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Chador - Nel cuore diviso dell'Iran (Lilli Gruber) - 2005
Chador - Nel cuore diviso dell'Iran (Lilli Gruber) - 2005
CHADOR
NEL CUORE DIVISO DELL’IRAN
RIZZOLI
ISBN 88-17-00847-8
Con una giacca Chanel rosa e un paio di jeans Sheila, che non conoscevo
ancora, mi è apparsa nella sua bella figura di cinquantenne dai capelli neri e
gli occhi scuri. Si è seduta accanto a me e ha ordinato una cioccolata e un
dolce.
Mi sono immersa nella lettura del «Herald Tribune». In prima pagina c'era
la foto di Ali Hashemi Rafsanjani seduto in poltrona col volto serio. Sotto il
turbante bianco, i tratti decisi, i baffetti grigi e la fronte corrucciata gli
danno un'aria inflessibile da generalissimo. In questa primavera del 2005,
Rafsanjani è candidato alle elezioni presidenziali che si terranno in Iran il
17 giugno. Uno scrutinio considerato dai 70 milioni di abitanti e dal resto
del mondo una tappa cruciale. Tutti lo ritengono il vincitore annunciato. Un
«riformista» in testa all'inizio della campagna elettorale titola il quotidiano,
che riprende un articolo del «New York Times». Rafsanjani, in realtà un
religioso conservatore, generalmente parla poco alla stampa estera. Ma
recentemente ha rilasciato una serie di interviste ad alcuni giornali stranieri
per mettere a punto la sua immagine di uomo provvidenziale, di unica
alternativa possibile in una nazione spaccata tra conservatori e riformisti.
«Un pain aux raisins» mi risponde con un sorriso. Poi prosegue: «Le
interessa l'Iran? Io sono iraniana. Mi chiamo Sheila».
Bush in Iraq; nel secondo libro, L'altro Islam, avevo affrontato la dinamica
messa in moto da quel conflitto: l'affermazione politica, in Iraq e nel mondo
arabo, degli sciiti. Una minoranza ribelle del 15 per cento all'interno della
comunità musulmana composta in gran parte di sunniti. Un'eventuale terza
puntata dovrebbe proseguire questo viaggio verso est, in quel Medio
Oriente che ci affascina ma che non riusciamo a penetrare fino in fondo. E
per questo che da mesi coltivo l'idea di esplorare l'Iran, formidabile e
misteriosa teocrazia sciita, ricca di petrolio e di gas naturale, ai confini
dell'Asia, del mondo arabo e dell'Europa orientale. Accusata da Washington
di essere il principale Paese sostenitore del terrorismo internazionale e
sospettata di volersi dotare della bomba atomica. Denunciata per le
violazioni dei diritti umani e per le discriminazioni nei confronti delle
donne. Ma anche grande nazione fiera della sua storia millenaria, della sua
cultura straordinariamente complessa. L'Iran impregnato di tradizioni ma
animato dal desiderio di modernità. L'Iran Paese del chador e delle donne
che votano a quindici anni. L'Iran Paese dei segreti. Un laboratorio dove
oggi si sperimenta la compatibilità tra Islam e democrazia.
«Tutti in Iran le diranno: "La Rivoluzione non c'è mai stata veramente"»
esordisce. «Durante il regno dello Scià la gente era felice. La
disoccupazione stava calando. Tutti i bambini andavano a scuola. Anche le
persone meno ricche potevano permettersi due auto.»
Gli iraniani hanno un gusto smodato per i complotti. Per loro la realtà non è
mai quella che appare. Persino la franchezza non è altro che un modo sottile
per dissimulare disegni oscuri. Cadere nella trappola della chiarezza è una
dimostrazione di ingenuità. Non oso dunque contraddire Sheila che sembra
così sicura di sé e che vedrebbe in me una povera sempliciotta, il cui
candore non può che intenerire.
«Per quanto riguarda la bomba atomica tutti gli iraniani sono d'accordo: la
vogliono, e anch'io la voglio.» Sheila non bada alle contraddizioni, ma
spiega meglio il senso delle sue parole: «Perché non dovremmo avere il
diritto di diventare una potenza nucleare? Gli israeliani hanno la bomba, i
pakistani hanno la bomba. Perché noi no? I mullah sono molto bravi a
negoziare. Prenderanno tempo. E aspetteranno che in America i
repubblicani vengano sostituiti dai democratici prima di annunciare le loro
vere intenzioni».
Chiudo il giornale. Nonostante i vari viaggi sempre troppo brevi che avevo
fatto in terra persiana, non ne sapevo abbastanza. Naturalmente mi
tornavano in mente i ricordi, ma erano sempre brandelli di storie, immagini
confuse del passato: lo Scià, le feste a Persepoli, la Rivoluzione, la guerra
con l'Iraq, i mullah al potere... Ma cosa sapevo delle vere dinamiche di
questo grande Paese? Che cosa rimane dell'eredità di Khomeini nell'Iran di
oggi? Che cosa resta della Rivoluzione che ha fatto sperare in un futuro
radioso? Qual è il lascito Delia guerra con l'Iraq e della forza nata da quel
sacrificio? I giovani, che costituiscono la grande maggioranza della
popolazione, non hanno conosciuto né l'una né l'altra. Chi decide a Teheran
e cosa chiedono gli iraniani? La voglia di scrivere un libro sull'Iran era già
viva fin dal mio viaggio nell'arcipelago sciita che, in maniera quasi naturale,
mi aveva portato dall'Iraq nell'antica Persia. Religione di Stato dal XVI
secolo, lo sciismo ha ispirato la Rivoluzione che ha cambiato il volto del
mondo e che ancora oggi dopo ventisei anni tenta di definire un nuovo
modello politico ed economico.
Oggi, quanti iracheni e quanti americani dovranno ancora morire prima che
i responsabili del grande imbroglio facciano un passo indietro? Hanno
mentito per invadere l'Iraq, mentono per rimanervi. Agitano lo spauracchio
di una guerra civile mentre la guerra vera è ancora là a mietere decine di
migliaia di vittime. Promettono una democrazia ma hanno sperato a lungo
di poter imporre un regime ai loro ordini. Se ne andranno cantando vittoria
lasciandosi dietro un Paese distrutto in preda alla legge dei clan e delle
moschee.
Mi torna in mente una poesia persiana che è rimasta scolpita nella mia
memoria, Un elefante al buio. L'autore è il famoso Jalal ai-Din Muhammad
Rumi. E la storia di cinque persone che non hanno mai visto un elefante e
che entrano in un recinto immerso nelle tenebre. Ognuno appoggia la mano
sull'animale e descrive quello che pensa di avere davanti: «è un narghilè»
dice quello che tocca la proboscide, «è un grande ventaglio» afferma quello
che stringe l'orecchio, «è un trono di pelle» dichiara quello che tocca la
groppa. E via di seguito, tutti dicono la loro. I cinque personaggi sfiorano
un punto diverso dell'elefante, e ognuno crede di avere capito. Il palmo
della mano e la punta delle dita che si agitano al buio sono il loro unico
contatto con la realtà. La poesia si conclude con una morale semplice: «Se
fossimo entrati tutti insieme con una candela in mano, avremmo potuto
vederlo, questo elefante».
CAPITOLO I
Jacques è curioso quanto me. Non è la prima volta che veniamo in Iran, ma
ne siamo sempre ripartiti con l'impressione di aver appena sfiorato la realtà
di questa nazione decisiva ai confini di tanti mondi diversi: a est l'Estremo
Oriente; a nord la Turchia erede dell'impero ottomano e gli Stati del
Caucaso, frammenti del defunto blocco sovietico; a ovest e a sud il mondo
arabo. Oltre 70 milioni di abitanti di etnie e tradizioni differenti: persiani,
azeri, curdi, arabi, baluchi, turcomanni. Un presente nel quale si mescolano
fanatismo religioso, fervore rivoluzionario, intransigenza ideologica, guerra
e violenze. Un passato ricco di una cultura millenaria. Un futuro che
potrebbe essere radioso grazie all'immensa ricchezza di risorse energetiche.
Questa volta il nostro viaggio durerà più di un mese, se le autorità iraniane
manterranno le promesse. Troppo poco per capire tutto, abbastanza per
alzare il velo sui tanti misteri del regno degli ayatollah.
Appena atterrati, mi sistemo uno scialle nero sulla testa in modo da coprire i
miei capelli troppo rossi per i gusti dei mullah che hanno preso il potere
ventisei anni fa. Il velo foulard, hijab o chador - è un simbolo, per alcuni
della sottomissione delle donne, per altri della loro protezione. In Occidente
è presentato come l'emblema di una società arcaica che rinchiude l'altra
metà del cielo in una prigione di stoffa, fatta di leggi e pregiudizi. Ma la
questione è più complessa. Sotto il chador le iraniane votano, lavorano,
guidano l'automobile, pensano e combattono per i loro diritti.
L'arrivo mi riserva subito una piccola delusione. Non capita tutti i giorni di
atterrare in un Paese sospettato di preparare una bomba atomica, di
sovvenzionare il terrorismo internazionale e di cercare di esportare la
Rivoluzione islamica.
Taraneh è partita di slancio e so che con lei il ritmo del mio soggiorno non
rallenterà. In ogni caso ha ragione: in Iran è meglio essere previdenti se si
vuole combinare qualcosa.
Mi volto verso Jacques. Anche lui si è fermato. So che si sta ponendo la mia
stessa domanda: «Che cosa resta oggi di quel fervore?».
Taraneh ha inforcato gli occhiali e lancia la sua automobile nel flusso del
traffico. Ho l'impressione che tutti gli autobus, i camion e le macchine
scassate della città si siano dati appuntamento per salutarmi alla loro
maniera, in un concerto di motori che tossiscono, di clacson e di frenate. Lo
smog mi prende subito alla gola e cerco di chiudere il finestrino del lato
passeggero.
«Non funziona dalla tua parte» mi dice Taraneh, che nei giorni successivi si
dimostrerà una vera maestra nel guidare con una mano, stringere il cellulare
nell'altra, ingiuriare gli automobilisti, schivare tutti quei trabiccoli che ci
piombano addosso da ogni parte. E sarà sempre lei a dover abbassare o
rialzare il mio finestrino, a seconda dei miei stati d'animo, del caldo, del
rumore o del grado di inquinamento.
Con un'andatura allegra attraversiamo l'immensa piazza Azadi, nella quale
campeggia un arco di trionfo che assomiglia a una Torre Eiffel di cemento
con la cima decapitata. Il monumento fu eretto per volere dello Scià nel
1971 per commemorare i 2500 anni dell'impero persiano, ma è stata la
Rivoluzione a intitolare la piazza alla Libertà.
Ovunque, una sequenza di ritratti osserva la nostra avanzata nel caos della
capitale: il viso dell'Imam che spunta in ogni piazza, quello della Guida
Khamenei, quello del presidente Mohamed Khatami, quelli dei «martiri» di
cui persino gli iraniani hanno dimenticato il nome. E quello insolito di un
soldato sorridente che accoglie il visitatore con uno strano «
Ma ci vorrà ben altro per convincere gli iraniani a fidarsi ancora del sistema
e ad andare a votare. Il presidente uscente Khatami (che ha peraltro mani
bellissime) è un hojatoleslam, alta carica nella gerarchia del clero sciita.
Come discendente del Profeta porta il turbante nero. Difende la democrazia
islamica contro una teocrazia assoluta: la religione è centrale ma non deve
avere il controllo incontrastato del potere. Eletto nel 1997 e rieletto nel
2001, considerato un riformatore, ha deluso i suoi sostenitori che si erano
mobilitati in massa in entrambe le occasioni. Nelle ultime elezioni politiche,
nel 2004, i conservatori hanno ottenuto la maggioranza all'interno del
Parlamento, il Majlis. È stata una grave sconfitta per i progressisti e gli
esperti prevedono una bassa partecipazione alle prossime presidenziali.
Secondo i sondaggi sarebbe in testa Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Il «re
Akbar»Taraneh ha imboccato una strada larga che sale verso la parte
settentrionale della città. Teheran è attraversata da una rete di tangenziali
urbane paragonabile a quella di Los Angeles. Ma nella metropoli
californiana non ho mai visto nessuno sfrecciare a 150 chilometri all'ora, a
meno che non fosse inseguito dalla polizia. Non ho mai visto un'intera
famiglia, padre, madre e due bambini, fare lo slalom in sella a una
motocicletta tra due file di automobili. Non ho mai visto un ragazzo guidare
la moto con le braccia incrociate davanti a sé, la mano sinistra sulla
manopola destra e la destra su quella sinistra. Forse in uno studio di
Hollywood per un numero acrobatico un po' rischioso, ma non sul Sunset
Boulevard. Teheran è unica, anche in questa parte del mondo: non
assomiglia a nessuna delle altre grandi capitali che ho avuto la fortuna di
visitare, Damasco, Baghdad, Amman, II Cairo, Riyad, Beirut.
Uno dei problemi che Teheran deve affrontare è quello dei suoi mostruosi
ingorghi. Nella metropoli circolano più di due milioni di veicoli, per la
maggior parte vecchie Paykan. La Paykan rappresenta per gli iraniani
quello che la Cinquecento è stata per gli italiani, la 2 Cavalli per i francesi e
il Maggiolino per i tedeschi. Un mito. Un caso sia economico che culturale.
E stata fabbricata per quasi quarant’anni grazie a una licenza britannica, sul
modello della Hillman Hunter. Ma mentre la produzione della Hunter è
cessata nel 1979, l'azienda automobilistica di Stato Iran Khodro ha
continuato a fabbricare Paykan fino all'aprile del 2005. Le Paykan sono
ovunque, in tutte le forme, dalle più vecchie tenute insieme per miracolo,
alle più recenti ancora in dotazione ad alcune unità della polizia. Quasi tutti
i taxi di Teheran sono Paykan e durante il mio soggiorno salirò su vetture
nelle condizioni più disparate: senza maniglie alle portiere, senza freni,
senza marmitta, senza finestrini. La Paykan è stata l'automobile popolare -
stavo per scrivere
Ventisei anni dopo, la città esplode tra la montagna a nord e il deserto a sud.
Sorgono dappertutto nuovi cantieri: nei quartieri popolari come tra gli spazi
verdi e i larghi viali della zona settentrionale, la più elegante della città. A
volte le gru sembrano reggersi in equilibrio sui contrafforti che salgono dal
centro, a 1200 metri di altitudine, fino ai rioni aggrappati a 1800 metri di
quota.
Due anni fa, nel febbraio del 2003, i conservatori hanno vinto le elezioni
municipali promettendo miracoli. Il nuovo sindaco Mahmud Ahmadinejad,
oggi candidato alle presidenziali, si è impegnato a trasformare Teheran in
una città islamica modello. Voleva dimostrare che era possibile gestire una
megalopoli senza ricorrere alle consuete prebende, ai privilegi illegittimi,
alla corruzione e ai favoritismi. Non sono certa che sia riuscito a vincere la
scommessa e soprattutto a risolvere i principali problemi: il traffico,
l'inquinamento e la carenza di alloggi.
Taraneh si ferma davanti al ristorante del suo amico Massud. E l'ora della
prima colazione.
Taraneh ci sistema nella sua casa immersa nel verde. Tre piani: una cucina
provenzale al piano terra, la sua camera al primo piano e all'ultimo una
grande stanza luminosa piena di tappeti e di colori che ospiterà le nostre
cose per un mese.
Nel mio primo giorno a Teheran devo subito compiere un rito legato sia
all'etichetta che alla diplomazia: presentarmi al ministero della Cultura e
della Guida islamica, l'Ershad, per ottenere un certificato che diventerà la
mia carta d'identità professionale durante il soggiorno. Avrò bisogno anche
di una serie di documenti per viaggiare e incontrare le personalità che
desidero intervistare.
«Sono dieci anni che non vado a votare» mi confessa quando gli chiedo
quale degli otto candidati sceglierà alle presidenziali del 17 giugno. E
aggiunge: «Non credo alle elezioni, ma molti ci credono ancora».
«Rafsanjani è stato il vero potere dietro al trono, è lui che comanda da dieci
anni» afferma il nostro tassista molto sicuro di sé.
«Non badi ai miei capelli bianchi, è la vita che mi ha fatto diventare così»
mi dice il nostro nuovo tassista ancora prima che io abbia il tempo di aprire
bocca.
Con la sua Chevrolet ha imboccato il Vali Asr. Questo viale che attraversa
Teheran da nord a sud è una delle arterie urbane più lunghe del mondo. Si
estende attraverso la città per una ventina di chilometri ed è l'allegoria
perfetta della situazione economica e sociale del Paese. Lo è sempre stata e
la Rivoluzione non sembra aver cambiato nulla. Il Vali Asr scende dalla
parte settentrionale di Teheran, ricca e occidentalizzata, verso la zona
meridionale, più povera e tradizionalista. Il ciglio del vialone è ombreggiato
da due filari di immensi platani il cui fogliame forma un fresco tetto
verdeggiante. Le loro radici sono immerse in ampi canali che corrono tra i
marciapiedi e la carreggiata. Sono i famosi joub alimentati dall'acqua che
scende dalla montagna. In primavera, quando si sciolgono le nevi, si
trasformano in piccoli torrenti. Taraneh mi spiega che per molto tempo
hanno rappresentato un vero e proprio sistema fognario poi sostituito da una
rete sotterranea, \joub costituiscono anche un sofisticato sistema di
irrigazione che copre decine di migliaia di chilometri in tutto l'Iran e la cui
manutenzione è oggetto di attente cure, in un Paese in cui l'acqua è un bene
molto prezioso.
«Ci siamo battuti per l'Islam, ma questo non è l'Islam» prosegue il mio
tassista. «Nei Paesi arabi che lo praticano c'è uno stato sociale che aiuta le
persone: gli ospedali sono gratuiti, per esempio, da noi non è così. Oggi le
imprese assumono dipendenti senza garantire nessuna copertura sociale.»
Ho l'impressione che le giovani signore che vedo entrare nei bei negozi del
Vali Asr siano molto lontane dalle preoccupazioni di Feridun. La libertà che
le donne dei quartieri eleganti si prendono con il velo islamico non mi
stupisce più. Portano sul capo «accenni» di foulard e i loro colori vivaci
mettono in risalto i capelli neri anziché nasconderli. Ma ciò che più mi
affascina sono le scarpe: osservando i piedi misuro il loro atteggiamento di
rispetto o di sfida nei confronti della tradizione. Si va dalla ciabatta nera
informe ed ermeticamente chiusa ai sandali con i tacchi alti che mettono in
mostra caviglie e piedi sbarazzini con le unghie dagli smalti aggressivi.
«Qui ormai c'è solo la legge del più forte o del più ricco» sospira Feridun.
«Sì. All'epoca dello Scià tutto andava meglio» mi assicura Feridun senza
incertezze. «La metà dello stipendio era destinata alla casa e si poteva
spendere l'altra metà per tutto il resto. Quello che la gente guadagna oggi
non basta più nemmeno per pagare l'affitto.»
CAPITOLO 2
IL MARTIRE CHE SORRIDE
Shiravi, che conosco dai miei precedenti viaggi, è un uomo molto richiesto,
direi addirittura molto corteggiato. E lui ad avere il potere di concedere
visti, accrediti e autorizzazioni agli spostamenti. E in questi giorni non sta
certo con le mani in mano. Più di 200 giornalisti provenienti da ogni parte
del mondo sono attesi in Iran per le elezioni presidenziali. Andranno a
ingrossare il contingente di un centinaio di corri spondenti permanenti di
stanza nel Paese.
L'immagine che il resto del mondo avrà del regime di Teheran dipenderà in
larga parte da quello che scriveranno.
Shiravi ricopre uno degli incarichi più delicati all'interno del sistema di
comunicazione della Repubblica islamica. E già da tempo ha capito che il
politichese, oltre a irritare i giornalisti, è controproducente. Ovunque la
realtà è più forte della propaganda. Sembrano lontani i giorni in cui i
reporter venivano espulsi dal Paese con l'accusa di spionaggio, come
accadde a Jacques nel 1986, all'apice della tensione tra Parigi e Teheran. Ma
ciò che vale per la stampa estera non vale per quella iraniana: molti hanno
pagato con la libertà le loro requisitorie contro il regime dei mullah. Il
capofila dei riformisti, il presidente della Repubblica Mohamed Khatami,
non ha saputo difenderli dalla durezza di un sistema giudiziario controllato
dall'ultraconservatore Khamenei.
«In Iran ci sono cose che funzionano e altre che non funzionano» prosegue
Shiravi. «Accade così in tutti i Paesi del mondo. Ti chiedo come sempre di
verificare semplicemente le tue informazioni, che siano positive o
negative.»
Capisco subito che il mio soggiorno in Iran sarà fonte di problemi per tutti
coloro che devono occuparsene, Shiravi per primo. In quale categoria
inserirlo? E soprattutto: chi sarà responsabile di quanto farò, scriverò o
dirò? Come deputata del Parlamento europeo non dipendo dall'Ershad, e il
mio visto è stato rilasciato dal ministero degli Esteri iraniano.
Sono presidente della Delegazione dei Paesi del Golfo e membro di quella
iraniana, ma la mia visita non ha nulla di ufficiale. Agli occhi degli iraniani
assomiglia di più alla trasferta di una giornalista, anche se non sono venuta
per coprire l'attualità. Alla fine l'alto funzionario opta per una formula
particolare: sarò in «viaggio di studio». E godrò di una straordinaria libertà.
Gli chiedo allora per chi voterà, ma cerca di eludere la domanda: «Abbiamo
bisogno di un uomo che possa far progredire il Paese verso una maggiore
libertà».
Mi chiedo se l'uomo che ha saputo mettere fine alla guerra saprà anche
chiudere il capitolo della Rivoluzione.
Altro ufficio, altra scena, altro Iran. Il quartier generale della fondazione per
la memoria dell'imam Khomeini si trova in un edificio di sei piani nel
quartiere di Jamaran. Tutto intorno alberi, prati ben curati, aiuole fiorite.
Jamaran è, come Darband, un villaggio di montagna che è stato raggiunto
dalla città. Vi si respira ancora un'aria leggera, profumata, e i privilegiati, i
taghuti, hanno sempre abitato qui. Dopo la Rivoluzione vi si sono stabiliti i
diseredati, i mostazafin. E qui che hanno i loro uffici le grandi fondazioni
incaricate della gestione dei beni mobili e immobili confiscati ai ceti
abbienti. Ed è qui che si stanno preparando le cerimonie che il 4 giugno
ricorderanno l'anniversario della scomparsa della Guida Suprema.
L'organizzazione ha mobilitato centinaia di volontari, ragazzi e ragazze. E
necessario che il culto sopravviva.
«Il tassista aveva ragione» commenta una voce dietro di noi. Mi volto. Un
ragazzo che vende si avvicina e Taraneh inizia subito a tradurre: «il 60 per
cento della gente è povera. Ci sono candidati migliori di Rafsanjani: lui ama
solo il potere... La gente ha bisogno di volti nuovi che abbiano davvero a
cuore il bene del popolo». Un'affermazione coraggiosa, oltretutto
pronunciata nella strada che fu la culla della Rivoluzione.
Quando Maometto morì, nel 632, non aveva designato alcun erede. La
figlia Fatima aveva sposato Ali, cugino del Profeta e suo primo sostenitore.
Per questo motivo, ad alcuni sembrò logico che fosse lui a prendere il posto
di Maometto in qualità di capo della comunità musulmana. Ma le tribù della
Mecca scelsero come loro califfo prima Abu Bakr, un compagno del
Profeta, e poi Ornar e Othman, prima che Ali riuscisse a conquistare egli
stesso il potere nel 656. Secondo la storia sciita, durante il regno dei primi
tre califfi il governo era stato segnato dalla corruzione, dalla sete di
guadagno e dall'abbandono dei princìpi dell'Islam. Al contrario Ali aveva
continuato a vivere con semplicità, rispettando le regole di giustizia stabilite
da Maometto. Difendeva l'idea che tutti gli uomini sono uguali,
inimicandosi così le élite tribali. Fu assassinato nel 661 e il califfato passò
alla dinastia degli Omayyadi che risiedevano a Damasco.
Il secondo figlio di Ali, Hussein, si mise a capo dei seguaci del padre e
quando nel 680 venne nominato il secondo califfo omayyade, Yazid, rifiutò
di sottomettersi alla sua autorità. E lasciò Medina per dirigersi a Kufa, oggi
in Iraq. Ma il governatore locale gli tese una trappola e lo fece circondare
nelle vicinanze di Karbala. Hussein, suo fratello Abbas e i loro compagni si
batterono per dieci giorni nell'asfissiante calura del deserto iracheno prima
di venire barbaramente massacrati. Quei dieci giorni di combattimenti e di
sacrifici vengono celebrati ogni anno dagli sciiti di tutto il mondo durante le
feste dell'Ashura, che si chiudono con la sfilata di milioni di fedeli che si
flagellano il petto e la schiena.
