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Loris Rambelli

Paesaggio con figure

GIUSEPPE BARTOLINI detto Fita


più noto come Ziridön
(1865 - 1948)

Una prima stesura di questi scritti è apparsa sul notiziario di illustrazione locale:
«Il Ponte», San Bernardino di Lugo, nn.12 (2002), 13(2003), 14(2004)

Edizione 2011 riveduta ed integrata dall’autore


Edizione sul web curata da
Agide Vandini
L’IRÔLA DE’ FILÉŠ
http://filese.blogspot.com/

NOTA SULLA GRAFIA. La esse e la zeta sonore sono state rappresentate rispettivamente dai segni š e ž. Le terminazioni -ânn, -enn,
-onn segnalano la pronuncia della enne, in fine di parola, dopo le vocali nasali (ânn; galenn; lonn). Si dà invece per scontato che la
enne di solito si pronuncia quando le nasali ân, en e on sono seguite da vocale (campâna, všeni d’ca, dgen acsè), o da consonante
sonora (Cunsândal) e che si pronuncia nelle forme dell’aggettivo tânt (tânta, tânti), come nelle parole terminanti in -ânta
(cvarânta, Madunena Sânta).

In copertina: Ritratto non datato di Giuseppe Bartolini, archivio familiare di Gabriella Verlicchi Landi (Lavezzola). La foto, in
bianco e nero (9 x 14 cm) è incollata su cartoncino coevo verde marcio con la dicitura "Fotografo Vandini Via Tripoli 65 Bologna";
dicitura riprodotta anche sul verso mediante timbro a inchiostro.
A fianco del ritratto, firma di Giuseppe Bartolini all’età di 75 anni (archivio parrocchiale di San Bernardino, atto di matrimonio in
data 11 luglio 1940).
Prima puntata

Parenti alla lontana

«Mo te t'é da rës mëž parent cun Ziridön», ma tu non sei mezzo parente di Ziridön? Mi è stato
detto da qualcuno. «Su muiér, la Terešina, la n'éra la surëla d'tu nunen?», sua moglie, la Teresina,
non era la sorella di tuo nonno?
È stato per via di questa lontana parentela (mezzo parenti, appunto), che ho cominciato a
raccogliere notizie su Ziridön. Fra l'altro ho scoperto che Teresina, che in effetti di cognome faceva
Rambelli, non era sorella del mio nonno paterno Stefano, bensì del bisnonno Primo, Primen, e'
pustir, impiegato nell'ufficio postale di San Bernardino e anche portalettere: l'éra un umarì!... e'
'ndév'a tu la pösta d'cô d'e' Stradon in do' ch'e' paséva la diligenza, era un omarino!... andava a
ritirare la posta in fondo alla via Stradone perché di lì passava la diligenza...

Prima di iniziare la ricerca, che è rimasta naturalmente molto incompleta, sapevo di Ziridön quello
che più o meno tutti sanno, dalle mie parti: avevo sentito parlare della sua casa, del suo modo di
vestire, della sua bicicletta, dei suoi detti sentenziosi. Ziridön l'éra on ch'u s'šgavagnéva, u gli
avéva sèmpar pronti, era uno che con le parole sapeva cavarsi d'impiccio e le risposte le aveva
sempre pronte.
La dimostrazione più evidente della sua notorietà consiste nel fatto che, a San Bernardino e
dintorni, il suo nome è passato in proverbio. La pê la ca d'Ziridön, sembra la casa di Ziridön, si dice
di una casa che, gremita di oggetti disparati, assomigli di più al magazzino di un rigattiere che a una
civile abitazione. T'am pér Ziridön, mi sembri Ziridön, si dice a qualcuno che abbia qualcosa dello
straccione e vada in giro con abbigliamento assortito in modo inconsueto.

Un tipo originale

Basti dire che portava la sottana! Il dialetto non specifica di quale capo di abbigliamento si
trattasse. Da quanto mi sembra di capire, doveva trattarsi di una palandrana, una specie di tunica da
vecchio prete di campagna.
Me a séra un tabach... e 'lóra u j éra Ziridön ch'e' šghéva l'érba cun e' fër dri e' fös , e 'lóra...
l'avéva la stanëla e 'lóra me a i dge: «Signor Bartolini, mo...». (Ció e' purtéva la stanëla!) E lo u
m'dge: «Adesso ti dico una cosa» parchè lo e' scuréva sèmpar in itagliân «adesso ti dico una cosa
che la capirai poi quando sarai grande. Ricordati che chi arte non sa far, bottega serra». U m'dge
'csè, ció.
Io ero un bambino... e allora c'era Ziridön che falciava l'erba lungo il fosso [scolo Fiumazzo,
lungo la via omonima, nel tratto fra l'incrocio con via Lombardina e Ciribella] e allora... portava la
sottana, perciò gli dissi: «Signor Bartolini, ma...». (Vestito in quel modo!) Allora lui mi fece:
«Adesso ti dico una cosa» parlava sempre in italiano «adesso ti dico una cosa che la capirai poi
quando sarai grande. Ricordati che chi arte non sa far, bottega serra». Così, mi disse.

Questa testimonianza di Alberto Margotti, Bérto (nato a Ciribella nel 1930), ci presenta un Ziridön
già avanti negli anni, doveva aver superato i settanta, nell'età in cui, per certe prestazioni, sarebbe
forse saggio chiudere bottega. Ma le parole di Ziridön erano sempre un po' sibilline; in questo caso
si potrebbero anche prestare a un'interpretazione diversa, se lui si fosse sentito ancora efficiente e,
intendesse, con il suo abbigliamento aperto e sciolto, dare aria agli strumenti...

Ma lasciamo perdere questi particolari e chiediamoci piuttosto come vivesse Ziridön. Aveva
sempre campato la vita falciando l'erba lungo i fossi? Qualcuno dice che da giovane avesse
combattuto in Africa... Forse aveva preso di laggiù la stravaganza di portare l'orecchino, a forma di
anello, e il "caffettano" come un signore del deserto. Se è per questo, indossava anche delle calze
lunghe fin sopra il ginocchio, come si vede in una fotografia degli anni Venti: in piedi, con le mani
sul manubrio della sua famosa bicicletta.
Tutti gli informatori si soffermano su tre cose principalmente: l'abbigliamento, la bicicletta e la
casa.
Ziridön l'avéva una bicicleta da bersagliér,
cioè una bicicleta ch'la n'avéva briša la câmbra
d'aria, e' cuparton, mo l'avéva la rôda pina,
coma cveli di bersaglir dla gvëra de' cvèndg e
ždöt, e quindi u n'furéva mai. E' campanël u
n'l'avéva briša, parchè in dutazion in cal
biciclet, e' campanël u ngn'éra briša: lo u j
avéva mes una campâna sot'a la sëla e pu, cvânt
che l'avéva bšogn dal vôlt a n'so (u n'è ch'u i fos
un grând šgumbei alóra par la strê) cvânt
ch'l'avéva bšogn ad fês sintì, e' scuséva un pô e'
cul e scusènd e' cul e' sunéva la campâna.
Ziridön aveva una bicicletta da bersagliere, cioè
una bicicletta senza camera d'aria e copertone,
ma con le ruote piene, come quelle dei
bersaglieri della Guerra '15-18, e quindi non
bucava mai. Non aveva neppure il campanello,
perché il campanello, in quelle biciclette lì, non
era in dotazione: lui però aveva messo una
campana sotto la sella e quando aveva bisogno,
delle volte non so (non è che allora ci fosse un
gran traffico per la strada), ma quando aveva
bisogno di farsi sentire, una scrollatina di sedere
e, così facendo, suonava la campana (Romeo Ziridön a San Bernardino, anno: 1928 - 1929 (come scritto sul
verso dell'originale). Foto di Ines Serrazanetti, figlia del fattore
Sebastiani, nato a Ciribella nel 1927). della tenura dei marchesi Marconi, Giuseppe Serrazanetti (e'
La sua casa in via Lombardina numero 4 non sgnór Peppino) e moglie del dottor Giovanni Savorini, medico
esiste più: si trovava a poco meno di un condotto di San Bernardino. Archivio familiare del dott. Giovanni
chilometro dall'incrocio con la via Fiumazzo, Savorini.
sulla destra (andando verso il Santerno), press'a
poco, ma un po' più sulla strada, dove ora si
trova la villetta che porta lo stesso numero
civico. Per averne un'idea, mi dicono, basta
guardare la casa al numero 5, la ca d'Facoc, casa
Lanconelli, disabitata da tempo. La casa di
Ziridön sembra che fosse ancora più piccola: a
due piani, ma molto bassa.
La fazêda dla su ca, dri a la Lumbardena, l'éra
tota cvérta d'goc. Tot goc. U j éra i giud e tot sti
goc a là 'taché: una stagnê rota, un göc da
cunsérva... i goc ch'u i putéva rësar alóra da chi
temp, mo l'éra tota cvérta. Tânt e' véra che nó
tabëch, una cvica vôlta, par divartis, a j andimi Vecchie case di via Lombardina nei pressi della casa di Ziridön
cun la sfrombla d'e' cânt d'là (parchè alóra u j (foto di Loris Rambelli, 1993). Da sinistra: la ca d'Tiadôr, casa
Masironi (numero civico 6) e la ca di Girulé, successivamente
éra al siv)... d'e' cant d'là da la strê e pu cun la detta la ca d’Facoc, casa Lanconelli (numero civico 5). Dopo
sfrombla a tirimi int la muraia e a ciapimi quest’ultima, andando verso Ciribella, c’era la casa di Ziridön
sèmpar in cvich cvël parchè l'éra un göc tach a (numero civico 4).
cl'êtar.
La facciata della sua casa, in via
Lombardina, era tutta rivestita di
barattolame vario. C'erano dei
chiodi e tutte queste carabattole là
appese: poteva essere un paiolo
rotto di rame stagnato oppure un
barattolo che aveva contenuto della
conserva di pomodoro... i recipienti
insomma che erano in uso
all'epoca, ma proprio un tutt’uno!
Tant'è vero che noi bambini,
qualche volta, per divertirci
andavamo con la fionda sul lato
opposto della strada (nascosti dalla
siepe, perché allora c'erano le
siepi)... dal lato opposto e poi con Il gruppo si trova davanti alla facciata della casa di via Lombardina 4. Al centro,
la fionda tiravamo dei sassi contro Ziridön; alla sua sinistra, la moglie Teresa Rambelli e Maria Capra (1867-1950)
la facciata della casa: qualche cosa che aveva sposato un Clemente Bartolini e abitava in via Pianta Vecchia a
Voltana; alle spalle di Ziridön, Delfino Lanconelli (1918); alla sua destra Piero
colpivamo sempre (Romeo (Pierino) Sangiorgi, cugino della scrittrice Giovanna Righini Ricci. Anno: 1938.
Sebastiani).

I racconti richiedono un inizio

Rischiavo di perdermi in una selva di episodi e di aneddoti, e di varianti degli stessi aneddoti,
difficilmente collocabili nel tempo e nello spazio. Il bandolo della matassa, per mettere ordine nei
fatti, me lo ha fornito, con piglio da storiografa, una nipote acquisita di Ziridön, Maria Lippi (nata
nel 1911), che ha esordito dicendo: «I racont i partes d'in prizepi, si nö a cve a fašen un racont
ch'l'à la códa zenza la tësta», i racconti bisogna farli partire dall'inizio, se no facciamo un racconto
che ha la coda ma non la testa. E all'inizio, per Maria Lippi, c'era nonna Teresina. La storia di
Ziridön che riporto in questa prima puntata segue la traccia che mi ha fornito Maria Lippi: io mi
sono limitato a precisare le date, desunte dall'archivio del Municipio di Lugo e dall'archivio
parrocchiale di San Bernardino.

Teresina, la prima moglie

La famosa "casa di Ziridön" non era la sua: era proprietà della moglie, Teresa Rambelli vedova
Ricci. Anzi la residenza di Teresina, sia da nubile sia da coniugata, risulta sempre la stessa: via
Lombardina numero 4. Erano i mariti che si trasferivano da lei.
«Mi nöna Terešina - incomincia a raccontare Maria Lippi - la s'éra tôlta Ricci Serafino ch'i i
dgéva Žôrž, Serafino d'Žôrž.» Mia nonna Teresina si era sposata Ricci Serafino, soprannominato
Žôrž, Serafino d'Žôrž.
Il matrimonio fu celebrato il 27 luglio 1879: lei aveva ventiquattro anni e lui trentatrè, essendo
nato a Fusignano nel 1846. Nacquero sette figli, di cui due deceduti poco dopo la nascita. I
sopravvissuti furono: Ottavio, il primogenito, Argia, detta però Tina (abbreviazione di Faustina, la
madre di Maria Lippi), secondogenita, Luigi (Gigion), Marianna, e Terzilla. Marianna morì
giovane di polmonite, malattia che aveva stroncato anche il padre, all'età di 48 anni, il 19 dicembre
1894.
Disegno schematico della via Lombardina. La casa di Ziridön è messa in evidenza dal cerchietto. La parte puntinata indica la zona
rasa al suolo dai tedeschi nel 1945 al passaggio del fronte. La casa di “nonno Tranquillo”, immortalata nel libro di Giovanna
Righini Ricci, Nel cavo della mano (in cui si parla anche di Ziridön), si trova nell'incrocio fra la carrara Ghedini, e' Cararon, e la
via Lombardina. L'asterisco, infine, indica il punto in cui si trova il personaggio della foto successiva.

