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LILLI GRUBER

CHADOR
NEL CUORE DIVISO DELL’IRAN

RIZZOLI

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

© 2005 RCS LIBRI S.P.A., MILANO

ISBN 88-17-00847-8

PRIMA EDIZIONE: OTTOBRE 2005

CONSULENZA SCIENTIFICA: ALESSANDRO VANOLI

REALIZZAZIONE EDITORIALE: STUDIO EDITORIALE LITTERA,


RESCALDINA (MI)
INTRODUZIONE
L'IRAN NEL MIRINO

E’ ancora presto e a Parigi la giornata si annuncia splendida. Il vento ha


spazzato via il grigio del cielo lasciando che il sole primaverile entrasse nel
tranquillo patio sul quale si affacciano le nostre finestre. Dietro le tende
tirate, il mondo si sveglia. Ho ascoltato i primi rassicuranti rumori della
giornata: Fernanda, la portinaia portoghese, che riempie d'acqua il suo
secchio per tirare a lucido il selciato del cortile, le notizie del giornale radio
che mio marito Jacques sente in sordina, ancora mezzo addormentato, i
piccioni che si agitano sulle grondaie. Mi sono alzata, vestita e sono andata
di corsa a comprare i giornali in piazza del Trocadéro.

Quando sono rientrata, sbattendo la porta dietro di me, ho detto a Jacques:


«Andiamo in Iran!».

Mi ha guardato stupito. Da diverso tempo parlavamo di questo viaggio, ma


da li a fare le valigie...

«Che cosa ti ha fatto decidere?» mi ha chiesto.

«Unpain aux raisinsì» ho risposto, scoppiando a ridere.

Sheila è arrivata mentre Chez Carette, la sala da té in piazza del Trocadéro,


si riempiva dei suoi clienti abituali. È un posto un po' all'antica, dove le
cameriere, in divisa nera e grembiule bianco, ti chiedono notizie della
famiglia. Servono il caffè in piccole caffettiere argentate. Nel seminterrato,
in un laboratorio che immagino segretissimo, i pasticcieri realizzano
macarons di tutti i colori, i migliori di Parigi. Stavo sorseggiando un té
verde mentre leggevo i giornali seduta al tavolo. Il piazzale del Palais de
Chaillot era inondato di sole e formava come uno scrigno di marmo bianco
intorno alla Torre Eiffel che si stagliava in un cielo di un azzurro intenso.
Quando è bel tempo, Parigi è la città più bella del mondo. Ma capita così di
rado che non potrei nemmeno pensare di rinunciare alla luce di Roma.

Con una giacca Chanel rosa e un paio di jeans Sheila, che non conoscevo
ancora, mi è apparsa nella sua bella figura di cinquantenne dai capelli neri e
gli occhi scuri. Si è seduta accanto a me e ha ordinato una cioccolata e un
dolce.

Mi sono immersa nella lettura del «Herald Tribune». In prima pagina c'era
la foto di Ali Hashemi Rafsanjani seduto in poltrona col volto serio. Sotto il
turbante bianco, i tratti decisi, i baffetti grigi e la fronte corrucciata gli
danno un'aria inflessibile da generalissimo. In questa primavera del 2005,
Rafsanjani è candidato alle elezioni presidenziali che si terranno in Iran il
17 giugno. Uno scrutinio considerato dai 70 milioni di abitanti e dal resto
del mondo una tappa cruciale. Tutti lo ritengono il vincitore annunciato. Un
«riformista» in testa all'inizio della campagna elettorale titola il quotidiano,
che riprende un articolo del «New York Times». Rafsanjani, in realtà un
religioso conservatore, generalmente parla poco alla stampa estera. Ma
recentemente ha rilasciato una serie di interviste ad alcuni giornali stranieri
per mettere a punto la sua immagine di uomo provvidenziale, di unica
alternativa possibile in una nazione spaccata tra conservatori e riformisti.

Ex presidente della Repubblica islamica, ex presidente del Parlamento,


attuale presidente del Consiglio di Discernimento, a settant’anni è uno dei
personaggi più potenti dell'Iran. Forse addirittura il più potente, anche se
l'intero sistema politico iraniano è sottoposto al controllo della Guida
Suprema, l'autorità istituita dall'ayatollah Khomeini quando prese il potere
con la Rivoluzione islamica del 1979. Fin dalla morte dell'Imam avvenuta
dieci anni più tardi, questo ruolo è stato rivestito da Ali Khamenei che si
trova quindi a essere la massima carica politica e religiosi del Paese. Ma
Rafsanjani, soprannominato la Sfinge, si trova al centro di una tale rete di
relazioni, di appoggi manifesti od occulti, di dinamiche interne o esterne,
che è impossibile prescindere da lui.

Ha sempre dato di sé l'immagine del politico pragmatico, più interessato a


far arricchire l'Iran piuttosto che a catapultarlo in avventure estreme. Ciò
nonostante è uno dei pilastri della Rivoluzione e, nella sua intervista con il
giornalista del «New York Times», accusa gli Stati Uniti di essere
antidemocratici. Lo fa sicuramente per contrastare l'idea che sia lui l'unico
esponente politico capace di riannodare il dialogo con il «Grande Satana»,
un ruolo sempre difficile da sostenere davanti alle masse iraniane. Come ft
notare il cronista del quotidiano americano, anche Rafsanjani si veste dai
migliori sarti: l'abito di mullah che indossa è stato confezionato su misura.
È un uomo straordinariamente ricco. E straordinariamente corrotto,
assicurano i suoi nemici, che sono tanti. Sarà questo il suo tallone di
Achille?

I tavoli rotondi di Chez Carette, con i loro piani di marmo e le gambe in


legno, sono particolarmente scomodi: non so mai come mettermi, tendo
sempre a sedermi di traverso come se presentassi ancora il Tg. Avverto che
la mia vicina è interessata alla mia lettura, cerca un pretesto per una
conversazione. Mi volto verso di lei. Le rivolgo la prima domanda che mi
viene in mente: le chiedo il nome del dolce che sta spilluzzicando con
discrezione.

«Un pain aux raisins» mi risponde con un sorriso. Poi prosegue: «Le
interessa l'Iran? Io sono iraniana. Mi chiamo Sheila».

Così cominciamo a parlare. Come se ci conoscessimo da sempre.

Le racconto che sto pensando di scrivere un nuovo libro, ma che sono


ancora indecisa, lo I miei giorni a Baghdad avevo parlato dell'evento senza
dubbio più importante in questo primo scorcio di secolo: la guerra scatenata
da George W.

Bush in Iraq; nel secondo libro, L'altro Islam, avevo affrontato la dinamica
messa in moto da quel conflitto: l'affermazione politica, in Iraq e nel mondo
arabo, degli sciiti. Una minoranza ribelle del 15 per cento all'interno della
comunità musulmana composta in gran parte di sunniti. Un'eventuale terza
puntata dovrebbe proseguire questo viaggio verso est, in quel Medio
Oriente che ci affascina ma che non riusciamo a penetrare fino in fondo. E
per questo che da mesi coltivo l'idea di esplorare l'Iran, formidabile e
misteriosa teocrazia sciita, ricca di petrolio e di gas naturale, ai confini
dell'Asia, del mondo arabo e dell'Europa orientale. Accusata da Washington
di essere il principale Paese sostenitore del terrorismo internazionale e
sospettata di volersi dotare della bomba atomica. Denunciata per le
violazioni dei diritti umani e per le discriminazioni nei confronti delle
donne. Ma anche grande nazione fiera della sua storia millenaria, della sua
cultura straordinariamente complessa. L'Iran impregnato di tradizioni ma
animato dal desiderio di modernità. L'Iran Paese del chador e delle donne
che votano a quindici anni. L'Iran Paese dei segreti. Un laboratorio dove
oggi si sperimenta la compatibilità tra Islam e democrazia.

Nel 2005 una domanda ossessiona le capitali occidentali, da Washington a


Londra, da Parigi a Berlino: cosa bisogna fare con l'Iran? Si deve provocare
una resa dei conti? O si deve accompagnare un'evoluzione più graduale?

Sheila mi ascolta educatamente, ma percepisco in lei una sorta di


impazienza e cosi le lascio la parola.

«Tutti in Iran le diranno: "La Rivoluzione non c'è mai stata veramente"»
esordisce. «Durante il regno dello Scià la gente era felice. La
disoccupazione stava calando. Tutti i bambini andavano a scuola. Anche le
persone meno ricche potevano permettersi due auto.»

Faccio fatica a nascondere la mia sorpresa. La storia della Rivoluzione


islamica del 1979, delle sue cause economiche e sociali, del suo
radicamento nelle frustrazioni della maggioranza degli iraniani, è stata
scritta da storici che non possono essere accusati di simpatie per gli
ayatollah al potere a Teheran.

«Sono stati gli americani e gli inglesi a rovesciare lo Scià. Volevano


sbarazzarsi di lui per mantenere il controllo sul petrolio. Sono stati loro a
far arrivare al potere Khomeini. Sotto la barba dei mullah si legge Made in
Britain»

Gli iraniani hanno un gusto smodato per i complotti. Per loro la realtà non è
mai quella che appare. Persino la franchezza non è altro che un modo sottile
per dissimulare disegni oscuri. Cadere nella trappola della chiarezza è una
dimostrazione di ingenuità. Non oso dunque contraddire Sheila che sembra
così sicura di sé e che vedrebbe in me una povera sempliciotta, il cui
candore non può che intenerire.
«Per quanto riguarda la bomba atomica tutti gli iraniani sono d'accordo: la
vogliono, e anch'io la voglio.» Sheila non bada alle contraddizioni, ma
spiega meglio il senso delle sue parole: «Perché non dovremmo avere il
diritto di diventare una potenza nucleare? Gli israeliani hanno la bomba, i
pakistani hanno la bomba. Perché noi no? I mullah sono molto bravi a
negoziare. Prenderanno tempo. E aspetteranno che in America i
repubblicani vengano sostituiti dai democratici prima di annunciare le loro
vere intenzioni».

La mia nuova amica è vivace e affascinante. La sua vita è una sintesi di


venticinque anni di storia iraniana. Il marito è medico e lavora per una
società di assicurazioni negli Stati Uniti. Hanno due figli grandi, due
maschi, che non sono mai andati in Iran, ma che comunque ha voluto
imparassero la sua lingua madre, il farsi. Suo padre era un industriale e suo
suocero uno dei medici dello Scià. Nemmeno lei ha mai più rimesso piede
nel Paese da quando lo ha lasciato nel 1979.

E non è sicura di voler correre il rischio di tornarci, anche se il regime ha


cambiato profondamente il suo atteggiamento nei confronti degli esuli:
«Non mi piacerebbe finire in prigione» mi dice senza conoscere le ragioni
che potrebbero portarcela.

Sheila se ne va. Ha appuntamento dal parrucchiere. La sua nostalgia


rappresenta una dimensione imprescindibile della realtà iraniana o è solo un
sentimento isolato, alimentato dal rimpianto per una vita che avrebbe potuto
essere diversa?

Solo in seguito mi accorgerò che tutti gli iraniani hanno un eccezionale


desiderio di raccontare agli stranieri il loro Paese, la sua storia, la sua
grandezza, i piani occulti delle grandi potenze.

Chiudo il giornale. Nonostante i vari viaggi sempre troppo brevi che avevo
fatto in terra persiana, non ne sapevo abbastanza. Naturalmente mi
tornavano in mente i ricordi, ma erano sempre brandelli di storie, immagini
confuse del passato: lo Scià, le feste a Persepoli, la Rivoluzione, la guerra
con l'Iraq, i mullah al potere... Ma cosa sapevo delle vere dinamiche di
questo grande Paese? Che cosa rimane dell'eredità di Khomeini nell'Iran di
oggi? Che cosa resta della Rivoluzione che ha fatto sperare in un futuro
radioso? Qual è il lascito Delia guerra con l'Iraq e della forza nata da quel
sacrificio? I giovani, che costituiscono la grande maggioranza della
popolazione, non hanno conosciuto né l'una né l'altra. Chi decide a Teheran
e cosa chiedono gli iraniani? La voglia di scrivere un libro sull'Iran era già
viva fin dal mio viaggio nell'arcipelago sciita che, in maniera quasi naturale,
mi aveva portato dall'Iraq nell'antica Persia. Religione di Stato dal XVI
secolo, lo sciismo ha ispirato la Rivoluzione che ha cambiato il volto del
mondo e che ancora oggi dopo ventisei anni tenta di definire un nuovo
modello politico ed economico.

Avevo già contattato alcuni diplomatici iraniani a Roma e a Bruxelles per


ottenere un visto, e ben presto era arrivato il via libera. Ero pronta e Jacques
aveva promesso di accompagnarmi. Ma è stato il breve incontro con Sheila
a spìngermi a prendere la decisione finale.

Sono curiosa e voglio andare a vedere. Ma soprattutto ad ascoltare chi mi


aiuterà a sollevare un angolo del velo.

Nell'affascinante scoperta di una realtà complessa dovrò resistere alla


seduzione delle verità imperfette e delle mezze bugie. L'Iraq è un buon
esempio di quanto sia pericoloso semplificare. La tragedia di un dopoguerra
sanguinosissimo che non conosce tregua era prevedibile. Basta dare una
scorsa a / miei giorni a Baghdad. Sono stata considerata un uccello del
malaugurio. Accusata di essere antiamericana, antisraeliana, di essere
accecata da non so quale ideologia.

Oggi, quanti iracheni e quanti americani dovranno ancora morire prima che
i responsabili del grande imbroglio facciano un passo indietro? Hanno
mentito per invadere l'Iraq, mentono per rimanervi. Agitano lo spauracchio
di una guerra civile mentre la guerra vera è ancora là a mietere decine di
migliaia di vittime. Promettono una democrazia ma hanno sperato a lungo
di poter imporre un regime ai loro ordini. Se ne andranno cantando vittoria
lasciandosi dietro un Paese distrutto in preda alla legge dei clan e delle
moschee.

Llran svolge un ruolo fondamentale nella stabilizzazione dell'Iraq. Solo una


forte cooperazione tra le due maggiori comunità sciite della regione potrà
garantire la ricostruzione e la pacificazione politica della martoriata terra tra
il Tigri e FEufrate. L'intesa si estenderà fino al Libano, dove Hezbollah è
uscito rafforzato dalla partenza dei siriani. Se gli Stati Uniti non saranno in
grado di negoziare con questo «arco sciita» lasceranno la regione in un
bagno di sangue. Se avranno l'intelligenza di aprire un dialogo saranno
capaci di svolgere il loro ruolo di grande potenza, disposta a proteggere i
propri interessi e quelli di Israele nel rispetto degli interessi altrui. Per
questo motivo sarebbe auspicabile ristabilire i contatti con Teheran,
rinunciare alle minacce e accettare l'indipendenza e lo status di potenza
regionale dell'Iran. Gli Stati Uniti, per quanto onnipotenti, non possono
fermare la storia, e quando intervengono per cambiarne il corso innescano
spesso immani tragedie. Il 2005 è cominciato bruscamente per il regime
degli ayatollah finito nel mirino dei signori di Washington. In seguito al
braccio di ferro nucleare, alle accuse di appoggiare i terroristi, ai sospetti di
fare il doppio gioco in Iraq, il regime di Teheran è il candidato perfetto per
un cambiamento forzato, come piace ai neoconservatori americani.
L'esecuzione è stata già programmata? Nei primi mesi dell'anno la tensione
cresce sempre di più.

In una limpida notte di fine maggio mi ritrovo insieme a Jacques su un


aereo dell'Alitalia in volo verso l'Iran.

Mi torna in mente una poesia persiana che è rimasta scolpita nella mia
memoria, Un elefante al buio. L'autore è il famoso Jalal ai-Din Muhammad
Rumi. E la storia di cinque persone che non hanno mai visto un elefante e
che entrano in un recinto immerso nelle tenebre. Ognuno appoggia la mano
sull'animale e descrive quello che pensa di avere davanti: «è un narghilè»
dice quello che tocca la proboscide, «è un grande ventaglio» afferma quello
che stringe l'orecchio, «è un trono di pelle» dichiara quello che tocca la
groppa. E via di seguito, tutti dicono la loro. I cinque personaggi sfiorano
un punto diverso dell'elefante, e ognuno crede di avere capito. Il palmo
della mano e la punta delle dita che si agitano al buio sono il loro unico
contatto con la realtà. La poesia si conclude con una morale semplice: «Se
fossimo entrati tutti insieme con una candela in mano, avremmo potuto
vederlo, questo elefante».

Sono partita con la candela in mano per scoprire l'Iran. Ho voluto


condividere quello che ho visto e ho cercato di capire.
Altri lo hanno fatto prima di me e lo faranno dopo di me. Ma solo se ci
proveremo tutti insieme riusciremo a comprendere meglio gli «elefanti al
buio» e ad addomesticare le nostre paure.

Questo libro è stato realizzato grazie all'aiuto determinante di mio marito


Jacques Charmelot, profondo conoscitore del Medio Oriente, compagno di
viaggio impareggiabile, consigliere insostituibile e generoso.

Un affettuoso grazie a Taraneh Yalda, un'amica ma soprattutto un'ospite


squisita e guida impagabile nell'esplorazione del labirinto persiano.

Un particolare riconoscimento va a Paolo Zaninoni, Alessandra Mascaretti


e Massimo Birattari. Un grazie, infine, a Diego Pavesi, Alessandra Mele,
Cristiana Latini, Clara Ferrarlo e Michela Cosili.

CAPITOLO I

GLI USIGNOLI DI DARBAND E LEGGI DELLA REPUBBLICA


islamica dell'Iran impongono alle donne di coprire i capelli con un velo.»
La voce del comandante non mi lascia alcun dubbio. Sono arrivata. Sono le
cinque e mezza del mattino del 31 maggio quando atterriamo a Mehrabad,
l'aeroporto di Teheran. Sorge in pieno centro e prima di toccare terra
sorvoliamo per diversi minuti la capitale iraniana. Con il naso incollato al
finestrino, vedo sfilare sotto le ali l'immensa metropoli addossata a una
delle catene montuose più imponenti del mondo: l'Elburz. Nella notte
appena rischiarata dai primi bagliori dell'alba, le luci delle strade disegnano
una mantiglia di fili dorati decorata da perle scintillanti.

Jacques è curioso quanto me. Non è la prima volta che veniamo in Iran, ma
ne siamo sempre ripartiti con l'impressione di aver appena sfiorato la realtà
di questa nazione decisiva ai confini di tanti mondi diversi: a est l'Estremo
Oriente; a nord la Turchia erede dell'impero ottomano e gli Stati del
Caucaso, frammenti del defunto blocco sovietico; a ovest e a sud il mondo
arabo. Oltre 70 milioni di abitanti di etnie e tradizioni differenti: persiani,
azeri, curdi, arabi, baluchi, turcomanni. Un presente nel quale si mescolano
fanatismo religioso, fervore rivoluzionario, intransigenza ideologica, guerra
e violenze. Un passato ricco di una cultura millenaria. Un futuro che
potrebbe essere radioso grazie all'immensa ricchezza di risorse energetiche.
Questa volta il nostro viaggio durerà più di un mese, se le autorità iraniane
manterranno le promesse. Troppo poco per capire tutto, abbastanza per
alzare il velo sui tanti misteri del regno degli ayatollah.

Appena atterrati, mi sistemo uno scialle nero sulla testa in modo da coprire i
miei capelli troppo rossi per i gusti dei mullah che hanno preso il potere
ventisei anni fa. Il velo foulard, hijab o chador - è un simbolo, per alcuni
della sottomissione delle donne, per altri della loro protezione. In Occidente
è presentato come l'emblema di una società arcaica che rinchiude l'altra
metà del cielo in una prigione di stoffa, fatta di leggi e pregiudizi. Ma la
questione è più complessa. Sotto il chador le iraniane votano, lavorano,
guidano l'automobile, pensano e combattono per i loro diritti.

Siamo tra i primi a scendere dall'aereo. Giovani donne con l'uniforme


islamica e uomini barbuti in divisa verde ci attendono all'interno di piccoli
gabbiotti per controllare i nostri visti e i passeggeri si dispongono in file
ordinate, senza accalcarsi.

L'arrivo mi riserva subito una piccola delusione. Non capita tutti i giorni di
atterrare in un Paese sospettato di preparare una bomba atomica, di
sovvenzionare il terrorismo internazionale e di cercare di esportare la
Rivoluzione islamica.

Sarebbe dunque lecito aspettarsi qualche dimostrazione di forza, di


diffidenza, di dispotismo. Niente di tutto questo. Nel vecchio scalo di
Mehrabad vengo accolta da un senso di normalità, quasi di familiarità.
Intorno a me, i manteaux (i moderni spolverini che sempre più spesso
sostituiscono il classico chador) e i veli delle donne sono colorati. Questa
primavera - estate dominano il rosa e il verde acido. Con il mio scialle nero,
mi sento terribilmente démodée! Dovevo venire in Iran per avere
l'impressione di non essere al passo coi tempi? Bisognerà che rinnovi
immediatamente il mio guardaroba islamico.
Quando l'agente addetta al controllo mi chiede dove abiterò ho un attimo di
esitazione: «Non lo so» le rispondo. Ed è vero. L'amica che ci farà da guida
e si è offerta di ospitarci abita nella zona nord di Teheran, ma dove
esattamente «non so». La mia risposta evasiva sembra comunque bastare
alla giovane funzionaria che mi sorride e mi porge il passaporto dopo averlo
timbrato. Ci è mancato poco che dicesse «Benvenuta in Iran», come se si
trattasse di una destinazione turistica qualunque.

Ma trovo subito i punti di riferimento che cercavo: sopra i carrelli


portabagagli, appesi alle pareti, campeggiano i volti dell'imam Ruhollah
Khomeini, il padre della Rivoluzione islamica, e dell'attuale Guida
Suprema, Ali Khamenei. Con occhio severo sembrano sorvegliare i
viaggiatori appena arrivati che aspettano le valigie. La loro austerità
islamica nulla ha potuto contro l'irruzione della modernità. L'Iran ha ceduto
da tempo al fascino della tecnologia: le pubblicità dei telefoni cellulari sono
onnipresenti e nelle vetrine dei duty-free sono allineati aspirapolvere, ferri
da stiro, macchine per il caffè, impianti stereo, un costume dell'Uomo
Ragno e un'automobilina telecomandata fabbricata in Corea.

La mia peregrinazione nel labirinto persiano è cominciata con un delicato


segno del destino: in aereo ho incontrato Rahman Rezaei, un calciatore che
gioca nel Messina. È iraniano e torna regolarmente in patria per rispondere
alle convocazioni della nazionale. Viaggia con la sua adorabile moglie
Helieh: manteau bianco attillato, capelli che fuoriescono abbondantemente
da un foulard rosa, scarpe da tennis. E sempre molto sexy ed è una vera
gioia per me rivederla. Ci eravamo incontrate nel settembre 2004 sullo
stesso aereo Roma-Teheran. Le racconto del mio progetto per un nuovo
libro e ci scambiamo i numeri di telefono. Non li avevo contattati durante il
mio ultimo soggiorno, ma questa volta avrò tempo di farlo.

Sul volo ho fatto un altro incontro prezioso. Un giovane italiano mi aveva


salutata e mentre io e Jacques stavamo recuperando i bagagli si è
avvicinato. Ci ha offerto il suo aiuto che noi abbiamo gentilmente rifiutato.
Ma mi ha lasciato il suo biglietto da visita: «Marco Visconti». È un
commerciante di tappeti persiani. Credevo che non lo avrei mai più rivisto,
e invece...
Jacques spinge il carrello con i bagagli verso l'uscita. E senza alcun
preavviso veniamo investiti da un vero e proprio tornado. Taraneh! E una
piccola donna dagli occhi dorati e dai capelli neri, sempre in movimento,
traboccante di vita e di buonumore. Architetto, madre di famiglia, parla
perfettamente l'italiano, il francese, l'inglese e lo spagnolo. Nelle prossime
settimane sarà impegnata simultaneamente su tre fronti: elaborare un piano
di sviluppo urbanistico per la capitale, tirare su un ragazzino di quindici
anni che non ha ancora deciso se diventare un batterista jazz o un genetista,
e accompagnare un'italiana e il marito francese che si sono messi in testa di
esplorare un Paese in pieno fermento. Il foulard di traverso, uno zainetto di
cuoio verde e marrone sulle spalle, energia da vendere nonostante l'ora
antelucana, ci abbraccia, ci stringe e ci spinge verso l'uscita.

«Faremo colazione, vi sistemerete a casa, poi andremo al Ministero per


ritirare i vostri permessi e cominceremo a fare le telefonate necessarie per
fissare gli appuntamenti.»

Taraneh è partita di slancio e so che con lei il ritmo del mio soggiorno non
rallenterà. In ogni caso ha ragione: in Iran è meglio essere previdenti se si
vuole combinare qualcosa.

E ormai giorno quando usciamo sulle scale dell'edificio principale di


Mehrabad. La città si intravede dietro gli alberi che danno all'aeroporto un
aspetto quasi provinciale. Teheran si estende per chilometri e sale verso i
contrafforti delle montagne, le cui cime sono sempre imbiancate di neve.
Non riesco ancora a vederla ma la sento, e il suo rumore riempie l'aria del
mattino. Una cappa di smog, in lontananza, mi ricorda che sono arrivata in
una delle metropoli più inquinate del mondo.

E questo lo spettacolo che Khomeini si trovò di fronte quando rientrò in


Iran, il 1° febbraio 1979, sull'onda della vittoria della Rivoluzione. Quasi
sedici anni prima era stato cacciato dallo scià Reza Pahlavi e si era rifugiato
in Turchia e poi in Iraq, stabilendosi nella città santa di Najaf. Espulso da
Saddam Hussein che voleva riavvicinarsi all'Iran, l'Ayatollah trascorse gli
ultimi mesi del suo esilio a Neauphle-le-Chàteau, vicino a Parigi. Sull'aereo
dell'Air France che lo riportava in patria, il giornalista americano Peter
Jennings, della Abc, gli chiese che cosa provasse in quel momento: lui
rispose
«niente». Ma per i milioni di iraniani che erano accorsi ad accoglierlo, il
suo ritorno era carico di un'immensa emozione, di una formidabile speranza
e di un incredibile senso di rivincita nei confronti di un regime tanto odiato.
La folla era così numerosa che il vecchio Imam abbandonò l'automobile e
salì su un elicottero dell'esercito per andare a pregare al grande cimitero dei
martiri di Beheste Zahra. Elaine Sciolino, corrispondente del «New York
Times» a Parigi e grande amica di Jacques, all'epoca era inviata speciale del
settimanale «Newsweek». E sicura di aver visto Khomeini increspare il
volto imperturbabile e sorridere alla vista di tutta quella gente che lo
acclamava. Nei dieci giorni successivi al suo rientro, ciò che restava del
potere dello Scià sarebbe crollato. Il governo, l'esercito, i servizi di
sicurezza si disgregano sotto la pressione della strada, delle manifestazioni,
degli scontri tra gruppi di insorti e forze dell'ordine. La Rivoluzione
travolge tutto e seppellisce la monarchia.

Mi volto verso Jacques. Anche lui si è fermato. So che si sta ponendo la mia
stessa domanda: «Che cosa resta oggi di quel fervore?».

«Ce lo diranno gli iraniani» mi risponde.

Lasciamo il parcheggio dell'aeroporto con la Kia bianca di Taraneh e


imbocchiamo una strada che porta verso una grande rotatoria. Teheran mi
investe in pieno.

Taraneh ha inforcato gli occhiali e lancia la sua automobile nel flusso del
traffico. Ho l'impressione che tutti gli autobus, i camion e le macchine
scassate della città si siano dati appuntamento per salutarmi alla loro
maniera, in un concerto di motori che tossiscono, di clacson e di frenate. Lo
smog mi prende subito alla gola e cerco di chiudere il finestrino del lato
passeggero.

«Non funziona dalla tua parte» mi dice Taraneh, che nei giorni successivi si
dimostrerà una vera maestra nel guidare con una mano, stringere il cellulare
nell'altra, ingiuriare gli automobilisti, schivare tutti quei trabiccoli che ci
piombano addosso da ogni parte. E sarà sempre lei a dover abbassare o
rialzare il mio finestrino, a seconda dei miei stati d'animo, del caldo, del
rumore o del grado di inquinamento.
Con un'andatura allegra attraversiamo l'immensa piazza Azadi, nella quale
campeggia un arco di trionfo che assomiglia a una Torre Eiffel di cemento
con la cima decapitata. Il monumento fu eretto per volere dello Scià nel
1971 per commemorare i 2500 anni dell'impero persiano, ma è stata la
Rivoluzione a intitolare la piazza alla Libertà.

Le immagini si susseguono più rapidamente di quanto la penna riesca a


registrarle su uno dei quadernetti a spirale che ho comprato prima di partire.
Rimango colpita anche stavolta dalla povertà cromatica degli edifìci che
scorrono davanti ai miei occhi: solo mattoni bianchi o grigi. Le facciate
sono punteggiate dalle macchie più vivaci dei cartelli, dei manifesti
pubblicitari, delle insegne dei negozi, sui quali simboli sinuosi disegnano
parole per me incomprensibili.

Ovunque, una sequenza di ritratti osserva la nostra avanzata nel caos della
capitale: il viso dell'Imam che spunta in ogni piazza, quello della Guida
Khamenei, quello del presidente Mohamed Khatami, quelli dei «martiri» di
cui persino gli iraniani hanno dimenticato il nome. E quello insolito di un
soldato sorridente che accoglie il visitatore con uno strano «

Welcome to Khorramshahr», la città nel Sud-ovest dei Paese attaccata per


prima nel 1980 all'inizio della guerra con l'Iraq.

E poi, affisse ovunque, le facce degli otto candidati alle elezioni


presidenziali che si terranno tra poche settimane. La campagna elettorale è
in pieno svolgimento e i pretendenti fanno ricorso a tecniche di
comunicazione degne del Grande Satana, gli Stati Uniti, il nemico numero
uno della Repubblica islamica. Immensi cartelloni sui quali i concorrenti
appaiono in pose rilassate, ragazzi sui pattini che distribuiscono volantini,
camioncini che circolano per la città ricoperti di manifesti. Hanno persino
accettato di piegarsi a una regola basilare dei politici in campagna
elettorale: sorridono! «È

un grande progresso» mi fa notare Taraneh con tono beffardo. Fino a poco


tempo fa la proverbiale «modestia islamica»

impediva agli esponenti politici o religiosi di farsi fotografare di buon


umore. Inoltre questa volta tutti i candidati hanno deciso di mostrare le
mani. Nuova spiegazione di Taraneh: «Vogliono piacere». In un Paese in
cui il corpo viene nascosto in pubblico, in cui il più piccolo ritaglio di pelle
nuda esprime una carica sensuale, mostrare le mani è un atto che assume un
forte carattere di seduzione.

Ma ci vorrà ben altro per convincere gli iraniani a fidarsi ancora del sistema
e ad andare a votare. Il presidente uscente Khatami (che ha peraltro mani
bellissime) è un hojatoleslam, alta carica nella gerarchia del clero sciita.
Come discendente del Profeta porta il turbante nero. Difende la democrazia
islamica contro una teocrazia assoluta: la religione è centrale ma non deve
avere il controllo incontrastato del potere. Eletto nel 1997 e rieletto nel
2001, considerato un riformatore, ha deluso i suoi sostenitori che si erano
mobilitati in massa in entrambe le occasioni. Nelle ultime elezioni politiche,
nel 2004, i conservatori hanno ottenuto la maggioranza all'interno del
Parlamento, il Majlis. È stata una grave sconfitta per i progressisti e gli
esperti prevedono una bassa partecipazione alle prossime presidenziali.
Secondo i sondaggi sarebbe in testa Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Il «re
Akbar»Taraneh ha imboccato una strada larga che sale verso la parte
settentrionale della città. Teheran è attraversata da una rete di tangenziali
urbane paragonabile a quella di Los Angeles. Ma nella metropoli
californiana non ho mai visto nessuno sfrecciare a 150 chilometri all'ora, a
meno che non fosse inseguito dalla polizia. Non ho mai visto un'intera
famiglia, padre, madre e due bambini, fare lo slalom in sella a una
motocicletta tra due file di automobili. Non ho mai visto un ragazzo guidare
la moto con le braccia incrociate davanti a sé, la mano sinistra sulla
manopola destra e la destra su quella sinistra. Forse in uno studio di
Hollywood per un numero acrobatico un po' rischioso, ma non sul Sunset
Boulevard. Teheran è unica, anche in questa parte del mondo: non
assomiglia a nessuna delle altre grandi capitali che ho avuto la fortuna di
visitare, Damasco, Baghdad, Amman, II Cairo, Riyad, Beirut.

Uno dei problemi che Teheran deve affrontare è quello dei suoi mostruosi
ingorghi. Nella metropoli circolano più di due milioni di veicoli, per la
maggior parte vecchie Paykan. La Paykan rappresenta per gli iraniani
quello che la Cinquecento è stata per gli italiani, la 2 Cavalli per i francesi e
il Maggiolino per i tedeschi. Un mito. Un caso sia economico che culturale.
E stata fabbricata per quasi quarant’anni grazie a una licenza britannica, sul
modello della Hillman Hunter. Ma mentre la produzione della Hunter è
cessata nel 1979, l'azienda automobilistica di Stato Iran Khodro ha
continuato a fabbricare Paykan fino all'aprile del 2005. Le Paykan sono
ovunque, in tutte le forme, dalle più vecchie tenute insieme per miracolo,
alle più recenti ancora in dotazione ad alcune unità della polizia. Quasi tutti
i taxi di Teheran sono Paykan e durante il mio soggiorno salirò su vetture
nelle condizioni più disparate: senza maniglie alle portiere, senza freni,
senza marmitta, senza finestrini. La Paykan è stata l'automobile popolare -
stavo per scrivere

«rivoluzionaria» — per eccellenza. La si trova a buon mercato — l'ultimo


modello costava circa 5000 euro - ed è indistruttibile. Ma consuma 16 litri
di benzina ogni 100 chilometri ed è stata condannata a scomparire sotto la
duplice pressione degli ambientalisti e dei fautori del risparmio energetico.
E stata anche vittima della moda e del gusto del pubblico giovane, che
preferisce modelli meno spartani.

Oggi le automobili più popolari a Teheran sono le piccole Peugeot 206, e i


proprietari scatenano la loro fantasia dotandole di alettoni, cerchi in
alluminio e sospensioni ribassate. I guidatori si lanciano in vere e proprie
gincane passando da una fila all'altra con un entusiasmo suicida. A volte un
cartello ricorda in uno strano inglese che la velocità è controllata: «Speed
Camera». Più che a un vero avvertimento, fa pensare all'insegna di un
negozio che sviluppa fotografìe o al titolo di una trasmissione televisiva sul
genere «Candid Camera». Nessuno ci fa caso, proprio come nessuno fa caso
alle Mercedes della polizia che fanno la guardia lungo le autostrade per
invitare gli iraniani alla prudenza: sono di cartone.

Taraneh conosce bene la città e i suoi problemi. Lavora come consulente


presso il Dipartimento urbanistico del Comune e dovrà elaborare il nuovo
piano di sviluppo.

«Quando nel 1795 la capitale fu trasferita a Teheran dai Qajar, la dinastia


che prese il potere nel XVIII secolo, contava circa 15.000 abitanti» ci
ricorda. «Oggi nell'intero agglomerato urbano vivono più di 13 milioni di
persone.»
Ai primi del Novecento Teheran contava solo 250.000 abitanti e al
momento della Rivoluzione appena quattro milioni.

Ventisei anni dopo, la città esplode tra la montagna a nord e il deserto a sud.
Sorgono dappertutto nuovi cantieri: nei quartieri popolari come tra gli spazi
verdi e i larghi viali della zona settentrionale, la più elegante della città. A
volte le gru sembrano reggersi in equilibrio sui contrafforti che salgono dal
centro, a 1200 metri di altitudine, fino ai rioni aggrappati a 1800 metri di
quota.

Due anni fa, nel febbraio del 2003, i conservatori hanno vinto le elezioni
municipali promettendo miracoli. Il nuovo sindaco Mahmud Ahmadinejad,
oggi candidato alle presidenziali, si è impegnato a trasformare Teheran in
una città islamica modello. Voleva dimostrare che era possibile gestire una
megalopoli senza ricorrere alle consuete prebende, ai privilegi illegittimi,
alla corruzione e ai favoritismi. Non sono certa che sia riuscito a vincere la
scommessa e soprattutto a risolvere i principali problemi: il traffico,
l'inquinamento e la carenza di alloggi.

Ci dirigiamo verso Darband, il villaggio ai piedi dell'Elburz dove Taraneh


ha la sua casa estiva.

«Vivere a Darband è il solo modo per sfuggire al caldo e allo smog.


Vedrete, si respira bene e fa fresco» ci promette.

Mentre ci avviciniamo alla grande catena montuosa, riesco a comprendere


meglio il rispetto che incute agli iraniani.

Secondo la leggenda, l'Elburz e la sua cima più alta, il monte Damavand,


hanno impiegato ottocento anni per emergere dalla Terra. Il Sole, la Luna e
le stelle gli ruotavano intorno e il dio Mithra vi aveva stabilito la propria
dimora. Il culto di questa divinità nato mille anni prima di Cristo ha dato
origine allo zoroastrismo, la religione monoteista che ha ispirato le altre tre
religioni rivelate: il giudaismo, il cristianesimo e l'Islam. È stato lo
zoroastrismo a concepire per primo i princìpi etici di Bene e Male,
unitamente all'esistenza di un Dio giusto che si aspetta dagli uomini che
scelgano tra la purezza e il peccato. Ha anche affermato l'esistenza di un
Giudizio finale e di una vita dopo la morte.
A mano a mano che ci si avvicina, l'Elburz appare come un enorme animale
addormentato, un essere mitico che sembra montare la guardia alle porte di
Teheran. Forse è quel toro primordiale dal quale sono nati tutti gli altri
esseri, secondo quanto narra la leggenda del dio Mithra? La luce gioca sulle
sue cime spoglie e nelle vallate verdeggianti. La sua roccia è a tratti grigia,
bruna o rosata. Per gli abitanti della città, l'Elburz è sinonimo di acqua,
frescura, vegetazione ed evasione. Durante il fine settimana i suoi sentieri
vengono invasi da intere famiglie a passeggio e i caffè disseminati lungo il
corso dei ruscelli si riempiono di fumatori di narghilè. Semidistesi sopra
piccoli divani, si riposano dopo la salita parlando di politica e di poesia, le
due grandi passioni degli iraniani.

Taraneh si ferma davanti al ristorante del suo amico Massud. E l'ora della
prima colazione.

«Adassi per tutti» dice lei «e del té.»

Non so cosa sia, ma di sicuro non mi aspetto di assaporare un cornetto con


un bel cappuccino schiumoso. Il profumo del forno del panettiere lì accanto
invade tutta la stanza dalle pareti di maiolica bianca nella quale Massud
officia da dietro i fornelli. Insieme ai suoi due figli ci serve da mangiare in
piatti di alluminio. Zuppa di lenticchie, cipolle fresche, foglie di menta.
Questo è Yadassi, e dopo il cibo dell'Alitalia non posso proprio lamentarmi.
Intanto l'acqua del té bolle nel samovar, mentre il nun, il pane tradizionale,
si materializza ancora caldo sulla nostra tavola. Il ristorante si riempie
rapidamente e i sei tavoli vengono tutti occupati. Alcuni clienti abituali si
siedono sul marciapiede per mangiare omelette, formaggio o panna servita
con miele.

Darband è un villaggio abbarbicato sul pendio della montagna, come un


estremo prolungamento di Teheran che cerca di infiltrarsi ovunque sia
possibile. Casette senza alcuna attrattiva, in mattoni e pietre, tetti piatti o in
lamiera ondulata, stradine troppo strette perché vi possano passare le
automobili, scorciatoie ripide e sconnesse che tolgono il fiato e scale che
non finiscono più di salire o di scendere. Bisogna avere gambe buone per
vivere qui, ma almeno si riesce a respirare. L'aria è fresca e si sentono gli
usignoli cantare. Più a valle, un torrente scorre tra gli edifici moderni
dell'unica grande strada che attraversa il villaggio. Di notte si ode il suo
sordo borbottare salire dal fondo della vallata.

Taraneh ci sistema nella sua casa immersa nel verde. Tre piani: una cucina
provenzale al piano terra, la sua camera al primo piano e all'ultimo una
grande stanza luminosa piena di tappeti e di colori che ospiterà le nostre
cose per un mese.

L'abitazione è stata rinforzata con una struttura d'acciaio secondo criteri


antisismici. La vita si svolge quasi interamente sulla terrazzina, tra vasi di
fiori, due tavoli di ferro, una panca di legno chiaro lungo il muro, la
biancheria stesa ad asciugare. Ho la sensazione di essere in un paesino
dell'Italia meridionale, tra il cielo blu e le pietre calde. E lì che ci ritroviamo
la mattina davanti alla caffettiera fumante e la sera, dopo una lunga
giornata, per mangiare tutti insieme pane, formaggio e un buon pollo alla
griglia.

La minuscola moschea di Darband si trova proprio accanto, disposta ad


angolo. Si entra da una porta verde di acciaio, sulla destra una serie di
gradini sale verso le zone alte del borgo. A sinistra una scala procede a
zigzag verso il torrente e la strada principale. Il muezzin è un vecchio
signore che fatica a richiamare i fedeli alla preghiera. Si aiuta diffondendo
dagli altoparlanti alcuni sermoni registrati o i servizi officiati via radio da
imam più importanti di lui. Mi sono abituata subito a quella presenza e
all'eco dei canti che sembrano rispondersi di vallata in vallata nei villaggi a
nord di Teheran.

Nelle stradine di Darband, che d'inverno si coprono di neve e d'estate


giocano con l'ombra e il sole, le persone che incrocio mi salutano con un
cordiale salam. C'è il droghiere, Merdad, che aspetta i clienti seduto sulla
soglia del negozio; l'idraulico, Daud, che si è riconvertito all'installazione di
antenne satellitari; Sheidan, la vicina, che conosce due parole di tedesco e
viene a cenare da noi quando il marito non torna a casa. E ogni volta che
parto in esplorazione, i bambini infilano la testa nelle porte di ferro
socchiuse quando sentono le ruote della mia valigia che mi saltellano dietro.

Sorridendo, li chiamo djudju, «tesoro». Le loro risate cristalline mi


accompagnano fino all'angolo della strada.
I rumori di Darband mi diventeranno subito familiari: le grida dei ragazzi la
mattina presto quando scendono verso il fiume per prendere l'autobus che li
porterà a scuola, il richiamo dei venditori ambulanti a cui rispondono le
donne di casa da dietro i muri dei cortili, lo scoppiettio della motocicletta
del nostro vicino, i litigi che non capisco, la sega di un carpentiere e i salam
scambiati in continuazione. In lontananza, un martello pneumatico che
aggredisce la roccia per gettare le fondamenta di un nuovo edifìcio. E
sempre, il canto degli usignoli, posati sui fili dell'alta tensione come le note
di un pentagramma.

Nel mio primo giorno a Teheran devo subito compiere un rito legato sia
all'etichetta che alla diplomazia: presentarmi al ministero della Cultura e
della Guida islamica, l'Ershad, per ottenere un certificato che diventerà la
mia carta d'identità professionale durante il soggiorno. Avrò bisogno anche
di una serie di documenti per viaggiare e incontrare le personalità che
desidero intervistare.

Prendiamo un primo taxi che fa la spola tra Darband e piazza Tajrish, il


centro di Shemiran, il quartiere elegante di Teheran. E subito mi butto in un
interrogatorio in piena regola del tassista: raramente il poveretto si sarà
trovato sotto un simile fuoco di domande di prima mattina. Ma si presta al
gioco, grazie all'aiuto di Taraneh che non si lascia scoraggiare né dal suo
malumore né dalla sua diffidenza.

«Sono dieci anni che non vado a votare» mi confessa quando gli chiedo
quale degli otto candidati sceglierà alle presidenziali del 17 giugno. E
aggiunge: «Non credo alle elezioni, ma molti ci credono ancora».

Si dice convinto della vittoria di Rafsanjani. Come la maggioranza di coloro


ai quali rivolgo la stessa domanda. Da oltre venticinque anni «re Akbar»
esercita un'influenza che va ben oltre le sue funzioni ufficiali e ha
accumulato una fortuna sulla cui provenienza si è molto chiacchierato.

«Rafsanjani è stato il vero potere dietro al trono, è lui che comanda da dieci
anni» afferma il nostro tassista molto sicuro di sé.

Ferma l'automobile in una stazione dove siamo costretti a prendere un altro


taxi che abbia il permesso per entrare in centro. A Teheran i tassisti
crescono in modo esponenziale. E io non saprò mai se ho a che fare con dei
professionisti o con dei privati che arrotondano lo stipendio prendendo
passeggeri a bordo delle proprie automobili. Poco importa, il prezzo è lo
stesso: modico. Una corsa che può durare ore non mi costerà mai più di
quattro euro.

Saliamo su una vecchissima Chevrolet i cui freni sono ormai da tempo un


pallido ricoido. Non so se l'embargo americano, che dura da un decennio,
vieti anche l'importazione di pezzi di ricambio per i vecchi macinini made
in Usa, ma questo avrebbe bisogno di una bella revisione. Ogni volta che
l'autista cerca di fermarsi, le ruote si bloccano e l'auto continua ad avanzare
scivolando sui pneumatici completamente lisci. Ma niente potrà «frenare»
la mia curiosità.

«Non badi ai miei capelli bianchi, è la vita che mi ha fatto diventare così»
mi dice il nostro nuovo tassista ancora prima che io abbia il tempo di aprire
bocca.

È grassottello, mal rasato e giura di avere quarantadue anni. Dice di


chiamarsi Feridun, è sposato e padre di quattro bambini. Ha sempre guidato
il taxi e i 500 dollari che porta a casa a fine mese non bastano più. Non
riesce a mantenere la famiglia e inveisce contro il governo.

«Sono una banda di bugiardi» brontola.

Con la sua Chevrolet ha imboccato il Vali Asr. Questo viale che attraversa
Teheran da nord a sud è una delle arterie urbane più lunghe del mondo. Si
estende attraverso la città per una ventina di chilometri ed è l'allegoria
perfetta della situazione economica e sociale del Paese. Lo è sempre stata e
la Rivoluzione non sembra aver cambiato nulla. Il Vali Asr scende dalla
parte settentrionale di Teheran, ricca e occidentalizzata, verso la zona
meridionale, più povera e tradizionalista. Il ciglio del vialone è ombreggiato
da due filari di immensi platani il cui fogliame forma un fresco tetto
verdeggiante. Le loro radici sono immerse in ampi canali che corrono tra i
marciapiedi e la carreggiata. Sono i famosi joub alimentati dall'acqua che
scende dalla montagna. In primavera, quando si sciolgono le nevi, si
trasformano in piccoli torrenti. Taraneh mi spiega che per molto tempo
hanno rappresentato un vero e proprio sistema fognario poi sostituito da una
rete sotterranea, \joub costituiscono anche un sofisticato sistema di
irrigazione che copre decine di migliaia di chilometri in tutto l'Iran e la cui
manutenzione è oggetto di attente cure, in un Paese in cui l'acqua è un bene
molto prezioso.

«Ho creduto nella Rivoluzione ma sono stato ingannato» continua Feridun.


«Tutto sarebbe stato gratuito: la benzina, l'elettricità, i trasporti, ma nessuna
di queste promesse è stata mantenuta. La gente è più povera di prima.»

Il traffico è intenso e di una lentezza esasperante. Il caldo si è fatto


insopportabile e so che con questo foulard sulla testa soffrirò. A Teheran la
colonnina di mercurio sfiora spesso i 40 gradi. Ho tutto il tempo di guardare
le vetrine del nord di Vali Asr. Prèt-à-porter ultima moda, gioielli, ristoranti
di grido, commercianti di tappeti venduti a peso d'oro. È un incrocio tra via
Veneto, gli Champs Elysées e la Fifth Avenue. Nelle strade laterali sono
allineati grandi edifici dall'aspetto opulento e dagli ingressi rivestiti di
marmi preziosi.

«Ci siamo battuti per l'Islam, ma questo non è l'Islam» prosegue il mio
tassista. «Nei Paesi arabi che lo praticano c'è uno stato sociale che aiuta le
persone: gli ospedali sono gratuiti, per esempio, da noi non è così. Oggi le
imprese assumono dipendenti senza garantire nessuna copertura sociale.»

Ho l'impressione che le giovani signore che vedo entrare nei bei negozi del
Vali Asr siano molto lontane dalle preoccupazioni di Feridun. La libertà che
le donne dei quartieri eleganti si prendono con il velo islamico non mi
stupisce più. Portano sul capo «accenni» di foulard e i loro colori vivaci
mettono in risalto i capelli neri anziché nasconderli. Ma ciò che più mi
affascina sono le scarpe: osservando i piedi misuro il loro atteggiamento di
rispetto o di sfida nei confronti della tradizione. Si va dalla ciabatta nera
informe ed ermeticamente chiusa ai sandali con i tacchi alti che mettono in
mostra caviglie e piedi sbarazzini con le unghie dagli smalti aggressivi.

«Qui ormai c'è solo la legge del più forte o del più ricco» sospira Feridun.

Mi racconta che vorrebbe mandare i suoi figli in Germania o in Olanda:


«Mi dicono che in Europa i giovani si drogano, ma lo fanno anche qui: non
c'è futuro per i ragazzi».
Dopo questa litania di recriminazioni non esito a rivolgergli una domanda
che mi brucia le labbra. Mi sembra anacronistica, desueta, ma non posso
farne a meno.

«Si stava meglio all'epoca dello Scià?»

«Sì. All'epoca dello Scià tutto andava meglio» mi assicura Feridun senza
incertezze. «La metà dello stipendio era destinata alla casa e si poteva
spendere l'altra metà per tutto il resto. Quello che la gente guadagna oggi
non basta più nemmeno per pagare l'affitto.»

Sono stupefatta. Feridun, che si asciuga la fronte negli ingorghi di Teheran


al volante di un catorcio per meno di 20

dollari al giorno, e Sheila che passa il tempo tra le sale da té di Parigi e


quelle di Washington, non hanno niente in comune. Tranne il fatto che
entrambi rimpiangono lo Scià. Sono sicura che la realtà sia un po' più
complicata.

La città è tappezzata di ritratti di Khomeini di cui tra pochi giorni cadrà


l'anniversario della morte, avvenuta il 4 giugno 1989. Che cosa resta della
memoria dell'Imam? E che cosa hanno fatto i suoi eredi per meritare le
critiche così dure di un uomo come Feridun? Questa delusione è diffusa? E
ha come bersaglio la Rivoluzione, coloro che l'hanno servita o coloro che
l'hanno tradita? L'implacabile determinazione di Khomeini ha avuto la
meglio sullo Scià e sulla dinastia dei Pahlavi, come pure sulla presenza
americana in Iran. E in seguito l'Imam non ha avuto remore a eliminare i
propri avversari politici, le forze laiche e di sinistra, gli stessi con i quali si
era alleato per rovesciare la monarchia. L'obiettivo era imporre il sistema
del welayat-e faqih, il governo del giudice religioso. Secondo l'Imam
l'unico sistema giusto, una vera dittatura in nome della fede secondo i suoi
detrattori. Jacques, che accoglie un po' divertito il fiume di domande che mi
assale, le riassume con una battuta: «Khomeini saprà resistere alla Coca-
Cola?».

CAPITOLO 2
IL MARTIRE CHE SORRIDE

POTETE SCRIVERE qualunque cosa, a condizione che sia vera.» Il tono è


gioviale, quasi ironico. L'uomo seduto di fronte a me ha una quarantina
d'anni. E sorridente, il viso aperto, affabile. Indossa un abito grigio con una
camicia azzurra e si lascia interrompere dalle chiamate che si succedono
incessanti sul suo cellulare. Ali Reza Shiravi sa parlare con la stampa. Ci è
abituato. E responsabile all'Ershad per i permessi di lavoro ai giornalisti
stranieri. È comodamente seduto in un ampio e luminoso ufficio dotato di
aria condizionata. Alla parete è appeso un quadro di arte contemporanea di
cui fatico a cogliere il significato. In questa stanza tutto emana calma e
modernità.

Shiravi, che conosco dai miei precedenti viaggi, è un uomo molto richiesto,
direi addirittura molto corteggiato. E lui ad avere il potere di concedere
visti, accrediti e autorizzazioni agli spostamenti. E in questi giorni non sta
certo con le mani in mano. Più di 200 giornalisti provenienti da ogni parte
del mondo sono attesi in Iran per le elezioni presidenziali. Andranno a
ingrossare il contingente di un centinaio di corri spondenti permanenti di
stanza nel Paese.

L'immagine che il resto del mondo avrà del regime di Teheran dipenderà in
larga parte da quello che scriveranno.

Shiravi ricopre uno degli incarichi più delicati all'interno del sistema di
comunicazione della Repubblica islamica. E già da tempo ha capito che il
politichese, oltre a irritare i giornalisti, è controproducente. Ovunque la
realtà è più forte della propaganda. Sembrano lontani i giorni in cui i
reporter venivano espulsi dal Paese con l'accusa di spionaggio, come
accadde a Jacques nel 1986, all'apice della tensione tra Parigi e Teheran. Ma
ciò che vale per la stampa estera non vale per quella iraniana: molti hanno
pagato con la libertà le loro requisitorie contro il regime dei mullah. Il
capofila dei riformisti, il presidente della Repubblica Mohamed Khatami,
non ha saputo difenderli dalla durezza di un sistema giudiziario controllato
dall'ultraconservatore Khamenei.
«In Iran ci sono cose che funzionano e altre che non funzionano» prosegue
Shiravi. «Accade così in tutti i Paesi del mondo. Ti chiedo come sempre di
verificare semplicemente le tue informazioni, che siano positive o
negative.»

E una raccomandazione che qualsiasi caporedattore sottoscriverebbe. Ma


ovviamente nasconde una trappola. Come è possibile verificare una notizia
in un sistema così torbido? A chi chiedere? Chi ha il potere di apporre il
sigillo della verità in una società in cui la dissimulazione è diventata uno
stile di vita?

Capisco subito che il mio soggiorno in Iran sarà fonte di problemi per tutti
coloro che devono occuparsene, Shiravi per primo. In quale categoria
inserirlo? E soprattutto: chi sarà responsabile di quanto farò, scriverò o
dirò? Come deputata del Parlamento europeo non dipendo dall'Ershad, e il
mio visto è stato rilasciato dal ministero degli Esteri iraniano.

Sono presidente della Delegazione dei Paesi del Golfo e membro di quella
iraniana, ma la mia visita non ha nulla di ufficiale. Agli occhi degli iraniani
assomiglia di più alla trasferta di una giornalista, anche se non sono venuta
per coprire l'attualità. Alla fine l'alto funzionario opta per una formula
particolare: sarò in «viaggio di studio». E godrò di una straordinaria libertà.

Mentre le sue collaboratrici, efficienti e sorridenti, preparano le lettere che


faciliteranno i miei spostamenti e le mie interviste, Sturavi, Taraneh,
Jacques e io cominciamo a discutere davanti a una tazza di té. Ali Reza fa
parte di quel gruppo di dirigenti iraniani che hanno creduto nella capacità
del sistema di evolversi. È un riformatore. «La Rivoluzione non ha
mantenuto tutte le sue promesse» riconosce, riprendendo le parole di
Feridun. Sono arrivata in Iran da meno di ventiquattr'ore e ho già
l'impressione che sia la conclusione condivisa da tutti. Le ragioni del
disincanto sono diverse: economiche per coloro che si aspettavano un
maggiore benessere, politiche per quanti speravano in una maggiore libertà.
Ma quali che siano le radici di questa disillusione, il risentimento
generalizzato rende l'esito delle elezioni presidenziali particolarmente
decisivo. Gli iraniani non sceglieranno solo un uomo e un programma, ma
anche una risposta al problema fondamentale della legittimità e della
sopravvivenza del regime.
Sapevo che Shiravi aveva un passato pesante, ma non avevo mai osato
chiederglielo. Adesso decido di farlo. Mi racconta che è un veterano della
guerra contro l'Iraq ed è stato fatto prigioniero nel febbraio del 1982 sul
fronte meridionale, nella regione a maggioranza araba del Khuzestan.
«Volevo combattere per la mia patria e per l'Islam» mi confida. Fa una
pausa. Non è facile per lui aprirsi, e gli iraniani che mi capiterà di
incontrare manifesteranno sempre un grande pudore nel rievocare questo
periodo della loro storia: «La mia famiglia non voleva lasciarmi partire, mia
madre diceva che ero troppo giovane: avevo solo sedici anni. Poi mi sono
rifiutato di mangiare per qualche giorno e alla fine ha dovuto cedere».

E rimasto per più di otto anni in un campo di prigionia iracheno. Sottoposto


a una detenzione particolarmente dura, è stato anche vittima di torture:
«Pensavo che sarei morto» confessa senza alcuna emozione. E stato liberato
nell'estate del 1990, quando Saddam Hussein ha cercato di comprare la
neutralità dell'Iran durante lo scontro con gli Stati Uniti e il resto del mondo
all'indomani dell'invasione del Kuwait.

Gli chiedo che cosa resta della Rivoluzione.

«La prima lezione della Rivoluzione è l'indipendenza. Nessuno ci dice più


cosa dobbiamo fare come succedeva all'epoca dello Scià. La seconda
lezione sono le libertà individuali, che sono riconosciute e difese dalla
Costituzione.»

Gli faccio notare che in Iran la libertà personale è rigidamente


regolamentata, in particolare per quanto riguarda le questioni più banali
come l'abbigliamento.

«Le regole da seguire dipendono dall'epoca e dal luogo, come ha sempre


spiegato Khomeini. Ciò che valeva ieri deve essere cambiato se non va più
bene oggi e ancora meno domani. Se non diamo alle persone il diritto di
vivere, se lo prenderanno da sole.»

Ma l'Islam e le sue convinzioni? E quelle regole che sembrano dover


governare ogni attimo dell'esistenza?
«E stata data un'interpretazione sbagliata dell'Islam e la concentrazione del
potere diretto nelle mani dei religiosi non è una buona cosa» mi assicura.

Un'affermazione del genere mi coglie di sorpresa. Per molto meno, in Iran


sono state imprigionate, se non addirittura giustiziate, centinaia di persone.
Non mi aspettavo una simile franchezza, o meglio un simile coraggio. Ma
avrò la conferma in questo viaggio che la nuova classe dirigente non
risparmia critiche alle debolezze del sistema. Non ha paura di mettere in
discussione il dogma e di impugnare l'insegnamento dell'Imam per
cambiare un regime che deve riformulare il contratto stipulato col suo
popolo se vuole sopravvivere.

Gli domando chi, a suo parere, vincerà le elezioni. Si toglie dall'impaccio


con una battuta: «Uno dei candidati».

Gli chiedo allora per chi voterà, ma cerca di eludere la domanda: «Abbiamo
bisogno di un uomo che possa far progredire il Paese verso una maggiore
libertà».

«Allora voterà per Rafsanjani?»

«Rafsanjani sa parlare e agire» conclude in modo sibillino.

Sarebbe dunque «re Akbar» a far uscire il Paese da una logica


rivoluzionaria che lo ha portato sulla strada della crisi economica e
dell'isolamento internazionale?

Rafsanjani si è reso protagonista di un episodio cruciale della storia


contemporanea dell'Iran. Fu lui, un giorno dell'estate del 1988, ad andare da
Khomeini per chiedergli di mettere fine alla guerra con l'Iraq. All'epoca
dirigeva le operazioni militari: l'Imam lo aveva appena nominato
comandante in capo delle forze armate, una responsabilità enorme in un
momento in cui il nemico era passato all'offensiva, appoggiato direttamente
dagli Stati Uniti che avevano distrutto i due terzi della flotta iraniana nel
Golfo. Ma per Khomeini la guerra non era solo una questione di difesa del
santuario nazionale. Era soprattutto una crociata contro un malvagio
dittatore, il laico sunnita Saddam Hussein. Accennare alla possibilità di un
compromesso o di un cessate il fuoco davanti a Khomeini significava avere
un grande coraggio e un'eccezionale fiducia in se stessi. Rafsanjani era
dotato di entrambe queste qualità. Riuscì a convincerlo che la
sopravvivenza della Rivoluzione passava attraverso l'accettazione della
soluzione dell'Onu, che prevedeva la sospensione dei combattimenti.

Mi chiedo se l'uomo che ha saputo mettere fine alla guerra saprà anche
chiudere il capitolo della Rivoluzione.

Altro ufficio, altra scena, altro Iran. Il quartier generale della fondazione per
la memoria dell'imam Khomeini si trova in un edificio di sei piani nel
quartiere di Jamaran. Tutto intorno alberi, prati ben curati, aiuole fiorite.
Jamaran è, come Darband, un villaggio di montagna che è stato raggiunto
dalla città. Vi si respira ancora un'aria leggera, profumata, e i privilegiati, i
taghuti, hanno sempre abitato qui. Dopo la Rivoluzione vi si sono stabiliti i
diseredati, i mostazafin. E qui che hanno i loro uffici le grandi fondazioni
incaricate della gestione dei beni mobili e immobili confiscati ai ceti
abbienti. Ed è qui che si stanno preparando le cerimonie che il 4 giugno
ricorderanno l'anniversario della scomparsa della Guida Suprema.
L'organizzazione ha mobilitato centinaia di volontari, ragazzi e ragazze. E
necessario che il culto sopravviva.

Ci ritroviamo in un ufficio che è la caricatura di un'amministrazione del


Terzo Mondo. Un giovane con i capelli neri incollati dal gel è seduto dietro
a una scrivania vuota. Di fronte a lui, quattro visitatori, immobili e
silenziosi. Come noi, sono venuti a ritirare i loro lasciapassare per la
ricorrenza del giorno dopo. Su un tavolino, alcuni bicchieri di té. Non so se
è soltanto la mia immaginazione, ma ho l'impressione di avvertire un vago
odore di urina. Alla sinistra del giovane seduto c'è una porta chiusa che può
aprire allungando il braccio, senza alzarsi dalla sedia. Alla sua destra
un'altra porta, che immette in una stanza dove altro personale si agita
indaffaratissimo. Nessuno parla, salvo un funzionario che ci porge alcuni
moduli da riempire. Lasciamo anche le nostre foto, scattate poco prima in
uno studio dove abbiamo conosciuto una giovane coppia impegnata nei
preparativi del fidanzamento. Taraneh consegna la lettera dell'Ershad che ci
autorizza ad assistere alle cerimonie. Il giovane burocrate la scruta a lungo,
senza dire niente. Poi apre la porta alla sua sinistra e passa il nostro
fascicolo a qualcuno che non vedo. La porta si richiude. Aspettiamo.
Davanti a noi si materializza una nuova serie di bicchieri di té. Poi un uomo
con i baffi si gira verso Jacques e gli sorride: « Welcome to Iran» dice.

L'attenzione generale si concentra su quell'embrione di dialogo. Il giovane


dai capelli impomatati resta impassibile.

Jacques risponde a quel saluto con un largo sorriso accompagnato da un


merci, che si usa sia in francese che in farsi, anche se, per dare un tocco di
colore locale, arrota un po' la erre. Devo trattenermi per non scoppiare a
ridere.

«L'imam Khomeini era un grande uomo» prosegue il signore con i baffi,


che dice di far parte della polizia. Nessuno si sognerebbe di contraddire
quel giudizio storico. Cala di nuovo il silenzio.

Alla fine un funzionario si affaccia dalla porta rimasta aperta, stringe in


mano una busta. Il giovane seduto ne verifica il contenuto: tre lasciapassare
plastificati con le nostre fototessere al centro. Forse il sistema è più
efficiente di quanto osassi sperare?

Finalmente abbiamo in mano i permessi e ci profondiamo in ringraziamenti.


Tutti coloro che stavano aspettando con noi ci guardano ripartire con una
punta di invidia. In fin dei conti, ventisei anni dopo la Rivoluzione, esistono
ancora dei martiri privilegiati. Rimettendosi a sedere, il giovane scosta i
lembi della giacca e intravedo il calcio nero di una pistola automatica.

All'uscita, sui gradini del palazzo, un ragazzo piuttosto robusto trasporta


pile di manifesti con il ritratto del Grande Uomo che saranno affissi in ogni
parte della città. Gli domando a bruciapelo: «Che cos'è per lei l'eredità della
Rivoluzione?».

Risponde senza esitare: «Niente».

Sarà stata franchezza, provocazione o semplicemente l'effetto sorpresa?


Un funzionario che ha sentito la mia domanda viene allora in suo soccorso:
«La Rivoluzione ci ha dato la fierezza, ci ha permesso di difendere l'Islam e
il Paese».

Più giù, inginocchiato sul pavimento di marmo, un altro volontario è intento


a disegnare simboli eleganti quanto singolari, chino su un lungo striscione
nero. Con ammirevole precisione stende la vernice bianca sulla stoffa. Gli
domando che cosa sta scrivendo: «Oh Imam, il dolore per la tua scomparsa
è indescrivibile!». Gli chiedo se condivide quel dolore: «È condiviso da
tutti. Da tutti i musulmani». Che cosa sa dell'Imam? «Mi è apparso una
volta in sogno. Mi ha detto che sarei diventato ciò che sono: un calligrafo.»
Che cosa le ha dato Khomeini? «La sua eredità per me è il messaggio di
trasparenza e di unità. Ho sempre cercato di seguire il suo insegnamento.»
Per chi voterà? «L'arte è diversa dalla politica» mi risponde senza aver mai
alzato gli occhi. Ho l'impressione che il padre della Rivoluzione non gli sia
ancora apparso in sogno per dirgli chi votare.

Imbocchiamo la stradina che porta alla casa di Jamaran dove Khomeini si


stabilì quando rientrò dall'esilio. Gli edifici sono bassi, senza attrattive.
Nulla lascia pensare che questo sia uno dei luoghi in cui è stata decisa la
storia dell'Iran e dell'intera regione. Jacques mi racconta che a metà degli
anni Ottanta, quando era in Iran come corrispondente dell'Agence France-
Presse, veniva qui per ascoltare i sermoni di Khomeini. Era rimasto colpito
dalla forza che l'Ayatollah ancora emanava, benché fosse già stanco e
facesse sempre più fatica a leggere.

Mi fermo davanti a un tavolo sul quale sono esposti libri di letteratura


islamica, biografie di Khomeini e ed di musica sacra. Accanto è sistemato
in un angolo su un piedistallo un televisore. Un religioso, con il turbante
nero e un mantello marrone, guarda sullo schermo quello che potrebbe
sembrare un videoclip: in realtà si tratta di una rappresentazione in musica
della battaglia di Karbala, il grande mito fondatore degli sciiti. Tutti
ricordano il sacrificio di Hussein, figlio dell'imam Ali, che nel 680 d.C.
venne massacrato con la sua famiglia e un gruppo di fedeli dalle truppe del
califfo omayyade Yazid, nel deserto rovente di Karbala, nell'Iraq
meridionale.

«La maggior parte degli obiettivi della Rivoluzione è stata raggiunta e il


resto è in via di realizzazione» afferma il religioso. «La memoria dell'Imam
è più viva che mai. Lo piangono come se fosse morto ieri.»

Cerco di opporgli le recriminazioni del mio tassista, la sua amarezza nei


confronti dei mullah che avrebbero tradito gli ideali della Rivoluzione. «E
un caso particolare, un'eccezione, non rappresenta certo la maggioranza.
Continueremo a guidare i destini di questo Paese ancora per molto tempo.»
Lui sa per chi voterà: Rafsanjani. «Ha esperienza di governo ed è un abile
diplomatico» mi assicura. Con la sua tunica svolazzante e un sorriso
soddisfatto ci saluta con un gesto della mano e si allontana con passo
sostenuto.

«Il tassista aveva ragione» commenta una voce dietro di noi. Mi volto. Un
ragazzo che vende si avvicina e Taraneh inizia subito a tradurre: «il 60 per
cento della gente è povera. Ci sono candidati migliori di Rafsanjani: lui ama
solo il potere... La gente ha bisogno di volti nuovi che abbiano davvero a
cuore il bene del popolo». Un'affermazione coraggiosa, oltretutto
pronunciata nella strada che fu la culla della Rivoluzione.

4 giugno. Giornata di lutto. Giornata di festa. I grandi viali della parte


settentrionale di Teheran sono deserti. Durante questi quattro giorni di
vacanze i bei quartieri si sono svuotati. A bordo della Kia di Taraneh ci
dirigiamo verso il mausoleo di Khomeini, nel sud della città, dove viene
celebrato l'anniversario della sua morte. Il traffico diventa sempre più
intenso man mano che ci avviciniamo alla cupola dorata sotto la quale
riposa l'Imam. Le strade sono interrotte anche se migliaia di macchine e
autobus tentano di convergere in quel punto preciso. Sbarramenti della
polizia allontanano tutti coloro che non sono regolarmente accreditati. Noi
pensiamo di avere le carte in regola, visto che portiamo appesi al collo i
nostri bei tesserini plastificati con tanto di foto a colori. Ma non basta.
Infatti veniamo rudemente redarguiti da un ufficiale di polizia gallonato che
suda sotto il berretto piatto. Per quanto Taraneh insista non c'è nulla da fare:
abbiamo sbagliato ingresso. Siamo costretti a fare dietrofront e a trovare la
strada per un parcheggio riservato alla stampa.

Il traffico adesso è mostruoso, l'afa soffocante. E nel groviglio di


tangenziali, svincoli, sensi unici e passaggi obbligati io perdo la pazienza e
Taraneh il sangue freddo. Jacques cerca di calmarci ma è tutto inutile: non
gli resta che chiudersi in un mutismo carico di rimprovero, mentre sui sedili
anteriori Taraneh e io discutiamo animatamente.

Alla fine decidiamo di parcheggiare la nostra auto e di prendere un taxi.


Saliamo su una vecchia Paykan dopo che il tassista ci ha promesso di
lasciarci più vicino possibile all'ingresso della tomba monumentale: fa
troppo caldo per camminare sotto il sole cocente. A ogni angolo, piccoli
chioschi offrono da bere e le strade sono disseminate di bicchieri schiacciati
dalla folla o dalle macchine che procedono a passo d'uomo.

Quando il taxi ci lascia all'ingresso principale le cerimonie ufficiali sono già


cominciate. Superiamo centinaia di autobus che stazionano ordinatamente
in un immenso posteggio e nei viali del vicino cimitero di Beheste Zahra.
Hanno trasportato decine di migliaia di fedeli arrivati da tutte le regioni del
Paese. Di fronte a me, nel cielo bianco per il calore, si stagliano i quattro
minareti e la cupola del mausoleo decorata da 72 tulipani, il fiore dei
martiri. Erano 72 i partigiani di Ali caduti nella famosa battaglia di Karbala.

Quando Maometto morì, nel 632, non aveva designato alcun erede. La
figlia Fatima aveva sposato Ali, cugino del Profeta e suo primo sostenitore.
Per questo motivo, ad alcuni sembrò logico che fosse lui a prendere il posto
di Maometto in qualità di capo della comunità musulmana. Ma le tribù della
Mecca scelsero come loro califfo prima Abu Bakr, un compagno del
Profeta, e poi Ornar e Othman, prima che Ali riuscisse a conquistare egli
stesso il potere nel 656. Secondo la storia sciita, durante il regno dei primi
tre califfi il governo era stato segnato dalla corruzione, dalla sete di
guadagno e dall'abbandono dei princìpi dell'Islam. Al contrario Ali aveva
continuato a vivere con semplicità, rispettando le regole di giustizia stabilite
da Maometto. Difendeva l'idea che tutti gli uomini sono uguali,
inimicandosi così le élite tribali. Fu assassinato nel 661 e il califfato passò
alla dinastia degli Omayyadi che risiedevano a Damasco.
Il secondo figlio di Ali, Hussein, si mise a capo dei seguaci del padre e
quando nel 680 venne nominato il secondo califfo omayyade, Yazid, rifiutò
di sottomettersi alla sua autorità. E lasciò Medina per dirigersi a Kufa, oggi
in Iraq. Ma il governatore locale gli tese una trappola e lo fece circondare
nelle vicinanze di Karbala. Hussein, suo fratello Abbas e i loro compagni si
batterono per dieci giorni nell'asfissiante calura del deserto iracheno prima
di venire barbaramente massacrati. Quei dieci giorni di combattimenti e di
sacrifici vengono celebrati ogni anno dagli sciiti di tutto il mondo durante le
feste dell'Ashura, che si chiudono con la sfilata di milioni di fedeli che si
flagellano il petto e la schiena.

Per gli sciiti la battaglia di Karbala e la sua commemorazione rappresentano


qualcosa di analogo a quello che la passione e la crocifissione di Gesù
Cristo simboleggiano per i cristiani. Ha fatto sì che il martirio costituisse
l'asse portante della fede per intere generazioni di credenti. Ribellarsi
all'ingiustizia, battersi fino alla morte se necessario, sono diventati elementi
essenziali del dogma sciita e della sua azione “martire che sorride” politica.
Per molti iraniani e per gli arabi sciiti il destino dell'imam Hussein resta
l'incarnazione della lotta contro l'oppressione e la tirannia.

Fin dal 1963 l'imam Khomeini paragonava i mali patiti dagli iraniani sotto
il regime dello Scià al martirio di Hussein. In seguito, la repressione e il
sangue versato dagli insorti hanno contribuito ad alimentare la visione di
una lotta permanente tra le forze delle Tenebre e quelle della Luce. Anche la
guerra con l'Iraq è stata inserita in questo contesto più filosofico di una
battaglia nella quale era meglio morire piuttosto che rinunciare ai propri
princìpi. Ed è seguendo questa logica che la Rivoluzione ha radicato
l'ostilità nei confronti dell'Occidente considerato corrotto e amorale. Una
visione che ancora oggi viene sbandierata per raccogliere i consensi degli
strati sociali più poveri.

La voce dell'attuale Guida della Rivoluzione, Ali Khamenei, sale in


lontananza verso l'alta volta del monumento sepolcrale. «La vostra presenza
dimostra che il popolo è pronto a seguire la via tracciata dall'Imam» dice
rivolto alla folla. «L'Imam ha perseguito la fede, la giustizia, il progresso e
la pace: noi continueremo in questa direzione.»
Decine di migliaia di fedeli hanno trovato posto sotto la struttura di nudo
cemento. Enormi fotografie di Khomeini, dei suoi figli e di Khamenei
tappezzano i muri. Alcuni striscioni tessono le lodi del padre della
Rivoluzione: «Amare Khomeini significa amare la bontà».

Se mai qualcuno ne avesse dubitato, Khamenei è intervenuto per ricordare


chi comanda. «Come ci ha insegnato la dottrina islamica dell'imam
Khomeini, è la religione a presiedere tutte le attività umane» afferma.

«Tutti i tiranni della storia, dai faraoni a Nerone, fino agli scià, a Saddam e
a Bush, hanno cercato di cancellare la religione dai diversi ambiti della vita
per preparare il terreno a una dominazione corrotta» prosegue. «Le elezioni
dirette o indirette di tutti i rappresentanti della Repubblica islamica si
fondano sul diritto del popolo di scegliere il proprio destino e dimostrano
che la democrazia religiosa è più giusta della democrazia liberale predicata
dall'Occidente»

conclude tra le acclamazioni. Tutti eletti tranne lui.

Gli ospiti d'onore iniziano a lasciare la tribuna dove avevano i posti


riservati. La folla è fitta. Tutti si alzano e si spostano lentamente verso uno
spazio leggermente sopraelevato dove un feretro simbolico sta a
rappresentare la sepoltura dell'Imam. Intorno a me il chador regna sovrano.
Così come mi sentivo fuori moda al mio arrivo all'aeroporto, qui attiro gli
sguardi con le mie ciocche scomposte che fuoriescono dal foulard. E a volte
quegli sguardi diventano duri, quasi ostili.

Col discorso di Khamenei abbiamo assistito a un'esibizione di potere più


che a una commemorazione emotiva dell'Imam. Nessuno è così ingenuo da
credere che simili manifestazioni di massa siano spontanee. Al contrario,
rappresentano un test per misurare la capacità del regime di chiamare a
raccolta le schiere dei propri sostenitori. In piena campagna elettorale non è
certo cosa da poco.

Intorno alla tomba dell'Imam è incessante il flusso di donne e di uomini


scalzi che, con le scarpe chiuse in piccoli sacchetti di plastica, cercano di
avvicinarsi all'inferriata che protegge il sarcofago avvolto in un panno
verde. Più lontano alcuni pellegrini, seduti o distesi sui tappeti, aspettano la
prossima preghiera.

Ci dirigiamo verso alcune sedie di plastica gialla rimaste vuote dopo la


partenza delle autorità e ci sistemiamo accanto a una famiglia che sta
prendendo fiato. Viene da Mashhad, città nella parte orientale del Paese, è
arrivata in gruppo con un trasporto organizzato dai Basij, i volontari della
Rivoluzione. Approfitteranno dell'occasione per proseguire il loro viaggio
verso la città santa di Qom. Viaggiano di notte e dormono negli autobus per
risparmiare sul pernottamento. La fanteria è utile ma non deve costare
troppo.

