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SULLA FIGURA EDUCATIVA DEL GURU

Carlo Pancera
Testo pubblicato in "Contaminazioni - studi sull'intercultura", a cura di D. Costantino, editore Franco Angeli,
collana Biblon, Milano, 2007.
Nelle nostre odierne societ che vivono con disagio una situazione in cui i valori della precedente
generazione si sono sbiaditi e la disaffezione alle ideologie del Novecento ha portato al loro generale rifiuto,
si sente viva una tensione verso altri punti di raccordo, altri riferimenti. Dove ricercare una fonte che ci aiuti a
ripensare, e rielaborare vie di soluzione alla crisi di valori che sentiamo pressante? Gi da tempo le culture
delle civilt orientali, in particolare modo quelle dei paesi asiatici oggi emergenti anche sul piano economico
e politico, hanno attratto l'attenzione di molti occidentali. In un contesto di sempre pi rapida
mondializzazione e incrocio, o anche intreccio, di civilt, maggiore forse la curiosit e l'apertura verso
culture che non si percepiscono pi come estranee ma anzi la cui ricchezza le rende attraenti. In effetti se
solo prendiamo in esame le culture del subcontinente indiano ci troviamo di fronte a complessi intellettuali e
spirituali che affondano le loro radici in tempi antichissimi, e che pur con tutte le trasformazioni ed evoluzioni
della loro lunga storia, sembrano aver mantenuto un filo di continuit attraverso i secoli, il che ci sembra
garanzia e conferma di validit o almeno di solidit di una tradizione che considera non perdibili alcuni
elementi di riferimento che si sono anzi perpetuati col tempo e che sono dunque ritenuti come acquisizioni
consolidate. Tanto pi che le antiche culture da cui prendono le mosse sono generalmente viste come fonte,
sorgente da cui hanno preso ispirazione anche le culture della nostra stessa antichit mediterranea, o
almeno si ritiene che esse si fossero diffuse ampiamente influenzando dunque in certa misura anche
l'evoluzione delle civilt d'occidente. Quindi all'impressione di distanza che si pu provare ad un primo
approccio fa presto seguito un sentimento di riconoscimento di una comune matrice. Almeno in alcune
tematiche e riflessioni che attraversano il lungo periodo, e che costituiscono dei leitmotivs, degli elementi di
continuit e di permanenza su un arco diacronico molto esteso. E' questo appunto il caso ad esempio delle
riflessioni sulla relazione tra maestro e allievo, sulle caratteristiche costitutive della figura del maestro, sulle
vie e modalit di trasmissione culturale da una generazione all'altra, oltre che su cosa debba costituire il
patrimonio di conoscenze da preservare lungo il tempo. Nelle culture del subcontinente indiano, che sono
varie e complesse, non mancano certo nel passato, ma anche nei nostri giorni, personaggi eminenti che
vengono ritenuti, o si presentano, come maestri del pensiero, o maestri spirituali, o guide per intraprendere
pratiche ed esercizi che ci possano instradare per una via nuova di riflessione sul mondo e sulla nostra
stessa interiorit. Nel contempo, in India c' stato, sin dall' ottocento (ovvero dal dominio britannico e per
contrappasso dalla nascita del nazionalismo), un vasto movimento "modernista" in direzione di un
rinnovamento culturale, che -come sostengono certi autori (1)- pu essere dovuto in parte a certi influssi di
provenienza occidentale (vedi ad es. la Societ Teosofica). Forse per certi versi pu anche darsi che il
confronto, inteso anche come confrontation, come scontro, con la cultura occidentale, abbia favorito il voler
ridefinire la propria identit costruendo una nuova identit indiana moderna. Pertanto la propugnata
rivitalizzazione che faceva seguito ad una fase di crisi della societ, e anche di valori di riferimento, diede
avvio alla ideazione e costruzione di un processo di moralizzazione e di disciplinamento della societ indiana
su basi rinnovate. In effetti la visione "progressista" di certi maestri (2), se pu forse essere dovuta in parte
all'aver preso in considerazione di rivolgersi anche agli europei, d'altro lato essenzialmente stimolata
soprattutto dalla volont di creare un clima di rinnovamento interno, mettendo da parte gli elementi di
discriminazione e di selezione che fino ad allora avevano governato l'istruzione (spirituale, e non solo). Infatti
del secolo scorso, e dovuta in buona parte al lavoro di alcuni maestri, la possibilit di accedere alla
conoscenza dei "Vedanta" aperta anche per non-bramini, per le donne, persino per i non-hindu, e quindi per
gli occidentali, ecc. Fattost che molti pensatori, letterati, uomini di cultura, maestri spirituali, hanno formulato
delle sintesi culturali, volte a mitigare gli aspetti pi "verticali" dell'insegnamento tradizionale, ritenuti inutili o
superati, per favorire una pi libera ispirazione individuale, attenuando la rigida modalit di "filiazione" che
vigeva nelle scuole tradizionali (3). Dunque il rinnovamento sostanzialmente sorto dall'intimo della cultura
indiana, per un moto di insofferenza verso certo tradizionalismo autoritario fatto di esteriorit e di ritualit
cristallizzate (e allergiche ad ogni apertura). E qui, oltre all'apertura sociale e alla proclamazione di una
nuova base identitaria indiana da diffondersi in tutte le caste, si operata una "rilettura" e valorizzazione di
un nucleo di "libert" che pur si trovava nella antica cultura tradizionale, che si potuto riprendere e
sottolineare; esso , nella concezione e nella pratica della relazione tra maestro e allievo, quello di una
trasmissione che privilegia la componente non-dottrinaria, che conferisce la centralit alla figura del
discepolo nel prevedere la progressione del rapporto, e una istruzione/addestramento spirtuale per certi
aspetti non impositiva. Queste sono le gemme della tradizione vedica che si poterono far rigermogliare. Ora,
in alcuni ambienti invece nei nostri paesi industriali venuto crescendo e diffondendosi un sentimento di
mancanza di personalit-guida cui poter fare riferimento per riceverne stimoli positivi di crescita e
1

maturazione, unitamente al bisogno profondo di coltivare maggiormente la propria interiorit, a volte sentito
come molto pressante (che in certi casi-limite sembra quasi una disponibilit a farsi oggetto di plagio). Tale
insieme fa s che alcuni europei ed occidentali si rivolgano alle culture orientali e in particolare a quelle
dell'India, e pensino di poter trovare in alcune figure di riferimento indiane ci che nel nostro contesto
culturale ritengono non essere presente (mentre in effetti nella nostra cultura di matrice greco-romana e
ebraico-cristiana invece da sempre ben viva una presenza di maestri spirituali), o non rispondente alle
proprie inclinazioni e curiosit, e attese. A ci si aggiungano i contatti, i viaggi, la presenza nei nostri paesi di
personalit indiane con un grande carisma, e che hanno saputo produrre un effetto di fascinazione, oppure
che divulgano dottrine, o discipline che sembrano di grande interesse e valore. Perci di fatto un numero
sempre crescente di persone dunque si va affidando con totale trasporto alla figura di un "guru" indiano (pi
o meno effettivamente "degno" di tale titolo) nella propria ricerca di un maestro spirituale che indichi una via
pratica realizzativa (4). D'altronde in generale, chi non avverte di aver bisogno di consigli, dell'esempio di un
maestro, per riorientare le proprie modalit di affrontare la vita quotidiana? E' comunque un sentimento direi
assai diffuso in questa nostra fase di crisi culturale, e forse di transizione verso sbocchi nuovi e sincretici, il
sentire l'esigenza di un aiuto, di una guida, di un riferimento, di uno sprone a intraprendere strade che
possano condurci ad uscire dall'incertezza, dall'ansia, dallo smarrimento. E inoltre, chi non vorrebbe porsi a
contatto con una personalit di grande spicco, o comunque con l'insegnamento di un pensiero o di una
modalit di approccio ai problemi, che promana da una figura di percepibile autorevolezza? Di qui l'interesse
degli occidentali per conoscere meglio il significato della figura del "guru", nell' ambito della civilt indiana.
