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Parte I
E’ bene soffermarsi con particolare attenzione sui tre principali aspetti del sentiero
in modo da predisporsi allo sviluppo della corretta motivazione, che deve essere
sempre presente, sia nelle normali attività della vita, che nel momento particolare di
preghiera e pratica del Dharma.
Dobbiamo essere coscienti della magnifica opportunità offerta da queste giornate
di approfondimento, godendo insieme dell’atmosfera e delle sensazioni pacifiche che
ne nascono e che ci permettono di dimenticare tutte le noie e le preoccupazioni
quotidiane; in questo preciso momento siamo liberi da ogni inquietudine e stiamo
vivendo in perfetta salute mentale e fisica.
Utilizzando il linguaggio filosofico potremmo affermare che siamo in uno stato
equanime della mente e lo stesso nirvana non è cosa differente da questo tipo di
situazione. Se ne avessimo la capacità potremmo realizzare il nirvana qui, in un luogo
di perfetto rilassamento, perché la potenzialità è sempre presente in noi e, se non ne
approfittiamo, perderemo una grande occasione.
La meditazione quotidiana è fondamentale per poter sperimentare il livello
profondo del sé. La pratica non è dunque soltanto questione di sforzo e di conoscenza
ma è l’incontro di cause e condizioni e, nel momento in cui ciò avviene, la
realizzazione sorge spontaneamente. Un esempio sempre chiaro è quello della pianta
che deve fiorire, non vi è alcuna possibilità di forzarne il naturale processo, l’unico
modo per ottenere una bella fioritura è quello di averne molta cura, fertilizzare il
terreno, disporla nella giusta luce, annaffiarla quotidianamente. Lo stesso metodo vale
per la mente, si pongono in atto tutte le condizioni necessarie ed essa fiorirà, ma, se
volessimo forzarla, ne otterremmo soltanto la sua distruzione.
Nella pratica spirituale questo è aspetto è determinante, non si deve mai pressare,
forzare la mente, ma solo porla nella posizione corretta accudendola con le giuste
attenzioni. In tal senso il continuo chiacchiericcio mentale e persino lo studio eccessivo
e la lettura, possono trasformarsi a volte in elementi di disturbo.
Non è facile lasciare la mente nella giusta situazione, nella pace della sua stessa
natura.
L’acqua inquinata messa in un contenitore pulito e adatto si detergerà
naturalmente lasciando che le particelle di sporco depositino sul fondo in uno
spontaneo processo di autopurificazione.
Anche il cielo in una giornata limpida manifesta tutta la propria intensa radiosità
ma, quando nuvole passeggere ne oscurano la limpidezza, non vi è modo di ripulirlo
spingendole a forza, l’unica possibilità è attendere che naturalmente le oscurazioni si
esauriscano e scompaiano.
Similmente, per quanto riguarda la mente, a volte accade in modo assolutamente
inaspettato, quasi misterioso, che si generi grande serenità e calma mentale e ciò è
dovuto al compimento dell’unione di cause e condizioni. Questo è il metodo essenziale
di purificazione della mente.
Nella tradizione tibetana si ricordano innumerevoli discussioni e dibattiti su
questo aspetto, alcuni ritengono che le realizzazioni possano giungere anche senza
meditazione, ma altri affermano l’esatto contrario e cioè che senza meditazione sia
impossibile ottenere realizzazione alcuna. Precisamente le due posizioni sono così
sintetizzate:
1. “anche se siamo esseri illuminati lo siamo da sempre, sin dall’origine, in realtà,
però, non lo riconosciamo” e da ciò nasce ogni problema.
2. “se ciò fosse vero non avrebbe alcun senso praticare”.
I due differenti punti di vista filosofici sono parte della tradizione tibetana,
fondata sulla traduzione dei testi radice originali indiani della parola del Buddha,
portati in Tibet in due momenti successivi così da essere indicati come appartenenti alla
“vecchia traduzione” o alla “nuova traduzione”.
La prima traduzione è stata redatta dalla scuola degli antichi, i Nyingmapa ed è
considerata in Tibet di maggiore importanza, la seconda traduzione, Sarma, ha dato
origine a nuove scuole di cui le tre più importanti sono: Kagyupa Sakyapa e Gelugpa.
Anche all’interno di ognuna di esse esistono ulteriori sottili suddivisioni che, pur non
essendo evidenti esternamente, ne definiscono le specifiche caratteristiche.
Si ha un fenomeno simile nel cristianesimo e nello stesso cattolicesimo.
L’interpretazione della parola del Buddha relativamente al punto fondamentale
della visione pura è sintetizzata in due termini diversi: nella vecchia traduzione, dei
Nyingmapa, è DZOGCHEN (Grande Perfezione), nella nuova traduzione è
MAHAMUDRA, (Grande Sigillo) che è il perno, il cuore, il fulcro della traduzione
Sarmata.
I Nyingma, oltre ad una propria interpretazione degli insegnamenti del Buddha,
hanno raccolto insegnamenti particolari che non sono generalmente considerati nella
tradizione tibetana e appartengono a pratiche tantriche, si tratta della raccolta di
insegnamenti tantrici della vecchia traduzione a cui, successivamente, i discepoli hanno
apportato interpretazioni ancora differenti. L’essenza dello Dzogchen è contenuta nel
verso già citato “anche se siamo esseri illuminati dal tempo senza inizio, in realtà, però, non
lo riconosciamo”.
Nell’interpretazione della nuova traduzione dei Sarmapa invece, si pensa che ciò
non sia corretto e ci si concentra sulla Mahamudra basata sulla concezione che tutti noi
abbiamo la natura di Buddha che pur essendo già presente, deve essere purificata, da
tutte le impurità che la ricoprono ed oscurano e soltanto quando ciò avverrà noi saremo
illuminati.
Domanda: Quindi non vi è una differenza sostanziale tra le due posizioni?
Domanda: Si c’è, perché il Mahamudra sostiene che tutti abbiamo la potenzialità di
raggiungere l’illuminazione, ma è necessario purificare ogni impurità,
mentre lo Dzogchen dice che siamo già illuminati dall’inizio, dobbiamo
solo saperlo riconoscere, vero?
Lama: Affinché non sorgano fraintendimenti è bene precisare che non è esatto
pensare ad “un inizio”, a terminologia esatta è “da tempo senza inizio”, e
questo è un concetto centrale nell’interpretazione tibetana degli
insegnamenti del Buddha. Si è già illuminati o si deve ancora acquisire
questa qualità? Troviamo riferimenti essenziali nel trattato “Uttaratantra”,
il supremo lignaggio, insegnato dal Bodhisattva Maitreya ad Asanga nel IV
secolo, nel quale sono riassunti tutti gli insegnamenti relativi “al terzo giro
di ruota” concernente la natura di Buddha, termine condiviso da entrambe
le traduzioni, la vecchia e la nuova. L’Uttaratantra costituisce la fonte
principale, il testo radice a cui si sono riferite tutte le successive
interpretazioni. In esso vengono trascritti nove classici esempi condivisi da
tutte le scuole. Uno di questi narra di un tesoro costituito da oro nascosto
nell’immondizia. L’oro rappresenta la natura di Buddha e l’immondizia le
impurità mentali, il momento in cui si scopre l’oro che emerge dalla
sporcizia è il momento in cui si raggiunge l’illuminazione e si realizza la
propria autentica natura; ciò corrisponde all’insegnamento Nyingmapa
perché, anche se siamo esseri illuminati dal tempo senza inizio, in realtà
non siamo capaci di riconoscerlo immediatamente.
Per i Sarma, trovare l’oro in mezzo all’immondizia, corrisponde alla
purificazione, alla ripulitura delle impurità che lo nascondono, che
oscurano la vera natura della mente.
Entrambe le posizioni trovano risposta nell’esempio, ecco perché gli
studenti di Dharma devono fermarsi almeno un anno sullo studio della
natura di Buddha, un soggetto stupendo.
Domanda: Rispetto alla pratica, come si differenziano queste due interpretazioni? Noi
generalmente lavoriamo sulla mente per purificarla da tutti gli ostacoli, ma
secondo l’interpretazione degli antichi cosa dovremmo fare?
Lama: Creare le condizioni appropriate; invece di porre l’accento sul tipo di percorso
da seguire rivolgere maggior attenzione e prendersi cura delle condizioni
affinché esso si verifichi naturalmente. Per esempio, nell’educazione dei
figli vi è un modo diretto di procedere seguendo giorno per giorno
l’evoluzione del proprio lavoro, oppure vi è un sistema educativo in cui ci
si preoccupa di creare le condizioni migliori affinché questo processo
avvenga naturalmente, ma in nessuno dei due casi vi è garanzia di buon
risultato. Nei collegi inglesi, così come nei nostri monasteri, spesso si cerca
di avere tra i propri studenti persone importanti, famose, in modo da
poterne trarre un vantaggio e senza troppi scrupoli si rilasciano attestati
che non corrispondono affatto al livello di preparazione indicato. Le
tradizioni, sia di Oxford che di Cambridge, sono particolari perché, dopo
aver ottenuto il primo grado di laurea, si passa automaticamente alla laurea
completa; oggi la stessa cosa tende a verificarsi anche nei nostri monasteri,
quando si raggiunge un certo livello si può accedere direttamente al livello
massimo, senza dover ottenere diplomi intermedi, così si può trascorrere
una vita intera nel monastero, e alla fine avere il titolo di Geshe, senza la
relativa necessaria preparazione.
Quindi, anche se esistono le migliori condizioni, il processo non è mai
garantito, in nessun caso, è dunque saggio considerare molto seriamente
entrambe le possibilità praticandole insieme; non c’è una via “migliore”,
“più giusta”, e nemmeno l’una esclude l’altra, anzi è stupendo saperle
integrare armoniosamente creando le condizioni più favorevoli e
impegnandosi nel lavoro di purificazione, attuando così una pratica
globale.
Per quanto riguarda la natura del Buddha vi sono interpretazioni differenti sul
suo essere in noi, ma cos’è la natura di Buddha? E’ la natura della mente. Una
terminologia che può apparire strana e potremmo essere indotti a identificarla come un
dono offerto dal Buddha, in realtà si tratta dell’autentica natura della propria mente.
Comunque, entrambe le tradizioni, quella della “grande perfezione” (Dzogchen) e
quella del “grande sigillo” (Mahamudra), affermano la fondamentale realtà della
natura della mente.
La natura della mente ha due livelli: uno definitivo, ultimo, e uno convenzionale,
relativo, ed entrambi devono coesistere.
La natura della mente è direttamente connessa alla consapevolezza, la cui crescita
e realizzazione è il metodo necessario al suo sviluppo. Nell’approfondimento della
consapevolezza ci avviciniamo al livello ultimo della natura della mente, la natura
vacua della mente. Come una lampadina che dà più luce quanto più è potente, con il
crescere della consapevolezza la natura vacua della mente si manifesterà con maggiore
chiarezza e luminosità.
Osserviamo allo stesso modo la natura di Buddha che, da un lato è innata e
dall’altro può essere sviluppata. La natura di Buddha innata è conosciuta come “chiara
luce”; la natura di Buddha che può essere sviluppata invece appartiene alla
consapevolezza.
Se sappiamo guardare con equanimità i due livelli della mente riusciamo ad avere
una miglior conoscenza del sé, ed è un grande passo, perché il nostro riferimento non
può mai essere il mondo esterno bensì la nostra interiorità, il nostro sé profondo.
E’ interessante affrontare l’argomento di oggi, “Le quattro nobili verità”
partendo da questo punto di osservazione.
Il primo giro della ruota del Dharma ha avuto come soggetto le quattro nobili
verità e si riferisce al quadro più generale.
Nel secondo giro della ruota del Dharma il soggetto si sposta sul significato
ultimo del precedente insegnamento e ha come punto centrale la Vacuità.
Nel terzo giro della ruota del Dharma si approfondisce quanto già affrontato
esaminando dettagliatamente ogni aspetto specifico dell’insegnamento. La tradizione
narra che il Buddha, dopo aver raggiunto l’illuminazione e pronunciato la seguente
frase rimase in silenzio nella foresta per sette settimane:
“profondo, pacifico e senza costruzioni mentali, chiaro, non composto, come nettare che dissolve
le sofferenze, questo ho scoperto!”
L’ultima esclamazione afferma l’immensa gioia per l’aver scoperto l’essenza del
fenomeno:
“nessuno capirebbe questo, per cui rimarrò nella foresta e non lo comunicherò ad alcuno”
e rimase nella foresta fino a quando non passò qualcuno che gli chiese l’insegnamento.