Teresina, rimasta vedova, si sente sola. Cinque


figli da tirare su. Forse teme di non farcela. Era il
marito che si occupava di tutto. Ed è a questo punto
che entra in scena Ziridön, il corteggiatore che
viene dal Borgo, d'int e' Platei. L'éra un bël mör ...,
Ziridön; l'éra un šmanê, mo l'éra un bël mör. Un
bell'uomo, Ziridön, bruno; sciamannato fin che si
vuole, ma un bel moro. C'é una certa differenza
d'età, dieci anni per l'esattezza, ma forse la sua
gagliardia le dà coraggio, le dà fiducia. Teresina si
decide a parlarne in casa, quando ormai, in cuor
suo, la decisione l'ha già presa: «Ôhi, tabëch... ôhi,
me a m'tureb cl'om a là...». Ohi, ragazzi miei... mi
prenderei quell'uomo là... La figlia quattordicenne
non è d'accordo (le altre, Marianna e Terzilla hanno
Maria Lanconelli (1922) nel cortile di casa sua (la ca
rispettivamente sei e tre anni). d'Paraschena, carrara Bosi, attualmente numero 2); alle
Teresina chiede allora al primogenito il solo sue spalle uno scorcio del Borgo, detto e' Platei, la Platea,
parere che conti, a Ottavio, che in qualche modo con il lungo caseggiato di cui avremo occasione di
riparlare. (La madre di Maria era Augusta Bartolini, il cui
rappresenta l'autorevolezza del capofamiglia, anche padre era cugino di Ziridön, prem cušen, fiul d'fradel,
se ha appena diciassette anni (Luigi ne ha nove). I primi cugini, figli di fratelli.)
figli maschi non si oppongono. «Se la mâma la vôr
acsè...». Se questo è il desiderio della mamma...
Teresina sposa in seconde nozze Giuseppe
Bartolini, detto Ziridön, il 15 dicembre 1897.
Concerto di pentole

«E i i fašè la timpulêda». Oggi diremmo che fecero agli sposi un concerto di pentole, per
esprimere disapprovazione e derisione. In altre parole, Teresina e Ziridön non poterono sottrarsi a
quella forma implacabile di chiamata in giudizio che, nelle piccole comunità, il controllo sociale fa
pesare su tutti. Alóra, a lè d'front, u j éra una famiulena che lì la s'ciaméva Viènna. E 'lóra ció una
séra la sent una šbatucêda... «Ben-mo diš, Giušeppe, 's ël cl'armór? A j ël la dòndla?». «N'impôrta
ch'aviva paura, Viènna: i la fa par me». «Mo cus'aviv fat, vo?». «Ôhi a so vnu ' cva da la
Terešina... a cunsulêla, e ló in vô briša...».
A quei tempi, proprio di fronte [alla casa di Teresina] abitava una famigliola, la sposa si chiamava
Vienna. Dunque una sera sente questo sbatacchiamento... «Beh, Giuseppe cos'è? C'è in giro la
donnola?». «Niente niente, Vienna, lo fanno per me». «Perché, cos'avete fatto?». «Ma perché sono
venuto qui dalla Teresina, per consolarla... e loro non vogliono...».

Il 19 aprile 1898 nasce una bimba, battezzata a San Bernardino, cui è imposto il nome di Serafina
(a ricordo del primo marito di Teresina...).
Sì, lo so: avete fatto una botta di conti, l'ho fatta anch'io, e avete visto che dalla data delle nozze a
quella della nascita di Serafina passano solo quattro mesi. Beh, ormai il guaio era stato combinato...
e occorreva rimediare.
La bambina non ha ancora due anni quando tutta la famiglia (non so se i figli di primo letto di
Teresina vivessero tutti con la mamma, ma suppongo di sì), tutta la famiglia si trasferisce nel
comune di Argenta, a Case Selvatiche (al Ca Salvêdi, le Case Salvate, nella semplificazione del
nostro dialetto al di qua dal Reno). È il 19 febbraio dell'anno 1900. La nuova abitazione è un lascito
del primo marito? Non ho fatto ricerche in proposito.

Dicono, a Case Selvatiche, che Ziridön si guadagnasse da vivere facendo il birocciaio. Fatto sta
che poté acquistare alcuni fabbricati (anche se in cattivo stato di conservazione) nel ferrarese: a
Boccaleone e a Consandolo.
Angelina Savioli, nata a Filo nel 1910, ricorda così Ziridön: E' paséva in bicicleta, ch'l'avéva una
bicicleta élta, cun un campanël tachê d'dri par fês sintì! Mo alóra al strê agli éra tota gêra, la
bicicleta la trambaléva e e' campanël e' sunéva sèmpar, ad cuntènuv. D'istê l'avéva un custom ros .
E nó tabëch a curìvan ins la strê, a ridìvan. E lo e' dgéva: «I rid, u s'véd ch'j è cuntent».
Passava in bicicletta, aveva un bicicletta alta, con una campanella appesa dietro per farsi sentire
all'occorrenza. Solo che allora le strade erano ghiaiate, la bicicletta trabalzava e la campanella
suonava di continuo. D'estate indossava un costume rosso [canottiera e calzoncini tutti uniti, di lana,
come si usava nelle spiagge agli inizi del Novecento]. Noi bambini correvamo sulla strada,
ridevamo. E lui diceva: «Ridono, è segno che sono contenti».

Solo dopo che tutti i figli (Serafina compresa, come vedremo) si furono sistemati, formandosi
ciascuno la propria famiglia, Ziridön ritornò con la moglie in via Lombardina numero 4. Dopo
diciassette anni di assenza.

Un giorno di San Sebastiano

Negli ultimi anni Teresina è assistita dalle proprie figlie e nipoti, fra le quali Giulia, figlia di
Valerio, il fratello maggiore di Ziridön.
Mi mê ogni tânt l'andéva a là a spazê... mo 's'ut spazê! Sór'a e' lët u j avéva tènt d'chi sëch
d'urtiga, a là tëch ins una stânga d'legn, che mi mê cvânt ch'l'andéva a là la i dgéva: «Mo adës
cvânt ch'e' riva e' dutór (la Terešina l'éra malêda, la pureta, stava per morire) tot chi sëch a là ch'i
i sfréga dri la faza, la pureta, parchè a n'i caven?». Mia madre ogni tanto andava là a spazzare...
ma cosa vuoi spazzare! Sopra al letto aveva appesi, a una stanga di legno, tanti di quei sacchi di tela
d'ortica! Che mia madre, quando andava là, gli diceva: «Beh, adesso, quando arriva il dottore» (la
Teresina era malata, poveretta, stava per morire) «tutti quei sacchi là, che le sfiorano la faccia,
bisognerà toglierli!». E lo e' dgéva, e lui diceva: «Non è i sacchi che fanno morire la Teresina, è la
vecchiaia la sua malattia. I sacchi non gli danno fastidio e il dottore, quando viene, non può farci
niente» (Francesco Seganti, Cico, nato alla Lombardina nel 1915).

«Io sono stata a casa sua. Mia mamma mi diceva: "A vent cun me, ch’anden da Ziridön? A dê da
magnê a la Terešina?". Vieni con me che andiamo da Ziridön? A dare da mangiare alla Teresina? E
ci andavamo. Questa cosa, la ricorderò sempre. Le davo da mangiare della minestrina in brodo in un
tegamino. E io dicevo: "Mamma, non va giù il cucchiaio!". E ’lóra: "Sta zeta!". Mia madre mi
diceva: "Sta zitta!". "Ma non va giù!". Ziridön era là seduto sulla cassapanca, allora fa: "Cosa hai
fatto?". "Ah!" dico "non va giù il cucchiaio!" E lui tranquillo: "Poverina, prendi su solo quella di
sopra…". Non andava giù perché... e’ fònd de’ tigen l’éra tot un tacon élt acsè! all'interno del
tegamino si era formato tutto un fondiglio compatto alto così! Io davo da mangiare alla Teresina e
vedevo mia mamma, là di sotto, attraverso le fessure e i buchi del pavimento! E avevo paura di
cadere giù!» (Fernanda Bacchini, nata nel 1930, anche lei lontana parente di Teresa Rambelli).

Cvânt che mi nöna l'è môrta, de’ trèntanôv, quando mia nonna è morta, nel 1939, conclude il suo
racconto Maria Lippi, u ngn'à miga fët, i manifest: l'à tôlt un cvadéran cun al righ e pu: "Rambelli
Teresina môrta... e' dè ch'a n'm'arculd piò... 1939. I funerali saranno fatti... a la têl'óra... e 'csè». E
pu par tota la Lumbardena, a 'ndêr insèna a la Ciribëla, e' stachéva i foi d'e' cvadéran de' môd che
l'aviš de' funerêl l'è stê fat acsè... Non li ha mica fatti stampare, i manifesti: ha preso un quaderno a
righe e poi: "Rambelli Teresina morta... il giorno (che non ricordo più)... 1939. I funerali saranno
fatti... all'ora tale... e così via". E poi per tutta la via Lombardina fino a Ciribella staccava le pagine
dal quaderno in modo che l'avviso del funerale è stato diffuso così.

Il giorno esatto della morte è il 19 gennaio e il funerale si fece l'indomani, giorno di San
Sebastiano. È stata conservata, nell'archivio familiare di Gildo Seganti, fratello di Cico, una
ricevuta, su carta intestata della parrocchia di San Bernardino, dalla quale risulta che le spese per la
sepoltura ammontarono a 142 lire e 50 centesimi. Un tanto per i preti, i chierici e il crocifero, un
tanto per i ceri del catafalco e gli apparati funebri, un tanto per la Confraternita, non meglio
precisata, che però contribuì in parte a coprire le spese. Firmato: arciprete don Angelo Alpi.

L'Ombrellaia

Poco tempo dopo la scomparsa di Teresina, prese a frequentare Ziridön una riparatrice ambulante
di ombrelli. Si chiamava Albina Della Casa, ma qui a San Bernardino tutti hanno dimenticato il suo
nome e la ricordano semplicemente come l'Umbriléra, l'Ombrellaia. Sarà la seconda moglie.
Seconda puntata

Piccolo mondo antico

La Lombardina, ai tempi di Ziridön era una strada bianca fiancheggiata da siepi. Immaginate
anche un filare di pioppi, sul lato sud, nell’ultimo tratto verso il Santerno (furono abbattuti alla fine
degli anni Trenta). Lungo la strada, orientata a ponente, vôlta a Sarnér, c’erano case coloniche
sparse, e borghetti di modeste abitazioni (si veda cartina, prima puntata).
Il Borgo vero e proprio, raso al suolo dai tedeschi in ritirata nel 1945, era raccolto ai piedi
dell’argine: e’ Platei, «La Platea», come si legge nelle vecchie carte topografiche. Al centro del
Borgo, attraversato dalla carrara Bosi, spiccava un lungo caseggiato, e’ cašon d’Biunden, il casone
dei Bosi (di Giovanni Bosi di San Bernardino), in cui erano alloggiate nove famiglie (e per lo più
numerose). Ciascuna famiglia aveva una camera a pianterreno e una al primo piano e, nel cortile
comune, il capanno e lo stabbiolo del maiale.
Dove la via Lombardina finisce, innestandosi con una curva nella via Sottofiume (che un tempo
correva a metà dell’argine, ins la spala de' fion), c’era uno spiazzo dove giocavano a bocce: due
pali messi orizzontalmente sul terreno per fermare le biglie e qualche sedile rudimentale. Era un
luogo di ritrovo. Lo chiamavano la Basa, la Bassa. «Staséra anden un pô ins la Basa», i stašéva a
lè una ciöpa d’ór... «Stasera andiamo un po' nella Bassa» e si passavano un paio d'ore...
Poco distante, lungo la carrara Monti, dri e’ Viôl, l’Olga, detta la Chicaza, gestiva una piccola
bottega di generi alimentari insieme col marito Contardo, la vindéva un pô d’öli, un pö d’riš, do
candél, e’ ziž, al mistuchenn, i cuciarul, vendeva un po' di olio, un po' di riso, due candele, il cece,
le "mistuchine" [piccole piade dolci a forma di mandorla fatte con farina di castagne], le castagne
secche; e la sera ospitava un piccolo trebbo, una tribêda: al piò tânti sér j éra sól in du, briša in
cvàtar… il più delle volte si ritrovavano solo in due neanche in quattro [per fare la partita]...
I grandi bevitori, invece, preferivano l’osteria «di là dal fiume», da Vanula. Si davano convegno
sul ponte con quelli di San Bernardino, andavano a giocarsi il mezzo litro e ritornavano a notte
fonda lungo l’argine, sorreggendosi spalla contro spalla. Se uno si fermava a metà strada perché non
ce la faceva più a stare in piedi, lo andavano a prelevare col carretto.
Da tempo immemorabile, sull’argine del fiume si celebravano i riti dell’inverno intorno ai roghi di
carnevale. U s’avdéva tot sti fugh: on vérs a Sa’ Banarden, on a E’ Cašarmac, on a La Zvëca, on
pët a la ca de’ Coch, tot sti carnuvél ch’i brušéva...
Si vedevano tutti questi fuochi: uno in direzione di San Bernardino, uno al Casermaggio, uno a
Giovecca, uno in linea con la casa Negrini [via Giovecca, 25], tutti questi carnevali che ardevano.
Le donne, nel mese di maggio, recitavano il rosario all’aperto. Una sera Sinton, cullato dall’onda
delle preghiere, si addormentò sul pozzo e cadde giù. «Mo la mi Madunena Sânta! Sinton, mo cum
ét fat! Bôia de’ Si… d’cop!», Madonna Santa! Sinton, ma come hai fatto! Boia del S... sei di coppe!
Si disperava, la moglie, la Tugnina, alternando una invocazione a una bestemmia a malapena
trattenuta, ma il marito lo recuperarono sano e salvo.
Pacalóni (Giuseppe Calderoni), con l’arrivo della bella stagione, portava fuori il suo deschetto da
calzolaio e lavorava vicino al forno: raccontava di un memorabile comizio dei socialisti a
Lavezzola, in cui aveva fatto un discorso Mussolini, ai tempi in cui si definiva socialista.
C’era Brandino, mat com'un caval, «Brandino», uno Zanelli, matto come un cavallo, che si tuffò
nei gorghi della fiumana per recuperare un biroccio; e c’era suo fratello Mašon che quando la
moglie lo rimproverava andava a picchiare i maiali, e i maiali, che avevano associato l’immagine
del padrone all’idea delle botte, si mettevano a gridare non appena lo vedevano.
C'era l'Evgegnia d'Calonga e sua madre che vivevano di carità: la figlia andava a chiedere
l'elemosina, la madre semiparalitica rimaneva a letto e ogni tanto chiamava ad alta voce: «Avnìm a
prilê», venitemi a girare [a farmi cambiare posizione nel letto]. E qualcuno andava sempre.
Dai paesi limitrofi arrivavano i giovanotti a fare la serenata alle ragazze del Borgo, ma una volta
furono accolti con getti d’acqua da quelli del posto, che evidentemente mal tolleravano invasioni di
territorio. Erano saliti sui tetti e di là rovesciavano secchi e bigonci.
Gigion d'Saeta (Luigi Magnani), a memoria dell'avvenimento, ci fece sopra una zirudella:

Sàbat séra tra lom e' scur


e’ ’rivè ’na scvêdra d’sunadur,
j avnè a fê la serenêda,
i s’avié a schena bagnêda.

Sabato sera all'imbrunire


arrivò una squadra di suonatori,
vennero a fare la serenata
se ne andarono a schiena bagnata.

