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Vecchie relazioni,

nuove possibilità
Nello scioglimento di una relazione difficile, il rispetto compassionevole deve
sostituirsi alla dipendenza e alla nevrosi.

Dzigar Kongtrul

Traduz. Thupten Nyima


Tutti noi abbiamo nella nostra vita una qualche relazione difficile che sembra
sostenuta solo dal collante dell’attaccamento e dell’aspettativa.
E’ vero che nutriamo amore e attenzioni per la persona coinvolta in questo tipo di
relazione, ma, allo stesso tempo, sentiamo che la cosa non è chiara, che è piena
di complessità. Dentro di noi percepiamo un conflitto emotivo quando pensiamo a
queste persone o quando le incontriamo.
Questa sensazione aumenta a dismisura quando si tratta di persone a noi molto
vicine e con cui condividiamo delle dinamiche importanti, come i nostri genitori, i
figli, il coniuge, gli amici – tutte relazioni dove tendono a sorgere sempre un
sacco di aspettative e richieste non espresse.
Nel mezzo della nostra storia come figli, coniugi o genitori spesso ci troviamo a
sentirci responsabili per la solitudine di qualcuno e per la sua sofferenza fisica od
emotiva.
C’è un termine tibetano che indica questo tipo di dinamica: “lenchak”,
comunemente interpretato come “debito karmico”.
Len significa letteralmente “evento, circostanza, episodio”, mentre chak significa
“attrazione, attaccamento verso qualcuno”, di solito con una connotazione
negativa. Quindi lenchak potrebbe indicare il residuo di una dinamica relazionale
che torna alla ribalta da qualcosa che qualcuno potrebbe definire una vita
passata, e che è potenziato dalla forza dell’abitudine.
Lenchak è spesso usato per spiegare o descrivere perché una particolare relazione
è così com’è.

Nei testi buddisti è scritto che in certi reami infernali gli esseri esperiscono le
conseguenze negative di relazioni passate non virtuose. Essi sentono pronunciare
il loro nome e si sentono attratti verso la voce che li chiama, e che è quella della
persona con cui un tempo erano in relazione. Allora gli esseri si muovono verso il
luogo da dove proviene la voce, ma lì, al posto della persona che si aspettano,
incontrano orrende creature e sperimentano un’angoscia mentale e fisica intensa.
Tutto ciò è interessante perché in realtà, con le persone con cui abbiamo lenchak,
proviamo un’attrazione immediata al di là di qualsiasi controllo o senso di
resistenza. Quando chiamano il nostro nome, ci precipitiamo immediatamente per
servirli. Non si tratta di una decisione consapevole, neanche di una decisione
presa con gioia; piuttosto, è come essere trasportati da un forte vento.
La nostra reazione, sia di rabbia, di gelosia, di attaccamento o quant’altro, serve
unicamente a rinforzare la dinamica. Le persone fanno molte cose “in nome
dell’amore”. Ma, se questo è amore, non è certo un tipo di amore sano.
In Tibet si dice che ci sia un lago dove una volta all’anno, durante un particolare
periodo di luna piena, delle creature simili a foche raccolgono il pesce nelle loro
bocche e lo offrono a orde di gufi che attendono sugli alberi tutt’intorno.
Non c’è alcuna ragione apparente per cui le foche debbano offrire del cibo ai gufi,
se non il fatto che questi sembrano aspettarselo. La storia aggiunge che le foche
non guadagnano niente con la loro offerta, mentre i gufi non sono mai soddisfatti.
Cosi, poiché non c’è alcuna ovvia ragione per cui questa dinamica sia così com’è,
si conclude che “deve trattarsi di lenchak”.

