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Il concetto del sé
«Vorrei cominciare con una disamina del concetto del sé. Come molti di
voi sanno, il fondamento dell'intera dottrina buddhista prende il nome di
"Quattro Nobili Verità". Che senso ha riconoscere queste Quattro Nobili
Verità? Che senso ha discuterne? In realtà tutto ciò riguarda le nostre
aspirazioni fondamentali, che ruotano attorno alla felicità e alla soffe-
renza, ed è collegato a specifiche relazioni causali. Come sorge la
sofferenza? Come si produce la felicità? Il tema centrale delle Quattro
Nobili Verità è la questione della causalità della felicità e della sofferenza.
«È una spiegazione che si concentra specificamente sulla causalità
naturale, invece di fare appello a una sorta di creatore esterno, o di
materia essenziale, che controlla gli eventi della vita. Le Quattro Nobili
Verità vengono spesso espresse nella forma di quattro affermazioni:
riconoscere la nobile verità della sofferenza; abbandonare la nobile verità
dell'origine della sofferenza; realizzare la nobile verità della cessazione
della sofferenza e coltivare la nobile verità del sentiero. Chiunque cerchi la
felicità e desideri evitare la sofferenza deve portare a termine tutto ciò.
«In questo contesto, il concetto del sé assume un ruolo cruciale. Siamo
noi che sperimentiamo la sofferenza, e siamo ancora noi che dobbiamo
applicare i metodi per eliminare la sofferenza. Anche la causa di tutto ciò
è in noi. Quando il buddhismo fece la sua prima comparsa nell'antica
India, una delle distinzioni fondamentali tra la visione buddhista e le
visioni non buddhiste riguardava proprio il sé. Specificamente, il
buddhismo rifiuta l'esistenza di un sé permanente e immutabile. Perché?
Perché l'idea stessa di un sé assoluto, nel momento in cui viene applicata
al sé in quanto agente attivo e passivo, come agente e come testimone,
risulta assai problematica. C'è stata una notevole elaborazione e un
grande dibattito sulla natura del sé.
«Secondo i trattati non buddhisti, il sé esiste in modo assolutamente
separato e autonomo dagli aggregati, i costituenti psicofisici, del corpo e
della mente. In generale, tutte e quattro le scuole filosofiche buddhiste si
ritrovano d'accordo nel negare l'esistenza di un sé dotato di una natura
separata rispetto agli aggregati. Tuttavia, rispetto alla modalità di
esistenza del sé in rapporto agli stessi aggregati abbiamo visioni di-
vergenti. Per esempio, una di queste scuole buddhiste sostiene che il sé è
l'insieme dei cinque costituenti psicofisici (scr. skandha). Un'altra scuola
identifica il sé con la mente. E troviamo diverse visioni persino nell'ambito
di quest'ultimo approccio. Come ho detto ieri, c'è una scuola che asserisce
che la coscienza mentale sia il sé. Se poi passiamo alla scuola Yogàcàra, il
sé viene identificato nella coscienza basilare (scr. àlayavijnàna).
«Passiamo ora alla scuola Pràsangika Màdhyamaka. Secondo questa
scuola il sé sperimenta tutti e cinque gli aggregati. Giacché gli aggregati
vengono sperimentati dal sé, diventa complicato sostenere che lo stesso
sé possa essere ritrovato tra gli aggregati. Se finiamo per scoprire che
l'oggetto sperimentato e chi lo sperimenta sono esattamente la stessa
cosa, siamo nei guai. È proprio per questo motivo che il sé non viene
identificato come qualcosa che dimora negli aggregati. Ma d'altronde,
quando proviamo a ipotizzare un sé che esiste in modo indipendente dagli
aggregati, non riusciamo a trovarlo da nessuna parte. E quindi dobbiamo
parimenti rifiutarlo. La conclusione della scuola Màdhyamaka è che il sé
viene designato sulla base dei cinque aggregati. Di conseguenza viene
descritto come un puro e semplice nome, una mera imputazione.
«Nàgàrjuna, il fondatore della scuola Pràsangika Màdhyamaka, dice
nella Preziosa Ghirlanda (scr. Ratnàvali) che la persona non è nessuno dei
sei elementi che costituiscono la persona: non è l'elemento terra, né
l'elemento acqua, e via dicendo. Non è neppure l'insieme degli elementi.
D'altra parte non c'è nessuna persona che possa manifestarsi indi-
pendentemente da questi elementi. Proprio come la persona non è né uno
qualsiasi dei singoli elementi, né l'insieme di questi elementi,
analogamente ognuno degli elementi che costituiscono la persona può
essere soggetto alla stessa analisi. Anche i costituenti esistono in
definitiva solo come mere imputazioni, o designazioni. Giacché la persona
non esiste nella forma di un'entità auto-esistente che possiede una pro-
pria natura e identità, l'unica alternativa possibile è accettare che la
persona esista solo nominalmente, ovvero grazie alla sola designazione».
Il sé e l'azione
Livelli di coscienza
La coscienza basilare
«Passiamo ora al Vajrayàna e alle quattro classi del tantra. Nelle tre
classi inferiori del tantra, sebbene si discuta molto di sogni positivi e
negativi, e di segni positivi e negativi, non si menziona affatto la vera e
propria utilizzazione dei sogni nella pratica spirituale. Tuttavia, le stesse
tre classi inferiori dei tantra includono metodi per rendere lo stato di
sogno più limpido, grazie alla meditazione sulla propria divinità tantrica
(scr. istadevatà, tib. yidam).
