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QUALE LINGUA PER GLI ITALIANI?

DAI DIBATTITI POSTUNITARI ALLITALIA MULTILINGUE DI OGGI

0. Premesse 0.1. Il sottotitolo e larco cronologico considerato; le citazioni davvio Alla domanda che fa da titolo a questa conversazione aggiunto, come vedete, un sottotitolo, che la Preside Cioffi, che ringrazio per avermi coinvolto nella presente manifestazione, ha saggiamente espunto. I sottotitoli, si sa, sono ingombranti e hanno di solito la funzione di specificare largomento esposto dal titolo, circoscrivendolo. In questo caso, per, il sottotitolo al limite pu servire fugare ogni sospetto di dirigismo normativistico (non si tratter di quale lingua dovrebbero o avrebbero dovuto parlare o scrivere gli Italiani: sarebbe un po come se un fisico ci spiegasse quale dovrebbe essere il movimento pi giusto di una particella allinterno dellatomo); di certo, per, non solo non circoscrive largomento ma lo dilata, inserendolo in un arco temporale di ben 150 anni. Il fatto che, e ci vale ovviamente non solo per la storia linguistica dItalia, i problemi e i relativi dibattiti, e le strade intraviste e imboccate per risolverli nei decenni successivi allUnificazione nazionale hanno sempre e comunque ripercussioni che giungono fino a noi. E anche a non voler concordare con tutte le implicazioni connesse con laffermazione di Antonio Gramsci secondo cui ogni volta che affiora, in un modo o nellaltro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi innegabile che premessa e immancabile conseguenza dei dibattiti sulla lingua sono idee, progetti di sviluppo della societ e le correlative strategie per metterli in atto. Non ricordare, sia pure di sfuggita e rapidamente (come far), i nessi degli accesi dibattiti postunitari sulla lingua con la realt linguistica dellItalia doggi sarebbe fare unoperazione di mera erudizione, utile, forse, ma certo poco fruttuosa. Per legare il presente con il passato e fissare gli estremi non solo cronologici del discorso partir quindi da alcune brevi citazioni, la prima dalla chiusa della relazione Dell'unit della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868) di Alessandro Manzoni (di cui riparleremo) dopo l'unit di governo, d'armi e di leggi, l'unit della lingua quella che serve il pi a rendere stretta, sensibile e profittevole l'unit d'una nazione [] Possa [] l'Italia uscire da uno stato di cose che la rende, in fatto di lingua, un'eccezione, tra i popoli colti, e non ha altra raccomandazione che cinque secoli di dispute infruttuose [] Possa questo Eppur la c', proferito semplicemente da noi [per la lingua italiana] diventare un altro Eppur la si move e altre tre, rispettivamente, da due linguisti Molti ottimisti hanno decantato in questi anni, in toni talvolta trionfalistici, gli incrementi di padronanza sciolta, sicura, approfondita della lingua nazionale da parte della stragrande maggioranza degli italiani. La realt che le nuove generazioni non sanno pi governare periodi, maneggiare con qualche disinvoltura la lingua, non conoscono che poche parole. La lingua nazionale pi che mai lontana dal costituire un bene culturale ampiamente diffuso (G.L. Beccaria, Italiano, lingua selvaggia?, 1985) Nonostante gli indubbi progressi, si registrano ancora forti dislivelli nelluso dellitaliano, e la competenza linguistica delle nuove generazioni, in particolare, non coincide con quella

auspicabile. [] litaliano medio in certi casi italiano ineccepibile, mentre in altri italiano scadente, mediocre piuttosto che medio [] Oltre ad abbassare il grado di correttezza formale dei testi, la pressione eccessiva del parlato pu mettere in crisi una serie di funzioni nobili della scrittura, a cominciare dalla stessa capacit di esprimersi in modo chiaro ed efficace. Il rischio di una deriva mutagena della lingua accresciuto dalle nuove forme della comunicazione digitale, data la tendenza dei giovani a trasferire i modi sbrigativi del messaggio telematico a contesti che richiederebbero soluzioni pi accurate [Pietro Trifone, Storia linguistica dellItalia disunita, 2010] e, in onore della facolt di cui siamo ospiti, da un giurista L'uniformit della lingua, lo spostamento di parole da un contesto all'altro e la loro continua ripetizione sono il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto (G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, 2010) Ecco, oggetto della veloce, ma spero troppo sbrigativa panoramica che intendo presentare sono due domande che animano queste e altre testimonianze: come si potuto passare dalle prospettive aperte da Manzoni e, come vedremo, dagli altri padri risorgimentali agli attuali lamenti sullo stato di salute dellitaliano e, soprattutto, tali lamenti sono fondati, e in che misura? 0.2. Osservazioni preliminari: lidentit di lingua e nazione; il nome della lingua Prender le mosse dal fatidico 1868, anno della gi ricordata Relazione manzoniana, ma premetter due osservazioni. La prima ovvia. Lidea che lingua e nazione siano indissolubilmente congiunte in un rapporto di corrispondenza e di stretta unit non esclusiva di Manzoni (che in versi famosi definisce la nazione Una darme, di lingua, daltare, / di memorie, di sangue e di cor) ma (pur avendo echi e amplificazione nella riflessione romantica e protoromantica pensatori tedeschi quali Herder, Hamann e von Humboldt) profondamente e originalmente radicato nella cultura italiana, a partire almeno da Muratori e Vico, fino a Mazzini, Settembrini e De Sanctis. Essa unaccentuazione tutta particolare, dovuta alla singolare parabola della nostra storia linguistica, in cui una letteratura ricca di opere di straordinario valore (e assurta immediatamente ai pi alti livelli espressivi con le opere straordinarie delle tre corone trecentesche: Dante, Petrarca e Boccaccio) ha preceduto di cinque secoli la nazione, di cui ha costituito segno e identit fino allunificazione politica. Non un caso, quindi, che la classe dirigente risorgimentale avesse particolare sensibilit e attenzione verso la dimensione linguistica della vita nazionale. Le citazioni si potrebbero moltiplicare: mi limiter a due. La prima di un letterato della fine del Settecento La lingua uno dei pi forti vincoli che stringa alla patria [] L'avere una lingua propria, il coltivarla, l'amarla, l'apprezzarla, il farne uso, non meno nelle solenni pompose occasioni e nelle severe, che nelle familiari e brillanti, non l'ultimo motivo che stringa gli uomini, e gli affezioni alla contrada in cui vivono; che giovi ad imprimere in loro cuore un carattere originale, e siffattamente proprio della nazione, talch ne risulti il pi vivo interessamento per lo pubblico bene (G.F. Galeani Napione, Delluso e dei pregi della lingua italiana, 1791) Laltra, di nuovo, di un giurista, P.S. Mancini: Ma di tutti vincoli di nazionale unit nessuno pi forte della comunanza del linguaggio. L'unit del linguaggio manifesta l'unit della natura morale di una nazione, e crea le sue idee dominanti [abbiamo pertanto] ragione di riconoscere nella Nazionalit una societ naturale di