Ma oramai la stessa ricerca di un guru di riferimento, per avere un aiuto nell'affrontare certe problematiche,
divenuta parte della nostra stessa cultura contemporanea, e quindi in questo aspetto si pu dire che in
Occidente avvenuta e si consolidata una "contaminazione" della nostra cultura con quella indiana, cos
tanto la pratica di frequentare corsi di cultura indiana, o comunque varie scuole yoga, o di altre pratiche ed
esercizi spirituali le pi diverse, si diffusa nei nostri stessi paesi. In gran parte per questo fenomeno della
nostra cultura produce una "contaminazione" che resta ancora nel solco di una visione "orientaleggiante" per
cui noi siamo portati a "stravedere" ovvero a vedere questi nuovi "oggetti" culturali con un nostro peculiare
sguardo, in parte incongruo o scorretto, in parte deformante, che valorizza ed enfatizza nella cultura altra
con cui ci imbattiamo, tratti che hanno piuttosto valore per noi pi di quanto in certi casi non ne abbiano
effettivamente all'interno dei parametri e dei paradigmi culturali originari (si pensi soltanto ad es. al significato
profondamente diverso da quello mediterraneo, che ha il concetto di religione nei cosiddetti hinduismo,
buddhismo, ...o in altre aree della variegata spiritualit indiana). Ho premesso tutte queste considerazioni, un
po' troppo generali e forse vaghe, al trattare l'argomento indicato nel titolo, perch ci si renda conto della
complessit di questi intrecci problematici, e di quanto sia anche arduo generalizzare, dando una sintesi
valida per una accettabile divulgazione. Il generalizzare sempre un semplificare, comunque mi sforzer di
toccare le principali questioni in campo, per quanto ne sia in grado *, e cercher di trovare un minimo
comune denominatore che possa essere valido per un albero della vita e della conoscenza cos antico (e
venerabile), intricato e frondoso come quello delle culture del subcontinente indiano.
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Il primo significato etimologico del termine guru in antico sanscrito era "pesante", "di notevole peso", e quindi
si attribu a "colui che carico di saggezza", poi col tempo assunse il significato di maestro, nel senso di
guida spirituale con questi significati: guru "colui che disperde le tenebre", e anche "colui che rimuove
l'ignoranza" (poich il sostantivo risulta composto dai radicali gu, oscurit, e ru, rimozione). Pertanto con il
suo esempio, e con i suoi insegnamenti, egli mostra una superiore "visione" (darshn) delle cose e quindi
illumina il discepolo. Originariamente il guru era maestro di tradizione, cio colui che si rende tramite del
passaggio dei concetti e precetti religiosi di maggior valore da una generazione all'altra. In linea di principio
ogni buon hind divenuto padre di famiglia e capo di casa (grhastha), deve insegnare nel suo ambito
comunitario a rispettare i precetti, le regole alimentari, i riti e le cerimonie; dopo di ch, espletati i suoi doveri,
ad un certo punto della sua esistenza pu ritirarsi dalla vita attiva e darsi alla meditazione ( la fase di vita
detta vanaprastha), e allora appunto seguendo le indicazioni di un maestro, pu farsi guru a sua volta. In
epoche storiche pi recenti intervennero, specie dalla fine settecento / primi ottocento in poi, maestri che
pure essendo stati iniziati a loro volta da un guru, a partire da questa base religiosa, insegnavano una
propria specifica "visione" cui erano approdati, e costoro diedero vita a vere "scuole" (intese come catena di
maestri/adepti che tramanda gli insegnamenti del fondatore), con propri ashrama (centri di meditazione, o di
ritiri spirituali). Come tramite di tradizioni (e poi dunque anche di interpretazioni) un guru trova la origine dei
suoi insegnamenti nella parola divina, nelle norme e nelle credenze originarie e di base del Dharma, della
spiritualit "hinduista" (al di l dunque di ogni differenza tra le religiosit, Shivaita o Vishnuita, Shakti, Tantra
o altre, pur anch'esse poi articolate in una grande variet di vie e correnti, o marga, ...), e pertanto ispirato
dal primo, e prisco, fondamento comune, che trae le sue origini nei tempi degli antichissimi testi, i "Rig Veda"
(gli Inni del Sapere). Un guru dunque legittimato e dotato di autorevolezza perch considerato messaggero
di pensiero divino. Se ha grande sapienza chiamato swami, cio reverendo, in quanto dottore di dottrina.
Ma non essendo l'istruzione, l'erudizione, la sua maggiore preoccupazione e finalit, i pi stimati e venerati
maestri, sono chiamati bhagwan, santo, oppure denominati con l'appellativo di Shri, luminoso, illuminato,
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fonte di luce e chiarezza, per la loro capacit di coinvolgere l'intero essere dei loro ascoltatori e frequentatori.
Alcuni grandissimi Maestri divennero capostipiti, ovvero fondatori di una concezione originale, che oper una
profonda riforma della tradizione e che venne a costituire una corrente "indipendente": come guru Nanak
(1470-1540) fondatore del movimento dei Sikh, ma come gi nel VI / IV sec. a.C. lo stesso buddhismo (da
Gautama Sakyamuni), oppure il movimento Jain (dal Maestro Mahavira), che hanno propri templi e propri
sacerdoti, per cui in questo caso tali Maestri si sono "evoluti" in veri e propri profeti o grandi riformatori, se
non sono addirittura considerati avatara, cio manifestazioni della divinit sulla terra per comunicare un
darshan di valore fondamentale, assoluto e universale per gli esseri umani. Ma anche il "semplice" guru,
considerato come anello di una grande catena, dunque nel suo ruolo di trasmettitore di una tradizione di
spiritualit (detta Sampradaya), svolto in gran misura in un rapporto individualizzato con ogni singolo allievo
(per questo ancor oggi in India lo troviamo a volte tradotto in inglese con "preceptor"), agendo
essenzialmente tramite l'esempio e la parola, vive nella dimensione della pi piena civilt orale che con la
sua intrinseca flessibilit consente di adattare la comunicazione ai destinatari, contestualmente ai tempi, ai
luoghi e alle situazioni, per cui pur nell'intenzione di trasmettere fedelmente e immutata la tradizione, egli
stesso sia pur inconsapevolmente la rigenera nel corso delle generazioni e in questo modo la mantiene viva
nell'essenza. In effetti il guru nei tempi moderni e attuali, non tanto riconosciuto tale per una sua
conoscenza specifica di cui specialista, ma per avere un approccio, un "sapere " sull'uomo, sul mondo, e
sulla vita, che ha un rapporto privilegiato con il divino, e che lo rende quasi "un canale" attraverso cui si
