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UNA METAMORFOSI APPARENTEMENTE MANCATA: OVVERO COME

UN VERME SEMBRÒ NON DIVENTARE FARFALLA

Era, o almeno lui credeva di essere, perseguitato dalla jella. Ne aveva parlato
spesso con amici e parenti che, all'inizio, gli dissero e ripeterono più volte che
non doveva fissarsi su certe idee. Poi, con il passare del tempo e forse anche
per l'effetto della sua insistenza, quasi senza rendersene conto, cominciarono a
crederci anche loro.

In effetti tanti piccoli episodi, di per sé senza importanza, potevano favorire


questo convincimento: l'acqua che andava via quando era insaponato sotto la
doccia, l'apparecchio telefonico che gli mangiava le uniche monete che aveva,
il cartello "e-saurito" sulla pompa del gasolio dove era arrivato con le rimanenti
gocce di carburante, l'ultimo posto della lista d'attesa assegnato a quello
davanti a lui, le porte di sicurezza della banca che si bloccavano quando lui era
in mezzo, le chiavi cadute nel tombino, i soldi falsi che gli avevano rifilato, ed
ancora una quantità di situazioni, non drammatiche ma fastidiose, che gli
complicavano la vita in continuazione.

Un giorno, parlando con un collega, stava narrando l'ennesimo contrattempo e


ci scherzava su, con autoironia velata però da sfumature che lasciavano
trapelare tristezza e rassegnazione. Come spesso accade, il collega pensò bene
di suggerire un rimedio "miracoloso": gli parlò di un vecchio, misterioso, che
aveva fama di essere un mezzo mago. Gli raccontò di come alcuni suoi
interventi avessero risolto problemi di malocchio, di disturbi fisici, di difficoltà
familiari o di lavoro. Gli diede anche l'indirizzo; cosa gli costava provare?

Malgrado il forte scetticismo che nutriva verso questo tipo di cose – aveva
sempre deriso maghi e fattucchiere, cartomanti e chiromanti - decise tuttavia
di andarci una sera, dopo il lavoro. Fu costretto ad un lungo giro per aver
seguito l'indicazione, sbagliata, datagli da un passante. Era in ritardo, lo
avevano avvertito che il vecchio mangiava presto la sera, poi andava a letto e
non voleva vedere più nessuno. Arrivò a destinazione, giusto in tempo per
vedere un'auto occupare l'unico posto libero lungo il marciapiede. Non poteva
ritardare oltre e decise di lasciare la macchina in fondo alla fila, quasi
all'incrocio. Affrettò il passo scorrendo velocemente davanti ai portoni dalle
ante malridotte, il naso in su per leggere i numeri scoloriti. Ansimante, arrivò al
numero diciassette nero.

Salì le vecchie scale senza luce, incespicò più volte, bruciandosi le dita con i
due fiammiferi che gli rimanevano. L'ultimo piano, l'ultima porta, così gli era
stato indicato. Suonò un campanello trovato a tentoni sul muro. L'uscio fu
aperto da una donna di mezza età, pesantemente truccata, il grosso seno
stretto da una maglietta di lana quasi nera e così aderente da mostrare le
abbondanti pieghe di ciccia. Dietro di lei si intravedeva nella penombra un
corridoio stretto e lungo su cui si affacciavano le porte. Qua e la, lungo le pareti
con lembi di carta staccata, erano sparse scatolette vuote di carne. O forse di
tonno. Alcune contenevano acqua, altre un liquido biancastro che doveva
essere latte, a beneficio di cinque o sei gatti che dormivano ammucchiati sullo
stinto sofà che era in un angolo. Ovunque i segni di una desolazione senza
rimedio.
"Sono Pallecchi, dovrei vedere il signor Adelfo". Fu fatto entrare, senza una
parola, e lasciato lì, accanto all’uscio, mentre la baldracca si dirigeva verso una
stanza da cui usciva una tenue luce. C'era un odore stantio di aglio, di sugo, di
urina di gatto, che lo prendeva allo stomaco già stretto per quello che stava
facendo. La donna si affacciò alla porta della stanza facendogli bruscamente
cenno di andare. Si avviò; stava cominciando a sudare, la testa gli doleva. Con
il piede destro prese in pieno una scatoletta con del liquido che gli andò nella
scarpa bagnando abbondantemente il calzino corto e la caviglia.

Il vecchio era seduto accanto al letto, in una larga bergère che mostrava agli
angoli la trama del tessuto. Aveva un plaid di colore indefinibile sulle gambe ed
uno sgangherato tavolinetto da letto - tipo quelli su cui mangiano i malati e
ricoperto da un tessuto rosso scuro che pendeva sul davanti e sui lati - piantato
davanti, con sopra un libro le cui pagine si staccavano dalla rilegatura. L'uomo
ingolfato in una logora vestaglia chiusa fino al collo, aveva le braccia nascoste
sotto il ripiano del piccolo tavolo.

