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PER ESPRIMERMI SENZA OFFENDERTI 25 NOVEMBRE 2007

Giornalismo di Pace.
Intervista a Pat Patfoort, antropologa e dottoressa in biologia umana.

Secondo la sua teoria, la nonviolenza e la violenza hanno origine da situazioni in cui sono presenti
punti di partenza (caratteristiche, comportamenti, opinioni, punti di vista di due persone o gruppi di
persone) diversi che, se si lasciassero coesistere l'uno accanto all'altro senza associare loro giudizi di
valore, non rappresenterebbero un problema.
Purtroppo, come mostra Pat e come è facile osservare e sperimentare nella quotidianità, il modo
solito e diffuso di affrontare questi fattori o punti di partenza diversi è il modello Maggiore-minore
o modello M-m: ciascuno cerca di presentare il suo punto di vista, o comportamento, o
caratteristica, come migliore di quello dell'altro. Ognuno cerca di porsi nella posizione M e di porre
l'altro nella posizione m.
Nel modello M-m si usano argomentazioni che hanno la funzione di mettere se stessi dalla parte
della ragione, e che è possibile raggruppare in tre tipi:

1. argomentazioni positive: si cercano aspetti positivi del proprio punto di vista per dargli valore;
2. argomentazioni negative: si citano aspetti negativi del punto di vista dell'altro per sminuirlo;
3. argomentazioni distruttive: si cercano aspetti negativi dell'altro per sminuire la persona.
Attraverso tali argomentazioni ciascuno cerca di rafforzare il proprio punto di vista in opposizione
all'altro, con l'obiettivo di prevalere.
Il modello M-m è così alla base della violenza, alla sua radice. È certamente naturale volersi
difendere, voler sopravvivere, ma ciò può avvenire non necessariamente ponendo l'altro in
posizione di inferiorità. Il modello M-m è solo uno dei modi possibili e forse il più facile. È però
così comune e diffuso che si ha l'impressione che sia l'unico o quello più naturale.

Un altro modo di affrontare una situazione di partenza con due punti di vista diversi è il modello
dell'Equivalenza o E. Questo è il modello che sta alla base della nonviolenza. Esso fa sì che ci si
possa difendere ma non a spese di altri, contro qualcuno o in modo offensivo, come nel modello M-
m.
Con il modello E ci si concentra sui fondamenti, che sono i fattori che soggiacciono ai vari punti di
vista: motivazioni, bisogni, interessi, obiettivi, valori. Elementi sia emotivi, sia razionali. Ci si
preoccupa di far emergere ed esplicitare i fondamenti, che spesso non sono espressi e di cui le
persone non sono neppure consapevoli, e li si considerano tutti sullo stesso piano, senza dare giudizi
di valore.
Per adottare un atteggiamento equivalente (E) verso gli altri, infatti, è indispensabile valutare i
fondamenti di entrambe le parti: da una parte esprimere i propri in modo chiaro, dall'altra aprirsi a
quelli dell'altra persona, ascoltarla, accettarla. A partire dalla raccolta di tutti i fondamenti è
possibile trovare soluzioni che soddisfino entrambe le parti.

A seconda che si segua il modello M-m o il modello E, la soluzione di una divergenza di opinioni è
completamente diversa: nel primo caso si tratta di un sistema bidimensionale in cui ci sono solo due
possibilità, ha ragione uno o l'altro, nel secondo ci sono tante soluzioni che si creano sulla base della
raccolta di tutti i fondamenti presenti nel conflitto, sia di una parte sia dell'altra.

Pat Patfoort si è avvicinata alla nonviolenza e ha elaborato il metodo dell'equivalenza partendo dalla
sua storia personale e dal suo ruolo di madre.

L'abbiamo incontrata a Torino i primi di dicembre dello scorso anno in occasione del convegno "La
mediazione: dal livello interpersonale al livello internazionale" organizzato dal Centro Studi Sereno
Regis, e l'abbiamo intervistata.
D. Quali sono i momenti salienti che l'hanno condotta all'esperienza attuale di mediazione dei
conflitti?
R. Tutto è partito dalla mia educazione: non ho mai tollerato il fatto che ci fosse incoerenza tra ciò
che gli adulti chiedevano di fare ai bambini e ciò che essi stessi facevano, e ho desiderato fin da
bambina di non riprodurre lo stesso comportamento, quando fossi stata a mia volta madre. Volevo
trovare delle risposte per fare altrimenti.
Ho inoltre vissuto un dramma familiare quando avevo diciannove anni: mio padre se ne è andato
con una donna della mia età e non è mai più tornato a casa. La mia relazione con lui non si è
interrotta ma, visto che mia madre soffriva moltissimo, per anni ho considerato lei una vittima e mio
padre un mostro. Solo successivamente ho capito che le cose erano molto più complesse rispetto a
come le avevo interpretate inizialmente e che piuttosto che una vittima e un carnefice entrambi
erano vittime, vittime di una certa educazione, vittime di un certo modo di comunicare...
Mi sono preparata alla nascita dei miei figli da tutti i punti di vista: biologici, psicologici ed
educativi, ho approfondito le mie intuizioni con studi teorici, ma ho anche riflettuto sulla mia
esperienza, aprendomi all'influenza di altre culture e cercando di mettere in relazione tutto ciò che
avevo imparato in Occidente e in Africa.
La mia famiglia d'origine mi ha sempre scoraggiato rispetto al modo in cui intendevo educare i miei
figli, mi dicevano che non era possibile ciò che invece ho poi sperimentato come normalità in
Africa Occidentale, Mauritania, Burkina Faso, Senegal, dove ho vissuto per alcuni anni con mio
marito e dove sono nati i miei figli.

