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di Michele Nobile
(in base a discussioni e riflessioni svoltesi nella redazione di Utopia rossa)
Nel caso dell’appello per l’assemblea di Chianciano, i cui obiettivi sono «fuori dal debito! fuori
dall’euro!», il nazionalismo è tanto chiaro quanto confuse sono le prospettive politiche.
Vi si legge infatti che cancellare il debito è necessario per «la rinascita dell’Italia, per rilanciare
l’economia produttiva, pubblica e privata»: dove, ovviamente, la «rinascita» di cui si parla non
può che essere quella dell’economia capitalistica italiana (l’unica al momento esistente in
Italia). Che se ne sia consapevoli o meno, ci si atteggia in tal modo a consiglieri della
borghesia, le cui capacità di comprendonio si devono presumere, nonostante la sua
plurisecolare esperienza e la conquista del mondo, gravemente limitate (chiaro erroe di
prospettiva, che porta a sottovalutare la capacità di analisi e di azione dell’avversario). Ma,
forse per placare un rimorso di coscienza, s’aggiunge: «per gettare le fondamenta di un nuovo
ordine sociale».
In questo appello si chiede anche di «tornare alla lira», come se la lira fosse un
qualche feticcio meno capitalistico dell’euro. O forse si pensa che in una società
integralmente monetaria come quella capitalistica «l’economia produttiva» possa essere
separata dal finanziamento dell’investimento e dallo sviluppo del circuito finanziario mondiale?
In una società capitalistica la moneta è sempre un rapporto sociale, la forma dello
sfruttamento del lavoro salariato, non un «oggetto» neutro. Scambiando l’euro con la lira si
avanza verso il socialismo quanto giocando alle tre carte in una pubblica piazza.
L’appello per Chianciano ha un merito, anche se assai discutibile: è più esplicito e più coerente
di quello dell’assemblea romana del Primo ottobre, indetta da Cremaschi e da fette della ex
estrema sinistra (da tempo inserite nella logica del sistema parlamentare capitalistico) sotto lo
slogan generico «Dobbiamo fermarli». Leggendo attentamente, si vede che il nocciolo di
questo secondo appello è «non pagare il debito», ma esso si trova annegato in una lista di
obiettivi, molti dei quali - in astratto e presi singolarmente - sono giusti e condivisibili. Forse si
pensa che pretendere di non far pagare il debito allo Stato e a determinati settori di borghesia
italiana possa conferire unità all’insieme degli obiettivi e costituirne un’efficace sintesi politica?
Questa pia illusione è invece una vera disgrazia in campo ideologico. Per fortuna, grazie alla
sua irrealizzabilità, essa non può avere però conseguenze pratiche (allo stato attuale delle cose
e dati gli attuali rapporti di forze).
Occorre decidere tra lottare contro l’offensiva padronale e governativa lasciando alla Casta
politica italiana il compito di regolare i suoi (propri) conti con l’oligarchia internazionale;
oppure finire col fungere da involontari e indesiderati «sindacalisti» dello Stato italiano presso i
suoi creditori. Mi auguro che tale contraddizione venga risolta positivamente, perché l’obiettivo
della «cancellazione» del debito distoglie da altri compiti di lotta sociale, più necessari e
fecondi, introducendo anche una distorsione politica. Anticapitalismo e antistatalismo devono
marciare insieme.
Sorge allora una domanda: nell’Italia del 2012 o del 2013, da quali partiti o entità
politiche sarebbe costituito questo governo?
Di certo non si pensa al centrodestra. Restando seri, allora non resta che il centrosinistra, che
Paolo Ferrero ha già cominciato a chiamare «il nuovo Ulivo» (Cpn di Rifondazione del 24
settembre 2011).
In tal caso saremmo di fronte a un allarmante caso di patologica smemoratezza.
Ricordo che dal gennaio 1995 al maggio 2001 il centrosinistra riuscì a realizzare il più grande
successo del capitalismo italiano almeno da trent’anni a quella parte: la «convergenza» con i
parametri di Maastricht e l’entrata dell’Italia nella zona dell’euro. In quei 2211 giorni, a fronte
dei 226 del primo governo Berlusconi, il centrosinistra fece il grosso del lavoro sporco
necessario al capitale nazionale e internazionale. In quel periodo la disoccupazione rimase per
anni al livello medio del 10% (non inferiore a quello attuale, ma allora non mi pare che si
parlasse di depressione o di crollo del sistema), la precarietà divenne norma, l’attacco ai diritti
socioeconomici fu contrabbandato come necessaria «modernizzazione» per rilanciare la
competitività dell’impresa-Italia, il rigore fiscale a danno dei servizi pubblici fu esaltato come
virtù civile. Tutto questo e altro venne fatto in nome dell’entrata dell’Italia nel sistema
monetario europeo. I bombardamenti e la guerra furono dichiarati «umanitari» e ammantati di
retorica europeistica. In quegli stessi anni il Prc, il Pdci e i Verdi, sostennero il centrosinistra,
fino all’ultimo e con ministri Pdci e Verdi, per tutta la fase cruciale anche il Prc. Si ricorderà che
nel 2008 i postcomunisti e i Verdi furono di nuovo nella maggioranza e nel governo insieme a
Prodi, il grande protagonista delle privatizzazioni, della «convergenza» e della convinta
adesione ai vincoli esterni posti da Maastricht e dalla permanenza nell’eurosistema.
