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Il libro

La storia
Nicholas Flamel nacque a Parigi il 28 settembre 1330.
Considerato il più grande alchimista del suo tempo, si dice abbia scoperto la formula della vita eterna.

Il mistero
È morto nel 1418. Ma la sua tomba è vuota.

La leggenda
Nicholas Flamel è ancora vivo, grazie alla formula della vita eterna che da secoli produce nel suo laboratorio. Il segreto
tuttavia è custodito in un preziosissimo libro che ora si trova nelle mani del malvagio dottor John Dee.
Secondo un’antica profezia, solo due giovani gemelli dall’aura d’oro e d’argento possono recuperarlo prima che Dee
raduni gli Oscuri Signori dai recessi dei Regni d’Ombra.
Nella San Francisco del Ventunesimo secolo Josh e Sophie dovranno battersi contro creature mitologiche e divinità
sanguinarie per difendere il volume.
A volte le leggende sono vere. E la più grande leggenda di tutti i tempi si sta avverando …
L’autore
Considerato un’autorità nella mitologia e nel folklore, Michael Scott è fra gli scrittori di maggior successo in
Irlanda. Il quotidiano “Irish Times” lo definisce “il re irlandese del fantasy”, e i suoi romanzi per ragazzi e adulti
sono pubblicati in più di venticinque paesi. Vive e lavora a Dublino.
La serie dedicata a Nicholas Flamel approderà al cinema.
Per Claudette, naturalmente
iamque opus exegi
Io sono una leggenda.
La morte non ha su di me alcun diritto, la malattia non può toccarmi. A guardarmi ora sarebbe
difficile intuire la mia età, eppure sono nato nell’anno di grazia 1330, più di seicentosettanta anni or
sono.
Sono stato molte cose ai miei tempi: medico e cuoco, libraio e soldato, maestro di lingue e di
chimica, ufficiale della legge e, al tempo stesso, ladro.
Ma, prima ancora e sopra ogni cosa, io ero un alchimista. Ero l’Alchimista.
Ero considerato il più grande, richiesto da re, principi e imperatori, e perfino dal pontefice in
persona. Sapevo mutare il vile metallo in oro e trasformare le pietre comuni in gemme preziose. E
quel che più conta: avevo scoperto il segreto della Vita Eterna sepolto in un libro di antica magia.
Ora mia moglie, Perenelle, è stata rapita e il libro rubato.
Senza di esso, lei e io invecchieremo. Quando la luna avrà compiuto il suo intero ciclo, avvizziremo
e moriremo. E se moriamo noi, il male che abbiamo tanto a lungo combattuto trionferà. L’Antica
Razza reclamerà di nuovo questa Terra, e spazzerà via l’umanità dalla faccia del pianeta.
Ma non cadrò senza combattere.
Poiché io sono l’immortale Nicholas Flamel.

Dal diario di Nicholas Flamel, alchimista


Addì 31 maggio, giovedì
Scritto in San Francisco, mia città d’adozione
Giovedì 31 Maggio
CAPITOLO UNO
— Ok. Dimmi solo una cosa: che motivo ci sarebbe per mettersi un cappotto in estate a San
Francisco? — Sophie Newman premette le dita sull’auricolare del Bluetooth mentre parlava.
Dall’altro capo del continente la sua amica Elle, esperta modaiola, si informò in tono pratico: —
Che genere di cappotto?
Asciugandosi le mani sulla pezza infilata tra i legacci del grembiule, Sophie lasciò il bancone del
caffè e si avvicinò alla vetrina, osservando gli uomini che emergevano dalla macchina posteggiata
all’altro lato della strada. — Pesanti cappotti neri di lana. Indossano anche guanti e cappelli neri. E
occhiali da sole. — Schiacciò la faccia contro il vetro. — Perfino per questa città è un po’ troppo
strano.
— Forse sono uomini d’affari? — suggerì Elle, con la voce che scoppiettava secca al cellulare.
Sophie sentì una musica forte e cupa in sottofondo: i Lacrimosa, forse, o gli Amorphis. Elle non aveva
mai del tutto superato la sua fase goth rock.
— Forse — rispose Sophie, poco convinta. Stava chiacchierando al telefono con l’amica quando,
qualche attimo prima, aveva notato quella macchina dall’aspetto insolito. Lunga e flessuosa, sembrava
sbucata fuori da un vecchio film in bianco e nero. Mentre passava davanti alla vetrina, il sole aveva
colpito i finestrini scuri e un caldo riflesso di luce giallo-dorata aveva illuminato per un attimo
l’interno del caffè, abbagliando Sophie. Sbattendo le palpebre per scacciare i puntini neri che le
danzavano davanti agli occhi, aveva osservato la macchina che svoltava in fondo alla collina e tornava
lentamente indietro. Senza segnalare, aveva accostato direttamente di fronte alla Piccola Libreria,
sull’altro lato della strada.
— Forse sono mafiosi — suggerì Elle, melodrammatica. — Mio padre conosce un tizio della mafia.
Ma quello guida una Prius — aggiunse.
— Questa decisamente non è una Prius — disse Sophie, guardando di nuovo l’auto e i due
omaccioni sulla strada, infagottati nei pesanti cappotti con tanto di guanti e cappello, gli occhi
nascosti dietro le grandi lenti degli occhiali da sole.
— Magari hanno soltanto freddo — suggerì Elle. — Non fa mai freddo a San Francisco?
Sophie Newman lanciò un’occhiata all’orologio-termometro appeso sopra il bancone, sulla parete
alle sue spalle. — Sì che fa freddo a San Francisco, ma non d’estate! E poi sono le due e un quarto… e
tocchiamo i trentotto gradi — disse. — Fidati, sono sicura che muoiono di caldo. Aspetta — disse,
interrompendosi. — Sta succedendo qualcosa.
Lo sportello posteriore si aprì e un altro uomo, perfino più grosso dei precedenti, scese un po’
imbalsamato dalla macchina. Mentre chiudeva lo sportello, il sole lo colpì per un attimo sul viso e
Sophie intravide una pallida carnagione grigiastra, malsana. Regolò il volume dell’auricolare. — Ok.
Dovresti vedere quello che è appena sceso. Un tizio enorme con la pelle grigia. Grigia, ti dico…
Magari questo spiega tutto: forse soffrono di una malattia della pelle.
— Una volta ho visto un documentario della National Geographic sulle persone che non possono
uscire alla luce del sole… — cominciò Elle, ma Sophie non l’ascoltava già più.
Una quarta figura scese dalla macchina.
Era un uomo basso, dall’aria piuttosto ricercata, vestito in giacca, pantaloni e panciotto grigio
fumo: un abito vagamente retrò ma, intuì Sophie, senz’altro confezionato su misura. I capelli grigio
ferro, legati in una stretta coda di cavallo, lasciavano scoperto un volto spigoloso, mentre una barba
triangolare molto curata, nera per la maggior parte, ma qua e là brizzolata di grigio, circondava la
bocca e copriva il mento. L’uomo si diresse sotto la tenda a strisce che copriva le bancarelle di libri
all’esterno del negozio. Quando sollevò un tascabile dalla copertina colorata e se lo rigirò fra le mani,
Sophie notò che indossava guanti grigi. Un bottone di madreperla sul polsino scintillò al sole.
— Stanno entrando in libreria — disse all’auricolare.
— Josh ci lavora ancora? — chiese subito Elle.
Sophie finse di ignorare l’improvviso interesse nel tono della voce all’altro capo del telefono. Il
fatto che alla sua migliore amica piacesse suo fratello gemello le aveva sempre fatto un effetto un po’
strano. — Sì. Ora lo chiamo e gli chiedo cosa succede. Ti richiamo subito. — Chiuse il telefono, si
tolse l’auricolare e si strofinò con aria assente l’orecchio accaldato, fissando affascinata quell’uomo
basso. C’era qualcosa in lui… qualcosa di strano. Forse era uno stilista, pensò, o un produttore
cinematografico, o magari uno scrittore celebre: aveva notato che alcuni scrittori amavano vestirsi in
modo originale. Gli avrebbe lasciato qualche minuto per entrare in negozio, poi avrebbe chiamato suo
fratello a rapporto.
Stava per girare le spalle quando tutt’a un tratto l’uomo in grigio si voltò e sembrò puntare lo
sguardo dritto su di lei. Era sotto la tenda, con il volto nell’ombra, eppure, per un brevissimo istante, i
suoi occhi sembrarono brillare.
Sophie sapeva, razionalmente, che era impossibile che l’uomo in grigio la vedesse: lei si trovava sul
lato opposto della strada, dietro a una vetrina che rifletteva il sole del primo pomeriggio. Era certo
invisibile nella penombra dietro il vetro.
Eppure…
Eppure in quel breve istante in cui i loro occhi si incontrarono, Sophie sentì drizzarsi i minuscoli
peli delle mani e delle braccia e avvertì un soffio d’aria gelida sulla nuca. Sciolse le spalle, inclinando
lentamente la testa da un lato all’altro, e qualche ricciolo dei suoi lunghi capelli biondi le ricadde sulla
guancia. Tuttavia non riuscì a liberarsi dell’impressione che quell’uomo basso avesse guardato
proprio lei.
Nel momento stesso in cui quella strana figura scomparve nella libreria insieme ai suoi tre
compagni infagottati, Sophie decise che non le piaceva.

Menta piperita.
E uova marce.
— Che schifo. — Josh Newman si trovava al centro dello scantinato della libreria e inspirava
profondamente. Da dove venivano quegli odori? Si guardò attorno, scrutando gli scaffali zeppi di libri
e chiedendosi se qualche animaletto non fosse finito a marcire dietro a un mobile. Cos’altro poteva
spiegare, altrimenti, quella puzza terribile? Il piccolo e angusto scantinato odorava sempre di asciutto
e di chiuso, l’aria satura del sentore della carta secca e ondulata, insieme all’aroma più intenso di
vecchie rilegature in pelle e ragnatele polverose. Amava quell’odore; lo aveva sempre trovato caldo e
confortante, come il profumo della cannella e delle spezie che gli ricordavano il Natale.
Menta piperita.
Nitido e intatto, l’odore penetrava nell’atmosfera chiusa dello scantinato. Somigliava a quello di un
nuovo dentifricio o delle tisane alle erbe che sua sorella serviva nel caffè dall’altra parte della strada.
Si insinuava fra il sentore più pesante del cuoio e della carta, ed era così forte da pizzicargli il naso;
sentì che avrebbe starnutito da un momento all’altro. Si tolse in fretta e furia le cuffie dell’iPod.
Starnutire con gli auricolari nelle orecchie non era una buona idea: roba da sfondarti i timpani.
Uova.
Fetide e puzzolenti: riconobbe l’odore sulfureo delle uova marce. Copriva quello rinfrescante della
menta… ed era disgustoso. Sentì che il tanfo cominciava a aderirgli alla lingua e alle labbra, e avvertì
un prurito in testa, come se qualcosa ci zampettasse sopra. Josh si passò le dita fra i capelli biondi e
arruffati, e rabbrividì. Probabilmente c’era un ingorgo nello scarico.
Lasciandosi le cuffie a penzoloni sulle spalle, studiò la lista di libri che aveva in mano, quindi
guardò di nuovo gli scaffali: L’opera completa di Charles Dickens, ventisette volumi, rilegatura in
pelle rossa. Ora, dove l’avrebbe trovata?
Josh lavorava nella libreria da quasi due mesi e ancora non aveva la più pallida idea di dove fossero
le cose. Non c’era un sistema di archiviazione… o meglio, un sistema c’era, ma lo conoscevano
soltanto Nick e Perry Fleming, i proprietari della Piccola Libreria. Nick e sua moglie riuscivano a
scovare un libro nel giro di pochi minuti, sia al piano di sopra che nello scantinato.
Un’ondata di menta, subito seguita dal puzzo di uova marce, riempì di nuovo l’aria; Josh tossì e si
sentì salire le lacrime agli occhi. Era impossibile! Ficcandosi la lista di libri in una tasca dei jeans e le
cuffie nell’altra, si fece strada fra le pile di volumi e scatoloni per raggiungere le scale. Non poteva
restare un minuto di più chiuso lì dentro con quel tanfo. Si strofinò gli occhi con i palmi delle mani:
ormai il prurito era terribile. Agguantando il corrimano cominciò a tirarsi su per le scale. Gli serviva
una boccata di aria fresca se non voleva vomitare ma, stranamente, più si avvicinava alla cima delle
scale, più gli odori si intensificavano.
Fece capolino dalla porta che portava allo scantinato e diede un’occhiata attorno.
E, in quell’istante, Josh Newman capì che il mondo non sarebbe stato più lo stesso.
CAPITOLO DUE
Josh, in cima alle scale, sbirciò dalla porta, con gli occhi che lacrimavano per il tanfo di zolfo misto
all’odore di menta. La prima cosa che riuscì a realizzare fu che il negozio, solitamente tranquillo, era
affollato. Di fronte a Nick Fleming, il proprietario, c’erano quattro uomini: tre grandi e grossi, e uno
più piccolo dall’aria sinistra. Josh pensò subito che fosse una rapina.
Il suo capo, Nick Fleming, era al centro della libreria e fronteggiava gli altri. Era un uomo di
aspetto piuttosto comune: di altezza e corporatura medie, non aveva tratti distintivi particolari, fatta
eccezione per gli occhi, talmente chiari da sembrare quasi bianchi. I capelli neri avevano un taglio
molto corto, che seguiva la forma del cranio, e il mento era sempre ricoperto da una barbetta ispida,
come se non si fosse rasato da un paio di giorni. Indossava come al solito dei semplici jeans neri, una
comoda maglietta nera con la stampa di un concerto di venticinque anni prima e un paio di malconci
stivali da cowboy. Portava un comunissimo orologio digitale al polso sinistro e un pesante bracciale
d’argento a quello destro, insieme a due braccialetti dell’amicizia di stoffa, logori e variopinti.
Di fronte a lui c’era un uomo basso dai capelli grigi, in un completo elegante.
Josh si accorse che non parlavano… eppure stava succedendo qualcosa fra loro. Erano entrambi
immobili, le braccia attaccate al corpo, i gomiti all’indietro, i palmi delle mani aperti e rivolti verso
l’alto. Nick stava al centro del negozio, mentre l’altro era vicino alla porta, circondato dai suoi tre
compagni con il cappotto nero. Stranamente, le dita dei due uomini si muovevano, scattavano e
danzavano frenetiche, il pollice che sfiorava l’indice, il mignolo che toccava il pollice, l’indice e il
mignolo distesi. Riccioli e sbuffi di vapore verde si raccoglievano nei palmi di Fleming, quindi si
avviluppavano in complessi ghirigori per poi ricadere lentamente a terra, dove rimanevano ad
attorcigliarsi come serpenti. Un fumo fetido, giallognolo, vorticava e colava dalle mani guantate
dell’uomo in grigio, spargendosi sul pavimento di legno come liquame.
Il tanfo proveniva dal fumo e appesantiva l’atmosfera con il suo odore di menta e di zolfo. A Josh
vennero gli spasmi allo stomaco e fece fatica a deglutire; la puzza di uova marce gli dava la nausea.
L’aria fra i due uomini brillava di riccioli di fumo verde e giallo, che crepitavano di scintille
stridenti appena si sfioravano. Una lunga, spessa spirale di fumo verde comparve sul palmo della
mano di Fleming. Ci soffiò sopra, un fiato breve e sibilante, e la spirale si attorcigliò nell’aria,
intrecciandosi e dipanandosi fra i due contendenti fino all’altezza dei loro occhi. Le dita corte e tozze
dell’uomo in grigio batterono il loro ritmo e una sfera di energia gialla si levò vorticando dalle sue
mani e balzò via. Toccò la spirale di fumo verde, che si avvolse subito attorno alla sfera. Si udì uno
schianto… e l’esplosione invisibile scagliò i due avversari all’indietro, scaraventandoli fra i bancali di
libri. Le lampadine scoppiarono e i neon andarono in pezzi, facendo piovere una polvere di vetro sul
pavimento. Due delle finestre esplosero verso l’esterno, mentre una dozzina dei piccoli pannelli
quadrati della vetrina si incrinò terribilmente.
Nick Fleming piombò sul pavimento, vicino all’ingresso dello scantinato, e atterrò quasi sopra Josh,
che era rimasto impietrito sui gradini, con gli occhi sgranati per lo shock e l’orrore. Rimettendosi in
piedi, Nick lo spinse di nuovo sulle scale. — Sta’ giù, qualunque cosa accada, tu sta’ giù — sibilò, in
un inglese sporcato da un accento indefinibile. Poi si raddrizzò, voltandosi di nuovo, e sollevò il
palmo destro, se lo portò al viso e ci soffiò sopra. Quindi fece il gesto di gettare qualcosa al centro del
negozio, come per lanciare una palla.
Josh allungò il collo per seguire la traiettoria del suo braccio. Ma non c’era niente da vedere… E
poi fu come se qualcosa avesse risucchiato l’aria dalla stanza. I libri degli scaffali vicini vennero di
colpo stracciati in mille pezzi, finendo in un mucchio informe in mezzo al pavimento; stampe
incorniciate furono scaraventate a terra; dopodiché un pesante tappeto di lana si inarcò verso l’alto e
fu risucchiato al centro della stanza.
Allora il mucchio esplose.
Due dei grossi uomini con il cappotto nero ricevettero l’impatto in pieno. Josh rimase a guardare
mentre i libri, alcuni pesanti e duri, altri morbidi e affilati, volavano attorno a loro come uccelli
furiosi. Non riuscì a trattenere un sussulto quando uno ricevette un grosso dizionario in piena faccia. Il
colpo gli scalzò il cappello e gli occhiali… rivelando una pelle grigia, fangosa, come morta, e due
occhi simili a lucide pietre nere. Un intero scaffale di romanzi rosa colpì violentemente la faccia del
compagno, spezzandone in due gli scadenti occhiali da sole. Josh scoprì che anche quegli occhi
sembravano pietre.
E di colpo si rese conto che erano pietre.
Si stava girando verso Nick Fleming, con una domanda che prendeva forma sulle labbra, quando il
suo capo lo guardò. — Sta’ giù — ordinò. — Ha portato dei Golem. — Fleming abbassò la testa
quando l’uomo in grigio scagliò nella stanza tre lunghe lance affilate di energia gialla. Le lame
segarono le librerie in due e andarono a conficcarsi nel pavimento. Tutto ciò che avevano toccato
prese subito a marcire e putrefarsi. Le rilegature si spezzarono, spaccando la pelle, la carta si annerì,
le assi e gli scaffali di legno andarono in polvere.
Fleming lanciò un’altra sfera invisibile nell’angolo opposto della stanza. Josh Newman seguì la
traiettoria del suo braccio. Mentre solcava l’aria, la palla invisibile incontrò un raggio di sole e per un
istante il ragazzo la vide brillare, verde e sfaccettata, come un globo di smeraldo. Poi, tornando
nell’ombra, svanì di nuovo. Stavolta, quando toccò terra, l’effetto fu ancora più dirompente. Non si
udì un suono, ma tutto l’edificio tremò. Tavoli di tascabili a buon mercato si ridussero in pezzi e
frammenti di carta riempirono l’aria di coriandoli bizzarri. Due degli uomini in nero – i Golem –
andarono a sbattere contro gli scaffali, rimanendo sepolti sotto una pioggia di libri, mentre un terzo –
il più grosso – fu sospinto con tale violenza contro la porta da finire scaraventato in strada.
Nel silenzio che seguì, li raggiunse il suono di due mani guantate che applaudivano. — A quanto
vedo, hai migliorato la tua tecnica, Nicholas. — L’uomo in grigio parlava inglese, ma con un curioso
accento.
— Mi sono esercitato, John — disse Nick Fleming, mentre si dirigeva lentamente verso la porta
aperta dello scantinato, facendo cenno a Josh Newman di arretrare sulle scale. — Sapevo che mi
avresti raggiunto, prima o poi.
— Ti cerchiamo da molto tempo, Nicholas. Hai qualcosa che appartiene a noi. E lo vogliamo
indietro.
Una scheggia di fumo giallo colpì il soffitto sopra la testa di Fleming e Josh. Gorgogliando,
l’intonaco marcito e annerito all’istante cominciò a cadere in fiocchi come neve acida.
— L’ho bruciato — disse Fleming. — L’ho bruciato molto tempo fa. — Spinse di nuovo Josh nello
scantinato, quindi, entrando a sua volta, tirò la porta scorrevole. — Niente domande — avvertì, gli
occhi chiarissimi che brillavano nella penombra. — Non adesso. — Tenendo Josh per il braccio, Nick
lo trascinò fino all’angolo più buio dello scantinato, afferrò una sezione di scaffalatura con entrambe
le mani e spinse. Qualcosa scattò e la scaffalatura ruotò verso l’esterno, rivelando una rampa di scale
nascosta. Fleming incitò Josh a tuffarsi in quelle tenebre. — Svelto, ora, svelto e zitto! — lo ammonì.
Seguì Josh oltre la soglia e si chiuse il mobile alle spalle proprio nel momento in cui la porta dello
scantinato si dissolveva in un liquame nero e putrescente, che prese a scorrere lungo le scale con un
tremendo tanfo di zolfo.
— Sali — la voce di Nick Fleming era calda contro l’orecchio di Josh. — Queste scale sbucano nel
negozio vuoto accanto al nostro. Dobbiamo sbrigarci: Dee ci metterà pochissimo a capire cosa è
successo.
Josh Newman annuì; conosceva il negozio. La lavanderia a secco era vuota da un bel pezzo. Aveva
un centinaio di domande da fare, e nessuna delle risposte che gli ronzavano in testa sembrava giusta,
dal momento che tutte, o quasi, contenevano quell’unica, terribile parola: “magia”. Aveva appena
visto due uomini che si scagliavano sfere e lame di qualcosa – di energia – l’uno contro l’altro. Aveva
assistito alla distruzione che quelle energie avevano provocato.
Josh aveva appena assistito a un’opera di magia.
Ma, naturalmente, chiunque sapeva che la magia non esiste né può esistere.
CAPITOLO TRE
Cos’era quell’odore disgustoso?
Sophie Newman stava per riaccostarsi la cuffia del Bluetooth all’orecchio quando inspirò
profondamente e si fermò, le narici dilatate. Aveva appena sentito qualcosa di orribile nell’aria.
Chiudendo il telefono e infilandosi la cuffia in tasca, si sporse sopra il barattolo aperto di foglie di tè
nero e inalò.
Lavorava al Coffee Cup da quando lei e suo fratello erano arrivati a San Francisco per trascorrervi
l’estate. Era un lavoro come un altro, niente di speciale. La maggior parte dei clienti era simpatica,
qualcuno era un po’ rozzo e uno o due erano decisamente maleducati, ma l’orario andava bene, la paga
era buona, le mance erano ancora meglio e, in più, il negozio aveva il vantaggio di trovarsi proprio di
fronte a dove lavorava suo fratello. Avevano compiuto quindici anni il dicembre scorso e avevano già
cominciato a mettere da parte un po’ di soldi per comprarsi una macchina. Secondo i loro calcoli, ci
avrebbero impiegato almeno un paio di anni – scordandosi CD, DVD, giochi, vestiti e scarpe, che erano
la grande passione di Sophie.
Di solito c’erano altre due persone in servizio con lei, ma una era tornata a casa prima perché non si
sentiva bene, e Bernice, la proprietaria del negozio, l’aveva lasciata dopo la ressa del pranzo per
andare dal grossista. Aveva promesso di tornare entro un’ora, ma Sophie sapeva che ci sarebbe voluto
almeno il doppio.
Con il tempo, Sophie si era abituata agli odori delle svariate qualità di tè e caffè esotici che si
vendevano al negozio. Ormai distingueva bene l’Earl Grey dal Darjeeling, e sapeva riconoscere il
caffè giavanese da quello keniota. Le piaceva il profumo del caffè, anche se detestava il suo sapore
amaro. Ma adorava i tè e gli infusi. Nelle ultime due settimane li aveva a poco a poco assaggiati tutti,
prediligendo in particolare quelli alle erbe, dal sapore fruttato e dagli aromi insoliti.
Ma adesso c’era qualcosa che puzzava in modo disgustoso.
Quasi di uova marce.
Sophie si accostò un barattolo di tè al viso e inspirò profondamente. L’odore fresco dell’Assam le
arrivò fino in gola: la puzza non veniva da lì.
— Dovresti berlo, non annusarlo.
Sophie si girò mentre Perry Fleming entrava nel negozio. Perry Fleming era una donna alta ed
elegante, di un’età imprecisata fra i quaranta e i sessanta. In passato era sicuramente stata bellissima,
ed era ancora molto attraente. Gli occhi erano del verde più chiaro e luminoso che Sophie avesse mai
visto, tanto che per parecchio tempo si era chiesta se la donna indossasse lenti a contatto colorate. I
capelli, un tempo neri come l’ebano, adesso erano striati di fili d’argento, e Perry li portava in una
complicata coda di cavallo intrecciata, che le arrivava quasi all’altezza della vita. Aveva denti piccoli
e perfetti, e il viso segnato da minuscole rughe d’espressione agli angoli degli occhi. Si vestiva
sempre con molta più eleganza del marito, e oggi indossava un abito estivo verde menta intonato al
colore dei suoi occhi, fasciata in quella che a parere di Sophie sembrava pura seta.
— Pensavo che avesse un odore strano — disse Sophie. Annusò di nuovo il tè. — Adesso profuma
— aggiunse. — Ma, per un attimo, ho pensato che sapesse di… di… di uova marce.
Lo disse guardando Perry Fleming, e rimase sbigottita quando la donna sgranò i vivaci occhi verdi e
si voltò di scatto a guardare dall’altra parte della strada… proprio nell’attimo in cui le finestrelle
quadrate della libreria si incrinavano di colpo e due esplodevano, riducendosi in polvere. Spirali di
fumo giallo e verde si riversarono in strada e l’aria si riempì del fetore delle uova marce. Sophie colse
anche un altro odore, quello più nitido e pulito della menta piperita.
Le labbra della donna si mossero, sussurrando: — Oh no… non adesso… non qui.
— Signora Fleming… Perry?
La donna si voltò con impeto verso Sophie. Aveva il terrore dipinto negli occhi e il suo inglese
solitamente impeccabile adesso rivelava l’ombra di un accento straniero. — Resta qui. Qualunque
cosa accada, resta qui e sta’ giù.
Sophie stava aprendo la bocca per formulare una domanda quando si sentì sturare le orecchie.
Deglutì a fatica. Poi la porta della libreria si aprì di schianto, e uno degli omaccioni che Sophie aveva
visto poco prima scendere dalla macchina fu scaraventato sulla strada. Ora gli mancavano il cappello
e gli occhiali, e la ragazza intravide la pelle del suo viso, di un pallore mortale, e quegli occhi di
marmo neri. L’uomo si accovacciò per un attimo in strada, quindi alzò la mano per ripararsi dal sole.
Allora Sophie sentì qualcosa di gelido e massiccio che le si piazzava sulla bocca dello stomaco.
La pelle della mano di quell’individuo si muoveva. Si sgretolava lentamente: sembrava che le dita
gli si stessero polverizzando. Un grumo di quello che sembrava fango grigio riarso cadde sulla strada.
— Golem — esclamò Perry col fiato mozzo. — Mio Dio, ha creato dei Golem!
— Gollum? — chiese Sophie, con la bocca secca e impastata, la lingua che sembrava
all’improvviso troppo grande per entrarci tutta. — Gollum del Signore degli Anelli?
Perry si stava avvicinando alla porta. — No: Golem — rispose con aria assente. — Uomini
d’argilla.
Il nome non diceva nulla a Sophie, ma rimase a guardare con un misto di orrore e confusione
mentre la creatura sulla strada si allontanava a carponi dalla mira del sole per andare a ripararsi sotto
la tenda. Perdendo a ogni passo un frammento di sé, riarso dagli spietati raggi del pomeriggio, il
Golem si lasciò dietro una lunga striscia di secchi pezzetti d’argilla. Prima che l’uomo rientrasse
barcollando in libreria, Sophie colse un altro rapido scorcio del suo viso. Una profonda ragnatela di
crepe gli si era disegnata sulla pelle. Le ricordò la terra di un deserto.
Perry si precipitò in strada. Sophie la osservò mentre liberava la chioma dalla sua intricata
pettinatura e la scioglieva scuotendo la testa. Ma anziché ricaderle sulle spalle, i capelli continuarono
a ondeggiare dolcemente attorno alla donna, come mossi dal soffio di una brezza gentile. Solo che non
c’era nessuna brezza.
Sophie esitò per un attimo; poi, afferrando una scopa, si precipitò in strada dietro a Perry. Josh era
lì dentro!