rinfocola in chi gli siede vicino, a stretto contatto, la consapevolezza della prioritaria importanza di coltivare
una concentrazione sulla propria interiorit, che gli permetta di scoprire la presenza del divino in s, in tutte
le forme viventi e in tutta la natura, disponendolo cos ad un pi puro rapporto con il proprio stesso essere e
con il Tutto. Non facile dunque che un qualsiasi insegnante sia un autentico guru. Narra una storia
contenuta nei testi sanscriti delle "Upanishad" (X-VI secc. a.C.): un cieco stava decidendo sulla strada da
seguire per andare a raggiungere la casa di suo suocero, e si poteva servire solamente del suo bastone di
canna di bamb. Mentre era incerto sulla direzione, sente canticchiare e si rende conto che in un campo
vicino c' un ragazzo che conduce delle mucche, lo chiama e gli chiede di portarlo a destinazione. Ma quello
risponde che deve badare alle bestie, e dice: cosa accadrebbe a queste mucche se io andassi via da questo
campo e dal mio sentiero? lui insiste, e il ragazzo allora gli dice: ecco cosa posso fare per te, tieniti stretta la
coda di questa mucca e senz'altro lei ti porter ad una stalla in cui c' il suo vitellino, che abbastanza vicina
alla casa di tuo suocero. Ma la mucca era molto disturbata dal sentirsi tirare continuamente per la coda e
scalciava, e si divincolava, e correva, sicch quando giunse a destinazione l'uomo era stanchissimo, sudato
e tutto sporco di letame e di fango. I lavoratori che erano nei campi attorno alla casa di suo suocero non lo
riconobbero e prendendolo per un ladro di bestiame lo cacciarono via in malo modo, senza stare a sentire le
sue lamentele. Viene raccontata questa storia, "il cieco attaccato alla coda", per dire che bisogna stare molto
attenti prima di affidarsi a chiunque seguendolo come guida. Si dice che ci sono tre cose che ben difficile
riuscire ad ottenere senza l'aiuto della grazia divina: nascere come essere umano; prendere la giusta via per
la liberazione spirituale; e trovare per s un guru che sia un sant'uomo. Per quest'ultimo punto pu essere
buona garanzia il sapere di chi stato allievo. Per quanto riguarda questi simbolici anelli di una "grande
catena" di guru, si consideri ad esempio che oggi vi sono vari maestri che si rifanno agli insegnamenti di
S.Radhakrishnan (morto oramai trent'anni fa), il quale soleva rinviare a swami Vivekananda quale suo
grande referente, questi da parte sua aveva fondato la "Ramakrishna Mission" nel 1897 per tramandare
intatti gli insegnamenti del suo maestro, a sua volta shri Ramakrishna (1836-86) diceva di ricollegarsi non
solo dall'indirizzo del movimento bengalese "Brahma Samaj", fondato nel 1828 da Ranmohan Ray (17721883), ma di sentirsi ispirato da Chaitanya (1485-1553), e certamente egli vedeva l'essenza della tradizione
hind nella corrente advaita (ovvero non-dualista, che si fonda sulle Upanishad) impostata dal grande
Maestro Shankara (circa del 700-750). E bench in effetti non poche n trascurabili siano le differenze e le
specificit di ciascuna di queste eminenti figure della spiritualit indiana...eppure esse si percepiscono come
legate tra loro da un filo d'oro di continuit. Sono queste verticalit, queste filiazioni, o catene temporali, a
conferire autorevolezza e quindi a legittimare gli insegnamenti di un guru. Per esempio proprio in un suo
recente articolo su un quotidiano, Jayendra Saraswati Swamigal, scriveva che nella scelta di un guru
bisognerebbe sempre informarsi su chi sia stato il maestro di quel maestro, e idealmente risalendo ai
formatori dei formatori, accertarsi che all'origine ci sia un dio quale primo insegnante del primo discepolo (5).
Generalmente si dice che Dakshinamurti (the god of teaching) sia da intendersi come la manifestazione
originaria del grande dio Shiva (nella Trimurti egli non solo il "distruttore" ma anche "il trasformatore"),
apparso all'inizio dei tempi sotto forma appunto di "primo insegnante dell'universo", che impartisce le stesse
leggi di natura, mentre la dea Saraswati la manifestazione femminile del supremo Brahma (lo spirito
universale), e rappresenta invece l'educazione sotto la forma dell' apprendimento, e quindi della
conoscenza, del sapere. Gi nei "Rig Veda" (c.1500 a.C.) dunque si colse questa distinzione fondamentale
della educazione, tra insegnamento e apprendimento, tra l'educare in quanto impartire insegnamenti, saperi,
e l'educazione in quanto patrimonio di conoscenze acquisite, e quindi in quanto atto, da un verso, con la sua
carica di intenzionalit, e dall'altro in quanto insieme di contenuti fatti propri (e comunicabili poi a propria
volta). Cos mi spieg un guru, Swami Suddhananda, parlandomi di "education as teaching" e di "education
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as learning", nel suo ashram nella campagna attorno al monte Arunachala, vicino alla cittadina di
Tiruvannamalai (nel Tamil Nadu), quando ingenuamente gli chiesi se la statua che stava nel locale tempietto
shivaita, di cui sentivo che parlavano come della "divinit dell'educazione", era forse Saraswati, dato che la
prima volta che ne avevo visto una raffigurazione in un antico affresco, anni prima in Rajahstan, mi era stata
presentata allora dal "cicerone" locale semplicemente dicendomi che Saraswati "the goddess of education"
(6). Ma riprendiamo il nostro discorso: Si racconta di un tale che fu rapito e poi abbandonato con gli occhi
bendati in una foresta, costui si sentiva oramai perduto, sinch un uomo compassionevole lo trov, gli tolse
le bende e gli spieg come ritornare a Gandhara, il suo paese. Anche l'essere umano stato come
abbandonato bendato nel mondo, bendato da Maya il potere che si colloca come un velo proprio tra i nostri
occhi e il mondo, generando fraintendimenti, e quindi illusioni apportatrici di delusione; per cui abbiamo
bisogno di un maestro che dissipi la nostra ignoranza e ci venga in aiuto dandoci insegnamenti per compiere
il nostro percorso e raggiungere la pace. E' una storia anche questa contenuta nelle Upanishad, in cui guru
appunto colui che rimuove l'oscurit, che toglie la benda, il velo, e che instrada. Sri Sankara Bhagavadpada,
nel cantare le lodi del guru in un suo poema chiede: "e che accade se un discepolo acquisisce tutta la gloria
possibile?" e poi retoricamente chiede in risposta: "e a che servirebbe tutto ci se la sua mente non
collegata strettamente al fior di loto su cui stanno i piedi del maestro?" e continua per 32 versi a porre simili
richieste "e che accade se...", "e nel caso che...", per ribadire che non c' nulla che possa veramente aver
senso se non si clto il messaggio divino che passa attraverso gli insegnamenti del proprio maestro.