Si vuole forse scherzare sulla possibilità che questi partiti possano gestire una soluzione
«popolare» della crisi? O non si è imparato nulla dalla pagliacciata della «sinistra radicale»
circa il «ponte» tra «palazzo» e piazza, giustamente punita dall’elettorato quando mandò a
casa i 110 Forchettoni rossi che si erano appena insediati in Parlamento?
Il fatto è che il centrosinistra è una frazione politica dell’imperialismo italiano; e per il
capitalismo internazionale è anche la frazione politica più affidabile, innanzitutto per le
maggiori capacità di prevenire e attutire il conflitto sociale.
Ma se invece si vuole essere antagonisti a entrambe le frazioni politiche già esistenti
dell’imperialismo italiano, sia di centrosinistra sia di centrodestra (e alla terza opzione che si va
delineando al «centro» con Casini, Fini, Rutelli), allora chi si vuole che governi la
«cancellazione» e la «fuoriuscita» e gestisca una nuova politica economica e sociale? Chi ha la
presunzione di candidarsi al governo, non in un futuro indeterminato, ma nell’orizzonte
temporale della crisi in corso, allo scopo di tornare alla lira e cancellare il debito?
Sembra incredibile che mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici
italiane subisce i costi e i contraccolpi dellla crisi pressoché inerme (cioè non riuscendo a
difendere nulla delle proprie conquiste passate, in salari, sanità, previdenza e occupazione), ci
sia qualcuno così ingenuo da rivendicare una linea economica alternativa (ma al di là del
ritorno alla lira, non si sa bene quale) e addirittura un qualche genere di governo «alternativo»
(anche se poi sappiamo che tanto alternativo non è, visto che alla fine sempre al centrosinistra
guardano le stesse correnti politiche che ora propongono il ritorno alla lira o la cancellazione
del debito, e che domani accetteranno sicuramente il blocco elettorale col centrosinistra alla
luce della tradizionale italianissima politica del «male minore», del «meno peggio). Se si
usasse un minimo di fraseologia vetero-anticapitalistica, questo velleitarismo verrebbe a
identificarsi con la rivendicazione della... rivoluzione.
Sarà simpatico, sarà gratificante, esprimerà un’identità antagonistica, ma si tratta di mero
propagandismo che non sposta di un millimetro i rapporti di forza reali, una diversione di
tempo, intelligenza ed energie. E il catastrofismo nell’analisi economica – che sottende tutta
questa frenetica mobilitazione per il ritorno alla lira e il non-pagamento del debito - non
accorcia di un metro la lunga strada verso la rivoluzione, anzi la ostacola teoricamente. Per
costruire un grande movimento sociale anticapitalista occorrono tempi più lunghi di quelli della
crisi del debito sovrano, passi più piccoli ma politicamente difficili e discriminanti. E
ovviamente, una conoscenza precisa del rapporto tra Stato capitalistico e interessi economici
dell’imperialismo italiano (a loro volta parte integrante dell’imperialismo internazionale, come
si è confermato anche nella riunione del G20 a Washington).
Oppure, mentre il governo Berlusconi traballa e si affaccia l’eventualità di elezioni, questa della
«cancellazione» del debito è una sorta di lancio pubblicitario per una nuova operazione
elettorale? Ecco, che tutto ciò prefiguri una manovra per le prossime elezioni politiche, suona
più realistico e concreto.
Uscire dal sistema monetario europeo e «cancellare» il debito non solo non
costituiscono una soluzione socialista della crisi economica, ma possono perfino
portare al peggioramento della situazione e ad ancor più gravi misure di «austerità»
per i comuni cittadini. Per quanto non sia la soluzione preferita, per governanti, banche e
istituzioni internazionali il default (o insolvenza) e la ristrutturazione del debito estero sono
sicuramente un’opzione accettabile come male minore.
Esaminiamo ora in quali circostanze potrebbero verificarsi e con quali conseguenze per i
lavoratori.