Mi rivolgo a una delle tre donne che mi fissava mentre mi stavo


avvicinando. Ha il viso imprigionato nel rigoroso foulard delle osservanti e
dagli occhiali mi scruta con aria severa. Ma appena cominciamo a
chiacchierare si addolcisce e mi racconta che ogni anno compie quel
viaggio per onorare insieme alla famiglia la memoria dell'Imam. «Lui è il
simbolo della libertà, della giustizia e ha sconfitto il colonialismo.»

Shahin è venuta con la madre, il marito, i cinque figli e una giovane amica.
I suoi hanno vissuto a Karbala, in Iraq, dove il padre faceva il muratore. E
cresciuta là, poi è tornata a Mashhad. Ha avuto il suo primo figlio dodici
anni fa nell'anniversario della morte di Khomeini, e quindi per lei è un
giorno doppiamente importante. «L'Islam è una promessa di libertà non solo
qui sulla Terra ma anche in cielo» mi spiega quando le chiedo che cosa
significa la religione nella quale sembra aver riposto tutte le sue speranze.
«La libertà in Iran esiste perché ci sono elezioni quasi ogni anno. Possiamo
scegliere e abbiamo il diritto di criticare il governo. C'è gente che critica
persino la Guida Suprema» aggiunge Shahin.

Le rivolgo la domanda che, fin dal mio arrivo, è diventata un vero leitmotiv:
cosa resta di quell'evento che ha cambiato il destino dell'Iran e fa ancora
tremare il mondo? «La Rivoluzione era la cosa giusta, ma ha fallito perché i
responsabili l’hanno tradita. Non siamo riusciti a ottenere l'uguaglianza.»
Ma allora qual è la soluzione? «Se osserviamo i precetti del Corano,
nessuno ci potrà fare del male» assicura con convinzione.
Mi giro verso la sua vicina. Si chiama Fatemeh. E avvolta nel velo ben
stretto sotto il mento. Ha meno di vent'anni ed è profondamente diversa da
quelle ragazze dall'aria disinvolta che vanno in giro per negozi nella zona
nord di Teheran.

«Il chador rappresenta il nostro attaccamento alla religione» mi dice. «Col


velo possiamo lavorare e guidare l'automobile. Seguiamo l'esempio della
santa Fatima Zahra, la Fulgente, la moglie di Ali che ha introdotto ì'hijab.»

Fatemeh ha studiato informatica, ma non sa se lavorerà mai. Personalmente


le farebbe piacere, ma dovrà tener conto dell'opinione del padre e del
marito. «Perché lavorare se lo facciamo noi per te?» dicono gli uomini di
casa, e lei è d'accordo. «Non mi ribellerò» mi assicura. Nonostante il caldo
e la stanchezza ritrovo tutto il mio vigore di difensore dei diritti delle donne
per affrontare una discussione con lei. Non capisco in nome di quale
tradizione — o addirittura in nome di quale religione - una giovane
preparata non possa avere il diritto di cominciare una carriera professionale
se ne ha voglia. Questa volontà di controllo da parte degli uomini rasenta la
misoginia.

Fatemeh non sembra intenzionata a cedere: «Quando ci si sposa, la donna


deve seguire il marito. Nell'Islam la religione e la tradizione ci dicono cosa
fare. La donna deve occuparsi dei figli. Quando sono grandi, può lavorare...
ma allora sarà troppo vecchia» aggiunge ridendo.

Poi all'improvviso, come accade spesso da queste parti, la ragazza mi coglie


in contropiede. Abbassa la guardia, prende atto delle mie critiche, sembra
condividere le mie argomentazioni. Sarà una forma di doppiezza, di
gentilezza nei confronti dello straniero e delle sue domande, o
semplicemente l'espressione di una società in piena transizione? «E

vero, le donne devono essere libere di scegliere» sostiene Fatemeh «e noi


vogliamo che questa cultura cambi. Ma deve rimanere una scelta
individuale: in fin dei conti, se vorrò lavorare troverò il modo di convincere
mio marito.»

È ora di andare. Il ritorno si preannuncia difficoltoso. Migliaia di fedeli si


affannano nel tentativo di uscire dalla cinta del mausoleo, di risalire sugli
autobus, di trovare una macchina che li riporti a casa. La festa è finita.

Trasportata dalla moltitudine dei credenti, mi ritrovo accanto a un uomo su


una sedia a rotelle. Ha la fronte imperlata di sudore e si è fermato alla
ricerca di un po' di frescura in un angolo del gigantesco piazzale. Ha la
barba lunga, gli occhi stanchi. Si chiama Muhammad Azizi. Ha perso le
gambe e le dita della mano destra. È un veterano della guerra contro l'Iraq,
una terribile carneficina che ha segnato l'anima dell'Iran almeno quanto la
Rivoluzione. Mi racconta di essere stato ferito nel 1987, quando aveva
diciannove anni e combatteva già da un anno. Intorno a noi si forma
immediatamente un capannello di gente. Alcuni militari sono costretti ad
allontanare i curiosi. C'è una grande agitazione attorno a me.

Ora Muhammad vive grazie alla Fondazione dei martiri, uno di quegli enti
pubblici, i bonyad, che controllano interi settori dell'economia e della
società. Ricevono sussidi dallo Stato, amministrano i beni confiscati o
nazionalizzati dopo la Rivoluzione. Vengono accusati di essere totalmente
inefficienti o corrotti e di ostacolare il cambiamento.

«Al fronte ero pronto a tutto, a combattere e a morire. Quando sono stato
ferito e ho perso le gambe non ho provato niente di speciale. Ho pensato di
avere veramente raggiunto il mio obiettivo: dare la vita per l'Islam. Volevo
essere un martire e per questo mi ero arruolato. Per servire i miei ideali,
difendere il mio Paese, la mia religione.»

Gli chiedo se è soddisfatto del trattamento che lo Stato gli ha riservato: «Le
cose non vanno né bene né male: sopravvivo» risponde un po' infastidito.

«Ma a che cosa è servito il suo sacrificio?»

«Se non ci fossero state persone come me, oggi i nostri nemici sarebbero
qui su questo piazzale... gli americani.»

«Ma i nemici non erano gli iracheni?»


«La guerra contro l'Iraq era solo uno specchietto per le allodole: dietro
Saddam c'erano gli americani.»

«Ma le nuove generazioni non sembrano ricordarsi di voi. Si sente tradito?»

«I giovani di oggi non sono come quelli dei miei tempi. La cultura
occidentale è ormai entrata nelle loro teste.

Ricordano a malapena la Rivoluzione, hanno dimenticato il sacrificio di


tutti quegli iraniani che sono morti per i loro ideali.»

Per sfuggire al caos che si è creato all'uscita dal mausoleo ci rifugiamo nei
viali del cimitero dei martiri, Beheste Zahra, uno dei più grandi del mondo
dove le interminabili file di lapidi si confondono con l'orizzonte. Qui
riposano gli oppositori caduti durante le manifestazioni contro il regime
dello Scià e i rivoluzionari morti negli scontri che hanno segnato la presa
del potere dei religiosi. Una tomba speciale è riservata agli esponenti del
Partito della Repubblica islamica uccisi nel 1981 in un attentato
dinamitardo contro il loro quartier generale. Tra gli altri, il leader del
partito, l'ayatollah Muhammad Beheshti, l'uomo più potente della
Rivoluzione dopo Khomeini. Come mi aveva ricordato un anno fa il figlio
Ali, un raffinato filosofo, l'attentato fu attribuito al gruppo islamico di
sinistra Mujaheddin Khalq, inizialmente alleato del regime dei mullah ma
diventato in seguito il suo peggior nemico. Secondo la versione ufficiale,
quel giorno sarebbero stati uccisi 72 dirigenti, 72 come i compagni di
Hussein caduti a Karbala. In realtà, l'attentato fece 74 vittime. È il potere
dei simboli.

Dopo la calca e la ressa la tranquillità del camposanto mi rinfranca. Le


tombe sono perfettamente allineate nei sentieri alberati. Nella zona riservata
ai combattenti della guerra contro l'Iraq, piccole teche in alluminio montate
su supporti d'acciaio accolgono effetti personali dei defunti: lettere, oggetti,
una pagina strappata dal Corano, un pezzo di stoffa. Ma soprattutto
fotografie. Fotografìe in bianco e nero ingiallite dal sole, fotografie a colori
invecchiate dal tempo, fotografie solenni di volti giovani e imberbi,
fotografie crude di volti irrigiditi dalla morte. Decine di migliaia di
immagini che compongono sotto gli occhi dei visitatori una strana parata,
una sfilata in onore di quanti sono caduti in una delle guerre più lunghe del
XX secolo.

Mi fermo a caso davanti a una delle 200.000 teche. Taraneh mi traduce


un'iscrizione: «Reza Tafrezin. Caduto nel 1987». Era un Basij che
apparteneva a un'unità chiamata Sezione Gerusalemme. «Chi ha la passione
di Karbala e l'amore di Dio sopravviverà» si legge sotto il suo ritratto.

Qua e là ci sono famiglie venute a consolare l'anima di una persona cara che
non c'è più. Tre ragazze avvolte nei chador hanno adagiato un telo bianco su
una tomba. Scolpito nel marmo, il volto di un ragazzo. «E nostro zio» ci
rivela una di loro. Ali Reza Garozadeh. È partito per il fronte a quattordici
anni e nel 1983 l'esercito comunicò ai parenti la sua morte. Le giovani non
lo hanno mai conosciuto, ma vengono a piangerlo con fervore e sincerità
come se fosse morto il giorno prima. «Come tutti coloro che sono caduti è
morto per l'Islam

CAPITOLO 3

SULLE RIVE DEL POTOMAC

Washington è una città tranquilla. Troppo tranquilla. Tutto il contrario di


Teheran. Alcuni Dei miei amici dicono addirittura che è noiosa. Le
automobili procedono in fila indiana senza nemmeno pensare di sorpassarsi.
Tutti allacciano le cinture di sicurezza e negli ingorghi delle ore di punta
aspettano pazientemente il proprio turno. I veicoli sembrano scivolare
sull'asfalto come se non avessero le ruote. Anche i ciclisti indossano il
casco e i pedoni, fermi al semaforo, attendono rigorosamente il verde prima
di attraversare. Le strade si incrociano ad angolo retto, mentre i grandi viali
disegnano linee dritte senza fine. La vita è perfettamente regolata dalla
transumanza del mattino, quando i quartieri periferici si riversano verso il
centro, a quella serale in senso contrario. In primavera, nei giorni di bel
tempo, le piazze e i parchi si riempiono di uomini in maniche di camicia e
di donne in tailleur che nella pausa del pranzo mangiano sull'erba un panino
o una macedonia. La domenica i lanciatori di frisbee o le squadre
improvvisate di football invadono le rive del Potomac, il fiume che
attraversa la capitale americana.

Mi siedo allo Starbucks Cafe di Dupont Circle. In questo quartiere un po'


bohémien le strade dai marciapiedi stretti sono fiancheggiate da quelle che
qui chiamano town houses: un piano seminterrato, un piano terra
sopraelevato con una piccola scala e una porta di legno, e sopra altri due
livelli. Vi abitano intellettuali, gay, studenti, coppie senza figli.

Ordino cappuccino buonissimo con tanto di schiuma bianca ricoperta di


scaglie di cioccolato, ma sfortunatamente servito in un bicchiere di carta.
Non si può avere tutto. Leggendo il «Washington Post» e il «New York
Times» mi rendo conto che in questi ultimi giorni di aprile del 2005 il
nucleare iraniano fa paura all'America. Che cosa può fare Washington per
impedire ai mullah di costruire la bomba atomica? Bisogna invadere?
Bisogna bombardare? Non sono ancora certa di voler scrivere un libro sul
Paese degli ayatollah, ma in qualità di presidente della Delegazione dei
Paesi del Golfo al Parlamento europeo mi interessa capire il punto di vista
dell'unica superpotenza rimasta dopo il crollo del Muro di Berlino.

Dietro il volto sereno di questa città modello c'è anche una Washington
potente e segreta. E qui che da oltre cinquant'anni si decidono le guerre o si
negoziano gli accordi di pace. O almeno è ciò che crediamo noi europei.
Questa convinzione è ancora più radicata tra le popolazioni del Medio
Oriente: da quando l'America ha preso il posto della Francia e della Gran
Bretagna come potenza dominante in questa regione, tutto ciò che vi accade
è stato deciso a Washington. Illusione o realtà? Il potere qui è concentrato
nelle mani di pochi: se lo spartiscono la Casa Bianca, il Congresso, il
Pentagono, la Cia, il Dipartimento di Stato. Il presidente ha sempre l'ultima
parola, ma le persone che ascolta godono di una forza di persuasione
eccezionale. E lottano per il suo plauso. Si formano circoli di interesse, le
cabale fanno e disfano reputazioni di uomini importanti, a volte i consiglieri
sopravvivono alla caduta del principe.
Attorno al governo gravita una vera e propria industria di lobbying per
influenzarlo, talvolta addirittura circuirlo.

Società di consulenza, gruppi di professionisti, associazioni in difesa di


interessi privati ma anche interi Stati o singoli individui sono pronti a V
gare somme colossali per farsi ascoltare, per ottenere una Visione
favorevole, per abrogare una legge o per farne approvare un'altra.

Ritrovo il mio amico John E in un ristorante molto alla moda, il DC Coast


sulla K Street, l'asse centrale di Washington.

È in questo quartiere che succede tutto. La Casa Bianca e l'Fbi si trovano a


due o tre isolati di distanza. Il Congresso a cinque minuti di taxi. A piedi si
arriva alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale. I grandi
studi legali, le società di consulenza e di comunicazione hanno i loro uffici
nella zona. I think tanks, i centri di studi politici che compongono e
smontano il pensiero ufficiale, si succedono uno dopo l'altro.

«Nessun dirigente ti parlerà dell'Iran. L'amministrazione è troppo


imbarazzata. Già non sa che cosa fare con l'Iraq.

Quindi non vorrà certo farsi carico di un altro problema» mi confida John.

John è un ex dipendente del Dipartimento di Stato. Cinquant'anni ben


portati, faccia ironica e intelligente con quegli occhialini rotondi appoggiati
su un naso perfettamente dritto, durante la guerra in Bosnia si è occupato a
lungo dei Balcani. Oggi lavora per un'organizzazione non governativa di cui
mi chiede di non fare il nome. La sua missione?

Promuovere la democrazia in Paesi come la Cina, l'Ucraina e, perché no,


l'Iran. Investire in mezzi di informazione liberi. Formare i dirigenti delle
associazioni di difesa dei diritti umani. Preparare campagne stampa.
Organizzare manifestazioni «spontanee». È fiero del suo ultimo successo: la
«rivoluzione arancione» in Ucraina. Promette che mi farà incontrare i
maggiori esperti sulla questione iraniana.

Kenneth Pollack è uno di loro. Ex agente della Cia e consulente nel


Consiglio di sicurezza nazionale, si è riconvertito nel settore privato ed è
diventato esperto di Medio Oriente per la Brookings Institution, uno dei
centri di ricerca più prestigiosi di Washington. E lui l'autore di The
Threatening Storni: The Case for Invading Iraq (La tempesta incombente: le
ragioni per invadere l'Iraq). Il libro è stato citato per mesi dai responsabili
americani per giustificare il loro approccio militare alla questione irachena.
Sosteneva in particolare che l'Iraq aveva ricostituito il suo arsenale di armi
di distruzione di massa e che solo un'invasione avrebbe potuto eliminare il
pericolo Saddam Hussein. Non bisogna mai sottovalutare il peso di questi
«serbatoi di idee». Anche quando sbagliano. È sufficiente che la stampa si
impadronisca di un'inesattezza o di una menzogna suggerita da un libro, da
un rapporto, da un editoriale, per far sì che essa diventi subito verità.
Adesso sul comodino dei potenti si vede il nuovo libro di Pollack: The
Persian Puzzle: The Conflict between Iran and America (L'enigma persiano:
il conflitto tra l'Iran e l'America).

Washington dopo gli attentati dell'I 1 settembre 2001 è anche la capitale di


un Paese in guerra, una città sempre sotto stretta sorveglianza. Blocchi di
cemento e addirittura muri proteggono gli edifici pubblici. Le volanti della
polizia pattugliano le strade e gli elicotteri controllano i cieli, per prevenire
qualunque incursione sospetta che metta in pericolo gli occupanti della
Casa Bianca o del Campidoglio. La «guerra contro il terrorismo» continua a
governare la retorica di Bush che per la seconda volta ha ottenuto la fiducia
della maggioranza degli americani. Le menzogne sull'Iraq, il terribile
prezzo pagato in vite umane di questa avventura di cui non si vede la fine,
la totale incertezza sulla strategia da adottare non hanno scoraggiato gli
elettori. Al contrario, mi spiega John.

«In un certo qua! modo, l'economia di guerra ha reso più ricca questa città. I
soldi spesi dal governo si traducono in un formidabile boom, in particolare
nel settore immobiliare. Il mercato non è mai stato così florido.»

Ma il vero vincitore della lotteria è l'industria della difesa. Bush taglia le


tasse ma non bada a spese militari. Le guerre in Afghanistan, in Iraq e
contro il terrorismo hanno fatto la fortuna delle grandi società di armamenti.
I loro uffici si trovano a Crystal City, in Virginia, non lontano dall'immenso
edificio a cinque punte del Pentagono e dal quartier generale della Cia, a
Langley. Durante l'ultimo anno della presidenza Clinton il bilancio federale
aveva registrato un surplus di 230 miliardi di dollari. Nel 2005 il deficit sarà
di quasi 400 miliardi, senza considerare i costi della guerra a Kabul e
Baghdad. Dove finiscono i soldi dello Stato? Non lo so, ma i nuovi ricchi di
Potomac, il quartiere periferico in cui i cavalli scorrazzano in libertà nei
recinti privati, si fanno costruire case sempre più grandi e pacchiane.

Preferisco la Washington delle università, dei centri studi, delle biblioteche,


dei ricercatori, la capitale dei difensori del sapere e del diritto. Ho imparato
molto di più sul terrorismo nei miei due mesi al centro di politica
internazionale (Sais) della Johns Hopkins University, dopo 1' 11 settembre,
che in decine di dibattiti con gli pseudoesperti di casa nostra. So che qui
potrò trovare risposte valide ai miei tanti quesiti. Ed è per questo che ho
deciso di fermarmi qualche giorno.

In questi ultimi giorni di aprile il cielo è ancora grigio sopra Washington,


ma il verde degli alberi e il fucsia delle azalee danno già un po' di colore
alle strade. Ho seguito alla televisione una conferenza stampa del presidente
Bush. Voleva difendere il suo progetto di privatizzazione del sistema di
previdenza sociale, ma i giornalisti avevano altre domande in testa e non
gliele hanno risparmiate. Su alcuni degli argomenti - la Corea del Nord, la
nomina di un nuovo ambasciatore all'Onu, John Bolton, il calendario del
ritiro delle truppe americane dall'Iraq - i toni erano aggressivi. Bush mi è
parso infastidito, esasperato, come se questo esercizio di comunicazione
fosse una seccatura. Tuttavia fino a poco tempo fa riusciva a trovare il tono
giusto per far dimenticare i rischi del conflitto iracheno. Oggi, presidente in
guerra, fa fatica a rianimare la fiamma dell'entusiasmo.

La stampa è un buon termometro della situazione. Per molto tempo l'aveva


graziato. Ora sembra decisa a non concedergli più nulla. Il «Washington
Post» invia addirittura messaggi subliminali ai propri lettori: pubblica in
prima pagina una foto del presidente durante la conferenza stampa. Proprio
sotto, l'immagine di bare avvolte nella bandiera americana. Sono i corpi dei
soldati morti in Iraq. In questo modo risulta difficile contrastare le cattive
notizie dal fronte iracheno. Bush parla della futura bancarotta della
previdenza sociale, ma la bancarotta è già là, sotto le stelle e strisce che
onorano i caduti di una guerra inutile. I commenti dei giornalisti fanno eco
alle mie riflessioni. Sottolineano che 99
giorni dopo l'inizio del suo secondo mandato alla Casa Bianca, Bush si
trova ad affrontare sfide molto serie. E non è in grado di trovare soluzioni
adeguate.

Eppure l'anno era cominciato con un rullo di tamburi. L'Iran era


chiaramente nel mirino. «D'ora in avanti la politica degli Stati Uniti sarà
quella di sostenere l'emergere di istituzioni e di movimenti democratici in
ogni Paese e in ogni cultura, con l'obiettivo di mettere fine alla tirannia nel
mondo» aveva dichiarato Bush il 20 gennaio nel discorso di insediamento.
«Tutti coloro che vivono nella tirannia e nella disperazione devono saperlo:
gli Stati Uniti non chiuderanno gli occhi davanti alla vostra schiavitù e non
perdoneranno i vostri oppressori. Quando alzerete la testa e combatterete
per la libertà, noi saremo al vostro fianco.»

Il nuovo segretario di Stato, Condoleezza Rice, nello stesso momento


precisava il pensiero del suo capo. «Nel nostro mondo esistono ancora
avamposti della tirannia e l'America è al fianco degli oppressi in tutti i
continenti: a Cuba, in Birmania, in Corea del Nord, in Iran, in Bielorussia e
nello Zimbabwe. Non ci fermeremo fino a quando tutti coloro che vivono in
queste condizioni non avranno conquistato la libertà.»

Non è la prima volta che l'inquilino della Casa Bianca trascina la


Repubblica islamica sul banco degli accusati.

All'indomani degli attacchi contro le Torri gemelle e il Pentagono, l'Iran era


stato incluso insieme all'Iraq e alla Corea del Nord nell’Asse del Male. Oggi
con la nuova etichetta di «avamposti della tirannia» l'Iran si ritrova in una
strana compagnia. Nel suo discorso Bush ha elevato al rango di nemici
dell'America Paesi che mai si sarebbero immaginati di poter godere un
giorno di tanto onore: la Bielorussia, la Birmania e lo Zimbabwe. Ho subito
avuto la sensazione che quella lista fosse stata stilata con l'unico obiettivo di
trovare qualche altro nome da affiancare a Teheran. La Bielorussia ci è
finita come un sassolino lanciato nel giardino della Russia di Vladimir
Putin. Lo Zimbabwe è stato aggiunto per dare un buffetto a Londra, ex
potenza coloniale che cerca di far ragionare il vecchio dittatore Robert
Mugabe. La Birmania e la Corea del Nord rientrano nell'orbita della Cina e
l'avvertimento è rivolto a Pechino.
Ma la nuova classificazione lascia trasparire anche una nuova visione di
Bush, più ambiziosa e più rischiosa di quella dell'Asse del Male. Trasforma
in una strategia globale quella che era stata concepita in primo luogo come
una reazione di difesa contro le potenziali ambizioni nucleari di Iraq, Iran e
Corea del Nord. Oggi Bush pone al centro degli obiettivi della nazione più
potente al mondo l'esportazione della democrazia, con le buone o con le
cattive, laddove lo ritenga necessario. Progetto ambizioso e onorevole negli
intenti, ma destinato al fallimento come tutte le avventure d'ispirazione
colonialista.

Nel caso di Teheran, il dissapore con Washington è una vecchia storia, un


faccia a faccia che dura da venticinque anni, un odio radicato nella violenza
e alimentato da una retorica apocalittica: se gli americani denunciano l'Asse
del Male gli iraniani inveiscono contro il Grande Satana e i suoi oscuri
complotti. Gli Stati Uniti accusano gli eredi di Khomeini di aver instaurato
un regime di terrore politico, di voler costruire la bomba atomica, di
appoggiare il terrorismo finanziando e armando i gruppi ostili a Israele -
come Hamas in Palestina o Hezbollah in Libano.

Di contro, per Teheran il pericolo americano è diventato ancora più


tangibile dopo l'invasione dell'Iraq. L'unica teocrazia sciita del Medio
Oriente si sente assediata. Centoquarantamila soldati americani sono
accampati alle porte della Persia. L'Us Navy pattuglia il Golfo che l'Iran ha
sempre considerato «persico». In altri Paesi di frontiera, come l'Afghanistan
e l'Uzbekistan, le truppe statunitensi si sono acquartierate sotto la bandiera
della guerra contro il terrorismo. I governi di Paesi confinanti, come quello
turco e pakistano, si sono schierati dalla parte di Washington.

Tuttavia i mullah avrebbero buone ragioni per rallegrarsi: in Afghanistan i


talebani, estremisti sunniti che considerano gli sciiti degli apostati, sono
stati estromessi dal potere. In Iraq Saddam Hussein è stato rovesciato.

In entrambi i casi Teheran ha dimostrato un prudente ritegno, collaborando


con gli Stati Uniti per cercare di stabilizzare rapidamente i suoi due vicini.
In entrambi i casi la luna di miele è durata poco. E oggi, ovunque guardino
oltre le loro frontiere, i responsabili iraniani vedono soldati americani o
Paesi che hanno improvvisamente stretto una zelante amicizia con lo Zio
Sam. L'Europa ha messo alacremente in moto la sua diplomazia nel
tentativo di evitare un altro dramma nella regione più fragile e strategica del
mondo. Una nuova esplosione di violenza nel Golfo minaccerebbe il flusso
di petrolio e il prezzo dell'oro nero raggiungerebbe livelli insostenibili per le
nostre economie.

«Durante gli ultimi due o tre anni, le esigenze di sicurezza in Iran sono
drammaticamente cambiate» mi assicura Kenneth Pollack che mi riceve nel
suo ufficio alla Brookings in Massachusetts Avenue. È un uomo solido dal
volto squadrato, i capelli corti, gli occhi vivaci dietro un paio di occhiali
sottili. Parla in modo chiaro, quasi didattico, e conduce per mano
l'interlocutore lungo le tappe del proprio ragionamento.

«L'Iran ha perso i suoi grandi avversari tradizionali, i talebani in


Afghanistan e Saddam Hussein in Iraq. Su entrambe le frontiere, però, ora
ci sono gli Stati Uniti.»

Con il suo abito scuro e la camicia azzurra, Pollack non ha affatto l'aria di
un guerrafondaio. Mi sembra pacato e riflessivo. Leggendo il suo ultimo
libro, noto che sull'Iran ha idee molto meno marziali che sull'Iraq.

«Dopo la caduta di Baghdad» continua «gli iraniani si sono sentiti


minacciati. Oggi lo sono molto meno perché sanno dei nostri problemi su
quel fronte. Tuttavia temono che l'Iraq precipiti nel caos o che si stabilizzi
per diventare una base per operazioni americane contro di loro.»

Ero arrivata un po' prevenuta nei confronti di questo analista le cui opinioni
sulla Seconda guerra del Golfo erano diametralmente opposte alle mie, ma
sono stata persuasa da un argomentare abile che tiene conto delle
percezioni, delle necessità e dei limiti dell'avversario.

«Per tutti questi motivi l'Iran sta rivedendo la sua concezione di sicurezza, e
noi dobbiamo studiare attentamente le nostre opzioni nei suoi confronti.»

«Ma allora che fare?» gli chiedo.


«Nessuno parla più di invasione. Alcuni accennano ad attacchi aerei che
però comportano un problema di efficacia: non abbiamo abbastanza
informazioni sul programma nucleare iraniano e non sappiamo se
servirebbe a ritardarlo di sei anni, sei settimane o sei giorni. I benefici non
sono chiari. Invece il prezzo da pagare sì: gli iraniani hanno dichiarato che
ci attaccherebbero in Afghanistan, in Iraq, nei luoghi in cui siamo più
vulnerabili.»

«Che cosa ne è allora dei piani di destabilizzazione del Paese?»

«A Washington c'è chi crede nella prospettiva di un cambio di regime, ma


nessuno riesce a definirla in maniera univoca. La teoria generale è che gli
Stati Uniti devono esercitare una pressione sul governo di Teheran per
creare le condizioni di una rivoluzione di velluto: il tentativo è quello di
replicare quanto avvenuto più recentemente in Ucraina o in Libano. È
chiaro che agli iraniani piacerebbe un altro tipo di sistema politico, ma è
altrettanto evidente che non sono pronti a lanciarsi in una nuova rivoluzione
e non accetteranno interferenze americane: non amano che qualcuno si
immischi nei loro affari.»

«Allora qual è la soluzione?»

«La strategia più sensata è quella del bastone e della carota. Poiché non
siamo in grado di invadere l'Iran e non abbiamo gli strumenti per fermare il
loro programma nucleare, la sola cosa che possiamo fare è convincerli a
non perseverare in questa direzione. Bisogna dire: "Se siete disposti a
fermarvi, vi offriamo aiuti economici, investimenti, l'integrazione
nell'economia mondiale. Se non lo fate, pagherete un prezzo molto alto, e lo
pagherete nel settore per voi più strategico: l'economia". Sono convinto che
preferiranno il benessere...»

«Chi decide a Washington sulla politica iraniana?» «Non credo che venga
decisa da qualcuno in particolare. La guerra in Iraq è stata una doccia
fredda per questa amministrazione. Ormai si è capito che l'uso della forza
non è gratuito. C'è chi crede ancora nella possibilità di un cambio di regime,
chi vuole bombardare per ragioni ideologiche, chi spinge verso soluzioni
diplomatiche. Nessuno è ufficialmente incaricato della questione: credo che
la politica sull'Iran verrà costruita giorno per giorno.»
Finisco il mio colloquio con Kenneth Pollack convinta che abbia ragione,
anche se questo non è molto rassicurante.

Passeggio verso le stradine di Georgetown, il quartiere più vecchio di


Washington, vero e proprio villaggio nel cuore della città. Le persone che
contano nella politica, nella stampa, negli affari abitano qui in lussuose ville
di mattoni a vista dai giardini ombrosi. Vicino all'Università di Georgetown,
gli studenti vivono in casette di bambola dalle facciate rosa, gialle o blu.
Sono preoccupata. Se Bush non sa come gestire il caso Iran rischia di
improvvisare e di cedere alle ricette che propongono facili soluzioni.

Per esempio, l'Iran Policy Committee (Ipc) - Comitato per una politica
iraniana - suggerisce un vero e proprio colpo di Stato. Insiste sulla necessità
di appoggiare l'opposizione iraniana per far cadere il regime dei mullah e
propone di lavorare con il gruppo armato che Teheran teme di più, i
Mujaheddin Khalq. Una prima tappa, considerata mera

«formalità», sarebbe quella di cancellarli dalla lista delle organizzazioni


terroristiche del Dipartimento di Stato.

L'Ipc raccoglie tra gli altri l'ex ambasciatore in Arabia Saudita James Akins,
che Jacques intervistò per un documentario sulle relazioni di Saddam
Hussein con la Cia. Lavorava a Baghdad quando avvenne il primo golpe
baathista, che nel 1963 spianò la via alla dittatura del rais. Akins ha
ammesso che i servizi segreti americani considerano quell'avvenimento
come uno dei loro maggiori successi.

Il gruppo ad hoc presieduto dall'ex consigliere alla sicurezza nazionale


Zbigniew Brzezinski che sostiene la necessità di aprire un dialogo con
Teheran. Propone anche di far leva sia su eventuali incentivi economici che
sulle minacce di ritorsione. Nel suo rapporto «Time for a New Approach»
(Tempo per un nuovo approccio) esorta Washington a difendere la
democrazia in Iran senza far ricorso alla retorica del cambio di regime, che
alimenterebbe il nazionalismo a tutto vantaggio delle élite al potere. Al
contrario dell'Ipc, il Consiglio chiede che i Mujaheddin Khalq siano
neutralizzati e che vengano intraprese azioni giudiziarie contro i loro
membri.
L'incapacità di Bush di elaborare un piano verrà illustrata a maggio dal
sottosegretario di Stato per gli affari politici. Il numero tre del Dipartimento
di Stato Nicholas Burns, nel suo intervento davanti alla Commissione Affari
esteri del Senato, affermava: «Desideriamo che le relazioni tra gli Stati
Uniti e l'Iran migliorino, ma questo non può avvenire senza un cambio di
rotta del governo iraniano». Si riferiva al nucleare, al terrorismo e alle
libertà politiche. Burns continuava: «Siamo ottimisti riguardo al futuro
dell'Iran, ma la responsabilità di migliorare le relazioni di questo Paese con
il resto del mondo ricade su Teheran [...]. Il governo sa che cosa ci
aspettiamo e deve agire in questo senso se vuole unirsi alla comunità delle
nazioni».

Lascio Washington con una convinzione netta: per Bush la cosa più urgente
è non fare nulla.

CAPITOLO 4

IL GOAL ATOMICO

Non so se sia più difficile penetrare i segreti del nucleare iraniano o


assistere a una partita di calcio allo stadio Azadi di Teheran. È pur vero che
non ho scelto una partita qualunque, quella in programma stasera è
esplosiva: Iran contro Corea del Nord per la qualificazione ai campionati
del mondo. Il faccia a faccia tra due Paesi dell'Asse del Male infiamma le
passioni dei tifosi. Lontanissima dalle dotte dissertazioni degli esperti di
Washington, è come se fossi stata catapultata direttamente nel cuore del
problema: due Stati sospettati di collaborare alla produzione della bomba
atomica si affronteranno per il piacere di milioni di fan che non si
preoccupano più di tanto delle minacce dello Zio Sam. Sono anzi ben
contenti di fargli uno sberleffo.
Incollata a Taraneh, sventolando i nostri biglietti cerco di farmi strada nella
massa compatta di tifosi che prendono d'assalto i cancelli dello stadio.
Come capita spesso nello sport, la simbologia politica gioca la sua parte. Il
ping-pong ha aperto la strada al riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina,
mentre iraniani e americani per riconciliarsi hanno tentato... la lotta greco-
romana. I risultati non sono stati però all'altezza delle aspettative.

Sempre con Taraneh come apripista, cerchiamo di avvici

narci a uno degli ingressi. È stato il suocero di Rahman Rezaei, il difensore


che milita nel campionato italiano, a procurarmi due posti per questa partita
tanto attesa. Jacques ha dovuto sacrificarsi ed è rimasto a casa, ma sospetto
che non sia troppo deluso: non si interessa particolarmente di calcio, né in
Iran né in Europa. Spesso l'ho visto annuire con l'aria da intenditore quando
alcuni bambini iraniani gli elencavano tutti i nomi dei grandi calciatori
europei, ma io so che non ne conosce nemmeno uno.

Qui le donne, solitamente, non sono ammesse alle partite di calcio, ma la


federazione iraniana fa qualche eccezione per le straniere. Nello storico
incontro ai mondiali del '98 in cui l'Iran sconfisse gli Stati Uniti nessuno
coté impedire alle ragazze di ballare di gioia nelle strade. La capitale fu
invasa da milioni di fan che per la prima volta in barba alla segregazione
sessuale festeggiarono insieme l'agognata vittoria in una specie di delirio
collettivo. Il giornale «Jameah»

venne chiuso anche per aver pubblicato una foto delle giovani in visibilio
per il trionfo sul Grande Satana.

In tanti si ricordano ancora che dopo la Rivoluzione alcuni ayatollah


ultraconservatori avevano tentato di obbligare i giocatori a mettere i
pantaloni lunghi bollando il calcio come anti-islamico. Troppi però erano i
religiosi che amavano il gioco del pallone. Pare che lo stesso Khomeini
fosse un acceso tifoso e guardasse le partite in tv durante il suo esilio in
Francia.

Ma per me e Taraneh i problemi iniziano proprio quando arriviamo sotto le


gigantografie di Khomeini e Khamenei, il cui sguardo è carico di biasimo:
la polizia ci ferma ricordandoci che non possiamo entrare. Taraneh non
vuole farsi liquidare così, e comincia pazientemente a negoziare. Una delle
prime cose che ho imparato in Iran è che non bisogna mai accettare un no
come risposta definitiva. Spiega che è tutto in regola: abbiamo i tesserini
della stampa, le lettere dell'Ershad e della Federazione, due biglietti con i
posti riservati. Vorrei aggiungere che siamo anche pronte a fare il tifo per la
squadra iraniana. Alia polizia vengono in aiuto i Pasdaran, i Guardiani della
Rivoluzione che in Iran sono dappertutto. Nonostante un quarto d'ora di
trattative, un ufficiale in uniforme verde oliva con la barba ben curata
chiude la faccenda: «Non potete entrare». Perdo la pazienza, e intervengo in
inglese. Protesto, inveisco, alzo la voce: «Come è possibile che una
straniera invitata non possa entrare allo stadio, come si chiama il
responsabile?». L'ufficiale, occhi azzurri, sorrisino sarcastico, non fa una
piega.

Mi riesce sempre più difficile sopportare questo atteggiamento arrogante.

Un terzo militare interviene annunciando che farà qualche telefonata, giusto


per essere sicuro di non creare un incidente che potrebbe costargli caro.

Un distinto signore incappa nel mio stesso problema. Ahmad Ahmadi è


deputato e medico. Cerca di far entrare allo stadio sua figlia Faranak che ha
quindici anni e adora il calcio. Ahmad mi spiega che secondo la legge le
donne possono assistere alle partite internazionali dalla tribuna vip. Ma
ovviamente questa decisione, come molte altre in Iran, è lasciata all'arbitrio
delle forze dell'ordine.

Intorno a noi la gente si accalca. In questo avvio di serata fa ancora molto


caldo, gli animi sono in ebollizione e i tifosi si spazientiscono. Uno di loro
viene alle mani con la polizia che si rifiuta di lasciarlo entrare. Quelli che
invece riescono a superare le transenne lottano per conquistare i posti
migliori.

Non so se sia il risultato della nostra ostinazione o di una provvidenziale


telefonata, ma alla fine i cerberi che stanno all'ingresso ci lasciano passare.
Il suocero di Rahman mi spiegherà solo più tardi che ha dovuto telefonare
al presidente della federazione calcio e arrivare a minacciare un incidente
diplomatico.
Seguo Taraneh sullo spiazzo che conduce alle scale delle tribune. Cerco di
non perderla di vista tra la folla. Ma abbiamo sbagliato a cantare vittoria
troppo presto: veniamo bloccate da un nuovo sbarramento. Stesso ordine:
«Le donne non entrano». Non credo di avere la forza per ricominciare e
allora preferisco agire d'astuzia: torno indietro e porto con me un gruppo di
poliziotti con cui avevo appena scambiato qualche battuta su Totti e Del
Piero. Questa volta non cerco più di far valere i miei diritti e punto
direttamente sulla complicità tra tifosi che amano gli stessi idoli: una donna
che conosce i grandi nomi del calcio italiano non può essere totalmente
scostumata. Finalmente cadono anche le ultime resistenze e possiamo
dirigerci verso la tribuna vip.

Con grande sorpresa, scopro che non siamo le uniche donne presenti allo
stadio. Le mie vicine indossano tutte il chador, occhiali da sole di stilisti
famosi e una visiera bianca sulla fronte, stile giocatore di golf, molto alla
moda a Teheran. Ho la sensazione che abbia una duplice funzione:
proteggere dagli ultimi raggi di sole e tenere fermo il velo quando
applaudono con ardore. Scoprirò che sono iscritte a vari club sportivi e che
solo per questa occasione hanno ricevuto inviti speciali.

Anche il parlamentare medico con la figlia è riuscito a entrare. Accanto a


noi siedono nord e sudcoreane, figlie di diplomatici residenti a Teheran. Mi
chiedo perché gli iraniani si preoccupino tanto di far rispettare regolamenti
che qualche istante dopo vengono bellamente ignorati.

Quando prendiamo posto il calcio d'inizio è già stato battuto, ma non è un


grosso problema: mi interessa di più lo spettacolo fuori dal campo. Sugli
spalti, gli spettatori sembrano in trance. I nordcoreani non hanno potuto
organizzare i tradizionali voli charter lasciando campo libero agli avversari,
che si rimandano slogan inneggianti alla nazionale islamica: «L'Iran
vincerà» gridano gli uni, «Sì, sì, li distruggeremo» si sgolano gli altri. E
ovviamente, come arbitri supremi, Khomeini e Khamenei troneggiano sui
ventidue giocatori. Nell'ombra, distinguo gli elmetti e gli scudi di un'unità
antisommossa. Non si sa mai.
Sin dai primi minuti l'Iran domina il gioco ma non riesce a concludere a
rete. Così, dopo alcune occasioni mancate, la folla inizia a intonare: «Imam
Ali, aiutaci tu!». Non credo che il padre dello sciismo si sarebbe mai
immaginato di poter essere un giorno scomodato per far vincere una
squadra di calciò. Ma sicuramente avrà deciso di intervenire quando, a un
minuto dalla fine del primo tempo, l'Iran segna: non posso non saltare in
piedi e applaudire come tutto lo stadio che esplode in un boato. L'autore
della rete è il mio amico Rahman Rezaei, che dalla sua posizione di
difensore si è permesso di sbaragliare il portiere nordcoreano. Vorrei dire a
tutti quanti: «Lo conosco, lo conosco!». Lo dico alla piccola Faranak seduta
accanto a me: Rezaei è il suo idolo.

Hamid, seduto vicino a me, ha i capelli neri e indossa un paio di occhiali


tondi che gli conferiscono un'aria da intellettuale. È un interprete ed è la
prima volta che viene qui: «II calcio è un monumento nazionale, il nostro
orgoglio, e siamo molto forti» mi dice.

«Che cosa pensa della questione nucleare?» gli chiedo entrando subito in
tema.

«Credo che dovremmo avere la bomba atomica. E una questione di


sicurezza nazionale. Ce l'hanno tutti: il Pakistan, l'India, la Russia e Israele.
Ed è proprio Israele a costituire una vera minaccia per noi. Non hanno
nemmeno firmato il Trattato di non proliferazione. Nessuno fa niente per
denunciare il loro atteggiamento. E il solito "due pesi, due misure".

L'Europa ci offre solo aiuti economici per interrompere il nostro


programma nucleare civile. Tuttavia il Trattato ci riconosce il diritto di
averlo e inoltre abbiamo accettato le ispezioni. Su questa questione i
riformisti e i conservatori sono sulla stessa lunghezza d'onda.»

Scopro che Hamid è perfettamente informato sulla natura del dibattito in


corso. La stampa iraniana segue con attenzione ogni più piccolo sviluppo
della vicenda diventata un simbolo di indipendenza nazionale. Mentre
parliamo passa una pattuglia di poliziotti per ricordare alle donne che
devono coprirsi: «Aggiustatevi il velo, altrimenti vi cacceremo dallo stadio»
minacciano. Nella pausa tra il primo e il secondo tempo improvvisamente
mi sembra di avere una visione: su un maxischermo che sovrasta il terreno
di gioco sfilano immagini in bianco e nero dello Scià con l'imperatrice
Farah Diba durante una visita di Stato. Cosa ci fanno gli odiati regnanti allo
stadio? Dopo pochi secondi capisco: i sovrani vengono mostrati mentre
lasciano il Paese ventisei anni fa. Seguono la gioia popolare dei giorni della
Rivoluzione nel febbraio del 1979. Poi compare la silhouette di Khomeini,
il braccio alzato, accompagnata da una musica di circostanza: sono i giorni
dell'anniversario della sua morte e il regime vuole che il pubblico se lo
ricordi. Ma nessuno presta attenzione alle reminiscenze di un passato ormai
lontano. Gli spettatori sono troppo occupati a fare la fila per comprare bibite
e gelati, mentre commentano il primo tempo della partita.

Mi avvicino a una ragazza molto carina con il naso rifatto. E una vera e
propria mania in Iran. Le adolescenti che non si rifanno il naso sono una
specie in via di estinzione. Mi trattengo dal dirle che trovo il suo
ridicolmente piccolo. Si chiama Sormeh, ha ventitrè anni e mi dice che è la
prima volta che assiste a una partita dal vivo. È accompagnata dalla sorella
e sono venute su invito di uno dei candidati alle presidenziali, il riformista
Mohsen Mehralizadeh. Per ringraziarlo le ragazze distribuiscono volantini
nelle tribune.

«Mi sono rifatta il naso per essere più bella. Deve capire che noi iraniane,
costrette a indossare questo orribile velo, vogliamo almeno che il nostro
viso sia piacevole. E l'unica cosa che possiamo mostrare.»

È una giovane borghese di Teheran nord e sembra non avere alcuna


preoccupazione nella vita: le piace giocare a tennis, correre con la sua
automobile sportiva e prevede di sposarsi e avere dei bambini. «Non ho
voglia di lavorare, ho voglia di viaggiare e divertirmi.»

Mi confida di avere un ragazzo: «Secondo l'Isiam bisogna arrivare vergini


al matrimonio. Ma le mie amiche fanno quello che vogliono, come voi in
Occidente. Io invece no, credo nel valore della verginità». Cerco di portare
la conversazione sulla questione del nucleare. Anche Sormeh, diplomata in
management di impresa, crede che l'Iran abbia il diritto di diventare una
potenza atomica. Secondo lei, sarebbe un'assicurazione contro le minacce
americane e israeliane.
Comincia il secondo tempo e mi siedo accanto al dottor Ahmadi, che non è
solo un deputato riformista ma anche un chirurgo plastico e specialista... di
nasi! Faccio fatica a crederci, me ne convincerò solo qualche giorno dopo
nel suo studio.

«Il nucleare è circondato dal massimo riserbo. Non credo che il Paese
disponga già di un'arma atomica, ma sono convinto che sia importante per
noi sviluppare un potenziale nucleare civile. È una faccenda molto delicata
ed è resa ancora più complicata dalle pressioni internazionali.»

Veniamo interrotti da una vera e propria ovazione: l'Iran ha segnato il


secondo goal e questo suggellerà il risultato finale. Due a zero per la
Repubblica islamica che ora dovrà battere il Bahrein per qualificarsi.
Faranak è al settimo cielo.

Tra grida di gioia, applausi e incoraggiamenti ai giocatori, mi spiega che


vuole diventare oculista, che non vuole sposarsi e ancora meno avere figli.
Quando le chiedo perché mi da una risposta che mi lascia di stucco: «Non
voglio né uomini né mariti, i maschi sono terribili».

Il confronto tra Iran e Occidente non ha nulla a che vedere con l'euforia
esplosiva del gioco del calcio. Sembra piuttosto una partita di poker ad alto
rischio.

Già nel 1970 l'Iran aveva firmato il Trattato di non proliferazione, che
impegnava le potenze nucleari dell'epoca - Stati Uniti, Unione Sovietica,
Cina, Regno Unito e Francia - a non fornire alle altre nazioni le tecnologie
necessarie per dotarsi di armi atomiche. E queste rinunciavano
spontaneamente a sviluppare il nucleare militare riservandosi però la
possibilità di sviluppare programmi civili. Il Trattato è stato firmato da 187
Paesi, eccetto quattro: Cuba, India, Pakistan e Israele.

Fin dall'epoca dello Scià, l'Iran aveva previsto di munirsi di centrali nucleari
per sviluppare la propria produzione di energia elettrica. Muhammad Reza
Pahlavi ricevette addirittura consigli in proposito dagli Stati Uniti, che
raccomandavano la costruzione di una ventina di piccoli impianti. La
Repubblica islamica ha continuato a inseguire questa ambizione fino a
firmare, nel 1995, un accordo da 800 milioni di dollari con Mosca per la
costruzione della sua prima centrale nucleare a Bushehr, nel Golfo Persico.
In seguito, nel 2002, i Mujaheddin Khalq rivelavano che ne erano state
costruite altre, in particolare ad Arak e a Natanz, a sud di Teheran. Si
sospetta che questi impianti vengano impiegati per arricchire uranio o per
produrre plutonio. Di per sé l'arricchimento del metallo radioattivo non è
vietato dall'Npt. Il problema sta nel livello: scarsamente arricchito l'uranio
viene utilizzato per le centrali elettriche, ma altamente accresciuto può
essere usato per fabbricare bombe.

Teheran non ha dichiarato questi impianti e Washington è subito passata


all'attacco con l'accusa di violazione del Trattato. Nell'estate del 2003,
quando l'invasione dell'Iraq sembrava pienamente riuscita, Bush ha
dichiarato che non avrebbe tollerato la costruzione da parte dell'Iran di
un'arma nucleare. Secondo Washington infatti avrebbe rappresentato una
minaccia per la regione e soprattutto per Israele, che la Repubblica islamica
non ha mai riconosciuto.

Sempre nel 2003 il padre della bomba atomica pakistana, Abdul Qadeer
Khan, ha ammesso di aver venduto tecnologia nucleare all'Iran, alla Libia e
alla Corea del Nord fin dagli armi Ottanta.

Nel febbraio del 2005, durante il suo viaggio in Europa, il segretario di


Stato americano Condoleezza Rice non ha escluso l'eventualità di un'azione
militare unilaterale. Ma per quanto ho potuto constatare negli Stati Uniti, il
contesto dello scontro è cambiato: la guerra in Iraq ha indebolito la
posizione di Bush e l'opzione militare ha perso credito.

Mi tornano in mente i commenti di Daniel Brumberg, profondo conoscitore


del Medio Oriente e autore di un libro appassionante, Reìnventing
Khomeini (Reinventando Khomeini). In occasione della mia visita a
Washington in aprile, mi ero fermata nel suo ufficio dell'Istituto per la Pace,
una fondazione finanziata dal Congresso.

«I falchi dell'Amministrazione avevano pensato che l'invasione dell'Iraq


avrebbe indebolito il regime dei mullah. Al contrario lo ha rafforzato, e gli
iraniani avranno d'ora in poi
Un eccezionale strumento di pressione nei nostri confronti. Se decidessimo
di colpirli, potrebbero crearci grosse difficoltà in Iraq.»

Brumberg riassume la situazione senza fronzoli: «Nessuno crede agli


iraniani quando dicono di non voler acquisire un potenziale militare
nucleare, ma la difficoltà per gli Stati Uniti sta nel fatto che non esiste una
soluzione militare al problema della proliferazione delle armi atomiche».

Proprio per questo motivo Washington, nel marzo del 2005, aveva
annunciato il suo sostegno agli sforzi diplomatici dei tre Paesi europei
coinvolti nelle trattative con l'Iran: Germania, Francia e Regno Unito.
L'Europa pretende da Teheran l'abbandono di qualunque progetto di
arricchimento dell'uranio, in cambio di incentivi economici e tecnologici e
di forniture di uranio arricchito per la sola produzione di energia elettrica.

Nonostante l'appoggio ufficiale, i diplomatici americani si dicono molto


scettici. Poco prima di partire per l'Iran, a un pranzo informale, avevo
conosciuto a Bruxelles il nuovo responsabile della programmazione politica
al Dipartimento di Stato. Il dottor Stephen Krasner era venuto a parlare di
Medio Oriente. Una sessantina d'anni, sicuro di sé, è direttore del Centro
per la democrazia e lo stato di diritto dell'Università di Stanford in
California.

«Penso che abbiano poche possibilità di successo» mi aveva confidato a


quattrocchi riferendosi ai negoziati avviati dagli europei.

«Se fossi ottimista, direi che la situazione è molto complicata. Se fossi


pessimista, che è quasi senza speranza. Per noi e è differenza se a possedere
armi atomiche è Israele o l'Iran. Questo Paese è antidemocratico ed è un
regime che non ci piace. Fino a quando gli sforzi degli europei daranno i
loro frutti, li sosterremo. Ma vogliamo essere sicuri al 100 per cento che
l'Iran non abbia più alcuna capacità nucleare.»

Misurare i progressi delle trattative tra l'Ue e l'Iran non è semplice. Uno dei
negoziatori europei, Patrick Laurent, mi aveva spiegato che per l'Europa era
difficile verificare le informazioni di intelligence sul nucleare iraniano
fornite dagli americani e dagli israeliani. «I servizi segreti di Tel Aviv di
Washington sono convinti che Teheran stia sviluppando una filiera nucleare
militare e che presto sarà in grado di produrre una bomba. Si sta inoltre
dotando di missili Shahab in grado di raggiungere l'Europa.»

Fatte le debite verifiche, il missile in questione ha una gittata di almeno


1300 chilometri, risale agli anni Sessanta ed è particolarmente impreciso.
Potrebbe raggiungere la Turchia, ma non sono certa che gli iraniani abbiano
intenzione di attaccare Ankara. Anche Israele sarebbe alla portata del
Shahab, ma non credo neppure all'eventualità di una pioggia di missili
contro la prima potenza militare della regione.

«Non escludiamo un attacco preventivo degli israeliani» mi aveva detto


Laurent. «Sopra la centrale di Natanz volano gli aerei spia senza pilota di
israeliani e americani e chi li vede passare pensa che si tratti di dischi
volanti! Ma l'idea di un attacco preventivo è assurda» continua. «Gli
iraniani secondo noi hanno nascosto tutto ad almeno 50 metri di profondità
e neanche nelle più rosee previsioni sarebbe possibile colpire il loro
arsenale. Si riuscirebbe però a scatenare la reazione degli sciiti di tutto il
mondo.»

In verità, dimostrare la reale esistenza di un programma nucleare militare è


allo stato attuale impossibile, nonostante le accuse degli uni e le smentite
degli altri. Secondo fonti interne ai servizi segreti europei, la rete del
pakistano Abdul Qadeer Khan avrebbe fornito all'Iran i piani di un'ogiva
sviluppata dai cinesi negli anni Sessanta. Se queste informazioni sono
corrette, Teheran avrebbe avuto tutto il tempo di procedere con le ricerche e
i test necessari per costruire almeno un'arma atomica molto rudimentale.

Nel ruolo di arbitro di questa partita ritroviamo l'Agenzia internazionale per


l'energia atomica (Aiea) e il suo capo Muhammad el-Baradei. Lo avevo
incontrato a Baghdad, quando cercava invano di riportare tutti alla ragione
nei mesi di isteria che avevano preceduto la guerra in Iraq. Baradei
ribadisce in ogni occasione che gli iraniani, i quali hanno sottoscritto nel
dicembre del 2003 un protocollo aggiuntivo di severissime ispezioni, stanno
rispettando i loro obblighi.
Assicura inoltre che l'Aiea non ha elementi per dimostrare che stiano
sviluppando un programma nucleare militare.

Alla metà di marzo, in un'intervista sulla Cnn, il diplomatico egiziano aveva


centrato il nocciolo del problema. «Si tratta di una questione di intenzioni.
Sentite dire che "l'Iran ha l'intenzione", che "l'Iran ha l'ambizione",
"abbiamo dei sospetti". Tuttavia è molto difficile decifrare le intenzioni, per
questo mi sento di poter dire che noi siamo interessati ai fatti. Ma l'Iran
deve fare tutto il possibile per creare un clima di fiducia.»

A Teheran sono andata a interpellare uno dei massimi esperti in materia.

«Nessuno vuole che i negoziati falliscano. Optiamo per una soluzione in cui
tutti escano vincitori.»

Ali Akbar Salehi è l'ex negoziatore iraniano per la questione nucleare. È lui
che ha firmato nel dicembre del 2004 il protocollo aggiuntivo che permette
agli ispettori dell'Aiea di effettuare visite a sorpresa negli impianti iraniani.
Oggi è uno dei consiglieri più influenti del governo. Mi riceve nei lussuosi
uffici del suo centro di ricerca all'Università di Teheran. È elegante nel suo
abito grigio e dietro gli occhiali nasconde uno sguardo acuto.

«L'Iran vuole rispettati i diritti riconosciuti dal Trattato di non


proliferazione. L'Europa pretende garanzie supplementari per avere la
certezza che il programma non verrà impiegato per scopi militari. Siamo
pronti a impegnarci in questo senso, ma ci aspettiamo che Bruxelles
collabori nel trasferimento di tecnologia e nell'assistenza economica.»

Gli chiedo perché l'Iran dovrebbe rinunciare al nucleare militare ora che gli
americani stanno alle loro porte.

«Innanzitutto perché l'imam Khomeini decretò a suo tempo che non


avremmo utilizzato armi di distruzione di massa.

La direzione religiosa del Paese ha sempre rispettato questa linea. Siamo


giunti alla conclusione che questo arsenale, anziché rappresentare una
garanzia, ci metterebbe in pericolo. Il nostro è un Paese prudente: la
sicurezza dei nostri vicini è anche la nostra.»
Il tono è convincente, ma bisogna credergli?

«Speriamo che gli Stati Uniti cedano alla forza della logica e non alla logica
della forza» conclude asciutto Salehi.

Ho l'impressione che nessuno disponga di informazioni sufficientemente


attendibili per dirimere il dibattito. Quando ho chiesto a Kenneth Pollack
quali fossero le credenziali dell'intelligence americana in Iran, lui mi ha
risposto: «Peggio che in Iraq». Abbastanza inquietante.

Pertanto, secondo Seymour Hersh, editorialista del «New Yorker» autore di


tanti scoop tra cui quello sulle torture di Abu Ghraib, gli americani
starebbero stilando una lista di potenziali obiettivi da attaccare. Ma gli
ambienti dell'intelligence europea interpretano queste informazioni come
l'ennesima campagna di destabilizzazione per tenere il nemico sempre in
allerta.

Dall'altro lato gli iraniani, pur rivendicando la trasparenza del loro


programma nucleare, non sono poi tanto scontenti delle inquietudini
occidentali. Molti le considerano la miglior difesa rispetto alle minacce
americane. Dopo tutto, pensano gli ayatollah, l'Iraq ha pagato il prezzo della
propria debolezza.

Gli europei sembrano gli unici a mobilitarsi veramente per trovare una
soluzione. Sanno altresì che solo gli americani possono soddisfare le
esigenze di sicurezza degli iraniani. E che devono trovare un modo per
coinvolgerli nelle trattative. Tuttavia, nel caso di una distensione dei
rapporti tra Stati Uniti e Iran, gli europei non vogliono assistere al ritorno in
forze dell'America nella Repubblica islamica. È l'unico Paese nella regione
che non costituisce una riserva di caccia americana e dove simbolicamente
l'euro - e non il dollaro - regna sovrano.

CAPITOLO 5

LA CAPSULA DI CIANURO
L'appuntamento è nella hall dell'albergo Esteghlal, l'ex hotel Hilton.
Esteghlal significa «indipendenza» e insieme con azadi, «libertà», è uno dei
pilastri della Repubblica islamica. Mi accoglie un certo Ali, robusto e
affabile, in abito grigio e camicia bianca. Sono in ritardo ma la puntualità
non è sempre considerata un pregio in Iran.

«Dobbiamo aspettare» mi spiega laconico il nostro ospite, che ufficialmente


lavora per il ministero degli Esteri.

Sospetto che sia legato alla sconfinata nebulosa dei servizi segreti iraniani.
Ci sediamo a un tavolino del bar e prendiamo un té.

Gli alberghi di Teheran sono pieni. Riconosco i giornalisti stranieri arrivati


per seguire le prossime elezioni. Jacques, che mi accompagna, saluta la
troupe di una radio francese. I sondaggi continuano ad assegnare la vittoria
a Rafsanjani.

Ali ci chiede se il soggiorno sta procedendo bene e se stiamo incontrando


gli interlocutori che ci interessano. Falso candore o vera curiosità?
Suppongo che se gli uomini dell'intelligence volessero spiare le mie mosse
non avrebbero alcuna difficoltà a farlo.

«Vi abbiamo preparato una suite» prosegue. «Potete sistemarvi lì per un


paio di giorni. Siete i nostri invitati.»

Per poco non soffoco sorseggiando il mio té. Questa offerta non era
prevista. Fin dal mio arrivo ho insistito per incontrare degli esperti iraniani
di terrorismo. Ora che l'obiettivo sembra raggiunto non ho però intenzione
di rimanere rinchiusa per quarantott'ore in una stanza d'albergo. Tanto più
che un sesto senso mi dice che i colloqui che avremo non aggiungeranno
granché alle mie ricerche. Quindi non posso fare altro che rifiutare con
gentile determinazione. Spiego ad Ali che ho altri impegni.
Lui mi ascolta con attenzione, ma ci vorranno molti altri no per fargli capire
che parlo sul serio. Probabilmente avrà pensato che stessi facendo una gara
di cortesia, un'arte difficile da padroneggiare in Iran. In ogni caso alla fine
dovrà cedere.

«Andiamo» dice alzandosi senza aggiungere spiegazioni. Non provo


nemmeno a capire cosa sia successo nel frattempo.

Forse Ali ha visto entrare la persona che devo incontrare? Perché tutto
questo mistero? Mania di segretezza, necessarie precauzioni di sicurezza
oppure imbarazzo di un sistema poco incline alla trasparenza?

Da anni Teheran è accusata dagli Stati Uniti di essere una colonna del
terrorismo internazionale. L'Iran viene indicato dal Dipartimento di Stato
come il Paese coinvolto più attivamente nel sostegno di quello che oggi
costituisce il principale flagello dell'Occidente. Nell'attuale contesto di
psicosi per le armi di distruzione di massa, il regime dei mullah è al centro
di scenari apocalittici di collusione atomica con gruppi estremisti decisi a
farla finita con il mondo civilizzato.

I dirigenti iraniani respingono, ovviamente, qualunque accusa di


collegamento con il terrorismo. Sostengono addirittura di esserne le prime
vittime. Ammettono la loro strategia di sostegno finanziario e militare a
quelli che considerano movimenti di liberazione, come Hezbollah e Hamas.
E riconoscono che tutti i mezzi erano leciti all'epoca della guerra con l'Iraq
per garantire la sopravvivenza della Rivoluzione.

Hamid Kashani ci riceve al quattordicesimo piano dell'albergo in una suite


il cui salone è stato trasformato in sala riunioni. E uno dei responsabili della
lotta al terrorismo del ministero degli Esteri. Durante l'iniziale scambio di
saluti mi guardo rapidamente intorno: l'arredamento è moderno, la moquette
marrone. Un tavolino basso è imbandito con bevande, frutta e ovviamente
pistacchi, la grande specialità iraniana insieme al caviale. Dalla terrazza si
gode una meravigliosa vista di Teheran che ribolle ai nostri piedi. L'ospite
indossa un abito marroncino e una camicia con il colletto alla coreana. Ha
la barba corta e i modi pacati. Parla lentamente e pur conoscendo bene
l'inglese preferisce esprimersi in farsi e affidarsi alle qualità di interprete di
Ali. Un terzo uomo prende appunti.
«Posso dirle che i Mujaheddin Khalq non rappresentano alcun pericolo per
la Repubblica islamica dell'Iran» esordisce Kashani.

Ci siamo, dunque. I miei interlocutori hanno organizzato questi incontri per


parlarmi del gruppo di opposizione che da anni conduce una dura campagna
contro il regime di Teheran, i Mujaheddin Khalq, cioè i combattenti del
popolo, spesso indicati con la semplice sigla: Mek. Agiscono con azioni
violente in Iran e nel resto del mondo, ma anche attraverso un'attività di
propaganda e di lobbying molto intensa in Occidente.

«Non temiamo le attività del gruppo nel nostro Paese» insiste «ma i suoi
componenti compromettono i buoni rapporti tra Iran ed Europa. Questo è
un grave ostacolo alla normalizzazione delle nostre relazioni
internazionali.»

Le certezze di Kashani sull'inoffensività dei Mujaheddin sono però smentite


da venticinque anni di storia. Ai Mek, come abbiamo visto, è stata attribuita
la responsabilità di una delle più sanguinose operazioni terroristiche nella
Repubblica islamica: l'attentato che decapitò la direzione del Partito della
Repubblica islamica (Pri) di Khomeini nel giugno del 1981.

In seguito furono sospettati di aver fatto saltare in aria gli uffici del primo
ministro e di aver assassinato alcuni alti dirigenti del regime. Si aprì allora
nel Paese una vera e propria lotta all'ultimo sangue che li contrappose al
gruppo dei Pasdaran con scontri di piazza ed esecuzioni sommarie che li
decimarono.

I Mek, che avevano lottato contro lo Scià durante la Rivoluzione, si


allearono con il primo presidente della Repubblica islamica, Bani Sadr.
Insieme osteggiarono il dominio dei religiosi del Pri che aveva la
maggioranza in Parlamento e difendeva la supremazia della Guida
Suprema.

Nel giugno del 1981, Bani Sadr e il leader dei Mujaheddin, Massud Rajavi,
incitarono il popolo a ribellarsi apertamente ai mullah organizzando
sollevazioni popolari. Ma un mese dopo, di fronte alla repressione e alla
solidità del regime, furono costretti a fuggire in Francia. Parigi,
schierandosi con Saddam, apriva le porte agli oppositori di Khomeini.
Nel 1986, in una fase di distensione tra Parigi e Teheran, i Mek si
rifugiarono in Iraq, dove vennero addestrati e utilizzati da Saddam Hussein
come truppe ausiliarie dell'esercito iracheno durante la guerra contro l'Iran.

Nel 1988, all'indomani del cessate il fuoco tra Baghdad e Teheran,


tentarono di rovesciare il regime iraniano.

L'operazione fallì miseramente ma ebbe come risultato quello di accrescere


il culto della personalità dei capi, Massud Rajavi e la moglie Maryam.

Per convincermi della natura totalitaria e criminale dell'organizzazione che


viene paragonata a una setta, i miei interlocutori iraniani decidono di farmi
incontrare alcuni ex militanti o quanto meno personaggi presentati come
tali.

Autori di attentati, arrestati e poi «tornati liberi». Pentiti che hanno


beneficiato, così dicono, della politica di clemenza della Repubblica
islamica. A chi devo credere? In questo gioco di ombre esiste una verità?

La ragazza seduta davanti a me ha gli occhi stanchi. Haka Shashali ha


trentaquattro anni, è piuttosto gracile ma allo stesso tempo determinata nel
suo manteau nero, il volto pallido incorniciato da un hijab kaki. Gioca con
le pieghe della borsa che tiene stretta a sé. Mentre parlo con lei riesco a
volte a strapparle un sorriso, ma è sempre velato di profonda tristezza, quasi
di rassegnazione di fronte al destino cui è costretta: essere donna in una
società che la imbriglia, aver militato in un gruppo che l'ha manipolata,
testimoniare a favore di un regime che è intenzionato a sfruttare a suo
vantaggio tutti i «pentiti».

Haka, che ha fatto il suo ingresso nella suite dell'Esteghlal con altri due
compagni di sventura, mi racconta la sua storia tutta d'un fiato. Sotto il suo
severo foulard si nasconde il volto della vulnerabilità dell'Iran: è di donne
come lei, capaci di muoversi nell'anonimato della folla, che i mullah hanno
paura. Haka lasciò l'Iran nel 1996 alla volta dell'Iraq passando per la
Giordania. Per quattro anni venne addestrata in un campo militare, dove le
fu impedito di avvicinare il marito e la sua bambina di sei anni che
l'avevano raggiunta. Venne poi costretta a divorziare prima di condurre, nel
2000, la sua prima operazione in Iran. La missione prevedeva un attacco a
colpi di mortaio contro una stazione di polizia. Ci tiene a precisare che il
mortaio era di piccolo calibro - 60 millimetri - e che lo trasportava smontato
in una borsa insieme a un'altra donna infiltrata come lei. Fu arrestata dopo
essere stata tradita dalla sua guida. L'uomo aveva fatto in modo che lei si
fermasse per mangiare e si staccasse dai denti la capsula di cianuro. Tutti ì
militanti dei Mek nascondono una capsula di veleno letale in bocca per
potersi suicidare in caso di cattura. Fa parte delle rigide regole
dell'organizzazione.

«L'unica cosa che avevo in testa all'epoca erano i Mujaheddin. Pensavo che
avrebbero potuto assicurare un futuro a mia figlia. Ma per loro non esistono
gli individui, una persona deve diventare un robot e per le donne è ancora
peggio.»

In genere sono piuttosto diffidente nei confronti dei cosiddetti pentiti e delle
loro confessioni. Sono veramente chi dicono di essere o ripetono un
copione preparato da altri e imparato bene a memoria?

L'uomo che prende la parola subito dopo Haka si chiama Hurash Saretipuk.
È giovane, di statura media, ha i capelli neri e lunghi. Fuma piccole
sigarette sottili e lo si potrebbe scambiare per uno studente squattrinato di
una qualunque università europea. Però un elemento distintivo balza agli
occhi: ha perso la mano destra.

Nel 1986 si trasferì negli Stati Uniti con la famiglia e lì conobbe una
ragazza, Elham, i cui genitori erano simpatizzanti dei Mele. Fu così che si
avvicinò al gruppo. Durante alcune riunioni segrete in una casa a Falls
Church, in Virginia, a due passi dal quartier generale della CIA, incontrò gli
agenti addetti al reclutamento. La sua prima azione fu la partecipazione a
una manifestazione contro il presidente Khatami, eletto nel 1997, in
occasione della sua visita alla sede dell'Onu a New York nel 1998.

Elham, che si trovava con lui, venne arrestata dall'Fbi e fu costretta a


lasciare il Paese. Quando partì utilizzò documenti falsi, lui la seguì facendo
altrettanto. Si trasferirono in Iraq dove vennero addestrati nei campi dei
Mujaheddin. Nel '91
in uno dei miei viaggi a Baghdad avevo visitato insieme a Jacques e a un
gruppo di colleghi il campo di Ashraf nel Sud del Paese al confine con
l'Iran. Lì si addestravano i combattenti dell'Esercito di liberazione
nazionale, la struttura militare dei Mek. Si trattava di una specie di
claustrofobico microcosmo impermeabile al mondo esterno dove non
mancava niente: dall'ospedale all'università. E i suoi membri raccontavano
tutti le stesse storie di gloriose operazioni militari oltrefrontiera e di
luminose esistenze sotto la guida illustre dei coniugi Rajavi.

La prima operazione militare organizzata da Hurash a Teheran fallì


tragicamente. Nel tentativo di far esplodere una granata gli vennero
smembrati la mano e l'avambraccio destro. Cercò di schiacciare tra i denti la
capsula di cianuro, ma riuscì solo a procurarsi svariate ustioni allo stomaco.
Una volta curato venne mandato alla prigione di Evin a Teheran.

Più tardi fonderà un'associazione per i Mujaheddin che vogliono reinserirsi


nella società iraniana.

«Gli americani sapevano quello che facevamo» mi risponde quando gli


chiedo come abbia potuto operare nelle immediate vicinanze di Washington
senza che nessuno sia intervenuto. «Potevamo viaggiare liberamente. Forse
il governo statunitense non voleva ostacolarci. Ma l'Fbi seguiva le nostre
attività.»

I Mujaheddin sono inclusi nella lista delle organizzazioni terroristiche del


Dipartimento di Stato americano e di molti Paesi europei. Washington li
accusa in particolare di aver partecipato alla presa degli ostaggi
all'ambasciata Usa a Teheran nel novembre del 1979, e di aver ucciso
militari e civili americani negli anni Settanta. Ma paradossalmente gli
esperti di Washington per definire i Mek un'organizzazione terroristica
hanno tenuto conto di azioni che avevano come bersaglio proprio quella
Repubblica islamica accusata di fomentare il terrorismo. Nell'elenco delle
accuse figurano: gli assalti coordinati dell'aprile del 1992 contro le
rappresentanze iraniane in una dozzina di Paesi; l'omicidio di responsabili
iraniani nel 1999 e nel 2000; gli attacchi sferrati in territorio iraniano nel
2000 e nel 2001.
Secondo i miei interlocutori, i Mek sono pericolosi quanto al-Qaida, e i
Paesi che li accolgono non possono stare tranquilli.

«I membri del gruppo sono stati istruiti per compiere attentati suicidi»
assicura Kashani «proprio come i talebani e gli uomini di Osama bin Laden.
Sono anche allenati all'uso di tutte le tecniche sovversive, di armi leggere ed
elettroniche e sono capaci di pilotare aerei. Gli europei devono stare in
guardia. Obbediscono ciecamente a Massud e Maryam Rajavi.»

Kashani si sofferma sugli incidenti che hanno accompagnato il breve arresto


nel 2003 di Maryam da parte delle autorità francesi alla periferia di Parigi
per attività sospette. In una forma di protesta estrema alcuni militanti dei
Mek si sono dati fuoco davanti alle telecamere e due sono morti in seguito
alle ustioni riportate.

Più che per la sicurezza degli europei, oggi Teheran è preoccupata per
l'influenza che i Mujaheddin sembrano avere presso gli organismi
dell'Unione Europea. I governanti iraniani hanno seguito con irritazione
l'intervento di Maryam Rajavi al Parlamento europeo nel dicembre del
2004: diventata presidente del Consiglio nazionale della Resistenza
iraniana, l'organo politico dell'organizzazione, è stata ricevuta da uno
schieramento di deputati simpatizzanti dei Mek. E

in quella sede ha denunciato il regime dei mullah chiedendo la


cancellazione del suo gruppo dalle liste delle formazioni terroristiche. Nel
tentativo di screditare Teheran, i Mujaheddin sono stati anche all'origine
delle fughe di notizie relative all'esistenza in Iran di installazioni nucleari
segrete.

Gli interventi dei miei interlocutori sono lunghi e minuziosi e a tratti fatico
a seguirli. Conosco la maggioranza delle informazioni e mi irrita l'insistenza
con cui cercano di convincermi della pericolosità dei Mek. Stiamo parlando
di circa 1500 militanti sparsi in diversi Paesi europei. Sono sicura che i
servizi di sicurezza degli Stati interessati non li sottovalutano.

A me in questo contesto interessa capire cosa sanno gli iraniani dello strano
rapporto che lega i Mek agli Stati Uniti. È
una relazione di vecchia data e francamente mi è sempre sembrata contro
natura.

In proposito Jacques mi ricorda una storia curiosa. Nel 1991, quando


visitammo il campo di Ashraf all'indomani della Prima guerra del Golfo, la
nostra guida era un ragazzo in giacca e cravatta. Qualche mese dopo
Jacques si trovava a Washington dove aveva appena preso servizio come
corrispondente dell'Afp presso il Dipartimento di Stato. Mentre attraversava
K Street venne salutato da un colpo di clacson. Al volante dell'auto c'era lo
stesso ragazzo in giacca e cravatta. Il fatto che il rappresentante di un
gruppo alleato di Saddam Hussein, il peggior nemico degli Stati Uniti in
quel periodo, si trovasse 11, gli parve piuttosto strano.

A partire dall'invasione americana dell'Iraq nell'aprile del 2003 i campi di


addestramento dei Mek sono passati sotto il controllo dei soldati
statunitensi, sotto la diretta tutela del Pentagono. Teheran stima che vi si
trovino ancora 3500

combattenti, cifra confermata anche da Washington, che assicura però di


averli disarmati. Ma che cosa succede veramente nel campo di Ashraf?
Analisti e diplomatici iraniani sono convinti che i Mek vengano in realtà
utilizzati per infiltrarsi in Iran e condurre operazioni sovversive.

Esiste dunque una strategia americana di destabilizzazione che farebbe dei


Mek una quinta colonna?

«Noi non crediamo che questa sia la politica ufficiale degli Stati Uniti»
afferma Kashani «ma ci sono circoli al Pentagono che vorrebbero fare
pressione sul regime iraniano, come è successo in Iraq. Una parte
dell'amministrazione americana appoggia i Mujaheddin, mentre un'altra ala
si mostra diffidente. Rimangono comunque uno degli strumenti a loro
disposizione.»

Dal 1965 al 1980 il gruppo che fin dalle origini ha mescolato princìpi
islamici e retorica marxista è stato vicino all'Unione Sovietica. Negli anni
Ottanta le relazioni tra i Mek e Washington sono migliorate, ma dopo
l'invasione del Kuwait da parte di Baghdad si sono fatte nuovamente tese.
Oggi sembrano potersi riannodare. «Hanno solide basi negli Stati Uniti»
prosegue Kashani «stringono contatti con uomini politici, membri del
Parlamento, senatori.»

Gli iraniani si mostrano particolarmente preoccupati quando si parla


dell'azione dell'Iran Policy Committee (Ipc). Come abbiamo visto, il
Comitato suggerisce di appoggiarsi ai Mek per destabilizzare il regime.
Oltre all'ambasciatore Akins ne fanno parte alcune personalità note per i
loro legami con la squadra dei neo-conservatori. Nonostante il disastro
iracheno, a Washington dettano ancora le regole del gioco. Gli iraniani
puntano il dito soprattutto contro Raymond Tanter, uno dei fondatori del
Comitato. Ex membro del Consiglio di sicurezza nazionale, professore alla
Georgetown University, lavora come esperto dell'Iran presso influenti centri
di ricerca a Washington. E membro di gruppi di lobbying per Israele come
l'American Israel Public Action Committee (Aipac) o il B'nai B'rith.
Teheran, che ufficialmente continua a invocare la distruzione dello Stato
ebraico, non può ovviamente aspettarsi una grande simpatia da parte
dell'Ipc.

E certamente non può pensare di trovare un interlocutore ben disposto tra le


stelle emergenti della diplomazia americana. Anche il nuovo ambasciatore
presso le Nazioni Unite, John Bolton, imposto da Bush contro il volere del
Congresso, è un acceso sostenitore dei Mek e del loro impiego come agenti
segreti degli Stati Uniti in Iran.

L'unica cosa che però rassicura i dirigenti di Teheran è il mancato appoggio


ai Mek da parte della popolazione iraniana. L'alleanza con Saddam Hussein
durante la guerra e il ruolo di «mercenari» del regime baathista hanno
infatti cancellato quanto restava della loro popolarità. A differenza delle
comunità o dei gruppi utilizzati dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan,
come i curdi o l'Alleanza del Nord, i Mek sono isolati e non hanno una base
sociale, né una rete di appoggi che consentano loro di svolgere un'efficace
azione sovversiva.

I circoli del potere in Iran hanno buone ragioni per preoccuparsi. Gli
ambienti militari e dell'intelligence americani pensano che la partita con il
regime dei mullah sia tutt'altro che chiusa. Hanno ancora parecchi conti in
sospeso, a cominciare da quello con Mughniyeh.
Chi si ricorda ancora di Imad Mughniyeh? Me lo chiedo mentre sono
prigioniera di un gigantesco ingorgo dopo aver lasciato l'hotel Esteghlal.