Fin dal 1963 l'imam Khomeini paragonava i mali patiti dagli iraniani sotto
il regime dello Scià al martirio di Hussein. In seguito, la repressione e il
sangue versato dagli insorti hanno contribuito ad alimentare la visione di
una lotta permanente tra le forze delle Tenebre e quelle della Luce. Anche la
guerra con l'Iraq è stata inserita in questo contesto più filosofico di una
battaglia nella quale era meglio morire piuttosto che rinunciare ai propri
princìpi. Ed è seguendo questa logica che la Rivoluzione ha radicato
l'ostilità nei confronti dell'Occidente considerato corrotto e amorale. Una
visione che ancora oggi viene sbandierata per raccogliere i consensi degli
strati sociali più poveri.
«Tutti i tiranni della storia, dai faraoni a Nerone, fino agli scià, a Saddam e
a Bush, hanno cercato di cancellare la religione dai diversi ambiti della vita
per preparare il terreno a una dominazione corrotta» prosegue. «Le elezioni
dirette o indirette di tutti i rappresentanti della Repubblica islamica si
fondano sul diritto del popolo di scegliere il proprio destino e dimostrano
che la democrazia religiosa è più giusta della democrazia liberale predicata
dall'Occidente»
Shahin è venuta con la madre, il marito, i cinque figli e una giovane amica.
I suoi hanno vissuto a Karbala, in Iraq, dove il padre faceva il muratore. E
cresciuta là, poi è tornata a Mashhad. Ha avuto il suo primo figlio dodici
anni fa nell'anniversario della morte di Khomeini, e quindi per lei è un
giorno doppiamente importante. «L'Islam è una promessa di libertà non solo
qui sulla Terra ma anche in cielo» mi spiega quando le chiedo che cosa
significa la religione nella quale sembra aver riposto tutte le sue speranze.
«La libertà in Iran esiste perché ci sono elezioni quasi ogni anno. Possiamo
scegliere e abbiamo il diritto di criticare il governo. C'è gente che critica
persino la Guida Suprema» aggiunge Shahin.
Le rivolgo la domanda che, fin dal mio arrivo, è diventata un vero leitmotiv:
cosa resta di quell'evento che ha cambiato il destino dell'Iran e fa ancora
tremare il mondo? «La Rivoluzione era la cosa giusta, ma ha fallito perché i
responsabili l’hanno tradita. Non siamo riusciti a ottenere l'uguaglianza.»
Ma allora qual è la soluzione? «Se osserviamo i precetti del Corano,
nessuno ci potrà fare del male» assicura con convinzione.
Mi giro verso la sua vicina. Si chiama Fatemeh. E avvolta nel velo ben
stretto sotto il mento. Ha meno di vent'anni ed è profondamente diversa da
quelle ragazze dall'aria disinvolta che vanno in giro per negozi nella zona
nord di Teheran.
Ora Muhammad vive grazie alla Fondazione dei martiri, uno di quegli enti
pubblici, i bonyad, che controllano interi settori dell'economia e della
società. Ricevono sussidi dallo Stato, amministrano i beni confiscati o
nazionalizzati dopo la Rivoluzione. Vengono accusati di essere totalmente
inefficienti o corrotti e di ostacolare il cambiamento.
«Al fronte ero pronto a tutto, a combattere e a morire. Quando sono stato
ferito e ho perso le gambe non ho provato niente di speciale. Ho pensato di
avere veramente raggiunto il mio obiettivo: dare la vita per l'Islam. Volevo
essere un martire e per questo mi ero arruolato. Per servire i miei ideali,
difendere il mio Paese, la mia religione.»
Gli chiedo se è soddisfatto del trattamento che lo Stato gli ha riservato: «Le
cose non vanno né bene né male: sopravvivo» risponde un po' infastidito.
«Se non ci fossero state persone come me, oggi i nostri nemici sarebbero
qui su questo piazzale... gli americani.»
«I giovani di oggi non sono come quelli dei miei tempi. La cultura
occidentale è ormai entrata nelle loro teste.
Per sfuggire al caos che si è creato all'uscita dal mausoleo ci rifugiamo nei
viali del cimitero dei martiri, Beheste Zahra, uno dei più grandi del mondo
dove le interminabili file di lapidi si confondono con l'orizzonte. Qui
riposano gli oppositori caduti durante le manifestazioni contro il regime
dello Scià e i rivoluzionari morti negli scontri che hanno segnato la presa
del potere dei religiosi. Una tomba speciale è riservata agli esponenti del
Partito della Repubblica islamica uccisi nel 1981 in un attentato
dinamitardo contro il loro quartier generale. Tra gli altri, il leader del
partito, l'ayatollah Muhammad Beheshti, l'uomo più potente della
Rivoluzione dopo Khomeini. Come mi aveva ricordato un anno fa il figlio
Ali, un raffinato filosofo, l'attentato fu attribuito al gruppo islamico di
sinistra Mujaheddin Khalq, inizialmente alleato del regime dei mullah ma
diventato in seguito il suo peggior nemico. Secondo la versione ufficiale,
quel giorno sarebbero stati uccisi 72 dirigenti, 72 come i compagni di
Hussein caduti a Karbala. In realtà, l'attentato fece 74 vittime. È il potere
dei simboli.
Qua e là ci sono famiglie venute a consolare l'anima di una persona cara che
non c'è più. Tre ragazze avvolte nei chador hanno adagiato un telo bianco su
una tomba. Scolpito nel marmo, il volto di un ragazzo. «E nostro zio» ci
rivela una di loro. Ali Reza Garozadeh. È partito per il fronte a quattordici
anni e nel 1983 l'esercito comunicò ai parenti la sua morte. Le giovani non
lo hanno mai conosciuto, ma vengono a piangerlo con fervore e sincerità
come se fosse morto il giorno prima. «Come tutti coloro che sono caduti è
morto per l'Islam
CAPITOLO 3
Dietro il volto sereno di questa città modello c'è anche una Washington
potente e segreta. E qui che da oltre cinquant'anni si decidono le guerre o si
negoziano gli accordi di pace. O almeno è ciò che crediamo noi europei.
Questa convinzione è ancora più radicata tra le popolazioni del Medio
Oriente: da quando l'America ha preso il posto della Francia e della Gran
Bretagna come potenza dominante in questa regione, tutto ciò che vi accade
è stato deciso a Washington. Illusione o realtà? Il potere qui è concentrato
nelle mani di pochi: se lo spartiscono la Casa Bianca, il Congresso, il
Pentagono, la Cia, il Dipartimento di Stato. Il presidente ha sempre l'ultima
parola, ma le persone che ascolta godono di una forza di persuasione
eccezionale. E lottano per il suo plauso. Si formano circoli di interesse, le
cabale fanno e disfano reputazioni di uomini importanti, a volte i consiglieri
sopravvivono alla caduta del principe.
Attorno al governo gravita una vera e propria industria di lobbying per
influenzarlo, talvolta addirittura circuirlo.
Quindi non vorrà certo farsi carico di un altro problema» mi confida John.
«In un certo qua! modo, l'economia di guerra ha reso più ricca questa città. I
soldi spesi dal governo si traducono in un formidabile boom, in particolare
nel settore immobiliare. Il mercato non è mai stato così florido.»
«Durante gli ultimi due o tre anni, le esigenze di sicurezza in Iran sono
drammaticamente cambiate» mi assicura Kenneth Pollack che mi riceve nel
suo ufficio alla Brookings in Massachusetts Avenue. È un uomo solido dal
volto squadrato, i capelli corti, gli occhi vivaci dietro un paio di occhiali
sottili. Parla in modo chiaro, quasi didattico, e conduce per mano
l'interlocutore lungo le tappe del proprio ragionamento.
Con il suo abito scuro e la camicia azzurra, Pollack non ha affatto l'aria di
un guerrafondaio. Mi sembra pacato e riflessivo. Leggendo il suo ultimo
libro, noto che sull'Iran ha idee molto meno marziali che sull'Iraq.
Ero arrivata un po' prevenuta nei confronti di questo analista le cui opinioni
sulla Seconda guerra del Golfo erano diametralmente opposte alle mie, ma
sono stata persuasa da un argomentare abile che tiene conto delle
percezioni, delle necessità e dei limiti dell'avversario.
«Per tutti questi motivi l'Iran sta rivedendo la sua concezione di sicurezza, e
noi dobbiamo studiare attentamente le nostre opzioni nei suoi confronti.»
«La strategia più sensata è quella del bastone e della carota. Poiché non
siamo in grado di invadere l'Iran e non abbiamo gli strumenti per fermare il
loro programma nucleare, la sola cosa che possiamo fare è convincerli a
non perseverare in questa direzione. Bisogna dire: "Se siete disposti a
fermarvi, vi offriamo aiuti economici, investimenti, l'integrazione
nell'economia mondiale. Se non lo fate, pagherete un prezzo molto alto, e lo
pagherete nel settore per voi più strategico: l'economia". Sono convinto che
preferiranno il benessere...»
«Chi decide a Washington sulla politica iraniana?» «Non credo che venga
decisa da qualcuno in particolare. La guerra in Iraq è stata una doccia
fredda per questa amministrazione. Ormai si è capito che l'uso della forza
non è gratuito. C'è chi crede ancora nella possibilità di un cambio di regime,
chi vuole bombardare per ragioni ideologiche, chi spinge verso soluzioni
diplomatiche. Nessuno è ufficialmente incaricato della questione: credo che
la politica sull'Iran verrà costruita giorno per giorno.»
Finisco il mio colloquio con Kenneth Pollack convinta che abbia ragione,
anche se questo non è molto rassicurante.
Per esempio, l'Iran Policy Committee (Ipc) - Comitato per una politica
iraniana - suggerisce un vero e proprio colpo di Stato. Insiste sulla necessità
di appoggiare l'opposizione iraniana per far cadere il regime dei mullah e
propone di lavorare con il gruppo armato che Teheran teme di più, i
Mujaheddin Khalq. Una prima tappa, considerata mera
L'Ipc raccoglie tra gli altri l'ex ambasciatore in Arabia Saudita James Akins,
che Jacques intervistò per un documentario sulle relazioni di Saddam
Hussein con la Cia. Lavorava a Baghdad quando avvenne il primo golpe
baathista, che nel 1963 spianò la via alla dittatura del rais. Akins ha
ammesso che i servizi segreti americani considerano quell'avvenimento
come uno dei loro maggiori successi.
Lascio Washington con una convinzione netta: per Bush la cosa più urgente
è non fare nulla.
CAPITOLO 4
IL GOAL ATOMICO
venne chiuso anche per aver pubblicato una foto delle giovani in visibilio
per il trionfo sul Grande Satana.
Con grande sorpresa, scopro che non siamo le uniche donne presenti allo
stadio. Le mie vicine indossano tutte il chador, occhiali da sole di stilisti
famosi e una visiera bianca sulla fronte, stile giocatore di golf, molto alla
moda a Teheran. Ho la sensazione che abbia una duplice funzione:
proteggere dagli ultimi raggi di sole e tenere fermo il velo quando
applaudono con ardore. Scoprirò che sono iscritte a vari club sportivi e che
solo per questa occasione hanno ricevuto inviti speciali.
«Che cosa pensa della questione nucleare?» gli chiedo entrando subito in
tema.
Mi avvicino a una ragazza molto carina con il naso rifatto. E una vera e
propria mania in Iran. Le adolescenti che non si rifanno il naso sono una
specie in via di estinzione. Mi trattengo dal dirle che trovo il suo
ridicolmente piccolo. Si chiama Sormeh, ha ventitrè anni e mi dice che è la
prima volta che assiste a una partita dal vivo. È accompagnata dalla sorella
e sono venute su invito di uno dei candidati alle presidenziali, il riformista
Mohsen Mehralizadeh. Per ringraziarlo le ragazze distribuiscono volantini
nelle tribune.
«Mi sono rifatta il naso per essere più bella. Deve capire che noi iraniane,
costrette a indossare questo orribile velo, vogliamo almeno che il nostro
viso sia piacevole. E l'unica cosa che possiamo mostrare.»
«Il nucleare è circondato dal massimo riserbo. Non credo che il Paese
disponga già di un'arma atomica, ma sono convinto che sia importante per
noi sviluppare un potenziale nucleare civile. È una faccenda molto delicata
ed è resa ancora più complicata dalle pressioni internazionali.»
Il confronto tra Iran e Occidente non ha nulla a che vedere con l'euforia
esplosiva del gioco del calcio. Sembra piuttosto una partita di poker ad alto
rischio.
Già nel 1970 l'Iran aveva firmato il Trattato di non proliferazione, che
impegnava le potenze nucleari dell'epoca - Stati Uniti, Unione Sovietica,
Cina, Regno Unito e Francia - a non fornire alle altre nazioni le tecnologie
necessarie per dotarsi di armi atomiche. E queste rinunciavano
spontaneamente a sviluppare il nucleare militare riservandosi però la
possibilità di sviluppare programmi civili. Il Trattato è stato firmato da 187
Paesi, eccetto quattro: Cuba, India, Pakistan e Israele.
Fin dall'epoca dello Scià, l'Iran aveva previsto di munirsi di centrali nucleari
per sviluppare la propria produzione di energia elettrica. Muhammad Reza
Pahlavi ricevette addirittura consigli in proposito dagli Stati Uniti, che
raccomandavano la costruzione di una ventina di piccoli impianti. La
Repubblica islamica ha continuato a inseguire questa ambizione fino a
firmare, nel 1995, un accordo da 800 milioni di dollari con Mosca per la
costruzione della sua prima centrale nucleare a Bushehr, nel Golfo Persico.
In seguito, nel 2002, i Mujaheddin Khalq rivelavano che ne erano state
costruite altre, in particolare ad Arak e a Natanz, a sud di Teheran. Si
sospetta che questi impianti vengano impiegati per arricchire uranio o per
produrre plutonio. Di per sé l'arricchimento del metallo radioattivo non è
vietato dall'Npt. Il problema sta nel livello: scarsamente arricchito l'uranio
viene utilizzato per le centrali elettriche, ma altamente accresciuto può
essere usato per fabbricare bombe.
Sempre nel 2003 il padre della bomba atomica pakistana, Abdul Qadeer
Khan, ha ammesso di aver venduto tecnologia nucleare all'Iran, alla Libia e
alla Corea del Nord fin dagli armi Ottanta.
Proprio per questo motivo Washington, nel marzo del 2005, aveva
annunciato il suo sostegno agli sforzi diplomatici dei tre Paesi europei
coinvolti nelle trattative con l'Iran: Germania, Francia e Regno Unito.
L'Europa pretende da Teheran l'abbandono di qualunque progetto di
arricchimento dell'uranio, in cambio di incentivi economici e tecnologici e
di forniture di uranio arricchito per la sola produzione di energia elettrica.
Misurare i progressi delle trattative tra l'Ue e l'Iran non è semplice. Uno dei
negoziatori europei, Patrick Laurent, mi aveva spiegato che per l'Europa era
difficile verificare le informazioni di intelligence sul nucleare iraniano
fornite dagli americani e dagli israeliani. «I servizi segreti di Tel Aviv di
Washington sono convinti che Teheran stia sviluppando una filiera nucleare
militare e che presto sarà in grado di produrre una bomba. Si sta inoltre
dotando di missili Shahab in grado di raggiungere l'Europa.»
«Nessuno vuole che i negoziati falliscano. Optiamo per una soluzione in cui
tutti escano vincitori.»
Ali Akbar Salehi è l'ex negoziatore iraniano per la questione nucleare. È lui
che ha firmato nel dicembre del 2004 il protocollo aggiuntivo che permette
agli ispettori dell'Aiea di effettuare visite a sorpresa negli impianti iraniani.
Oggi è uno dei consiglieri più influenti del governo. Mi riceve nei lussuosi
uffici del suo centro di ricerca all'Università di Teheran. È elegante nel suo
abito grigio e dietro gli occhiali nasconde uno sguardo acuto.
Gli chiedo perché l'Iran dovrebbe rinunciare al nucleare militare ora che gli
americani stanno alle loro porte.
«Speriamo che gli Stati Uniti cedano alla forza della logica e non alla logica
della forza» conclude asciutto Salehi.
Gli europei sembrano gli unici a mobilitarsi veramente per trovare una
soluzione. Sanno altresì che solo gli americani possono soddisfare le
esigenze di sicurezza degli iraniani. E che devono trovare un modo per
coinvolgerli nelle trattative. Tuttavia, nel caso di una distensione dei
rapporti tra Stati Uniti e Iran, gli europei non vogliono assistere al ritorno in
forze dell'America nella Repubblica islamica. È l'unico Paese nella regione
che non costituisce una riserva di caccia americana e dove simbolicamente
l'euro - e non il dollaro - regna sovrano.
CAPITOLO 5
LA CAPSULA DI CIANURO
L'appuntamento è nella hall dell'albergo Esteghlal, l'ex hotel Hilton.
Esteghlal significa «indipendenza» e insieme con azadi, «libertà», è uno dei
pilastri della Repubblica islamica. Mi accoglie un certo Ali, robusto e
affabile, in abito grigio e camicia bianca. Sono in ritardo ma la puntualità
non è sempre considerata un pregio in Iran.
Sospetto che sia legato alla sconfinata nebulosa dei servizi segreti iraniani.
Ci sediamo a un tavolino del bar e prendiamo un té.
Per poco non soffoco sorseggiando il mio té. Questa offerta non era
prevista. Fin dal mio arrivo ho insistito per incontrare degli esperti iraniani
di terrorismo. Ora che l'obiettivo sembra raggiunto non ho però intenzione
di rimanere rinchiusa per quarantott'ore in una stanza d'albergo. Tanto più
che un sesto senso mi dice che i colloqui che avremo non aggiungeranno
granché alle mie ricerche. Quindi non posso fare altro che rifiutare con
gentile determinazione. Spiego ad Ali che ho altri impegni.
Lui mi ascolta con attenzione, ma ci vorranno molti altri no per fargli capire
che parlo sul serio. Probabilmente avrà pensato che stessi facendo una gara
di cortesia, un'arte difficile da padroneggiare in Iran. In ogni caso alla fine
dovrà cedere.
Forse Ali ha visto entrare la persona che devo incontrare? Perché tutto
questo mistero? Mania di segretezza, necessarie precauzioni di sicurezza
oppure imbarazzo di un sistema poco incline alla trasparenza?
Da anni Teheran è accusata dagli Stati Uniti di essere una colonna del
terrorismo internazionale. L'Iran viene indicato dal Dipartimento di Stato
come il Paese coinvolto più attivamente nel sostegno di quello che oggi
costituisce il principale flagello dell'Occidente. Nell'attuale contesto di
psicosi per le armi di distruzione di massa, il regime dei mullah è al centro
di scenari apocalittici di collusione atomica con gruppi estremisti decisi a
farla finita con il mondo civilizzato.
«Non temiamo le attività del gruppo nel nostro Paese» insiste «ma i suoi
componenti compromettono i buoni rapporti tra Iran ed Europa. Questo è
un grave ostacolo alla normalizzazione delle nostre relazioni
internazionali.»
In seguito furono sospettati di aver fatto saltare in aria gli uffici del primo
ministro e di aver assassinato alcuni alti dirigenti del regime. Si aprì allora
nel Paese una vera e propria lotta all'ultimo sangue che li contrappose al
gruppo dei Pasdaran con scontri di piazza ed esecuzioni sommarie che li
decimarono.
Nel giugno del 1981, Bani Sadr e il leader dei Mujaheddin, Massud Rajavi,
incitarono il popolo a ribellarsi apertamente ai mullah organizzando
sollevazioni popolari. Ma un mese dopo, di fronte alla repressione e alla
solidità del regime, furono costretti a fuggire in Francia. Parigi,
schierandosi con Saddam, apriva le porte agli oppositori di Khomeini.
Nel 1986, in una fase di distensione tra Parigi e Teheran, i Mek si
rifugiarono in Iraq, dove vennero addestrati e utilizzati da Saddam Hussein
come truppe ausiliarie dell'esercito iracheno durante la guerra contro l'Iran.
Haka, che ha fatto il suo ingresso nella suite dell'Esteghlal con altri due
compagni di sventura, mi racconta la sua storia tutta d'un fiato. Sotto il suo
severo foulard si nasconde il volto della vulnerabilità dell'Iran: è di donne
come lei, capaci di muoversi nell'anonimato della folla, che i mullah hanno
paura. Haka lasciò l'Iran nel 1996 alla volta dell'Iraq passando per la
Giordania. Per quattro anni venne addestrata in un campo militare, dove le
fu impedito di avvicinare il marito e la sua bambina di sei anni che
l'avevano raggiunta. Venne poi costretta a divorziare prima di condurre, nel
2000, la sua prima operazione in Iran. La missione prevedeva un attacco a
colpi di mortaio contro una stazione di polizia. Ci tiene a precisare che il
mortaio era di piccolo calibro - 60 millimetri - e che lo trasportava smontato
in una borsa insieme a un'altra donna infiltrata come lei. Fu arrestata dopo
essere stata tradita dalla sua guida. L'uomo aveva fatto in modo che lei si
fermasse per mangiare e si staccasse dai denti la capsula di cianuro. Tutti ì
militanti dei Mek nascondono una capsula di veleno letale in bocca per
potersi suicidare in caso di cattura. Fa parte delle rigide regole
dell'organizzazione.
«L'unica cosa che avevo in testa all'epoca erano i Mujaheddin. Pensavo che
avrebbero potuto assicurare un futuro a mia figlia. Ma per loro non esistono
gli individui, una persona deve diventare un robot e per le donne è ancora
peggio.»
In genere sono piuttosto diffidente nei confronti dei cosiddetti pentiti e delle
loro confessioni. Sono veramente chi dicono di essere o ripetono un
copione preparato da altri e imparato bene a memoria?
L'uomo che prende la parola subito dopo Haka si chiama Hurash Saretipuk.
È giovane, di statura media, ha i capelli neri e lunghi. Fuma piccole
sigarette sottili e lo si potrebbe scambiare per uno studente squattrinato di
una qualunque università europea. Però un elemento distintivo balza agli
occhi: ha perso la mano destra.
Nel 1986 si trasferì negli Stati Uniti con la famiglia e lì conobbe una
ragazza, Elham, i cui genitori erano simpatizzanti dei Mele. Fu così che si
avvicinò al gruppo. Durante alcune riunioni segrete in una casa a Falls
Church, in Virginia, a due passi dal quartier generale della CIA, incontrò gli
agenti addetti al reclutamento. La sua prima azione fu la partecipazione a
una manifestazione contro il presidente Khatami, eletto nel 1997, in
occasione della sua visita alla sede dell'Onu a New York nel 1998.
«I membri del gruppo sono stati istruiti per compiere attentati suicidi»
assicura Kashani «proprio come i talebani e gli uomini di Osama bin Laden.
Sono anche allenati all'uso di tutte le tecniche sovversive, di armi leggere ed
elettroniche e sono capaci di pilotare aerei. Gli europei devono stare in
guardia. Obbediscono ciecamente a Massud e Maryam Rajavi.»
Più che per la sicurezza degli europei, oggi Teheran è preoccupata per
l'influenza che i Mujaheddin sembrano avere presso gli organismi
dell'Unione Europea. I governanti iraniani hanno seguito con irritazione
l'intervento di Maryam Rajavi al Parlamento europeo nel dicembre del
2004: diventata presidente del Consiglio nazionale della Resistenza
iraniana, l'organo politico dell'organizzazione, è stata ricevuta da uno
schieramento di deputati simpatizzanti dei Mek. E
Gli interventi dei miei interlocutori sono lunghi e minuziosi e a tratti fatico
a seguirli. Conosco la maggioranza delle informazioni e mi irrita l'insistenza
con cui cercano di convincermi della pericolosità dei Mek. Stiamo parlando
di circa 1500 militanti sparsi in diversi Paesi europei. Sono sicura che i
servizi di sicurezza degli Stati interessati non li sottovalutano.
A me in questo contesto interessa capire cosa sanno gli iraniani dello strano
rapporto che lega i Mek agli Stati Uniti. È
una relazione di vecchia data e francamente mi è sempre sembrata contro
natura.
«Noi non crediamo che questa sia la politica ufficiale degli Stati Uniti»
afferma Kashani «ma ci sono circoli al Pentagono che vorrebbero fare
pressione sul regime iraniano, come è successo in Iraq. Una parte
dell'amministrazione americana appoggia i Mujaheddin, mentre un'altra ala
si mostra diffidente. Rimangono comunque uno degli strumenti a loro
disposizione.»
Dal 1965 al 1980 il gruppo che fin dalle origini ha mescolato princìpi
islamici e retorica marxista è stato vicino all'Unione Sovietica. Negli anni
Ottanta le relazioni tra i Mek e Washington sono migliorate, ma dopo
l'invasione del Kuwait da parte di Baghdad si sono fatte nuovamente tese.
Oggi sembrano potersi riannodare. «Hanno solide basi negli Stati Uniti»
prosegue Kashani «stringono contatti con uomini politici, membri del
Parlamento, senatori.»
I circoli del potere in Iran hanno buone ragioni per preoccuparsi. Gli
ambienti militari e dell'intelligence americani pensano che la partita con il
regime dei mullah sia tutt'altro che chiusa. Hanno ancora parecchi conti in
sospeso, a cominciare da quello con Mughniyeh.
Chi si ricorda ancora di Imad Mughniyeh? Me lo chiedo mentre sono
prigioniera di un gigantesco ingorgo dopo aver lasciato l'hotel Esteghlal.