La dinamica lenchak ha due facce: quella dalla parte delle foche e quella dalla
parte dei gufi. Se siamo la foca, sentiamo una responsabilità emotiva inspiegabile
per il benessere di qualcun altro. Ci sentiamo attratti da questa persona come se
avesse un diritto su di noi. E’ un’esperienza viscerale profonda, a cui reagiamo
fisicamente: il cellulare squilla, controlliamo il numero del chiamante e scopriamo
che è il gufo. Potremmo e dovremmo non rispondere, ma veniamo travolti da una
forte ondata di ansietà e repulsione, come se venissimo attaccati dal nostro
stesso sistema nervoso. In effetti ci stiamo preparando mentalmente per un
problema o per il trasferimento di una potente carica emotiva.
Per quanto vogliamo distaccarci da questa persona, non riusciamo però a
liberarci. E’ come essere stati catturati, senza scampo, uno scaccomatto!
Ovviamente, non si tratta di questo. In realtà siamo presi in ostaggio dal nostro
stesso attaccamento, dai sensi di colpa e dall’incapacità di resistere al dolore che
deriva dal sentirsi irragionevolmente responsabili per quella persona.
Da un lato non possiamo sopportare di assistere allo struggimento del gufo,
dall’altro non riusciamo a lasciar perdere. Questo incastro ci abbatte, ci fa perdere
il nostro valore in quanto esseri umani.
Nello stesso tempo il gufo non è mai soddisfatto, non importa con quanto pesce la
foca cerchi di nutrirlo. In quanto gufi non riusciamo a vedere la realtà della
situazione. Ci sentiamo deboli, isolati, trascurati. La ragione è che stiamo
dipendendo da qualcun altro nella speranza che ci risolva i problemi e allontani le
nostre paure.
Abbiamo un sacco di richieste mai espresse, o espresse il più delle volte in
maniera sottomessa e bisognosa. La sindrome del gufo ci riduce come in uno
stadio infantile. Cominciamo a dubitare di essere in grado occuparci delle cose per
conto nostro e perdiamo fiducia nella nostra capacità di confrontarci con la nostra
mente e le nostre emozioni.
Curiosamente, il gufo – così fragile, bisognoso ed insicuro – non è
necessariamente così debole come appare. Infatti, è in una posizione di vantaggio
e di controllo, in cui rivela una tendenza manipolatrice. Il gufo infatti non vuole
mettere ordine nelle sue cose e persiste nella sua attitudine privilegiata. E’ ovvio
che se non ci fosse la foca, il gufo non potrebbe permettersi di essere debole e si
farebbe carico delle sue proprie sfide. L’ironia di questa dinamica è che, nella
maggior parte dei casi, più la foca porta il pesce e più il gufo diventa pieno di
risentimento, pretenzioso e insoddisfatto. Sia per la foca che per il gufo, questo
tipo di dipendenza e aspettativa dà origine a molta negatività. Al lavoro
potremmo frenare la lingua e buttar giù quello che ci dice il capo, ma non c’è
freno quando si tratta dei nostri cari. Abbassiamo la guardia e ci permettiamo di
diventare cattivi, estendendo dappertutto la nostra rete di ansietà dell’ego.
E’ vero, la foca può temporaneamente soddisfare il gufo, ma da questo tipo di
arrangiamento non deriva alcun mutuo rispetto. E dopo tutto, non è proprio il
rispetto ciò che desideriamo di più? Tutti vogliono amore e attenzioni, ma, più di
questo, gli esseri umani desiderano rispetto per quello che sono. Persino un
nemico può rispettare l’altro. C’è un senso di dignità umana in questo.

In questa confusione di lenchak per amore, abbiamo paura che proprio senza la
dinamica lenchak la nostra relazione andrebbe completamente a pezzi. Che cosa
c’è dietro a tutti questi doveri, questi “dovremmo” o “non dovremmo” e a tutte
queste fantasie a cui cerchiamo di conformarci? La differenza fra amore e lenchak
deve essere esaminata con cura. L’amore e la cura per gli altri riscalda il cuore e
rende generosi e altruisti. I sentimenti di amore e attenzione sorgono
spontaneamente, non sono il prodotto di pressioni o richieste. Pensate
all’attaccamento e al dolore legati a lenchak. Pensate a tutto il risentimento e
all’insicurezza che ne derivano. Lenchak ci fa sentire non all’altezza della nostra
vite e delle sue sfide, o di non poter sopportare il dolore degli altri. E neanche
crediamo che essi possano badare a se stessi!