Prima di essere detronizzato da Osama bin Laden come nemico pubblico


numero uno dell'America, questo libanese era la bestia nera di Washington.
Il terrorista più ricercato. E sospettato di aver agito per conto del regime
iraniano.

Mughniyeh, sulla cui testa l'Fbi ha messo una taglia di cinque milioni di
dollari, si nasconde a Teheran? Perché non è mai stato ritrovato?

Taraneh è al volante della sua Kia mentre avanziamo a passo d'uomo sulla
Chamran Expressway. Mi ritrovo a pensare che Mughniyeh sta forse
aspettando pazientemente negli ingorghi, sotto altre sembianze e sotto un
altro nome, inveendo contro il caldo soffocante che stringe d'assedio la
capitale iraniana.

Nato nel Libano meridionale nel 1962, Mughniyeh entrò giovanissimo a far
parte dell'unità scelta dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina,
Forza 17. Quando nel 1982 i palestinesi dovettero lasciare Beirut in seguito
all'invasione israeliana, restò in Libano con i suoi fratelli e si unì alla
resistenza islamica. Diventò uno degli strateghi della lotta anti-sraeliana e
anti-americana di Hezbollah, che vide la luce nello stesso anno. Lavorò
come agente dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione incaricati di
difendere la Repubblica islamica e di esportarne il messaggio, non solo in
Medio Oriente.

I servizi segreti americani lo ritengono responsabile della maggior parte


degli attacchi precedenti agli attentati dell' 11

settembre. Il 18 aprile 1983 un furgoncino imbottito di esplosivo fece


saltare in aria l'ambasciata Usa a Beirut uccidendo 63 persone. Il comando
della CIA in Medio Oriente, riunito quel giorno proprio all'ambasciata,
venne falcidiato. Il 23 ottobre, alcuni kamikaze al volante di due camion-
bomba si lanciarono contro il quartier generale dei marine e dei legionari
francesi, provocando rispettivamente 241 e 56 morti.
Dopo questi tragici avvenimenti il suo nome venne associato anche ai
rapimenti organizzati in Libano. Uno degli ostaggi, William Buckley,
catturato nel marzo del 1984, era a capo dell'ufficio della Cia in Libano:
venne tenuto prigioniero per quindici mesi e torturato a morte. Un altro
militare americano, il colonnello dei marine William Higgins, sequestrato
nel Libano meridionale nel febbraio del 1988 mentre prestava servizio sotto
la bandiera dell'Onu, venne giustiziato con l'accusa di essere una spia
americana.

Mughniyeh organizzò anche nel giugno del 1985 lo spettacolare


dirottamento di un aereo a Beirut. Durante questa operazione venne ucciso
un sottufficiale della marina americana, Robert Dean Stethem, crimine che
sancì l'inserimento di Mughniyeh nella lista dell'Fbi dei ventidue terroristi
più ricercati al mondo. La sua scheda segnaletica è decisamente stringata:
un metro e 70 per 70 chili di peso, capelli e barba nera, nessun segno
particolare. «Armato e pericoloso»

aggiunge il comunicato diramato dall'Fbi.

La campagna di attentati suicidi condotta in Libano tra il 1982 e il 1986


spinse gli americani e i francesi a lasciare il Paese. E costrinse gli israeliani
a ritirarsi nella cosiddetta fascia di sicurezza nel Sud del Libano.

A partire dalla fine degli anni Ottanta il nome di Mughniyeh scompare


progressivamente dalle inchieste giornalistiche.

E Hezbollah si trasforma gradualmente in un gruppo paramilitare, con


l'obiettivo di lottare contro le vestigia dell'occupazione israeliana, fino al
ritiro delle ultime unità di Tsahal nel 2000. Da quel momento, Hezbollah si
impegna nell'azione politica cercando di mostrarsi un'organizzazione
affidabile, pur sempre pronta a riprendere le armi qualora la sua
sopravvivenza sia minacciata.

Ma Hezbollah e quindi l'Iran non hanno rinunciato ad agire in altre zone.


Sono sospettati di aver appoggiato «Hezbollah in Arabia Saudita», attivo
nella zona orientale del Paese a maggioranza sciita. Il movimento è stato
accusato da Riyad del grave attentato antiamericano contro le torri Khobar a
Dharan il 25 giugno 1996: 19 i militari uccisi. Per quel crimine vennero
accusati 13 sauditi e un libanese. Gli Stati Uniti avanzarono sospetti sulla
possibile implicazione di dirigenti iraniani, ma non si sono mai spinti oltre
questo riferimento indiretto.

Analoga dinamica per l'affare Karine A, un cargo intercettato da alcuni


commando israeliani nel gennaio del 2002 sul Mar Rosso. Secondo le
autorità di Tei Aviv trasportava armi destinate all'Autorità palestinese e a
Hezbollah. I servizi segreti israeliani fecero di tutto per accreditare il
coinvolgimento di Mughniyeh - ancora lui - e dei Guardiani della
Rivoluzione. Ma gli esperti mediorientali si dimostrarono piuttosto scettici.
Infine Hezbollah è sospettato di aver organizzato i sanguinosi attentati
antisraeliani del 1992 e del 1994 in Argentina.

Oggi, come mi hanno fatto notare a Washington, Hezbollah e i suoi razzi


puntati su Israele rappresentano una forza di dissuasione di cui bisognerà
tenere conto qualora gli Stati Uniti, o lo Stato ebraico, decidessero di
bombardare le installazioni nucleari iraniane.

Gli Stati Uniti inoltre credono che Teheran intrattenga buone se non ottime
relazioni con gli estremisti sciiti in Iraq, ritenuti colpevoli di agire contro le
truppe americane su loro istruzione. Infine, Washington assicura che l'Iran
non ha fatto piena luce sulla sorte dei membri di al-Qaida arrestati nel
Paese. Alcuni suggeriscono che voglia scambiarli con esponenti dei Mek in
Europa o negli Stati Uniti e ricercati dagli iraniani con l'accusa di...
terrorismo.

La storia recente dei rapporti tra Stati Uniti e Iran è dunque tutt'altro che
idilliaca. Tuttavia c'è un ambito nel quale Teheran e Washington avrebbero
interesse a collaborare per tenere in scacco il terrorismo: la lotta contro il
traffico di droga proveniente dall'Afghanistan, una delle principali fonti di
finanziamento.

L'87 per cento della produzione illegale di oppio proviene dall'Afghanistan.


La pianta cresce in tutte le regioni del Paese, e tra il 2003 e il 2004 la
superficie coltivata è aumentata del 60 per cento. Anche la produzione è
aumentata, del 17 per cento, passando da 3600 a 4200 tonnellate, che si
traducono in quantitativi di eroina esportabili in tutto il mondo che vanno
dalle 400 alle 700 tonnellate, di cui la metà passa per l'Iran. Per misurare
l'ampiezza del problema, basta considerare che la Gran Bretagna consuma 8
tonnellate di eroina all'anno.

I 18.000 soldati americani dispiegati in Afghanistan nel l'ambito delle


ricognizioni di routine sequestrano numerosi carichi di stupefacenti o
arrestano trafficanti, ma hanno il divieto di interferire direttamente nella
coltivazione, nella trasformazione o nel traffico di oppio.

II Pentagono sostiene che questo potrebbe provocare tensioni con i «signori


della guerra», i capitribù che controllano il mercato, veri e propri padroni in
Afghanistan. Il rischio è che, sentendosi minacciati, possano incitare il
popolo alla ri bellione contro le truppe americane.

«Il traffico non viene combattuto per ragioni politiche ed economiche» mi


conferma il responsabile a Teheran dell'Ufficio delle Nazioni Unite per la
lotta alla Droga e alla Criminalità, Roberto Arbitrio.

Questo giovane italiano dal piglio dinamico che da molti anni, in questa
parte del mondo, da la caccia ai trafficanti di droga ci riceve in una grande
villa al centro di Teheran che ospita gli uffici dell'organizzazione Onu.

Vi lavorano giovani donne senza il velo. Alcune foto alle pareti esortano a
liberare il mondo dalla droga. Noto che c'è appesa anche una preghiera il
cui testo mi fa sorridere: «Oh Dio mio, ti chiedo la saggezza per capire gli
uomini, l'amore per perdonarli e la pazienza per sopportarli. E, Dio, non
darmi la forza altrimenti gliele darò di santa ragione!».

«L'Iran non è un Paese a cui bisogna ricordare di combattere il


narcotraffico» prosegue Arbitrio. «Lo fanno già, e bene.

Hanno avuto 3600 morti in vent’anni tra le file delle unità antidroga. Lungo
tutta la frontiera con l'Afghanistan hanno luogo veri e propri combattimenti
militari.»

Secondo le stime ufficiali, in tutto il Paese ci sono tre milioni di


tossicodipendenti, una vera e propria piaga sociale che il regime islamico
non può più ignorare. Quello dell'Iran è uno dei tassi di tossicodipendenza
più alti al mondo, che coinvolge dai quindici ai venti milioni di persone, se
si contano anche i familiari e le persone care.

«L'Iran si trova dunque suo malgrado a fare i conti con i costi sociali ed
economici della droga. Ma anche qui, come nelle altre parti del mondo
afflitte da questo problema, un'economia sotterranea trae profitto dal
traffico illegale.»

La via afghana passa per la Russia, il Pakistan e l'Iran. Da qui la droga


viene esportata in Europa o nei Paesi del Golfo.

Di recente è stata individuata una nuova filiera che passa per l'Iraq
meridionale e il porto di Bassora, nonostante la zona sia sotto lo stretto
controllo delle forze britanniche.

Una delle regioni più strategiche per la lotta contro la droga è quella di
Mashhad. Qui gli iraniani hanno costruito una barriera di trincee e
terrapieni, una sorta di linea Maginot dell'antidroga. Gli scontri con i
corrieri sono durissimi, e lo dimostrano le numerose fotografie di veicoli
crivellati di pallottole. I carichi di droga hanno spesso nomi evocatori, come
quello ripreso in uno degli scatti che mi fa vedere Arbitrio: 555 Death to
Israel.

«Al contrario,» sottolinea l'esperto «nessuno controlla la frontiera dal lato


afghano. Non c'è coordinamento tra le due parti.»

Il denaro proveniente da questo commercio illegale viene riciclato dalle reti


che fiancheggiano, o sostengono direttamente, le attività terroristiche
internazionali. I finanziatori dei talebani e di al-Qaida traggono enormi
profitti dall'oppio, per non parlare dei gruppi pakistani o di altri Paesi della
regione che sono, anche loro, attori sulla scena del terrorismo
internazionale.

Tuttavia, «la droga non si tocca, e la sicurezza delle truppe Usa ha la


priorità rispetto alla battaglia contro l'oppio»
afferma Arbitrio. L'Onu ha realizzato una mappa delle zone
dell'Afghanistan in cui si concentrano i campi e i laboratori principali, ma
gli americani non ne hanno voluto sapere nulla.

Il futuro dei rapporti tra America e Iran non si profila certo brillante. Le
reciproche minacce, dirette o indirette, di ritorsione o destabilizzazione
devono essere prese sul serio. Tuttavia ci sono buone possibilità che
prevalga la ragione in questo braccio di ferro. Ripenso alle parole di
Kenneth Pollack.

«Anche se il comportamento dell'Iran è stato aggressivo, anti-americano e


omicida, il Paese non ha mai agito in modo irrazionale o sconsiderato» mi
aveva spiegato a Washington. «Ha sempre valutato con prudenza le proprie
azioni, ha saputo fermarsi quando i rischi erano troppo alti ed è tornato sui
propri passi quando è stato minacciato di gravi ritorsioni. Questo
atteggiamento lascia pensare che rispetterebbe il principio di dissuasione
qualora decidesse di dotarsi di un arsenale nucleare.»

Ma oggi la vera minaccia non viene da Teheran e dalle sue ambizioni


militari reali o presunte. Proviene da una galassia di attori non appartenenti
ad alcuno Stato: gruppi, cellule, singoli individui che per comodità vengono
raggruppati sotto la bandiera di al-Qaida o del terrorismo islamico. Il
pericolo è elevato, tanto più che la loro arma prediletta è il suicidio.

Si sacrificano uccidendo insieme a loro centinaia o migliaia di innocenti.


Gli attacchi di New York, Londra e ovviamente Baghdad ne sono un tragico
esempio col quale tutti ci troviamo a fare i conti.
Il primo studio esaustivo sul fenomeno dei kamikaze è stato pubblicato
negli Stati Uniti mentre mi trovavo in Iran: Dying to Win: The Strategie
Logic of Suicide Terrorism (Morire per vincere: la logica strategica del
terrorismo suicida). È il frutto di un lavoro meticoloso svolto da un
professore dell'Università di Chicago, Robert Pape.

La tesi portante è, per citare testualmente le sue parole, «che gli attentati
suicidi non sono ispirati da convinzioni religiose ma da obiettivi strategici
precisi: l'intento è di costringere gli Stati presenti con le loro forze militari
nei territori che i terroristi considerano la loro nazione a ritirarsi. Le
differenze religiose tra occupante e occupato permettono ai capi terroristi di
demonizzare il nemico, ma è comunque necessario che il nemico sia
presente e visibile».

Il professore ha analizzato al microscopio 315 attentati suicidi compiuti tra


il 1980 e il 2004 in tutte le parti del mondo.

A dispetto di quanto si potrebbe immaginare, non è il fondamentalismo


islamico bensì sono i separatisti Tamil dello Sri Lanka a detenere il primato
nell'utilizzo di questo metodo. Se l'estremismo di matrice islamica fosse il
fattore propulsivo degli attacchi suicidi, fa notare ancora Pape, allora l'Iran,
la più grande teocrazia del mondo, dovrebbe addestrare in grande quantità
gruppi di kamikaze ostili agli Stati Uniti. Invece Teheran non ha prodotto
un fenomeno come al-Qaida e non abbiamo alcuna prova che gli aspiranti
suicidi attivi in Iraq provengano dall'Iran.

All'inizio degli anni Novanta l'America ha dispiegato le sue truppe nella


penisola arabica fornendo a Osama bin Laden uno straordinario strumento
di mobilitazione. E oggi l'occupazione dell'Iraq non fa altro che accelerare il
reclutamento di volontari.

«Il problema non è che Osama bin Laden esista o meno, ma il fatto che
venga ascoltato» sottolinea Pape.

«La presenza degli americani è in realtà il fattore chiave del fenomeno dei
kamikaze.» Prima dell'invasione dell'Iraq non c'era una tradizione di
attacchi suicidi, ma da allora le cifre parlano chiaro: 20 attentati nel 2003,
49 nel 2004 e 50 solo nei primi cinque mesi del 2005. Allo stesso modo
prima dell'invasione del Libano da parte di Israele non si erano verificati
attacchi kamikaze, nonostante la guerra civile imperversasse già da sette
anni.

Tentare di cambiare le società musulmane con l'uso della forza non farà che
aumentare le minacce per noi occidentali.

«Qualunque politica di conquista di un Paese musulmano per cambiarne il


sistema di governo è pura follia. Anche se le nostre intenzioni sono le
migliori, il terrorismo antiamericano aumenterà e in maniera esponenziale»
ammonisce Pape.

Un avvertimento da non trascurare per i sostenitori di un'azione militare


contro la Repubblica islamica.

CAPITOLO 6

MULLAH GOOD?

“Non toccarmi, stronzo!” Raramente in vita mia ho gridato in quel modo.


Eppure tutto era cominciato con una buona idea.

La campagna elettorale ha raggiunto ormai l'apice, mancano pochi giorni al


primo scrutinio. Rafsanjani è sempre in testa nei sondaggi, ma il riformista
Mustafa Moin lo tallona da vicino. Sette candidati sono ancora in lizza.
Sette uomini, nemmeno una donna. Tutto il mondo è paese!

Così le donne iraniane hanno deciso di esprimere la loro frustrazione e di


manifestare davanti all'Università di Teheran.

Rispondendo all'appello di alcune organizzazioni non governative, alle


cinque del pomeriggio, orario dell'uscita dagli uffici, si sono date
appuntamento nel cuore della capitale. «Andiamoci» dico a Taianeh e a
Jacques. Non li vedo troppo entusiasti. Ma poiché non sono disposta a
rinunciare, si mettono in marcia con me.

Capisco subito che le cose non fileranno lisce. Vent’anni di reportage nei
luoghi più pericolosi del mondo ti fanno sviluppare un sesto senso. Dal
finestrino abbassato del taxi vedo un ragazzo parcheggiare la sua auto in
tutta fretta e infilarsi una fa scia gialla sul braccio prima di mettersi a
correre.

«E’ un giornalista,» dico fra me e me «perché corre?»


Contemporaneamente il nostro tassista si volta e dice a Taraneh:

«Dovete scendere, non posso fermarmi, ci sono poliziotti ovunque». Alcuni


uomini in uniforme, camicie verdognole, berretti piatti, urlano ordinando
alle macchine di avanzare. In un concerto di clacson gli automobilisti
cercano di districarsi nell'ingorgo. Il panico prende il sopravvento. Sul
marciapiede alla mia destra, che fiancheggia i cancelli dell'università, non
c'è più nessuno. Alcuni individui in tenuta kaki con un manganello in mano
fanno segno ai pedoni di attraversare in fretta.

«Dov'è l'ingresso?» chiedo a Taraneh. Sono venuta varie volte in questo


ateneo teatro di tante proteste, ma non riesco a individuare l'entrata. Le
donne avevano annunciato che si sarebbero raccolte .

«Davanti a noi» mi risponde. Ma non le vedo perché la polizia ha blindato


l'accesso parcheggiando decine di autobus proprio davanti. Vogliono
impedire ai manifestanti di avanzare. «Scendiamo, altrimenti non ci
arriveremo.»

Proprio mentre lascio il taxi vengo travolta da una valanga di passanti e mi


ritrovo all'angolo di una strada, davanti all'università. Centinaia di donne
gridano slogan, le forze dell'ordine sono in assetto da sommossa. Mi
imbatto in un gruppo di giornalisti e ci fermiamo a parlare con loro.
«Circolare, circolare!» ci ordina un agente. Lo ignoriamo, ma mi accorgo
che intorno a me tutti sono in movimento, come in un film al rallentatore.
Lì non ci si può fermare, bisogna spostarsi. Le donne urlano così forte che
anche noi siamo costretti a parlare sgolandoci. «Che cosa dicono?» Taraneh
traduce: «Abbasso la dittatura», «Liberate i prigionieri», «No alla
corruzione», «Misoginia, pilastro della tirannia». La polizia è molto
nervosa, un ufficiale ci intima di andarcene e a nulla valgono le parole di
Taraneh: impugna il manganello e spintona Jacques. Ho la sensazione che la
minima provocazione possa far scoppiare un putiferio.

All'improvviso noto una decina di militari longilinei e barbuti che affrettano


il passo lungo il marciapiede del grande viale che costeggia l'ateneo. La
folla si apre davanti a loro. I negozi abbassano le serrande. I curiosi si
rifugiano dietro i portoni. «I Pasdaran!» strilla Taraneh. Si dirigono verso
un gruppo di giovani che sta protestando al grido di «No alla dittatura!». Il
contatto è breve. I manifestanti fanno dietrofront e scappano lungo la via.
Niente spari, solo gesti e un passo deciso. Gli studenti ricordano ancora le
manifestazioni del 1999 quando le strade si macchiarono del loro sangue.

La tensione è alle stelle.

Ne approfitto per attraversare lo stradone intrufolandomi tra gli autobus per


potermi avvicinare alle donne di ogni età che sempre più impaurite
continuano la protesta.

Il caos è totale: la circolazione bloccata, il caldo opprimente. Non riesco a


distinguere i semplici passanti dai simpatizzanti o dai militanti mescolati
alla folla e pronti a venire alle mani. «È pieno di poliziotti in borghese» mi
sussurra Taraneh. Mi chiedo a cosa possano servire visto che ce ne sono già
centinaia in uniforme. La manifestazione, che ha radunato circa duemila
donne, viene confinata su una spianata davanti ai cancelli chiusi
dell'università. E così più facile per la polizia contenerla e disperderla.
L'obiettivo del regime è di evitare che queste contestazioni diventino il
prologo di una mobilitazione generale e incontrollabile. Violenza e morti
procurerebbero un grave danno di immagine in piena campagna elettorale,
proprio mentre il governo sta cercando di smentire le accuse di essere una
dittatura.

Ed è sicuramente solo per questo motivo che non mi sono ritrovata in


prigione. O forse perché, rivolgendomi a un Guardiano della Rivoluzione,
ho gridato in italiano e poi in inglese (o il contrario, non ricordo) e lui non
capiva né l'uno né l'altro.
Si è materializzato davanti a noi, nella sua tenuta da combattimento verde
oliva, un berretto da baseball sulla testa, un lungo manganello nero appeso
al polso. Ci ha detto qualcosa, ho capito che voleva che arretrassimo.
Jacques non c'era.

Aveva seguito la carica dei Pasdaran contro gli studenti e non era ancora
tornato. L'uomo aveva quell'aria arrogante tipica di chi può servirsi della
forza senza dover rendere conto a nessuno. La tracotanza dei bruti: occhi
freddi e spietati.

Non avevo alcuna intenzione di obbedirgli. Lui mi ha intimato di nuovo di


indietreggiare toccandomi la spalla con la punta delle dita. A quel punto
sono esplosa: «Come osi toccarmi? Non toccarmi, stronzo!».

Le immagini correvano davanti ai miei occhi. Ho ripensato a Zahra Kazemi.


Era una reporter irano-canadese di cinquantaquattro anni. E morta in
seguito alle sevizie subite in una prigione iraniana nell'estate del 2003. Era
stata arrestata davanti al penitenziario di Evin mentre fotografava le
famiglie degli studenti imprigionati che chiedevano notizie dei propri figli.
Era il 23 giugno. Nei giorni seguenti venne accusata di spionaggio dal
procuratore di Teheran, Saed Mortazavi, un «falco» amico di Khamenei.
Due settimane dopo venne ricoverata al pronto soccorso dell'ospedale,
ufficialmente per problemi di digestione. Il primo rapporto medico, però,
parlava di dita rotte, unghie strappate, traumi cranici, ecchimosi.
Un'infermiera esaminò meglio la paziente e notò evidenti segni di frustate
sulle gambe. Le piante dei piedi erano ricoperte di lividi. Graffi, piaghe e un
ampio ematoma sulla pancia e sulla parte superiore delle cosce indicavano
che era stata selvaggiamente violentata. Non uscì mai dal coma e venne
dichiarata morta a metà luglio.

Causa del decesso: un ictus.

Suo figlio Stephan Hashemi, che vive in Canada, ha rifiutato i miseri


12.000 dollari offerti dal regime iraniano come risarcimento. Voleva portare
il corpo della madre a casa per sottoporlo a un'autopsia e dargli una degna
sepoltura, ma non gli è stato possibile. Zahra è stata sepolta a Shiraz dopo
che la madre, firmando un documento, ha autorizzato la procedura.

Ma il medico iraniano che l'aveva curata è scappato in Canada dove ha


chiesto asilo politico, e ha parlato. Intorno a questa macabra vicenda è
scoppiato uno scandalo. Le relazioni tra Teheran e Ottawa si sono
raffreddate. Una commissione d'inchiesta iraniana è stata incaricata di
trovare i responsabili, così è stato incolpato un funzionario, Muhammad
Reza Ahmadi, accusato di aver agito a titolo personale. Un anno dopo la
tragedia di Zahra Kazemi, il 24

luglio 2004, è stato dichiarato innocente e liberato.

Taraneh mi strattona tirandomi per la manica. Sa che non può venire nulla
di buono da uno scontro con i Guardiani della Rivoluzione. Per di più lei
corre molti più rischi di me: io me ne andrò dall'Iran, lei rimarrà.

Iniziamo a retrocedere, ma diverse donne che hanno assistito all'incidente


vogliono parlare con me, sia pure lontano dalla strada. Hanno paura di
essere fotografate e poi schedate dalla polizia. «Hanno appena arrestato
alcune di noi e le hanno portate via in macchina. Ci chiedono perché
parliamo con gli stranieri.» Dalle vie circostanti arrivano i rinforzi, minibus
pieni di uomini in uniforme e donne in chador nero. Sono le truppe d'assalto
del regime pronte a spazzar via qualunque opposizione. Agiscono sotto il
comando diretto della Guida Suprema e non devono rispondere a nessuno.

Sono pronte allo scontro.

Mi allontano con due delle manifestanti alla ricerca di un luogo più


tranquillo. Le altre vengono disperse, ma già ci sussurrano la data della
successiva protesta.

Nessuno sa veramente chi decide queste adunate. Spesso le parole d'ordine


vengono mandate in onda dalle reti televisive in lingua farsi che
trasmettono dalla California e sono finanziate dall'opposizione. Sostengono
l'erede dei Pahlavi, Reza, che dal suo esilio, alla periferia di Washington, ha
invitato gli iraniani a disertare le urne. La sua influenza in patria, però, è
molto limitata.
Camminiamo per una decina di minuti fino a raggiungere una sala da té
gestita da due gay che l'hanno resa un luogo molto elegante.
L'omosessualità è punibile in Iran con la pena di morte per gli uomini, con
100 frustate per le donne. È

un mondo che esiste anche se non se ne parla. Soprattutto a | Teheran dove


si da appuntamento anche in bar come questo. Ci sediamo al piano
superiore in un angolo appartato e passiamo alle presentazioni. Sepideh,
una bella ragazza di ventisette anni, dopo aver ordinato una birra analcolica
ci confida di far parte del Comitato di protezione dei prigionieri politici. Per
questo motivo preferisce non dirmi il suo cognome. L'hanno già arrestata
una volta e non vuole ripetere l'esperienza. È stata rinchiusa per due
settimane nella prigione di Evin, un nome alla cui semplice menzione molti
iraniani rabbrividiscono. E stata interrogata e mi confessa di aver fatto i
nomi di alcune compagne, per fortuna senza conseguenze. Nessuna, infatti,
è stata perseguitata.

«Le mie due settimane a Evin non sono nulla in confronto a quello che
hanno patito altri.» Non è stata picchiata né maltrattata. «Ci sottoponevano
a quella che chiamano la tortura bianca: minacce, pressioni e forme di
destabilizzazione psicologica.

«Non sappiamo con esattezza quanti siano i prigionieri politici oggi in Iran.
Ci sono quelli che sono stati arrestati nel 1999 e conosciamo i nomi di
coloro che sono stati incarcerati a Teheran, ma non sappiamo chi è stato
fermato in provincia.»

È difficile fare una stima precisa. Le autorità, ovviamente, negano di


mettere in galera le persone per le loro opinioni e assicurano che i detenuti
sono colpevoli di azioni contro la sicurezza dello Stato. Alcune stime
parlano di 30.000

prigionieri. Uno dei più famosi, il giornalista Akbar Ganji, mentre mi


trovavo in Iran è stato liberato per alcuni giorni per motivi di salute.

La stampa e i weblog sono stati il bersaglio principale del potere


giudiziario, in particolare del procuratore Mortazavi, che negli ultimi due
anni ha ordinato la chiusura di oltre 100 pubblicazioni.
«Nel nostro Paese chi critica troppo duramente il regime viene arrestato e
nessuno può garantire il rispetto della legge»

continua Sepideh. «Non voglio un altro Khomeini, non voglio un altro


dittatore: chiediamo la democrazia.»

Mehrangiz ha ascoltato pazientemente la giovane compagna. Sul suo volto


ho letto un'espressione di indulgenza, l'indulgenza di una madre, ma ora
vuole intervenire. È elegante e si esprime in un inglese ricercato. Non avrei
immaginato di trovare una donna come lei in una manifestazione di piazza.

«Sono monarchica. Voglio che lo scià Reza prenda il potere. Quando c'era
suo padre andava tutto bene. Avevo un buon lavoro, un buon salario, potevo
uscire dal Paese. Voglio che torni la monarchia» dice di getto. Sepideh cerca
di interromperla, ma la donna la ferma con un gesto deciso: «Io ti ho
lasciato parlare, ora tocca a me».

«È vero che durante gli ultimi anni del regno dello Scià le cose andavano
peggiorando e anch'io ero scesa in piazza per chiedere più libertà. Ma in fin
dei conti appartengo alla piccola borghesia. Ho potuto studiare in Gran
Bretagna e lavorare per la televisione. Prima i lavoratori stranieri venivano
da noi, oggi sono i nostri giovani a dover partire per trovare lavoro. Da un
quarto di secolo i profitti derivanti dal petrolio ci assicurano una grande
ricchezza, ma che cosa ne è di questi soldi? Ci sono milioni di disoccupati,
centinaia di migliaia di giovani sono vittime della droga, le ragazze
vengono vendute nei Paesi arabi e troppa gente è stata imprigionata,
torturata e uccisa dal regime dei mullah.»

Sepideh e Mehrangiz, due facce della stessa voglia di cambiamento. Ma


ognuna lo vede a modo suo. Dall'altra parte, un regime che risponde con la
violenza e cerca di imbavagliare chi lo contesta. E in Iran sono le parole a
essersi affrancate per prime. Tutti parlano, hanno voglia di discutere,
fermano gli stranieri per strada. Jacques un po' cinicamente mi dice spesso
che finché la gente parla non fa paura a nessuno. Io non sono d'accordo. Le
parole sono come una palla di neve che acquista velocità e si trasforma in
una valanga. Tutti i grandi cambiamenti sono cominciati con il coraggio di
parlare.

E a suo modo Mehrangiz me l'ha dimostrato. Prima di lasciarci mi porge un


pezzetto di carta marrone sul quale ha continuato a scrivere mentre parlavo
con Sepideh. «Lo legga» mi dice «e ne faccia buon uso. Non chiediamo
altro, nient'altro che giustizia.»

Più tardi lo leggerò: «Siamo qui per protestare contro le discriminazioni di


cui sono vittime le donne. Vogliamo il rispetto dei diritti umani, dei nostri
diritti, in ambito politico, economico e sociale, come accade per le altre
donne nel resto del mondo. Vogliamo pari opportunità nel lavoro, ma anche
nello sport, nei viaggi, nella vita familiare e nella cura dei bambini. Come
riportano anche le fonti del regime, il 60 per cento degli studenti sono
ragazze, eppure le donne occupano solo l'il per cento dei posti di lavoro.
Vogliamo la fine delle ineguaglianze di fronte alla legge. Vogliamo una
nuova Costituzione che ci difenda. E tutto».

Ecco. È tutto e molto di più. Poche parole su un pezzo di carta. Una


dichiarazione fatta da una sconosciuta. Una dichiarazione importante nella
quale si possono riconoscere tutte le donne che soffrono, non solo quelle
che manifestavano quel giorno a Teheran. La conservo ancora. La carta è
strappata e di pessima qualità, non resisterà a lungo, ma le parole di
Mehrangiz e delle altre resteranno. E grazie a loro se la dittatura un giorno
sarà sconfitta. Non certo grazie alle frasi retoriche dei potenti del mondo,
che mai avrebbero il coraggio di sfidare i manganelli dei mediocri servitori
della tirannia.

Il giorno dopo la manifestazione il mio amico al ministero degli Esteri


insiste per incontrarmi. Lo vedo a pranzo in un ristorante sul Vali Asr. Un
breve dialogo, tra un'insalata di cetrioli, uno yogurt allo scalogno, riso allo
zafferano e spiedini di pollo. «Sappiamo che cosa è successo davanti
all'università» mi dice con fermezza.

«Come fate a saperlo?»

«Lo sanno tutti.»


«Mi puoi dire chi sono questi "tutti"?»

«Non è questo il problema. Il problema è che tu non sei qui come


giornalista. Non puoi andare alle manifestazioni.»

«E perché?»

«Se per disgrazia ti succedesse qualcosa, diventerebbe subito un incidente


diplomatico.»

«Che cosa dovrebbe succedermi?» gli domando sinceramente incuriosita.

«Non si può mai sapere. Mi devi promettere che non prenderai più
iniziative simili.»

«Sono qui per aprire gli occhi su tutto quello che vedo» gli rispondo.

«Fai attenzione. Molte persone non volevano farti venire. Abbiamo dovuto
insistere. Non metterci in difficoltà.»

Le presidenziali in Iran potrebbero sembrare normali votazioni. Ci sono i


candidati, i discorsi, le promesse elettorali, i cartelloni e i manifesti per le
strade, i gruppi di simpatizzanti che sfilano in auto o sui pattini a rotelle.
Mentre distribuiscono i volantini si affrontano urlando a squarciagola il
nome del candidato preferito nel tentativo di sovrastare le grida di quelli
all'altro capo della strada. Solo con uno sguardo attento si capisce che non è
così semplice.

Queste elezioni seguono quelle politiche del 2004, con le quali i


conservatori hanno ottenuto la maggioranza in Parlamento. Con il termine
«conservatori» in Iran si intendono generalmente coloro che difendono il
ruolo dominante dei religiosi e della Guida Suprema e che sostengono
un'economia controllata dallo Stato. Alcuni di loro, i cosiddetti pragmatici,
come Rafsanjani, suggeriscono una parziale liberalizzazione dell'economia
con l'iniezione di una forte dose di capitalismo e concorrenza. Hanno
sconfitto quella che da molto tempo viene chiamata l'area riformista,
raccolta intorno al presidente Khatami.
I riformisti, o progressisti, caldeggiano in primo luogo un
ridimensionamento dell'influenza religiosa nella vita pubblica e in quella
privata. Per loro democrazia vuoi dire laicizzare la politica pur conservando
la dimensione religiosa propria della storia e delle tradizioni della società
iraniana. Optano per una maggiore libertà in campo economico, ma senza
rinunciare alla giustizia sociale, ovvero alla regolazione da parte dello Stato
della distribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista sono vicini alle
posizioni dei conservatori più «rivoluzionari», i quali difendono l'idea che
la Repubblica islamica debba assicurare a ciascuno un tenore di vita
accettabile con la concessione di aiuti e sovvenzioni.

Le elezioni presidenziali saranno un test per capire se i conservatori


confermeranno il successo delle politiche sancendo il loro ritorno
incontrastato al potere. Per Khatami, invece, segneranno la fine di un
doppio mandato durante il quale ha dovuto fronteggiare, senza grandi
successi, l'autorità assoluta dell'ayatollah Ali Khamenei.

In questa dualità risiede tutta l'ambiguità del sistema iraniano, condizionato


dall'esistenza di due strutture di potere parallele, a volte concorrenti. Le
istituzioni democratiche scelte per suffragio universale come il Parlamento
e il presidente della Repubblica sono affiancate da istituzioni teocratiche,
quali la Guida Suprema e i vari consigli - dei Guardiani, degli Esperti, del
Discernimento - prodotti della Rivoluzione islamica. Questa doppia
gerarchia, riconosciuta giuridicamente dalla Costituzione del 1979, si trova
al centro di un'aspra battaglia politica. Le varie correnti di pensiero
difendono ognuna una propria interpretazione, più o meno religiosa, della
Legge fondamentale.

Khatami ha fortemente deluso i suoi sostenitori, in particolare i giovani. Si


aspettavano uno scontro con Khamenei, che controlla tuttora polizia,
giustizia, esercito, servizi segreti, radiotelevisione pubblica. E oggi il campo
progressista sembra aver ceduto il passo. Ma non ci sono dubbi che in
questi otto anni la straordinaria presa di coscienza dei più giovani e
l'innalzamento del livello di istruzione hanno creato le premesse per un
cambiamento che neppure il più reazionario dei regimi potrà ignorare.
Questo bisogno di rinnovamento è palpabile soprattutto nei ceti medi della
popolazione - urbanizzati, tentati dalla modernità e meno condizionati dalla
fede - che sperano in un maggior liberalismo economico. Al contrario, gli
strati più disagiati si affidano ancora ai religiosi, che condiscono i loro
discorsi con promesse di una società meno corrotta e più giusta.

Le presidenziali, proprio come le politiche dell'anno scorso, hanno


scatenato una polemica sulla selezione dei candidati.

E il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione che ha il potere di decidere


chi può essere ammesso o no. Al vaglio c'erano un migliaio di aspiranti tra
cui 93 donne. In un primo tempo ne sono stati accettati sei, altri due (en
trambi riformatori) sono stati aggiunti dopo molte proteste in un secondo
momento. Alla fine ne sono rimasti in lizza sette: Akbar Hashemi
Rafsanjani, tre riformisti - l'ex ministro dell'Educazione Mustafa Moin, l'ex
presidente del Parlamento Mehdi Karrubi, il vicepresidente per lo Sport
Mohsen Meharalizadeh - e tre conservatori - l'ex capo della televisione, Ali
Larijani, l'ex capo della polizia, Muhammad Baqer Qalibaf, e il sindaco di
Teheran, Mahmud Ahmadinejad. I critici hanno sottolineato come ancora
una volta la scelta del Consiglio sull'«idoneità islamica» dei partecipanti
fosse inevitabilmente falsata. Dei dodici membri, sei sono religiosi scelti
dalla Guida Suprema e sei sono uomini di legge scelti dal capo del potere
giudiziario, a sua volta un uomo di Khamenei. Nessuno stupore allora per le
decisioni.

«Perché la sua candidatura è stata respinta?»

La donna a cui rivolgo la domanda è la dottoressa Rifaat Bayat, una


sociologa di quarantotto anni, deputata e madre di tre figli. Mi riceve in un
edificio che ha più di cent'anni ed è la sede del vecchio Parlamento attivo
fino alla Rivoluzione del 1979. Anche lo Scià veniva a lavorare qui in una
splendida sala tappezzata di specchi persiani, seduto alla sua scrivania su
una poltrona di pelle marrone. Noi ci accomodiamo in un salone ricoperto
da sontuosi tappeti e illuminato da scintillanti lampadari di cristallo.
Attraverso le alte finestre scorgo gli alberi del parco. Ci troviamo nel centro
di Teheran, nel cuore della zona riservata alle istituzioni politiche. È
un'isola di pace, una città proibita.

«Sono stata respinta dal Consiglio dei Guardiani in virtù dell'articolo 115:
una persona qualificata deve essere religiosa e politica. Ma i Guardiani
interpretano la parola "persona" come "uomo".»

Breve silenzio imbarazzato. Rifaat è sulla difensiva, proprio come le altre


due deputate che l'accompagnano in questo incontro. Elham Aminzadeh,
quarant’anni, ha studiato diritto internazionale a Glasgow e ha due bambini,
mentre Fatemeli Ajerloo, trent’otto anni, è psicologa e madre di quattro
figli. È sempre difficile giustificare un sistema che non considera le donne
come persone. Tuttavia non voglio cadere nei luoghi comuni contro la
Repubblica islamica. So che lo status delle donne rientra in una battaglia
politica più ampia. E una battaglia graduale ma fondamentale, che farà
spostare il centro di gravita dalle istituzioni teocratiche a quelle
democratiche. Non si fermerà, ma può distruggere tutto se avviene troppo
rapidamente.

«Stiamo lavorando perché questa situazione cambi» mi assicura Rifaat. «E


stata presentata una legge in Parlamento che deve andare al Consiglio dei
Guardiani e poi al Consiglio del Discernimento. Se tutto questo non basterà,
ci rivolgeremo direttamente alla Guida Suprema. Khamenei può al limite
emanare una fatwa, una sentenza religiosa, che permetta anche alle donne di
correre per la presidenza. Lo farà, lo conosco, sull'uguaglianza la pensa
come l'imam Khomeini.»

Personalmente non ne sono affatto certa.

Anche se le tre deputate appartengono all'ala conserva-trice, nel 2001 hanno


votato tutte per Khatami come la stragrande maggioranza degli iraniani. Ma
mi confessano che ora sono divise tra Rafsanjani e Ahmadinejad. E la prima
volta che sento il nome del sindaco di Teheran incluso tra i favoriti.

«Perché Khatami ha fallito?» domando alle mie interlocu-trici, senza


trucco, avvolte nel chador d'ordinanza.

«Non è una questione di fallimento, ha voluto far approvare leggi contrarie


alla Costituzione. Non possiamo andare contro la Costituzione. È stata
votata dal popolo ed è democratica perché voluta da tutti. I riformisti hanno
perso in Parlamento perché hanno parlato di democrazia e di libertà invece
che di economia. Sulla disoccupazione e sul costo della vita la gente vuole
rimedi concreti, non slogan.»
Racconto delle tante iraniane incontrate che rifiutano l'onnipresenza dello
Stato nella loro vita privata e denunciano il malcontento di fronte alla
rigidità di un sistema che le imbavaglia.

«Solo una minoranza delle donne, forse il 10 per cento, non vuole più
saperne del velo, e neppure le manifestazioni degli studenti rappresentano
una posizione maggioritaria. I giovani si sentono insoddisfatti a causa della
situazione economica, non per una mancanza di libertà» controbatte Rifaat
guardandomi con occhi inflessibili. La discussione prosegue un po'
faticosamente. Le tre rappresentanti del Parlamento non amano rispondere a
domande seccanti. Così quando chiedo alla psicologa quali sono i problemi
che vengono portati in terapia dai suoi pazienti, Fatemeh mi spiega che si
tratta soprattutto di ragazzi che non sono bravi a scuola o che non riescono
a diventare campioni sportivi. Tutto qui? E le donne? La parlamentare che
finora è stata la più diffidente nega perentoria il malessere che sempre più
spesso si nasconde sotto il chador.

Andiamo a pranzo in una sala privata del palazzo dove spero si possa
discutere in termini un po' più rilassati. Menu tradizionale: zuppa di
verdure, riso, pesce, spiedini, dolce ai pistacchi. Dopo qualche minuto
Rifaat si toglie il velo, le sue compagne la imitano e mi invitano a fare
altrettanto. E consentito perché siamo servite da sole cameriere. Hanno i
capelli corti neri e si fanno le meches bionde, tutte eccetto Fatemeh che
porta i capelli lunghi sulle spalle. Sotto il velo scoprono tailleur
all'occidentale e foulard colorati. Rifaat ed Elham si sono rifatte il naso.
Elham mi assicura di essersi operata perché respirava male. Le mie ospiti
non si lasciano andare. Sollecitate da me arrischiano alcune battute sugli
uomini, ma sempre molto discrete. Ho la sensazione che abbiano deciso di
difendere a ogni costo un mondo che non esiste più. A fatica alla fine del
pasto riconoscono che in Iran qualche problema c'è, ma non credono che la
soluzione sia da ricercare al di fuori dei valori della Rivoluzione.

«Che cosa rimane della Rivoluzione?» chiedo io.

«L'indipendenza del Paese, la fiducia nel suo sviluppo e nel progresso di


tutto il Medio Oriente secondo i nostri principi, l'alfabetizzazione e
l'accesso delle donne all'università» risponde Rifaat senza esitazioni.

Tutte si mostrano critiche nei confronti di Shirin Ebadi, premio Nobel per la
Pace nel 2003, accusata di fondare il proprio pensiero su presupposti
occidentali anziché su precetti islamici: «Pensiamo che la democrazia sia la
vittoria della maggioranza. Lei invece pensa che sia il rispetto delle
minoranze e dei diritti delle donne. Ebadi privilegia le riforme politiche, noi
invece mettiamo sullo stesso piano le riforme politiche e quelle
economiche».

Quando ci lasciamo insistono perché trasmetta un messaggio al Parlamento


europeo, un messaggio di pace e cooperazione. Mi dicono: «La sfida per le
donne è essere istruite, lavorare, essere buone madri e buone spose. L'Isiam
ha la soluzione: fare le casalinghe è un vero mestiere e per questo il marito
o lo Stato dovrebbero retribuirle».

Ripenso alle parole scritte da Mehrangiz: mi sembra di aver viaggiato su


due pianeti diversi.

«Perché la sua candidatura è stata respinta?»

La domanda è la stessa. Mi trovo nell'ampio soggiorno dell'abitazione di


Ibrahim Yazdi, ex collaboratore di Khomeini protagonista delle purghe
dell'esercito dopo la caduta dello Scià. Ex vice primo ministro e ministro
degli Esteri nel primo governo post-rivoluzionario, fu estromesso dai
mullah perché accusato di complottare contro la sicurezza dello Stato. A
settantaquattro anni, oggi è il segretario generale del Freedom Movement of
Iran (Fmi), Movimento di liberazione dell'Iran, il più vecchio partito di
opposizione.

Capelli bianchi, camicia con il colletto sbottonato, occhiali dalla montatura


leggera, si definisce un «intellettuale islamico». Ha conosciuto il carcere e
la malattia. Da qualche anno va negli Stati Uniti per curare un tumore. E un
politico colto e brillante. In effetti mi accorgerò che è un piacere discutere
con lui e che il tempo a disposizione è troppo breve. Resteremo però in
contatto via e-mail. Nella sua villa di Teheran il mobilio ha un che di antico
con una sorpresa al centro del salotto, dove in un lucernario dodici uccellini
colorati si sbizzarriscono in un cinguettio di sottofondo.
Yazdi mi spiega che trova il loro canto rassicurante. Fuori si intravede un
giardino con una piscina vuota assediata dalla malerba. Riesco a sentire una
guardia che fischietta.

«Quando ho presentato la domanda per la candidatura mi sono rifiutato di


scrivere che credevo nella Costituzione. Io rispetto la Costituzione, ma
ovviamente ci riserviamo il diritto di cambiarla nel quadro di un dibattito
previsto dalla legge. Rispettarla è un obbligo di legge, credere in essa è un
atto di fede.»

Al nostro arrivo un gruppo di uomini sta discutendo intorno a un largo


tavolo in quella che deve essere la sala da pranzo. Hanno l'aria di
cospiratori, in realtà si tratta della direzione del Movimento. Escluso il loro
candidato, hanno deciso di appoggiare il riformista Mustafa Moin.

«Il processo di estromissione dei candidati è incostituzionale» prosegue. «Il


Consiglio dei Guardiani non ha il potere di pronunciarsi sulla validità delle
candidature. Al contrario, avrebbe il dovere di controllare la Guida
Suprema, ma non lo fa. Il problema è che non devono rendere conto a
nessuno: all'inizio della Rivoluzione si spacciavano per i rappresentanti di
Dio sulla Terra, ora credono addirittura che Dio sia il loro rappresentante
nei Cieli.»

«Ma allora come si può far progredire la democrazia in Iran? Gli appelli di
Bush per un cambiamento di regime sono utili?»

«La democrazia richiede tempo, non ci si può aspettare che venga instaurata
in una o due generazioni. Quanto agli americani, non lanciano appelli per il
nostro bene, ma per il loro.»

«I giovani mi sembrano impazienti, che cosa dice per infondere loro un po'
di speranza?»

«I giovani sono molto idealisti e poco pragmatici. La lotta per


l'emancipazione è una lunga battaglia. Il rinnovamento deve venire
dall'interno e queste elezioni rappresentano un'occasione per parteciparvi.
Sono uno strumento e noi vogliamo sfruttarlo fino in fondo. D'altronde,
senza la partecipazione di tutti, come potremmo arrivare alla democrazia?»
«La domanda fondamentale che si pone l'Occidente è se la modernità è
compatibile con l'Islam.»

«In passato anche in Europa la legittimazione del potere passava dall'alto


verso il basso, da Dio verso il re attraverso Cristo e il papa. Oggi è l'inverso:
si va dal basso verso l'alto, dalle masse verso il vertice. Io sono un
musulmano moderno e dico che nel nostro mondo dobbiamo essere capaci
di accettare questo processo di legittimazione. Anche noi vogliamo una
democrazia, benché non possa essere una fotocopia della vostra. E l'Islam
non è contrario: secondo il Corano i diritti dell'uomo sono antecedenti alla
religione perché Dio ha dato agli uomini la libertà di scegliere.»

Ho preso al volo un taxi per andare a trovare Mahmud Sariolghalam, uno


degli analisti politici più competenti di questo Paese. Potrà aiutarmi a
comprendere la grande sfida sociale e politica che attende l'Iran.

«English? English?» mi chiede il tassista. E un ragazzo col volto segnato


dalla stanchezza. Guidare un taxi negli ingorghi di Teheran deve essere
veramente sfiancante. Come per la maggior parte dei suoi colleghi,
sicuramente sarà un secondo lavoro. E non è ancora arrivato alla fine della
giornata.

« Yes, yes. Do you speak English?»

Mi fa un gesto di diniego. Non potremo fare molta conversazione. Ma ci


provo ugualmente.

«Election, election. What do you think?»

«No good, no good.»

«Moin or Rafsanjani?»

«No good, no good.»

«Mullah good?»
Si volta e mi fa un gesto comprensibile in tutto il mondo: un dito che passa
lentamente sotto la gola, come la lama di un coltello affilato. Il tutto
accompagnato da un gran sorriso. Se i tiranni hanno gli occhi crudeli, quelli
che vogliono farla finita con loro non sono poi molto più teneri.

Il problema fondamentale è capire come il bisogno di progresso, le


frustrazioni dei giovani e le rivendicazioni degli ambienti politici possano
tradursi in riforme concrete. Gli interessi in gioco vanno molto al di là di un
dibattito teorico sul ruolo della religione e del secolarismo nella politica.
Hanno a che vedere con il controllo di un Paese straordinariamente ricco e
potente. La transizione verso uno Stato di diritto e un'economia efficiente
passa attraverso un uso più laico delle istituzioni già esistenti o attraverso
un cambiamento totale? Si otterrà con una lettura più rispettosa della
Costituzione o con la sua radicale riforma?

«Qualunque cambiamento deve passare attraverso una radicale riscrittura


della Costituzione, ovvero l'eliminazione della figura della Guida Suprema»
mi risponde Mahmud, che mi ha ricevuto nel suo bell'appartamento in un
quartiere lussuoso di Teheran. Dalle terrazze vediamo la capitale ai nostri
piedi. «Perché ci sia un mutamento in Iran c'è bisogno di una crisi
istituzionale. Il governo del giudice religioso (welayat-e faqih) e il clero
hanno favorito il populismo e allontanato i professionisti. Ma l'efficienza
dello Stato richiede l'intervento di tecnici competenti.»

Con Mahmud ci sono anche la moglie e la figlia che sta preparando gli
esami. Beviamo un tè.

«La maggioranza degli iraniani non ripone più alcuna fiducia nello Stato,
perché ha dimostrato di non saper provvedere ai loro bisogni. Il reddito pro
capite è agli stessi livelli dal 1972. All'inizio della Rivoluzione i funzionari
pubblici rappresentavano il 53 per cento dei lavoratori dipendenti, oggi l'83
per cento dei lavoratori dipende dallo Stato. Gli iraniani non credono più
nei princìpi della Rivoluzione. Non credono più nemmeno alla politica
estera, antiamericana e antisraeliana.»

«Ma cosa può fare il regime?»


«Il governo vorrebbe adottare il modello cinese, ovvero mantenere il
sistema politico ma cambiare la politica estera e l'economia. Però sarà
difficile fino a quando i mullah non faranno la pace con gli americani. E
fino a quando non si libereranno dei Guardiani della Rivoluzione e delle
fondazioni che controllano l'economia. È necessario uno «contro.

Ma più nessuno è disposto a battersi.»

«Perché?»

«Gli iraniani sono molto conformisti e molto disorganizzati. La società è


parcellizzata. Non c'è un programma comune, solo interessi individuali. La
Rivoluzione è stata un'eccezione, perché in realtà gli iraniani non sono mai
stati dei rivoluzionari.»

CAPITOLO 7
ILCHADOR CHE PIANGE

Esco CON TARANEH di buon'ora per non arrivare tardi all'appuntamento


che mi farà conoscere il lato oscuro del chador.

«Ho rinunciato ad avere figli miei per dedicarmi ai figli perduti degli altri.»
Marjaneh Halati ci da il benvenuto nella sua fondazione Omid-e-mehr:
«Entrate, siamo nel pieno della festa di compleanno di una delle mie
ragazze».

E molto bella la psicoterapeuta trentanovenne dai grandi occhi verdi che ci


accoglie con un caldo sorriso. Dal 1977 vive a Londra, ma da oltre un anno
fa la spola con Teheran per ridare fiducia a tante giovani smarrite nel
mondo della droga, della prostituzione, della violenza. Non a caso il centro
si chiama «Speranza e amore». È una delle tante tessere del complesso
mosaico iraniano.

«Volevo restituire alla mia gente almeno una parte della mia ricchezza» mi
spiega. «Sono tra i fortunati venuti al mondo dalla parte giusta. E
occuparmi di loro è per me un dovere morale.»

La nostra conversazione è interrotta dalle ragazze che reclamano la


partecipazione della loro benefattrice ai balli in onore della festeggiata. A
fare da sottofondo musicale i videoclip di Mtv, che risuonano dal televisore
sistemato in un angolo della sala spaziosa. Al centro, una tavola imbandita

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che ricorda a tutti che oggi qui per la tristezza e i problemi non c'è posto.

Le giovani sono una ventina e si recano al centro solo di giorno per


frequentare, a seconda delle loro inclinazioni, corsi di computer, di
fotografìa, di inglese, di contabilità che dopo diciotto mesi potranno
avviarle verso un lavoro vero e proprio. Le più traumatizzate vengono
aiutate con la psicoterapia.

«Purtroppo non sono ancora riuscita a trovare un luogo adatto per ospitarle
anche di notte» prosegue Marjaneh. «È un problema di autorizzazioni e
finanziamenti. Per dormire rientrano perciò negli istituti di recupero
pubblici. Però non ci vanno volentieri perché vengono maltrattate. E ogni
tanto per punirle non le lasciano venire. Tra noi e le autorità è una
mediazione continua: vedono la nostra iniziativa come una minaccia
all'ordine islamico. Qui le donne sanno di essere in un porto sicuro dove la
discrezione è la prima regola e la religione una faccenda privata.»

Marjaneh mi racconta che tutte le sue «figlie adottive» sono state prese
dalla strada dalla polizia islamica, anche perché in Iran quando sono sole le
giovani destano immediatamente sospetto. Nei centri di prima accoglienza
viene compiuto un controllo sulla loro verginità con un'apposita visita
ginecologica. Poi vengono classificate - drogate, prostitute, ex vergini,
violentate - e smistate in istituti specializzati.

«Le prostitute sono moltissime» conferma Marjaneh. «Vanno a vendersi nei


vicoli bui dei quartieri poveri di Teheran sud, mentre al nord non le
distingui ormai più dalle borghesi provocanti e supertruccate. Utilizzano
sempre più spesso il telefono cellulare per prendere appuntamenti e trovarsi
con i clienti direttamente in una casa. Cosi corrono meno rischi.»

Le stime ufficiali parlano di 4500 prostitute, ma quelle ufficiose


centuplicano la cifra: sarebbero oltre 400.000 in tutto l'Iran.

«Ci occupiamo anche di tossicodipendenti e di ragazze maltrattate e


stuprate. Hanno tutte un denominatore comune: provengono dai ceti sociali
più poveri.»

Chiedo a Marjaneh di poterle incontrare. A una a una sfilano nel suo ufficio
con le loro storie di abbandono, di abusi, di emarginazione. Per rispetto
Marjaneh lascia la stanza, ma prima chiarisce loro che devono rispondere
solo alle domande gradite. Taraneh resta con me per la traduzione.
La prima a entrare è Donia. Ha diciannove anni ma ne dimostra quindici. E
stata abbandonata dai genitori in un orfanotrofio dove per anni ha subito
maltrattamenti. E esile, ha le unghie dei piedi colorate di azzurro. Ha un
occhio nero, conseguenza di una violenta lite col fidanzato.

«Sto studiando inglese e informatica: tra un anno e mezzo, quando avrò


finito, spero di trovare un lavoro come segretaria. Mi piace molto stare qui
perché tutti sono gentili e affettuosi. Ho tentato di suicidarmi ma ora sto
molto meglio: uno psicologo mi ha aiutato a uscire dalla depressione.»

Zeina invece quando era piccola ha visto suo padre picchiare sua madre
fino a ucciderla. Poi è cresciuta con lo zio che l'ha maltrattata e forse
stuprata finché non è riuscita a fuggire. Sul tema della violenza sessuale le
ragazze si confidano raramente, tacciono perfino con il loro nuovo angelo
custode.

Mahdab viene da Kermanshah, al confine con l'Iraq. I suoi genitori erano


trafficanti di droga e armi e a dodici anni l'hanno affidata a uno zio e alla
nonna: per lei è cominciato l'inferno.

«In inverno mi portavano in giardino, mi legavano e mi frustavano con la


canna dell'acqua» mi dice con gli occhi pieni di lacrime. «Una notte, loro
pensavano che dormissi, ho sentito che volevano vendermi. È stato allora
che ho deciso di scappare e di prendere il primo treno per Teheran. Una
volta arrivata mi ha fermato la polizia: per fortuna non mi hanno rispedita a
casa.»

Nilufar è orfana e, come tante, proviene da una famiglia poverissima. E una


ragazza attraente, ha gli occhi scuri e lunghi capelli neri. Mentre mi parla
continua a torturarsi le mani. Le domando come si è procurata le cicatrici
che ha sulle braccia.

«Mi sono tagliata con una lametta, volevo morire. Poi sono arrivata qui e mi
hanno aiutata.»

È stata per due anni con un uomo che la picchiava e la tradiva. «Ogni volta
che gli chiedevo perché andava con un'altra mi riempiva di botte e io mi
sentivo impotente. Piangevo e finivo col chiedergli scusa. Pensavo fosse
amore.» Le chiedo quale sia il suo sogno di ventenne. «Vorrei fare la
fotografa e avere un marito e dei figli.» Le faccio tanti auguri ma prima di
salutarmi mi dice: «Per quelle come noi non c'è futuro. Nessuna famiglia
perbene permetterà mai a suo figlio di sposare una come me, senza nome,
senza istruzione, senza storia».

Lascio la fondazione turbata dall'estrema precarietà di vita di queste


ragazze. Ringrazio e abbraccio affettuosamente Marjaneh. Una donna
coraggiosa che sfida ogni giorno la diffidenza e l'ottusità del regime
islamico. Sono certa che continuerà a lottare per dare alle sue «figlie» un
domani davvero migliore.

Il premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi si batte da decenni per tante altre
figlie, su tanti altri fronti. A cominciare dalla loro difesa legale nei tribunali
dove lei stessa con la Rivoluzione khomeinista è stata sollevata dalla carica
di giudice.

Ancora oggi quel ruolo è affidato esclusivamente agli uomini. Da allora


Shirin fa l'avvocato. Musulmana convinta, si dice certa che la responsabilità
per la condizione dell'altra metà del cielo in Iran non sia da attribuire
all'Isiam, bensì a qualcosa di molto più ancestrale: «Le donne» mi ha
spiegato più volte «sono vittime e insieme portatrici in quanto madri di una
cultura patriarcale tribale che non accetta la parità». Shirin difende la
compatibilita dell'Isiam con le regole della democrazia, un dibattito sempre
aperto. Una sua collega altrettanto agguerrita, Mehrangiz Kar, simbolo del
femminismo laico iraniano, crede fermamente nella laicità dello Stato. L'ho
incontrata per la prima volta nel 1999: era appena uscita dal carcere dove
era stata rinchiusa con l'accusa di aver attentato con le sue iniziative alla
sicurezza della Repubblica islamica. L'ultima, in ordine di tempo, era stata
la partecipazione a una conferenza internazionale sull'Iran ospitata a
Berlino. Mehrangiz chiede da sempre il riconoscimento dei diritti delle
donne contro l'intolleranza delle leggi maschiliste del regime.

«Il dibattito mette a confronto due scuole di pensiero» puntualizzava. «La


prima sostiene che riformando la religione è possibile risolvere i problemi
politici e rispettare i diritti umani; la seconda ritiene indispensabile una
separazione netta tra Stato e religione senza nemmeno entrare nel merito
della conciliabilità tra Isiam e diritti umani. Io condivido quest'ultima tesi:
non credo sia possibile mettere d'accordo le due cose. Si tratta di differenze
sostanziali che si riflettono inevitabilmente sul movimento femminista.»

Sedute davanti a un succo di frutta nel salotto della sua modesta casa,
Mehrangiz mi parlava anche delle preoccupazioni per il suo stato di salute.
Già all'epoca del suo arresto soffriva di un tumore al seno che oggi la
costringe a farsi curare negli Stati Uniti. Questo non le ha impedito però di
ultimare nel 2000 un libro-denuncia sulla violenza diffusa contro le donne
del suo Paese. Un'impresa portata a termine grazie al coraggio di un'altra
straordinaria attivista, Shahla Lahiji, che da anni combatte le severe regole
della censura pubblicando testi che altrimenti mai avrebbero potuto vedere
la luce nel regno degli ayatollah.

«I problemi delle donne» mi aveva avvertito anni addietro «vengono


sistematicamente negati perché è consentito chiudere gli occhi davanti alle
loro miserie e alle loro rivendicazioni. Quando si chiedono chiarimenti la
reazione ufficiale è sempre la stessa: dapprima negare, poi qualche piccola
ammissione, e infine sdrammatizzare facendo notare che in Occidente la
situazione è molto più grave.»

C'è del vero in questo ragionamento, con la differenza sostanziale che in


Iran le leggi esistenti sono totalmente insufficienti a proteggere le vittime.
Lo ha sottolineato recentemente la relatrice speciale dell'ONU Yakin Ertiirk
in un rapporto sulle violenze domestiche: «Le procedure giudiziarie lunghe
e costose e la paura di essere stigmatizzate dissuadono spesso le donne
iraniane dal far valere i propri diritti. A questo si aggiungono le difficoltà a
ottenere il divorzio e l'affidamento dei bambini». Senza contare che in base
alle regole vigenti, se una donna sposata non riesce a provare lo stupro di
cui dice di essere vittima, può venire accusata di relazione illegittima con il
rischio di una condanna a morte per lapidazione. Una punizione selvaggia
messa in pratica ancora oggi, come denuncia Shirin Ebadi nell'ultimo
incontro che abbiamo prima della mia partenza. «Purtroppo la morte per
lapidazione è prevista dalla legge in caso di adulterio. I "colpevoli" vengono
coperti da un telo bianco e poi interrati, fino all'altezza della vita gli uomini
e fino al collo le donne. Quindi vengono colpiti con piccole pietre finché
muoiono. I sassi non devono però essere troppo grandi affinché l'agonia sia
prolungata. Attualmente due donne sono in attesa di essere lapidate.» Una
barbarie che ripetutamente suscita le proteste e lo sdegno delle diplomazie
occidentali e delle organizzazioni per i diritti umani, che già nel 2001, dopo
la rielezione di Khatami, alzarono la voce per condannare una serie di
lapidazioni e fustigazioni pubbliche. I riformatori accusarono allora i
conservatori che controllano l'apparato giudiziario di voler compromettere
il processo di democratizzazione avviato dal presidente.

Ai castighi medievali si aggiungono arresti arbitrari, torture, maltrattamenti


e detenzione prolungata in isolamento, in totale violazione delle
disposizioni della Costituzione iraniana e del diritto internazionale, spiega
ancora nel suo rapporto la Ertiirk, che sottolinea le gravi conseguenze per la
salute fisica e psichica delle donne.

All'Institute for Women's Studies and Research di Teheran, la direttrice mi


illustra i risultati dell'ultima indagine sulla salute mentale delle donne
condotta nelle dieci regioni iraniane economicamente più arretrate.

«I dati sono allarmanti. Abbiamo scoperto che il 28 per cento delle


intervistate ha urgente bisogno dell'intervento di un medico e che le altre
dovrebbero almeno rivolgersi a uno dei centri di consulenza psicologica,
che peraltro sono totalmente insufficienti» mi spiega Monir Amadi Qomi.

Nel suo ufficio in una di quelle case patrizie confiscate dai rivoluzionari
arredate con parquet e marmi pregiati, la responsabile della struttura mi
accoglie avvolta in un largo manteau sul quale spicca un foulard blu e
bianco. Ha un'espressione preoccupata e guardinga.

«Il punto è che questo 28 per cento soffre di depressione e ha bisogno di


psicofarmaci. Inoltre sappiamo che anche nelle altre 18 regioni la situazione
è analoga. Alla radice del problema ci sono la povertà e un maschilismo
sostenuto da una cultura profondamente patriarcale. In questa nostra lunga
fase di transizione fra tradizione e modernità, gli uomini fanno sempre più
fatica ad accettare che le loro donne siano meno sottomesse.»

L'istituto della dottoressa Qomi, che opera da vent'anni nell'ambigua realtà


iraniana, è stato il primo ad affrontare pubblicamente il problema della
violenza contro le donne. Ma nonostante questo pregevole primato avverto
una forte reticenza: è come se scattasse un meccanismo di autodifesa di
fronte alle domande scomode di un'occidentale. Finché la diffidenza lascia
il posto alla solidarietà femminile.

«Accanto alla violenza psicologica dei nostri uomini misogini, ci sono molti
casi di donne picchiate e violentate.

Purtroppo è vero: sono tutti fenomeni che le autorità cercano di nascondere,


tanto che anche l'ultima ricerca commissionata dal ministero degli Interni è
per noi inaccessibile. Pensano che occultando i problemi prima o poi si
risolveranno da soli!»

I drammi vanno dalla tragica storia della ragazza curda data a tredici anni in
sposa a un uomo di settanta, suicidatasi per disperazione, all'insospettabile
vicenda di una dottoressa che subiva abusi dal marito, anche lui medico. E
sulla prostituzione Monir mi conferma le parole di Marjaneh.

«Prima della Rivoluzione era un fenomeno meno diffuso perché gli uomini
avevano più paura. Ma oggi è in inquietante aumento. In un sistema
repressivo che dura da ventisei anni, i maschi hanno scoperto il sesso
attraverso la televisione satellitare e internet, dove cercano soprattutto la
pornografia. E quando le mogli non riescono a soddisfare le loro richieste
cercano le prostitute.»

Chiedo a Monir se i matrimoni combinati siano ancora così frequenti.


«Nelle zone rurali sì, in quelle urbane invece si consuma una lotta
estenuante tra le famiglie che vorrebbero sistemare tutto a tavolino e le
figlie che si ribellano rivendicando giustamente il diritto di conoscere e
frequentare il candidato sposo.»

Sull'importanza della verginità la direttrice non ha alcun dubbio: «Ne sono


prova i frequenti interventi di ricostruzione dell'imene». Monir ha due figli,
uno di vent'anni e uno di venticinque: cosa direbbe se sposassero due
ragazze non più illibate? «Io li ho educati nel credo islamico» ribatte «e
sono sicura che si sono conservati casti e puri. Spero altrettanto per le loro
future mogli.»

«E se non fosse così?» Scoppia in una risata liberatoria: «Ma perché


continua a mettere il dito nella piaga?».
La dottoressa Qomi con i suoi cinquant’anni è troppo giovane per essersi
scordata dei sogni di gioventù e delle dure battaglie che ha combattuto in
nome dell'emancipazione sin da quando era adolescente.

«Una cosa positiva è che la Rivoluzione ha mandato a scuola le donne


iraniane. Prima il 70 per cento non usciva praticamente di casa e non aveva
istruzione. La mia famiglia per esempio non voleva che studiassi. Così mi
sono iscritta di nascosto all'esame di ammissione all'università e a casa l'ho
detto solo dopo averlo superato.»

Prima di salutarla le chiedo quali siano i cambiamenti più urgenti da portare


avanti. Anche Monir è convinta che si debba cominciare da una riforma
della Costituzione islamica: «La donna viene vista solo in funzione dei suoi
compiti familiari e non come soggetto civile e politico». Quando sono
ormai sulla porta mi avverte: «Di una cosa può stare certa: noi stiamo
lavorando per garantire i diritti di tutte e non i privilegi di poche».

Articolo 61 : il diritto di uccidere?

In Iran il codice penale islamico prevede che chiunque commetta un


crimine per difendersi o difendere la vita di qualcun altro o la reputazione,
la castità oppure l'onore non dovrebbe essere punito. Purtroppo
l'applicazione di questo articolo è suscettibile di interpretazioni e
manipolazioni. E così che molte donne iraniane finiscono per essere
condannate a morte pur avendo agito per legittima difesa.

Un tema difficile e scabroso che segnala l'imbarazzo profondo di una


collettività costantemente in bilico tra Stato di diritto e libero arbitrio.
Mahvash Sheikholeslam lo ha affrontato.

La nota documentarista di Teheran ha impiegato tre anni per realizzare un


film sulle donne condannate alla pena capitale per omicidio.

«Tutte le detenute che ho intervistato nel braccio della morte hanno detto di
aver agito per legittima difesa. Hanno raccontato agghiaccianti storie di
soprusi e di violenza quotidiana perpetrati da uomini sicuri della loro
impunità.»
Mahvash, una donna piccola dai gesti nervosi e dalle parole taglienti,
prepara il videoregistratore nella sua casa arredata con preziosi mobili di
famiglia e piena di souvenir raccolti nei frequenti viaggi. Insieme a me e a
Taraneh assiste alla proiezione anche un vecchio amico appena rientrato
dalla Germania. Solo alla fine del lungometraggio, presentato in estate al
Festival del cinema di Locamo, scoprirò che il nostro ospite maschile ha
molta più familiarità con la durezza del carcere di quanto avrei mai potuto
immaginare.

«Ho realizzato numerosi documentari sulla condizione delle donne, ma mai


mi sono trovata tanto in difficoltà come stavolta» ammette Mahvash.
«Quando ho finalmente ottenuto l'agognato permesso per entrare nella
prigione di Evin non sapevo dove mettere la telecamera. Come fai a filmare
una donna che sta solo aspettando di essere impiccata? Ho impiegato tre
mesi per il montaggio e non ho praticamente mai dormito: guardavo le
immagini e piangevo.»

Sono tanti i volti femminili che scorrono sullo schermo: donne


giovanissime, altre più mature. Tutte hanno ucciso un uomo: chi per essere
stata sfigurata in volto, chi per aver subito abusi a quattordici anni, chi per
aver difeso la figlia da uno stupro, chi per sfuggire a sua volta a una
violenza carnale.

Solo nel 2004, in Iran sono state portate al patibolo almeno cinque donne,
tra cui una minorenne. Almeno altre nove sono state condannate a morte. Al
31 dicembre dello stesso anno erano 14 le prigioniere nei bracci della morte
in attesa di essere impiccate o lapidate. Secondo Amnesty International
l'Iran è al secondo posto dopo la Cina nella graduatoria mondiale dei Paesi
boia: 197 le esecuzioni lo scorso anno. Sono dati comunque relativi che si
basano sulle notizie pubblicate dai giornali iraniani e che non tengono conto
delle statistiche ufficiali volutamente nascoste dalle autorità.

Comincia a parlare Fatemeli, data in sposa per la prima volta a quindici


anni. Allora il suo sogno era di studiare e di avere una vita indipendente.
Oggi ha poco più di quarant'anni, è appesantita e svuotata ed è un'assassina.
Un giorno ha sorpreso il suo secondo marito che si avventava sulla figlia di
primo letto di tredici anni. Non era la prima volta: Fatemeli ha perso la testa
e lo ha ucciso facendolo a pezzi prima di buttare i suoi resti nel fiume. Un
racconto raccapricciante nella sua minuziosa lucidità, interrotto solo dai
ricordi della figlia, Zahra, che cerca disperatamente di salvare la madre
indirizzando lettere e appelli al procuratore generale. Chiede che a Fatemeh,
condannata senza la difesa di un avvocato, venga almeno garantito il
processo di appello.

La storia di Afzaneh Norouzi ha fatto il giro del mondo. Dopo otto anni, tre
processi e appelli che hanno coinvolto anche Kofì Annan e Amnesty
International, la sua condanna alla pena capitale è stata revocata e la
famiglia della vittima l'ha perdonata accontentandosi di 50.000 euro per il
suo «prezzo del sangue». Secondo la legge islamica, i parenti della vittima
di un delitto possono chiedere come risarcimento un compenso in denaro
(detto prezzo del sangue) e così graziare l'autore dell'atto delittuoso o
invece possono pretendere che l'esecuzione della condanna abbia luogo.

Afzaneh è una bella donna alta e slanciata. Davanti alla telecamera descrive
freddamente e con dovizia di particolari come ha evirato e ucciso l'amico
del marito che voleva violentarla. Un caso imbarazzante per il regime che
non ha mai reso noto il suo nome: l'uomo era il capo dei servizi segreti
dell'isola di Kish nel Golfo Persico. Con la promessa di un buon lavoro
aveva allontanato il marito in un'altra città. Aveva ripetutamente
importunato Afzaneh, che un giorno se lo è trovato davanti uscendo dalla
doccia. Inutile il tentativo di rifugiarsi nella sua stanza: lui era già sopra di
lei. Da tempo la giovane donna temeva un'aggressione e così si era
premunita nascondendo un coltello sotto il materasso. Dopo averlo
implorato invano di lasciarla libera, l'ha colpito in una colluttazione di
inusitata ferocia che si è conclusa con l'amputazione dell'organo sessuale
del suo violentatore.

Taraneh si dice a disagio di fronte a tanto spietato accanimento. Ma


Mahvash ci ricorda che anni di umiliazioni e impotenza hanno ridotto
Afzaneh e tante altre a reagire come animali braccati.

Inutile dire che il film di Mahvash non è mai stato proiettato nei cinema
iraniani perché il ministero della Cultura e della Guida islamica ha sempre
negato l'autorizzazione. Solo il coraggioso direttore del Museo di arte
moderna di Teheran ha osato proiettarlo una volta. E l'ennesimo esempio di
schizofrenia di questo Paese.

L'amico di Mahvash, che chiamerò Javad, ha assistito silenzioso alla


sconvolgente sequenza di crimini condensati nel lungometraggio. Gli
chiedo la sua impressione.

«Conosco fin troppo bene le prigioni iraniane e i loro metodi di tortura. Li


ho conosciuti prima e dopo la Rivoluzione. E

posso solo dire che le carceri ai tempi dello Scià erano alberghi rispetto alle
galere dei mullah.»

Inaspettatamente scopro che quest'uomo, che non ha ancora sessantanni, ha


alle spalle una serie di pesanti lutti familiari e di violenze politiche. Erano i
primi anni della Rivoluzione e Javad militava insieme ai suoi quattro fratelli
nel gruppo di sinistra dei Fedayyin, prima alleati e poi duramente repressi
da Khomeini.

«Eravamo marxisti, abbiamo fatto una brutta fine» racconta con amarezza.
«Due dei miei fratelli sono stati uccisi, il primo in uno scontro a fuoco con i
Pasdaran, il secondo fucilato a Evin. Il terzo è sopravvissuto a torture atroci
dopo cinque anni e mezzo di prigione. Oggi è su una sedia a rotelle dopo le
lesioni provocate dalle percosse. L'altro per fortuna è riuscito a fuggire
all'estero. A me in fondo è andata bene: ho fatto poco più di un anno di
prigione e quando ci frustavano con i cavi elettrici per estorcerci i nomi dei
nostri compagni sono riuscito a resistere.»

Il padre di Javad morì d'infarto, sua madre, che apparteneva a una famiglia
molto benestante, andava a fargli visita quando era detenuto in un luogo che
conosceva bene. Era l'asilo nido che lei aveva fondato ai tempi dello Scià e
che i Pasdaran avevano trasformato in un carcere.

«Quando ci picchiavano mettevano gli inni rivoluzionari a tutto volume»


ricorda.

Gli chiedo se non abbia mai avuto paura di morire.


«No, avevo paura di cedere sotto la pressione delle torture e di parlare. Ma
io non ero una pedina importante.» Javad mi racconta come l'odio dei
religiosi verso i marxisti abbia origini lontane, sin dai tempi di Reza
Pahlavi: «Molti dei riformatori di oggi saliti al potere con Khomeini
andavano a distruggere le lapidi dei marxisti al cimitero di Behest-e Zahra».

Javad fu rilasciato quando il regime capì che i pezzi grossi del movimento
avevano già lasciato il Paese.

Davanti a me è seduto un uomo disilluso e provato che non è disposto a


dimenticare: «Perdonare? Non è possibile. Se un popolo così violento e
violentato riuscirà a perdonare, vorrà dire che sarà nata la democrazia».

«Ma si può immaginare una sorta di riconciliazione nazionale?»

«Per questo ci vorrà ancora molto tempo: in questo Paese i responsabili


delle violenze non solo non hanno mai chiesto scusa, ma ci chiedono
addirittura il voto per farli restare al potere.»

Ho voluto incontrare Shahla Haeri per capire meglio la complessa realtà


femminile in Iran. Shahla è partita per gli Stati Uniti nel 1968 per
specializzarsi in sociologia e antropologia. E una donna elegante di
cinquantasette anni, capelli brizzolati corti con una ciocca maliziosa che le
copre la fronte. Sarebbe dovuta rientrare in Iran dietro insistenza dei
genitori appena finiti gli studi. Ma l'amore per un fotografo americano l'ha
fatta restare negli Usa, dove insegna all'Università di Boston. Almeno una
volta all'anno però torna a trovare la famiglia.

Quando entro nell'arioso appartamento degli anziani genitori, la madre sta


uscendo con una delle figlie per andare a pranzo dai parenti. Il padre Jamal,
di novant’anni, è affidato alle cure di una fedele collaboratrice domestica
che lo accompagna a sedere nella sua poltrona di lettura.

Shahla è nipote di Haeri Mozandarani, uno dei più importanti ayatollah


della città santa di Qom: anche Khomeini era stato suo studente. E
soprattutto è autrice di Law of Desire (La legge del desiderio), il libro più
autorevole su una delle istituzioni più singolari del sistema sciita iraniano: il
matrimonio temporaneo.