uomini da unit di territorio, di origine, di costumi e di lingua conformati a comunanza di vita e di coscienza sociale (P.S. Mancini, Diritto internazionale. Prelezioni, 1853) Faccio osservare, infine, che dalla particolarissima storia linguistica italiana la circostanza singolare che solo nellOttocento cominciano a prevalere nettamente espressioni, peraltro antiche ma non ancora affermatesi, quali lingua italiana /dItalia /degli Italiani, degli Italici o Italica oppure, pi raramente il glottonimo italiano (analogo a quelli, precedenti, di altre lingue europee: quali, per es., inglese, francese e tedesco). Mentre tengono ancora il campo glottonimi e locuzioni glottonimiche quali toscano, lingua/favella toscana o volgare e volgare italiano o italico, tutti evidentemente risalenti ai secoli precedenti, durante i quali litaliano era stato in gran parte una lingua letteraria dimitazione del fiorentino trecentesco. Ed curioso a tal proposito notare come nel titolo pi antico dizionario di una lingua moderna (base e modello per tutti gli altri successivi, anche di altre lingue), il Vocabolario degli Accademici della Crusca, non compare il nome della lingua di cui si offriva la descrizione lessicografica; mentre italiano come glottonimo registrato solo nella quinta edizione (1863-1923). Non forse un caso, quindi, che nella nostra Carta costituzionale non sia esplicitato che la lingua ufficiale della Repubblica italiana litaliano (principio che peraltro discende da altre formulazioni del Costituente) e che tale principio compaia invece nel nostro ordinamento solo nel 1999 in una legge ordinaria (precisamente nell'articolo 1 della legge n. 482, in materia di tutela delle minoranze linguistiche), sicch nellottobre 2006 la Commissione affari costituzionali elabor, sentito il parere di una Commissione di accademici della Crusca, una Proposta di legge avente per oggetto la Modifica all'art.12 della Costituzione, con linserimento di un comma in cui si riconoscesse litaliano quale lingua ufficiale Repubblica.

1. 1868: La Commissione Broglio e la Relazione manzoniana (punti essenziali e rivoluzione manzoniana) Su questo sfondo storico-culturale e successivamente alla diffusione dei risultati della Commissione dinchiesta sulla scuola dellobbligo in Italia (la cosiddetta Commissione Matteucci), Emilio Broglio, milanese e fervente ammiratore di Manzoni, appena nominato ministro della Pubblica istruzione, il 14 gennaio 1868 nomin una commissione, presieduta appunto da Manzoni, con il compito di ricercare e di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere pi universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia La commissione era articolata in due sottocommissioni, una milanese composta da Manzoni, Ruggiero Bonghi e Giulio Carcano, laltra fiorentina, coordinata dal vicepresidente della commissione, il pedagogista Raffaello Lambruschini. Bench quasi ottantenne, Manzoni si mise al lavoro, come testimonia lo stesso ministro Broglio con unalacrit, quasi direi una furia, davvero prodigiosa in quellet e gi il 19 febbraio invi la ministro lautografo della ricordata Relazione dell'unit della lingua (pubblicata il 5 marzo nel quotidiano milanese La Perseveranza e nel fascicolo di marzo del periodico la Nuova Antologia), alla quale segu, alla fine di aprile, la relazione di minoranza della sottocommissione fiorentina, scritta da Lambruschini e di fatto in disaccordo sui punti qualificanti della proposta elaborata da Manzoni. In questa lo scrittore lombardo vedeva insieme lattuazione pratica dellideale stilistico (lavvicinamento della lingua narrativa al parlato, cio a una lingua viva e vera) che aveva lo aveva guidato nella stesura e nella lunga opera di revisione del suo romanzo e lo sbocco, la verifica pratica delle riflessioni linguistiche che aveva consegnato alleterno lavoro del suo trattato Sulla lingua italiana tante volte iniziato e interrotto, cui avrebbe continuato a lavorare fino alla fine dei suoi giorni e che era destinato a