Quando è tempo per un bambino di iniziare a camminare, una mamma deve


lasciarlo camminare da solo. Deve lasciare che il bambino perda l’equilibrio, cada
e si rialzi, trovando l’equilibrio da solo, sui suoi propri piedi. Sebbene i bambini
abbiano bisogno di protezione, dobbiamo nello stesso tempo aver fiducia che il
loro potenziale si esprima. Non dobbiamo tenerli prigionieri dei nostri stessi dubbi
e paure – è questo che crea l’insana dipendenza di cui stiamo parlando.
Lasciare per un po’ che i bambini si immergergano in una situazione di sfida o di
ostacolo li aiuta ad acquistare fiducia. Ciò dà fiducia anche alla madre. Quando ci
troviamo di fronte ad un ostacolo o ad una sfida, non dobbiamo intimidirci,
piuttosto diciamo a noi stessi: “Si, c’è un problema, ma di per sé questo non è
male, non mi distruggerà”. La cosa da fare è relazionarsi con l’ostacolo,
conoscerlo e infine superarlo. Ciò ci dà l’occasione di coltivare la saggezza ed i
mezzi abili. Ci dà fiducia. Non possiamo certamente eliminare tutti gli ostacoli che
troviamo nel corso della vita, della nostra come di quella degli altri. Possiamo solo
imparare a cogliere l’occasione di affrontarli. Shantideva suggerisce di coltivare il
tipo di attitudine “Si può fare, perché no? Nessun problema!” per risolvere ostacoli
e nevrosi. Se non abbiamo fiducia in questo, saremo sempre sconfitti. Saremo
come un serpente morto per terra, intorno al quale anche un passerotto può
permettersi di comportarsi come un garuda, l’uccello mitologico che con un
battito d’ali attraversa l’universo e che esce dall’uovo già completamente
sviluppato, indicando così lo stato della mente risvegliata. Allo stesso modo, la
minima paura o nevrosi può completamente annullarci. Il grande inganno di
lenchak è che neanche ci viene in mente che la nostra sofferenza è solo nostra.
Automaticamente ci aspettiamo che gli altri la condividano o che se ne facciano
carico. In questo modo, lenchak si frappone fra noi e l’accollarci le responsabilità
della nostra vita. Ci sono momenti in cui cerchiamo di attirarci la simpatia degli
altri. Se ci chiedono come stiamo, rivediamo tutta la nostra vita all’istante.
Iniziamo con un: “Bene, grazie, ma…” e sentiamo la necessità di condividere
tutto. Alla fine della conversazione, gli altri sanno tutto dei nostri guai e dei nostri
malanni. Sembriamo proprio non essere in grado di attraversare il processo per
conto nostro e con le sole nostre forze. Abbiamo veramente bisogno di essere così
trasparenti come il vetro? Gli altri desiderano davvero da noi questo tipo di
onestà? La gente spesso non riesce a gestire tutti i dettagli e la confusione delle
proprie vite. E’ prudente presumere che quindi anche gli altri abbiano alti e bassi
emotivi e spiacevoli sensazioni proprio come noi. Inoltre, a meno che non si tratti
del nostro medico, cosa può fare veramente qualcuno per noi?
Alla fine della sua vita, mia madre, molto malata, ricevette la visita di un amico.
Quando le chiese come stesse, mia madre rispose: “Bene, sto bene”. Più tardi
chiesi a mia madre come mai avesse dato quella risposta, e lei rispose: “Che altro
avrei dovuto dire?” Quando si chiede ad un maestro realizzato come si sente,
risponde sempre che sta molto bene. Molte persone si sentono a disagio nel dire
che stanno bene quando invece hanno problemi. Ma ciò di cui stiamo parlando qui
è come sviluppare un senso fondamentale di forza e di benessere. Non è meglio
associare la nostra mente a questo, piuttosto che alle altalenanti emozioni e
sensazioni fisiche che sperimentiamo ogni giorno? Che senso ha essere onesti
rispetto a qualcosa di così instabile e impossibile da definire? Se facciamo
dipendere il nostro benessere dalle emozioni e dalle sensazioni fisiche, ci sono
ben poche opportunità per poter rispondere che stiamo bene! Così, quando la
gente ci chiede come stiamo, rispondiamo sempre positivamente! Dovremo
probabilmente sforzarci un poco all’inizio, ma presto cominceremo a crederci
veramente e vedremo che anche gli altri si sentiranno maggiormente attratti
verso di noi. Non percepiranno quel sottile disagio vedendovi arrivare e non
esiteranno affatto a chiedervi come state!

Quando siamo legati dalle necessità emotive degli altri, o semplicemente


spaventati per conto nostro, come possiamo pensare di intraprendere un percorso
spirituale? E quando le nostre relazioni con gli altri sono così poco chiare e
complicate, come possiamo pensare di offrire loro gentilezza e lavorare per il loro
beneficio? Lenchak va contro tutti i più fondamentali principi della pratica
spirituale. Cerchiamo sempre qualcosa che ci provenga dall’esterno e
dimentichiamo che il nostro benessere e la nostra forza fondamentale dipende da
come ci relazioniamo con la nostra stessa mente.
Cadere sotto il potere della dinamica di lenchak è come perdere il possesso della
nostra stessa vita. E’ come lasciare che gli altri ci conducano in giro tirandoci per
l’anello al naso, come un bufalo o una mucca. Cosa ci potrebbe essere di più
dannoso che perdere la nostra libertà in questo modo? Tutti i grandi praticanti
conoscono le conseguenze e i trabocchetti di lenchak, cosicché sono pronti a
difendere strenuamente la loro indipendenza. Sono sempre molto attenti quando
si tratta di lavorare con gli altri, perché sanno che - sia che si tratti di studenti,
parenti, amici o chicchessia - se dovessero cadere preda delle dinamiche di
lenchak queste divorerebbero ben presto il loro tempo e la loro pace mentale.
Inoltre, poiché si tratta di una dinamica basata sulla nevrosi, lenchak annulla ogni
supporto su cui basarsi nell’aiutare gli altri. Alla fine, si ritroverebbero a condurre
una vita totalmente differente da quella della pratica spirituale che avevano
stabilito per se stessi. Consapevoli di questo, molti yogi si sono tenuti lontano dai
legami della società ed hanno condotto vite semplici, viaggiando soli e senza le
complicazioni derivanti da persone a cui delegare responsabilità e compiti.