Mughniyeh, sulla cui testa l'Fbi ha messo una taglia di cinque milioni di
dollari, si nasconde a Teheran? Perché non è mai stato ritrovato?
Taraneh è al volante della sua Kia mentre avanziamo a passo d'uomo sulla
Chamran Expressway. Mi ritrovo a pensare che Mughniyeh sta forse
aspettando pazientemente negli ingorghi, sotto altre sembianze e sotto un
altro nome, inveendo contro il caldo soffocante che stringe d'assedio la
capitale iraniana.
Nato nel Libano meridionale nel 1962, Mughniyeh entrò giovanissimo a far
parte dell'unità scelta dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina,
Forza 17. Quando nel 1982 i palestinesi dovettero lasciare Beirut in seguito
all'invasione israeliana, restò in Libano con i suoi fratelli e si unì alla
resistenza islamica. Diventò uno degli strateghi della lotta anti-sraeliana e
anti-americana di Hezbollah, che vide la luce nello stesso anno. Lavorò
come agente dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione incaricati di
difendere la Repubblica islamica e di esportarne il messaggio, non solo in
Medio Oriente.
Gli Stati Uniti inoltre credono che Teheran intrattenga buone se non ottime
relazioni con gli estremisti sciiti in Iraq, ritenuti colpevoli di agire contro le
truppe americane su loro istruzione. Infine, Washington assicura che l'Iran
non ha fatto piena luce sulla sorte dei membri di al-Qaida arrestati nel
Paese. Alcuni suggeriscono che voglia scambiarli con esponenti dei Mek in
Europa o negli Stati Uniti e ricercati dagli iraniani con l'accusa di...
terrorismo.
La storia recente dei rapporti tra Stati Uniti e Iran è dunque tutt'altro che
idilliaca. Tuttavia c'è un ambito nel quale Teheran e Washington avrebbero
interesse a collaborare per tenere in scacco il terrorismo: la lotta contro il
traffico di droga proveniente dall'Afghanistan, una delle principali fonti di
finanziamento.
Questo giovane italiano dal piglio dinamico che da molti anni, in questa
parte del mondo, da la caccia ai trafficanti di droga ci riceve in una grande
villa al centro di Teheran che ospita gli uffici dell'organizzazione Onu.
Vi lavorano giovani donne senza il velo. Alcune foto alle pareti esortano a
liberare il mondo dalla droga. Noto che c'è appesa anche una preghiera il
cui testo mi fa sorridere: «Oh Dio mio, ti chiedo la saggezza per capire gli
uomini, l'amore per perdonarli e la pazienza per sopportarli. E, Dio, non
darmi la forza altrimenti gliele darò di santa ragione!».
Hanno avuto 3600 morti in vent’anni tra le file delle unità antidroga. Lungo
tutta la frontiera con l'Afghanistan hanno luogo veri e propri combattimenti
militari.»
«L'Iran si trova dunque suo malgrado a fare i conti con i costi sociali ed
economici della droga. Ma anche qui, come nelle altre parti del mondo
afflitte da questo problema, un'economia sotterranea trae profitto dal
traffico illegale.»
Di recente è stata individuata una nuova filiera che passa per l'Iraq
meridionale e il porto di Bassora, nonostante la zona sia sotto lo stretto
controllo delle forze britanniche.
Una delle regioni più strategiche per la lotta contro la droga è quella di
Mashhad. Qui gli iraniani hanno costruito una barriera di trincee e
terrapieni, una sorta di linea Maginot dell'antidroga. Gli scontri con i
corrieri sono durissimi, e lo dimostrano le numerose fotografie di veicoli
crivellati di pallottole. I carichi di droga hanno spesso nomi evocatori, come
quello ripreso in uno degli scatti che mi fa vedere Arbitrio: 555 Death to
Israel.
Il futuro dei rapporti tra America e Iran non si profila certo brillante. Le
reciproche minacce, dirette o indirette, di ritorsione o destabilizzazione
devono essere prese sul serio. Tuttavia ci sono buone possibilità che
prevalga la ragione in questo braccio di ferro. Ripenso alle parole di
Kenneth Pollack.
La tesi portante è, per citare testualmente le sue parole, «che gli attentati
suicidi non sono ispirati da convinzioni religiose ma da obiettivi strategici
precisi: l'intento è di costringere gli Stati presenti con le loro forze militari
nei territori che i terroristi considerano la loro nazione a ritirarsi. Le
differenze religiose tra occupante e occupato permettono ai capi terroristi di
demonizzare il nemico, ma è comunque necessario che il nemico sia
presente e visibile».
«Il problema non è che Osama bin Laden esista o meno, ma il fatto che
venga ascoltato» sottolinea Pape.
«La presenza degli americani è in realtà il fattore chiave del fenomeno dei
kamikaze.» Prima dell'invasione dell'Iraq non c'era una tradizione di
attacchi suicidi, ma da allora le cifre parlano chiaro: 20 attentati nel 2003,
49 nel 2004 e 50 solo nei primi cinque mesi del 2005. Allo stesso modo
prima dell'invasione del Libano da parte di Israele non si erano verificati
attacchi kamikaze, nonostante la guerra civile imperversasse già da sette
anni.
Tentare di cambiare le società musulmane con l'uso della forza non farà che
aumentare le minacce per noi occidentali.
CAPITOLO 6
MULLAH GOOD?
Capisco subito che le cose non fileranno lisce. Vent’anni di reportage nei
luoghi più pericolosi del mondo ti fanno sviluppare un sesto senso. Dal
finestrino abbassato del taxi vedo un ragazzo parcheggiare la sua auto in
tutta fretta e infilarsi una fa scia gialla sul braccio prima di mettersi a
correre.
Aveva seguito la carica dei Pasdaran contro gli studenti e non era ancora
tornato. L'uomo aveva quell'aria arrogante tipica di chi può servirsi della
forza senza dover rendere conto a nessuno. La tracotanza dei bruti: occhi
freddi e spietati.
Taraneh mi strattona tirandomi per la manica. Sa che non può venire nulla
di buono da uno scontro con i Guardiani della Rivoluzione. Per di più lei
corre molti più rischi di me: io me ne andrò dall'Iran, lei rimarrà.
«Le mie due settimane a Evin non sono nulla in confronto a quello che
hanno patito altri.» Non è stata picchiata né maltrattata. «Ci sottoponevano
a quella che chiamano la tortura bianca: minacce, pressioni e forme di
destabilizzazione psicologica.
«Non sappiamo con esattezza quanti siano i prigionieri politici oggi in Iran.
Ci sono quelli che sono stati arrestati nel 1999 e conosciamo i nomi di
coloro che sono stati incarcerati a Teheran, ma non sappiamo chi è stato
fermato in provincia.»
«Sono monarchica. Voglio che lo scià Reza prenda il potere. Quando c'era
suo padre andava tutto bene. Avevo un buon lavoro, un buon salario, potevo
uscire dal Paese. Voglio che torni la monarchia» dice di getto. Sepideh cerca
di interromperla, ma la donna la ferma con un gesto deciso: «Io ti ho
lasciato parlare, ora tocca a me».
«È vero che durante gli ultimi anni del regno dello Scià le cose andavano
peggiorando e anch'io ero scesa in piazza per chiedere più libertà. Ma in fin
dei conti appartengo alla piccola borghesia. Ho potuto studiare in Gran
Bretagna e lavorare per la televisione. Prima i lavoratori stranieri venivano
da noi, oggi sono i nostri giovani a dover partire per trovare lavoro. Da un
quarto di secolo i profitti derivanti dal petrolio ci assicurano una grande
ricchezza, ma che cosa ne è di questi soldi? Ci sono milioni di disoccupati,
centinaia di migliaia di giovani sono vittime della droga, le ragazze
vengono vendute nei Paesi arabi e troppa gente è stata imprigionata,
torturata e uccisa dal regime dei mullah.»
«E perché?»
«Non si può mai sapere. Mi devi promettere che non prenderai più
iniziative simili.»
«Sono qui per aprire gli occhi su tutto quello che vedo» gli rispondo.
«Fai attenzione. Molte persone non volevano farti venire. Abbiamo dovuto
insistere. Non metterci in difficoltà.»
«Sono stata respinta dal Consiglio dei Guardiani in virtù dell'articolo 115:
una persona qualificata deve essere religiosa e politica. Ma i Guardiani
interpretano la parola "persona" come "uomo".»
«Solo una minoranza delle donne, forse il 10 per cento, non vuole più
saperne del velo, e neppure le manifestazioni degli studenti rappresentano
una posizione maggioritaria. I giovani si sentono insoddisfatti a causa della
situazione economica, non per una mancanza di libertà» controbatte Rifaat
guardandomi con occhi inflessibili. La discussione prosegue un po'
faticosamente. Le tre rappresentanti del Parlamento non amano rispondere a
domande seccanti. Così quando chiedo alla psicologa quali sono i problemi
che vengono portati in terapia dai suoi pazienti, Fatemeh mi spiega che si
tratta soprattutto di ragazzi che non sono bravi a scuola o che non riescono
a diventare campioni sportivi. Tutto qui? E le donne? La parlamentare che
finora è stata la più diffidente nega perentoria il malessere che sempre più
spesso si nasconde sotto il chador.
Andiamo a pranzo in una sala privata del palazzo dove spero si possa
discutere in termini un po' più rilassati. Menu tradizionale: zuppa di
verdure, riso, pesce, spiedini, dolce ai pistacchi. Dopo qualche minuto
Rifaat si toglie il velo, le sue compagne la imitano e mi invitano a fare
altrettanto. E consentito perché siamo servite da sole cameriere. Hanno i
capelli corti neri e si fanno le meches bionde, tutte eccetto Fatemeh che
porta i capelli lunghi sulle spalle. Sotto il velo scoprono tailleur
all'occidentale e foulard colorati. Rifaat ed Elham si sono rifatte il naso.
Elham mi assicura di essersi operata perché respirava male. Le mie ospiti
non si lasciano andare. Sollecitate da me arrischiano alcune battute sugli
uomini, ma sempre molto discrete. Ho la sensazione che abbiano deciso di
difendere a ogni costo un mondo che non esiste più. A fatica alla fine del
pasto riconoscono che in Iran qualche problema c'è, ma non credono che la
soluzione sia da ricercare al di fuori dei valori della Rivoluzione.
Tutte si mostrano critiche nei confronti di Shirin Ebadi, premio Nobel per la
Pace nel 2003, accusata di fondare il proprio pensiero su presupposti
occidentali anziché su precetti islamici: «Pensiamo che la democrazia sia la
vittoria della maggioranza. Lei invece pensa che sia il rispetto delle
minoranze e dei diritti delle donne. Ebadi privilegia le riforme politiche, noi
invece mettiamo sullo stesso piano le riforme politiche e quelle
economiche».
«Ma allora come si può far progredire la democrazia in Iran? Gli appelli di
Bush per un cambiamento di regime sono utili?»
«La democrazia richiede tempo, non ci si può aspettare che venga instaurata
in una o due generazioni. Quanto agli americani, non lanciano appelli per il
nostro bene, ma per il loro.»
«I giovani mi sembrano impazienti, che cosa dice per infondere loro un po'
di speranza?»
«Moin or Rafsanjani?»
«Mullah good?»
Si volta e mi fa un gesto comprensibile in tutto il mondo: un dito che passa
lentamente sotto la gola, come la lama di un coltello affilato. Il tutto
accompagnato da un gran sorriso. Se i tiranni hanno gli occhi crudeli, quelli
che vogliono farla finita con loro non sono poi molto più teneri.
Con Mahmud ci sono anche la moglie e la figlia che sta preparando gli
esami. Beviamo un tè.
«La maggioranza degli iraniani non ripone più alcuna fiducia nello Stato,
perché ha dimostrato di non saper provvedere ai loro bisogni. Il reddito pro
capite è agli stessi livelli dal 1972. All'inizio della Rivoluzione i funzionari
pubblici rappresentavano il 53 per cento dei lavoratori dipendenti, oggi l'83
per cento dei lavoratori dipende dallo Stato. Gli iraniani non credono più
nei princìpi della Rivoluzione. Non credono più nemmeno alla politica
estera, antiamericana e antisraeliana.»
«Perché?»
CAPITOLO 7
ILCHADOR CHE PIANGE
«Ho rinunciato ad avere figli miei per dedicarmi ai figli perduti degli altri.»
Marjaneh Halati ci da il benvenuto nella sua fondazione Omid-e-mehr:
«Entrate, siamo nel pieno della festa di compleanno di una delle mie
ragazze».
«Volevo restituire alla mia gente almeno una parte della mia ricchezza» mi
spiega. «Sono tra i fortunati venuti al mondo dalla parte giusta. E
occuparmi di loro è per me un dovere morale.»
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che ricorda a tutti che oggi qui per la tristezza e i problemi non c'è posto.
«Purtroppo non sono ancora riuscita a trovare un luogo adatto per ospitarle
anche di notte» prosegue Marjaneh. «È un problema di autorizzazioni e
finanziamenti. Per dormire rientrano perciò negli istituti di recupero
pubblici. Però non ci vanno volentieri perché vengono maltrattate. E ogni
tanto per punirle non le lasciano venire. Tra noi e le autorità è una
mediazione continua: vedono la nostra iniziativa come una minaccia
all'ordine islamico. Qui le donne sanno di essere in un porto sicuro dove la
discrezione è la prima regola e la religione una faccenda privata.»
Marjaneh mi racconta che tutte le sue «figlie adottive» sono state prese
dalla strada dalla polizia islamica, anche perché in Iran quando sono sole le
giovani destano immediatamente sospetto. Nei centri di prima accoglienza
viene compiuto un controllo sulla loro verginità con un'apposita visita
ginecologica. Poi vengono classificate - drogate, prostitute, ex vergini,
violentate - e smistate in istituti specializzati.
Chiedo a Marjaneh di poterle incontrare. A una a una sfilano nel suo ufficio
con le loro storie di abbandono, di abusi, di emarginazione. Per rispetto
Marjaneh lascia la stanza, ma prima chiarisce loro che devono rispondere
solo alle domande gradite. Taraneh resta con me per la traduzione.
La prima a entrare è Donia. Ha diciannove anni ma ne dimostra quindici. E
stata abbandonata dai genitori in un orfanotrofio dove per anni ha subito
maltrattamenti. E esile, ha le unghie dei piedi colorate di azzurro. Ha un
occhio nero, conseguenza di una violenta lite col fidanzato.
Zeina invece quando era piccola ha visto suo padre picchiare sua madre
fino a ucciderla. Poi è cresciuta con lo zio che l'ha maltrattata e forse
stuprata finché non è riuscita a fuggire. Sul tema della violenza sessuale le
ragazze si confidano raramente, tacciono perfino con il loro nuovo angelo
custode.
«Mi sono tagliata con una lametta, volevo morire. Poi sono arrivata qui e mi
hanno aiutata.»
È stata per due anni con un uomo che la picchiava e la tradiva. «Ogni volta
che gli chiedevo perché andava con un'altra mi riempiva di botte e io mi
sentivo impotente. Piangevo e finivo col chiedergli scusa. Pensavo fosse
amore.» Le chiedo quale sia il suo sogno di ventenne. «Vorrei fare la
fotografa e avere un marito e dei figli.» Le faccio tanti auguri ma prima di
salutarmi mi dice: «Per quelle come noi non c'è futuro. Nessuna famiglia
perbene permetterà mai a suo figlio di sposare una come me, senza nome,
senza istruzione, senza storia».
Il premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi si batte da decenni per tante altre
figlie, su tanti altri fronti. A cominciare dalla loro difesa legale nei tribunali
dove lei stessa con la Rivoluzione khomeinista è stata sollevata dalla carica
di giudice.
Sedute davanti a un succo di frutta nel salotto della sua modesta casa,
Mehrangiz mi parlava anche delle preoccupazioni per il suo stato di salute.
Già all'epoca del suo arresto soffriva di un tumore al seno che oggi la
costringe a farsi curare negli Stati Uniti. Questo non le ha impedito però di
ultimare nel 2000 un libro-denuncia sulla violenza diffusa contro le donne
del suo Paese. Un'impresa portata a termine grazie al coraggio di un'altra
straordinaria attivista, Shahla Lahiji, che da anni combatte le severe regole
della censura pubblicando testi che altrimenti mai avrebbero potuto vedere
la luce nel regno degli ayatollah.
Nel suo ufficio in una di quelle case patrizie confiscate dai rivoluzionari
arredate con parquet e marmi pregiati, la responsabile della struttura mi
accoglie avvolta in un largo manteau sul quale spicca un foulard blu e
bianco. Ha un'espressione preoccupata e guardinga.
«Accanto alla violenza psicologica dei nostri uomini misogini, ci sono molti
casi di donne picchiate e violentate.
I drammi vanno dalla tragica storia della ragazza curda data a tredici anni in
sposa a un uomo di settanta, suicidatasi per disperazione, all'insospettabile
vicenda di una dottoressa che subiva abusi dal marito, anche lui medico. E
sulla prostituzione Monir mi conferma le parole di Marjaneh.
«Prima della Rivoluzione era un fenomeno meno diffuso perché gli uomini
avevano più paura. Ma oggi è in inquietante aumento. In un sistema
repressivo che dura da ventisei anni, i maschi hanno scoperto il sesso
attraverso la televisione satellitare e internet, dove cercano soprattutto la
pornografia. E quando le mogli non riescono a soddisfare le loro richieste
cercano le prostitute.»
«Tutte le detenute che ho intervistato nel braccio della morte hanno detto di
aver agito per legittima difesa. Hanno raccontato agghiaccianti storie di
soprusi e di violenza quotidiana perpetrati da uomini sicuri della loro
impunità.»
Mahvash, una donna piccola dai gesti nervosi e dalle parole taglienti,
prepara il videoregistratore nella sua casa arredata con preziosi mobili di
famiglia e piena di souvenir raccolti nei frequenti viaggi. Insieme a me e a
Taraneh assiste alla proiezione anche un vecchio amico appena rientrato
dalla Germania. Solo alla fine del lungometraggio, presentato in estate al
Festival del cinema di Locamo, scoprirò che il nostro ospite maschile ha
molta più familiarità con la durezza del carcere di quanto avrei mai potuto
immaginare.
Solo nel 2004, in Iran sono state portate al patibolo almeno cinque donne,
tra cui una minorenne. Almeno altre nove sono state condannate a morte. Al
31 dicembre dello stesso anno erano 14 le prigioniere nei bracci della morte
in attesa di essere impiccate o lapidate. Secondo Amnesty International
l'Iran è al secondo posto dopo la Cina nella graduatoria mondiale dei Paesi
boia: 197 le esecuzioni lo scorso anno. Sono dati comunque relativi che si
basano sulle notizie pubblicate dai giornali iraniani e che non tengono conto
delle statistiche ufficiali volutamente nascoste dalle autorità.
La storia di Afzaneh Norouzi ha fatto il giro del mondo. Dopo otto anni, tre
processi e appelli che hanno coinvolto anche Kofì Annan e Amnesty
International, la sua condanna alla pena capitale è stata revocata e la
famiglia della vittima l'ha perdonata accontentandosi di 50.000 euro per il
suo «prezzo del sangue». Secondo la legge islamica, i parenti della vittima
di un delitto possono chiedere come risarcimento un compenso in denaro
(detto prezzo del sangue) e così graziare l'autore dell'atto delittuoso o
invece possono pretendere che l'esecuzione della condanna abbia luogo.
Afzaneh è una bella donna alta e slanciata. Davanti alla telecamera descrive
freddamente e con dovizia di particolari come ha evirato e ucciso l'amico
del marito che voleva violentarla. Un caso imbarazzante per il regime che
non ha mai reso noto il suo nome: l'uomo era il capo dei servizi segreti
dell'isola di Kish nel Golfo Persico. Con la promessa di un buon lavoro
aveva allontanato il marito in un'altra città. Aveva ripetutamente
importunato Afzaneh, che un giorno se lo è trovato davanti uscendo dalla
doccia. Inutile il tentativo di rifugiarsi nella sua stanza: lui era già sopra di
lei. Da tempo la giovane donna temeva un'aggressione e così si era
premunita nascondendo un coltello sotto il materasso. Dopo averlo
implorato invano di lasciarla libera, l'ha colpito in una colluttazione di
inusitata ferocia che si è conclusa con l'amputazione dell'organo sessuale
del suo violentatore.
Inutile dire che il film di Mahvash non è mai stato proiettato nei cinema
iraniani perché il ministero della Cultura e della Guida islamica ha sempre
negato l'autorizzazione. Solo il coraggioso direttore del Museo di arte
moderna di Teheran ha osato proiettarlo una volta. E l'ennesimo esempio di
schizofrenia di questo Paese.
posso solo dire che le carceri ai tempi dello Scià erano alberghi rispetto alle
galere dei mullah.»
«Eravamo marxisti, abbiamo fatto una brutta fine» racconta con amarezza.
«Due dei miei fratelli sono stati uccisi, il primo in uno scontro a fuoco con i
Pasdaran, il secondo fucilato a Evin. Il terzo è sopravvissuto a torture atroci
dopo cinque anni e mezzo di prigione. Oggi è su una sedia a rotelle dopo le
lesioni provocate dalle percosse. L'altro per fortuna è riuscito a fuggire
all'estero. A me in fondo è andata bene: ho fatto poco più di un anno di
prigione e quando ci frustavano con i cavi elettrici per estorcerci i nomi dei
nostri compagni sono riuscito a resistere.»
Il padre di Javad morì d'infarto, sua madre, che apparteneva a una famiglia
molto benestante, andava a fargli visita quando era detenuto in un luogo che
conosceva bene. Era l'asilo nido che lei aveva fondato ai tempi dello Scià e
che i Pasdaran avevano trasformato in un carcere.
Javad fu rilasciato quando il regime capì che i pezzi grossi del movimento
avevano già lasciato il Paese.
Shahla Haeri mi conferma che è una prassi piuttosto diffusa. In una società
religiosa dove i rapporti prematrimoniali sono proibiti e in cui per la forte
disoccupazione giovanile tantissime coppie devono rimandare le nozze, il
sigheh consente di dare al sesso vietato una parvenza di legalità.
Ancora nel 2000 il dibattito sui suoi vantaggi era molto vivace quando
intervistai la direttrice del mensile femminista
Cinque anni più tardi però non riscontro cambiamenti sensibili: il sesso e la
verginità continuano a essere un elemento centrale nella vita degli iraniani.
Nel suo libro l'antropologa ha intervistato anche diversi religiosi che hanno
fatto largo uso del sigheh pur opponendosi tenacemente ai rapporti
prematrimoniali. E stato proprio uno di loro ad affermare che siccome Dio
ha proibito l'uso degli alcolici, ha concesso in cambio il matrimonio
temporaneo. «La verità» continua Shahla «è che esiste un mondo di
facciata, simboleggiato dal chador, e un mondo occulto, in cui serpeggiano
omosessualità, tradimenti, incesto e pedofilia, ostinatamente taciuti. La sola
cosa che abbiamo capito è che il desiderio non si può mai reprimere perché
riemergerà in qualche altra forma. Siamo così arrivati a instaurare spesso
rapporti torbidi e malsani.» Una realtà nascosta che mi verrà illustrata nei
dettagli da una giovane ricercatrice che da cinque anni, tra mille difficoltà,
studia i comportamenti sessuali dei giovani iraniani.
Uscendo mi accorgo della pila di libri che si staglia davanti alla poltrona di
suo padre. Il testo del giorno è una biografia di Lady Diana. Quando gli
chiedo che cosa lo interessi tanto della principessa del Galles, morta
tragicamente a Parigi, mi risponde: «La sua vita è stata come un film, ma
qualche volta la realtà supera la fantasia». Poeta, filosofo, Jamal è curioso e
legge di tutto. Dopo Lady D lo aspetta una serie di racconti di donne
afghane, e poi ancora un libro di Nietzsche. È a sua volta autore di
un'importante opera sulle donne dei re e ancora oggi recita a memoria i
60.000 versi del poema epico Shahnameh del grande Firdusi!
Mentre lo saluto penso che è questo l'Isiam moderato: un uomo molto
credente che non vuole imporre la sua fede a nessuno. Convinto che la
religione sia sostanzialmente un fatto privato.
I fedeli iraniani si preoccupano piuttosto dei loro leader politici in corsa per
le presidenziali. Con una buona dose di lucidità e di cinismo una giovane
donna arrivata dal Mar Caspio mi dice: «Rafsanjani ha già le tasche piene di
soldi: adesso aspettiamo che se le riempia qualcun altro!».
Ma a sorprendermi è la reazione di Hussein, un commerciante di
cinquant'anni che ha un negozio di fronte alla moschea. Vende chador,
foulard colorati e grandi sudari bianchi con impressi i versi del Corano che
servono ad avvolgere i corpi dei defunti. A una mia domanda sulla
situazione politica risponde deciso con una smorfia: «Non intendo votare
per nessuno. E i mullah là fuori farebbero bene ad andarsene a casa!». Un
messaggio inequivocabile a chi ancora oggi è convinto che la fede possa
risolvere i problemi di questo Paese.