La libreria era nel caos.


Gli scaffali e i tavoli, fino a poco prima riempiti con cura e ordinati, erano sparpagliati per la
stanza, ammucchiati a terra. C’erano mobili distrutti, scaffali spezzati in due, stampe e mappe
elaborate ridotte in frantumi sul pavimento. La puzza di marciume e putrefazione aleggiava nell’aria,
che odorava di carta spappolata in decomposizione e legno secco polverizzato. Perfino il soffitto era
segnato di sfregi, con l’intonaco squarciato a rivelare le travi di legno e i cavi elettrici a penzoloni.
L’uomo basso in grigio era al centro della stanza. Si spazzolava la manica del cappotto con aria
schizzinosa, mentre due dei suoi Golem esploravano lo scantinato. Il terzo Golem, danneggiato e
irrigidito per l’esposizione al sole, si appoggiava goffamente a una libreria rotta. Scaglie di pelle
grigia si staccavano da quello che rimaneva delle sue mani, cadendo a terra.
L’uomo in grigio si girò non appena Perry, seguita da Sophie, entrò di corsa nel negozio. Fece un
piccolo inchino. — Ah, madame Perenelle. Mi chiedevo dove foste.
— Dov’è Nicholas? — domandò Perry. Pronunciò il nome “Nicolà”. Sophie vide una carica di
elettricità statica scorrere lungo i capelli della donna, vibrante di scintille azzurre e bianche.
— Al piano di sotto, credo. Le mie creature lo stanno cercando.
Afferrando la scopa con entrambe le mani, Sophie oltrepassò cauta Perry e raggiunse l’altro capo
della stanza. Josh. Dov’era Josh? Non aveva idea di cosa fosse successo e non le importava. Voleva
solo trovare suo fratello.
— Siete splendida più che mai — disse l’uomo in grigio, gli occhi fissi su Perry. Si inchinò di
nuovo, con una movenza raffinata, antica, che eseguì senza il minimo sforzo. — È sempre una gioia
rivedervi.
— Vorrei poter dire la stessa cosa di te, Dee. — Perry si addentrò ulteriormente nella stanza, gli
occhi che sfrecciavano in ogni direzione. — Ho riconosciuto il tuo odore fetido.
Dee chiuse gli occhi e inspirò profondamente. — L’odore dello zolfo mi piace molto. È così… —
fece una pausa. — Così drammatico. — Poi gli occhi grigi si aprirono di scatto e il sorriso scomparve.
— Siamo qui per il Libro, Perenelle. E non venitemi a dire che l’avete distrutto — aggiunse. — Il
vostro notevole e prolungato stato di salute è una prova sufficiente della sua esistenza.
“Quale libro?” si chiese Sophie, dando un’occhiata in giro; il negozio era pieno di libri.
— Noi siamo i guardiani del Libro — disse Perry, e qualcosa nella sua voce fece voltare Sophie. La
ragazza rimase impietrita, bocca e occhi spalancati per l’orrore. Un vapore argentato circondava Perry
Fleming, levandosi dalla sua pelle in sottilissimi fili di fumo. Pallido e traslucido a tratti, si
raccoglieva più fitto e denso attorno alle mani, dando quasi l’impressione che la donna indossasse dei
guanti di metallo. — Non l’avrete mai — scattò Perry.
— E invece sì — rispose Dee. — Abbiamo accumulato tutti gli altri tesori nel corso degli anni.
Rimane solo il Libro. Ora, rendete a me e a voi stessi le cose più facili e ditemi dov’è…
— Mai!
— Sapevo che avreste risposto così — disse Dee, e a quel punto l’enorme Golem si scagliò contro
Perry. — Gli umani sono così prevedibili.

