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QUADERNO DI EDUCAZIONE NONVIOLENTA

Premessa
Questo quaderno è aperto ai contributi di tutti coloro (genitori, figli, nonni,
educatori, psicologi, ecc.) che siano d'accordo con le sue linee generali e ne
condividano gli obiettivi.
E' diviso in due parti: una prima teorica e una seconda che raccoglie esperienze di
educazione nonviolenta.
Ci ispiriamo alle idee del Nuovo Umanesimo, così sintetizzate:

Ubicazione dell’essere umano come valore e preoccupazione centrale.


Affermazione dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Riconoscimento della diversità personale e culturale.
Tendenza allo sviluppo della conoscenza al di sopra di quanto stabilito
come verità assoluta.
Affermazione della libertà di idee e credenze.
Ripudio della violenza.

Introduzione
Cerchiamo di definire cosa intendiamo per nonviolenza, è una parola dal significato
ancora poco chiaro.
Può essere l'intenzione di non nuocere all'altro e in più un determinato sistema di
concetti morali che negano la violenza.
Il Nuovo Umanesimo si sforza di ridurre la violenza ai minimi termini, nella
prospettiva di superarla completamente e di avviare tutti i metodi e le forme per
risolvere contrapposizioni e conflitti lungo i binari della nonviolenza creativa.
E' una tattica di lotta applicata a situazioni definite in cui si verifica qualunque tipo
di discriminazione.
La scriviamo senza trattino per non ritenerla semplicemente il rifiuto della violenza
ma un nuovo valore.

Cerchiamo di definire anche cos'è la violenza:


È il modo più semplice, frequente ed efficace per conservare il potere e la
supremazia, per imporre la propria volontà ad altri, per usurpare il potere, la
proprietà e anche le vite altrui.
Non è solo fisica ma anche economica, razziale, religiosa, sessuale ecc.
Se analizziamo la nostra vita e il mondo che ci circonda, ci troviamo sempre di
fronte al fatto che la violenza restringe la nostra libertà e quella degli altri.
Si può affermare che, in questo momento storico, la società si regge sull'uso della
violenza.
Da questo punto di vista ogni nostra azione non può prescindere da questo
contesto violento.

Tu vuoi imporre il tuo modo di vivere ad altri, tu devi imporre la tua


vocazione ad altri... Ma chi ti ha detto che sei un esempio da seguire? Ma
chi ti ha detto che puoi imporre ad altri un modo di vivere solo perché è
quello che piace a te? Da dove viene lo stampo, da dove viene il modello
perché tu voglia imporlo?...
(Silo, “La guarigione della sofferenza”)

Cos'è per noi l'educazione e come si manifesta la violenza


nell'educazione.

Per noi l'educazione non è l'insieme degli interventi volti a formare la personalità di
un individuo, come se fosse una statua d'argilla da modellare.
Consideriamo l'Essere Umano (perciò anche un bambino), non un contenitore
vuoto da riempire, ma un Essere con una coscienza attiva, in grado, con la propria
azione, di trasformare il mondo.
La funzione dell'educatore è abilitare le nuove generazioni nell’esercizio di una
visione plurale e trasformatrice della realtà, che promuova l’ampliamento e lo
sviluppo delle migliori qualità di ognuno.
Un’educazione elementare deve mirare allo sviluppo di un modo di pensare basato
sulla coerenza tra ciò che si pensa, si sente e si fa.
Questo significa anche che la gente dovrebbe fare ciò che predica uscendo dalla
retorica ipocrita che avvelena le nuove generazioni.
Nel contesto infantile la pratica nonviolenta dovrebbe iniziare primariamente dalla
relazione tra gli adulti, per trasmettere un modello, altrimenti il resto che diciamo o
facciamo perde di valore.
L'educazione dovrà stimolare inoltre la sensibilità e facilitare lo sviluppo emotivo
poiché è attraverso l’emotività che l’essere umano ha percezione di se stesso in
termini di felicità.
Infine dovrà insegnare a prendere contatto con il proprio corpo e a governarlo con
scioltezza perché è lo strumento di espressione dell’intenzionalità umana.