rimanere interrotto. Il nocciolo della proposta manzoniana ben noto: superando cinque secoli di dispute libresche sulla lingua, egli indica non pi in modelli letterari scritti, ma in un modello di parlato (il fiorentino della classe borghese, acculturata) il canone di riferimento per la lingua dellItalia unita: la lingua italiana non deve essere cercata nei libri, ma c (anzi, la c, come dice alla fiorentina Manzoni stesso, come abbiamo visto), basta solo prenderla, e apprenderla, per poterla usare. Analogamente a quanto era avvenuto in altri paesi europei come la Francia, in cui la lingua di una citt era diventata lingua di tutta la nazione (a questo proposito, per, lo stesso Manzoni si accorge dellanomalia italiana, in cui, con Roma capitale, si avrebbe il capo della nazione [] in luogo, e la lingua in un altro). Rivoluzionaria (ed estremamente fertile) nella penna di Manzoni, che nellappassionato lavoro di correzione del romanzo intravide (con la sua straordinaria sensibilit verso la lingua viva ma non sorretto dal bagaglio della moderna scienza linguistica che gli era del tutto ignoto) se non tutte, tutte le principali direzioni di svecchiamento e di evoluzione del linguaggio letterario tradizionale verso una lingua viva e moderna. Allatto pratico, tuttavia, la proposta elaborata da Manzoni era quantomeno di difficile applicazione; e lui stesso, nella seconda parte della relazione elenca diversi mezzi che servano a diffondere in tutto il paese la cognizione della bona lingua. Ne ricordo solo alcuni - Insegnanti di Toscana, nel maggior numero possibile, o anche educati in Toscana, da mandarsi nelle scuole primarie delle diverse province; esclusivamente toscani, ove ce ne sia, per le cattedre di lingua nelle scuole magistrali e normali. - sussidi [] da assegnarsi a que' Comuni che si provvedessero di maestri nati od educati in Toscana. - Conferenze nelle quali de' maestri e delle maestre di Toscana si rechino nelle varie province - Persone competenti, delegate nelle citt capoluoghi dalla primaria magistratura, ed ufizialmente, che rivedano non solo qualunque iscrizione, avviso, od insegna devasi esporre in pubblico, ma anche le notizie che gli uffici regi o municipali forniscono ai giornalisti, per le loro cronache quotidiane - Abbecedari, catechismi e primi libri di lettura nelle scuole, scritti o almeno riveduti da Toscani, sempre colla mira di cercare la diffusione della lingua viva: - [soggiorni-premio per gli alunni particolarmente meritevoli consistenti nel] passare un'annata scolastica in Firenze, per farci la pratica in una delle migliori scuole primarie: Da ultimo, e pi efficace di tutti precedenti ma anche pi lungo e difficile da realizzare, un novo vocabolario, basato non pi su un canone di modelli scritti e quindi su esempi dautore, ma su esempi tratti dalluso vivo di Firenze. Alla redazione del Novo vocabolario della lingua italiana secondo luso di Firenze, iniziata nel 1870 e conclusasi con il quarto e ultimo volume solo nel 1897, non partecip Manzoni (morto nel 1873) ma si dedic unquipe ministeriale, coordinata dal genero G.B. Giorgini e dallex-ministro Broglio. Il vocabolario, per, non pot svolgere lazione che Manzoni aveva sperato, sia perch, a causa delle lungaggini nella pubblicazione, fu integralmente disponibile assai tardi, in un contesto socio-culturale ormai completamente diverso, sia perch la proposta era stata progressivamente irrigidita e si finiva per cancellare tratti ormai saldamente affermati nelluso generale dellitaliano, come, per esempio, le forme dittongate buono, nuovo, cuore, sostituite con quelle monottongate del fiorentino contemporaneo bono, novo, core, avvertite ormai come toscane dialettali.

2. la situazione reale: italofoni, dialetti e scuola La proposta manzoniana, poi, individuando, come abbiamo visto, nel sistema scolastico pubblico il luogo di applicazione e di propulsione della riforma linguistica, veniva a scontrarsi con le drammatiche condizioni socio-culturali del Paese. Secondo le stime fatte da De Mauro al momento