Nei primi di maggio del 1936, mentre sulle piazze d’Italia rimbombava la voce del Duce («Il
maresciallo Badoglio telegrafa: Oggi, 5 Maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono
entrato in Addis Abeba…», boati, applausi...) sul pioppo più alto di via Lombardina garriva la
bandiera tricolore. Ai piedi dell’albero si andava formando uno strano corteo: Piöpa, ch’i l’avéva
tot imburnê cun un sôvar brušê e un linzôl a travérs, Piöpa (Dante Lanconelli) che avevano annerito
con un tappo di sughero bruciacchiato e avvolto in un lenzuolo, cavalcava un asino: era il negus in
fuga; altri, al suo seguito, rappresentavano i vari ras, di cui allora si sapevano i nomi a memoria
perché tutte le sere alla Casa del Fascio di San Bernardino trasmettevano il bollettino di guerra e si
conficcavano le bandierine italiane sulla carta geografica dell’Etiopia per rendere più agonistiche le
tappe della guerra coloniale.
Si dice che il carro allegorico non dispiacque a Zanzi, il segretario del partito, che ci vide
l’espressione di sentimenti patriottici, a parziale ammenda della cattiva fama che si erano fatta certe
"teste calde" della Lombardina.

Giulia, l’archivista

Giulia Bartolini, nipote di Ziridön, era un po’ «l’archivista» della Platea, di quel piccolo mondo in
cui tutti finivano per condividere ogni momento della vita quotidiana. Giulia sapeva leggere e
scrivere, e questo le conferiva un titolo di prestigio in seno alla comunità.

A lè, ch’i scrivéva, u j éra lì, e s’u j éra Iušëf d’Pacalóni. Ah, u ugn’éra puch, alóra! E lì l’avéva
pröpi la pasion, d’lèžar e d’scrìvar. (Be’-mo a stašimi ža a Sa’ Banarden ch’e’ zuzidè e’ fat
d’Nigrišoli e ’lora lì l’ardušéva toti cal vëci a lè, al su všeni d’ca, e pu la i ližéva e’ giurnêl…) Lì la
sgnéva ignacôsa. Miten: «Tanì l’à cumprê e’ pôrch e’ têl dè, u j à dê tânt… u l’à mazê e’ têl dè…
E’ têl l’à dê e’ cunei a la cuneia e’ têl dè… U n’i scapéva gnit. L’éra l’archivi, era l’archivio della
borgata, dgen acsè. E ’lóra la žent, cvânt ch’i vléva savé cvicvël... «Oh, va-mo te savé cvânt ch’l’è
stê!…» e cvest e st’êtar… «Be’-mo adës anden da la Giuglia: lì la t’a’ sa dì.» «Stà-mo d'astê un
àtum, ch’a t’a’ degh sòbit.» L’andéva a vdé int i su foi. «Eco: la Mingocia l’à compar e’ têl cvël e’
têl dè.
Lì, che sapessero scrivere, non c'erano che lei e Giuseppe Calderoni. Ah, ce n'erano pochi, a quei
tempi! E lei aveva proprio la passione di leggere e scrivere. (Per dirne una, abitavamo già a San
Bernardino all'epoca del caso Nigrisoli [1963] e allora lei cosa faceva? Radunava tutte le vecchie
del vicinato e poi leggeva loro il giornale...) Metteva per iscritto tutto: «Tanì ha comprato il maiale
il giorno tale, lo ha pagato tot... ha fatto la beccheria il giorno tal altro... Il giorno ics il tale ha fatto
accoppiare la coniglia...». Non le sfuggiva niente. Era, per così dire, l'archivio della borgata. E
allora quando volevano sapere qualcosa... «Oh, ma quando è successo?», «Vattelapesca...», e questo
e quest'altro... «Semplice! Adesso andiamo dalla Giulia: lei te lo sa dire.» «Aspetta un attimo, che te
lo dico subito.» Andava a consultare certi suoi fogli. «Ecco qua: la Mingocia ha comprato la tal
cosa il giorno tale» (Gildo Seganti).
Un quadernetto dalla copertina nera, di 7,5 per 11 cm, intitolato Memorie, è quanto resta, oggi, del
suo archivio. Giulia vi ha annotato la data del suo matrimonio con Paolo Seganti, le date di nascita
dei suoi due figli, Francesco (Cico) e Gildo, e ha diligentemente ricostruito l’albero genealogico dei
Bartolini, risalendo al bisnonno paterno.
Dunque apprendiamo dai suoi appunti che Angelo
Bartolini sposò Angela Negrini, e fu padre di sei
figli maschi. Il primogenito, Cassiano [nato nel
1827], sposò Maria Capellari, «e da questi venne»
otto figli «tutti battezzati a Voltana»; il
primogenito, Valerio, nato il 28 aprile 1856, era il Firma di Valerio Bartolini, fratello maggiore di Ziridön e
padre di Giulia. padre di Giulia (da un documento del 1897, in occasione del
(«E da questi venne»: sembra di leggere il matrimonio del fratello Angelo Bartolini con Claudia
Toschi di Argenta).
vangelo di San Matteo. Oggi si è perso il gusto
delle genealogie.)
Degli otto figli ricordati da Giulia soltanto cinque risultano nei registri dell’anagrafe: Valerio,
Gregorio, Angelo, Giuseppe (che è il nostro Ziridön) e Giovanni.
La precisazione «battezzati a Voltana» mi è stata preziosa. Cercavo, infatti, l’atto di battesimo di
Giuseppe Bartolini, nella speranza di scoprire, in un eventuale secondo o terzo nome, un
«Celidonio» che giustificasse il dialettale «Ziridön». E invece no. Nel libro dei battezzati,
conservato a Chiesanuova di Voltana, è registrato un nome solo: Giuseppe. Giuseppe e basta.

Il soprannome

La notorietà del personaggio ha fatto credere a molti che Ziridön fosse un soprannome inventato
su misura per lui, come, per esempio, Cuciaraza (che a San Bernardino era solo Adolfo Cricca e
nessun altro). In realtà Ziridön era un soprannome di famiglia: all’anagrafe di Lugo nella scheda
intestata al padre Cassiano si legge la nota: «detto Zilindone». E a Conselice, San Patrizio e Massa
Lombarda, i Bartolini portano tutti il soprannome di Ziridön o Zilidön o Ziridöni o Zilidöni. A
Conselice ho incontrato un Celidonio Bartolini, conosciuto dai suoi compaesani come Gino
d’Ziridön, nato a San Patrizio nel 1918: Celidonio era il nonno paterno, nome ereditato da lui, che
era il primo dei nipoti. Suppongo che nel ceppo dei Bartolini debba esserci stato un «Celidonio»
capostipite da cui probabilmente deriva il nome dialettale tramandato attraverso le generazioni.

Gli anni giovanili

Ziridön fu battezzato a Chiesanuova di Voltana il 23 settembre 1865, il giorno stesso della sua
nascita. (Allora i neonati si battezzavano il più presto possibile, perché la mortalità infantile era
elevata.) Rimase orfano di padre (bracciante) all’età di nove anni e ne aveva diciannove quando il
fratello Gregorio si trasferì a Ferrara. Non sono riuscito a sapere niente di più degli anni giovanili.

Poi ci sarebbe stata la parentesi militare in terra d'Africa.


«Fu uno dei pochi superstiti del corpo di spedizione in Africa sotto il generale Baratieri.
Angiulì d’Per [Angelo Ricci], quando vedeva passare Ziridön per la Lombardina, gli dava la voce:
"Ohi, Bartolini!".
"Oh, Angelo!"
Allora Angiulì attaccava: "Ordine di Menelik! Bom!… Bo-ro-bom… bo-ro-bom… bo-ro-bom!".
E Ziridön incominciava a raccontare la guerra d’Africa, sul ritmo di una marcia militare:
"Ordine di Menelik! Andate tutti alle porte di Macallè! Bom!… Bo-ro-bom, bo-ro-bom, bo-ro-
bom!… Ufficiali, sottufficiali, soldati!… Bom!… Bo-ro-bom, bo-ro-bom, bo-ro-bom!…".
Era una cosa che faceva spettacolo. Angiulì era là che potava le viti e Ziridön sulla riva del fosso a
raccontare le avventure che aveva avuto, e il viaggio in nave. Era forte, da giovane, Ziridön, non
aveva paura di niente. Era forte anche da vecchio» (Cico Seganti).

Il forte italiano di Macallè fu conquistato dall’esercito di Menelik nel febbraio 1896 e la strage di
Adua avvenne di lì a poco, il 1° marzo. Ziridön aveva all'epoca trent’anni...

Una data certa è quella del matrimonio con la vedova Teresa Rambelli: 1897. Il resto lo sappiamo
già: Ziridön (dunque forse da poco ritornato dall'Etiopia) si trasferisce a casa della moglie, ma
nessuno ha saputo dirmi con esattezza dove abitasse prima.
Il 19 febbraio 1900 con la moglie, i figli di lei e una bambina di quasi due anni nella culla, lascia
l’abitazione di via Lombardina, per farvi ritorno con la moglie (loro due soli, ormai) il 17 novembre
1917. Nel frattempo i figli di Teresina si sono sposati, e l’unica figlia di Ziridön, Serafina, dopo
un’avventurosa storia d’amore, era diventata a sua volta madre.

Storia di Serafina

La storia di Serafina merita di essere ricordata perché rappresenta uno di quei casi in cui i fatti
reali sembrano «copiati» dai romanzi o dalle ballate popolari.
L’innamorato di Serafina era Alfonso Landi, detto Funsita, che abitava con i genitori, sei sorelle e
un fratello a Lavezzola, in una casupola a ridosso dell’argine destro del Reno; vi si accedeva dalla
via Reale, e per il fatto che era molto piccola era detta (con nome un po' irriverente ma efficace) e’
Caset de’ Sacrament, che in italiano suonerebbe come «il Tabernacolo».
Ah, j éra una fameia! U j éra la Tonina, l’Arnestina, l’Ìnes, la Palina, la Rufilla, e l’Irma... cvânti
a n’òia cuntê? Si? Toti surëli. E pu u j éra un fradël, Lino, j éra sól du fradel e’ rëst agli éra toti
fèman. E pu u j éra su pê e su mê, a là in ste cašiten ch'e’ paréva ch’l’aves da caschê tot i mument.
Erano tanti in famiglia! C'era la Tonina, l'Ernestina, l'Ines, la Palina, la Rufilla e l'Irma... quante ne
ho contate? Sei? Tutte sorelle [di Alfonso] e c'era un fratello, Lino, erano solo due maschi, e poi
tutte femmine. Infine c'erano suo padre e sua madre, là, in questa bicocca, che sembrava dovesse
crollare tutti i momenti (Terzilla Melandri, nata nel 1906).

Mi nunen Funsita u l’à sèmpar det: «A l'sét che me a l’ò rubêda, la Serafina? Ziridön u n’um la
vléva miga dê e ’lóra me a l’ò rubêda: a j ò tôlt la schêla de’ pulér, a l’ò pugêda a la muraia, una
nöt, e la Serafina a m’la so pôrta a ca». E l’è la varitê: lì la scapè insen cun lo. Dop a pôch pu, lo
e’ partè pr’andê int i suldé. E’ nisè Gino, mi marè, ch’l’éra de’ cvèndg. E’ pasa a n’so cvânt, e lì la
ciapè la spagnôla (l’éra pu fura la spagnôla e’ temp dla gvëra). La ciapè la spagnôla e ’lóra u n’i
fo gnit da fê. I mandè a ciamê su marè, i scrivè a e’ Regiment s’i l’mandéva a ca che su muiér la
stašéva par murì. Coma difati i l’mânda a ca. E’ ’riva a ca, i i diš: «Tu muiér, diš, l’è ’ là ch’i la
sples». E ’lóra lo u s’aviè a la longa dl’êržan e pu e’ ciaméva sèmpar: «Fina, Fina, Fina!» intânt
ch’e’ ’rivet a là int e’ zimitiri a Lavžôla, ch’j éra a là chi la spléva.
Mio nonno Funsita l'ha sempre detto: «Sapete? Io l'ho rapita, la Serafina! Ziridön non voleva mica
darmela e allora io l'ho rapita: ho preso la scala del pollaio, l'ho appoggiata alla parete della casa,
una notte, e la Serafina, l'ho portata a casa mia». Ed è la verità: lei fuggì con lui! Poco tempo dopo,
lui partì soldato. E intanto nacque Gino, mio marito, che era del 1915. Passò ancora qualche tempo
e lei si ammalò di spagnola (al tempo della guerra si era diffusa la spagnola). Ebbene lei si ammalò
e non ci fu niente da fare. Mandarono a chiamare il marito, scrissero al Reggimento se lo
mandavano a casa che sua moglie stava per morire. E infatti lo mandarono a casa. Arriva a casa e
gli dicono: «Tua moglie la stanno seppellendo». E allora si avviò lungo l'argine chiamandola:
«Fina! Fina! Fina!» finché non arrivò al
cimitero di Lavezzola, che la stavano
mettendo sotto terra (Elena Rubbi, moglie di
Gino Landi).
Che dè ch'a la splesmi, l'éra un bël dè com
incù, un sól pulì! Mentar che nó a la purtimi
a e' zimitiri, d'a là in do' ch'la stašéva lì, a
là sot'a Po, Alfunsita e' vnéva a ca in treno.
Cvânt ch'e' fo a e' Pont ad Fër, che e' treno
cvânt ch'u s'avšena a la stazion e' ralenta,
lo e' saltè žo... i’ stašéva sòbit a lè… da la
feroveia a ca su u i géva rës… u j éra
pôch... E 'lóra: «E' 'riva Funsita, e' 'riva
Funsita!». Mo, la pureta, a s'simia ža infilé
par la strê ch'a la cumpagnimia ' e' zimitiri.
Il giorno del funerale, era una bella
giornata come oggi, un sole terso! Mentre
noi l'accompagnavamo al cimitero, partendo
di là dove abitava, sotto l'argine del Reno,
Alfunsita arrivava a casa in treno. Quando
fu sul Ponte di Ferro, che il treno
avvicinandosi alla stazione [di Lavezzola]
rallenta, saltò giù... abitava subito lì, dalla
ferrovia a casa sua ci sarà stato... c'era
Serafina Bartolini con il figlio Gino Landi, rispettivamente figlia e
poco... E allora: «Arriva Funsita! Arriva nipote di Ziridön, archivio familiare di Gabriella Verlicchi Landi
Funsita!». Ma lei, poveretta, il corteo si era (Lavezzola).
già mosso, era già sulla strada (Terzilla
Melandri).
Serafina, morta nel marzo 1919, lasciava un figlio di tre anni, Gino (1915-1969), che fu cresciuto
dal padre e dai nonni paterni.

