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nuove possibilità
Nello scioglimento di una relazione difficile, il rispetto compassionevole deve
sostituirsi alla dipendenza e alla nevrosi.
Dzigar Kongtrul
Nei testi buddisti è scritto che in certi reami infernali gli esseri esperiscono le
conseguenze negative di relazioni passate non virtuose. Essi sentono pronunciare
il loro nome e si sentono attratti verso la voce che li chiama, e che è quella della
persona con cui un tempo erano in relazione. Allora gli esseri si muovono verso il
luogo da dove proviene la voce, ma lì, al posto della persona che si aspettano,
incontrano orrende creature e sperimentano un’angoscia mentale e fisica intensa.
Tutto ciò è interessante perché in realtà, con le persone con cui abbiamo lenchak,
proviamo un’attrazione immediata al di là di qualsiasi controllo o senso di
resistenza. Quando chiamano il nostro nome, ci precipitiamo immediatamente per
servirli. Non si tratta di una decisione consapevole, neanche di una decisione
presa con gioia; piuttosto, è come essere trasportati da un forte vento.
La nostra reazione, sia di rabbia, di gelosia, di attaccamento o quant’altro, serve
unicamente a rinforzare la dinamica. Le persone fanno molte cose “in nome
dell’amore”. Ma, se questo è amore, non è certo un tipo di amore sano.
In Tibet si dice che ci sia un lago dove una volta all’anno, durante un particolare
periodo di luna piena, delle creature simili a foche raccolgono il pesce nelle loro
bocche e lo offrono a orde di gufi che attendono sugli alberi tutt’intorno.
Non c’è alcuna ragione apparente per cui le foche debbano offrire del cibo ai gufi,
se non il fatto che questi sembrano aspettarselo. La storia aggiunge che le foche
non guadagnano niente con la loro offerta, mentre i gufi non sono mai soddisfatti.
Cosi, poiché non c’è alcuna ovvia ragione per cui questa dinamica sia così com’è,
si conclude che “deve trattarsi di lenchak”.
La dinamica lenchak ha due facce: quella dalla parte delle foche e quella dalla
parte dei gufi. Se siamo la foca, sentiamo una responsabilità emotiva inspiegabile
per il benessere di qualcun altro. Ci sentiamo attratti da questa persona come se
avesse un diritto su di noi. E’ un’esperienza viscerale profonda, a cui reagiamo
fisicamente: il cellulare squilla, controlliamo il numero del chiamante e scopriamo
che è il gufo. Potremmo e dovremmo non rispondere, ma veniamo travolti da una
forte ondata di ansietà e repulsione, come se venissimo attaccati dal nostro
stesso sistema nervoso. In effetti ci stiamo preparando mentalmente per un
problema o per il trasferimento di una potente carica emotiva.
Per quanto vogliamo distaccarci da questa persona, non riusciamo però a
liberarci. E’ come essere stati catturati, senza scampo, uno scaccomatto!
Ovviamente, non si tratta di questo. In realtà siamo presi in ostaggio dal nostro
stesso attaccamento, dai sensi di colpa e dall’incapacità di resistere al dolore che
deriva dal sentirsi irragionevolmente responsabili per quella persona.
Da un lato non possiamo sopportare di assistere allo struggimento del gufo,
dall’altro non riusciamo a lasciar perdere. Questo incastro ci abbatte, ci fa perdere
il nostro valore in quanto esseri umani.
Nello stesso tempo il gufo non è mai soddisfatto, non importa con quanto pesce la
foca cerchi di nutrirlo. In quanto gufi non riusciamo a vedere la realtà della
situazione. Ci sentiamo deboli, isolati, trascurati. La ragione è che stiamo
dipendendo da qualcun altro nella speranza che ci risolva i problemi e allontani le
nostre paure.
Abbiamo un sacco di richieste mai espresse, o espresse il più delle volte in
maniera sottomessa e bisognosa. La sindrome del gufo ci riduce come in uno
stadio infantile. Cominciamo a dubitare di essere in grado occuparci delle cose per
conto nostro e perdiamo fiducia nella nostra capacità di confrontarci con la nostra
mente e le nostre emozioni.
Curiosamente, il gufo – così fragile, bisognoso ed insicuro – non è
necessariamente così debole come appare. Infatti, è in una posizione di vantaggio
e di controllo, in cui rivela una tendenza manipolatrice. Il gufo infatti non vuole
mettere ordine nelle sue cose e persiste nella sua attitudine privilegiata. E’ ovvio
che se non ci fosse la foca, il gufo non potrebbe permettersi di essere debole e si
farebbe carico delle sue proprie sfide. L’ironia di questa dinamica è che, nella
maggior parte dei casi, più la foca porta il pesce e più il gufo diventa pieno di
risentimento, pretenzioso e insoddisfatto. Sia per la foca che per il gufo, questo
tipo di dipendenza e aspettativa dà origine a molta negatività. Al lavoro
potremmo frenare la lingua e buttar giù quello che ci dice il capo, ma non c’è
freno quando si tratta dei nostri cari. Abbassiamo la guardia e ci permettiamo di
diventare cattivi, estendendo dappertutto la nostra rete di ansietà dell’ego.
E’ vero, la foca può temporaneamente soddisfare il gufo, ma da questo tipo di
arrangiamento non deriva alcun mutuo rispetto. E dopo tutto, non è proprio il
rispetto ciò che desideriamo di più? Tutti vogliono amore e attenzioni, ma, più di
questo, gli esseri umani desiderano rispetto per quello che sono. Persino un
nemico può rispettare l’altro. C’è un senso di dignità umana in questo.
In questa confusione di lenchak per amore, abbiamo paura che proprio senza la
dinamica lenchak la nostra relazione andrebbe completamente a pezzi. Che cosa
c’è dietro a tutti questi doveri, questi “dovremmo” o “non dovremmo” e a tutte
queste fantasie a cui cerchiamo di conformarci? La differenza fra amore e lenchak
deve essere esaminata con cura. L’amore e la cura per gli altri riscalda il cuore e
rende generosi e altruisti. I sentimenti di amore e attenzione sorgono
spontaneamente, non sono il prodotto di pressioni o richieste. Pensate
all’attaccamento e al dolore legati a lenchak. Pensate a tutto il risentimento e
all’insicurezza che ne derivano. Lenchak ci fa sentire non all’altezza della nostra
vite e delle sue sfide, o di non poter sopportare il dolore degli altri. E neanche
crediamo che essi possano badare a se stessi!