Il suo bassotto, pelo raso focato nero, si chiamava Paminonda. Non
Epaminonda, proprio Paminonda. Lui no. Lui si chiamava Venceslao, colpa di una madre troppo debole per opporsi alla decisione del marito di dare al figlio il nome di un imperatore del Sacro Romano Impero. La madre di Venceslao disse però a delle amiche fidate che fu una forma di reazione alla banalità del nome di suo marito: si chiamava Giuseppe. E nel 2085 della nuova era universale quel nome era di un anacronismo pazzesco e, nel suo caso, vissuto come vergognoso; ma la legge che consentiva il cambio di generalità era stata respinta per la trentaseiesima volta. Venceslao era alto circa un metro e cinquanta, forse cinquantacinque, ma si portava in giro la sua statura come se fosse stato un paio di metri. Come carattere era di certo un temerario, e non poche volte fu coinvolto in risse in cui fu quasi sempre protagonista senza paura. Il suo atout era proprio la statura che lo rendeva, oltre che difficile bersaglio, pressoché inafferrabile. Il suo colpo segreto, quello che distrusse più di un avversario era il “colpo dell’ariete”: una testata spaventosa sparata in tuffo sui genitali dell’avversario, dovunque li avesse. Talvolta con gente di altri mondi la cosa si faceva complicata, ma Paminonda era in grado di segnalarglieli mediante le onde cerebrali che, da cucciolo, erano state associate alle sue. Le poche volte che soccombette, non più di tre a suo dire, fu a causa di una scarica di pistola a raggi jota che lo congelò per un paio d’ore. Interessante, però abbiamo divagato. Venceslao aveva un sogno: far parte dell’equipaggio che avrebbe esplorato il pianeta, scoperto di recente, dalle caratteristiche pressoché perfette per fondare la prima colonia totalmente umana oltre la quinta galassia a sinistra di Phaeton. Lì avrebbe ingravidato la compagna che gli sarebbe stata assegnata e, insieme agli altri, sarebbe stato riconosciuto come “Pioniere della vecchia stella”. Un ambitissimo riconoscimento riservato ai più ardimentosi, nessuno si sognava di definirli aspiranti suicidi, che riuscivano in imprese colonizzatrici “oltre i mondi”, di pura matrice umana e partendo da base Terra. Venceslao aveva però diversi problemi che ostacolavano la realizzazione di quel sogno. Innanzitutto era stato “rivitalizzato” già due volte – il massimo previsto era di una sola volta – questo comportava un’aspettativa di vita nella nuova destinazione statisticamente troppo breve. Non era ammissibile lasciare vedove in giro nello spazio in tali condizioni, e quando, per qualche disgrazia, questo succedeva venivano denumerate unitamente all’eventuale progenie; in pratica si interrompeva il processo energetico del loro algoritmo vitale. Insomma, l’ammazzavano. A suo favore però giocava il fatto che umani con la sua esperienza di colonizzatore a quelle profondità spaziali ce n’erano pochissimi e parte di loro non erano più operativi ma ormai destinati al travaso cognitivo-esperenziale. In parole di altri tempi: gli succhiavano dal cervello tutto ciò che sapevano e poi li incenerivano. Il secondo problema di Venceslao era costituito dai suoi precedenti. Aveva innumerevoli missioni concluse con pieno successo, ma ne aveva anche due da cui era tornato col marchio F di primo grado, il meno grave. Le origini della definizione di questo marchio erano niente affatto certe. Si sapeva solo che era stato “inventato” ai tempi delle prime esplorazioni spaziali, quando cioè gli equipaggi erano al comando di un “capo legittimo e reale” che oltre ad essere l’unico a decidere cosa fare era anche responsabile, e come tale padrone, delle vite degli equipaggi. In tali situazioni, il rischio di gran lunga più temuto era quello della disobbedienza da parte di qualche componente la missione, il che poteva portare, come era successo e sia pure raramente, ad un ammutinamento lanciato al grido dall’etimo anch’esso totalmente incerto di “Fuck you”. Da cui il marchio F destinato ai ribelli. Delle paranze (così venivano chiamate in gergo) ammutinate non si era mai più saputo niente, ma il timore era che avessero colonizzato da soli, o con l’aiuto di forme sconosciute, strati cosmici da cui in seguito lanciare attacchi ribelli. Altre civiltà (extraterrestri) avevano già sperimentato questo dramma. Per tornare a Venceslao, lui aveva rimediato questi due F in altrettante missioni dalle caratteristiche molto simili: entrambe erano sotto dei Capi Zondefor – ne esistevano solo quattro in tutta la Civiltà ed erano noti non soltanto per la loro estrema bravura ma anche per essere centrosferici, affetti cioè da sporadici cortocircuiti intellettivi – ed entrambe dirette a Metenc un pianeta della Bassa Galassia composto da due semisfere accoppiate. In entrambi i casi Venceslao aveva dichiarato, e mostrato i segni, di avere soltanto reagito ad aggressioni da parte dei due Capi. Erano state comunque giudicate reazioni non compatibili alla disciplina spaziale e registrate sul suo curriculum col temuto F. Il terzo ed ultimo problema era relativo alla sua capacità di procreare. Aveva provato più di una volta, di nascosto in quanto ancora non in possesso della licenza per farlo, e su un totale di dieci circostanze procreatrici solo due erano andate a buon fine. Per di più con umane “spurie” destinate ad essere cavie di profondità: gente che veniva imbarcata su ogive sparate nello spazio dopo essere state imbottite di nuove sostanze dilazionanti del collasso vitale, al solo scopo di perfezionarne la durata, ma per le quali non era programmato rientro. Delle altre volte, tre erano fallite per rifiuto del microchip femminile ad accettare la trasmissione genetica e cinque perché la mappatura del suo genoma risultava incomprensibile al programma riproduttivo. Non essere in grado di procreare era, senza ombra di dubbio, il marchio del fallimento. Ma non voleva rinunciare al suo sogno, a nessun costo. Doveva chiedere consiglio e sostegno a qualcuno. Ricordava che uno dei compagni della sua ultima missione gli aveva parlato di una entità semiolografica che si trovava ai bordi della Galassia Beta, quindi molto vicina alla Sede della Civiltà, e gli aveva anche detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto anche accompagnarlo. Attivò l’individuatore cello- dimensionale e in pochi istanti fu in contatto col suo ex compagno. Raccontò, con qualche alterazione e qualche omissione, il motivo per cui voleva avere il consulto e fissarono un appuntamento per il secondo limite del terzo quarto di tempo. L’incontro avvenne con puntualità e il teletrasporto biunivoco li depositò in un lampo omega di fronte all’entità. Le onde mediali dell’entità arrivarono chiaramente a Venceslao: “Leggo la tua richiesta. Non puoi soddisfare la tua voglia di partire. Io sono l’unico in grado di sapere quello che fai prima di ogni termine temporale: giochi col tuo microchip fino al limite del cortocircuito. E’ sporco quello che fai e non ti rende degno di venire per procreare. Vaffanculo!!!”. Venceslao rimase impietrito, anche perché Paminonda lo guardava con occhi divenuti di brace. Successe tutto – è proprio il caso di dirlo – in un lampo: Paminonda gli urlò nella testa “Porco, non ti bastavo io!” e in un nanosecondo gli saltò addosso esplodendo. Il Bollettino della Civiltà, nella sua edizione real-time, pubblicò la notizia della scomparsa del primo componente - scelto appena pochi istanti prima dal Governo della Civiltà – dell’equipaggio della più fantastica missione mai progettata a memoria d’uomo. Giancarlo Visconti