Nick Fleming e Josh stavano cercando di aprire la porta della lavanderia a secco quando videro Perry,
seguita da Sophie, precipitarsi in libreria attraversando la strada di corsa. — Vedi di aprire questa
porta — ordinò Nick, infilandosi una mano sotto la maglietta. Da una semplice bustina di stoffa
quadrata che portava appesa al collo, estrasse quello che sembrava un piccolo libro, con una rilegatura
metallica dal colore ramato.
Josh ruppe i paletti e aprì la porta con uno strattone, e Nick si precipitò fuori, correndo e sfogliando
con foga le pagine dai bordi consumati, come per cercare qualcosa. Mentre lo seguiva dentro al
negozio, Josh intravide una calligrafia fiorita e dei disegni geometrici sulle spesse pagine ingiallite.
Arrivarono appena in tempo per vedere il Golem che toccava Perry.
Ed esplodeva.
L’aria si riempì di un pulviscolo fine e sabbioso, e il pesante cappotto nero si accartocciò a terra,
sprigionando un piccolo vortice polveroso che svanì in un attimo. L’ingresso di Nick e Josh, però,
distrasse Perry. La donna si girò appena… e in quell’istante Dee si portò il braccio sinistro davanti
agli occhi e scagliò una piccola sfera di cristallo sul pavimento.
Fu come se il sole fosse esploso nella stanza.
La luce era incredibile. Accecante e violenta, inondò la stanza di un bagliore spettrale,
accompagnata da una puzza di capelli bruciati e cibo dimenticato sul fuoco, di foglie in putrefazione e
metallo annerito dalle fiamme, unita alle esalazioni acri del gasolio.
Josh scorse la sorella proprio nel momento in cui Dee scagliava la sua sfera. Fu in parte schermato
da Nick e Perry, che vennero scaraventati a terra dalla luce. La vista di Josh divenne un caleidoscopio
di fotogrammi in bianco e nero, mentre la luce lo abbagliava fino in fondo agli occhi, arrivando ai
coni e ai bastoncelli della retina. Vide Nick che lasciava cadere il libro dalla rilegatura metallica sul
pavimento… vide due figure avvolte di nero circondare Perry e sentì vagamente gridare la donna…
vide Dee agguantare il libro con un grugnito di trionfo mentre Nick brancolava accecato a terra.
— Hai perso, Nicholas — sibilò Dee. — Come sempre. Sto per portarti via le cose più preziose che
possiedi: la tua amata Perenelle e il tuo libro.
Josh si mosse prima ancora di rendersene conto. Si slanciò su Dee, cogliendolo di sorpresa. A
dispetto dei suoi quindici anni, Josh era alto e pesante: era grosso abbastanza da giocare come
difensore a football americano, ed era il più giovane della sua squadra. Dee finì al tappeto, e il piccolo
volume sfuggì alla sua stretta. Josh sentì il libro dalla spessa copertina metallica sotto i polpastrelli e
lo raccolse, proprio mentre qualcosa lo sollevava da terra e lo scaraventava in un angolo. Atterrò su
una pila di libri, che attutì la caduta. Puntini neri e saette di luce colorata gli balenavano davanti agli
occhi a ogni battito di ciglio.
La sagoma grigia di Dee si disegnò minacciosa sopra il ragazzo, e una mano guantata si protese ad
afferrare il libro. — Questo è mio, credo.
Josh strinse la presa, ma Dee gli strappò il libro dalle mani.
— Lascia. Subito. Stare. Mio. Fratello. — Sophie Newman calò per cinque volte la scopa sulla
schiena di Dee, una per ogni parola pronunciata.
Dee la degnò a malapena di uno sguardo. Con il libro stretto in una mano guantata, afferrò la scopa
con l’altra e mormorò una parola sola: il manico avvizzì all’istante, riducendosi in frammenti
limacciosi e sfilacciati fra le mani di Sophie. — Per tua fortuna oggi sono di buon umore — sussurrò.
— Altrimenti ti avrei fatto fare la stessa fine. — Dopodiché Dee e i due Golem rimasti abbandonarono
la libreria devastata, trascinando Perry Fleming con sé e sbattendo la porta. Seguì un attimo di silenzio
che parve lunghissimo, poi l’ultimo scaffale di libri ancora intatto franò a terra.
CAPITOLO QUATTRO
— Immagino che chiamare la polizia sia fuori questione. — Sophie Newman era appoggiata contro
una libreria semidistrutta e si teneva le braccia strette attorno al corpo, per smettere di tremare. Fu
sorpresa dal tono calmo e ragionevole che aveva la sua voce. — Eppure dobbiamo pur denunciare il
rapimento di Perry…
— Perry non corre alcun pericolo, per ora. — Nick Fleming era seduto su uno dei gradini più bassi
di una corta scaletta. Si teneva la testa fra le mani e respirava profondamente, tossendo di tanto in
tanto per liberare i polmoni dalla polvere e dalla sabbia. — Ma hai ragione, non andremo alla polizia.
— Riuscì a mettere insieme un debole sorriso. — Non saprei proprio cosa potremmo raccontargli di
sensato.
— La faccenda non sembra molto sensata neppure a noi — disse Josh. Era seduto sull’unica sedia
rimasta in piedi in tutta la libreria. Anche se non aveva niente di rotto, era pieno di lividi e prevedeva
già di sviluppare diverse e interessanti sfumature di viola nel prossimo paio di giorni. L’ultima volta
che si era sentito così male era stata quando tre tizi gli erano passati sopra sul campo di football. E, a
dire il vero, stavolta era peggio. Almeno allora aveva capito ciò che era successo.
— Forse c’è stata una fuga di gas nel negozio — suggerì Nick titubante. — E quello che è accaduto
non è stato altro che una serie di allucinazioni. — Si fermò, scrutando ora Josh ora Sophie.
I gemelli lo guardarono, con l’identica espressione incredula sul viso, gli occhi azzurri e vividi
ancora sgranati per lo shock. — Fiacca, come scusa — disse infine Josh.
— Molto fiacca — concordò Sophie.
Nick alzò le spalle. — A dire il vero, pensavo che non fosse tanto male. Spiegava gli odori,
l’esplosione nel negozio e tutte le… le cose singolari che pensavate di aver visto — si affrettò a
concludere.
Gli adulti, aveva stabilito Sophie molto tempo prima, erano davvero pessimi a inventare scuse
convincenti. — Non ci siamo immaginati un bel niente — disse in tono deciso. — Non ci siamo
immaginati i Golem.
— I che? — chiese Josh.
— Quei tizi grandi e grossi erano Golem; uomini fatti di fango — spiegò sua sorella. — Me lo ha
detto Perry.
— Ah, te lo ha detto lei, eh? — mormorò Fleming. Volse lo sguardo attorno, osservando il negozio
devastato, e scosse la testa. Ci erano voluti meno di quattro minuti per ridurlo in un mucchio di
ciarpame. — Mi sorprende che abbia portato i Golem. Di solito sono così inaffidabili nei paesi caldi.
Ma sono serviti al suo scopo. Ha ottenuto quello che voleva.
— Il libro? — chiese Sophie. Lo aveva intravisto in mano a Josh prima che l’uomo basso glielo
strappasse. Anche se adesso si trovava in un negozio pieno di libri, e il padre possedeva un’enorme
collezione di volumi antichi, non aveva mai visto niente di simile. La rilegatura sembrava di metallo
ossidato.
Fleming annuì. — Lo cercava da molto tempo — disse piano, gli occhi pallidi persi in uno sguardo
assente. — Moltissimo tempo.
Josh si mise lentamente in piedi, la schiena e le spalle doloranti. Porse a Nick due pagine sgualcite.
— Be’, non lo ha preso tutto. Quando mi ha strappato il libro di mano, mi sono tenuto strette queste
qui.
Fleming agguantò le pagine dalla mano di Josh con un grido indistinto. Lasciandosi cadere a terra,
scansò libri stracciati e resti di scaffalature, quindi stese i due fogli sul pavimento, l’uno accanto
all’altro. Le mani affusolate tremavano leggermente mentre lisciava le pagine. I gemelli si
inginocchiarono accanto a lui, fissando attentamente i fogli e cercando di capire il senso di quanto
vedevano. — E di certo non ci stiamo immaginando questo — sussurrò Sophie, sfiorando una pagina
con l’indice.
Le pagine spesse erano fatte di qualcosa che sembrava corteccia pressata. Delle venature vegetali
erano chiaramente visibili sulla superficie, ed entrambi i fogli erano coperti di una calligrafia
spigolosa, frastagliata. La prima lettera sull’angolo superiore sinistro di ogni pagina era
splendidamente miniata in rosso e oro, mentre il resto delle parole era vergato in un inchiostro
rossastro.
E le parole si muovevano.
Sophie e Josh rimasero a guardare mentre le lettere si spostavano sulla pagina come insetti,
formandosi e riformandosi, diventando per un istante parole quasi leggibili, in lingue più o meno note
come il latino o l’inglese antico, ma dissolvendosi poi subito dopo per riformarsi in simboli dall’aria
arcaica, non molto diversi dai geroglifici egiziani o dall’alfabeto ogamico dei Celti.
Fleming sospirò. — No, non ve lo state immaginando — ammise infine. Infilò una mano dentro il
collo della maglietta e tirò fuori un paio di pince-nez appesi a un cordoncino nero. Era un vecchio
genere di occhiali senza stanghette, da tenere in equilibrio sul ponte del naso. Usandoli a mo’ di lenti
di ingrandimento, Nick li fece scorrere lungo le parole che si contorcevano mutevoli sulle pagine. —
Ah!
— Buone notizie? — chiese Josh.
— Ottime notizie. Gli manca l’Invocazione Finale. — Strinse la spalla livida di Josh con forza,
facendolo sobbalzare di dolore. — Se avessi voluto prendere due pagine del Libro con il preciso scopo
di renderlo inutile, non avresti potuto fare una scelta migliore. — Il largo sorriso gli sparì dalla faccia.
— E quando Dee lo scoprirà, ritornerà, e ti garantisco che la prossima volta non si limiterà a portare i
Golem.
— Chi era l’uomo in grigio? — chiese Sophie. — Anche Perry lo ha chiamato Dee.
Raccogliendo le pagine, Nick si alzò. Guardandolo, Sophie si rese conto che di colpo sembrava
vecchio e stanco, incredibilmente stanco. — L’uomo in grigio era il dottor John Dee, uno degli uomini
più potenti e pericolosi del mondo.
— Mai sentito nominare — commentò Josh.
— Mantenere l’anonimato nel mondo moderno: ecco una dimostrazione di vero potere. Dee è un
alchimista, un mago, uno stregone e un negromante, e badate che tutte queste parole non hanno
assolutamente lo stesso significato.
— Magia? — chiese Sophie.
— Pensavo che la magia non esistesse — disse sarcastico Josh, ma si sentì subito uno sciocco, dopo
quello che aveva sperimentato di persona solo qualche minuto prima.
— Eppure avete appena combattuto contro delle creature magiche: i Golem sono uomini creati dal
fango e dall’argilla, portati in vita grazie a una singola, potente parola. In questo secolo, scommetto
che sono meno di mezza dozzina le persone che ne hanno visto uno, e ancora meno quelle
sopravvissute per raccontarlo.
— È stato Dee a portarli in vita? — chiese Sophie.
— Creare i Golem è facile; l’incantesimo è vecchio quanto il genere umano. Animarli è un pochino
più difficile, e controllarli è praticamente impossibile — sospirò. — Ma non per John Dee.
— Ma chi è, precisamente? — incalzò lei.
— Il dottor John Dee era il Mago di Corte sotto il regno della regina Elisabetta I d’Inghilterra.
Sophie rise meccanicamente, incerta se credere o meno a Nick Fleming. — Ma si tratta di secoli fa
e… quell’uomo non avrà avuto più di cinquant’anni.
Nick Fleming si chinò sul pavimento a frugare, scansando libri finché non trovò quello che voleva:
L’Inghilterra elisabettiana. Lo aprì deciso: sulla pagina di fronte a un’immagine della regina
Elisabetta I c’era una vecchia incisione, raffigurante un uomo dal volto spigoloso, con una barba
triangolare. Gli abiti erano diversi, ma senza dubbio era lo stesso individuo che avevano incontrato.
Sophie prese il libro dalle mani di Nick. — C’è scritto che John Dee è nato nel 1527 — disse con un
filo di voce. — Il che significa che avrebbe quasi cinquecento anni.
Josh si avvicinò alla sorella. Osservò la figura, quindi si guardò attorno. Inspirando profondamente,
riusciva ancora a sentire gli odori particolari della… magia. Ecco quello che aveva sentito: non la
menta o il tanfo delle uova marce, ma il profumo della magia. — Dee la conosceva, la regina — disse
lentamente. — La conosceva bene — aggiunse.
Fleming vagava per il negozio, raccogliendo gli oggetti più disparati per poi gettarli di nuovo sul
pavimento. — Oh, e conosceva anche me — disse. — E Perry. Ci conosce da molto… moltissimo
tempo. — Studiò i gemelli con lo sguardo, gli occhi quasi incolori ora incupiti e ansiosi. — Purtroppo,
ormai siete coinvolti, perciò il tempo delle bugie e dei sotterfugi è finito. Se volete uscirne vivi,
dovete sapere la verità.
Josh e Sophie si scambiarono uno sguardo. Tutti e due avevano colto quella frase: “Se volete
uscirne vivi…”
— Il mio vero nome è Nicholas Flamel. Sono nato in Francia nel 1330. Il vero nome di Perry è
Perenelle: lei ha dieci anni più di me. Ma non ditele mai che ve l’ho detto — si affrettò ad aggiungere.
Josh si sentì ribollire lo stomaco. Voleva dire “Impossibile!”, mettersi a ridere e prendersela con
Nick per quella stupida storia. Ma era tutto livido e dolorante per il volo che aveva appena fatto,
scaraventato per la stanza da… da cosa? Si ricordò del Golem che si era accostato a Perry – Perenelle
– e di come si era dissolto in polvere al tocco della donna.
— Che… che cosa siete? — Fu Sophie a porre la domanda che stava prendendo forma sulle labbra
del fratello. — Che cosa siete, lei e Perenelle?
Nick sorrise, ma il suo volto rimase freddo e privo di allegria, tanto che per un attimo somigliò
quasi a Dee. — Leggenda — disse semplicemente. — Una volta, molto tempo fa, eravamo persone
normali, ma poi ho comprato un libro, Il Libro di Abramo il Mago, chiamato solitamente il Codice.
Da quel momento in poi, le cose sono cambiate. Perenelle è cambiata. Io sono cambiato. Sono
diventato l’Alchimista.
«Sono diventato il più grande alchimista di tutti i tempi, richiesto da principi, re e imperatori, e
perfino dal pontefice in persona. Ho scoperto il segreto della pietra filosofale sepolto in quell’antico
libro di magia: ho imparato a mutare il vile metallo in oro e trasformare le pietre comuni in gioielli
preziosi. E, soprattutto, ho trovato la ricetta di un’antica formula di erbe e incantesimi in grado di
tenere a bada la malattia e la morte. Perenelle e io siamo diventati praticamente immortali.» Sollevò
le pagine strappate che teneva in mano. — Questo è tutto ciò che ci rimane. Dee e quelli della sua
specie hanno cercato il Libro del Mago per secoli. Adesso ce l’hanno. E hanno anche Perenelle —
aggiunse amareggiato.
— Ma ha detto che il Libro è inutile senza queste pagine — gli ricordò Josh.
— È vero. Nel Libro ci sono cose sufficienti per tenere Dee occupato per secoli, ma queste pagine
sono fondamentali — concordò Nick. — Dee tornerà a cercarle.
— C’è dell’altro, però, non è vero? — chiese Sophie. — C’è di più. — Non gli aveva detto tutto, ne
era certa; gli adulti lo facevano in continuazione. I loro genitori ci avevano messo mesi per dire a Josh
e a lei che sarebbero presto andati a San Francisco per trascorrervi anche l’estate.
Nick le rivolse uno sguardo penetrante, e Sophie ripensò di nuovo al modo in cui Dee l’aveva
guardata prima: c’era qualcosa di freddo e inumano in quegli occhi. — Sì… c’è di più — ammise
esitante l’uomo. — Perenelle e io invecchieremo. La formula dell’immortalità deve essere preparata
di nuovo ogni mese… ma senza il Libro questo è impossibile. Le parole nel Codice, lo avete visto,
sono come vive, mutano continuamente e, con esse, mutano le sue preziose formule incantate. Solo
chi possiede il volume può conoscerle e servirsene. Perciò, quando la luna avrà completato il suo
ciclo, Perenelle e io avvizziremo e moriremo. E se moriamo noi, allora il male che abbiamo tanto a
lungo combattuto trionferà. L’Antica Razza reclamerà di nuovo questa Terra.
— L’Antica Razza? — chiese Josh, con la voce incrinata e un volume più alto del normale. Deglutì
a fatica, i battiti del cuore amplificati. Quello che era cominciato come un giovedì pomeriggio
qualunque si era trasformato in qualcosa di strano e di terribile. Gli piacevano molto i videogiochi e
aveva letto qualche romanzo fantasy: i personaggi con nomi del genere non promettevano mai niente
di buono. — Antica quanto?
— Molto antica — rispose Flamel.
— Vuol dire che ce ne sono altri come Dee? Come lei? — disse Josh, quindi sobbalzò al calcio che
la sorella gli rifilò sugli stinchi.
Flamel si voltò a guardarlo, con gli occhi pallidi adesso offuscati di rabbia. — Ce ne sono altri
come Dee, sì, e anche altri come me; ma io e Dee non siamo uguali. Non lo siamo mai stati —
aggiunse amaramente. — Abbiamo scelto di seguire strade diverse, e la sua lo ha condotto per vie
molto oscure. Anch’egli è immortale, sebbene nemmeno io sappia per certo come faccia a conservare
la sua giovinezza. Ma siamo entrambi umani. — Si girò verso il registratore di cassa, che giaceva
rotto e aperto sul pavimento, e cominciò a raccogliere i soldi. Quando tornò a guardare i gemelli, i
ragazzi rimasero interdetti dall’espressione cupa sul suo viso. — Coloro al cui servizio opera Dee non
sono e non sono mai stati della razza dell’uomo. — Ficcandosi i soldi in tasca, raccolse un giubbotto
di pelle liso dal pavimento. — Dobbiamo andarcene di qui.
— Dove andrà? Che farà? — chiese Sophie.
— E noi che faremo? — Josh finì il pensiero al posto suo, come tanto spesso faceva lei.
— Prima di tutto devo portarvi al sicuro prima che Dee si accorga delle pagine mancanti. Poi andrò
a cercare Perenelle.
I gemelli si scambiarono uno sguardo. — E perché deve portarci al sicuro? — chiese Sophie.
— Noi non sappiamo niente — aggiunse Josh.
— Quando Dee scoprirà che il Libro è incompleto, tornerà per le pagine mancanti. E vi garantisco
che non lascerà testimoni.
Josh cominciò a ridere, ma la risata gli morì in gola quando si rese conto che sua sorella non stava
nemmeno sorridendo. — Sta… — Si passò la lingua sulle labbra, improvvisamente secche. — Sta
dicendo che ci ucciderebbe?
Nicholas Flamel chinò la testa di lato, riflettendo. — No — disse infine. — Non vi ucciderebbe.
Josh sospirò di sollievo.
— Credetemi — continuò Flamel. — Dee può farvi molto di peggio. Molto di peggio.
CAPITOLO CINQUE
Mentre i frammenti delle finestre rotte crepitavano sotto i loro piedi, i gemelli, dal marciapiede su cui
si affacciava la libreria, osservavano Nick estrarre una chiave. — Ma non possiamo andarcene così!
— disse Sophie in tono deciso.
Josh annuì. — Noi non andiamo da nessuna parte.
Nick Fleming – o Flamel, come ormai si stavano abituando a chiamarlo – sbatté la porta e girò la
chiave nella serratura. Dall’interno del negozio, si udì un rumore di libri che scivolavano sul
pavimento. — Amavo molto questo posto — mormorò Flamel. — Mi ricordava il mio primissimo
lavoro. — Gettò un’occhiata a Sophie e Josh. — Non avete scelta. Se volete arrivare vivi a stasera,
dovete andarvene subito. — E si allontanò, infilandosi il giubbotto liso mentre attraversava la strada
di corsa, diretto al Coffee Cup. I gemelli si scambiarono uno sguardo, quindi si affrettarono a seguirlo.
— Hai le chiavi per chiudere?
Sophie annuì. Tirò fuori due chiavi attaccate a un souvenir del Golden Gate. — Però se Bernice
torna e trova il negozio chiuso, probabilmente chiamerà la polizia o roba del genere…
— Giusta osservazione — disse Flamel. — Lasciale un messaggio… qualcosa di breve. Di’ che sei
dovuta partire all’improvviso, che c’è stata un’emergenza, cose così. E che ti ho accompagnata io.
Scrivi male, come se andassi di fretta. I vostri genitori sono ancora in quello scavo nello Utah? — I
genitori dei gemelli erano archeologi, con un incarico temporaneo all’Università di San Francisco.
Sophie confermò con un cenno della testa. — Per almeno altre sei settimane.
— Stiamo ancora da zia Agnes a Pacific Heights — aggiunse Josh. — Zia Agonia.
— Non possiamo sparire così come se niente fosse. La zia ci aspetta per cena — disse Sophie. —
Basta che tardiamo cinque minuti ed entra subito in agitazione. L’altra settimana, quando il tram ha
avuto un guasto e siamo arrivati con un’ora di ritardo, aveva già chiamato i nostri genitori. — Zia
Agnes aveva ottantaquattro anni e, anche se li faceva impazzire con le sue paranoie, i gemelli le
volevano un gran bene.
— Allora vi servirà una scusa anche per lei — tagliò corto Flamel, infilandosi dentro al caffè con
Sophie alle calcagna.
Josh esitò prima di entrare nella penombra fresca e profumata del Coffe Cup. Rimase sul
marciapiede, con lo zainetto sulle spalle, a guardarsi attorno. Tralasciando i frammenti di vetro
luccicante che ingombravano il marciapiede davanti alla libreria, tutto sembrava perfettamente nella
norma, un pomeriggio feriale come tanti. La strada era calma e silenziosa, l’aria carica del vago
profumo dell’oceano. Oltre la baia, al di là del molo Fisherman, la sirena di una nave risuonò cupa e
solitaria in lontananza. Tutto sembrava più o meno identico a mezz’ora prima.
Eppure…
Eppure non lo era. Niente sarebbe stato più come prima. Negli ultimi trenta minuti, il mondo
tranquillo e ordinato di Josh era cambiato irrimediabilmente. Prima, lui era un normalissimo studente
del secondo anno delle superiori, non troppo brillante, ma nemmeno stupido. Giocava a football
americano, cantava – male – nella band di un suo amico e gli interessavano un po’ le ragazze, anche se
non aveva ancora fatto sul serio con nessuna. Ogni tanto si divertiva con i giochi al computer:
preferiva le versioni sparatutto in prima persona, come Quake, Doom e Unreal Tournament, non era un
granché con quelli di guida e si perdeva in Myst. Adorava i Simpson e poteva citare interi spezzoni di
episodi a memoria, gli piaceva Shrek, anche se non lo avrebbe mai ammesso, pensava che l’ultimo
Batman fosse ok e che la serie di X-Men fosse grandiosa. Gli piaceva anche il nuovo Superman,
nonostante quello che dicevano gli altri. Josh era un ragazzo normale.
Ma i ragazzi normali non si ritrovavano nel mezzo di un duello fra maghi incredibilmente antichi.
La magia non faceva parte di questo mondo. La magia era roba da effetti speciali al cinema. Oppure
di spettacoli con i conigli, le colombe e qualche volta le tigri, e David Copperfield che segava la gente
in due e levitava sopra il pubblico. La magia vera non esisteva.
Ma allora come spiegare quello che era appena successo in libreria? Aveva visto scaffali di legno
marcire davanti ai suoi occhi, libri dissolversi in poltiglia, aveva sentito la puzza di uova marce che
emanava dagli incantesimi di Dee e il profumo pulito della menta quando Fleming – Flamel – operava
la sua magia.
Josh Newman rabbrividì sotto la calda luce del pomeriggio e si tuffò nel Coffee Cup, aprendo lo
zainetto per prendervi il portatile scassato. Doveva connettersi a Internet con la linea wireless del
caffè; aveva dei nomi da cercare: il dottor John Dee, Perenelle e, soprattutto, Nicholas Flamel.

Sophie scarabocchiò un rapido messaggio su un tovagliolo, poi lo rilesse mordicchiando l’estremità