D. Può spiegarci concretamente come funziona il metodo dell'equivalenza?


R. Ecco un esempio.
Scuola materna, in classe. Stefano e Giulio stanno litigando per una macchinina rossa.
«È mia!» urla Stefano. Afferra la macchinina con la mano e sta sulle punte dei piedi per tenerla più
in alto possibile in modo che Giulio non possa toccarla.
«No, bugiardo! È mia!» ribatte Giulio, urlando mentre tira i capelli a Stefano.
La maestra può intervenire in diversi modi. Consideriamo quelli che ci sono più familiari:
1. la maestra interrompe il litigio fra i bambini sottraendo a entrambi la macchinina finché non sarà
chiarito a chi appartiene;
2. la maestra intima ai due di non litigare e allontana fisicamente l'uno dall'altro, dando loro compiti
in luoghi diversi della classe;
3. la maestra sanziona Giulio per il fatto che sta tirando i capelli a Stefano.
In tutti e tre i casi la maestra affronta il conflitto con l'approccio M-m e in questo modo non lo
affronta veramente, non lavora verso la soluzione. Si pone come obiettivo l'interruzione della lite,
allontana i due compagni l'uno dall'altro o dà la colpa a una delle due parti. Nel primo e nel secondo
caso entrambi si sentono in posizione m, nel terzo una delle due parti. Questo condurrà a ulteriori
escalation o catene della violenza.

Nell'approccio E, invece, la maestra non cerca di tacitare il problema il più rapidamente possibile
fin dall'inizio, allontanando i bambini l'uno dall'altro o togliendo l'oggetto del contendere dalla
situazione. Non cerca neanche di dare la colpa a qualcuno, né di mettere qualcuno in posizione di
minore nei confronti dell'altro. Al contrario si sforza di introdurre e sostenere l'Equivalenza fra i due
bambini. Quindi parla a entrambi insieme, non solo a uno dei due, chiede a entrambi cos'è successo
e non focalizza l'attenzione solo sull'ultima parte del litigio.
Ascolta i due bambini allo stesso modo, e considera le spiegazioni di entrambi, i loro fondamenti,
anche se inizialmente non combaciano. Poi cerca di metterli insieme e, magari si può scoprire che
entrambi hanno detto la verità e non che uno dei due ha mentito (come sarebbe pensabile di primo
acchito) in quanto entrambi hanno ricevuto in regalo la stessa macchinina ed entrambi l'hanno
portata a scuola. Si aprirà lo spazio per cercare la macchinina mancante e ricomporre la relazione
tra i due. Se la maestra non avesse seguito il processo dell'equivalenza, ma avesse validato la
versione dei fatti che le sembrava più convincente, avrebbe accusato ingiustamente qualcuno dei
due di mentire o, altrettanto ingiustamente, lo avrebbe punito.

D. Quanto spesso accade questo?


R. E quanto spesso i conflitti, a tutti i livelli, vengono negati, fuggiti o "risolti" velocemente?
Stare nel conflitto è certamente difficile e richiede l'impiego di tempo ed energia, ma i frutti dal
punto di vista della sanità delle relazioni sono assicurati.

D.Il punto forte del suo modello sembra essere quello di offrire un'alternativa, e i suoi workshop, le
sue mediazioni sono delle occasioni per praticarla. Vuole dire qualcos'altro?
R. È importante per me dare un messaggio di speranza. Quando lavoro, soprattutto con i giovani,
spesso mi dicono che è impossibile per loro comportarsi in un modo diverso da quello che hanno
sperimentato fino a quel momento. È terribile che i giovani non abbiano la speranza di poter vivere
diversamente, di poter comunicare in un altro modo, la speranza di uscire dai ruoli conosciuti.
Vorrei che le persone potessero dire: «Il sole esiste ancora!», sperimentare che c'è qualcuno che dà
loro rispetto, che si comporta in un'altra maniera; vorrei che pensassero che anche loro possono fare
la stessa cosa.

È chiaro che comportarsi sempre in modo equivalente non è ancora possibile, ma ciò non vuol dire
che sia impossibile.

Si tratta di fare esercizi per sperimentarsi nell'equivalenza. La cosa importante è riconoscere i


meccanismi della violenza, ricaderci è normale perché siamo stati educati in questo modo. Ma
rendersene conto e capire che stiamo facendo un errore è il primo passo, si tratta poi di fare tanti
esercizi per non sbagliare più.
(da: "Buddismo e Società", gen/feb 2006)

dal sito: https://setalend.blogspot.com/2007/11/per-esprimermi-senza-offenderti.html

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