La quartina esprime il contenuto del terzo giro della ruota del Dharma, un livello di
comprensione a cui si può giungere solo conseguentemente alla realizzazione dei primi
due e, per questo motivo, la sua spiegazione può essere data solo nel terzo giro della
ruota del Dharma.
Con le espressioni “Natura di Buddha”, “Natura della Mente” e “Supremo
Lignaggio” si definisce la stessa realtà.
Per quanto riguarda invece i due piani della natura della mente, a livello ultimo è
fondamentalmente il contenuto del secondo giro della ruota del Dharma, la Vacuità;
mentre a livello convenzionale è prioritario il soggetto del primo giro della ruota del
Dharma relativo alla panoramica generale.
Il primo giro della ruota del Dharma concerne, filosoficamente, l’ Hinayana ed è
rivolto essenzialmente agli uditori, i praticanti solitari; il secondo giro è riferito al
Mahayana e ha come oggetto le sei perfezioni e le pratiche del Bodhisattva; il terzo giro
sottolinea l’ultimo veicolo, il Vajrayana, metodo che permette di affrontare in modo
diretto e profondo il sé.
Esiste anche una metafora per definire i primi tre giri della ruota del Dharma:
“pulire la mente tre volte”, e nasce dall’antica abitudine tibetana di lavare gli abiti una
sola volta l’anno, ma in tre passaggi consecutivi; con il primo lavaggio si ripuliva la
sporcizia più superficiale, con il secondo quella più profonda e con il terzo venivano
eliminate definitivamente le impurità residue. Se si fosse effettuato un unico e più
radicale lavaggio, invece di procedere per gradi, sicuramente si sarebbe lacerata la
stoffa.
Questo è l’abile mezzo del Buddha che dapprima ripulisce le impurità grossolane
applicando la pratica dei tre addestratori: Etica, Concentrazione e Saggezza.
Dopo aver ammorbidito la mente, eliminato le rigidità delle impurità grossolane,
nel secondo giro della ruota del Dharma si possono affrontare le pratiche
dell’Altruismo, della Bodhicitta e delle Sei Perfezioni, e, procedendo gradino dopo
gradino, addentrarsi sempre più profondamente nella ripulitura della mente.
Il terzo giro della ruota del Dharma mostra semplicemente ciò che si è, permette
di riconoscere la propria essenza.
I tre veicoli, Hinayana, Mahayana e Vajrayana, non sono affatto contrapposti o
separati, ma indicano un cammino da percorrere e il tempo necessario per completarlo
secondo le capacità individuali. Nel bellissimo e fondamentale testo radice, tantrico, “I
Nomi di Manjusri” si afferma che infine esiste un solo sentiero poiché, nella visione
ultima, tutti i veicoli sono un unico veicolo.
Al mio arrivo in Europa mi sembrò veramente buffo che molte persone che si
accostate al buddhismo, affermassero con serietà e sicurezza la propria appartenenza a
un veicolo piuttosto che ad un altro; è davvero una sciocchezza tipicamente occidentale
che, sovrapposta alle pratiche buddhiste, ne altera radicalmente il senso fino a
vanificarlo. Tali concezioni errate sono nate e cresciute esclusivamente nelle società
tecnologicamente più avanzate, prima in Giappone poi negli Stati Uniti e infine in
Europa. Di questo passo presto arriveranno anche in Tibet e sarebbe davvero un guaio
perché la cultura tibetana, sinceramente ecumenica, finirebbe per scomparire. Non ha
senso affermare di appartenere ad un veicolo o ad un altro, tutti sono parti inscindibili
dello stesso sentiero. La mente deve essere ripulita prima nell’Hinayana, poi si procede
nel Mahayana e infine la purificazione viene completata nel Vajrayana.
La natura di Buddha è la stessa in ogni individuo che, di conseguenza, è
ugualmente importante e ha pari capacità di purificazione della propria mente. Non
possono esistere discriminazioni di nessun genere tanto che nei confronti della
divisione in caste, così radicata in India, il Buddha fu un vero rivoluzionario e dichiarò
che l’unica casta esistente era l’essere umano che possiede uguale natura di Buddha
senza alcuna distinzione.
La prima nobile verità “della Sofferenza” non è da intendersi soltanto come
dolore in senso stretto, ma piuttosto come senso di insoddisfazione, presente in ognuno
di noi in ogni circostanza, qualsiasi cosa stiamo facendo, anche quando è nascosto a
livelli molto sottili. Con la prima nobile verità conosciamo l’insoddisfazione che
affonda le radici nelle oscurazioni della mente, nell’ignoranza. Il dolore è la
manifestazione più evidente e palese dell’insoddisfazione, mentre ciò che noi
percepiamo come felicità è la manifestazione di livelli più sottili della stessa
insoddisfazione. Poiché la nostra mente è piena di oscurazioni ciò che ci appare come
felicità corrisponde soltanto al fatto che qualche grado di insoddisfazione è stato
annullato.
Quando nello stato meditativo sperimentiamo l’assenza di felicità, l’assenza di
sofferenza e di qualsiasi emozione particolare, siamo nello stato equanime delle
sensazioni, che è un livello superiore a quello della felicità, perché con la felicità è
sottinteso il riferimento al dolore e viceversa, mentre una condizione in cui le due
sensazioni contrapposte sono assenti è decisamente migliore, si sta nell’equilibrio
equanime nel quale entrambe rivelano la loro neutralità. La felicità può portare alla
sofferenza e viceversa e il loro continuo alternarsi è già in sé sofferenza, mentre la
condizione neutrale che si mantiene salda nell’equanimità è decisamente superiore. La
sensazione che può avere un Buddha è dunque quella della neutralità, sebbene
anch’essa rientri sempre nell’ambito della sofferenza.
La verità della sofferenza nasce dall’attitudine discriminante assunta da noi, esseri
convenzionali e ordinari. Immediatamente e in ogni circostanza vogliamo catalogare,
dividere, differenziare, strutturare secondo le nostre personali priorità e, se la nostra
priorità è la felicità, inevitabilmente collocheremo il dolore all’ultimo gradino. Con tale
errata concezione noi poniamo in basso la sofferenza, ad un livello intermedio la
neutralità e in alto a felicità, ma in questo modo siamo incapaci di comprendere la
prima nobile verità della sofferenza e assai lontani dalla sua realizzazione. Ogni
discriminazione e il voler essere sempre felici è il segno sicuro della non realizzazione
della prima nobile verità. Nemmeno il Buddha è sempre felice, non avrebbe alcun
senso, mentre ciò che è importante è la neutralità o, secondo una definizione più sottile,
“la naturalità”, uno stato superiore alla felicità. Al nostro livello comunque tutte le tre
condizioni appartengono alla sofferenza dell’insoddisfazione.
Sia ben chiaro che non stiamo parlando di dover cambiare il Samsara, ma di
imparare ad osservarlo per ciò che è. Di fronte ad un evento doloroso non dobbiamo
esserne travolti lasciandoci affondare nel pozzo nero del pensiero che noi siamo gli
esseri che soffrono, dobbiamo invece considerare tutto il dolore nella sua essenza più
completa, senza porci al suo centro identificandoci in esso, ma vederlo per quello che è,
una realtà presente, ma diversa da noi.
Allo stesso modo ovviamente è necessario applicare questo magnifico metodo alla
felicità, osservarla senza esserne dominati. Se impariamo a porci di fronte alla felicità,
alla sofferenza e alla neutralità senza identificarci con le sensazioni che ne derivano, ma
osservando con lucida consapevolezza una realtà che è altro da noi, scopriamo in
questa distinzione la nostra libertà più vera.
Lo stesso atteggiamento deve essere assunto nei confronti di tutte le nostre
attitudini quali l’attaccamento, la rabbia, l’amore, la compassione e persino la saggezza.
In ogni caso dovremmo sempre essere capaci di riconoscere la natura di questi
fenomeni senza mai identificarci in essi, altrimenti laddove c’è rabbia diventeremo
arrabbiati, il che non farà scomparire la rabbia ma al contrario la potenzierà e ce ne
renderà schiavi. Anche l’identificazione con le sensazioni di amore e compassione è
errata in quanto non porta beneficio a nessuno e non ci permette di essere
consapevolmente liberi. E’ fondamentale maturare l’assoluta libertà da ogni tipo di
emozione, sia essa buona o cattiva.
La pratica della presenza mentale appartiene in particolare alla tradizione
Theravada, che insiste sulla necessità di essere sempre consapevoli di ciò che accade
nella nostra mente, la giusta via per poter permanere nella propria natura di Buddha.
La tradizione degli antichi, lo Dzogchen dice che noi siamo naturalmente nello
stato illuminato e dunque dobbiamo restare in esso, la tradizione Theravada parla di
consapevolezza, e il Mahamudra, la nuova tradizione, raccomanda di permanere nella
natura della mente senza lasciarsi distrarre dalle temporanee oscurazioni che possono
presentarsi. Anche la compassione e l’amore, se diventano elemento di distrazione
dall’essere nella natura della mente, costituiscono un ostacolo.
Unire le diverse tradizioni cogliendone il messaggio profondo è fondamentale per
il corretto cammino, al contrario, se si tende a discriminarle significa che non se ne è
compreso l’importantissimo insegnamento.
Un aspetto basilare nel buddhismo tibetano è il concetto di Vacuità; la Vacuità che
riguarda “l’io, il sé” e la Vacuità che si riferisce ai “fenomeni” “all’altro da sé”. La
scuola Gelugpa approfondisce maggiormente la Vacuità del sé, mentre la scuola
Kagyupa enfatizza la Vacuità dell’altro da sé; da ciò nascono spesso sottili discussioni e
polemiche e le parti si accusano vicendevolmente di errata visione. Un’altra divergenza
concerne “la concentrazione sul singolo punto”, imperniata sull’attenzione alla
presenza di pensieri o meno.
La controversia, che ha origine in un tempo molto lontano, è stata innescata da
due maestri che hanno portato il buddhismo in Tibet, uno indiano e l’altro cinese. Il
maestro cinese affermava la visione del “si e no”, cioè che tutti i fenomeni esistono e al
tempo stesso non esistono, e che la meditazione consiste nello svuotare completamente
la mente da qualsiasi tipo di pensiero, si deve ottenere un totale vuoto e permanere in
esso.
Il maestro indiano, Karmalashila, invece sosteneva che tale meditazione è errata e
che, al contrario, per poter sviluppare le qualità della mente è necessario pensare.
Al fine di risolvere definitivamente la questione il re del Tibet promosse un
pubblico dibattito dichiarando che solo al vincitore sarebbe stato concesso il permesso
di rimanere in Tibet e dare insegnamenti. Vinse l’indiano Karmalashila, cosicché il
monaco cinese dovette andarsene, però il suo insegnamento non andò completamente
perduto e alcuni seguaci Dzogchen riconoscono in esso il proprio metodo di
meditazione, permanendo nella natura della mente.
I tre punti di vista, del maestro cinese, di Karmalashila e dello Dzogchen sono
tuttora ugualmente validi. Ho avuto il piacere di incontrare a Roma un anziano
maestro cinese molto preparato, residente Taiwan, che ebbe un pubblico incontro
qualche anno fa a New York con S.S. il Dalai Lama in cui si discusse la questione del
“singolo punto” al fine di trovare una costruttiva unificazione tra le due posizioni. Il
dibattito, interessante e proficuo, fu registrato e in seguito pubblicato.
Per quanto riguarda le diverse interpretazioni sulle modalità della meditazione è
opportuno non assumere mai posizioni nette e contrapposte, ma cercare invece di
integrare i vari metodi, approfondendo e studiando le prerogative di ognuno trovando
una arricchente ed efficace unificazione.
La prima nobile verità “della Sofferenza” giace nell’insoddisfazione;
La seconda nobile verità delle “Cause della Sofferenza” insegna che la causa
dell’insoddisfazione risiede nelle condizioni samsariche del karma e nelle oscurazioni
mentali.
La terza nobile verità della “Cessazione della Sofferenza” avviene tramite la
realizzazione della quarta nobile verità “il Sentiero che conduce alla Cessazione della
Sofferenza”, la meditazione della presenza mentale, del permanere nello stato naturale
della mente e la meditazione dello sviluppo delle qualità mentali, ovvero i tre tipi di
meditazione proposti dai maestri Indiano, Cinese e Dzogchen.
Nella verità della cessazione della sofferenza si ritrova la condizione di
illuminazione; nel ripulire la natura della propria mente si scopre la natura di Buddha,
un fenomeno che ha la stessa sostanza della Vacuità, così come lo stato
dell’illuminazione e del Nirvana.