"Sono Pallecchi - disse ancora rimanendo in piedi davanti a lui - mi hanno


consigliato di venire da lei per trovare la soluzione ad un problema personale
che mi tormenta".

Il vecchio lo guardò con gli occhi chiari, quasi slavati, alla debole luce di
un'abatjour il cui cappello doveva essere stato, una volta, bianco o color crema.
Annuiva in continuazione, senza parlare, ma la bocca si muoveva come se
stesse cercando qualcosa con la lingua. Quello sguardo, il silenzio, quella
espressione, aumentavano il disagio nel rimanere in piedi. Aumentava anche il
suo mal di testa.

"Vede, sono perseguitato dalla jella - confessò con voce quasi disperata. Non
una jella im-portante, una piccola jella, direi quasi modesta. Ma che è sempre
con me, non mi abbandona mai". Dondolava sulle gambe, torcendosi le dita.
"Mi va tutto storto, qualsiasi cosa faccia. Non riesco più ad avere pace. Mi sento
prigioniero di questo destino che mi sta strangolando. Mi hanno detto che lei
può liberarmi. La prego mi aiuti. Lei è la mia ultima speranza, sono
completamente nelle sue mani" concluse quasi gridando.

Il vecchio si mosse, ed estraendo le braccia da sotto il tavolo ne rivelò una


strana agitazione. Le sue mani erano preda di un tremore non molto ampio ma
ritmico, veloce, senza controllo. Solo allora notò che anche la testa aveva quasi
lo stesso ritmo. Il vecchio era evidentemente affetto dal morbo di Parkinson.

"Sono nelle sue mani" gli aveva detto, "Sono nelle sue mani…". Un riso, o
meglio una forma di isteria si impadronì di lui, irrefrenabile. "Sono nelle sue
mani…", mani sfrenate che oscillavano, mani preda del male, mani contorte, in
delirio. Indietreggiò appoggiandosi allo stipite della porta, ridendo ormai senza
ritegno. Strisciò velocemente dietro la parete del corridoio, in preda alla sua
crisi, facendo saltare le scatolette sparpagliate in terra. Le scale buie
inghiottirono la sua discesa scomposta e le sue risa fino all'androne.

Uscì in strada, senza più controllo di sé, con gli occhi pieni di lacrime per il riso
e la disperazione. Percorse il breve tratto di strada verso la macchina
singhiozzando e agitando le mani come aveva visto fare il vecchio. Esausto, si
fermò appoggiando le spalle alla saracinesca di un'edicola chiusa, lasciandosi
poi scivolare a terra.

Rimase così, per poco, con le mani sul viso, il petto ancora scosso da qualche
singhiozzo. Aprì finalmente gli occhi, recuperando pian piano coscienza, ma
ancora incapace di far ordine nei suoi pensieri. Lo sguardo girava intorno,
guardava senza vedere, cogliendo immagini incerte dai giornali sparsi in terra
davanti all'edicola.

Ancora seduto in terra, lasciò che le gambe si stendessero, muovendo la carta


che aveva davanti. Si acquietò, il respiro stava diventando regolare. Sotto
l'angolo di un giornale, leg-germente di lato, mezzo coperto da altra carta, vide
qualcosa che attrasse la sua attenzione. Si sporse un poco in avanti
appoggiando sul braccio sinistro e, col destro, spostando i fogli, liberò alla vista
qualcosa di straordinario: era un biglietto da cento euro.

Rimase col braccio teso, esterrefatto. La mano cominciò cautamente ad


avvicinarsi. La bloccò. Si raddrizzò, sempre guardando a ciò che, nella sua
mente, non poteva essere.

Era ancora seduto in terra, le mani in grembo, appoggiato all'edicola,


fissandolo, senza riuscire a pensare, quasi aspettando che sparisse. Poi il
braccio sinistro si tese lentamente in avanti, la mano destra poggiò all'incavo
del gomito sinistro innescando il movimento oscillante di un gesto scurrile,
ripetuto più volte.

Si alzò, seguitando a guardare mentre tentava brevemente di rassettarsi.


Chiuse un attimo gli occhi mettendo le mani in tasca, poi si girò per avviarsi
verso la macchina.

Un passo dopo l'altro si allontanava, senza girarsi, con sulle labbra l'accenno di
un sorriso di chi la sa lunga, di chi non si fa fregare. Sentiva qualcosa di
cambiato dentro di sé, la densa angoscia che sempre l'accompagnava
sembrava ora piccola piccola. Una pioggia sottile stava cominciando a cadere,
ma tanto lui aveva già i calzini fradici.

Giancarlo Visconti

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