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Nel cul-de-sac del signoraggio mentre si affama la bestia


Pubblicato da Carmen Gallus Il 26 aprile 2010 @ 00:40 in Informazione | Nessun commento

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In passato, sul gruppo Centrofondi, ho partecipato a una lunga e a dire il vero snervante discussione tra i sostenitori del signoraggio e
i contrari, conclusasi con una sorta di “patteggiamento” con alcuni, e con un nulla di fatto con i più irriducibili.

Insieme ad altri, mi opponevo alla interpretazione corrente del signoraggio come truffa contabile attraverso la quale la Banca Centrale si incamera il denaro del
circolante ponendolo al passivo dello stato patrimoniale, essendo invece convinta che la “truffa”, invero gravissima, ai danni dello Stato, che dovrebbe essere l’unico
legittimo gestore della moneta e della politica monetaria, passa per altri canali, forse meno occulti (anche se di moneta caso strano non ne sa granché nessuno,
nemmeno tra i più informati), ma già ampiamente sufficienti a condannarci alla schiavitù nei confronti delle banche.

Non voglio però di nuovo infilarmi nel cul-de-sac signoraggio-si/signoraggio-no, né essere provocatoria verso coloro che ne sono convinti.

Vorrei invece provare a delineare una breve storia della emissione monetaria per mostrare come, a partire dagli anni Ottanta, sia stato messo in piedi un tale perverso
meccanismo di espropriazione di potere nei confronti dello Stato, che già basta e avanza a determinare lo strapotere dei banchieri, senza necessità alcuna di litigare
sull’esistenza di truffe di altro genere. Come dire, ci tengono già per le palle così, scusate l’espressione, senza bisogno di marchingegni contabili difficili da dimostrare.

Facciamo dunque un passo indietro. Fino agli anni ‘70 c’era un altro modo di finanziare i deficit del bilancio pubblico. Nei libri si parla di “monetizzazione” del debito,
liquidandola in fretta come causa dell’inflazione a due cifre del decennio.

Vediamo meglio di cosa si trattava. Da un lato il finanziamento della spesa pubblica poteva avvenire attraverso scoperti nel conto corrente di Tesoreria, il conto che il
Tesoro intratteneva con la Banca d’Italia, in cui moneta fresca di nuova emissione veniva direttamente messa a disposizione dello Stato per esigenze di cassa.

Per le esigenze eccedenti quella che veniva considerata la giusta immissione di base monetaria, si emettevano titoli del debito pubblico a tassi di interesse contenuti,
stabiliti dallo stesso Ministro del Tesoro. Le banche per legge erano soggette a dei vincoli di portafoglio che le obbligavano a investire il 6% dei loro depositi in titoli di
Stato. Alla monetizzazione, si aggiungeva quindi un finanziamento con debito a tassi agevolati stabiliti dallo stesso settore pubblico.

La Banca d’Italia partecipava alle aste dei titoli di Stato in concorrenza con le banche e gli altri istituti ammessi, per garantire migliori saggi di aggiudicazione,
impegnandosi ad acquistare i titoli invenduti. Infatti i titoli, come avviene ancora oggi, erano emessi con il sistema dell’asta marginale, coè a dire assegnati tutti al
prezzo dell’ultima tranche, detto prezzo “al margine”, al quale la quantità domandata eguaglia la quantità offerta. La Banca d’Italia aveva il compito di acquistare le
ultime tranches di titoli eventualmente invendute, per evitare la discesa del prezzo di cui avrebbero sennò beneficiato tutti i sottoscrittori, a danno dello Stato.

Questi titoli residuali erano acquistati dalla Banca centrale tramite emissione di nuova moneta, e messi a riserva all’attivo, in contropartita del circolante emesso e
iscritto al passivo. Gli interessi erano poi girati allo stato (a meno delle spese della banca). Lo Stato restituiva il denaro alla banca alla scadenza dei titoli, ma d’altronde
alla scadenza si apriva la prossima asta, che dava corso a un nuovo finanziamento.