La natura di Buddha è suddivisa in due livelli:
1. la natura di Buddha in senso definitivo, ultimo, corrispondente alla Vacuità;
2. la natura di Buddha correlata allo sviluppo delle qualità spirituali nella
continua purificazione della mente. Come una lampada che diviene più
luminosa man mano che incrementa la potenzialità energetica, così la mente,
nello sviluppo costante e delle qualità spirituali, aumenta la propria chiarezza
ed elimina naturalmente ogni oscurità. Questo è il metodo con cui un individuo
raggiunge l’illuminazione e realizza la cessazione della sofferenza.
Oggi abbiamo analizzato teoricamente le quattro nobili verità, che possono e
debbono essere esemplificate e calate nella vita quotidiana, così da farci avanzare
lentamente ma costantemente. Una minima serenità della mente, il tentativo di mettere
in pratica le quattro nobili verità nella meditazione, sono piccoli passi che, momento
dopo momento, conducono verso l’illuminazione.
Il Lamrim indica che gli insegnamenti e le tecniche degli antichi maestri devono
essere accolti, appresi e praticati come consigli spirituali, senza preconcetti o
pregiudizi, ogni insegnamento è un mezzo utile per raggiungere l’illuminazione.
Prima Parte
Del terzo livello parleremo più avanti, per oggi terminiamo qui e concludiamo la
giornata meditando e recitando insieme la preghiera di dedica dei meriti per il
benessere di tutti gli esseri senzienti.
Motivazione: La Compassione
Ieri abbiamo affrontato le quattro nobili verità approfondendo i primi due aspetti
della prima nobile verità (Dukkha) suddivisa in tre livelli:
1. Il primo è la sofferenza della sofferenza;
2. il secondo è la sofferenza del cambiamento;
3. il terzo è la sofferenza del condizionamento.
Il primo livello, la sofferenza della sofferenza, è facilmente riconoscibile (il mal di
testa, il raffreddore, ecc). Dukkha si traduce anche con i termini “dolore” o “non
soddisfazione”. La non soddisfazione è presente in tutti i tre i livelli.
Il secondo livello è più difficilmente riconoscibile perché ad un primo impatto si
presenta come temporanea felicità.
Lama: Tu che hai praticato per una settimana il “chülen” (una forma di digiuno)
come consideri questa esperienza? in che categoria di Dukkha la
collocheresti, sofferenza della sofferenza, sofferenza del cambiamento o
sofferenza del condizionamento?
Risposta: Non saprei….in nessuna credo, perché non c’era sofferenza.
Lama: Non c’era Dukkha? Allora era Nirvana, no?
Risposta: Ma no, non certamente Nirvana, forse all’inizio c’era un po’ di sofferenza, ma
poi è subentrata una sensazione di benessere, un assoluto distacco dal cibo.
Forse si potrebbe dire che il primo giorno era sofferenza di primo livello, il
secondo giorno sofferenza di secondo livello, e il terzo giorno sofferenza di
terzo livello, ma sinceramente io mi sentivo in uno stato di non sofferenza.
Lama: E’ difficile, molto difficile definire queste situazioni, specificare a quale
categoria possa appartenere questo tipo di esperienza, forse potremmo
catalogarla come sofferenza del condizionamento, o sofferenza del
cambiamento.
Ecco perché affrontando la prima nobile verità, della sofferenza, Dukkha, non
dobbiamo pensare in termini limitativi, riferendoci ad esempio solo al dolore del corpo,
ma dobbiamo pensare ad ogni risultato maturato attraverso il Karma e attraverso le
emozioni conflittuali. Solo in una condizione non causata né dal karma, né dalle
emozioni conflittuali possiamo dire di essere in una realtà al di fuori della sofferenza,
altrimenti qualsiasi circostanza frutto di karma e di emozioni conflittuali appartiene
alla prima nobile verità, anche se a volte è veramente difficile distinguere il livello
attinente alle diverse situazioni.
Il Dukkha è parte dell’esistenza e per questo il Buddha disse che la prima Nobile
Verità si realizza e ha scelto di mostrarci il Dharma, il metodo per eliminare la
sofferenza.
Sono moltissime le situazioni della nostra vita che non riconosciamo come
sofferenza e che invece lo sono; ci sono momenti in cui ci sentiamo completamente
felici, ma in realtà non è così, sono sofferenza, anche se è difficile individuarla
immediatamente. Il Dharma ci offre il metodo per eliminare il livello più sottile di
sofferenza, il terzo livello: la sofferenza del condizionamento.
Ogni elemento che causa altra sofferenza è chiamato sofferenza del
condizionamento, per questo il nostro karma e le emozioni conflittuali appartengono a
questa categoria. Anche un apparente stato di felicità è sofferenza.
Domanda: E’ sofferenza in quanto ogni felicità è impermanente, destinata a finire? E’
difficile comprendere questo concetto, perché nel momento in cui io vivo la
felicità sono davvero felice, o c’è altro?
Lama: Si, in parte il motivo è l’impermanenza, ma non solo, anche quando
meditiamo e ci troviamo in uno stato mentale molto gioioso, siamo nella
sofferenza.
Domanda: Allora non c’è scampo alla sofferenza?
Lama: In questo mondo non c’è; al tempo di Buddha vi erano maggiori possibilità,
più porte aperte, oggi è tutto complicato e arduo perché ci troviamo in un
periodo di degenerazione. Una volta a Torino era facile trovare lavoro alla
FIAT, adesso è difficilissimo, eppure la FIAT c’è ancora quindi,
teoricamente, le possibilità sussistono. Questa è impermanenza. L’impero
romano, quello britannico, apparentemente invincibili, hanno mostrato
chiaramente la loro impermanenza, così come il potere tedesco del terzo
reich. Anche il potere più radicato o le fortezze inespugnabili sono
impermanenti, pensate al Pentagono, indistruttibile dicevano, eppure i fatti
hanno dimostrato il contrario.
Tutto è transitorio, impermanente. Il terzo livello del Dukkha è molto sottile; il
nome che gli viene dato “sofferenza del condizionamento” deriva dai cinque aggregati che
costituiscono il nostro stato di esseri viventi, il nostro corpo e le sensazioni del nostro
corpo. A questo livello di sofferenza non c’è scampo.
Come soluzione potremmo sviluppare il “corpo di arcobaleno”. Questa, che
potrebbe apparire a prima vista come una descrizione del tutto fantastica, è invece
concretamente reale. Attraverso la pratica e una meditazione molto profonda si può
trasformare il proprio corpo di sofferenza in un “corpo di arcobaleno” o “corpo di
chiara luce”.
Un’altra soluzione è data dal non attaccamento al nostro corpo; se non abbiamo
alcun attaccamento al corpo, né ad alcun oggetto esterno, nulla ci può causare
sofferenza.
Queste sono alcune vie che il Buddhismo indica per uscire dalla sofferenza.
Esiste un’ulteriore possibilità che consiste nell’usare il proprio corpo per portare
beneficio agli altri; dedicare completamente il proprio corpo per il bene di tutti gli
esseri.
I tre mezzi che ci permettono di uscire dal Dukkha:
1. Hinayana;
2. Mahayana;
3. Vajrayana.
L’attitudine del sentiero Hinayana consiste nel non avere attaccamento al proprio
corpo concentrandosi sulla pratica meditativa, privi di ogni preoccupazione per il
proprio corpo e attaccamento ad esso.
Nel sentiero Mahayana si dedica completamente il proprio corpo agli altri;
prendendolo in considerazione, ma non in modo egoistico, bensì con la motivazione
profonda di essere di beneficio agli altri esseri. Ad esempio in una preghiera della
pratica del Bodhisattva ci si auspica di essere come pesci in modo da poter sfamare gli
altri, dedicandosi completamente a ogni essere. Questa è la pratica del Bodhisattva.
Domanda: Ieri hai detto che siamo nati per essere di beneficio agli altri, vorrei capire
meglio cosa intendevi esattamente. Gli esseri senzienti sono nati tutti con
questo scopo, e poi nel cammino ne perdono la consapevolezza?
Lama: Si, siamo nati con questo scopo che è inscindibilmente legato all’obiettivo
ultimo di raggiungere l’illuminazione. L’essere nati in una condizione
umana ci dà le maggiori possibilità per ottenere l’illuminazione che, a sua
volta, è realizzabile solo attraverso una mente altruistica. Per questo l’essere
nati nella condizione umana significa dedicarsi agli altri, essere loro di
beneficio, praticare il Dharma, per questo ieri ho detto: noi siamo nati per
servire gli altri.
Il Bodhisattva ha un cuore grande che offre completamente agli esseri senzienti e
questa è una via per uscire dalla sofferenza. Il nostro corpo è sofferenza, ma
percorrendo questo sentiero abbiamo la possibilità di uscire dal terzo livello di
sofferenza.
Un’altra via d’uscita è offerta dal Vajrayana, che ci porta alla trasformazione del
corpo di sofferenza in un corpo di arcobaleno.
Sono tre sentieri distinti, affatto in contraddizione tra loro, sono stadi di un unico
percorso: per poter dedicare completamente il proprio corpo agli altri è necessario non
avere alcun attaccamento ad esso e dunque, con il distacco e la sua offerta agli altri si
realizza il Bodhicitta. Il dedicare completamente il proprio corpo a tutti gli esseri con
una pura mente altruistica porta alla trasformazione del corpo di sofferenza in un
corpo di arcobaleno.
Perché il corpo di arcobaleno è buono? Perché con il corpo fisico si possono
servire gli esseri in modo limitato, secondo i limiti della materia, ma per poter essere di
beneficio illimitatamente a tutti gli esseri senzienti, il corpo fisico deve trasformarsi in
corpo di arcobaleno, corpo di chiara luce.
Nel buddhismo sono presenti i quattro Kaya, i quattro corpi del Buddha:
1. Sambhogakaya
2. Nirmanakaya
3. Dharmakaya
4. Svabhavikakaya
Con i quattro corpi del Buddha è possibile porsi al servizio di tutti gli esseri
senzienti. Attraverso la pratica della consapevolezza e la realizzazione della Vacuità si
può trasformare il proprio corpo in un corpo di arcobaleno, raggiungendo
l’illuminazione in questa stessa vita.
Ma anche se non otteniamo l’illuminazione in questa vita possiamo dedicare,
come Bodhisattva, il nostro corpo agli altri. E se non riusciamo a raggiungere questo
livello di pura mente altruistica, possiamo comunque sviluppare l’attitudine di non
attaccamento al corpo concentrandoci nella pratica spirituale. Queste sono le tre vie per
uscire dalla sofferenza, anche dal terzo livello di Dukkha, la sofferenza del
condizionamento, che pare così inscindibile dalla nostra realtà fisica.
Non si deve mai dimenticare che:
• quando meditiamo e stiamo particolarmente bene, non è felicità;
• quando ci sentiamo in pace, rilassati e sereni, non è felicità;
• quando abbiamo la sensazione di essere molto forti, sani e potenti, non è
felicità.
Si tratta di semplici emozioni e quindi cause di sofferenza, da cui possiamo essere
liberati soltanto dal Dharma. Buddha ha avuto bisogno di sei anni per realizzare le
quattro nobili verità e ciò dimostra come il cammino verso tale obiettivo non sia
assolutamente facile.
Meditazione non è avvertire emozioni, essere gratificati, sentirsi bene,
meditazione è l’osservazione della realtà al fine di uscire dallo stato di sofferenza.
Riferendoci al terzo livello della sofferenza, la sofferenza del condizionamento,
potremmo semplicemente dire che: “questo tipo di sofferenza è il nostro corpo”.
Ciò non significa che il nostro corpo sia negativo, perché la prima nobile verità, la
sofferenza, non è soltanto negativa e ha in sé altre qualità positive.
Se non ci fosse la prima nobile verità non potrebbero nemmeno esserci la seconda,
la terza e la quarta.
Se non ci fosse la prima nobile verità non potrebbero esserci nemmeno il sentiero,
la realizzazione, l’illuminazione.
La prima nobile verità è tanto importante quanto lo è l’illuminazione.
La sofferenza deve essere osservata da diverse prospettive, non da una sola; se ad
esempio abbiamo dolore in una parte del corpo e fissiamo questa sofferenza con
un’unica ottica, ci sentiamo depressi e impotenti, ma se analizziamo lo stesso dolore da
più punti di vista il nostro atteggiamento mentale non potrà essere completamente
negativo. La sofferenza ha aspetti positivi, il nostro corpo ha aspetti più positivi che
negativi: l’aspetto supremo è che il nostro corpo può essere trasformato in un corpo di
arcobaleno; il nostro corpo ha la qualità inestimabile di poter essere di grande beneficio
agli altri esseri. Il nostro prezioso corpo è la condizione migliore per praticare il
Dharma. Queste sono le grandissime qualità del nostro corpo, ma dobbiamo essere
sempre in ogni momento consapevoli di trovarci nella condizione della sofferenza e,
quando ne avvertiamo tutto il peso, dobbiamo altrettanto essere consapevoli delle
qualità del nostro corpo.