Il grande maestro nyingma Patrul Rinpoche aveva una forte ed inflessibile


presenza, completamente immune da qualsiasi forma di falsità o parzialità.
Ci sono storie che narrano di come importanti dignitari, che per orgoglio
avrebbero chinato la testa solo grazie ad un bulldozer, tremassero come bandiere
di preghiera in sua presenza. Ma non pensate neanche per un attimo che Patrul
Rinpoche, anche se libero da coinvolgimenti, potesse avere anche solo un briciolo
di indifferenza! Egli era apprezzato come un amico fedele e gentile,
compassionevole, la cui vita era dedicata esclusivamente al benefico degli altri.
Poiché egli poteva vedere il grande potenziale della capacità di risveglio della
mente umana, egli impiegò la sua intera esistenza a dare insegnamenti con
grande cura e tenerezza. Grazie alla sua saggezza e compassione, egli riuscì a
preservare la sua indipendenza e a servire gli altri, perfezionando la sua mente
tramite il gioiello della bodhicitta. A livello relativo, bodhicitta ha due aspetti: la
bodhicitta dell’aspirazione, che è il desiderio di ottenere l’illuminazione per
condurre tutti gli esseri alla liberazione, e la bodhicitta dell’azione, che include
pratiche come la generosità e la pazienza. A livello assoluto, bodhicitta è la chiara
comprensione della natura di tutte le cose. Saggezza e compassione sono le due
componenti di bodhicitta. Quando cominciamo a scoprire il potenziale naturale e
la forza della mente, stiamo coltivando la saggezza. Ciò non significa che stiamo
indurendo il nostro cuore diventando indifferenti. Non significa che dobbiamo
recidere tutti i legami familiari e sociali, lasciare il lavoro e vivere in una caverna.
Significa semplicemente rifiutarsi di cedere a lenchak, perché sappiamo che non
serve a noi e impedisce a noi di servire gli altri. Riconosciamo lenchak e diciamo
semplicemente “no!”. Possiamo considerarla una forma di disobbedienza civile, un
approccio non violento in cui ci rifiutiamo di soccombere alla nostra e alla altrui
ignoranza. Quando possiamo riappropriarci del nostro anello al naso, non abbiamo
più nessun reale motivo per essere arrabbiati con gli altri. Con una mente
sgombra da lenchak, abbiamo un enorme spazio a disposizione dove espandere il
cuore tramite il servizio verso gli altri. Questo è il modo in cui la saggezza può
proteggerci, cosicché possiamo essere teneri e pieni di attenzioni. Questa è la via
del bodhisattva. Nei sutra si dice che il bodhisattva è come il loto immacolato che
galleggia sull’acqua fangosa. Il loto è una metafora del bodhisattva, che affronta
la confusione del mondo per servire gli esseri. Ma comme può il bodhisattva
galleggiare senza affondare nel fango della confusione?
E’ possibile solo grazie alla saggezza del conoscere la mente; come questa può
servirci oppure come, se lasciata incontrollata, ci può portare nella direzione
determinata dalla confusione. Questo tipo di chiarezza può sembrare molto
distante nel nostro cammino, ma sicuramente inizia quando cominciamo a
sfruttare le occasioni della nostra vita e affrontiamo la nostra mente. Dobbiamo
considerare bene questo punto. Poiché questa è la nostra vita, dobbiamo trovare
la determinazione per affrontarla in un modo che supporti i nostri scopi. Una volta
che abbiamo provato il gusto della libertà derivante dall’indipendenza, trovare
questa determinazione diventa sempre più facile. Realizziamo quanto abbiamo
perso aggrappandoci disperatamente alla confusione e quanto c’è da guadagnare
liberandocene. Possiamo fare questo amplificando le nostre qualità più preziose: il
nostro buon cuore e la compassione per gli altri. Grazie alle nostre qualità innate
di saggezza e compassione, possiamo bruciare i semi di lenchak una volta per
tutte, assicurando beneficio per noi stessi e per gli altri.
Questa consapevolezza ha avuto per me un grande valore personale nella mia
vita di insegnante, capofamiglia e amico. Spero che possa essere d’aiuto anche a
voi.

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