In Iran le leggi sono notoriamente molto «flessibili» e le persone di tutte le


classi sociali si vantano di trovare scappatoie per sfuggire alle rigide regole
islamiche. Il matrimonio temporaneo, il sigheh, è una delle più clamorose.
La professoressa Haeri mi spiega che questa pratica esiste dai tempi di
Maometto, il quale pare l'avesse suggerita ai suoi soldati e compagni di
ventura. I sunniti la misero al bando, mentre gli sciiti vi ricorrono da secoli.
Storicamente il matrimonio temporaneo veniva contratto dai pellegrini che
si recavano nelle città sante di Mashhad e di Qom: il pretesto era che gli
uomini, viaggiando per giorni, pensavano di dover soddisfare i loro bisogni
sessuali e il matrimonio temporaneo era un ottimo modo per appagarli. Ma
era utile anche alle pellegrine che si dovevano spostare da sole per
proteggersi da proposte indecenti. Nonostante la giustificazione religiosa, in
Iran il sigheh è visto con una certa diffidenza. Molti iraniani lo considerano
una sorta di prostituzione legalizzata che diventa automaticamente un
pubblico attestato dell'illibatezza perduta.

Un matrimonio temporaneo può durare in teoria da pochi minuti a 99 anni.


Per poterlo contrarre le vergini devono chiedere l'autorizzazione del padre.
Nell'accordo, che si può stipulare anche privatamente e non
necessariamente davanti a un rappresentante del clero, si può specificare
quanto tempo gli sposi sui generis passeranno insieme, quanto denaro verrà
pagato alla donna per il suo sostentamento e, ovviamente, per quanto tempo
il contratto sarà valido. I figli nati da queste unioni sono considerati
legittimi e hanno il diritto di partecipare all'eredità del padre. Nel 1990,
ormai presidente della Repubblica, persino Hashemi Rafsanjani difese in un
famoso sermone l'istituzione come una soluzione offerta da Dio in
contrapposizione alle pratiche di promiscuità degli occidentali. L'Iran
usciva da otto lunghi anni di guerra sanguinosa. C'era bisogno di invogliare
i giovani a riprodursi e le vedove a risposarsi per garantire la crescita
economica del Paese. La premessa del suo discorso fu che il desiderio
sessuale è un dono di Dio. Le sue parole scatenarono un finimondo, anche
perché un uomo sposato può avere innumerevoli mogli «a tempo», oltre alle
quattro permanenti, e può rompere il contratto quando vuole, diversamente
da quanto è concesso alle donne. Inoltre, nella sua singolare arringa in
difesa del sigheh, Rafsanjani aveva svincolato il contratto dall'obbligo di
ottenere il consenso dei genitori qualora la ragazza fosse ancora vergine.

Shahla Haeri mi conferma che è una prassi piuttosto diffusa. In una società
religiosa dove i rapporti prematrimoniali sono proibiti e in cui per la forte
disoccupazione giovanile tantissime coppie devono rimandare le nozze, il
sigheh consente di dare al sesso vietato una parvenza di legalità.

Ancora nel 2000 il dibattito sui suoi vantaggi era molto vivace quando
intervistai la direttrice del mensile femminista

«Zanan». Shahla Sherkat mi spiegava che le relazioni tra i giovani


sarebbero diventate più libere e forse alla fine l'ossessione della società
iraniana per la verginità sarebbe andata progressivamente scemando.

Cinque anni più tardi però non riscontro cambiamenti sensibili: il sesso e la
verginità continuano a essere un elemento centrale nella vita degli iraniani.

La professoressa Haeri ha una spiegazione: «Gli iraniani sono da una parte


sessuofobici, nel senso che hanno paura della sessualità, e dall'altra sono
ossessionati dal sesso, come avviene per tutte le cose che si desiderano
fortemente ma non si possono avere».

Nel suo libro l'antropologa ha intervistato anche diversi religiosi che hanno
fatto largo uso del sigheh pur opponendosi tenacemente ai rapporti
prematrimoniali. E stato proprio uno di loro ad affermare che siccome Dio
ha proibito l'uso degli alcolici, ha concesso in cambio il matrimonio
temporaneo. «La verità» continua Shahla «è che esiste un mondo di
facciata, simboleggiato dal chador, e un mondo occulto, in cui serpeggiano
omosessualità, tradimenti, incesto e pedofilia, ostinatamente taciuti. La sola
cosa che abbiamo capito è che il desiderio non si può mai reprimere perché
riemergerà in qualche altra forma. Siamo così arrivati a instaurare spesso
rapporti torbidi e malsani.» Una realtà nascosta che mi verrà illustrata nei
dettagli da una giovane ricercatrice che da cinque anni, tra mille difficoltà,
studia i comportamenti sessuali dei giovani iraniani.

«Come si è arrivati a una società dove il piacere, la bellezza, la sensualità,


tutte caratteristiche tipiche della cultura persiana, sono stati messi al
bando?» si domanda Shahla. «Durante il regime dello Scià le ragazze
giravano in minigonna, ma di sesso non si parlava. Con la Rivoluzione
islamica le donne girano coperte da capo a piedi e non si fa altro che parlare
di sesso.»

Mi vengono in mente le parole di Khamenei durante una predica di qualche


mese fa. Citando la battuta di un politico americano, aveva affermato che i
nemici dell'Iran volevano distruggere il Paese inviando non le bombe ma le
minigonne. La Guida Suprema pensava che il suo antagonista occidentale
avesse ragione: «Se loro stimolano i desideri sessuali in un altro Paese, se
invitano alla promiscuità senza freni e se incitano la gioventù a
comportamenti che vengono loro naturali per istinto, sicuramente contro
quella nazione non ci sarà più bisogno né di armi né di artiglieria pesante».

Mentre discutiamo animatamente gustando una squisita anguria, il padre di


Shahla si dirige verso il tavolo accanto a noi: è arrivata l'ora della preghiera
e siccome non riesce più a inginocchiarsi rende grazie a Dio da seduto.
Shahla lo guarda con affetto e gratitudine: «Pur essendo molto religioso,
mio padre non ci ha mai obbligate a portare il velo ed è sempre stato
rispettoso delle nostre opinioni. Anche lui pensa che da un punto di vista
legale la condizione delle donne in questi anni sia peggiorata. Troppo
spesso ci si dimentica delle conquiste fatte durante il regno dello Scià: se
non ci fossero state tante donne consapevoli e istruite, Khomeini non
avrebbe mai potuto fare la sua Rivoluzione. Sono state protagoniste anche
loro di quel periodo e i religiosi le hanno ripagate abolendo subito le leggi a
tutela della famiglia e vietando i contraccettivi».

Nonostante lo Scià non fosse un sostenitore del femminismo, le donne


fecero comunque alcuni importanti passi avanti osteggiati dagli ambienti
religiosi più radicali. Nella «Rivoluzione bianca» del 1963 con un'azione
organizzata le iraniane si presero letteralmente il diritto di voto, giungendo
a farselo riconoscere come diritto fondamentale. Sempre in quegli anni
ebbero accesso agli studi e venne introdotta la legge sulla famiglia, che
imponeva seri limiti alla poligamia ed estendeva il diritto al divorzio anche
alle donne. Con l'avvento della Rivoluzione khomeinista e l'introduzione
della legge della Sharia tutto cambiò. Oltre alla poligamia e al divorzio
libero per i soli uomini, tornarono l'età minima di nove anni per il
matrimonio e il divieto per le donne di ricoprire la carica di giudice. Venne
inoltre ripristinato l'obbligo del velo, abolito da Reza Shah quarantatré anni
prima. La lunga guerra con l'Iraq evidenziò tuttavia molte contraddizioni,
come per esempio la questione delle vedove di guerra che, secondo la
Sharia, dovevano rinunciare alla custodia dei figli in favore della famiglia
del marito. E furono ragioni di natura economica a determinare, alla fine
degli anni Ottanta, l’ammorbidimento di Khomeini sulla questione della
contraccezione: nel 1986, infatti, la crescita demografica superava di gran
lunga il 3 per cento annuo. Fu perciò promossa una campagna nazionale per
l'introduzione dei contraccettivi: la pillola, i preservativi, la spirale, la
vasectomia e tutti i metodi allora conosciuti vennero consigliati alle coppie
per ridurre il tasso di natalità.

Si è fatto tardi ma ne approfitto per chiedere anche a Shahla qual è il lascito


della Rivoluzione. Mi risponde secca: «II velo delle donne. Se non fosse
stato per il chador, nessuno si sarebbe accorto della Rivoluzione. Oggi,
come si può ben vedere dagli slogan elettorali di tutti i candidati alla
presidenza della Repubblica, i religiosi al potere pensano di salvarsi
promettendo riforme, diritti individuali e maggiori libertà. Ma la società
civile, come sempre, è molto più avanzata: le donne che girano con veli e
manteaux colorati usano il loro corpo come un simbolo di resistenza
politica.

Sostanzialmente quello che dicono è: andate a farvi fottere! Le donne hanno


il diritto di scegliere tra il burqa e il bikini».

Uscendo mi accorgo della pila di libri che si staglia davanti alla poltrona di
suo padre. Il testo del giorno è una biografia di Lady Diana. Quando gli
chiedo che cosa lo interessi tanto della principessa del Galles, morta
tragicamente a Parigi, mi risponde: «La sua vita è stata come un film, ma
qualche volta la realtà supera la fantasia». Poeta, filosofo, Jamal è curioso e
legge di tutto. Dopo Lady D lo aspetta una serie di racconti di donne
afghane, e poi ancora un libro di Nietzsche. È a sua volta autore di
un'importante opera sulle donne dei re e ancora oggi recita a memoria i
60.000 versi del poema epico Shahnameh del grande Firdusi!
Mentre lo saluto penso che è questo l'Isiam moderato: un uomo molto
credente che non vuole imporre la sua fede a nessuno. Convinto che la
religione sia sostanzialmente un fatto privato.

Le figlie hanno capito e apprezzato.

Decido di tornare a Qom, la «fabbrica» degli ayatollah dove fare proseliti è


un imperativo categorico. Dopo aver guidato un paio d'ore attraverso il
deserto che lambisce la parte meridionale di Teheran arriviamo nella tarda
mattinata in una splendida oasi dove domina il verde, il colore del Profeta.

L'appuntamento con l'unica donna ayatollah (che significa «segno di Dio»)


è a mezzogiorno. Siamo in anticipo di un'ora e decidiamo di fare un giro
nella piazza antistante il centro spirituale della città, la moschea che ospita
la tomba della sorella dell'imam Reza, Fatemeh, morta e sepolta qui nel IX
secolo.

Nonostante i quasi 40 gradi c'è un andirivieni di pellegrini sciiti provenienti


da tutto il mondo, che dopo aver reso omaggio alla venerata Fatemeh si
sparpagliano sulla piazza tra negozi e botteghe di souvenir, gioielli e dolci
tipici.

Una famiglia afghana di dieci persone si ristora all'ombra del mausoleo


dopo un lungo viaggio. Arrivano da Bamian, città tristemente nota per
l'abbattimento dei giganteschi Buddha nel 2001 a opera dei talebani allora
al potere.

Chiedo al capofamiglia se adesso si sta meglio nel Paese dove stazionano


migliaia di soldati della Nato.

«Abbiamo mandato i talebani all'inferno,» mi risponde «questa è la cosa più


importante. Ma purtroppo quello che manca tuttora è la sicurezza.»

I fedeli iraniani si preoccupano piuttosto dei loro leader politici in corsa per
le presidenziali. Con una buona dose di lucidità e di cinismo una giovane
donna arrivata dal Mar Caspio mi dice: «Rafsanjani ha già le tasche piene di
soldi: adesso aspettiamo che se le riempia qualcun altro!».
Ma a sorprendermi è la reazione di Hussein, un commerciante di
cinquant'anni che ha un negozio di fronte alla moschea. Vende chador,
foulard colorati e grandi sudari bianchi con impressi i versi del Corano che
servono ad avvolgere i corpi dei defunti. A una mia domanda sulla
situazione politica risponde deciso con una smorfia: «Non intendo votare
per nessuno. E i mullah là fuori farebbero bene ad andarsene a casa!». Un
messaggio inequivocabile a chi ancora oggi è convinto che la fede possa
risolvere i problemi di questo Paese.

Racconto la battuta a Zohreh Sefati, l'unica donna riuscita a conquistare il


titolo di ayatollah conferito ai leader religiosi più colti e illustri del mondo
musulmano sciita. Ovviamente è di tutt'altro avviso.

«L'Isiam ha tutti i mezzi per affrontare la complessità delle società


moderne» esordisce la docente di scienza e teoria islamica che ha all'attivo
la pubblicazione di dieci libri.

Ci riceve nel suo ufficio al primo piano di una casa seminascosta nei
meandri delle viuzze di Qom. Viene qui tutti i giorni per rispondere alle
domande dei credenti sulla politica, sui diritti umani, sui problemi familiari,
sui comportamenti islamici, che le pongono via fax, per telefono, via e-mail
o di persona.

Alle sue spalle è appeso un quadretto piuttosto kitsch su cui campeggia una
scritta in arabo che recita: «Oh Fatemeh, oh Nostra Signora, prendici per
mano e portaci in Paradiso».

«Per noi la sorella di Reza è un po' come per voi la Madonna» mi spiega
questa cinquantenne imbrigliata nel chador nero. Seduta alla sua scrivania,
la signora Sefati ci studia diffidente da dietro i grandi occhiali da vista,
mentre assaporiamo i gustosi biscotti che ci ha offerto accompagnati da una
bibita dolcissima.

Nella lunga conversazione con la sola iraniana che ha il potere di emanare


una fatwa, una sentenza religiosa, tocchiamo con mano che nulla può
scalfire la sua incrollabile fede nell'efficacia del sistema islamico. Perfino
alcuni dei suoi
«colleghi» ritengono che incarni una visione dell'Isiam non più al passo coi
tempi. Poche ore più tardi incontreremo uno dei Grandi Ayatollah di Qom,
Shaikh Hassan Sanei, un appassionato filo-riformatore che non ha avuto
dubbi nel classificarla tra gli intellettuali più conservatori del Paese. A lui
riuscirò a estorcere l'ammissione che sarebbe meglio che le donne avessero
il diritto di scelta sul chador. Ma con la signora Sefati non ho altrettanto
successo.

«Mhijab è per noi una legge pilastro che va rispettata. Se volessimo essere
autoritari costringeremmo tutte a portare il classico chador nero, che rimane
comunque il nostro simbolo nazionale. Invece abbiamo concesso alle donne
la libertà di scegliere il colore e la foggia del manteau e del velo.

Lo hijab è per noi una sorta di scudo che ci protegge dalle insidie del
mondo maschile.»

Ci risiamo: mi sento quasi in colpa per aver posto per l’ennesima volta la
questione del velo, ma anch'io, insieme a tantissime donne iraniane, non
posso che attestarmi sulle posizioni molto poco ufficiali dell'autorevole
Sanei.

Decido di sollevare una serie di altre questioni spinose cominciare dalla


disoccupazione femminile.

«Stiamo studiando una serie di proposte insieme al ministero del Lavoro e


dell'Università per indirizzare le giovani nei loro studi verso i settori
professionali più richiesti. In generale direi che in futuro ci vorrà meno
Stato e più mercato.»

Concordo con lei, anche se dubito che una riforma economica in questa
direzione verrà mai realizzata dalla classe religiosa attualmente al potere.

Sull'annoso problema delle profonde disparità tra i due sessi, la mia


interlocutrice dimostra granitiche certezze: «La totale parità dei diritti non
esiste da nessuna parte. La nostra cultura si fonda su un forte attaccamento
delle donne alla famiglia e alle leggi islamiche, che vanno sempre
interpretate all'interno di un sistema dove tutto è collegato. Per esempio da
noi la donna non è vincolata al mantenimento della famiglia: se accetta un
lavoro può tenere per sé lo stipendio. Questo vuoi dire, però, che il marito
deve darsi da fare per mandare avanti il ménage familiare. Ecco allora
spiegato perché il numero delle giovani che ottengono un impiego è
inferiore a quello degli uomini: ma questa non e disuguaglianza!».

Non insisto e passo invece a un lungo elenco di discriminazioni codificate


dall'ordinamento giuridico islamico. Secondo il diritto penale le ragazze
sono responsabili di fronte alla legge già all'età di nove anni, contro i
quindici dei ragazzi: possono essere perfino condannate a morte. Secondo
l'articolo 300 de codice penale islamico il «prezzo del sangue» per risarcire
un donna è la metà di quello di un uomo. Stando all'articolo 25 anche la
testimonianza giurata di una donna vale la metà e una vedova ha diritto solo
al 50 per cento dell'eredità del marito. Viceversa un uomo che perde la
moglie può reclamare il suo patrimonio per intero.

L'ayatollah Sefati elude le mie osservazioni e confesso che comincio a


innervosirmi dopo due ore di propaganda sui privilegi di cui le donne
possono usufruire grazie al sistema dei mullah.

L'argomento che infervora maggiormente la religiosa è la Rivoluzione: «II


lascito più importante è la rivalutazione dell'uomo nel quadro islamico.
Questo è un concetto ancora di grande attualità». Nella speranza di ottenere
risposte meno scontate, interpello le due figlie, coperte dalla testa ai piedi e
rimaste fino a quel momento in ossequioso silenzio ad ascoltare l'insigne
madre: «Sicuramente oggi le donne hanno più diritti. Prima della
Rivoluzione le ragazze non potevano andare all'università con Yhijab, oggi
per fortuna sì» mi spiega Maryam, psicologa sposata e madre di un bimbo.

«Non condivido certo la scelta delle mie coetanee di indossare i foulard


colorati, che adesso sembrano andare per la maggiore nelle grandi città: io
preferisco accompagnarmi a chi è più vicina ai miei ideali islamici» le fa
eco Fatemeh, la sorella diciottenne «e sono convinta che prima o poi anche
loro arriveranno a capire l'importanza della purezza.»

Appena fuori nell'insopportabile calura io e Taraneh imprechiamo invece


contro l'abito islamico che siamo costrette a portare. Ci sono 40 gradi ma
sembrano 60.
Velo simbolo di libertà, velo emblema dell'oppressione. Due realtà tuttora
inconciliabili.

CAPITOLO 8

COSÌ FINISCONO I RE

Quando Khomeini rientrò a Teheran, il 1° febbraio 1979, lo Scià era già


scappato. Il 16 gennaio, insieme alla moglie Farah Diba e ai tre figli più
piccoli - il più grande, Reza, era già negli Stati Uniti -, prese un volo per
l'Egitto portandosi dietro centinaia di valigie tra cui una cassa contenente un
po' di terra d'Iran. Non immaginava che non avrebbe mai più rivisto i suoi
palazzi e il suo impero. Nei mesi successivi alla fuga vagò senza patria tra
Marocco, Bahamas, Messico e Panama. L'America, in cui aveva riposto
tutte le sue speranze, temendo il nuovo potere a Teheran preferì tenere alla
larga l'alleato diventato imbarazzante. Muhammad Reza Pahlavi morì di
cancro il 27 luglio 1980 in Egitto. Sepolto nella moschea di Ar Rifai al
Cairo, riposa accanto a re Faruk. Finì così la dinastia dei Pahlavi, fondata
dal padre Reza Shah nel 1925.

Oggi i bambini giocano a pallone sui prati del Saad Abad, il Palazzo
d'Estate dello Scià sulle alture di Darband. Le famiglie si ritrovano per fare
pic-nic all'ombra dei grandi alberi di questa fresca oasi verde. Io ci sono
arrivata a piedi dalla casa di Taraneh seguendo il torrente che scende
dall'Elburz. Una passeggiata, un salto nel tempo.
Cosi finiscono i re

Furono gli imperatori Qajar a scegliere come residenza nel XIX secolo
questo parco enorme che ospita 18 palazzi.

All'indomani della Rivoluzione gli edifici furono invasi e depredati per


potervi insediare i comitati rivoluzionari.

Successivamente vennero trasformati in musei.

Percorrendo i viali del Saad Abad mi ritrovo sulle prime tracce dei tre
eventi che hanno segnato il destino dell'Iran dei giorni nostri: la
Rivoluzione del febbraio 1979, la rottura con l'America nel novembre di
quello stesso anno e la guerra con l'Iraq iniziata il 22 settembre 1980.

Davanti al Palazzo Bianco, la dimora più grande del complesso, un


immenso paio di stivali di bronzo monta la guardia.

E tutto ciò che resta di una statua di Reza Shah. Alcuni mi raccontano che
venne tranciata in due all'indomani della Rivoluzione, ma nessuno ritrovò
mai la parte superiore. Secondo un'altra versione in realtà non fu mai finita.
La mia curiosità resterà insoddisfatta.

Salgo l'ampia scalinata che conduce all'ingresso della casa reale. Un gruppo
di scolari esce correndo: sembrano entusiasti di aver terminato la visita.
Quando li fermo per rivolgere loro qualche domanda, nessuno pare
interessato a parlare con me. Forse il loro inglese è incerto o forse sono solo
impazienti di mangiare la merenda che li aspetta sul prato.

Il Palazzo Bianco conta più di quaranta stanze e visitandolo si riesce a farsi


un'idea della grandiosità di un regno incontrastato. L'ingresso è costituito da
una grande sala occupata da un tappeto persiano di oltre 140 metri quadrati.
E

un'opera di valore inestimabile, tessuta a Mashhad nei laboratori di un


grande maestro, Amu Oghli. Tutto intorno si aprono numerosi altri spazi
che, all'epoca dello Scià, venivano utilizzati per ricevimenti e riunioni di
lavoro e, al contempo, costituivano lo scenario quotidiano di una vita
principesca. I mobili antichi, i quadri di grandi maestri insieme ai preziosi
tappeti creano un ambiente estremamente raffinato. Nell'ufficio dello Scià si
può ammirare un dipinto italiano di un artista poco noto del XVII secolo,
Aniello Falcone, La battaglia di Lutzen.

Una targhetta affissa sulla porta di un salone adibito agli eventi di gala ci
avverte che «l'ultimo ricevimento dato in questo salone è stato in onore del
maresciallo [sic] de Gaulle». II generale de Gaulle si sarà certamente
rivoltato nella tomba per essere stato promosso tardivamente al grado di
maresciallo, che in Francia rappresenta il più alto riconoscimento militare.
Non amava le mostrine e ancor meno una promozione che lo metteva sullo
stesso piano del maresciallo Philippe Pétain che si era arreso alla Germania
nazista. L'ultimo viaggio di de Gaulle in Iran risale all'ottobre del 1963. Mi
chiedo se i curatori del museo abbiano perso traccia delle feste tenute in
questo salone tra il 1963 e il 1979. O forse si tratta di una sorta di omaggio
alla Francia e al suo leader politico più prestigioso e più tenacemente
indipendente? Proprio in quegli anni avevano preso avvio le discussioni sul
nucleare che si conclusero nel 1974 con un accordo con lo Scià per la
costruzione di centrali a tecnologia americana. Teheran entra anche a far
parte del consorzio Eurodif che doveva cominciare il processo di
arricchimento dell'uranio nel 1981. Ma i francesi in seguito negheranno
allora di esercitare il suo di ritto di azionista nel consorzio europeo. E
questo, come pure il sostegno di Parigi a Baghdad durante il conflitto,
scatenerà fra i due Paesi una feroce guerra segreta. Con dieci anni di
tensioni diplomatiche, violenze, attentati, rapimenti. La questione nucleare
viene da lontano.

Più avanti un'altra targa ricorda «l'ultima cena organizzata per re Hussein di
Giordania e il presidente Carter». La cena venne servita il 31 dicembre
1977. Jimmy Carter stava compiendo un lungo viaggio nella regione e si era
fermato per una notte a Teheran. Da mesi la diplomazia americana era
preoccupata per le tensioni che si registravano nel Paese. Da un lato, Carter
auspicava un maggiore rispetto dei diritti umani e una serie di riforme
democratiche. Dall'altro, l'Iran rimaneva, insieme all'Arabia Saudita, uno
dei pilastri della strategia americana nel Golfo, quindi non bisognava
esercitare troppa pressione sullo Scià.

Quella sera, sotto gli stucchi del palazzo di Saad Abad, Carter si alzò in
piedi e propose un brindisi alla salute del suo ospite: «Sono fiero e felice di
poter far visita alla fine del mio primo anno di governo e all'inizio del
secondo ai nostri cari amici e alleati». Poi si profuse in un elogio che lo
perseguiterà a lungo: «L'Iran sotto la guida dello Scià è un'isola di stabilità
in una delle regioni più tormentate del mondo, e lo dobbiamo a lei, Sua
Maestà, alla sua autorità e al rispetto, all'ammirazione e all'amore del suo
popolo». Poche settimane dopo sarebbero cominciate le prime
manifestazioni anti-regime. Per i Pahlavi era l'inizio del naufragio.

Gli iraniani, ossessionati dai complotti, hanno spesso insinuato che dietro la
caduta del sovrano e la presa del potere da parte dei mullah ci fossero
proprio gli Stati Uniti, in cerca di un bastione ideale contro l'espansionismo
sovietico. Ma la teoria delle congiure funziona solo con chi ci crede.

Fu un colpo di Stato di Reza Khan sostenuto dai britannici, nel 1921, a


segnare l'inizio della fine della dinastia dei Qajar. A quell'epoca il futuro
imperatore era prima di tutto un soldato che all'età di sedici anni si era unito
a una Brigata Cosacca addestrata dai russi per proteggere quegli stessi Qajar
che ora voleva destituire. Ben presto si mise a capo dell'unità e si rivoltò
contro i propri signori. Ammirato per il suo coraggio ma temuto per la sua
inclemenza, questo figlio di un basso ufficiale è riuscito a scalare da solo i
vertici del potere.

Marjane Satrapi, in Persepolis. Storia di un'infanzia (edito in Italia da


Sperling &C Kupfer, 2004), uno dei suoi deliziosi libri a fumetti che
ripercorrono la storia dell'Iran, ha immaginato la scena.

Tutto ha inizio con una conversazione tra due gentleman in frac e pantaloni
gessati, seduti su comode poltrone in quello che sembra un club molto
esclusivo di Londra.

«Il Paese è ricco!»

«E i bolscevichi sono vicini.»


«Questo soldato! Come si chiama?»

«Reza! Bisogna andare a trovarlo!»

«E in fretta! La Persia si adagia sul petrolio.» * :

Cambio di scena. L'emissario britannico ora è in piedi, la pipa in bocca di


fronte a un militare che si lucida gli stivali davanti alla tenda.

«Allora Reza, ti lucidi gli stivali? Quando sarai imperatore, sarà il tuo
ministro a lucidarteli.»

«Imperatore! Io?»

«Ma certo, mio eroe! È molto meglio che essere presidente, non credi?»

«Ma abbiamo già un imperatore! Io voglio instaurare una Repubblica.»

«Naturalmente, ma il clero è contro di lui e non ha tutti i torti. Un grande


Paese come il tuo ha bisogno di un simbolo divino! Avrai tutto. Il potere, il
trono, dei servitori addetti ai tuoi stivali... E anche di più! Tutto ciò che
vorrai in cashU

«Io cosa dovrei fare?»

«Niente. Tu ci consegnerai il petrolio e noi ci occuperemo del resto.»

Fin dal 1923 Reza Khan concepisce l'ambiziosa idea di chiudere con la
dinastia dei Qajar, debole e corrotta, e di crearne un'altra, quella dei Pahlavi,
per rilanciare il Paese sulla via del progresso sul modello turco di Mustafa
Kemal Atatiirk.

Nel 1925 si autoproclama imperatore e nel 1935 cambierà nome al regno,


sostituendo il nome Persia adottato dagli occidentali con l'originario Iran.
Voleva così affermare con forza l'identità ariana e l'indipendenza del suo
popolo. Nel frattempo avvia un vasto programma di modernizzazione del
Paese. All'epoca l'Iran era estremamente arretrato.
Circolavano meno di 600 veicoli a motore quando Reza diventò imperatore.
Nei primi anni di potere, assecondando l'idea di uno Stato forte, crea un
vero apparato amministrativo, un esercito e un corpo di polizia. Si
preoccupa di risolvere i più impellenti problemi sociali ed economici come
l'analfabetismo, la mancanza di infrastrutture e l'assenza di un sistema
sanitario adeguato. Si scaglia contro l'influenza dei religiosi cercando di
espropriarne i beni, nella maggior parte dei casi a proprio esclusivo
vantaggio, tanto che alla fine del suo dominio sarà il più grande proprietario
terriero del Paese.

Reza Khan interviene sulla condizione delle donne consentendo l'accesso


alle scuole anche alle bambine e prendendo una decisione che diventerà il
simbolo della lotta permanente in Iran fra tradizione e modernità: vieta per
legge alle donne di indossare il velo. Se questa misura fu accolta
favorevolmente dalla minoranza occidentalizzata, al contrario irritò la
sensibilità della maggioranza della popolazione. Tanto più che la polizia la
fece rispettare con l'uso della forza.

Alcune donne si ribellarono, per esempio non uscendo più di casa. Toccherà
al figlio, Muhammad Reza, cambiare la normativa. Sarà anzi uno dei primi
provvedimenti del suo impero iniziato nel 1941. Il velo potrà essere portato
liberamente tranne che negli uffici pubblici.

Proprio in quel momento si creò la frattura che sussiste ancora oggi tra le
due anime culturali dell'Iran: quella che privilegia l'influenza dell'Occidente
e quella che difende l'integrità della tradizione.

«Quando Reza ha obbligato le donne a togliere il velo, mia nonna ha reagito


sollevandosi la gonna e mettendosela sulla testa» mi ha spiegato Marjane
quando sono andata a trovarla al Marais, nel cuore di Parigi. È una bella
donna dagli occhi neri e vivaci, fuma in continuazione e ogni volta che mi
parla del suo Paese mi trascina in un vortice di allegria e di emozioni. E una
discendente dei Qajar. Suo nonno, nonostante fosse stato spogliato di tutti i
beni da Reza Shah, venne comunque nominato suo consigliere. In
un'ennesima metamorfosi diventò comunista e questo gli costerà lunghi
soggiorni in carcere. Marjane è autrice di numerosi libri tradotti in varie
lingue in cui racconta la storia dell'Iran meno gradita al regno degli
ayatollah. La lucidità e il rigore della sua prosa le impediscono quindi di
mettere piede nel suo Paese da cinque anni e di vedervi pubblicate le sue
opere, che per ovvie ragioni politiche sono proibite.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Reza Shah dichiara la


neutralità dell'Iran pur non nascondendo le sue evidenti simpatie per la
Germania nazista, che considera come una possibile alleata contro la Gran
Bretagna e l'Unione Sovietica. Questa scelta di campo gli costa il trono. Gli
inglesi, infatti, così come lo avevano investito della carica imperiale
vent'anni prima, questa volta lo costringono ad abdicare in favore del figlio
ventiduenne Muhammad Reza. A lui viene nominalmente trasferito tutto il
potere che era stato del padre, ora relegato in esilio in Sudafrica.

Nel momento cruciale della guerra l'Iran giocherà un ruolo chiave come
base logistica degli anglo-americani sullo scacchiere dell'Europa orientale.
Le condizioni di vita degli iraniani, però, non migliorarono affatto. Il
dispiegamento nel Paese di decine di migliaia di soldati stranieri decise la
fortuna di quei pochi che, facendo lievitare i prezzi anche dei generi di
prima necessità, si arricchirono rapidamente, a scapito della maggioranza
della popolazione che, in breve tempo, si impoverì in maniera drammatica.
L'opposizione allo Scià cominciò a organizzarsi con la nascita del Tudeh,
nel 1942, che divenne nel 1944 il Partito comunista iraniano. Da quel
momento il timore dell'influenza sovietica diventò un elemento ossessivo
nell'analisi americana dell'Iran.

La crisi del dopoguerra, quando le truppe di Mosca si fecero pregare per


lasciare il Nord del Paese e il partito comunista locale dichiarò una
repubblica indipendente in Azerbaigian, non fece che acuire tale
preoccupazione. Il coinvolgimento americano diventerà sempre più forte: il
colonnello Norman Schwarzkopf, padre del vincitore di Saddam Hussein
nel 1991, venne nominato primo consigliere militare americano in Iran nel
1947. Ottenne dagli iraniani la firma per una commessa da 60 milioni di
dollari in equipaggiamenti, che segnò l'inizio di una lunga alleanza.

Il petrolio diventò ben presto «l'oro nero», la chiave delle guerre e dello
sviluppo economico dell'Occidente. Una società britannica, l'Anglo-Iranian
Oil Company, estraendo il greggio iraniano accumulò enormi profitti di cui
Teheran non beneficiò minimamente. Nel 1951, dopo l'assassinio del primo
ministro Ali Razmara per mano di un militante del gruppo estremista dei
Fedayyin Isiam, venne nominato un nuovo capo di gabinetto: Muhammad
Mossadegh. Leader del Fronte nazionale, un partito di opposizione
ultranazionalista creato alla fine degli anni Quaranta, annunciò la
nazionalizzazione del petrolio iraniano. Queste velleità indipendentiste
finirono per costargli molto care. Nel 1953 fu destituito con un colpo di
Stato deciso da Londra e Washington e organizzato dalla Cia. Da quel
momento i servizi segreti americani assursero al ruolo di attori occulti ma
onnipresenti e onnipotenti in questa regione strategica del mondo.

Il rovesciamento di Mossadegh divenne il simbolo della dominazione degli


Stati Uniti in Iran e contribuì ad alimentare il crescente rifiuto degli iraniani
di qualunque ingerenza nei loro affari interni.

Dopo la parentesi di Mossadegh, Muhammad Reza, che aveva vissuto i


primi anni del suo regno come debole erede del padre autoritario, proverà
per tutta la vita a imitarlo. Fragile ed esitante laddove il padre era stato forte
e deciso, si lanciò anch'egli in un programma di modernizzazione,
promuovendo tra l'altro una fallimentare riforma agraria che provocò un
massiccio esodo dalle campagne. La conseguenza fu l'esplo-sione del
proletariato urbano e della collera dei religiosi, privati dei loro beni e
minacciati nella loro influenza. Lo Scià accompagnò i suoi sforzi di
sviluppo con una politica di eliminazione o di cooptazione di qualunque
opposizione politica. Fu in quel momento, nel 1961, che Mehdi Bazargan,
l'ayatollah Mahmud Telaghani e Yadollah Sahabi fondarono
clandestinamente il Movimento di liberazione dell'Iran (Fmi) di cui Ibrahim
Yazdi, che ho incontrato a Teheran, è oggi il più autorevole esponente. Ma
per controllare il Paese e combattere gli oppositori, lo Scià aveva creato già
nel 1957 la Savak, la terribile polizia politica addestrata, almeno all'inizio,
dai servizi segreti americani e israeliani. Sempre più incapace di mettersi in
sintonia con le reali esigenze del suo popolo, prosegui invece nella sua
politica di grandeur che raggiunse l'apice nel 1971 quando organizzò le
famose celebrazioni di Persepoli per commemorare i 2500 anni della
nascita dell'impero persiano. Gli sfarzosi festeggiamenti di Persepoli furono
l'occasione per Khomeini di tuonare dal suo esilio iracheno contro «i re
dell'Iran che hanno ripetutamente ordinato i massacri della loro gente» e di
ricordare che «l'Isiam è arrivato per distruggere i palazzi della tirannia. La
monarchia è una delle più ripugnanti e più vergognose manifestazioni
reazionarie».

Khomeini aveva iniziato a far parlare di sé già nel 1962, quando cominciò a
predicare in una scuola coranica di Qom.

Quell'anno, in uno dei suoi discorsi, proclamò la propria feroce opposizione


allo Scià denunciandone la totale sottomissione a Washington. Nel marzo
del 1963, in occasione dell'anniversario della morte del sesto imam Jafar al-
Sadeq, la Savak sferrò un attacco contro la sua scuola causando la morte di
molti studenti. Khomeini venne arrestato, ma una volta liberato continuò a
esprimere le sue critiche al vetriolo contro Muhammad Reza e la sua
alleanza con gli Stati Uniti e Israele, tanto da essere nuovamente arrestato
all'inizio di giugno.

Nei giorni successivi, le processioni che ebbero luogo in diverse città


dell'Iran in onore dell'imam Hussein, simbolo del martirio sciita, si
trasformarono in sommosse. Gli scontri con la polizia provocarono
centinaia di morti. Khomeini venne rilasciato in agosto e poi nuovamente
incarcerato in ottobre per oltre sei mesi. Espulso nel novembre del 1964 fu
inviato prima in Turchia e poi in Iraq. La goccia che fece traboccare il vaso
fu un terribile attacco contro il servilismo dello Scià nei confronti degli
americani. Khomeini denunciò la nuova legge emanata dal governo che
accordava la più completa immunità ai militari Usa in Iran. In una predica,
poi passata alla storia, l'Imam accusò Muhammad Reza di aver ridotto gli
iraniani in condizioni peggiori di quelle dei cani. In Iran un americano
poteva investire un iraniano e restare impunito, mentre negli Stati Uniti
investire un cane era considerato un reato perseguibile. Le dimostrazioni
che ne seguirono furono tra le più sanguinose con una repressione senza
precedenti nell'era dello Scià.

Khomeini si stabilì quindi a Najaf, la città santa sciita irachena. Ci resterà


fino all'ottobre del 1978.

Nel frattempo lo Scià, grazie all'aumento del prezzo del petrolio nel 1974,
ebbe a disposizione un'immensa ricchezza che spese soprattutto acquistando
quantità ingenti di armi americane. Il periodo di espansione economica che
conobbe l'Iran, alimentato unicamente dalle rendite dell'oro nero, fii
accompagnato da una crescita esponenziale dell'inflazione, da un'ag-
gravarsi della disparità dei redditi tra ricchi e poveri e, come se non
bastasse, da una scarsità di beni inspiegabile per un Paese così prospero.
Questa frattura economica e sociale, assai più dell'«intossicazione da
Occidente», la Westoxication, denunciata dal clero e dagli ambienti
tradizionalisti, contribuì ad alimentare il risentimento della maggior parte
della popolazione. Alla fine degli anni Settanta il Paese era dunque in preda
al malcontento: gli studenti rivendicavano più riforme, ma soprattutto in
tempi più rapidi; il clero, al contrario, ne voleva meno; la crisi economica
internazionale che seguì il boom petrolifero, infine, rese la situazione
ancora più ingestibile.

La scintilla che diede il fuoco alle polveri scoppiò nel gennaio del 1978. Un
giornale governativo pubblicò un articolo che conteneva affermazioni
calunniose e provocatorie contro Khomeini. L'Ayatollah non fu chiamato in
causa direttamente, ma tutti compresero che era di lui che si stava parlando.
Il pezzo, infatti, faceva riferimento a un religioso scelto per dirigere le
contestazioni, «un avventuriero, un uomo senza fede, legato ai centri di
potere del colonialismo».

L'indomani si svolsero numerose manifestazioni di protesta a Qom. La


polizia intervenne sparando sulla folla e provocando la morte di settanta
persone. A partire da quel momento, l'opposizione laica perse
definitivamente il controllo delle dinamiche della ribellione. Gli ambienti
religiosi invitarono la popolazione a partecipare alle cerimonie in ricordo
delle vittime, organizzate secondo la tradizione sciita quaranta giorni dopo
la morte dei manifestanti. Ma anche le commemorazioni vennero
interpretate dal governo come nuove proteste e per questo represse col
pugno di ferro. Si aprì così un ciclo inarrestabile fatto di anniversari e
repressioni. Dopo gli incidenti di Qom, a febbraio Tabriz divenne teatro di
una sommossa: decine di civili furono uccisi solo per aver partecipato a una
marcia commemorativa.

L'escalation di violenza culminerà nelle manifestazioni dell'8 settembre nel


cuore di Teheran dove si radunò una folla immensa, secondo alcune fonti un
milione di persone. I morti saranno diverse centinaia.

«Il clero gode ancora oggi di solidi legami con le masse popolari, necessari
per combattere il dispotismo e il colonialismo. Inoltre possiede la chiave
per capirle e farsi capire» mi aveva spiegato Yazdi, primo ministro degli
Esteri della Rivoluzione, nel nostro lungo colloquio a casa sua.

Il Paese era totalmente paralizzato, gli scioperi si succedettero uno dopo


l'altro, le scuole e le università chiusero. In ottobre lo Scià convinse Saddam
Hussein ad allontanare Khomeini, che infatti si trasferì a Neauphle-le-
Chàteau, vicino a Parigi. Ma fu un errore. Da una grande capitale europea,
il suo messaggio rivoluzionario potè essere diffuso più facilmente. Le
manifestazioni proseguirono fino a dicembre con l'incessante richiesta di
destituzione dello Scià che, il 30 di quel mese, nominò un governo
provvisorio con a capo Shapur Bakhtiar.

Ma il vasto fronte dell'opposizione che andava dai mullah alla sinistra


marxista si schierò con Khomeini, ne fece un alfiere della contestazione e
ne caldeggiò il rientro in patria. Molti pensavano che una volta tornato si
sarebbe stabilito a Qom, da dove avrebbe seguito con benevolenza
l'organizzazione di un nuovo sistema politico. Ma le cose andarono
diversamente.

Il 1° febbraio 1979, all'una del mattino un Boeing 747 dell'Air France,


affittato per l'occasione, decollò da Parigi alla volta di Teheran. A bordo
l'imam Khomeini, settantasette anni, e 47 suoi stretti collaboratori. Li
accompagnavano 141

giornalisti. Giunto nei cieli sopra Teheran l'aereo non ricevette


l'autorizzazione per atterrare. L'Ayatollah salì nella cabina superiore. Pregò.
Si stese sulla moquette e si addormentò. Calma e autocontrollo, due
caratteristiche determinanti per chi di 11 a poco avrebbe rivoluzionato le
sorti del suo Paese. Tra le frasi attribuite a Khomeini nel giorno del suo
trionfale ritorno, questa assume una valenza tutta particolare: «A partire da
questo momento, sono io che nomino il governo». La situazione ora era
chiara a tutti. Il 4 febbraio 1979 come annunciato nominò primo ministro,
in opposizione alla squadra lasciata dallo Scià sotto la guida di Shapur
Bakhtiar, Medhi Bazargan, che era stato in esilio con lui in Francia.
Nei giorni che seguirono, le unità dell'esercito rimaste fedeli a Muhammad
Reza cercarono di contenere la rivolta popolare. Ma molti furono i militari
che si schierarono con i ri-voluzionari. Il 9 febbraio i cadetti di una base
aerea vicino a Teheran vennero coinvolti in una battaglia contro la Guardia
imperiale. I militanti e la folla appoggiarono i cadetti, gli scontri si
protrassero fino al giorno successivo. Il comando delle forze armate alla
fine si ritirò e proclamò la sua neutralità ordinando alle truppe di rientrare
nelle caserme. Questo episodio segnò la fine dei Pahlavi.

La rivolta popolare aveva vinto lasciando il campo libero alla Rivoluzione


islamica.

«Khomeini ha avuto successo perché parlava dei diritti dell'uomo, il Paese


era analfabeta e lui con la religione riusciva a spiegare concetti difficili
come la giustizia sociale» mi ricorda Marjane Satrapi.

A marzo un referendum dall'esito fin troppo plebiscitario (98 per cento di


voti a favore) decise l'ordinamento dello Stato: la «Repubblica islamica»
che venne instaurata il 1° aprile 1979.

Seguì un periodo in cui le forze laiche e di sinistra vennero gradualmente


isolate e poi eliminate senza che potessero reagire. Uno dei personaggi dei
libri di Marjane, che ricorda lo zio comunista tornato con la Rivoluzione
dall'esilio in Unione Sovietica, illustra lucidamente le ragioni della
mancanza di perspicacia degli intellettuali di sinistra: «Non è grave» disse
all'indomani del referendum. «Tutto andrà per il meglio. In un Paese
semianalfabeta non è possibile avvicinare le persone alla filosofia di Marx.
L'unico punto di contatto potrebbe essere il nazionalismo o la morale
religiosa, ma i religiosi non dispongono delle conoscenze necessarie per
governare. Sono certo che torneranno alle loro moschee e che alla fine
regnerà il proletariato. Non c'è altra via. D'altro canto è quello che sostiene
Lenin in Stato e rivoluzione.»

I gruppi di sinistra che avevano partecipato alla lotta contro lo Scià, sia
religiosi che laici, dai Fedayyin del popolo ai comunisti passando per i
Mujaheddin Khalq, vennero sistematicamente eliminati con modalità che
molto avevano in comune con il Terrore rivoluzionario in Francia. Il Partito
della Repubblica islamica, fondato da Khomeini al suo arrivo, era padrone
indisturbato del campo, e per esercitare al meglio la sua influenza si servì
degli onnipresenti Pasdaran, anch'essi creati nel 1979, e dei komiteh, le
cellule di quartiere della polizia islamica.

Avevo incontrato a casa di Yazdi uno di quelli che hanno creduto, come
questo personaggio dei fumetti, che il futuro della Rivoluzione sarebbe stato
radioso. Si chiama Ezzatollah Sahabi del direttivo del Movimento di
liberazione dell'Iran, di cui suo padre Yadollah era stato uno dei fondatori
insieme a Bazargan e Telaghani. Oggi ha settantacinque anni e cammina
sorreggendosi con un bastone.

«Khomeini da Parigi ripeteva che il governo islamico sarebbe stato


democratico, e che anche i marxisti avrebbero potuto parteciparvi. Fin
dall'inizio della Rivoluzione però i religiosi hanno preso il potere non solo
impedendo di fatto alla sinistra di fare politica, ma estromettendo anche
rivoluzio-nari musulmani come noi perché contrari ai princìpi della Guida
Suprema.»

Adottando il principio del welayat-e faqih, ovvero il governo del giudice


religioso, Khomeini aveva deciso di assumere il ruolo che la teologia sciita
riserva alla figura mitica del Mahdi, il Messia che tutti gli sciiti aspettano
per costruire un mondo migliore. Nella Repubblica islamica invece è la
Guida Suprema ad assumerne il ruolo con tutti i poteri per lanciarsi nella
battaglia politica e nella gestione degli affari dell'uomo. Ovviamente è un
ruolo tagliato su misura per Khomeini che ne aveva già parlato all'inizio
degli anni Settanta. Corrispondeva alla sua personalità, alla sua ambizione e
alle circostanze della Rivoluzione. Tuttavia per il successore di Khomeini,
l'ayatollah Khamenei, l'abito sembra troppo grande e i tempi meno propizi.

Sahabi ha criticato spesso questa «deviazione», l'ultima volta nel 2000


quando ancora una volta accusato di spionaggio e di sovversione è stato
arrestato e ha trascorso diciotto mesi in carcere. Mentre discutiamo mi è
chiaro dai suoi occhi che appartiene a quella schiera di combattenti politici
che non si danno mai per vinti, pronti a sfidare il sistema fino alla morte.

Seduta al fresco della sua piccola terrazza di Darband, Taraneh ricorda quei
periodo di intense emozioni e grandi speranze. Rientrata in Iran dopo aver
compiuto gli studi di architettura in Francia e in Italia si era buttata anima e
corpo in politica.

«Sono tornata per la Rivoluzione e poi ho deciso di rimanere. Mio zio mi


offrì di andare negli Stati Uniti per iscrivermi a un dottorato, ma io rifiutai.
Facevo parte di un movimento di sinistra che si chiamava Le donne
democratiche.

Scendevamo in piazza per protestare contro il crescente potere dei mullah,


ma per me l'ultima volta fu quando durante una manifestazione
cominciarono a sparare, i Pasdaran contro i Fedayyin che ci proteggevano.
Ero terrorizzata. Noi volevamo difendere le nostre libertà e quelli volevano
imporci l'obbligo del chador. Fummo in tantissime a sfilare per la capitale.
Ricordo che c'erano anche alcune donne che indossavano il velo. Chiesi a
una di loro che cosa ci facesse lì, e lei mi rispose: "Sono qui perché mia
figlia non sia costretta a portare il chador". Poi arrivò il periodo in cui
cominciavano ad aggredire le donne con l'acido per strada. Glielo buttavano
in faccia. A quel punto abbiamo iniziato ad avere veramente paura. Anch'io.
Non dimenticherò mai il vestitino di Cacharel che mia madre, che allora
viveva già a Parigi, mi aveva regalato. Aveva le maniche corte e io lo
indossavo sempre. Finché mi accorsi di essere sempre in tensione nel
timore che qualcuno da un motorino vedendomi a braccia scoperte mi
gettasse l'acido addosso. Allora ho deciso di coprirmi e di votare contro la
Costituzione che ha instaurato la Repubblica islamica.»

II giorno dopo la conversazione con Taraneh sono tornata a visitare la casa


di chi ha voluto la teocrazia con tutte le sue forze: Ruhollah Khomeini. Si
trova sulle alture di Jamaran.

Vi si accede da una stradina circondata da muri in mattoni a vista e semplici


caseggiati bassi. D'inverno queste strade sono difficilmente praticabili a
causa della neve, mentre d'estate sono inondate dal sole e i passanti
vengono bagnati dai getti d'acqua che annaffiano i piccoli giardini.
Passiamo davanti alla husseimya - un luogo di culto a metà tra una moschea
e una scuola - nella quale Khomeini era solito pregare. Davanti alla porta un
Guardiano della Rivoluzione ci rivolge un saluto. Sembra entusiasta di
vedere visitatori. Vado verso l'ingresso riservato alle donne, mentre Jacques
si dirige verso quello degli uomini. Mi perquisiscono rapidamente: a parte
me non c'è nessuno. Ritrovo Jacques impegnato in una conversazione con la
giovane guardia che vuole sapere da dove veniamo e sembra deluso quando
scopre che non siamo americani. Ci chiede poi quanti figli abbiamo e
assume un'aria contrita davanti alla nostra risposta negativa.

«Welcome, wel-come» finisce per dire, indicandoci la strada.

Bisogna imboccare un viale leggermente in discesa, fiancheggiato da case


trasformate in uffici e coperto con una lamiera ondulata che lascia filtrare
una luce verdastra. L'interno dell'husseiniya è molto semplice. Un grande
dipinto della Kaaba alla Mecca occupa un'intera parete. La moquette già
vecchia è blu e le sottili colonne che sostengono il soffitto sono dipinte di
verde. Un soppalco di acciaio corre lungo uno dei lati della stanza che può
contenere alcune centinaia di fedeli in piedi.

«Sono venuto spesso qui durante la guerra con l'Iraq» ricorda Jacques. «Per
noi era un'esperienza fuori del comune. I fedeli arrivavano in autobus e
aspettavano diverse ore pregando o gridando slogan. Poi, al momento
stabilito, si apriva la porta del piccolo soppalco e compariva Khomeini. Era
un vero delirio di devozione. Molto spesso tra la folla c'erano feriti di
guerra per i quali era una consacrazione poter vedere l'Imam. Camminava
lentamente fino alla poltrona e si sedeva tra due aiutanti. Poi alzava una
mano. Quella mano mi era sembrata fragile, scarna, quasi scheletrica. Ma
era una mano che aveva un'autorità straordinaria e aveva il potere di vita o
di morte su milioni di esseri umani. Gli occhi di Khomeini sembravano
vuoti, come se non ci vedesse più. Ma la "sua" visione non aveva più niente
a che fare con il mondo temporale: viveva per plasmare la realtà alla sua
maniera, non per vederla cambiare. A volte parlava, oppure un aiutante
leggeva una dichiarazione. Poi veniva condotto nuovamente nella piccola
abitazione qui vicino.»

L'Ayatollah era nato nel settembre del 1902 a Khomein, a sud di Teheran,
non lontano dalla città santa di Qom. Non conobbe il padre che venne
ucciso da un proprietario terriero quando lui aveva appena cinque mesi, e fu
allevato dalla madre. Il nonno era un mercante che faceva affari con la
provincia del Kashmir. Iniziò molto presto gli studi religiosi a Soltanabad e
poi a Qom, finché nel 1927 raggiunse il grado di sapere necessario per
interpretare il Corano e i suoi insegnamenti. In seguito sposò la figlia di un
ricco ayatollah di Teheran ed ebbero cinque figli, due maschi e tre femmine.

Cerco di immaginare la sua vita guardando attraverso i vetri della casa in


cui è vissuto con la moglie Khadija. Tutti coloro che l'hanno avvicinato
parlano della sua semplicità, frugalità, del suo odio per il lusso. Era dotato
di una straordinaria disciplina e faceva ogni giorno una passeggiata di venti
minuti nel giardino attiguo. Nella stanza in cui lavorava due tappeti
ricoprono il pavimento, mentre un semplice divano blu e due sgabelli - uno
blu e l'altro rivestito di un tessuto a righe - sembrano aspettare dei visitatori
per un'ultima udienza. Appeso al muro un piccolo dipinto che raffigura
Ahmad, uno dei figli, chino sulle spoglie del padre morto nel giugno del
1989. Una fotografia mostra Khomeini mentre vota alle prime elezioni post-
rivoluzionarie. L'urna nella quale deposita la scheda ha il numero 110: nella
complicata numerologia degli sciiti il 110 corrisponde al nome del
fondatore Ali. È anche l'articolo più controverso della Costituzione iraniana,
quello che attribuisce poteri eccezionali alla Guida Suprema.

I nemici di Khomeini lo accusavano spesso di non essere nemmeno iraniano


ma indiano. «Hindi», lo chiamavano. È

anche noto per essere stato un grande appassionato di poesia e per essersi
dilettato a scrivere nello stile del più celebre dei poeti persiani, Hafez. Il
figlio Ahmad prima di morire nel 1995 ha reso pubblici alcuni suoi poemi,
nei quali celebra il vino e l'amore, la primavera, la musica e la danza. I suoi
agiografi vi hanno visto allegorie del desiderio che aveva di Dio e della
felicità che Egli concede ai fedeli.

Ma non sono né il vino né l'amore ad attendere l'Iran all'indomani del


ritorno di Khomeini. Due eventi consolideranno la sua influenza e quella
dei religiosi già al potere: la presa degli ostaggi all'ambasciata americana il
4 novembre 1979 e l'attacco iracheno il 22 settembre 1980. Il governo
moderato di Bazargan farà le spese dell'affare degli ostaggi e il presidente
Bani Sadr che aveva vinto le prime elezioni post-rivoluzionarie sarà
destituito e costretto all'esilio. I mullah saranno gli unici signori dell'Iran.
Giustificheranno il controllo totale della vita pubblica e privata con il
dovere di vigilanza contro il nemico interno ed esterno. Con il
proseguimento della lotta del Bene contro il Male, del giusto contro il
corrotto. Con il faccia a faccia tra titani: la Repubblica islamica, pia ed
eterna, e l'America, il Grande Satana empio e decadente.

CAPITOLO 9
IL COVO DI SPIE

A Teheran era arrivato l'autunno e l'aria si era fatta più fresca. Il marito di
Taraneh, Farhad, come ogni mattina era uscito dal suo appartamento nel
quartiere dell'ambasciata americana nel centro della città. Aveva trent'anni e
lavorava come economista al ministero delle Finanze. Scendendo lungo il
viale Taleqani giunse davanti all'ingresso della rappresentanza diplomatica
ed ebbe la sensazione che stesse accadendo qualcosa. Tuttavia non accelerò
il passo. Da mesi la capitale era in ebollizione. Le strade erano nelle mani
del popolo dalla caduta dello Scià avvenuta nove mesi prima. Le
manifestazioni si succedevano una dopo l'altra. Perché avrebbe dovuto
essere diverso quel 4 novembre 1979?

«Man mano che mi avvicinavo, vidi che alcuni dimostranti si


arrampicavano sui cancelli tentando di scavalcare il muro di cinta» mi
racconta Farhad ripercorrendo insieme a me quelle ore fatali.

Non era la prima volta che la folla, frustrata e in preda alla collera,
prendeva l'ambasciata degli Stati Uniti come oggetto dei suoi sfoghi. Il
suolo americano in terra persiana, con il suo complesso di edifici e giardini,
era già stato attaccato in febbraio durante una sommossa, ma la polizia era
riuscita a risolvere la questione piuttosto rapidamente.

Farhad si fermò a guardare. Si udivano colpi di arma da fuoco ma non si


riusciva a capire da dove provenissero. I manifestanti scaricavano sulla
strada sacchi di sabbia trasportati dai camion che continuavano a
sopraggiungere sul posto. La situazione si fece sempre più tesa, Farhad
rimase a lungo incerto se andarsene o restare. Un amico si avvicinò e gli
disse: «Hanno attaccato l'ambasciata». «Le cose si metteranno male»
rispose Farhad quasi avvertisse una premonizione. «E meglio rientrare.» E
se ne andò. Non lo sapeva ancora, ma aveva appena assistito all'evento che
avrebbe cambiato il destino del suo Paese e di tutto il Medio Oriente.

Tra la folla c'era anche una studentessa di diciannove anni. Indossava il


chador e seguiva con grande partecipazione quanto stava accadendo.
Proveniva da una famiglia di insegnanti ed era cresciuta negli Stati Uniti, in
Pennsylvania, dove il padre ingegnere meccanico aveva vinto una borsa di
dottorato. Tornata in Iran, aveva frequentato un liceo internazionale e quindi
il Politecnico di Teheran, dove era entrata a far parte dell'associazione degli
studenti islamici.

Aveva sentito parlare per la prima volta di Khomeini un anno prima,


quando la polizia dello Scià aveva aperto il fuoco contro la folla che
inneggiava all'Imam durante le numerose dimostrazioni che si andavano
svolgendo in tutte le principali città iraniane.

Da allora erano cambiate molte cose. L'Imam era rientrato in Iran, lo Scià
era scappato e la ragazza viveva ora con una certezza: la Rivoluzione
avrebbe ristabilito i princìpi dell'Islam come fondamento di una società
giusta, avrebbe liberato l'Iran dalla nefasta influenza dell'Occidente ed
eliminato l'insopportabile invadenza degli Stati Uniti. Desiderava unirsi ai
militanti che nel frattempo erano riusciti a penetrare nell'ambasciata. Ma
prima volle parlarne con i genitori, entrambi professori universitari e
islamici progressisti.

Solo due giorni più tardi decise di aderire alla protesta degli studenti che
avevano preso il controllo del cosiddetto «covo di spie». Durante
l'occupazione, che sarebbe durata ben 444 giorni, diventò la portavoce, il
volto e il simbolo di quegli studenti seguaci di Khomeini, fermamente
decisi a sfidare l'America.

Questa ragazza si chiama Massumeh Ebtekar. Quando la incontro ventisei


anni dopo è vicepresidente della Repubblica islamica dell'Iran. La prima
donna a ricoprire una carica così alta.

«Per capire un evento accaduto tanto tempo fa è necessario ripercorrerlo


così come si presentava in quel contesto. Io e i miei compagni pensavamo
che la nostra rivoluzione, appena nata, fosse già in pericolo. Eravamo certi
di un colpo di Stato imminente. Dovevamo fare qualcosa e subito.»

Massumeh mi riceve nel suo grande ufficio moderno situato in un edificio


ancora in costruzione che domina la capitale.
Porta il velo e parla perfettamente l'inglese con uno spiccato accento
americano che potrebbe tranquillamente farla passare per una nativa della
East Coast. L'avevo intervistata nel 2000 quando i riformisti conquistarono
la maggioranza in Parlamento. Oggi ha qualche ruga in più ma continua a
coniugare perfettamente determinazione e intelligenza, lucidità e
radicalismo.

«Non avevo paura, un impulso mi spingeva ad agire, ero sicura che i miei
genitori avrebbero capito. Come me percepivano che qualcosa stava
cambiando. La Rivoluzione si era compiuta e ora la gente non aveva più
nulla da temere.»

La rabbia degli studenti e la preoccupazione del governo iraniano non erano


immotivate: il 22 ottobre 1979 Washington aveva permesso allo Scià di
recarsi a New York per effettuare controlli medici. Aveva viaggiato a bordo
del jet personale di David Rockefeller, che da diversi mesi esercitava
enormi pressioni sul presidente democratico Carter per poter ospitare
Muhammad Reza.

L'evento che avrebbe cambiato il corso della storia resta ancora oggi
avvolto nel mistero. Lasciando l'Iran a metà gennaio 1979, lo Scià aveva
avuto l'assicurazione di Carter che sarebbe stato il benvenuto negli Stati
Uniti. Lo stesso Khomeini, rientrato in patria il 1° febbraio dello stesso
anno, aveva dichiarato di non avere obiezioni in proposito. Era stato persino
deciso che il monarca, ormai destituito, avrebbe soggiornato nella dimora
del miliardario Walter Annenberg a Palm Springs, in Florida. Il sovrano,
però, pervaso dalla speranza che la Rivoluzione durasse poco, decise

- senza avvisare Washington - di fermarsi prima al Cairo per salutare il suo


amico Anwar Sadat e quindi in Marocco, su invito di re Hassan IL
Contemporaneamente in quei giorni a Teheran, precisamente 1' 11 febbraio,
la Guardia imperiale deponeva le armi. E il 14 accadde un incidente dalle
conseguenze incalcolabili: alcuni manifestanti si scagliarono contro
l'ambasciata statunitense, occupandola per qualche ora, finché la polizia non
riuscì a cacciarli. Ma era stata dimostrata la vulnerabilità della
rappresentanza americana.
La questione dell'esilio dello Scià negli Stati Uniti assumeva all'improvviso
una nuova connotazione: il suo eventuale arrivo sul territorio americano
avrebbe provocato l'ira degli iraniani? Nel dubbio Carter decise che non era
più persona gradita, e così il re fu costretto a ripiegare alle Bahamas dove si
stabilì il 30 marzo, per poi trasferirsi a giugno in Messico infastidito dal
turismo di massa dell'arcipelago caraibico.

Una potente lobby, però, si era messa al lavoro a Washington per consentire
l'accoglienza dell'uomo che era stato un amico dell'America e di Israele. A
capo del gruppo c'erano due grandi personalità della politica e della finanza:
Henry Kissinger e David Rockefeller. Che a loro volta avevano all'interno
dell'amministrazione il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew
Brzezinski. Pur di ottenere il permesso di ingresso per lo Scià chiamarono
in causa i principi di ospitalità degli Stati Uniti. Per contro, altri diplomatici
sostennero che la sua presenza avrebbe potuto essere considerata dal popolo
iraniano come una sfida, e che era quindi prioritario attendere il
consolidamento delle relazioni con il nuovo regime. Quando però lo stato di
salute del monarca diventò un affare di pubblico dominio, il quadro cambiò.

Pare che l'Amministrazione americana avesse scoperto con molto ritardo


che Muhammad Reza era affetto da un cancro al sistema linfatico. Secondo
le testimonianze dell'epoca, raccolte da chi si occupava del dossier, questo
avvenne dopo il 1° ottobre, mentre il presidente Carter ne fu messo al
corrente solo verso la metà del mese. Una falla dell'intelligence che la dice
lunga sulla scarsità di informazioni che filtravano dall'Iran, nonostante gli
Stati Uniti fossero onnipresenti nel Paese. In realtà lo Scià era seguito da
anni in gran segreto da un'equipe di medici francesi, e da circa sei mesi
veniva sottoposto a un trattamento di chemioterapia. Come è possibile che
la malattia e le cure fossero sfuggite ai servizi segreti ritenuti da tutti i più
efficienti al mondo?

L'urgenza di effettuare esami approfonditi pesò molto sulla decisione di


Carter di lasciar entrare nel Paese l'ultimo dei Pahlavi. Si consultò prima
con i diplomatici americani a Teheran, che il 20 ottobre avevano sondato il
terreno rivolgendosi al primo ministro Mehdi Bazargan e a Ibrahim Yazdi.
Quest'ultimo fu molto chiaro: lo Scià avrebbe potuto ricevere un
trattamento medico dovunque tranne che negli Stati Uniti, e soprattutto non
a New York, considerata dagli iraniani «la capitale del sionismo». Inoltre
avrebbe dovuto essere curato da medici iraniani e non avrebbe dovuto
svolgere alcuna attività politica o intrattenere rapporti con la stampa.
Implicitamente Yazdi lasciò intendere che gli iraniani non avrebbero mai
creduto alla storia della malattia, convincendosi invece che dietro la
versione ufficiale si celasse un oscuro disegno politico. Con tutte le
conseguenze del caso.

Il contenuto dell'incontro col primo ministro venne inviato alla Casa Bianca
il 21 ottobre. Avrebbe incrociato un cablogramma da Washington nel quale
si annunciava che la decisione era stata comunque presa. Muhammad Reza
atterrò a New York il giorno successivo, creando le premesse perché la
situazione già drammatica esplodesse.

«Pensavamo che fosse in gioco il destino del nostro Paese e che dovessimo
fare la nostra parte per deciderne il giusto corso» prosegue Massumeh.
«Eravamo decisi a ribellarci alle umiliazioni che gli americani ci avevano
inflitto in passato e che temevamo potessero infliggerci in futuro.»

Sull'ospitalità statunitense allo Scià si catalizzarono gli odi, le frustrazioni, i


timori e le reazioni degli ambienti rivoluzionari, soprattutto dei movimenti
studenteschi. Per loro fu l'ennesima prova dell'appoggio americano a un
regime tanto odiato. Una rinnovata dimostrazione dell'alleanza tra la
dinastia dei Pahlavi e gli Stati Uniti, anche per questo considerati la fonte di
tutti i mali dell'Iran. Gli studenti erano letteralmente ossessionati dallo
spettro di una controrivoluzione, un colpo di Stato «alla Mossadegh»
organizzato in favore del sovrano e dei suoi generali rifugiatisi con lui negli
Usa.

Con la loro azione, quel novembre, attaccarono dunque il simbolo più


evidente di questa complicità: l'ambasciata.

Le maggiori autorità del regime, compreso Khomeini, furono colte di


sorpresa.

«La prima volta che l'ambasciata americana era stata occupata, proprio
all'inizio della Rivoluzione,» mi aveva spiegato Yazdi nel nostro incontro a
Teheran «la situazione era stata controllata, e a dimostrazione che il nuovo
governo era gestito da persone responsabili, gli studenti vennero
immediatamente sfollati. Quando accadde la seconda volta, andai subito a
Qom per presentare il mio rapporto a Khomeini, il quale mi disse: "Buttali
fuori subito!".»

Ma il padre della Rivoluzione, che al di là delle grandi strategie preferiva


affidarsi al proprio istinto, sapeva sfruttare abilmente le circostanze. «La
televisione aveva trasmesso le fasi salienti della mobilitazione popolare
davanti all'ambasciata. Vedendo quelle immagini Khomeini capì subito che
si trattava di una seconda rivoluzione. L'Ayatollah era molto sensibile agli
umori dell'opinione pubblica e i religiosi volevano approfittarne. Decisero
perciò di sostenere l'azione radicale.»

Nei giorni che seguirono, i diplomatici tenuti prigionieri vennero mostrati


alla stampa internazionale. Pochi giornalisti, scelti con grande cura, furono
ammessi all'interno dell'ambasciata. Massumeh faceva da interprete. Ben
presto l'ambasciata divenne un formidabile strumento di propaganda. Per
propaganda le donne e gli uomini di colore vennero liberati, mentre 52
diplomatici sarebbero rimasti prigionieri per 444 giorni. Il 25 aprile 1980 la
Casa Bianca cercò di liberarli, ma l'impresa fallì drammaticamente. Gli
elicotteri e gli aerei impegnati nell'operazione furono investiti da una
tempesta di sabbia. Due velivoli entrarono in collisione e otto membri
dell'equipaggio rimasero uccisi. Khomeini si convinse che a provocarla fu
la mano di Allah, stesa a proteggere la Rivoluzione.

Gli ostaggi non furono mai maltrattati, ma dopo il tentativo di liberazione


vennero dislocati in luoghi diversi della città.

Intanto, con pazienza certosina, gli studenti ricostruirono migliaia di


documenti che il personale dell'ambasciata aveva cercato di distruggere nel
tritacarte. Pubblicarono pagine e pagine di rapporti segreti, o presunti tali,
che secondo loro costituivano la prova lampante del complotto americano
contro l'Iran. Ancora oggi i muri del «covo di spie» sono coperti di invettive
contro gli Stati Uniti e da un dipinto che rappresenta la Statua della Libertà
sormontata da un teschio...

Una delle prime vittime dell'occupazione dell'ambasciata fu il governo


provvisorio di Mehdi Bazargan. Contrario all'azione e favorevole invece
alla ricerca di un modus vivendì con Washington, il primo ministro fu
costretto a rimettere il suo mandato e quello della sua squadra nelle mani di
Khomeini.

Ben presto Bazargan e Yazdi vennero accusati di essere al soldo


dell'America, soprattutto quando gli studenti tra le tante carte rinvenute
all'ambasciata ricostruirono rapporti che li riguardavano. Il Consiglio della
Repubblica islamica, interamente controllato dai religiosi, prese allora le
redini del potere. Nell'entusiasmo generale il 1° dicembre fu approvata con
un referendum la Costituzione che di fatto consolidava l'instaurazione della
prima teocrazia del XX

secolo. Ma la conseguenza più importante della presa dell'ambasciata fu


ovviamente la rottura definitiva dei rapporti diplomatici con l'America, la
fine di una relazione privilegiata sulla quale Washington aveva costruito la
sua politica di stabilità nel Golfo. Per gli iraniani rappresentò al contrario
una liberazione da una potenza che esercitava un controllo totale sugli affari
interni del loro Paese sin dal giorno in cui il primo ministro Muhammad
Mossadegh fu esautorato dalla Cia.

«Il precedente di Mossadegh aveva lasciato un segno indelebile nella


memoria degli iraniani e in particolare in quella dei giovani» ricorda
Massumeh.

È il 1950. Mossadegh, erede di una grande famiglia vicina al potere, più


volte ministro e fondatore del partito riformista, il Fronte nazionale, siede al
Parlamento dove decide di promuovere in seno alla Commissione per il
petrolio una revisione degli accordi sui profitti dell'estrazione del greggio,
molto favorevoli agli inglesi. Si trova coalizzato con un religioso molto
influente, l'ayatollah Kashani: un'alleanza di convenienza tra riformatori e
religiosi che diventerà un modello spesso seguito nei periodi più diffìcili
della storia dell'Iran. Di fronte al rifiuto degli inglesi di adeguarsi alla prassi
del fifty-fifty degli utili che si stava imponendo nella regione con le
compagnie americane, Mossadegh apre il dibattito sulla nazionalizzazione
del petrolio. La sfida è lanciata e per l'epoca si tratta di una vera
rivoluzione. Di fronte all'irremovibilità di Londra, il 15 marzo 1951 il
Majlis vota per la nazionalizzazione. Tra i due Paesi comincia un vero e
proprio braccio di ferro, tanto che le navi da guerra di Sua Maestà si
mobilitano per bloccare il porto di Abadan e impedire agli iraniani di
vendere il loro oro nero. Londra esercita inoltre forti pressioni sullo Scià
perché nomini un primo ministro che accetti le sue condizioni, ma a
sorpresa il Majlis elegge a capo del governo Mossadegh. Il 1° maggio 1951
il monarca firma la legge che nazionalizza la società petrolifera Anglo-
Iranian Oil Company (Aioc), trasformandola nella National Iranian Oil
Company. Gli inglesi considerano questo atto come una provocazione,
un'espropriazione illegittima dei giacimenti di petrolio, ma Washington in
quell'occasione decide di tenere un profilo basso.

Un anno prima, all'altro capo del mondo, era cominciata la guerra di Corea,
percepita come uno scontro tra il mondo libero e il mondo comunista. Il
rischio di un conflitto nucleare era reale. Il 26 giugno 1950, all'indomani
dell'invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, il
presidente democratico Harry Truman aveva riunito i propri consiglieri
nello Studio Ovale della Casa Bianca, si era alzato e, guardando il
mappamondo, aveva messo un dito sull'Iran dichiarando: «Sarà qui che
avremo problemi se non facciamo attenzione». La paura del comunismo era
ormai diventata la principale preoccupazione nella politica estera
statunitense, e Truman era tra i primi assertori dell'idea che i sovietici
volessero estendere la loro influenza anche sull'Iran.

Gli iraniani, mobilitatisi intorno a Mossadegh e all'ayatollah Kashani, non


cedono alle intimidazioni britanniche e respingono con fermezza gli appelli
a una maggiore flessibilità lanciati da Washington. Per loro la
nazionalizzazione del petrolio non è solo una questione economica, ma
anche e soprattutto una questione di onore e giustizia.

Mossadegh va a New York l'8 ottobre 1951. Quattro giorni prima l'ultimo
cittadino britannico aveva lasciato Abadan, mettendo fine a un'avventura
industriale e coloniale che durava da oltre quarant'anni. Il 15 ottobre,
davanti al Consiglio di sicurezza dell'Onu, Mossadegh difende la sua causa,
diventando il simbolo per altri Paesi del Terzo Mondo che lottano per
recuperare il controllo delle proprie ricchezze naturali sfruttate dalle
potenze straniere. Durante il suo soggiorno viene trattato con il massimo
rispetto, ma la situazione non si sblocca.

Nel maggio del 1952 gli inglesi tentano un colpo di Stato imponendo a
Muhammad Reza la nomina di un nuovo primo ministro, che viene però
costretto a lasciare l'incarico dopo solo quattro giorni in seguito a imponenti
manifestazioni di massa e a un massacro avvenuto a Teheran che passerà
alla storia come il «lunedì di sangue». Mossadegh ne esce unico vincitore
mentre lo Scià viene fortemente indebolito. Per Londra non rimane che una
soluzione: eliminare Mossadegh.

Con l'appoggio del sovrano e dei militari che gli sono fedeli viene ordito un
complotto, ma i congiurati vengono traditi e il 16 ottobre 1952 Mossadegh
interrompe le relazioni diplomatiche con il Regno Unito ordinando
l'espulsione di tutti i diplomatici e delle spie di Sua Maestà.

Intanto, negli Stati Uniti è eletto presidente il repubblicano Dwight


Eisenhower che farà della lotta contro il comunismo il suo cavallo di
battaglia. Insediato il 20 gennaio 1953, al suo fianco si fanno subito notare
due uomini: i fratelli Dulles, John Foster, al Dipartimento di Stato, e Allen,
alla Cia. Sono i «duri» della Guerra fredda, i falchi che vedono nell'ascesa
di Mossadegh un'inarrestabile avanzata della minaccia sovietica. D'accordo
con gli inglesi, decidono allora di sbarazzarsi di lui. Il 14 giugno
Eisenhower approva l'operazione Ajax, grazie alla quale il piano si
concretizzerà.

L'uomo incaricato di condurre la missione si chiama Kermit Roosevelt, ha


trentasette anni ed è il nipote dell'ex presidente Theodore Roosevelt. Passa
la frontiera iraniana il 19 luglio 1953, si sistema in una confortevole villa a
Teheran e da lì inizia una campagna di destabilizzazione.

L'operazione Ajax di fatto finanzia commenti, dichiarazioni, prese di


posizione anti-Mossadegh provenienti dai rappresentanti di vari settori della
società, come religiosi, giornalisti e politici, che vengono lautamente pagati
per attaccare in pubblico il primo ministro e screditarne l'immagine.
All'epoca i quattro quinti della stampa iraniana erano controllati dalla Cia.
Roosevelt si serve del generale Schwarzkopf e della principessa Ashraf,
sorella dello Scià, per avvicinare Muhammad Reza e convincerlo a firmare i
decreti di rinvio a giudizio contro Mossadegh. Pur di incontrare il sovrano e
convincerlo a collaborare, Roosevelt arriverà perfino a nascondersi nel
portabagagli di una macchina per recarsi di notte al Palazzo Bianco di Saad
Abad. Dopo vari incontri segreti lo Scià si farà convincere.

Il primo tentativo fallisce. Mossadegh ha avuto una soffiata. Gli ufficiali


che sono con lui e che secondo il piano avrebbero dovuto essere arrestati
sono stati avvertiti, i golpisti e i cospiratori vengono invece catturati. Ciò
nonostante, Kermit Roosevelt non dispera. Ha sempre con sé i decreti reali
sottoscritti dal monarca che gli conferiscono il potere di far arrestare
Mossadegh.

Ancora una volta attiva le proprie reti per dimostrare al popolo - attraverso
agitazioni, manifestazioni, repressioni e disordini — che Mossadegh non è
più in grado di gestire il potere e che solo l'esercito e lo Scià sapranno
ristabilire l'ordine. Quest'ultimo nel frattempo si è rifugiato a Baghdad. A
Washington i superiori di Roosevelt, convinti del fallimento dell'intera
operazione, prima consigliano e poi ordinano al loro agente di rientrare in
patria. Ma Roosevelt li ignora.

Domenica 16 e lunedì 17 agosto alcuni manifestanti pagati dal giovane


Roosevelt si fingono sostenitori di Mossadegh e si radunano davanti al
Parlamento. Legano una catena intorno al collo di una statua equestre di
Reza Shah e con un veicolo militare abbattono la statua.

Roosevelt è entusiasta. Quanto più i sedicenti ambienti riformisti agiranno


in modo violento nel nome di Mossadegh, tanto più l'esercito e il popolo si
sentiranno in diritto di ribellarsi contro di lui. Sconcertato dall'evolversi
della situazione, Mossadegh si trova costretto ad adottare misure preventive
che gli costeranno il potere, due in particolare: da un lato vieta le
manifestazioni per le strade, ma così facendo impedisce che i suoi
sostenitori, come i comunisti del Tudeh, si mobilitino in suo favore;
dall'altro ordina alla polizia di intervenire per reprimere qualunque eccesso,
alienandosi così il sostegno dei suoi simpatizzanti e lasciando il controllo di
Teheran nelle mani di unità che lo osteggiano. Lo Scià intanto fugge sempre
più lontano, questa volta a Roma dove per la gioia dei paparazzi si installa
all'hotel Excelsior insieme alla bellissima moglie Soraya, poco dopo
ripudiata perché non poteva dargli figli. Passerà alla storia come la
«principessa triste». Lì la coppia imperiale sarà raggiunta dalla notizia che
Mossadegh è assediato nella sua casa mentre l'ambasciatore americano
Henderson brinda al successo dell'operazione Ajax.