Quindi vuol sottolineare con questo che un sussidio indispensabile per apprendere a discernere ci che
veramente pi importante nel percorso di apprendimento, consiste nel costruire e rafforzare il proprio guru
interiore (il maestro universale che presente in ogni essere vivente), cio quello spirito che appunto da
senso all'atto di apprendere (e poi di trasmettere). Quando swami Tilak (1855-1920) aveva circa trent'anni,
durante un pellegrinaggio concep l'intenzione di dare una svolta alla sua vita, sino ad allora dedicata
totalmente al lavoro, quale editore di una rivista. Dopo tre anni si vot al sannyasa, cio ad una vita di
rinuncia dei beni materiali, e intraprese un lungo viaggio a piedi, sostentandosi con la sola elemosina, come
tradizione per i nuovi "rinuncianti", e fece molte esperienze incontrando molte persone dedite alla vita
spirituale, ma senza incontrare un "vero" guru quale andava cercando. Poi pens che forse questo era
dovuto al fatto che si recava da una istituzione religiosa all'altra, e quindi dopo tre anni, prov a percorrere
invece ardui sentieri in luoghi impervi e appartati, cos come altri famosi "cercatori" prima di lui avevano
compiuto in gran parte della loro pratica di vita spirituale (sadhana), e infine intravide lungo il fiume Narmada
una capanna su una roccia in mezzo al bosco, e attratto dal fatto che un giovane usciva sulla soglia, vi si
rec. Vide che dentro stava un anziano, e seduti vicino a lui lo attorniavano altri giovani. Il maestro gli
chiese: "stai facendo un pellegrinaggio?", e lui non volendo parlare di s disse: "no Signore"; "e dunque,
qual' l'obiettivo del tuo viaggio?"; "ma non ho un obiettivo particolare, Signore". Allora il maestro disse:
"nemmeno una foglia lascia il suo posto senza alcun proposito..." e lo fiss negli occhi. "Ma il fatto che io,
Signore scusi, -replic Tilak- in generale starei cercando la conoscenza (Jnnam)". Il maestro non contest
nulla, e Tilak si risent un poco che non gli facesse pi caso. Ma quando chiese il permesso di uscire, il
maestro gli disse: "nessuno mai venuto sin qui per andarsene, come puoi farlo tu, figlio mio?". A questo
punto Tilak sent che il suo ego era stato sfidato e che non si sentiva di difenderlo di fronte al maestro,
pertanto si ferm. Rest per anni con baba Bajaranga Das-ji, e altri suoi discepoli. Uno in particolare era
sapientissimo e conosceva tutti i testi sacri e la storia, e le differenti tecniche di meditazione. Ma
l'insegnamento di Babaji mirava a far s che anche questo allievo imparasse a riconoscere le verit ovunque
si incontrassero, e in sostanza diceva: "figliolo ci sono gi abbastanza santoni e sapienti nel mondo, qui per
prima cosa devi divenire un essere umano", e gli diceva di liberarsi dell'ego, e di far ricorso solo a parole e
contenuti che possano rendere agli altri la stessa felicit che a lui medesimo. Babaji coltivava e curava con il
suo esempio, e con la gentilezza, la formazione del carattere, la semplicit in tutto, la modestia, l'umilt, la
compassione. Questi gli insegnamenti che Tilak apprese sin da subito, e perci in seguito venne inviato dal
maestro a compiere un grande giro per l'India e per vari paesi stranieri a diffondere questo messaggio
(contattando in particolare anche leaders e personaggi preminenti), sicuro che lo avrebbe fatto con buona
riuscita, dato che era in grado di sapere adattarsi a qualsiasi ambiente e di saper parlare a qualsiasi tipo di
interlocutore. Come in effetti dimostr negli otto anni impiegati ad adempiere a questo compito. Perci gli fu
dato il nome di bhagwan Gurudeva. Da questo racconto, deriva dunque che un autentico guru non un
insegnante nel senso di chi fa compiere determinati studi, anche se essi siano di contenuto spirituale, ma
un maestro di vita. Cosa si impara dedicandosi allo studio?: si sa che si tratta di un tipo di attivit che ci fa
sapere cose ritenute importanti, o cose per noi nuove, ci fa capire qualcosa di pi su certi temi, ci aiuta a
saper analizzare e a comparare, pu affinare il nostro senso critico. Quindi non certo qualcosa di inutile,
ma altro rispetto a quello che coltiva un guru inteso come una guida spirituale.
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Nella concezione complessiva della Vipassana (7) (da vi-passati =osservare profondamente), e in particolare
nella sua versione buddhistica cos come interpretata e insegnata dal maestro S.N.Goenka (8) si riflette
sull'effetto formativo delle cerimonie, dei riti, che scandiscono la vita degli ind, dette smskara, relative a
nascita, adultit, matrimonio, morte, ecc. Essa giunge ad una visione, estrapolata da riflessioni di antichi
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maestri, che se letta con un'ottica a noi pi consueta, pu costituire la base di una pedagogia e di una
costruzione teoretica sulla formazione, molto interessante. Si indica col termine samskara il concetto
secondo cui ogni formazione condizionata contestualmente sia dal percorso stesso che porta ad essa, che
dal fatto che essa medesima a sua volta influenza i vari processi formativi che via via ne conseguono. Si
parte innanzitutto dalla considerazione che la nostra mente ha di fatto dei limiti. Il condizionamento primario
nella fase iniziale di dipendenza e attaccamento nei confronti della madre e del gruppo di riferimento (A:
samskara come "imprinting"), la pre-condizione per il sorgere della conoscenza e della coscienza. Con
condizionamento primario si intendono le impressioni che inconsapevolmente uno riceve, e i residui
subconsci che queste lasciano in noi. Quindi la formazione di un individuo (B: samskara intesa come
"risultato"), a sua volta anche l'ultima a perfezionarsi dopo percezione, e sensazione, in quanto reazione
ad esse. Ogni formazione sta in (e dietro a) una catena determinata da attaccamento e/o avversione;
letteralmente samskara in questo contesto si potrebbe rendere pure con il termine ( C: ) "reattivit", poich
cos che i condizionamenti si imprimono nella mente a livello inconscio. Attaccamento (e/o avversione) a ci
che fuori dalle nostre possibilit di controllo razionale, sia per rassicurarci (si pensi alle occidentali
riflessioni sulla cultura come metamorfizzazione della paura), sia per rafforzare la nostra identit. Ma tutto
quello cui ci leghiamo o cui ci opponiamo si modifica, si trasforma nel corso del tempo, e questo
cambiamento continuo ci accompagna per tutto il percorso formativo: e ci stesso causa di sconcerto se
non sofferenza. Samskara (D: qui intesa come "Bildung") riferita a un processo incessante che da un verso
"vincola" il soggetto, e per altro contemporaneamente lo stimola, lo incita a liberarsi dai condizionamenti
dell'esistenza. Il processo di autonomizzazione si sviluppa contestualmente a questa ricerca di soluzioni
personali a problemi che sembrano non trovare soluzione seguendo le modalit che lambiente sociale ci
indica. A un certo punto questo procedere per riferimenti consolidati e per tentativi indipendenti,
attraversando momenti di conforto e approvazione sociale, ma anche di riprovazione e ostilit, ci porta a
maturare lindividuazione della nostra singolarit, e a costruire cos una nostra personalit. A questa ricerca
di un nucleo consolidato di individuazione personale si incomincia ad affiancare la nostra stessa
partecipazione ad atti di approvazione e riprovazione che a nostra volta esplichiamo verso altri (E: promotori
di samskara) per darci conferma delle scelte compiute. Un tale percorso formativo attentamente
supervisionato da un maestro. Queste mi sembrano visioni di una processualit, altamente significative in
un'ottica pedagogica. Ora ritornando alla ricerca spirituale assistita da un guru, dopo aver accennato
all'attivit di studio, e poi alle riflessioni sugli effetti formativi dell'insieme degli usi e costumi, e delle pratiche
religiose e sociali, comunque non facile dire cosa si acquisisca dedicandosi a curare la nostra spiritualit
interiore, e a cogliere spunti di riflessione e di introspezione posti da un maestro. Si potrebbe dire che ci
aiuta a scoprire e conoscere una nostra dimensione intima che avevamo trascurato, oppure che ci rivela
qualcosa di ignoto, o che ci fa rendere conto di nostre esigenze e bisogni inappagati o conculcati. In ogni
caso si misura il senso di questa attivit con un metro specifico, che quello della trasformazione. Possiamo
valutare l'importanza delle pratiche e degli esercizi spirituali, osservando in quale misura essi possano
produrre in noi un mutamento, un cambiamento nel nostro usuale modo di considerare le cose, gli eventi, e i
nostri moti interiori. La trasformazione una buona cosa se ci cambia nel senso di farci divenire
maggiormente attenti a non creare situazioni di tensione, a non causare sofferenze, a disporci ad essere pi
comprensivi verso gli altri, e in definitiva ad essere pi compassionevoli. Ma anche a dar luogo ad una
maggiore pace interiore, e a diminuire in noi l'aggressivit, i conflitti interiori, e a non lasciarci condizionare
da paure. Perci i maggiori maestri dell'India odierna, in generale dicono che bisognerebbe innanzitutto
cercare di essere pi consapevoli di noi stessi, e imparare a guardare con maggior distacco emotivo a ci
che ci accade attorno. Per poter valutare le cose con maggiore obiettivit, per poter capire le situazioni, oltre
ad imparare ad essere pi comprensivi, necessitiamo di conoscere pi elementi possibile, di comparare le
idee e i punti di vista, e anche fare il maggior numero di esperienze noi stessi, per poterci calare in altre
dimensioni del vissuto. Inoltre importante, anzi essenziale, coltivare l'onest, anche verso noi stessi, e la
disponibilit a comprendere gli altri, ma anche ad accettare che gli altri sono come sono (e ad accettarci noi
stessi ! ). Diceva una grande guida spirituale del novecento, Jiddhu Krishnamurti (1895-1986, che fu
soprannominato "la stella d'Oriente"), che bisogna sviluppare una mente aperta e il saper ascoltare. In
sostanza si dovrebbe cercare di vedere le cose sempre sotto una prospettiva ampia, come dall'alto, non
troppo interna ad un particolare, ma memore di un quadro generale. Tutto ci rappresenta una grande sfida,
e richiede esercizi di autocontrollo e di autoanalisi continui e non facili. Richiede nel contempo sensibilit e
spirito critico, e attenzione a non cadere in pregiudizi e opinioni fomentate dall'emotivit. Certo un simile
percorso ci pu causare un allontanamento dalla massa, e ci pu comportare anche aspetti spiacevoli, per
cui potremmo venire fraintesi, e soprattutto pu generare in noi in un primo momento un sentimento errato di
autostima eccessiva, che ci condurrebbe completamente fuori strada. In definitiva la ricerca spirituale, e
dunque la pratica quotidiana di una simile concentrazione su alcuni elementi che si ritengono importanti per
stare meglio con s e con gli altri, pur con la fatica che pu implicare, produttrice di serenit e di saggezza.