Il Lunedì di Pasqua

Nel periodo in cui Ziridön ha abitato in via Lombardina, cioè dal 1917 al 1941, anno in cui si
trasferì a Consandolo con la seconda moglie, persino la tradizionale festa paesana, e’ Lonn dal Fëst,
il Lunedì dell’Angelo, era legata al suo nome.

E’ Lonn dal Fëst u s’ardušéva tânta žent dri a la Lumbardena: la n’éra briša una fësta parchè u
ngn’éra gnit: la fësta l’éra andê a vdé la ca d’Ziridön. E lo e’ mitéva una bota d’ven so ins la pôrta
e pu chi ch’avléva bé e’ dbéva.
Il Lunedì dell'Angelo la gente si dava convegno alla Lombardina: non era propriamente una festa
perché non c'era niente: la festa consisteva nell'andare a vedere la casa di Ziridön. E lui metteva una
botte di vino sulla porta d'ingresso dalla strada al cortile e chi voleva bere beveva (Iris Federici,
cugina di Gino Landi).

Fra le attrattive per i visitatori, oltre alla casa addobbata come sappiamo (però, per l'occasione,
assumeva il nome pomposo di «Villa Bartolini»), c’era quello che Ziridön chiamava «il castello
incantato» (Cico diceva: «il castello incantante»), una specie di torre rudimentale realizzata
interamente con materiali di recupero. Il tetto, per esempio, era formato dalle barche del
traghettatore di Passogatto, che erano state abbandonate perché vecchie e ormai inservibili.
L’avéva fat un castël, coma cvi ch’drôva i muradur: tot pél. U l’avéva intlarê bèn ben e pu
d’atóran u j avéva ingiudê dal lat: l’avéva tôlt di bidon e pu u j avéva taié. Al bêrch, pu, u gli’avéva
vôlti a cul élt e pu al fašéva da cruvidur. U s’in sarvéva coma d’un capânn che sota u i mitéva pu la
bröza, un pô d’švérna par la mola e tot i su cvel.
Aveva costruito un "castello", come i ponteggi dei muratori: un traliccio di pali. Aveva fatto prima
la struttura portante e su questa aveva poi fissato, coi chiodi, delle lamiere stagnate ottenute
tagliando dei bidoni di latta. Le barche le aveva capovolte e facevano da tetto. Se ne serviva da
capanno, ci teneva il biroccio, il foraggio per la mula e i suoi attrezzi (Gildo Seganti).

«Mo, Bartolini, cosa servono quelle barche là?»


«Non si può mai sapere: può anche venire il deluvio…»
(Pasquino Ferraresi, Pascven d’Bicon, nato nel 1899 a Voltana)*.

Int e’ curtil u j éra d’ingambarlês: e’ purtéva a ca, d’int e’ zimitiri, dal cróš e dal garlând ad fër
che cvânt ch’agli éra vëci u s’véd che e’ custôdi u li butéva d’ cva da la mura e ’lóra lo u li tuléva
so: u gli atachéva a la muraia o si nö u li sparguiéva indipartot tórn’a ca.
Nel cortile si andava sempre a rischio di inciampare: portava a casa, dal cimitero, croci, ghirlande
di ferro: si vede che il custode, quando erano ormai vecchie, le gettava al di qua del muro di cinta e
lui le recuperava, le appendeva alle pareti esterne della casa oppure le disseminava qua e là (Gildo
Seganti).

E’ dè dla fësta e’ dašéva da bé a tot. E’ fašéva de’ clinto. I vô dì ch’e’ fos bon (me a n’l’ò mai
sintù). Mo un ânn i i fašè un spët: i i cavè la canëla d’int la bota, u j andè veia tot e’ ven. L’ânn
dop, tri dè prema, e’ ndè a tu di spen d’gata e pu e’ mitè un pêl long a travérs dla pôrta e pu u i
lighè sti spen d’gata tot d’atóran con de’ curdon e de’ fil fër. E cvânt ch’e’ vens e’ dè dla fësta, la
žent i spasigéva d’in cva e d’in là, i l’ciaméva: «Bartolini! Bartolini!…». Mo lo u s’srè in ca, e u
n’dašè e’ pasag a ’ ncion.
Il giorno della festa offriva da bere a tutti. Faceva del clinton. Dicono che fosse anche buono (io
non l'ho mai assaggiato). Un anno però gli fecero un dispetto: strapparono la cannella dalla botte
cosicché ne uscì tutto il vino. L'anno seguente, tre giorni prima [del Lunedì dell'Angelo] andò a
raccogliere delle ramaglie di marruca e le legò, con dello spago e del fil di ferro, a un palo messo
orizzontalmente per impedire l'accesso al cortile. E quando arrivò il giorno della festa la gente
gironzolava in su e in giù per la strada e lo chiamava: «Bartolini! Bartolini!», ma lui si chiuse in
casa e non fece entrare nessuno (Maria Lippi).

"Villa Bartolini": interno

A pian terreno, l’ingresso, con la scala di legno (chiusa in alto da una botola) che dava accesso al
primo piano. Due stanze ai lati: la cucina-camera da pranzo, a destra, e un ambiente di servizio, a
sinistra. Al piano superiore, la camera da letto (da tachêi i blëch u j avéva una cróš d'fër de' zimitiri,
l'attaccapanni era una croce di ferro del cimitero), e un ripostiglio, che a lè pu u i tnéva dal caset
cun al còcal, al nëspal, al mél, dove teneva le cassette con le noci, le nespole, le mele.
La variante più vistosa rispetto a questa tradizionale distribuzione degli spazi era costituita
dall’ingresso adibito a stalla. Insomma, entrando ci si imbatteva nella mula, che alloggiava nel
sottoscala. Sembra che Ziridön pulisse di rado la posta della mula. E siccome i fatti, passando di
bocca in bocca tendono a ingigantire, c’è chi afferma addirittura (ma è troppo bello!) che la mula
troneggiasse su un alto strato di paglia e di sterco fino a toccare con le orecchie il soffitto…
Nella cucina-camera da pranzo, in ca, c’era il camino, pochi mobili, la tavola, una madia, qualche
sedia e un’infinità di oggetti di difficile catalogazione.
Me a séra una babena e mi mê, la dmènga, la m’dgéva: «Vèn ch’anden a truvê Ziridön».
A j andimi spes. E lo u’s’fašéva un invid! A m'arculd che cvânt ch’a j andimi l’avéva sèmpar j
alven fët: u s’dašéva j alven e pu u s’dašéva da bé. L’avéva i bichir de’ càliz, mo e’ pe, e’ piatlen
tciota, u ugn’éra piò, u j éra avânz sól e’ gambon, dgen acsè. E lo l’avéva fat tot bušanen int la
têvla d’infilêi i bichir. J éra instech int la têvla. E me a m’arculd che cvânt ch’u s’dašéva da bé, nó
avimi da tu so i bichir d’int e’ buš, e pu infilêi dèntar nenca. Me, una vôlta, a n’infilè briša e’ buš, u
s’s-ciantè e’ bichir. E lo e’ dge: «Ah, purena! L’è l’istes! A n’ò, me, di bichir!». U n’avéva un
stéša, tot vult a bas, parché i n’stašéva miga dret.
Io ero una bambina e mia madre [una sorella di Alfonso Landi], la domenica, mi diceva: «Vieni
che andiamo a trovare Ziridön». Ci andavamo spesso e lui ci faceva un'accoglienza! Mi ricordo che
quando gli facevano visita aveva sempre i lupini pronti: ci offriva i lupini e ci offriva da bere.
Aveva bicchieri a calice, ma senza piedistallo, solo con lo stelo. E aveva fatto dei buchi nel piano
della tavola per infilarci dentro gli steli. I bicchieri rimanevano così piantati nella tavola. E io mi
ricordo che quando ci offriva da bere, noi dovevamo estrarre i bicchieri dal loro foro e poi tornare a
infilarli dentro. Io una volta non centrai il buco e il bicchiere cadde e si ruppe. E lui disse: «Non fa
niente! Ne ho io di bicchieri!». E infatti ne aveva una distesa, tutti voltati in basso perché non
stavano in piedi (Iris Federici).

Sot’a la têvla: toti böci, toti böci, di paniron pi d’böci. U i laséva sól e’ pöst da metji al gâmb a la
Terešina. In do' ch’e’ magnéva lo, e’ šlarghéva al gâmb acsè d’cva e d’là. Un šgumbei indipartot!
E la Terešina la i dgéva: «Su Pê, mo mitì un pô a pöst a lè ch’u s’pësa!». «Chi ch’à da pasê? Basta
ch’a pasiva vo, me a pës indipartot, se mai a cavêl!»
Sotto la tavola: tutte bottiglie, tutte bottiglie, delle gerle piene di bottiglie. Lasciava libero solo lo
spazio strettamente necessario per le gambe di Teresina, perché dove mangiava lui, allargava le
gambe così, una di qua e una di là. Uno scompiglio dappertutto! E la Teresina gli diceva: «Suo
Padre, mettete un po' di ordine, in modo che si possa almeno passare!». «Chi deve passare? È
sufficiente che passiate voi, io passo dappertutto, caso mai scavalco» (Maria Lippi).

E’ cavéva un êlbar? U l’turnéva a mètar int e’ buš, cun al cavës tciota e al radiš a l’élta parchè
ch’al s'sches. E pu d’invéran: «Oh adës, Su Mê, impien e’ fugh.» U l’inviéva cun du tri bachet e pu
e’ ndéva a tu un êlbar e u l’instichéva sot’a e’ camen e pu u i dašéva fugh. «Su Pê, mo e’ fa un
fumaz a là, che cvël!» «A j apens me.» E’ ndéva a tu una secia pina d’acqua e la mescla e pu e’
bagnéva e’ cô ch’e vnéva fura d'e’ camen: e’ tnéva ardot e’ fugh! E' fašéva di cvel ch’u n’i fašéva
ancion!
Cavava un albero? Lo rimetteva nel buco, capovolto, con le diramazioni del tronco in basso e le
radici in alto perché si seccassero. E poi d'inverno: «Oh, adesso, Sua Madre, accendiamo il fuoco».
Lo avviava con qualche rametto sottile e poi andava a prendere un albero intero, lo spingeva a forza
sotto la cappa del camino e gli appiccava il fuoco. «Suo Padre, fa un fumo, quel coso là!» «Ci penso
io.» Andava a prendere un secchio pieno d'acqua e il mestolo e poi bagnava la parte che sporgeva
dal camino: in questo modo teneva circoscritto il fuoco! Faceva delle cose che non faceva nessun
altro (Maria Lippi).

La scuderia

Dato che sot’a e’ pordigh u j avéva la mola, par signêl, sóra a l’os d’fura, u j avéva mes una tësta
d’caval, siccome nell'ingresso alloggiava la mula, come contrassegno sull'architrave della porta
esterna aveva appeso un cranio di cavallo. «Be’-mo, Fita, cus ël che lavór ch’a lè? Beh, Fita! E
questo che cosa ci sta a fare?» «Ah, dentro c’è la mula! Significa: SCODERIA» (Maria Lippi).

«Quando eravamo bambini ci mostrava tutte queste cose appese alla facciata della sua casa e
arrivato alla testa di questo animale, diceva: "Bevi, Rosmunda, nel teschio di tuo padre!" A ogni
oggetto dava un significato. Ci raccontava la storia, a modo suo» (Fabia Lanconelli).
Su muiér, la Terešina, la lavuréva da sêrta e mi mê la s’fašéva cušì dal giach, di bragon par nó
tabëch. Alóra andimi a là, ch’la s’i mitéva da prôva. «Venite, venite!» la s’ciaméva int l’intrêda. U
ngn’éra miga la salghê, u j éra la tëra batuda e sta mola a lè par dri…
Sua moglie, la Teresina, faceva la sarta e mia madre si faceva cucire da lei giacche e pantaloni per
noi ragazzi. Andavamo a casa sua per farli mettere in prova. «Venite, venite!» ci faceva entrare
nell'ingresso. Non c'era il pavimento, solo la terra battuta e questa mula nel sottoscala... (Ido
Lanconelli).

E cvânt ch’andimi a truvêl a ca su, me cun e’ pôvar Nadêl, lo e’ dgéva cun la mola, e quando
andavamo a trovarlo, io e il povero Natale, diceva alla mula: «Ritirati, Nina, che abbiamo degli
ospiti» (Pasquino Ferraresi)*.

Una vôlta a m’arculd ch’u s’éra amalê e ’lóra e’ diš cun me (che me a j andéva spes cun mi mê ):
«Ció, Àmos, a n’stëgh briša tânt ben. Dmân vèn ben in cva cun Gino: a j ò che pô d’fen a lè
d’ardùšar, d’cva e d’là da la strê!».
«Va ben degh, a vnirò.»
Alóra anden in là, me e mi cušen Gino. E’ tira fura la bröza: l’avéva una bröza cun cal rôd élti,
d’cal bröz militêri ch’ u j éra incóra scret in so «37° Reggimento» e pu sota u j éra un campanaz
acsè: dlin dlon… dlin dlon. (Adës degh, cvânt ch’anden in là par la strê cun sta cvëla ch’a cve, la
žent i dirà-pu: mo chi ëi chi du ch’a lè?)
«Avnìn-mo ’ cva, tabëch!»
E pu e’ tira fora la mola. Cvânt ch’u la druvéva lo, u n’i mitéva miga la breia, u i mitéva sól la
caveza. «E pu a vit? La n’fa miga gnit, veh! Basta t’a n’i véga da dnenz.»
E ’lóra a s’infilen par la strê: mi cušen Gino so ins la bröza e me in tëra a boti so. E pu avéva da
mandêr avânti la mola, e Gino ch’u s’aracmandéva: «T’a n’i véga miga par dnenz!».
D’a lè pët a ca su, arivesmi insèna a la Ciribëla e pu a turnesmi in dri. Par pêga, u s’dašè sët o öt
milachen pr on e dal còcal.
Una volta mi ricordo che Ziridön era ammalato e allora mi dice (ci andavo spesso da lui con mia
madre [Terzilla, figlia di Teresina]: «Senti, Amos, io non sto tanto bene. Domani vieni qua con
Gino [Gino Landi, figlio di Serafina]: c'è quel po' di fieno da raccogliere, ai lati della strada» «Va
bene, vengo.»
Allora andiamo là, io e mio cugino Gino. Ziridön mette fuori il biroccio: aveva un biroccio con
quelle ruote alte, di quei birocci militari su cui si leggeva ancora la scritta "37° Reggimento" e sotto
c'era un campanaccio così: dlin dlon... dlin dlon! (Quando ci mettiamo per strada, pensavo io, chi ci
vede dirà: e quei due lì chi sono?)
«Venite qui, ragazzi!» E poi mette fuori anche la mula. Quando se ne serviva lui, non le metteva la
briglia, ma solo la cavezza. «E poi, vedi? Non fa mica niente! Basta non andarle davanti [se no si
adombra]». E allora ci infiliamo per la strada, mio cugino sul biroccio e io a piedi per caricare il
fieno. E poi dovevo mandare avanti la mula e si raccomandava: «Mica andarle davanti, eh!». Di lì,
da casa sua, arrivammo fino a Ciribella e poi tornammo indietro. Per paga ci diede sette otto meline
ciascuno e delle noci (Angelo, detto Amos, Belenghi).