Mossadegh non può far altro che arrendersi. Viene processato e condannato
a tre anni di carcere e agli arresti domiciliari a vita. Morirà il 5 marzo 1967
all'età di ottantacinque anni.

Si dovrà attendere il 2000 prima che gli Stati Uniti riconoscano il ruolo
avuto in questo losco affare. 1117 marzo, in un discorso ormai celebre,
l'allora segretario di Stato Madeleine Albright disse: «Nel 1953 gli Stati
Uniti hanno avuto un ruolo determinante nel rovesciamento di un primo
ministro molto popolare, Muhammad Mossadegh. L'amministrazione
Eisenhower pensava che quell'azione fosse giustificata da considerazioni
strategiche; ma ora è chiaro che quel colpo di Stato in realtà ha significato
un salto indietro nello sviluppo politico dell'Iran. Ed è facile capire perché
ancora oggi molti iraniani deplorino l'intervento americano negli affari
interni del loro Paese».

Se Khomeini non è stato il promotore dell'occupazione dell'ambasciata nel


novembre del 79, sarà rimasto certamente colpito dall'ironia del calendario.
Si sarà ricordato che quindici anni prima, quasi negli stessi giorni, era stato
cacciato dal suo Paese per aver accusato lo Scià di aver umiliato gli iraniani
con l'approvazione della legge che conferiva l'immunità a tutti gli americani
residenti nel Paese. Ora poteva assaporare la sua rivincita. Coloro che prima
spadroneggiavano nella sua terra erano finalmente alla sua mercé. Da allora
però Washington non ha mai perdonato né dimenticato. Ed è decisa ancora
oggi a far pagare alla Repubblica islamica quell'operazione.

«Non pensavamo che quel fatto avrebbe assunto una tale importanza»
riconosce oggi Massumeh «ma non ho mai avuto alcun dubbio. Avevo
piena fiducia nell'azione che stavamo conducendo, conscia che tutte le
rivoluzioni hanno un prezzo da pagare.»

Gli ostaggi vennero liberati il 21 gennaio 1981, all'indomani


dell'insediamento del nuovo presidente, il repubblicano Ronald Reagan.
Andrà Carter ad accogliere i diplomatici americani all'aeroporto militare di
Wiesbaden in Germania.

Ma quella crisi, che gli è costata la presidenza, continuerà ad alimentare


l'odio e la reciproca incomprensione tra i due Paesi. «Stati Uniti e Iran
hanno molti contrasti» mi diceva Kenneth Pollack durante il nostro
colloquio a Washington

«ma le relazioni sono segnate anche dall'emotività. Se si vogliono risolvere


le controversie, gli iraniani dovranno dimenticare il colpo di Stato del 1953
e gli americani l'umiliazione della presa degli ostaggi del 1979.»

Gli Stati Uniti avevano interrotto le relazioni diplomatiche con l'Iran il 7


aprile 1980. Da allora Washington decise una serie di sanzioni economiche
che avrebbero dovuto isolare, o quanto meno indebolire, il regime dei
mullah.

Essenzialmente unilaterali, la loro efficacia è ancora tutta da dimostrare.

Nel gennaio del 1984, dopo gli attentati di Beirut dell'anno precedente
contro il contingente americano e francese, l'Iran viene aggiunto alla lista
dei Paesi fiancheggiatori del terrorismo. Questa decisione limita tra l'altro
l'accesso ai programmi degli istituti finanziari internazionali. Altre sanzioni
penalizzano i Paesi terzi che intrattengono scambi commerciali con il
regime dei mullah nei settori delle tecnologie a doppio impiego, militare e
civile. Nel 1995 vengono presi provvedimenti contro le società americane
che fanno affari con Teheran utilizzando le loro filiali estere. Dal 1996

una nuova legge obbliga a imporre sanzioni contro le società straniere che
investono in Iran più di 20 milioni di dollari nel settore energetico.

«Il problema fondamentale delle sanzioni contro l'Iran» spiega ancora


Pollack «è che non hanno mai beneficiato dell'appoggio internazionale di
cui godevano per esempio quelle decise contro l'Iraq, almeno all'inizio.»

Era stato il presidente repubblicano Richard Nixon, in carica dal 1968 al


1974, ad appoggiare senza riserve lo Scià. Il suo consigliere per la sicurezza
nazionale, Henry Kissinger, considerava il re un alleato sicuro e devoto che
avrebbe difeso gli interessi degli Stati Uniti nella regione. Nacque «la
politica dei due pilastri», l'Iran e l'Arabia Saudita.

Washington contava su di loro per garantire la sicurezza del petrolio e di


Israele.

Il sovrano tuttavia non si è sempre dimostrato un alleato malleabile. A lui


vanno ascritti, per esempio, la battaglia per l'aumento dei prezzi del greggio
e, nel 1973, il completamento della nazionalizzazione della società
petrolifera iraniana voluta da Mossadegh. Per contro, quello stesso anno
rimane fuori dalla guerra arabo-israeliana e non partecipa all'embargo
deciso contro gli Stati Uniti per il loro incondizionato sostegno a Israele.

I profitti del petrolio in Iran diventano astronomici, come le sue spese


militari, che passano da 1,4 miliardi di dollari nel 1972 a 9,4 nel 1977. A
godersi i frutti di questo immane dispendio di denaro sono in larga parte le
società americane di armamenti. Nonostante questa ricchezza apparente,
l'Iran rimane un Paese estremamente povero, o meglio, un Paese di poveri.
L'agricoltura continua a essere penalizzata a scapito di un'urbanizzazione
selvaggia, i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri soffrono la fame e
la classe media progressivamente si proletarizza.

Quando Jimmy Carter arriva al potere nel gennaio del 1977 la sua agenda è
incentrata sulla difesa dei diritti umani, così chiede allo Scià di tenere a
freno la sua feroce polizia. Ma la richiesta viene rispettata per poco. Carter
non insiste e si converte nuovamente alla strategia dei due pilastri. Quando
si reca in visita a Teheran sono 45.000 gli americani che ci lavorano e che
danno l'impressione di controllare il Paese. Gli Stati Uniti dispongono
inoltre di postazioni di ascolto ultrasegrete nelle montagne dell'Elburz, da
dove seguono i test condotti dai sovietici sui loro missili intercontinentali. Il
programma della Cia, che si chiama Tacksman, permette a Washington di
essere pienamente al corrente delle attività di Mosca in questo settore. Sono
informazioni importantissime nel momento cruciale in cui vengono avviate
le trattative per la limitazione degli arsenali dei due giganti nucleari.
Per l'opposizione lo Scià diventa il «re americano» e per la prima volta fa la
sua comparsa il concetto di Westoxication,

«intossicazione da Occidente», ovvero l'inquinamento della cultura


tradizionale con quella occidentale. Nei suoi attacchi Khomeini associa
immediatamente gli Stati Uniti a Muhammad Reza, conferendo così una
dimensione di lotta anticolonialista alla battaglia che conduce per rovesciare
il sovrano.

L'appoggio americano a Saddam Hussein durante la guerra cominciata nel


1980 non fa che rafforzare la convinzione di Khomeini, ormai al potere, che
gli Stati Uniti di Ronald Reagan e di George Bush padre (all'epoca capo
della CIA) siano il nemico numero uno della Rivoluzione islamica. Reputa
lo scontro con il vicino arabo una guerra per procura con Washington. E
questa guerra, nella quale viene coinvolto anche Israele, si estende fino al
Libano, considerato la frontiera della lotta contro l'«entità sionista».

Con la sua morte, il 4 giugno 1989, Khomeini lascia dunque in eredità ai


successori l'intransigenza nei confronti del nemico americano. Per essere
legittimato, Khamenei, ben lontano dall'avere la statura religiosa richiesta
per diventare una Guida Suprema, è obbligato ad aderire completamente
alla linea politica tracciata dall'Imam, rifiutando un qualunque
compromesso con gli Stati Uniti. E quando Rafsanjani accenna un'apertura
in tal senso al suo arrivo alla presidenza della Repubblica nel 1989, deve
subito scontrarsi con gli ambienti più radicali.

Nel 1991 la guerra del Golfo dimostra tutta la potenza americana. L'esercito
di Saddam viene distrutto in 43 giorni, mentre gli iraniani si erano battuti
senza successo contro gli iracheni per otto lunghi anni. La strategia di
Teheran deve tenere conto di questa assoluta superiorità militare se non
vuole farne le spese. L'Iran sviluppa dunque attività sovversive per aiutare
movimenti di liberazione o gruppi che combattono Israele o regimi filo-
americani nella regione.

Ma fin da quegli anni il governo entra nella logica della dissuasione: ai suoi
occhi se un Paese vuole opporsi ai progetti americani deve anche essere in
grado di prevenire una loro possibile invasione, e il solo modo per farlo è
dotarsi di armi nucleari.
Bill Clinton, eletto nel 1992 e interessato a promuovere la pace in Medio
Oriente, decide di avviare la politica del

«doppio contenimento» nei confronti dell'Iraq e dell'Iran. L'idea di


Washington è di neutralizzare i due Paesi vista l'impossibilità di cambiare i
loro regimi. Gli europei, dal canto loro, si impegnano in quello che
chiamano il «dialogo critico» con gli iraniani.

II doppio contenimento si rivela subito a doppia velocità: accelerata per


l'Iraq, messo sotto tutela militare, economica e politica, ma assai rallentata
per l'Iran che diventa il terzo partner commerciale degli Stati Uniti nel
1995!

Tuttavia la guerra segreta continua: il 7 agosto 1991 in un sobborgo di


Parigi viene assassinato l'ex premier iraniano Shapur Bakhtiar; il 21
settembre 1992 nel ristorante curdo Mykonos di Berlino vengono uccisi
quattro oppositori del regime; il 18 luglio 1994 a Buenos Aires un attentato
dinamitardo distrugge la sede dell'Associazione di assistenza israelita in
Argentina, provocando 96 morti. Una volta di più l'Iran diventa per gli Stati
Uniti il più pericoloso fiancheggiatore del terrorismo internazionale.

Clinton sottoscrive allora una nuova formula di embargo che vieta alle
filiali straniere di concludere affari con l'Iran, e decide sostanzialmente
l'interruzione delle relazioni commerciali tra i due Paesi. I falchi del
Congresso, che nel frattempo è diventato a maggioranza repubblicana e
appoggia Israele, hanno vinto. Qualche tempo dopo, lo stesso Congresso
approva uno stanziamento speciale alla CIA per destabilizzare il regime di
Teheran: 18 milioni di dollari, una cifra poco rilevante ma indicativa della
determinazione di Washington.

La risposta dei mullah è una manovra da 20 milioni di dollari per


combattere il Grande Satana. L'attentato alle torri di Khobar, in Arabia
Saudita, nel giugno 1996 - attribuito da Washington inizialmente a Teheran
- porta la regione sull'orlo della guerra.

«Credo che sarebbe stato meglio rispondere con un'operazione militare di


vasta portata» mi aveva detto Pollack «ma non sarebbe stata una scelta
realistica. Le prove non erano sufficienti, i mezzi per una risposta militare
inadeguati e una controrisposta iraniana probabile. L'elezione di Khatami è
stata la migliore delle vendette per gli Stati Uniti.»

Eletto nel 1997 con un programma che ha mobilitato una larga maggioranza
di iraniani, Khatami promette il rispetto della legge, la fine della corruzione
e una maggiore apertura alle esigenze della società civile. Cerca di
riformare l'Iran e l'amministrazione Clinton, convinta della sua sincerità,
elabora una strategia per migliorare le relazioni logorate da anni di ostilità.

Khatami fa la prima mossa durante un'intervista alla Cnn, il 7 gennaio 1998,


quando invita al dialogo tra civiltà e, anche se ritiene che non sia ancora
arrivato il momento per un contatto politico diretto con gli Stati Uniti, si
dichiara favorevole a incontri sportivi e scambi culturali. Washington
risponde positivamente: poche settimane dopo si svolge a Teheran una gara
di lotta greco-romana e gli atleti americani vengono applauditi, il
Dipartimento di Stato include i Mujaheddin Khalq - il gruppo d'opposizione
che più preoccupa i mullah - nella lista delle organizzazioni terroristiche e
vengono stabilite eccezioni con gli europei sulla questione dell'embargo.
Nel giugno del 1998 la Albright lavora per migliorare le relazioni
diplomatiche e Clinton, in un discorso pronunciato il 12 aprile 1999,
riconosce che l'Iran è stato vittima di numerosi «affronti» da parte delle
nazioni occidentali. Viene decisa la revoca di alcune sanzioni economiche:
pistacchi e tappeti possono nuovamente essere importati negli Stati Uniti!

Ma in Iran Khatami deve scontrarsi con l'offensiva dei conservatori, che si


scatena con una serie di omicidi di dissidenti per i quali vengono sospettati i
servizi segreti controllati da Khamenei. Nel 1999 le manifestazioni degli
studenti a Teheran e in molte altre città iraniane vengono represse nel
sangue. Khatami inizialmente è incerto ma poi decide di non sostenere i
dimostranti, sicuramente per timore di una cruenta guerra civile. Per la
primavera iraniana è l'inizio della fine.

Washington non si perde d'animo e la Albright pronuncia il già citato


discorso del 17 marzo 2000, in cui riconosce il coinvolgimento americano
nel colpo di Stato del 1953. La risposta di Khamenei ha l'effetto di una
doccia fredda: «II problema è di sapere quale beneficio trarremo noi da
questa ammissione. L'ammissione di colpa per un crimine che è già stato
commesso, mentre molti altri se ne stanno consumando, non serve alla
nazione iraniana». La dura reazione si spiega con l'intervento della Albright
che aveva denunciato «quelle forze non elette che controllano l'esercito, la
giustizia, i tribunali e la polizia». Un sasso lanciato nello stagno della Guida
Suprema. Gli iraniani lo considerano un'ingerenza nei loro affari e non
esitano a utilizzarlo per chiudere la porta in faccia al presidente Clinton.
Come mi aveva detto Pollack, «l'Iran non era pronto a un riavvicinamento
con gli Stati Uniti».

Gennaio 2001: elezione di George W. Bush. Giugno 2001: rielezione di


Khatami. E poi Fll settembre gli attentati a New York e Washington. La
guerra in Afghanistan servirà da motore di riavvicinamento: gli Stati Uniti
hanno bisogno dell'Iran che ritiene di fare meglio i propri interessi aiutando
piuttosto che opponendosi agli americani. Ma l'incidente del Karine A, nel
gennaio 2002, cambia ancora una volta il quadro. L'intercettazione da parte
degli israeliani di quella nave carica di armi e le accuse di collusione tra
palestinesi, Hezbollah e Iran mettono nuovamente un freno alla ripresa dei
rapporti. Poco dopo Bush pronuncia il suo discorso contro l'Asse del Male.
Scoppia l'affare del nucleare: il 14

agosto 2002 i Mek annunciano che gli iraniani nascondono installazioni


segrete in due siti, a Natanz e Arak.

L'amministrazione Bush è divisa sul da farsi. I falchi parlano di azioni


sovversive o addirittura di un'operazione militare. Le colombe spingono per
il negoziato. Ma è la situazione sempre più disastrosa in Iraq a dettare
l'agenda della politica americana.

In realtà, le opzioni dell'amministrazione statunitense sono limitate, tutte le


sue energie militari e diplomatiche sono investite in Iraq e, come dice
Pollack, «ne rimangono ben poche per occuparsi di un problema come
l'Iran».

Ironia della sorte, oggi il pantano iracheno serve a rassicurare i mullah


quando solo venticinque anni fa la sfida più temibile al loro regime arrivava
proprio dall'antica Mesopotamia.
CAPITOLO 10

WELCOME TO KHORRAMSHAHR!

L'8 giugno partiamo per Khorramshahr, nel Sud-ovest del Paese, a ridosso
del confine iracheno sul Golfo Persico. Per gli iraniani è la capitale dei
martiri: fu la prima città a essere attaccata durante la guerra contro l'Iraq il
22 settembre 1980. Anche per questo rappresenta l'emblema della
vulnerabilità della Repubblica islamica, tanto più in tempi come questi in
cui il più potente esercito del mondo è accampato alle porte del Paese. Sin
dalla conquista islamica nel VII secolo, l'Iran ha sempre preso molto sul
serio le minacce che arrivavano dalla frontiera occidentale.

Khorramshahr è anche il simbolo della resistenza iraniana. I mesi di assedio


e di estenuanti combattimenti vengono ancora raccontati da chiunque come
un'epopea, come il momento della prova di coraggio e dell'estremo
sacrificio del popolo iraniano. Me ne sono resa subito conto al mio arrivo a
Teheran: grandi manifesti ritraggono un soldato sorridente che, con un
invito molto americano, Welcome to Khorramshahr!, sembra esortare i
turisti a seguirlo. Vuole essere una strizzata d'occhio ai marine dispiegati in
Iraq dall'aprile del 2003? Col passare degli anni, Khorramshahr ha assunto
una dimensione mitica, quasi fosse una nuova Karbala, la città santa
irachena: solo che stavolta dalla battaglia i

«giusti» sono usciti vincitori.

All'aeroporto di Mehrabad facciamo il check-in al banco della Iran Air nel


caos delle partenze serali. Taraneh si accorge che un passeggero ha
dimenticato un paio di occhiali da sole, li prende, si volta e chiama lo
sprovveduto viaggiatore. La sua distrazione si rivelerà determinante per il
successo della nostra spedizione. L'uomo è un tipo robusto, ben piantato,
con il naso sottile e gli occhi vivaci, i capelli brizzolati tagliati a spazzola.
Si chiama Sadeq e lavora per la società petrolifera iraniana, la National
Iranian Oil Company. Durante il nostro breve soggiorno nella regione
strategica del Khuzestan si rivelerà una guida impareggiabile.
«L'Iran è pieno di sorprese» mi hanno detto spesso i miei amici iraniani.
Hanno ragione. E a rendere il viaggio stimolante sono proprio gli incontri
fortuiti con personaggi che, senza saperlo, si rivelano essenziali per la
comprensione di un Paese. Sadeq sarà per noi una di queste sorprese.

Vive con la moglie e il figlio ad Abadan, vicino a Khorramshahr, un porto


situato all'estremità settentrionale del Golfo Persico, sullo Shatt al-Arab, il
ramo di acqua salmastra che separa l'Iran dall'Iraq. Durante i primi mesi di
guerra Abadan fu uno degli obiettivi principali di Saddam Hussein. Ne
distrusse le immense raffinerie, un tempo le più grandi del mondo, senza
però mai riuscire a sottometterla.

Sadeq parla un inglese perfetto e ci racconta di aver girato per i cinque


continenti a bordo delle petroliere iraniane. Oggi è capo pilota nel porto di
Bandar Khomeini, a un centinaio di chilometri da Abadan proseguendo
verso est lungo le rive del Golfo. Il suo lavoro consiste nel portare le navi
alle banchine di carico dove convergono gli oleodotti.

Ci imbarchiamo su un Tupolev 154 dall'aria un po' malandata. Prima di


salire devo farmi coraggio: troppo spesso ho sentito parlare dei problemi di
manutenzione e della difficile reperibilità dei pezzi di ricambio per la flotta
della compagnia di bandiera iraniana. Ma ormai è troppo tardi, non posso
più tornare indietro. Non mi resta che mettermi nelle mani di Allah, come
un altro passeggero che, ancora più nervoso di me, lo invoca già prima del
decollo suscitando l'ap provazione generale. Per il resto ci affidiamo alla
bravura del comandante.

Sono incastrata tra Jacques e Taraneh, al centro dell'aereo, anche se dopo


qualche istante il capo equipaggio ci invita su raccomandazione del nostro
nuovo amico a sederci più avanti, nella zona riservata ai vip. Benché sui
voli interni manchi la business class (fu abolita dalla Rivoluzione per
eliminare i segni di distinzione sociale), sembra che qualche privilegio
esista ancora. In verità, a parte il colore dei sedili, non noto alcuna
differenza. Ma essere passati dalla fila 15
alla 3 ci procura subito sguardi di invidia e maggiori attenzioni da parte
delle hostess che indossano un velo blu. E

distribuiscono gentilmente i vassoi con un sandwich e una bibita.

Improvvisamente fra gli applausi e l'entusiasmo generale il pilota annuncia


ai passeggeri che l'Iran ha battuto il Bahrein nell'ultima partita di
qualificazione al campionato del mondo di calcio.

Poco prima di atterrare l'aereo sorvola un corso d'acqua melmoso, l'Arvan


Roud mi dice Sadeq. È il nome iraniano dello Shatt al-Arab, il cui controllo
è stata una delle cause scatenanti della guerra. E qui che confluiscono il
Tigri e l'Eufrate.

La distanza tra le due rive è di appena qualche centinaio di metri. Mi chiedo


se il pilota non sia obbligato a rosicchiare un po' di spazio aereo iracheno
nella sua manovra di avvicinamento all'aeroporto. Poche decine di
chilometri più a ovest, la città irachena di Bassora: le statue giganti dei
soldati con le braccia tese verso l'Iran in segno di conquista sorvegliano
l'imboccatura dello Shatt al-Arab. Se queste figure di pietra potessero
parlare racconterebbero uno dei più grandi disastri dei tempi moderni. Un
sanguinoso massacro che, in otto anni, ha stremato due popoli vicini
aprendo la strada a venticinque anni di disgrazie nella regione. Niente della
storia recente dell'Iran può essere compreso senza tenere conto di questo
conflitto, vissuto da tutto il popolo persiano come un'aggressione di cui
l'Occidente è stato imperdonabile complice.

Dopo un'ora di volo quando il sole è già basso all'orizzonte atterriamo ad


Abadan. Poco prima il comandante ha preso il microfono per un ultimo
annuncio: temperatura al suolo, 43 gradi!

Ad accogliere Sadeq al suo arrivo, la moglie Sheidan, che molto


gentilmente si offre di accompagnarci in albergo.

Provo a rifiutare per non imporre la nostra presenza a questa coppia così
premurosa, ma dire di no a Sadeq è impossibile: ha deciso di mettersi a
nostra disposizione e nessuno potrà fargli cambiare idea. Saliamo a bordo
della sua Peugeot 405 nera e constatiamo con piacere che l'impianto
dell'aria condizionata funziona perfettamente. Uscendo dall'aereo siamo
stati investiti da un vento secco e rovente. Il pilota aveva ragione, sembra di
stare in un forno. «E

questo non è niente,» commenta Sadeq «l'estate non è ancora arrivata.»

L'albergo Azadi, che Taraneh ha scelto su consiglio di un'agenzia di viaggi


di Teheran, si trova sul ciglio della strada a una decina di minuti
dall'aeroporto. Nessuno però ci aveva detto che era in piena ristrutturazione.
La facciata dell'edificio di tre piani è nascosta da un'impalcatura e un
giovane alla reception ci avverte: gli operai lavorano di notte perché di
giorno fa troppo caldo. Ci consultiamo sul da farsi, Sadeq fa il nome di un
albergo poco lontano, il Caravansérail, ma ovviamente è pieno. Vado quindi
a vedere le stanze che ci sono state riservate e i miei peggiori timori
vengono confermati. Le stelle di cui l'Azadi si vanta sono solo un miraggio.
Ma le nostre pene non sono finite: l'impiegato, infatti, prima di autorizzarci
a condividere la stessa camera vuole una prova che Jacques e io siamo
sposati.

Per quanto mi affanni a spiegargli che se avessi voluto nascondere un amore


illecito avrei scelto un'altra città e sicuramente un altro albergo, lui non
vuole sentire ragioni. Gli mostro la fede con inciso il nome di Jacques, ma
non basta. Insiste per vedere un documento e invano cerco di convincerlo
che non è mia abitudine girare con lo stato di famiglia in tasca. Mi spiega
che nel caso in cui la polizia controllasse chi sono i suoi clienti non vuole
avere problemi.

Sto per perdere la pazienza quando fa la sua comparsa il provvidenziale


Sadeq che ci aveva promesso un giro di Abadan by night. Dopo un breve
conciliabolo risolve la questione. Ufficialmente Taraneh e io divideremo la
stessa stanza e Jacques dormirà da solo nella sua. Ufficiosamente, invece,
possiamo fare come vogliamo. Le apparenze sono salve e le regole, come
spesso accade in Iran, tranquillamente ignorate. Il trucco sta nel saper
contrattare.

Partiamo così per il nostro tour notturno della città di 400.000 abitanti col
cielo sempre illuminato dalle fiamme di sei torce arancioni. La sua storia è
strettamente legata al petrolio: dalla scoperta allo sfruttamento da parte
degli inglesi fino alla completa nazionalizzazione. E il suo destino dipende
anche dalla posizione strategica sul Golfo Persico, in una zona di attrito tra i
quattro grandi Stati della regione: Iran, Iraq, Kuwait e Arabia Saudita. Ma
questa sera l'oro nero e la geografia importano poco ai cittadini, che euforici
festeggiano per le strade la vittoria della nazionale di calcio. Abadan viene
soprannominata «il piccolo Brasile» proprio per lo sfrenato amore per il
pallone che la contraddistingue. La gente sembra in preda alla follia, come a
Napoli o a Roma quando la fortuna sorride alle loro squadre.

Per le strade buie centinaia di automobili compongono caroselli con le


bandiere attaccate ai parafanghi e suonando i clacson all'impazzata fanno lo
slalom tra i passanti che straripano dai marciapiedi. I tifosi più entusiasti
sono seduti sulle portiere. Rumorose carovane di motociclette invadono i
viali del bazar. Una folla di ragazzi e ragazze che passeggiano per il centro
prende d'assalto gelatai e venditori di succhi di frutta. Tutti i negozi sono
rimasti aperti nonostante l'ora tarda.

«Abadan vive di notte a causa del caldo» mi spiega Sadeq «ma anche per il
carattere dei suoi abitanti che sono meridionali, amano divertirsi e
sopportano con difficoltà gli obblighi imposti da Teheran.»

Costretti a obbedire alla consuetudine locale, ci registriamo al comando di


polizia dove capiamo subito con quale arte l'amministrazione tenta di
giustificare la propria esistenza.

Arrivati davanti a un edificio decrepito che assomiglia a una caserma, i tre


giovani soldati di guardia ci fanno entrare.

Dopo essere saliti per un'ampia scalinata costeggiata da muri consumati


dall'umidità, ci sediamo su alcune sedie sbilenche. È Sadeq, ovviamente, a
dirigere le operazioni. Bussa a una porta a vetri che lascia intravedere una
stanza dove un gruppo di uomini sta guardando la televisione. Vorrei
tapparmi il naso per l'odore malsano di urina, sudore e noia che ne
fuoriesce.
I nostri passaporti e le lettere di autorizzazione passano di mano in mano,
letti con maggiore o minore attenzione, con maggiore o minore sospetto. La
porta a vetri si chiude e si riapre diverse volte sullo sguardo di diffidenza
dei funzionari. Alla fine si presenta un uomo in camicia bianca coi capelli
arruffati.

«È il capo» mi sussurra Sadeq.

Zelante, legge tutti i documenti e scruta i nostri volti come per scovarvi il
minimo indizio di doppiezza. Jacques, che si vanta di conoscere i costumi
del luogo, lo saluta e si scusa per aver disturbato alle undici di sera un uomo
della sua levatura.

Non so se è stato il complimento, ma il burocrate si rilassa, ci sorride e ci da


il benvenuto ad Abadan, assicurandoci che è tutto a posto e che basta solo
fare qualche fotocopia. Immediatamente, quindi, ci accompagna in un
piccolo negozio dove, a nostre spese, si preoccupa di svolgere la necessaria
formalità. Ora siamo in regola: a noi, Abadan!

Prima di lasciare l'edificio però uno dei giovani di guardia vuole a tutti i
costi stringere la mano a Jacques. Gli fa scivolare in mano un biglietto da
visita. Pubblicizza una scuola di kick-boxing di cui è socio, con tanto di
indirizzo e-mail. La scena è surreale.

Ci fermiamo per la cena in un fast-food alla moda specializzato in pizze:


l'Hakim Sandwich. A dire il vero è soprattutto il ritrovo della gioventù alla
ricerca di divertimento nelle sere di festa. Tavoli tondi blu, pareti ricoperte
di ceramica gialla e azzurra, neon rosa. E tardi ma la città è tutt'altro che
addormentata. Il brulichio di giovani, a gruppi o a coppie, è continuo.
Potremmo trovarci in una qualsiasi parte del mondo.

Ordino una pizza che non è sul menu, la classica Margherita, ma i pizzaioli
non la conoscono. Appena apprendono che vengo dall'Italia mi chiedono la
ricetta che per mia fortuna è molto semplice: pomodoro e formaggio. Loro
eseguiranno fedelmente con l'aggiunta però di peperoni verdi. Pazienza.
Meglio delle pizze ricoperte di carne di agnello e strane verdure sott'aceto
che vedo sfilare davanti a me. Jacques, Taraneh e Sadeq intanto ordinano
hot dog locali che potrebbero sfamare una famiglia intera. Succhi di frutta e
Coca-Cola non possono mancare. Intorno a me, i foulard scivolano sulle
spalle, le mani si sfiorano, gli sguardi sono teneri; nessuno si bacia come in
Europa, ma ho l'impressione che non ci vorrà molto tempo. Prima di
andarcene mi lavo le mani in un lavandino che si trova accanto alla porta.
Posto insolito ma utile.

Fuori la festa continua in un'atmosfera che non accenna a raffreddarsi.


Passeggiamo senza una meta precisa trasportati dai rumori e dalle luci. I
marciapiedi sono polverosi, le case basse e le facciate spesso malandate. I
negozi si succedono uno dopo l'altro tra i più svariati: profumi, elettronica,
abbigliamento. Tutti i barbieri sono aperti; seduti su grandi poltrone di pelle
alcuni giovanotti si fanno tagliare la barba. Un ragazzino afferra Jacques per
un braccio, gli parla in farsi e gli tende un bicchiere. Ha gli occhi vitrei, ma
non è insolente. «Mi ha offerto dell'alcol» mi spiega Jacques.

Sadeq non è sorpreso e ci garantisce che ad Abadan si può rimediare di


tutto grazie ai contrabbandieri del Golfo, che si danno molto da fare per
soddisfare ogni più piccolo desiderio della loro clientela. «Qui la vera vita
inizia di notte»

commenta il nostro cicerone.

I muri della città sono coperti da manifesti, foto e slogan dei candidati alle
elezioni. «La gente di Abadan non andrà a votare» asserisce Sadeq. «Non
ha più fiducia nel governo di Teheran. Noi qui abbiamo tutto: il petrolio, un
porto, risorse agricole, eppure dalla fine della guerra non è cambiato niente.

L'acqua va e viene, l'elettricità spesso manca. Nessuno si fida più delle


istituzioni, bisogna che questa situazione cambi.»

Prima di salire in macchina un ragazzo tutto impomatato, fasciato dalla sua


maglietta attillata che sottolinea i bicipiti, mi chiede nel suo inglese stentato
da dove vengo.

«Sono italiana.»

«Le italiane sono molto belle.»


«Grazie.»

Ma dove sono finita?

Ci rimettiamo sulla via del ritorno, ma in macchina Sadeq non ci vuole


privare di un'ultima attrazione. Abbassa l'aletta parasole di Jacques, seduto
accanto a lui, e compare un piccolo schermo. Subito parte a tutto volume un
videoclip che fa letteralmente tremare l'auto.

«Cinquecento dollari» spiega Sadeq fiero dell'accessorio che ha appena


fatto installare.

Nel video un gruppo di ragazze super sexy ballano accompagnate da alcuni


ragazzotti col fisico da fotomodelli al ritmo di una musica trascinante. I
cantanti, due fratelli iraniani in esilio a Los Angeles, raccontano
ovviamente una storia d'amore. Sadeq ci spiega che quel genere di dischi va
molto di moda ma che per sfondare gli artisti devono comporre almeno un
brano inneggiante al glorioso passato di Abadan. Sarà vero?

Gli abitanti del Khuzestan difendono con ardore la fierezza di aver resistito
ai tentativi iracheni di sottometterli. La guerra è cominciata qui, all'alba del
22 settembre 1980. E qui che l'Iraq ha attaccato ed è qui che l'Iraq ha perso.

L'immagine eroica del combattente islamico è nata nella sabbia e nel fango
delle trincee di Khorramshahr e di Abadan, nella lotta impari tra un esercito
ben equipaggiato e un popolo pronto a morire sotto il sole rovente del
deserto. Non hanno nulla da imparare, né sulla devozione al loro Dio, né
sulla fedeltà al loro Paese. Ma oggi si ribellano all'ordine morale imposto
dai mullah che «invadono» la loro vita privata.

Durante la guerra Sadeq è stato ferito al braccio sinistro.

Una cicatrice che mostra orgoglioso senza ostentazione. Ricorda il giorno in


cui gli iracheni passarono all'offensiva.

Stava andando da Khorramshahr ad Abadan, distante sette chilometri. Dalla


strada vide i primi aerei bombardare la sua città.
«Cinque aerei nel giro di due minuti. Miravano alla raffineria.»

Sadeq si mise a correre per raggiungere la casa dello zio, ma i carri armati
iracheni avevano già travolto il posto di frontiera iraniano a nord di
Khorramshahr. Era cominciata l'offensiva terrestre.

Quando arrivò da suo zio gli disse che voleva arruolarsi, ma il suo
patriottismo venne accolto brutalmente a colpi di cinghia. Dovette aspettare
qualche mese per raggiungere l'età della leva e potersi quindi unire
all'esercito.

«A quell'epoca ero pronto a morire per il mio Paese e per l'Isiam» mi


racconta.

«Questa città è intrisa di sangue» si legge su un cartello alle porte di


Khorramshahr. Stretta tra lo Shatt al-Arab e il fiume Karun, porta indelebili
i segni del conflitto. Diciassette anni dopo il cessate il fuoco ancora molte
case cadono a pezzi. Man mano che ci si avvicina all'estuario, confine tra i
due Paesi, scheletri di ville un tempo lussuose testimoniano la violenza
della battaglia. «Appartengono a persone ricche che oggi vivono in
California e non hanno alcuna intenzione di tornare» ci spiega Sadeq.
Nemmeno lo Stato fa nulla per invogliare gli esiliati a ricostruire le loro
dimore.

Sadeq si ferma nel quartiere di Kuharia in pieno centro. Ricorda che i


combattimenti più feroci sono avvenuti lì, tra le belle case e i giardini
rigogliosi. «Questo era il posto più pericoloso di tutti.»

La divisione corazzata irachena, punta di diamante dell'attacco del 22


settembre, rimase invischiata per quaranta giorni in scontri porta a porta
prima di poter annunciare la caduta della parte settentrionale della città. Gli
iraniani fecero saltare un ponte sul Karun e costrinsero gli iracheni, alla
ricerca di un passaggio per poter avanzare verso Abadan, a risalire lungo il
corso del fiume.

Alcuni murales ripercorrono le gesta dei volontari che di-fesero la città. Un


monumento ai caduti campeggia nella piazza della Resistenza, all'inizio
della strada che porta a Sha-lamsheh, dove penetrarono gli iracheni. «Gli
iraniani hanno difeso la loro città con coraggio. I soldati sono caduti per la
loro patria islamica. Qui hanno distrutto sei carri armati e ucciso molti
nemici, facendo anche dei prigionieri. Questa città è libera grazie al sangue
dei combattenti iraniani. Khorramshahr è libera grazie alla nostra fede in
Dio.»

La mattina dopo il nostro arrivo decidiamo di fare un giro sul fiume Karun
a bordo di una piccola barca a motore guidata da un pescatore, Khalil, e da
suo figlio. Il caldo è sempre più insopportabile, mi secca la gola e le labbra,
ma una volta in moto la brezza da a tutti un po' di sollievo. Rottami
arrugginiti ingombrano le rive, le barche più recenti sono in secca per essere
revisionate o riparate, quelle in legno, utilizzate nei piccoli traffici lungo le
coste del Golfo, sono invece attraccate al pontile. Con la presa della parte
settentrionale di Khorramshahr e la traversata del Karun, gli iracheni
riuscirono a circondare Abadan. Ma tutti i tentativi di farla cadere si
rivelarono un fallimento.

L'assedio durò un anno. L'occupazione di Khorramshahr diciannove mesi.


L'esercito iraniano e i Pasdaran passarono alla controffensiva nel maggio
1982 quando riuscirono a cacciare gli avversari.

«Mi sono spesso chiesto perché gli iracheni non siano entrati ad Abadan.»
L'uomo che si pone il quesito è alto e robusto, e ha i capelli radi. Si chiama
Abdel Assan Banaderi. E un generale dei Pasdaran amico di Sadeq che si è
costruito una reputazione di coraggio e abnegazione durante la battaglia.

«Ho rivolto questa domanda addirittura a un generale iracheno che


avevamo catturato» continua «e lui mi ha risposto che la resistenza popolare
era stata talmente forte che i suoi uomini si erano demoralizzati. Ogni volta
che lo stato maggiore ordinava di attaccare, gli ufficiali sul campo
trovavano una scusa per non obbedire.»

Anche Sadeq ha partecipato. «Ricordo che ventitré anni fa avanzavamo a


piedi lungo questa ferrovia.» Fermi tra i binari che incrociano la strada di
Shalamsheh, la nostra guida rivive quei momenti intensi con il generale:
«All'epoca pensavo che se fossi morto per la mia patria in nome della fede
sarei andato direttamente in Paradiso. E volevo morire.
Ma ora la penso diversamente».

Banaderi spiega che in quel periodo il clero, per rafforzare il suo controllo
sul Paese, fu abile nello sfruttare il diffuso orgoglio nazionale. All'epoca
aveva ventun anni e per tutta la durata dell'assedio non lasciò mai Abadan.
In quella circostanza così drammatica addirittura si sposò e anche sua
moglie partecipò alla difesa della città.

Il giorno dell'attacco era al suo posto di comando e seguiva via radio


l'avanzata dell'esercito iracheno.

«A Shalamsheh c'erano solo una quindicina di Guardiani della Rivoluzione,


e appena 600 soldati a Khorramshahr. Non sono stati né l'esercito né i
Pasdaran a difendere la città, sono stati gli abitanti.»

«Come mai non eravate preparati?»

«Sapevamo che gli iracheni ci avrebbero attaccato. Avevamo visto arrivare


molto materiale bellico a Bassora. Sulla linea del fronte stavano costruendo
fortificazioni, ma eravamo talmente concentrati nella difesa della
Rivoluzione dai nemici interni che non siamo stati attenti a quello che stava
accadendo al confine. Non eravamo pronti per una guerra, bensì per una
battaglia contro il nostro esercito.» Già nel '79 Khomeini aveva creato i
Pasdaran come struttura militare parallela per difendersi da eventuali colpi
di Stato.

«Saddam aveva annunciato che avrebbe preso il Khuzestan in una


settimana. E in effetti avrebbe potuto farlo. L'esercito era disorganizzato, i
generali erano spariti o perché fuggiti con lo Scià o perché incarcerati dai
rivoluzionari, e gli iracheni conoscevano la zona. Eppure Saddam fallì
nell'impresa.»

Il generale condivide con molti iraniani la convinzione che quella guerra sia
stata voluta dagli Stati Uniti. Suggestione o realtà?
«Era chiaro che gli americani volevano una controrivoluzione. Avevano
iniziato ad aiutare i gruppi di opposizione e le minoranze etniche anti-
Khomeini. Poi quando capirono che non bastava utilizzarono l'Iraq per un
nuovo conflitto.» E

aggiunge: «Ho combattuto per l'intera durata della guerra. Se c'è stato un
momento di chiarezza morale nella mia vita, è stato quando ho difeso il mio
Paese. Non ho mai avuto paura di morire, al contrario. Molti miei amici
sono morti. Io non sono stato sufficientemente degno per l'estremo
sacrificio e chiedo a Dio di darmi la forza per essere all'altezza di chi è
caduto».

Tuttavia il generale non nasconde la sua amarezza. La chiarezza di cui parla


è svanita non solo in lui, ma anche nelle nuove generazioni.

«I tempi sono cambiati. Non abbiamo saputo trasmettere ai giovani


l'insegnamento della Rivoluzione. Parlo spesso ai ragazzi della guerra, loro
mi ascoltano con interesse. Non hanno dimenticato i nostri eroi, ma
vogliono che si parli di più del loro futuro. Il grande imam Ali ha detto: "I
giovani capiscono meglio dei genitori il loro tempo".»

Dopo la riconquista di Khorramshahr e di Abadan la guerra tra Iran e Iraq


durò ancora sei anni, nei quali Khomeini rifiutò di fermarsi convinto che
tutte le soluzioni fossero inique. Il conflitto gli permise di consolidare il
potere e di liberarsi sia dei nemici che degli alleati più deboli, come Bani
Sadr, costretto alla fuga nel luglio del 1981. Solo nell'estate del 1988
Teheran accettò la risoluzione 598 delle Nazioni Unite che pose fine alla
guerra. Nel frattempo i due belligeranti avevano bombardato le città, si
erano lanciati all'assalto delle petroliere nel Golfo, si erano scontrati in
combattimenti di trincea durante i quali, per respingere le ondate di soldati
iraniani, gli iracheni avrebbero fatto ricorso alle armi chimiche. Gli
occidentali, Stati Uniti in testa, appoggiarono in modo sempre più esplicito
il regime di Saddam.

Alla fine della guerra dispiegarono addirittura le loro navi nel Golfo
distruggendo i due terzi della marina iraniana. Uno dei loro incrociatori,
l'Uss Vincennes, abbatte un aereo dell'Iran Air con 290 persone a bordo. Un
deplorevole incidente, diranno poi.
Formalmente fu Baghdad a vincere, in sostanza entrambi i Paesi ne
uscirono devastati. L'Iraq si imbarcherà nell'invasione del Kuwait che
determinerà la sua definitiva caduta. L'Iran, dal canto suo, si concentrerà su
una caotica politica di ricostruzione e su una strategia dirigista di sviluppo
economico.

Oggi gli iraniani, dopo l'invasione americana dell'Iraq e le dichiarazioni


bellicose di Washington, si ritrovano ancora una volta minacciati sul
confine occidentale. La sensazione diffusa è che si stia completando un
processo di accerchiamento cominciato con l'operazione anti-talebani e
anti-al-Qaida in Afghanistan. Sono animati da sentimenti contrastanti: da
una parte serpeggia in molti il desiderio che la presenza statunitense nel
Paese vicino costringa finalmente il regime a riformarsi; dall'altra domina il
rifiuto di subire cambiamenti decisi a Washington. E se è vero che un
intervento militare statunitense non sembra più un'opzione praticabile, è
altrettanto evidente il rischio di una prolungata presenza americana in Iraq.
L'influenza storica, religiosa, culturale e sociale che Teheran esercita sulla
grande comunità sciita irachena è una realtà indiscutibile che entra in
conflitto con il ruolo più circoscritto che gli Stati Uniti vorrebbero
riservarle. Da una risoluzione negoziata di questa «concorrenza» dipende la
stabilità di Baghdad e di tutta la regione.

A metà maggio, pochi giorni prima del nostro arrivo in Iran, il ministro
degli Esteri iraniano, Kamal Kharrazi, si è recato a Baghdad. Era la prima
visita ufficiale di un alto rappresentante di Teheran in Iraq da diversi
decenni. A Najaf ha parlato con il leader spirituale degli sciiti iracheni, il
Grande Ayatollah Ali al-Sistani, per discutere del futuro dei due Paesi.
Incontrare al-Sistani è un onore che non è stato concesso a nessun
diplomatico americano. Nemmeno a Condoleezza Rice quando, pochi
giorni prima, aveva effettuato nella città una visita a sorpresa.

Il governo instaurato a Baghdad è formato anche da personalità che hanno


vissuto per molto tempo in esilio in Iran durante il regime di Saddam
Hussein. Molti di loro hanno fatto parte di organizzazioni dell'opposizione
irachena sostenute e finanziate dai servizi segreti della Repubblica islamica.
Washington lo sa e dovrebbe tenerne conto. Se dovesse crescere la tensione
tra iraniani e americani, la disputa si deciderebbe sul suolo iracheno, e le
guerre mesopotamiche sono sempre finite in tragedia.

All'ora di pranzo abbiamo finito la visita al Museo dei martiri di


Khorramshahr. Anche qui come a Teheran si possono vedere cimeli di
guerra e frammenti di vita dei soldati, tutti giovanissimi, che si sono
immolati al fronte: foto, lettere, abiti, armi, preghiere. Sadeq ci annuncia
con nostro grande piacere che siamo invitati a pranzo da lui, dove resteremo
fino al tardo pomeriggio: riusciremo così a salvarci dal solleone che ha fatto
salire la colonnina di mercurio a quasi 50

gradi.

Sheidan ha preparato riso e grossi gamberi alla griglia. E una pausa davvero
gradita, in una casa luminosa e fresca. Il televisore al piano terra riceve i
programmi di tutto il mondo grazie a due antenne paraboliche. Arrivati al
té, Sadeq ci propone di guardare un film in dvd. Una catastrofica allegoria
dell'attuale situazione iraniana. Si tratta di un'opera bandita dalle sale per
più di un anno prima che ottenesse il via libera dalla censura. Si intitola
Low altitude, «Bassa quota». Uno stravagante thriller-melodramma con un
tema dominante: la mancanza di speranza. Contrariamente al suo ben più
noto collega Abbas Kiarostami e al suo neorealismo drammatico, l'autore è
uno dei registi più provocatori nel ricco panorama cinematografico
iraniano. Ebrahim Hatamikia racconta una storia realmente accaduta: le
vicende di un operaio disoccupato e disperato, Ghassem. Accompagnato
dalla famiglia allargata, compresa la moglie incinta e un figlio
handicappato, decide di dirottare un aereo per essere portato in uno Stato
arabo confinante da cui spera di raggiungere l'America. Quando il
comandante gli spiega che i vicini arabi lo estraderanno, sgomento e furioso
partorisce un'altra idea: Israele. Dopo una serie di rocamboleschi tentativi di
atterraggio, alla fine l'aereo resta senza carburante e va a sprofondare nelle
acque del Golfo. L'azione è coinvolgente e gli attori molto bravi. Sadeq si
esibisce in una perfetta traduzione simultanea fermando il film ogni tanto
per fornirmi le chiavi di lettura più importanti: la madre dell'eroe che cerca
di difendere la sua famiglia a costo di uno scontro con i Pasdaran, i giovani
iraniani che vogliono andare negli Stati Uniti, i caratteri dei due Pasdaran,
uno falco ideologo e l'altro colomba pragmatica.
Emergono molti altri temi dell'Iran di oggi: la povertà e la disoccupazione
nel regno dell'oro nero, l'insufficiente sicurezza sociale, la crudeltà delle
punizioni nella Repubblica islamica. Uno dei membri della famiglia di
Ghassem racconterà di essere stato frustato 30 volte per aver bevuto
alcolici. Il film si chiude con l'immagine di una manina che riempie lo
schermo: è quella del secondo figlio di Ghassem nato poco prima che il
velivolo precipitasse. «Il messaggio di Hatamikia» mi spiega Sadeq «è che
il regime iraniano non riconosce i veri bisogni del suo popolo, soprattutto di
quelli più diseredati e più leali. A loro ha promesso per ventisei anni una
vita migliore.» Azzardo una considerazione meno pessimistica. Forse la
piccola mano del neonato alla fine del film è un segno di speranza.
«Significa che gli iraniani non si daranno mai per vinti.» Appunto.

CAPITOLO 11

LA MALEDIZIONE DELL'ORO NERO

Le torce che nella notte rischiarano Abadan con i loro aloni arancioni sono
il simbolo della rivincita di Sadeq e degli iraniani che furono costretti ad
«andare al fronte». La raffineria, distrutta dai ripetuti attacchi dell'aviazione
irachena, è stata ricostruita e nonostante abbia perso il titolo di più grande
del mondo è ancora la più importante del Paese. L'Iran è tornato a essere il
secondo produttore di petrolio dell'Opec, dopo l'Arabia Saudita. Le sue
riserve di greggio e gas naturale ne fanno uno degli attori principali nella
corsa all'energia dei prossimi decenni. Ma non basta: ripristinare gli
impianti di estrazione di Abadan, ridotti ad ammassi di rovine, è stato senza
dubbio più facile che trasformare un'economia già malata prima della
guerra in un sistema efficiente. L'oro nero che da oltre un secolo
rappresenta il fulcro della vita economica iraniana può finanziare una
dinamica di sviluppo oppure essere solo una rendita di posizione.

Passeggiando per Abadan, Sadeq mi mostra ciò che rimane della presenza
britannica: il cinema in mattoni a vista con la facciata Art Déco, le file di
cottage ben allineati con i prati e le siepi di arbusti, l'ospedale, la piscina, lo
yacht club.

Tutto apparteneva alla società britannica venuta a estrarre il petrolio


all'inizio del XX secolo.

Furono due avventurieri, George Reynolds e il suo finanziatore William


Knox d'Arcy, i primi a scommettere su questa risorsa. Ed ebbero ragione. Il
26 maggio 1908 il primo getto di greggio schizzò dal sottosuolo nella zona
occidentale del Paese, in un luogo chiamato Masjid-i Suleiman, a tre ore di
auto da Abadan. Nei decenni che seguirono il Khuzestan diventò presto
l'Eldorado iraniano.

D'Arcy era un inglese che aveva fatto fortuna con le miniere d'oro
australiane prima di interessarsi ai giacimenti di petrolio di cui i geologi
garantivano l'esistenza in Iran. Dalla dinastia dei Qajar, sempre pronti a
vendere tutto quello che il Paese possedeva, aveva ottenuto una concessione
di sessant'anni per esplorare il territorio. Era quasi in rovina quando
Reynolds, il suo ingegnere, gli comunicò la notizia che avrebbe cambiato il
destino suo, dell'Iran e del mondo intero. Il giacimento di Masjid-i
Suleiman si rivelò una scoperta importantissima, e nel 1913 venne costruito
un oleodotto di 215

chilometri che lo collegava ad Abadan. Nell'aprile 1909 era stata fondata a


Londra la Anglo-Persian Oil Company (Apoc) che diventò nel 1935 la
Anglo-Iranian Oil Company (Aioc).

Nel 1914, quando la marina britannica, sotto la spinta di Winston Churchill,


decise di sostituire il carbone con il petrolio per alimentare i motori della
sua flotta, venne definitivamente sancito il legame strategico tra potere e
oro nero.

L'idrocarburo cominciò a costituire un elemento imprescindibile per la


vittoria degli eserciti moderni e la nascita dei nuovi imperi. E in quest'epoca
che fu creata la British Petroleum, ed è grazie al greggio iraniano che le
navi di Sua Maestà vinsero la guerra dei mari contro la flotta del Kaiser,
dominarono incontrastate gli oceani e riuscirono a proteggere la rotta delle
Indie. Il petrolio costituì per decenni la base del dominio britannico, e oggi
fa dell'Iran una potenza che non si può ignorare.

Dopo che gli inglesi ebbero aperto la via in Medio Oriente, gli occidentali,
francesi e americani in testa, si precipitarono in quella breccia, scoprendo
nel 1927 i giacimenti in Iraq, nel 1932 nel Bahrein, nel 1935 in Arabia
Saudita e nel 1938

in Kuwait. I governi locali, che in cambio dello sfruttamento delle loro


ricchezze ricevevano solo simboliche royalty, avevano nel nuovo business
un ruolo assai marginale.

Le condizioni di lavoro nei giacimenti dell'Apoc/Aioc e alla raffineria di


Abadan ricordavano molto la schiavitù. Gli operai vivevano ammassati in
immensi hangar infestati dalle zanzare e trasformati in forni dal calore e
dall'umidità.

Alcuni diplomatici stranieri che lavoravano in Iran, in particolare quelli


americani, avevano denunciato ai loro governi questo vergognoso
sfruttamento. Con scarsi successi: le autorità britanniche si limitarono
cinicamente a replicare che le popolazioni locali erano abituate a soffrire.

Alla fine della Prima guerra mondiale, nonostante il petrolio, l'economia


iraniana versava in una situazione disa-strosa.

Il popolo attribuì le cause alla corruzione dei dirigenti e alla rapacità delle
potenze straniere. Da allora, uno degli obiettivi dell'Iran è stato quello di
recuperare la grandezza e l'indipendenza per riprendersi il controllo della
ricchezza petrolifera.

Fin dal 1921, con l'instaurazione del regime nazionalista di Reza Shah,
venne affrontata la questione di una ripartizione giusta dei profitti dell'oro
nero.

Si dovette però arrivare fino agli anni Cinquanta per assistere alla nascita di
accordi di suddivisione più equa, sotto la pressione di società come l'italiana
Eni di Enrico Mattei, o delle major americane che cercavano di estromettere
i britannici dalla loro riserva di caccia. In Iran le condizioni di sfruttamento
arrivarono a tal punto che ad Abadan, nel marzo del 1946, scoppiò una
rivolta con scioperi, manifestazioni, violenze e morti. Gli inglesi, che si
erano impegnati ad attenersi alle leggi del lavoro iraniane, in realtà non le
rispettarono mai. Con l'unico risultato di preparare il terreno all'uomo che
per anni avrebbe rappresentato il simbolo della lotta anticolonialista:
Muhammad Mossadegh. Difensore dei princìpi di giustizia e indipendenza
nel solco della tradizione sciita. E per questo destinato a essere silurato
dieci anni dopo.

Nel 1925, quando Reza Shah salì al trono, l'Iran (la cui superficie è cinque
volte quella dell'Italia) disponeva di 200

chilometri di ferrovie e di 1300 chilometri di strade. Su una popolazione di


10 milioni di abitanti, solo 56.000 bambini ricevevano un'istruzione.
Nell'agosto del 1941, quando il sovrano venne destituito per mano degli
inglesi, c'erano 25.000 chilometri di strade, svariate linee telefoniche,
stazioni ferroviarie e centrali elettriche. Il numero di automobili era passato
dalle 600 del 1925 alle 25.000 del 1942. L'industrializzazione si era
accompagnata alla creazione di un esercito all'avanguardia che contava, nel
1941, 18 divisioni e circa 130.000 soldati. Lo status delle donne era
cambiato e il numero di bambini che andavano a scuola era di sei volte
superiore.

Tuttavia questo programma di modernizzazione non teneva conto


dell'agricoltura, che era allora il settore trainante del Paese. Provocò un
esodo incontrollabile dalle campagne verso le città dando inizio alla
proletarizzazione di contadini e tribù nomadi. Le riforme di Reza Shah
scavavano un crescente divario tra una minoranza occidentalizzata, sempre
più ricca, e una maggioranza sempre più povera rimasta ancorata alle
tradizioni.

La riforma agraria, centrale nella «Rivoluzione bianca» del 1963 avviata dal
figlio Muhammad Reza per rinnovare l'Iran più arcaico, aggravò
ulteriormente la situazione. Le grandi famiglie vicine allo Scià non furono
però toccate da queste misure, proprio come le aziende agricole
industrializzate, i campi di té e le colture in serra. Nel 1970 un terzo dei
contadini era ancora senza terra e oltre tre quarti di quelli che ne avevano
possedevano appezzamenti troppo piccoli per garantirsi la sussistenza. Un
secondo esodo riempi le città ma, mentre in quel periodo la produzione
agricola aumentava a un ritmo del 2,5 per cento, i consumi salivano del 12.
Poi arrivò il boom petrolifero degli anni Settanta e lo Scià iniziò a spendere
senza moderazione. I soldi facili non venivano sempre ben investiti: oltre
alle spese militari, che superavano largamente i bisogni del Paese, il
monarca privilegiava l'importazione di beni di consumo piuttosto che lo
sviluppo dell'industria locale. L'inflazione aumentò, la disoccupazione
anche e con essa il malcontento. A Teheran nuovi edifici spuntarono come
funghi: la piccola città addormentata di 15.000 abitanti, scelta nel 1795
come capitale dai Qajar, ben presto divenne una metropoli di quattro
milioni di anime.

Nel 1988, alla fine della guerra contro l'Iraq, la Repubblica islamica era
fortemente indebolita ma non del tutto distrutta: circa 400.000 erano gli
iraniani uccisi, 750.000 i feriti, due milioni i senzatetto. La guerra,
combattuta in larga parte in territorio iraniano, toccò 16 delle 28 province
del Paese. Il settore petrolifero subì danni ingenti.

I profìtti del petrolio ormai ammontavano a soli nove miliardi di dollari,


quando le importazioni di prodotti alimentari arrivavano a tre. Il conflitto
era costato 450 miliardi. L'inflazione aveva raggiunto il 50 per cento, la
disoccupazione il 30, e la produzione agricola non era mai stata così scarsa.

«La "guerra imposta", come giustamente la chiamiamo, ha distrutto tutto,


siamo dovuti ripartire da zero» mi spiega Saed Laylaz, un uomo ancora
giovane dall'aria autorevole. Economista molto stimato, è anche direttore
generale dell'Iran Khodro Diesel, il maggior produttore di mezzi pesanti del
Paese. Mi riceve in un ufficio molto spartano. Tutti i dipendenti
dell'azienda, incluso il capo, indossano una giacca blu con il simbolo della
società stampato sopra.

Durante il conflitto, la crescita demografica annua aveva toccato i livelli


record del 4 per cento, e nel 1988 la popolazione aveva raggiunto i 50
milioni di abitanti. La militarizzazione della società, l'appello di Khomeini a
fare tanti figli e l'abbandono dei campi per andare al fronte avevano
ulteriormente accelerato l'urbanizzazione, tanto che un quinto della
popolazione iraniana si era concentrato nell'orbita della capitale.
L'esplosione demografica e la concentrazione della popolazione in poche
metropoli aggravarono i mali della società iraniana, creando una massa di
giovani disoccupati e un proletariato urbano che diventava sempre più
povero.

«II meccanismo innescato dalla Rivoluzione ha trasformato i contadini in


cittadini urbanizzati» sottolinea Saed «per poi convertirli in funzionari e
dipendenti statali.»

La smobilitazione, l'assunzione di tanti soldati nelle aziende pubbliche e il


mantenimento delle strutture paramilitari della Rivoluzione, come i
Pasdaran e i Basij, fecero del governo il principale datore di lavoro. Mentre
la popolazione raddoppia dopo la Rivoluzione - fino a raggiungere i 70
milioni nel 2005 - il numero degli impiegati statali quadruplica, arrivando a
sei milioni.

Anche la nazionalizzazione delle banche, delle assicurazioni e dei principali


settori industriali, associata alla confìsca dei beni e delle aziende
appartenenti ai sospetti «collaborazionisti» del vecchio regime, contribuì a
fare dello Stato la forza dominante nel settore economico. Uno degli
strumenti di controllo dell'economia sono ancora oggi le fondazioni.

Queste strutture chiamate bonyad divennero vere e proprie coperture per


fare e spendere soldi senza rendere conto a nessuno. Così la sola
Fondazione degli Spossessati controlla proprietà e attività per un valore di
oltre 12 miliardi di dollari e da lavoro a 400.000 persone. Creata nel marzo
1979 per gestire il patrimonio confiscato allo Scià, alla sua famiglia e a 50
tra i maggiori industriali iraniani, da allora regna su un impero composto da
alberghi, aziende agricole, migliaia di appartamenti, fabbriche, industrie. La
sua gestione è tutt'altro che trasparente, non paga tasse e opera come uno
Stato nello Stato.

Il settore pubblico è noto per la sua inefficienza tanto che nemmeno gli
analisti iraniani lo nascondono più. «La produttività in Iran è troppo bassa,
a conferma della cattiva gestione delle aziende statali» sostiene Saed. «Ma
le fondazioni hanno perso buona parte del loro potere. La loro influenza
diminuisce, così come la loro importanza nell'economia.» È un argomento
che nessuno ama trattare in Iran, come se le bonyad avessero poteri
straordinari. Quel che è certo è che sfuggono alla legge e che molti le
accusano di controllare segretamente una vera e propria economia parallela.
Questa si sta sviluppando a ritmi vertiginosi, grazie anche al contrabbando,
attività che coinvolge almeno 70

porti sul Golfo.

«Abbiamo grossi problemi, ma sono stati fatti molti progressi» si difende


Saed. «Abbiamo costruito milioni di abitazioni, strade, linee dell'alta
tensione. Produciamo milioni di tonnellate di cemento ed esportiamo
prodotti agricoli.»

Lo Stato, che ha dovuto affrontare prima il costo della guerra e poi quello
della ricostruzione, ha voluto farsi carico anche del prezzo della pace
sociale. E ha aumentato a dismisura le sovvenzioni per soddisfare le
aspettative delle classi più svantaggiate, secondo i dettami di una politica
populista e demagogica. Un sistema facile da instaurare in nome
dell'eguaglianza, più difficile da smantellare in nome delle forze del
mercato.

«La politica degli aiuti è un'idiozia» ammette il capo della Khodro Diesel.
«Le sovvenzioni potrebbero essere investite in progetti di sviluppo a lungo
termine e nella creazione di posti di lavoro nei settori nevralgici.»

Sulla carta l'Iran è un Paese ricco, con un Pii di 500 miliardi di dollari che
lo pone in testa a tutte le classifiche della regione. Il suo livello di crescita
medio varia tra il 5 e il 6 per cento annuo. La popolazione è molto giovane,
urbanizzata per il 65 per cento, e con un tasso di analfabetismo che è il più
basso dell'area. Ma ciò che più conta, l'Iran controlla dal 10 al 15 per cento
delle riserve mondiali di petrolio e ha annunciato nel luglio 2005 la
scoperta, vicino a Bushehr, sul Golfo, del secondo maggior giacimento del
pianeta. Per quanto riguarda le riserve di gas è secondo solo alla Russia. È

inoltre ricco di carbone, zolfo, fosfati e oro. Produce 1,3 milioni di barili di
greggio al giorno per il suo consumo interno e, secondo la quota fissata
dall'Opec, quotidianamente ne esporta circa 3,9 milioni. Tuttavia il reddito
prò capite è inferiore a quello che si registrava al momento della fuga dello
Scià, l'inflazione reale supera il 15 per cento e la disoccupazione riguarda
quasi il 20 per cento della popolazione attiva. Infine, secondo statistiche
sempre difficili da verificare, almeno il 40 per cento degli iraniani vivrebbe
sotto la soglia di povertà.

«Non abbiamo saputo risolvere il problema della disoccupazione: dobbiamo


creare un milione di posti di lavoro all'anno, e le giovani generazioni non
hanno grandi opportunità» riconosce Saed.

Con il suo linguaggio sobrio, il Fondo monetario internazionale ha suonato


il campanello d'allarme nel suo recente studio sul futuro dell'economia
iraniana. Neppure le risorse petrolifere possono più nascondere il suo
grande handicap: l'onnipresenza del settore pubblico e i disavanzi cronici
dello Stato che ne riducono la capacità di investimento in settori
determinanti. Il deficit di bilancio raggiunge picchi sia nelle statistiche
ufficiali, dove si attesta sul 12 per cento all'anno, sia nelle valutazioni più
pessimistiche degli esperti stranieri, che parlano del 17 per cento. Il debito
dello Stato nei confronti delle banche dal 1979 a oggi è aumentato di 170
volte! Ad aggravare la situazione c'è un'economia sommersa pari almeno al
20 per cento del Pii, che sfugge a qualunque verifica e quindi a qualunque
imposizione fiscale. Infine, più della metà dell'economia legale evita ogni
tipo di tassazione. Secondo stime attendibili, le entrate derivanti dalle
imposte equivalgono al 6 per cento del Pii, mentre il totale dei redditi non
petroliferi raggiunge solo il 9 per cento.

«Il solo modo per cambiare la situazione è liberalizzare l'economia»


afferma con decisione Saed. «I figli della Rivoluzione devono rinnegare il
padre.»

Il problema è che gli iraniani non sembrano voler tagliare il cordone


ombelicale con il petrolio.

Le entrate dello Stato dipendono per il 65 per cento dal greggio e sono
quindi molto sensibili alle fluttuazioni del mercato, sul quale Teheran non
ha praticamente alcuna influenza. Alla fine degli anni Novanta, per
esempio, la caduta del prezzo dell'oro nero ebbe effetti devastanti
sull'economia del Paese. Più recentemente la sua rivalutazione, con punte di
70 dollari al barile, ha salvato invece l'Iran dalla bancarotta.

Il settore del gas e del petrolio iraniano soffre di un altro handicap, che
consiste negli enormi investimenti necessari per mantenerlo operativo o per
valorizzare nuovi giacimenti.

Le sanzioni statunitensi - in particolare l'Iran-Libya Sanction Act (Usa)


firmato nel 1996 e rinnovato nel 2001 - puntano proprio a limitare l'accesso
di Teheran alle decine di miliardi di dollari necessari per l'ammodernamento
del settore. La situazione ha cominciato a migliorare a partire dalla seconda
metà degli anni Novanta, grazie ad accordi con società europee come Total
ed Eni, per lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale di South Pars,
considerati i più grandi al mondo. Nel 2004, inoltre, l'Iran ha sottoscritto
due importantissimi contratti di fornitura di gas per 70 miliardi di dollari
con la Cina e per 50 con l'India. Ovviamente le minacce di ritorsione da
parte degli americani non hanno finora impressionato i giganti europei e
asiatici, ma fino a quando sarà così? Pechino, New Delhi e Bruxelles sono
pronte a litigare con Washington per far piacere a Teheran? Nel settore
petrolifero il futuro del Paese dipende anche dalla normalizzazione dei
rapporti con gli Stati Uniti, a prescindere da ciò che pensano i più accaniti
oppositori del Grande Satana.

In Iran la campagna per le elezioni presidenziali è in pieno svolgimento e al


centro dei programmi dei candidati non mancano i temi economici. Tutti
annunciano riforme, l'aumento dei posti di lavoro, regali, aiuti diretti.
Alcuni promettono addirittura a ogni iraniano un sussidio prelevato dai
nuovi utili del petrolio incamerati dopo la guerra in Iraq. Mi tornano in
mente le affermazioni di Kenneth Pollack, che aveva riassunto
perfettamente la situazione.

«Nonostante le ricchezze naturali di cui dispone,» mi aveva spiegato a


Washington «dopo ventisei anni la Repubblica islamica ha generato un
sistema di cui beneficiano una ristretta élite di religiosi e una cerchia di
privilegiati, che sono solo di ostacolo al settore privato.»
Le famiglie che non riescono più a pagare l'affitto, i dipendenti dei ristoranti
che lavorano 15 ore al giorno per 200

dollari al mese, gli ingegneri che guidano i taxi per sbarcare il lunario, i
giovani diplomati che sognano di andare all'estero per costruirsi un futuro:
tutti sarebbero d'accordo con la lucida diagnosi di Pollack. Nessuno lo è
invece sui rimedi.

Ho la sensazione che in questi tempi incerti la voce dei duri e puri sappia
farsi sentire. Ahmad Tavakoli ci riceve nel Centro di ricerca del Parlamento
che fornisce ai deputati le informazioni necessarie per poter legiferare con
cognizione di causa. Ci sediamo intorno a un tavolo da riunione. Le pareti
sono tappezzate di libri. Tavakoli è un uomo tarchiato, il suo volto è
nascosto da una corona di barba bianca. Indossa un semplice giubbotto di
tela che sottolinea l'aspetto modesto -direi quasi ascetico - del personaggio.
Me lo ricordo durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2001
dove era l'oppositore di Khatami per il campo conservatore. Arrivò secondo
con quasi il 16 per cento dei consensi contro il 78,7 del presidente
riformatore uscente. Anche allora fu uno strenuo sostenitore della giustizia
sociale e di un'economia di redistribuzione dei profitti del petrolio secondo i
bisogni della gente. A suo giudizio l'idea della Repubblica islamica è buona
ma è la sua attuazione a essere sbagliata.

«Non crediamo in un'economia aperta come in Occidente. Non ci interessa


un modello neo-liberale che insiste sulla crescita senza preoccuparsi delle
differenze di classe e delle disuguaglianze.»

Anche se conosce molto bene l'inglese, mi parla in farsi e lascia che due
persone prendano appunti.

Tavakoli, benché consapevole della necessità di sradicare la corruzione, si


dimostra un accanito difensore del sistema di sovvenzioni che il Fondo
monetario internazionale chiede invece all'Iran di sopprimere. Gli esperti
del Fmi hanno calcolato che costa allo Stato 10 miliardi di dollari e che
investire questa somma nell'economia permetterebbe di creare i posti di
lavoro necessari per far crescere il potere d'acquisto.
«Non siamo d'accordo con l'Fmi, le sovvenzioni non possono scomparire in
un colpo solo. Si tratta innanzitutto di una decisione politica per evitare di
penalizzare le persone a basso reddito. Anche in Europa i governi
intervengono con aiuti di settore quando è necessario.»

Tavakoli illustra la sua idea per un'economia assistita prendendo a esempio


il prezzo della benzina, che in Iran costa meno di 10 centesimi di euro al
litro.

«Il nostro obiettivo non è quello di imporre una tassa sul prezzo del
carburante come avviene in Europa. Noi vogliamo arrivare a definire una
strategia per produrre e consumare in modo più razionale.» Secondo il
nostro interlocutore, l'esempio della Paykan è molto chiaro: un'auto che
consuma 16 litri ogni 100 chilometri non può essere giustificata, anche se è
una produzione nazionale: «Avrebbe dovuto essere fermata quattro anni fa».

«Bisogna dichiarare guerra alla corruzione perché mette un'ipoteca sulla


crescita, sull'efficienza, e per far questo bisogna cominciare scegliendo
ministri che abbiano l'appoggio del popolo e che siano dei professionisti.»

«Qual è l'eredità dell'imam Khomeini?» gli chiedo per finire.

«Il regalo più grande che ci ha fatto è la libertà, e il rispetto per le classi più
povere. Era dotato di una grande autorità e aveva un amore infinito per Dio
e per il suo popolo.»

«Che cosa resta della Rivoluzione?» lo incalzo.

«Io! Non mi appoggia nessuno, solo il suffragio dei cittadini. Attacco il mio
governo, persino davanti a una parlamentare straniera. Ho passato quattro
anni in prigione per aver criticato una legge dello Scià sulla famiglia. Oggi
conta il voto della gente, non la volontà dei potenti.»

«Rafsanjani viene dato per favorito. È una buona cosa?»

«Se Rafsanjani venisse eletto le cose andrebbero peggio, perché


perseguirebbe la politica sbagliata del passato. Si circonda di persone che
pensano solo ai propri interessi e che si occupano più di crescita economica
che di uguaglianza sociale. Il numero degli scontenti non farebbe che
aumentare.»

«Per chi voterà?»

«Guardo i candidati e ho due occhi: uno è interessato alla crescita e l'altro


alla giustizia.» Una risposta che rispecchia l'ambiguità di una società scissa
tra la voglia di progresso e il bisogno di sicurezza.

Due giorni dopo il nostro incontro, il primo turno delle elezioni rivela un
risultato che pochi avevano previsto.

Rafsanjani è in testa, è vero, ma ha solo un ridotto vantaggio su un uomo


che nessuno pensava potesse conquistare così tanti consensi: Mahmud
Ahmadinejad, sindaco di Teheran, conosciuto per il suo rigore e il suo
attaccamento ai princìpi della Rivoluzione. Ex capo dei Pasdaran, la sua
dottrina ricorda le parole di Tavakoli. Giustizia sociale, lotta alla
corruzione, assistenza ai più svantaggiati, redistribuzione delle ricchezze.
Per tutta la campagna elettorale ha insistito sulla sua vita semplice:
l'appartamento di due stanze che divide con la moglie e il figlio, la vecchia
Paykan che guida da oltre dieci anni, la devozione agli ideali dell'Imam nei
quali crede ancora. Rappresenta l'espressione del fallimento dei riformatori
i cui slogan per le libertà civili non hanno mobilitato l'elettorato più
preoccupato dei propri problemi economici.

Il suo duello con Rafsanjani si annuncia appassionante. Da un lato l'uomo


considerato come l'unico in grado di aprire l'Iran e di infondere fiducia negli
investitori stranieri. Una sorta di campione dell'Occidente col turbante, il
religioso abbastanza potente da sfidare i mullah più estremisti. Se vincesse
si profilerebbe uno scontro con la Guida Suprema.

Dall'altra il candidato dei poveri, dei diseredati, di coloro che aspettano da


un quarto di secolo che la Rivoluzione mantenga le sue promesse. Coloro
che ci hanno creduto e ci credono ancora e vogliono che qualcuno risponda
alla domanda: «Se l'Iran è così ricco, perché noi siamo così poveri?».
CAPITOLO 12
LA PERSIA PERDUTA

Servono cinque milioni di nodi per fare un buon tappeto» mi spiega Ali.
«Due anni di lavoro, otto ore al giorno senza fermarsi mai.»

Procediamo a tutta velocità sull'autostrada che da Teheran porta a Isfahan,


indimenticabile città che ospita tra i più splendidi e suggestivi modelli di
architettura islamica. Al volante della Citroen Xsara nera, Ali N.

Non lo sapevo ancora, ma Ali si sarebbe ben presto rivelato un vero amico.
Cortese, premuroso, disponibile, ci fa da mentore e guida durante il nostro
soggiorno in Iran. Ci aiuterà, ci consiglierà mettendo le sue conoscenze a
nostra disposizione. È lui che mi permetterà, a Shiraz, a Mashhad e nella
stessa Teheran, di avvicinare quella realtà iraniana che tanto volevo scoprire
e che spesso si nasconde dietro le idee preconfezionate. Eppure nessuno
avrebbe detto che le nostre strade si sarebbero incrociate.

Quando Marco Visconti aveva detto, una volta atterrati all'aeroporto di


Mehrabad, che mi avrebbe chiamata, pensavo che il giovane commerciante
italiano sarebbe stato decisamente troppo occupato per mantenere la sua
promessa. E

invece ci siamo organizzati per andare insieme a Isfahan, dove lui avrebbe
comprato dei tappeti accompagnato da Ali, suo factotum in Iran. E così
Marco, Taraneh, Jacques e io, un bel giorno ci siamo ritrovati tutti insieme
alle cinque del mattino sulla macchina di Ali. È un tipo non troppo alto, con
le spalle da lottatore, e in effetti lo è stato da adolescente.

Sulla quarantina, ha il volto squadrato e un'aria giovanile, i capelli neri non


troppo lunghi, occhi color antracite e un sorriso sempre pronto ad
accogliere ciò che gli riserva la sorte. Parla un italiano perfetto con uno
spiccato accento fiorentino. Ormai niente più mi stupisce in questo Paese.

«La cultura dei tappeti è vecchia quanto l'Iran.» Lo ascolto parlare mentre il
paesaggio sfila davanti ai nostri occhi.
Secondo la tradizione, il primo tappeto persiano è stato realizzato 2500 anni
fa. Ma fu nel VII secolo d.C. che quest'arte conobbe il suo momento di
gloria, conquistando tutte le corti reali della regione e giungendo addirittura
in Cina. Oggi, insieme alle riserve energetiche, al caviale e ai pistacchi,
costituisce un'importante risorsa per l'economia iraniana.

Ali proviene da un'antica famiglia di bazari, gli influenti commercianti


signori del bazar. Il padre gli ha recentemente passato le redini degli affari
del grande clan, di etnia azera. Quando ha scoperto che non siamo stati a
Tabriz, la loro storica e industriosa capitale, si è mostrato molto dispiaciuto.

Da generazioni la sua famiglia vende tappeti a commercianti di tutto il


mondo, come Marco. Sono migliaia i pezzi che ogni mese lasciano i
depositi di Ali diretti ai suoi clienti in Europa, negli Stati Uniti, in Medio
Oriente e anche in Australia e Nuova Zelanda. Non potevo trovare nessuno
più esperto di lui per muovere i primi passi in un universo che ha sempre
destato la mia curiosità.

Ci fermiamo in un ristorante nel villaggio di Delijan. Al tempo delle


carovane era una stazione di posta. Ali pensa che abbia preso il nome dalla
parola francese diligence per indicare le vetture trainate dai cavalli. Il
ristorante si chiama Saadat, il proprietario è famoso perché scrive poesie in
onore dei suoi ospiti. Mangiamo uova e una meravigliosa panna con il
miele.

«La Rivoluzione è stata uno scherzo» afferma Ali che è estremamente


severo nei confronti del regime islamico. «Oggi mille scià occupano il
posto che prima era di uno solo. I mullah formano un mondo a parte
all'interno della società. Ci hanno ingannato, ci hanno rovinato e portato alla
guerra.»

Nessuno dei suoi parenti voterà e nessuno ha mai votato nelle occasioni
precedenti. Rivendica un'indipendenza assoluta e ritiene che la casta
religiosa al governo sia in realtà una sorta di forza di occupazione, e non la
legittima espressione politica della maggioranza degli iraniani. Nessun
candidato incontra i favori di Ali, nemmeno quelli riformisti:
«Khatami è un traditore,» sostiene «il vero potere è sempre stato nelle mani
di Rafsanjani». Ma è altrettanto deciso sull'ipotesi che sia un esercito
straniero ad allontanare gli ayatollah da Teheran: «Se vedo un americano gli
apro la porta. Se però è un soldato lo uccido».