La violenza nell'educazione si manifesta attraverso: una visione passiva della


realtà, la trasmissione di verità assolute, l"istruzione" e l'imposizione, l'uniformità,
la conservazione, la svalutazione di sè e degli altri, l'autoritarismo.

La risposta violenta

Il meccanismo violento nella relazione tra due o più individui è l'imposizione di un


punto di vista su quello degli altri.
Nell'educazione di un individuo (per es. tra genitore e figlio) si manifesta attraverso
l'autorità o con altri ruoli in cui, per esempio, il genitore è "al di sopra" e il figlio "al
di sotto", cioè le due parti non sono equivalenti, non sono sullo stesso piano.
Questo approccio è quasi ovvio, scontato, non lo mettiamo neanche in discussione.
E' quello che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, che vediamo tra gli individui
intorno a noi.
Lo riscontriamo in televisione, nella politica, nelle risoluzioni di contese tra Stati.
Uno ha ragione e l'altro ha torto.
La risposta violenta può scattare allorchè si evidenziano due o più punti di vista
diversi, una divergenza di opinioni, un "conflitto".
Istintivamente ciascuno dei contendenti porta argomentazioni positive per
rafforzare il proprio punto di vista e altre opposte (negative o distruttive) contro
l'altra parte, nel tentativo di screditare l'altro punto di vista o la persona stessa.
Questa risposta non porta a niente, ammette solo due possibili soluzioni, è un
mondo bi-dimensionale. Genera una catena di violenza e sofferenza che si ripete
all'infinito. Infatti chi subisce cercherà poi di predominare su altri più "deboli".
Anche trovare un compromesso è una falsa risposta nonviolenta, perchè almeno
una delle due parti rimarrà parzialmente scontenta. In ogni caso entrambe,
durante la "trattativa", tenteranno di prevaricare sull'altro, finendo per riprodurre
nuovamente il meccanismo violento.

La risposta nonviolenta

La risposta nonviolenta non è automatica e va costruita, corrisponde a una nuova


sensibilità. Non ci abbiamo mai pensato veramente, dando per scontato che la
meccanica violenta sia l'unica possibile.
Uno dei presupposti per dare questo tipo di risposta è l'intenzione di gettare un
ponte verso l'altro "sentendo" il suo punto di vista, "sentendo l'umano" che c'è in
lui. In questo modo le parti diventano equivalenti e tutte le argomentazioni sono
valide, sullo stesso piano. Questo atteggiamento permette mille soluzioni diverse
perché trascende la bi-dimensionalità, è una terza dimensione.
Con questa risposta predomina l'apertura, l'attenzione, il rispetto per l'altro, la
comunicazione, la coerenza e una buona dose di autoironia e conoscenza di se
stessi.
Rafforzarci interiormente ci può rendere capaci di una maggiore comprensione e di
riconoscere i nostri errori e i nostri abusi, con tranquillità e fiducia.
La soluzione del conflitto potrà presentarsi anche in un secondo tempo, dopo che
saremo riusciti a comprendere la radice della divergenza.
E' opportuno sottolineare che la risposta nonviolenta è differita e riflessiva,
pertanto non è immediata ma si sviluppa in processo.
Un atteggiamento nonviolento cerca di impedire l’escalation della violenza
intervenendo sul nascere dei conflitti.
Sicuramente attribuire valore alla nonviolenza in tutte le sue forme, come stile di
vita e come educazione potrà aiutarci a costruire un nuovo modello più positivo per
il futuro, che dia spazio alle qualità umane.

Fonti: Wikipedia, Dizionario del Nuovo Umanesimo (Silo), Pedagogia della diversità
(Aguilar- Bize), Io voglio, tu non vuoi (Patfoort), Umanizzare la Terra (Silo), Sintesi
Area Educazione Forum Umanista Toscano (Nov-2007), Discorsi di Silo Punta de
Vacas 2004 e 2005