A lè a e’ Pas de’ Gat, u j éra e’ pas: u j éra di sës tciota de’ fion, e cvânt ch’ u ngn’éra la
fiumâna, i paséva d’a lè. E’ Ziridön e’ pasè d’a lè cun la bröza e la mola: in sti sës, cun la
campâna, do-do-dlón… do-do-dlón… do-do-dlón!… A lè pôch luntân u j éra la Möra d’Vizinzet
ch’la lavéva di blëch e ’lóra lì la i des: «Mo Bartolini! Quella campana suona sempre!?».
E lo u s’i vultè e pu u i des: «La vostra non suona quando ci arriva il batocchio?».
A Passogatto, c'era il guado: dei sassi sul letto del fiume e, quando non c'era la piena, si passava di
lì [altrimenti c'era il passatore che faceva traghettare]. E Ziridön si trovò a passare di lì con il
biroccio e la mula: sui sassi, la campana do-do-dlón… do-do-dlón… do-do-dlón!… Lì, poco distante
c'era la Möra d’Vizinzet che lavava i panni nel fiume e gli disse. «Bartolini! Quella campana suona
sempre!?». Lui le si volse con queste parole: «La vostra non suona quando ci arriva il batocchio?»
(Pasquino Ferraresi)*.

Giuseppe Bartolini di professione...

Nessuno ha saputo dirmi che lavoro specifico facesse Ziridön.


E’ mandéva avânti ste sidaren, mandava avanti questo suo poderino, e pu u s’inžignéva, e’
tramischéva… e poi si dava da fare, trafficava.... Soprattutto falciava l’erba lungo i fossi, per farne
scorta: in questa attività tutti lo ricordano.

E’ šghéva l’érba dri i fos, u l’ardušéva e pu e’ fašéva di paìr tórn’a ca, tot sti paìr ch’j sté a lè èn
e èn… Me dal vôlt a j andéva ’ aiutê: che pu u j éra d’ignacôsa stra, u j éra dal raž, dal cânn,
d’ignacôsa, e me a j dgéva: «Mo parchè aviv bšogn ad tni da cont tota sta röba ch’a cve?» E lo e’
dgéva: «Te, puren, tci incóra žóvan, t’an pu capì: e’ ven pu l’ânn dla criši, che e’ fa bon nench
cvesta…».
Falciava l'erba lungo i fossi, la raccoglieva e costruiva dei pagliai a casa sua, tutti questi pagliai
che sono rimasti lì anni e anni... Io a volte andavo ad aiutarlo: insieme con l'erba c'era di tutto, dei
rovi, delle canne, di tutto e io gli chiedevo: «Ma si può sapere che bisogno c'è di conservare tutta
questa roba!?». «Tu, ragazzo mio, sei troppo giovane, non puoi capire. Viene poi l'anno della crisi e
allora anche questa roba servirà» (Gildo Seganti).

D’istê l’andéva a šghê, nud da tciota (u n’ li purtéva miga al mudânn), sól cun sta tònga… mo la
tònga u la btunéva sól un pô 'csè, sti du tri ’ bton a cve… dop, int e’ šghê, la stanëla la vuléva e u
s’j avdéva tot i campanel! L’éra un ridècul! O si nö l’éra bon d’andêr ins un êlbar a còiar dal zriž,
miten, o a la veta de’ scalon, e la Terešina, la pureta, la i dgéva: «Bartolini, avnìn žo d’a là, ch’a
mustrì ignacôsa! Adës ch’e’ pasa i tabëch ch’ i ven a ca da scôla! U n’sta briša ben!»
D'estate andava a falciare, nudo sotto la tunica (non le portava mica, le mutande), ma la tonaca
l'abbottonava solo un po', così come veniva, i primi due tre bottoni qui... e, mentre falciava, la
sottana svolazzava e metteva in mostra tutti i campanelli! Era ridicolo! Oppure saliva su un albero a
raccogliere, mettiamo, le ciliege, o in cima alla scala a tre piedi, e la Teresina, poveretta, gli diceva:
«Bartolini, venite giù, che mostrate tutto! Fra poco passano i bambini che vengono a casa da scuola,
non sta bene!» (Maria Lippi).

Lo l’andéva senza mudânn, acsè, l’avéva sól la stanëla e 'lóra e' šghéva dri e' scól e l’avéva e' su
bagai ch’ u i scuséva. E 'lóra i piò ardì ch’i paséva d'a lè, i i dgéva, non portava le mutande, ma
solo la sottana e così, quando falciava, l'arnese ciondolava. E allora i più ardimentosi, che
passavano di lì, gli dicevano: «Pendola! Pendola, Bartolini!».
«Pendola, ma non cade!» u j arspundéva lo, era la sua risposta (Luigia Taroni, moglie di Fausto
Andraghetti)*.

In uno «Stato delle anime» della parrocchia di San Bernardino (registro in cui sono elencati, strada
per strada, tutti gli abitanti della parrocchia) compilato intorno alla metà degli anni Venti, alla voce
«Professione e condizione», di Giuseppe Bartolini è scritto: birocciaio.
Nella scheda dell’anagrafe di Lugo si legge: colono.
In quella del Municipio di Argenta: operaio.
Nell’atto di matrimonio con la seconda moglie (11 luglio 1940): possidente.
Rapporti di buon vicinato

Piò che êtr e' batéva a ca d'Per e a ca d'Campadël, a lè d'front, per lo più frequentava la casa dei
Ricci (la famosa casa di nonno Tranquillo) e la casa dei Sangiorgi, dirimpettai.

«Arrivava Ziridön con le gambe bianche di calce. Cioè si cospargeva le gambe di calce. "Perché
così" diceva "le pulci si vedono meglio" (Liliana Ricci, nata nel 1925, cugina della scrittrice
Giovanna Righini Ricci).

I Sangiorgi abitavano in via Lombardina numero 7, in una delle cosiddette "case rosse", perché
tinteggiate di rosso, che contrassegnavano i poderi di don Evaristo Venturini, e’ prit d’Sant’Ëral, il
prete di Sant’Èllero (di Sant’Ílaro, patrono di Lugo, venerato nella Chiesa del Carmine).

Nó a simi cvési in pët a la ca d’Ziridon: lo l’éra d’là da la strê e nó a simi da d’cva. Me a séra un
tabachì, mo parò a l’ò int la ment, Ziridön: e’ vnéva a treb int la stala, la séra, cun al stanël; u j
éra mi pê, mi mê e nó tabëch e lo e’ stašéva a lè in cumpagneia, l’avéva un pöst da par lo parchè...
mi mê, la pureta, la dgéva: «Diš adës a cve cum fašegna?», parchè l’avéva un zért fiê dri… lo u
s’mitéva ben d’un cânt... parchè u i piašéva d’fumê, e' fuméva la pepa e 'lóra pr an dê fastidi a
'ncion u s’ašluntanéva un pô, mo e' fiê u s'sintéva l'istes. E scuréva ch’l’éra stê a Lugh, e ’csè,
parchè lo e’ mìrcval e’ ‘ndéva sèmpr a Lugh.
Noi eravamo quasi dirimpettai: Ziridon abitava di là dalla strada e noi di qua. Ero un bambino, ma
lo ricordo, Ziridön: veniva da noi nella stalla, la sera a trebbo, con la sua sottana; eravamo mio
padre, mia madre e noi bambini, e lui stava lì in compagnia, ma aveva un posto riservato perché... la
mia povera mamma diceva: «Adesso come dobbiamo fare?», perché mandava un certo cattivo
odore, si metteva sì in disparte, perché gli piaceva fumare, fumava la pipa e allora, per non dare
fastidio a nessuno, si allontanava un po', ma il cattivo odore si sentiva lo stesso (Valter Silvio
Sangiorgi, nato nel 1927).

Int e’ su curtil u j éra un tavlon d’mêrum che a lè u i tnéva e’ cvël de’ lat, una tegia a n'e' so, che
mi mê la i purtéva e' lat la séra, e lo e’ paghéva méš par méš. Nel suo cortile c'era un tavolo di
marmo dove teneva un recipiente per il latte, una tegame forse: mia madre gli portava il latte, la
sera, e lui lo pagava mese per mese (Valter Silvio Sangiorgi; la famiglia Sangiorgi si trasferì a
Bizzuno nel 1936).

L’invito a cena

L’avéva un stòngh ch’e’ magnéva d’ignacôsa. E’ magnéva di ghët, e’ magnéva di sorgh, e’


magnéva dal bes. Aveva uno stomaco di ferro, mangiava di tutto. Mangiava gatti, topi, bisce.
Questo, almeno, è quel che si dice.

«Adës, Su Mê, e’ bšogna ch’a mazegna dal galenn, par st’invéran.»


E ’lóra e’ tiréva un fil e pu u li tachéva, mëza par mëza, töch par töch, a ste fil; e pu u i dašéva
de’ sól insèna ch’agli éra sechi e pu dop u li mitéva int un sach e i s’li magnéva d’invéran.
«Oh, Sua Madre, è ora che ammazziamo i polli per l'inverno.» Tirava un filo nel cortile e poi
appendeva i polli tagliati a metà, pezzo per pezzo, a questo filo; li lasciava esposti al sole finché non
si seccavano e poi li riponeva in un sacco e li mangiavano durante l'inverno (Maria Lippi).

Alóra e’ ven ch’e’ môr e’ cân d’Lòngh.


E ’lóra Ziridön e’ diš cun i su amigh:
«A voi fêr una zena. A vniv?»
«Sé sé, a vnen.»
E ’lóra Ziridön e’ met so ste cân cun i su udur. Cuš, cuš, mo i diš che e’ cân u n’cuš briša, o si nö
l’armasta dur.
E’ riva j amigh, i s’met a magnê. (Alóra u n’i duvéva rësar sól Ziridön ch’magnéva mêl, u
ngn’avéva da rësar nench dj étar.) I i tiréva in dèntar, i curtel ža i n’taiéva gnit parché e’ rudaren i
n’ l’avdéva mai, e ’lóra dài, dài, mo i n’éra bon ad fê strê.
«Mo, Madöna diš! L’è möt dura, sta chêran! Cus ëla?»
«Oh! È capretto di montagna!»
«Capretto di montagna?!»
«Sì! Me l’ha dato un cacciatore.»
Cvânt ch’j à finì d’magnê, una rišêda! Una rišêda! E pu e’diš, Ziridön: «Cànum nöster cöt int e’
fóran!»
Ôhi, alóra a simi piò ignurent, a n’e’ so s’i l’épa capì, mo lo u j a’ des in laten.
Succede che muore il cane degli Amadei. Allora Ziridön invita a cena gli amici. «Ho intenzione di
fare una cena. Venite?» «Sì sì, veniamo.» E allora Ziridön mette a cuocere questo cane con i suoi
odori. Cuoci cuoci, ma dicono che la carne di cane non cuoce mai o comunque rimane dura.
Arrivano gli amici e si mettono a mangiare. (Allora non ci doveva essere solo Ziridön che mangiava
male, ce ne dovevano essere parecchi). Tiravano, tiravano, i coltelli già non tagliavano perché
l'arrotino non passava mai, e allora dai dai, non riuscivano ad averla vinta: «Caspita, questa carne! È
dura ma cos'è?» «Capretto di montagna.» [Il cane era un alano.] «Capretto di montagna?!» «Sì, me
lo ha dato un cacciatore.» Quando ebbero finito di mangiare, una risata! Una risata! E poi dice:
«Cànum nöster cotto al forno!» Allora eravamo più ignoranti di adesso, non so se lo capissero, ma
lui glielo disse in latino (Maria Lippi).

La vóš de’ cân la vens cvânt ch’e’ šbagaiè d’a là d'là da Po, ch’e’ stašéva ’ al Ca Salvêdi e ’lóra
la žent d’a là i j aiutè e lo e’ fašè e dšnê de’ šbagai. Dop a n’so cvent dè, la žent d’a lè i suspitè
d’avé magnê de’ cân: i s’impresiunè parchè u ngn’éra ch’i n’stašéva briša ben e i tachè a dì ch’j
avéva magnê de’ cân, parò i n’éra sicur anson. Lo e’ badéva a dì «un capretto, un capretto…», mo
ló i s’impresiunè e i mitè fura la ciacra. Me a n’e’ so pu… Fat stà che un dè e’ fatór dla tnuda
Marcóni a Sa' Banarden, u i des: «Bartolini, si vocifera che lei mangia anche del cane!». E lo, a
l'sét cus ch’u i des? «Meglio mangiare del cane, che mangiare addosso agli altri.»
La diceria del cane nacque quando fece il trasloco da Case Selvatiche e offrì a quelli del posto che
lo avevano aiutato il "pranzo del trasloco". Dopo qualche giorno, gli invitati cominciarono a
sospettare di aver mangiato del cane. Furono suggestionati dal fatto che qualcuno di loro non si era
sentito bene e misero in giro la voce che avevano mangiato del cane, però nessuno poteva provarlo.
Lui continuava a dire «un capretto, un capretto...», ma loro si erano fatti prendere dalla suggestione
e la chiacchiera prese piede. Io non so poi... Fatto sta che un giorno il fattore della tenuta Marconi di
San Bernardino gli disse: «Bartolini si vocifera che lei mangia anche del cane!». Lo sai cosa gli
rispose? «Meglio mangiare del cane, che mangiare addosso agli altri» (Pasquino Ferraresi)*.

In caserma

Il fratello Gregorio, celibe, era, secondo la testimonianza di Gildo Seganti, «portinaio del
seminario di Monsignor Fioravanti a Ferrara». Cico, fratello di Gildo, diceva, invece: «Era
cocchiere del conte Fioravanti: usciva dal palazzo con quattro cavalli …». E aggiungeva:
«Gregorio, quando faceva le ferie, veniva delle volte a mangiare a casa nostra, alla Lombardina, e
dormire poi, andava a dormire a casa di don Zlì [don Angelo Alpi], perché era di un religioso che
era una cosa da non credere (Cico).