Perci anche una via e una forma di intelligenza della vita. Queste sono considerazioni che penso
possano valere in generale, anche se difficile in questo campo delineare una accettabile generalizzazione.
Comunque un guru non una figura tutta dedita solo a stimolare e a sviluppare nostri personali giudizi, ma
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prevalentemente un maestro che insegna esplicitamente a mettere in pratica alcuni principi e alcuni valori
che sono presenti nella grande tradizione spirituale indiana, e dunque in questo senso qualcuno che ci
indica una via. In un colloquio con Swami Suddhananda, di cui ho gi fatto cenno, egli ci raccont la storia di
un uomo sulla cinquantina che era molto interessato a conoscere gli insegnamenti di un noto maestro,
direttamente dalla fonte, poich aveva sentito dire che si trattava di insegnamenti giusti e importanti. Quindi
intraprese un viaggio per raggiungere la sua dimora che era posta su una montagna lontanissima. Giunto l
con fatica e con una accresciuta ansia di sapere, e quindi con grandi aspettative nei confronti di questo
incontro con un uomo straordinario, finalmente lo trov, e subito gli chiese di dirgli in cosa consistesse la sua
dottrina. Il maestro con un sorriso gli rispose "di essere gentile col prossimo, e di non causare mai
sofferenza". L'aspirante allievo gli rispose: "reverendo maestro, ho viaggiato a lungo, e mi potr trattenere
solo poco tempo, tu mi stai dicendo cose che sono note anche ad un bimbo di cinque anni, insomma non
potresti dirmi qualcosa di pi?". Il maestro gli contest: "quelle cose che tutti sanno a cinque anni, per
nessuno a cinquanta le applica...". Quanto importante sarebbe stato poi per l'aspirante riflettere su questo
paradosso! - comment Suddhananda-, invece di cercare di risolvere subito chiss quali grandi questioni,
perch non iniziare a riflettere sul fatto che troviamo tanto difficile poter praticare quel che pure consideriamo
essere giusto? Diceva Duryodana nel Mahabharata (poema epico risalente circa al IV sec. a.C.),
rivolgendosi al dio Krishna: "Oh Signore, io so cos' giusto, ma spesso non sono interessato a farlo, e io so
cos' ingiusto, ma non riesco a trattenermi dal farlo". Questo il pi centrale dei problemi: per questa
mancanza che il vivere diviene fonte di grandi conflitti interiori ed esteriori (9). Cos un guru indirizza
insegnando e dando basi di riferimento. Pertanto in un secondo colloquio riservato, uno di noi chiese a
Suddhananda che cos' che fa di una persona un guru? Lui rispose: quando state assieme, se tu sei
l'allievo, lui guru; cio nella misura in cui tu e lui siete in quella posizione reciproca, siete effettivamente tali.
Ma se tu non ritieni che io ti sia maestro, io non lo sono. E' come per marito e moglie. Quindi in questo caso
specifico, sono maestro nella misura in cui ti so dire che cos' un maestro, e nella misura in cui tu accogli la
mia risposta come quella che ti insegna qualcosa al riguardo di cos' un maestro. Nella Bhagavad Gita,
Arjuna chiede a Krishna: "Signore qual' la descrizione di un uomo di sicura saggezza? Come si muove?
come si esprime, come siede?" Krishna non rispose mai direttamente alla sua richiesta, ma lo port a
riflettere sull'identit di ciascuno, e sui ruoli, e sul fatto che essi sono maschere (10).
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A questo punto di riflessione dunque va ribadito che per la tradizione spirituale indiana (e non solo) un
"ricercatore" per poter progredire sul sentiero del perfezionamento spirituale ha imprescindibile necessit di
una guida che lo accompagni. Il significato stesso del termine Upanishad ci rinvia alle radici upa, cio vicino,
ni, che si pu rendere con devotamente, e shad, o sad, sedersi. Quindi ci riporta alla modalit di
trasmissione dei contenuti del Vedanta (cio il fine dei Veda) che avveniva in piccole riunioni in cui
rispettosamente ci si sedeva vicino al maestro. Per cui i suoi insegnamenti si svolgevano in queste "sedute".
L'espressione col tempo venne ad indicare anche ci che veniva insegnato a coloro che erano ritenuti pronti
per riceverlo e trarne una acquisizione per il proprio perfezionamento. Ancora nei tempi moderni in universit
monastiche e in templi-collegi si utilizza il sistema della scuola-noviziato (gurukula) per cui gli studenti
devono risiedere insieme al maestro, e quindi questi si prende cura di tutto il complesso di istruzione,
educazione e formazione (11). Nella tradizione indiana si contemplano due tipologie di figure che possano
svolgere questo ruolo. Un sapiente saggio che spieghi e illustri gli insegnamenti contenuti nelle sacre
scritture, che si impegni nella diffusione di quelle conoscenze, e che sia riconosciuto come una persona
esemplare che sia impegnata interamente nel far progredire il proprio discepolo in modo del tutto
disinteressato, cio senza ricercare anche fama e prestigio per s. Costui viene denominato un Acharya,
una sorta di mntore, ma anche di modello esemplare e paterno. Un'altro modello quello del vero e proprio
guru in senso stretto, il Sad guru. Il termine come abbiamo visto, significa "colui che rimuove le tenebre
dell'ignoranza", ed qualcuno che ha acquisito un buon grado di autorealizzazione, intesa quale
conoscenza di s (e insieme del reale valore delle cose e della vita), e realizzazione del S nella propria
persona (l'insieme di questi elementi si denomina Jnni), per cui sa come condurre un ricercatore verso la
consapevolezza per poter raggiungere infine la pace interiore. Se quest'uomo di saggezza un samnyasin
completo, cio un autentico e totale "rinunciante" ai beni materiali, allora sar un vero guru (Sad-, o Satguru) in grado di esser da guida a "ricercatori" gi solo con il proprio esempio in cui specchiarsi per poter
avviarsi all'unit con il suo insegnamento (12). La sua iniziazione la pu svolgere con il discepolo anche solo
con uno sguardo oppure con il sussurro di una sola parola. In certi casi si tratta di una straordinaria
personalit dalla cui semplice presenza emana una eccezionale sensazione di beatitudine, di serenit e di
pace. Per un autentico guru dunque va sempre sottolineata la questione fondamentale: la centralit del
discepolo, rispetto anche alla dottrina. Ma detto questo non si pensi ad un guru essenzialmente come ad un
pedagogo innovatore, impegnato nell'attuare una educazione non-autoritaria, esperto di metodologie
didattiche nuove e sperimentali, dimenticando che egli in primo luogo il tramite di una tradizione, e che in
generale in ogni ashrama si formano catene di discepoli che proseguono l'opera del proprio maestro
impartendo proprio quegli stessi insegnamenti che egli aveva impartito loro, possibilmente ricorrendo alle
stesse modalit, esempi, commenti, e utilizzando il suo stesso stile, al fine di perpetuare la sua
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impostazione, o interpretazione, ritenuta la migliore e pi efficace per mantenere i valori tradizionali intatti nel
tempo. "Nell'insegnamento tradizionale dei maestri hindu e "vedici", si insegna agli allievi anche la centralit
dell'auto-disciplina, con una forte richiesta di acquisire qualifiche quali l'autocontrollo, il servizio
disinteressato, lo spirito di sacrificio, la continenza, l'umilt, il profondo anelito alla conoscenza... che sono la
base per procedere all'istruzione spirituale, che effettivamente "leggera", se possibile, ma solo a queste
condizioni, che sono espresse nella Bhagavad Gita (sacro testo, letteralmente: canto del beato) e in tutti i
trattati spirituali. Ma d'altr'onde come si concepisce che si possa giungere ad acquisire tali qualifiche? Che
come chiedersi, come si diventa poi capaci di libert e di vera autonomia? La risposta paradossale, ma
tradizionalmente sarebbe: con una profonda, imprescindibile, motivazione personale, e con una rigorosa
disciplina, interiore ed esteriore." (...) "Non ci sono Maestri, riconosciuti o sconosciuti, non vi si trovano ricette
per la felicit, vera o immaginaria. Il Cammino Spirituale, sotto qualunque denominazione religiosa (e non) lo
si svolga, compito e grazia esclusiva di colui o colei che lo compie, con gioia e con sacrificio, nel buio e
nella luce. Chi trasmette gli strumenti della conoscenza tradizionale sempre e soltanto un semplice
traduttore, poich non si pu dare altro che il proprio servizio e la propria devozione." ( B. Polidori, 13).