Non dico che fosse il migliore dei modi, è chiaro ed evidente ai miei occhi che lo Stato dovrebbe poter emettere la sua moneta gratuitamente in corrispondenza delle
necessità del circolante senza tanti giri; tuttavia “rebus sic stantibus”, queste regole hanno contribuito a contenere il debito italiano entro limiti accettabili sino agli anni
’80, nonostante le forti spese pubbliche e le politiche keynesiane allora dominanti. Il debito pubblico viaggiava intorno al 35% del PIL negli anni ’60, ed era ancora al
60% nel 1980.

Cosa è successo dopo? La situazione di piena occupazione raggiunta a fine anni Sessanta, favorita dalle politiche keynesiane, modificando i rapporti tra le classi,
rafforzava notevolmente il potere contrattuale dei lavoratori, che sfuggivano al controllo. L’impennata dei salari dopo l’autunno caldo e il conflitto sociale elevatissimo
per oltre un decennio, insieme a un forte rialzo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, erodevano i margini di profitto in maniera tale che il capitale varò la
“strategia dell’inflazione”, aumentando i prezzi per correggere la redistribuzione del reddito imposta dal movimento operaio; il sistema della scala mobile, però,
indicizzando i salari all’inflazione, riusciva a redistribuire nuovamente a vantaggio dei redditi più bassi. I prezzi salivano così di nuovo, e la rincorsa prezzi-salari-prezzi
che acutizzava l’inflazione galoppante altro non era se non la lotta tra salari e profitto per la distribuzione della torta.

L’intervento dello Stato in economia di stampo Keynesiano portava davvero alla piena occupazione! Ma questo non sembrava un risultato desiderabile ai detentori del
capitale, che non volevano accettare la conseguente redistribuzione della ricchezza!

La rivincita del grande capitale si è basata sulla politica di affamare la bestia, ossia tagliare allo Stato i suoi finanziamenti e impedirgli di fare le politiche sociali e gli
investimenti necessari a tenere alto il livello del reddito e dell’occupazione. La strategia è passata da un lato per una riduzione della progressività dell’imposizione
tributaria, ma soprattutto per una lotta decisa alla monetizzazione del debito, che gli economisti, con un certo grado di compiacenza, avallavano come la causa
primaria dell’inflazione di allora.

Le autorità monetarie italiane, all’inizio degli anni ‘80, cominciarono con l’eliminare i vincoli di portafoglio delle banche, poi con il cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e
Tesoro del luglio 1981 fu stabilito che la Banca d’Italia cessava di essere acquirente residuale dei titoli offerti alle aste.

La ragione espressa era la spaventosa inflazione a due cifre addebitata alla “monetizzazione” del debito, mentre quella occulta era di compiere un primo passo verso
l’obiettivo di strangolare lo Stato facendogli mancare i finanziamenti e lasciare più spazio al dio libero mercato.

Questa misura ebbe infatti un effetto dirompente, perché il meccanismo delle aste marginali comportava che i titoli in emissione venissero assegnati tutti al prezzo al
margine, anche oltre i normali livelli di mercato. Il cosiddetto minimum landing rate, il tasso sui prestiti per i migliori clienti, era di molto inferiore al tasso praticato
allo Stato, per cui ai grossi clienti conveniva addirittura prendere a prestito il denaro in banca per reinvestirlo immediatamente in titoli di stato, guadagnando la
differenza tra i due tassi!

La cassa integrazione straordinaria venne finanziata in quegli anni al 20% di interesse!

Ed è quindi a partire dagli anni ’80 che il debito cresce a dismisura, arrivando nel 1990 a oltre il 100% del PIL, a causa dei salati interessi che lo Stato si trovava a
dover pagare. Qualsiasi grafico mostra l’impennata del debito a partire dagli anni Ottanta.

Il compimento del progetto di esproprio totale della sovranità monetaria fu raggiunto dieci anni dopo con il Trattato di Maastricht, che oltre a prevedere la necessità del
riequilibrio del bilancio pubblico per entrare a far parte della moneta unica (limiti del 3% per il deficit e del 60% per il debito), d’altra parte vietava esplicitamente alle
Banche Centrali di concedere scoperti di conto alle amministrazioni pubbliche, nonché di acquistare direttamente titoli di debito pubblico.