dellunificazione la percentuale di italiani in grado di usare litaliano era appena del 2,5% (quasi pari a quella degli alloglotti allora presenti nel Paese, circa il 2%): tale percentuale (secondo altri calcoli, che considerano italofoni anche quanti avevano anche solo la competenza passiva dellitaliano) salirebbe tuttalpi al 9% circa. Mentre la percentuale degli analfabeti era al 75%, con punte superiori all80% nelle regioni dellItalia centromeridionale (ed escludendo regioni quali il Lazio e il Veneto non ancora italiane) e valori tra il 70 e l80% in Toscana ed Emilia Romagna. Una situazione, oltretutto, che migliora lentamente: bisogna infatti attendere il censimento del 1911 per avere una percentuale nazionale di analfabeti del 40%, con punte tra il 50 e 70% nellItalia centromeridionale (con le Marche al 51%; la Sicilia, la Basilicata e la Calabria vicine al 70%) e le regioni nord-occidentali (Lombardia, Piemonte e Liguria ormai a meno del 20%). In questa evoluzione la scuola pubblica ebbe naturalmente un ruolo decisivo, ma fu rallentato dalla eterna scarsit di risorse da dedicare allistruzione (lestensione della legge Casati promulgata nel Regno di Sardegna al Regno dItalia non ebbe effetti significativi al Centro-Sud e gli oneri derivanti progressive estensioni dellet dellobbligo scolastico legge Coppino, 1877 e legge Orlando, 1904 vengono riversate in gran parte sui Comuni). Oltretutto, in settori importanti e diversificati dellopinione pubblica (si va dai cattolici reazionari ai repubblicani), si levano voci fortemente contrarie alla scolarizzazione. Come nella celebre recensione dedicata dal periodico dei gesuiti, la Civilt cattolica, alla relazione manzoniana, in cui, dopo aver distinto i branchi di zotici contadinelli, di garzonetti di bottega, di monelli di strada e vattene l dai giovanetti di civil condizione, si osserva: siamo persuasissimi che ogni studio che si mettesse a far apprendere quell'idioma e quella pronunzia [litaliano secondo il modello manzoniano] alle classi infime del popolo, sarebbe per la massima parte e quasi totalit un lavar la testa all' asino; fino al democratico e repubblicano Carducci che esclama: Oh lavori forzati del saper leggere un po' pi che per il suo consumo!, quando verr un Beccaria pi umanitario del nonno di don Alexander che metta in moda il declamare contro questa stupida volontaria materiale e morale degradazione e tortura del secolo? Lalfabeto il pi ipocrita strumento di corruzione e delitto che l'uomo, questo animale eminentemente politico, abbia inventato (lettera a Lidia, 21 marzo 1877, in Lettere, XI, 58) 3. il polverone suscitato dalla relazione: posizioni e protagonisti del dibattito; il liberalismo linguistico Da questo scenario socio-culturale e da una acuta consapevolezza delle dinamiche complesse della societ moderna prende invece le mosse la lucida analisi fece del grande linguista goriziano (ma operante a Milano) Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907). Egli, nellarticolo dapertura (Proemio) del primo numero della rivista da lui fondata (lArchivio glottologico italiano, la prima rivista di linguistica pubblicata in Italia, tuttora in vita), partendo dallesame del primo volume del Novo vocabolario evidenzia limiti e meriti della proposta manzoniana. Manzoni, definito quel Grande, che riuscito, con l'infinita potenza di una mano che non pare aver nervi, a estirpar dalle lettere italiane, o dal cervello dell'Italia, l'antichissimo cancro della retorica e la sua posizione un movimento [] partito dalla altissima sfera in cui l'Arte e la Filosofia stanno congiunte e indivise, che ha avuto tra gli altri il merito di aver affermato la tesi ineccepibile dal punto di vista storicolinguistico della derivazione dellitaliano letterario dal toscano. Ci ammesso, per, obietta Ascoli, non scientificamente sostenibile che lunit e la vitalit di una lingua siano fatte dipendere dallassunzione di un modello precostituito e per di pi derivato da una citt non pi egemone nella realt nazionale, ma saranno il frutto di una generale operosit culturale dellintera comunit

italiana (e qui Ascoli, contro leccessiva enfatizzazione dellinsegnamento orale e scolastico implicita in alcune posizioni ed estremizzazioni manzoniane, ribadisce limportanza del livello scritto della lingua, specialmente quello superiore, della classe intellettuale, degli operaj dellintelligenza, secondo la sua icastica definizione). Per questo, non saranno n il nuovo ideale del popolanesimo fiorentineggiante n il ritorno auspicato da altri (in primis Carducci) al classicismo della tradizione letteraria italiana a essere utili per formare la lingua della nuova Italia: si dovr, piuttosto, mirare a rinnovare o allargare lattivit mentale della nazione. Sar un processo dinamico, in cui addirittura ci si avvantagger della concorrenza tra sistemi e usi diversi, purch, innanzi tutto, si generalizzi listruzione. Solo la crescita del livello culturale della nazione, rinsaldandone lunit intellettuale e civile, potr rendere profondamente salda l'unit della sua lingua (cos avvenuto in Germania, con un percorso pi istruttivo per noi Italiani di quello della Francia, evocato da Manzoni). Lintervento di Ascoli se risultava conclusivo dal punto di vista scientifico, segnava lacme delle polemiche, del polverone (come ebbe a definirlo lo stesso Manzoni) suscitato dalla proposta manzoniana. Si delinearono cos i due contrapposti e variegati schieramenti: quello dei manzoniani e quello degli antimanzoniani (tra cui si segnalano per veemenza Carducci e seguaci), con le estremizzazioni e gli irrigidimenti che non mancano mai in questi casi. Mi limito a ricordare per la sua oltranza, come dire, giacobino-paternalistica una singolare proposta avanzata, nel solitamente pi moderato campo filo-manzoniano, da un certo Giacomo Gavotti, il quale in un intervento sul Corriere italiano (quotidiano di Firenze fondato dal democratico Cesare Correnti) nel marzo 1868 arrivava a proporre, con lavvertenza di scegliere persone probe e religiose, di congiungere in matrimonio mille operaie toscane utilmente istruite con altrettanti operai dell'alta e della bassa Italia e altrettante ragazze delle province antiche e meridionali con operai toscani [in tal modo] la lingua viva di Toscana si frammischierebbe ai baci delle generazioni venture certo poco utile, e forse non solo in questa sede, seguire nei suoi mille rivoli questa lunga polemica in cui culminava la secolare questione della lingua. Va piuttosto osservato che tali discussioni non restarono sterili dispute tra dotti ma finirono per incidere sulle vicende dello sviluppo socio-culturale del Paese in una duplice direzione. In primo luogo, esponenti dei due schieramenti erano parte della classe dirigente e in particolare del Ministero della pubblica istruzione: dopo gli studi sulla storia della scuola italiana di Giuseppe Talamo e Marino Raicich conosciamo bene quanto le idee di ministri filo-manzoniani (come Broglio o Bonghi) o pi vicini alle posizioni di Ascoli (come F. De Sanctis o P. Villari) abbiano influito (talora in modo decisivo) sulle scelte di politica scolastica, sulla formulazione dei programmi e sulla determinazione delle linee dindirizzo per la compilazione dei libri di testo. Ma forse la conseguenza pi efficace e durevole (anche se meno visibile) stata la creazione, nella mentalit della classe dirigente italiana, della diffusa convinzione, da De Mauro felicemente denominata liberalismo linguistico, che, al di l delle oltranze polemiche e/o mistiche dei due schieramenti, che una lingua viva e moderna adatta alle esigenze della Nuova Italia si sarebbe formata e diffusa nel paese come inevitabile conseguenza, a patto che profonde trasformazioni economico-sociali e culturali lo avessero svegliassero dalla miseria e dal torpore di secoli avviandolo verso il progresso e la modernit. A questo proposito vanno ricordati lequilibrato e fondamentale intervento di Francesco DOvidio, il quale per dirla con le parole di Bruno Migliorini con molta informazione e sagacia cerc di gettare un ponte tra due opposte dottrine (p. 618), tra laltro nellIntroduzione alla ristampa da lui curata del Proemio allArchivio glottologico (Citt di Castello, 1914, pp. 12-13): il fiorentino [odierno] si dovr perci tener sempre come un vivo specchio d'italianit sincera e fresca, e solo non prenderlo a norma quante volte diverga dall'uso letterario, ove questo