Comunque ci non deve farci scordare l'antica parabola relativa a Ganesha, l'umile dio dalla testa di elefante
e con la penna in mano, il protettore degli studenti, il quale lasci che Shiva (avendo il sospetto che egli
corteggiasse la sua sposa Uma/Parvati) gli mozzasse la testa, facendone cos il simbolo stesso
dell'atteggiamento richiesto al discepolo: cio il maestro distrugge l'ego dell'allievo che amava troppo la
Sapienza scritturale, e che dal possesso della conoscenza si faceva coccolare e viziare. Una testa d'elefante
infatti a tutt'oggi il simbolo dell'umilt, che far cos di Ganesha redivivo, l'allievo divino, il pupillo per
antonomasia, e una figura percepita come molto "umana" dal popolo che lo sente vicino, e lo celebra
annualmente nelle festivit estive che contrassegnano il folklore pan-indiano come una divinit tra le pi
simpatiche e amate. Egli dunque a partire dall'VIII sec. glorificato -col nome di Ganapati- quale simbolo di
ci che sopravvive alla distruzione dell'esistente operata da Shiva (14). Ci si pu comprendere avendo
presente proprio il carattere strettamente individuale e "iniziatico" degli insegnamenti originari, cio il
contesto di una relazione personale, molto dettata dal sentimento e senza un canone universale -a parte
quello che ne dicono le scritture- che vincola in una copula (certo non esente da transfert) colui che per
l'allievo rappresenta il modello esemplare con colui che per il maestro a pieno titolo la sua creatura. Ai
nostri tempi attuali nei nostri paesi industriali questo modello (a suo modo stupendo, di una bellezza unica,
per il rapporto filiale di tenerezza, e di paterno affetto, pi che di amicizia, che lo cementava) forse
difficilmente comprensibile, eppure anche nel nostro passato c' stato ad es. un modello non molto dissimile,
almeno come ideale: quello che vigeva nella relazione tra il mastro artigiano e il suo apprendista nelle
botteghe d'arte. Negli inni del Rig-Veda (I, 164, 20) si evoca l'immagine di "due uccelli, stretti amici, che se
ne stanno sullo stesso albero. Uno di loro mangia una dolce bacca; l'altro senza mangiare, guarda
attentamente" (15). Sono in realt due aspetti del medesimo. Cos la versione di Vivekananda: "uno sta sulla
cima e l'altro pi sotto. Quello in cima calmo, silenzioso (...), l'altro sui rami pi bassi, mangiando ora frutti
dolci, ora amari, a volte felice a volte infelice. Dopo un certo tempo l'uccello situato al di sotto, mangia un
frutto eccezionalmente amaro, si disgusta e guarda al di sopra l'altro, meraviglioso volatile dalle piume d'oro,
che non mangia quei frutti, sereno, concentrato in s. L'uccello che si trova sotto anela a quello stato, ma
presto si dimentica di ci, e ricomincia a mangiare un frutto. In breve magia un altro amarissimo frutto, il
quale lo rende infelice, e nuovamente si mette a guardare al di sopra e cerca di avvicinarsi all'altro uccello.
Ancora una volta dimentica, e dopo un certo tempo guarda all'ins, continuando cos indefinitamente, fino a
che giunge a pochissima distanza dall'altro, e solo allora gli dato di ammirare il riflesso di luce prodotto
dalle piume che circondano il suo corpo. Sente allora un cambiamento interiore, e quanto pi si avvicina a
lui, vede ogni altra cosa sparire, sinch si accorge di questo meraviglioso cambiamento. L'uccello situato
nella parte inferiore era, per cos dire, soltanto l'ombra, il riflesso dell'altro; egli stesso per era
"essenzialmente" il medesimo uccello superiore. (...) il vero uccello effettivamente calmo, glorioso,
maestoso, in silenzio, nonch alieno da dispiaceri e da dolori. Egli il Signore dell'universo, mentre l'altro
l'anima umana che mangia i frutti dolci e amari di questo mondo. (...)"(16). Gi Shankara vi vedeva la
polarit tra il s individuale (jiva) e lo Ishvara, il Signore (17). Ma -cos commenta S.Marchignoli il brano del
Rig Veda- "l'opposizione, valida su un piano relativo, si perde su quello assoluto della identit tra il s e il
Brahman; forse per questo si dice che i due sono stretti amici? L'immagine si potrebbe anche interpretare
come la distinzione tra due atteggiamenti: quello del ritualista che, mosso dal desiderio, agisce in vista dei
frutti dell'azione, e quello dell'asceta che pienamente soddisfatto dell'esperienza del Brahman. Oppure,
ancora, vi si potrebbe vedere l'opposizione teorica tra fruizione e liberazione (...). E noi (...) non siamo tentati
di leggere, dietro questo enigma, polarit a noi ben note, come quella tra azione e contemplazione, o (...)
quella tra etica e mistica? (18). E dunque a questo punto, pure io sarei tentato di vedervi, come nella
dialettica hegeliana, la copula indissolubile del maestro e dell'allievo, che si definiscono per rispecchiamento
reciproco. Nelle Upanishad, il maestro Yajnavalkya nel corso del suo insegnamento alla moglie Maitryi, ad
una richiesta di spiegazione sulla conoscibilit, dice: "Dove vi per cos dire una coppia, l'uno vede l'altro,
l'uno odora, ode, pensa, intende l'altro. (...) Ma non puoi vedere il soggetto vedente del vedere (...). Quegli
la tua stessa anima che in tutte le cose" (Brhadaranyaka-Upanishad, 19). In questa "copula" cos stretta di
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partners che si rendono simili l'uno all'altro (talis pater, talis filius) dunque imprescindibile che il maestro sia
un "buon" maestro. "Le Upanishad ci chiedono di attingere alla conoscenza da un maestro competente, che
non sia soltanto addottrinato, ma anche in possesso della esperienza totale" (cfr. Mundaka-Upanisad, 20). E'
in questo contesto di senso che ad es. al centro d'educazione dell'Ashram di Pondichrry si dice che "quelli
che riescono ad essere buoni maestri, sono coloro che son capaci di far compiere un progresso interiore,
abbattendo le barriere dell'egotismo, facendo conquistare la padronanza di s, la chiaroveggenza, la
comprensione degli altri, ...e una pazienza a prova di tutto" (cfr. Ganesha...!). E' vero che difficile trovare
un maestro tanto capace, ma a ci le Upanishad aggiungono che anche altrettanto difficile avere un allievo
cos adeguato ! Varuna negli antichi Veda il dio che regge l'ordine cosmico e che sovrintende ai
comportamenti morali. Si racconta che Bhrgu si avvicinasse al padre Varuna per chiedergli di farsi suo
maestro e insegnargli quale sia la vera natura del Brahman (lo spirito universale). Il divino padre gli rispose:
"Sii desideroso di conoscere cosa sia ci da cui gli esseri sono venuti a nascere, ci per cui quando sono
nati vivono, ci in cui tornano quando cessano di vivere. Poich proprio questo Brahman". Bhrgu, stimolato
da questi interrogativi, fa di questa formula la base delle sue indagini, che incomincia subito a intraprendere.
