà
sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge
633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio,
commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il
preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non
potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e
le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.
www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858415443
Indice

L'ordine del discorso


Appendici
Titoli e lavori
Relazione prima
Relazione seconda
Postfazione di Mauro Bertani
Il libro
L’autore
Dello stesso autore
Copyright

Potrebbero piacerti anche