Ci riceve nel suo ufficio al primo piano di una casa seminascosta nei
meandri delle viuzze di Qom. Viene qui tutti i giorni per rispondere alle
domande dei credenti sulla politica, sui diritti umani, sui problemi familiari,
sui comportamenti islamici, che le pongono via fax, per telefono, via e-mail
o di persona.
Alle sue spalle è appeso un quadretto piuttosto kitsch su cui campeggia una
scritta in arabo che recita: «Oh Fatemeh, oh Nostra Signora, prendici per
mano e portaci in Paradiso».
«Per noi la sorella di Reza è un po' come per voi la Madonna» mi spiega
questa cinquantenne imbrigliata nel chador nero. Seduta alla sua scrivania,
la signora Sefati ci studia diffidente da dietro i grandi occhiali da vista,
mentre assaporiamo i gustosi biscotti che ci ha offerto accompagnati da una
bibita dolcissima.
«Mhijab è per noi una legge pilastro che va rispettata. Se volessimo essere
autoritari costringeremmo tutte a portare il classico chador nero, che rimane
comunque il nostro simbolo nazionale. Invece abbiamo concesso alle donne
la libertà di scegliere il colore e la foggia del manteau e del velo.
Lo hijab è per noi una sorta di scudo che ci protegge dalle insidie del
mondo maschile.»
Ci risiamo: mi sento quasi in colpa per aver posto per l’ennesima volta la
questione del velo, ma anch'io, insieme a tantissime donne iraniane, non
posso che attestarmi sulle posizioni molto poco ufficiali dell'autorevole
Sanei.
Concordo con lei, anche se dubito che una riforma economica in questa
direzione verrà mai realizzata dalla classe religiosa attualmente al potere.
CAPITOLO 8
COSÌ FINISCONO I RE
Oggi i bambini giocano a pallone sui prati del Saad Abad, il Palazzo
d'Estate dello Scià sulle alture di Darband. Le famiglie si ritrovano per fare
pic-nic all'ombra dei grandi alberi di questa fresca oasi verde. Io ci sono
arrivata a piedi dalla casa di Taraneh seguendo il torrente che scende
dall'Elburz. Una passeggiata, un salto nel tempo.
Cosi finiscono i re
Furono gli imperatori Qajar a scegliere come residenza nel XIX secolo
questo parco enorme che ospita 18 palazzi.
Percorrendo i viali del Saad Abad mi ritrovo sulle prime tracce dei tre
eventi che hanno segnato il destino dell'Iran dei giorni nostri: la
Rivoluzione del febbraio 1979, la rottura con l'America nel novembre di
quello stesso anno e la guerra con l'Iraq iniziata il 22 settembre 1980.
E tutto ciò che resta di una statua di Reza Shah. Alcuni mi raccontano che
venne tranciata in due all'indomani della Rivoluzione, ma nessuno ritrovò
mai la parte superiore. Secondo un'altra versione in realtà non fu mai finita.
La mia curiosità resterà insoddisfatta.
Salgo l'ampia scalinata che conduce all'ingresso della casa reale. Un gruppo
di scolari esce correndo: sembrano entusiasti di aver terminato la visita.
Quando li fermo per rivolgere loro qualche domanda, nessuno pare
interessato a parlare con me. Forse il loro inglese è incerto o forse sono solo
impazienti di mangiare la merenda che li aspetta sul prato.
Una targhetta affissa sulla porta di un salone adibito agli eventi di gala ci
avverte che «l'ultimo ricevimento dato in questo salone è stato in onore del
maresciallo [sic] de Gaulle». II generale de Gaulle si sarà certamente
rivoltato nella tomba per essere stato promosso tardivamente al grado di
maresciallo, che in Francia rappresenta il più alto riconoscimento militare.
Non amava le mostrine e ancor meno una promozione che lo metteva sullo
stesso piano del maresciallo Philippe Pétain che si era arreso alla Germania
nazista. L'ultimo viaggio di de Gaulle in Iran risale all'ottobre del 1963. Mi
chiedo se i curatori del museo abbiano perso traccia delle feste tenute in
questo salone tra il 1963 e il 1979. O forse si tratta di una sorta di omaggio
alla Francia e al suo leader politico più prestigioso e più tenacemente
indipendente? Proprio in quegli anni avevano preso avvio le discussioni sul
nucleare che si conclusero nel 1974 con un accordo con lo Scià per la
costruzione di centrali a tecnologia americana. Teheran entra anche a far
parte del consorzio Eurodif che doveva cominciare il processo di
arricchimento dell'uranio nel 1981. Ma i francesi in seguito negheranno
allora di esercitare il suo di ritto di azionista nel consorzio europeo. E
questo, come pure il sostegno di Parigi a Baghdad durante il conflitto,
scatenerà fra i due Paesi una feroce guerra segreta. Con dieci anni di
tensioni diplomatiche, violenze, attentati, rapimenti. La questione nucleare
viene da lontano.
Più avanti un'altra targa ricorda «l'ultima cena organizzata per re Hussein di
Giordania e il presidente Carter». La cena venne servita il 31 dicembre
1977. Jimmy Carter stava compiendo un lungo viaggio nella regione e si era
fermato per una notte a Teheran. Da mesi la diplomazia americana era
preoccupata per le tensioni che si registravano nel Paese. Da un lato, Carter
auspicava un maggiore rispetto dei diritti umani e una serie di riforme
democratiche. Dall'altro, l'Iran rimaneva, insieme all'Arabia Saudita, uno
dei pilastri della strategia americana nel Golfo, quindi non bisognava
esercitare troppa pressione sullo Scià.
Quella sera, sotto gli stucchi del palazzo di Saad Abad, Carter si alzò in
piedi e propose un brindisi alla salute del suo ospite: «Sono fiero e felice di
poter far visita alla fine del mio primo anno di governo e all'inizio del
secondo ai nostri cari amici e alleati». Poi si profuse in un elogio che lo
perseguiterà a lungo: «L'Iran sotto la guida dello Scià è un'isola di stabilità
in una delle regioni più tormentate del mondo, e lo dobbiamo a lei, Sua
Maestà, alla sua autorità e al rispetto, all'ammirazione e all'amore del suo
popolo». Poche settimane dopo sarebbero cominciate le prime
manifestazioni anti-regime. Per i Pahlavi era l'inizio del naufragio.
Gli iraniani, ossessionati dai complotti, hanno spesso insinuato che dietro la
caduta del sovrano e la presa del potere da parte dei mullah ci fossero
proprio gli Stati Uniti, in cerca di un bastione ideale contro l'espansionismo
sovietico. Ma la teoria delle congiure funziona solo con chi ci crede.
Tutto ha inizio con una conversazione tra due gentleman in frac e pantaloni
gessati, seduti su comode poltrone in quello che sembra un club molto
esclusivo di Londra.
«Allora Reza, ti lucidi gli stivali? Quando sarai imperatore, sarà il tuo
ministro a lucidarteli.»
«Imperatore! Io?»
«Ma certo, mio eroe! È molto meglio che essere presidente, non credi?»
Fin dal 1923 Reza Khan concepisce l'ambiziosa idea di chiudere con la
dinastia dei Qajar, debole e corrotta, e di crearne un'altra, quella dei Pahlavi,
per rilanciare il Paese sulla via del progresso sul modello turco di Mustafa
Kemal Atatiirk.
Alcune donne si ribellarono, per esempio non uscendo più di casa. Toccherà
al figlio, Muhammad Reza, cambiare la normativa. Sarà anzi uno dei primi
provvedimenti del suo impero iniziato nel 1941. Il velo potrà essere portato
liberamente tranne che negli uffici pubblici.
Proprio in quel momento si creò la frattura che sussiste ancora oggi tra le
due anime culturali dell'Iran: quella che privilegia l'influenza dell'Occidente
e quella che difende l'integrità della tradizione.
Nel momento cruciale della guerra l'Iran giocherà un ruolo chiave come
base logistica degli anglo-americani sullo scacchiere dell'Europa orientale.
Le condizioni di vita degli iraniani, però, non migliorarono affatto. Il
dispiegamento nel Paese di decine di migliaia di soldati stranieri decise la
fortuna di quei pochi che, facendo lievitare i prezzi anche dei generi di
prima necessità, si arricchirono rapidamente, a scapito della maggioranza
della popolazione che, in breve tempo, si impoverì in maniera drammatica.
L'opposizione allo Scià cominciò a organizzarsi con la nascita del Tudeh,
nel 1942, che divenne nel 1944 il Partito comunista iraniano. Da quel
momento il timore dell'influenza sovietica diventò un elemento ossessivo
nell'analisi americana dell'Iran.
Il petrolio diventò ben presto «l'oro nero», la chiave delle guerre e dello
sviluppo economico dell'Occidente. Una società britannica, l'Anglo-Iranian
Oil Company, estraendo il greggio iraniano accumulò enormi profitti di cui
Teheran non beneficiò minimamente. Nel 1951, dopo l'assassinio del primo
ministro Ali Razmara per mano di un militante del gruppo estremista dei
Fedayyin Isiam, venne nominato un nuovo capo di gabinetto: Muhammad
Mossadegh. Leader del Fronte nazionale, un partito di opposizione
ultranazionalista creato alla fine degli anni Quaranta, annunciò la
nazionalizzazione del petrolio iraniano. Queste velleità indipendentiste
finirono per costargli molto care. Nel 1953 fu destituito con un colpo di
Stato deciso da Londra e Washington e organizzato dalla Cia. Da quel
momento i servizi segreti americani assursero al ruolo di attori occulti ma
onnipresenti e onnipotenti in questa regione strategica del mondo.
Khomeini aveva iniziato a far parlare di sé già nel 1962, quando cominciò a
predicare in una scuola coranica di Qom.
Nel frattempo lo Scià, grazie all'aumento del prezzo del petrolio nel 1974,
ebbe a disposizione un'immensa ricchezza che spese soprattutto acquistando
quantità ingenti di armi americane. Il periodo di espansione economica che
conobbe l'Iran, alimentato unicamente dalle rendite dell'oro nero, fii
accompagnato da una crescita esponenziale dell'inflazione, da un'ag-
gravarsi della disparità dei redditi tra ricchi e poveri e, come se non
bastasse, da una scarsità di beni inspiegabile per un Paese così prospero.
Questa frattura economica e sociale, assai più dell'«intossicazione da
Occidente», la Westoxication, denunciata dal clero e dagli ambienti
tradizionalisti, contribuì ad alimentare il risentimento della maggior parte
della popolazione. Alla fine degli anni Settanta il Paese era dunque in preda
al malcontento: gli studenti rivendicavano più riforme, ma soprattutto in
tempi più rapidi; il clero, al contrario, ne voleva meno; la crisi economica
internazionale che seguì il boom petrolifero, infine, rese la situazione
ancora più ingestibile.
La scintilla che diede il fuoco alle polveri scoppiò nel gennaio del 1978. Un
giornale governativo pubblicò un articolo che conteneva affermazioni
calunniose e provocatorie contro Khomeini. L'Ayatollah non fu chiamato in
causa direttamente, ma tutti compresero che era di lui che si stava parlando.
Il pezzo, infatti, faceva riferimento a un religioso scelto per dirigere le
contestazioni, «un avventuriero, un uomo senza fede, legato ai centri di
potere del colonialismo».
«Il clero gode ancora oggi di solidi legami con le masse popolari, necessari
per combattere il dispotismo e il colonialismo. Inoltre possiede la chiave
per capirle e farsi capire» mi aveva spiegato Yazdi, primo ministro degli
Esteri della Rivoluzione, nel nostro lungo colloquio a casa sua.
I gruppi di sinistra che avevano partecipato alla lotta contro lo Scià, sia
religiosi che laici, dai Fedayyin del popolo ai comunisti passando per i
Mujaheddin Khalq, vennero sistematicamente eliminati con modalità che
molto avevano in comune con il Terrore rivoluzionario in Francia. Il Partito
della Repubblica islamica, fondato da Khomeini al suo arrivo, era padrone
indisturbato del campo, e per esercitare al meglio la sua influenza si servì
degli onnipresenti Pasdaran, anch'essi creati nel 1979, e dei komiteh, le
cellule di quartiere della polizia islamica.
Avevo incontrato a casa di Yazdi uno di quelli che hanno creduto, come
questo personaggio dei fumetti, che il futuro della Rivoluzione sarebbe stato
radioso. Si chiama Ezzatollah Sahabi del direttivo del Movimento di
liberazione dell'Iran, di cui suo padre Yadollah era stato uno dei fondatori
insieme a Bazargan e Telaghani. Oggi ha settantacinque anni e cammina
sorreggendosi con un bastone.
Seduta al fresco della sua piccola terrazza di Darband, Taraneh ricorda quei
periodo di intense emozioni e grandi speranze. Rientrata in Iran dopo aver
compiuto gli studi di architettura in Francia e in Italia si era buttata anima e
corpo in politica.
«Sono venuto spesso qui durante la guerra con l'Iraq» ricorda Jacques. «Per
noi era un'esperienza fuori del comune. I fedeli arrivavano in autobus e
aspettavano diverse ore pregando o gridando slogan. Poi, al momento
stabilito, si apriva la porta del piccolo soppalco e compariva Khomeini. Era
un vero delirio di devozione. Molto spesso tra la folla c'erano feriti di
guerra per i quali era una consacrazione poter vedere l'Imam. Camminava
lentamente fino alla poltrona e si sedeva tra due aiutanti. Poi alzava una
mano. Quella mano mi era sembrata fragile, scarna, quasi scheletrica. Ma
era una mano che aveva un'autorità straordinaria e aveva il potere di vita o
di morte su milioni di esseri umani. Gli occhi di Khomeini sembravano
vuoti, come se non ci vedesse più. Ma la "sua" visione non aveva più niente
a che fare con il mondo temporale: viveva per plasmare la realtà alla sua
maniera, non per vederla cambiare. A volte parlava, oppure un aiutante
leggeva una dichiarazione. Poi veniva condotto nuovamente nella piccola
abitazione qui vicino.»
L'Ayatollah era nato nel settembre del 1902 a Khomein, a sud di Teheran,
non lontano dalla città santa di Qom. Non conobbe il padre che venne
ucciso da un proprietario terriero quando lui aveva appena cinque mesi, e fu
allevato dalla madre. Il nonno era un mercante che faceva affari con la
provincia del Kashmir. Iniziò molto presto gli studi religiosi a Soltanabad e
poi a Qom, finché nel 1927 raggiunse il grado di sapere necessario per
interpretare il Corano e i suoi insegnamenti. In seguito sposò la figlia di un
ricco ayatollah di Teheran ed ebbero cinque figli, due maschi e tre femmine.
anche noto per essere stato un grande appassionato di poesia e per essersi
dilettato a scrivere nello stile del più celebre dei poeti persiani, Hafez. Il
figlio Ahmad prima di morire nel 1995 ha reso pubblici alcuni suoi poemi,
nei quali celebra il vino e l'amore, la primavera, la musica e la danza. I suoi
agiografi vi hanno visto allegorie del desiderio che aveva di Dio e della
felicità che Egli concede ai fedeli.
CAPITOLO 9
IL COVO DI SPIE
A Teheran era arrivato l'autunno e l'aria si era fatta più fresca. Il marito di
Taraneh, Farhad, come ogni mattina era uscito dal suo appartamento nel
quartiere dell'ambasciata americana nel centro della città. Aveva trent'anni e
lavorava come economista al ministero delle Finanze. Scendendo lungo il
viale Taleqani giunse davanti all'ingresso della rappresentanza diplomatica
ed ebbe la sensazione che stesse accadendo qualcosa. Tuttavia non accelerò
il passo. Da mesi la capitale era in ebollizione. Le strade erano nelle mani
del popolo dalla caduta dello Scià avvenuta nove mesi prima. Le
manifestazioni si succedevano una dopo l'altra. Perché avrebbe dovuto
essere diverso quel 4 novembre 1979?
Non era la prima volta che la folla, frustrata e in preda alla collera,
prendeva l'ambasciata degli Stati Uniti come oggetto dei suoi sfoghi. Il
suolo americano in terra persiana, con il suo complesso di edifici e giardini,
era già stato attaccato in febbraio durante una sommossa, ma la polizia era
riuscita a risolvere la questione piuttosto rapidamente.
Da allora erano cambiate molte cose. L'Imam era rientrato in Iran, lo Scià
era scappato e la ragazza viveva ora con una certezza: la Rivoluzione
avrebbe ristabilito i princìpi dell'Islam come fondamento di una società
giusta, avrebbe liberato l'Iran dalla nefasta influenza dell'Occidente ed
eliminato l'insopportabile invadenza degli Stati Uniti. Desiderava unirsi ai
militanti che nel frattempo erano riusciti a penetrare nell'ambasciata. Ma
prima volle parlarne con i genitori, entrambi professori universitari e
islamici progressisti.
Solo due giorni più tardi decise di aderire alla protesta degli studenti che
avevano preso il controllo del cosiddetto «covo di spie». Durante
l'occupazione, che sarebbe durata ben 444 giorni, diventò la portavoce, il
volto e il simbolo di quegli studenti seguaci di Khomeini, fermamente
decisi a sfidare l'America.
«Non avevo paura, un impulso mi spingeva ad agire, ero sicura che i miei
genitori avrebbero capito. Come me percepivano che qualcosa stava
cambiando. La Rivoluzione si era compiuta e ora la gente non aveva più
nulla da temere.»
L'evento che avrebbe cambiato il corso della storia resta ancora oggi
avvolto nel mistero. Lasciando l'Iran a metà gennaio 1979, lo Scià aveva
avuto l'assicurazione di Carter che sarebbe stato il benvenuto negli Stati
Uniti. Lo stesso Khomeini, rientrato in patria il 1° febbraio dello stesso
anno, aveva dichiarato di non avere obiezioni in proposito. Era stato persino
deciso che il monarca, ormai destituito, avrebbe soggiornato nella dimora
del miliardario Walter Annenberg a Palm Springs, in Florida. Il sovrano,
però, pervaso dalla speranza che la Rivoluzione durasse poco, decise
Una potente lobby, però, si era messa al lavoro a Washington per consentire
l'accoglienza dell'uomo che era stato un amico dell'America e di Israele. A
capo del gruppo c'erano due grandi personalità della politica e della finanza:
Henry Kissinger e David Rockefeller. Che a loro volta avevano all'interno
dell'amministrazione il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew
Brzezinski. Pur di ottenere il permesso di ingresso per lo Scià chiamarono
in causa i principi di ospitalità degli Stati Uniti. Per contro, altri diplomatici
sostennero che la sua presenza avrebbe potuto essere considerata dal popolo
iraniano come una sfida, e che era quindi prioritario attendere il
consolidamento delle relazioni con il nuovo regime. Quando però lo stato di
salute del monarca diventò un affare di pubblico dominio, il quadro cambiò.
Il contenuto dell'incontro col primo ministro venne inviato alla Casa Bianca
il 21 ottobre. Avrebbe incrociato un cablogramma da Washington nel quale
si annunciava che la decisione era stata comunque presa. Muhammad Reza
atterrò a New York il giorno successivo, creando le premesse perché la
situazione già drammatica esplodesse.
«Pensavamo che fosse in gioco il destino del nostro Paese e che dovessimo
fare la nostra parte per deciderne il giusto corso» prosegue Massumeh.
«Eravamo decisi a ribellarci alle umiliazioni che gli americani ci avevano
inflitto in passato e che temevamo potessero infliggerci in futuro.»
«La prima volta che l'ambasciata americana era stata occupata, proprio
all'inizio della Rivoluzione,» mi aveva spiegato Yazdi nel nostro incontro a
Teheran «la situazione era stata controllata, e a dimostrazione che il nuovo
governo era gestito da persone responsabili, gli studenti vennero
immediatamente sfollati. Quando accadde la seconda volta, andai subito a
Qom per presentare il mio rapporto a Khomeini, il quale mi disse: "Buttali
fuori subito!".»
Un anno prima, all'altro capo del mondo, era cominciata la guerra di Corea,
percepita come uno scontro tra il mondo libero e il mondo comunista. Il
rischio di un conflitto nucleare era reale. Il 26 giugno 1950, all'indomani
dell'invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, il
presidente democratico Harry Truman aveva riunito i propri consiglieri
nello Studio Ovale della Casa Bianca, si era alzato e, guardando il
mappamondo, aveva messo un dito sull'Iran dichiarando: «Sarà qui che
avremo problemi se non facciamo attenzione». La paura del comunismo era
ormai diventata la principale preoccupazione nella politica estera
statunitense, e Truman era tra i primi assertori dell'idea che i sovietici
volessero estendere la loro influenza anche sull'Iran.
Mossadegh va a New York l'8 ottobre 1951. Quattro giorni prima l'ultimo
cittadino britannico aveva lasciato Abadan, mettendo fine a un'avventura
industriale e coloniale che durava da oltre quarant'anni. Il 15 ottobre,
davanti al Consiglio di sicurezza dell'Onu, Mossadegh difende la sua causa,
diventando il simbolo per altri Paesi del Terzo Mondo che lottano per
recuperare il controllo delle proprie ricchezze naturali sfruttate dalle
potenze straniere. Durante il suo soggiorno viene trattato con il massimo
rispetto, ma la situazione non si sblocca.
Nel maggio del 1952 gli inglesi tentano un colpo di Stato imponendo a
Muhammad Reza la nomina di un nuovo primo ministro, che viene però
costretto a lasciare l'incarico dopo solo quattro giorni in seguito a imponenti
manifestazioni di massa e a un massacro avvenuto a Teheran che passerà
alla storia come il «lunedì di sangue». Mossadegh ne esce unico vincitore
mentre lo Scià viene fortemente indebolito. Per Londra non rimane che una
soluzione: eliminare Mossadegh.
Con l'appoggio del sovrano e dei militari che gli sono fedeli viene ordito un
complotto, ma i congiurati vengono traditi e il 16 ottobre 1952 Mossadegh
interrompe le relazioni diplomatiche con il Regno Unito ordinando
l'espulsione di tutti i diplomatici e delle spie di Sua Maestà.
Ancora una volta attiva le proprie reti per dimostrare al popolo - attraverso
agitazioni, manifestazioni, repressioni e disordini — che Mossadegh non è
più in grado di gestire il potere e che solo l'esercito e lo Scià sapranno
ristabilire l'ordine. Quest'ultimo nel frattempo si è rifugiato a Baghdad. A
Washington i superiori di Roosevelt, convinti del fallimento dell'intera
operazione, prima consigliano e poi ordinano al loro agente di rientrare in
patria. Ma Roosevelt li ignora.
Mossadegh non può far altro che arrendersi. Viene processato e condannato
a tre anni di carcere e agli arresti domiciliari a vita. Morirà il 5 marzo 1967
all'età di ottantacinque anni.
Si dovrà attendere il 2000 prima che gli Stati Uniti riconoscano il ruolo
avuto in questo losco affare. 1117 marzo, in un discorso ormai celebre,
l'allora segretario di Stato Madeleine Albright disse: «Nel 1953 gli Stati
Uniti hanno avuto un ruolo determinante nel rovesciamento di un primo
ministro molto popolare, Muhammad Mossadegh. L'amministrazione
Eisenhower pensava che quell'azione fosse giustificata da considerazioni
strategiche; ma ora è chiaro che quel colpo di Stato in realtà ha significato
un salto indietro nello sviluppo politico dell'Iran. Ed è facile capire perché
ancora oggi molti iraniani deplorino l'intervento americano negli affari
interni del loro Paese».
«Non pensavamo che quel fatto avrebbe assunto una tale importanza»
riconosce oggi Massumeh «ma non ho mai avuto alcun dubbio. Avevo
piena fiducia nell'azione che stavamo conducendo, conscia che tutte le
rivoluzioni hanno un prezzo da pagare.»
Nel gennaio del 1984, dopo gli attentati di Beirut dell'anno precedente
contro il contingente americano e francese, l'Iran viene aggiunto alla lista
dei Paesi fiancheggiatori del terrorismo. Questa decisione limita tra l'altro
l'accesso ai programmi degli istituti finanziari internazionali. Altre sanzioni
penalizzano i Paesi terzi che intrattengono scambi commerciali con il
regime dei mullah nei settori delle tecnologie a doppio impiego, militare e
civile. Nel 1995 vengono presi provvedimenti contro le società americane
che fanno affari con Teheran utilizzando le loro filiali estere. Dal 1996
una nuova legge obbliga a imporre sanzioni contro le società straniere che
investono in Iran più di 20 milioni di dollari nel settore energetico.
Quando Jimmy Carter arriva al potere nel gennaio del 1977 la sua agenda è
incentrata sulla difesa dei diritti umani, così chiede allo Scià di tenere a
freno la sua feroce polizia. Ma la richiesta viene rispettata per poco. Carter
non insiste e si converte nuovamente alla strategia dei due pilastri. Quando
si reca in visita a Teheran sono 45.000 gli americani che ci lavorano e che
danno l'impressione di controllare il Paese. Gli Stati Uniti dispongono
inoltre di postazioni di ascolto ultrasegrete nelle montagne dell'Elburz, da
dove seguono i test condotti dai sovietici sui loro missili intercontinentali. Il
programma della Cia, che si chiama Tacksman, permette a Washington di
essere pienamente al corrente delle attività di Mosca in questo settore. Sono
informazioni importantissime nel momento cruciale in cui vengono avviate
le trattative per la limitazione degli arsenali dei due giganti nucleari.