Esperienze

Titolo: Attraversare la strada


Luogo: Bresso (MI) Italy
Periodo: Inizio 2005
Protagonisti: Daniele 39 anni (papà), Ruben quasi 1 anno (figlio)
Riferimento: daniele6766@yahoo.it
Descrizione:
Una delle maggiori preoccupazioni dei genitori metropolitani è impedire ai propri
figli piccoli di farsi investire dalle auto. Da qualche tempo Ruben ha imparato a
camminare autonomamente e mi capita di portarlo in giro per le strade della mia
cittadina per mano (senza passeggino). Se non ho fretta preferisco accompagnarlo
lasciandolo il più possibile esplorare il territorio.
Durante la passeggiata non ci sono reali pericoli, se non l’attraversamento della
strada quando capita.
Le prime volte che è successo l’ho preso in braccio per evitare che si precipitasse
nel bel mezzo della via senza controllo ma ora capisco che devo trovare il modo
che attraversi lasciandosi tenere per mano. Raggiungere questo obiettivo mi
libererebbe da molte tensioni e mi sentirei più tranquillo.
Potrei semplicemente proibirgli di farlo da solo oppure spiegargli il pericolo e
raggiungere un accordo. Dopo qualche tentativo autoritario abbastanza infruttuoso
e deludente scelgo la seconda via.
Allorchè stiamo per attraversare insieme ci fermiamo, mi piego sulle gambe e mi
porto alla sua altezza e gli parlo viso a viso facendogli sentire il contatto fisico. Mi
sembra un atteggiamento che da forza e importanza a quello che gli sto per dire.
Naturalmente è molto difficile spiegargli razionalmente il concetto di pericolo, di
gravità, di incidente o di morte però posso farglielo sentire attraverso il linguaggio
non verbale: un tono della voce preoccupato e allarmato, la presenza del mio corpo
teso verso di lui per proteggerlo, le parole scandite con calma ma fermezza, lo
sguardo in cerca della sua attenzione.
Le prime volte che l’ho fatto apparentemente non è successo niente e ho dovuto
comunque arrestare fisicamente la sua impetuosità, la sua curiosità e ansia di
muoversi liberamente.
Poi, a poco a poco, questo “contatto” ha avuto presa e così ha imparato a fermarsi
prima di scendere dal marciapiede e a aspettare la mia mano. L’ha fatto
consapevolmente e non ho più dovuto rincorrerlo.
Cercare una comunicazione basata sulla fiducia con un essere così piccolo è una
prova abbastanza dura per un adulto.

Titolo: La fretta
Luogo: Bresso (MI) Italy
Periodo: 2007
Protagonisti: Stefania 26 anni (mamma), Ruben 3 anni, Kesia 1 e mezzo (figli)
Riferimento: stefylimbiate@tiscali.it
Descrizione:
Quando ho fretta e devo uscire con i bimbi tutto diventa difficile e teso. Sembra
che facciano apposta a rallentare le cose: Ruben non vuole fare pipì, Kesia non
vuole vestirsi, Ruben non vuole uscire ma giocare…
Se mi fermo un attimo e riesco a prendere distanza dalla situazione capisco che
non è in gioco solo la mia volontà e mi chiedo se tutte e tre le persone vogliono
uscire.
Posso anche dirmi che le mie necessità sono le più importanti e imporre misure
drastiche per obbligare i figli a seguirmi ma alla fine perdo molte energie, mi
rimane una brutta sensazione e mi immagino che alla prossima occasione tutto si
ripeterà allo stesso modo.
Oppure posso decidere di prendere in considerazione quello che desiderano i
bambini e comportarmi in un altro modo.
Loro non amano i cambiamenti dei programmi abituali, soprattutto se repentini e
non motivati; gli piace giocare e sperimentare tutto sotto forma di gioco e in modo
allegro. Accettano le spiegazioni ma hanno bisogno di tempo per integrarle e per
dare una risposta. Spesso quello che interpretiamo come rifiuto è semplicemente
un tempo “tecnico” per elaborare quello che devono fare.
Quando riesco, cerco di prepararmi per tempo e avere un margine per relazionarmi
con loro, spiegargli dove andiamo e cosa faremo; ripeto più volte durante la
giornata o la sera prima il programma; cerco di coinvolgerli, gli lascio tempo di
abituarsi all’idea e, al momento dell’uscita, se il muro che fanno è ancora grosso,
ho le forze e l’armonia per presentare la cosa in modo ludico.
In particolare, in questi giorni in cui ho cambiato lavoro e devo prendere il treno più
presto di prima, mi è capitato una volta che veramente eravamo in ritardo oltre
ogni limite. Mentre scendevamo con l’ascensore ho spiegato a Ruben (che di solito
accompagno all’asilo) come mi sentivo, che ero nervosa perché avevo paura di
perdere il treno e di arrivare al lavoro in ritardo e non era il caso visto che avevo
appena cominciato ad andare in questo posto nuovo, e il signore con cui lavoro
poteva arrabbiarsi. Così gli ho chiesto un aiuto, e ho proposto di giocare a Speedy-
mamma e Speedy-Ruben, che consisteva nel fare le cose più velocemente
possibile. Può sembrare banale ma ha funzionato alla perfezione, non solo il gioco,
ma proprio aver cercato di trasmettergli cosa mi stava succedendo. Come mai
successo, Ruben, arrivato all’asilo con una corsa da record, mi ha dato un bacio ed
è filato in classe con una velocità incredibile… e io non ho perso il treno… Anche
nei giorni successivi ho cercato di spiegargli meglio questa mia tensione la mattina
e lui ha fatto delle domande per capire meglio. Diciamo che mi sono sentita più
alla pari con questo meraviglioso esserino.