Sono due realtà e devono essere tenute in evidenza entrambe e, con questa
riflessione, concludiamo l’analisi dei tre tipi di sofferenza.
Gli incontri sul buddhismo non devono essere intesi come lezioni, sarebbe
sbagliato pensare “bene, oggi ho ascoltato, domani metterò in pratica”; è importante porsi in
atteggiamento contemplativo e, già nell’ascolto, dovrebbe avvenire qualche
realizzazione; è fondamentale aprire la mente a questa dimensione. Per questo motivo
la spiegazione è stata così dettagliata, con concetti ripetuti e accompagnati da esempi
concreti.
Domanda: Non mi è chiaro il concetto di compassione, perché non riesco a collegare la
compassione con la Vacuità, in italiano “compassione” significa “soffrire
insieme” e quindi, come si può provare sofferenza e nel contempo Vacuità
che, credo, voglia dire assenza di qualsiasi tipo di sentimento.
Lama: In tibetano la parola “compassione” deriva dal termine sanscrito “Karuna” ed
ha un significato completamente diverso rispetto le lingue occidentali. Nella
filosofia buddhista la Vacuità indica la realtà ultima di tutti i fenomeni ed è il
livello ultimo della compassione. La Vacuità indica la realtà ultima di noi
stessi e degli altri e se non la si percepisce non può esserci compassione, non
c’è Karuna.
Domanda: Posso chiederti di spiegare cos’è Karuna?
Lama: Non è facile tradurre la parola Karuna, ma potremmo definirla con “prendersi
cura degli altri”, non inteso come “preoccuparsi” ma come “accogliere la
realtà degli altri occupandosi di loro con mente altruistica”. E’ molto
importante anche non essere invadenti, non disturbare, non essere di
ostacolo agli altri. Bisogna saper stare accanto agli altri con consapevolezza e
questo può essere realizzato solo attraverso la Vacuità.
Domanda: io avevo capito ancora in modo diverso, cioè che la domanda iniziale non
fosse tanto riferita alla Vacuità in se stessa, quanto all’aver compassione
della Vacuità dell’altro, cioè della natura vuota degli esseri.
Lama: La compassione è legata alla realizzazione della Vacuità, di me, dell’altro e
addirittura della Vacuità della compassione stessa.
Domanda: A questo proposito vorrei raccontarvi che cosa è successo durante un
seminario sul tema “La morte e l’aiuto ai morenti”. Abbiamo discusso
l’argomento della compassione ed è emerso che non significa condividere le
esperienze negative assorbendole. Se una persona malata è depressa non ci
si deve deprimere con lei, perché in questo modo aumenteremmo la sua
sofferenza. L’atteggiamento corretto di fronte ad una persona che soffre non
è la fuga ma il saper rimanere nella presenza della sofferenza dell’altro. Per
mantenere questa presenza, però, bisogna davvero avere il senso della
Vacuità, altrimenti ci si lascia trascinare nel vortice del dolore aggravandolo
e si è più di danno che di beneficio. Per questo credo di aver capito che la
sofferenza ha sempre un po’ di Vacuità.
Lama: E’ molto importante mantenere la propria stabilità per aiutare gli altri.
Domanda: Quali sono le pratiche per mantenere la stabilità?
Lama: Meditazione! Meditazione è “Ana-Pana” “Shiné” cioè meditazione nella
consapevolezza del respiro. Nella scuola Theravada questa è la pratica
fondamentale, molto bella, semplice ed estremamente efficace. Respirare con
consapevolezza. Verificate quanti respiri fate in consapevolezza, non sono
tanti. Tutta la pratica Theravada passa attraverso la pratica del respiro
consapevole, riconoscendovi una fondamentale importanza. In Thailandia i
monaci non lavorano, sono nutriti dalla gente, il loro unico compito è quello
di dedicare tutto il tempo alla meditazione continuata, in piena
consapevolezza del loro respiro, nell’immobilità come nel movimento.
Seconda Nobile Verità
Questo è il metodo con cui meditare sulle quattro nobili verità. Analizzando in
modo conseguente i frutti dell’ignoranza, medito sulle prime due nobili verità, la
Sofferenza e la Causa della Sofferenza e osservando tutto ciò che consegue
all’eliminazione dell’ignoranza, medito sulla terza e quarta nobile verità, sulla
Cessazione della Sofferenza e sulla Via che conduce alla Cessazione della Sofferenza.
Si ha così la visione di come si entra nel Samsara e di come sia invece possibile
liberarsi dalla schiavitù di questa ruota senza fine. Una meditazione avulsa dalla
conoscenza dei dodici anelli dell’origine interdipendente ci fa permanere statici nel
Samsara, senza indicarci come vi siamo giunti e soprattutto, come potremmo uscirne.
Oggi ho cercato di darvi spiegazioni molto pratiche sulle quattro nobili verità.
Domanda: Perché l’attaccamento, anche quello più naturale come l’attaccamento e la
dipendenza del neonato alla madre, che è motivo stesso di vita, rientra nella
sofferenza?
Lama: L’attaccamento con cui viviamo tutta la nostra vita crea il reame del desiderio
ed è proprio questo vivere nel desiderio e nell’attaccamento che ci fa essere
nel samsara, mentre ciò a cui aneliamo è essere liberati, uscire dal samsara e
non rivivere continuamente in esso. Dobbiamo distinguere tra attaccamento
e compassione. I Bodhisattva ritornano volontariamente nel samsara con la
motivazione della compassione, noi invece vi ritorniamo a causa
dell’attaccamento; entrambi viviamo nel samsara, ma con differenti
motivazioni che portano ovviamente a risultati diversi, a conseguenze
diverse. I Bodhisattva sono nel samsara con lo scopo di beneficare gli altri
esseri senzienti, mentre il nostro fine è di beneficare noi stessi o, al massimo,
quei pochi che amiamo. Per questa ragione soffriamo di timori, di paure, di
ansietà e incontriamo continuamente difficoltà e problemi, mentre i
Bodhisattva sono liberi da tutto questo. Quindi il fatto di vivere nel samsara
non è di per sé negativo, ma è il modo con cui lo si vive che ne determina la
sostanziale differenza.
Terza Nobile Verità
Lo stato di cessazione della sofferenza deve essere realizzato, non può esserci dato
da altri, non lo possiamo avere come premio di gare e competizioni, né comperarlo al
supermercato, l’unico modo per ottenerlo è realizzarlo in noi stessi, ma come?
Seguendo il sentiero indicato nella quarta nobile verità, la via che conduce alla
liberazione dal Samsara.
La via che porta alla cessazione della sofferenza può essere seguita con modalità
differenti: un primo modo è rappresentato dall’ottuplice sentiero, un secondo è
l’esercizio dei tre addestramenti superiori, un altro consiste nei tre principi del sentiero,
un altro ancora è relativo alle sei Paramita, e, infine, quello dei cinque sentieri.
Esaminiamoli uno alla volta.
Il Nobile Ottuplice Sentiero, importantissimo e fondamentale, comprende:
1. Retta Visione
2. Retta Percezione
3. Retta Parola
4. Retta Azione
5. Retto modo di Sussistenza
6. Retto Sforzo
7. Retta Consapevolezza
8. Retta Concentrazione
I primi due punti: “retta visione” e “retta percezione” sono parte della Saggezza;
le altre tre: “retta parola”, “retta azione” e “retta sussistenza”, aderiscono all’ Etica o
Moralità; le ultime tre, “retto sforzo”, “retta consapevolezza” e “retta concentrazione”
appartengono alla Concentrazione.
Sono veramente lieto di essere con voi per condurre nel weekend un corso di
Dharma; è bello ritrovare ancora una volta gli amici con cui lavorare sul Dharma
cercando di focalizzarne l’essenza profonda.
Milarepa era un grandissimo meditatore, pienamente concentrato sull’essenza
della pratica non si perdeva in futilità, e così deve essere la pratica del Dharma,
particolarmente oggi in cui pare non esserci mai tempo per nulla. E’ necessario non
disperdersi in inutili sovrastrutture ed avere un approccio diretto, centrato. Per
realizzare questo obiettivo Milarepa aveva scelto di isolarsi dal contesto sociale, dalle
distrazioni, da ogni attività non necessaria, dalla fama e dagli onori, lasciando tutto alle
spalle per perseguire la pura essenza; ecco il punto focale della pratica del Dharma:
isolarsi da ciò che non è necessario dedicandosi all’essenziale, vivere la solitudine. In
occidente il concetto di solitudine è associato ad un senso di abbandono, fisico e
morale, di triste indifferenza, ma nel contesto del Dharma la solitudine è una
condizione indispensabile per raggiungere una reale crescita e realizzazione umana.
Le due interpretazioni del concetto di solitudine sono profondamente differenti;
nel contesto sociale ordinario, la solitudine è realmente uno stato di abbandono, di
isolamento, mentre nel Dharma significa che mente e corpo hanno la capacità di
esistere in solitudine, la necessità di essere soli per raggiungere la realizzazione.
L’isolamento fisico diviene sostegno all’isolamento mentale. Spesso nei testi buddhisti
troviamo questa raccomandazione: “Quando hai compreso i principi degli insegnamenti
devi cercare rifugio e sostegno nella solitudine e nell’isolamento fisico e mentale in modo da
poterli realizzare”. L’isolamento è la condizione che intensifica la pratica spirituale, la
pratica del Dharma .
Secondo la visione buddhista, lo stare in solitudine è essere nella condizione
ottimale che dà forza e potere alla pratica. L’individuo che si trova in solitudine scopre
i propri limiti, li vede con chiarezza. Ognuno di noi può misurare la propria debolezza,
o la propria forza, confrontando il bisogno di essere con gli altri, di condividerne la vita
e la necessità di rimanere in solitudine. Stare soli è molto più difficile e raro di quanto si
pensi, se anche apparentemente lo siamo perché non c’è nessun altro nella stanza, non
riusciamo a spegnere il cellulare, a staccare il computer, a non accendere il televisore,
opponiamo a un vero isolamento dal mondo una forte resistenza, ciò dimostra quanto
dipendiamo dagli altri. Quando il cellulare non funzione o non riusciamo a collegarci
con internet ed aprire l’e-mail siamo sopraffatti da un senso di smarrimento, ci
sentiamo completamente perduti; questa è la misura della nostra debolezza.
Ai tempi di Milarepa, non esistevano né il cellulare né internet e, abbandonato il
villaggio, ci si ritrovava fisicamente nell’assoluta solitudine delle montagne, un ottimo
sostegno per la solitudine mentale. Oggi, però non esiste luogo al mondo in cui
ritrovare l’isolamento fisico, Anche nel più sperduto angolo del pianeta ci seguiranno
telefono, radio, computer, quindi la nostra solitudine è solo un’illusione. La solitudine è
più difficilmente realizzabile per un praticante moderno che deve perseguire lo spirito
con cui i mistici del passato la vivevano, ma non deve imitarne pedestremente le
modalità.
Oggi si deve trovare la solitudine ovunque, anche nella propria stanza, è
sufficiente non accendere il televisore, spegnere il cellulare, non connettersi con
internet. In un ambiente silenzioso e confortevole è possibile rilassarsi e serenamente
addentrarsi nella meditazione in vera solitudine.
All’inizio questo tipo di isolamento può apparire difficile e duro, ma poco alla
volta si scopre la gradevolezza, il piacere e la gioia della solitudine. Allo stesso modo
quando si riprende il contatto con il mondo esterno si gusta con letizia la compagnia
degli altri, l’essere insieme in cammino sullo stesso sentiero. L’essenza del Dharma è
ovunque, si tratta semplicemente di imparare a coglierla.
Con il termine “meditazione”, “mente solitaria” definiamo la “mente che medita”,
che si isola dai pensieri, dalle parole, dalle attività inutili. L’ isolamento del corpo,
l’abbandono delle attività inutili, la ricerca della mente solitaria, non sono in
contraddizione con la vita, con la tecnologia moderna, ma al contrario ne favoriscono
l’ottimale utilizzazione, si impara a utilizzare il necessario e nulla più. Il corretto uso di
quanto offre il mondo valorizza la complementarietà naturalmente esistente tra le
qualità spirituali e materiali, non esiste conflitto tra i due aspetti, è la “via di mezzo”, la
linea sottile della non contraddizione.