Per l'opposizione lo Scià diventa il «re americano» e per la prima volta fa la
sua comparsa il concetto di Westoxication,
Nel 1991 la guerra del Golfo dimostra tutta la potenza americana. L'esercito
di Saddam viene distrutto in 43 giorni, mentre gli iraniani si erano battuti
senza successo contro gli iracheni per otto lunghi anni. La strategia di
Teheran deve tenere conto di questa assoluta superiorità militare se non
vuole farne le spese. L'Iran sviluppa dunque attività sovversive per aiutare
movimenti di liberazione o gruppi che combattono Israele o regimi filo-
americani nella regione.
Ma fin da quegli anni il governo entra nella logica della dissuasione: ai suoi
occhi se un Paese vuole opporsi ai progetti americani deve anche essere in
grado di prevenire una loro possibile invasione, e il solo modo per farlo è
dotarsi di armi nucleari.
Bill Clinton, eletto nel 1992 e interessato a promuovere la pace in Medio
Oriente, decide di avviare la politica del
Clinton sottoscrive allora una nuova formula di embargo che vieta alle
filiali straniere di concludere affari con l'Iran, e decide sostanzialmente
l'interruzione delle relazioni commerciali tra i due Paesi. I falchi del
Congresso, che nel frattempo è diventato a maggioranza repubblicana e
appoggia Israele, hanno vinto. Qualche tempo dopo, lo stesso Congresso
approva uno stanziamento speciale alla CIA per destabilizzare il regime di
Teheran: 18 milioni di dollari, una cifra poco rilevante ma indicativa della
determinazione di Washington.
Eletto nel 1997 con un programma che ha mobilitato una larga maggioranza
di iraniani, Khatami promette il rispetto della legge, la fine della corruzione
e una maggiore apertura alle esigenze della società civile. Cerca di
riformare l'Iran e l'amministrazione Clinton, convinta della sua sincerità,
elabora una strategia per migliorare le relazioni logorate da anni di ostilità.
WELCOME TO KHORRAMSHAHR!
L'8 giugno partiamo per Khorramshahr, nel Sud-ovest del Paese, a ridosso
del confine iracheno sul Golfo Persico. Per gli iraniani è la capitale dei
martiri: fu la prima città a essere attaccata durante la guerra contro l'Iraq il
22 settembre 1980. Anche per questo rappresenta l'emblema della
vulnerabilità della Repubblica islamica, tanto più in tempi come questi in
cui il più potente esercito del mondo è accampato alle porte del Paese. Sin
dalla conquista islamica nel VII secolo, l'Iran ha sempre preso molto sul
serio le minacce che arrivavano dalla frontiera occidentale.
Provo a rifiutare per non imporre la nostra presenza a questa coppia così
premurosa, ma dire di no a Sadeq è impossibile: ha deciso di mettersi a
nostra disposizione e nessuno potrà fargli cambiare idea. Saliamo a bordo
della sua Peugeot 405 nera e constatiamo con piacere che l'impianto
dell'aria condizionata funziona perfettamente. Uscendo dall'aereo siamo
stati investiti da un vento secco e rovente. Il pilota aveva ragione, sembra di
stare in un forno. «E
Partiamo così per il nostro tour notturno della città di 400.000 abitanti col
cielo sempre illuminato dalle fiamme di sei torce arancioni. La sua storia è
strettamente legata al petrolio: dalla scoperta allo sfruttamento da parte
degli inglesi fino alla completa nazionalizzazione. E il suo destino dipende
anche dalla posizione strategica sul Golfo Persico, in una zona di attrito tra i
quattro grandi Stati della regione: Iran, Iraq, Kuwait e Arabia Saudita. Ma
questa sera l'oro nero e la geografia importano poco ai cittadini, che euforici
festeggiano per le strade la vittoria della nazionale di calcio. Abadan viene
soprannominata «il piccolo Brasile» proprio per lo sfrenato amore per il
pallone che la contraddistingue. La gente sembra in preda alla follia, come a
Napoli o a Roma quando la fortuna sorride alle loro squadre.
«Abadan vive di notte a causa del caldo» mi spiega Sadeq «ma anche per il
carattere dei suoi abitanti che sono meridionali, amano divertirsi e
sopportano con difficoltà gli obblighi imposti da Teheran.»
Zelante, legge tutti i documenti e scruta i nostri volti come per scovarvi il
minimo indizio di doppiezza. Jacques, che si vanta di conoscere i costumi
del luogo, lo saluta e si scusa per aver disturbato alle undici di sera un uomo
della sua levatura.
Prima di lasciare l'edificio però uno dei giovani di guardia vuole a tutti i
costi stringere la mano a Jacques. Gli fa scivolare in mano un biglietto da
visita. Pubblicizza una scuola di kick-boxing di cui è socio, con tanto di
indirizzo e-mail. La scena è surreale.
Ordino una pizza che non è sul menu, la classica Margherita, ma i pizzaioli
non la conoscono. Appena apprendono che vengo dall'Italia mi chiedono la
ricetta che per mia fortuna è molto semplice: pomodoro e formaggio. Loro
eseguiranno fedelmente con l'aggiunta però di peperoni verdi. Pazienza.
Meglio delle pizze ricoperte di carne di agnello e strane verdure sott'aceto
che vedo sfilare davanti a me. Jacques, Taraneh e Sadeq intanto ordinano
hot dog locali che potrebbero sfamare una famiglia intera. Succhi di frutta e
Coca-Cola non possono mancare. Intorno a me, i foulard scivolano sulle
spalle, le mani si sfiorano, gli sguardi sono teneri; nessuno si bacia come in
Europa, ma ho l'impressione che non ci vorrà molto tempo. Prima di
andarcene mi lavo le mani in un lavandino che si trova accanto alla porta.
Posto insolito ma utile.
I muri della città sono coperti da manifesti, foto e slogan dei candidati alle
elezioni. «La gente di Abadan non andrà a votare» asserisce Sadeq. «Non
ha più fiducia nel governo di Teheran. Noi qui abbiamo tutto: il petrolio, un
porto, risorse agricole, eppure dalla fine della guerra non è cambiato niente.
«Sono italiana.»
Gli abitanti del Khuzestan difendono con ardore la fierezza di aver resistito
ai tentativi iracheni di sottometterli. La guerra è cominciata qui, all'alba del
22 settembre 1980. E qui che l'Iraq ha attaccato ed è qui che l'Iraq ha perso.
L'immagine eroica del combattente islamico è nata nella sabbia e nel fango
delle trincee di Khorramshahr e di Abadan, nella lotta impari tra un esercito
ben equipaggiato e un popolo pronto a morire sotto il sole rovente del
deserto. Non hanno nulla da imparare, né sulla devozione al loro Dio, né
sulla fedeltà al loro Paese. Ma oggi si ribellano all'ordine morale imposto
dai mullah che «invadono» la loro vita privata.
Sadeq si mise a correre per raggiungere la casa dello zio, ma i carri armati
iracheni avevano già travolto il posto di frontiera iraniano a nord di
Khorramshahr. Era cominciata l'offensiva terrestre.
Quando arrivò da suo zio gli disse che voleva arruolarsi, ma il suo
patriottismo venne accolto brutalmente a colpi di cinghia. Dovette aspettare
qualche mese per raggiungere l'età della leva e potersi quindi unire
all'esercito.
La mattina dopo il nostro arrivo decidiamo di fare un giro sul fiume Karun
a bordo di una piccola barca a motore guidata da un pescatore, Khalil, e da
suo figlio. Il caldo è sempre più insopportabile, mi secca la gola e le labbra,
ma una volta in moto la brezza da a tutti un po' di sollievo. Rottami
arrugginiti ingombrano le rive, le barche più recenti sono in secca per essere
revisionate o riparate, quelle in legno, utilizzate nei piccoli traffici lungo le
coste del Golfo, sono invece attraccate al pontile. Con la presa della parte
settentrionale di Khorramshahr e la traversata del Karun, gli iracheni
riuscirono a circondare Abadan. Ma tutti i tentativi di farla cadere si
rivelarono un fallimento.
«Mi sono spesso chiesto perché gli iracheni non siano entrati ad Abadan.»
L'uomo che si pone il quesito è alto e robusto, e ha i capelli radi. Si chiama
Abdel Assan Banaderi. E un generale dei Pasdaran amico di Sadeq che si è
costruito una reputazione di coraggio e abnegazione durante la battaglia.
Banaderi spiega che in quel periodo il clero, per rafforzare il suo controllo
sul Paese, fu abile nello sfruttare il diffuso orgoglio nazionale. All'epoca
aveva ventun anni e per tutta la durata dell'assedio non lasciò mai Abadan.
In quella circostanza così drammatica addirittura si sposò e anche sua
moglie partecipò alla difesa della città.
Il generale condivide con molti iraniani la convinzione che quella guerra sia
stata voluta dagli Stati Uniti. Suggestione o realtà?
«Era chiaro che gli americani volevano una controrivoluzione. Avevano
iniziato ad aiutare i gruppi di opposizione e le minoranze etniche anti-
Khomeini. Poi quando capirono che non bastava utilizzarono l'Iraq per un
nuovo conflitto.» E
aggiunge: «Ho combattuto per l'intera durata della guerra. Se c'è stato un
momento di chiarezza morale nella mia vita, è stato quando ho difeso il mio
Paese. Non ho mai avuto paura di morire, al contrario. Molti miei amici
sono morti. Io non sono stato sufficientemente degno per l'estremo
sacrificio e chiedo a Dio di darmi la forza per essere all'altezza di chi è
caduto».
Alla fine della guerra dispiegarono addirittura le loro navi nel Golfo
distruggendo i due terzi della marina iraniana. Uno dei loro incrociatori,
l'Uss Vincennes, abbatte un aereo dell'Iran Air con 290 persone a bordo. Un
deplorevole incidente, diranno poi.
Formalmente fu Baghdad a vincere, in sostanza entrambi i Paesi ne
uscirono devastati. L'Iraq si imbarcherà nell'invasione del Kuwait che
determinerà la sua definitiva caduta. L'Iran, dal canto suo, si concentrerà su
una caotica politica di ricostruzione e su una strategia dirigista di sviluppo
economico.
A metà maggio, pochi giorni prima del nostro arrivo in Iran, il ministro
degli Esteri iraniano, Kamal Kharrazi, si è recato a Baghdad. Era la prima
visita ufficiale di un alto rappresentante di Teheran in Iraq da diversi
decenni. A Najaf ha parlato con il leader spirituale degli sciiti iracheni, il
Grande Ayatollah Ali al-Sistani, per discutere del futuro dei due Paesi.
Incontrare al-Sistani è un onore che non è stato concesso a nessun
diplomatico americano. Nemmeno a Condoleezza Rice quando, pochi
giorni prima, aveva effettuato nella città una visita a sorpresa.
gradi.
Sheidan ha preparato riso e grossi gamberi alla griglia. E una pausa davvero
gradita, in una casa luminosa e fresca. Il televisore al piano terra riceve i
programmi di tutto il mondo grazie a due antenne paraboliche. Arrivati al
té, Sadeq ci propone di guardare un film in dvd. Una catastrofica allegoria
dell'attuale situazione iraniana. Si tratta di un'opera bandita dalle sale per
più di un anno prima che ottenesse il via libera dalla censura. Si intitola
Low altitude, «Bassa quota». Uno stravagante thriller-melodramma con un
tema dominante: la mancanza di speranza. Contrariamente al suo ben più
noto collega Abbas Kiarostami e al suo neorealismo drammatico, l'autore è
uno dei registi più provocatori nel ricco panorama cinematografico
iraniano. Ebrahim Hatamikia racconta una storia realmente accaduta: le
vicende di un operaio disoccupato e disperato, Ghassem. Accompagnato
dalla famiglia allargata, compresa la moglie incinta e un figlio
handicappato, decide di dirottare un aereo per essere portato in uno Stato
arabo confinante da cui spera di raggiungere l'America. Quando il
comandante gli spiega che i vicini arabi lo estraderanno, sgomento e furioso
partorisce un'altra idea: Israele. Dopo una serie di rocamboleschi tentativi di
atterraggio, alla fine l'aereo resta senza carburante e va a sprofondare nelle
acque del Golfo. L'azione è coinvolgente e gli attori molto bravi. Sadeq si
esibisce in una perfetta traduzione simultanea fermando il film ogni tanto
per fornirmi le chiavi di lettura più importanti: la madre dell'eroe che cerca
di difendere la sua famiglia a costo di uno scontro con i Pasdaran, i giovani
iraniani che vogliono andare negli Stati Uniti, i caratteri dei due Pasdaran,
uno falco ideologo e l'altro colomba pragmatica.
Emergono molti altri temi dell'Iran di oggi: la povertà e la disoccupazione
nel regno dell'oro nero, l'insufficiente sicurezza sociale, la crudeltà delle
punizioni nella Repubblica islamica. Uno dei membri della famiglia di
Ghassem racconterà di essere stato frustato 30 volte per aver bevuto
alcolici. Il film si chiude con l'immagine di una manina che riempie lo
schermo: è quella del secondo figlio di Ghassem nato poco prima che il
velivolo precipitasse. «Il messaggio di Hatamikia» mi spiega Sadeq «è che
il regime iraniano non riconosce i veri bisogni del suo popolo, soprattutto di
quelli più diseredati e più leali. A loro ha promesso per ventisei anni una
vita migliore.» Azzardo una considerazione meno pessimistica. Forse la
piccola mano del neonato alla fine del film è un segno di speranza.
«Significa che gli iraniani non si daranno mai per vinti.» Appunto.
CAPITOLO 11
Le torce che nella notte rischiarano Abadan con i loro aloni arancioni sono
il simbolo della rivincita di Sadeq e degli iraniani che furono costretti ad
«andare al fronte». La raffineria, distrutta dai ripetuti attacchi dell'aviazione
irachena, è stata ricostruita e nonostante abbia perso il titolo di più grande
del mondo è ancora la più importante del Paese. L'Iran è tornato a essere il
secondo produttore di petrolio dell'Opec, dopo l'Arabia Saudita. Le sue
riserve di greggio e gas naturale ne fanno uno degli attori principali nella
corsa all'energia dei prossimi decenni. Ma non basta: ripristinare gli
impianti di estrazione di Abadan, ridotti ad ammassi di rovine, è stato senza
dubbio più facile che trasformare un'economia già malata prima della
guerra in un sistema efficiente. L'oro nero che da oltre un secolo
rappresenta il fulcro della vita economica iraniana può finanziare una
dinamica di sviluppo oppure essere solo una rendita di posizione.
Passeggiando per Abadan, Sadeq mi mostra ciò che rimane della presenza
britannica: il cinema in mattoni a vista con la facciata Art Déco, le file di
cottage ben allineati con i prati e le siepi di arbusti, l'ospedale, la piscina, lo
yacht club.
D'Arcy era un inglese che aveva fatto fortuna con le miniere d'oro
australiane prima di interessarsi ai giacimenti di petrolio di cui i geologi
garantivano l'esistenza in Iran. Dalla dinastia dei Qajar, sempre pronti a
vendere tutto quello che il Paese possedeva, aveva ottenuto una concessione
di sessant'anni per esplorare il territorio. Era quasi in rovina quando
Reynolds, il suo ingegnere, gli comunicò la notizia che avrebbe cambiato il
destino suo, dell'Iran e del mondo intero. Il giacimento di Masjid-i
Suleiman si rivelò una scoperta importantissima, e nel 1913 venne costruito
un oleodotto di 215
Dopo che gli inglesi ebbero aperto la via in Medio Oriente, gli occidentali,
francesi e americani in testa, si precipitarono in quella breccia, scoprendo
nel 1927 i giacimenti in Iraq, nel 1932 nel Bahrein, nel 1935 in Arabia
Saudita e nel 1938
Il popolo attribuì le cause alla corruzione dei dirigenti e alla rapacità delle
potenze straniere. Da allora, uno degli obiettivi dell'Iran è stato quello di
recuperare la grandezza e l'indipendenza per riprendersi il controllo della
ricchezza petrolifera.
Fin dal 1921, con l'instaurazione del regime nazionalista di Reza Shah,
venne affrontata la questione di una ripartizione giusta dei profitti dell'oro
nero.
Si dovette però arrivare fino agli anni Cinquanta per assistere alla nascita di
accordi di suddivisione più equa, sotto la pressione di società come l'italiana
Eni di Enrico Mattei, o delle major americane che cercavano di estromettere
i britannici dalla loro riserva di caccia. In Iran le condizioni di sfruttamento
arrivarono a tal punto che ad Abadan, nel marzo del 1946, scoppiò una
rivolta con scioperi, manifestazioni, violenze e morti. Gli inglesi, che si
erano impegnati ad attenersi alle leggi del lavoro iraniane, in realtà non le
rispettarono mai. Con l'unico risultato di preparare il terreno all'uomo che
per anni avrebbe rappresentato il simbolo della lotta anticolonialista:
Muhammad Mossadegh. Difensore dei princìpi di giustizia e indipendenza
nel solco della tradizione sciita. E per questo destinato a essere silurato
dieci anni dopo.
Nel 1925, quando Reza Shah salì al trono, l'Iran (la cui superficie è cinque
volte quella dell'Italia) disponeva di 200
La riforma agraria, centrale nella «Rivoluzione bianca» del 1963 avviata dal
figlio Muhammad Reza per rinnovare l'Iran più arcaico, aggravò
ulteriormente la situazione. Le grandi famiglie vicine allo Scià non furono
però toccate da queste misure, proprio come le aziende agricole
industrializzate, i campi di té e le colture in serra. Nel 1970 un terzo dei
contadini era ancora senza terra e oltre tre quarti di quelli che ne avevano
possedevano appezzamenti troppo piccoli per garantirsi la sussistenza. Un
secondo esodo riempi le città ma, mentre in quel periodo la produzione
agricola aumentava a un ritmo del 2,5 per cento, i consumi salivano del 12.
Poi arrivò il boom petrolifero degli anni Settanta e lo Scià iniziò a spendere
senza moderazione. I soldi facili non venivano sempre ben investiti: oltre
alle spese militari, che superavano largamente i bisogni del Paese, il
monarca privilegiava l'importazione di beni di consumo piuttosto che lo
sviluppo dell'industria locale. L'inflazione aumentò, la disoccupazione
anche e con essa il malcontento. A Teheran nuovi edifici spuntarono come
funghi: la piccola città addormentata di 15.000 abitanti, scelta nel 1795
come capitale dai Qajar, ben presto divenne una metropoli di quattro
milioni di anime.
Nel 1988, alla fine della guerra contro l'Iraq, la Repubblica islamica era
fortemente indebolita ma non del tutto distrutta: circa 400.000 erano gli
iraniani uccisi, 750.000 i feriti, due milioni i senzatetto. La guerra,
combattuta in larga parte in territorio iraniano, toccò 16 delle 28 province
del Paese. Il settore petrolifero subì danni ingenti.
Il settore pubblico è noto per la sua inefficienza tanto che nemmeno gli
analisti iraniani lo nascondono più. «La produttività in Iran è troppo bassa,
a conferma della cattiva gestione delle aziende statali» sostiene Saed. «Ma
le fondazioni hanno perso buona parte del loro potere. La loro influenza
diminuisce, così come la loro importanza nell'economia.» È un argomento
che nessuno ama trattare in Iran, come se le bonyad avessero poteri
straordinari. Quel che è certo è che sfuggono alla legge e che molti le
accusano di controllare segretamente una vera e propria economia parallela.
Questa si sta sviluppando a ritmi vertiginosi, grazie anche al contrabbando,
attività che coinvolge almeno 70
Lo Stato, che ha dovuto affrontare prima il costo della guerra e poi quello
della ricostruzione, ha voluto farsi carico anche del prezzo della pace
sociale. E ha aumentato a dismisura le sovvenzioni per soddisfare le
aspettative delle classi più svantaggiate, secondo i dettami di una politica
populista e demagogica. Un sistema facile da instaurare in nome
dell'eguaglianza, più difficile da smantellare in nome delle forze del
mercato.
«La politica degli aiuti è un'idiozia» ammette il capo della Khodro Diesel.
«Le sovvenzioni potrebbero essere investite in progetti di sviluppo a lungo
termine e nella creazione di posti di lavoro nei settori nevralgici.»
Sulla carta l'Iran è un Paese ricco, con un Pii di 500 miliardi di dollari che
lo pone in testa a tutte le classifiche della regione. Il suo livello di crescita
medio varia tra il 5 e il 6 per cento annuo. La popolazione è molto giovane,
urbanizzata per il 65 per cento, e con un tasso di analfabetismo che è il più
basso dell'area. Ma ciò che più conta, l'Iran controlla dal 10 al 15 per cento
delle riserve mondiali di petrolio e ha annunciato nel luglio 2005 la
scoperta, vicino a Bushehr, sul Golfo, del secondo maggior giacimento del
pianeta. Per quanto riguarda le riserve di gas è secondo solo alla Russia. È
inoltre ricco di carbone, zolfo, fosfati e oro. Produce 1,3 milioni di barili di
greggio al giorno per il suo consumo interno e, secondo la quota fissata
dall'Opec, quotidianamente ne esporta circa 3,9 milioni. Tuttavia il reddito
prò capite è inferiore a quello che si registrava al momento della fuga dello
Scià, l'inflazione reale supera il 15 per cento e la disoccupazione riguarda
quasi il 20 per cento della popolazione attiva. Infine, secondo statistiche
sempre difficili da verificare, almeno il 40 per cento degli iraniani vivrebbe
sotto la soglia di povertà.
Le entrate dello Stato dipendono per il 65 per cento dal greggio e sono
quindi molto sensibili alle fluttuazioni del mercato, sul quale Teheran non
ha praticamente alcuna influenza. Alla fine degli anni Novanta, per
esempio, la caduta del prezzo dell'oro nero ebbe effetti devastanti
sull'economia del Paese. Più recentemente la sua rivalutazione, con punte di
70 dollari al barile, ha salvato invece l'Iran dalla bancarotta.
Il settore del gas e del petrolio iraniano soffre di un altro handicap, che
consiste negli enormi investimenti necessari per mantenerlo operativo o per
valorizzare nuovi giacimenti.
dollari al mese, gli ingegneri che guidano i taxi per sbarcare il lunario, i
giovani diplomati che sognano di andare all'estero per costruirsi un futuro:
tutti sarebbero d'accordo con la lucida diagnosi di Pollack. Nessuno lo è
invece sui rimedi.
Ho la sensazione che in questi tempi incerti la voce dei duri e puri sappia
farsi sentire. Ahmad Tavakoli ci riceve nel Centro di ricerca del Parlamento
che fornisce ai deputati le informazioni necessarie per poter legiferare con
cognizione di causa. Ci sediamo intorno a un tavolo da riunione. Le pareti
sono tappezzate di libri. Tavakoli è un uomo tarchiato, il suo volto è
nascosto da una corona di barba bianca. Indossa un semplice giubbotto di
tela che sottolinea l'aspetto modesto -direi quasi ascetico - del personaggio.
Me lo ricordo durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2001
dove era l'oppositore di Khatami per il campo conservatore. Arrivò secondo
con quasi il 16 per cento dei consensi contro il 78,7 del presidente
riformatore uscente. Anche allora fu uno strenuo sostenitore della giustizia
sociale e di un'economia di redistribuzione dei profitti del petrolio secondo i
bisogni della gente. A suo giudizio l'idea della Repubblica islamica è buona
ma è la sua attuazione a essere sbagliata.
Anche se conosce molto bene l'inglese, mi parla in farsi e lascia che due
persone prendano appunti.
«Il nostro obiettivo non è quello di imporre una tassa sul prezzo del
carburante come avviene in Europa. Noi vogliamo arrivare a definire una
strategia per produrre e consumare in modo più razionale.» Secondo il
nostro interlocutore, l'esempio della Paykan è molto chiaro: un'auto che
consuma 16 litri ogni 100 chilometri non può essere giustificata, anche se è
una produzione nazionale: «Avrebbe dovuto essere fermata quattro anni fa».
«Il regalo più grande che ci ha fatto è la libertà, e il rispetto per le classi più
povere. Era dotato di una grande autorità e aveva un amore infinito per Dio
e per il suo popolo.»
«Io! Non mi appoggia nessuno, solo il suffragio dei cittadini. Attacco il mio
governo, persino davanti a una parlamentare straniera. Ho passato quattro
anni in prigione per aver criticato una legge dello Scià sulla famiglia. Oggi
conta il voto della gente, non la volontà dei potenti.»
Due giorni dopo il nostro incontro, il primo turno delle elezioni rivela un
risultato che pochi avevano previsto.
Servono cinque milioni di nodi per fare un buon tappeto» mi spiega Ali.
«Due anni di lavoro, otto ore al giorno senza fermarsi mai.»
Non lo sapevo ancora, ma Ali si sarebbe ben presto rivelato un vero amico.