Titolo: La macchinina è mia


Luogo: Bresso (MI) Italy
Periodo: fine 2007
Protagonisti: Daniele (papà), Ruben 3 anni, Kesia 1 e mezzo (figli)
Riferimento: daniele6766@yahoo.it
Descrizione:
Ruben e Kesia si stanno contendendo una macchinina, litigando, entrambi dicono:
“è mia!”.
Una situazione molto tipica per la loro età. Altre volte sono intervenuto privandoli
del gioco (e quindi provocando pianti a dirotto e ripicche) oppure stabilendo il
legittimo proprietario come vincitore. Ho cercato di liberarmi del conflitto il più
rapidamente possibile allontanandoli.
In tutti questi casi mi è sembrato di non risolvere il problema, di non spezzare la
catena di violenza, di rinviare una contesa.
Questa volta ho deciso di prendere la situazione sul “serio”: mi avvicino ai due
bambini stando alla loro altezza, mi metto tra loro e con calma gli chiedo
spiegazioni su quello che è successo. Ruben parla bene ed è avvantaggiato, Kesia
si esprime più a gesti e con urletti.
Cerco di ascoltarli con attenzione senza incolpare nessuno o dare maggior peso a
una parte.
La questione è molto importante per loro e va trattata con cura.
Kesia vuole la macchinina perchè è sua, Ruben la vuole solo in prestito per giocarci
un po’.
Vogliono far valere le proprie ragioni, come è giusto che sia. Affermarsi fa parte
della costruzione della propria identità. Ovviamente il metodo brutale e manesco
non è dei migliori, fa parte ancora di un mondo istintivo e animalesco (che in molti
casi rimane fino in età adulta…).
Piuttosto che imporre io una soluzione mi sembra più utile orientarli verso la
comunicazione tra loro affinchè la trovino da soli, magari cerco di suggerire delle
possibilità:
“Ruben, perchè non provi a chiedergliela, prima di prenderla con la forza?”
“Prova a fare uno scambio con un altro gioco…”
Se non si trova una soluzione immediata non importa, almeno si sarà alleggerita la
tensione.
Comunque ho la sensazione di indirizzare i bambini verso un processo nuovo: la
soluzione costruttiva dei conflitti. Mi sembra anche che aumenti la loro autonomia.
A poco a poco, insistendo con questo atteggiamento, i bambini cominciano a
rivolgersi meno agli adulti in cerca di una soluzione ma la “creano” da soli,
stabilendo relazioni direttamente con gli interessati alla contesa.
Questo mio modo di rispondere al conflitto è sicuramente più complesso e
dispendioso ma lo considero un buon investimento a futuro. Naturalmente bisogna
avere le energie psicofisiche per poterlo fare e questo non succede spesso,
purtroppo.

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