L’ulteriore aggravarsi della crisi potrebbe precipitare l’insolvenza e l’uscita
dall’eurosistema di un singolo paese, poniamo la Grecia. Che il governo sia di
centrosinistra oppure di centrodestra, la differenza sarebbe minima. Sicuri, invece, i risultati.
Quel che accadrebbe non è la «cancellazione», ma la ristrutturazione dei termini del
pagamento del debito con l’estero (di cui una parte sarebbe cancellata), con i creditori in
posizione forte, tale da garantire i propri interessi in senso finanziario e politico. Quanto ai
comuni cittadini, sarebbero comunque essi a pagare per la ristrutturazione del debito:
verrebbero imposte misure di «austerità» draconiane, ancora più gravi di quelle ora in essere.
Stiamo già provando un assaggio. Quel poco che i capitalisti potrebbero guadagnare (loro, non
i lavoratori) grazie alle esportazioni favorite dalla svalutazione sarebbe perso dall’impennata
dei costi delle importazioni. Il servizio del debito risulterebbe ancor più gravoso, il
finanziamento dell’investimento si arresterebbe, la disoccupazione crescerebbe ulteriormente. I
salari reali crollerebbero sia a causa della disoccupazione che dell’inflazione. Il quadro, in
sintesi, sarebbe quello di una depressione grave, prolungata, senza evidenti vie d’uscita se non
dopo anni di «lacrime, sudore e - speriamo di no - sangue». A questo proposito disponiamo già
della lunga e triste esperienza della «crisi del debito estero» dei cosiddetti «paesi in via di
sviluppo», o di un paese «socialista» come la Polonia, negli anni Ottanta del secolo scorso.
Uscire dall’eurosistema e tornare alla lira non significa affatto sottrarsi a condizionalità
antipopolari gravosissime.
5. Un’ipotesi fantapolitica.
La politica rivoluzionaria non può prendere posizione per una delle parti negli affari e nei
regolamenti di conti tra padroni e tra Stati capitalistici, se non a prezzo di rinunciare al
principio basilare dell’autonomia a fronte del nemico di classe: per questo non può rivendicare
il non-pagamento del debito contratto proprio da quel «nemico». Ma non può neanche
prescindere dall’utilizzare ogni occasione - dapprima in forma di propaganda e appena possibile
come obiettivo immediato per cui lottare - per sostenere una prospettiva storica superiore a
quella borghese. È per questo che l’idea del ritorno alla lira appare nettamente in contrasto
anche con la prospettiva (al momento solo utopica o propagandistica) della costruzione di una
comunità socialista continentale che abbia in comune la moneta e molto altro, superando lo
statalismo nazionale.
6. Conclusione retrospettiva.
Al termine del mio libro del 2006, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, e nella
serie di articoli sulla crisi (pubblicati nel blog di Utopia rossa: www.utopiarossa.blogspot.com)
ho sostenuto con forza che gli orientamenti di politica economica detti molto impropriamente
«neoliberisti» sono radicati nella struttura contemporanea dell’economia mondiale. Da questo
consegue, scrivevo, che i governanti e le borghesie non avrebbero né potuto né voluto
modificare tali orientamenti anche in caso di grave crisi.
Inoltre, a differenza della maggior parte dei commentatori, giornalisti ed economisti di sinistra,
non ho affatto visto, nell’esplodere della crisi nell’autunno 2008, né l’approssimarsi della
catastrofe imminente né la fine delle politiche «neoliberali» e l’occasione per un nuovo new
deal, quando molti ingenui cantavano liricamente l’avvento del messia Obama.
Al contrario, sostenevo che gli Stati imperialistici sarebbero intervenuti pesantemente per
«salvare» il sistema dalla caduta nella depressione, ma che questo avrebbe anche implicato
l’utilizzo della crisi per sferrare un ancor più feroce attacco ai diritti socioeconomici dei
lavoratori. Che è esattamente quanto accaduto e sta accadendo.
Scrivevo anche che, tanto più a lungo sarebbero durate le illusioni in una qualche positiva
«evoluzione» dei partiti di «sinistra» e di centrosinistra, il voto nella logica del «male minore»,
il «sostegno critico» o la partecipazione al governo delle formazioni «comuniste» ed ecologiste,
tanto più difficile sarebbe stata un’efficace mobilitazione difensiva dei lavoratori e della
cittadinanza e, a maggior ragione, la costruzione di una grande movimento sociale
anticapitalistico.