In seguito a intensa applicazione perviene a quattro fondamentali scoperte collegate quali conseguenze
l'una dell'altra, dato che ciascuna da sola gli pareva ogni volta insufficiente per rispondere alla impostazione
del problema datagli dal padre. E queste sono le verit conoscibili, che i Veda indicano a proposito del
Brahman (Taittiriya-Upanishad, 21). Perci nelle Upanishad si dice che "le cose buone sono rare e difficili da
compiere". Cos come "prodigioso colui che lo sa spiegare, beato colui che lo apprende! prodigioso colui
che capisce, cui stato insegnato con profitto!" (Kena-Upanishad, 22). Inoltre molto complesso il dibattito
in sede teoretica sui mezzi (e metodi) di conoscenza, per giungere alla conoscenza (detti pramana), e su ci
che deve essere conosciuto (prameya), ma anche sul rapporto tra pramana e prameya, che pur avendo una
stretta relazione con l'oggetto del nostro stesso discorso, qui ora non possiamo affrontare (23). Ma, per
ribadire a questo proposito alcuni concetti-chiave, e nel contempo cogliere soprattutto i motivi di innovazione
che si sono sviluppati nel Novecento, leggiamo questo breve brano del grande Maestro spirituale Sri
Aurobindo: "Il maestro non un istruttore, un esperto; egli aiuta e guida semplicemente l'allievo. Il suo
compito di suggerire, e non di imporre. Inoltre egli non l'allenatore della mente dell'allievo; gli mostra
soltanto come perfezionare i propri strumenti di conoscenza e lo aiuta ed incoraggia in questo processo. Egli
non colui che impartisce conoscenze all'allievo, ma piuttosto colui che mostra come acquisirle per conto
proprio. Non uno che evoca conoscenze interiori dell'allievo, ma colui che indica dove giace quel
patrimonio e come pu essere condotto ad insorgere. In un autentico insegnamento il principio sano unico,
sia per un adulto come per un ragazzo, per un maschio come per una femmina: va solo considerata la
differenza, per diminuire o accrescere l'aiuto e la guida necessaria (o per adattarla), ma non cambia la
natura dell'insegnamento del maestro. Un secondo concetto consiste nel fatto che la mente deve essere
consultata nella crescita a lei propria. L'idea diffusa di modellare l'allievo secondo i desideri dell'insegnante
segno di ignoranza e superstizione barbara, occorre indurre l'allievo ad espandere s stesso in armonia con
la propria natura. Ognuno ha qualcosa di divino, di particolare, un'occasione di perfezione e di forza, anche
se di dimensioni limitate, una offerta divina che si pu accettare o lasciare. Il compito di ognuno di
trovarla, svilupparla, adoperarla. La meta principale dovrebbe consistere nell'aiutare l'allievo, la sua anima in
crescita, a far emergere il meglio e renderlo perfetto per un nobile scopo. Operare dal presente verso il
futuro, da ci che verso ci che sar, questo un terzo concetto. La base della natura dell'uomo
composta quasi sempre, dal passato dell'animo suo, dalle sue radici, dal suo ambiente, dalla sua origine
nazionale, ma anche dal suolo che gli da il sostentamento, dall'aria che respira, dai vari aspetti, suoni,
abitudini ai quali assuefatto. Essi lo formano in modo potente, ed da qui che dobbiamo incominciare".
(24). Dunque da quanto abbiamo visto deriva che la conoscenza e la padronanza di s non sono qualcosa
che si possa instillare, per cui non si pu comunicare con la sola istruzione, per quanto avanzata. Nella
Bhagavad Gita (il libro VI del Mahabharata) Krishna, la manifestazione del divino in terra sotto aspetto
umano, dice: "cerca di comprendere la vera natura di questa conoscenza avvicinandoti ad anime illuminate.
Se renderai loro i servigi che si aspettano, e li interrogherai con animo aperto e con cuore puro, costoro che
vedono la Verit te la indicheranno". E continua dicendo che un vero Jnni, cio colui che avendo acquisito
la conoscenza (o saggezza) un "realizzato", se continua a vivere nel mondo solo per amore del
prossimo, per cui la liberazione dello spirito dai condizionamenti pu esserci anche in vita e non solo -come
certi dicono- dopo la morte. Ma queste personalit straordinarie sono veramente delle rarit, e pertanto si
riconoscono immediatamente, mentre un guru o maestro, o guida, saranno forse pi difficili da riconoscere,
tuttavia se individuati, potranno essere di grandissimo aiuto sino ad un certo stadio del percorso, e saranno
veramente degni di tale nome se sapranno rendere l'allievo in grado di conoscere s stesso, e di procedere
da s con i propri mezzi, scegliendosi la propria strada. Ma lo scopo ultimo, non va dimenticato, quello
della liberazione dal dominio dell'Ego, e su questo obiettivo bisogna cercare di raggiungere la massima
capacit di concentrazione senza farsi distrarre da nulla, soprattutto da nessun pensiero, sinch non si
riuscir a fare s che nella nostra interiorit le acque profonde, cos come la superficie, siano del tutto quiete.
Sri Ramakrishna, in uno dei suoi "detti e aforismi" (raccolti dal suo allievo Swami Brahmananda), raccontava
la seguente parabola. Un giorno un saggio assisteva al passare di un corteo nuziale con tanto di tamburi e
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trombe, ma not che nel prato vicino c'era un cacciatore che era cos concentrato a mirare ad una lepre da
non prestare la bench minima attenzione al chiassoso corteo. Il saggio poi salut il cacciatore dicendogli:
"oh venerabile, Voi siete il mio vero guru! possa la mia mente quando sono in meditazione essere cos
rivolta all'oggetto del mio raccoglimento come lo stata la vostra verso quella lepre!" (tratta dalla edizione
Rascher di Zurigo, citata da H.Hesse in una sua lettera del 12.2.1950 in risposta a uno studente che gli
chiedeva come si pu imparare a meditare, 25). Ci che importante sottolineare che un autentico
maestro spirituale dovrebbe essere una guida in grado di risvegliare nel discepolo le sue capacit, le sue
potenzialit, il suo proprio maestro interiore (ovvero il maestro universale che in ciascuno di noi, e che ,
come abbiamo gi visto, il pi autentico Sad-guru nel pieno senso del termine). Dopo di ch ciascuno
essendo stato posto in grado di regolarsi da solo, una volta attinto il Brahman, lascia il maestro e pu esser
"maestro di s stesso" (per cui di fatto i modelli sono tre...), e aspirare a raggiungere la liberazione spirituale,
che innanzitutto la definitiva radicale liberazione dalle ambizioni, illusioni e falsit, in sostanza dall' Ego.