Nirvana e Samsara, due fenomeni, apparentemente contradditori, incontrano il
loro punto di coesione, di non contraddizione nella linea sottile della via di mezzo.
Anche tra la tecnologia più recente e l’antica saggezza esiste questa connessione, la non
contraddizione, si tratta di trovare il punto di equilibrio, di incontro. La via di mezzo
permette di vedere con chiarezza in ogni fenomeno la connessione, l’interdipendenza,
la realtà interdipendente. Tutto esiste in maniera interdipendente. La realtà
dell’interdipendenza indica la via di mezzo.
Per comprendere profondamente la realtà dell’interdipendenza di tutti i fenomeni
è necessario avere la visione corretta della connessione esistente tra loro. La nostra
stessa esistenza è dipendente da un’infinita quantità di fattori che a loro volta
dipendono da altri. Tutti questi fattori possono essere buoni, cattivi o neutrali,
indifferenti, ma sono tutti ugualmente necessari all’esistenza della vita, e se non
sappiamo accoglierli con armonia, trovando il giusto equilibrio tra loro, saremo
oppressi da pesante disagio e sofferenza.
La chiave per rapportarsi ad essi in armonia è la via di mezzo, la vera sorgente
della pace e della felicità. La realizzazione della realtà dell’interdipendenza di tutti i
fenomeni è chiamata “Dharma”. Non esistono fenomeni che non dipendano da altri, è
impossibile trovare fenomeni indipendenti, e questa realtà è detta “via di mezzo”, o
“verità assoluta”, “verità ultima”.
La verità delle due Verità
Il capitolo 26° del testo Mula karika della Madyamaka di Nagarjuna, analizza i
dodici anelli dell’origine interdipendente e inizia affermando che nell’ignoranza si
formano i tre tipi di karma responsabili del passaggio degli esseri nelle vite future.
Ricorderete che esiste l’ignoranza che determina il karma, legge di causa effetto, e
l’ignoranza rivolta alla realtà ultima. L’ignoranza di causa effetto impedisce di vedere
che ogni azione - mentale, verbale, o fisica - produce il relativo effetto e, dunque,
l’accumulo di più azioni negative potrà determinare la rinascita in esistenze inferiori.
L’ignoranza della realtà ultima si presenta in due aspetti:
1. Nel primo la persona ignora la realtà ultima, ma conosce la legge di causa effetto,
e quindi attua azioni virtuose che determinano una rinascita nel reame umano;
2. Nel secondo la persona ignora la realtà ultima, conosce la legge di causa effetto,
ma attua azioni neutre, dovute alla dimensione della concentrazione mentale e
questo determina la rinascita nei reami dei Deva, teoricamente più alti ma che in
realtà non sono affatto più elevati rispetto all’esperienza umana. I tre reami:
1. reame basso
2. reame umano
3. reame dei Deva
secondo un tipo di rappresentazione sarebbero ubicati in un luogo ideale, però, tra le
moltissime interpretazioni, probabilmente la più vera li colloca a livello dell’esperienza
che ognuno vive.
I tre tipi di karma, positivo, negativo e neutro, sono creati da corpo, parola e
mente, quindi il termine “tre” ricorrente nel testo, è riferito sia ai tre tipi di karma che ai
tre modi di produzione di karma. L’ignoranza determina karma negativo, positivo o
neutro. Ogni azione genera il karma attraverso il corpo, la parola, la mente e diviene
impronta mentale. Tra questi il modo più potente nella strutturazione del Karma
avviene attraverso la mente, ma cos’è l’azione mentale? il karma prodotto dalla mente?
E’ l’attitudine mentale, ogni pensiero che sorge ne è accompagnato e, in dipendenza da
essa, può essere positivo, negativo o neutro. Se l’attitudine è positiva lo sarà anche il
pensiero e produrrà karma positivo. E’ l’attitudine che dirige il destino del pensiero,
non è tanto importante ciò che facciamo, diciamo o pensiamo, quanto l’attitudine che
accompagna tutte queste azioni.
La pratica del Dharma comporta dunque la consapevolezza dell’inevitabile
necessità di cambiare attitudine, di assumere sempre un’attitudine corretta, è ciò a cui
ci si riferisce parlando di addestramento mentale. La psicologia buddhista ribadisce che
ogni pensiero è accompagnato da cinque fattori onnipresenti:
1. sensazione;
2. discriminazione, o, mente discriminante;
3. attitudine;
4. contatto con l’oggetto;
5. riflessione, ragionamento, osservazione.
Tra essi il fattore determinante nella produzione del karma mentale, positivo,
negativo o neutro, è l’attitudine, elemento decisivo allo sviluppo delle rinascite future.
L’attitudine ha il potere di influenzare le azioni mentali, fisiche e verbali.
Le azioni mentali, fisiche e verbali lasciano impronte nella mente, la influenzano,
determinando le predisposizioni karmiche. Questo è il secondo anello
dell’interdipendenza.
Il terzo anello è quello della coscienza, già impregnata dalle impronte karmiche, le
predisposizioni.
Dall’ignoranza scaturisce il karma; quindi si formano le tre azioni - mentali,
fisiche e verbali - che lasciano un’impronta nella coscienza principale (terzo anello).
L’impronta impressa nella coscienza dalle azioni è come un seme che ha il potere di far
germogliare la rinascita.
Secondo verso:
“La coscienza, che è determinata dalle azioni karmiche,
la coscienza che è condizionata dalle impronte karmiche,
è lanciata verso diversi destini”
Questi tre anelli: ignoranza, formazioni karmiche e coscienza, sono l’uno
susseguente all’altro.
Il quarto - Nome e Forma - è costituito dai cinque aggregati e si sviluppa nel
momento in cui la coscienza entra nella vita successiva. La forma corrisponde
all’aggregato della forma e il nome agli altri quattro: delle sensazioni, della
discriminazione, della coscienza e delle azioni che contengono tutto il resto dei
fenomeni.
E’ necessario studiare i cinque aggregati secondo tutti gli aspetti approfonditi nei
trattati dell’ Abhidharma (Dharma superiore), del Pramana (mezzo valido di
coscienza) e della Madhyamika (Dottrina della Via di mezzo), per ottenerne una
completa comprensione.
Nell’ Abhidharma la spiegazione dei cinque aggregati è scientifica,
approfondisce l’aspetto fisico e metafisico.
Nel Pramana si affronta l’aspetto metafisico e psicologico.
Nella Madyamaka prevale la spiegazione della realtà ultima dei cinque
aggregati.
Il quinto anello - “delle sorgenti sensoriali” - tratta delle sei forme che, percepite
dai sensi, diventano sensazioni:
1. colore e forma oggetto della vista
2. suono oggetto dell’ udito
3. odore oggetto dell’ olfatto
4. sapore oggetto del gusto
5. tatto oggetto del toccare
6. coscienza oggetto del dharma
Quando nome e forma, i cinque aggregati, cominciano a costruirsi si presentano
come oggetto percepibile dai sensi.
Il sesto anello è il contatto. Lo sviluppo di nome e forma crea le sorgenti sensoriali
dalla cui dipendenza nascerà il contatto. Il contato si costituisce in dipendenza dal
senso, dall’oggetto e dalla coscienza immediatamente precedente. Queste sono le tre
condizioni che determinano il contatto.
Le tre condizioni che permettono la funzionalità del senso della vista ad esempio
sono date dall’organo sensoriale - l’occhio, dall’oggetto della vista - colore e forma e
dalla coscienza che è immediatamente precedente al verificarsi del contatto. Le tre
condizioni, insieme, costituiscono il contatto.
Riassumendo: Nome e Forma sono il primo stadio della nascita, poi si sviluppa lo
stadio della percezione dei sensi e, quando i cinque aggregati sono percepibili si è a
livello delle sensazioni sensoriali (5° anello). Dall’incontro dell’oggetto dei sensi con i
sensi che lo percepiscono, congiuntamente alla coscienza immediatamente precedente,
si ha il contatto (6° anello). Dal contatto sorge la sensazione (7° anello), che può
produrre un effetto di diverso tipo: piacevole, spiacevole e neutro, le differenti
sensazioni danno origine ad attaccamento, avversione e stato neutrale. Una sensazione
piacevole sarà causa del sorgere di attaccamento e una sensazione spiacevole del
sorgere di avversione.
Attaccamento, desiderio, bramosia sono fattori mentali che possono determinarsi
nei confronti di qualsiasi oggetto, è la risposta mentale alla piacevolezza.
Dall’attaccamento sorge la bramosia della sensazione piacevole, che si presenta in
quattro aspetti diversi:
1. la bramosia dell’ oggetto dei sensi;
2. la bramosia della visione filosofica;
3. la bramosia della moralità, attaccamento allo sforzo, alla sofferenza;
4. la bramosia dell’idea del sé.
Dalla bramosia nasce e si evolve il Samsara, si definisce l’entrare in esistenza sulla
base dei cinque aggregati.
Domanda: Questo concetto non è chiaro, è un passaggio difficile.
Lama: E’ vero, ritorniamo alla traduzione inglese del testo: “Abbiamo l’ignoranza,
le formazioni karmiche la coscienza, da questi tre fattori sorge nome e forma
il cui sviluppo determina il contatto.
Il contatto è quindi frutto del concorso della triade - forma, coscienza e
occhio -. Conseguentemente al contatto entra in azione la sensazione
affettiva (piacevole, spiacevole o neutra). Condizionata dalla sensazione
affettiva si crea la sete, infatti si ha sete perché si è avidi di sensazioni
affettive.
L’assetato si appropria dei quattro aspetti della bramosia ed essendoci
appropriazione entra in funzione, per l’appropriatore, l’esistenza.
Infatti, se non ci fosse appropriazione ci sarebbe liberazione e non si
determinerebbe il ciclo samsarico dell’ esistenza”.
Quindi: dal contatto sorge la sensazione e dalla sensazione nasce la sete, o
desiderio. Da questa sete nasce l’avidità ad afferrare, cioè i quattro tipi di
bramosia. E’ tutto interdipendente.
Domanda: Non riesco a capire i quattro tipi di bramosia o appropriazione, non ne vedo
il senso “bramosia della moralità”,-“attaccamento alla sofferenza”, ma cosa
vuol dire?
Lama: La trascrizione dal tibetano a volte è impossibile, si traducono alcuni termini
in modo approssimativo che può generare confusione e fraintendimento,
tentiamo dunque di schematizzare il processo ripartendo dall’inizio: prima
c’è l’ignoranza che determina l’azione karmica e quindi la coscienza.
L’ignoranza crea azioni karmiche che lasciano impronte nella coscienza.
Questi tre anelli insieme dirigono il destino della persona, la sua futura
rinascita.
La coscienza ha due momenti differenti: il primo quando riceve l’impronta
karmica e il secondo quando questa matura. La sua maturazione avviene con l’entrare
della mente nella vita successiva, cioè con il sorgere di nome e forma, con la formazione
dei cinque aggregati, (quarto anello).
Ne consegue il nascere delle percezioni sensoriali, quindi da un livello sottile si
passa ad uno più grossolano, all’origine dei sensi, (quinto anello).
I cinque aggregati si sviluppano ulteriormente nella percezione del mondo
esterno e i sensi, oltre a percepire l’oggetto esteriore, entrano in connessione con la
coscienza e si verifica il contatto, (sesto anello).
Avvenuto il contatto, sorgono le differenti sensazioni - piacevole, spiacevole e
neutrale - che intensificano progressivamente la loro potenzialità, sono come un
bambino che all’inizio risponde blandamente agli stimoli, crescendo intensifica
enormemente le reazioni emotive incrementando progressivamente il proprio
coinvolgimento. Ciò determina inevitabilmente la discriminazione tra le sensazioni ed è
questo il terreno in cui germoglia l’attaccamento. Quindi il settimo anello è la
sensazione e l’ottavo l’attaccamento all’oggetto attraente che dà la sensazione
piacevole. L’attaccamento intensificandosi diventa volontà ad afferrare,
appropriazione, bramosia, avidità, (nono anello).
Ogni azione è condizionata da questa sete: si impiega la giornata in ufficio per
poter possedere ciò che piace, si passeggia per lo stesso motivo, anche le azioni
apparentemente positive sono corrotte da questo intento. Perché si è costantemente
stanchi? Perché il continuo processo di afferrare, di appropriarsi, è inesauribile,
faticoso, richiede sempre maggiore energia.