della matita.
“La signora Fleming si è sentita male. Fuga di gas in libreria. Siamo all’ospedale con il signor
Fleming. Tutto il resto ok. Ti chiamo dopo”.
Trovando il negozio chiuso poco prima dell’ora di punta, Bernice non sarebbe stata contenta.
Sophie pensò che rischiava di perdere il lavoro. Sospirando, firmò il biglietto con uno svolazzo che
strappò la carta del tovagliolo e lo attaccò alla cassa.
Nicholas Flamel sbirciò da sopra la sua spalla e lo lesse. — Molto bene, ottimo direi, e spiega pure
perché anche la libreria è chiusa. — Flamel si girò a guardare Josh, che stava battendo furiosamente
sui tasti del portatile. — Andiamo!
— Stavo solo dando un’occhiatina alla posta — mormorò Josh, spegnendo e chiudendo il computer.
— In un momento come questo? — chiese Sophie incredula.
— La vita va avanti. Le e-mail non si fermano per nessuno. — Si sforzò di sorridere, ma con scarso
successo.
Sophie afferrò la borsa e il giubbotto di jeans vintage, abbracciando per un’ultima volta il caffè con
lo sguardo. All’improvviso pensò che non lo avrebbe più rivisto per molto tempo, ma naturalmente
era una cosa ridicola. Spense le luci e fece cenno a suo fratello e a Nick Fleming di uscire prima di lei,
inserendo l’allarme. Quindi chiuse la porta, girò la chiave nella serratura e infilò il mazzo nella
cassetta delle lettere.
— E adesso? — chiese.
— E adesso cerchiamo aiuto e ci nascondiamo finché non ho capito che cosa fare con voi due. —
Flamel sorrise. — Siamo bravi a nasconderci: Perry e io lo facciamo da più di mezzo millennio.
— Che succederà a Perry? — chiese Sophie. — Dee… le farà del male? — Aveva conosciuto la
donna alta ed elegante nelle ultime settimane trascorse al caffè, e le piaceva. Non voleva che le
succedesse qualcosa di male.
Flamel scosse la testa. — Non può, lei è troppo potente. Io non ho mai studiato le arti della
stregoneria, ma Perry sì. In questo momento Dee può soltanto contenerla, impedendole di servirsi dei
suoi poteri. Ma nel giro di pochi giorni lei comincerà a invecchiare e a indebolirsi. Nell’arco di una,
massimo due settimane Dee sarà in grado di usare i propri poteri contro di lei. Ma per ora sarà cauto.
La terrà in trappola con incantesimi di guardia e sigilli… — Flamel vide l’espressione confusa sulla
faccia di Sophie. — L’attaccherà soltanto quando sarà sicuro della vittoria. Per prima cosa, però,
cercherà di scoprire l’ampiezza del suo sapere arcano. La sete di conoscenza è stata sempre il
maggiore pregio di Dee… e la sua debolezza più grande. — Si tastò con aria assente le tasche,
cercando qualcosa. — La mia Perry sa badare a se stessa. Ricordatemi di raccontarvi la storia di
quando ha sgominato un paio di Lamie greche, una volta o l’altra.
Sophie annuì, anche se non aveva idea di cosa fossero le Lamie greche.
Continuando a camminare per strada, Flamel trovò finalmente quello che stava cercando: un paio di
piccoli occhiali da sole rotondi. Li inforcò, si ficcò le mani nelle tasche del giubbotto di pelle e
cominciò a fischiettare stonato, come se non avesse un pensiero al mondo. Si girò a guardarli. — Be’,
datevi una mossa.
I gemelli si scambiarono uno sguardo attonito, quindi si affrettarono a seguirlo.
— L’ho cercato su Internet — mormorò Josh, con uno sguardo rapido alla sorella.
— Ecco cosa stavi facendo. Non riuscivo a credere che le e-mail per te fossero così importanti.
— Tutto quello che dice torna: Flamel è su Wikipedia, e Google dà duecentomila risultati per il suo
nome. Quelli per John Dee superano i tre milioni e mezzo. C’è anche Perenelle, e citano perfino il
Libro e tutto il resto. Ho trovato pure che quando Flamel è morto qualcuno ha profanato la sua tomba
alla ricerca di un tesoro, ma l’ha trovata vuota: niente corpo e niente tesoro. A quanto pare, a Parigi
c’è ancora la sua casa.
— Certo che non ha proprio l’aspetto di un mago immortale — mormorò Sophie.
— Non sono sicuro di sapere che aspetto abbiano i maghi — disse Josh sottovoce. — Conosco solo
quelli della TV.
— Non sono un mago — esclamò Flamel senza guardarli. — Sono un alchimista, un uomo di
scienza, anche se forse non del genere di scienza che conoscete voi.
Sophie affrettò il passo per raggiungerlo. Fece per toccargli il braccio e rallentarlo ma una scintilla,
simile a quelle generate dall’elettricità statica, le colpì le dita. — Aah! — ritrasse subito la mano, i
polpastrelli formicolanti. Che altro c’era adesso?
— Scusa — disse Flamel. — È un effetto collaterale di… be’, di quello che voi chiamereste magia.
La mia aura, il campo elettrico che circonda il mio corpo, è ancora carica. E reagisce al contatto con la
tua. — Sorrise, mostrando denti regolari e perfetti. — Questo significa che anche tu devi avere
un’aura potente.
— Che cos’è un’aura?
Flamel proseguì per un paio di passi lungo il marciapiede senza dire nulla, quindi si girò a indicare
una vetrina. La scritta TATUAGGI brillava da tubi fluorescenti. — Guarda qui… vedi il bagliore che c’è
attorno alle lettere?
— Lo vedo. — Sophie annuì, socchiudendo leggermente gli occhi. Ogni lettera era delineata da una
luce gialla e ronzante.
— Ogni essere umano ha un bagliore del genere attorno al corpo. Nel lontano passato, le persone
riuscivano a vederlo chiaramente: lo chiamarono “aura”, dalla parola greca che significa “respiro”.
Evolvendo, la maggior parte degli umani ha perso la capacità di vederla. Alcuni ci riescono ancora,
naturalmente.
Josh fece uno sbuffo di scherno.
Flamel si voltò a guardarlo. — È la verità: l’aura è stata perfino fotografata da una coppia di
coniugi russi, i Kirlian. Un campo elettrico circonda ogni organismo vivente.
— Che aspetto ha? — chiese Sophie.
Flamel tamburellò con il dito sulla vetrina del negozio. — Proprio come questo: un bagliore attorno
al corpo. L’aura di ciascuno di noi è unica. Ognuna ha un colore diverso, una forza diversa. Alcune
brillano in modo costante, altre pulsano; alcune compaiono attorno al contorno del corpo, altre lo
avvolgono come un involucro. Si capiscono moltissime cose dall’aura di una persona: per esempio, se
è malata o infelice, spaventata o arrabbiata.
— E lei riesce a vederla? — esclamò Sophie.
Flamel scosse la testa, cogliendoli di sorpresa. — No. Perry sì, qualche volta, ma io no. Ma so come
incanalare e dirigere l’energia. È ciò che avete visto poco fa: pura energia aurica.
— Penso che mi piacerebbe imparare a farlo — disse Sophie.
Flamel le lanciò una rapida occhiata. — Attenta a quello che desideri. L’uso di ogni potere ha un
prezzo. — L’uomo tese la mano. Sophie e Josh si accostarono a guardare sulla strada tranquilla. La
mano di Flamel stava tremando visibilmente. E quando Sophie lo guardò in faccia, notò che aveva gli
occhi molto rossi. — Quando si usa l’energia aurica, si bruciano moltissime calorie, come se si
corresse una maratona. È un po’ come prosciugare una batteria. Dubito che avrei potuto resistere
ancora a lungo contro Dee.
— Dee è più potente di lei?
Flamel sorrise, torvo. — Infinitamente. — Ficcandosi di nuovo le mani nelle tasche del giubbotto di
pelle, riprese a camminare, con Sophie e Josh che adesso gli stavano a fianco. In lontananza, il profilo
del Golden Gate cominciava a comparire sopra i tetti. — Dee ha trascorso gli ultimi cinque secoli a
coltivare ed espandere i suoi poteri; io ho trascorso lo stesso periodo a nascondere i miei,
concentrandomi solo sulle poche cose necessarie per tenere in vita me e Perenelle. Dee è stato sempre
potente, e tremo al pensiero di quello di cui sarà capace ora. — Arrivati in fondo alla collina fece una
pausa, guardò a destra e a sinistra, quindi girò bruscamente a sinistra e imboccò California Street. —
Avremo tempo per le domande più tardi. Adesso dobbiamo sbrigarci.
— Conosce Dee da molto tempo? — insisté Josh, deciso a ottenere qualche risposta.
Nicholas Flamel sorrise cupamente. — John Dee era già in età matura quando lo accettai come
apprendista. Prendevo ancora apprendisti all’epoca, e molti di loro mi hanno reso orgoglioso per ciò
che sono diventati. Sognavo di creare la futura generazione di alchimisti, scienziati, astronomi,
astrologi e matematici: uomini e donne che avrebbero creato un mondo nuovo. Dee era probabilmente
lo studente migliore che avessi mai avuto. Perciò suppongo si possa dire che lo conosco da quasi
cinquecento anni, anche se i nostri incontri sono stati un po’ sporadici negli ultimi decenni.
— Cosa lo ha trasformato in suo nemico? — chiese Sophie.
— L’avidità, la gelosia… e il Codice, il Libro di Abramo il Mago — rispose Flamel. — Lo ha
bramato per molto tempo, e adesso ce l’ha.
— Non tutto — gli rammentò Josh.
— No, non tutto — Flamel sorrise. Continuò a camminare in mezzo ai gemelli. — Quando era mio
apprendista a Parigi, Dee venne a sapere del Codice. Un giorno lo sorpresi mentre cercava di rubarlo, e
capii che si era alleato con gli Oscuri Signori. Mi rifiutai di condividere con lui i segreti che
conteneva e ne seguì una tremenda lite. Quella stessa notte mandò i suoi primi sicari a ucciderci, ma
erano umani e ce ne sbarazzammo facilmente. La notte successiva, i sicari che ci mandò erano
decisamente poco umani. Così Perry e io prendemmo il Libro, raccogliemmo i nostri pochi averi e
fuggimmo da Parigi. Dee ci dà la caccia da allora.
Si fermarono a un semaforo. Un trio di turisti inglesi era in attesa del verde e Flamel si zittì,
ammonendo Sophie e Josh a fare altrettanto con una rapida occhiata. Quando il semaforo scattò,
attraversarono la strada, i turisti diretti a destra, Nicholas Flamel e i gemelli a sinistra.
— Dove siete andati dopo aver lasciato Parigi? — chiese Josh.
— Londra — rispose Flamel conciso. — Dee riuscì quasi a prenderci nel 1666 — continuò. — Ci
scatenò contro un Fuoco Primordiale, una creatura selvaggia e dissennata che per poco non divorò
tutta la città. È passato alla storia come il Grande Incendio.
Sophie guardò il fratello. Tutti e due avevano sentito parlare del Grande Incendio di Londra, nelle
lezioni di storia. Era sorpresa di sentirsi così calma: eccola lì, ad ascoltare un tizio che dichiarava di
avere più di cinquecento anni, e che parlava di eventi storici come se li avesse vissuti in prima
persona. E lei gli credeva pure!
— Dee fu pericolosamente vicino a catturarci nel 1763, a Parigi — continuò Flamel — e poi di
nuovo nel 1835, quando lavoravamo come librai a Roma. È stato sempre il mio mestiere preferito —
aggiunse. Si zittì quando si avvicinarono a una comitiva di turisti giapponesi intenti ad ascoltare una
guida dall’ombrello giallo. Quando non furono più a portata d’orecchio proseguì, gli eventi di oltre un
secolo e mezzo prima palesemente freschi e dolorosi nella sua memoria.
— Fuggimmo in Irlanda, pensando che non ci avrebbe mai trovati su quell’isola ai confini
d’Europa. Ma ci inseguì. Era riuscito a imbrigliare e controllare gli Spettri, e ne aveva portati due con
sé: Malattia e Fame, senza dubbio con l’intento di metterli sulle nostre tracce. A un certo punto, però,
perse il controllo delle creature. La fame e la malattia imperversarono indisturbate su quella terra
desolata, e un milione di persone morì nella Grande Carestia che devastò l’Irlanda negli anni Quaranta
dell’Ottocento. — La faccia di Nicholas Flamel si indurì in una maschera. — Dubito che Dee si sia
fermato un attimo solo a rifletterci.
Sophie guardò di nuovo suo fratello. Capiva dall’espressione sul suo viso che si stava concentrando
al massimo, cercando di star dietro a quel diluvio di informazioni. Sapeva che avrebbe verificato in
rete alcuni di quei particolari. — Ma non vi ha mai preso — disse a Flamel.
— Fino a oggi, no — alzò le spalle e sorrise mestamente. — Era inevitabile, suppongo. Durante
tutto il Ventesimo secolo, si è avvicinato sempre di più. È diventato sempre più potente, mentre la sua
organizzazione fondeva la magia antica con la tecnologia moderna. Perry e io ci nascondevamo nel
Nuovo Mondo già da tempo, quando ci ha scatenato contro le Furie, e da allora abbiamo continuato a
trasferirci di città in città, partendo da New York nel 1901 e spostandoci gradualmente verso ovest.
Suppongo che trovarci fosse solo una questione di tempo — aggiunse. — Macchine fotografiche,
telecamere, telefoni e Internet rendono la vita dura a chi vuole nascondersi, di questi tempi.
— Questo libro… il Codice che sta cercando… — cominciò Josh.
— Il Libro di Abramo il Mago — chiarì Flamel.
— Cos’ha di tanto speciale?
Nicholas Flamel si fermò sul marciapiede così bruscamente che i gemelli non se ne accorsero
nemmeno e continuarono a camminare. Si girarono a guardarlo. Quell’uomo dall’aspetto così
ordinario spalancò le braccia in un gesto ampio, come per fare un inchino. — Guardatemi.
Guardatemi! Sono più vecchio dell’America. Ecco cos’ha di tanto speciale quel libro. — Flamel
abbassò la voce e continuò in tono concitato. — Ma vi dico una cosa… il segreto della vita eterna è
probabilmente l’ultimo dei segreti del Codice.
Sophie si ritrovò suo malgrado a infilare la mano in quella del fratello. Josh rispose con una lieve
stretta, e la ragazza capì, senza che dicesse una parola, che era spaventato quanto lei.
— Con il Codice, Dee può cambiare il mondo.
— Cambiare il mondo? — La voce di Sophie era un soffio roco, e l’aria di maggio sembrò di colpo
gelida.
— Cambiarlo come? — domandò Josh.
— Radicalmente — rispose Flamel sottovoce. — Dee e i suoi padroni, gli Oscuri Signori,
riplasmeranno questo mondo così com’era nell’antichità più remota e per noi inimmaginabile. E
l’unico posto che gli esseri umani vi troveranno sarà quello riservato agli schiavi. O al cibo.
CAPITOLO SEI
Pur potendo usare altri mezzi per comunicare, il dottor John Dee preferì il metodo privilegiato di
questo secolo: il cellulare. Mettendosi comodo sui freschi sedili in pelle della limousine, aprì il
telefonino, mise a fuoco il punto in cui Perenelle Flamel, priva di sensi, giaceva fra due Golem
grondanti, e scattò una foto.
Madame Perenelle Flamel. Sua prigioniera. Quella sì che era un’immagine per l’album dei ricordi.
Dee digitò un numero e premette il tasto di invio, quindi chinò la testa, contemplando la bella donna
che aveva di fronte. La cattura di Perenelle era stato uno straordinario colpo di fortuna, ma sapeva di
esserci riuscito solo perché lei aveva usato tanta energia per distruggere il Golem. Si accarezzò la
barba triangolare. Doveva ricrearne al più presto altri. Osservò i due che erano in macchina: nel poco
tempo che avevano trascorso sotto il sole del primo pomeriggio avevano già cominciato a screpolarsi.
Quello grosso alla sinistra di Perenelle stava sbriciolando la sua fanghiglia nera sul sedile di pelle.
Forse avrebbe scelto qualcosa di diverso dai Golem, la prossima volta. Quei bruti funzionavano
benissimo nei climi umidi, ma erano particolarmente inadatti all’estate della costa occidentale. Si
chiese se aveva ancora la ricetta per fare i ghoul.
Perenelle rappresentava un problema, tuttavia, un problema serio: non poteva stabilire con certezza
quanto fosse potente.
Dee aveva sempre provato una certa soggezione verso quella donna francese alta ed elegante.
All’inizio del suo apprendistato con Nicholas Flamel, l’Alchimista, aveva commesso l’errore di
sottovalutarla. Ma aveva scoperto ben presto che Perenelle Flamel era potente almeno quanto suo
marito – e in effetti, c’erano alcuni campi in cui lo era perfino di più. I tratti che rendevano Flamel un
alchimista tanto brillante – l’attenzione per il dettaglio, la conoscenza delle lingue antiche, la pazienza
infinita – facevano di lui uno stregone mediocre e un pessimo negromante. Era del tutto privo di
quella scintilla di pura immaginazione visionaria indispensabile per quel lavoro. Perenelle, invece, era
una delle fattucchiere più potenti che avesse mai conosciuto.
Dee si sfilò uno dei suoi guanti di pelle grigia e lo gettò sul sedile accanto. Sporgendosi verso la
donna, intinse il dito nell’argilla di uno dei Golem e tracciò un simbolo sinuoso sul dorso della mano
sinistra di Perenelle. Poi dipinse la stessa immagine anche sulla destra. Intinse di nuovo la mano nella
fanghiglia nera e appiccicosa, e mentre disegnava tre linee ondulate anche sulla sua fronte, Perenelle
spalancò di colpo i vivaci occhi verdi.
— Madame Perenelle, non so dirvi quanto mi faccia piacere rivedervi.
Perry aprì la bocca per parlare, ma le parole non volevano prendere forma. Provò a muoversi, ma
non solo i Golem la tenevano stretta per le braccia: anche i suoi muscoli si rifiutavano di obbedire.
— Ah, dovete scusarmi, ma mi sono preso la libertà di mettervi sotto un incantesimo di guardia.
Una cosina da niente, ma basterà finché non potrò organizzare qualcosa di più stabile. — Dee sorrise,
ma senza la minima traccia di allegria. Il suo cellulare suonò il tema di X-Files, e il dottore aprì subito
lo sportello del telefono. — Perdonatemi — disse rivolto a Perenelle.
— Avete ricevuto la foto? — chiese Dee. — Sì, pensavo che l’avreste trovato divertente: la
leggendaria Perenelle Flamel in mano nostra. Oh, sono sicuro che Nicholas verrà a cercarla. E noi
saremo pronti. Stavolta non ci sfuggirà.
Perenelle udì chiaramente la risata stridula all’altro capo del telefono.
— Sì, naturalmente. — Dee infilò la mano in una tasca interna della giacca e tirò fuori il libro dalla
rilegatura ramata. — Abbiamo il Codice. Finalmente. — Cominciò a sfogliare le spesse pagine dai
bordi consunti. Abbassò la voce, tanto che non si capì se stesse parlando con il suo interlocutore o con
se stesso. — Diecimila anni di conoscenze arcane racchiusi in quest’unico luogo…
Poi la voce si spense. Il telefono gli cadde dalle mani e rimbalzò, chiudendosi, sul tappeto della
macchina.
In fondo al Libro mancavano due pagine, che risultavano strappate in malo modo.
Dee chiuse gli occhi e si leccò le labbra con un rapido scatto della minuscola lingua. — Il ragazzo
— gracchiò. — È stato il ragazzo, quando gliel’ho strappato di mano. — Aprì gli occhi e cominciò a
studiare le pagine precedenti con la massima attenzione. — Forse non sono importanti… — mormorò
fra le le labbra che si muovevano mute mentre seguiva le lettere cangianti. Si concentrò sulle vivaci
miniature in cima a ogni pagina, che davano un’idea di quanto seguiva. Poi si fermò di colpo,
stringendo il Libro con dita tremanti. Quando rialzò la testa, i suoi occhi lampeggiavano. — Manca
l’Invocazione Finale! — gridò. Scintille gialle danzarono attorno alla sua testa, e il lunotto della
macchina si incrinò, formando una ragnatela di candide crepe. Riccioli di energia giallo-biancastra gli
colavano come saliva agli angoli della bocca. — Gira la macchina! — ruggì all’autista. — Subito!
Anzi no… cancella l’ordine. Flamel non è uno sciocco. Se ne saranno già andati da un pezzo. —
Raccolse con un gesto nervoso il telefono da terra e, evitando lo sguardo di Perenelle, si prese un
attimo di pausa per ricomporsi. Aiutandosi con un respiro profondo e tremante riuscì a ritrovare la
calma, quindi digitò un numero. — Abbiamo un piccolo problema — disse asciutto, la voce fredda e
priva di emozioni. — Pare che manchino un paio di pagine in fondo al Libro. Niente di importante, ne
sono certo. Forse potreste farmi una cortesia — disse come se niente fosse. — Potreste comunicare
alla Morrigan che necessito dei suoi servigi.
Dee notò che, a quel nome, gli occhi di Perenelle si erano sgranati per lo shock. Sorrise deliziato. —
Ditele che ho bisogno delle sue doti speciali e dei suoi particolari talenti. — Dopodiché chiuse il
telefono con uno scatto e puntò gli occhi su Perenelle Flamel. — Sarebbe stato tutto molto più facile
se mi aveste consegnato il Codice senza tante storie. Ora giungerà la Morrigan. E voi, madame, sapete
ciò che significa.
CAPITOLO SETTE
Fu Sophie a notare il ratto per prima.
I gemelli erano cresciuti a New York e avevano trascorso la maggior parte delle estati in California,
perciò un incontro del genere non era una novità. Vivendo a San Francisco, una città portuale, si
faceva presto l’abitudine a imbattersi in quelle creature, soprattutto al mattino presto e a notte fonda,
quando uscivano dalle tenebre e dalle fogne. A Sophie non facevano particolarmente paura, anche se,
come tutti, aveva sentito le storie dell’orrore e le leggende metropolitane che circolavano sul loro
conto – i cosiddetti “fatti veri” successi sempre al cugino o all’amico di un amico. Sapeva che in
genere erano animali innocui, a meno che non si trovassero alle strette, e ricordava di aver letto da
qualche parte che riuscivano a saltare molto in alto. Aveva anche scoperto in un articolo dell’inserto
domenicale del “New York Times” che negli Stati Uniti c’erano tanti ratti quante persone.
Ma quel ratto era diverso.
Liscio e nero, anziché del solito marrone sporco, se ne stava accovacciato e immobile
all’imboccatura di un vicolo, e Sophie avrebbe giurato che avesse gli occhi rossi e brillanti. E che li
stesse guardando.
Forse era un animale domestico scappato dalla gabbia?
— Ah, lo hai notato — mormorò Flamel, prendendola per il braccio e spingendola avanti. — Ci
stanno tenendo d’occhio.
— Chi? — chiese Josh confuso, girandosi di scatto e aspettandosi di vedere la lunga auto nera di
Dee scendere per la strada. Ma non c’erano macchine in vista, e nessuno sembrava degnarli di
particolare attenzione. — Dove?
— Il ratto. Nel vicolo — rispose concitato Nicholas Flamel. — Non guardare.
Ma era troppo tardi. Josh si era già girato. — Un ratto? Un ratto che ci tiene d’occhio? Non dirà sul
serio! — Fissò la creatura, aspettandosi che scappasse subito via. Ma il ratto si limitò ad alzare il
muso e a guardarlo, la bocca aperta a scoprire i denti aguzzi. Serpenti e ratti: odiava entrambi senza
distinzioni, anche se non quanto odiava i ragni. E gli scorpioni.
— I ratti non hanno gli occhi rossi, giusto? — chiese, guardando la sorella che, per quanto ne
sapeva lui, non aveva paura di nulla.
— Di solito no — rispose lei.
Quando si girò di nuovo, scoprì che adesso c’erano altri due ratti neri immobili nel vicolo. Un terzo
sgattaiolò fuori dalla penombra e si accovacciò a guardarli.
— Ok — disse Josh con calma. — Ho visto degli uomini di fango, immagino di poter accettare dei
rattispie. Parlano anche? — si chiese ad alta voce.
— Non essere sciocco — lo fulminò Flamel. — Sono ratti.
Josh non pensava che fosse un’idea tanto ridicola.
— Li ha mandati Dee? — chiese Sophie.
— Ci sta pedinando. I ratti hanno seguito il nostro odore dal negozio. Un semplice incantesimo
divinatorio permette a Dee di vedere quello che vedono loro. Sono uno strumento rozzo ma efficace e,
una volta che hanno il nostro odore, possono seguirlo finché non attraversiamo l’acqua. Ma quelli mi
preoccupano di più — indicò verso l’alto con il mento.
Sophie e Josh alzarono lo sguardo. Sui tetti degli edifici vicini si stava radunando un numero
straordinario di uccelli dal piumaggio nero.
— Corvi — disse Flamel secco.
— È una brutta notizia? — chiese Sophie. Dal momento in cui Dee aveva messo piede nel negozio,
le belle notizie non avevano certo abbondato.
— Potrebbe essere molto brutta. Ma penso che ce la caveremo. Ci siamo quasi. — Svoltò a sinistra
e condusse i gemelli nel cuore dell’esotico quartiere cinese di San Francisco. Oltrepassarono il Sam
Wong Hotel, quindi girarono prima a destra in una stretta stradina secondaria, poi subito a sinistra in
un vicolo ancora più angusto. Lontano dalle strade principali, relativamente pulite, i vicoli erano zeppi
di scatole e bidoni aperti, che puzzavano del caratteristico odore dolciastro e acre del cibo andato a
male. Quello in cui avevano appena svoltato era particolarmente fetido: le mosche riempivano l’aria e
gli edifici attorno erano così alti che il vicolo rimaneva cupamente avvolto nell’ombra.
— Sto per sentirmi male — mormorò Sophie. Giusto il giorno prima, aveva detto a suo fratello che
quelle settimane di lavoro al caffè avevano amplificato il suo senso dell’olfatto. Si era vantata di
riuscire a distinguere odori che non aveva mai sentito prima. Adesso se ne pentiva: l’aria era rancida
di frutta avariata e pesce marcio.
Josh si limitò ad annuire. Si stava sforzando di respirare con la bocca, anche se immaginava che in
quella maniera stava mandando giù un bel po’ di schifezze.
— Ci siamo quasi — disse Flamel. Sembrava insensibile agli odori nefasti in cui si trovavano
immersi.
I gemelli udirono un rapido fruscio e si girarono in tempo per scorgere cinque ratti neri che si
arrampicavano su dei bidoni aperti alle loro spalle. Un enorme corvo nero si era appollaiato sui cavi
elettrici che sovrastavano le pareti del vicolo.
Nicholas Flamel si fermò di colpo davanti a una semplice e anonima porta di legno, talmente
incrostata di sporco da essere quasi indistinguibile dal muro. Non c’erano né maniglie né serrature.
Spalancando la mano destra, Flamel collocò i polpastrelli su dei punti specifici e premette. La porta si
aprì con uno scatto. Afferrò Sophie e Josh, li spinse nell’ombra e si chiuse la porta alle spalle.
Dopo il tanfo acre dei vicoli, l’atrio aveva un profumo dolce e meraviglioso, di gelsomino e di
aromi esotici. I gemelli inspirarono profondamente. — Bergamotto — annunciò Sophie, identificando
l’odore di agrumi. — E anche ylang-ylang e patchouli, credo.
— Complimenti, brava — commentò Flamel.
— Ho imparato a riconoscere gli aromi al negozio. Mi piaceva molto il profumo delle tisane
esotiche. — Si fermò, rendendosi conto di parlare come se fosse destinata a non tornare più nel caffè a
sentire quei profumi meravigliosi. Più o meno a quell’ora, di solito, arrivava la fitta clientela del
primo pomeriggio, a ordinare cappuccini e latte macchiato, tè freddo e tisane. Scacciò le lacrime che
le bruciarono improvvisamente gli occhi. Il Coffee Cup le mancava perché era un posto comune,
normale e soprattutto reale.
— Dove siamo? — chiese Josh, guardandosi attorno adesso che la vista si era abituata alla luce
fioca. Si trovavano in un atrio lungo, stretto e immacolato. Le pareti erano rivestite di un lucido legno
biondo e il pavimento era coperto da tappetini di rafia bianca dall’intreccio complicato. Una semplice
soglia che sembrava fatta di carta li fronteggiava in fondo al corridoio. Josh stava per fare un passo in
quella direzione quando la stretta d’acciaio di Flamel gli serrò la spalla.
— Non ti muovere — mormorò l’uomo. — Aspetta. Guarda. Prendi nota. Tieni questi consigli a
mente e forse riuscirai a sopravvivere nei prossimi giorni. — Infilandosi la mano in tasca, estrasse un
quarto di dollaro. Se lo sistemò sul pollice, quindi lo scagliò in aria. La monetina fece due giravolte in
alto, poi cominciò la sua discesa al centro dell’atrio…
Si udì un sibilo quasi impercettibile, e un dardo dalla punta acuminata come un ago infilzò la
monetina da parte a parte, impalandola a mezz’aria e conficcandola sulla parete opposta.
— Ormai avete lasciato il mondo comune e sicuro che conoscevate — disse Nicholas Flamel in
tono grave, guardando i gemelli a turno. — Niente è come sembra. Dovete imparare a dubitare di
tutto. Ad aspettare prima di muovervi, a guardare prima di mettere piede ovunque e a osservare ogni
cosa. Io ho imparato queste lezioni con l’alchimia, voi ne scoprirete vostro malgrado il valore
inestimabile vagando per questo nuovo mondo. — Indicò in fondo al corridoio. — Guardate e
osservate. Ditemi: che cosa vedete?
Josh scorse il primo, minuscolo foro sulla parete. Era camuffato come un nodo del legno. Trovato il
primo, si accorse che ce n’erano a dozzine. Si chiese se ognuno di essi conteneva uno di quei dardi
sottili capaci di infilzare il metallo.
Sophie notò che il pavimento non aderiva perfettamente alla parete. In tre punti distinti, sia a destra
che a sinistra, vicino al battiscopa, c’era un’evidente apertura.
Flamel annuì. — Bravi. Ora osservate. Abbiamo visto quello che possono fare i dardi, ma c’è
un’altra difesa… — Prese un fazzoletto di carta dalla tasca e lo gettò sul pavimento, vicino a una delle
aperture. Si sentì un unico, rapido suono metallico e un’enorme lama a mezzaluna spuntò dalla parete,
stracciò il fazzoletto a metà, quindi tornò nella sua sede.
— Così se non ti beccano i dardi… — cominciò Josh.
— Ci pensano le lame — concluse Sophie. — Allora, come arriviamo alla porta?
— Non ci arriviamo — rispose Flamel, e si girò, premendo con le mani sulla parete di sinistra.
Un’intera sezione del muro si aprì con un clic, e arretrando permise al trio di entrare in una grande
stanza ariosa.
I ragazzi riconobbero il posto all’istante: era un dojo, una scuola di arti marziali. Da quando erano
piccoli, avevano studiato taekwondo in luoghi come quello sparsi per gli Stati Uniti, mentre si
trasferivano con i genitori da una scuola all’altra. Molte offrivano anche palestre di arti marziali, e i
loro genitori li iscrivevano sempre alla migliore. Sia Sophie che Josh erano cintura rossa superiore, un
grado sotto a quella nera.
A differenza di altri dojo, tuttavia, questo era semplice e disadorno, arredato con sfumature di
bianco e crema, le pareti bianche e dei tappetini neri sparsi sul pavimento. Ma ciò che catturò subito
l’attenzione dei gemelli fu la figura solitaria, in maglietta e jeans bianchi, seduta di spalle al centro
della stanza.
— Abbiamo un problema — esclamò Flamel con semplicità, rivolgendosi alla figura.
— Tu hai un problema; e questo non ha niente a che fare con me. — La figura non si girò, ma la
voce era sorprendentemente giovane e femminile, con un vago e morbido accento celtico: irlandese o
scozzese, pensò Sophie.
— Oggi Dee mi ha trovato.
— Era solo questione di tempo.
— Si è portato dietro dei Golem.
Ci fu una pausa. La figura continuò a non girarsi. — È sempre stato uno sciocco. Non si usano i
Golem nei climi asciutti. Tipico della sua arroganza.
— Ha preso Perenelle.
— Ah. Peccato. Ma non le farà del male.
— E ha il Codice.
La figura si mosse, levandosi lentamente in piedi e girandosi a guardarli. I gemelli rimasero
scioccati: si trovavano davanti a una ragazza poco più grande di loro. Aveva la pelle molto chiara,
punteggiata di lentiggini, e il viso rotondo era dominato dagli occhi, verdi come l’erba. I capelli erano
di un rosso così acceso che Sophie si chiese se non fossero tinti.
— Il Codice? — L’accento era decisamente irlandese, stabilì Sophie. — Il Libro di Abramo il
Mago?
Nicholas Flamel annuì.
— Allora hai ragione, abbiamo un problema.
Flamel si mise una mano in tasca e tirò fuori le due pagine che Josh aveva strappato. — Be’, quasi
tutto il Libro. Gli manca l’Invocazione Finale.
La giovane donna fischiò, un suono simile al bollitore dell’acqua, e un rapido sorriso le balenò sul
volto. — Che gli è necessaria, naturalmente.
— Naturalmente.
Josh stava fissando attentamente la giovane donna dai capelli rossi: la sua perfetta immobilità era la
stessa che aveva notato nella maggior parte dei maestri di arti marziali che conosceva. Guardò di
sottecchi la sorella e alzò le sopracciglia in una domanda muta, indicando con un lieve cenno del
mento la ragazza. Sophie scosse la testa. Erano incuriositi: perché Nicholas Flamel
la trattava con tanto palese rispetto? Sophie era anche giunta alla conclusione che l’espressione del
suo viso aveva qualcosa di strano, ma non aveva ancora capito cosa. Era un volto normale; forse gli
zigomi erano un po’ troppo sporgenti e il mento un po’ troppo appuntito, ma gli occhi color smeraldo
avrebbero inchiodato l’attenzione di chiunque… e poi, con un sussulto, Sophie si rese conto che la
ragazza non batteva mai le palpebre.
La giovane donna tirò indietro la testa e inspirò profondamente. — È per questo che sento odore di
Occhi?
Flamel annuì. — Ci sono ratti e corvi dappertutto.
— E li hai portati qui? — C’era una nota accusatoria nella sua voce. — Ho impiegato anni per
costruire questo posto.
— Se Dee ha il Codice, sai che cosa ci farà.
La giovane donna annuì. Puntò i grandi occhi verdi sui gemelli. — E questi due? — chiese, dando
segno di accorgersi finalmente di loro.
— Erano presenti quando Dee ha attaccato. Hanno combattuto per me, e il ragazzo è riuscito a
strappare le pagine dal Libro. Questa è Sophie e lui è suo fratello gemello, Josh.
— Gemelli? — La giovane donna fece un passo avanti, e guardò ora l’uno ora l’altro. — Non sono
identici, ma riesco a cogliere la somiglianza, adesso. — Si rivolse a Flamel. — Non starai
pensando…?
— Sto pensando che è un’interessante piega degli eventi — disse Flamel misteriosamente. Guardò i
gemelli. — Permettete che vi presenti Scathach. Poiché probabilmente non vi dirà molto di sé, sarò io
a dirvi che appartiene all’Antica Razza, e che ha istruito ogni guerriero ed eroe leggendario degli
ultimi duemila anni. Nella mitologia è nota come la Vergine Guerriera, l’Ombra, l’Assassina dei
Demoni, l’Artefice dei Re, la…
— Oh, chiamatemi soltanto Scatty — tagliò corto lei, con le guance dello stesso colore dei capelli.
CAPITOLO OTTO
Il dottor John Dee si rannicchiò sul sedile posteriore della macchina e cercò, senza riuscirci del tutto,
di controllare la sua collera. L’aria era densa dell’odore di zolfo e sottili riccioli di fuoco bianco-
giallognolo crepitavano attorno alle sue dita, ricadendo come viscido liquame a terra. Aveva fallito e,
per quanto i suoi padroni fossero pazienti – architettavano spesso piani che impiegavano secoli per
giungere a maturazione – la loro pazienza ormai stava cominciando a esaurirsi. E non erano certo
famosi per la compassione.
Immobile, bloccata dall’incantesimo di guardia, Perenelle Flamel lo osservava, gli occhi
lampeggianti in un misto di disprezzo e di quella che poteva perfino essere paura.
— Le cose si stanno complicando — mormorò Dee. — E io odio le complicazioni.
Dee teneva in grembo un piatto d’argento, in cui aveva versato della bibita gassata da una lattina –
l’unico liquido a sua disposizione in quel frangente. Aveva sempre preferito lavorare con l’acqua pura,
ma tecnicamente qualsiasi fluido andava bene. Chino sul piatto, fissò attentamente il liquido e fece
scorrere un po’ di energia aurica sulla superficie, mormorando le prime parole dell’incantesimo
divinatorio.
Per un istante il liquido scuro rimandò solo il suo riflesso, poi ebbe un fremito e cominciò ad
agitarsi e a ribollire furiosamente. Quando si placò, non rifletteva più il volto di Dee, ma mostrava
un’immagine stranamente piatta, in sfumature grigio-violacee e nero-verdastre. Il punto di vista era
basso, vicino a terra, e si muoveva di continuo con una rapidità nauseante.