L’unico motivo per emettere circolante diventa il controllo della liquidità del sistema, a discrezione totale dei banchieri e per l’obiettivo esclusivo di mantenere stabile il
valore della moneta. L’emissione di circolante per le esigenze di finanziamento del Tesoro, prima considerato un canale normale di emissione della moneta, diventa off
limits, circondato da un vero tabù, tanto che nei libri si sorvola su questo canale oramai in disuso.

Contemporaneamente in Italia la legge del 7 febbraio 1992 stabiliva che “le variazioni del tasso di sconto sono disposte dal Governatore della Banca d’Italia con proprio
provvedimento” e non più dal Ministro del Tesoro, su proposta del Governatore della Banca d’Italia.

Benché l’importanza di questi provvedimenti sia enorme, essi non risuonano nell’agone politico. Siamo agli albori di Tangentopoli, ultimo atto della rappresentazione,
ultimo tocco di pennello teso a screditare definitivamente la classe politica anche agli occhi del popolo, come inadatta a gestire denaro, bisognosa della rigorosa tutela
degli uomini di banca (sic!)….

Con tutto ciò viene quindi definitivamente tolto allo Stato il controllo sul suo finanziamento, e assegnato in modo unilaterale ai banchieri il potere decisionale
sull’emissione e sulla politica monetaria.

Oggi quando e nella misura in cui la Banca Centrale decide di aumentare la base monetaria e immettere circolante, la funzione di emissione da essa svolta si articola
su tutto il territorio nazionale attraverso la rete delle filiali che a livello locale provvedono ad alimentare il sistema con banconote fresche e a ritirare dalla circolazione
le banconote logore, attraverso i prelevamenti e i versamenti effettuati dalle banche commerciali. Inoltre con le operazioni di mercato aperto di tipo definitivo la BC
può immettere nuovo circolante comprando titoli sul mercato secondario. Gli attivi in contropartita dell’emissione delle banconote (titoli, crediti) vengono messi a
riserva e lì rimangono, mentre gli interessi su queste riserve, come già prima avveniva, sono rigirati in parte allo Stato.

Il problema a mio parere sta non solo nel fatto che l’emissione di circolante non è più al servizio dello Stato, ma soprattutto che è mantenuta in limiti ristrettissimi,
mentre la riserva obbligatoria delle banche è stata abbassata di oltre il 20% , moltiplicando in modo esponenziale la moneta creata dal sistema bancario attraverso
l’esercizio del credito, con i suoi lucrosi interessi, di cui ovviamente nessuno si sogna di versare niente allo Stato.

Al 2010, dalle statistiche sugli aggregati monetari della Banca d’Italia risulta che la massa di cartamoneta in circolazione ammonta a circa 135 miliardi di euro, contro
una massa di moneta bancaria su cui le banche incassano interessi – il cosiddetto M3 – di circa 1.300 miliardi di euro. Un rapporto di 10 ad 1. Credo che qui stia il

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punto. Infilarsi a litigare nel cul-de-sac del signoraggio, abbastanza difficile da dimostrare, mi sembra quanto meno abbastanza inutile di fronte all’enormità di questa
frode, autentica, dimostrata, scandalosa, eppure circondata ancora da mille tabù.

Se il nostro coinquilino ricco ci porta via la chiave della dispensa, sostenendo che altrimenti ci abbuffiamo e ci viene il mal di pancia, non c’è bisogno di andare a cercare
alcun doppiofondo della dispensa dove lui nasconda cibo, può anche darsi che ci sia, in ogni caso la dispensa è già in modo evidente inaccessibile, chiusa a chiave per il
nostro bene!

Infine dopo il danno la beffa: questa rivoluzione copernicana nella gestione delle finanze pubbliche aveva tra le priorità il ridimensionamento del debito accumulato.
Sono passati quasi vent’anni da Maastricht, ma siamo ancora allo stesso livello di allora, anzi, sempre peggio.

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