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L’abito non fa il monaco (ma ne indica la “parrocchia”).

Quali che possano essere le diverse idee in proposito, è comunque una realtà
che ogni sistema tende ad emarginare colui che viene percepito dai suoi
appartenenti come diverso. E’ un fenomeno legato a fattori differenti ma tutti
riconducibili alla stessa matrice ossia all’esigenza, insita nell’umano, non
soltanto di salvaguardare la propria specie ma anche, e oggi forse di più, di
soddisfare il bisogno di sicurezza presente in ciascun individuo.
La prova di quanto affermato è sotto i nostri occhi, in ogni momento della
giornata e dovunque. Il colore della pelle, la religione, le tendenze politiche, le
scelte sessuali e negli affetti così come nell’affermazione del sé, nello stile di
lavoro, nel modo stesso di vivere, sono solo una parte delle discriminanti che
possono far additare qualcuno come diverso.
La tolleranza è figlia della sicurezza: sicurezza di sé, della propria
organizzazione, sicurezza nella gestione delle situazioni potenzialmente
rischiose, sicurezza nel proprio gruppo di appartenenza e via dicendo. Se non si
è sicuri si cede al sospetto, al timore, si cerca di prevenire possibili situazioni di
disagio, o di pericolo, o di destabilizzazione , mantenendo a distanza quelli che
vengono visti come non appartenenti allo stesso gruppo. Non se ne tollera la
presenza e, tanto meno, l’inserimento.
Il riconoscimento del simile avviene con la percezione di segnali intelligibili
soprattutto in quanto comuni, ad esempio il tipo di musica, o la moto, o le
scelte alimentari, o l’aspetto, quindi elementi che già di per sé comunicano,
consentono di incontrarsi, di stare insieme sulla base di comuni denominatori.
Ci si accetta quindi più facilmente e si stimola l’aggregazione ma si favorisce
nel contempo – e paradossalmente – anche la frammentazione.
Nell’universo giovanile, in larga parte caratterizzato da crisi di identità e
carenza di sicurezza, è molto forte la spinta, in attesa di essere se stessi, ad
identificarsi col gruppo di appartenenza o a somigliare quanto più possibile a
qualche modello universalmente ammirato, osannato e venerato. La logica è:
lui è OK, io come lui, anch’io OK. Scopriranno crescendo che purtroppo la vita
non consente questo tipo di proprietà transitoria. Quante Madonna, o Belen. o
George, o parrocchiani in moto di grossa cilindrata vestiti quasi tutti allo stesso
modo, con gli stessi atteggiamenti, vediamo in giro? Perché tanti ragazzi
portano gli anfibi, o scarpe con i lacci sciolti, o si sono fatti fare il piercing, o
portano calzamaglie sotto gonne cortissime? Perché capelli dai colori assurdi o
tagliati a zone, o si porta il codino, o le treccine, o i pantaloni talmente bassi da
non poter camminare e le mutande in vista? Perché in questo modo si
proclama “Io sono come lui/lei!”, almeno in apparenza, “Io appartengo alla
parrocchia degli intrepidi!”, “Il mio gruppo – quindi anche il sottoscritto - se ne
frega delle convenzioni!” e, per tutti, “Alla larga da chi non è come noi, e chi
non è come noi stia alla larga!”. La divisa, in abiti o mentale, fa identità; se
qualcuno è come noi non è pericoloso e non può mettere in crisi il sistema a cui
lui stesso appartiene. Questo ragionamento che almeno apparentemente non
fa una piega, in realtà, di pieghe, ne fa più di una. Limitiamoci ad analizzarne
due.
La prima piega è che non c’è niente e nessuno che possa impedire – se non con
la violenza – a qualcuno di cambiare modo di pensare e, di conseguenza, di
passare da un sistema ad un altro: fino ad oggi ho portato i jeans alle
ginocchia, ora basta, da domani metto scarpe a mocassino, giacca e cravatta.
Questo può avvenire perché nella vita, che lo percepiamo o no, abbiamo
sempre dei modelli cui facciamo riferimento; se ne incontriamo uno che ci
sembra più valido, più interessante, più rappresentativo del successo che
inseguiamo – quale che sia – siamo pronti a cambiare e a migrare da un certo
tipo di mentalità verso un’altra. Tradimento! Ma non lo è. E’ evoluzione.
La seconda piega è che se non si allargano gli orizzonti della nostra mente si
conoscerà solo quel angolo di cortile nel quale siamo cresciuti e sempre
rimasti. E quando la vita, ancora una volta purtroppo, ci proietterà in ambienti
diversi dal nostro cortile, ci troveremo a disagio, avremo difficoltà, saremo
insicuri e angosciati, costretti a pensare e ad affrontare dubbi e paure, e
allora… via in fuga, in ritirata verso il noto, il sicuro, il collaudato! Almeno
questo è l’istinto, perché la difficoltà nella gestione dell’incertezza, la paura
dell’ignoto, generano mal stare, distress (tensione negativa), intralciano la
nostra naturale ricerca del piacere bruciando energie a scapito del ben stare e
dell’eustress (tensione positiva).
Allora, tutti vigliacchi? Certo che no, per fortuna. C’è una quantità di persone
che è consapevole di questi meccanismi naturali, e invece di combatterli
preferisce addirittura favorire le condizioni per poterli meglio conoscere,
riconoscere e dominare. Costoro non hanno preclusioni, non hanno timore di
sperimentare né, tanto meno di cambiare: hanno la mente aperta. Ovviamente
il tutto con buon senso e misura.
Perché poi negare a priori che diverso può anche significare il nuovo, o il
complementare, o il favorevole o il positivo in relazione a qualunque obiettivo
desideriamo raggiungere?
Ho l’impressione di aver toccato un altro argomento doloroso e, spesso,
volutamente ignorato o rifuggito: sapere, con esattezza e precisione, ciò che
vogliamo veramente raggiungere. Ma forse è meglio se ne parliamo un altra
volta, non vorrei farvi venire il mal di testa.

Giancarlo Visconti

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