— Non riesco a credere che tu li abbia portati qui — disse Scatty, ficcando manciate di vestiti in uno
zaino.
Nicholas Flamel stava in piedi sulla soglia della minuscola camera da letto di Scatty, a braccia
conserte. — È successo tutto così in fretta. Le cose andavano già male quando Dee ha preso il Codice,
ma quando ho scoperto le pagine mancanti ho capito che i gemelli sarebbero stati nei guai.
Al sentire la parola “gemelli”, Scatty sollevò lo sguardo da quello che stava facendo. — Sono loro
la vera ragione che ti ha portato qui, vero?
Flamel trovò improvvisamente qualcosa di molto interessante da fissare sulla parete.
Scatty attraversò rapidamente la piccola stanza, si affacciò in corridoio per assicurarsi che Sophie e
Josh fossero ancora in cucina, quindi spinse Flamel dentro la stanza e chiuse la porta.
— Hai in mente qualcosa, vero? — domandò. — C’è di più, oltre alla perdita del Codice. Avresti
potuto affrontare Dee e i suoi tirapiedi da solo.
— Non esserne così sicura. È passato tanto tempo dal mio ultimo combattimento, Scathach —
rispose Flamel in tono gentile. — L’unica alchimia che pratico, ormai, è quella necessaria a preparare
quel poco di pozione della pietra filosofale necessario a mantenere giovani Perenelle e me. Di tanto in
tanto, fabbrico un po’ d’oro e qualche strano gioiello quando abbiamo bisogno di soldi.
Scatty tossicchiò una risatina sostenuta e tornò ai suoi bagagli. Si era cambiata, adesso portava un
paio di pantaloni militari neri con le tasche, anfibi neri con la punta d’acciaio e una maglietta nera,
sopra la quale indossava un gilet, nero anch’esso, pieno di tasche e di zip. Infilò un secondo paio di
pantaloni nello zaino, trovò un calzino e si chinò a cercare il compagno sotto il letto.
— Nicholas Flamel — esclamò, la voce attutita dalle coperte — sei l’alchimista più potente del
mondo conosciuto. Ricorda, ero al tuo fianco quando hai combattuto contro il demone Fomor e sei
stato tu a salvarmi dalle segrete di An Chaor-Thanach, non il contrario. — Riemerse da sotto il letto
con il calzino mancante. — Quando le Rusalki terrorizzavano San Pietroburgo, sei stato solo tu a
scacciarle, e quando Black Annis infuriava a Manitoba, ti ho osservato sconfiggerla. Sei stato tu solo a
sgominare la Strega Notturna e la sua armata di Morti Viventi. Hai trascorso più di mezzo millennio a
leggere e studiare il Codice, nessuno più di te conosce le storie e le leggende in esso contenute… —
Scatty si fermò di colpo e rimase a bocca aperta, sgranando gli occhi verdi. — Ecco di che si tratta —
disse. — La leggenda…
Flamel distese il braccio e premette un dito contro le labbra di Scatty, impedendole di aggiungere
altro. Il suo sorriso era enigmatico. — Ti fidi di me? — chiese infine.
La risposta di Scatty fu immediata. — Senza riserve.
— Allora fallo. Voglio che tu protegga i gemelli. E che li addestri — aggiunse.
— Addestrarli! Sai quello che stai chiedendo?
Flamel annuì. — Voglio che li prepari per quello che ci aspetta.
— Vale a dire? — chiese Scathach.
— Non ne ho idea. — Flamel sorrise. — So solo che sarà una brutta cosa.

— Stiamo bene, mamma, sul serio, stiamo bene. — Sophie Newman inclinò leggermente il telefonino
per permettere anche al fratello di ascoltare. — Sì, Perry Fleming si è sentita male. Per via di qualcosa
che ha mangiato, probabilmente. Adesso sta bene. — Sophie poteva sentire le goccioline di sudore che
le imperlavano l’attaccatura dei capelli, sulla nuca. Si sentiva a disagio quando mentiva alla mamma,
anche se lei era talmente assorbita dal lavoro che non si preoccupava mai di controllare.
I genitori di Josh e Sophie erano archeologi. Erano famosi in tutto il mondo per le loro scoperte, che
avevano contribuito a cambiare il volto dell’archeologia moderna. Erano stati tra i primi a ritrovare, in
Indonesia, la specie di piccoli ominidi ora comunemente nota come hobbit. Josh diceva sempre che i
loro genitori vivevano cinque milioni di anni indietro nel tempo, e che erano felici soltanto quando si
trovavano con il fango fino alle caviglie. I gemelli sapevano di essere amati incondizionatamente, ma
sapevano anche che i loro genitori non li capivano… né capivano molto altro della vita moderna.
— Il signor Fleming porterà Perry fuori per un po’, nella loro casa nel deserto, e ci ha chiesto se ci
piacerebbe accompagnarli per una piccola vacanza. Ovviamente gli abbiamo detto che prima
dovevamo sentire voi. Sì, abbiamo già parlato con zia Agnes; ha detto che per lei non ci sono problemi
se sta bene a voi. Di’ di sì, mamma, ti prego.
Si girò a guardare suo fratello e incrociò le dita. Anche Josh incrociò le sue; avevano discusso
molto su cosa raccontare a tutte e due prima di fare le telefonate, e non sapevano che cosa avrebbero
fatto se la mamma avesse detto di no.
Sophie liberò le dita e mostrò al fratello il pollice alzato. — Sì, mi sono presa un po’ di ferie. No,
non saremo un disturbo. Sì, mamma. Sì. Ti voglio bene anch’io, e dillo anche a papà. — Sophie
rimase ad ascoltare, quindi scostò il telefono dalla bocca. — Papà ha trovato una dozzina di
Pseudoarctolepis sharpi in condizioni quasi perfette — riferì. Josh la guardò attonito. — Un crostaceo
molto raro del periodo cambriano — spiegò.
Il fratello annuì. — Di’ a papà che è fantastico. Ci facciamo sentire — gridò.
— Ti voglio bene — disse Sophie, tagliando la conversazione, quindi chiuse il telefono. — Detesto
mentirle — disse subito.
— Lo so. Ma non potevi dirle la verità, questa volta, non credi?
Sophie fece spallucce. — Immagino di no.
Josh si girò verso il lavello. Il portatile era appollaiato in posizione precaria sul ripiano dello
scolapiatti, accanto al cellulare. Stava usando il cellulare per navigare in rete perché, roba da non
credere, il dojo era sprovvisto di linea telefonica e connessione Internet.
Scatty viveva sopra la palestra in un piccolo bilocale, composto da una cucina e una camera da letto
con bagno, entrambe situate alle due estremità di un corridoio. Le due stanze erano collegate da un
piccolo ballatoio che si affacciava sul dojo sottostante. I gemelli erano in cucina mentre Flamel
aggiornava rapidamente Scatty sugli eventi dell’ultima ora in camera, all’altro capo del corridoio.
— Lei come ti sembra? — chiese Josh come se niente fosse, concentrandosi sul portatile. Era
riuscito a collegarsi, ma la connessione era di una lentezza esasperante. Andò su un motore di ricerca
e digitò una dozzina di versioni del nome “Scathach” prima di azzeccare l’ortografia giusta. — Eccola
qui: sessantaduemila voci per Scathach, l’Ombra o l’Ombrosa — disse, poi aggiunse su due piedi: —
Secondo me è forte.
Sophie colse al volo il senso di quel tono troppo casuale. Fece un grande sorriso e inarcò le
sopracciglia. — Chi? Oh, vuoi dire la guerriera di duemila anni. Non pensi che sia un pochino troppo
vecchia per te?
Una vampata di rossore colorò le guance di Josh, salendo da sotto il collo della maglietta. —
Fammi provare su Google — mormorò, le dita che battevano rumorosamente sulla tastiera. —
Quarantunmila risultati — disse. — A quanto pare è vera pure lei. Vediamo cosa c’è su Wikipedia —
proseguì, e poi si rese conto che Sophie non lo stava nemmeno guardando. Si girò verso la sorella e
scoprì che aveva gli occhi puntati oltre la finestra.
Sul tetto dell’edificio di fronte c’era un ratto che li fissava. Un secondo e un terzo lo raggiunsero
proprio in quel momento.
— Sono qui — sussurrò Sophie.

Dee si sforzò di ricacciare il pranzo nello stomaco.


Osservare il mondo attraverso gli occhi di un ratto era un’esperienza nauseante. Dato che avevano
un cervello molto piccolo, ci voleva una fatica enorme per mantenere le creature concentrate… e, in
un vicolo pieno di cibo rancido, non era un compito facile. Per il momento, Dee fu grato di non aver
sfruttato appieno il potenziale dell’incantesimo divinatorio, che gli avrebbe permesso di sentire tutti i
suoni, i gusti e – pensiero terrificante – gli odori in cui si imbatteva il ratto.
Era come guardare un televisore in bianco e nero sintonizzato male. L’immagine sfocava, si
inclinava e vacillava a ogni movimento dell’animale. Il ratto poteva correre in orizzontale, su per un
muro in verticale e a testa in giù lungo una corda, il tutto nel giro di una manciata di secondi.
Poi l’immagine si stabilizzò.
Direttamente di fronte a Dee, delineati in grigio-violaceo e soffusi di un bagliore nero-grigiastro,
c’erano i due umani che aveva visto nella libreria. Un ragazzo e una ragazza – di una quindicina di
anni, forse – che si somigliavano abbastanza da poter essere parenti. Fu colpito da un pensiero
improvviso, che per un attimo lo deconcentrò: fratello e sorella, probabilmente… oppure
qualcos’altro? Ma no!
Tornò a guardare nel piatto divinatorio e si concentrò usando tutta la sua forza di volontà,
costringendo il ratto che stava controllando a rimanere perfettamente immobile. Dee mise a fuoco i
due ragazzi, cercando di capire se uno era più grande dell’altra o viceversa, ma la vista del ratto era
troppo annebbiata e distorta per poterlo stabilire con certezza.
Ma se erano fratello e sorella e se davvero avevano la stessa età… significava che erano gemelli.
Curioso. Li guardò di nuovo e scosse la testa: erano umani. Scacciando il pensiero, fece partire un
unico comando, che si diffuse fra tutti i ratti nel raggio di un chilometro da dove si trovavano i
gemelli. — Distruggeteli. Distruggeteli completamente.
I corvi che si stavano ancora radunando sopra i tetti si alzarono in volo, gracchiando rochi, come in
una sorta di applauso.