saldamente stabilito; e prenderlo come un consigliero spesso prezioso, non come un'autorit assoluta, dovunque l'uso letterario ondeggi o manchi del tutto e nelle osservazioni di un presidente dellaccademia della Crusca, il letterato e uomo politico Marco Tabarrini, che nel 1870 in uno dei periodici resoconti accademici, felicemente osservava Le mutate sorti d'Italia gioveranno senza dubbio ad estendere l'uso della lingua comune; e questo rimescolarsi d'italiani dalle Alpi allEtna, che si guardano in viso per la prima volta, e si stringono la mano col sentimento d'appartenere ad una sola nazione, condurr necessariamente a rendere sempre pi ristretto l'uso dei dialetti, che sono marche di separazione, fatte pi profonde dai secolari isolamenti. Ma da questo gran fatto, si voglia o non si voglia, la lingua uscir notabilmente modificata.

4. Fattori e tendenze del mutamento linguistico nel primo cinquantennio unitario: lunificazione linguistica a due velocit (in senso orizzontale e verticale) A questo punto, completata la rievocazione, sia pure per sommi capi, dei dibattiti linguistici postunitari, dobbiamo con ben maggiore stringatezza affrontare laltro tema della nostra conversazione, e cio in che modo le convinzioni diffuse dalle discussioni appena rievocate vadano collocate nel quadro assai complesso delle modificazioni (per dirla con le parole di Tabarrini) dellitaliano tra Otto e Novecento. Qui, non potendo far di meglio che seguire nelle sue linee generalissime il processo di mutamento avviatosi nellultimo trentennio dellOttocento, dobbiamo introdurre una distinzione di prospettive che ci sar utile anche quando dovremo interrogarci, come ci siamo proposti di fare, sullo stato di salute e in qualche modo su quello che con forse una certa enfasi potremmo definire il destino della lingua italiana di oggi. Mi riferisco a due delle dimensioni entro le quali avviene e pu essere osservato il mutamento linguistico: quella orizzontale, che interessa la lingua come sistema, e che viene osservata in una prospettiva interna alla struttura di una lingua in un certo periodo; e quella verticale, che riguarda la distribuzione, o meglio, le stratificazioni della lingua nelle diverse componenti del corpo sociale, da osservare in una prospettiva esterna(diacronica o sincronica). E va precisato che si tratta di due dimensioni interagenti ma caratterizzate da modalit e tempi di evoluzione non sempre e necessariamente coincidenti. Non tener conto di tali differenze comporta immancabilmente errori di valutazione. Precisato ci, si osserva che, dal punto di vista dellevoluzione linguistica, i 150 anni che intercorrono tra lUnificazione e noi possono essere scanditi tre periodi o fasi, ognuno di circa 50 anni. Nel cinquantennio successivo allunificazione (culminante con la guerra di Libia e con il gi ricordato censimento del 1911) le velocit del mutamento linguistico furono nettamente differenziate: a una multiforme e accelerata mutazione interna o orizzontale del sistema linguistico (favorita da una serie di fattori economico-sociali) corrispose infatti una lenta diffusione della conoscenza dellitaliano nelle classi inferiori e la correlativa stabilit nella conoscenza e nelluso dei dialetti. Sicch, per il cinquantennio in esame, Francesco Sabatini ha potuto osservare data la fortissima divaricazione nelle condizioni socioculturali di partenza tra lesigua classe borghese e la massa popolare, le informazioni e descrizioni vanno [] rivolte distintamente a questi due livelli della societ, investiti da eventi e cambiamenti dordine generale che ebbero rilevanti conseguenze anche a livello linguistico. Mi riferisco, oltre alla gi ricordata introduzione e alla lenta estensione dellobbligo scolastico, a fenomeni quali: la costruzione della rete ferroviaria (l80% di quella tuttora esistente); la costituzione di un esercito, con leva obbligatoria, e di una burocrazia nazionali; i due spostamenti di capitale nellarco di dieci anni; il sommovimenti profondi prodotti dalle ondate