Ziridön andava dunque a Ferrara, in bicicletta, a trovare il fratello, e fu durante uno di questi
viaggi che gli capitò una disavventura da cui uscì brillantemente con una delle sue battute.
L’éra in piaza a Frêra. E ’lóra i carabinir i
véd st’om: mêlmes, cun j urcì, cun
st’umbrëla infilêda int e’ cöl (un’umbrëla
senza cost, senza gnit, sól la téla, cun un buš
int e’ mëž d’infilêi la tësta coma una
mantëla), cun du tri campanen tëch a la
bicicleta, e ’lóra i carabinir i diš: «Mo chi ël
cu ch’a là?». I s’j avšinè e pu i dge:
«Favorisca con noi».
E ’lóra il purtè in cašérma e cvânt ch’e’ fo
a là, e’ marescial u i dge:
«Dove abita?».
«Abito a San Bernardino.»
«Come si chiama?»
«Bartolini Giuseppe.»
Dice: «C’è la caserma a San
Bernardino?».
«Certo.»
E ’lóra i telefonè: «Noi abbiamo trovato un
individuo in queste condizioni, così e così…
Si chiama Bartolini Giuseppe… Avegna da
fidês, avegna da dêi la mola?…»
«Lasciatelo andare. Lasciatelo andare,
perché quello è uno che non fa niente di
male. È una persona che vive così, lo
conosco bene, anzi ci parlo spesso…» Gregorio Bartolini, fratello di Ziridön, archivio familiare di Gabriella
Verlicchi Landi (Lavezzola).
E ’lóra ste marescial, cvânt ch’e’ vdè ch’u
n’éra briša cvel ch’e’ pinséva lo, u i dge:
«Può andare». E pu u l’salutè.
«Lo saluto anch’io» u i fašè Ziridön, e pu u i dge: «I galantuomini escono, e i ladri restano».L’è
una batuda ch’ i l’à sèmpar cuntêda, mo a n’i séra mìga-me ’ là…
Era in piazza a Ferrara. Quando i carabinieri videro quest'uomo: malmesso, con gli orecchini, con
un ombrello infilato nel collo (un ombrello senza stecche, senza niente, solo con la tela e con un
buco nel mezzo per far passare la testa, portato a mo' di mantellina), con due tre campanelli appesi
alla bicicletta, allora i carabinieri si dissero: «Ma chi è quel tipo là?!». Gli si avvicinarono e gli
intimarono: «Favorisca con noi». E lo portarono in caserma e quando fu là il maresciallo gli fece
delle domande.«Dove abita?»
«Abito a San Bernardino.»
«Come si chiama?»
«Bartolini Giuseppe.»
Dice: «C’è la caserma a San Bernardino?».
«Certo.»
Allora telefonarono: «Noi abbiamo trovato un individuo in queste condizioni, così e così... Si
chiama Bartolini Giuseppe... C'è da fidarsi? Dobbiamo rilasciarlo?».
«Lasciatelo andare. Lasciatelo andare, perché quello è uno che non fa niente di male. È una
persona che vive così, lo conosco bene, anzi ci parlo spesso …» Allora il maresciallo, quando si
rese conto che non si trattava della persona che lui sospettava che fosse, gli disse: «Può andare». E
lo salutò.
«Lo saluto anch’io» gli rispose Ziridön, e aggiunse: «I galantuomini escono, e i ladri restano». È
una battuta che hanno sempre citato, ma io non ero mica presente... (Cico Seganti).
Dal barbiere

Il fatto del barbiere, c’è chi l’ambienta a Ferrara e chi ad Argenta, ma nella sostanza non cambia di
molto.

Ziridön l’avéva la bêrba longa, e’ vléva sfês la bêrba. E’ vôlta da un barbir, e pu da un êtar…
«Nö» i i dgéva. «Nö, nö!» Ancion i l’avléva tur in cunsegn.
Fôrza d’dêi, un barbir u i fa la bêrba.
Alóra cvânt ch’l’à finì, «Quanto devo dare?» u i cmânda Ziridön.
«Quello che vuole...»
E ’lóra lo u j n’dašé un bël lavrir (parchè di suld u n’avéva), come par dì: “A cardivi, vó, ch’a fos
un puret! Vadì mo!”.
E ’lóra ló: «Grazie, grazie, signor Bartolini, arrivederci, arrivederci!». (Lo j intindéva: il resto
mancia).
Cvânt ch’u j andè cl’êtra vôlta: «Oh, Bartolini, venga, venga!». I i fašè la su bêrba.
«Signor Bartolini, lei è a posto.»
«Bongiorno.»
«E la paga?»
«L’altra volta non mi avete dato il resto. Ho già pagato.»
Ziridön aveva la barba lunga, voleva farsi radere. Entra da un barbiere, poi da un altro... «No» gli
dicevano. «No no!» Nessuno lo prendeva in consegna. Tenta e ritenta, finalmente uno che accetta di
fargli la barba lo trova. Quando ebbe finito, «Quanto le devo?» chiese Ziridon. «Quello che
vuole...» Allora gli diede una bella somma (perché i soldi non gli mancavano), come per dire:
"Credevate voi che fossi un miserabile! E invece, guardate!". «Grazie! Grazie, signor Bartolini!
Arrivederci, arrivederci!» (Loro, naturalmente, intendevano: il resto mancia). Quando si presentò la
volta dopo: «Oh, Bartolini, venga, venga!». Gli fecero la barba. «Signor Bartolini, lei è a posto.»
«Buongiorno.» «E la paga?» «L'altra volta non mi avete dato il resto. Ho già pagato.» (Maria Lippi)

Secondo un’altra versione, Ziridön avrebbe continuato a servirsi dallo stesso barbiere fino
all’estinzione dell’anticipo versato, u j andè insèna ch’u n’s’fašè a péra. E ’lóra, prema l’éra
“signor Bartolini” e dop u n’fo piò “signor Bartolini”! Ma se prima era "signor Bartolini", dopo
non fu più "signor Bartolini"! (Amos Belenghi).

Nota
* Le testimonianze di Pasquino Ferraresi, Fausto Andraghetti e della moglie Luigia Taroni sono state raccolte da Oliviero
Casella di Voltana verso la metà degli anni Ottanta.
Terza e ultima puntata

Punti di vista

È soprattutto attraverso gli occhi dei bambini che possiamo ricostruire, oggi, la figura di Ziridön, a
quasi sessant’anni dalla scomparsa. Intendo dire che la maggior parte degli informatori di oggi
erano bambini, o ad ogni modo molto giovani, quando lo hanno conosciuto di persona.
Tutto dipende dal punto di vista. Ad un osservatore smaliziato il poderetto di Ziridön poteva
apparire per quello che, forse, effettivamente era: un appezzamento inselvatichito, una sterpaglia,
una boscaglia.

E’ lavuréva che sidaren… che pu lavurê… lavurê par môd d’dì, parchè l’éra tota gramegna, u j
éra du pišgh, ch’j éra d’una raza vëcia d’una vôlta ch’la n’avéva amór nè da te nè da me, di còcal,
cvàtar vid: ona ’ cva, cl’ êtra a là, luntân vent métar… Lavorava quel poderino... che poi lavorare...
lavorare per modo di dire, perché era tutta gramigna, c'erano due peschi, di una qualità vecchia di
una volta che dava frutti insapori, dei noci, quattro viti, una qua, l'altra là a venti metri di distanza...
(Maria Lippi, nata nel 1911).

Ma ad uno sguardo infantile ancora capace di


meraviglia, lo stesso angolo di mondo poteva
anche sembrare qualcosa di simile a un
giardino delle delizie.

«Noi bambini, attraverso i campi, arrivavamo


dietro la sua casa, dove aveva l’orto e il
frutteto. Lì c’era di tutto: c’erano fragole,
cespugli di uvaspina, piselli, alberi da frutta,
prugne … L’avéva tot’ al raza d'frut!… Mo chi
ël ch’avéva al frêgval, alóra? L’uvaspina?
Nessuno» (Dea Masironi, nata nel 1920,
vissuta fino a sei anni nella casa dei nonni
materni, i Marini, i Marinel: si veda cartina,
prima puntata).

Indubbiamente Ziridön deve avere esercitato


una grande attrattiva sui bambini e non è da
escludere che proprio ai piccoli sia stato dato di
cogliere in lui più di quanto i grandi siano
riusciti a capire (è quanto ci suggerisce
Giovanna Righini Ricci, nata nel 1933,
rievocando il personaggio nel suo libro
giustamente più noto, Nel cavo della mano, Disegno di Ugo Marantonio nella prima edizione del libro di
Giovanna Righini Ricci, Nel cavo della mano. La famiglia
prima edizione Bologna, Ponte Nuovo, 1970, romagnola di nonno Tranquillo, Bologna, Ponte Nuovo, 1970, p.
ultima edizione, postuma, Ravenna, Longo, 72 (edizione di 128 pp.).
2003).
La scrittrice deve aver visto in quel suo eccezionale vicino di casa qualcosa del pirata e questa
immagine si deve essere consolidata nella sua mente attraverso il filtro dei romanzi d'avventure. Me
lo fa supporre la licenza poetica del pappagallo: secondo Giovanna Righini Ricci, Ziridön aveva in
casa un pappagallo: «Io ricordo di lei [di Teresina, che però nel libro è chiamata Giorgina] solo una
gran testa di capelli bianchi scarruffati che appariva fuggevolmente nel pertugio della finestra se
qualcuno di noi si avvicinava troppo per curiosare. Subito però si ritraeva, e si sentiva la voce roca
di un pappagallo che si agitava sul trespolo». Qualcosa di piratesco e di mefistofelico insieme
(almeno nell'aspetto esteriore): «Alla cintura portava, legato da una funicella, uno scaldino di
terracotta pieno di brace che avvampava a ogni folata di vento e sembrava animato da una potenza
diabolica: non si spegneva mai!».

Tutti in fila

E’ vnéva so dal Ca Salvêdi, e’ travarséva e’ pont e pu e’ vnéva žo par la Reêla. Nó, alóra, a
stašimi a lè, dri la strê d’Ravèna. Alóra u s’andéva a scôla a pi, e nó andimi a scôla a la Piânta, a
lè prema de' Pont dla Piânta. E’ ’rivéva Ziridön, ch’ l’avéva una campâna tachêda a là d’dri, int al
möl dla sëla dla bicicleta, e pu u s’dgéva: «Venite, venite, bambini, che adesso vi accompagno con
la campanella!». E nó a curimi tot dri a Ziridön e lo e’ sunéva sèmpar la campanëla. A fašimi la
fila… parchè a simi dodg o tredg d’a lè in vôlta ch’andimi a scôla a la Piânta. Cvânt ch’l’éra brot,
dal vôlt, u s’acumpagnéva cun e’ caval, o e’ sumar (a n’m’arculd), mo cvânt ch’l’éra bël e’ vnéva in
bicicleta: e nó a fašimi la fila, com’ agli ucarenn, a la longa dla strê: cvest l’è un particulêr ch’an
m’a’ šmingarò mai ' e’ mond. E cvânt ch’a simi ins e’ Pont dla Piânta, lo e’ turnéva in dri e pu e’
dgéva: «Bambini, adesso state attenti e fate bene!». Int e’ turnêr in dri e’ dgéva cun mi mê: «Le
bambine sono andate a scuola» e pu e’ tiréva d' lòngh.
Veniva su da Case Selvatiche, attraversava il ponte [della Bastia] e scendeva per la Reale [SS 16,
Adriatica]. Noi abitavamo proprio lungo la strada di Ravenna [SS 16]. A quei tempi si andava a
scuola a piedi, andavamo a scuola alla Pianta, prima del Ponte della Pianta. Arrivava Ziridön in
bicicletta, che aveva una campana appesa alle molle della sella, e diceva: «Venite, venite, bambini,
che adesso vi accompagno con la campanella!». E noi tutti a corrergli dietro, a lui che suonava di
continuo, tutti in fila... eravamo infatti dodici, tredici lì nei dintorni che andavamo a scuola alla
Pianta. Quando faceva brutto tempo, delle volte, ci accompagnava con il cavallo, o l'asino che
fosse, ma quando era bel tempo veniva in bicicletta, e noi facevamo la fila, come le ochette, lungo
la strada: è un particolare che non dimenticherò mai e poi mai. E arrivati al Ponte della Pianta, lui
tornava indietro dicendo: «Bambini, adesso state attenti e fate bene!». Sulla via del ritorno,
rassicurava mia madre [sorella di Alfonso Landi]: «Le bambine sono andate a scuola» e riprendeva
la sua strada (Iris Federici, nata nel 1922).

Ciao, bella bimba!

Di mercoledì Ziridön andava a Lugo, al mercato. A San Lorenzo, sulla via Fiumazzo, avveniva il
fuggevole incontro con un bambino paffutello e ben vestito che lo osservava dal giardino di casa
sua: sembrava che si mettesse lì apposta per vederlo passare. Allora Ziridön gli rivolgeva un saluto
bizzarro: «Ciao, bella bimba dalle gambe grosse!». Il bambino, alquanto offeso, scappava in casa a
recriminare con la madre.
L’episodio mi è stato riferito dallo scrittore Gian Ruggero Manzoni, che lo ha sempre sentito
raccontare in casa sua. Il bambino in questione era infatti suo padre, il conte Giovanni (1921-1990),
autore, fra l’altro, di una serie di libri, che tutti abbiamo letto, sui briganti di Romagna. Non posso
fare a meno di dare un seguito alla scenetta, immaginando che il futuro storiografo, vinto dalla
curiosità, si riaffacciasse al cortile, per sogguardare, ancora una volta, corrucciato, l’uomo che
impunemente si allontanava in bicicletta. Forse quelli sono stati gli incontri… con il suo primo
“brigante”.