Josh rimase a guardare a bocca aperta l’enorme ratto che balzava in avanti, superando senza il minimo
sforzo i due metri di distanza che separavano i due edifici, i denti aguzzi in mostra. Il ragazzo riuscì
appena a emettere un “Ehi!” prima di scansarsi dalla finestra di scatto… proprio mentre il ratto
colpiva il vetro con un suono sordo e molliccio, per poi precipitare nel vicolo, dove rimase a
zampettare attorno stordito.
Josh afferrò la mano di Sophie e la trascinò via dalla cucina, sul ballatoio. — Abbiamo un problema
— gridò. E si fermò.
Sotto di loro, tre enormi Golem stavano varcando la porta d’ingresso, spalancata, lasciandosi dietro
tracce di argilla. Subito dietro, in una fila lunga e sinuosa, avanzavano i ratti.
CAPITOLO NOVE
I tre Golem raggiunsero con passo rigido il corridoio, scorsero la porta aperta di fronte e proseguirono.
I sottili dardi metallici sbucarono sibilando dalle pareti e si conficcarono nella coriacea pelle delle
creature, ma non riuscirono nemmeno a rallentarle.
Le lame a mezzaluna del battiscopa, invece, erano un’altra storia. Sguainandosi di scatto dai loro
recessi nascosti, falciarono gli uomini d’argilla alle caviglie. La prima creatura rovinò sul pavimento,
atterrando con il suono sordo di un pesante blocco d’argilla. La seconda barcollò su un piede solo
finché non crollò lentamente in avanti, sbatté su una parete e scivolò giù, lasciandovi impressa una
scia di melma limacciosa. Allora le lame semicircolari scattarono di nuovo, tagliando le creature in
due con precisione chirurgica, e i Golem ritornarono bruscamente alle loro origini, imbrattando il
pavimento con densi grumi di fango.
Il terzo Golem, il più grosso, si fermò. Con gli occhi di pietra nera osservò attonito i resti dei suoi
due compagni, quindi si girò e sferrò un enorme pugno direttamente contro la parete, colpendo prima
a destra e poi a sinistra. Un’intera sezione di muro sulla sinistra cedette, rivelando lo spazio che
celava dall’altra parte. Il Golem entrò nel dojo e si guardò attorno, con gli occhi neri immobili, privi
di espressione.
Nel frattempo, i ratti si precipitavano di corsa verso la porta aperta in fondo al corridoio. La
maggior parte sopravvisse alla falciatura delle lame…

Nella limousine che sfrecciava lungo la strada, il dottor John Dee allentò il controllo sui ratti, per
concentrare la sua attenzione sul Golem sopravvissuto. Controllare la creatura artificiale era molto più
facile. I Golem erano esseri privi di un’intelligenza propria, creati mescolando il fango con i sassi o la
ghiaia per dare consistenza alle carni, e portati in vita con un semplice incantesimo, che veniva scritto
su una piccola pergamena e poi inserito nella bocca delle creature. Gli stregoni fabbricavano Golem di
tutte le forme e dimensioni da migliaia di anni: erano l’origine di tutte le storie di zombie e morti
viventi mai concepite. Lo stesso Dee aveva raccontato la storia del Golem più grande di tutti i tempi,
quella del Golem Rosso di Praga, a Mary Shelley in una fredda sera d’inverno, quando la scrittrice,
Lord Byron, il poeta Percy Bysshe Shelley e il misterioso dottor Polidori erano suoi ospiti nel castello
che possedeva in Svizzera. Era il 1816. Meno di sei mesi più tardi, Mary aveva scritto Il Prometeo
moderno, il libro che divenne poi noto come Frankenstein. Il mostro del suo romanzo era proprio
come un Golem: fatto di elementi disparati e portato in vita con la scienza magica. I Golem
resistevano alla maggior parte delle armi, anche se una caduta o un colpo improvviso potevano
infrangere la pelle di fango, soprattutto se era asciutta e indurita. In un clima umido seccavano di rado
e riuscivano a incassare botte incredibili, ma un clima caldo e secco come quello li rendeva più
fragili: ecco perché erano caduti così facilmente sotto i colpi delle lame nascoste. Alcuni stregoni, nel
dar loro vita, usavano il vetro o lo specchio per gli occhi, ma Dee preferiva le pietre nere e molto
levigate. Gli permettevano di vedere con estrema chiarezza, anche se non a colori.
Dee fece alzare la testa al Golem. Direttamente sopra di lui, su uno stretto ballatoio affacciato sul
dojo, c’erano le facce pallide e terrorizzate dei due ragazzi. Dee sorrise e le labbra del Golem lo
imitarono. Prima avrebbe fatto i conti con l’Alchimista; poi si sarebbe occupato di sistemare i
testimoni.
Tutt’a un tratto comparve la testa di Flamel, seguita, un attimo dopo, dagli inconfondibili capelli
appuntiti di Scathach, la Guerriera.
Il sorriso di Dee scomparve, e l’uomo ebbe un tuffo al cuore. Perché proprio Scathach? Non aveva
idea che la guerriera dai capelli rossi fosse in quella città, né in quel continente, se per questo.
L’ultima volta che aveva sentito parlare di lei, cantava in una band femminile di Berlino.
Attraverso gli occhi del Golem, Dee vide Flamel e Scathach che superavano con un balzo la
ringhiera del ballatoio e atterravano morbidi di fronte all’uomo di fango. Scathach disse qualcosa a
Dee, ma quel Golem non aveva orecchie, perciò lui non aveva idea di cosa gli avesse detto. Una
minaccia, probabilmente; di sicuro una promessa.
Flamel si allontanò, spostandosi verso la soglia, che adesso era scura e ingombra di ratti, lasciando
Scatty ad affrontare il Golem, e lui, da sola.
Forse non era più brava come una volta, pensò Dee disperatamente, forse il tempo aveva smorzato i
suoi poteri.

— Dovremmo aiutarli — disse Josh.


— E come? — ribatté Sophie con una punta di sarcasmo. Si trovavano sul ballatoio, e stavano
guardando giù. Erano rimasti a bocca aperta quando Flamel e Scatty avevano saltato la ringhiera e si
erano calati, fin troppo lentamente, a terra. La ragazza dai capelli rossi era di fronte all’enorme
Golem, mentre Flamel era corso alla porta dove si stavano raccogliendo i ratti. Gli animali
sembravano riluttanti a entrare.
Senza preavviso, il Golem scagliò il pugno enorme, subito seguito da un calcio poderoso.
Josh aprì la bocca per gridare un avvertimento, ma non fece in tempo a dire nulla: Scatty si era già
mossa. Un attimo prima era ancora davanti all’uomo d’argilla, e l’attimo dopo era già schizzata in
avanti, schivando i colpi, accostandosi al nemico da sotto. Mosse una mano, rapidissima, e sferrò un
colpo di piatto sotto la mascella della creatura. Con un suono liquido, vischioso, il Golem allentò la
mascella e spalancò la bocca. Nelle oscurità delle sue fauci, i gemelli scorsero chiaramente un
rettangolo di carta giallo.
La creatura si dibatté inferocita, ma Scatty balzò con grazia fuori dalla sua portata; quindi sferrò un
calcio, che questa volta, però, andò a vuoto colpendo le assi levigate del pavimento e riducendole a
pezzi.
— Dobbiamo aiutarla! — disse Sophie.
— Come? — gridò Josh, ma sua sorella era già corsa in cucina, alla disperata ricerca di un’arma.
Riemerse un attimo dopo con un forno a microonde. — Sophie — mormorò Josh — che hai intenzione
di fare con quel…?
Sophie lanciò il microonde oltre la ringhiera. Colpì il Golem in pieno petto e grumi di fango
schizzarono dappertutto. La creatura si fermò, confusa e disorientata. Scatty ne approfittò subito e si
fece di nuovo avanti, picchiando con pugni e calci da ogni angolatura, confondendo ancor più il suo
avversario. Il Golem sferrò un colpo così vicino a Scatty da scompigliarle i capelli, ma lei seppe
sfruttare la situazione: prese la creatura per il braccio e la fece ruotare su se stessa, scaraventandola al
tappeto. Le assi del rivestimento si spaccarono. Dopodiché la Guerriera allungò la mano… e con la
massima delicatezza sfilò il pezzettino di carta dalla bocca del Golem.
All’istante, il mostro ritornò alle sue fangose origini, spargendo melma fetida sul pavimento un
tempo immacolato del dojo. Il microonde cadde a terra con un gran fracasso.
— Addio cucina, immagino — mormorò Josh.
Scatty sventolò il rettangolo di carta verso i gemelli. — Ogni creatura magica è animata da un
incantesimo che si trova all’interno o sulla superficie del suo corpo. Tutto quello che dovete fare è
rimuoverlo. Non dimenticatelo.
Josh lanciò una rapida occhiata alla sorella. Sapeva che stava pensando la stessa cosa: se si fossero
mai imbattuti di nuovo in un Golem, non si sarebbero mai accostati abbastanza da potergli ficcare la
mano in gola.

Nicholas Flamel si avvicinò ai ratti con cautela. Sottovalutarli sarebbe stato fatale ma, se non si
faceva scrupoli a combattere ed eliminare le creature magiche, che non erano mai propriamente vive
di per sé, esitava a uccidere degli esseri viventi. Anche nel caso dei ratti. Perry non avrebbe avuto
rimorsi del genere, lo sapeva, ma lui era un alchimista da troppo tempo, ormai: era consacrato alla
conservazione della vita, non alla sua distruzione. I ratti erano sotto il controllo di Dee. Le povere
creature probabilmente erano terrorizzate… anche se questo non avrebbe impedito loro di divorarlo.
Flamel si accovacciò a terra, rivolse il palmo della mano destra verso l’alto e piegò le dita. Con un
soffio lieve, fece comparire una minuscola sfera di vapore verde. Poi, con un gesto brusco, girò la
mano e la affondò direttamente nelle assi levigate del pavimento, le dita che penetravano nel legno. La
minuscola sfera di energia verde si diffuse per la stanza allargandosi a macchia d’olio. Poi
l’Alchimista chiuse gli occhi e l’aura divampò attorno al suo corpo. Concentrandosi, fece fluire il suo
potere aurico dalle dita fino al pavimento.
Il legno cominciò a gonfiarsi.

Ancora sul ballatoio, i gemelli non sapevano cosa stesse facendo Flamel. Vedevano il debole bagliore
verde che si levava attorno al suo corpo come vapore dalla carne, ma non riuscivano a capire perché
l’orda di ratti riunita sulla soglia non si fosse già precipitata dentro.
— Forse c’è un incantesimo che fa in modo che non possano entrare — disse Sophie, sapendo per
istinto che il fratello stava pensando la stessa cosa.
Scatty la sentì. Stava riducendo sistematicamente a brandelli il pezzetto di carta che aveva
prelevato dalla bocca del Golem. — È soltanto un incantesimo di guardia — gridò. — Serve a tenere
insetti e ratti alla larga. Ogni volta che arrivavo qui trovavo i loro escrementi dappertutto; ci mettevo
secoli a pulire. L’incantesimo di guardia li tiene alla larga… ma è sufficiente che un solo ratto passi
perché diventi inefficace ed entrino anche tutti gli altri.

Nicholas Flamel sapeva benissimo che John Dee riusciva a vederlo attraverso gli occhi dei ratti.
Individuò il più grosso, una creatura delle dimensioni di un gatto, che rimaneva immobile mentre tutti
gli altri gli si agitavano attorno. Con la mano destra ancora affondata nelle assi del pavimento, puntò
la sinistra direttamente sul ratto. La creatura si contorse e, per un istante, i suoi occhi brillarono di una
luce giallognola e malvagia.
— Dottor John Dee, hai commesso il più grande errore della tua lunga vita. Verrò a cercarti —
promise Flamel a voce alta.

Dee alzò lo sguardo dal piatto divinatorio e si accorse che Perenelle Flamel era sveglia e lo stava
osservando attentamente. — Ah, madame, siete appena in tempo per assistere allo spettacolo delle
mie creature che sconfiggono vostro marito. E, insieme, avrò finalmente l’opportunità di fare i conti
con quella seccatura di Scathach, e riavrò le pagine del Libro. — Dee non notò che gli occhi di
Perenelle si erano sgranati al nome di Scathach. — Tutto sommato, è stata una buona giornata di
lavoro, direi. — Concentrò tutta la sua attenzione sul ratto più grosso e diede due semplici ordini: —
Attacca. Uccidi.
Dee chiuse gli occhi e il ratto, rianimatosi, si slanciò nella stanza.

La luce verde fluiva dalle dita di Flamel e correva lungo il pavimento, illuminando il profilo delle
tavole. All’improvviso, dalle assi spuntarono germogli, rami, foglie e infine il tronco di un albero… e
poi un altro… e un altro ancora. Nel giro di una manciata di secondi una piccola boscaglia era sbucata
dal pavimento e cresceva a vista d’occhio, innalzandosi verso il soffitto. Alcuni tronchi non erano più
spessi di un dito, altri erano della grandezza di un polso e uno, vicino alla porta, era così grande da
bloccare quasi l’apertura.
I ratti si girarono e si dispersero, squittendo striduli per il corridoio, cercando disperatamente di
sfuggire alle lame.
Flamel si rimise in piedi affaticato, spolverandosi le mani. — Uno dei più antichi segreti
dell’alchimia — esclamò, rivolto ai gemelli sbigottiti e a Scatty — è che ogni essere vivente, dalle
creature più complesse fino alla più semplice foglia, contiene in sé i semi della sua creazione.
— DNA — mormorò Josh, scrutando la foresta che continuava a crescere e a spuntare alle spalle di
Flamel.
Sophie si guardò attorno, osservando il dojo un tempo perfetto. Adesso era irriconoscibile,
imbrattato e sporco di melma, le assi lucide e levigate del pavimento infrante e squarciate dagli alberi
che vi crescevano in mezzo, altro fango fetido in corridoio. — Sta dicendo che gli alchimisti
conoscevano il DNA? — chiese.
L’Alchimista annuì, con aria allegra. — Proprio così. Quando Watson e Crick annunciarono di aver
scoperto quello che definirono “il segreto della vita” nel 1953, stavano soltanto riscoprendo qualcosa
che gli alchimisti conoscevano da sempre.
— Quindi sta dicendo che, risvegliando in qualche modo il DNA di queste tavole di legno, ha fatto
crescere gli alberi — disse Josh, scegliendo le parole con cura. — Come?
Flamel si girò a guardare la foresta che ormai si stava impadronendo dell’intero dojo. — Si chiama
magia — rispose soddisfatto. — E non ero sicuro di esserne ancora capace… finché Scatty non me lo
ha ricordato.
CAPITOLO DIECI
— Fatemi capire bene — disse Josh Newman, cercando di mantenere un tono di voce il più possibile
neutro. — Non sapete guidare? Nessuno dei due?
Josh e Sophie erano seduti sui sedili anteriori di un SUV, che Scatty aveva preso in prestito da uno
dei suoi allievi di arti marziali. Josh era alla guida, e sua sorella teneva una cartina in grembo.
Nicholas Flamel e Scathach sedevano dietro.
— Non ho mai imparato — rispose Nicholas Flamel, con una significativa scrollata di spalle.
— Mai avuto il tempo — spiegò Scatty, concisa.
— Ma Nicholas ci ha detto che hai più di duemila anni — disse Sophie, guardando la ragazza.
— Duemilacinquecentodiciassette, in base al calendario corrente di voi homines — borbottò Scatty.
Guardò Flamel dritto negli occhi chiari. — E quanti ne dimostro?
— Non un giorno più di diciassette — si affrettò a rispondere lui.
— E non hai trovato il tempo per imparare a guidare? — insisté Sophie. Era una cosa che lei aveva
desiderato fin da quando aveva dieci anni. E poi era una delle ragioni per cui i gemelli si erano
procurati dei lavori estivi quell’anno, invece che andarsene con i genitori allo scavo, era proprio
mettere da parte dei soldi per una macchina tutta loro.
Scathach alzò le spalle, seccata. — Volevo farlo, ma sono stata molto occupata — protestò.
— Lo sapete, vero — disse Josh — che non dovrei guidare senza avere accanto un adulto provvisto
di patente…
— Abbiamo quasi quindici anni e mezzo e sappiamo guidare tutti e due — aggiunse Sophie. — Be’,
più o meno…
— Sapete andare a cavallo? — chiese Flamel. — O guidare una carrozza o un tiro a quattro?
— Be’, no… — cominciò Sophie.
— Manovrare un cocchio da guerra mentre sferrate un colpo o scagliate delle lance? — aggiunse
Scatty. — O volare in groppa a un nathair-lucertola con la fionda in mano?
— Non ho idea di cosa sia un nathair-lucertola… e non sono sicura di volerlo sapere.
— Perciò vedete, voi siete esperti in certe abilità — disse Flamel — mentre noi ne abbiamo altre,
un po’ più vecchie, ma ugualmente utili. — Lanciò uno sguardo furtivo a Scathach. — Anche se non
credo che i nathair solchino ancora i cieli.
Superato lo stop, Josh girò a destra verso il Golden Gate, il famoso ponte cittadino. — Mi chiedevo
solo come avete fatto a vivere per tutto il Ventesimo secolo senza saper guidare. Insomma, come vi
spostavate da un luogo a un altro?
— Con i mezzi pubblici — rispose Flamel con un sorriso torvo. — Treni e autobus, soprattutto.
Sono completamente anonimi, a differenza degli aerei e delle navi. Ci vogliono troppe scartoffie per
possedere una macchina, scartoffie che potrebbero farci rintracciare, nonostante tutti gli pseudonimi
possibili. — Fece una pausa e aggiunse: — E poi, ci sono metodi diversi, più antichi, di viaggiare.
Se non fosse stato concentrato con tutte le sue forze sul controllo di quella pesante automobile, Josh
gli avrebbe rivolto centinaia di domande in proposito. Anche se sapeva guidare, infatti, gli unici
veicoli con cui aveva fatto pratica erano le jeep scassate con le quali accompagnavano i loro genitori
agli scavi. Non aveva mai guidato in mezzo al traffico, era terrorizzato. Sophie gli aveva suggerito di
fingere che fosse un videogioco. Era servito, ma solo un po’. Nei giochi, quando andavi a sbattere non
dovevi fare altro che ricominciare. Qui invece, se ti capitava, era per sempre.