migratorie di ampi strati popolari verso lestero; le incipienti forme di mobilitazione politica delle masse. Dopo aver rilevato che i mutamenti indotti da tali fenomeni o processi, si avvertirono pi rapidamente e profondamente nelle classi medio-alte e poco o nulla invece nelle classi popolari, va osservato che per quanto riguarda la storia linguistica orizzontale (o interna) litaliano viene investito da una cospicua serie di cambiamenti lessicali e morfosintattici indotti e sospinti da fenomeni quali lapparire di un buon numero di testate giornalistiche nazionali, espressione anche di un nuovo apparato editoriale, a sua volta condizione per il fiorire di una nuova letteratura (ricca di sperimentalismi, tra il toscanismo e lespressivismo dialettale), in linea con le aspirazioni e i gusti della rimescolata e nuova borghesia. Si ebbe cos un arricchimento del lessico con lapertura a forestierismi o a termini adattati da lingue straniere (in particolare francesismi: rclame, morgue, pied--terre, clich, sciovinismo, velodromo, turismo, flirt, bluff) o a voci popolari (arrangiarsi, cicchetto, grana, pelandrone, burino, pizzardone, ottobrata, striminzito, rettifilo, basso, scugnizzo, scocciare e fesso) o gergali (soprattutto dambito burocratico: cestinare, periziare, realizzo, rettifica; o di derivazione tecnico-scientifica: accumulatore, trasformatore, volt, fotoincisione, galvanoplastica). Mentre con difficolt ci si liberava di termini e costrutti aulici e letterari, favoriti anche dallinsegnamento scolastico in cui le grammatiche tenevano in vita ancora forme come i pronomi eglino ed elleno (tra laltro difesi da Carducci, ma uscite dalluso vivo fin dal Cinquecento), anche se va detto che esistevano strumenti quali la Sintassi italiana delluso moderno (1881; 2. ed. 1897) di Raffaello Fornaciari, che prendeva le mosse dalle aperture manzoniane per delineare una descrizione della lingua nella quale cercava di riagganciare a un filone storico le forme delluso vivo toscano o la vivace presentazione del modello manzoniano giudiziosamente ripensato e aggiornato nellIdioma gentile (1905) di E. De Amicis. Nella morfosintassi si riscontrano i movimenti pi decisi nel senso della semplificazione della struttura ipotattica del periodo e dei suoi costituenti (in questa direzione tipico e fece scuola il periodare monoproposizionale di tante pagine di De Sanctis). Si hanno cos la giustapposizione di sostantivi (scalo merci, banco lotto, ministero Giolitti), ladozione, per influenza dialettale, dellindicativo in proposizioni subordinate di norma al congiuntivo (Il popolo credeva che il suo nemico era il governo, Settembrini; Aspettavano che suonate il mezzogiorno Verga) e altri fenomeni di scostamento dallo standard letterario accolti e affermati in quella che con disprezzo Carducci chiamava la prosa borghese (cio quella frettolosa e sciatta, come la definiva Bonghi, di letterati-giornalisti quali Collodi, De Amicis, F. Martini, Matilde Serao, E. Scarfoglio, ecc.) ormai al di fuori della tradizione del periodare di ascendenza letteraria, cos nella poesia a cominciare da Pascoli si era consumato il distacco dalle forme della tradizione petrarchesca. 5. Dalla prima guerra mondiale al decollo economico Un secondo stadio pu essere individuato nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale agli anni del decollo economico, cio quelli intorno al centenario (e al relativo censimento) del 1961. Pu sembrare una partizione inconsueta, ma dal punto vista verticale o interno della storia linguistica italiana, per, essa trova stabile fondamento nelle percentuali dei dialettofoni abituali, scese con lenta gradualit dall80% del 1911 (con punte del 100% negli emigranti) al 66% del 1951 (mentre solo il 18, 5% parlava e scriveva solo italiano), al 58% del 1961 (quando si attesta al 20% la percentuale di quanti affermano di parlare e scrivere solo italiano). Le vicende delle due guerre e le mobilitazioni delle masse che caratterizzarono il ventennio fascista crearono rimescolamenti spesso traumatici della popolazione italiana ed esposero grandi masse prevalentemente se non esclusivamente a una esposizione alluso orale dellitaliano: durante i comizi (anche prima e dopo i combattimenti) e soprattutto durante le adunate dominate dallaltoparlante e diffuse in trasmissioni destinate a tutta la nazione dal nuovo strumento della radio (dal 1924) o in documentari di propaganda inseriti negli spettacoli cinematografici (lavvento del cinema sonoro del 1927 e allottobre 1933 risale il decreto-legge sul doppiaggio. Si trattava di unesposizione non