Ci rimettiamo in cammino.

Isfahan è considerata uno dei gioielli architettonici dell'Iran, un capolavoro


dell'antica Persia. Deve la sua bellezza allo scià Abbas I il Grande, re dei
Safavidi nel XVI secolo. Non abbiamo troppo tempo ma verso l'imbrunire
ci fermiamo comunque nell'immensa piazza intitolata all'imam Khomeini,
maestoso esempio di urbanistica safavide. I calessi ne percorrono il
perimetro e sulle panchine gli innamorati si tengono per mano. Sotto i
portici, alcuni chiusi da grandi tende bianche, decine di piccole botteghe
vendono souvenir e oggetti dell'artigianato locale. Quando entro a Masjed-e
Emam con la sua cupola turchese, una delle più belle dell'Isiam, la moschea
è vuota e silenziosa. È completamente ricoperta, all'interno come
all'esterno, dalle maioliche smaltate di arabeschi azzurri che sono diventate
uno dei simboli di Isfahan. A seconda dell'intensità della luce che le
illumina cambiano colore: a quest'ora del tramonto è un emozionante gioco
di riverberi dorati, turchesi e arancioni. Jacques e Taraneh mi aspettano
fuori per salire sulla terrazza del palazzo di Ali Ghapu, da dove un tempo i
re assistevano alle partite di polo. Costruito nel XVIII secolo, i suoi sei
piani dovevano servire come sede del governo. Comprende un enorme
padiglione dal quale i regnanti safavidi potevano controllare tutto ciò che
avveniva nella piazza sottostante. La vista è in effetti eccezionale.

Un po' più in là, ci sdraiamo per qualche istante sul prato dei giardini di
Chehel Sotun. Davanti a noi si staglia il palazzo

«delle quaranta colonne» destinato ai ricevimenti dei sovrani. Cullati dal


gorgoglio di una fontana, per poco non ci addormentiamo. Ma Marco e Ali
ci aspettano dall'altra parte del Si-o-Seh Poi, uno dei tanti vecchi ponti sul
fiume Zayandé costruito più di quattrocento anni fa, che custodisce sotto le
sue arcate stupende case da tè.
Il mercato dei tappeti di Isfahan sembra una via di mezzo tra un hangar
polveroso e la caverna di Ali Babà. Su più piani, nella penombra di corridoi
male illuminati, scale tortuose e minuscole botteghe, sotto i nostri occhi
sfileranno per ore centinaia di tappeti.

Avvertiti dell'arrivo del compratore italiano, i commercianti hanno


selezionato i pezzi più interessanti. Marco, che vaga da un negozio all'altro
guidato da Ali, li passa rapidamente in rassegna, soffermandosi solo quando
un colore o un motivo particolare attirano il suo sguardo. I tappeti scelti
vengono quindi affidati a un intermediario, che avrà il compito di
raccoglierli in un deposito dove alla fine della giornata Marco li esaminerà
ancora una volta prima di rimandare indietro quelli difettati o inadatti per il
non facile mercato italiano.

Le transazioni avvengono a voce, basandosi esclusivamente sulla fiducia e


sulla reputazione. «Conta solo la parola» mi dice Ali. Ancor prima che la
nostra piccola comitiva riparta, i tappeti che hanno superato la dura
selezione - una ventina

- prendono la strada di Teheran dove, una volta lavati, rasati e stesi al sole
per rendere i colori brillanti, saranno pronti per essere spediti in Italia.

Perdo quasi subito il filo nel tentativo di comprendere i dettagli delle


spiegazioni delle mie due guide: i colori, i motivi, il numero di nodi, le
origini - Kerman, Kashan, Na'in, Tabriz - e i villaggi o i clan di nomadi
famosi per la qualità dei loro prodotti.

«In tutte le regioni iraniane si fanno tappeti, e ovunque c'è buona e cattiva
qualità» mi spiega Ali «e, come per la moda, anche per i creatori di tappeti
ci sono le grandi firme. Ma non più di una cinquantina. La regola d'oro è
lasciar parlare il cuore: per comprare un tappeto bisogna amarlo. Solo dopo
ci si preoccupa dell'origine, dell'età e del prezzo.»

Ali ha da raccontare mille storie nelle quali questa antica e nobile arte
sembra appartenere a un altro mondo: le donne curde che tessono la lana in
un foro che si praticano in un'unghia, i bambini che scelgono i colori
seguendo le parole di una canzone cantata dalle madri.
Da Ahmed Mahmudian, nel cuore del bazar di Isfahan, Ali e Marco si
ritrovano seduti al centro di una montagna di tappeti. In ginocchio toccano,
valutano, accarezzano lana e seta. Io sto a guardare, ma all'improvviso mi
blocco davanti a un pezzo che sembra dimenticato in un angolo. E un
tappeto molto grande, dai bei colori oro, porpora e blu. Ahmed lo fa aprire e
appena lo vedo mi sembra fatto apposta per me. Anche Jacques è entusiasta.
Viene da Qom. Marco lo analizza e mi spiega subito che è un esemplare
magnifico: «Ha almeno una cinquantina d'anni, il disegno rappresenta il

"Gooi" tipico della città santa - una sorta di disegno cashmere - con 1
l'alternarsi di flora e fauna di rara bellezza ed è realizzato in seta e lana
kork, la più pregiata in assoluto, tinte a colori vegetali». Mi sembra perfetto
per il nostro appartamento di Roma. Ali ha ragione: un tappeto deve essere
scelto col cuore.

Una volta rientrati a Teheran, Ali mi fa visitare un deposito nella periferia


meridionale della capitale. Il complesso comprende diversi edifìci, nei quali
si effettuano la cernita, il lavaggio e la rasatura dei tappeti. Successivamente
vengono imballati e spediti in tutto il mondo. Alcuni richiedono un po' più
di attenzione, vengono stesi al sole in un grande spiazzo dove Ali mi
accompagna: camminiamo su decine di pezzi pregiati di tutti i colori, di
tutte le dimensioni e provenienze. Di quando in quando si ferma davanti a
un esemplare raro e me ne racconta la storia. «Sono come dei figli per me»
mi confida.

Con Ali siamo diventati amici. Una sera ci ha invitato nel suo appartamento
di Teheran. L'interno della casa gli assomiglia: originale, senza
ostentazione, con un'eleganza del cuore e dello spirito. Sua moglie è
deliziosa e giovanissima, l'ha sposata al suo rientro dall'Italia quando lei
aveva solo tredici anni. Tradizioni che faccio fatica a capire, ma non sono
qui per impartire lezioni a nessuno.

Ali mi racconta che d'ora in avanti sarà lui a occuparsi della gestione degli
affari di famiglia, anche se il parere del padre è ancora molto importante.
Uno dei capisaldi della società patriarcale in Iran, l'autorità paterna, è
incontestabile. Credo che avrei problemi ad accettare ciecamente questo
precetto nonostante io abbia molto amato e rispettato mio padre.
Ali non si stanca di condividere con noi la sua passione. Vede la loro
armonia là dove un occhio inesperto non noterebbe altro che un vecchio
tessuto. Vede l'originalità di un pezzo unico là dove a me sembra di
scorgere un disegno classico. Sa riconoscere il tappeto che non ha più vita
da quello che invece racchiude ancora l'energia della materia e del talento.
Sa valutare senza esitazioni il lavoro minuzioso di quegli artisti sconosciuti
che tessono capolavori per un compenso irrisorio. Dietro tutta questa
bellezza, questa poesia di colori e creazioni, c'è infatti una produzione
terribilmente obsoleta. Arcaica. Ingiusta. Donne e bambini che lavorano per
un salario da fame. Condizioni di scambio totalmente sfavorevoli per i
produttori, condannati a una sorta di moderna schiavitù. «La domanda che
dobbiamo farci è se il mercato è disposto a pagare di più» spiega Ali. «In
Europa siete pronti a sborsare cifre notevoli per un divano o una poltrona,
eppure si tratta di un mobile prodotto in serie. Invece storcete il naso se si
tratta di spendere un po' di più per un tappeto fatto a mano, che anche
nuovo è un pezzo unico.» Ma la domanda straziante è: quest'arte vecchia di
venticinque secoli può sopravvivere solo nell'ingiustizia?

Basta poco per fare un salto nel tempo di oltre 2500 anni. Basta inerpicarsi
per 111 scalini sotto il sole cocente. Basta la voce di Feridun che parla di
Ciro, di Dario e di Serse. Basta l'anfiteatro di montagne nel quale troneggia
Persepoli, grandioso ricordo di una delle più grandi civiltà della storia. Ed
eccomi in marcia accanto ai dignitari venuti dai quattro angoli della Persia
per celebrare l'antico Anno Nuovo, il Noruz, con il Re dei Re.

Bisogna venire qui per capire lo spirito dell'Iran, la sua nostalgia di


grandezza, la sua sete di considerazione e rispetto.

«Dario fece costruire questa scala con gradini bassi, in modo che i suoi
ospiti non arrivassero in cima senza fiato. Sono alti dieci centimetri,
l'altezza giusta» ci spiega Feridun, il ragazzo che accompagna me e Jacques
e ci racconta in un inglese un po' scolastico la magia di Persepoli.
Ho sempre desiderato visitare questo luogo mitico, e non per una mia
particolare attrazione per le rovine. Vivo a Roma, dove ogni sguardo
abbraccia secoli di storia, dove nel giro di pochi metri si passa dagli antichi
fasti di Cesare e Augusto al Rinascimento di Michelangelo o al Barocco del
Bernini. Roma vive di splendori ma è anche una città che segue l'evoluzione
del mondo: nel bene e nel male asseconda l'avanzare del tempo. Persepoli
invece si è fermata: immobile, nella solitudine dello spietato deserto nel
quale fu eretta, lontana dagli uomini e dalla storia. La sua bellezza
incomparabile è impressa sulle pareti del monte Rahmat a rappresentare
immutabile la forza del passato.

Sono venuta qui perché Persepoli — il cui nome originario è Parsa -


sopravvive nella memoria collettiva degli iraniani più come un sogno
impossibile di potenza che come una sfida da ereditare.

La via di accesso a Persepoli è degna della sua gloria passata. Una grande
distesa accompagna lo sguardo fino a un basamento sul quale si innalzano
le rovine della città maestosa. Con Jacques salgo i 111 gradini per arrivare
all'immensa spianata dove troneggiano i fusti delle colonne e i portici,
ormai crollati, di quella che fu la capitale di rappresentanza degli imperatori
achemenidi. La loro dinastia venne fondata nel 559 a.C, ma la costruzione
di Persepoli iniziò solo quarant'anni più tardi durante il regno di Dario il
Grande. Il sito è stato arricchito dai successori per centocinquant'anni,
prima di essere distrutto da Alessandro Magno nel 330 a.C.

«Alessandro diede la città alle fiamme. Nessuno sa se lo fece


intenzionalmente o se fu un incidente» spiega Feridun, che ripete
coscienziosamente quanto riportano tutte le guide turistiche sull'Iran. «Le
colonne e i muri sono crollati perché i giunti erano di piombo.» Così
finiscono gli imperi.

A strapiombo sulle antiche vestigia, ci guardano le tombe incastonate nella


roccia dei re Artaserse II e ArtaserseIII.

L'impero si estendeva dall'India al Mediterraneo, dall'Africa alla Siberia.


Ventotto popoli vivevano sotto l'autorità dei potenti persiani» continua
Feridun. All'epoca la piana sulla quale venne costruito il palazzo era
ricoperta di alberi da frutto, cipressi e cedri del Libano.
«Gli imperatori avevano costruito una strada lunga duemila chilometri che
andava dall'Asia centrale alla Mesopotamia.

A ogni tappa si potevano sostituire i cavalli stremati con altri più freschi per
proseguire il viaggio. Fu il primo servizio di corrieri al mondo» continua la
nostra guida.

Quando i dignitari arrivati dai confini del regno giungevano in cima ai 111
gradini, venivano accolti dal suono di lunghe trombe di bronzo di cui sono
stati ritrovati i resti quando negli anni Trenta venne dato nuovo impulso agli
scavi del sito archeologico. Venivano quindi condotti attraverso la «Porta di
tutte le nazioni» sulla quale Serse, che la fece costruire, ha lasciato la sua
testimonianza: «Sono Serse, il Grande Re. Il Re dei Re. Il Re di tutte le
terre. Il Re di tanti popoli.

Sono figlio del re Dario, l'Achemenide. Abbiamo edificato molte grandi


opere in Persia. Con la grazia del dio Ahura Mazda, ho costruito questo
tempio».

La Porta è incorniciata da due figure mitologiche. «Osservatele bene,» ci


suggerisce Feridun «guardate i tori che stanno di guardia: la testa di uomo
rappresenta l'intelligenza, le ali di uccello la libertà, il corpo di bufalo
l'abbondanza e le zampe di leone la forza. Insieme simboleggiano le quattro
virtù dell'impero.»

Anche le potenze straniere, vicine o lontane, che hanno sempre dimostrato


grande interesse per la Persia prima e per l'Iran poi, hanno lasciato le loro
tracce su questi muri. Il tenente colonnello Malcolm J. Meade, console
generale di Sua Maestà britannica, vi fece incidere il proprio nome nel
1898; il luogotenente Texier, R. de la Labourdonnaye e Ph. De Lagui-che,
tre ufficiali francesi, vi avevano lasciato i loro nel 1840; proprio come il
marchese tedesco Friedrich Werner von der Schulenburg, che fu
ambasciatore a Teheran dal 1923 al 1931. Sulla pietra ocra anche un
giornalista ha inciso il suo nome: Stanley «New York Herald» 1870.
Immagino quello che deve aver provato arrivando qui: l'ebbrezza unica del
piacere della scoperta, prima che la televisione facesse entrare tutti i segreti
del mondo nelle nostre case.
Seguiamo Feridun lungo il percorso che ci conduce a quello che fu
l'Apadana, il palazzo delle udienze, anch'esso voluto da Serse. Bassorilievi
perfettamente conservati adornano una doppia scala. Mi perdo tra le varie
antiche delegazioni che rendono omaggio al Re dei Re: i notabili persiani
indossano lunghi abiti, i medi invece sono vestiti con toghe più corte.

La Guardia imperiale ci accompagna mentre i soldati fanno ala al passaggio


dei visitatori. Tra le diverse etnie venute a rendere omaggio ci sono arabi,
etiopi, indiani e parti.

«Tutti potevano praticare la loro religione e non esisteva la schiavitù. Gli


uomini e le donne avevano gli stessi diritti.»

Ascolto appena la litania di Feridun, che seguita con il racconto idealizzato


della magnificenza dell'antica Persia. «Gli operai ricevevano un salario ed
erano assicurati.»

Che sia mito o realtà, gli iraniani conservano del loro impero defunto la
visione di un paradiso perduto.

A enfatizzare ulteriormente questa immagine sono giunte anche le


conclusioni di alcuni storici, che attribuiscono la rapida espansione della
supremazia achemenide a due virtù: la tolleranza e l'equità. Ciro il Grande
viene citato nella Bibbia per aver liberato i giudei di Babilonia, mentre
Platone vide in Dario un re giusto. I sudditi dell'epoca credevano che il loro
sovrano potesse rimanere tale solo se era integerrimo e saggio. Questo
rapporto di sottomissione volontaria, ma condizionata e reversibile, a una
guida illuminata riapparirà più tardi nel cuore dello sciismo, la branca
dell'Islam scelta dai persiani come religione di Stato nel XVI secolo.

La nostalgia di un monarca incorruttibile è ancora più viva a Persepoli,


dove nel 1971 lo Scià decise di organizzare le sontuose celebrazioni dei
2500 anni di vita della monar-chia. Vicino al parcheggio dove abbiamo
lasciato la macchina ci sono ancora le strutture di legno che sorreggevano le
tende in cui vennero accolte le delegazioni provenienti dal mondo intero.
Tredici presidenti, dieci sceicchi, nove re, cinque principi, due sultani e una
serie infinita di personalità minori. A parte il caviale iraniano, il resto del
menu era arrivato con voli speciali direttamente dalle cucine parigine di
Chez Maxim. Lanvin aveva contribuito fornendo le uniformi dei capi
camerieri e Baccarat offrendo le stoviglie.

Secondo indiscrezioni, quelle stravaganze reali erano costate dai 50 ai 200


milioni di dollari, ma si rivelarono ugualmente un disastro sia politico che
mediatico. Lo Scià venne accusato dalla stampa internazionale di dilapidare
il denaro pubblico. «La monarchia è una delle manifestazioni reazionarie
più vergognose e perverse» aveva tuonato anche Khomeini dal suo esilio
iracheno scagliandosi contro quello spreco assolutamente poco islamico.

Dopo la Rivoluzione, Persepoli ha conosciuto un periodo di oblio. Era


infatti considerato poco opportuno resuscitare il passato di glorie imperiali
che l'Islam militante aveva appena spazzato via.

Durante la guerra contro l'Iraq invece l'orgoglio nazionale, che affonda le


sue radici nelle immagini dei fasti persiani, era stato utilizzato per mandare
gli iraniani a combattere nelle trincee. Ma senza tributare grandi onori: il
loro sacrificio valeva solo se consumato in nome di Dio, non certo della
Persia. Si è dovuto aspettare la fine del conflitto perché un governante della
Repubblica islamica si recasse per la prima volta in visita a Persepoli. Si
trattava di Ali Khamenei, allora presidente della Repubblica islamica. E fu
solo nel 1991 che Rafsanjani decise che era giunto il momento di
riconciliare l'immagine ufficiale dell'Iran con lo spirito della Persia. Aveva
affermato: «II nostro popolo deve sapere che non è senza storia».

Dopo la sconfitta inferta da Alessandro, il regno persiano venne smembrato.


Solo con i Sasanidi, che regnarono dall'inizio del III secolo d.C. fino alla
conquista araba, ricompare un impero persiano. Fu per oltre quattro secoli il
contraltare dell'impero romano e, dopo la scissione, di quello di Bisanzio.
Ma per quattrocento anni le guerre con le potenze straniere e le lotte
intestine lo consumarono. Così, quando nel 633 cominciarono i primi
attacchi degli arabi, la Persia si ritrovò notevolmente indebolita.

Nel 637 la battaglia di Qadisiya - durante la quale venne conquistata


Ctesifonte, allora capitale della Mesopotamia e dei Sasanidi — segnò il
momento cruciale dell'ingresso dell'Isiam nella storia della nazione
persiana. Cinque anni più tardi, nello scontro di Nahavand, l'esercito
islamico avrebbe definitivamente sconfitto quello sasanide.
L'Isiam prese progressivamente il posto dello zoroastrismo, la religione
predicata da Zarathustra, o Zoroastro. Il profeta, che visse tra il 1000 e il
600 a.C, sostenne l'esistenza di un dio buono, Ahura Mazda, e di un dio
cattivo, Ahriman. Ma soprattutto credeva nella libertà di scelta di fronte a
questa fondamentale alternativa. Si trattava di una rivoluzione metafisica
sostanziale se paragonata ai politeismi che lasciavano poco spazio
all'arbitrio degli uomini, totalmente dominati dall'influenza delle divinità.

L'avvento dell'Islam introdusse in Persia l'uso dell'arabo nella religione. Il


Corano è un libro che si studia e si recita in originale. Questa associazione
tra lingua e fede è all'origine di una tensione che dura ancora oggi: gli
iraniani non sopportano di essere considerati un popolo arabo. Non
accettano nemmeno di essere paragonati agli altri Paesi della regione. Per
loro gli Stati arabi sono nati da spartizioni coloniali che non hanno tenuto
conto della storia e delle identità esistenti. Al contrario, considerano la loro
nazione nelle sue attuali frontiere la degna discendente di Parsa, il cuore
dell'impero ancora celebrato nella bellezza di Persepoli.

Nel 1501 la tribù indigena dei Safavidi conquistò Tabriz e ne fece la propria
capitale. I Safavidi sono sciiti e il primo scià della dinastia, Ismail, fece
dello sciismo la religione ufficiale del regno. Intendeva cosi sfidare il
sultano turco Selim, con il quale era in guerra, che era uno strenuo difensore
dell'ortodossia sunnita. La dinastia dei Safavidi diede vita a quello che
viene definito il terzo grande impero della storia persiana. Venne rovesciata
nel 1722 da un'invasione afghana.

Nel 1796 arrivarono al potere i Qajar, che vi sarebbero rimasti fino al 1925.
Durante il loro regno la Persia diventa un terreno di spartizione tra
l'Inghilterra e la Russia. La storia del Paese nel XIX secolo è segnata dalla
concorrenza di Londra, che intende mantenere la propria influenza sul
Golfo e sulla via terrestre verso l'India, e Mosca, potente vicino che cerca
invece di affermare il proprio controllo sulla parte settentrionale del
territorio. Questo antagonismo ha permesso paradossalmente alla Persia di
conservare una formale indipendenza: nessuno dei due contendenti infatti
poteva imporre un vero protettorato senza rischiare una reazione del rivale.

Fin da quest'epoca la presenza degli stranieri ha rappresentato un motivo di


attriti e violenze. La sottomissione dei Qajar alla volontà dei russi e degli
inglesi creò condizioni economiche sfavorevoli, in particolare nel settore
agricolo, ancora molto arcaico e non in grado di competere con i prodotti
d'importazione. Questo squilibrio è ben illustrato dall'esorbitante
concessione ottenuta nel 1872 dal barone di Sua Maestà Julius Reuter che,
passando dal controllo delle ferrovie a quello del petrolio, si aggiudicò
diritti esclusivi su interi settori dell'economia iraniana. Questo accordo fu
annullato in seguito alla decisa opposizione dei russi.

Il servilismo dei Qajar aprì la strada all'alleanza tra gli ulema e gli ambienti
laici riformisti che sin dalla fine del XIX

secolo si opponevano al regime.

Nel 1891 la rivolta del tabacco - una sorta di simbolo nazionale - segnò una
vera svolta politica. Lo Scià aveva concesso l'autorizzazione per il suo
sfruttamento a un inglese, condannando alla rovina un settore di elevato
valore economico e affettivo. Il Paese venne scosso da manifestazioni
organizzate dagli ulema, appoggiate anche dai commercianti e dai
coltivatori di tabacco, fino a quando nel 1892 il regime decise di revocare la
concessione. Si trattò del primo movimento popolare quasi insurrezionale
contro l'ingerenza straniera, che vide anche la partecipazione attiva delle
donne nel boicottaggio della vendita e del consumo del tabacco.

In seguito l'influenza della Russia aumentò considerevolmente, e nuove


svantaggiose condizioni negli scambi commerciali spinsero i persiani alla
ribellione, che culminò nella rivoluzione costituzionale del dicembre 1905.

Il primo Parlamento (il Majlis) viene eletto nell'agosto 1906 e la prima carta
fondamentale, che vede la luce nell'ottobre 1907, istituisce una monarchia
costituzionale. Tuttavia, sotto la pressione dei russi e con l'approvazione
degli inglesi, il Majlis venne sciolto nel 1911 mettendo così fine a quella
breve esperienza.

Dopo la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione d'Ottobre, i britannici


rafforzarono il loro controllo sul Paese. Gli unici a entrare in competizione
con loro furono gli americani. È allora che Reza Khan appare sulla scena.
Nel 1921 con un colpo di Stato diventò ministro della Difesa, poi nel 1923
primo ministro e infine, nel 1925, assunse il titolo di Scià dando inizio alla
dinastia dei Pahlavi.

Il nostro breve viaggio nel tempo tra le rovine di Persepoli si conclude


nell'ora più suggestiva, al tramonto, quando il vento meno rovente e la luce
più morbida ci avvolgono per l'ultima volta in questo imponente complesso
di palazzi che emergono dal passato. Ci dirigiamo verso Shiraz che dista
circa mezz'ora di macchina e sorge rigogliosa ai piedi di una montagna a
un'altitudine di oltre 1400 metri. Abbiamo prenotato una stanza all'hotel
Homa che appartiene a una catena alberghiera diffusa in tutto il Paese. Dalla
nostra stanza osservo l'amalgama di colori che trasforma la finestra aperta
in un grande quadro armonioso: il blu del cielo, il verde degli alberi e l'ocra
della vetta che si staglia all'orizzonte. Nel giardino noto con invidia un
gruppo di uomini che sta facendo il bagno in piscina, attività ovviamente
proibita alle donne, non autorizzate a mostrarsi in costume in pubblico.

Shiraz è sempre stata sinonimo di poesia, di allegria e di buon vino. Tra


tutte le città iraniane viene considerata la più »

spensierata e quella in cui si vive meglio. Potrebbe facilmente , diventare


una meta capace di attirare gli stranieri, ma l'Iran, pur essendo un Paese di
straordinarie ricchezze, rimane restio ad aprirsi. Ora però il governo
sostiene di avere un piano per lanciare l'industria turistica e per raddoppiare
in vent'anni il numero dei visitatori. Il progetto prevede una drastica
riduzione dei mille ostacoli burocratici e una vera campagna di promozione
del territorio. Sarà fondamentale costruire nuove infrastrutture alberghiere,
ora decisamente scarse: nel 1978 c'erano 200 alberghi di buon livello, oggi
ne restano solo 60. Personalmente, consiglierei anche di offrire
un'immagine meno arcigna del Paese: l'intransigenza morale e il rigore dei
costumi fanno scappare i turisti.

Shiraz non è mai stata associata alla potenza politica o religiosa, anche se fu
uno dei più importanti centri del mondo medievale islamico e divenne a
metà del Settecento capitale della dinastia Zand, che regnò sulla Persia per
un trentennio prima dell'arrivo dei Qajar. La città si dispiega lungo grandi
viali alberati. Fa caldo e si avverte nitida la presenza del deserto che inizia
proprio a sud dell'insediamento urbano. All'ingresso, affacciato sulla Porta
del Corano, sorge un enorme edificio che sembra il frutto
dell'immaginazione di un megalomane: un imponente blocco di cemento
abbarbicato sul fianco della montagna, un gigantesco triangolo capovolto
che sembra pericolosamente in equilibrio sopra le case. È un nuovo albergo,
il Bozorg, rimasto incompiuto. Anche un altro edificio, più discreto, domina
Shiraz: la casa di Rafsanjani.

Gli Zand hanno lasciato in eredità un grande parco diventato oggi un


giardino botanico, dove trascorro qualche momento di relax con Jacques. E
il Bagh-e Eram, il Giardino del Paradiso che forma una macchia di frescura
nel cuore della città. Al centro si trova un incantevole palazzo Qajar del
XIX secolo che purtroppo è chiuso al pubblico. Lungo i viali ombrosi e
profumati, coppie di adolescenti immergono i piedi nei ruscelli tenendosi
per mano e sussurrandosi parole d'amore. Prima di partire per Shiraz avevo
promesso a una donna molto speciale di venire qui, in questo giardino.

Moliti Bibi Qashqai da bambina ci passava l'estate. Suo padre era il Khan, il
capo dei Qashqai, un tempo una delle più potenti e ricche tribù del Paese. Il
fratello è stato l'ultimo Khan di questa etnia di nomadi di origine turca che
esiste da almeno seicento anni ma che si è andata sempre più
sedentarizzando negli ultimi tempi. «I Khan sono dei principi. Noi siamo
quello che voi chiamate l'aristocrazia» mi ha spiegato orgogliosa Molki
Bibi quando sono andata a trovarla a Teheran. Ottantaquattro anni portati
divinamente nonostante le tante traversie della vita, mi aveva fatto
accomodare nel giardino davanti a un piatto di melone fresco. Piccola, con
occhi neri vivaci, si era rivelata subito una donna intelligente e ironica. «I
Qashqai ne hanno viste di tutti i colori» mi racconta. «Mio padre ha
combattuto gli inglesi durante la Prima guerra mondiale e nel 1942 lo Scià
ci temeva a tal punto che siamo stati mandati in esilio e mio padre è stato
ucciso per avvelenamento. Negli anni, decine di parenti sono stati
ammazzati e il nostro patrimonio è stato confiscato. Il peggiore di tutti è
stato Khomeini. All'inizio della Rivoluzione aveva fatto un accordo con noi,
ma poi l'idillio è finito, lo sono stata arrestata con mio marito e mio figlio e
ho passato due anni in prigione. Sono stata frustata e maltrattata. Una
mattina uno dei miei carcerieri mi ha annunciato con aria di sfida
l'esecuzione in una piazza pubblica di mio fratello Kosrow Khan. Io gli ho
risposto: "Cosa pensavi, che sarebbe morto tranquillo nel suo letto?".»
Molki Bibi è molto fiera, a volte sarcastica come sa essere chi è passato
tante volte dalle stelle alla polvere. Mi spiega che per i Qashqai è finita. La
maggior parte di loro ha ormai una fissa dimora, la transumanza la fanno in
pochi. Per fortuna sopravvive ancora la loro lunga tradizione di tessitori di
tappeti. «Io ho vissuto fino a dodici anni nella tribù.

Ogni estate ci spostavamo in 300-400.000 persone con le tende e i


cammelli. Partivano i cuochi, le cameriere, il pasticciere, la mia insegnante.
Avevamo un esercito forte allora e uno dei nostri palazzi era nel giardino di
Bagh-e Eram a Shiraz. Ci vada, è un posto magico.»

Sono andata anche a sud di Shiraz alla ricerca di una delle tribù nomadi
Qashqai. E l'ho trovata con le sue tende in un pascolo vicino a un laghetto.
Le pecore e i bambini corrono nel sole. I cani abbaiano appena si
avvicinano estranei. Le donne indossano abiti dai colori vivaci, gli uomini
ci invitano a bere il té. Si sono insediati in questa rigogliosa vallata per
passare l'estate.

Il capotribù si chiama Aziz Allah Reza, ha sessantacinque anni. Proviene da


Kazerun, nella zona meridionale del Paese, e parla un dialetto turco.

«Ricominceremo la produzione di tappeti alla fine dell'estate, quando


saremo tornati a Kazerun» ci spiega. «Qui viviamo dei nostri animali:
abbiamo 250 pecore e 200 capre in due famiglie, ovvero 23 persone. Ho
una sola moglie, ma i Qashqai arabi solitamente ne hanno diverse. Due dei
miei figli studiano: uno vuole diventare ingegnere, l'altro medico.»

La moglie dagli occhi verdi si chiama Senovar. Ha cinquantacinque anni ma


ne dimostra almeno dieci di più. Indossa un vestito color smeraldo, i capelli
rossi sono coperti da un foulard rosa. Sulle mani si notano i tatuaggi
all'henne.

Quando arriviamo sta mungendo una pecora. Si è sposata a diciotto anni e


ha avuto otto figli, quattro femmine e quattro maschi. La minore ha tredici
anni. Mi spiega che le donne nomadi non indossano la tenuta islamica. La
loro condizione dipende più dalle tradizioni che dalla religione. Lavorano
senza sosta, molto più degli uomini. Questo non lo dice, ma si vede.

«Il regime non ci aiuta, ma a noi sta bene così. Non vogliamo che qualcuno
ci dica cosa dobbiamo fare. Lavoriamo duramente, ma nessuno ci
impartisce ordini» mi assicura lei.

Ci sediamo sotto la tenda di lana di capra che ripara sia dalla pioggia sia dal
sole. Beviamo latte di pecora appena munto e succhi di frutta freschi.

«Sarebbe l'ideale se tutti i nostri figli potessero studiare, ma non è possibile.


Solo in pochi vanno all'università, altri coltivano la terra e poi ci sono quelli
che fanno i tappeti. Non è giusto, ma questo è il nostro destino.»

Il pragmatismo di Senovar è la risposta che cercavo, quando mi chiedevo


come l'arte millenaria del tappeto potesse sopravvivere. Ma è l'arte senza
tempo della politica che ha il potere di liberare la gente dall'ineluttabilità del
fato.

Non intendo trattenermi troppo a lungo a Shiraz. Non mi voglio perdere gli
ultimi giorni di campagna elettorale a Teheran con l'imprevisto faccia a
faccia tra i due volti della Repubblica islamica: Rafsanjani, la vecchia
guardia pragmatica, e Ahmadinejad, interprete della nuova generazione di
ultraconservatori senza turbante. Prima di lasciare la città, però, io e
Jacques ci ritagliamo il tempo per visitare il mausoleo di Hafez, il grande
poeta persiano. Ma senza dare troppo nell'occhio vogliamo anche
avvicinare una comunità il cui destino si è intrecciato con la storia della
Persia: gli ebrei.

La tomba di Shamseddin Muhammad è per molti iraniani il cuore del Paese.


Questo poeta del XIV secolo è noto con il nome di Hafez, «l'uomo che può
recitare il Corano a memoria». Nacque a Shiraz nel 1324, quando la città
era ancora celebre per i suoi vigneti di uve Shiraz, grappoli traboccanti di
deliziosi profumi con i quali si produceva un vino squisito. Per lui e per i
suoi versi gli iraniani dimostrano un amore quasi carnale, palpabile, che mi
fa pensare alla devozione che gli sciiti sono capaci di provare per Ali.
Arriviamo mentre i visitatori si accalcano alla porta del lussureggiante
giardino perfettamente curato che ospita le spoglie di Hafez. La tomba si
trova sotto una cupola sostenuta da otto colonne, la cui volta è ricoperta di
turchesi. I discepoli del poeta si avvicendano attorno al sepolcro scolpito: si
inchinano o si inginocchiano, accarezzano con la punta delle dita il marmo
fresco, lo baciano o semplicemente vi appoggiano la fronte. Osservo un
ragazzino che copre di baci appassionati la pietra tombale. Un uomo dai
lunghi capelli bianchi che si lancia in un complicato rituale fa la gioia di un
piccolo gruppo di turisti appena arrivati. È vestito come un figlio dei fiori:
tunica bianca, pantaloni a sbuffo, foulard colorati. Si prostra, mormora
parole incomprensibili, ho quasi l'impressione che stia per cadere in trance.

«Hafez viene presentato dai mullah come un mistico» mi spiega Sarah


Mohammadi. Giovane, sorridente, con addosso un leggero manteau blu,
Sarah è una guida turistica. Parla tedesco e sta accompagnando una coppia,
Uwe e Gisela, in viaggio di nozze. Mi sono fermata per chiederle se potessi
seguire le sue delucidazioni e farle qualche domanda. I giovani tedeschi non
si formalizzano, si ricordano di me dai tempi in cui conducevo il
settimanale «Focus» sul canale televisivo tedesco Pro Sieben.

«Per loro tutto ciò che il poeta scrive sul vino o sull'amore deve avere una
dimensione mistica, un legame con Dio.

Anche l'imam Khomeini si è cimentato con la poesia sviluppando questo


tipo di simbolismo» continua Sarah.

«Ma in realtà Hafez è il cantore delle promesse. Promette vino,


corteggiamento e allegria. Denuncia l'ipocrisia e accusa i potenti che la
usano per controllare i popoli. Tutti gli iraniani si riconoscono in lui e lo
venerano per averli aiutati ad attraversare i momenti difficili. Persino i
bambini e gli adolescenti di oggi recitano ancora a memoria le rime di
Hafez e di Saadi, l'altro grande poeta persiano nato e sepolto qui a Shiraz.»

Leggendo un verso scolpito sulla tomba ho l'impressione che Hafez fosse


un mistico con preoccupazioni ben radicate nel mondo dei sensi: «Anche se
sono vecchio, stringimi tra le tue braccia. Anche se per una notte soltanto.
All'alba mi sve-glierò, ringiovanito dalle tue carezze». E l'altra poesia
d'addio alla vita, cui manca solo la musica di Paolo Conte con il suo
pianoforte e la voce rauca e calda di uomo che ha amato tutto: «Visto che
morirò da bevitore, seppellitemi come si fa con un bevitore. Costruitemi un
sarcofago con il legno della vigna, e seppellitemi in una taverna. Innaffiate
la mia tomba solo col vino e sedetevi muniti di vino, musica e rose, così
potrò unirmi a voi e risorgere!».

«Gli iraniani adorano i poeti che cantano l'amore perché l'amore è la loro
prima preoccupazione» continua Sarah. «Non è come in Europa dove vi
sposate per interesse. Qui l'amore è sentimento.»

Ammiro stupita il flusso inesorabile di vecchi e giovani che accorrono con


sincera emozione a onorare la memoria di una figura illustre che appartiene
alla loro vita e alla loro storia. Le donne indossano il chador o foulard
colorati; si fanno foto ricordo ridendo o passano come ombre con il volto
nascosto da una maschera di rame, nel rispetto dell'abbigliamento islamico
più rigoroso.

Mi tornano in mente le parole di Marjane Satrapi, la scrittrice iraniana che


ora vive a Parigi, che a proposito del suo Paese mi diceva: «In Iran non
abbiamo una tradizione del romanzo con la sua costruzione logica, ma la
tradizione della poesia dove tutto è aleatorio. Gli iraniani non sono un
popolo religioso, amano bere, giocare, ballare, divertirsi. Hanno troppa
fantasia». E gli iraniani amano la loro patria. «L'unica cosa che voglio»
aggiungeva Marjane dal suo esilio parigino con gli occhi pieni di lacrime «è
tornare nella mia terra. Quello che mi manca più di tutto è svegliarmi la
mattina guardando le nevi eterne dell'Elburz, ascoltare gli usi-gnoli di
Darband. Voglio morire a Rasht, sul Mar Caspio, dove sono nata. Sarei
pronta a tornare, anche a rischio di essere arrestata, frustata e di passare
qualche giorno in prigione. Ma nessuno purtroppo può garantirmi che ne
uscirei viva...»

Persepoli e la tomba di Hafez sono le due facce della stessa medaglia. La


Rivoluzione non le ha cambiate. Ha solo aggiunto una nuova dimensione, il
fervore religioso. E la stessa intensità si ritrova nella declamazione della
poesia come nella recitazione del Corano.

È caduta la notte sulla città. Le strade sono buie e tranquille. Parcheggiamo


l'auto accanto a un muro cieco. Una piccola porta d'acciaio si apre appena.
Entriamo. Nel giardino senza luce, un gruppo di uomini e donne in piedi
fanno dondolare ritmicamente il busto avanti e indietro. Un mormorio,
quasi un lamento, li accompagna. Per gli ebrei di Shiraz è l'ora della
preghiera.

Mi siedo con il dottor Abraham Bamdad, capo della comunità ebraica


locale. Sei anni fa 13 ebrei della città furono arrestati, 10 di loro vennero
condannati e incarcerati per spionaggio, ma alla fine furono tutti liberati.
Attorno a noi si forma un capannello di ragazzini dai volti sorridenti e
curiosi.

«Siamo qui da duemila anni» racconta il dottor Bamdad. «A Shiraz sono


rimasti 6000 ebrei, prima della Rivoluzione eravamo 16.000.» Mi spiega
che in molti hanno avuto paura dei mullah quando sono saliti al potere, così
i più ricchi sono emigrati negli Stati Uniti o in Israele.

«Subito dopo la Rivoluzione la situazione era difficile, ma lo era per tutti.


Da allora le cose sono migliorate» aggiunge.

«Non siamo oggetto di discriminazione» mi assicura portandomi l'esempio


di sua figlia che è caporeparto in una società di informatica.

Tuttavia per precauzione gli ebrei hanno due nomi: uno ebraico e uno
musulmano, Abraham si chiama anche Manucher.

Ovviamente anche lui aveva pensato di emigrare, «ma ho avuto la


sensazione che per me non sarebbe stata una buona cosa. il mio lavoro mi
sarebbe mancato troppo. Sono andato un anno in Israele, ma è un Paese
ossessionato dalla sicurezza». E quindi rientrato in Iran. Il figlio, trasferitosi
nel frattempo ad Atlanta dove lavora per la Microsoft, invece che due ora
ha tre nomi: Merdad, Isaac e Max, mi spiega ridendo.

Prima di lasciare questa casa trasformata in sinagoga, un giovane mi afferra


per la manica: «Non posso parlarle di politica» sussurra. «Siamo controllati.
Mi può aiutare a trovare un visto per l'America?»

«Non vuoi andare in Israele?» gli chiedo.


Passo davanti a un tavolo dove una decina di uomini legge laTorah. Mi
fermo e domando: «Qualcuno parla inglese?».

«No, solo ebraico» mi risponde con un tono di sfida un uomo leggermente


calvo.

La conversazione finisce lì. Più tardi, il dottor Bamdad mi spiegherà che il


signore che mi ha risposto in quel modo si chiama Farhad Seleh. E uno
degli arrestati. Ha il divieto assoluto di parlare con gli stranieri, né in
inglese, né in farsi, né in francese, né in italiano. Allora prega. In ebraico.

Continuiamo la nostra conversazione nello studio medico del dottore,


arredato con il minimo indispensabile al piano terra di un edificio spartano
nel centro della città.

«Non mi sono mai sentito in pericolo» mi garantisce mentre, seduto dietro


la sua scrivania, fruga in una piccola scatola dove trova due compresse di
aspirina per Jacques. «Ho buone relazioni con le autorità. Non abbiamo
grossi problemi.

Ci mancano solo i soldi da dare alle famiglie bisognose della comunità.»


Come in tutti i luoghi pubblici in Iran, anche qui lo sguardo severo di
Khomeini e Khamenei sorveglia i pazienti.

«Certo» ammette «non abbiamo il diritto di costruire sinagoghe, né di


stampare libri di preghiere o la Torah.»

Mi parla anche dei suoi correligionari arrestati nel 1999 con l'accusa di
traffico di valuta. «All'inizio si trattava di un piccolo problema, ma in
seguito, quando l'affare è diventato pubblico, sono stati accusati di
spionaggio. Sono stati liberati grazie alle pressioni internazionali.»

Capisco il pericolo per gli ebrei in Iran di essere coinvolti nelle lotte
intestine dei circoli di potere: questo episodio aveva tutta l'aria di un attacco
degli ambienti più conservatori contro l'amministrazione riformista del
presidente Khatami. Si voleva mettere in imbarazzo un uomo considerato in
Occidente l'artefice della normalizzazione del suo Paese.
Nei fatti la vita degli ebrei è un po' diversa da quella che mi racconta il
prudente Abraham. La comunità iraniana è una delle più antiche della
Diaspora. Quando Ciro il Grande, fondatore dell'impero persiano, conquistò
Babilonia, nel 539

a.C, liberò tutti gli ebrei che erano stati ridotti in schiavitù. Per secoli
vissero pacificamente distribuiti tra la Babilonia e le province persiane.
Fino alla dinastia sasanide (224-636 d.C.) quando gli ebrei furono a
intermittenza bersaglio di repressioni. Seguì l'islamizzazione della Persia in
cui conobbero periodi alterni di persecuzione e tolleranza, ma solo con
l'ascesa al potere di Reza Shah, nel 1925, si sentirono veramente integrati.
Abbandonarono i ghetti, poterono iscriversi alle scuole pubbliche e
partecipare alla vita sociale.

Ma la comunità ebraica iraniana ha conosciuto la sua età dell'oro durante il


regno dell'ultimo scià Muhammad Reza, quando le relazioni di Teheran con
Israele diventarono molto strette e nella capitale venne aperta una specie di
rappresentanza diplomatica, sotto le mentite spoglie di una missione
commerciale. Una collaborazione a volte discutibile, visti i rapporti
comprovati tra la Savak, la spietata polizia segreta dello Scià, e i servizi di
intelligence israeliani.

Dopo la Rivoluzione gli ebrei sono rimasti la minoranza più numerosa e


attiva nella regione. Ma poi hanno cominciato ad andarsene, un po' per
l'effetto del malessere difruso anche tra molti iraniani, un po' per le
pressioni politiche esercitate sulla loro comunità. Questa è passata dalle
80.000 unità nel 1979 alle circa 24.000 dei giorni nostri, per la maggior
parte residenti a Teheran e a Shiraz. Hanno un solo deputato al Majlis,
mentre per i cristiani (circa 60.000 di cui 12.000 i cattolici) siedono due
rappresentanti in Parlamento.

Le relazioni ambigue tra la Repubblica islamica e Israele sono emerse con


forza durante la guerra con l'Iraq. Teheran non riconosce lo Stato ebraico e
alcuni dei suoi politici più influenti non esitano a chiederne la distruzione.
Tuttavia, a partire dal 1983, il governo iraniano, Rafsanjani in testa, ha
sottoscritto un accordo segreto con Washington e Tei Aviv in nome della
Realpolitik. L'idea venuta a un consigliere del presidente Reagan era di
vendere armi Usa agli iraniani attraverso l'intermediazione degli israeliani,
in cambio dell'aiuto di Teheran per la liberazione di alcuni ostaggi
americani in Libano. Una parte dei profitti di quelle vendite fu utilizzata per
finanziare i Contras, i gruppi anti-sandinisti in Nicaragua. Fu lo scandalo
Iran-Contras a far vacillare seriamente la poltrona di Reagan e a dimostrare
il cinismo di Washington che sosteneva nello stesso periodo Saddam
Hussein.

Sull'aereo che la sera dopo ci riporta a Teheran, Soheil piange in silenzio


guardando fuori dal finestrino. Ha gli occhi rossi, le lacrime gli solcano le
guance. Gli chiedo se stia poco bene o se qualcosa lo abbia offeso, turbato.

«No,» mi risponde «sono felice. Sono immensamente felice di avervi potuto


accompagnare e ringrazio Dio per questa occasione.» Soheil ci ha fatto da
guida e da interprete. Ha ventun anni, è estremamente cortese ed è un
seguace della religione Bahai, i cui adepti in Iran sono circa 350.000, da
sempre perseguitati come musulmani eretici.

Le radici dei Bahai sono a Shiraz. Tutto è cominciato nel 1844, quando
Mirza Ali Muhammad, un giovane sciita meglio noto con il nome di Bab, si
proclamò dodicesimo imam, il Messia atteso da tutti gli sciiti. Fin dalla
nascita, il suo movimento fu considerato perciò una deviazione e Bab pagò
con la vita la sua audacia: venne fucilato a Tabriz all'età di trentadue anni.

I Bahai non hanno diritto di voto ma devono fare il servizio militare. I loro
matrimoni non sono considerati validi e quindi i loro figli sono illegittimi.
Dall'inizio della Rivoluzione diverse centinaia di loro sono stati arrestati,
condannati e alcuni giustiziati. Eppure predicano un messaggio di pace e
tolleranza, insistono sull'importanza dell'istruzione e rispettano le leggi dei
Paesi in cui vivono. Difendono la parità dei diritti tra uomini e donne e
hanno riguardo per tutte le religioni.

Tuttavia per i musulmani sono apostati e dunque non hanno il diritto di


vivere. Per loro sventura, il centro religioso Bahai, insieme alla tomba di
Bah, si trova a Haifa, e questo da adito alle accuse di intrattenere rapporti
con Israele.
«E innegabile che i Bahai costituiscono una comunità vittima di ogni tipo di
persecuzioni in Iran: persecuzioni politiche e religiose e discriminazioni
davanti alla legge» affermava nel 2004 un rapporto dell'Onu le cui
conclusioni sono condivise dall'Unione Europea.

Soheil non ha l'aria di un giovane capace di mettere in pericolo la


Repubblica islamica. «Il mio bisnonno, Abdul Hussein, ha scelto di essere
Bahai. E io ho deciso di seguire questa religione quando avevo sedici anni.
Siamo oppressi dal regime ma io sono pronto a sacrificarmi per la mia
fede.»

Prima di rivolgere di nuovo lo sguardo verso gli ultimi raggi di sole che
illuminano il cielo, conclude con una convinzione che rispetto ma non
condivido: «Crediamo che Dio abiti in un mondo diverso. Il nostro è solo
un mondo materiale, un punto di partenza per raggiungerlo. Voglio che Dio
mi aiuti a morire per lui».

CAPITOLO 13
TRA LE BRACCIA DI ALLAH

Ci siamo alzati molto presto per andare a Mashhad, città santa situata nella
parte nord-orientale del Paese. Un santuario che viene visitato ogni anno da
quasi 12 milioni di pellegrini. E qui che toccherò con mano la devozione
religiosa degli iraniani. Voglio vedere di persona il fervore che così spesso
ha determinato la storia di questo Paese. È una religiosità viva, radicata nel
quotidiano: Mashhad è un luogo di emozioni, mentre Qom è il centro del
sapere e del potere.

Al nostro arrivo all'aeroporto Jacques, Taraneh e io veniamo accolti da


Rafie, un collaboratore di Ali. E giovane, magro e molto garbato.
Nonostante le sue lunghe giornate di lavoro al bazar dei tappeti troverà
sempre il tempo per accompagnarci.

Mashhad è una metropoli di oltre due milioni di abitanti che sorge su un


altopiano sulla via dell'Afghanistan e del Turkmenistan. Costituisce anche
un importante centro industriale e agro-alimentare. Durante la guerra gli
iraniani vi si rifugiarono a migliaia semplicemente perché era la città più
lontana dal confine iracheno, al di fuori della portata dei missili Scud di
Saddam Hussein. È attraversata da grandi viali, fiancheggiati da negozi di
ogni tipo che sembrano portare tutti al mausoleo dell'imam Reza, orgoglio e
fonte di ricchezza per Mashhad. La cupola e i due minareti dorati di Astane
Qods-e Razavi, cuore geografico ed economico, si possono scorgere da
molto lontano.

L'imam Reza, discendente del profeta Maometto, nacque nel 765 a Medina,
oggi in Arabia Saudita. Era l'ottavo nella linea di successione degli imam
sciiti. Suo padre, il settimo imam, morì nel 799 in una prigione di Baghdad
all'epoca del califfo abbaside Harun al-Rashid. Reza aveva trentacinque
anni quando subentrò al padre come pretendente al potere temporale della
comunità di credenti. Gli sciiti riconoscono come loro guide spiritual i e
capi politici una stirpe di imam cominciata con Ali, il cugino e genero del
Profeta.
Ali, fermamente convinto di essere stato designato come successore da chi
lo considerava come un figlio, credette che il potere gli fosse stato tolto
ingiustamente alla morte di Maometto. Sarà designato quarto califfo ma
morirà presto assassinato. Da allora i suoi seguaci, gli sciiti, sono in aperta
ribellione contro l'autorità della maggioranza sunnita, che oggi rappresenta
l'85 per cento del mondo musulmano. La linea degli imam continua con il
primo figlio di Ali, Hassan, ma soprattutto con Hussein, eroe della battaglia
di Karbala, in Iraq, dove è stato sepolto. Anche Reza venne perseguitato dai
califfi sunniti, come i predecessori.

Secondo la leggenda, morì in quello che allora era il villaggio di Sanabad


nell'817 dopo aver mangiato dell'uva. Pur in mancanza di prove certe, si
diffuse la voce che era stato avvelenato dal califfo Mamun, preoccupato
dalla crescente popolarità di Reza. Le sue spoglie vennero tumulate in una
torre a Sanabad, che ben presto e divenne meta di migliaia di devoti e prese
il nome di Mashhad, «la dimora del martire». Le circostanze oscure della
dipartita di Reza rafforzarono nelle élite religiose sciite la diffidenza nei
confronti di qualunque compromesso considerato iniquo. Queste
preferirono sacrificarsi piuttosto che essere associate a un governo
immorale. Per non perpetuare una funesta alternativa - il tradimento o la
morte - si ritirarono dunque deliberatamente dalla competizione politica. E
annunciarono nell'874 la scomparsa del dodicesimo imam, che era allora un
bambino di cinque anni, dando luogo all'Occultamento Minore. Più tardi,
nel 939, i saggi sciiti consolidarono il dogma dell'occultamento e
proclamarono che il dodicesimo imam, il Mahdi, il Messia, sarebbe
ricomparso solo per regnare su un mondo giusto. Iniziò allora
l'Occultamento Maggiore. Si aprì così un periodo di allontanamento dal
potere temporale, durante il quale la comunità sciita cercò di sopravvivere
alle ostilità dei sunniti. Questa fase di «quietismo» fu accompagnata da un
complesso lavoro teorico incentrato sui rapporti tra religione e politica. I
pensatori sciiti, influenzati da una storia di dissidenza, elaborarono una
dottrina che attribuiva un ruolo fondamentale alla giustizia sociale, intesa
come lotta contro l'oppressione e, di conseguenza, contro le potenze
coloniali e tutte le forme di sottomissione allo straniero.
Solo con Khomeini e la sua Rivoluzione il clero sciita uscì con grande
clamore dal suo quietismo per prendere in mano il potere. Con il rischio di
bruciarsi.

Organizziamo la giornata sorseggiando una tazza di té con la nostra amica


Zohreh, nella sala da pranzo dell'hotel Homa.

Arrivata da Teheran un'ora prima di noi, ci farà da cicerone in questa città


che conosce molto bene. Anche lei, come tutti gli iraniani
straordinariamente disponibili e cordiali che ho incontrato fin dal mio
arrivo, ha messo a nostra completa disposizione il suo tempo e le sue
conoscenze.

Ha una sessantina d'anni ed è la madre di Panthea, un'amica iraniana che fa


la farmacista a Roma. Donna raffinata, Zohreh abita in un quartiere della
borghesia di Teheran e parla abbastanza bene l'inglese. E ha la fede. È
sinceramente devota e nutre una profonda venerazione per l'imam Reza.
Quando le ho chiesto di aiutarci a capire i misteri di Mashhad ha subito
accettato, con le lacrime agli occhi. Le stavo offrendo un'occasione per
tornare nella città santa e me ne era grata.

«Quando vedrò la cupola dell'imam lo saluterò e lo ringrazierò di averti


mandata da me. Dovevo aspettare il suo invito per venire a pregare qui, e
questo invito sei tu.»

Con i suoi tratti eleganti, gli occhi scuri e sorridenti, il foulard a coprirle la
testa e la borsa stretta in mano, mi viene quasi voglia di proteggerla. Non
saprei dire né da chi, né da che cosa. Ma soprattutto non sono sicura che ne
abbia bisogno. La sua fede la rende forte come una roccia e l'intenso legame
che ha stabilito con la figura dell'imam Reza le da molte certezze. La rende
sicura di sé e del suo destino su questa Terra.

E ancora presto, mi piacerebbe andare al mausoleo nell'ora della preghiera.


E un'impresa rischiosa perché i non musulmani non sono ammessi. Non
tanto per una forma di discriminazione contro le altre religioni, quanto per
una serie di rituali speciali di pulizia e di preghiera che solo i musulmani
praticano. Come mi spiega Zohreh: «Le donne che hanno le mestruazioni,
per esempio, non possono compiere il pellegrinaggio poiché secondo
l'Islam sono impure».

Per Jacques, decisamente troppo straniero con i suoi occhi e capelli chiari,
riuscire a entrare è praticamente impossibile.

Ma io, nascosta sotto il mio chador e guidata dalle mie amiche, voglio
provare a intrufolarmi nel santuario per vedere da vicino il luogo di
raccoglimento che per la sua bellezza e sacralità richiama da secoli schiere
di credenti. Aspettando il tramonto, decidiamo di fare una prima
ricognizione tra le mura dell'immenso complesso dove è consentito
l'ingresso anche ai non musulmani. La Fondazione dell'imam Reza è una
delle più ricche del Paese e il mausoleo comprende scuole religiose,
biblioteche, uffici, cortili, musei, sale maestose e due moschee. Una grande
isola circolare nel cuore della città. Rafie ci accompagna a esplorarla.

Mashhad è straordinariamente piatta: solo in lontananza le alte colline


sembrano segnare l'inizio di un mondo sconosciuto. Procediamo a zigzag
per le strade meno assolate. Ovunque regna un'aria di modernità e
prosperità. Anche qui infuria la battaglia elettorale. Al primo turno delle
presidenziali correva anche Muhammad Qalibaf, l'ex capo della polizia nato
a Mashhad. Un altro «figlio» della città santa è arrivato al vertice del potere
iraniano: si chiama Ali Khamenei, è l'attuale Guida Suprema e proprio qui
cominciò i suoi studi di religione sotto la direzione del padre del presidente
Khatami. Più tardi si trasferì a Qom per seguire nei primi anni Sessanta
l'insegnamento di Khomeini.

Coinvolto attivamente nella Rivoluzione, ben presto ha rivestito incarichi


politici e militari di grande responsabilità, pur senza mai raggiungere un
livello di erudizione religiosa sufficiente per garantirsi un rispetto e un
appoggio indiscussi.

Sono le fedeltà passate, i legami familiari, le origini etniche e le reti di


interessi a disegnare i circoli di influenza e le gerarchie occulte che formano
le trame del potere in Iran.

Arriviamo in un grande piazzale pavimentato di marmo bianco e grigio,


sormontato da una cupola verde-azzurra che funge da anticamera agli
edifici e ai cortili del mausoleo. E molto afoso. I pellegrini, in gruppi o da
soli, avanzano con passo rapido. Ognuno è libero di salutare l'imam Reza a
modo suo: con l'aria disinvolta o lo sguardo raccolto, come semplice
curioso o animato dalla fede, col cellulare all'orecchio o il libro di preghiere
in mano. I chador neri si mescolano ai lunghi veli bianchi della preghiera.
Regna una totale assenza di solennità che lascia il posto a una familiarità
piacevole e inattesa. Abbiamo preso tutte le precauzioni per passare
inosservati: io sono vestita completamente di nero, non mi si vede
nemmeno una ciocca di capelli. Jacques indossa una camicia scura e
pantaloni larghi. Ma qualcosa ci ha traditi. Forse la curiosità che si legge nei
nostri movimenti? Ci guardano, senza avversione e senza animosità, ma ci
guardano. Siamo stranieri.

Il sospetto che abbiamo destato non è sicuramente di buon auspicio per la


visita che intendo fare in serata. Non so cosa possa succedere a una
cristiana sorpresa vicino alla tomba dell'imam Reza. Niente, suppongo. Mi
chiederanno semplicemente di uscire dalla moschea. O almeno è quello che
continuo a ripetermi...

Ci rifugiamo quindi nel museo, sia per sfuggire al sole che incendia il
marmo del cortile, sia per evitare gli sguardi che ci seguono
incessantemente. Si possono ammirare le vestigia della città di Neishapur
che dominava la regione prima che Gengis Khan e le sue orde di cavalieri la
riducessero in cenere nel 1221. Il grande guerriero mongolo non solo bruciò
tutti i libri, ma massacrò anche milioni di abitanti che vivevano in queste
terre. «Che non resti né gatto né cane»

avrebbe detto ai suoi uomini prima di dare il via alla carneficina. Accanto
alle porte in argento e oro, che chiudevano l'accesso alla moschea
dell'imam, si nota un affresco raffigurante la battaglia. E esposta anche la
gabbia che proteggeva il feretro e gli straordinari tappeti ricamati di perle.
Oltre ai tesori del passato affidati al museo, scopriamo opere meno
prestigiose ma donate con la stessa generosità: medaglie di sportivi, una
coppa del campionato asiatico di calcio, trofei olimpici, di matematica, di
informatica e di concorsi filatelici. Dio accetta tutte le profferte con uguale
riconoscenza.
Per colazione Rafie ci porta in un villaggio alle porte di Mashhad. Quando
arriviamo, un profumo di grigliata ci guida verso il ristorante attraverso una
piccola vallata dove, tra gli alberi rigogliosi, scorre un ruscello.
Sicuramente un tempo i viandanti sulla strada di Kabul o di Herat dovevano
apprezzare molto quest'oasi fiorita. Al centro del giardino del ristorante, una
fontana dal fondo blu disseta i piccioni, che per bere tuffano tutta la testa
nella vasca. Ci togliamo le scarpe e ci sediamo su una panca coperta di
tappeti, dove si può mangiare semisdraiati e poi riposarsi sui grandi cuscini,
cullati dalla musica e dal profumo dei narghilè.

Mangiamo costolette di montone, trote, verdure e ovviamente riso, senza il


quale, in Iran, un pasto non è degno di questo nome. Taraneh e Jacques
sonnecchiano, Rafie si rinfresca i piedi nella fontana, mentre io chiacchiero
con la sua giovane moglie Sarah e con Zohreh. Sarah ha venticinque anni e
studia inglese. E una ragazza dal volto armonioso e disteso. Parla senza
paura: «La cosa più importante è la libertà di espressione, ma nessun
riformista ha mantenuto le promesse. Ti sembra possibile che i giornalisti
vadano in prigione se criticano il regime?».

Indossa un semplice foulard marrone. Le chiedo cosa pensi dell'obbligo del


velo. «Non si tratta del velo in sé, fa parte delle nostre tradizioni. Il vero
problema è il signore dell'Iran, Khamenei, che si comporta come un faraone
d'Egitto.

Nessuno osa sfidarlo perché la Guida Suprema è il fulcro della Repubblica


islamica. I mullah continuano a mescolare religione e politica, ma la fede
dovrebbe essere una questione personale.»

«Per te cosa significa essere religiosa?» le chiedo allora incuriosita.

«Sono religiosa perché prego e faccio il Ramadan. Ma non vado in moschea


se non per i funerali. Ascoltare l'imam non è così fondamentale; se voglio
pregare, posso farlo anche a casa. Però vado a rendere omaggio all'imam
Reza perché è uno dei nostri santi più importanti: lo invoco perché
esaudisca i miei desideri.»

Anche Zohreh interviene: «Io vado in moschea quando ho tempo, però a


casa prego tre volte al giorno. La mia è una famiglia religiosa. Pregare fa
parte di una consuetudine, ma per me è innanzitutto un grande sostegno:
quando mi turba un problema che non so come risolvere, mi rivolgo a Dio e
gli chiedo consiglio».

«Hai sempre avuto fede?» domando a Zohreh.

«Quando ero giovane, per capire cosa fosse ho studiato la religione e il


Corano, da allora ho sempre creduto. Questa devozione mi ha reso felice, e
più vado avanti più mi rafforzo nella mia scelta. Come ci ha insegnato
Zarathustra: "Fai il bene, pensa bene e parla bene". In ciascuno di noi
operano il Bene e il Male ma tutto dipende da noi: ciò che semini raccogli.»
L'Islam non ha cancellato gli insegnamenti di Zarathustra, che restano vivi
nella cultura religiosa del popolo iraniano.

«Come spieghi che l'Islam venga associato così spesso al fanatismo?»

«L'Islam non è una religione violenta o settaria. Quando il nostro Profeta


era a Medina tutti erano uniti, anche gli ebrei.

Per noi musulmani "tante sono le strade che portano a Dio quanti sono gli
esseri umani". Purtroppo esistono persone che hanno distorto il messaggio
del Corano per i loro scopi, e questo è un grave errore. Jihad significa
alzarsi e difendersi, il jihad deve essere lanciato solo quando i nostri nemici
ci attaccano.»

Secondo Zohreh, che non sembra affatto una pericolosa sovversiva, «il
sistema islamico deve cambiare. E necessaria una netta separazione tra fede
e politica, e anche sul velo ci dovrebbe essere la totale libertà di scelta».

Mi rivolgo a Sarah e le chiedo che cosa rimane della Rivoluzione: «Non


molto», e poi dopo una lunga pausa aggiunge:

«La Rivoluzione è come un dettato: qualcuno decide cosa devi scrivere.


Non c'è democrazia in questo Paese, e se continuano così perderemo anche
la fede».

Taraneh, che nel frattempo si era assopita, ha comunque seguito la nostra


conversazione. Svegliatasi, si sistema il foulard e ci fa una rivelazione: la
sua famiglia discende dal Profeta e i suoi parenti religiosi hanno il diritto di
indossare il turbante nero.

«Allora nell'Aldilà prendimi per mano e conducimi con te in paradiso» la


supplica Zohreh con un sorriso. Ma nelle ore che seguiranno sarò io ad
avere bisogno di protezione.

Sono le 19,30 quando arriviamo a uno degli ingressi del mausoleo sulla
Tabarsi Street. Mi sento un po' a disagio.

Indosso un foulard per tenere raccolti i capelli e un leggero manteau nero e


sopra un chador vero e proprio, anch'esso nero. All'entrata la folla si sta già
assembrando. Mi metto in fila con le altre donne davanti al posto di
controllo dove i fedeli vengono scrupolosamente perquisiti da quando un
attentato nel 1994 uccise 27 persone. Zohreh apre la strada, dietro avverto
la presenza di Taraneh. I miei angeli custodi vegliano su di me. Jacques ci
aspetta in albergo. Avanziamo in silenzio, lentamente, finché la donna
incaricata della perquisizione tasta il mio chador. Con una mano afferro
l'abito di Zohreh e con l'altra tengo stretta Taraneh. Non voglio incrociare lo
sguardo della guardia. Temo capirebbe subito che sono una straniera, o
peggio, «un'infedele». Cammino a testa bassa. Faccio due passi. Sono salva.
Poi all'improvviso:

«Iraniana?». Non c'è bisogno di parlare il farsi per capire il senso della
domanda che perentoria riesce a sovrastare il brusio delle conversazioni e lo
scalpitio dei piedi. Sto per girarmi e recitare la parte dell'innocente. «Vale,
vale!», il tono di Taraneh è autoritario e non ammette repliche, «Certo,
certo!». Sento la sua mano che mi spinge in avanti. Ce l'abbiamo fatta.
«D'ora in poi, nemmeno una parola, occhi bassi e fai quello che facciamo
noi» mi sussurra all'orecchio.

Sono entrata dove non avrei potuto, ma sono sicura che l'imam Reza e tutti i
suoi fedeli mi perdoneranno. Sono venuta in amicizia.

Attraversiamo un primo cortile, quello di Rezvan, coperto di tappeti dove


predominano il rosso e il beige, per poi entrare nel cortile della
Rivoluzione. La preghiera sta per cominciare. Il sole che tramonta
accarezza con i suoi ultimi raggi la cupola dorata del mausoleo. La luna è
già lì, ferma tra i due minareti. 11 pavimento di marmo è caldo, i tappeti per
la preghiera sono stati srotolati. Le donne si trovano alla mia sinistra, gli
uomini a destra. Zohreh si mescola alla folla delle credenti mentre io mi
siedo in disparte in compagnia di Taraneh. Non voglio confondermi con chi
prega. Io non saprei come fare. Le fedeli si avvicinano a una vasca per fare
le loro abluzioni. Lavano braccia e piedi, e si passano l'acqua sul viso. Il
cortile si è riempito, diverse migliaia di persone sono venute a prostrarsi
davanti al loro Dio, nella rassicurante compagnia dell'imam più venerato
dagli iraniani.

«Allah Akbar. » La voce del muezzin si alza al di sopra della folla


annunciando l'inizio del rito della preghiera. Ma la vita non si ferma.
Alcune famiglie passeggiano, altre si inginocchiano, i bambini corrono e
poi si aggrappano alle vesti delle madri genuflesse. Alcuni ragazzini seduti
in cerchio ascoltano i rimproveri di una vecchia. Un bimbetto, che a
malapena si regge in piedi, un po' piange un po' cerca di imitare il fratello
poco più grande che a sua volta ripete i gesti della madre. Sembra di stare al
bazar. Una bambina che avrà sei anni fa le prove con il chador, sistemando
e risistemando il foulard e il velo a fiori. Siamo lontani anni luce dalle scene
di fanatica devozione cui troppo spesso l'Islam viene associato.

Una donna si ferma davanti a noi. Tiene per mano la figlia e ha lo sguardo
accigliato. Si lancia in una filippica di cui capisco solo la parola «chador».
Ho la sensazione che mi stia guardando. Sarò stata scoperta? Mi sistemo il
foulard, controllo che non si vedano i capelli e tiro il velo sotto il quale
vorrei scomparire. Taraneh risponde con quel suo tono che sembra sempre
un po' arrabbiato. La voce è forte e severa. Le starà intimando di proseguire
per la sua strada poiché, anche se sotto quella cappa nera ci fosse una donna
straniera, non sarebbe affar suo! Ho paura che tutto questo non serva a nulla
e mi preparo a battere rapidamente in ritirata. La donna si allontana
trascinandosi la sua bambina incuriosita. Mi denuncerà? Quando la
interrogo con lo sguardo, Taraneh sembra tranquillissima.

«Voleva che le prestassi il mio chador a fiori, per la figlia. Figurati.»

Cado dalle nuvole. Tutta quella discussione per un chador!


«Ma perché allora avete litigato?» sussurro alzandomi il velo a coprire la
bocca.

«Non abbiamo litigato. Abbiamo semplicemente parlato. Le ho detto di no


perché ne avrò bisogno per entrare nel mausoleo, così se n'è andata.»

Stupita le chiedo: «Ma perché voleva il tuo chador per la figlia? La piccola
era completamente coperta, tutta vestita di nero».

«Si prega meglio con un chador a fiori» sbuffa Taraneh che ogni tanto
sembra averne abbastanza di dovermi spiegare anche le cose più evidenti.

È piombata la notte. La preghiera è finita e i fedeli si disperdono per


dirigersi verso Yiwan, uno dei quattro maestosi ingressi del mausoleo con le
porte dorate. La volta soprastante è ornata da stalattiti formate da cristalli di
vetro nei quali sembrano riflettersi migliaia di luci. Nell'Islam gli specchi
simboleggiano la purezza e la luce di Dio. Seguo il movimento della folla.
Mentre passiamo sotto la porta, riecheggiano intorno a me saluti da ogni
parte: «As salam aleikum...». A questo punto i fedeli esprimono un
desiderio che avrà molte possibilità di essere esaudito, poiché pronunciato
in presenza dell'imam Reza. Anch'io comincio a pensare intensamente a una
cosa che mi sta molto a cuore.

Eccomi, sono arrivata a Dar al'Velayet, il luogo sacro che ospita le spoglie
di Reza, discendente del Profeta.

Non sono musulmana e tuttavia non mi sento addosso la macchia


dell'empietà. Anche se mi trovo là dove in teoria non potrei né dovrei stare.
Vorrei portare a casa la testimonianza di una fede che ci incuriosisce e ci
spaventa allo stesso tempo. Le sue pratiche sono il frutto di una tradizione
secolare, seguite da centinaia di milioni di credenti, e per questo è giusto
conoscerle e rispettarle.

Nella moschea dell'imam Reza il pavimento è di marmo verde. Immensi


lampadari troneggiano dalla volta maestosa. La sensazione di ricchezza e di
abbondanza è amplificata da una preziosa decorazione di vasi e di
candelabri d'oro. L'aria profuma di acqua di rose. Le teche situate un po'
ovunque contengono gioielli, oggetti e doni di fedeli che cercano di ottenere
da Reza un'intercessione presso Allah. Scesi quattro scalini, in una sala a
destra, mi imbatto in una ventina di uomini vestiti di grigio. Seduti a gambe
incrociate formano un cerchio e uno di loro comincia a cantare. Come vuole
la tradizione i notabili della città - mercanti, avvocati, giudici -vengono qui
a pregare e a mettersi a disposizione dell'imam. Ma è attorno al sarcofago di
Reza che si concentra la mia attenzione. I quattro angoli della gabbia d'oro
che protegge la lunga bara sono adornati da quattro grandi anfore piene di
gladioli, margherite e rose. La folla si accalca in una frenesia di esaltazione
per riuscire a toccarla, o addirittura baciarla.

*<Quando ti ci avvicini ti senti meglio, è un vero pellegrinaggio» mi spiega


Zohreh. Le donne in chador sgomitano per avvicinarsi ancora di più.
Sembra un'onda nera che va a infrangersi contro le inferriate dorate. La
grata è circondata da un ansimare sordo, un gemito continuo, l'eco di una
sofferenza lontana. Il catafalco dell'imam, ricoperto di stoffe multicolori di
ogni tipo, dalle più semplici alle più pregiate, si intravede appena.
Abbarbicata su uno sgabello, una donna armata di un piumino verde (è
proprio uno di quei piumini usati per raccogliere la polvere) rimprovera le
fedeli che si attardano troppo davanti al feretro, e spazientita non esita a
sollecitarle con piccoli colpi sulle spalle affinché lascino il posto alle altre
che premono per il loro turno. Prima di allontanarsi, le più abili riescono ad
annodare alle sbarre piccole strisce di tessuto verde. «Ricordati di me»
sussurrano implorando l'imam.

All'uscita incrocio una ragazza in lacrime accasciata davanti a una delle


porte. E giovane e piangendo continua a ripetere: «Agha, Agba». Sta
implorando l'imam: «Ascoltami, ascoltami...».

Lascio il mausoleo e ritorno all'hotel. E tardi e Jacques è sicuramente


impaziente di ascoltare il racconto di questa emozionante esperienza. Ho
voglia di condividere con lui la mia impressione di una comunità
saldamente unita in cui il gruppo e il suo destino vengono anteposti agli
individui e alle loro ambizioni.

E forse in questo annullamento dell'io a vantaggio di un interesse superiore


che l'Islam e la Rivoluzione si incontrano?
Ma chi decide quali sono gli interessi comuni? Quando l'abbandono dell'io
diventa obnubilamento, indottrinamento, dominio? Ecco un dilemma
vecchio come il mondo, e la risposta non si trova a Mashhad.

Il giorno successivo ho ancora una volta appuntamento con l'altra


dimensione dell'anima persiana: la poesia, che nei giardini di Hafez
all'ombra di Persepoli formava un connubio perfetto con la storia. Come si
sarebbe coniugata allora con la fede? Abdul Qasim Mansur conosciuto
come Firdusi è nato e morto a Tus, poco lontano da Mashhad. Uno
splendido giardino, ingentilito da una vasca dove si specchiano le rose,
ospita il grande mausoleo simile a un tempio greco dove si trova la tomba
del più grande poeta epico persiano. Il monumento venne ultimato all'inizio
degli anni Trenta, per celebrare i mille anni dalla nascita dell'autore dello
Shahnameh, morto povero e dimenticato da tutti nel 1020. Firdusi impiegò
trent'anni per comporre 60.000 versi cominciati nel 980 all'età di
quarantanni. Shahnameh, o Libro dei Re, parte dal racconto della creazione
del mondo per finire con la conquista arabo-islamica della Persia. Parla
delle avventure dei re e dei principi che si batterono contro invasori di ogni
genere: draghi, orchi, streghe ma anche tribù turche.

La sorte di Firdusi volle però che proprio quando l'opera fu completata, il re


turco Mahmud conquistasse il Khorasan, la regione di Mashhad. Il sovrano
non apprezzò affatto quel magniloquente elogio della Persia. Il poema era
stato scritto in farsi quando l'arabo dominava ormai nelle lettere e nelle arti,
e venne quindi subito considerato una provocazione contro il nuovo
dominio.

La tomba del popolare poeta si trova al centro di un ampio salone in


marmo. Scolpiti sui bassorilievi, i visitatori possono appassionarsi ai
principali episodi dell'epopea dello Shahnameh. Una guida entusiasta attira
la mia attenzione.

Mi avvicino e le chiedo se può spiegare qualche passo anche a noi.


Muhammad Sadegh Sadehli, cosi si chiama il giovane, ci dice di conoscere
il testo a memoria. Oltre a lavorare qui a Tus, infatti, partecipa a
competizioni durante le quali i versi vengono rappresentati da attori in
costume.
«Ecco il felice luogo nel quale riposa il maestro della lingua persiana»
spiega mentre facciamo il giro del tempio. «E

stato Firdusi a raccontare la storia di questo Paese. Le sue parole fanno


rivivere lo spirito della nazione nell'animo di tutti gli iraniani, e la sua
tomba occupa un posto nel cuore degli abitanti di questa terra eterna.»

Intorno a noi riconosco le manifestazioni di rispetto e simpatia che avevo


già notato sulla tomba di Hafez a Shiraz.

Le donne vestite di nero si inginocchiano e appoggiano la fronte sul marmo


freddo del sepolcro, le ragazze recitano brevi preghiere, gli uomini si
fermano per un momento di raccoglimento.

«Quando non c'era la televisione in tutte le case iraniane si raccontava lo


Shahnameh: si ripeteva la storia di Rostam che uccide il drago» prosegue
Muhammad Sadegh.

Poi si ferma e per un attimo resta in silenzio. Ho l'impressione che si stia


concentrando. All'improvviso apre le braccia, si mette in posa e il tempio di
Firdusi risuona della sua voce possente. Sta declamando i versi così
intensamente che tutti i visitatori si fermano per ascoltarlo. Con ampi gesti
mima Rostam che sconfigge la belva selvaggia. Assisto al corpo a corpo,
sento le grida e i latrati, e quando Muhammad mette il piede sulla testa del
drago ucciso, mi sembra di vederlo, l'Èrcole iraniano in tutto il suo
splendore. Non ho capito praticamente niente, ma sono rapita come gli altri
che si sono radunati in cerchio attorno a noi. Le videocamere si sono messe
in azione e nessuno intende più andarsene: la magia funziona e la gente non
vuole che finisca.

«Gli iraniani sono dei sentimentali» ci confida Muhammad allontanandosi.


«Hanno molta tenerezza nel cuore. Per loro la poesia è il modo migliore per
esprimere le emozioni.» Dopo l'exploit da cantastorie lo guardo con altri
occhi, ignorando per un attimo il suo aspetto trasandato.

«Dietro alla storia dello Shahnameh c'è tutta la filosofia della lotta contro
gli usurpatori, contro un potere che non vuole ritirarsi. Firdusi impartisce
una lezione ai dittatori: anche se resisterete per mille anni, un giorno
arriverà qualcuno che vi spodesterà.» Ho l'impressione che questa lezione
valga ancora per tutti in Iran.

La Rivoluzione ha cercato di ignorare Firdusi così come ha cercato di


ignorare Persepoli. Ma non sarebbe stato possibile insistere su questa strada
senza passare per oscurantisti. E stato il presidente Khatami nel 1998 a
riabilitare pubblicamente il poeta in occasione della sua storica visita
all'Onu.