Nell'antico poema epico "Mahabharata", quando Dronacharya rifiut di accettare Eklavya come suo
discepolo nell'arte dell'arciere, il ragazzo si fece una immagine del maestro e incominci a tirare frecce
contro quella figura. Fece cos tanta pratica con cos intenso desiderio di giungere a saper colpire sempre
esattamente il cuore del bersaglio, che pervenne a saper padroneggiare l'arte dell'arciere altrettanto bene di
Arjuna che era il migliore allievo diretto di Dronacharya (26.). Forse il maestro, conoscendo bene Eklavya,
aveva ritenuto che quella poteva essere per lui la via pi proficua, e quindi la sua rinuncia fu il suo contributo
allo sviluppo del giovane. M.N.Kundu scrive (27) che il segreto sta nello stimolare una aspirazione molto
intensa, che porta a liberare il potenziale interiore anche in assenza fisica di una guida, e a mantenere una
tensione tale da perfezionare l'autodidattismo. Nella Baghavad Gita si legge che Krishna diede questo
avvertimento al suo amato discepolo Arjuna: "Tu sei il tuo pi caro amico, saggio, e guida, seppure al
contempo puoi essere anche il tuo peggior nemico. Aiutati a tirarti su da te stesso" (ma meglio renderei:
Elvati con l'aiuto del tuo s, =" lift yourself up with the help of your Self"). Dopo di ch non si pu a questo
punto, non ricordare che quando Gautama Sakyamuni "il Buddha", annunci la propria imminente fuoruscita
dal ciclo delle reincarnazioni, il suo affezionatissimo discepolo Ananda scoppi in lacrime e gli disse: "sei
stato la nostra stella polare nel cammino spirituale per tanto tempo, chi potremmo contattare perch ci sia da
guida e ci dia insegnamenti superiori quando tu non sarai pi tra i viventi in terra?", e il Buddha gli rispose:
"sii tu luce a te stesso". Ed questa la formula tanto spesso ripetuta da vari recenti Maestri (come Jiddu
Krishnamurti, e tanti altri, per es. Osho Rajneesh). Sovente si rende simbolicamente l'emanazione
dell'illuminazione interiore con la nota espressione: il risveglio dell'energia dormiente che in te ("the
awakening of the sleeping Shakti within"). M.N.Kundu scrive che "nel pieno dell'oscurit della disillusione del
mondo, solo l'emanazione di uno splendore radiante dall'interno, come una luna piena, pu portare
illuminazione".
------------------------------------------------*) devo l'insorgere di un interesse verso questo mondo culturale, attraverso mia madre, a mia nonna
materna Fede Paronelli (1893-1944) che negli aa. Trenta teneva privatamente a Milano un suo "Libero
Corso di Cultura Yogica" in dieci lezioni, che ebbe notevole seguito, e che reiter per diversi anni.
Conosceva gi allora le opere di Vivekananda, di Vithaldas, Subhadra bhikku, Ramacharaka,
S.Radhakrishnan, Krisnaphali, A.Kumaraswami e di vari altri autori indiani (Tagore, Gandhi, Ramakishna,
ecc.), incontr Krishnamurti, sull'India aveva letto i testi di studiosi come G.DeLorenzo, E.Servadio, e come
R.Rolland (con cui suo padre era stato in corrispondenza), R.Gunon, A.Schweitzer, F.Yeats-Brown (che
conosceva personalmente), e su questi temi aveva molti volumi nella sua biblioteca di famiglia (leggeva in
francese, tedesco, inglese, spagnolo, e rumeno, avendo soggiornato in vari paesi europei). Visse l'infanzia in
Svizzera, laureata a Roma in lettere e filosofia, aveva appreso in Germania a suonare il violino (il suo
"Guarneri del Ges"), e studi (alla scuola di Rasi e della Marini) e pratic recitazione (sin da ragazzina, nel
"Buddha" di A. De Gubernatis). Allieva diretta di C.Flammarion in Francia, fu dal 1930 prima conferenziera al
Planetario di Milano, dove fondeva scienza, letteratura e arte in sapiente intreccio e commistione (sono
rimaste memorabili le conferenze sull'astronomia dantesca), accompagnando il suo dire con musica e
proiezioni di lastre con figure. Scrisse vari libri di astronomia, racconti, e testi per teatro.
A lei e al suo lscito culturale devo lo stimolo al conoscere (Jnna).
------------------------------------------------------------------------------------1) ad es. cfr. A.Cahn, in Encyclopdie des religions, a c.di F.Lenoir e Y.Tardan-Masquelier, Bayard ditions,
Paris 1997, tr.it. Utet, Torino, 2001, in 6 voll.
2) mi riferisco a R.Ray, D.Tagore, Keshab C.S., Rabindranath Tagore, Dayanand S., ma anche all'
"ascetismo" del satyagraha di Ghandi, a G.Ch.Ramakrishna, Vivekananda, S.Iyer, S.Radhakrishnan,
Aurobindo Ghose, ecc.
3) per queste considerazioni cfr.: www.YogicJournal.it
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4) ripenso a quel pubblico specialmente giovanile che trent'anni fa leggeva avidamente opuscoli e testi come
ad es.: P.Verni, Il libro della visione - guida alla ricerca del proprio guru, Arcana ed., Roma, 1974
5) Cfr. in: "India Times", nella rubrica quotidiana "spirituality", marted 24.04.2001, egli il successore di Sri
Chandrasekharendra ed quindi il Gran Maestro alla guida del monastero di Kanchi
6) cfr. mie note on-line in "diario indiano", www.Cronacacomune.fe.it, 19.12.2006
7) cfr. ad es. http://www.vri.dhamma.org
8) cfr. William Hart, The Art of Living, Vipassana meditation as taught by Shri Goenka, Harper&Row,
1987, Apollo Printers, Mumbai, 2000.
9) Sw.Suddhananda, Conscious Living, Uthandi, Chennai, 2002, pp.2-3
10)Sw.Suddhananda, Living in Meditation, Lectures on Adi Sankara's Nirvanamanjari, Uthandi, Chennai,
1997, pp.6, 48-55
11) cfr. A.Pezzali, La cultura dell'India ieri e oggi, ediz.Consolata, Torino, 1965, p. 53
12) ad es. cfr. www.advaita.it
13) Beatrice Polidori in http://www.visionaire.org
14) cfr. A-M.Esnoul, nella Histoire des religions a c. di H-Ch. Puech, Enciclopdie de la Pliade, Gallimard,
Paris, 1970, tr.it Laterza, Bari, 1978, vol. 13
15) vedine una versione ad es. nell'antologia a c. di Lin Yutang, The Wisdom of India, trad.it. Bompiani, 1953
16) da swami Vivekananda, Jnana-Yoga, ed. italiana a c.di Remo Fedi, editori F.lli Bocca, Milano, 1942,
pp.332-334
17) cfr. Michel Hulin, Sankara e il Vedanta, vol. VII de Il pensiero indiano, Enciclopedia Multimediale delle
scienze filosofiche, a c.di R.Parascandolo, Ist.Enc.It. "G.Treccani", Roma, 1996
18) dalla sua Introduzione a: A.Schweitzer, I grandi pensatori dell'India - mistica ed etica, 1934, tr.it.
Astrolabio, 1962
19) in S.Radhakrishnan, Indian Philosophy, Calcutta, 1923, p. 141, tr.it. Roma, edizioni asram Vidya, 1998,
vol.I, parte I, IV
20) vedi: T.M.P. Mahadevan, cap. 3 del vol. I, della Storia delle filosofie orientali, a c. di S. Radhakrishnan,
Londra, 1952, tr.it. Feltrinelli, Milano, 1962, vol. I, p.66
21) cfr.Mahadevan, cit.
22) Kena-Upanishad, II, 7, cfr. ivi
23) v. G.Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, Bari, 1957, vol.II, parte seconda, capp. I e II.
24) cfr. www.sriaurobindoyoga.it
25) vedi Hermann Hesse, Epistolario scelto, 1964, tr.it. Mondadori, 1992, vol.II, p. 11-14.
26) cfr. l'antologia a c.di s.Nivedita e Ananda Kumarasvami, Miti dell'India, trad.it., Laterza, Bari, 1927, pp.
105 e segg.
27) in: India Times, "spirituality", cit., venerd 14.07.2006.

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