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LOSSERVATORE ROMANO (12-13 aprile 2010) Il passaggio di Cristo nella regione della morte ha trasformato il morire di tut ti Quando

arriva il giorno dellincontro di Gianfranco Ravasi Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non giusto addolora rsi per lunione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: l a mia tomba nel cuore di coloro che amano. Pi di una volta ho sostato anchio a Konya , in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove collocato il cenotafio di Gial al ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si le ggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigra fe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religio ni nella loro anima autentica. Unantica preghiera musulmana invoca: Dio mio, concedi mi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno del lIncontro. La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come lIncontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cio quelli che hanno a more e fede dentro di s, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eterni t. E leternit lorizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi son o i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il canta utore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2: Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avrem o / due metri di terreno. Gi Cristo aveva considerato questa visione minimalista de lla vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile: Quello che hai preparato di chi sar? (Luca, 12, 20). Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in qu esti giorni, riproponiamo un tema che nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da unangolatura teologica , anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Ges incontra direttamente tre cadaveri : quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del v illaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dellamico Lazzaro (Giovanni, 11). D avanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di s, travolto dallangustia. Annota Marco: nel Getsemani, Ges cominci a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia an ima triste fino alla morte (14, 33-34). E la sua implorazione quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine: Abba, Padre! Tutto possibi le a te, allontana da me questo calice!; e levangelista ricorda: pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quellora (14, 35-36). Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenz a fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, inco mbe il silenzio del Padre: Dio mio, Dio mio, perch mi hai abbandonato?. Anzi, per Marc o e Matteo, quella di Ges quasi una brutta morte: Ges, lanciando un forte grido, spir es grid di nuovo a gran voce ed emise lo spirito (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cr isto rivela, in questo momento estremo, lIncarnazione nella sua verit pi lacerante: il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perch la carta diden tit fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta didentit di Dio. Eppure, anche in quellistante e nei successivi, quando un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Ges non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana de lla morte. Gi appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezion e definitiva: la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatt i, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro tem poraneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dellumani t, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazi one evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cri sto cos da trasformarli in segni pasquali (esplicito , al riguardo, Giovanni con la vi cenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, levangelista Luca allabbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisc e labbandono di Ges al Padre: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto qu

esto, spir (23, 46). E Giovanni, come noto, presenta la morte in croce non pi come i l nadir dellumanit di Ges, bens come lo zenit epifanico della sua divinit: Quando avr innalzato il Figlio delluomo, allora conoscerete che Io Sono (8, 28) e non c bisogno di ricordare che Io Sono lautodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14). Da un lato Cristo col peso reale della sua umanit non minimizza n elide lo scandalo del mori re, la sua dimensione di oscurit, il suo bagliore cupo di dolore. Daltro lato, per, la sua divinit, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con l a luce della sua eternit. Il Venerd Santo della crocifissione e il Sabato Santo de lla sepoltura, segni decisivi dellIncarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua , che per usare una famosa frase del profeta Zaccaria un unico giorno, non avr pi n n notte, ma verso sera risplender di nuovo la luce (14, 7), evidente metafora dellete rnit. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua passi one nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, venire a capo del morire non significa a ncora venire a capo della morte () Non dallars moriendi, ma dalla risurrezione di Cristo che pu spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore. Un vento che sa n Paolo ha sentito soffiare cos fortemente da farlo diventare non solo lasse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la morte per noi del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dellantropologia cristiana. Infatti, i l passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tut ti: egli morto per tutti, perch quelli che vivono () vivano per colui che morto e ri orto per loro (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Ges la liberazi one della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dellApocalisse. I nfatti, da un lato, se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore pi () Egli mor una volta per tutt e, ora vive e vive per Dio (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo dell a morte con la sua divina rugiada luminosa, volendo ricorrere a unimmagine isaiana (2 6, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio. Daltro lato, per, egli ci libera anche dalla seconda morte, lo stagno di fuoco (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato: Cristo mor per i nostri peccati () Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Ges (1 Corinzi, 1 5, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace la f rase della Seconda Lettera ai Corinzi: Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perch in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, levento pasquale come si diceva capitale sia nella cristologia sia nellantropologia cristiana. Paolo , al riguard o, esplicito nella sua celebre asserzione: Se Cristo non risorto, vuota la nostra p redicazione, vuota anche la vostra fede (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la rifle ssione teologica paolina molto pi complessa, ma il cuore del suo pensiero batte p roprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne lefficace rappr esentazione sacramentale. Unultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quelleve to certamente unumiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incas tonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una kenosi (eknosen), un termine che indi ca uno svuotamento: pur essendo nella condizione di Dio, svuot se stesso, assumendo u na condizione di servo, umili se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a u na morte di croce (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidariet nei confronti dellumani t espressione di amore. cos che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno damore. Chi non ricorda lemozionante avvio del racconto della passione di G es secondo Giovanni: Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li am sino alla fine (13, 1)? Anzi, in quella donazione suprema si pu intravedere lamore del Padre: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perch chiunque crede in lui non vada perd uto, ma abbia la vita eterna (3, 16). un atto di amore libero e genuino, come osse rva Paolo: A stento qualcuno disposto a morire per un giusto; forse qualcuno osereb be morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel f atto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morto per noi (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, la via dellimitazione da seguire . Il filosofo danese dellOttocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristi anesimo, scriveva: Che differenza c tra un ammiratore e un imitatore? Limitatore , oss

a vuole essere chi egli ammira; lammiratore, invece, loda laltro ma rimane persona lmente fuori. Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il dare la vita per la persona che si ama, come aveva detto lo stesso Ges) ci invita non tanto allammirazione ma allimitazione: In questo abbiamo con osciuto lamore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche n oi dobbiamo dare la vita per i fratelli (3, 16).

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