«Ma come spesso accade, le cose non sono semplici come sembrano»
continua Muhammad. «I personaggi di Firdusi sono continuamente
combattuti tra il Bene e il Male, tra i loro interessi e i loro ideali. Così
quando Rostam uccide il figlio Sohrab lo fa per errore: fino all'ultimo
istante non sa di combattere contro suo figlio. La sua morte è una tragedia,
ma noi la interpretiamo soprattutto come la dimostrazione dell'impossibilità
nella mitologia persiana che un figlio possa uccidere il padre.» Il contrario
di quanto avviene nel mito occidentale di Edipo. A dimostrazione
dell'incapacità degli iraniani di sbarazzarsi dell'immagine e del potere del
patriarca. E a conferma della difficoltà di una società di confrontarsi con il
cambiamento e la modernità.

Alcune donne se ne stanno all'ombra fuori dal mausoleo e mi piacerebbe


scambiare due parole con loro. Sono avvolte nei loro chador e bevono
acqua da una fontanella. Mi spiegano di aver viaggiato ventiquattr'ore in
autobus per venire a Mashhad dal porto di Bandar Abbas, sul Golfo. Sono
qui per pregare l'imam Reza ma anche per rendere omaggio a Firdusi, di cui
hanno studiato i versi da bambine. E la prima volta che viaggiano senza
mariti: «Siamo noi gli uomini»

mi rispondono divertite quando mi mostro stupita.

«Che cosa unisce l'imam Reza al poeta Firdusi?» domando.

«L'imam placa il cuore degli uomini e il poeta li fa sognare» mi risponde


una di loro senza esitare.
Mentre ci allontaniamo, incrociamo un uomo di una certa età che ha l'aria di
un viandante perso sulla mitica via della seta, che passa proprio di qui.
D'istinto gli chiedo da dove viene. «Vengo dalla luna e vado verso il sole»
mi risponde con l'aria invasata.

Prima di lasciare questo giardino di pace, Taraneh mi traduce l'iscrizione


che decora una facciata della tomba del glorioso poeta: «Ho creato un
paradiso di parole. Nessuno come me ha piantato semi di parole. Ho
resuscitato l'Iran con la lingua farsi. Tuttavia ho sofferto indicibilmente per
trent'anni. Ho speso tutto il mio tempo mentre la giovinezza mi sfuggiva. Il
mio volto, che era dorato come il pane, è diventato bianco, anche la mia
barba nera ora è canuta. Ma non morirò mai perché ho seminato versi e
chiunque li leggerà canterà le mie lodi».

Prima di ripartire convinco Jacques, Taraneh e Zohreh ad andare


all'Hezordestan Tea House sulla via principale di Mashhad. Mi hanno detto
che è una casa del tè molto suggestiva. Scendiamo alcuni gradini e
scopriamo un ambiente coinvolgente e rilassante che lascia correre i ricordi.
Distesi sui tappeti della grande panca ammiriamo tutto intorno, sulle pareti,
i tessuti dai colori caldi e i quadri che raffigurano gli episodi del Libro dei
Re. Firdusi è ancora con noi. Un cameriere discreto ci porta infusi di ogni
tipo di erbe, dolcetti ricchi di amido e acqua di rose e per finire un
cocomero fresco.

Siamo tutti sfiniti. Osservo un anello verde al dito di Zohreh. «È una pietra
che ho comprato alla Mecca. Una settimana a Medina, tre giorni nel
deserto, tre giorni intorno alla Kaaba e di nuovo tre giorni nel deserto. È il
grande pellegrinaggio che ogni buon musulmano deve fare almeno una
volta nella vita. Ci tornerò, e questa volta pregherò anche per te e Jacques.»

Lo sciismo e la sua straordinaria risonanza nell'anima collettiva degli


iraniani hanno rappresentato la matrice ideologica della Rivoluzione.
L'ultima tappa di un lungo cammino che ha fatto della devozione un'arma di
lotta nelle mani dei diseredati e degli insoddisfatti. Lo «sciismo rosso» che
ha rovesciato lo Scià ha messo al centro del processo politico i credenti, che
dall'attesa passiva e dolorosa di un futuro migliore, come previsto dalla
tradizione sciita quietista, sono passati a essere gli attori principali della
lotta contro l'ingiustizia sociale. Gli ideologi sciiti non vi hanno visto una
contraddizione con il mito del dodicesimo imam, il dogma della fine del
tempo e del trionfo di un mondo giusto. La mobilitazione politica viene
vissuta come un modo per accelerare l'avvento del Mahdi, non come una
sua alternativa.

Ma questo comporta dei rischi. E oggi i religiosi hanno il diritto di chiedersi


se la politica non li abbia corrotti e se il loro ruolo temporale non abbia
incoraggiato la secolarizzazione della società facendoli diventare
anacronistici prima del tempo.

«La credibilità del clero che ha fatto politica ne ha risentito, mentre non ne
ha risentito quella di chi ne è rimasto fuori.»

Chi mi parla è uno che sa. Ho incontrato l'ayatollah Youssef Sanei a Qom,
dopo aver discusso di donne e Islam con la sua collega Zohreh Sefati.

Mi ritrovo seduta davanti a un ometto con la barba bianca e un sorriso


simpatico. Si sostiene a un bastone dal pomo d'argento ed è vestito in modo
semplice con una tunica grigia e un leggero mantello marrone. Porta un
turbante bianco.

E uno dei pochi Grandi Ayatollah che risiedono a Qom. Quando critica il
regime, il regime lo ascolta. E si irrita.

«Chi detiene il potere non vuole che il popolo lo riconquisti. Bisognerebbe


cambiare sia la Costituzione che le leggi»

dice convinto Sanei, che è a favore di un ridimensionamento del ruolo della


Guida Suprema nella gestione degli affari del Paese. In questo si trova
d'accordo con un altro Grande Ayatollah, Hussein Ali Montazeri, oggi
ottanta-treenne, che doveva essere il successore di Khomeini. Invece fu
condannato per sei anni al domicilio coatto per essersi espresso duramente
contro la deriva autocratica del regime. Oggi, ormai libero, è in viaggio nel
Nord del Paese.

L'ayatollah Sanei è considerato un liberale e per questo gli è stata spesso


negata la libertà di parola. In svariate occasioni non ha potuto incontrare né
la stampa né gli stranieri. Ora per fortuna le cose sono un po' cambiate e le
autorità di Teheran mi hanno permesso di avvicinarlo. Tuttavia è chiaro che
dietro al monolitismo di facciata si disputano battaglie feroci nel mondo
rarefatto della gerarchia politico-religiosa iraniana. La morte dell'imam
Khomeini ha lasciato un vuoto che non è mai stato colmato. Le istituzioni
teocratiche volute da lui o per lui sono ora nelle mani di uomini che non
hanno lo stesso carisma e non godono della stessa autorevolezza. E sempre
più spesso sono messe in discussione nel nome di quegli strumenti di
democrazia parlamentare di cui il Paese si è dotato.

«Ai tempi dell'Imam le cose non sarebbero andate così» afferma con grande
rammarico il vecchio combattente compagno di Khomeini nella battaglia
contro lo Scià.

Sanei si è rifiutato di andare alle urne al primo turno delle presidenziali, ma


poi ha denunciato la. fatwa emessa dal rappresentante di Khamenei a Qom,
l'ayatollah Yazdi, che ha dato istruzione ai Basij e ai Guardiani della
Rivoluzione di votare per il sindaco di Teheran, l'ultraortodosso Ahmadi-
nejad. Mobilitando così milioni di persone. Per il secondo turno tutti i
Grandi Ayatollah della città santa si sono schierati a favore di Rafsanjani.
Ovviamente anche loro auspicano che la situazione cambi, ma Sanei è
tutt'altro che sicuro che «re Akbar» sarà eletto.

«Una prova che l'eredità della Rivoluzione è ancora viva sta in queste
elezioni presidenziali» dice convinto. «Nella dimostrazione lampante della
grande maturità politica acquisita dal popolo, nonostante gli imbrogli.»

«Ma la Rivoluzione non ha lasciato anche molti problemi irrisolti?»

«I problemi che l'Iran deve affrontare sono sostanzialmente tre: la


mancanza di democrazia, il consumo di droga e la disoccupazione dei
giovani. Ma il futuro del Paese è nelle mani dei cittadini, sono loro a dover
scegliere con il voto le persone in grado di migliorare la situazione.»

Gli chiedo se sa dirmi chi detiene veramente il potere in Iran. Lui riflette a
lungo e poi risponde: «Non lo so».
Franchezza o prudenza?

Eppure il nocciolo è questo in un Paese così ricco e multiforme. Come


avviene il mercanteggiamento ai vertici dello Stato tra la Guida, il
presidente e il Parlamento? Gli arbitri si trovano a Qom come dovrebbe
essere? O in circoli ancora più segreti all'interno del sistema di sicurezza
dello Stato? O forse nelle file di coloro che si arricchiscono con l'economia
sotterranea? È questa miscela che probabilmente rende il regime poco
chiaro agli occhi di tanti iraniani e di tanti stranieri.

«Ma cosa resta della Rivoluzione?» insisto.

«La Repubblica islamica ha fatto cose buone, ma quello che sognavamo


non si è ancora realizzato. D'altronde non si può imporre il cambiamento,
solo la gente è in grado di pro muoverlo, e nessuno può intervenire da
fuori.»

«Allora serve un'altra rivoluzione?»

«No, serve il progresso, un passo dopo l'altro.»

La strada sarà lunga. Rientriamo a Teheran. »

CAPITOLO 14
SOTTO IL CHADOR

In Farsi lapai significa letteralmente «in mezzo alle gambe». E la pratica


sessuale più diffusa tra la gioventù iraniana.

Nella Repubblica islamica i rapporti prematrimoniali sono proibiti per legge


e puniti con arresti e frustate e l'adulterio può determinare una condanna a
morte. Ma le giovani generazioni non hanno certo rinunciato a quelli che
sono considerati i desideri più inconfessabili. E la realtà che ho scoperto
intervistando Pardis Mandavi ha stupito persino me, che sono figlia della
rivoluzione sessuale.

Per preservare la loro verginità, ufficialmente un valore supremo nella


società iraniana, le ragazze provocano il piacere dei loro partner
stringendone il sesso tra le gambe ed evitando così la penetrazione. Ecco
cos'è il lapai.

Come per tutte le sfaccettature della quotidianità persiana, improntata


all'ambiguità e alla doppiezza, anche i giovani, che costituiscono i due terzi
della popolazione, conducono letteralmente una doppia vita: una pubblica e
una privata.

Agli occhi di un osservatore esterno si mantengono casti e puri seguendo i


rigidi precetti della Sharia, ma guardando più attentamente sotto il chador si
scopre un mondo segreto fatto di feste, incontri sessuali, droga, Aids e
gravidanze non volute.

Come mi ha spiegato una volta Shahin, la figlia diciannovenne di una mia


conoscente dell'alta borghesia di Teheran, bevendo il suo vodka-Martini
abbandonata sull'ampio divano del suo salotto: «La differenza tra noi e voi
è molto semplice: quando voi volete divertirvi uscite e se volete pregare e
raccogliervi rimanete a casa. In Iran, quando vogliamo pregare usciamo e se
vogliamo divertirci ci chiudiamo dentro casa».
Assieme a Taraneh incontro Pardis per un aperitivo al caffè Yashel, nella
zona chic della capitale dove, bevendo bibite e birra rigorosamente
analcolica, i giovani cercano di riprodurre modalità di incontro occidentali.

Il locale è molto affollato, ma i ragazzi siedono separati dalle ragazze.


Probabilmente è solo un caso visto che, grazie agli otto anni di politica
riformista di Khatami, i giovani osano sfidare apertamente le leggi della
segregazione.

La ventinovenne ricercatrice iraniana è nata e vissuta negli Stati Uniti. Da


cinque anni è impegnata in una complessa indagine sulle abitudini sessuali
dei ragazzi persiani tra i quindici e i venticinque anni. Con il suo viso acqua
e sapone, senza naso né labbra «plastificati», mi sembra completamente
fuori moda rispetto alle sue coetanee dei quartieri bene di Teheran.
Truccatissime con i visi trasformati dalla chirurgia estetica fanno ampio
sfoggio di accessori all'ultima moda.

Quando glielo faccio notare Pardis scoppia a ridere e mi spiega che tutte le
sue amiche non fanno altro che spronarla a seguire il loro esempio, a
cominciare dalla rinoplastica: «Trovo che questa epidemia di nasi rifatti sia
uno dei tanti sintomi del malessere di questo Paese».

Davanti a un frullato di banana la studiosa comincia a raccontarmi gli esiti


della sua ricerca che si è concentrata sulla gioventù delle aree urbane
incluse Teheran, Mashhad e Shiraz.

«Fanno più sesso di noi in Occidente, perché per loro è da sempre un frutto
proibito. Sono decisamente molto creativi sia nella scelta dei luoghi che
delle pratiche sessuali. Fanno l'amore nei bagni pubblici, nei magazzini
abbandonati, in montagna, nei luoghi più appartati. Quello che mi ha
davvero colpito è la frequenza delle orge, che si consumano nelle case
private in assenza dei genitori.»

Mi sembrano lontane anni luce le immagini che uno dei più bravi operatori
della Rai, Franco Stampacchia, aveva ripreso nel Park Mellat durante uno
dei nostri viaggi in Iran, quando le prime coppie si prendevano timidamente
per mano nascoste dietro ai cespugli. Le regole di comportamento imposte
dalla Repubblica islamica sono quanto meno irrazionali. «Sono maniaci»
dice Taraneh. «Sugli autobus noi donne dobbiamo stare sedute dietro,
mentre nelle cuccette dei vagoni letto siamo tutti ammassati nello stesso
scompartimento.» In effetti non esiste una netta linea di demarcazione. Per
esempio, le donne sono divise dai maschi negli uffici pubblici, ma poi si
ritrovano pressate insieme a loro come sardine negli ascensori. Anche negli
aeroporti ci sono entrate separate ma sull'aereo siedono le une accanto agli
altri.

Pardis prosegue nell'illustrazione del suo rapporto che forse diventerà un


libro. «L'intensa attività sessuale riguarda sia le classi più agiate che quelle
più povere. La differenza è che i meno abbienti si sentono più colpevoli, si
incontrano in luoghi più sporchi e meno sicuri e le ragazze non vanno dal
ginecologo. Il grande problema è che non si proteggono e contraggono ogni
tipo di malattia venerea, oltre naturalmente a correre maggiori rischi di
maternità indesiderate.»

«Che cosa fanno le ragazze quando restano incinte, visto che in Iran l'aborto
è illegale?»

«Attualmente sono numerosi i medici che praticano l'aborto, a prezzi spesso


proibitivi, ma la soluzione più drammatica è quella del cotv shot. C'è una
stradina dietro il bazar dove vendono iniezioni per provocare l'aborto nelle
mucche: le ragazze che non vedono via d'uscita ricorrono anche a questi
rimedi estremi! Alcune volte ci lasciano la pelle, altre vengono ricoverate
d'urgenza in ospedale. Una delle donne che ho intervistato, a ventitré anni
aveva già subito sei aborti.»

«Ma è così difficile procurarsi i contraccettivi?»

«Ti racconto che cosa accade a una giovane donna che vuole comprare dei
preservativi, ovvero quello che è successo a me. Il farmacista mi ha
sottoposto a un vero e proprio interrogatorio, chiedendomi se fossi sposata,
dov'era l'anello nuziale, come mai mio marito non era con me. Essendo io
nubile e anche un po' imbarazzata per tutte queste domande di fronte ad altri
clienti, ho preferito rinunciare. Nel Paese del gossip molti ragazzi hanno
paura di essere colti in flagrante.»
«Una mia amica iraniana mi ha raccontato che proprio per restare vergini le
ragazze praticano molto il sesso orale.»
«Quando ho cominciato la mia ricerca, nel 2000, la fellatio era molto
diffusa, ma adesso le giovani sembrano più consapevoli dei loro diritti,
rivendicano il proprio piacere e la considerano umiliante. Però praticano
molto sesso anale.

Sempre per restare illibate.»

«Sono molto spregiudicate.»

«Direi di sì. Quando vado ai loro party sono vestite in maniera provocante,
ballano in modo sensuale, usano droghe -

oppio, hashish, marijuana - e sono quasi sempre loro ad abbordare i ragazzi.


Spesso hanno tre boyfriend contemporaneamente. Non so come facciano!
Forse è perché hanno molto tempo a disposizione, visto l'altissimo tasso di
disoccupazione giovanile, e soprattutto si annoiano tanto. Mi ha sempre
stupito la rapidità con la quale le ragazze finiscono a letto.»

In una delle tante testimonianze raccolte da Pardis, Leila Somagh,


diciannove anni, spiega come le giovani donne, proprio perché mostrandosi
in giro con un uomo rischiano il carcere, bruciano le tappe classiche del
corteggiamento:

«Non possiamo incontrarci al ristorante, non ci sono cinema né discoteche


dove conoscerci un po' meglio, allora cosa facciamo? Andiamo
direttamente a casa di lui e 11 accade l'inevitabile. Dopo un po' si finisce a
letto».

In tutta questa frenesia sessuale viene da chiedersi che ruolo abbia la


religione nel Paese in cui il potere è in mano ai mullah.

La ricercatrice sostiene che è ancora importante, ma ciascuno comincia a


recuperare il proprio approccio personale alla fede. Lo spiega bene Reza
Amiri, un giovane di ventisette anni intervistato da Pardis. Si sente frustrato
per essere stato trasformato dalla Repubblica islamica in una specie di
«bestia affamata di sesso»: «Nell'Islam in realtà i rapporti prematrimoniali
non sono un peccato». Per avvalorare la sua tesi cita le riflessioni di ben due
imam sciiti, tuttavia anche secondo le interpretazioni più moderne
dell'Islam il suo assunto resta assai discutibile.

Si è fatto tardi e devo scappare perché ho un appuntamento a cena. Mentre


saluto la simpatica studiosa le dico che ho l'impressione che l'attrazione
quasi morbosa verso il sesso sia una delle tante forme di ribellione contro
un regime repressivo. Ma per quanto tempo riuscirà ancora a imporsi? La
gioventù iraniana difenderà con le unghie e coi denti i pochi spazi di libertà
conquistati alla luce del sole. E continuerà a prendersi le sue rivincite
all'ombra del chador.

Nei primi anni della sua dittatura, Khomeini tentò di bandire i saloni di
bellezza bollandoli come «luoghi di perdizione». Alla fine, tutto quello che
riuscì a ottenere fu una schiera di coiffeur uomini disoccupati.

In realtà il parrucchiere è considerato dalle donne iraniane uno di quegli


angoli confidenziali irrinunciabili dove potersi incontrare, discutere, mettere
a confronto le proprie esperienze. Può sembrare paradossale investire in
elaborate acconciature quando poi c'è l'obbligo di portare sempre un velo in
testa. In realtà è un modo per ribadire alle autorità religiose che le donne
non rinnegheranno mai l'importanza della bellezza. Mai rinunceranno alla
possibilità di condividere i segreti più reconditi con le loro «sorelle» per
dedicarsi a una delle attività più in voga in Iran: il pettegolezzo. Esercizio
molto salutare, stando a quanto sostiene la nonna di Marjane Satrapi.
«Parlare alle spalle della gente è il ventilatore del cuore» dichiara la saggia
donna in Broderies, uno dei più divertenti libri a fumetti della brillante
scrittrice persiana, che racconta con squisita ironia le conversazioni private
delle donne iraniane.

Gila gestisce da tre anni un negozio di parrucchiere molto discreto in un


quartiere elegante di Teheran. La vado a trovare, così ne approfitto per
sistemarmi un po' i capelli. Al piano terra di un palazzo signorile in mezzo
al verde, la giovane iraniana che ha vissuto undici anni in Italia accoglie le
sue clienti con un gran sorriso e un bicchiere di té. Alle pareti campeggiano
le foto di fanciulle avvenenti con le pettinature all'ultima moda, dai
paraventi fanno capolino le boccette dei cosmetici, mentre dentro le cabine
le estetiste sono impegnate nei loro sofisticati trattamenti.
«Qui le donne si fanno fare di tutto,» esordisce la pro-prietaria con un
italiano quasi impeccabile «dalle acconciature ai massaggi, dalla ceretta alla
manicure: sono letteralmente ossessionate dalla bellezza.»

Appena entrata consegno manteau e foulard a una gentile inserviente e mi


siedo su uno dei comodi divanetti rossi in attesa del mio turno. Come tutte
le donne che si sono liberate dei paramenti islamici, tiro un sospiro di
sollievo. Le dodici dipendenti di Gila sono indaffarate ad accontentare
anche le clienti più esigenti che vogliono emulare le consorelle ammirate
sui canali satellitari Mtv e Fashion Tv. Comincio a chiacchierare con Mitra,
da due ore alle prese con delle improbabili mèches bionde. Trentatré anni e
due figli, moglie di un ricco costruttore edile, ci tiene a presentarsi come
una donna moderna e in linea con le ultime tendenze. Non le manca niente:
borsa Fendi, orologio Cartier, attillatissimi jeans con strass di Cavalli. A
corredare il suo look un naso fresco di bisturi, un nuovo seno prorompente
e, come mi confessa in un soffio, un ventre ultrapiatto frutto di un'efficace
liposuzione.

Alla mia domanda se le piaccia portare il velo, dopo un perentorio «no» si


apre a una serie di confidenze per me inimmaginabili con una persona
sconosciuta.

«Lei deve sapere che sotto il chador accade di tutto.»

Il velo islamico non è un chiodo fisso solo per le occidentali. Lo è molto di


più per le tante iraniane che lo considerano il simbolo massimo della
discriminazione e della miso-ginia del regime.

Da sempre utilizzato per servire aspirazioni personali e ideologie politiche,


diventa di volta in volta emblema di arretratezza, di progresso, di
nazionalismo o di dominazione. Un simbolo di purezza e poi di corruzione.
Utile però all'inizio della Rivoluzione per far entrare le donne più
tradizionali nella vita pubblica: mimetizzate sotto Yhijab per loro si sono
aperte le porte dell'amministrazione statale, delle università e degli ospedali.
E guidare non è più stato un problema. Ha ragione la disinvolta signora
incontrata dal parrucchiere, che come tante altre si è organizzata in una
resistenza permanente contro la supremazia del chador.
E pensare che, come accade spesso nell'Islam, è tutta una questione di
interpretazione. Il Corano, infatti, prescrive che le donne si coprano il seno
e nascondano gli attributi femminili. Solo una lettura più intransigente e
tradizionale considera

«peccaminose» tutte le parti del corpo di una donna. Esclusi le mani e il


volto. Non bisogna dimenticare peraltro che praticamente tutte le religioni
hanno consigliato alle donne di coprirsi nelle varie epoche storiche.

«Gli uomini in questo Paese pensano di poter fare di noi quello che
vogliono. È come se ci disprezzassero» prosegue Mitra. «Ma con tutta la
loro repressione hanno ottenuto esattamente il contrario: il tasso di infedeltà
nelle nostre coppie, per esempio, è altissimo.»

La mia audace interlocutrice conferma quello che Pardis mi ha già


preannunciato: «La maggior parte delle mie amiche ha un amante, e gli
uomini fanno altrettanto».

«E suo marito la tradisce?»

«Oh no! Lui non osa farlo perché io sono ricca di mio e anche la casa in cui
viviamo mi appartiene.»

«E lei ha un amante?»

«No, no... Il nostro è un matrimonio felice.»

Come sempre è più facile puntare il dito contro gli altri.

Ci spostiamo entrambe nella cabina per la manicure. Mi rendo subito conto


che non potrò mai competere con Mitra, che ancor prima della seduta
sfoggia lunghissime unghie finte alla Crudelia Demon.

«Quando vogliamo davvero divertirci andiamo a Dubai. Io ci vado almeno


tre volte l'anno.» «Anch'io ci sono stata» le fa eco la mia estetista Maryam
che ha pensato bene di farsi ingrandire il seno fino a raggiungere una
ragguardevole quinta misura.
Cerco di spostare la discussione sulla politica in vista del secondo turno
delle presidenziali. E come ovunque nel Paese, anche qui la borghesia
urbana si divide tra chi andrà a votare per il male minore, Rafsanjani, e chi
invece sceglierà di astenersi, convinto che nulla cambierà. Mitra opta per la
prima ipotesi: teme che «Ahmadinejad ci imprigionerà di nuovo sotto il
chador».

Il dottor Ahmad Ahmadi è chirurgo estetico specializzato in rinoplastica e


membro indipendente del Parlamento iraniano. L'ho conosciuto alla partita
di calcio Iran-Corea del Nord e ci siamo scambiati i biglietti da visita.
Decido con Taraneh di andarlo a trovare una mattina nel suo ambulatorio
nel centro di Teheran. La sala d'attesa è vuota perché è venerdì, giorno
festivo per i musulmani.

Nel suo studio provvisto di lettino e computer di ultima generazione mi


mostra una serie di fotografie con il classico

«prima e dopo» l'intervento. Nella prima immagine c'è una ragazza di


trentadue anni con un grosso naso aquilino trasformato in un nasino all'insù,
sebbene ancora un po' corposo. Nel secondo scatto è ritratta un'altra donna
che porta il classico chador nero ad avvolgerle i contorni del viso su cui
spicca un grande naso a forma di proboscide: dopo la cura il naso
elefantiaco non è bellissimo, il mento resta ancora troppo pronunciato, ma il
profilo è decisamente migliore.

Il dottor Ahmadi è medico otorino da quindici anni: «Solo a Teheran ci


sono oltre 300 chirurghi specializzati in rinoplastica» mi spiega. «Abbiamo
il più alto tasso di interventi al naso al mondo, tanto che ormai c'è una
nuova espressione in Iran: "Un naso da un milione di tomani".»

Il prezzo medio per questo tipo di intervento, in realtà, va dai 1000 ai 4000
dollari. Ci sono però anche medici che operano per 400-500 dollari, seppur
con risultati non sempre brillanti. L'età delle donne che si sottopongono
all'operazione va dai nove ai quarantacinque anni. Girare per le grandi città
iraniane e incontrare continuamente nasi bendati è ormai una cosa normale.
Inizialmente credevo si trattasse di vittime di incidenti, solo dopo ho capito
che mi trovavo davanti a una specie di «epidemia dei nasi».
Il dottor Ahmadi mi conferma che ormai non sono più solo le donne, ma
anche gli uomini a volere un naso meno

«persiano», notoriamente adunco. «Molti se lo rifanno semplicemente


perché è di moda. Altri, questo vale per le ragazze, vogliono che almeno il
loro viso sia perfetto visto che portando il chador hanno tutto il resto del
corpo coperto.» «Ma che rapporto hanno le iraniane con il proprio corpo?»
«Ci sono le più tradizionaliste, che vivono prevalentemente nelle zone rurali
e per condizioni culturali ed econo-miche non hanno molto tempo da
dedicare a se stesse né tanto meno alla chirurgia estetica» mi spiega il
dottore. «Ci sono poi le donne più moderne, che vivono nelle città e
ricorrono agli interventi estetici più disparati: dal seno al naso, dalla
liposuzione al V'anterior andposterior repair ofvaginal andanus area", che
serve in particolare a restringere la vagina dopo aver partorito molti figli.
Operazione molto richiesta anche dalle donne più conservatrici.»

«E la pratica della ricostruzione dell'imene?» «E ancora molto diffusa. Non


è la mia specialità, ma il collega qui accanto è un ginecologo che viene
spesso interpellato. Anche in questo caso a richiederlo sono ragazze di tutte
le estrazioni sociali, che soprattutto nei matrimoni combinati hanno il
dovere di portare in dote la verginità.»

Dopo mezz'ora di conversazione si affaccia nello studio una giovane


paziente per un controllo al naso operato cinque giorni prima. Si chiama
Mehri, ha ventun anni e lavora come segretaria in uno studio legale. Porta
un foulard arancione con un manteau al ginocchio piuttosto aderente. Il
padre fa il meccanico, la madre è casalinga: è una tipica rappresentante
della classe medio-bassa. L'intervento se lo è pagato con l'aiuto del padre.
Nella sua famiglia già cinque tra sorelle e cugine hanno fatto lo stesso.

Mehri è accompagnata dalla zia, Zehri, una bella quarantenne con un naso
assolutamente normale anche se non perfetto.

Esordisce dicendo che se fosse più giovane non esiterebbe a rifarselo. Oggi
Mehri vedrà per la prima volta la nuova conquista ancora nascosta dalle
bende. Ha l'aria sofferente e tesa. Si piacerà ancora? Il dottore le toglie i
cerotti e poi le porge uno specchio. La sua prima reazione è di perplessità:
«Non sarà troppo all'insù? E poi mi sembra di non respirare troppo bene...».
La ragazza si alza e va a guardarsi nello specchio più grande toccandosi il
naso ancora incredula.

Chiede l'opinione della zia, che la rassicura dicendo che è molto meglio di
prima. Anch'io e Taraneh la incoraggiamo a proseguire tranquilla lungo il
nuovo corso estetico, anche se per la verità il naso sembra scolpito con
l'accetta. Avendo però visto la foto dell'originale devo ammettere che il
risultato finale si può considerare soddisfacente.

Lo studio del dottor Ahmadi si trasforma senza troppi preamboli in un


confessionale e io mi ritrovo senza volere, una volta ancora, a raccogliere le
confidenze di due perfette sconosciute.

«A quarantanni mi sento già vecchia» mi rivela la zia di Mehri. «Lei deve


sapere che in Iran moltissime donne soffrono di depressione proprio perché
non si sentono libere. E non è solo perché dobbiamo portare il velo. Sono
soprattutto la mentalità e la cultura a soffocarci. Io, per esempio, facevo la
parrucchiera e appena sposata, mio marito, come la maggioranza degli
uomini iraniani, mi ha impedito di lavorare. Solo nei due anni in cui la sua
società era fallita sono potuta tornare alla mia attività. Ma appena si è
rimesso in piedi ha ripreso le vecchie abitudini. Anzi, peggio: ha preso i
miei soldi, e oggi per avere qualcosa in più oltre al denaro per la casa devo
pregarlo ogni volta. Tutto questo è molto umiliante.»

Le chiedo perché non ha inserito nel contratto matrimoniale delle garanzie


di libertà.

«Purtroppo la maggioranza delle donne pensa che non sia necessario anche
perché, come lei sa, l'amore rende ciechi»

mi dice con amarezza. «Quando poi si è costrette ad aprire gli occhi è


troppo tardi. Io volevo includere tra le clausole il diritto al divorzio, ma la
famiglia di mio marito non era d'accordo e ha avuto la meglio. Stessa cosa
per il lavoro. Il problema è che su una donna economicamente autonoma
l'uomo non può più esercitare il suo dominio.»

Le chiedo se ami ancora suo marito. Imbarazzata, dopo un iniziale


tentennamento, mi risponde di sì, per aggiungere subito dopo che se però
avesse saputo come si sarebbe comportato non lo avrebbe mai sposato.

«E allora perché non divorzia?»

Mi spiega che nella società iraniana il divorzio è malvisto e una donna


separata è guardata con sospetto. «E nessun altro uomo mi accetterebbe con
un figlio, per di più alla mia età.» Interviene il dottor Ahmadi, dandole
ragione su tutta la linea: «Gli uomini iraniani pensano che le mogli siano un
oggetto di loro proprietà».

Improvvisamente Mehri, rimasta sdraiata sul lettino a sbirciare nello


specchio, prende la parola: «Sono d'accordo con la zia. Io dovrò sposarmi
per forza perché non riesco a mantenermi da sola. In più se non ti sposi
pensano che hai qualcosa che non va. Hai tempo al massimo fino a
trent'anni».

Zehri ribatte confermando che la vita da single è molto più diffìcile: «Una
mia amica nubile di quarantanni per riuscire ad affittare una casa ha dovuto
presentare come garanti il fratello e la mamma. Però, cara Mehri, ti dico che
nonostante le difficoltà è comunque meglio non sposarsi. Impegnati per la
tua indipendenza economica e ce la farai».

Il dottore tenta di spezzare una lancia a favore della società iraniana


rimarcando che negli ultimi anni con Khatami le cose sono cambiate. Ma
Zehri è ormai presa dal suo cahier des doléances e si infervora man mano
che racconta le angherie del marito: «Quando era un fallito era carino con
me. Ma da quando è tornato ricco, con la sua grande villa, la sua auto di
lusso, mi tratta male. E tutto suo, anche se io ho contribuito a costruire
questo benessere. Non ha nemmeno voluto che prendessi la patente».

Il suo volto si riga di lacrime. Si dice certa dell'infedeltà del marito che per
stare tranquillo con le sue amanti va a Dubai, in Germania o in Canada. Le
chiedo se non teme che un giorno torni a casa con l'Aids e lei mi risponde:
«Sono terrorizzata dall'Aids, ma lo è anche lui».

«Come fa a saperlo?»
«Perché una volta, durante una grande festa di famiglia, ho ascoltato le
conversazioni degli uomini, seduti in un sa-lottino a parte: si confermavano
a vicenda che nelle loro avventure extramatrimoniali, per non correre rischi,
usavano il preservativo.»

Le racconto che quella mattina, per la prima volta, ho visto per le strade di
Teheran cartelloni pubblicitari che vorrebbero sensibilizzare l'opinione
pubblica sull'Aids, in cui però ci si rivolge solo alle donne.

«Ecco un'altra prova della cultura maschilista. Si raccomandano alle donne


perché così le colpevolizzano, anche se il sesso promiscuo lo praticano
soprattutto i maschi. È vero però che ormai molte ragazze se la fanno con
più di un ragazzo: perfino una mia amica casalinga, che non ne può più del
marito, lo tradisce per dispetto.» Le chiedo se non abbia mai pensato di farsi
un amante. Mi risponde secca: «Non qui in Iran».

«La discriminazione delle donne ha a che fare con l'Islam?»

«No» dice perentoria. «L'Islam è molto meglio di tutto questo.»

In Iran, appena si tocca il tasto della vita privata, le ragazze come le spose si
trasformano in fiumi in piena, mosse dal bisogno di confrontarsi con le
donne occidentali che considerano molto più fortunate.

Ma le nuove generazioni come quella di Mehri vogliono migliorare la loro


condizione. Lei stessa assicura di voler continuare a lavorare anche una
volta sposata: lo farà mettere nel contratto. Quando le chiedo che cosa ne
pensa della verginità mi dice che per lei non è un valore di per sé, «ma nella
nostra società è ancora importante. Molte mie amiche però si ribellano e
fanno l'amore anche prima del matrimonio».

Quando le chiedo se abbia un fidanzato, inaspettatamente mi rivela il suo


sogno: «Vorrei sposare un uomo europeo perchè penso abbia più rispetto
per le donne».

«Ma tu cosa ne sai degli uomini europei?»


«Li ho visti nei film, sui canali satellitari: mi sembra che trattino molto
meglio le loro mogli.»

Nel Paese dove il corpo femminile è un fantasma che cammina sotto un


mantello nero c'è una giovane pittrice che utilizza il suo per fare arte. Vado
al vernissage della mostra di Mansureh Rezaei in un afoso pomeriggio di
Teheran. La proprietaria della galleria, Ferial Salahshur, artista a sua volta,
ha appena inaugurato quello che vuole essere un museo e un luogo di
promozione di giovani talenti. E siccome il governo le ha negato struttura e
fondi, ha affittato insieme al marito, collezionista d'arte, un grande
appartamento nel cuore della capitale.

Con Taraneh comincio a visitare le varie sale. Accanto a litografie iraniane


del XIX secolo si possono ammirare gli indimenticabili scatti di Henri
Cartier-Bresson, dai ritratti di Braque e Matisse alle prostitute orientali di
Parigi, dal vecchio eunuco a Pechino al suo autoritratto: uno dei più grandi
fotografi della storia in piedi in mezzo alle sculture di Alberto Giacometti.

Nelle stanze vicino si respira tutt'altra atmosfera: è la prima volta di


Mansureh e delle sue tele provocatorie. Ha ventisei anni, un corpo minuto e
ben proporzionato e sperimenta la body art. Ecco allora al centro della sala
principale un grande dipinto di due metri per uno con impresso il suo seno,
il suo sedere, le sue gambe, le sue braccia, nei colori del rosso e del nero.

Gli invitati osservano le tele con un misto di curiosità e di stupore.

«Mi piace mostrare il mio corpo, anche se è anti-islamico» mi spiega fiera


nel suo manteau turchese, con il foulard in tinta adagiato sui capelli neri.
«Ogni mio dipinto ritrae una parte del mio corpo proprio perché in Iran è
proibito.»

Nel Ciclo del Circo esposto nel salone d'entrata, una serie di piccoli quadri
coloratissimi raffigura situazioni e personaggi circensi in cui prevalgono
donne discinte e sensuali nei loro corpi prorompenti.

«Ho imparato sin da piccola a soffocare le emozioni e a nascondere le mie


opinioni: solo dipingendo riesco a esprimerle.» Come tanti altri giovani
della sua generazione, Mansureh non andrà più a votare. È stanca di
aspettare chi le regalerà la libertà che le spetta di diritto.

«Io sono nata esattamente nell'anno della Rivoluzione ma non mi ha mai


convinto. A partire dall'obbligo per noi donne di portare Yhijab.» La sua
mecenate Ferial la ascolta orgogliosa, ma il suo sorriso è velato da una
preoccupazione:

«Tutte le opere dei giovani artisti iraniani parlano in qualche modo di sesso
ed erotismo. Mansureh vuole combattere l'oppressione mettendo in mostra i
corpi femminili, compreso il suo, ma non so se riusciremo ad arrivare alla
fine di questa esposizione».

In Iran capita ancora, anche se meno rispetto al passato, che un'ispezione


della polizia islamica faccia chiudere una mostra ritenuta immorale.

Secondo la Commissione per i diritti umani dell'Onu, tra il 1991 e il 1992


sono state arrestate 113.000 persone in Iran per «corruzione morale» e per
«scarso rispetto dell'hijab». Oltre dieci anni dopo le Nazioni Unite
sottolineano come ancora un numero incredibilmente alto di iraniani venga
perseguito per «atti criminali» assurdi.

La chiamano «la piccola Schumacher»: Laleh Seddigh, ven-totto anni, è la


prima donna pilota in Iran. Corre nei rally, ha battuto più volte i colleghi
maschi ed è diventata in breve tempo un idolo nazionale soprattutto per le
donne. Per loro districarsi nel traffico infernale di Teheran è un'impresa resa
ancor più faticosa dalla maleducazione e dalla pressoché totale mancanza di
gentilezza da parte dei machos al volante.

Ci incontriamo nella sede della Proton, che insieme alla Mazda e alla
Hyundai sponsorizza la promettente pilota che si sta allenando per
partecipare ai campionati europei. Nel cortile sotto gli uffici Laleh sta
ultimando un'intervista con la televisione britannica, seduta nella sua
fiammante auto da competizione. In questo periodo elettorale è diventata
suo malgrado una portavoce dell'Iran più moderno e si concede ai
giornalisti di mezzo mondo. È una ragazza molto carina, piccola ma
armoniosa, ai piedi un paio di stravaganti scar-pette da ginnastica bianche
con brillantini rosa. Sicura di sé come chi sa di essere capace. Benché gli
ayatollah amino poco la sua attività agonistica, è consapevole che
l'appartenenza a una famiglia ricca e importante rappresenta
un'indispensabile protezione.

«Ho cominciato a guidare a tredici anni sulla grande Buick di papa, che più
tardi, quando sono entrata nel mondo dei rally, mi ha dato una mano per
convincere quelli della Federazione a iscrivermi alle competizioni.»

La storia del rapporto tra donne e sport in Iran è, come tante altre, tortuosa.
Durante la Rivoluzione le attività sportive erano praticamente scomparse
dall'orizzonte femminile perché il clero proibì ai ragazzi e alle ragazze di
allenarsi e di competere insieme. E alcuni falchi nell'establishment
religioso, oltre a considerare l'esercizio fisico frivolo e immorale, arrivarono
a stigmatizzare il ciclismo, l'equitazione, la vela e il jogging come
sessualmente provocatori. In seguito le cose sono migliorate, ma esistono
tuttora barriere invalicabili. Ricordo che ci vollero giorni di trattative nel '99
per ottenere l'autorizzazione a riprendere un gruppo di ragazze che
praticavano karatè, ma fu possibile solo perché erano velate. Nella grande
palestra dove si allenava la squadra di pallacanestro, invece, le riprese
furono proibite e ovviamente fu vietato l'ingresso agli uomini.

Alle donne non è nemmeno permesso di utilizzare le piscine all'aperto.


Durante il mese trascorso in Iran sono stata perennemente alla ricerca di un
luogo dove fare un po' di esercizio fisico. Impresa non facile. Ogni tanto
andavo con Jacques a correre lungo i vialetti che portano alla montagna
sopra Darband. La scomodità di trottare a 40 gradi impacchettata in un
foulard, pantaloni, T-shirt al ginocchio con maniche lunghe mi hanno fatto
quasi desistere dallo sforzo. A questo si aggiungevano gli sguardi curiosi e
qualche volta contrariati degli abitanti della zona, che ci hanno fatto sentire
decisamente stranieri dalle abitudini bizzarre. Abbiamo così accettato
volentieri l'invito del nostro amico Mahmud Sariolghalam di andare a
correre al campus della Beheshti National University, dove insegna
relazioni internazionali. Tra una corsa sull'erba del campo di calcio e un
commento sull'avanzata dell'ultraconservatore Ahmadinejad ci siamo potuti
ritemprare nel fisico e nello spirito.

E stata una delle figlie di Rafsanjani, Faezeh, a battersi per il diritto delle
ragazze a praticare sport. Lei stessa era stata per anni presidente della
Federazione sportiva femminile, oltre che membro del Parlamento fino al
2000. In quell'anno alle elezioni politiche non venne però più rieletta e suo
padre arrivò addirittura ultimo tra i candidati conservatori.

Faezeh rifiuta l'etichetta di femminista perché pensa che significhi


rivendicare privilegi particolari. Anche l'intrepida Laleh è dello stesso
avviso e non vuole andare oltre il suo ruolo di testimonial di una casa di
automobili da corsa.

Sembra più una star che difende il suo marchio che una suffragetta che si
batte per le sue sorelle.

«Il mio messaggio è: credete in voi stesse e otterrete tutto» mi spiega


mentre la sua bella bocca carnosa si apre in un sorriso malizioso.
«Concentratevi sul vostro obiettivo e perseguitelo con tenacia.»

Ricordo a Laleh che le regole della Repubblica islamica impediscono un


percorso di vera emancipazione. «Le donne devono rivendicare i loro
diritti,» insiste «se non chiedi non ti verrà dato.»

Mi domando se le sue parole siano frutto del naturale ottimismo della


giovinezza oppure se più semplicemente voglia rimanere fuori dalle diatribe
politiche. E giusta la seconda ipotesi.

«Non voglio parlare di politica. Anche perché se non sei un politico devi
stare attento a come parli» si affretta a dire.

Quando non corre, Laleh è una manager e una docente universitaria di


relazioni economiche.

Il suo team di dieci uomini tra tecnici e meccanici la ascolta orgoglioso.

«Certo che per noi è una situazione insolita, visto che in teoria non
potremmo neanche lavorare insieme, ma è un vero piacere poter contribuire
al successo di una ragazza così brava e cosi motivata.»

Laleh ribadisce più volte che non esiste alcuna differenza tra uomini e
donne e che è tutta questione di autostima: «Non c'entra nemmeno la
cultura islamica. Il problema è che gli uomini sono più scaltri e più
razionali nelle loro decisioni. E

di certo non amano le donne vincenti».

Le amano così poco che alla televisione pubblica, controllata dalla Guida
Suprema, nonostante avesse tolto il casco e messo un velo prima di salire
sul podio, Laleh non è mai stata vista.

Il chador che piange, il chador che ride. Nel tentativo di capire meglio la
questione sono andata con Taraneh a incontrare la donna che dovrebbe
avere tutte le risposte ai miei interrogativi: la figlia di colui che ha inventato
la Repubblica islamica, Zahra Khomeini Mostafavi. L'appuntamento con la
presidente della Women's Society of Islamic Republic of Iran è alle dieci.
L'associazione ha sede in una delle ville confiscate durante la Rivoluzione.
All'ingresso, nel giardino, si trova una guardiola accanto al bordo di una
grande piscina che da ventisei anni non vede né acqua né bagnanti.
Veniamo accolte da due ragazze col chador nero che ci fanno accomodare
su due divani grigi dove dorme un bambino. In un angolo, un televisore
acceso mostra Saddam Hussein, nemico storico degli iraniani. L'ex dittatore
ha appena fatto sapere di voler essere processato in Svizzera. Durante il
servizio scorrono le immagini delle atrocità di Halabja, dove nel 1988
migliaia di curdi vennero uccisi dal tiranno con il gas nervino. Su una
parete della sala d'attesa è appesa la foto di Ahmad, il figlio più giovane di
Khomeini morto nel '95, che porta un turbante nero su una folta barba scura.
Dopo un quarto d'ora entriamo in una piccola stanza semibuia molto
austera, dall'arredamento essenziale, resa ancor più gelida dall'aria
condizionata. Ci sediamo sui sofà di velluto beige, davanti a una grande
scrivania che sarebbe vuota se non fosse per due cornici con i ritratti di
Khomeini e Khamenei e una piccola bandiera iraniana. Sul tavolino di
fronte a noi una tazza di tè e un piatto di dolci tipici.

Arriva Zahra Khomeini: tutti me l'hanno sempre descritta come una donna
dura e poco simpatica. Dopo l'iniziale atteggiamento sospettoso, nel nostro
colloquio di un'ora sarà invece molto affabile. A volte le mie domande la
faranno ridere di gusto, altre la commuoveranno fino alle lacrime. E una
donna di sessantacinque anni ben portati e da dietro gli occhiali risaltano
due bellissimi occhi verdi ereditati, come mi spiega, dalla mamma. L'unica
traccia di trucco è un tocco di matita marrone sulle sopracciglia. Sotto il
chador porta un fazzoletto scuro e un tailleur mélange. È una docente
universitaria di filosofia orientale. Filosofi preferiti: Mullah Sadra, filosofo
mistico che ha guidato il rinascimento culturale nella Persia del XVII secolo
e... Cartesio con il suo cogito ergo sum. Mi pare una buona premessa per la
nostra discussione.

«Voglio presentarmi» esordisce. «Sono prima di tutto una casalinga, ho due


figli grandi, un marito responsabile del Centro per il dialogo tra le civiltà,
promosso da Khatami. Insegno all'università e dirigo questo centro che
esiste da diciassette anni. Ci chiamiamo Società delle donne ma lavoriamo
per tutti i più bisognosi fornendo medici e assistenti sociali. E soprattutto
denunciamo le ingiustizie nel Paese e fuori con azioni di protesta e attività
di volantinaggio.

L'ultima manifestazione è stata contro Bush per rivendicare il nostro diritto


all'energia nucleare per uso civile. Ma abbiamo fatto anche una grande
battaglia contro la Francia e il presidente Chirac, contro la legge sul divieto
del velo.»

«Qual è la condizione delle donne nell'Iran di oggi?» le domando subito.

«È molto buona. Oggi rispetto al passato poche donne vengono a


raccontarci i loro problemi, perché non ne hanno.»

Non è esattamente ciò che ho sentito io in queste settimane.

«Certo, non tutto è risolto, ma grazie alle leggi del nostro Parlamento molte
situazioni sono migliorate. Quello che ha predicato l'Imam si è realizzato:
oggi gli uomini hanno capito che le donne vanno rispettate.»

La tattica di Khomeini fu spesso contorta. Le donne che durante l'era di


Reza Pahlavi avevano cominciato a contare di più non furono disposte a
rinunciare alle loro conquiste quando scoppiò la Rivoluzione. E anche se
nella furia anti -
occidentale vennero escluse da alcune professioni, continuarono a essere
attive in tante altre. Come medici, impren-ditrici, accademiche, scrittrici,
artiste. Ma erano un'elite. La maggioranza delle donne meno istruite nelle
zone rurali non ha mai smesso di portare il velo. Nella prima fase della
Rivoluzione Khomeini decise di includerle nel processo politico
autorizzandole con una fatwa a uscire di casa e a scendere in piazza contro
lo Scià anche senza il permesso del marito o del padre. Fu così che Taraneh
giovane architetto, neo-laureata nelle università europee, si ritrovò a
marciare assieme alle casalinghe di Teheran. Quando Muhammad Reza
andò in esilio le donne di tutti i ceti si aspettarono di avere una posizione
meno sottomessa nella nuova società iraniana. Ma questo non accadde e per
molte un'altra rivoluzione, lenta, silenziosa e tuttora in corso, cominciò.

Cerco di contraddire la rosea visione di Zahra, ricordandole la dura realtà


delle cifre. «Nelle università il 65 per cento degli studenti sono donne ma
solo F11 per cento di loro trova un lavoro una volta laureate. Non le sembra
un'ingiustizia enorme?»

«Le donne se vogliono lavorano, altrimenti stanno a casa. Solo quelle meno
qualificate vengono escluse dal mercato del lavoro.»

«I dati disponibili sulla condizione delle donne dicono che è in aumento la


violenza dentro e fuori casa.»

«Problemi ci sono dappertutto, ma in Iran non è come da voi, le donne non


vengono picchiate o maltrattate, i casi di violenza sono rarissimi... Mi
raccomando: non scriva che da noi picchiano le donne!»

«I dati generali smentiscono quello che lei dice. L'ultima ricerca, condotta
in dieci regioni del Paese, rivela che il 28 per cento delle donne ha urgente
bisogno di assistenza psicologica e di farmaci antidepressivi. Non le sembra
un dato inquietante?»

«Intanto, se alcune hanno difficoltà psicologiche non vuoi dire che valga
anche per tutte le altre. Io sono ottimista per natura, vedo sempre il
bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto. Poi sa, i problemi della camera
da letto non si vengono in realtà mai a sapere. Ci sarà qualche fatto
increscioso e noi facciamo quello che possiamo. In tutto il mondo ci sono
problemi, ma da noi la gente è giovane, sana e felice!»

«Io per la verità incontro molta gente insoddisfatta e la maggior parte delle
donne chiede il diritto di scelta sul velo.

Vanno in giro con foulard colorati e manteau sempre più aderenti e più
corti.»

«Ogni Paese ha le sue leggi e tutti le devono rispettare. In Francia se vai in


giro nudo ti arrestano e da noi portare Yhijab è una legge. E non dimentichi
che il 98 per cento degli iraniani ha votato a suo tempo per la Repubblica
islamica. Una esigua minoranza non può mandare tutto all'aria. Un manteau
può essere bianco o blu, ma il velo va portato. Questo è l'Islam.»

Taraneh le ricorda gentilmente di far parte di quel 2 per cento che votò «no»
al referendum, pur avendo partecipato alla Rivoluzione. Le spiega di aver
capito ben presto che obbligare le donne a nascondersi sotto una cappa nera
non avrebbe portato nulla di buono. Ne approfitto per chiedere alla signora
Khomeini di spiegare a un'occidentale perché Yhijab è tanto importante.

«È fondamentale per la stabilità della famiglia. È naturale che un uomo sia


attratto dalle donne. Se le vede tutte diverse, vestite con abiti seducenti,
quando torna a casa sua moglie gli sembrerà brutta. Andrà dietro alle altre e
così la famiglia si sfascerà.»

Ma sta scherzando o parla sul serio? Non riesco a capire che cosa si celi
sotto il suo umorismo un po' sopra le righe.

«Guardi, mio marito ha visto solo me e pensa che io sia ancora bella! E
sono certa che non guarda le altre.»

Mi sembra che il discorso abbia preso una piega quasi surreale, ma voglio
andare fino in fondo.

«Lo sa che tanti uomini navigano su internet solo per vedere i siti porno e
chi ha l'antenna satellitare può vedere tutte le tv straniere?»
«Mio marito vede solo la tv di Stato iraniana. Altri guarderanno anche
quelle porcherie, ma alla fine tornano dalla moglie, perché sanno che quelle
donne lì non le possono avere. Un uomo islamico, se una donna non lo
provoca, resterà con la moglie per sempre.»

«Non le sembra di dipingere un mondo che non esiste?»

«Se l'uomo proprio non ce la fa a restare fedele ricorrerà al matrimonio


temporaneo.»

«Se mio marito lo facesse, lo caccerei. E lei?»

«Forse anch'io, ma vede, è proprio per questo che ci vuole il velo. L'Islam
dice che le donne non devono essere sexy davanti agli uomini, escluso il
marito.»

A questo punto la mia prestigiosa interlocutrice ride di gusto.

«Meno male... E il desiderio che fine fa?»

«Guardi che abbiamo una vita privata molto ardente, anche con Yhijab»

«Non ne dubito. Ma parliamo di suo padre. Cosa direbbe della situazione


oggi?»

«Niente. Lui credeva nell'assunzione di responsabilità individuale. Non


diceva nulla nemmeno a noi figli.»

«Che padre era?»

«Era straordinario, dai suoi comportamenti capivamo cosa era giusto e cosa
sbagliato. In privato era gentile, affettuoso e molto liberale. Per esempio, se
volevo uscire non mi chiedeva dove andavo, ma diceva solo: se puoi stai.
Oppure quando rientravo a casa non voleva sapere dove ero stata, ma
diceva: dimmi...»
«Non deve essere stato semplice avere un padre così autoritario-autorevole.
Non ha nulla da rimproverargli?»

«Assolutamente no. Ha fatto solo del bene e teneva sempre conto del
contesto. Per esempio a me da ragazza piaceva molto mettere lo smalto
colorato sulle unghie. Lui mi prendeva le mani, le accarezzava e diceva:
"Per farmi contento non metterlo, perché siamo una famiglia di religiosi e
non sta bene".»

«E lei cosa faceva?»

Zahra scoppia in una grande risata quasi liberatoria. «Lo toglievo ma poi lo
rimettevo subito.»

«Ha mai visto suo padre piangere?»

«Sì, due volte. La prima durante la guerra con l'Iraq. Alla I televisione
passavano le prime terribili immagini dei nostri \

connazionali morti e feriti. La sua faccia è diventata bianca come un cencio,


i peli della barba ispidi per il dolore e ha cominciato a piangere. Stava
malissimo.»

«E la seconda?»

«E stato sempre a causa della guerra, ma non voglio parlarne.»

«Perché?»

A questo punto la figlia dell'Imam si commuove. Gli occhi diventano lucidi


fino a riempirsi di lacrime. Comincia a piangere silenziosamente, poi il
pianto si fa dirotto e Taraneh cerca di consolarla.

«Non posso, non posso... non mi scorderò mai la sua faccia...»

Zahra resta in silenzio per qualche minuto e io mi scuso per averle fatto
rievocare momenti così dolorosi. E tra me e me mi chiedo quale fosse stato
il motivo del pianto di Khomeini. O forse si trattava di un problema di
Zahra? In ogni caso, mi viene subito in mente la circostanza della firma del
cessate il fuoco con l'Iraq nel 1988. Si dice che l'Imam, che aveva giurato di
finire la guerra solo con la netta sconfitta di Saddam Hussein, avesse
commentato così: «Ho dovuto bere l'amaro calice». Khomeini pare avesse
in realtà una straordinaria capacità di nascondere le sue emozioni e di
assorbire il dolore. Non avrebbe speso una lacrima quando gli venne an-
CAPITOLO 15
IL BAZAR DELLA PAROLA

“In Iran se oltrepassi la linea rossa rischi di pagare un prezzo molto alto” mi
spiega la mia amica Farzaneh Rostaee editorialista e caporedattore di
politica estera di «Shargh», il quotidiano più liberai del Paese.

C'è chi ha definito l'Iran come la più grande prigione di giornalisti in Medio
Oriente. E in parte vero, in parte falso.

Come tutto, in questo Paese dove nulla è come appare.

Negli anni scorsi, nonostante il consolidamento dei riformisti - o forse


proprio per questo -, molti giornalisti se ne sono andati, altri hanno
abbandonato la professione, altri ancora sono stati condannati a mesi, a
volte anni di prigione. Sono rimasti vittima del potere giudiziario
controllato dalla Guida Suprema.

Nato nel 2003, «Shargh» (L'Oriente) occupa un posto privilegiato nel


panorama della nuova stampa riformista iraniana.

Indipendente dall'ala progressista del potere, è considerato la tribuna più


aperta e professionale. I suoi nemici lo accusano di appoggiare sottobanco il
movimento di Rafsanjani nella campagna elettorale, ma Farzaneh smentisce
categoricamente.

«Non è assolutamente vero, lo abbiamo addirittura attaccato perché ha


deciso di tornare a candidarsi dopo aver governato così male per due
mandati negli anni Novanta.»

Farzaneh, quarant’anni al servizio della libertà d'espressione, è una donna di


sinistra molto determinata che difende a spada tratta la serietà e l'autonomia
del suo giornale. In materia ha un curriculum inappuntabile avendo sempre
lavorato per pubblicazioni che criticavano il regime. Sotto la presidenza
Khatami la stampa ha goduto di un boom senza precedenti ma la
contropartita è stata pesante, con la chiusura di decine di giornali e l'arresto
dei giornalisti più intransigenti. I «sopravvissuti» sono ricomparsi nelle
edicole spesso solo pochi mesi dopo con testate che avevano semplicemente
cambiato nome.

Il pomeriggio di riflessioni con Farzaneh si svolge davanti a una squisita


spremuta di melagrana nella sala conferenze della sede del giornale, che
occupa due piani di un palazzo dall'architettura sobria nella parte
settentrionale di Teheran.

Fin dai primi incontri c'è stata una buona intesa tra noi, forse perché siamo
entrambe impegnate nella battaglia per un'informazione pluralista.

«I quotidiani in cui ho lavorato sono stati prima o poi chiusi, senza


eccezioni. Qui siamo 60 colleghi e abbiamo avuto tutti la stessa esperienza.
Anche le pubblicazioni di "Shargh" sono state sospese per dieci giorni nel
febbraio 2004, subito prima delle elezioni politiche.»

Le chiedo per quale motivo.

«Come sempre, qui è possibile tutto e il contrario di tutto, e anche nel


giornalismo vigono norme ambigue applicate in modo arbitrario. Questo
significa che è il giornalista a decidere in prima persona dove tracciare la
linea rossa. Nel caso specifico il direttore aveva deciso di pubblicare una
lettera aperta di alcuni parlamentari uscenti alla Guida Suprema Khamenei,
in cui si criticava il metodo di selezione dei candidati da parte del Consiglio
dei Guardiani. Tanto è bastato per vederci confiscare la licenza con relativa
sospensione delle attività.»

Farzaneh dimentica di raccontarmi i dettagli della trattativa per la riapertura


del quotidiano. L'amministratore Mehdi Rahmanian dovette infatti
incontrare il temuto procuratore generale della capitale, Saed Mortazavi, per
discuterne le condizioni. E il prezzo da pagare fu alto: Rahmanian scrisse
una missiva pubblica chiedendo scusa, spiegando che non era in grado di
confermare che la lettera fosse stata effettivamente firmata dai parlamentari
e che, anche qualora le cose fossero state così, pubblicare un testo
«offensivo» nei confronti dell'autorità sarebbe comunque stato un atto poco
professionale. Quando glielo ricordo, Farzaneh mi risponde perentoria: «A
volte vale la pena scendere a qualche compromesso per poter comunque
scrivere. La cosa più importante è continuare a informare».

«Ma con tutte queste restrizioni come potete esercitare il senso critico nei
confronti del potere?».

«Sappiamo che non possiamo superare un certo limite. E assolutamente


proibita la critica alla Guida Suprema, tuttavia noi la facciamo
indirettamente e i nostri lettori sanno ormai leggere tra le righe.»

Mi tornano alla mente le parole di Shahla Lahiji, la coraggiosa editrice


femminista che qualche anno fa, a proposito della censura, mi disse: «Gli
iraniani hanno imparato a dire senza dire».

«Il sistema iraniano non è né bianco né nero» continua Farzaneh. «È grigio.


Si può procedere solo facendo un passo alla volta, anche se la gente non ne
può più dei mullah e l'intero sistema fa acqua da tutte le parti. Il nostro
compito è

"produrre conoscenza" a fronte della permanente richiesta di riforme e di


maggior trasparenza.»

«Come potete farlo in una situazione così limacciosa?»

«Ti cito un paio di esempi. Io mi occupo di politica internazionale e nella


copertura delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, invece di
appiattirci su una posizione antiamericana, abbiamo cercato di spiegare la
storia e la cultura del Paese e il funzionamento del suo sistema politico.
Oppure ti potrei raccontare il caso dell'apertura-lampo del nuovo aeroporto
di Teheran: è stato chiuso dopo l'inaugurazione per una faida interna ai
vertici del potere che ha visto perfino l'intervento dei Pasdaran con i carri
armati. Ho scritto in un editoriale che il nostro regime è paragonabile solo a
quello degli Stati del Terzo Mondo, per esempio alla Somalia, dove lo
pseudogoverno non deve rendere conto a nessuno e l'influenza dei religiosi
e delle milizie è decisiva per le sorti della nazione. Ho anche preteso le
scuse dei responsabili, spiegando che così accade nei Paesi civili.»
«Ma secondo te esiste la libertà di stampa in una repubblica dove i
giornalisti finiscono in prigione?» la incalzo.

«Con grandi riserve, ma direi di sì, anche perché esistono decine e decine di
giornali. Ma certamente non basta. Siamo un potere costituito: qualche
volta vinciamo, altre perdiamo, però rispetto a dieci anni fa di strada ne
abbiamo fatta. Per esempio, allora se muovevi una leggera critica alla
gestione del ministero del Petrolio rischiavi l'arresto per oltraggio ai valori
dell'Islam. Non c'è dubbio però che gli arresti indiscriminati di giornalisti e
weblogger sono intollerabili. Siamo purtroppo ancora lontani dallo Stato di
diritto.»

Attualmente sono almeno una decina i giornalisti detenuti: il più famoso,


Akbar Ganji, è stato arrestato nell'aprile del 2000. Con grande coraggio
aveva denunciato il «fascismo islamico» e pubblicato un libro in cui faceva
nomi e cognomi degli ayatollah che riteneva i mandanti dell'ondata di
omicidi di intellettuali e attivisti politici negli anni Novanta.

Accusò Rafsanjani, presidente in carica per otto anni, di aver mentito


all'opinione pubblica, e chiese l'istituzione di una commissione d'inchiesta
che includesse anche i parenti delle vittime. Ganji invoca da sempre una
netta separazione tra Stato e religione per costruire una democrazia liberale.
Concetto diverso da quello portato avanti da Khatami che, pur avendo il
merito di aver fatto apprezzare l'idea di sovranità popolare a una vasta parte
dell'opinione pubblica, non ha mai messo davvero in discussione il ruolo
della Guida Suprema. Pur tuttavia, il settore dei media è diventato più
influente e ha potuto aprire il dibattito sullo Stato di diritto, sull'importanza
della società civile e sul ruolo della fede.

Akbar Ganji, dopo varie sentenze, è stato condannato a sei anni di carcere.
In questo mese di giugno, dopo un ennesimo sciopero della fame, per
ragioni di salute è stato rilasciato sette giorni per poi tornare subito dietro le
sbarre.

Ma sono tanti i casi di giornalisti imprigionati. Hassan Yussefì Eshkevari,


un religioso e scrittore che collaborava con un noto mensile, è stato
arrestato cinque anni fa con l'accusa di minare la sicurezza nazionale,
diffamare le autorità, oltraggiare la reputazione del clero e di essere un
«combattente contro Dio». Ha subito una condanna a sette anni, di cui
quattro per aver detto che portare il velo aveva radici culturali e stori-che in
Iran ma che non era obbligatorio per l'Islam.

Il professore di storia Hashem Aghajari è stato condannato a morte per


apostasia e blasfemia, per aver osato mettere in discussione l'influenza dei
mullah e il welayat-e faqih, ovvero il potere del giudice religioso. E l'elenco
è ancora lungo.

Farzaneh conosce bene Ganji ed è preoccupata per le sue precarie


condizioni di salute. Così come è stata in pena per tre suoi colleghi finiti in
carcere e rilasciati da poco. Mi da i loro recapiti, ma nessuno se la sente di
parlare in questo momento. Alla fine riuscirò a contattare Omid Memarian,
uno dei più popolari weblogger iraniani, quando lui si troverà fuori
dall'Iran.

Già nel 2004 il regime ha cominciato ad arrestare i blogger, a chiudere siti


web e a imporre regole più severe per l'uso di internet, già fortemente
censurato. L'obiettivo: contrastare la crescente importanza dei giornalisti
della rete, ormai molto popolari come fonti di controinformazione. Un
sondaggio dell'anno scorso rivela che la maggioranza degli iraniani si fida
più di internet - molto diffuso in Iran - che di altri mezzi di comunicazione.
Come ha dichiarato Lady Sun, dal 2001

la prima weblogger donna: «Noi portiamo sempre una maschera, il blog è


un luogo dove te la puoi togliere». Ma la maschera si rimette off-line perché
come molti di loro anche Lady Sun non rivela la sua vera identità e parla
solo a condizione dell'anonimato.

Omid Memarian invece è uno di quelli che ha scelto tre anni fa di andare
on-line con la sua faccia e con la sua firma. Ha un bel viso aperto dai
lineamenti regolari, con occhi intelligenti che ti scrutano attentamente... in
alto a destra nella pagina web. E uno degli arrestati dell'ottobre 2004,
rilasciato dopo 55 giorni di cella di isolamento su cauzione di 55.000 euro.
Trentunenne di Teheran, si presenta così nella versione in farsi e in inglese
del suo blog «Iranian Prospect»: «Omid Memarian, giornalista iraniano, si
occupa in questo weblog di democrazia e società civile, soprattutto di temi
sociali nell'Iran di oggi, e parla di questioni di attualità e di qualche
esperienza personale».

Mentre sono in Iran è irreperibile e i suoi amici cominciano a preoccuparsi


perché temono sia finito di nuovo in prigione. Dopo svariati tentativi riesco
finalmente a mettermi in contatto con lui via e-mail: è ad Ankara dove a
giorni dovrebbe ottenere il permesso di soggiorno negli Stati Uniti per una
borsa di studio universitaria. Mi da il numero di cellulare e in due ore di
telefonata mi racconta la sua storia.

«In prigione mi hanno torturato. Il primo giorno durante l'interrogatorio uno


dei carcerieri mi ha preso la testa e l'ha sbattuta contro il muro per cinque
minuti. Credevo fosse impazzito. Non la smetteva più. Poi mi ha preso a
calci colpendomi ripetutamente allo stomaco finché non ho vomitato anche
l'anima. Allora, credo per la paura, si è fermato.

Non volevano certo un altro caso Kazemi.»

Omid parla velocemente in un inglese concitato, come se ricordare quei 55


giorni di prigionia gli facesse rivivere fìsicamente i momenti più
drammatici della sua vita.

E stato rinchiuso nel penitenziario di Evin. L'accusa è stata formulata però


solo al suo rilascio: «Atteggiamento ostile verso le autorità atto a minare la
sicurezza nazionale». E stato prelevato da cinque uomini in abiti civili nel
suo ufficio la mattina del 10 ottobre. Lo hanno bendato e portato prima in
uno dei centri di detenzione sotto il controllo dei Guardiani della
Rivoluzione. Gli hanno perquisito la casa sequestrando il pc, articoli di
giornali, documenti. In seguito è stato trasferito nel famigerato carcere di
Teheran nord, senza diritto di nominare un avvocato né di avvertire la
famiglia.

A venti giorni dalla sua scomparsa, la madre ha scritto una lettera al


presidente Khatami per chiedere che fine avesse fatto suo figlio.

Con lui sono state arrestate altre 22 persone, tra giornalisti, blogger e tecnici
informatici. Da due anni Omid rivendicava maggiori libertà civili sul suo
sito e sui giornali riformisti, si occupava dei problemi dei giovani, chiedeva
il rispetto dei diritti umani e delle donne.

Per esempio, a proposito dell'arresto di Said Motallebi padre di Sina,


blogger incarcerato in precedenza - Omid scrive il 18 settembre 2004: «Ora
i conservatori se la prendono con i giornalisti web. Arrestare i loro familiari
per intimidirli e indurii al silenzio è un nuovo vergognoso attacco alla
libertà di parola in Iran».

E più tardi, il 19 febbraio 2005, scrive sulla sua deten-zione: «Da due mesi
cerco di tornare a una vita normale. Ma è difficile ricominciare da capo. Ho
paura del buio e non riesco più a dormire. Il silenzio mi inquieta. Se
qualcuno alza la voce mi mette ansia. Dopo il rilascio cerco di essere
ottimista. Ma non posso dimenticare la mia vita in una tomba, la sogno tutte
le notti. Non mi sento più al sicuro da nessuna parte».

In Iran ci sono oggi circa 200.000 weblog, di cui quasi 70.000 attivi.
«Internet è la piccola finestra sul mondo per milioni di iraniani» mi spiega
Omid. «Il regime ha filtrato centinaia di siti, ma la gente trova sempre la
maniera di aggirare l'ostacolo. Credo che la seconda rivoluzione arriverà
grazie a internet.»

È possibile che Omid abbia ragione. Già in passato le nuove tecnologie di


comunicazione erano state usate dall'opposizione: il telegrafo fu cruciale
nella rivolta del tabacco e nella rivoluzione costituzionale per garantire i
contatti tra i vari centri della protesta. E le audiocassette in quella di
Khomeini, quando venivano distribuite clandestinamente per diffondere il
pensiero dell'Imam. Ma quella del web non sembra ancora matura.

Chiedo a Omid se stia fuggendo dall'Iran.

«Sì, per il momento cambio aria. Almeno per un anno vado a studiare a
Berkeley, in California. Ma poi tornerò perché è nel mio Paese che voglio
fare qualcosa di buono.»

«Qual è stato il periodo peggiore in prigione?» proseguo.


«All'inizio era terribile perché mi torturavano e non sapevo che fine avrei
fatto. Oltre alle sevizie, alle minacce fisiche e psicologiche, ci facevano fare
la doccia nudi davanti a una telecamera, dovevamo andare in bagno senza
vestiti davanti ai carcerieri, ci interrogavano sui nostri rapporti sessuali,
volevano sapere se avevamo relazioni con ragazze, facevano domande
intime e imbarazzanti. Poi minacciavano di tenermi in prigione per dieci
anni, accusandomi di essere contro il regime islamico.»

«Chi erano quelli che ti hanno preso?» «Erano gli stessi serial killer del
1998, quando a novembre e dicembre furono ammazzati intellettuali e
attivisti politici. Una struttura parallela dei servizi segreti. Erano vestiti in
abiti civili e non hanno mostrato alcun mandato d'arresto o di perquisizione.
Non mi hanno nemmeno detto qual era l'accusa.»

«Quando hai capito che ti avrebbero rilasciato?» «Quando sono stato


obbligato ad ammettere colpe che non avevo: per esempio di aver aiutato
alcune Ong in contatto con fondazioni straniere con l'obiettivo di rovesciare
il governo. Ho dovuto firmare una lettera e al mio rilascio mi hanno
costretto ad andare in tv per "confessare" pubblicamente i miei

"reati" e dire che in prigione ci avevano trattato bene.» «Perché il regime ce


l'ha così tanto con i blogger?» «Perché non riescono a controllarci. Temono
un altro caso Ucraina, Geòrgia o Libano. Hanno una paura fottuta di
qualsiasi apertura verso l'esterno. E temono la rete e il suo potere di creare
un largo movimento di dissenso che potrebbe distruggerli. Un processo che
loro in nessun caso possono governare. Tra il 2000 e il 2004 hanno chiuso
oltre 100 giornali filo-riformisti, ma sono i blog il loro grande cruccio.»
«Che società iraniana emerge da questi siti?» «I blog rendono pubblica la
doppia vita degli iraniani. Soprattutto i giovani e le donne rompono tutti i
tabù e, avendo la garanzia dell'anonimato, parlano liberamente di sesso,
della religione, del regime, delle loro ambizioni e delle loro vere esigenze.»

In Iran la repressione non ha quasi mai raggiunto la fredda efficienza tipica


degli Stati totalitari, ma si è piuttosto tradotta in ondate cicliche di terrore
rivoluzionario dove l'annientamento psicologico resta tuttora una pratica
diffusa. E
la tecnica della «confessione» è uno dei pilastri. Ne è stato fatto largo uso
dopo le proteste degli studenti nel '99. Invece di confrontarsi con le richieste
delle migliaia di giovani scesi in piazza per protestare contro la chiusura del
giornale di sinistra «Salam» e l'arresto di un gruppo di giornalisti, il
ministero dell'Intelligence e Sicurezza ha pensato bene di ricorrere ancora
una volta al metodo delle ammissioni televisive. L'allora leader del
movimento, Manushehr Mohammadi, che passava più tempo in carcere che
fuori, è stato così dato in pasto al pubblico nell'ora di maggior ascolto con il
suo volto smagrito e sofferente, mentre riconosceva di aver avuto contatti
con partiti politici fuorilegge e con gruppi negli Stati Uniti e in Turchia.
Poche sere dopo è stata la volta di una giovane donna, Malus Radia, che
dichiarava di aver passato costantemente false informazioni ai media
stranieri e di aver utilizzato per questa riprovevole attività un fax. Questo
dettaglio diventerà l'oggetto di una vignetta satirica sul quotidiano di
Teheran in lingua inglese

«Iran News»: un uomo in piedi davanti alla macchina del fax che dice: «Ho
un fax! Allora sono una spia!».

Anche altri giornali hanno aperto il dibattito sulla natura della Repubblica
islamica e sull'assurdità delle confessioni estorte, a riprova del fatto che il
regime non è mai riuscito a terrorizzare la sua gente né a zittirla. Ma a
intimidirla sì.

«Ho detto in tv che avevo capito i vantaggi della Repubblica islamica, che
negli ultimi anni ero sotto la nefasta influenza dei riformisti ma che mi era
diventato chiaro il loro intento: indebolire lo Stato islamico. Quindi d'ora in
avanti avrei sostenuto con convinzione il regime. Che mortificazione. Ho
dovuto farlo. Era l'unico modo per non denunciare i miei amici» mi
racconta Omid.

«Dopo la mia esperienza, che posso solo paragonare ad Abu Ghraib, ho


paura, ed è esattamente quello che vogliono. Ne puniscono uno per
educarne cento.»

Gli domando se i riformisti di Khatami non li avessero aiutati.


«Abbiamo parlato con il suo staff, che ci ha invitato a sporgere denuncia,
ma noi eravamo terrorizzati. Abbiamo incontrato anche il capo del potere
giudiziario, l'ayatollah Shah-rudi, che ha fatto finta di non sapere nulla del
nostro arresto! Ci hanno dato una mano alcuni blogger, ma per il resto...»

Uno dei rimproveri più duri rivolti a Khatami è proprio di non essere stato
capace di proteggere i giornalisti e di tutelare la libertà di espressione. Per
esempio, non è mai riuscito a ottenere la revisione della legge contro la
libertà di stampa votata nel '99, quando il Parlamento era ancora controllato
dai conservatori. Il presidente più votato nella storia dell'Iran (29,7 milioni
di voti nel 1997), che nel 2000 con i riformisti conquistò la maggioranza
dell'assemblea legislativa, non ha avuto il coraggio di difendere fino in
fondo il suo popolo dagli eccessi del regime.

Il più importante «protettore» di Omid è Muhammad Ali Ab-tahi, ex vice di


Khatami alla presidenza della Repubblica e poi consulente del presidente
riformista. Ci riceve nella sede del suo think tank per il dialogo
interreligioso. Ha una faccia buffa, paffuta, con due occhi vispi che
spiccano sotto il turbante nero. Abtahi è un sayyed, un discendente del
Profeta. Sotto la tunica grigia si intuiscono le rotondità di un buongustaio. E
acuto, spiritoso e sfrontato, qualità non scontate in un religioso. E stato il
primo ad aprire un blog dove è molto critico con le politiche del regime. E
nei post quotidiani pubblica foto irriverenti di politici iraniani, per esempio
quella del ministro per l'Energia nucleare che si mette le dita nel naso.
Durante l'intervista si diverte a fotografare anche me col suo telefonino.

«La rivoluzione della comunicazione è l'avvenimento più importante di


questi ultimi anni. Non esistono più frontiere e i nostri giovani sono
informati tanto quanto i loro coetanei cinesi, inglesi e americani.»

Per numero di blog attivi, il farsi è la quarta lingua più usata in internet
(dopo l'inglese, il portoghese e il polacco): i giovani dai tredici ai trent'anni
rappresentano il 91 per cento della comunità virtuale.

Il sito di Abtahi registra ogni giorno fino a 27.000 contatti ed è tra i migliori
siti internet in farsi.
«Mi occupo del web dal lontano 1993 e ho deciso di lanciare il mio blog per
poter dire quello che non mi era permesso di scrivere sui giornali. Tratto
tutti i temi di attualità, in particolare quelli che interessano i giovani, dalla
droga al sesso.

Una volta ho scritto che in nessuna parte del mondo come qui il lasso di
tempo che intercorre tra il conoscersi e il finire a letto è così breve! E
ovviamente vado contro il nostro sistema politico. Soprattutto di questi
tempi, dopo che hanno arrestato così tanti blogger.»

Abtahi, che ha già bevuto il terzo succo di frutta in attesa che arrivi la
tradizionale tazza di té, si definisce un intellettuale riformista che non
intende mettere in discussione la figura della Guida Suprema, bensì
diminuirne il potere assoluto per rafforzare le prerogative del Parlamento e
del presidente.