Cortese, premuroso, disponibile, ci fa da mentore e guida durante il nostro
soggiorno in Iran. Ci aiuterà, ci consiglierà mettendo le sue conoscenze a
nostra disposizione. È lui che mi permetterà, a Shiraz, a Mashhad e nella
stessa Teheran, di avvicinare quella realtà iraniana che tanto volevo scoprire
e che spesso si nasconde dietro le idee preconfezionate. Eppure nessuno
avrebbe detto che le nostre strade si sarebbero incrociate.
invece ci siamo organizzati per andare insieme a Isfahan, dove lui avrebbe
comprato dei tappeti accompagnato da Ali, suo factotum in Iran. E così
Marco, Taraneh, Jacques e io, un bel giorno ci siamo ritrovati tutti insieme
alle cinque del mattino sulla macchina di Ali. È un tipo non troppo alto, con
le spalle da lottatore, e in effetti lo è stato da adolescente.
«La cultura dei tappeti è vecchia quanto l'Iran.» Lo ascolto parlare mentre il
paesaggio sfila davanti ai nostri occhi.
Secondo la tradizione, il primo tappeto persiano è stato realizzato 2500 anni
fa. Ma fu nel VII secolo d.C. che quest'arte conobbe il suo momento di
gloria, conquistando tutte le corti reali della regione e giungendo addirittura
in Cina. Oggi, insieme alle riserve energetiche, al caviale e ai pistacchi,
costituisce un'importante risorsa per l'economia iraniana.
Nessuno dei suoi parenti voterà e nessuno ha mai votato nelle occasioni
precedenti. Rivendica un'indipendenza assoluta e ritiene che la casta
religiosa al governo sia in realtà una sorta di forza di occupazione, e non la
legittima espressione politica della maggioranza degli iraniani. Nessun
candidato incontra i favori di Ali, nemmeno quelli riformisti:
«Khatami è un traditore,» sostiene «il vero potere è sempre stato nelle mani
di Rafsanjani». Ma è altrettanto deciso sull'ipotesi che sia un esercito
straniero ad allontanare gli ayatollah da Teheran: «Se vedo un americano gli
apro la porta. Se però è un soldato lo uccido».
Ci rimettiamo in cammino.
Un po' più in là, ci sdraiamo per qualche istante sul prato dei giardini di
Chehel Sotun. Davanti a noi si staglia il palazzo
- prendono la strada di Teheran dove, una volta lavati, rasati e stesi al sole
per rendere i colori brillanti, saranno pronti per essere spediti in Italia.
«In tutte le regioni iraniane si fanno tappeti, e ovunque c'è buona e cattiva
qualità» mi spiega Ali «e, come per la moda, anche per i creatori di tappeti
ci sono le grandi firme. Ma non più di una cinquantina. La regola d'oro è
lasciar parlare il cuore: per comprare un tappeto bisogna amarlo. Solo dopo
ci si preoccupa dell'origine, dell'età e del prezzo.»
Ali ha da raccontare mille storie nelle quali questa antica e nobile arte
sembra appartenere a un altro mondo: le donne curde che tessono la lana in
un foro che si praticano in un'unghia, i bambini che scelgono i colori
seguendo le parole di una canzone cantata dalle madri.
Da Ahmed Mahmudian, nel cuore del bazar di Isfahan, Ali e Marco si
ritrovano seduti al centro di una montagna di tappeti. In ginocchio toccano,
valutano, accarezzano lana e seta. Io sto a guardare, ma all'improvviso mi
blocco davanti a un pezzo che sembra dimenticato in un angolo. E un
tappeto molto grande, dai bei colori oro, porpora e blu. Ahmed lo fa aprire e
appena lo vedo mi sembra fatto apposta per me. Anche Jacques è entusiasta.
Viene da Qom. Marco lo analizza e mi spiega subito che è un esemplare
magnifico: «Ha almeno una cinquantina d'anni, il disegno rappresenta il
"Gooi" tipico della città santa - una sorta di disegno cashmere - con 1
l'alternarsi di flora e fauna di rara bellezza ed è realizzato in seta e lana
kork, la più pregiata in assoluto, tinte a colori vegetali». Mi sembra perfetto
per il nostro appartamento di Roma. Ali ha ragione: un tappeto deve essere
scelto col cuore.
Con Ali siamo diventati amici. Una sera ci ha invitato nel suo appartamento
di Teheran. L'interno della casa gli assomiglia: originale, senza
ostentazione, con un'eleganza del cuore e dello spirito. Sua moglie è
deliziosa e giovanissima, l'ha sposata al suo rientro dall'Italia quando lei
aveva solo tredici anni. Tradizioni che faccio fatica a capire, ma non sono
qui per impartire lezioni a nessuno.
Ali mi racconta che d'ora in avanti sarà lui a occuparsi della gestione degli
affari di famiglia, anche se il parere del padre è ancora molto importante.
Uno dei capisaldi della società patriarcale in Iran, l'autorità paterna, è
incontestabile. Credo che avrei problemi ad accettare ciecamente questo
precetto nonostante io abbia molto amato e rispettato mio padre.
Ali non si stanca di condividere con noi la sua passione. Vede la loro
armonia là dove un occhio inesperto non noterebbe altro che un vecchio
tessuto. Vede l'originalità di un pezzo unico là dove a me sembra di
scorgere un disegno classico. Sa riconoscere il tappeto che non ha più vita
da quello che invece racchiude ancora l'energia della materia e del talento.
Sa valutare senza esitazioni il lavoro minuzioso di quegli artisti sconosciuti
che tessono capolavori per un compenso irrisorio. Dietro tutta questa
bellezza, questa poesia di colori e creazioni, c'è infatti una produzione
terribilmente obsoleta. Arcaica. Ingiusta. Donne e bambini che lavorano per
un salario da fame. Condizioni di scambio totalmente sfavorevoli per i
produttori, condannati a una sorta di moderna schiavitù. «La domanda che
dobbiamo farci è se il mercato è disposto a pagare di più» spiega Ali. «In
Europa siete pronti a sborsare cifre notevoli per un divano o una poltrona,
eppure si tratta di un mobile prodotto in serie. Invece storcete il naso se si
tratta di spendere un po' di più per un tappeto fatto a mano, che anche
nuovo è un pezzo unico.» Ma la domanda straziante è: quest'arte vecchia di
venticinque secoli può sopravvivere solo nell'ingiustizia?
Basta poco per fare un salto nel tempo di oltre 2500 anni. Basta inerpicarsi
per 111 scalini sotto il sole cocente. Basta la voce di Feridun che parla di
Ciro, di Dario e di Serse. Basta l'anfiteatro di montagne nel quale troneggia
Persepoli, grandioso ricordo di una delle più grandi civiltà della storia. Ed
eccomi in marcia accanto ai dignitari venuti dai quattro angoli della Persia
per celebrare l'antico Anno Nuovo, il Noruz, con il Re dei Re.
«Dario fece costruire questa scala con gradini bassi, in modo che i suoi
ospiti non arrivassero in cima senza fiato. Sono alti dieci centimetri,
l'altezza giusta» ci spiega Feridun, il ragazzo che accompagna me e Jacques
e ci racconta in un inglese un po' scolastico la magia di Persepoli.
Ho sempre desiderato visitare questo luogo mitico, e non per una mia
particolare attrazione per le rovine. Vivo a Roma, dove ogni sguardo
abbraccia secoli di storia, dove nel giro di pochi metri si passa dagli antichi
fasti di Cesare e Augusto al Rinascimento di Michelangelo o al Barocco del
Bernini. Roma vive di splendori ma è anche una città che segue l'evoluzione
del mondo: nel bene e nel male asseconda l'avanzare del tempo. Persepoli
invece si è fermata: immobile, nella solitudine dello spietato deserto nel
quale fu eretta, lontana dagli uomini e dalla storia. La sua bellezza
incomparabile è impressa sulle pareti del monte Rahmat a rappresentare
immutabile la forza del passato.
La via di accesso a Persepoli è degna della sua gloria passata. Una grande
distesa accompagna lo sguardo fino a un basamento sul quale si innalzano
le rovine della città maestosa. Con Jacques salgo i 111 gradini per arrivare
all'immensa spianata dove troneggiano i fusti delle colonne e i portici,
ormai crollati, di quella che fu la capitale di rappresentanza degli imperatori
achemenidi. La loro dinastia venne fondata nel 559 a.C, ma la costruzione
di Persepoli iniziò solo quarant'anni più tardi durante il regno di Dario il
Grande. Il sito è stato arricchito dai successori per centocinquant'anni,
prima di essere distrutto da Alessandro Magno nel 330 a.C.
A ogni tappa si potevano sostituire i cavalli stremati con altri più freschi per
proseguire il viaggio. Fu il primo servizio di corrieri al mondo» continua la
nostra guida.
Quando i dignitari arrivati dai confini del regno giungevano in cima ai 111
gradini, venivano accolti dal suono di lunghe trombe di bronzo di cui sono
stati ritrovati i resti quando negli anni Trenta venne dato nuovo impulso agli
scavi del sito archeologico. Venivano quindi condotti attraverso la «Porta di
tutte le nazioni» sulla quale Serse, che la fece costruire, ha lasciato la sua
testimonianza: «Sono Serse, il Grande Re. Il Re dei Re. Il Re di tutte le
terre. Il Re di tanti popoli.
Che sia mito o realtà, gli iraniani conservano del loro impero defunto la
visione di un paradiso perduto.
Nel 1501 la tribù indigena dei Safavidi conquistò Tabriz e ne fece la propria
capitale. I Safavidi sono sciiti e il primo scià della dinastia, Ismail, fece
dello sciismo la religione ufficiale del regno. Intendeva cosi sfidare il
sultano turco Selim, con il quale era in guerra, che era uno strenuo difensore
dell'ortodossia sunnita. La dinastia dei Safavidi diede vita a quello che
viene definito il terzo grande impero della storia persiana. Venne rovesciata
nel 1722 da un'invasione afghana.
Nel 1796 arrivarono al potere i Qajar, che vi sarebbero rimasti fino al 1925.
Durante il loro regno la Persia diventa un terreno di spartizione tra
l'Inghilterra e la Russia. La storia del Paese nel XIX secolo è segnata dalla
concorrenza di Londra, che intende mantenere la propria influenza sul
Golfo e sulla via terrestre verso l'India, e Mosca, potente vicino che cerca
invece di affermare il proprio controllo sulla parte settentrionale del
territorio. Questo antagonismo ha permesso paradossalmente alla Persia di
conservare una formale indipendenza: nessuno dei due contendenti infatti
poteva imporre un vero protettorato senza rischiare una reazione del rivale.
Il servilismo dei Qajar aprì la strada all'alleanza tra gli ulema e gli ambienti
laici riformisti che sin dalla fine del XIX
Nel 1891 la rivolta del tabacco - una sorta di simbolo nazionale - segnò una
vera svolta politica. Lo Scià aveva concesso l'autorizzazione per il suo
sfruttamento a un inglese, condannando alla rovina un settore di elevato
valore economico e affettivo. Il Paese venne scosso da manifestazioni
organizzate dagli ulema, appoggiate anche dai commercianti e dai
coltivatori di tabacco, fino a quando nel 1892 il regime decise di revocare la
concessione. Si trattò del primo movimento popolare quasi insurrezionale
contro l'ingerenza straniera, che vide anche la partecipazione attiva delle
donne nel boicottaggio della vendita e del consumo del tabacco.
Il primo Parlamento (il Majlis) viene eletto nell'agosto 1906 e la prima carta
fondamentale, che vede la luce nell'ottobre 1907, istituisce una monarchia
costituzionale. Tuttavia, sotto la pressione dei russi e con l'approvazione
degli inglesi, il Majlis venne sciolto nel 1911 mettendo così fine a quella
breve esperienza.
Shiraz non è mai stata associata alla potenza politica o religiosa, anche se fu
uno dei più importanti centri del mondo medievale islamico e divenne a
metà del Settecento capitale della dinastia Zand, che regnò sulla Persia per
un trentennio prima dell'arrivo dei Qajar. La città si dispiega lungo grandi
viali alberati. Fa caldo e si avverte nitida la presenza del deserto che inizia
proprio a sud dell'insediamento urbano. All'ingresso, affacciato sulla Porta
del Corano, sorge un enorme edificio che sembra il frutto
dell'immaginazione di un megalomane: un imponente blocco di cemento
abbarbicato sul fianco della montagna, un gigantesco triangolo capovolto
che sembra pericolosamente in equilibrio sopra le case. È un nuovo albergo,
il Bozorg, rimasto incompiuto. Anche un altro edificio, più discreto, domina
Shiraz: la casa di Rafsanjani.
Moliti Bibi Qashqai da bambina ci passava l'estate. Suo padre era il Khan, il
capo dei Qashqai, un tempo una delle più potenti e ricche tribù del Paese. Il
fratello è stato l'ultimo Khan di questa etnia di nomadi di origine turca che
esiste da almeno seicento anni ma che si è andata sempre più
sedentarizzando negli ultimi tempi. «I Khan sono dei principi. Noi siamo
quello che voi chiamate l'aristocrazia» mi ha spiegato orgogliosa Molki
Bibi quando sono andata a trovarla a Teheran. Ottantaquattro anni portati
divinamente nonostante le tante traversie della vita, mi aveva fatto
accomodare nel giardino davanti a un piatto di melone fresco. Piccola, con
occhi neri vivaci, si era rivelata subito una donna intelligente e ironica. «I
Qashqai ne hanno viste di tutti i colori» mi racconta. «Mio padre ha
combattuto gli inglesi durante la Prima guerra mondiale e nel 1942 lo Scià
ci temeva a tal punto che siamo stati mandati in esilio e mio padre è stato
ucciso per avvelenamento. Negli anni, decine di parenti sono stati
ammazzati e il nostro patrimonio è stato confiscato. Il peggiore di tutti è
stato Khomeini. All'inizio della Rivoluzione aveva fatto un accordo con noi,
ma poi l'idillio è finito, lo sono stata arrestata con mio marito e mio figlio e
ho passato due anni in prigione. Sono stata frustata e maltrattata. Una
mattina uno dei miei carcerieri mi ha annunciato con aria di sfida
l'esecuzione in una piazza pubblica di mio fratello Kosrow Khan. Io gli ho
risposto: "Cosa pensavi, che sarebbe morto tranquillo nel suo letto?".»
Molki Bibi è molto fiera, a volte sarcastica come sa essere chi è passato
tante volte dalle stelle alla polvere. Mi spiega che per i Qashqai è finita. La
maggior parte di loro ha ormai una fissa dimora, la transumanza la fanno in
pochi. Per fortuna sopravvive ancora la loro lunga tradizione di tessitori di
tappeti. «Io ho vissuto fino a dodici anni nella tribù.
Sono andata anche a sud di Shiraz alla ricerca di una delle tribù nomadi
Qashqai. E l'ho trovata con le sue tende in un pascolo vicino a un laghetto.
Le pecore e i bambini corrono nel sole. I cani abbaiano appena si
avvicinano estranei. Le donne indossano abiti dai colori vivaci, gli uomini
ci invitano a bere il té. Si sono insediati in questa rigogliosa vallata per
passare l'estate.
«Il regime non ci aiuta, ma a noi sta bene così. Non vogliamo che qualcuno
ci dica cosa dobbiamo fare. Lavoriamo duramente, ma nessuno ci
impartisce ordini» mi assicura lei.
Ci sediamo sotto la tenda di lana di capra che ripara sia dalla pioggia sia dal
sole. Beviamo latte di pecora appena munto e succhi di frutta freschi.
Non intendo trattenermi troppo a lungo a Shiraz. Non mi voglio perdere gli
ultimi giorni di campagna elettorale a Teheran con l'imprevisto faccia a
faccia tra i due volti della Repubblica islamica: Rafsanjani, la vecchia
guardia pragmatica, e Ahmadinejad, interprete della nuova generazione di
ultraconservatori senza turbante. Prima di lasciare la città, però, io e
Jacques ci ritagliamo il tempo per visitare il mausoleo di Hafez, il grande
poeta persiano. Ma senza dare troppo nell'occhio vogliamo anche
avvicinare una comunità il cui destino si è intrecciato con la storia della
Persia: gli ebrei.
«Per loro tutto ciò che il poeta scrive sul vino o sull'amore deve avere una
dimensione mistica, un legame con Dio.
«Gli iraniani adorano i poeti che cantano l'amore perché l'amore è la loro
prima preoccupazione» continua Sarah. «Non è come in Europa dove vi
sposate per interesse. Qui l'amore è sentimento.»
Tuttavia per precauzione gli ebrei hanno due nomi: uno ebraico e uno
musulmano, Abraham si chiama anche Manucher.
Mi parla anche dei suoi correligionari arrestati nel 1999 con l'accusa di
traffico di valuta. «All'inizio si trattava di un piccolo problema, ma in
seguito, quando l'affare è diventato pubblico, sono stati accusati di
spionaggio. Sono stati liberati grazie alle pressioni internazionali.»
Capisco il pericolo per gli ebrei in Iran di essere coinvolti nelle lotte
intestine dei circoli di potere: questo episodio aveva tutta l'aria di un attacco
degli ambienti più conservatori contro l'amministrazione riformista del
presidente Khatami. Si voleva mettere in imbarazzo un uomo considerato in
Occidente l'artefice della normalizzazione del suo Paese.
Nei fatti la vita degli ebrei è un po' diversa da quella che mi racconta il
prudente Abraham. La comunità iraniana è una delle più antiche della
Diaspora. Quando Ciro il Grande, fondatore dell'impero persiano, conquistò
Babilonia, nel 539
a.C, liberò tutti gli ebrei che erano stati ridotti in schiavitù. Per secoli
vissero pacificamente distribuiti tra la Babilonia e le province persiane.
Fino alla dinastia sasanide (224-636 d.C.) quando gli ebrei furono a
intermittenza bersaglio di repressioni. Seguì l'islamizzazione della Persia in
cui conobbero periodi alterni di persecuzione e tolleranza, ma solo con
l'ascesa al potere di Reza Shah, nel 1925, si sentirono veramente integrati.
Abbandonarono i ghetti, poterono iscriversi alle scuole pubbliche e
partecipare alla vita sociale.
Le radici dei Bahai sono a Shiraz. Tutto è cominciato nel 1844, quando
Mirza Ali Muhammad, un giovane sciita meglio noto con il nome di Bab, si
proclamò dodicesimo imam, il Messia atteso da tutti gli sciiti. Fin dalla
nascita, il suo movimento fu considerato perciò una deviazione e Bab pagò
con la vita la sua audacia: venne fucilato a Tabriz all'età di trentadue anni.
I Bahai non hanno diritto di voto ma devono fare il servizio militare. I loro
matrimoni non sono considerati validi e quindi i loro figli sono illegittimi.
Dall'inizio della Rivoluzione diverse centinaia di loro sono stati arrestati,
condannati e alcuni giustiziati. Eppure predicano un messaggio di pace e
tolleranza, insistono sull'importanza dell'istruzione e rispettano le leggi dei
Paesi in cui vivono. Difendono la parità dei diritti tra uomini e donne e
hanno riguardo per tutte le religioni.
Prima di rivolgere di nuovo lo sguardo verso gli ultimi raggi di sole che
illuminano il cielo, conclude con una convinzione che rispetto ma non
condivido: «Crediamo che Dio abiti in un mondo diverso. Il nostro è solo
un mondo materiale, un punto di partenza per raggiungerlo. Voglio che Dio
mi aiuti a morire per lui».
CAPITOLO 13
TRA LE BRACCIA DI ALLAH
Ci siamo alzati molto presto per andare a Mashhad, città santa situata nella
parte nord-orientale del Paese. Un santuario che viene visitato ogni anno da
quasi 12 milioni di pellegrini. E qui che toccherò con mano la devozione
religiosa degli iraniani. Voglio vedere di persona il fervore che così spesso
ha determinato la storia di questo Paese. È una religiosità viva, radicata nel
quotidiano: Mashhad è un luogo di emozioni, mentre Qom è il centro del
sapere e del potere.
L'imam Reza, discendente del profeta Maometto, nacque nel 765 a Medina,
oggi in Arabia Saudita. Era l'ottavo nella linea di successione degli imam
sciiti. Suo padre, il settimo imam, morì nel 799 in una prigione di Baghdad
all'epoca del califfo abbaside Harun al-Rashid. Reza aveva trentacinque
anni quando subentrò al padre come pretendente al potere temporale della
comunità di credenti. Gli sciiti riconoscono come loro guide spiritual i e
capi politici una stirpe di imam cominciata con Ali, il cugino e genero del
Profeta.
Ali, fermamente convinto di essere stato designato come successore da chi
lo considerava come un figlio, credette che il potere gli fosse stato tolto
ingiustamente alla morte di Maometto. Sarà designato quarto califfo ma
morirà presto assassinato. Da allora i suoi seguaci, gli sciiti, sono in aperta
ribellione contro l'autorità della maggioranza sunnita, che oggi rappresenta
l'85 per cento del mondo musulmano. La linea degli imam continua con il
primo figlio di Ali, Hassan, ma soprattutto con Hussein, eroe della battaglia
di Karbala, in Iraq, dove è stato sepolto. Anche Reza venne perseguitato dai
califfi sunniti, come i predecessori.
Con i suoi tratti eleganti, gli occhi scuri e sorridenti, il foulard a coprirle la
testa e la borsa stretta in mano, mi viene quasi voglia di proteggerla. Non
saprei dire né da chi, né da che cosa. Ma soprattutto non sono sicura che ne
abbia bisogno. La sua fede la rende forte come una roccia e l'intenso legame
che ha stabilito con la figura dell'imam Reza le da molte certezze. La rende
sicura di sé e del suo destino su questa Terra.
Per Jacques, decisamente troppo straniero con i suoi occhi e capelli chiari,
riuscire a entrare è praticamente impossibile.
Ma io, nascosta sotto il mio chador e guidata dalle mie amiche, voglio
provare a intrufolarmi nel santuario per vedere da vicino il luogo di
raccoglimento che per la sua bellezza e sacralità richiama da secoli schiere
di credenti. Aspettando il tramonto, decidiamo di fare una prima
ricognizione tra le mura dell'immenso complesso dove è consentito
l'ingresso anche ai non musulmani. La Fondazione dell'imam Reza è una
delle più ricche del Paese e il mausoleo comprende scuole religiose,
biblioteche, uffici, cortili, musei, sale maestose e due moschee. Una grande
isola circolare nel cuore della città. Rafie ci accompagna a esplorarla.
Ci rifugiamo quindi nel museo, sia per sfuggire al sole che incendia il
marmo del cortile, sia per evitare gli sguardi che ci seguono
incessantemente. Si possono ammirare le vestigia della città di Neishapur
che dominava la regione prima che Gengis Khan e le sue orde di cavalieri la
riducessero in cenere nel 1221. Il grande guerriero mongolo non solo bruciò
tutti i libri, ma massacrò anche milioni di abitanti che vivevano in queste
terre. «Che non resti né gatto né cane»
avrebbe detto ai suoi uomini prima di dare il via alla carneficina. Accanto
alle porte in argento e oro, che chiudevano l'accesso alla moschea
dell'imam, si nota un affresco raffigurante la battaglia. E esposta anche la
gabbia che proteggeva il feretro e gli straordinari tappeti ricamati di perle.
Oltre ai tesori del passato affidati al museo, scopriamo opere meno
prestigiose ma donate con la stessa generosità: medaglie di sportivi, una
coppa del campionato asiatico di calcio, trofei olimpici, di matematica, di
informatica e di concorsi filatelici. Dio accetta tutte le profferte con uguale
riconoscenza.
Per colazione Rafie ci porta in un villaggio alle porte di Mashhad. Quando
arriviamo, un profumo di grigliata ci guida verso il ristorante attraverso una
piccola vallata dove, tra gli alberi rigogliosi, scorre un ruscello.
Sicuramente un tempo i viandanti sulla strada di Kabul o di Herat dovevano
apprezzare molto quest'oasi fiorita. Al centro del giardino del ristorante, una
fontana dal fondo blu disseta i piccioni, che per bere tuffano tutta la testa
nella vasca. Ci togliamo le scarpe e ci sediamo su una panca coperta di
tappeti, dove si può mangiare semisdraiati e poi riposarsi sui grandi cuscini,
cullati dalla musica e dal profumo dei narghilè.
Per noi musulmani "tante sono le strade che portano a Dio quanti sono gli
esseri umani". Purtroppo esistono persone che hanno distorto il messaggio
del Corano per i loro scopi, e questo è un grave errore. Jihad significa
alzarsi e difendersi, il jihad deve essere lanciato solo quando i nostri nemici
ci attaccano.»
Secondo Zohreh, che non sembra affatto una pericolosa sovversiva, «il
sistema islamico deve cambiare. E necessaria una netta separazione tra fede
e politica, e anche sul velo ci dovrebbe essere la totale libertà di scelta».
Sono le 19,30 quando arriviamo a uno degli ingressi del mausoleo sulla
Tabarsi Street. Mi sento un po' a disagio.
«Iraniana?». Non c'è bisogno di parlare il farsi per capire il senso della
domanda che perentoria riesce a sovrastare il brusio delle conversazioni e lo
scalpitio dei piedi. Sto per girarmi e recitare la parte dell'innocente. «Vale,
vale!», il tono di Taraneh è autoritario e non ammette repliche, «Certo,
certo!». Sento la sua mano che mi spinge in avanti. Ce l'abbiamo fatta.
«D'ora in poi, nemmeno una parola, occhi bassi e fai quello che facciamo
noi» mi sussurra all'orecchio.