Ora non paghiamo solo e principalmente il berlusconismo: dovrebbe ormai essere palese anche
ai ciechi l’inesistenza di uno specifico «regime» statuale di Berlusconi. Mentre è in corso la più
grave crisi economica del dopoguerra paghiamo in tutti i sensi troppi anni di illusioni e
opportunismo, elettoralismo e degenerazione etico-politica. Non è una situazione dalla quale si
esca con le impennate velleitarie e il confusionismo venato di sciovinismo; tantomeno
lanciando appelli e campagne fondate sulla pia illusione che, urlando in piazza buoni consigli
alla borghesia e alla Casta politica – in tanti, magari tantissimi - si possa ricavare il benché
minimo vantaggio per il mondo del lavoro fisico e mentale. Come ho cercato di dimostrare, si
rischia addirittura di fare peggio. Le più celebri campagne degli scorsi decenni (per es. quella
sul fanfascismo» o quella sul Referendum «a perdere» sull’art. 18) stanno lì a dimostrarlo. Lo
dimostrerà anche questa, se non la si ferma in tempo
Nel 1933, nel pieno della Grande depressione o Great crash, gli Stati Uniti abbandonarono il
gold exchange standard (il sistema monetario internazionale tra le due guerre, basato sull’oro
e sulle valute più importanti). Non erano i primi e non furono gli ultimi. L’abbandono del
vincolo aureo e la svalutazione erano misure diffuse e connesse: l’intenzione iniziale era quella
di bloccare la spirale depressiva con misure eccezionali che violassero solo temporaneamente
l’ortodossia finanziaria vigente. Rompere le catene dell’oro si rivelò come un passo necessario
perché potesse svilupparsi la nuova frontiera della politica economica, allora eterodossa, della
creazione di domanda da parte dello Stato. Ciò avvenne col massiccio piano di riarmo della
Germania nazista, i lavori pubblici del new deal roosveltiano e, infine, l’esplodere della Guerra
mondiale.
In tempi, combinazioni ed efficacia differenti a seconda degli Stati, si affermò la nuova
ortodossia della gestione macroeconomica cosiddetta «keynesiana», crebbero il peso dei posti
di lavoro statali nell’occupazione totale e del bilancio pubblico sul prodotto interno, si
svilupparono strumenti e istituti che tendevano a contrastare automaticamente le crisi.
Il capitalismo rischiò di cadere nel baratro, ma sopravvisse alla depressione e avviò un
processo di profonda trasformazione strutturale dei rapporti tra Stato ed economia, i cui
profondi effetti sono tuttora operanti. Il 1929 può ripetersi, ma ora è meno probabile.
Piccola bibliografia personale cui rinviare il lettore che voglia approfondire i temi qui accennati.
Nobile, Michele, Merce-natura ed ecosocialismo. Per la critica del «capitalismo reale», Erre
emme/Massari editore, Roma 1993.
Id., Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, (collana Utopia rossa), Massari editore,
Bolsena 2006.
Id., «La crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama. Nota 1 sulla crisi», 8 marzo
2009, pubblicata nei Quaderni del Craet n. 9, marzo 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel
blog di Utopia Rossa http://www.utopiarossa.org/Nobile%20note%sulla%20crisi%201.pdf.
Id., «Previsioni sui tassi di disoccupazione nei prossimi anni. Nota 2 sulla crisi. 10 aprile
2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 10, giugno 2009, in rete nel sito www.craet.it e
nel blog di Utopia Rossa
http://www.utopiarossa.org/Nobile%20-%20note%20sulla%20crisi%20(2).pdf
Id., «Una pia illusione: la crisi economica come catarsi politica. Nota 3 sulla crisi. Giugno
2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 11, settembre 2009, in rete nel sito www.craet.it e
nel blog di Utopia Rossa
http://www.utopiarossa.org/Nobile%20note%20sulla%20crisi%203.pdf
Id., «La disoccupazione, durante e oltre la crisi. Previsioni per i prossimi anni. Nota 4 sulla
crisi. 26 giugno 2009», in rete nel blog di Utopia Rossa,
http://www.utopiarossa.org/Nobile%20-%20note%20sulla%20crisi%20(4).pdf
Id., «Sulla crisi economica», 14 novembre 2010, [risposta di Michele Nobile all'invio
dell'articolo di Antonio Peredo, "Descubren a Marx" da parte di Enzo Valls, dall'Argentina.] in
rete nel blog di Utopia Rossa,
http://utopiarossa.blogspot.com/2010/11/sulla-crisi-economica-di-michele-nobile.html
Id., «La crisi dell’Irlanda, un esempio delle contraddizioni dell’Unione Europea. Nota 5 sulla
crisi», aprile 2011, in rete nel blog di Utopia Rossa,
http://www.utopiarossa.org/Nobile%20-%20note%20sulla%20crisi%20(5).pdf