consapevole e autonoma, ma perlopi subordinata e passiva (talora addirittura coatta) a comunicazioni e discorsi elementari, propagandistici e dominati dalla retorica e dalle parole dordine del regime, che tuttal pi avevano leffetto di rendere desiderabile lacquisizione dellitaliano da parte delle vaste masse fino ad allora solamente dialettofone. Quanto alluso scritto, le testimonianze ben note delle lettere in italiano popolare di soldati del primo e del secondo conflitto mondiale e degli emigranti rivelano il passo avanti compiuto nellalfabetizzazione, ma non segnalano una familiarit delle masse popolari con la lingua nazionale: oltretutto, listruzione obbligatoria era sempre limitata alle cinque classi delle elementari (e tale limite sarebbe rimasto fermo fino al 1962). Quanto, agli utenti medi, di estrazione borghese o piccolo-borghese, bisogna ammettere che non avevano saldi di punti riferimento nella prosa saggistica e/o letteraria e potevano tuttalpi giovarsi (pur con tutte le limitazioni, lenfasi retorico-propagandistica e le censure imposte dal regime) di esempi di scrittura giornalistica talora vivi e moderni (ricordo solo alcune grandi firme del vigoreggiante giornalismo sportivo quali Emilio De Martino, Orio Vergani e Bruno Roghi). Nella saggistica, lesempio pi alto e sicuro, quello di Benedetto Croce, peraltro orientato in senso sempre pi antinovecentesco a partire dagli anni Trenta, non godeva di larga circolazione, anche per il contegno di intransigente opposizione al fascismo. Inoltre, la svalutazione dellattivit di descrizione e normazione grammaticale derivante dalla tesi dellEstetica crociana della lingua come espressione individuale, aveva prodotto una generale perdita dimportanza di questo genere di produzioni e anche della sua presenza nella scuola. Infine, gli avviamenti e le ricerche della letteratura contemporanea (o collusa con il regime o isolata in posizioni di raffinato e aristocratico distacco e disimpegno) non raggiungevano luso comune, non essendo aperta al presente la Scuola e non essendoci, allepoca, quel tramite di divulgazione che sarebbe stato successivamente fornito dai pi potenti e versatili mezzi televisivi e audiovisivi. N pi largo seguito ebbero anche esordi stimolanti (come quelli di Moravia, Pratolini, Vittorini), prima o poi, osteggiati dal regime, che, con il suo stile ufficiale improntato a modelli fortemente retorici ed esasperato nazionalismo (con conseguente caccia ai forestierismi e lotta contro i dialetti) e infine al populismo non poteva certo contribuire a svecchiare seriamente la lingua. Solo nel secondo dopoguerra, il cambiamento istituzionale che port alla Costituzione repubblicana del dicembre 1947 e il vasto processo della ricostruzione postbellica, connessa con il fortissimo decollo industriale delle regioni settentrionali e una nuova massiccia ondata migratoria (sia allinterno, verso le citt industrializzate, che verso lestero, dentro e fuori lEuropa) crearono nel Paese le premesse perch la societ italiana compisse, con il decollo economico allinizio degli anni Sessanta, il vero balzo in avanti verso la modernit. Dal punto vista linguistico esterno (o verticale) due fatti di grande impatto contribuiscono in maniera determinante a rendere effettivo lincontro di larghe masse dItaliani con la loro lingua, che diventa effettivamente, con i caratteri che vedremo, lingua nazionale: lavvento delle trasmissioni televisive (1954); e linnalzamento dellobbligo scolastico al quattordicesimo anno di et (1962; con la successiva tappa della Scuola media unificata e vari aggiustamenti fino al 1977). I dati sulla diffusione dellitaliano attestano per il 1974 una percentuale di italofoni pi o meno esclusivi del 35,6% , salita nel 1996 al 49,6%, con un correlativo arretramento della dialettofonia: dal 51,3% del 1974 al 33,9% del 1996. Dal che una ridda di previsioni, poi smentite, circa unimminente fine dei dialetti. Con tempestivit Pier Paolo Pasolini in un famoso articolo (Nuove questioni linguistiche) nel 1964, dando il via a una nuova questione della lingua, salutava la nascita , in particolare nelle nuove realt industriali del Nord, di un nuovo italiano, mentre cera chi, come Italo Calvino, avvertiva che laffermazione di una lingua viva e moderna, in cui la comunicazione contasse pi dellespressione, era contrasta e rallentata da abiti mentali inveterati e dallazione di settori delle istituzioni lontani dalla modernizzazione (lapparato burocratico, con i suoi riti e la sua antilingua oscura, lontana dalle cose e iniziatica). Pasolini annunciava lavvento di un italiano unitario di impronta tecnologica, in realt, il mutamento linguistico interno che stava avvenendo (e che veniva

colto con grande tempestivit) in seguito allaccostamento di larghe masse di utenti agli usi scritti e orali dellitaliano consisteva in un adattamento generale della lingua, in molti contesti, alle modalit delluso orale. Ci determinava larricchimento e al ristrutturazione del repertorio linguistico italiano attraverso la formazione di vere e proprie variet, alle quali sono stati dati i nomi di italiano regionale (Pellegrini 1960), italiano popolare (De Mauro 1970b), ma soprattutto attraverso la progressiva affermazione e accettazione di un livello medio, definito italiano delluso medio (Sabatini 1985) o neostandard (Berruto 1987). In questa variet, un uso della lingua nazionale pi disinvolto e finalizzato allefficacia comunicativa, sono entrate e pi liberamente ammesse in quegli ambiti molte strutture pi elastiche, che erano ben presenti da secoli nei volgari italiani (come nelle altre lingue romanze), ma erano state a lungo e fortemente censurate dalla norma astratta e logicizzante dei nostri grammatici. Si tratta, per esempio, delluso di lui, lei, loro in funzione di tema e contemporaneamente di soggetto della frase, oppure come soggetto in posizione di rilievo (posposto al verbo), di gli pronome atono plurale di termine (pi chiaramente enclitico o proclitico rispetto a loro), del che con valore di connettivo polivalente (spesso usato da Dante), di taluni usi dellindicativo invece del congiuntivo (per es. in periodi ipotetici del tipo se me lo dicevi ci pensavo io, attestato gi nel 400 e spesso in Machiavelli), degli apparenti pleonasmi che si hanno nelle cosiddette frasi segmentate (del tipo questo libro lho gi letto, del tutto normale quando occorre individuare il tema su cui si svolge il discorso: struttura presente addirittura gi nei Placiti campani del secolo X e poi ricorrente infinite volte anche nei maggiori classici), del cosa interrogativo per che cosa, della forma media dei verbi (mi godo la vacanza, mi vedo un film e simili: godermi la dolcezza di quelluomo gi in Annibal Caro), delluso come connettivi, dopo pausa, di per cui (Ho sonno. Per cui vado a letto, traduzione del nesso latino medievale per quod, e gi in testi di fine 200 e in Dante) e comunque senza seguito verbale e con il valore di ma, per (mi ha invitato pi volte, io, comunque, non ci sono mai andato), innovazione questultima risalente ai primi dellOttocento e progressivamente affermatasi nel corso del secolo successivo, ecc. Va precisato subito che tali tratti non sono popolarismi, ma sono propri della comunicazione parlata pi diretta (in situazione), e non sono regionalismi, perch sono presenti, in diversa veste fonetica, in quasi tutti gli usi regionali (fiorentino compreso), circostanza che ne ha facilitato appunto laffermazione nellitaliano di tutti. E va segnalato che sono proprio (meno gli ultimi due) gli stessi tratti che il Manzoni aveva introdotto studiatamente nella redazione definitiva del suo romanzo, esempio sul quale si mosse la schiera di narratori di fine 800, finch si sono aperte le porte anche di altri generi di scritture. Oggi sono, quale pi quale meno, largamente presenti nella lingua della narrativa e in largamente anche nella prosa saggistica e giornalistica, e, com ovvio, pienamente acquisiti al parlato, diretto o trasmesso, anche di livello alto (esposizioni in pubblico e lingua del teatro, del cinema, della radio e della televisione). Credo, insomma, che si possa concludere che litaliano usato dalle ultime generazioni a un livello di media formalit (escludendo gli usi di ricercata formalit e quelli strettamente specialistici) ha recuperato in buona misura il rapporto col parlato. Vale a dire che, acquisito leffetto stabilizzante prodotto dalla rigida norma cinquecentesca e caduti gli interdetti della cosiddetta grammatica delle maestre, litaliano tornato alle condizioni di normale libert e vitalit dei primi secoli. Il che, mi pare, riporta litaliano a parit con le altre principali lingue di cultura, le quali mai o solo episodicamente hanno sofferto per la distanza dello scritto dal parlato. con piacere quindi che posso lasciare la prosa inamena dei linguisti per cedere la parola a uno dei pi raffinati saggisti e critici letterari degli ultimi decenni, Pietro Citati. Il quale, in un testo di una quindicina di anni fa, intitolato non senza motivo Elogio della lingua italiana (1998), con significativa consonanza con quanto sinora osservato, scrive: uno scrittore italiano [oggi] ha la sensazione che la lingua italiana scritta attraversi un momento straordinariamente felice, come forse non conosceva dal sedicesimo secolo. Gli sembra che lo scrittore del 1825 o del 1910 o del 1935 dovesse combattere con una lingua rigida, povera, quasi cadaverica. Oppure, la vera lingua italiana stava allora nascosta nel suo