Sono entrata dove non avrei potuto, ma sono sicura che l'imam Reza e tutti i
suoi fedeli mi perdoneranno. Sono venuta in amicizia.
Una donna si ferma davanti a noi. Tiene per mano la figlia e ha lo sguardo
accigliato. Si lancia in una filippica di cui capisco solo la parola «chador».
Ho la sensazione che mi stia guardando. Sarò stata scoperta? Mi sistemo il
foulard, controllo che non si vedano i capelli e tiro il velo sotto il quale
vorrei scomparire. Taraneh risponde con quel suo tono che sembra sempre
un po' arrabbiato. La voce è forte e severa. Le starà intimando di proseguire
per la sua strada poiché, anche se sotto quella cappa nera ci fosse una donna
straniera, non sarebbe affar suo! Ho paura che tutto questo non serva a nulla
e mi preparo a battere rapidamente in ritirata. La donna si allontana
trascinandosi la sua bambina incuriosita. Mi denuncerà? Quando la
interrogo con lo sguardo, Taraneh sembra tranquillissima.
Stupita le chiedo: «Ma perché voleva il tuo chador per la figlia? La piccola
era completamente coperta, tutta vestita di nero».
«Si prega meglio con un chador a fiori» sbuffa Taraneh che ogni tanto
sembra averne abbastanza di dovermi spiegare anche le cose più evidenti.
Eccomi, sono arrivata a Dar al'Velayet, il luogo sacro che ospita le spoglie
di Reza, discendente del Profeta.
«Dietro alla storia dello Shahnameh c'è tutta la filosofia della lotta contro
gli usurpatori, contro un potere che non vuole ritirarsi. Firdusi impartisce
una lezione ai dittatori: anche se resisterete per mille anni, un giorno
arriverà qualcuno che vi spodesterà.» Ho l'impressione che questa lezione
valga ancora per tutti in Iran.
«Ma come spesso accade, le cose non sono semplici come sembrano»
continua Muhammad. «I personaggi di Firdusi sono continuamente
combattuti tra il Bene e il Male, tra i loro interessi e i loro ideali. Così
quando Rostam uccide il figlio Sohrab lo fa per errore: fino all'ultimo
istante non sa di combattere contro suo figlio. La sua morte è una tragedia,
ma noi la interpretiamo soprattutto come la dimostrazione dell'impossibilità
nella mitologia persiana che un figlio possa uccidere il padre.» Il contrario
di quanto avviene nel mito occidentale di Edipo. A dimostrazione
dell'incapacità degli iraniani di sbarazzarsi dell'immagine e del potere del
patriarca. E a conferma della difficoltà di una società di confrontarsi con il
cambiamento e la modernità.
Siamo tutti sfiniti. Osservo un anello verde al dito di Zohreh. «È una pietra
che ho comprato alla Mecca. Una settimana a Medina, tre giorni nel
deserto, tre giorni intorno alla Kaaba e di nuovo tre giorni nel deserto. È il
grande pellegrinaggio che ogni buon musulmano deve fare almeno una
volta nella vita. Ci tornerò, e questa volta pregherò anche per te e Jacques.»
«La credibilità del clero che ha fatto politica ne ha risentito, mentre non ne
ha risentito quella di chi ne è rimasto fuori.»
Chi mi parla è uno che sa. Ho incontrato l'ayatollah Youssef Sanei a Qom,
dopo aver discusso di donne e Islam con la sua collega Zohreh Sefati.
E uno dei pochi Grandi Ayatollah che risiedono a Qom. Quando critica il
regime, il regime lo ascolta. E si irrita.
«Ai tempi dell'Imam le cose non sarebbero andate così» afferma con grande
rammarico il vecchio combattente compagno di Khomeini nella battaglia
contro lo Scià.
«Una prova che l'eredità della Rivoluzione è ancora viva sta in queste
elezioni presidenziali» dice convinto. «Nella dimostrazione lampante della
grande maturità politica acquisita dal popolo, nonostante gli imbrogli.»
Gli chiedo se sa dirmi chi detiene veramente il potere in Iran. Lui riflette a
lungo e poi risponde: «Non lo so».
Franchezza o prudenza?
CAPITOLO 14
SOTTO IL CHADOR
Quando glielo faccio notare Pardis scoppia a ridere e mi spiega che tutte le
sue amiche non fanno altro che spronarla a seguire il loro esempio, a
cominciare dalla rinoplastica: «Trovo che questa epidemia di nasi rifatti sia
uno dei tanti sintomi del malessere di questo Paese».
«Fanno più sesso di noi in Occidente, perché per loro è da sempre un frutto
proibito. Sono decisamente molto creativi sia nella scelta dei luoghi che
delle pratiche sessuali. Fanno l'amore nei bagni pubblici, nei magazzini
abbandonati, in montagna, nei luoghi più appartati. Quello che mi ha
davvero colpito è la frequenza delle orge, che si consumano nelle case
private in assenza dei genitori.»
Mi sembrano lontane anni luce le immagini che uno dei più bravi operatori
della Rai, Franco Stampacchia, aveva ripreso nel Park Mellat durante uno
dei nostri viaggi in Iran, quando le prime coppie si prendevano timidamente
per mano nascoste dietro ai cespugli. Le regole di comportamento imposte
dalla Repubblica islamica sono quanto meno irrazionali. «Sono maniaci»
dice Taraneh. «Sugli autobus noi donne dobbiamo stare sedute dietro,
mentre nelle cuccette dei vagoni letto siamo tutti ammassati nello stesso
scompartimento.» In effetti non esiste una netta linea di demarcazione. Per
esempio, le donne sono divise dai maschi negli uffici pubblici, ma poi si
ritrovano pressate insieme a loro come sardine negli ascensori. Anche negli
aeroporti ci sono entrate separate ma sull'aereo siedono le une accanto agli
altri.
«Che cosa fanno le ragazze quando restano incinte, visto che in Iran l'aborto
è illegale?»
«Ti racconto che cosa accade a una giovane donna che vuole comprare dei
preservativi, ovvero quello che è successo a me. Il farmacista mi ha
sottoposto a un vero e proprio interrogatorio, chiedendomi se fossi sposata,
dov'era l'anello nuziale, come mai mio marito non era con me. Essendo io
nubile e anche un po' imbarazzata per tutte queste domande di fronte ad altri
clienti, ho preferito rinunciare. Nel Paese del gossip molti ragazzi hanno
paura di essere colti in flagrante.»
«Una mia amica iraniana mi ha raccontato che proprio per restare vergini le
ragazze praticano molto il sesso orale.»
«Quando ho cominciato la mia ricerca, nel 2000, la fellatio era molto
diffusa, ma adesso le giovani sembrano più consapevoli dei loro diritti,
rivendicano il proprio piacere e la considerano umiliante. Però praticano
molto sesso anale.
«Direi di sì. Quando vado ai loro party sono vestite in maniera provocante,
ballano in modo sensuale, usano droghe -
Nei primi anni della sua dittatura, Khomeini tentò di bandire i saloni di
bellezza bollandoli come «luoghi di perdizione». Alla fine, tutto quello che
riuscì a ottenere fu una schiera di coiffeur uomini disoccupati.
«Gli uomini in questo Paese pensano di poter fare di noi quello che
vogliono. È come se ci disprezzassero» prosegue Mitra. «Ma con tutta la
loro repressione hanno ottenuto esattamente il contrario: il tasso di infedeltà
nelle nostre coppie, per esempio, è altissimo.»
«Oh no! Lui non osa farlo perché io sono ricca di mio e anche la casa in cui
viviamo mi appartiene.»
«E lei ha un amante?»
Il prezzo medio per questo tipo di intervento, in realtà, va dai 1000 ai 4000
dollari. Ci sono però anche medici che operano per 400-500 dollari, seppur
con risultati non sempre brillanti. L'età delle donne che si sottopongono
all'operazione va dai nove ai quarantacinque anni. Girare per le grandi città
iraniane e incontrare continuamente nasi bendati è ormai una cosa normale.
Inizialmente credevo si trattasse di vittime di incidenti, solo dopo ho capito
che mi trovavo davanti a una specie di «epidemia dei nasi».
Il dottor Ahmadi mi conferma che ormai non sono più solo le donne, ma
anche gli uomini a volere un naso meno
Mehri è accompagnata dalla zia, Zehri, una bella quarantenne con un naso
assolutamente normale anche se non perfetto.
Esordisce dicendo che se fosse più giovane non esiterebbe a rifarselo. Oggi
Mehri vedrà per la prima volta la nuova conquista ancora nascosta dalle
bende. Ha l'aria sofferente e tesa. Si piacerà ancora? Il dottore le toglie i
cerotti e poi le porge uno specchio. La sua prima reazione è di perplessità:
«Non sarà troppo all'insù? E poi mi sembra di non respirare troppo bene...».
La ragazza si alza e va a guardarsi nello specchio più grande toccandosi il
naso ancora incredula.
Chiede l'opinione della zia, che la rassicura dicendo che è molto meglio di
prima. Anch'io e Taraneh la incoraggiamo a proseguire tranquilla lungo il
nuovo corso estetico, anche se per la verità il naso sembra scolpito con
l'accetta. Avendo però visto la foto dell'originale devo ammettere che il
risultato finale si può considerare soddisfacente.
«Purtroppo la maggioranza delle donne pensa che non sia necessario anche
perché, come lei sa, l'amore rende ciechi»
Zehri ribatte confermando che la vita da single è molto più diffìcile: «Una
mia amica nubile di quarantanni per riuscire ad affittare una casa ha dovuto
presentare come garanti il fratello e la mamma. Però, cara Mehri, ti dico che
nonostante le difficoltà è comunque meglio non sposarsi. Impegnati per la
tua indipendenza economica e ce la farai».
Il suo volto si riga di lacrime. Si dice certa dell'infedeltà del marito che per
stare tranquillo con le sue amanti va a Dubai, in Germania o in Canada. Le
chiedo se non teme che un giorno torni a casa con l'Aids e lei mi risponde:
«Sono terrorizzata dall'Aids, ma lo è anche lui».
«Come fa a saperlo?»
«Perché una volta, durante una grande festa di famiglia, ho ascoltato le
conversazioni degli uomini, seduti in un sa-lottino a parte: si confermavano
a vicenda che nelle loro avventure extramatrimoniali, per non correre rischi,
usavano il preservativo.»
Le racconto che quella mattina, per la prima volta, ho visto per le strade di
Teheran cartelloni pubblicitari che vorrebbero sensibilizzare l'opinione
pubblica sull'Aids, in cui però ci si rivolge solo alle donne.
In Iran, appena si tocca il tasto della vita privata, le ragazze come le spose si
trasformano in fiumi in piena, mosse dal bisogno di confrontarsi con le
donne occidentali che considerano molto più fortunate.
Nel Ciclo del Circo esposto nel salone d'entrata, una serie di piccoli quadri
coloratissimi raffigura situazioni e personaggi circensi in cui prevalgono
donne discinte e sensuali nei loro corpi prorompenti.
«Tutte le opere dei giovani artisti iraniani parlano in qualche modo di sesso
ed erotismo. Mansureh vuole combattere l'oppressione mettendo in mostra i
corpi femminili, compreso il suo, ma non so se riusciremo ad arrivare alla
fine di questa esposizione».
Ci incontriamo nella sede della Proton, che insieme alla Mazda e alla
Hyundai sponsorizza la promettente pilota che si sta allenando per
partecipare ai campionati europei. Nel cortile sotto gli uffici Laleh sta
ultimando un'intervista con la televisione britannica, seduta nella sua
fiammante auto da competizione. In questo periodo elettorale è diventata
suo malgrado una portavoce dell'Iran più moderno e si concede ai
giornalisti di mezzo mondo. È una ragazza molto carina, piccola ma
armoniosa, ai piedi un paio di stravaganti scar-pette da ginnastica bianche
con brillantini rosa. Sicura di sé come chi sa di essere capace. Benché gli
ayatollah amino poco la sua attività agonistica, è consapevole che
l'appartenenza a una famiglia ricca e importante rappresenta
un'indispensabile protezione.
«Ho cominciato a guidare a tredici anni sulla grande Buick di papa, che più
tardi, quando sono entrata nel mondo dei rally, mi ha dato una mano per
convincere quelli della Federazione a iscrivermi alle competizioni.»
La storia del rapporto tra donne e sport in Iran è, come tante altre, tortuosa.
Durante la Rivoluzione le attività sportive erano praticamente scomparse
dall'orizzonte femminile perché il clero proibì ai ragazzi e alle ragazze di
allenarsi e di competere insieme. E alcuni falchi nell'establishment
religioso, oltre a considerare l'esercizio fisico frivolo e immorale, arrivarono
a stigmatizzare il ciclismo, l'equitazione, la vela e il jogging come
sessualmente provocatori. In seguito le cose sono migliorate, ma esistono
tuttora barriere invalicabili. Ricordo che ci vollero giorni di trattative nel '99
per ottenere l'autorizzazione a riprendere un gruppo di ragazze che
praticavano karatè, ma fu possibile solo perché erano velate. Nella grande
palestra dove si allenava la squadra di pallacanestro, invece, le riprese
furono proibite e ovviamente fu vietato l'ingresso agli uomini.
E stata una delle figlie di Rafsanjani, Faezeh, a battersi per il diritto delle
ragazze a praticare sport. Lei stessa era stata per anni presidente della
Federazione sportiva femminile, oltre che membro del Parlamento fino al
2000. In quell'anno alle elezioni politiche non venne però più rieletta e suo
padre arrivò addirittura ultimo tra i candidati conservatori.
Sembra più una star che difende il suo marchio che una suffragetta che si
batte per le sue sorelle.
«Non voglio parlare di politica. Anche perché se non sei un politico devi
stare attento a come parli» si affretta a dire.
«Certo che per noi è una situazione insolita, visto che in teoria non
potremmo neanche lavorare insieme, ma è un vero piacere poter contribuire
al successo di una ragazza così brava e cosi motivata.»
Laleh ribadisce più volte che non esiste alcuna differenza tra uomini e
donne e che è tutta questione di autostima: «Non c'entra nemmeno la
cultura islamica. Il problema è che gli uomini sono più scaltri e più
razionali nelle loro decisioni. E
Le amano così poco che alla televisione pubblica, controllata dalla Guida
Suprema, nonostante avesse tolto il casco e messo un velo prima di salire
sul podio, Laleh non è mai stata vista.
Il chador che piange, il chador che ride. Nel tentativo di capire meglio la
questione sono andata con Taraneh a incontrare la donna che dovrebbe
avere tutte le risposte ai miei interrogativi: la figlia di colui che ha inventato
la Repubblica islamica, Zahra Khomeini Mostafavi. L'appuntamento con la
presidente della Women's Society of Islamic Republic of Iran è alle dieci.
L'associazione ha sede in una delle ville confiscate durante la Rivoluzione.
All'ingresso, nel giardino, si trova una guardiola accanto al bordo di una
grande piscina che da ventisei anni non vede né acqua né bagnanti.
Veniamo accolte da due ragazze col chador nero che ci fanno accomodare
su due divani grigi dove dorme un bambino. In un angolo, un televisore
acceso mostra Saddam Hussein, nemico storico degli iraniani. L'ex dittatore
ha appena fatto sapere di voler essere processato in Svizzera. Durante il
servizio scorrono le immagini delle atrocità di Halabja, dove nel 1988
migliaia di curdi vennero uccisi dal tiranno con il gas nervino. Su una
parete della sala d'attesa è appesa la foto di Ahmad, il figlio più giovane di
Khomeini morto nel '95, che porta un turbante nero su una folta barba scura.
Dopo un quarto d'ora entriamo in una piccola stanza semibuia molto
austera, dall'arredamento essenziale, resa ancor più gelida dall'aria
condizionata. Ci sediamo sui sofà di velluto beige, davanti a una grande
scrivania che sarebbe vuota se non fosse per due cornici con i ritratti di
Khomeini e Khamenei e una piccola bandiera iraniana. Sul tavolino di
fronte a noi una tazza di tè e un piatto di dolci tipici.
Arriva Zahra Khomeini: tutti me l'hanno sempre descritta come una donna
dura e poco simpatica. Dopo l'iniziale atteggiamento sospettoso, nel nostro
colloquio di un'ora sarà invece molto affabile. A volte le mie domande la
faranno ridere di gusto, altre la commuoveranno fino alle lacrime. E una
donna di sessantacinque anni ben portati e da dietro gli occhiali risaltano
due bellissimi occhi verdi ereditati, come mi spiega, dalla mamma. L'unica
traccia di trucco è un tocco di matita marrone sulle sopracciglia. Sotto il
chador porta un fazzoletto scuro e un tailleur mélange. È una docente
universitaria di filosofia orientale. Filosofi preferiti: Mullah Sadra, filosofo
mistico che ha guidato il rinascimento culturale nella Persia del XVII secolo
e... Cartesio con il suo cogito ergo sum. Mi pare una buona premessa per la
nostra discussione.
«Certo, non tutto è risolto, ma grazie alle leggi del nostro Parlamento molte
situazioni sono migliorate. Quello che ha predicato l'Imam si è realizzato:
oggi gli uomini hanno capito che le donne vanno rispettate.»
«Le donne se vogliono lavorano, altrimenti stanno a casa. Solo quelle meno
qualificate vengono escluse dal mercato del lavoro.»
«I dati generali smentiscono quello che lei dice. L'ultima ricerca, condotta
in dieci regioni del Paese, rivela che il 28 per cento delle donne ha urgente
bisogno di assistenza psicologica e di farmaci antidepressivi. Non le sembra
un dato inquietante?»
«Intanto, se alcune hanno difficoltà psicologiche non vuoi dire che valga
anche per tutte le altre. Io sono ottimista per natura, vedo sempre il
bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto. Poi sa, i problemi della camera
da letto non si vengono in realtà mai a sapere. Ci sarà qualche fatto
increscioso e noi facciamo quello che possiamo. In tutto il mondo ci sono
problemi, ma da noi la gente è giovane, sana e felice!»
«Io per la verità incontro molta gente insoddisfatta e la maggior parte delle
donne chiede il diritto di scelta sul velo.
Vanno in giro con foulard colorati e manteau sempre più aderenti e più
corti.»
Taraneh le ricorda gentilmente di far parte di quel 2 per cento che votò «no»
al referendum, pur avendo partecipato alla Rivoluzione. Le spiega di aver
capito ben presto che obbligare le donne a nascondersi sotto una cappa nera
non avrebbe portato nulla di buono. Ne approfitto per chiedere alla signora
Khomeini di spiegare a un'occidentale perché Yhijab è tanto importante.
Ma sta scherzando o parla sul serio? Non riesco a capire che cosa si celi
sotto il suo umorismo un po' sopra le righe.
«Guardi, mio marito ha visto solo me e pensa che io sia ancora bella! E
sono certa che non guarda le altre.»
Mi sembra che il discorso abbia preso una piega quasi surreale, ma voglio
andare fino in fondo.
«Lo sa che tanti uomini navigano su internet solo per vedere i siti porno e
chi ha l'antenna satellitare può vedere tutte le tv straniere?»
«Mio marito vede solo la tv di Stato iraniana. Altri guarderanno anche
quelle porcherie, ma alla fine tornano dalla moglie, perché sanno che quelle
donne lì non le possono avere. Un uomo islamico, se una donna non lo
provoca, resterà con la moglie per sempre.»
«Forse anch'io, ma vede, è proprio per questo che ci vuole il velo. L'Islam
dice che le donne non devono essere sexy davanti agli uomini, escluso il
marito.»
«Guardi che abbiamo una vita privata molto ardente, anche con Yhijab»
«Era straordinario, dai suoi comportamenti capivamo cosa era giusto e cosa
sbagliato. In privato era gentile, affettuoso e molto liberale. Per esempio, se
volevo uscire non mi chiedeva dove andavo, ma diceva solo: se puoi stai.
Oppure quando rientravo a casa non voleva sapere dove ero stata, ma
diceva: dimmi...»
«Non deve essere stato semplice avere un padre così autoritario-autorevole.
Non ha nulla da rimproverargli?»
«Assolutamente no. Ha fatto solo del bene e teneva sempre conto del
contesto. Per esempio a me da ragazza piaceva molto mettere lo smalto
colorato sulle unghie. Lui mi prendeva le mani, le accarezzava e diceva:
"Per farmi contento non metterlo, perché siamo una famiglia di religiosi e
non sta bene".»
Zahra scoppia in una grande risata quasi liberatoria. «Lo toglievo ma poi lo
rimettevo subito.»
«Sì, due volte. La prima durante la guerra con l'Iraq. Alla I televisione
passavano le prime terribili immagini dei nostri \
«E la seconda?»
«Perché?»
Zahra resta in silenzio per qualche minuto e io mi scuso per averle fatto
rievocare momenti così dolorosi. E tra me e me mi chiedo quale fosse stato
il motivo del pianto di Khomeini. O forse si trattava di un problema di
Zahra? In ogni caso, mi viene subito in mente la circostanza della firma del
cessate il fuoco con l'Iraq nel 1988. Si dice che l'Imam, che aveva giurato di
finire la guerra solo con la netta sconfitta di Saddam Hussein, avesse
commentato così: «Ho dovuto bere l'amaro calice». Khomeini pare avesse
in realtà una straordinaria capacità di nascondere le sue emozioni e di
assorbire il dolore. Non avrebbe speso una lacrima quando gli venne an-
CAPITOLO 15
IL BAZAR DELLA PAROLA
“In Iran se oltrepassi la linea rossa rischi di pagare un prezzo molto alto” mi
spiega la mia amica Farzaneh Rostaee editorialista e caporedattore di
politica estera di «Shargh», il quotidiano più liberai del Paese.
C'è chi ha definito l'Iran come la più grande prigione di giornalisti in Medio
Oriente. E in parte vero, in parte falso.
Fin dai primi incontri c'è stata una buona intesa tra noi, forse perché siamo
entrambe impegnate nella battaglia per un'informazione pluralista.
«Ma con tutte queste restrizioni come potete esercitare il senso critico nei
confronti del potere?».
«Con grandi riserve, ma direi di sì, anche perché esistono decine e decine di
giornali. Ma certamente non basta. Siamo un potere costituito: qualche
volta vinciamo, altre perdiamo, però rispetto a dieci anni fa di strada ne
abbiamo fatta. Per esempio, allora se muovevi una leggera critica alla
gestione del ministero del Petrolio rischiavi l'arresto per oltraggio ai valori
dell'Islam. Non c'è dubbio però che gli arresti indiscriminati di giornalisti e
weblogger sono intollerabili. Siamo purtroppo ancora lontani dallo Stato di
diritto.»
Akbar Ganji, dopo varie sentenze, è stato condannato a sei anni di carcere.
In questo mese di giugno, dopo un ennesimo sciopero della fame, per
ragioni di salute è stato rilasciato sette giorni per poi tornare subito dietro le
sbarre.
Omid Memarian invece è uno di quelli che ha scelto tre anni fa di andare
on-line con la sua faccia e con la sua firma. Ha un bel viso aperto dai
lineamenti regolari, con occhi intelligenti che ti scrutano attentamente... in
alto a destra nella pagina web. E uno degli arrestati dell'ottobre 2004,
rilasciato dopo 55 giorni di cella di isolamento su cauzione di 55.000 euro.
Trentunenne di Teheran, si presenta così nella versione in farsi e in inglese
del suo blog «Iranian Prospect»: «Omid Memarian, giornalista iraniano, si
occupa in questo weblog di democrazia e società civile, soprattutto di temi
sociali nell'Iran di oggi, e parla di questioni di attualità e di qualche
esperienza personale».
Con lui sono state arrestate altre 22 persone, tra giornalisti, blogger e tecnici
informatici. Da due anni Omid rivendicava maggiori libertà civili sul suo
sito e sui giornali riformisti, si occupava dei problemi dei giovani, chiedeva
il rispetto dei diritti umani e delle donne.
E più tardi, il 19 febbraio 2005, scrive sulla sua deten-zione: «Da due mesi
cerco di tornare a una vita normale. Ma è difficile ricominciare da capo. Ho
paura del buio e non riesco più a dormire. Il silenzio mi inquieta. Se
qualcuno alza la voce mi mette ansia. Dopo il rilascio cerco di essere
ottimista. Ma non posso dimenticare la mia vita in una tomba, la sogno tutte
le notti. Non mi sento più al sicuro da nessuna parte».
In Iran ci sono oggi circa 200.000 weblog, di cui quasi 70.000 attivi.
«Internet è la piccola finestra sul mondo per milioni di iraniani» mi spiega
Omid. «Il regime ha filtrato centinaia di siti, ma la gente trova sempre la
maniera di aggirare l'ostacolo. Credo che la seconda rivoluzione arriverà
grazie a internet.»
«Sì, per il momento cambio aria. Almeno per un anno vado a studiare a
Berkeley, in California. Ma poi tornerò perché è nel mio Paese che voglio
fare qualcosa di buono.»
«Chi erano quelli che ti hanno preso?» «Erano gli stessi serial killer del
1998, quando a novembre e dicembre furono ammazzati intellettuali e
attivisti politici. Una struttura parallela dei servizi segreti. Erano vestiti in
abiti civili e non hanno mostrato alcun mandato d'arresto o di perquisizione.