«Il Supremo Yoga tantrico, ovvero la quarta e la più profonda tra le
quattro diverse classi d'insegnamento del Vajrayàna, menziona la natura
fondamentale della realtà. Oltre a esaminare la natura del sentiero
spirituale e il culmine dello stesso sentiero, ovvero la buddhità, questo
sistema tantrico studia sia il corpo sia la mente in termini di tre stati o
livelli successivi sempre più sottili, a partire dal grossolano, per passare al
sottile e infine all'estremamente sottile. In questo contesto, è possibile
parlare anche di aspetti grossolani e sottili dell'io, o sé. Possiamo dunque
affermare che esistano simultaneamente due diversi sé, uno grossolano e
uno sottile?
«La risposta è no. Finché il corpo e la mente grossolana funzionano,
sulla base dello stesso insieme corpo-mente grossolano, nonché sulla
base della sua condotta, viene designato un sé grossolano. In questo
frangente non è quindi possibile identificare un sé sottile. Ma al momento
della cessazione del corpo e della mente grossolana, ovvero al momento
della chiara luce della morte, la mente grossolana svanisce comple-
tamente, e l'unica cosa che resta di quel continuum è l'energia-mente
estremamente sottile. Al momento della chiara luce della morte non c'è
nient'altro che l'energia-mente estremamente sottile, ed è sulla base di
ciò che possiamo designare la persona, o "io", estremamente sottile. In
quella situazione non c'è alcun "io" grossolano, e quindi le due forme del
sé, quella grossolana e quella sottile, non si manifestano contem-
poraneamente. Ecco come possiamo evitare l'errore di due persone che
esistono nello stesso istante.
«Francisco, per tornare alla sua precedente domanda, la designazione del
sé sottile si verifica nel contesto di uno stato di sogno molto speciale. Non
si tratta di mera immaginazione: il sé sottile lascia effettivamente il corpo
grossolano. Il sé sottile non si manifesta in tutti i sogni, ma solo in quel
sogno particolare in cui si possiede un corpo di sogno speciale che può
separarsi dal corpo grossolano. Si tratta di un'occasione in cui il corpo
sottile e il sé sottile possono manifestarsi. Un'altra occasione è il bardo, o
stato intermedio tra due diverse esistenze. Per potere disperdere le
afflizioni mentali e coltivare le qualità positive, è molto meglio fare uso sia
della mente grossolana sia della mente sottile; quest'ultima può essere
coltivata durante le pratiche dello yoga del sogno. Se riusciamo a
utilizzare tutti i livelli dell'energia-mente sottile ed estremamente sottile,
si tratta di qualcosa di realmente utile».
«Nàgàrjuna indica un altro effetto positivo della pratica dello yoga del
sonno e dello yoga del sogno: possiamo usare con destrezza le facoltà che
possediamo in quanto esseri umani, nati su questo pianeta e in possesso
di un sistema nervoso e di un corpo fisico particolare, composto di sei co-
stituenti. È sulla base di questa costituzione che sperimentiamo tre stati:
morte, stato intermedio e rinascita. E questi tre stati, che caratterizzano
la nostra esistenza di esseri umani, mostrano alcune somiglianze con i
corpi di un Buddha.
«Uno dei corpi del Buddha viene chiamato Dharmakàya, e può essere
descritto come lo stato della perfetta cessazione della proliferazione dei
fenomeni. Tra la morte e il Dharmakàya ci sono alcune analogie, in
relazione al modo in cui i livelli grossolani di energia-mente si dissolvono
nella chiara luce fondamentale. Inoltre, al momento della morte, ogni
sorta di proliferazione dei fenomeni si dissolve nella natura stessa della
sfera della realtà ultima (scr. dharmadhàtu, tib. chos kyi dbyings).
Ovviamente non mi riferisco a una persona, ma a uno stato.
«La seconda fase che sperimentiamo è lo stato intermedio, ovvero
l'intervallo tra due diverse vite. È il punto di congiunzione tra la morte e
l'ottenimento di un nuovo corpo fisico, al momento del concepimento. Nel
momento della morte, dalla chiara luce della morte scaturisce una forma,
composta di energia-mente sottile, svincolata dai livelli grossolani di
mente e corpo. Ciò è analogo al Sambhogakàya, che è il corpo del
Buddha nella sua forma primordiale, e che scaturisce dal Dharmakàya.
Sia il Sambhogakàya sia il corpo di sogno straordinario sono considerati
forme sottili, proprio come la forma che viene assunta nello stato
intermedio.
«Il concepimento ha luogo con l'avvio della formazione del corpo e delle
energie grossolane. Analogamente, dalla forma pura del Sambhogakàya
un Buddha può manifestarsi in forme grossolane multiple, chiamate
Nirmànakàya, che sorgono in dipendenza delle necessità dei diversi esseri
senzienti. È qualcosa di simile al concepimento. Ma dobbiamo stare attenti
a distinguere il concepimento dal parto. Mi sto riferendo proprio al
concepimento, e non al momento della nascita dal ventre materno.
«Vi ho così descritto le analogie tra i tre stati e i tre corpi di un Buddha.
Noi esseri umani possediamo alcune facoltà che ci permettono di giungere
a queste tre realizzazioni durante la nostra stessa esistenza, e Nàgàrjuna
ci suggerisce di usare queste facoltà praticando le tecniche di meditazione
tantrica. Oltre alle pratiche Mahàyàna, relative alla meditazione sulla
vacuità e sulla compassione, possiamo utilizzare la chiara luce della morte
per realizzare la vacuità; così facendo possiamo trasformare la morte nel
sentiero spirituale che conduce alla piena illuminazione. Proprio come la
chiara luce della morte può essere utilizzata quale sentiero per la realiz-
zazione del Dharmakàya, lo stato intermedio può essere usato per
realizzare il Sambhogakàya, e il concepimento può essere usato per
ottenere il Nirmànakàya».