La bramosia è classificata in quattro tipi. Il primo è la bramosia della visione:
“afferro il mio modo di pensare di vedere perché questo mi gratifica, è piacevole;
afferro questa filosofia perché è buona e mi procura felicità” Ma l’afferrare una visione
della vita, per quanto buona possa essere, è negativo. Anche l’attaccamento al Buddha,
al Cristo, al Dalai Lama, o allo stesso Dio, è un afferrare e come tale negativo, si
trasforma in mente fanatica e il fanatismo è l’opposto della liberazione, non porta al
Nirvana, è causa di Samsara.
L’attaccamento alla filosofia, all’etica, a un codice morale, allo sforzo, alla
sofferenza, all’io o sé, è un errore nella sua stessa essenza.
Non è l’oggetto dell’attaccamento in discussione, l’oggetto può essere il più puro
e sacro, può essere buono o cattivo, questo è assolutamente ininfluente, l’errore è
nell’attaccamento in sé, nella bramosia.
In questa sala siamo circondati da Tanka e statue molto belle, sono oggetti sacri
ma sarebbe sbagliato esserne attaccati. A meno che non si sia già particolarmente
avanzati nel cammino di liberazione dall’attaccamento è meglio non possedere troppi
oggetti preziosi. Quando ero in monastero in India preferivo adornare la stanza solo
con fotografie, era un modo per evitare questa trappola. Anni fa, sempre in India,
durante un viaggio acquistai una statua del Buddha che, come tutte le statue tibetane,
necessitava di ricevere una lunga preparazione, doveva essere riempita, consacrata,
dipinta, però non me ne preoccupai e misi la statua sull’altare così com’era. Tempo
dopo, monaci di passaggio esperti nella preparazione delle statue durante una
cerimonia fecero tutto il lavoro. Ciò che doveva avvenire è avvenuto nel momento
giusto, naturalmente, senza forzature e affanno. Bisogna lasciare che le cose accadano
come e quando devono, senza caricarsi di emozioni negative quali ansia e frustrazione
perché le cose non vanno come avremmo voluto.
La liberazione dall’attaccamento comporta una grande gioia. Ora quella statua è
rimasta in quel monastero, forse nella stessa stanza e forse no, non ha nessuna
importanza, d’altronde il Buddha non è mio o tuo, è di tutti. L’attaccamento al Buddha,
al Cristo o a Dio è l’afferrare peggiore, il più pericoloso per tutti, anche per i
principianti. Non vi sto dando delle regole ma, insieme, stiamo analizzando il testo nel
tentativo di comprenderne ogni importante aspetto.
Tutta la nostra vita è un contatto da cui scaturiscono le sensazioni che
determinano l’attaccamento il quale, a sua volta, diviene bramosia articolata nelle
quattro tipologie che sono causa di Samsara in cui si svolge tutta la nostra esistenza e
che saranno determinanti nella definizione della prossima rinascita, del prossimo ciclo
samsarico.
Il decimo anello è il divenire, l’esistere dovuto all’afferrare che causa i cinque
aggregati. Il divenire è il livello del karma che entra in maturazione a causa
dell’attaccamento e della bramosia.
Il secondo anello è l’azione che pianta il seme karmico, il decimo anello è quel
seme che, fertilizzato da attaccamento e bramosia, matura in quel karma. Quindi,
l’aspetto che germoglia dal secondo anello è il divenire (decimo anello) che porta alla
rinascita, (undicesimo anello). Il karma maturato dal quarto anello, Nome e Forma,
determina il tipo di rinascita. Poiché dalla nascita derivano necessariamente morte e
vecchiaia si ha il dodicesimo anello.
Ho sintetizzato una possibile spiegazione, di base, della dinamica dei dodici
anelli, ma se ne possono dare altre osservate da più angolature e approfondite.
Proseguiamo con la lettura del testo:
“Essendoci l’appropriazione entra in funzione per l’appropriatore l’esistenza, infatti se fosse
esente da appropriazione si libererebbe e non ci sarebbe esistenza.
L’esistenza è costituita dai cinque aggregati.
Dall’esistenza procede la nascita.
Vecchiezza, morte, dolore, tristezza, lamentazioni, afflizioni, tormenti, tutto questo proviene
dalla nascita.
In tal modo nasce quest’unica massa di dolore.
L’ignorante perciò, non altri, coeffettua i coefficienti, radici di trasformazione.
L’ignorante dunque, è l’agente,
non il saggio che vede la realtà.
La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti.
L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione
condizionata.
L’arresto di ogni fattore precedente impedisce che il fattore conseguente entri in azione.
Quest’unica massa di dolore viene così correttamente arrestata.”
E’ di immenso beneficio studiare questo argomento comparando il testo di
Nagarjuna, al 26° capitolo della “Madhiamaka Karika” con il Sutra originale del
Buddha, il “Paticcasamuppada Sutra”.
Se la radice del samsara è nel secondo anello, delle formazioni karmiche, il saggio
non produce azioni karmiche perché ne osserva l’interdipendenza. La distinzione tra
saggio e ignorante indica proprio questa capacità di vedere, o meno, il sorgere
dipendente dei fenomeni, l’interdipendenza.
Il saggio che ha una chiara idea di come si costruisce il samsara attraverso i dodici
anelli, ha anche una chiara visione di come esso possa cessare, sempre attraverso i
dodici anelli, semplicemente invertendone i fattori:
1. meditare sull’interdipendenza porta alla cessazione dell’ignoranza;
2. col cessare dell’ignoranza cessano le formazioni karmiche;
3. col cessare delle formazioni karmiche cessa la coscienza determinata da esse;
4. cessando la coscienza determinata dalle formazioni karmiche cessano nome e
forma, gli aggregati;
5. cessando gli aggregati cessano le percezioni basate sugli stessi;
6. cessando le percezioni cessa il contatto;
7. cessando il contatto cessa la sensazione;
8. cessando la sensazione cessa l’attaccamento;
9. cessando l’attaccamento cessa l’afferrare, la bramosia;
10. cessando la bramosia cessa il divenire, il maturare delle cause irrigate da
bramosia e attaccamento;
11. cessando il divenire, l’entrare in esistenza sulla base del karma, cessa la
rinascita;
12. cessando la rinascita cessano vecchiaia e morte e quindi tutte le sofferenze del
samsara.
Questi sono i due possibili movimenti dei dodici anelli dell’interdipendenza,
quello del sorgere del Samsara e quello del suo cessare, ed è opportuno meditare su
entrambi perché seguendo questo metodo analitico si ottiene una visione chiara del
significato di interdipendenza.
Il testo di Nagarjuna continua:
“La formazione karmica è l’origine del Samsara.
Vedendo questo, il Saggio, non produce karma,
poiché il saggio riconosce la realtà dell’origine dipendente e la realtà della Vacuità”.
La causa della cessazione dell’ignoranza è la comprensione dell’interdipendenza.
Con il cessare dell’ignoranza cessa la formazione karmica”. Meditare sull’origine
interdipendente causa la cessazione dell’ignoranza. Perciò arrestato l’uno si arresta
l’atro.
Gli ultimi due versi:
“La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti:
L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione
condizionata.”
Di questi versi si hanno trascrizioni diverse tra loro, proviamo a rileggerli
dall’inizio comparando il testo tibetano con la traduzione dal sanscrito e la trascrizione
in italiano:
1) A causa dell’oscurità dell’ignoranza, si compiono i tre tipi di azioni che
depongono le impronte karmiche nella mente che determinano le future
rinascite.
1) A causa dell’oscurità dell’ignoranza si causano le vite future. Attraverso il
coltivare le tre differenti azioni karmiche si procede verso il destino
appropriato.
1) In vista della rinascita, l’essere offuscato di nescienza effettua dei coefficienti di
tre specie e per mezzo di questi atti va verso il suo destino.
3) Quando nome e forma si sono sviluppati emergono i sei sensi. Sulla base dei
sensi avviene il contatto.
3) Da nome e forma vengono in esistenza le sei sorgenti dei sensi. Dalle sei
sorgenti sorge il contatto.
3) Infusi nome e forma si producono i sei domini della coscienza. Apparsi i sei
domini entra in azione il contatto.
6) Dalla sensazione nasce il desiderio. Dal desiderio sorge l’afferrare nei suoi
quattro aspetti: oggetti dei sensi, visione, moralità, idea del sé.
6) Condizionata dalla sensazione affettiva, la sete; e infatti uno ha sete perché
avido di sensazioni affettive. L’assetato si appropria delle quattro
appropriazioni.
7) Dall’afferrare sorge il divenire dell’afferrante. Senza l’afferrare non c’è il
divenire. Con la realizzazione del non afferrare si ottiene la liberazione. Di
conseguenza non c’è divenire, entrare nell’esistenza.
7) Essendoci l’appropriazione, entra in funzione, per l’appropriatore, l’esistenza.
Infatti, se fosse esente di appropriazione, si libererebbe e non ci sarebbe
esistenza.
10) L’azione è la radice dell’esistenza ciclica. Per questo il saggio non crea impronte
karmiche. Gli sciocchi, invece al contrario del saggio, che vede la realtà,
creano impronte karmiche.
10) L’ignorante perciò, non altri, coeffettua i coefficienti, radici della
trasmigrazione. L’ignorante, dunque è l’agente, non il saggio, che vede la
realtà.
12) Cessando il precedente, il successivo non accade. Allo steso modo cessa tutta
la sofferenza.
12) L’arresto di ogni fattore precedente impedisce che il fattore conseguente entri
in azione. Quest’unica massa di dolore viene così correttamente arrestata.
Sarebbe un buon lavoro per tutto il gruppo confrontare le diverse traduzioni e del
testo di Mulakarika, cercandone il significato profondo da esprimere in modo
comprensibile nel linguaggio più conforme all’era moderna.
Domanda: Le impronte karmiche prodotte prima di diventare saggi, entrano
ugualmente in maturazione, oppure no?
Lama: Il saggio è colui che ha acquisito la conoscenza dell’origine interdipendente,
ma non necessariamente è già l’Essere nobile, l’Arya, ha solo compreso la
giusta direzione.
Domanda...Quindi le sue impronte karmiche continuano a maturare?
Lama: Poiché il saggio non ha attaccamento e bramosia, il karma precedente non può
maturare, il processo si blocca naturalmente.
Non-Dualismo
Il canto del settimo Dalai Lama, “Canto delle quattro Consapevolezze” mostra la
via della consapevolezza, istruisce sul modo di meditare la via di mezzo, la via della
Vacuità, e tratta una per una:
1. La consapevolezza del Guru, del vero Maestro spirituale;
2. La consapevolezza della Compassione;
3. La consapevolezza della Divinità;
4. La consapevolezza della Visione della Vacuità.
Il testo, scritto in connessione alla pratica della più alta classe di Vajrayana,
insegna come mantenerne la pratica del Vajra nella quotidianità.
Nella pratica del Vajra la figura del Maestro spirituale, il Guru, è molto, molto
importante e lo è in generale in ogni pratica Buddhista, ma in quella dei Sutra e in
particolare delle sei Paramita, le qualità trascendenti, la figura del Guru è
fondamentale, ne costituisce la base, la sorgente di ogni qualità spirituale.
Nei Sutra il Guru è visto come colui che conferisce i voti del Bodhisattva che
prima devono essere spiegati e in un secondo tempo dati. Dare i voti del Bodhisattva a
parole sembra relativamente semplice, ma in realtà implica una grande preparazione e
responsabilità, sia da parte del Maestro che da parte del discepolo. Il Maestro è la guida
spirituale che incoraggia e istruisce il discepolo affinché possa ricercare la Bodhicitta,
cioè seguire la pratica del Bodhisattva, lo accompagna nella pratica per la realizzazione
delle qualità trascendentali, le sei Paramita.
Nei Sutra si descrive anche come il Maestro spirituale debba conferire i voti di
Pratimoksa, di liberazione individuale, sia a monaci che a laici, ma in questo caso con
modalità inversa alla precedente: i voti sono prima dati e poi spiegati.
Queste due modalità differenti nel conferimento dei voti comportano modalità
differenti di pratica. Nei Sutra si dice espressamente che il maestro che dà i voti di
Pratimoksa deve seguire il discepolo sino alla realizzazione delle loro qualità
intrinseche e sino a quando il discepolo non raggiunga l’autonomia nella pratica.
Questo approccio si differenzia da quello cristiano in cui il conferimento dei voti
comporta assoluta e perpetua obbedienza nei confronti dell’istituzione, non esiste
alcuna possibilità di autonomia e di indipendenza.