Non mi hanno nemmeno detto qual era l'accusa.»
«Iran News»: un uomo in piedi davanti alla macchina del fax che dice: «Ho
un fax! Allora sono una spia!».
Anche altri giornali hanno aperto il dibattito sulla natura della Repubblica
islamica e sull'assurdità delle confessioni estorte, a riprova del fatto che il
regime non è mai riuscito a terrorizzare la sua gente né a zittirla. Ma a
intimidirla sì.
«Ho detto in tv che avevo capito i vantaggi della Repubblica islamica, che
negli ultimi anni ero sotto la nefasta influenza dei riformisti ma che mi era
diventato chiaro il loro intento: indebolire lo Stato islamico. Quindi d'ora in
avanti avrei sostenuto con convinzione il regime. Che mortificazione. Ho
dovuto farlo. Era l'unico modo per non denunciare i miei amici» mi
racconta Omid.
Uno dei rimproveri più duri rivolti a Khatami è proprio di non essere stato
capace di proteggere i giornalisti e di tutelare la libertà di espressione. Per
esempio, non è mai riuscito a ottenere la revisione della legge contro la
libertà di stampa votata nel '99, quando il Parlamento era ancora controllato
dai conservatori. Il presidente più votato nella storia dell'Iran (29,7 milioni
di voti nel 1997), che nel 2000 con i riformisti conquistò la maggioranza
dell'assemblea legislativa, non ha avuto il coraggio di difendere fino in
fondo il suo popolo dagli eccessi del regime.
Per numero di blog attivi, il farsi è la quarta lingua più usata in internet
(dopo l'inglese, il portoghese e il polacco): i giovani dai tredici ai trent'anni
rappresentano il 91 per cento della comunità virtuale.
Il sito di Abtahi registra ogni giorno fino a 27.000 contatti ed è tra i migliori
siti internet in farsi.
«Mi occupo del web dal lontano 1993 e ho deciso di lanciare il mio blog per
poter dire quello che non mi era permesso di scrivere sui giornali. Tratto
tutti i temi di attualità, in particolare quelli che interessano i giovani, dalla
droga al sesso.
Una volta ho scritto che in nessuna parte del mondo come qui il lasso di
tempo che intercorre tra il conoscersi e il finire a letto è così breve! E
ovviamente vado contro il nostro sistema politico. Soprattutto di questi
tempi, dopo che hanno arrestato così tanti blogger.»
Abtahi, che ha già bevuto il terzo succo di frutta in attesa che arrivi la
tradizionale tazza di té, si definisce un intellettuale riformista che non
intende mettere in discussione la figura della Guida Suprema, bensì
diminuirne il potere assoluto per rafforzare le prerogative del Parlamento e
del presidente.
«Il punto cruciale è che secondo noi riformisti il potere è legittimato dal
popolo, secondo i conservatori invece direttamente da Dio.»
«In assoluto tutti si dicono contrari al regime e poi reclamano più libertà
personale, dal diritto di scelta sulVhijab fino alla possibilità di frequentarsi
senza restrizioni. Molti di loro sono depressi per la lentezza del
cambiamento. E lo saranno ancora di più se vincerà Ahmadinej ad. Fanno
tutto con la paura addosso, con l'ansia e con la fretta. E questo senso di
insicurezza permanente è peggio dell'insicurezza stessa.»
«Ho avuto paura all'inizio, ma adesso non più, anche se sono il più
bersagliato dalla destra. A un certo punto mi hanno chiuso il sito, ma io ho
chiesto aiuto a un gruppo di amici e adesso utilizzo un server straniero.
Forse in futuro sarà più difficile, ma io continuerò finché posso.»
evidente che chi pensa di essere stato scelto da Dio giustificherà ogni
decisione con la volontà di Allah. Ma in realtà va contro la libertà della
gente. È un po' come da voi durante il periodo dell'Inquisizione.»
Una delle sue voci più potenti è il gruppo editoriale di destra legato al
quotidiano «Keyhan», che pubblica anche un mensile culturale, una rivista
accademica, un settimanale femminile e uno per ragazzi. In quel periodo mi
capitò di intervistare il direttore di «Keyhan» Hussein Shariatmadari, uomo
assai influente essendo stato nominato dalla Guida Suprema. Gli dispiaceva
molto che i giornalisti occidentali non facessero alcuno sforzo per capire la
grandezza di Khamenei. «E come Khomeini, solo un po' più giovane. Crede
negli stessi principi di giustizia sociale per i poveri e gli oppressi, ha la
stessa opinione sulla politica americana e sul regime sionista.» Netta fu la
chiusura su un cambiamento del sistema di governo: «Fin quando la gente
resterà musulmana vorrà questo sistema. Vorrà l'Islam. Non la vostra
democrazia occidentale». Sulle libertà individuali il giudizio fu altrettanto
chiaro: «La differenza tra noi e voi è che noi crediamo nella sovranità
terrena di Dio. E pensiamo che alcune libertà personali possano nuocere
alla società e produrre fenomeni gravi come il suicidio e alcune pratiche
sessuali. Ci sono casi in cui l'Islam non tiene conto dell'opinione della
maggioranza».
Nella repressione dei blogger, Shariatmadari si era schierato in prima linea,
fermo nella convinzione che una maggiore trasparenza avrebbe indebolito il
Paese ed eroso il potere dei religiosi. Ha perciò scatenato sul suo quotidiano
una spietata campagna contro coloro «che stavano tentando di
compromettere il regime». Molte vittime della censura vennero prese di
mira proprio dopo che «Keyhan» aveva pubblicato i loro nomi con accuse
false che portarono al loro arresto. Omid era uno di quelli.
«Contiamo ancora, ma purtroppo oggi siamo divisi tra chi pensa che non ci
sia nulla da fare e chi crede nella riformabilità della Repubblica islamica»
mi racconta questo ragazzo dal viso spigoloso e tormentato. «Non c'è
dubbio che il movimento studentesco abbia reagito con paura e angoscia
alla repressione di gruppi autoritari antidemocratici decidendo, almeno in
questa fase, di stare a guardare.»
Il sindaco era un turbante della scuola di Qom, dove aveva studiato filosofia
e teologia, e conosceva fin troppo bene l'argomentare dei suoi «colleghi».
Sottile e beffardo, utilizzava le loro stesse armi. E iniziava ogni udienza con
le preghiere in arabo in lode ai capi spirituali degli sciiti. «Devo cominciare
ogni mia cosa con le parole dei nostri maestri»
CAPITOLO 16
PASOLINI A TEHERAN
Prima di trovare la casa dei nostri ospiti, abbiamo girovagato a lungo, persi
tra le strade buie di Teheran nord. Taraneh, davvero chic nel suo completo
verde acqua, è come sempre al volante. Io, invece, per il party di stasera
decido di mettere un paio di pantaloni e una giacca con collo alla coreana di
seta blu di Armani, che previdente avevo infilato in valigia. Jacques aveva
già stirato una camicia bianca, da abbinare a un paio di pantaloni scuri non
troppo stropicciati.
«Arriveremo, arriveremo! Sono certa che non siamo lontani. Ci sono già
stata, non preoccupatevi.» Taraneh, col foulard in disordine, ha inforcato gli
occhiali per essere sicura di non perdere un nome o un'indicazione che
potrebbero tornarci utili.
Teheran è così, a ridosso dei grandi viali e delle superstrade che la
attraversano, dietro agli svincoli che ricordano Los Angeles, è come irrigata
da migliaia di vicoli che sembrano seguire una logica oscura. Per ritrovare
la strada è necessario memorizzare i percorsi, usare l'istinto e affidarsi alla
fortuna più che alla mera conoscenza cartografica di ogni meandro della
città.
«E qui» ci annuncia alla fine Taraneh del cui senso dell'orientamento non
ho mai dubitato. Non so se ha veramente riconosciuto il posto o se la sua
attenzione, come la mia, è stata attirata da una coppia elegante che cammina
nell'ombra.
Accanto a una piccola fontana sono state sistemate alcune poltrone, attorno
alle quali si sono già formati piccoli gruppi di stranieri e iraniani. Tra loro
riconosco diplomatici europei, uomini d'affari occidentali, giornalisti che
lavorano qui o sono solo di passaggio. Il brusio delle conversazioni e le
grasse risate si confondono con la musica di sottofondo.
Mi giro e scopro un volto solare, dal sorriso un po' ironico, con due occhi
chiari e scintillanti. E Nicole, la regina della festa, una donna piccola dai
capelli biondi, vestita con un completo rosa. Nel suo approccio si dimostra
calorosa e semplice. Anche due perfetti estranei come noi vengono ricevuti
come se fossero di famiglia, solo perché accompagnati dall'amica Taraneh
che saluta baciandola sulle guance.
«È uno dei luoghi più eccitanti che abbia mai conosciuto. È qui che si
capirà se l'Islam è compatibile con la democrazia.
Trascorro qui anche le mie ferie, nel deserto o sulle montagne quando vado
a caccia nelle riserve di famiglia».
«Qui le tradizioni sono ancora molto forti» mi spiega «soprattutto per una
donna, anche se ha quarant'anni. E un vero problema.»
Il suo fidanzato si allontana e lei mi sussurra all'orecchio: «Non mi
trasferisco a casa sua altrimenti non mi sposerà mai».
Il volume della musica sale. Davanti alle opere d'arte che adornano il
grande salone, le coppie cominciano a ballare, i corpi si abbandonano al
ritmo incalzante. I brani sono perlopiù occidentali. Rock e dance. Per
l'occasione è stato chiamato un disc jockey. Ho la sensazione che tutti
stessero aspettando con impazienza questo momento. Intorno a me la gente
salta, ancheggia, si dimena e si sfiora senza troppi pensieri. Una coppia di
ragazzi occidentali, che sembra trovarsi lì senza sapere bene perché, balla
avvinghiata. Credo che non abbiano ingurgitato solo del buon vino. Le belle
iraniane si agitano senza preoccuparsi di nascondere le loro forme. Jacques,
che nel frattempo si è lanciato in una danza orientale con un'affascinante
signora fasciata in un abito nero, non si lascia sfuggire niente. Ricorda bene
gli anni in cui riunirsi per bere o ascoltare musica era semplicemente
impensabile. Anni in cui faceva un vino imbevibile nella cantina dell'ufficio
dell'Afp, aspettando che un diplomatico siriano, diventato suo amico, gli
portasse con discrezione un po' di whisky.
Se chiudo gli occhi potrei essere a Parigi, Londra o New York, nel Quartiere
Latino, a Soho o al Village, con i gomiti sul tavolo, le orecchie piene di jazz
e la testa piena di sogni. Il locale in cui mi trovo si chiama Gole Rezaieh. Ci
siamo fermati qui per pranzo. In sordina si sente Take Five, i clienti abituali
cullati dal quartetto di Dave Brubeck ordinano senza guardare il menu. Per
Ali, che sta dietro il bancone, è un venerdì come ogni altro. Ha l'aria
imbronciata di sempre.
Alle pareti ci sono foto di Anna Magnani, Gian Maria Volonté, Luis
Bunuel, Andre Malraux, Ibsen, Jung, Freud, Beckett, una copertina di
«Panorama» con Mao Tse-tung e poi Pier Paolo Pasolini, regista preferito
del proprietario.
Ali si rimette al lavoro: fa tutto da solo, dalla cucina alla sala, con una sosta
al bar ogni tanto. Cinquantenne brizzolato, magro, non troppo alto, in
maglietta e jeans, da noi lo si definirebbe un «sessantottino». Lui ha
realizzato il suo sogno: voleva un bistrot dove cucinare per i suoi amici,
voleva creare un luogo dove quelli che amano scambiare opinioni come lui
potessero ritrovarsi. Dieci tavoli con le tovaglie colorate sotto un telo di
plastica trasparente e il pavimento in linoleum. Alle pareti i grandi del
passato guardano la storia ripetersi, da una rivoluzione all'altra, da un colpo
di Stato all'altro. Makin'Whoo-pee ha preso il posto di Take Five e ora, a
fare da sottofondo, c'è Elvis Presley con Fever.
Nell'angolo vicino alla porta una donna in chador legge il giornale, mentre
un uomo, silenzioso, è immerso in una rivista. Un distinto signore, un po'
ancien regime, mangia il piatto del giorno e si alza per pagare al bancone. Il
tempo passa tranquillamente, intanto fuori la gente vota.
«Non andrò a votare» mi dice Ali. «Non ci sono mai andato. Non mi è mai
piaciuto questo regime, fin dall'inizio.»
Deve far parte di quel 2 per cento che nel 1979 si è opposto alla Repubblica
islamica, fatta approvare da Khomeini con un referendum. Del restante 98
per cento che votò «sì», chi sapeva veramente cosa significasse quella
scelta?
Ali ha avuto problemi con i mullah fin da quando ha aperto il suo ristorante.
Da ventisei anni i Guardiani della Rivoluzione e i Basi], i giovani volontari
incaricati di far rispettare i principi islamici, cercano di fargli chiudere
bottega e di mandarlo via, una volta addirittura tentando di dar fuoco al
locale. Lo hanno sempre accusato di commerciare alcolici
clandestinamente. Poi hanno cercato di soffocarlo con le multe, per le quali
è già stato costretto a vendere metà del ristorante. Si mostra quindi un po'
diffidente nei miei confronti, ma alla fine si tranquillizza e risponde alle mie
domande con la voce rauca del fumatore.
Ha viaggiato in ogni parte del mondo, dalla Francia all'India, dagli Stati
Uniti alla Gran Bretagna. Durante le sue peregrinazioni ha imparato ad
apprezzare il jazz, in particolare John Coltrane e il suo sassofono.
«Vede queste immagini? Sono loro che mandano in bestia il regime, perché
non le capiscono» mi spiega indicando la riproduzione di un quadro di
Magritte. Ci sono due volti coperti, uno di donna e l'altro di uomo, sono
faccia a faccia.
Può significare qualunque cosa, ma sicuramente è già troppo per i ligi
esecutori della legge islamica.
«In un certo senso sì, c'era più libertà.» Forse più apertura verso
l'Occidente, penso. Non certo più tolleranza verso gli oppositori.
Mi fermo davanti alla foto di un giovane il cui volto non mi dice nulla. E
imberbe, sembra un ragazzino e non fa parte della galleria di celebrità che
adornano le pareti del Gole Rezaieh.
Mi dispiace. Certe volte parlo più in fretta di quanto non dovrei, ma Ali non
si formalizza. Il volto in bianco e nero che lo guarda con occhi sereni è
elegante e innocente.
«Si è arruolato durante la guerra. Partito per il fronte, è morto per difendere
il suo Paese, non certo per sostenere quelli là.»
«Quelli là» sono sempre gli stessi, quelli che vogliono chiudere il suo
ristorante, che detestano le sue fotografie, che odiano la sua musica e che
hanno mandato il giovane fratello a farsi ammazzare combattendo nelle
trincee contro l'Iraq.
Sono tre anni che suonano insieme, hanno tutti meno di venticinque anni,
studiano musica, fotografia o informatica.
Scrivono canzoni loro, ma suonano anche i successi del momento. Si sono
potuti esibire solo quattro volte, all'Istituto di Belle Arti dell'Università di
Teheran. Ed è la prima volta che vanno all'estero, e anche che danno un
concerto durante una festa privata.
«In Iran» continua Goli «la scelta è semplice: tra il peggio e il meno peggio.
Soprattutto per noi giovani. Ci chiediamo:
"Ma che cosa vogliono da noi? Non c'è libertà né lavoro, continuano a
mentirci e in più vogliono che li eleggiamo!".»
Mentre parlo con Goli, il fratello suona e la mamma Roya balla scatenata.
Tutto intorno a noi i piatti si riempiono e si svuotano. I bicchieri anche.
Giovani e meno giovani si lanciano sulla pista improvvisata spostando
divani e tappeti.
Porte e finestre sono ben chiuse. Siamo nella nostra bolla. Le note della
musica si srotolano nella stanza e i minuti passano: questa sera a Teheran
non si deve sprecare nemmeno una goccia di felicità.
Anche lui ha votato per Rafsanjani, benché tutto ciò non abbia grande
importanza.
«Non so qual è l'eredità della Rivoluzione. Non ero nemmeno nato. L'unica
cosa che so è che dovrà cambiare qual- < cosa: il tempo non aspetta
nessuno.»
Mi siedo accanto a una coppia di adulti che parla francese; scopro che sono
fratello e sorella, Marie Claire e Reza Jean.
nel tentativo di placare la collera dei rivoltosi. Evaso con altri 200 dignitari
incarcerati al momento della caduta della monarchia, 1' 11 febbraio 1979,
venne linciato dalla folla ed esibito davanti alle telecamere. Aveva
ottantadue anni. E
Ora tutti gridano il suo nome: «Wahed, Wahed, Wahed», come se fosse una
rockstar. Come se anche i genitori volessero rivivere la loro giovinezza,
ridestare i ricordi e i bei momenti trascorsi in un passato felice.
Quando scendo per fare colazione, i giornali sono già arrivati. Hello Mr
Presidenti, titola il «Teheran Times», con un'enorme fotografia di
Ahmadinejad che, barbuto e sorridente, esibisce il segno «V» di vittoria.
Non credo ai miei occhi. Taraneh invece non ha aspettato di leggere i
quotidiani, ha appreso la notizia dalla radio la mattina presto. Anche lei è
sotto shock. Che fine ha fatto Rafsanjani? E la sua certezza di vincere? Mi
sono rivista mentre leggevo lo «Herald Tribune», un mese fa, sulla terrazza
di Chez Carette a Parigi. Il volto di «re Akbar» era in prima pagina, come
una promessa. Un volto conosciuto e quindi rassicurante. Ma gli iraniani
avevano fatto una scelta diversa già al primo turno, eliminando quelli che il
mondo definiva «riformisti», gli eredi del presidente Khatami. E adesso una
volta di più, confermando la preferenza per la linea dell'intransigenza. Dopo
le politiche del 2004, che avevano visto il trionfo dei conservatori, ecco che
ora ottengono anche la presidenza. Il successo è indiscutibile: è andato a
votare il 59 per cento degli aventi diritto e più del 61 per cento, ovvero oltre
17 milioni di persone, ha optato per il sindaco di Teheran. I sostenitori della
Repubblica islamica dura e pura detengono ormai tutti i poteri, dalla
gerarchla teocratica a quella giudiziaria, alle istituzioni della rappresentanza
popolare, come il Parlamento e la presidenza della Repubblica.
«Un'altra parte dei suoi sostenitori è formata dagli strati religiosi con-trari
alla liberalizzazione dei costumi» prosegue l'articolo del quotidiano. Anche
in Iran il dibattito sui «valori» e sulla «chiarezza morale» divide l'elettorato.
E poi ovviamente nessuno è stupido, nemmeno il giornale, che lo dice
misurando le parole: «Ahmadinejad deve la sua vittoria agli sforzi dei Basij
e degli altri religiosi, che hanno visto in lui il simbolo di una vita islamica
semplice». Farhad aveva ragione, loro l'hanno fatto vincere: la macchina
dello Stato e delle moschee si è mobilitata in favore dell'ex Pasdaran.
Una doppia fotografia sulla prima pagina dell'«Iran News» riassume bene il
nuovo contesto: il neopresidente, con il suo sorriso pieno di stupore e i tratti
giovanili, saluta con la mano, felice per la vittoria. Accanto a lui l'ayatollah
Khamenei, anch'egli sorridente con la barba bianca e gli occhi bassi dietro
gli occhiali tondi. Una specie di soddisfazione contenuta sembra trapelare
dal turbante nero del sayyed. E riuscito a farla finita con Khatami, il
sobillatore. Ha ripreso in mano la situazione. L'Iran andrà nella direzione
che sceglierà lui o che gli suggeriranno i suoi consiglieri a Qom, o da
qualsiasi altra parte. La sua prima reazione è ovviamente quella di attaccare
il nemico di sempre: gli Stati Uniti, «umiliati» da queste elezioni, assicura.
Gli chiedo se ha mai pensato di emigrare, come molti suoi compatrioti che
hanno saputo rifarsi una vita all'estero.
«Non ho mai voluto lasciare il mio Paese, nemmeno durante gli anni più
duri della Rivoluzione, quando la polizia islamica entrava senza preavviso
nelle case per sapere cosa stavamo facendo e per controllare se ci fossero
alcolici.»
Mi racconta di quella volta in cui era stato colto in flagrante nella villa di
uno dei suoi amici, mentre serviva in tavola del buon vino francese. Quella
sera era cominciato un
Mentre mi preparo a tornare in Italia, l'Iran mi appare come uno dei suoi
magnifici tappeti che vengono orditi da mani agili e pazienti. Un connubio
di bellezza e di tragedia. Di ricchezza e di ingiustizia. Un'arte radicata nella
tradizione, ma minacciata dalla modernità. I disegni di lana o di seta si
compongono mentre si intrecciano milioni di nodi e si incrociano fili
multico-lori. Chi può dire quale sarà il risultato finale? In Iran sono al
lavoro forze che in ogni momento apportano ritocchi a una tela infinita e
variopinta quale è la storia di un Paese. Forze di progresso, forze di
repressione, dinamiche di libertà e paludi di fanatismo. Qui ho trovato un
popolo ispirato dal passato, dalle sofferenze, dal sangue versato, dalle
battaglie vinte e dalle sconfitte. Saranno gli iraniani a tessere, senza sosta, il
proprio futuro. E che nessuno si azzardi a decidere per loro.
Il presidente arriva con un'ora di ritardo. Piccolo, quasi gracile, la barba mal
fatta, i capelli in disordine, fedele all'immagine di semplicità che gli ha
assicurato la vittoria. Con il suo sobrio vestito marrone di pessimo taglio,
forma un evidente contrasto con «re Akbar» e i suoi abiti da mullah cuciti
su misura. Ci sarà per caso un che di Saint-Just in quest'uomo? La
ghigliottina sta già aspettando gli opportunisti e gli sfruttatori? Oppure
cederà anche lui alle sirene del potere e del denaro? Viene accolto
dall'ovazione dei fedelissimi che gremiscono il podio da cui deve parlare.
Affiancato da due consiglieri più anziani, ieratici, si presta al gioco del botta
e risposta con il sorriso sulle labbra. Essendo la sua prima uscita ufficiale
non ha molte cose da dire e non vuole spaventare nessuno. Da parte mia,
sono più interessata all'uditorio che alle sue dichiarazioni. Lo spettacolo e il
messaggio sono in sala. Un messaggio di mobilitazione, di impegno. Non si
respira quell'aria di disinvolto cinismo, di cortese noia, di irriverente
distacco che tanto piace ai giornalisti europei. Qui l'informazione è ancora
un mestiere, non un'occupazione. Per due ore i cronisti iraniani -
Finito l'incontro con il nuovo presidente vado a trovare Shi-rin Ebadi. Nel
2003 le è stato assegnato il premio Nobel per la Pace per rendere omaggio
al suo lungo impegno in difesa dei diritti umani. E lei ha osato andare a
ritirarlo a Stoccolma a testa alta, senza velo.
Come l'anno scorso, appena entro nel suo studio Shirin si toglie il velo
alzando gli occhi al cielo in segno di sollievo.
«Chi lo ha votato?»
Shirin Ebadi non si lascia mai andare al pessimismo. I suoi piccoli occhi
scuri sprizzano tenacia. Quella tenacia che le ha permesso di sopravvivere
al carcere, a due attentati, e che oggi le da la forza di continuare a resistere a
tutte le pressioni e le minacce del regime.
E interessante sottolineare che, sia nel caso del nucleare sia in quello della
presunta partecipazione di Ahmadinejad all'assalto del 1979, la Cia ha
reagito molto in fretta e ha lasciato filtrare due rapporti preparati per la Casa
Bianca. Il primo conclude che Teheran avrebbe bisogno di altri dieci anni
per riuscire a produrre un'arma nucleare. Il secondo assicura che il
presidente iraniano non ha partecipato alla presa degli ostaggi, e suggerisce
addirittura che fosse contrario perché temeva che l'Unione Sovietica potesse
approfittare dell'indebolimento dell'Iran. Questa rapida risposta dei servizi
segreti americani indica che i professionisti della politica a Washington
sono decisi a non lasciare campo libero alle invenzioni degli ideologi e alle
chimere di chi auspica di cambiare con la forza il regime iraniano.
Come ha sottolineato Juan Cole, uno dei migliori analisti politici del Medio
Oriente: «È un'ironia della storia: il più pericoloso dei nemici dell'Iran, gli
Stati Uniti, ha invaso il suo vicino, l'Iraq, con l'intenzione di sbarazzarsi
anche del regime di Teheran, ma di fatto è solo riuscito a firmare il proprio
fallimento». La resistenza all'occupazione generalmente attribuita ai sunniti
ha impedito all'esercito americano di avere le mani libere per un eventuale
attacco convenzionale contro l'Iran.
Ha ragione. La luce delle candele non basta a scoprire l'elefante nel buio. Il
poeta Rumi si è dimenticato di consigliare ai suoi lettori di armarsi di
pazienza. In un Paese dove si è costretti a muoversi come in un labirinto,
senza guida e senza mappe, il tempo è essenziale. In Iran, il tempo è la
chiave di tutto. Bisognerà ricordarselo.