L’uomo dei gelati

Fernanda Bacchini (nata nel 1930) abitava a Belricetto, in via Olmo, dri e’ Crech, nel borgo
all’incrocio con la via Fiumazzo. «Eravamo tanti bambini. Ci trovavamo tutti lì nel cortile della
casa di mio nonno Giovanni. Il nonno ci diceva: «A m’sfašì e’ curtil!», perché facevamo le buche
per giocare a palline.
Ziridön arrivava dalla via Fiumazzo. Noi
l’aspettavamo. Lui suonava la campanella per
farsi sentire e nó a curimi ins la strê a vdé cvânt
ch’e’ ’rivéva: «E’ ’riva Ziridön, e’ ’riva
Ziridön!».
E noi correvamo sulla strada per vederlo
arrivare, «Arriva Ziridön! Arriva Ziridön!
Stava lì con noi, ma non scendeva dalla
bicicletta, non è mai venuto in casa. Lui stava
bene coi bambini. Si divertiva a suonare, e i
bambini gli andavano dietro. D’estate ci
accompagnava, quando andavamo a bere
l’acqua alla fontana di Belricetto. Prendevamo
da casa, in un cartoccio, la magnesia frizzante,
un bicchiere e un cucchiaio. Alla fontana
c’erano due sedili di pietra. Noi ci mettevamo lì.
Ziridön aspettava che avessimo finito di bere e
poi tornava indietro con noi.
Ricordo questo particolare. Veniva in via
Olmo un gelataio ambulante, di Voltana, e
aveva anche lui la campanella per farsi
annunciare. Veniva lì perché sapeva che c’erano
tanti bambini, ma un giorno le madri si misero
d’accordo tutte insieme e gli dissero di non
venire più, perché i soldi non c’erano per pagare Ziridön visto dall'illustratore Ugo Marantonio in un disegno
il gelato a tutti: dunque era meglio che non della prima edizione del libro di Giovanna Righini Ricci, Nel
cavo della mano. La famiglia romagnola di nonno Tranquillo,
venisse. Be’, Ziridön era soddisfatto di questa Bologna, Ponte Nuovo, 1970, p. 77 (edizione di 128 pp.).
cosa: rimaneva solo lui a suonare la
campanella.»

L’uomo nero

Ma c’era anche chi aveva paura di Ziridön, anche soltanto a passare davanti alla sua casa,
immaginando che ne stesse rintanato là dentro, allo scuro.

I mi i stašéva dri e’ Cararon e i mi nunen, i Cagnon, j avéva la ca a lè a mëz dla Lumbardena.


Donca cvânt ch’andéva da mi nöna e mi nunen, e cvânt ch’a turnéva in dri, avéva da pasê pët a la
ca d’Ziridön. Alóra u ugn’éra miga al luš dri la strê, u ngn’éra miga gnit.
Cvânt ch’a paséva d'a lè, ch’e’ tiréva e’ vent, u s’sintéva din-din-dón… din-din-dón…, parchè
toti stal lat, tot sti goc a là taché a la muraia, cal ghirlând d’fër ch’al šbatéva insen… E me avéva
una raza d’na paura! A m’arculdarò sèmpar: sta ca bura, cun tot sti paìr e stal lat, e me ch’avéva
da pasê d'a lè pr andêm a ca! Cvânt ch’e’ fašéva burasca, stj albarëz! E lo l’éra sèmpar a là in ca,
a e’ bur (e’ dgéva avé una candela s’u l’avéva)… Me pu, ch’avéva paura nench ad dè! Cvânt ch’u
m’avdéva e’ dgéva: «Vuoi venire a casa mia? Stai qui con me, mi fai compagnia». E me a dgéva:
«No no, perché i miei genitori non mi lasciano mica venire». E pu, via, ad córsa!
I miei abitavano lungo la carrara Ghedini, mentre i miei nonni, i Gardini, abitavamo a metà della
via Lombardina. Perciò quando andavo dai nonni, sia all'andata sia al ritorno, dovevo per forza
passare davanti alla casa di Ziridön. A quei tempi le strade non erano mica illuminate... quando
passavo di lì, che tirava il vento, si sentiva din-din-dón… din-din-dón… erano tutte quelle latte e
quei barattoli, attaccati al muro e quelle ghirlande di ferro che sbattevano le une contro le altre... E
io avevo una paura da non dire! Me ne ricorderò sempre: questa casa buia, con tutti questi pagliai e
queste lamiere, e io che dovevo passare di lì per andarmi a casa! Quando faceva burrasca, questi
alberacci! E lui era sempre là in casa, allo scuro, (al lume, forse, di un'unica candela, se l'aveva)... E
io, che avevo paura a passarci persino di giorno! Quando mi vedeva, mi diceva: «Vuoi venire a casa
mia? Stai qui con me, mi fai compagnia». E io: «No no, perché i miei genitori non mi lasciano mica
venire». E via di corsa! (Dina Bagnara, nata nel 1927).
Ma c’era anche chi aveva paura di Ziridön, anche soltanto a passare davanti alla sua casa,
immaginando che ne stesse rintanato là dentro, allo scuro.

Scorrerie

Nei lunghi pomeriggi d’estate, quando i bambini si disperdevano nella campagna o lungo l’argine
del fiume, in cerca di frutta, di bacche, di germogli mangerecci, di nidi e di uova, le bande dei più
intraprendenti facevano incursioni nel poderetto di Ziridön.

Cvânt ch’a simi tabachet, me, Bëlo, Sante, Ghinëli (a simi una scvêdra)… a simi bon d’andêi a
rubê i figh, l’ova… La Terešina la miteva i figh ins una cariôla, a schês a e’ sól, e nó a i purtimi
veia. O si nö andimi a rubêi al còcal (Ziridön u n’avéva tènt, di còcal)…u glj atachéva a la
muraia, int una ré da pes, ch’al ciapes e’ sól, mo u li mitéva in élta, a là všen a e’ curnišon dla ca.
E nó a pasimi d’a lè: «Mo cum a s’fal a ’rivêi?». E ’lóra a lighimi un curtlen a la giugla (andimi
a garavlê, avimi la giugla) e pu a taìmi la ré. Toti stal còcal al caschéva ins al lat! Un arvérs! Mo
la Terešina l’éra sórda, la n’sintéva gnit, la n’s’adašéva briša, la pureta; lo l’éra sèmpar fura
d’ca...
E ’lóra dop l’imparéva, ža, chi ch’éra stê, e ’lóra e’ vnéva a fê rapôrt a mi mê: «Mi han detto che
c’era anche tuo figlio a portarmi via le noci…a fare di questi bei lavori…». Ziridön e’ vnéva spes
int e’ Platei, da mi mê, ch’l’éra su nvóda, e’ vnéva a zarchêm me o mi fradël, o a ‘višê ch’avéva fat
un cvich malèstar.
Quando eravamo ragazzini, io, Clemente Pasotti, Sante Ferri, Domenico Lanconelli (eravamo una
squadra!)... be' poteva capitarci di andargli a rubare i fichi, l'uva... La Teresina metteva i fichi su
una carriola, perché si seccassero al sole, e noi glieli portavamo via. Oppure andavamo a rubargli le
noci (Ziridön aveva tanti noci)... le appendeva in una rete da pesca alla parete che prendessero il
sole, ma in alto vicino al cornicione della casa. Noi passavamo di lì, ma come si fa ad arrivarci?
Allora legavamo un temperino alla pertica che usavamo per raccogliere la frutta rimasta sugli alberi
dopo la raccolta e così tagliavamo la rete. Tutte le noci cadevano giù sulle lamiere! Un frastuono!
Ma la Teresina era sorda, non sentiva, non si accorgeva di niente, poveretta, lui era sempre fuori
casa... Dopo poi finiva per scoprire chi era stato e allora veniva a fare rapporto a mia madre: «Mi
han detto che c’era anche tuo figlio a portarmi via le noci… a fare di questi bei lavori…». Ziridön
veniva spesso nel Borgo da mia madre, che era sua nipote, veniva a cercare di me o di mio fratello o
a comunicare che avevo combinato qualche malestro (Gildo Seganti, nato nel 1923).
Come nelle favole

Terzilla, una delle figlie di Teresina, per divertire i suoi bambini, raccontava loro una storia di
nonno Fita, una storia che pretendeva di essere vera (sarebbe, infatti, successa a Case Selvatiche)
anche se rappresentava una situazione, comica e sadica insieme, che sembra tratta dalla novellistica
popolare.

Cvesta u s’a’ cuntéva sèmpar mi mê, ch’a ridimi tânt!


Una vôlta mi nunen e’ ’ndè ’ là d’dri a fêr i su bšogn, dri a un capânn o dri a un paiér, parchè
alóra i gabinet i ngn’éra briša, u s’fašéva acsè. Cvomo, e’ ’ndè a finì so ins un nid ad vësp (adës u
s’in véd pôchi, mo una vôlta u j éra ad cal vësp ch’agli andéva sota tëra, ch’agli éra cativi!). Ben,
insoma, u s’j ataca sët öt vësp a e’ cul. E ’lóra via, e’ taca a còrar! E’ curéva tórn a ca e pu e
dgéva: «Su Mê, aiutim! Aiutim, Su Mê!» Mi nöna la s’fašè ins l’os cun la garnê int al mân, e cvânt
ch’u i paséva da dnenz, cun la garnê, la i dašéva una šgarnadlê ins e’ cul! Insèna che lo u n’andè a
metr e’ cul a möl int e’ puzet négar di purch. A là, cun e’ cul a möl!… E me e mi surëla a ridimi!
Questa ce la raccontava sempre mia madre, e ci faceva ridere tanto! Dunque una volta il nonno era
andato dietro casa per fare i suoi bisogni, al riparo di un capanno o di un pagliaio, perché a quei
tempi i gabinetti non c'erano, e usava così. Senonché andò proprio a mettersi sopra un nido di vespe
(ai giorni nostri se ne vedono poche, ormai, ma una volta c'erano queste vespe, di una specie che
scavava delle gallerie sotto terra, ma erano feroci!) Be' gli si attaccano sette otto vespe al sedere. E
allora, via! Incomincia a correre! Faceva di corsa il giro della casa e chiedeva soccorso: «Sua
Madre, aiutatemi! Aiutatemi, Sua Madre!». La nonna si fece sull'uscio brandendo la scopa e quando
gli veniva a tiro gli assestava un colpo di scopa sulle natiche! Finché non andò a mettere la parte
dolorante nel pozzetto nero del porcile, in cerca di refrigerio. Là, a mollo! Ah!... E io e mia sorella
ci divertivamo un mondo. (Amos Belenghi, nato nel 1923).

Verso l’epilogo

Morta la moglie Teresina, nel 1939, come sappiamo, Giuseppe Bartolini rimase solo, nella casa di
via Lombardina. Forse sentiva la solitudine, forse non era poi così selvatico, come sembrava. Allora
cosa fa? Propone al nipote Gino, che stava facendo i preparativi per sposarsi, di andare a vivere da
lui. Si possono facilmente comprendere le reticenze del giovane nipote e soprattutto della
giovanissima fidanzata, che allora aveva diciassette anni, a trasferirsi a casa del nonno.

Cvânt che a s’avimi da maridê, u i dge, a su nvód: «Gino, a vent a stêr a cva cun me?».
«Scultì, nunen, me a vegn… parò e’ bšogna ch’a šmudarnegna tota la ca…»
E lo e’ dge: «Parchè-mo?».
«Be’-mo, a vliv ch’a purta una döna a cvè ch’u j è e’ sumar sot’a la schêla? Mo la n’ven miga,
saviv?»
E ’lóra: «Be’-ben, a t’ò bëla che capì... Mo adës a t’cont un fat. Me diš a cgnuséva una fameia. J
éra tot pulì! Andéva in ca sova, j avéva una pulizeia ch’u s’putéva magnêr in tëra. Ben, cvi j è murt.
Tot. Da la fâm. E me, ch’ a so cios, a so incóra a cve ch’a chemp e pu a végh a žirê par la strê!»
U m’a’ cuntéva mi maré, ste fat ch’a cve…
Quando stavamo per sposarci, disse a suo nipote: «Gino, vieni ad abitare qua con me?».
«Sentite, nonno, io per venire, posso anche venirci... però bisogna che mettiamo a nuovo tutta la
casa...»
E lui disse: «E per quale motivo?».
«Be', per quale motivo, non vorrete che porti mia moglie qui dove c'è l'asino sotto la scala! Non
verrebbe neanche!»
«Ti ho già capito... Ma adesso ti racconto un fatto. Io conoscevo una famiglia di gente che teneva
molto alla pulizia. Andavo a casa loro, avevano una pulizia che si sarebbe potuto mangiare sul
pavimento. Be', quelli sono morti tutti. Di fame. Io invece, che sono sporco, sono ancora di questo
mondo e vado in giro per i fatti miei!» Me lo raccontava mio marito, questo fatto (Elena Rubbi).
Gino sposò Elena Rubbi nel novembre 1940, ma
quel diavolo di Ziridön, l’aveva, per così dire,
battuto sul tempo.

Eloquenza delle date

Infatti l’11 luglio 1940 aveva sposato, in


seconde nozze, Albina Dalla Casa, che tutti
chiamavano l’Umbriléra, l'Ombrellaia, per via del
suo mestiere di riparatrice ambulante di ombrelli.
Nata a Imola nel 1883, e coniugata in prime nozze
con un Castagnoli di Castelguelfo di Bologna, si
era poi trasferita a Lugo, proveniente da Lizzano
Belvedere, nel 1914, vedova con figli. Abitava in
via del Pero. Non sappiamo come si fossero
conosciuti. Lui settantacinque anni, lei
cinquantasette. Nell’atto di matrimonio la sposa
non firma, in quanto «illetterata»: non sapeva
scrivere.
C’è una coincidenza che non può non attirare
l’attenzione. Il testamento olografo di Ziridön,
depositato presso il notaio Ricci Curbastro di
Ziridön a Voltana foto di Francesco Baroncini
Lugo, che aveva lo studio in via Manfredi, porta (archivio Fotocineamatori di Voltana).
la stessa data del matrimonio: 11 luglio 1940.
«S. Bernardino di Lugo lì undici luglio 1940, essendo ancora sano di corpo e di mente con l’aiuto
di Dio, dispongo come appresso: nomino e istituisco eredi universali di tutte le mie sostanze, per
una metà mio nipote Landi Gino nato da mia figlia Serafina e per l’altra metà mia moglie Dalla
Casa Albina fu Giuseppe. Questa è la mia volontà. Bartolini Giuseppe» (Archivio familiare di
Gabriella Verlicchi Landi, Lavezzola)

Vendita della casa di via Lombardina

Questo secondo matrimonio non fu visto di buon occhio dai figli di Teresina, che forse fecero
qualche pressione perché il patrigno traslocasse. Fatto sta che la casa di Via Lombardina venne
messa in vendita e fu acquistata da Fausto Andraghetti (Fasten d’Frulon), che allora abitava alla
Ciribella.