corpo apparente e il romanziere e il poeta dovevano riscoprirla, reinventarla, ogni volta che componevano un libro. Cos fecero Manzoni e Gadda. Oggi, invece, la lingua italiana non si nasconde, non si cela. Il suo grande corpo straordinariamente vivo, agile, gioioso, ambiguo, capace di ogni metamorfosi e di ogni movimento. Quanto dico potr sembrare ovvio a uno scrittore francese e inglese, che da due secoli posseggono una lingua moderna, e oggi soffrono di possederla. Anche l'italiano scritto finalmente diventato una lingua moderna. Ci che non era mai riuscito a Manzoni, Svevo e Moravia (ogni tentativo ricadeva, dopo qualche anno, nel vuoto), accaduto nel corso degli ultimi trenta o venti anni. 6. Certo con il quadro appena delineato (e che sar forse risultato almeno per certi tratti insolito, se non urtante) sembrano contrastare non poco le varie tendenze (da molti definite patologiche) che sembrano dominanti nellItalia linguisticamente disunita di oggi (per riprendere il titolo di Trifone) e hanno fatto parlare di lingua selvaggia. Basta elencarle per riportarci al quesito iniziale sulle condizioni e sul destino della lingua (e, quindi, per tanti aspetti) della societ italiana. In primo luogo, quella che appare una progressiva perdita di competenza di competenza scritta, specialmente delle nuove generazioni, con le ricorrenti lamentazioni (talora non disinteressate) sulla decadenza della scuola pubblica (per es., in occasione delle periodiche rilevazioni sugli scritti degli Esami di Stato). Sicch, osservando che la societ dei mass-media produce cultura di massa si potuta definire post-alfabetizzata la condizione linguistico-culturale della societ contemporanea. Inoltre, si punta il dito sulla massiccia penetrazione di termini e locuzioni straniere (naturalmente, linglese, specialmente nella versione angloamericana, la fa da padrone), con i conseguenti allarmati pronunciamenti sullimbarbarimento dellitaliano. Infine, si guarda, spesso con preoccupazione e talora (duole rilevarlo) con malcelata ostilit allafflusso e alla circolazione nellItalia di oggi delle lingue madri dei folti gruppi di emigrati che permanentemente o per periodi pi o meno lunghi si stabiliscono nel nostro paese (e da ci dibattiti spesso pretestuosi sullintegrazione scolastica dei figli degli emigrati). Sullinsieme di questi temi si possono proporre due osservazioni. La vera o presunta perdita di competenza linguistica delle nuove generazioni di nuovo, in larga parte, un problema di diffusione verticale della lingua: siamo, quindi, di nuovo al problema (posto, come abbiamo visto, da Manzoni e Ascoli) dei mezzi con cui allargare e consolidare la conoscenza e la competenza dellitaliano in larghi strati della popolazione. Per gli altri fenomeni si tratta nel complesso di unondata di ibridazioni, certo senza precedenti per variet e intensit, in seguito alle quali la lingua italiana dovr adattarsi, in molti contesti, a modalit nuove prevalentemente delluso orale. Se il rinnovamento interno dellitaliano e lallargamento del repertorio delle sue variet che abbiamo visto definirsi e consolidarsi nellultimo cinquantennio saranno accompagnati e sorretti da adeguate politiche scolastico-educative e nei settori vitali della cultura e della ricerca scientifica la lingua italiana e lItalia potranno affrontare queste sfide con qualche speranza di successo. Ma pi che con queste parole, vorrei concludere con unultima, duplice citazione ricavandola dalle parole con cui Bruno Migliorini chiudeva, nel 1961, ledizione definitiva della sua Storia della lingua italiana (vale la pena ricordare che la prima edizione, provvisoria, era uscita, per volont dello stesso Migliorini, lanno precedente, per festeggiare il millenario del Placito di Capua): Quale sia per essere la lingua di domani, non possibile vaticinare, se non ripetendo le parole con cui Gino Capponi concludeva il suo noto saggio della Nuova Antologia (1869): la lingua italiana sar ci che sapranno essere gli Italiani.

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