«Il punto cruciale è che secondo noi riformisti il potere è legittimato dal
popolo, secondo i conservatori invece direttamente da Dio.»

«Cosa vogliono i giovani che visitano il suo blog?»

«In assoluto tutti si dicono contrari al regime e poi reclamano più libertà
personale, dal diritto di scelta sulVhijab fino alla possibilità di frequentarsi
senza restrizioni. Molti di loro sono depressi per la lentezza del
cambiamento. E lo saranno ancora di più se vincerà Ahmadinej ad. Fanno
tutto con la paura addosso, con l'ansia e con la fretta. E questo senso di
insicurezza permanente è peggio dell'insicurezza stessa.»

Gli chiedo se superare la «linea rossa» non lo metta a rischio di arresto.

«Ho avuto paura all'inizio, ma adesso non più, anche se sono il più
bersagliato dalla destra. A un certo punto mi hanno chiuso il sito, ma io ho
chiesto aiuto a un gruppo di amici e adesso utilizzo un server straniero.
Forse in futuro sarà più difficile, ma io continuerò finché posso.»

«Non sono proprio i religiosi al governo che hanno tolto credibilità


all'Islam?»
«L'abito non fa il monaco, come dite voi. Ci sono tanti religiosi finiti in
prigione per le loro idee e molto popolari tra la gente. E ci sono tanti non
religiosi ultraconservatori: basta vedere Ahmadinejad. Il governo degli
ayatollah può funzionare solo se sa stare al passo coi tempi e riduce al
minimo l'interferenza nella vita privata delle persone. E

evidente che chi pensa di essere stato scelto da Dio giustificherà ogni
decisione con la volontà di Allah. Ma in realtà va contro la libertà della
gente. È un po' come da voi durante il periodo dell'Inquisizione.»

Inquisizione fu la parola usata da un perseguitato eccellente del regime:


Abdullah Nuri, turbante riformista molto popolare, ministro degli Interni
nel primo governo Khatami. Fu arrestato e processato nel 1999 dal
Tribunale speciale per il clero di Teheran, una Corte che mette sotto accusa
religiosi incolpati di crimini contro la Repubblica islamica. Per lui
l'imputazione più grave fu quella di tradimento. Prima ancora dell'inizio
dell'udienza Nuri definì la sua incriminazione illegale e motivata solo da
ragioni politiche. «Questa è una nuova Inquisizione» disse, spiegando che
la Corte religiosa non era legittimata a processarlo, poiché Khomeini
l'aveva istituita vent'anni prima per decreto per un tempo determinato. La
vicenda di Nuri, già stretto collaboratore dell'Imam, si iscriveva in un
periodo di pesanti repressioni. I conservatori, indeboliti dallo straordinario
successo di Khatami, se la presero con giornalisti, studenti, intellettuali,
attivisti politici. Nuri, editore del quotidiano progressista «Khordad»,
sosteneva che il pluralismo era conciliabile col sistema islamico. Di
conseguenza il popolo iraniano non sarebbe più stato obbligato a seguire
un'unica interpreta-zione dell'Islam, nemmeno quella fornita dal clero
conservatore. Diceva anche che non si potevano costringere le donne a
portare il chador a forza di frustate e di bastonate. Nelle 44 pagine del capo
di imputazione, Nuri veniva tra l'altro accusato di insultare l'Islam
sostenendo le riforme democratiche che minavano il monopolio del clero;
di disonorare la memoria di Khomeini mettendo in discussione l'autorità
della Guida Suprema; di disseminare menzogne per fomentare disordini.
Nei sei giorni di dibattimento, con l'esclusione delle telecamere ma alla
presenza della carta stampata, Nuri dimostrò un coraggio e una capacità di
critica senza precedenti. Nessuno prima di lui aveva osato minare la
legittimità della teocrazia nata con la Rivoluzione. La giuria di teologi
giudicò Nuri colpevole di 15

reati e lo condannò a cinque anni di carcere e all'interdizione dai pubblici


uffici. Venne liberato nel novembre del 2002.

Nell'autunno dello stesso anno, quando il Parlamento riformista votò due


leggi per aumentare i poteri del presidente e limitare il diritto di veto del
Consiglio dei Guardiani, la destra reagì con virulenza. Venne subito
arrestato un gruppo di ricercatori, peraltro autorizzati, che avevano svolto
alcuni sondaggi. Visti gli esiti si capisce perché: da una prima indagine
emergeva che il 74 per cento degli intervistati era a favore di una ripresa dei
negoziati con gli Stati Uniti. Dalla seconda risultava che il 94 per cento
riteneva urgente una riforma del sistema islamico e il 71 per cento si diceva
favorevole a un referendum per scegliere una nuova forma di governo. Una
realtà troppo devastante per il regime, che ancora una volta preferì ignorare
le istanze dell'opinione pubblica, spalleggiato dalla stampa conservatrice.

Una delle sue voci più potenti è il gruppo editoriale di destra legato al
quotidiano «Keyhan», che pubblica anche un mensile culturale, una rivista
accademica, un settimanale femminile e uno per ragazzi. In quel periodo mi
capitò di intervistare il direttore di «Keyhan» Hussein Shariatmadari, uomo
assai influente essendo stato nominato dalla Guida Suprema. Gli dispiaceva
molto che i giornalisti occidentali non facessero alcuno sforzo per capire la
grandezza di Khamenei. «E come Khomeini, solo un po' più giovane. Crede
negli stessi principi di giustizia sociale per i poveri e gli oppressi, ha la
stessa opinione sulla politica americana e sul regime sionista.» Netta fu la
chiusura su un cambiamento del sistema di governo: «Fin quando la gente
resterà musulmana vorrà questo sistema. Vorrà l'Islam. Non la vostra
democrazia occidentale». Sulle libertà individuali il giudizio fu altrettanto
chiaro: «La differenza tra noi e voi è che noi crediamo nella sovranità
terrena di Dio. E pensiamo che alcune libertà personali possano nuocere
alla società e produrre fenomeni gravi come il suicidio e alcune pratiche
sessuali. Ci sono casi in cui l'Islam non tiene conto dell'opinione della
maggioranza».
Nella repressione dei blogger, Shariatmadari si era schierato in prima linea,
fermo nella convinzione che una maggiore trasparenza avrebbe indebolito il
Paese ed eroso il potere dei religiosi. Ha perciò scatenato sul suo quotidiano
una spietata campagna contro coloro «che stavano tentando di
compromettere il regime». Molte vittime della censura vennero prese di
mira proprio dopo che «Keyhan» aveva pubblicato i loro nomi con accuse
false che portarono al loro arresto. Omid era uno di quelli.

Da quando sono arrivata in Iran mi trovo in un enorme bazar della parola:


sono circondata da gente che parla liberamente, che siano gli intellettuali
col turbante o i tassisti semianalfabeti. Il problema è capire se tutto questo
potrà tradursi in una dinamica politica e in una riforma profonda del
sistema.

Sono le parole e le donne, in effetti, le vere protagoniste della scena


iraniana. Ma la parola da sola non basta. Otto anni di promesse
puntualmente disattese hanno demotivato anche gli animi più combattivi.
Chi si ricorda più degli studenti del '99? Uno dei loro slogan era: «I mullah
sono Dio e la gente è diventata povera». A centinaia sono finiti in prigione e
in qualche caso ci hanno lasciato la pelle. Erano agguerriti e coraggiosi.
Oggi parlando con loro si registra un clima decisamente diverso. Troppa la
delusione e molta la paura. E i migliori, una volta laureati, spesso lasciano il
Paese.

Quando entro nella sede dell'Isna, l'agenzia di stampa degli studenti,


l'atmosfera è effervescente: si sta svolgendo la conferenza stampa di
Karrubi, il candidato riformista arrivato solo terzo dopo il primo turno,
impegnato a lanciare pesanti accuse di brogli ai suoi avversari. Ancora
parole che, seppur dure, non sortiranno alcun effetto.

La frustrazione è palpabile. E come se tutti sapessero già che è una battaglia


persa in partenza: la folla di giornalisti accorsi a sentire le ragioni del
religioso; gli studenti che minacciano manifestazioni che mai si terranno;
Karrubi, con i lineamenti delicati incorniciati dal suo turbante bianco e ora
trasfigurati dalla tensione, che invoca l'intervento di Khamenei per rendergli
giustizia.
Lascio la concitata conferenza stampa e salgo al primo piano, dove si trova
la redazione. Una decina di ragazze e ragazzi stanno scrivendo alacremente
sui computer aiutati da un gruppo di neolaureati che hanno partecipato in
prima persona alle violente proteste degli anni scorsi. Saed Allahbedashti,
giovane storico, era finito nel mirino del Tribunale della Rivoluzione con
l'accusa di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale.

«Contiamo ancora, ma purtroppo oggi siamo divisi tra chi pensa che non ci
sia nulla da fare e chi crede nella riformabilità della Repubblica islamica»
mi racconta questo ragazzo dal viso spigoloso e tormentato. «Non c'è
dubbio che il movimento studentesco abbia reagito con paura e angoscia
alla repressione di gruppi autoritari antidemocratici decidendo, almeno in
questa fase, di stare a guardare.»

Fa una certa impressione ritrovare a distanza di pochi anni la gioventù


studentesca così arrendevole e intimorita. Li avevo incontrati nelle
università, pieni di energie e di speranze. Shahedeh, studentessa di
informatica all'Università di Teheran, cerca di smentire le mie sensazioni.

«Ora siamo una maggioranza silenziosa. La battaglia continua anche se non


si vede. Non è che abbiamo paura, ma dopo gli scontri del '99, il movimento
ha deciso di agire nell'ombra. Almeno finché non ci sarà una vera libertà di
espressione.»

La disaffezione che raccolgo ovunque nell'elettorato di Khatami è anche il


frutto di una sistematica disinformazione della tv di regime, che non ha mai
perso l'occasione di ignorare o attaccare senza diritto di replica la politica
del presidente riformista.

La radiotelevisione pubblica iraniana, sotto il controllo diretto della Guida


Suprema, gioca ancora un ruolo eminentemente propagandistico. Ci
lavorano circa 15.000 persone, tra cui 1900 donne nei vari ruoli di
giornaliste, produttrici, direttrici, conduttrici, tecniche, ingegneri. A
dimostrazione del fatto che l'altra metà del cielo ha accesso a quasi tutte le
professioni.
Durante il regno dello Scià - che in quanto a censura aveva la mano
altrettanto pesante - la tv mandava in onda film e soap opera americani.
Dopo la Rivoluzione, che per poco aveva fatto sperare in una maggiore
libertà, anche i mass media sono stati epurati di tutti gli elementi
occidentali. «Condanno gli intellettuali corrotti e le penne avvelenate di
scrittori e democratici che cospirano contro di noi» tuonò Khomeini poco
dopo il suo vittorioso ritorno, quando cominciarono a levarsi le prime voci
dell'opposizione. Il clima di intimidazione peggiorò e negli anni Novanta
spinse molti iraniani a dotarsi di antenne satellitari nonostante siano ancora
oggi ufficialmente proibite. Cercavano soprattutto informazioni sui canali
stranieri e si sintonizzavano sul network turco che trasmetteva strip-tease e
porno soft.

I religiosi andavano in onda in tutte le versioni, tanto che in una barzelletta


dei primi anni della Rivoluzione si diceva che la tv iraniana era in bianco e
nero: il turbante nero sul primo canale, il turbante bianco sul secondo. Ma
con l'abbuffata di canti rivoluzionari, marce militari, poesie, discorsi della
Guida Suprema, sermoni della preghiera del venerdì, i tg erano diventati un
rituale pressoché privo di interesse. E a nulla è servito portare recentemente
le reti pubbliche da due a cinque, perché ormai, secondo un recente
sondaggio, il 67 per cento degli iraniani preferisce le tv satellitari. Con una
interessante eccezione: la messa in onda nel 1998 del processo al sindaco
riformista di Teheran, Gholam Hussein Kar-baschi, accusato di corruzione.
Milioni di iraniani rimasero incollati davanti al video. Lo stretto alleato di
Khatami, che ai tempi dello Scià passò anni in prigione, era diventato
popolare grazie al piano urbanistico per la capitale che portò alla
costruzione di parchi e spazi verdi, centri culturali nelle aree più povere,
case popolari, strade e tangenziali. Il suo arresto scatenò le violente proteste
degli studenti e un acceso dibattito nella stampa sullo Stato di diritto. E il
dibattimento pubblico mise in evidenza le debolezze del sistema politico e
la parzialità di quello giudiziario.

Nel caso di Karbaschi il giudice religioso rappresentava


contemporaneamente la pubblica accusa, il giudice e la parte lesa!

Il sindaco era un turbante della scuola di Qom, dove aveva studiato filosofia
e teologia, e conosceva fin troppo bene l'argomentare dei suoi «colleghi».
Sottile e beffardo, utilizzava le loro stesse armi. E iniziava ogni udienza con
le preghiere in arabo in lode ai capi spirituali degli sciiti. «Devo cominciare
ogni mia cosa con le parole dei nostri maestri»

replicava al giudice che le reputava una perdita di tempo. Ma la


testimonianza senza precedenti fu sulla tortura. Per la prima volta in
televisione e nei giornali si parlò apertamente delle pratiche intimidatorie e
violente utilizzate in un carcere iraniano. Karbaschi sostenne che le
confessioni usate contro di lui erano state estorte ai suoi collaboratori con le
sevizie. Ecco allora uno di loro raccontare come era stato picchiato fino a
svenire; un altro costretto ad ascoltare le grida della moglie che veniva
frustata; un altro ancora battuto senza pietà con un cavo elettrico. Dopo
cinque settimane di processo il sindaco fu giudicato colpevole e condannato
a cinque anni di prigione, vent'anni di interdizione dai pubblici uffici, 60
frustate e miliardi di rial di multa. Ma nel 2000 Khamenei decise
improvvisamente di concedergli la grazia. In Iran, anche nelle questioni più
delicate, esiste sempre un margine di manovra. Quell'anno lo incontrai,
molto affaticato, in un'affollata conferenza stampa. Era tornato libero ma la
sua carriera politica era finita.

CAPITOLO 16
PASOLINI A TEHERAN

Prima di trovare la casa dei nostri ospiti, abbiamo girovagato a lungo, persi
tra le strade buie di Teheran nord. Taraneh, davvero chic nel suo completo
verde acqua, è come sempre al volante. Io, invece, per il party di stasera
decido di mettere un paio di pantaloni e una giacca con collo alla coreana di
seta blu di Armani, che previdente avevo infilato in valigia. Jacques aveva
già stirato una camicia bianca, da abbinare a un paio di pantaloni scuri non
troppo stropicciati.

Ma ora la nostra prima preoccupazione non è tanto il guardaroba, quanto


l'ansia di arrivare in ritardo per l'inizio della festa.

Stiamo andando da Nicole. Taraneh ci parla di questa serata da diversi


giorni. A suo giudizio si tratta di uno dei ricevimenti più esclusivi di
Teheran, il ritrovo dell'alta società. Non potevamo certo perdercela:
volevamo assolutamente vedere come si divertono gli iraniani oggi dopo
ventisei anni di Rivoluzione. Man mano che l'evento si avvicinava, avevo
l'impressione di dover andare da una regina del jet set internazionale.

Il mio soggiorno in Iran volge ormai al termine. La sensazione è di aver


compiuto un viaggio intenso dove i testimoni, gli incontri e le esperienze si
sono moltiplicati a un ritmo vertiginoso. Ora ho voglia di sentire come
respirano le persone in questa città così caotica che mi ha sommersa e presa
alla gola fin da subito. Ci dovranno pur essere altre piccole isole di libertà
come la terrazza di Taraneh a Darband, altri giardini segreti all'ombra
dell'austero monumento che accoglie i visitatori all'uscita dall'aeroporto di
Mehrabad.

«Arriveremo, arriveremo! Sono certa che non siamo lontani. Ci sono già
stata, non preoccupatevi.» Taraneh, col foulard in disordine, ha inforcato gli
occhiali per essere sicura di non perdere un nome o un'indicazione che
potrebbero tornarci utili.
Teheran è così, a ridosso dei grandi viali e delle superstrade che la
attraversano, dietro agli svincoli che ricordano Los Angeles, è come irrigata
da migliaia di vicoli che sembrano seguire una logica oscura. Per ritrovare
la strada è necessario memorizzare i percorsi, usare l'istinto e affidarsi alla
fortuna più che alla mera conoscenza cartografica di ogni meandro della
città.

«E qui» ci annuncia alla fine Taraneh del cui senso dell'orientamento non
ho mai dubitato. Non so se ha veramente riconosciuto il posto o se la sua
attenzione, come la mia, è stata attirata da una coppia elegante che cammina
nell'ombra.

Un uomo con la cravatta è uno spettacolo abbastanza raro da vedere, non


può che indicare che nei paraggi si sta svolgendo qualche evento
eccezionale. Sicuramente la festa di Nicole.

Varcando la porta a doppio battente alla fine di un cul de sac ci sembra di


entrare in un altro mondo. Un maggiordomo in livrea ci prende i soprabiti e
i chador. Procediamo lungo un ampio viale illuminato dalle torce e coperto
da preziosi tappeti. Nonostante la luce soffusa dei lumi, si intuisce che ci
troviamo in uno splendido giardino con prati ben curati, aiuole di fiori e
alberi ad alto fusto. Ci dirigiamo verso un primo ga-zebo, dove la nostra
ospite ha sistemato il bar, e qui si profila l'imbarazzo della scelta:
champagne francese, vini, superalcolici e ovviamente succhi di frutta.
Finalmente posso bere quel gin tonic che da giorni sognavo di assaporare.
Con il bicchiere in mano nell'aria tiepida dell'estate persiana mi avvicino a
un gruppo di invitati che stanno conversando.

Le donne ovviamente non hanno il velo. Alcune di loro indossano l'abito da


sera e in maniera discreta ma decisamente poco islamica lasciano scoperte
braccia, spalle e profondi décolleté. Anche gli uomini sono distinti nei loro
vestiti di buon taglio. Non lo sapevamo, ma la padrona di casa aveva
proposto un tema agli invitati: chi voleva poteva mascherarsi da... beduino.

Accanto a una piccola fontana sono state sistemate alcune poltrone, attorno
alle quali si sono già formati piccoli gruppi di stranieri e iraniani. Tra loro
riconosco diplomatici europei, uomini d'affari occidentali, giornalisti che
lavorano qui o sono solo di passaggio. Il brusio delle conversazioni e le
grasse risate si confondono con la musica di sottofondo.

Immagino che tutte le chiacchiere siano incentrate sul secondo turno


elettorale che si terrà domani. Rafsanjani o Ahmadinejad?

Prima di unirmi alla gara dei pronostici, mi soffermo a osservare la casa di


Nicole. Costruita su un piccolo promontorio da dove domina il giardino su
tre livelli, sembra graziosamente adagiata sulle terrazze che la circondano.
Anche se è notte, riesco a percepire l'architettura lineare di inizio
Novecento, una dimora patriarcale bianca, solida e ricca di charme.
All'esterno sono stati disposti i tavoli decorati da candele e composizioni
floreali. Camerieri ben preparati stanno organizzando un sontuoso buffet.

«Non credeva che ci si potesse divertire così a Teheran, vero?» mi chiede in


francese una voce allegra.

Mi giro e scopro un volto solare, dal sorriso un po' ironico, con due occhi
chiari e scintillanti. E Nicole, la regina della festa, una donna piccola dai
capelli biondi, vestita con un completo rosa. Nel suo approccio si dimostra
calorosa e semplice. Anche due perfetti estranei come noi vengono ricevuti
come se fossero di famiglia, solo perché accompagnati dall'amica Taraneh
che saluta baciandola sulle guance.

«Una cosi bella serata non è un'eccezione solo a Teheran, lo sarebbe


ovunque» le rispondo. E sono sincera. Suo marito, che l'ha raggiunta
offrendole un bicchiere di champagne, è un bell'uomo con i capelli grigi
raccolti in una coda di cavallo. È stato per tanti anni il presidente di una
grande compagnia petrolifera europea ma, portato a termine l'incarico,
invece di rientrare in patria ha deciso con Nicole di rimanere in Iran. «E un
Paese che ci ha sedotto» mi spiega convinto.

«È uno dei luoghi più eccitanti che abbia mai conosciuto. È qui che si
capirà se l'Islam è compatibile con la democrazia.

Con simili premesse non potevamo che restare!»


Ci mescoliamo agli invitati e ovviamente parliamo di politica. Un
diplomatico che segue i negoziati sul nucleare mi rende partecipe delle sue
preoccupazioni: «Gli iraniani non sono disposti a scendere a compromessi.
Non credono che gli europei possano garantire la loro sicurezza ma per il
momento gli Stati Uniti non intendono entrare direttamente nella trattativa».
Un altro ospite si presenta come un uomo d'affari e mi dice di essere un ex
Pasdaran. Ci mette tutti in guardia, sicuro com'è della vittoria di
Ahmadinejad, il sindaco di Teheran: «Vedrete, il regime si è mobilitato in
suo favore. È l'uomo della Guida Suprema, sarà lui ad avere la meglio». I
favori sono quasi tutti per Rafsanjani, in particolare quelli dei diplomatici
che in lui ripongono le speranze di una distensione dei rapporti con
l'Occidente.

Vedono in «re Akbar» il possibile artefice di una soluzione pacifica della


questione atomica. La preoccupazione occidentale per il programma
nucleare iraniano mi sembra sfasata alla vigilia di un'elezione dominata
dalle questioni economiche.

Mi siedo a tavola accanto a un giovane sofisticato che parla perfettamente


inglese. Si presenta: il suo nome è Mehrdad. I tratti del viso sono fini, tutto
in lui denota un'eccellente educazione e raffinatezza, oltre a una spiccata
predilezione, ma mai fuori luogo, per la compagnia femminile. Gli chiedo
di cosa si occupa.

«Sono un bazari» mi dice. «Provengo da un'antica famiglia. Sono ciò che


voi chiamereste un mercante di tappeti.»

Mi fa notare che tutti i tappeti su cui ho camminato da quando sono entrata


li ha forniti lui. È uno dei commercianti più apprezzati dalle ambasciate e
dagli occidentali che vivono a Teheran.

«I bazari non hanno preso posizione su alcun candidato. Non abbiamo


ancora scelto, nessuno dei due finora ci ha convinto veramente. Credo che
tra di noi vincerà il partito degli astensionisti.»
I bazari hanno sempre rappresentato una forza politica determinante in Iran.
All'epoca della Rivoluzione si erano alleati con i religiosi perché temevano
che lo Scià stesse trascinando il Paese in un rischioso progetto di
modernizzazione.

Privilegiando il settore dei beni di consumo e aprendo la porta alle società


straniere, Muhammad Reza stava creando infatti le condizioni per una
concorrenza sfavorevole che minacciava i bazari nella loro principale
attività, il commercio.

Il loro è inoltre un ambiente molto conservatore, fedele a una visione


patriarcale della società. Oggi devono scegliere se perpetuare un'economia
di scambi oppure favorire, con le loro possibilità finanziarie, l'emergere di
un'economia di produzione. Ma nessuno dei candidati li ha spronati a farlo.
Inoltre sono molto attaccati all'indipendenza del loro Paese: hanno troppo
sofferto la concorrenza degli inglesi e dei russi all'epoca dei Qajar per
sottostare al giogo di una potenza straniera. Mehrdad me lo conferma con
parole semplici: «Adoro il mio Paese. Non vorrei vivere da nessun'altra
parte.

Trascorro qui anche le mie ferie, nel deserto o sulle montagne quando vado
a caccia nelle riserve di famiglia».

Al nostro tavolo una coppia sulla quarantina ha l'aria di essere molto


innamorata. Sono entrambi piuttosto avvenenti.

Comincio a chiacchierare con loro e scopro che non sono sposati e si


frequentano da sei mesi. Lei si chiama Maryam e lavora nel settore
bancario, ha vissuto a Londra, a Milano e a Dubai. Sfoggia una scollatura
vistosa su un seno prosperoso. Lui proviene da una famiglia ricca che opera
nel settore immobiliare di Teheran. Mi dicono che non vivono insieme, ma
che si incontrano a casa di lui. Ogni volta che Maryam passa la notte lì,
nascono problemi con le rispettive famiglie.

«Qui le tradizioni sono ancora molto forti» mi spiega «soprattutto per una
donna, anche se ha quarant'anni. E un vero problema.»
Il suo fidanzato si allontana e lei mi sussurra all'orecchio: «Non mi
trasferisco a casa sua altrimenti non mi sposerà mai».

Il volume della musica sale. Davanti alle opere d'arte che adornano il
grande salone, le coppie cominciano a ballare, i corpi si abbandonano al
ritmo incalzante. I brani sono perlopiù occidentali. Rock e dance. Per
l'occasione è stato chiamato un disc jockey. Ho la sensazione che tutti
stessero aspettando con impazienza questo momento. Intorno a me la gente
salta, ancheggia, si dimena e si sfiora senza troppi pensieri. Una coppia di
ragazzi occidentali, che sembra trovarsi lì senza sapere bene perché, balla
avvinghiata. Credo che non abbiano ingurgitato solo del buon vino. Le belle
iraniane si agitano senza preoccuparsi di nascondere le loro forme. Jacques,
che nel frattempo si è lanciato in una danza orientale con un'affascinante
signora fasciata in un abito nero, non si lascia sfuggire niente. Ricorda bene
gli anni in cui riunirsi per bere o ascoltare musica era semplicemente
impensabile. Anni in cui faceva un vino imbevibile nella cantina dell'ufficio
dell'Afp, aspettando che un diplomatico siriano, diventato suo amico, gli
portasse con discrezione un po' di whisky.

Il mio affascinante vicino si sporge verso di me e mi dice: «Le faccio


vedere come balla un bazari».

Mi invita a seguirlo in pista e io mi lascio trascinare. Si destreggia in abili


evoluzioni intorno a me, i suoi gesti sono contenuti, decisi, mi guarda dritto
negli occhi. Mi viene da sorridere. Venire a Teheran ed essere corteggiata da
un uomo sotto gli occhi di mio marito è il colmo! Mi tranquillizzo pensando
che probabilmente il bel Mehrdad sta dando sfoggio di tutta la sua arte di
seduttore solo per vendermi un tappeto.

Di lì a poche ore, 47 milioni di iraniani eleggeranno il loro nuovo


presidente. Questa sera, la festa di Nicole ha raggiunto l'apice, gli invitati si
divertono. Finché possono.

Se chiudo gli occhi potrei essere a Parigi, Londra o New York, nel Quartiere
Latino, a Soho o al Village, con i gomiti sul tavolo, le orecchie piene di jazz
e la testa piena di sogni. Il locale in cui mi trovo si chiama Gole Rezaieh. Ci
siamo fermati qui per pranzo. In sordina si sente Take Five, i clienti abituali
cullati dal quartetto di Dave Brubeck ordinano senza guardare il menu. Per
Ali, che sta dietro il bancone, è un venerdì come ogni altro. Ha l'aria
imbronciata di sempre.

Con un canovaccio pulisce rapidamente le tele cerate dei tavoli mentre


prende le ordinazioni dei clienti. Fuori il Paese va alle urne.

Taraneh ci ha portato in questo locale perché conosce bene il quartiere. Qui


ha un appartamento nel quale si trasferisce in inverno, quando a Darband la
neve è troppo alta e il freddo pungente impedisce di rimanere sulla terrazza
a guardare il tramonto. Per strada i piccoli negozi con le vetrine vecchiotte
mi fanno sentire in un villaggio. Il Gole Rezaieh è in un certo senso la
mensa di Taraneh, che ci entra come se fosse a casa sua, lascia la borsa su
un tavolo, va a salutare Ali e gli chiede che cosa ha preparato di buono. Poi
si siede, accende una sigaretta e sfoglia il giornale. Ho fatto come lei e mi
sento bene, lontana dalle domande che il mondo si pone sul futuro dell'Iran,
sulla dittatura dei mullah, sulla bomba che sono accusati di preparare, sulla
battaglia delle donne e sui giornalisti in prigione. Faccio come gli iraniani:
entro nella mia «bolla» e mi lascio trasportare dalla musica e dalle
immagini.

Alle pareti ci sono foto di Anna Magnani, Gian Maria Volonté, Luis
Bunuel, Andre Malraux, Ibsen, Jung, Freud, Beckett, una copertina di
«Panorama» con Mao Tse-tung e poi Pier Paolo Pasolini, regista preferito
del proprietario.

«E l'italiano che amo di più. Era un uomo coraggioso e all'avanguardia» mi


spiega Ali quando gli chiedo che cosa ci faccia la foto di un intellettuale
italiano scomodo appesa alla parete del suo ristorante. «Adoro i suoi film,
in particolare Salò o le 120 giornate di Sodoma. L'ho visto a Parigi anni fa,
è un film contro il fascismo, contro tutti i fascismi, incluso quello che
abbiamo qui.»

Ali si rimette al lavoro: fa tutto da solo, dalla cucina alla sala, con una sosta
al bar ogni tanto. Cinquantenne brizzolato, magro, non troppo alto, in
maglietta e jeans, da noi lo si definirebbe un «sessantottino». Lui ha
realizzato il suo sogno: voleva un bistrot dove cucinare per i suoi amici,
voleva creare un luogo dove quelli che amano scambiare opinioni come lui
potessero ritrovarsi. Dieci tavoli con le tovaglie colorate sotto un telo di
plastica trasparente e il pavimento in linoleum. Alle pareti i grandi del
passato guardano la storia ripetersi, da una rivoluzione all'altra, da un colpo
di Stato all'altro. Makin'Whoo-pee ha preso il posto di Take Five e ora, a
fare da sottofondo, c'è Elvis Presley con Fever.

Nell'angolo vicino alla porta una donna in chador legge il giornale, mentre
un uomo, silenzioso, è immerso in una rivista. Un distinto signore, un po'
ancien regime, mangia il piatto del giorno e si alza per pagare al bancone. Il
tempo passa tranquillamente, intanto fuori la gente vota.

«Non andrò a votare» mi dice Ali. «Non ci sono mai andato. Non mi è mai
piaciuto questo regime, fin dall'inizio.»

Deve far parte di quel 2 per cento che nel 1979 si è opposto alla Repubblica
islamica, fatta approvare da Khomeini con un referendum. Del restante 98
per cento che votò «sì», chi sapeva veramente cosa significasse quella
scelta?

Ali ha avuto problemi con i mullah fin da quando ha aperto il suo ristorante.
Da ventisei anni i Guardiani della Rivoluzione e i Basi], i giovani volontari
incaricati di far rispettare i principi islamici, cercano di fargli chiudere
bottega e di mandarlo via, una volta addirittura tentando di dar fuoco al
locale. Lo hanno sempre accusato di commerciare alcolici
clandestinamente. Poi hanno cercato di soffocarlo con le multe, per le quali
è già stato costretto a vendere metà del ristorante. Si mostra quindi un po'
diffidente nei miei confronti, ma alla fine si tranquillizza e risponde alle mie
domande con la voce rauca del fumatore.

Ha viaggiato in ogni parte del mondo, dalla Francia all'India, dagli Stati
Uniti alla Gran Bretagna. Durante le sue peregrinazioni ha imparato ad
apprezzare il jazz, in particolare John Coltrane e il suo sassofono.

«Vede queste immagini? Sono loro che mandano in bestia il regime, perché
non le capiscono» mi spiega indicando la riproduzione di un quadro di
Magritte. Ci sono due volti coperti, uno di donna e l'altro di uomo, sono
faccia a faccia.
Può significare qualunque cosa, ma sicuramente è già troppo per i ligi
esecutori della legge islamica.

«Che cosa rimane della Rivoluzione?» gli chiedo.

«Niente. La Rivoluzione si sta autodistruggendo. E cosi per tutto, compresa


la religione. Quando si esagera si viene distrutti. Khomeini ha ingannato la
gente: ancora prima di spiegarle esattamente cosa intendeva per Repubblica
islamica, l'ha chiamata a partecipare al referendum che l'avrebbe
consacrata.»

«Crede che rimarranno ancora a lungo al potere?»

«Più interverranno nella vita delle persone, prima dovranno andarsene.»

«Le cose andavano meglio con lo Scià?»

«In un certo senso sì, c'era più libertà.» Forse più apertura verso
l'Occidente, penso. Non certo più tolleranza verso gli oppositori.

Mi fermo davanti alla foto di un giovane il cui volto non mi dice nulla. E
imberbe, sembra un ragazzino e non fa parte della galleria di celebrità che
adornano le pareti del Gole Rezaieh.

«Chi è?» chiedo incuriosita.

«Mio fratello» mi risponde Ali.

Prima di capire quello che era evidente, commento: «Com'è bello».

«E morto» dice lui in un sussurro.

Mi dispiace. Certe volte parlo più in fretta di quanto non dovrei, ma Ali non
si formalizza. Il volto in bianco e nero che lo guarda con occhi sereni è
elegante e innocente.

«Si è arruolato durante la guerra. Partito per il fronte, è morto per difendere
il suo Paese, non certo per sostenere quelli là.»
«Quelli là» sono sempre gli stessi, quelli che vogliono chiudere il suo
ristorante, che detestano le sue fotografie, che odiano la sua musica e che
hanno mandato il giovane fratello a farsi ammazzare combattendo nelle
trincee contro l'Iraq.

«Come vede il futuro?»

«Quelli là devono andarsene. Se accadesse sarebbe meraviglioso, altrimenti


le cose peggioreranno e la repressione sarà ancora più dura.»

Ali si gira e torna in cucina. Ha parlato abbastanza per oggi, un giorno


come tutti gli altri. E poi il soave sax di Coltrane sta diffondendo le note di
Aisha. Languidi accordi che scivolano via dolcemente, come una ballata
autunnale in una strada di una città piovosa, dove i dispiaceri vengono
cancellati da un assolo di pianoforte e un bicchiere di bourbon e Alìè
ritornato nella sua bolla.

L'appartamento domina i muri grigi dell'ex ambasciata statunitense, il covo


di spie, in viale Taleqani. Sui muri di cinta si leggono ancora gli slogan
«Morte all'America». Saliamo a piedi per tre piani, perché l'amica di
Taraneh che ci accompagna soffre di claustrofobia. Durante la guerra è
rimasta chiusa in un ascensore e da allora li evita, anche a costo di fermarsi
a ogni pianerottolo per riprendere fiato.

Sono le dieci di sera e la notte sta prendendo il sopravvento. In tutto il


Paese gli ultimi seggi stanno chiudendo, i media ufficiali parlano già di
un'alta affluenza alle urne. I risultati si conosceranno solo domani, ma io
stasera, accompagnata a Taraneh e Jacques, continuo la mia esplorazione di
Teheran che resiste e sopravvive e si inventa ogni giorno nuove libertà.

Ho l'impressione di essere finita in una festa dei miei anni di gioventù. Le


mamme sono in cucina a preparare i piatti per il buffet. I padri controllano il
bar, dove vengono serviti succhi di frutta e vodka iraniana, una specie di
alcol incendiario che si compra in farmacia. Non so se questa sia una
garanzia di innocuità del prodotto, sta di fatto che l'effetto dei 70

gradi si fa rapidamente sentire. Io preferisco resistere al desiderio di un


buon drink, piuttosto che ingurgitare quell'intruglio. I miei amici iraniani
invece non vi rinunciano.

I giovani sono numerosi, maschi e femmine. È solo l'inizio della serata, ma


il balletto di corpi è già cominciato. Le passioni della gioventù, gli
imbarazzi dell'adolescenza. Come per un riflesso condizionato mi chiedo:
«Chi sta con chi?». I ragazzi hanno i capelli lunghi e indossano jeans e
magliette, le ragazze gonne leggere con spacchi e top attillati.

Hanno lasciato foulard e manteaux all'ingresso. Mostrano l'ombelico come


le giovani di tutto il mondo, è la moda.

La padrona di casa si asciuga le mani sul grembiule e mi abbraccia.


«Benvenuta.» E piccolina e minuta, ma si da da fare perché la serata del
figlio sia un successo. Me lo presenta: Sardar, il tastierista. Poi, in
successione, tutti gli altri vengono a stringermi la mano e a ringraziarmi.
Yahya, il batterista, Ali-reza, il bassista, Sohrab, il chitarrista, Salmak, il
trombettista, Shervin, il cantante. La band è al completo. Si chiamano
«127». Questa sera sono contenti perché dopo una settimana di sforzi sono
finalmente riusciti a ottenere il visto per l'Italia. Sono stati invitati al festival
di musica di Arezzo, l'Arezzo Wave, ma è sorto un problema burocratico. I
macchinosi ingranaggi dell'amministrazione italiana che devono servire ad
arrestare i clandestini o i terroristi sono meno adatti a semplificare la vita di
un gruppo di artisti. Mi sono allora premurata di intervenire presso
l'ambasciata italiana a Teheran per farmi garante dei loro buoni propositi. E

l'ambasciatore Roberto Toscano, un diplomatico di rara cultura e di grandi


qualità umane, si è reso subito disponibile a darmi una mano. Per lui, come
per me, andava riconosciuto il coraggio dei sei giovani iraniani che suonano
il rock nel cuore di Teheran, dove i mullah odiano ancora la musica del
Grande Satana.

Per ringraziarmi hanno dunque improvvisato questo concerto. Hanno


montato tutto in salotto, compresi gli amplificatori e le enormi casse. Mi
chiedo che cosa diranno i vicini e la polizia islamica, che dovrebbe lottare
contro «l'intossicazione da Occidente».

Sono tre anni che suonano insieme, hanno tutti meno di venticinque anni,
studiano musica, fotografia o informatica.
Scrivono canzoni loro, ma suonano anche i successi del momento. Si sono
potuti esibire solo quattro volte, all'Istituto di Belle Arti dell'Università di
Teheran. Ed è la prima volta che vanno all'estero, e anche che danno un
concerto durante una festa privata.

Sohrab, il chitarrista, è il leader del gruppo. Magro e nervoso, gli intensi


occhi scuri, tiene i capelli raccolti in una coda di cavallo.

«Sì, ho votato, per il male minore: Rafsanjani.» E si apre il dibattito: tanti


pareri diversi quanti sono gli iraniani. Il detto non è mai stato tanto vero.
Alcuni sostengono che tutto questo non servirà a niente, altri che bisogna
farlo per sbarrare la strada ad Ahmadinejad.

«Non vogliamo che questo tipo dal cognome impronunciabile diventi


presidente. E un fascista» sostiene Goli, sorella minore di Sohrab. E bella e
formosa, capisco perché gli amici del fratello se la contendano, ma lei vive
lontano, in India. Studia a Poona e non ha in programma di tornare a casa
quando terminerà gli studi. «Andrò a Dubai, per guadagnare un po' di
soldi.»

La band comincia a suonare canzoni iraniane, ballate tristi e musiche


ritmate. Chador Blues, una delle loro composizioni, è una melodia lenta e
malinconica, che lascia immaginare la fine ingloriosa di un'imposizione
tanto detestata.

Poi ci sono successi americani o inglesi, il classico repertorio della gioventù


di tutto il mondo che si sintonizza sui canali satellitari o naviga in internet
per ascoltare gli echi della vita normale.

«In Iran» continua Goli «la scelta è semplice: tra il peggio e il meno peggio.
Soprattutto per noi giovani. Ci chiediamo:

"Ma che cosa vogliono da noi? Non c'è libertà né lavoro, continuano a
mentirci e in più vogliono che li eleggiamo!".»

«Che cosa significa per te la Rivoluzione?» le domando.

«Non significa niente.»


Interviene il padre, Shahrian, un gigante buono dal girovita impressionante
e gli occhi saggi: «La storia è indulgente. La gente ha il governo che si
merita: gli iraniani lavorano in media dieci minuti al giorno. Sono forse
degni di un altro governo?». E se ne va.

Mentre parlo con Goli, il fratello suona e la mamma Roya balla scatenata.
Tutto intorno a noi i piatti si riempiono e si svuotano. I bicchieri anche.
Giovani e meno giovani si lanciano sulla pista improvvisata spostando
divani e tappeti.

Porte e finestre sono ben chiuse. Siamo nella nostra bolla. Le note della
musica si srotolano nella stanza e i minuti passano: questa sera a Teheran
non si deve sprecare nemmeno una goccia di felicità.

Sohrab è in un bagno di sudore, fa un segno ai suoi amici per fare una


pausa. Sardar, il pianista, è un virtuoso che alimenta il suo genio con grandi
fiammate di vodka. E nato con la tastiera sotto le dita e il bicchiere in mano.

«Non è che abbiamo veramente ottenuto il permesso di suonare, ma fino a


quando non sanno cosa facciamo, ci lasciano in pace.»

Anche lui ha votato per Rafsanjani, benché tutto ciò non abbia grande
importanza.

«Non so qual è l'eredità della Rivoluzione. Non ero nemmeno nato. L'unica
cosa che so è che dovrà cambiare qual- < cosa: il tempo non aspetta
nessuno.»

Mi siedo accanto a una coppia di adulti che parla francese; scopro che sono
fratello e sorella, Marie Claire e Reza Jean.

Mi raccontano la loro storia e d'un tratto mi convinco che se scrivessi


romanzi, verrei in Iran per ispirarmi.

«Quando è scoppiata la Rivoluzione eravamo a Parigi. Studiavamo lì.


Eravamo di sinistra, anche se la nostra famiglia era vicina allo Scià, o forse
proprio per questo. Quindi abbiamo deciso di rientrare. Per i primi sei mesi
è stato formidabile: respiravamo la vera libertà.»

Tuttavia la famiglia di Marie Claire non si può certo definire rivoluzionaria.


Un nonno senatore, una madre deputata.

Ma soprattutto uno zio paterno, il generale Nematollah Nassiri, per oltre


dieci anni a capo della Savak, la polizia politica dello Scià. Formata sotto la
guida della Cia e addestrata dal Mossad per controllare e sopprimere
qualsiasi tipo di dissidenza al regime, la Savak, che controllava anche
l'ufficio censure per sorvegliare giornalisti, scrittori e accademici, era nota
per i suoi crudeli metodi di tortura. Nassiri fece a sua volta una brutta fine:
molto attivo nella repressione della montante militanza islamica e
comunista, venne arrestato su ordine dello Scià nel novembre del 1978

nel tentativo di placare la collera dei rivoltosi. Evaso con altri 200 dignitari
incarcerati al momento della caduta della monarchia, 1' 11 febbraio 1979,
venne linciato dalla folla ed esibito davanti alle telecamere. Aveva
ottantadue anni. E

una pesante eredità per una famiglia iraniana.

«Poi è iniziata la repressione» continua Marie Claire. «Due anni dopo è


stato imposto il velo a tutte le donne. Allora siamo ripartiti per la Francia e
non siamo più tornati, fino all'elezione di Khatami, nel 1997.»

Da quel momento i due fratelli fanno la spola tra Parigi e Teheran e si


battono per recuperare i beni confiscati durante la Rivoluzione.

«Siamo rimasti piuttosto sorpresi. Pensavamo che ci avrebbero insultato.


Facevamo parte di una lista di 23 famiglie le cui proprietà dovevano essere
requisite con priorità assoluta.»

Invece il Tribunale della Rivoluzione ha dato loro ragione e la Fondazione


degli Spossessati, che controllava il loro patrimonio, è stata condannata. A
nulla sono valsi i suoi numerosi ricorsi in appello. Ha dovuto accettare di
restituire il maltolto, ma ora sostiene che deve essere ricompensata per
essersi presa cura degli edifici e dei terreni in questi vent'anni. Chiede il 5
per cento all'anno del valore delle proprietà, stimato in due milioni di euro,
una cifra esorbitante.

«Ovviamente non possiamo pagare. Ci batteremo fino a quando sarà


necessario.»

Shahrian ha preso il basso. Ha dovuto sedersi, sarà il peso, l'età e forse


anche la vodka. Farrah si è messo alla batteria. È

un po' arrugginito, ma le spalle sono robuste, come pure le braccia e il


ritmo. Dice che è come andare in bicicletta, non si dimentica mai. E poi il
pubblico vuole la sua stella: Wahed. È arrivato alla festa poco prima, con
discrezione. È

venuto in visita dalla Germania, dove vive da ventiquattro anni. E un


pittore. Mentre mangiavamo mi ha mostrato il catalogo delle sue opere, è
un iperrealista e mi è piaciuto molto. «Il mio Paese mi manca» mi ha
confidato «ma dipingendo riesco a tenere a bada la nostalgia.»

Ora tutti gridano il suo nome: «Wahed, Wahed, Wahed», come se fosse una
rockstar. Come se anche i genitori volessero rivivere la loro giovinezza,
ridestare i ricordi e i bei momenti trascorsi in un passato felice.

Wahed assomiglia in modo impressionante a Mick Jagger: stessa


capigliatura irsuta, stessi tratti emaciati, stessa bocca che sbrana le parole e
dilania le note. Quando si mette la cinghia della chitarra sulla spalla è un
delirio. Da vero istrione lascia crescere l'attesa, e quando urla nel microfono
«Rock'riroll is too good to die!» sento un brivido lungo la schiena.

Il piccolo appartamento è diventato l'arena gremita di un pubblico ruggente.


Con una furia vendicatrice per il tempo passato, il tempo perduto, il tempo
rubato. Passa in rassegna tutto quanto il repertorio: i Beatles, i Rolling Sto-
nes, Elvis Presley, Eric Clapton. Yesterday, Satisfaction, Cocaine. Non c'è
bisogno di traduzione, né tanto meno di lunghe spiegazioni. Il messaggio è
chiaro. Qui si torna alle origini. Senza paura e senza vergogna.

E se questa bolla esplodesse?


Mi sono alzata tardi. Il rientro a casa a notte fonda è stato difficoltoso. Ha
dovuto guidare Jacques, perché Taraneh si è divertita troppo. Per lei è stato
come rivivere i suoi anni più folli, non si è fatta mancare nulla. Non capita
certo tutti i giorni che i «matusa» iraniani si scatenino con la chitarra
elettrica sulle note delle hit della nostra giovinezza.

In macchina Taraneh aveva ricordato le tante feste interrotte dalle irruzioni


dei Pasdaran, che in genere dopo il pagamento di una lauta bustarella
sgombravano tranquillamente il campo. Ma non sempre finiva così
pacificamente.

Soprattutto nei primi anni della Rivoluzione i giovani venivano prelevati e


portati negli appositi centri di detenzione dove angherie e frustate non
rappresentavano l'eccezione.

Quando scendo per fare colazione, i giornali sono già arrivati. Hello Mr
Presidenti, titola il «Teheran Times», con un'enorme fotografia di
Ahmadinejad che, barbuto e sorridente, esibisce il segno «V» di vittoria.
Non credo ai miei occhi. Taraneh invece non ha aspettato di leggere i
quotidiani, ha appreso la notizia dalla radio la mattina presto. Anche lei è
sotto shock. Che fine ha fatto Rafsanjani? E la sua certezza di vincere? Mi
sono rivista mentre leggevo lo «Herald Tribune», un mese fa, sulla terrazza
di Chez Carette a Parigi. Il volto di «re Akbar» era in prima pagina, come
una promessa. Un volto conosciuto e quindi rassicurante. Ma gli iraniani
avevano fatto una scelta diversa già al primo turno, eliminando quelli che il
mondo definiva «riformisti», gli eredi del presidente Khatami. E adesso una
volta di più, confermando la preferenza per la linea dell'intransigenza. Dopo
le politiche del 2004, che avevano visto il trionfo dei conservatori, ecco che
ora ottengono anche la presidenza. Il successo è indiscutibile: è andato a
votare il 59 per cento degli aventi diritto e più del 61 per cento, ovvero oltre
17 milioni di persone, ha optato per il sindaco di Teheran. I sostenitori della
Repubblica islamica dura e pura detengono ormai tutti i poteri, dalla
gerarchla teocratica a quella giudiziaria, alle istituzioni della rappresentanza
popolare, come il Parlamento e la presidenza della Repubblica.

Nessuno l'aveva previsto, né i diplomatici, né gli analisti, né i giornalisti.


Eccetto forse Farhad, il marito di Taraneh, che mi aveva detto: «Vedrai, loro
faranno vincere il più estremista». Ecco, avevo pensato, ancora una volta gli
iraniani vedono la lunga mano degli ayatollah in ogni cosa. Ora nessuno si
arrischia a fare previsioni su cosa succederà, ma i primi commenti a caldo
sono pessimisti. Chiamo i miei amici che si dicono scioccati. Parlano di
riconquista, di una nuova offensiva contro gli intellettuali, contro le donne.

Per il momento è abbastanza semplice improvvisare un bilancio. Un


editoriale dell'«Iran News» centra il punto: «Le delusioni economiche della
gente sono il fattore principale che spiega la vittoria di Ahmadinejad».
Questo ricorda il celebre «.It's the economy, stupida scritto dai consiglieri di
Bill Clinton per spiegare la sconfitta di Bush padre.

«Un'altra parte dei suoi sostenitori è formata dagli strati religiosi con-trari
alla liberalizzazione dei costumi» prosegue l'articolo del quotidiano. Anche
in Iran il dibattito sui «valori» e sulla «chiarezza morale» divide l'elettorato.
E poi ovviamente nessuno è stupido, nemmeno il giornale, che lo dice
misurando le parole: «Ahmadinejad deve la sua vittoria agli sforzi dei Basij
e degli altri religiosi, che hanno visto in lui il simbolo di una vita islamica
semplice». Farhad aveva ragione, loro l'hanno fatto vincere: la macchina
dello Stato e delle moschee si è mobilitata in favore dell'ex Pasdaran.

Hanno impartito le consegne, e queste sono state rispettate. Il blocco di


potere rappresentato dai Guardiani della Rivoluzione e dalle milizie di
volontari ai loro ordini hanno prevalso. «Si parla della mobilitazione di tre
milioni di Basij e di almeno 300.000 Pasdaran» mi ricorda al telefono
Karim Sadjad-pour, giovane esperto iraniano del centro studi International
Crisis Group, che ho incontrato un paio di volte per fare il punto della
situazione. In effetti, negli ultimi anni i Pasdada sempre un potere parallelo
— hanno costruito un fitto network di seguaci soprattutto tra i giovani
militari, 1 pubblici ufficiali, i manager e gli intellettuali, arrivando a
costituire una nuova élite politico-militare. Nato nel 1979 per volere di
Khomeini che doveva consolidare il suo potere, questo esercito ben
addestrato ed equipaggiato ha sempre goduto di un'autonomia operativa per
assistere il clero appena salito al potere nella rigorosa applicazione della
Sharia. I Pasdaran dovevano essere «gli occhi e le orecchie della
Rivoluzione islamica». Hanno mantenuto la promessa.

Una doppia fotografia sulla prima pagina dell'«Iran News» riassume bene il
nuovo contesto: il neopresidente, con il suo sorriso pieno di stupore e i tratti
giovanili, saluta con la mano, felice per la vittoria. Accanto a lui l'ayatollah
Khamenei, anch'egli sorridente con la barba bianca e gli occhi bassi dietro
gli occhiali tondi. Una specie di soddisfazione contenuta sembra trapelare
dal turbante nero del sayyed. E riuscito a farla finita con Khatami, il
sobillatore. Ha ripreso in mano la situazione. L'Iran andrà nella direzione
che sceglierà lui o che gli suggeriranno i suoi consiglieri a Qom, o da
qualsiasi altra parte. La sua prima reazione è ovviamente quella di attaccare
il nemico di sempre: gli Stati Uniti, «umiliati» da queste elezioni, assicura.

Chiudo i giornali. In fin dei conti queste consultazioni hanno


semplicemente messo fine a un'illusione: che Khatami e la sua squadra
fossero capaci di introdurre sostanziali cambiamenti e che il loro ruolo fosse
essenziale per guadagnarsi una maggiore libertà. Ho invece l'impressione
che le conquiste degli iraniani siano state ottenute senza il suo aiuto, ma
grazie alle lotte di donne e uomini che ogni giorno si alzano per reclamare i
loro diritti. E questa dinamica non si fermerà.

Ahmadinejad è il primo non religioso a diventare presidente dopo Bani Sadr


nel 1981. Sarà un segnale? Una cosa sembra certa: il vero potere in Iran è
ora nelle mani dei Guardiani della Rivoluzione e ovviamente del loro
mentore Khamenei. Mireranno a creare un «mondo multipolare in cui l'Iran
assume un ruolo guida per l'Islam», come ha recentemente sostenuto il capo
dei Pasdaran, il generale Safavi?

Per Khamenei e Ahmadinejad la sfida immediata è semplice ma cruciale: la


maggioranza del popolo ha votato per stare meglio economicamente. Ha
dato fiducia a chi sbandierava con convinzione i suoi precedenti
rivoluzionari, ha riposto la speranza nei castigatori della corruzione e negli
apostoli dell'umiltà islamica. Ma l'umore della gente potrebbe cambiare
rapidamente se i risultati non dovessero arrivare. E allora niente sarebbe più
in grado di salvare quello che rimane della Rivoluzione e della religione.

Stasera a tavola nessuno è davvero preoccupato della vittoria di


Ahmadinejad.
Lo champagne è al fresco, il caviale delizioso, l'argenteria lussuosa.
Nell'immenso appartamento che si sviluppa su più piani, i pavimenti sono
ingentiliti da preziosi tappeti. Abbiamo preso l'aperitivo in una terrazza
grande come un giardino, o forse era un giardino pensile. La notte è dolce, i
padroni di casa parlano molto bene francese e inglese. Lei si chiama Turan,
bionda e raffinata, mi ha subito dichiarato la sua ammirazione per il mio
lavoro di giornalista e ora di eu-rodeputata. Ci tiene a esprimersi anche in
italiano. Lui è Bijan, massiccio e affabile, un grande industriale. Ha riunito
intorno alla sua tavola una coppia di diplomatici francesi, alcuni facoltosi
iraniani che vivono all'estero e l'agente immobiliare più in vista di Teheran.
Insomma, un bel mondo. Bijan, discreto e pacato, aspetta la fine della cena
squisita per mostrarmi il suo fiore all'occhiello: una piscina di 25 metri,
all'interno di un giardino d'inverno nel cuore dell'appartamento. Le pareti
della vasca sono ricoperte da preziose maioliche antiche.

Bijan ha l'aria tranquilla, eppure avrebbe tutte le ragioni per preoccuparsi.


Ma soldi e ricchezza proteggono anche dai sussulti più intensi della
Rivoluzione. Diplomato a Ginevra e a Parigi, è tornato in Iran per occuparsi
degli affari del padre. Ha saputo liberarsi in breve tempo di quelli legati al
regime dello Scià e ha fatto fruttare il resto. Il regime l'ha spesso
minacciato, approfittando di ogni occasione per metterlo in difficoltà.

«Nessuno ha mai avuto niente da rimproverarmi, l'ho fatto capire ai


Pasdaran. Sono spesso giovani e ingenui. Ragazzi che si sono ritrovati
all'improvviso a dover gestire un potere enorme.»

Gli chiedo se ha mai pensato di emigrare, come molti suoi compatrioti che
hanno saputo rifarsi una vita all'estero.

«Non ho mai voluto lasciare il mio Paese, nemmeno durante gli anni più
duri della Rivoluzione, quando la polizia islamica entrava senza preavviso
nelle case per sapere cosa stavamo facendo e per controllare se ci fossero
alcolici.»

Mi racconta di quella volta in cui era stato colto in flagrante nella villa di
uno dei suoi amici, mentre serviva in tavola del buon vino francese. Quella
sera era cominciato un

faccia, a faccia molto teso con i Pasdaran. Bijan si rifiutava di seguirli e


insisteva perché alle donne fosse permesso di tornare a casa. «In Iran
bisogna sempre negoziare» mi spiega. Alla fine si era accordato con i
Guardiani della Rivoluzione che il giorno successivo sarebbe andato con
l'amico alla sede del Komiteh. Nella notte aveva fatto qualche telefonata a
persone importanti sulle quali è fondamentale poter sempre contare in
questo Paese. E la mattina si era presentato alla polizia per spiegare che la
sera prima si erano limitati a tenere da parte delle buone bottiglie
abbandonate da alcuni diplomatici. Il Komiteh aveva accettato quella bugia
pietosa e lasciato andare i due amici, dopo il versamento sottobanco di una
tangente.

La discussione è ormai avviata, parliamo del chador, della pena di morte. Il


diplomatico francese mi racconta di avere assistito all'alba di qualche tempo
fa a un'esecuzione pubblica a Teheran. Uno spettacolo sconvolgente. Il
colpevole era stato impiccato a una gru e ha impiegato dieci minuti a
morire. Ciò che l'aveva colpito era la curiosità dei passanti, che si
fermavano per seguire la scena con interesse, ma senza emozione. Intorno
alla tavola si delineano posizioni diverse: i più difendono la pena capitale in
un Paese in cui l'autorità deve essere brutale per avere un effetto regolatore
sulla popolazione, dicono.

Di fronte alla vittoria di Ahmadinejad, Bijan dimostra un approccio molto


realistico: «Ancora una volta il potere iraniano non ha capito che in questo
Paese ci sono troppi diseredati che non ne possono più di vedere i ricchi
diventare sempre più ricchi e i poveri come loro sempre più poveri. Proprio
come prima della Rivoluzione, quando lo Scià e i suoi consiglieri si
rifiutavano di vedere le ingiustizie».

E conclude: «Lasciamo che si organizzino. Lasciamoli lavorare. Vedremo


quello che succederà».
EPILOGO

L'IRAN NEL LABIRINTO

Mentre mi preparo a tornare in Italia, l'Iran mi appare come uno dei suoi
magnifici tappeti che vengono orditi da mani agili e pazienti. Un connubio
di bellezza e di tragedia. Di ricchezza e di ingiustizia. Un'arte radicata nella
tradizione, ma minacciata dalla modernità. I disegni di lana o di seta si
compongono mentre si intrecciano milioni di nodi e si incrociano fili
multico-lori. Chi può dire quale sarà il risultato finale? In Iran sono al
lavoro forze che in ogni momento apportano ritocchi a una tela infinita e
variopinta quale è la storia di un Paese. Forze di progresso, forze di
repressione, dinamiche di libertà e paludi di fanatismo. Qui ho trovato un
popolo ispirato dal passato, dalle sofferenze, dal sangue versato, dalle
battaglie vinte e dalle sconfitte. Saranno gli iraniani a tessere, senza sosta, il
proprio futuro. E che nessuno si azzardi a decidere per loro.

Il giorno dopo la vittoria di Ahmadinejad vado ad assistere alla sua prima


conferenza stampa. Voglio vedere da vicino l'uomo che sarà uno dei
principali artefici dei nuovi destini dell'Iran.

Ha convocato i giornalisti nella sede del municipio di cui è stato il capo e


che gli è servito da trampolino di lancio per vincere la corsa alla presidenza
della Repubblica.

Quando arriviamo la sala è strapiena. Riesco a infilarmi nella giungla di


telecamere e microfoni. Poi all'improvviso un movimento della folla mi
proietta verso la porta che ho appena oltrepassato. Nel caos ho giusto il
tempo di sentire la voce di Taraneh che mi grida che hanno deciso di tenere
la conferenza nella sala del Consiglio. Davanti a me l'alta silhouette di
Jacques si fa strada tra i colleghi. Alla fine ci ritroviamo comodamente
seduti sulle poltrone dei consiglieri comunali, nella prima fila di un
bell'anfiteatro, mentre intorno a noi, tra fotografi, cameraman e cronisti, si
sta combattendo una vera e propria battaglia. Per ingannare l'attesa della
stampa iraniana e degli inviati arrivati da tutto il mondo, uno dei
collaboratori di Ahmadinejad legge al microfono dei versetti del Corano.
Qualcuno reagisce con stupore.

Il presidente arriva con un'ora di ritardo. Piccolo, quasi gracile, la barba mal
fatta, i capelli in disordine, fedele all'immagine di semplicità che gli ha
assicurato la vittoria. Con il suo sobrio vestito marrone di pessimo taglio,
forma un evidente contrasto con «re Akbar» e i suoi abiti da mullah cuciti
su misura. Ci sarà per caso un che di Saint-Just in quest'uomo? La
ghigliottina sta già aspettando gli opportunisti e gli sfruttatori? Oppure
cederà anche lui alle sirene del potere e del denaro? Viene accolto
dall'ovazione dei fedelissimi che gremiscono il podio da cui deve parlare.
Affiancato da due consiglieri più anziani, ieratici, si presta al gioco del botta
e risposta con il sorriso sulle labbra. Essendo la sua prima uscita ufficiale
non ha molte cose da dire e non vuole spaventare nessuno. Da parte mia,
sono più interessata all'uditorio che alle sue dichiarazioni. Lo spettacolo e il
messaggio sono in sala. Un messaggio di mobilitazione, di impegno. Non si
respira quell'aria di disinvolto cinismo, di cortese noia, di irriverente
distacco che tanto piace ai giornalisti europei. Qui l'informazione è ancora
un mestiere, non un'occupazione. Per due ore i cronisti iraniani -

tantissime le donne — sottopongono il nuovo presidente a una raffica di


domande, prendono appunti e lo ascoltano con attenzione. Le fotografe
sono accorse in forze con le uniformi islamiche o con i foulard appena
annodati. Combattono nelle prime file, col velo tra i denti, per rubargli un
sorriso, una smorfia, un'espressione. Si schierano dietro i microfoni, pronte
a dargli battaglia sui loro diritti, sull'hijab, sulla parità. Per loro, la lotta è
appena cominciata.

La libertà di stampa ha le sue vittime in Iran; mentre scrivo queste righe,


l'oppositore più famoso, Akbar Ganji, è di nuovo in prigione, la moglie e gli
amici sono ancora una volta allarmati per il suo pessimo stato di salute. Dal
26 agosto nessuno lo ha più potuto vedere. Deve essere liberato prima che
sia troppo tardi. I suoi colleghi sono fermamente decisi a battersi nel suo
nome e in nome di tutti coloro che come lui sono rinchiusi in prigione o
sono morti per le torture. E
con queste pagine voglio esprimere il rispetto e l'ammirazione che provo nei
loro confronti. Uscendo dalla conferenza stampa mi sento fiera di essere
ancora una di loro. Una giornalista.

Finito l'incontro con il nuovo presidente vado a trovare Shi-rin Ebadi. Nel
2003 le è stato assegnato il premio Nobel per la Pace per rendere omaggio
al suo lungo impegno in difesa dei diritti umani. E lei ha osato andare a
ritirarlo a Stoccolma a testa alta, senza velo.

Come l'anno scorso, appena entro nel suo studio Shirin si toglie il velo
alzando gli occhi al cielo in segno di sollievo.

Scoppiamo a ridere entrambe e faccio la stessa cosa.

Nemmeno lei, come tanti iraniani e molti osservatori internazionali, si


aspettava la sorprendente vittoria di Ahmadinejad.

«Chi lo ha votato?»

«Gli ultraconservatori e le classi più povere, che con il petrolio a oltre 60


dollari al barile chiedono giustamente una redistribuzione più equa della
ricchezza.»

«Pensa che la sua vittoria significhi la fine delle riforme?»

«Intanto ricordiamoci che il presidente in Iran non ha praticamente potere: è


per questo che non mi preoccupo più di tanto di Ahmadinejad. Khatami ne
è stato la prova: nonostante i suoi 21 milioni di voti ha potuto fare ben
poco. Per esempio sul fronte delle donne, le sue più convinte so-stenitrici,
invece di presentare un progetto di legge per abolire la lapidazione si è
limitato a spedire delle circolari ai giudici che non li dispensano però
dall'applicare la legge. Ogni volta che sono state approvate misure
importanti, come la ratifica della Convenzione internazionale sui diritti
delle donne, passata in Parlamento, il Consiglio dei Guardiani è
puntualmente intervenuto annullando il lungo percorso compiuto.

Ma questo non significa che la popolazione abbia rinunciato al suo sincero


bisogno di cambiamento. Al contrario, gli iraniani vogliono più riforme da
conquistare con un processo pacifico: dopo una rivoluzione e una guerra, di
violenze ne hanno abbastanza.»

«Pensa che il nuovo presidente rappresenti una minaccia per le conquistate


libertà?»

«No, la gente non lo permetterà mai. Se si dovesse fare un altro passo


indietro, gli iraniani si opporranno con le unghie e con i denti.»

Shirin Ebadi non si lascia mai andare al pessimismo. I suoi piccoli occhi
scuri sprizzano tenacia. Quella tenacia che le ha permesso di sopravvivere
al carcere, a due attentati, e che oggi le da la forza di continuare a resistere a
tutte le pressioni e le minacce del regime.

«Ha mai conosciuto un atleta che corre senza la speranza di vincere?»

Nell'intervista che leggevo davanti a un pain aux raisins da Chez Carette


prima di partire per l'Iran, Rafsanjani accusava il sistema americano di
essere poco democratico. «Le leggi elettorali sono così complicate negli
Stati Uniti che la gente non ha altra scelta che votare per uno dei due
candidati, schierati con uno dei due partiti. Negli Stati Uniti c'è solo una
patina di democrazia: da noi invece c'è la vera democrazia.» Non so se è
della stessa opinione ora che ha perso e che ha accusato il suo avversario di
brogli.

In Iran la natura democratica del sistema è fortemente inficiata dal metodo


di selezione dei candidati. Se il Consiglio dei Guardiani ritiene che un
candidato non sia abbastanza «islamico» viene semplicemente escluso. E
accaduto anche questa volta. Un brutto colpo alla legittimità delle elezioni.
Anche se è indubbio che non siamo di fronte né a una successione
monarchica, come in Arabia Saudita o in Giordania, né a una devoluzione
del sistema dei clan, come in Egitto o in Siria. Qui comunque c'è stata una
battaglia politica, e ormai non possiamo che accettarne il risultato. Gli
iraniani hanno scelto.

E hanno scelto un presidente populista e demagogo. Ha promesso una vita


migliore e gli hanno creduto. Le preoccupazioni dell'Occidente sul nucleare,
sulle libertà civili o sul dialogo con gli Stati Uniti sono chiaramente rimaste
in secondo piano. Rafsanjani si è presentato come colui che avrebbe potuto
ristabilire i contatti con Washington, Ahmadinejad invece ha sostenuto che
la normalizzazione dei rapporti con il Grande Satana non era necessaria. Ma
la disputa è rimasta sullo sfondo. Tanto più che i termini del dibattito hanno
il sapore del déja vu. Il giorno dei risultati, il giornale ultraconservatore
«Kayhan», nella versione inglese, si era scagliato contro lo Zio Sam con un
editoriale che avrebbe meritato un posto nel museo della retorica
rivoluzionaria: «Lo schiaffo è stato cosi forte da far vedere le stelle a Bush e
alla sua cricca: il loro sogno di immischiarsi nei nostri affari sta diventando
un incubo. [...] Ora che il Grande Satana ha ricevuto una bella lezione da
parte degli elettori iraniani, non dobbiamo aspettarci che Washington
rinunci alla sua animosità nei confronti di Teheran. Gli Stati Uniti hanno
intenzioni diaboliche, dimostrate dal loro sostegno all'entità sionista
illegittima chiamata Israele».

Ma le promesse e le invettive non possono sostituire un programma


credibile. Se dopo ventisei anni la Rivoluzione deve ricorrere a slogan e
parole d'ordine senza contenuti per far rispondere il suo gregge all'appello,
allora c'è un grave problema.

Sono convinta che Ahmadinejad e chi lo ha fatto eleggere, a cominciare


dalla Guida Suprema, sanno che la loro vittoria è fragile. Dovranno
mantenere gli impegni di sviluppo economico e sociale. Nell'immediato
saranno aiutati dal prezzo del petrolio, che ha fatto piovere nelle loro casse
quasi 25 miliardi di dollari di utili aggiuntivi negli ultimi due anni. Se
investita nel futuro, questa manna può aiutare l'Iran a risolvere i problemi
strutturali. Se distribuita per onorare il patto con l'elettorato, si trasformerà
invece in una trappola.

I dirigenti conservatori non possono inoltre permettersi di fare


impunemente marcia indietro sulle libertà conquistate dalla società iraniana.
Il recupero della moralità per la quale hanno votato 17 milioni di iraniani
non significa l'imposizione di una dittatura della virtù. Il mandato di
Ahmadinejad riguarda la corruzione politica più che la corruzione morale. E
i suoi sostenitori chiedono che faccia la guerra all'ingiustizia, non al
rossetto. Con tutti i poteri in mano - esecutivo, legislativo, giudiziario, la
sicurezza, la polizia, l'informazione -i conservatori e i difensori della
probità islamica non avranno più scusanti in caso di fallimento. I governanti
di Teheran non possono mettere in fuga gli investitori stranieri o iraniani
proprio quando ne hanno più bisogno. «Le preoccupazioni principali della
gente sono la disoccupazione, gli aiuti pubblici e l'erosione del potere
d'acquisto» ha ricordato Ahmadinejad assumendo le sue funzioni. Chi lo ha
votato, e i suoi nemici, non gli permetteranno di dimenticarlo.

Chiusa la parentesi elettorale, è successo quello che ci si aspettava. Non


appena il nuovo presidente si è insediato, è ritornata in primo piano la crisi
del nucleare. Gli iraniani hanno annunciato la ripresa del processo di
arricchimento dell'uranio. La comunità internazionale si è allarmata e anche
i negoziatori europei hanno brandito l'arma del deferimento dell'Iran al
Consiglio di sicurezza dell'Onu.

Un'altra crisi si è aperta dopo l'elezione di Ahmadinejad. I Mujaheddin


Khalq, oppositori del regime, hanno diffuso la notizia che il nuovo
presidente aveva fatto parte del commando che sequestrò i diplomatici Usa
nel 1979 a Teheran. La stampa americana ha subito interpellato
l'amministrazione Bush. Di per sé questa informazione non avrebbe dovuto
turbare nessuno. Se è per questo, Massumeh Ebtekar, che ho incontrato in
Iran, è stata per otto anni vicepresidente del governo riformista di Khatami
pur avendo ricoperto il ruolo di portavoce degli studenti che tenevano in
ostaggio l'ambasciata. Eppure Washington non si è formalizzata.

E interessante sottolineare che, sia nel caso del nucleare sia in quello della
presunta partecipazione di Ahmadinejad all'assalto del 1979, la Cia ha
reagito molto in fretta e ha lasciato filtrare due rapporti preparati per la Casa
Bianca. Il primo conclude che Teheran avrebbe bisogno di altri dieci anni
per riuscire a produrre un'arma nucleare. Il secondo assicura che il
presidente iraniano non ha partecipato alla presa degli ostaggi, e suggerisce
addirittura che fosse contrario perché temeva che l'Unione Sovietica potesse
approfittare dell'indebolimento dell'Iran. Questa rapida risposta dei servizi
segreti americani indica che i professionisti della politica a Washington
sono decisi a non lasciare campo libero alle invenzioni degli ideologi e alle
chimere di chi auspica di cambiare con la forza il regime iraniano.

Né le minacce, né i sospetti hanno impedito ad Ahmadinejad di andare a


metà settembre a New York per ripetere davanti all'Onu che il suo Paese
non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle proprie ambizioni nucleari.
Ha voluto dare al mondo l'impressione di non avere nulla da temere, tanto
meno l'America.

Come ha sottolineato Juan Cole, uno dei migliori analisti politici del Medio
Oriente: «È un'ironia della storia: il più pericoloso dei nemici dell'Iran, gli
Stati Uniti, ha invaso il suo vicino, l'Iraq, con l'intenzione di sbarazzarsi
anche del regime di Teheran, ma di fatto è solo riuscito a firmare il proprio
fallimento». La resistenza all'occupazione generalmente attribuita ai sunniti
ha impedito all'esercito americano di avere le mani libere per un eventuale
attacco convenzionale contro l'Iran.

Il conflitto iracheno ha permesso inoltre un riawicina-mento cruciale tra due


grandi Paesi, l'Iran e la Cina. Dopo la guerra di Bush all'Iraq, Pechino ha
visto svanire la prospettiva di ottenere dagli iracheni il petrolio
indispensabile per alimentare la sua crescita industriale. I cinesi si sono
dunque rivolti a Teheran e la partnership per le risorse energetiche è
diventata rapidamente anche un'alleanza strategica: i cinesi forniscono
infatti agli iraniani le armi necessarie per bloccare lo Stretto di Hormuz, che
collega il Golfo all'Oceano Indiano, e l'appoggio diplomatico per ostacolare
qualunque progetto di sanzioni internazionali nel Consiglio di sicurezza.

Ahmadinejad avrà in mano carte da non sottovalutare per la stabilizzazione


dell'Iraq. Alcuni gruppi sciiti iracheni, dopo aver constatato la reticenza
americana ad annunciare la loro partenza, sono andati a cercare aiuto a
Teheran. I seguaci di al-Sadr, il Dawa e il Consiglio supremo della
Rivoluzione islamica in Iraq hanno approfittato del vuoto politico creato dal
caos e dal rifiuto delle nuove istituzioni troppo legate a Washington per
occupare il terreno. E organizzare la vita sociale ed economica delle regioni
a maggioranza sciita.

Teheran può dunque trattare la questione della proliferazione nucleare da


una posizione di forza. Anche in questo caso, l'amministrazione Bush ha
commesso una serie di errori di valutazione. Innanzitutto ha dimostrato per
l'ennesima volta di preferire la politica del doublé standard, del doppio
binario, appoggiando regimi che sono in contraddizione con lo spirito del
Trattato di non proliferazione: Israele, India, Pakistan. In secondo luogo si è
resa disponibile a trattare con la Corea del Nord quando Pyongyang è
sospettata di avere già la bomba atomica.

L'Iran è un Paese in permanente ebollizione dove si manifestano ambizioni,


desideri personali e progetti collettivi. Il regime scaturito dalla Rivoluzione
non è stato all'altezza delle aspettative. Reprime le speranze per non doverle
affrontare. Non le capisce e le teme. Il fatto che la Rivoluzione sia stata
assediata fin dalla nascita, aggredita da una guerra imposta, poi sottomessa
a sanzioni, è un alibi perfetto utilizzato per giustificare il proprio
immobilismo. Ma chi è il colpevole? La storia che imprigiona gli iraniani
nella nostalgia di un passato che non esiste più? La religione che cancella
l'individuo per meglio controllare la comunità? L'irresponsabilità dei
cittadini che fa ricadere sullo Stato il compito di assicurare il loro
benessere?

L'Iran, che ha rifiutato «l'Est» e «l'Ovest» quando queste nozioni avevano


ancora un senso, ha oggi i mezzi per gestire la transizione da una rigida
teocrazia a una terza via. Un modello dove il bisogno di democrazia e di un
indispensabile sviluppo economico si sposi con il rispetto della sua cultura.

In questo sforzo l'Europa, già ampiamente coinvolta come partner


economico e diplomatico, deve continuare ad avere un ruolo centrale, libera
dai complessi nei confronti del gigante americano che Bush e i suoi amici
hanno fatto barcollare. Ma non sarà sufficiente: gli europei, potenza
pacifica, non minacciano l'Iran, e non è da loro che Teheran si aspetta
garanzie di non belligeranza. Gli Stati Uniti dovranno prendere seriamente
in considerazione una delle poche opzioni che ancora hanno a disposizione:
negoziati diretti con i mullah. Hanno stabilito contatti con la Corea del
Nord, anch'essa inclusa nell'«Asse del Male» e uno degli «avamposti della
tirannia». Devono arrivare a fare lo stesso con Teheran, a meno che non
scelgano di mettersi nelle mani dei fanatici che suggeriscono l'uso della
forza. Washington si trova a poter giocare con gli argomenti decisivi che gli
iraniani vogliono sentire: la garanzia che l'Iran non sarà oggetto di alcun
attacco né da parte degli Stati Uniti né da parte di Israele. E che l'Occidente
è pronto ad aiutarlo a risolvere i suoi problemi economici. La palla ora è nel
campo degli americani. Il tempo delle minacce è finito. È cominciata l'ora
della ragione.
Da Mehrabad i voli per l'Europa partono di notte. All'aeroporto c'è molta
gente. L'aria è dolce e calda, una brezza leggera ha ripulito il cielo. Teheran
sembra già lontana. I taxi scaricano i passeggeri che vanno di fretta. I
facchini offrono i loro servizi. Davanti alle porte c'è un intenso viavai. E la
tipica folla familiare degli aeroporti: coppie che si separano, uomini d'affari
in transito, turisti che tornano a casa. Per me e Jacques, dopo un mese in
Iran, è la fine del viaggio. Ripartiamo con i taccuini pieni di appunti, i cuori
pieni di ricordi. Senza dimenticare i chili di pistacchi che i nostri amici
hanno lasciato scivolare nelle nostre valigie.

Taraneh e Ali ci hanno accompagnato, ma dobbiamo salutarli prima del


controllo bagagli. Ci abbracciamo. Non amo le partenze, tanto meno questa.
Ci sarebbe stato ancora molto da vedere e da fare. Tanti volti da incrociare,
tante voci da ascoltare.

«Vi aspetto sulla mia terrazza» sorride Taraneh.

«La prossima volta che tornate, fermatevi di più» aggiunge Ali.

Ha ragione. La luce delle candele non basta a scoprire l'elefante nel buio. Il
poeta Rumi si è dimenticato di consigliare ai suoi lettori di armarsi di
pazienza. In un Paese dove si è costretti a muoversi come in un labirinto,
senza guida e senza mappe, il tempo è essenziale. In Iran, il tempo è la
chiave di tutto. Bisognerà ricordarselo.

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