Cvânt ch’a j ò compar me, a cve, lo u n’cmandéva miga. Lo l’éra «erede usufruttuario». La prema
döna la l’avéva las «erede usufruttuario»: basta ch’u n’fos maridê par veia leghêla. Mo lo u s’è
maridè par veia leghêla, e e’ pirdè i diret. Me a j ò stipulê cun si parsonn: ch’j éra pu i fiul o i nvud
dla Terešina. I stašéva a Fil.
A j ò compar de' Cvarânta, a la vžeglia di Sent. I putéva stêi insèna a la fen de’ Cvarânton, mo me
a m’amašè cun lo, a i dašè cvël e a prizipiè a lavurê la tëra, parchè l’era ždöt èn ch’la n’éra stêda
arêda! Ste sidaren a cve, ch’agli è si turnadur, l’éra tot un bösch: cvel che vnéva, e’ vnéva, u j éra
di zriž, u j era tredg còcal… Avet e’ mi dafê.
Int e’ fratemp, pu, lo e’ vindè tota la röba ch’l’avéva ardot torn’a ca. U j éra piò d’nuvânta cvintél
d’védar! L’ùltum cvël, ch’a glj ò fat vèndar me, l’è stê una méda d’fascenn d’ spen biânch, ch’ u j
éra di baston ch’ j éra acsè gros: u la tus e’ furnér dla Ciribëla da scaldêr e’ fóran; u i dašè
dušentzincvânta french. L’è stê l’ùltum cvël ch’l’à vindù. Cvânt pu ch’u s’fot aviê, a m’mitè tórn’a
la ca!… A i mitè una giurnêda sól a pulì l’aldân sota e’ sotschêl: u j éra un finiströt, a l’butéva
fura d’a lè, mo ogni tânt u m’ tuchéva d’andê fura a šbasêr e’ mont ch’l’arivéva pët a la finëstra.
Quando ho comprato io, qui, non era lui il proprietario. Lui era «erede usufruttuario». La prima
moglie l'aveva lasciato erede usufruttuario: a condizione però che non si fosse risposato per via
legale. Ma lui si risposò per via legale e perciò perse il diritto di usufrutto. Io ho stipulato con sei
persone: che erano poi i figli e i nipoti della Teresina [la prima moglie]. Abitavano a Filo. Ho
comprato nel 1940, la vigilia dei Santi. Potevano rimanere nella casa fino a tutto il 1941, ma io mi
accordai con lui, gli diedi qualcosa in più e potei cominciare a lavorare la terra, che da diciott'anni
non vedeva l'aratro! Questo poderino qui, che sono sei tornature, era tutto un bosco: quel che
cresceva cresceva, c'erano dei ciliegi, c'erano tredici noci... Ebbi il mio da fare. Lui, nel frattempo,
vendette tutta la roba che aveva accumulato. C'erano più di novanta quintali di vetro! L'ultima cosa
che gli feci vendere io fu una catasta di rami di biancospino, c'erano dei bastoni grossi così: la
comprò il fornaio di Ciribella da scaldare il forno; gli diede duecentocinquanta lire. È stata l'ultima
cosa che ha venduto. Quando poi se ne fu andato, mi misi a sistemare un po' la casa!... Mi ci volle
una giornata solo a togliere il letame dal sottoscala: c'era una piccola finestra dalla quale lo buttavo
fuori, ma ogni tanto dovevo uscire per abbassare il mucchio quando questo arrivava a livello della
finestra (Fausto Andraghetti)*.

Fausto Andraghetti e sua moglie, Luigia Taroni, la Gigia, furono gli ultimi ad abitare la casa di
Ziridön, abbattuta nel 1966.

Consandolo

Giuseppe Bartolini (che nell’atto di matrimonio era qualificato come «possidente»), si trasferì, il
30 aprile 1941, con la seconda moglie e i figli di lei, in un casamento di sua proprietà, detto «E’
Palaz d’Ziridön», a Consandolo di Ferrara, al Borgo Paglia, via Argine di Primaro. Tcióra da
Cunsândal sòbit, ins la sinestra, sot’a Po. Era un caseggiato di diciotto camere, dicono. Un antico
convento di frati, sembra… E sembra che Ziridön fosse riuscito ad acquistarlo per interessamento e
con l'intermediazione del fratello Gregorio di Ferrara.
L’avéva un fradël a Frêra, ch’l’éra on che cmandéva un pô… aveva un fratello a Ferrara, che un
po' di influenza l'aveva (Fausto Andraghetti).*

«La casa era grande e c’erano degli inquilini, ma lui realizzava poco. Anche perché non la
curava… Lo u n’i fašéva gnit, mo u n’scudéva gnânch la pišon, i cašent i n’paghéva briša. [Non
faceva lavori di manutenzione, ma non riscuoteva neppure l’affitto, perché gli affittuari non
pagavano.] Se si rompeva un vetro, ci metteva una latta… L’inquilino protestava, perché diceva che
con la latta non ci vedeva più! E allora … » (Cico Seganti)

Nella sua nuova residenza, Ziridön riprese a raccogliere i cimeli che già avevano gremito la casa
di via Lombardina.

Vox populi

Cvânt ch’e’ stašéva a Cunsândal, nó a j andimi spes a truvêl: mo lo l’éra žo, l’éra trest; u
s’avdéva ch’e’ sufréva. U s’amalè. Un dè i s’mandè a dì ch’u s’éra taiê e’ cöl cun un rašur.
Nel periodo in cui abitò a Consandolo, noi andavamo spesso a trovarlo: ma era giù di corda, era
triste, sofferente. Si ammalò. Un giorno ci fecero sapere che si era tagliato il collo con un rasoio
(Elena Rubbi).

«Lo portarono all’ospedale di Argenta. Una delle prime a soccorrerlo [si intenda: a fargli visita] fu
mia madre [Giulia Bartolini]. Quando arrivò là, era quasi alla fine, però conosceva ancora. Alóra la
i diš: “Mo ziì, cus a siv andê a cumbinê? Parchè aviv fat un lavór acsè?” [zio, cosa avete
combinato! Perché l'avete fatto?] “Perché mi ero stanco della vita” u i dge lo, [lui le rispose]» (Cico
Seganti).

E’ sreb nench gvarì da la curtlê. Mo lo l’è stê e’ prem ch’l’à fat e’ siöpar dla fâm. Incudè i diš ch’i
fa e’ siöpar dla fâm, mo i n’môr briša! Lo, invézi, e’ vléva murì e l’à šmes d’magnê. Cvela l’è la
môrt ch’à fat lo, parchè ch’i dega cvel chi vô, la žent, mo cvesta ’ cve me a so ch’l’è la varitê.
In realtà sarebbe guarito dalla coltellata. Ma lui è stato il primo che ha fatto lo sciopero della fame.
Oggigiorno dicono che fanno lo sciopero della fame, ma non muoiono! Lui, invece, voleva morire e
smise di mangiare. Quella è la morte che ha fatto lui: possono dire quello che vogliono, la gente, ma
questa io so per certo che è la verità (Fausto Andraghetti)*.

Una vox populi, raccolta a Consandolo, riporta una versione romanzesca. La cognata di Amos
Belenghi mi ha riferito questo scambio di battute intercorso fra lei e con una casigliana del «Palazzo
di Ziridön».

«Éral to parént, Ziridön?» la m’fa. «Al Palazun agli éra al so.»


«Nö-nö, a n’simi briša parent: l’éra e’ nunen d’mi cugnê… Mo, Dio bon degh! mo com ël môrt!?»
a i fëgh me.
«A t’al digh mi, com ch’l’è mort. Al gh’è andà a d’là dal Po, l’à magnà un bis velenà e l’è mort.
«Pröpi?» degh. «Dìm la varitê.»
«Ch’a m’gnis un azidént sùbit! A t’digh ch’l’è andà d’là dal fium, l’à ciapà un bis, al l’à magnà e
l’è mort, parchè al bis agli éra velenà.»
Ôhi… s’l’é véra ch’e’ magnéva tot cvel ch’e’ truvéva, chi ch’m’a’ diš, a me, ch’u n’épa ciap int
un vipröt?
«Era tuo parente Ziridön?» mi fa. «Il Palazzone era suo.»
«No no, non eravamo parenti: era il nonno di mio cognato... Ma, Dio buono! Ma che morte ha
fatto!?» le chiedo.
«Te lo dico io! È andato oltre il Reno, ha mangiato una biscia velenosa ed è morto.»
«Davvero? Dimmi la verità.»
«Che mi venisse un accidente! Ti dico che è andato di là dal fiume, ha preso una biscia, l'ha
mangiata ed è morto, perché la biscia era velenosa.»
Dopo tutto... se è vero che mangiava quello che gli capitava, chi me lo dice che non abbia
catturato un viperotto? (Gianna Suzzi).

Un’eventuale cartella clinica, nell’archivio dell’ospedale di Argenta, potrebbe forse svelare il


mistero della sua morte. Ma a questo punto perché indagare? Il personaggio, ormai, è entrato nella
leggenda.
Riposi in pace

Lo e’ dgéva sèmpar a su nvód: «Me, cvânt ch’a srò môrt, avì da vstim da frê». E difati, cvânt
ch’e’ murè, i l’avstè da frê (ció, u j a' lasè det lo!). I i mitè la tonga, cun e’ capoc a cva par d’dri, e’
curdon biânch lighê in zintura, e una curona int al mân. E pu e’ dge: «Te, ins la mi làpita, t’a j é da
scrìvar acsè (mo scrìvial ben, ânh!)»
«Cus a j òia da scrìvar, nunen?»
Diš «T’ai é da scrìvar: QUI GIACE BARTOLINI GIUSEPPE - VIVEVA DA SOMARO - ED È MORTO
IGNORANTE.»
E ’lóra: «Ben diš! Cus a vliv ch’a véga a scrìvar un cvël acsè ins una làpita!».
«S’t’angn’a’ scriv briša, t’an aré d’rimôrs insèna ’ t’chemp.»
Ah, ben, ció! U gli à scret!
A l’splesmi a Cunsândal, parchè e’ stašéva a là.
Pasènd pu tènt èn, cvânt ch’u s'putéva tu so i murt, al purtesmi a Lavžôla int agli usér. E cvânt pu
che j à sfat nench agli usér, e’ bëcamôrt e’ vens e pu e’ dge: «Scólta, Elena, a cva u j è la Bartolini
Serafina e s’u j è su pê, Bartolini Giuseppe.»
«Ah, so ’ca me degh!»
«E ’lóra nó adës a buten žo agli usér parché u s’vôr e’ pöst d’andêr avânti a fêr i fùran…»
«Alóra degh a fašen un bël lavór: la fiôla a la mitì int una casitena, e’ pêdar al mitì int una
casitena», e pu a fašè arvì e’ fóran d’mi marè e a i fašè mètar a lè d’cô di su pi.
Ha sempre detto a suo nipote: «Quando sarò morto, dovrete vestirmi da frate». E infatti, quando
morì, lo vestirono da frate (erano le sue ultime volontà!). Gli misero la tunica con il cappuccio, i
cingoli bianchi legati in cintura e la corona del rosario in mano. Inoltre disse: «Sulla mia lapide,
devi scrivere così (ma mi raccomando, eh!)». «Che cosa devo scrivere, nonno?» «Devi scrivere:
QUI GIACE BARTOLINI GIUSEPPE - VIVEVA DA SOMARO - ED È MORTO IGNORANTE.» «Beh, non vorrete
mica che scriva una cosa del genere sulla lapide!» «Se non la scrivi, ne avrai di rimorso per tutta la
vita.» Ce l'ha scritta sì! Lo seppellimmo a Consandolo, perché abitava là. Passarono tanti anni e,
quando ancora si potevano riesumare i resti, lo trasportammo a Lavezzola nell'ossario. E poi quando
anche l'ossario fu demolito, il becchino venne da me e mi disse: «Senti, Elena, qua c'è la Bartolini
Serafina e c'è inoltre suo padre, Bartolini Giuseppe». «Certo.» «Allora noi adesso dobbiamo
demolire l'ossario per fare posto ai nuovi loculi...» «Bene, allora facciamo un bel lavoro: la figlia la
mettete in una cassettina, il padre lo mettete in una cassettina», e poi feci aprire il loculo di mio
marito [Gino Landi] e le feci deporre entrambe ai suoi piedi (Elena Rubbi).

E così Ziridön riposa nel cimitero di Lavezzola, int i fùran nuv, nei loculi nuovi, ricongiunto
finalmente con i suoi unici discendenti diretti, la figlia Serafina e il nipote Gino.

Loris Rambelli

Nota
* Le testimonianze di Fausto Andraghetti sono state raccolte da Oliviero Casella di Voltana verso la metà degli anni Ottanta.
Grafico A: Prime e seconde nozze di Teresina Rambelli, prime e seconde nozze di Giuseppe Bartolini e le due generazioni
successive. Il fondino azzurro contrassegna i nomi degli informatori dalla cui voce sono state raccolte testimonianze.

Grafico B: i genitori e i fratelli di Giuseppe Bartolini, con la discendenza di Valerio, il primogenito. Il fondino azzurro contrassegna i
nomi degli informatori dalla cui voce sono state raccolte testimonianze.
Hanno scritto di lui

- Giovanna Righini Ricci, Ziridoni, in Nel cavo della mano, prima edizione, Bologna, Ponte
Nuovo, 1970, e ora Ravenna, Longo, 2003, pp.75-79. Il libro è noto anche con il titolo dell'edizione
scolastica Un pugno di terra (Bruno Mondadori, 1982 e successive ristampe. La scrittrice, nata nel
1933, visse fino all’età di sette anni in via Lombardina, numero 7, nella casa dei nonni paterni, «la
casa di nonno Tranquillo». In questo libro rievoca personaggi e ambienti della sua infanzia.

- Doriano Foschini, Il personaggio. Ziridon, in «Fatti e gente di casa nostra. Almanacco di


Voltana e dintorni, 1986», pubblicazione del Comune di Lugo: Consiglio Circoscrizionale di
Voltana, Chiesanuova, Ciribella, pp. 38-42. Sono riportate testimonianze di Aldo Savioli di Case
Selvatiche e di Fausto Andraghetti di San Bernardino e due foto di Ziridön.

- Ivo Tampieri, Via Lombardina, in Stradario guida del Comune di Lugo. Forese, Lugo, Walberti,
2000. Alle pagine 186-187: una scheda biografica di Ziridön e due foto.

- Egidio Checcoli, Filo della memoria, Prato, Editrice Consumatori, 2002, p. 217.

- Leo Maltoni, Pensierino del Direttore, in «Il Cicloturista», febbraio 2003. Il poeta di
Cesenatico, direttore del periodico «Il Cicloturista», ha commentato una fotografia di Ziridön
(quella a figura intera con la bicicletta a mano, prima puntata), senza sapere nulla dello «strano
personaggio», ma attratto unicamente dalla «poesia dell’immagine».

- Agide Vandini, I trascorsi filesi di Ziridöni. Nuovi spunti e documenti sul noto personaggio che
visse a Filo nel primo Novecento (1900-1917), L’Irôla de’ Filéš (http://filese.blogspot.com/),
maggio 2011.

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