Nel Buddhismo invece il maestro istruisce, guida il discepolo che, a seconda delle
proprie capacità, intelligenza e volontà diverrà in un tempo definito, non importa se
breve o lungo, autonomo. Il raggiungimento dell’autonomia è fondamentale nel
Buddhismo e in questo senso le due tradizioni, cristiana e buddhista, sono molto
diverse.
Nei voti di Pratimoksa il Maestro conferisce al discepolo il titolo, la posizione, e
continua a seguirlo insegnandogli a sviluppare le capacità corrispondenti. Esiste alla
base un riconoscimento, un’accettazione totale e reciproca circa via da seguire.
Nel voti di Bodhisattva invece l’autonomia del praticante è immediatamente
effettiva perché si presume che, avendo maturato la consapevolezza di volersi
impegnare in questo sentiero, sia già responsabile e di conseguenza autonomo. Il
Maestro, prendendo atto di tale situazione, non ha altro da fare che conferire i voti.
Queste sono due modalità differenti di relazione Maestro - Discepolo.
La pratica del Vajra, o Vajrayana è avviata dall’iniziazione, cioè il momento in cui
si attiva la relazione Maestro - Discepolo.
Alcune pratiche Vajrayana prima dell’iniziazione richiedono semplicemente i voti
di Bodhisattva, altre invece, a livello superiore, esigono anche i voti Tantrici.
I voti Tantrici devono essere dati senza necessità di spiegazioni, ciò presuppone
che al momento del loro conferimento entrambe le condizioni, da parte del Maestro e
del discepolo, siano soddisfatte, non vi è bisogno di altro, i voti sono stati dati e accolti
così come sono, e significa che sia maestro che discepolo sono pienamente qualificati
per dare e ricevere questi voti.
La qualificazione richiesta a un maestro e a un discepolo Vajra è molto complessa
ed esige caratteristiche ben definite. In entrambi i voti, di Bodhisattva e di Pratimoksa,
è necessario che il maestro e il discepolo siano qualificati e posseggano le caratteristiche
specifiche per ognuna delle pratiche. Non è così semplice dare e ottenere i voti e la
spiegazione delle qualificazioni è complessa, difficile e di non facile ascolto, dunque
non approfondiremo ulteriormente l’argomento.
E’ però importante comprendere come i tre livelli di pratica di cui abbiamo
parlato siano strettamente correlati tra di loro, interdipendenti, sono l’uno il
fondamento dell’altro: la pratica di Pratimoksa (liberazione individuale) come
fondamento, base o condizione per la pratica del sentieri di Bodhisattva e la pratica di
Bodhisattva come fondamento, base o condizione per la pratica del Tantra.
Abbiamo visto qual’è nella pratica, la funzione del Guru, o Lama, o Maestro
spirituale esteriore che, comunque lo si chiami è sempre il Maestro convenzionale, ma
dov’è il Maestro ultimo?
Risposta: In noi stessi.
Esatto, il Lama è il Maestro esteriore, ma il Maestro ultimo è la propria Mente, la
propria realizzazione. Il Buddha stesso ha detto: “Voi siete il Maestro di voi stessi”, il
Buddha non ha mai detto io sono il Maestro, io sono il vostro Maestro, ma: “Voi siete il
vostro vero Maestro”.
Quindi riferendosi al Lama non bisogna mai scordare questa riflessione, si deve
mantenere sempre la consapevolezza del Maestro interiore, non considerare il Lama
come altro da sé, magari vissuto duemila o duemilacinquecento anni fa e adesso
assente. Il vero Maestro è qui e ora, è la nostra Mente.
Anche Sua Santità il Dalai Lama, di fronte alle forme di devozione un po’ sciocca
che spesso i tibetani assumono nei suoi confronti, ha un atteggiamento molto pratico,
staccato e non si stanca di ripetere: “pregate voi stessi, fate offerte a voi stessi, pregate
affinché voi stessi godiate di buona salute e otteniate una lunga vita, pregate voi stessi
per sviluppare le qualità necessarie alla realizzazione dell’illuminazione, non pregate
qualcun altro al di fuori di voi.”
I tibetani hanno l’abitudine di chiedere continuamente ai Lama benedizioni, ma il
Dalai Lama non incoraggia quest’attitudine e ribadisce continuamente: “Non è il Lama
che benedice, siete voi stessi che potete benedirvi, la vera benedizione viene dalla
propria interiorità, non dall’esterno”.
I primi versi del canto del VII° Dalai Lama insistono appunto sulla necessità di
mantenere costantemente la consapevolezza del Maestro spirituale:
“Sull’immutabile cuscino
Dell’Unione di metodo e saggezza,
Siede il Maestro gentile,
L’incarnazione di tutti i rifugi,
un Buddha che ha completato l’abbandono e la realizzazione.
Avendo abbandonato ogni concezione errata.
Pregalo con concezione pura.
Non lasciando divagare la tua mente ,
Poni in esso fede e rispetto,
con consapevolezza.”
Metodo e Saggezza sono un’immutabile e inscindibile unione in cui il Metodo è la
Compassione e la Saggezza è la Visione della Vacuità. Coltivando la Compassione
cresce la Saggezza e coltivando la Saggezza cresce la compassione. Questi due aspetti
inseparabili raggiungono la perfetta unione quando si ottiene la compassione ultima e
la visione della saggezza ultima. L’unione di metodo e saggezza è la qualità essenziale
del maestro spirituale e, in questo contesto, del Maestro Vajrayana.
Il metodo si attua nella ricerca di un Beneficio. Generalmente riferendoci ad un
beneficio pensiamo a qualcosa di temporaneo, di immediato, come ad esempio un
piacere sensuale, ma il metodo si riferisce invece al Beneficio durevole, definitivo,
permanente per se stessi e per gli altri, in grado di realizzare la liberazione dal terzo
livello di Dukkha, della sofferenza pervasiva di cui è permeato l’intero Samsara, il
livello più difficile da riconoscere, da comprendere e da eliminare.
La “sofferenza pervasiva” non proviene dall’esterno, non è determinata da eventi
particolari, dall’ambiente, dagli amici, da nulla; tutto apparentemente può essere
ottimale, perfetto, eppure essa esiste, è ben radicata, è semplicemente una condizione
della mente samsarica, è una sofferenza presente in ogni istante della nostra via, che ne
siamo consci o meno e non sempre si manifesta in modo evidente.
I livelli si sofferenza palesi sono rappresentati dalla “sofferenza della sofferenza”
e dalla “sofferenza del cambiamento”. La sofferenza della sofferenza è indubbiamente
la più eclatante, ne sentiamo concretamente tutto il peso, quando ci troviamo in
condizioni sfavorevoli, siamo malati, abbiamo fame e sete, subito lutti e perdite…. La
sofferenza del cambiamento è già più sottile, non immediatamente visibile, mascherata
da un’apparente ed effimera sensazione di piacere, (alcool , droghe…).
In genere la nostra vita oscilla tra la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del
cambiamento, spesso usiamo la seconda nel tentativo di sfuggire alla prima e
impegniamo ogni energia in queste battaglie, ma non riconosciamo mai la sofferenza
pervasiva costantemente presente nella nostra vita.
Spendendo tutte le nostre forze divincolandoci in queste oscillazioni non siamo
nel Dharma, ma totalmente immersi nel Samsara e alimentiamo senza sosta lo stato di
sofferenza. Se ad esempio, ricercando il piacere, ci tuffiamo nelle droghe, nel fumo,
nell’assunzione smodata di cibo o di alcool, in base al meccanismo di causa effetto non
otteniamo altro che ulteriore sofferenza: ad un effimero piacere momentaneo, segue un
danno che produce sofferenza ancora più grave. Queste illusioni accrescono la
confusione mentale che ci ottenebra.
Un oggetto della pratica del Dharma è il terzo livello di sofferenza, quello non
evidente, non apparente, nascosto, perché è la fonte, l’origine, degli altri due. Poiché a
causa del terzo livello di sofferenza si sprofonda negli altri due, è necessario
concentrarsi sulla sua eliminazione.
Il modo corretto per praticare il Dharma consiste nell’impegnarsi
nell’eliminazione del terzo livello di sofferenza, osservarlo, comprenderlo sradicarlo.
Eliminando la sofferenza pervasiva saranno eliminati anche gli altri tipi di sofferenza.
Nella nostra società è difficile comprendere pienamente il valore di questa pratica
e spesso ci si accosta ad essa in modo improprio, limitato, ad esempio si usa la
meditazione per alleviare un mal di testa e, anche se non vi è nulla di male, è
sicuramente un utilizzo riduttivo e parziale delle potenzialità del Dharma, non è
pratica del Dharma. Praticare il Dharma è andare alla radice della sofferenza ed
estirparla.
Analizziamo come si presenta nella vita quotidiana, nella nostra mente, nel nostro
cuore, il terzo livello di sofferenza, la sofferenza pervasiva. E’ lo stato di
insoddisfazione, di vuoto, che tutto pervade. Qualsiasi cosa facciamo, questo sottile e
desolante senso di nullità rimane; sia che stiamo qui o andiamo nei paesi più belli del
mondo, anche se visitiamo il paradiso o l’inferno, nulla cambia, quel senso di vuoto
permane immutato, pervade tutto il nostro essere, è una presenza costante, è
l’esperienza della sofferenza pervasiva che penetra ogni esperienza trasformandola
inevitabilmente in sofferenza. E’ necessario trovare un metodo per uscire da questo
circolo vizioso e nel buddhismo l’abile mezzo è il Dharma.
Con il corretto sviluppo del procedimento del Dharma tutto diviene perfetto,
persino un forte mal di testa non potrebbe mutarne la perfezione, è scritto nei testi
buddhisti che anche il momento della morte è un momento perfetto.
E’ però fondamentale mantenere sempre viva l’attenzione per conservare la
purezza della pratica, senza lasciarsi mai travolgere da ingannevoli trappole quali ad
esempio la paura. Tutte le religioni, nella brama di poter contare il maggior numero di
proseliti, hanno sempre fatto leva su questo sentimento, i cristiani spaventando con
inferni terrificanti di dannazione eterna e i buddhisti con spaventose visioni della
morte. Il meccanismo è esattamente lo stesso ed è altrettanto sbagliato, la paura non
può in nessun caso generare una pratica pura, vera. E’ necessario saper cogliere
l’essenza degli insegnamenti superando la limitatezza delle terminologie e dei metodi
di controllo utilizzati. E’ importante saper distinguere la realtà e liberarsi da vecchie
sovrastrutture oggi assolutamente inadeguate.
Alcune visualizzazioni che avevano una precisa ragione d’essere nell’antico
Buddhismo tibetano, se trasposte nell’attuale contesto occidentale potrebbero essere
fuorvianti e controproducenti. Il Buddhismo è approdato in occidente e in Italia e qui
deve trasformarsi in potenzialità fresca e nuova per la realizzazione dell’illuminazione
nel rispetto della cultura e delle tradizioni italiane. Voi dovete lasciare che il
buddhismo venga praticato in Asia secondo la cultura e le tradizioni di quelle
popolazioni, qui la cultura e le tradizioni sono altre ed è fondamentale rispettarle. La
società moderna deve tener conto delle scoperte scientifiche, della tecnologia, delle
radici culturali, religiose e filosofiche di cui è permeata e soltanto in un profondo
rispetto di tutto questo il Buddhismo potrà davvero dare frutti in occidente.
Pensate per assurdo cosa succederebbe se tutti rimanessimo fermamente arroccati
in vecchie posizioni statiche, motivati essenzialmente dalla paura. In Italia il
cattolicesimo è molto forte e se si volesse imporre in questo paese il Buddhismo,
giapponese o tibetano, o qualsiasi altra religione e ognuna di queste, ritenendo il
propria tradizione unica, perfetta e immutabile, pretendesse di imporla a tutti senza
alcun rispetto per il contesto locale, ne nascerebbe un conflitto fomentato da
integralismi e intolleranze che nulla spartiscono con la spiritualità e la filosofia di
qualsiasi religione. La guerra ovviamente non è lo scopo del Dharma, il Dharma è
liberazione dalla sofferenza, quindi attenti alle trappole, purificatevi da ogni
condizionamento prima di dedicarvi alla pratica.
Il Dharma agisce sul livello fondamentale della sofferenza, non sui contrattempi o
sulle disavventure quotidiane, vuole eliminare la sofferenza pervasiva che è la sorgente
continua dell’insoddisfazione permanente e profonda che ci accompagna
ininterrottamente. Soltanto il Dharma può superare questo dolore costante e far si che
anche la morte non sia più un problema in quanto naturale passaggio, ma senza il
Dharma l’insoddisfazione profonda renderà il momento della morte disperante e
continuerà ad esistere anche dopo la morte stessa.