Il traffico sul ponte avanzava lento. Una limousine dalla lunga carrozzeria era rimasta in panne nella
corsia centrale, causando un restringimento della carreggiata. Sophie notò che c’erano due sagome
vestite di scuro accovacciate sotto la capote. Si accorse di trattenere il fiato mentre si avvicinavano,
chiedendosi se fossero dei Golem.
Sospirò di sollievo quando, accostandosi, scoprì che i due uomini avevano piuttosto l’aria di
contabili stressati. Josh lanciò uno sguardo alla sorella e abbozzò un sorriso, e lei capì che avevano
avuto lo stesso timore.
Sophie si girò sul sedile per guardare Flamel e Scatty.
Nella penombra del SUV, rinfrescati dall’aria condizionata, avevano un aspetto così ordinario:
Flamel sembrava un hippy attempato, e Scatty, nonostante il gusto militaresco nel vestire, non sarebbe
apparsa fuori luogo dietro il bancone del Coffee Cup. La ragazza dai capelli rossi aveva appoggiato il
mento sul pugno e guardava l’isola di Alcatraz, oltre la baia, dal finestrino scuro.
Nicholas Flamel chinò la testa per seguire la direzione del suo sguardo. — Non ci vado da un pezzo
— mormorò.
— Noi abbiamo fatto la visita guidata — disse Sophie.
— A me è piaciuta — aggiunse Josh. — Ma a Sophie no.
— Era lugubre.
— Come è giusto che sia — commentò Flamel in tono calmo. — Ospita uno straordinario
assortimento di fantasmi e spiriti inquieti. L’ultima volta ci sono stato per liberarmi di un orribile
uomo-serpente.
— Non voglio nemmeno sapere cos’è un uomo-serpente — mormorò Sophie, poi fece una pausa. —
Soltanto un paio di ore fa, non mi sarei mai immaginata di dire una frase del genere…
Nicholas Flamel si appoggiò al comodo schienale della macchina e incrociò le braccia al petto. —
La vostra vita, la tua e quella di tua fratello, ormai è cambiata per sempre. Questo lo sapete, vero?
Sophie annuì. — Stiamo cominciando a farcene un’idea. Solo che sta succedendo tutto così in fretta
che è difficile da assimilare. Uomini d’argilla, magia, libri di incantesimi, ratti… — guardò Scathach.
— Antiche guerriere…
Scatty confermò con un cenno della testa.
— E, naturalmente, un alchimista di oltre seicento anni… — Sophie si fermò, colpita da un
pensiero improvviso. Guardò prima Flamel poi Scatty, quindi di nuovo Flamel. Poi si prese un attimo
per formulare la domanda. Fissandolo intensamente, chiese: — Lei è umano, vero?
Nicholas Flamel sorrise. — Sì. Forse un po’ più che umano, ma sì. Sono nato e resterò sempre della
razza umana.
Sophie guardò Scathach. — Tu, invece…
Scathach spalancò gli occhi verdi e, per un istante, qualcosa di antico si fece strada dai tratti del suo
viso. — No — disse con molta calma. — Non appartengo alla razza degli homines. I miei erano di
un’altra stirpe, l’Antica Razza. Governavamo questa terra prima che le creature che poi divennero gli
homines scendessero dagli alberi. Oggi, siamo ricordati nei miti di praticamente tutte le razze. Siamo
creature leggendarie, clan Mannari, Vampiri, Giganti, Draghi, Mostri. Alcune storie parlano di noi
menzionandoci come i Grandi Vecchi, o l’Antica Razza. Altre ci chiamano dei.
— Sei mai stata una dea? — sussurrò Sophie.
Scatty ridacchiò. — No, non sono mai stata una dea. Ma qualcuno fra la mia gente si è fatto adorare
come tale. Qualche altro lo è diventato nei racconti con cui gli homines narravano le loro avventure.
— Fece spallucce. — Eravamo solo un’altra razza, più antica dell’uomo, con doni e abilità diverse.
— Poi che è successo? — chiese Sophie.
— Il Diluvio — rispose Scatty in tono molto sommesso. — Fra l’altro.
— La Terra è molto più vecchia di quanto la maggior parte della gente immagini — aggiunse
Flamel. — Creature e razze che oggi sono soltanto miti, un tempo calpestavano il mondo.
Sophie annuì lentamente. — I nostri genitori sono archeologi. Ci hanno raccontato alcune delle cose
inesplicabili che l’archeologia talvolta rivela.
— Ti ricordi quel posto in cui siamo stati in Texas? Taylor-qualcosa… — soggiunse Josh, portando
prudentemente il SUV nella corsia centrale. Aveva sfiorato un paio di automobili ed era certo di aver
cozzato contro lo specchietto laterale di qualcuno, ma era filato via dritto senza fiatare.
— La Taylor Trail — precisò Sophie. — La cosiddetta “pista” rinvenuta sul Paluxy River, in Texas.
Ci sono quelle che sembrerebbero impronte umane e impronte di dinosauro nello stesso fossile, e la
pietra risale a più di cento milioni di anni fa.
— Le ho viste — replicò Flamel. — E ne ho viste altre simili in giro per il mondo. Ho anche
esaminato l’impronta di scarpa ritrovata ad Antelope Springs nello Utah… in una roccia di circa
cinquecento milioni di anni fa.
— Papà dice che i casi come questo si possono facilmente liquidare come falsi o come un
travisamento dei fatti — si affrettò ad aggiungere Josh. Si chiese che cosa avrebbe detto suo padre
delle cose che avevano visto quel giorno.
Flamel alzò le spalle. — Sì, è vero. Ma tutto ciò che non capisce, la scienza lo liquida in un modo o
nell’altro. Non sempre è così facile. Pensate di poter liquidare quello che avete visto e sperimentato
oggi come un travisamento dei fatti?
Sophie scosse la testa.
Accanto a lei, Josh alzò le spalle, imbarazzato. Non gli piaceva la piega che stava prendendo la
conversazione. Dinosauri ed esseri umani che vivevano nella stessa epoca era un’idea semplicemente
inconcepibile. Andava contro tutto quello che i loro genitori gli avevano sempre insegnato, contro
tutto quello in cui credevano. Ma da qualche parte in fondo al suo cervello, una vocina continuava a
ricordargli che ogni anno gli archeologi – inclusi i suoi genitori – continuavano a fare scoperte
stravaganti. Un paio di anni prima era stato l’Homo floresiensis, il popolo minuto dell’Indonesia,
ribattezzato hobbit; poi c’era stata la specie di dinosauri nani scoperta in Germania, e le tracce di
dinosauro vecchie centosessantacinque milioni di anni trovate nel Wyoming, per non parlare delle otto
nuove specie preistoriche rinvenute di recente in una grotta israeliana. Ma quello che le parole di
Flamel implicavano era sconcertante. — Sta dicendo che dinosauri ed esseri umani sono esistiti sulla
Terra nella stessa epoca — disse Josh, sorpreso dal tono arrabbiato della sua voce.
— Sto dicendo che gli esseri umani hanno convissuto su questa Terra con creature molto più strane,
e molto più antiche dei dinosauri — disse Flamel in tono grave.
— Come fa a saperlo? — domandò Sophie. Dichiarava di essere nato nel 1330, non poteva aver
visto i dinosauri… oppure sì?
— È tutto scritto nel Codice… e, nel corso della mia lunga vita, ho visto belve considerate miti, ho
combattuto esseri leggendari, ho affrontato creature che sembravano uscite da un incubo.
— A scuola abbiamo studiato Shakespeare il trimestre scorso… c’è un verso dell’ Amleto… —
Sophie aggrottò la fronte, sforzandosi di ricordare. — Ci sono più cose in cielo e in terra…
Nicholas Flamel annuì soddisfatto. — … di quante non sogni la tua filosofia — finì la citazione. —
Amleto, atto I, scena V. Conoscevo Will Shakespeare, naturalmente. E avrebbe potuto essere un
alchimista di straordinario talento… ma poi finì tra le grinfie di Dee. Povero Will; lo sapete che ha
basato il personaggio di Prospero, nella Tempesta, proprio su Dee?
— Non mi è mai piaciuto Shakespeare — borbottò Scatty. — Aveva un pessimo odore.
— Conoscevate Shakespeare? — Josh non riuscì a nascondere l’incredulità nella sua voce.
— È stato mio allievo, ma solo per poco, pochissimo tempo — disse Flamel. — Ho vissuto molto a
lungo; ho avuto molti allievi, alcuni passati alla storia, altri dimenticati. Ho incontrato molte persone,
umane e non, mortali e immortali. Persone come Scathach — concluse Flamel.
— Ce ne sono altri come te… altri dell’Antica Razza? — chiese Sophie, guardando la ragazza con i
capelli rossi.
— Più di quanti credi, anche se cerco di non averci niente a che fare — rispose Scatty imbarazzata.
— Alcuni di noi non riescono ad accettare che il nostro tempo sia finito, che quest’epoca appartenga
agli homines. Vogliono un ritorno al vecchio stile di vita, e credono che quel burattino di Dee e gli
altri suoi pari siano nella posizione di riuscirci. Si chiamano Oscuri Signori.
— Non so se l’avete notato — li interruppe Josh bruscamente. — Ma non vi sembra che si stiano
radunando un sacco di uccelli?
Sophie si sporse per guardare dal parabrezza, mentre Flamel e Scatty scrutarono dal lunotto
posteriore.
Ogni pilone, tirante, sostegno, cavo e cavetto del Golden Gate si stava riempiendo a poco a poco di
uccelli: ce n’erano migliaia. Per la maggior parte corvi e cornacchie, coprivano tutte le superfici
disponibili, e altri continuavano ad arrivare a frotte.
— Vengono da Alcatraz — disse Josh, chinando la testa per scrutare l’orizzonte oltre le acque
mosse.
Una nuvola nera si era raccolta sopra l’isola. Si levava dal carcere abbandonato in una spirale cupa,
aleggiando nell’aria come fumo; ma era un fumo che non si dissolveva: continuava a muoversi in
cerchi, compatto e solido.
— Uccelli. — Josh deglutì a fatica. — Ce ne saranno migliaia.
— Decine di migliaia — lo corresse Sophie. Si girò a guardare Flamel. — Di cosa si tratta?
— I figli della Morrigan — rispose lui enigmatico.
— Guai — aggiunse Scatty. — Guai grossi.
Poi, come in risposta a un unico comando, l’enorme stormo di uccelli si allontanò dall’isola e volò
sopra la baia, diretto al ponte.
Josh premette un pulsante e il finestrino scuro si abbassò con un ronzio. Il frastuono prodotto dagli
uccelli adesso si sentiva chiaramente: era un gracchiare rauco, come una risata stridula. Il traffico
stava rallentando, alcune persone si fermarono perfino per uscire dalla macchina e fotografare la scena
con le macchinette digitali e i cellulari.
Nicholas Flamel si sporse e mise la mano sinistra sulla spalla di Josh. — Dovresti guidare… —
disse in tono grave. — E non fermarti mai… qualunque cosa accada, anche se colpisci qualcosa. Tu
pensa a guidare e basta. Più veloce che puoi. Facci uscire dal ponte.
C’era qualcosa nella voce controllata e innaturale di Flamel che spaventò Sophie perfino più che se
si fosse messo a gridare. Lanciò un’occhiata in tralice a Scatty, ma la ragazza stava frugando nel suo
zaino. Ne estrasse un piccolo arco e una manciata di frecce, che poggiò sul sedile. — Tira su il
finestrino, Josh — disse calma. — Non vogliamo che entri qualcosa.
— Siamo nei guai, vero? — sussurrò Sophie, guardando l’Alchimista.
— Solo se i corvi ci raggiungono — rispose Flamel con un sorriso teso. — Puoi prestarmi il
cellulare?
Sophie sfilò il telefono dalla tasca e lo aprì. — Non farà nessuna magia? — chiese speranzosa.
— No. Farò una chiamata. Speriamo che non mi risponda la segreteria telefonica.
CAPITOLO UNDICI
I cancelli di sicurezza si aprirono e la limousine nera di Dee curvò nel vialetto. Il Golem chauffeur
condusse la macchina in un parcheggio sotterraneo, destreggiandosi fra le barriere. Perenelle Flamel
perse l’equilibrio e andò a sbattere contro il Golem rinsecchito che sedeva alla sua destra. Il corpo
della creatura emise una sorta di splash al contatto, e fetidi frantumi di argilla schizzarono
dappertutto.
Il dottor John Dee, seduto di fronte, fece una smorfia disgustata e si scansò il più lontano possibile
dalla creatura. Stava parlando in tono concitato al cellulare, in una lingua che sulla Terra non si usava
da oltre tremila anni.
Una goccia di fango del Golem cadde sulla mano destra di Perenelle. Il liquido appiccicoso scivolò
sulla pelle… e cancellò il simbolo sinuoso che Dee ci aveva disegnato sopra.
L’incantesimo paralizzante era parzialmente infranto. Perenelle Flamel chinò un poco la testa. Era
la sua occasione. Per incanalare al meglio i suoi poteri aurici, però, aveva bisogno di entrambe le
mani, inoltre il sigillo di guardia che Dee le aveva tracciato sulla fronte le impediva di parlare.
Tuttavia…
Perenelle Delamere si era sempre interessata alla magia, anche prima di incontrare il povero libraio
che più tardi sarebbe diventato suo marito. Era la settima figlia di una settima figlia, e a Quimper, il
piccolo villaggio in cui era cresciuta nel nord-ovest della Francia, la consideravano speciale. Aveva il
potere di guarire con le mani non solo gli uomini, ma anche gli animali, parlava con le ombre dei
morti e talvolta riusciva a intravedere scorci di futuro. Ma crescendo in un’epoca in cui tali abilità
erano guardate con profondo sospetto, aveva imparato a tenerle per sé. Giunta per la prima volta a
Parigi, aveva visto gli indovini che se la passavano piuttosto bene lavorando all’ombra della cattedrale
di Notre Dame. Adottando il nome di Chatte Noire – Gatta Nera – per via dei suoi capelli corvini, si
era allestita un piccolo padiglione nella stessa zona. Grazie all’autenticità del suo talento, era riuscita
a farsi un’ottima reputazione nel giro di poche settimane, attirando non solo artigiani e stallieri, come
all’inizio, ma anche mercanti e perfino aristocratici.
Nell’area intorno al suo padiglione sedevano anche gli scrivani e i copisti, che si guadagnavano il
pane redigendo lettere per chi non sapeva né leggere né scrivere. Alcuni, come quell’uomo bruno e
snello dagli occhi incredibilmente chiari, vendevano di tanto in tanto anche dei libri. Dal primo
momento in cui lo aveva visto, Perenelle Delamere aveva capito che si sarebbero sposati e che
avrebbero condiviso una vita lunga e felice. L’unica cosa che le era sfuggita, era quanto sarebbe stata
lunga quella vita.
Si erano sposati meno di sei mesi dopo il loro primo incontro. Adesso erano insieme da più di
seicento anni.
Come la maggior parte degli uomini istruiti del suo tempo, Nicholas Flamel era affascinato
dall’alchimia, una combinazione di scienza e magia. Il suo interesse era nato perché ogni tanto gli
capitava di smerciare libri o tavole sull’argomento, o qualcuno lo incaricava di copiare un’opera rara.
A differenza di molte altre donne dell’epoca, Perenelle sapeva leggere e conosceva diverse lingue – il
suo greco era migliore di quello del marito – tanto che spesso Flamel le chiedeva di leggere per lui.
Così aveva conosciuto presto gli antichi saperi della magia e aveva cominciato a fare un po’ di pratica,
coltivando le proprie capacità e concentrandosi su come incanalare e focalizzare l’energia aurica.
Quando erano entrati in possesso del Codice, Perenelle era già un’abile fattucchiera, sebbene avesse
poca pazienza per la matematica e i calcoli dell’alchimia. Ciononostante, era stata proprio lei a capire
che il libro scritto in quella strana lingua cangiante non era soltanto un’impareggiabile storia del
mondo, ma una raccolta di dottrina, scienza, incantesimi e magie. Una fredda notte d’inverno, mentre
meditava sulle pagine e osservava le parole che si spostavano davanti ai suoi occhi, all’ennesimo
plasmarsi e riplasmarsi delle lettere le era parso di scorgere, per un brevissimo istante, la formula
iniziale della pietra filosofale: aveva subito capito di trovarsi di fronte al segreto della vita eterna.
I coniugi avevano trascorso i venti anni successivi in giro per l’Europa, giungendo fino in Russia, a
est, e sbarcando in Nord Africa, a sud, fino ad arrivare in Arabia, nel tentativo di decifrare e tradurre il
curioso manoscritto. Avevano stretto contatti con maghi e stregoni di molte terre, studiando diversi
tipi di magia. A Nicholas però la magia importava solo relativamente; preferiva di gran lunga la
scienza dell’alchimia. Il Codice, così come altri libri, accennava all’esistenza di precise formule per
ricavare l’oro dalla pietra e i diamanti dal carbone. Perenelle, invece, aveva imparato quanto più
poteva su tutte le arti magiche. Ma era passato molto tempo da quando le praticava seriamente.
Adesso, intrappolata nella limousine, richiamò alla memoria un trucco che le aveva insegnato una
strega siciliana. Era stato ideato per combattere contro i cavalieri in armatura, ma con un piccolo
ritocco…
Chiudendo gli occhi e concentrandosi, Perenelle fece scorrere il mignolo sul sedile della macchina,
disegnando un cerchio. Dee era assorto nella sua telefonata e non vide la minuscola e candida scintilla
che si sprigionò dalla punta del suo dito per conficcarsi nel delicato rivestimento di pelle dell’auto,
avviluppandosi attorno alle molle sottostanti. Da qui proseguì rapida, frizzando e sibilando, fino al
corpo metallico della macchina. Si intrufolò nel motore, ronzando nei cilindri, attorno alle ruote,
schioccando e scoppiettando. Un copriruota si staccò e balzò via… e poi, di colpo, l’impianto elettrico
impazzì. I finestrini cominciarono ad alzarsi e abbassarsi da soli; il tettuccio prima si aprì con un
ronzio, poi si richiuse di scatto; i tergicristalli presero a raschiare il parabrezza asciutto, quindi si
misero a scorrere così veloci che si staccarono del tutto. Il clacson suonava all’impazzata, le luci
interne lampeggiavano a intermittenza. Lo schermo del piccolo televisore sulla parete di sinistra si
accese da solo e cominciò a passare ininterrottamente da un canale all’altro.
Nell’aria si sprigionò un odore metallico. Spirali di energia statica danzavano all’interno dell’auto.
Dee gettò via il cellulare, le dita doloranti. Il telefono atterrò sulla moquette ed esplose in schegge di
plastica fusa e metallo bollente.
— Voi… — cominciò Dee, girandosi verso Perenelle, ma la macchina si fermò traballando,
completamente fuori uso. Dal motore si levarono delle fiamme, che riempirono il retro dell’auto di
vapori tossici. Dee cercò di aprire lo sportello, ma si erano attivate le chiusure elettriche. Con un grido
furioso, strinse il pugno e si lasciò pervadere da tutta la sua rabbia. Il puzzo di fumo, plastica bruciata
e gomma fusa fu di colpo coperto dal fetore di zolfo, e la mano dell’uomo sembrò avvolta in un
guanto di metallo dorato. Dee colpì lo sportello, staccandolo dai perni, e si gettò fuori, atterrando sul
cemento.
Si trovava nel parcheggio sotterraneo della Enoch Enterprises, la grande azienda cinematografica
che possedeva e dirigeva a San Francisco. Si ritrasse goffamente, mentre la sua preziosissima auto
personalizzata da centoventimila dollari veniva rapidamente consumata dal fuoco. Il calore intenso
ridusse il cofano della macchina in tronconi di metallo, mentre il parabrezza si fuse come cera. Il
Golem che faceva da autista era ancora seduto al volante, insensibile alle fiamme che gli cuocevano la
pelle rendendola dura come l’acciaio.
Poi il sistema antincendio del garage scattò, spruzzando acqua fredda ovunque.
Perenelle!
Bagnato fradicio, piegato in due e in preda a un attacco di tosse, Dee si asciugò le lacrime dagli
occhi, raddrizzò la schiena e usò entrambe le mani per spegnere le fiamme con un solo, unico gesto.
Evocò una piccola brezza per spazzare via il fumo, quindi chinò la testa per sbirciare nell’interno
annerito dell’auto, quasi con il timore di quello che vi avrebbe trovato.
I due Golem che sedevano ai lati di Perenelle erano ridotti in cenere. Ma della donna non c’era
traccia, tranne che per lo squarcio in uno sportello, che sembrava fatto da una scure.
Dando le spalle alla macchina distrutta, Dee si prostrò a terra e batté le mani sull’orrida miscela di
fango, olio, plastica fusa e gomma bruciata. Non era riuscito a recuperare tutto il Codice e, adesso,
Perenelle era fuggita. La giornata poteva andare peggio di così?
Poi sentì un ticchettio di passi sul cemento.
Con la coda dell’occhio, il dottor John Dee vide degli stivali neri a punta, con i tacchi a spillo,
materializzarsi nella sua visuale. Ed ebbe la risposta alla sua domanda. Sì, la giornata stava per andare
peggio: molto peggio. Stampandosi un sorriso sulle labbra, si alzò rigidamente in piedi e si preparò a
fronteggiare uno dei pochi Oscuri Signori in grado di instillargli un genuino terrore.
— Morrigan.
Gli antichi irlandesi l’avevano chiamata la Dea Corvo, ed era stata adorata e temuta in tutti i regni
celtici come la Dea della Morte e della Distruzione. Un tempo erano tre sorelle: Badb, Macha e la
Morrigan, ma le altre erano scomparse nel corso degli anni – Dee aveva i suoi sospetti al riguardo – e
la Morrigan adesso regnava incontrastata.
Era più alta di Dee, anche se a dire il vero la maggior parte della gente era più alta del dottore, e
vestiva da capo a piedi di pelle nera. Il corpetto era tempestato di scintillanti borchie d’argento, che lo
rendevano simile al pettorale di una corazza, e i guanti di pelle, ornati anch’essi di borchie
rettangolari d’argento sul dorso delle dita, avevano le punte mozze, così che le unghie lunghe e nere
della Morrigan, simili ad artigli, rimanevano scoperte. Indossava una pesante cintura di cuoio attorno
alla vita, trapunta di piccoli scudi circolari. Drappeggiato sulle sue spalle, con l’ampio cappuccio
tirato quasi sul volto, sventolava un mantello fatto interamente di piume di corvo, lungo fino a terra.
All’ombra del cappuccio, il volto della Morrigan sembrava perfino più pallido del solito. Gli occhi
erano neri come la pece, senza alcuna traccia di bianco; perfino le labbra erano nere. La punta dei suoi
lunghi incisivi sporgeva sul labbro inferiore.
— È roba tua, credo. — La voce della Morrigan era un sussurro aspro, stridulo e spezzato, come il
gracchiare di un uccello.
Perenelle Flamel si fece avanti, muovendosi lentamente, con cautela. Due enormi corvi erano
appollaiati sulle sue spalle, con il becco affilatissimo e letale puntato sui suoi occhi. Era riuscita a