Il passaggio nella morte è un momento di grande rivelazione. Per questo che
prima si è scherzato sui mezzi usati dalle istituzioni religiose per impaurire le persone e
convincerle a convertirsi, l’inferno e la morte sono due argomenti sempre vincenti nella
manipolazione delle coscienze. Ma, se osservati nell’ottica del Dharma, sono
assolutamente inutili perché nel Dharma tutto è perfetto, morire è naturale, visitare gli
inferi non è un problema, visitare il Paradiso non è speciale. Se si pratica il Dharma
profondo nulla è un problema e nulla è speciale, il Dharma supera e sconfigge il livello
pervasivo della sofferenza, la sorgente di tutte le sofferenze.
Ogni qualvolta si cerchi di coltivare la compassione, si rivolgano preghiere per il
bene del mondo, si alimenti il pensiero amorevole affinché possa non più esistere la
sofferenza, ogni qualvolta si pratichi nella comprensione del livello pervasivo della
sofferenza, consapevoli che il significato della preghiera ultima è la compassione
ultima, allora si pratica il vero Dharma e si ottiene il superamento della sofferenza
pervasiva che permette l’eliminazione della sofferenza del cambiamento e della
sofferenza della sofferenza. Se ne siamo consapevoli possiamo vedere come tutti gli
esseri viventi siano ugualmente impregnati di sofferenza pervasiva, siano legati,
imprigionati nella stessa condizione, senza differenze e anche se appaiono alcune
diversificazioni sono sempre temporanee e non sono significative, la sostanza è la
comune condizione di schiavitù in questa sofferenza.
A volte cadiamo in percezioni illusorie veramente buffe, ad esempio in TV si sente
spesso appellare il presidente degli USA, “l’uomo più potente del mondo”, ma allora
chi è il meno potente? In politica come nella vita ordinaria si costruiscono continue
differenziazioni, ma sono solo illusioni; dal punto di vista della sofferenza pervasiva
non vi è alcuna distinzione, e così si pratica il Dharma.
E’ difficile chiarire la nozione della sofferenza pervasiva ma ognuno ne ha
esperienza diretta, voi come la definireste?
Risposta: Per me è abbastanza evidente, quando mi rendo conto che ho tutto, non mi
manca niente, ho lavoro, casa, affetti, però ugualmente sento in me
insoddisfazione e mi chiedo che cos’è questa insoddisfazione, credo si tratti
proprio della sofferenza pervasiva.
Lama: e che nome date a questo?
Risposta: Leopardi la chiama “tedio”.
Risposta: forse sarebbe meglio dire tedio esistenziale.
Risposta: A me sembra che nel momento in cui non abbiamo la pienezza della mente
cadiamo automaticamente nell’insoddisfazione profonda.
Lama: Cosa intendi per “pienezza della mente”, c’è nel cristianesimo questo concetto?
Risposta: Si, ma si dice “pienezza del cuore”.
Risposta: Pienezza della mente come pienezza dello spirito, consapevolezza del
risveglio.
Lama: Illuminazione?
Risposta: Si, perché se una persona non è consapevole di essere illuminato è
insoddisfatto.
Lama: Altri?
Risposta: Il senso di insoddisfazione lo avverti quando perdi il senso della vita. Se la
tua vita ha significato non percepisci insoddisfazione, anche se vedi tutte le
difficoltà di vivere. Il senso della vita è dare il giusto valore alle cose e quindi
soltanto essere Bodhisattva, la ricerca continua per diventare Bodhisattva, ti
da il senso della vita.
Risposta: Il livello più profondo della sofferenza è sapere che uno è legato a filo doppio
a tutta una serie di dipendenze, dipendenza dall’altro, dagli affetti, dal
lavoro, dalla casa. Sono dipendenze che ci separano dal Dharma e per
quanto si sia contenti di tutto ciò che si ha c’è anche la consapevolezza di
esserne dipendenti proprio dalle stesse cose, ed è sofferenza. Si è legati a un
meccanismo che impedisce di essere liberi.
Lama: Stiamo discutendo a lungo su questo punto perché è difficile da esprimere a
parole e ognuno ha il suo linguaggio, ma parlandone possiamo chiarie il
concetto.
Risposta: Si è difficile, ma credo che sia stata colta l’essenza del pensiero: quando hai
smarrito il senso della vita sei immerso nella sofferenza pervasiva, sei perso.
Risposta: Quando ti accorgi di non essere libero e vedi che i legami ti imprigionano
inesorabilmente, sperimenti questa sofferenza più profonda.
Risposta: Secondo me è singolare l’argomento della dipendenza, ti accorgi che la tua
felicità dipende da qualcosa, quindi, se manca quel qualcosa non sei felice.
Ma il fatto più interessante è che lo stesso vale per la sofferenza, anche la
sofferenza dipende da qualcosa, allora ti accorgi che la tua sofferenza e la tua
felicità dipendono da qualcosa di esterno e ti poni la domanda: perché devo
dipendere da qualcosa al di fuori?
Risposta: E’ allora che puoi trovare il senso della vita.
Risposta: Quando ti accorgi che comunque dipendi da qualcosa che è fuori di te
individui nella dipendenza il vero problema, che non è evidentemente dato
da oggetti esterni, ma chi crea questo collegamento?
Lama: In occidente ho ricevuto una gran quantità di informazioni, avete una mente
acuta, intelligente, istruita, e il mio desiderio è che il buddhismo si connetta
con le caratteristiche della mente occidentale, che trovi collegamenti aperti e
dinamici senza chiudersi in una mente ottusa e retrograda. Il mio desiderio è
che il Buddhismo possa diventare in occidente mobile, spazioso e portare
reale beneficio, alleviare la sofferenza di tutti gli esseri, senza fermarsi alla
pratica formale, statica e inutile in questo contesto sociale. Pensate a quanta
sofferenza si potrebbe eliminare con l’uso corretto dell’ alta tecnologia.
Se non si individua chiaramente il livello pervasivo della sofferenza, si perde
l’obiettivo, si manca completamente il bersaglio, con poche e semplici parole possiamo
dire che la sensazione che “qualcosa non va”, “che manca qualcosa”,
indipendentemente dagli eventi esterni, è la sofferenza pervasiva. In genere non
capiamo perché questo avvenga, ne ricerchiamo le cause nei posti sbagliati, al di fuori
di noi, ma imparare a individuare e gestire questa insoddisfazione profonda rende
tutto perfetto. Identificare e riconoscere il livello pervasivo della sofferenza è
fondamentale in ogni pratica di Dharma, mentre il contrario rende l’obiettivo
irraggiungibile.
Dopo aver riconosciuto il livello pervasivo della sofferenza, resta da identificare
qual è la sua causa, infatti non è sufficiente averlo individuato chiaramente, ora è
necessario risalire alla sua origine.
La causa della sofferenza pervasiva è l’attitudine mentale ad aggrapparsi ad un
sé. Ma cos’è questo sé a cui siamo così legati? Dove si trova? Perché non riusciamo a
rintracciarlo da nessuna parte? Siamo aggrappati a un qualcosa che non è, che nessuno
può scovare, e da qui nasce il livello pervasivo della sofferenza, da un punto che non ha
base, che fonda se stesso su un io che non esiste, fonda se stesso su un’illusione, questo
è il problema.
Il riconoscimento di questa realtà è la chiave per vincere la sofferenza. La
sofferenza nasce dall’attitudine ad aggrapparsi ad un sé che non esiste. Ciò non
significa che noi non esistiamo, è evidente che siamo qui, ma è l’attitudine ad
aggrapparsi al sé profondamente illusorio che crea sofferenza.
Riconoscere il livello pervasivo della sofferenza è il fondamento dello sviluppo
della Compassione e il riconoscere il non-sé, cioè l’assenza di quel sé così come
generalmente viene erroneamente definito e afferrato dall’attitudine ad aggrapparsi ad
esso, è la Saggezza. L’insieme di Compassione e Saggezza sono lo strumento più
importante per superare il livello pervasivo della sofferenza.
In occidente siamo ricchi di tecnologia, si può quindi usare la mente tecnologica
per analizzare la sofferenza, il livello pervasivo della sofferenza e far sorgere
compassione e saggezza. E’ come essere in un laboratorio scientifico della spiritualità,
se rinascesse Leonardo da Vinci in questo laboratorio spirituale il progresso potrebbe
subire una notevole accelerazione, diventare pratico, immediato, di aiuto all’attuale
società.
Invece oggi tendiamo a dividere, limitare le possibilità, quando si medita ci si
estranea dalla vita attiva e quando si è attivi, si perde lo stato meditativo. E’ necessario
trovare un equilibrio tra le due fasi, una via di mezzo, dove il meditatore è nel
contempo una persona attiva e nell’attività non perde lo stato meditativo. Questo è
l’atteggiamento che porta beneficio e che rende la pratica proficua perché ottiene la
piena integrazione tra l’aspetto spirituale e quello materiale della vita.
A volte si tende anche a confondere la pratica spirituale con la psicoterapia, ma
sono due situazioni diverse: nella psicoterapia c’è una persona preparata, un medico
che, in base alle proprie conoscenze, aiuta gli altri a risolvere determinati problemi e il
suo compito si esaurisce in questo. Nella pratica spirituale invece il processo di
guarigione è attuato da se stessi su se stessi, ognuno è lo psicoterapeuta di se stesso;
non è sufficiente acquisire determinate conoscenze, è necessario ricondurle a sé,
assimilarle alla vita quotidiana continuamente, mantenendone la presenza costante,
momento per momento, che si rinnova incessantemente senza mai esaurirsi diventando
parte integrante di sé. Ciò può avvenire correttamente solo quando il progredire nella
spiritualità è in armonia con le attività materiali, soprattutto nella società moderna e
tecnologica dove si conta molto su se stessi e poco sugli altri.
Proseguendo nell’analisi del testo esaminiamo il “cuscino” dell’immutabile unione
di saggezza con il metodo. Il metodo è la compassione e la saggezza è la visione della
Vacuità, o realizzazione del non sé. Quindi, quando ci si riferisce al Maestro spirituale,
al Lama e lo si visualizza seduto sui cuscini rappresentati dal sole e dalla luna si
sottolinea che non è facile e automatico essere maestro spirituale, non basta possedere
un ricco bagaglio di conoscenze, ma è necessario aver realizzato la grande compassione
e la saggezza della mancanza del sé, o saggezza della Vacuità. Questa è la
qualificazione minima, essenziale, del maestro spirituale.
Un maestro deve essere sempre gentile, rappresenta tutti i rifugi: Buddha,
Dharma e Sangha e dà corpo a tutti gli esseri realizzati come gli Arhat e i Bodhisattva.
Il Lama, o Guru, o Maestro spirituale rappresenta l’incarnazione dei Buddha, dei
Bodhisattva, degli Arhat, poiché essi sono uniti da un solo desiderio: quello di liberare
tutti gli esseri dalla sofferenza.
I Buddha i Bodhisattva, gli Arhat non si manifestano materialmente e per aiutare
le persone a raggiungere la liberazione, per offrire lo strumento indispensabile della
conoscenza e pratica del Dharma, è necessario che esse possano incontrare una persona
vivente, concretamente presente, il maestro spirituale, il Lama, il Guru radice. In
questo senso si dice che il maestro spirituale è l’incarnazione di tutti i rifugi, è gentile
perché guida nella strada che porta all’illuminazione e non c’è gentilezza superiore a
questa. Il Lama ha le qualità della compassione e della saggezza, è l’incarnazione di
tutti i Buddha e i Bodhisattva, è gentile perché conduce all’illuminazione, quindi il
Lama è Buddha.
E’ necessario abbandonare ogni preconcetto errato nei confronti del Lama e
pregarlo con una concezione pura. La ragione per cui viene espressamente dato questo
consiglio è che, sebbene il Lama possa apparire al discepolo come persona rude e
burbera, in realtà esprime un atteggiamento gentile e amorevole e il difetto non è nel
Lama ma nella percezione errata del discepolo che a causa del suo karma ha una
visione distorta della realtà. La corretta relazione tra Lama e discepolo presuppone
ovviamente la presenza di un Lama qualificato e di un discepolo qualificato. Se
entrambi sono qualificati si instaura una corretta relazione, ecco perché si deve
meditare sul Lama e pregarlo con le modalità indicate nel testo, liberi da concezioni
errate, con una pura visione, senza lasciare che la mente divaghi ma rimanga ferma nel
rispetto e nella fiducia.