stento a fuggire dalla macchina in fiamme, disperatamente fiaccata dall’uso della magia, quando era
stata attaccata dagli uccelli.
— Mostramelo — ordinò la Morrigan avidamente.
Dee infilò la mano nella giacca ed estrasse il Codice dalla copertina di metallo. Sorprendentemente,
la Dea Corvo non allungò la propria per prenderlo.
— Aprilo — disse.
Un po’ disorientato, Dee tenne il Libro di fronte alla Morrigan e girò le pagine, toccando l’antico
oggetto con evidente reverenza.
— Il Libro di Abramo il Mago — sussurrò lei, sporgendosi in avanti, ma senza avvicinarsi al
volume. — Mostrami la fine.
Con riluttanza, Dee obbedì all’ordine. Quando la Morrigan vide le pagine danneggiate, sibilò
sprezzante: — Sacrilegio. Aveva oltrepassato migliaia di anni senza subire danni.
— È stato il ragazzo a strapparlo — spiegò Dee, chiudendo il Codice con delicatezza.
— Farò in modo che paghi per questo. — La Dea Corvo chiuse gli occhi e chinò la testa di lato,
come per mettersi in ascolto. Gli occhi neri mandarono un bagliore e la dea piegò le labbra in un raro
sorriso, che mise in mostra il resto della sua aguzza dentatura. — E presto. I miei figli li hanno quasi
raggiunti. Pagheranno tutti — promise.
CAPITOLO DODICI
Josh intravide un varco fra due auto – un maggiolino e una Lexus. Schiacciò sull’acceleratore e la
macchina scattò in avanti. Ma lo spazio non era sufficiente. Il suv colpì gli specchietti laterali delle
altre due automobili, portandoseli via. — Ops… — Josh tolse subito il piede dall’acceleratore.
— Continua — ordinò Flamel deciso. Parlava in modo concitato al telefono di Sophie, in una lingua
rauca, gutturale, che non somigliava a niente che i gemelli avessero mai udito.
Evitando volutamente di guardare nello specchietto retrovisore, Josh proseguì rombando lungo il
ponte, ignorando i clacson e le grida alle sue spalle. Sfrecciò sulla corsia esterna, si infilò in quella
centrale e poi tornò di nuovo all’esterno.
Sophie si reggeva forte al cruscotto, scrutando tutto a occhi socchiusi. — Non pensarci nemmeno —
mormorò, quando una decappottabile italiana puntò lo stesso varco verso cui si stava dirigendo Josh.
Il guidatore, un uomo con una quantità assurda di catenine d’oro attorno al collo, accelerò. Ma non ce
la fece.
Il pesante SUV colpì il fianco anteriore della decappottabile, ammaccandole il paraurti. L’auto
sportiva fu spinta all’indietro e con un doppio testacoda nel bel mezzo del ponte affollato finì contro
le vetture che sopraggiungevano. Josh se la svignò in fretta e furia attraverso il varco.
Flamel si girò a guardare dal lunotto il caos che si erano lasciati alle spalle. — Ma non avevi detto
che sapevi guidare? — mormorò.
— Certo che so guidare — disse Josh, sorpreso dal tono calmo e fermo della sua voce. — Ma non
ho mica detto che sono bravo. Pensate che qualcuno ci abbia preso la targa? — chiese. Altro che
videogiochi! Si sentiva le mani viscide e appiccicose e delle goccioline di sudore gli scorrevano giù
per il collo.
— Penso che abbiano altre cose a cui pensare — sussurrò Sophie.
I corvi erano calati sul Golden Gate. A migliaia. Giunsero come un’ondata nera, gracchiando e
schiamazzando, le ali che sbattevano violentemente. Volteggiavano sopra le vetture, si tuffavano in
picchiata, e alcuni atterravano su tettucci e cofani a beccare il metallo e il vetro. Lungo tutto il ponte
le auto sbandavano e si scontravano le une contro le altre.
— Hanno perso la concentrazione — disse Scathach, osservando il comportamento degli uccelli. —
Ci stanno cercando, ma hanno dimenticato la descrizione. Hanno un cervello così piccolo —
commentò in tono sarcastico.
— Qualcosa ha distratto la loro oscura padrona — esclamò Nicholas Flamel. — Perenelle — disse
soddisfatto. — Chissà che avrà combinato. Qualcosa di scenografico, senza dubbio. Ha sempre avuto
il senso dello spettacolo.
Ma proprio mentre pronunciava quelle parole, gli uccelli si levarono di nuovo in volo e poi, come
una cosa sola, puntarono tutti i loro occhi scuri in direzione del SUV in fuga. Stavolta, quando
gracchiarono, il suono ricordò delle grida di trionfo.
— Stanno tornando — disse Sophie con un filo di voce. Si accorse che il cuore le batteva a più non
posso. Cercò il sostegno di Flamel e della Guerriera con lo sguardo, ma le loro espressioni cupe non la
rassicurarono.
Scathach la guardò e disse: — Adesso siamo nei guai.
In un’unica, enorme massa di piume nere, i corvi si gettarono all’inseguimento della macchina.
La maggior parte del traffico sul ponte adesso era bloccata. La gente sedeva impietrita in auto
mentre gli uccelli fluivano, orribili e maleodoranti, sopra la sua testa. Il SUV era l’unico veicolo in
movimento. Josh teneva il piede schiacciato sull’acceleratore, la lancetta del contachilometri sfiorava
i centotrenta. Stava cominciando a sentirsi più a suo agio con i comandi: non colpiva più niente da
almeno un minuto. La fine del ponte era vicina. Sorrise: ce l’avrebbero fatta.
E poi un corvo gigantesco atterrò sul cofano.
Sophie urlò e Josh sterzò bruscamente, cercando di scacciare la creatura malefica, ma l’uccello si
era arpionato al cofano con gli artigli. Il volatile piegò la testa di lato, guardando prima Josh, poi
Sophie, quindi con due brevi saltelli si portò di fronte al parabrezza e scrutò dentro, gli occhi neri
lampeggianti.
Beccò il vetro, che subito si aprì in un forellino circondato da una ragnatela di crepe.
— Non dovrebbe poter fare una cosa del genere — disse Josh, cercando di tenere gli occhi sulla
strada.
Il corvo beccò di nuovo e sul vetro comparve un altro forellino. Poi si sentì un colpo sordo, seguito
da un secondo e da un terzo: tre corvi erano atterrati sul tettuccio della macchina. Sotto il becco degli
uccelli, il metallo della carrozzeria risuonava di colpi secchi.
— Detesto i corvi — sospirò Scathach. Frugò nel suo zaino e tirò fuori un set di nunchaku – due
pezzi di legno ornati con elaborate incisioni, lunghi trenta centimetri e collegati da una piccola catena.
Fece rintoccare i bastoni sul palmo della mano. — Peccato che non abbiamo un tettuccio apribile —
disse. — Sarei potuta uscire a dargli un assaggino di questi.
Flamel indicò il punto in cui un raggio di luce penetrava da un foro nella carrozzeria. — Potremmo
averne uno presto. E comunque — aggiunse — questi non sono corvi normali. I tre sul tetto e quello
sul cofano sono i Corvi della Morte, i preferiti della Morrigan.
L’enorme uccello sul cofano picchiò di nuovo contro il parabrezza, e stavolta il becco penetrò per
intero nel vetro.
— Non so, vediamo… che posso fare… — cominciò Scathach, e poi Sophie si sporse in avanti e
azionò i tergicristalli. Le lame robuste si attivarono, e spazzarono via l’uccello dal cofano in un
turbinio di piume, accompagnato da un versaccio stridulo di sorpresa. La guerriera dai capelli rossi
sorrise. — Be’, questa era una possibilità, naturalmente.
Adesso anche tutti gli altri uccelli avevano raggiunto il SUV. Si posarono sul veicolo come una
spessa coltre. Prima a dozzine, poi a centinaia si raccolsero sul tettuccio, sul cofano, sugli sportelli,
attaccandosi a ogni possibile sporgenza. Non appena uno cadeva o perdeva la presa, dozzine di altri
facevano a gara per prendere il suo posto. Il rumore all’interno dell’abitacolo era incredibile: migliaia
di uccelli beccavano e picchiettavano il metallo, il vetro, le porte. Strapparono le guarnizioni di
gomma dei finestrini, lacerarono la ruota di scorta dietro al SUV, riducendola a brandelli. Ce n’erano
così tanti sul cofano e contro il parabrezza che Josh non riusciva a vedere dove stava andando. Tolse il
piede dall’acceleratore e la macchina immediatamente rallentò.
— Vai! — gridò Flamel. — Se ti fermi, siamo davvero perduti.
— Ma non vedo niente!
Flamel si sporse fra i sedili e allungò la mano destra. Sophie vide il piccolo tatuaggio circolare che
aveva all’interno del polso. Una croce dentro un cerchio, con i bracci che oltrepassavano la
circonferenza. Per un istante brillò… dopodiché l’Alchimista schioccò le dita. Una piccola sfera di
fuoco sibilante gli comparve sulla punta delle dita. — Chiudete gli occhi — ordinò. Senza aspettare di
vedere se obbedivano, scagliò la sfera contro il vetro.
Perfino con le palpebre chiuse, i gemelli riuscirono a vedere la luce fulminea che illuminò l’interno
della macchina.
— Adesso vai — ordinò Nicholas Flamel.
Quando i gemelli aprirono gli occhi, la maggior parte dei corvi sul cofano si era dileguata, e i pochi
rimasti sembravano storditi, sotto shock.
— Non li terrà lontano a lungo — disse Scatty. Alzò lo sguardo proprio mentre un becco
affilatissimo perforava il tettuccio di metallo. La Guerriera fece scattare il nunchaku. Tenne un
bastone in mano, mentre l’altro, attaccato alla sua corta catena, guizzò in avanti con forza colpendo il
becco incastrato nel tettuccio. Con un verso acuto, il becco – leggermente piegato – scomparve.
Sophie guardò nello specchietto laterale, che pendeva sul fianco della macchina appeso soltanto a
un brandello di carrozzeria e a qualche cavo metallico. E nel riflesso vide altri uccelli – migliaia – che
accorrevano a rimpiazzare quelli appena spazzati via, e capì che non ce l’avrebbero fatta.
Semplicemente, ce n’erano troppi.
— Ascoltate — disse a un tratto Nicholas Flamel.
— Io non sento niente — rispose cupo Josh.
Sophie stava per concordare con lui, quando sentì un suono. E si accorse che le si stavano drizzando
i peli sulle braccia. Basso e sperduto, il rumore era appena percepibile, coperto da quello dell’auto e
dal gracchiare degli uccelli. Era come una brezza, sulle prime lieve e gentile, poi più forte, quasi
rabbiosa. Un odore curioso penetrò nell’auto.
— Cos’è questo profumo? — chiese Josh.
— Sembrano arance speziate — commentò Sophie, inspirando profondamente.
— Melagrane — disse Nicholas Flamel.
E poi giunse il vento.
Lo sentirono mugghiare attraverso la baia, caldo, esotico e carico di aromi: cardamomo, acqua di
rose, lime e dragoncello; poi raggiunse il ponte e lo percorse in tutta la sua lunghezza, spazzando via
gli uccelli dai loro appigli, sollevandoli dalle macchine, scaraventandoli lontano. Alla fine il vento
speziato raggiunse il SUV. Un attimo prima l’auto era ancora circondata dai pennuti, l’attimo
successivo erano spariti e la macchina era piena del profumo del deserto, dell’aria secca e della sabbia
tiepida.
Abbassando il finestrino graffiato, Sophie si sporse inspirando l’aria densa di aromi. L’enorme
stormo era stato sospinto verso l’alto, travolto dalla brezza. Quando uno dei volatili – “uno dei grandi
Corvi della Morte” pensò Sophie – provò a scendere nuovamente, venne subito catturato dalla corrente
tiepida e spinto di nuovo nel resto dello stormo. Vista dal basso, la massa di uccelli sembrava una
nuvola sporca… che poi si disperse, lasciando il cielo azzurro e limpido come se niente fosse
accaduto.
Sophie si girò a guardare il ponte. Il Golden Gate era del tutto impraticabile; c’erano veicoli che
puntavano in ogni direzione e dozzine di micro tamponamenti bloccavano le corsie… impedendo così
a chiunque di inseguirli. Ogni macchina era imbrattata e sudicia di escrementi di uccelli. Lanciò
un’occhiata al fratello e si spaventò vedendo che aveva del sangue sul labbro inferiore. Prese un
fazzolettino di carta dalla tasca. — Ti sei tagliato! — esclamò apprensiva, leccando il bordo del
fazzoletto e passandoglielo sulla faccia.
Josh le scansò la mano. — Ferma! Che schifo. — Si toccò il labbro con il mignolo. — Me lo sarò
morso da solo. Non me n’ero neanche accorto. — Prese il fazzoletto di mano alla sorella e si strofinò
il mento. — Non è niente. — Quindi sorrise. — Hai visto che disastro hanno lasciato gli uccelli? —
Sophie annuì. Josh fece una smorfia disgustata. — Chissà che puzza!
Vedendo che il fratello stava bene, Sophie si appoggiò allo schienale, sollevata. Quando si era
accorta del sangue si era davvero spaventata. Poi sobbalzò e si girò a guardare Flamel. — Ha evocato
lei il vento?
L’uomo sorrise e scosse la testa. — No, non ho alcun controllo sugli elementi. È una capacità che
appartiene solo agli Antichi Signori e a un numero limitatissimo di esseri umani.
Sophie guardò Scatty, ma anche la Guerriera scosse la testa. — Ben oltre le mie limitatissime
capacità.
— Ma in qualche modo lo avete pur evocato, il vento. No? — insisté Sophie.
Flamel le restituì il cellulare. — Ho solo inoltrato una richiesta per telefono — disse, e sorrise.
CAPITOLO TREDICI
— Svolta qui — ordinò Nicholas Flamel.
Josh imboccò uno stretto e lungo sentiero in discesa, che consentiva a malapena il passaggio del
SUV. Usciti da San Francisco, avevano trascorso l’ultima mezz’ora di viaggio ad ascoltare servizi
radiofonici dai toni sempre più isterici, dove una sequela di esperti snocciolava le opinioni più
disparate sull’attacco degli uccelli al ponte. Il riscaldamento globale era la tesi più citata: le radiazioni
solari avevano interferito con il sistema di navigazione naturale dei volatili.
Seguendo le indicazioni di Flamel il SUV si era diretto a nord, verso la Mill Valley e il Monte
Tamalpais, ma aveva presto lasciato l’autostrada per poi tenersi sempre su strette strade a due corsie.
Il traffico era diminuito a poco a poco, finché per lunghi tratti non si erano trovati a essere l’unico
veicolo in circolazione. Infine, lungo una strada angusta piena di curve e tornanti da voltastomaco,
Flamel aveva fatto rallentare Josh quasi a passo d’uomo. Abbassato il finestrino, si era messo a
sbirciare la fitta foresta che costeggiava la strada. In realtà avevano già superato il sentiero, che non
era segnalato, quando lui l’aveva visto. — Frena. Torna indietro. Svolta qui.
Guidando con cautela sul sentiero sterrato, pieno di solchi e buche, Josh scrutò la sorella. Si accorse
che aveva le mani raccolte in grembo e teneva i pugni serrati, con le nocche bianche per la tensione.
Le unghie, pulite e impeccabili fino a qualche ora prima, adesso erano smangiucchiate, un sicuro
sintomo di stress. Si allungò per stringerle una mano, e lei ricambiò la stretta con forza. Per il genere
di comunicazione che c’era fra loro, non avevano bisogno di parole. Con i genitori così spesso lontani,
Sophie e Josh avevano imparato fin da piccoli a contare solo su se stessi. Trasferendosi da una scuola
all’altra e da un quartiere all’altro, spesso per loro era difficile stringere amicizie e coltivarle;
sapevano però che in ogni circostanza ci sarebbero sempre stati l’uno per l’altra.
Ai margini di quel sentiero invaso dalle erbacce, gli alberi crescevano ad altezze vertiginose e il
sottobosco era sorprendentemente fitto: cespugli di rovi e biancospini graffiavano le fiancate
dell’auto, mentre arbusti di ginestrone e grovigli di ortiche ed edera velenosa completavano
l’impenetrabile barriera vegetale.
— Mai visto niente del genere — mormorò Sophie. — Non è naturale — e qui si fermò, rendendosi
conto di quello che aveva appena detto. Si rivolse a Flamel. — Non è naturale, vero?
L’uomo scosse la testa e all’improvviso parve vecchio e stanco. Aveva delle occhiaie marcate e le
rughe sulla fronte e agli angoli della bocca sembravano più profonde. — Benvenuti nel nostro mondo
— sussurrò.
— C’è qualcosa che si muove nel sottobosco — li avvertì Josh. — Qualcosa di grosso… cioè, di
grosso sul serio. — Dopo tutto quello che aveva visto e vissuto quel giorno, la sua immaginazione era
sovraeccitata. — Si tiene al passo con la macchina.
— Restiamo sul sentiero e non avremo problemi — disse Flamel, calmo.
Sophie scrutò nel fitto della foresta. Per un attimo non vide nulla, poi capì: quella che sulle prime
aveva scambiato per una macchia d’ombra era, in realtà, una creatura. Si muoveva, e il sole screziava
la sua pelle irsuta. Sophie intravide un muso piatto, un naso schiacciato e delle lunghe zanne ricurve.
— È un maiale… anzi no, un cinghiale — si corresse. E poi ne vide altri tre, che fiancheggiavano
l’auto sulla destra.
— Ce ne sono anche dalla mia parte — disse Josh. Quattro di quei corpulenti animali si muovevano
fra i cespugli alla sua sinistra. Guardò nello specchietto retrovisore. — E dietro di noi.
Sophie, Scatty e Nicholas videro dal lunotto due giganteschi cinghiali sbucati dal sottobosco che li
seguivano sul sentiero. Sophie si rese d’un tratto conto di quanto fossero grossi: si avvicinavano
entrambi alle dimensioni di un pony. La groppa era incredibilmente muscolosa e dalla mandibola
spuntavano delle enormi zanne rivolte all’insù, spesse alla base quanto il suo polso, poi sempre più
affusolate fino alla punta acuminata.
— Non pensavo che ci fossero cinghiali selvatici in America — disse Josh. — E di certo non in
California, in una valle come questa.
— I cinghiali selvatici sono presenti in tutta l’America — disse Flamel con aria assente. — Furono
gli spagnoli a portarceli per primi, nel Sedicesimo secolo.
Josh cambiò marcia e procedette a passo d’uomo. La strada era giunta al termine. Un muro di
cespugli, rovi e alberi adesso invadeva il sentiero. — Fine della strada — annunciò, tirando il freno a
mano. Guardò a destra e a sinistra. Anche i cinghiali si erano fermati, e capì che li stavano tenendo
d’occhio, quattro per lato. Nello specchietto retrovisore, vide che anche i due esemplari più grossi si
erano bloccati. Erano in trappola. “E adesso?” pensò. “Che facciamo?” Guardò la sorella, e intuì che
stava pensando esattamente la stessa cosa.
Nicholas Flamel guardò quel muro di piante. — Credo che sia qui per scoraggiare i temerari che si
sono inoltrati fino a questo punto. E a voler proprio essere sciocchi, si potrebbe essere tentati di
scendere dalla macchina.
— Ma noi non siamo né temerari né sciocchi — sbottò Scatty. — Perciò che facciamo? — Con un
cenno della testa indicò i cinghiali. — Non vedevo questa specie da secoli. Sembrano cinghiali da
guerra gallici e, se è così, sono praticamente impossibili da uccidere. Per ogni esemplare che vediamo,
ce ne saranno almeno altri tre nascosti nell’ombra, senza contare gli addestratori.
— Non sono gallici, e questa particolare specie non ha bisogno di addestratori — disse Flamel in
tono gentile, con una lieve sfumatura di accento francese. — Guardate le zanne.
Sophie, Josh e Scatty osservarono le zanne delle enormi creature in mezzo al sentiero, dietro la
macchina. — C’è qualcosa scolpito sopra — disse Sophie, socchiudendo gli occhi alla luce del tardo
pomeriggio. — Dei riccioli.
— Spirali — disse Scatty, con una punta di meraviglia nella voce. Guardò Flamel. — Sono Torc
Allta?
— Esatto — confermò Flamel. — Cinghiali mannari.
— Mannari? — intervenne Josh. — Vuole dire come i lupi mannari?
Scatty scosse la testa, spazientita. — No, non come i lupi mannari…
— Meno male — esclamò Josh. — Perché per un attimo ho pensato che parlaste di esseri umani che
si trasformano in cinghiali.
— I lupi mannari sono Torc Madra — continuò Scatty,
come se non l’avesse sentito. — Appartengono a un clan totalmente diverso.
Sophie fissò con attenzione il cinghiale più vicino. Sotto i tratti bestiali, le parve di scorgere forme
e lineamenti di un volto umano, mentre gli occhi – freddi e di un azzurro limpido, luminoso – la
osservavano con stupefacente intelligenza.
Josh strinse il volante con forza. — Cinghiali mannari… certo che sono diversi dai lupi mannari,
che domande. Tutto un altro clan — mormorò. — Che sciocco.
— Che facciamo? — chiese Sophie.
— Andiamo avanti — disse Nicholas Flamel.
Josh indicò il muro di foglie e arbusti di fronte a loro. — E quella?
— Tu vai — ordinò l’Alchimista.
— Ma… — cominciò Josh.
— Vi fidate di me? — chiese Flamel, costretto a ripetere a loro la stessa domanda che aveva rivolto
a Scatty poche ore prima. I gemelli si scambiarono uno sguardo, quindi annuirono. — Allora vai —
disse in tono gentile.
Josh mise in moto il SUV e tolse il freno a mano. Il veicolo cominciò ad avanzare lentamente. Il
paraurti anteriore toccò la barriera di foglie e cespugli, apparentemente impenetrabile… e svanì. Un
attimo c’era, e l’attimo dopo era come se i cespugli avessero inghiottito il muso della macchina.
I l SUV penetrò a passo d’uomo nella boscaglia e, per un istante, tutto divenne buio e freddo, e
nell’aria aleggiò un odore dolciastro, come di zucchero caramellato… poi il sentiero ricomparve,
piegando verso destra.
— Ma… — cominciò Josh.
— Era un’illusione — spiegò Flamel. — Tutto qui. Luce inclinata e distorta, che rifletteva le
immagini degli alberi e dei cespugli in una cortina di vapore acqueo; ogni goccia fungeva da specchio.
E un pizzico di magia — aggiunse. Indicò davanti a sé con un gesto raffinato. — Ci troviamo ancora
in Nord America, ma siamo entrati nel dominio di una delle più vecchie e più grandi rappresentanti
dell’Antica Razza. Per un po’ saremo al sicuro.
Scatty fece una smorfia. — Oh, per essere vecchia è vecchia, ma avrei qualcosa da ridire a
proposito del grande.
— Scathach, voglio che ti comporti bene — disse Flamel, guardando la donna giovane e al tempo
stesso antica che gli sedeva accanto.
— Non mi piace. Non mi fido di lei.
— Devi mettere da parte le antiche faide.
— Ha cercato di uccidermi, Nicholas — protestò Scatty. — Mi ha abbandonato nel Sottomondo. Ci
ho messo secoli a trovare l’uscita.
— È stato più di millecinquecento anni fa, se ricordo bene la mitologia — le rammentò Flamel.
— Ho la memoria lunga — mormorò Scatty, assumendo per un attimo l’aria di una bambina
imbronciata.
— Di chi state parlando? — domandò Sophie, mentre l’auto si fermava.
— Per caso di una donna alta dalla pelle nera? — chiese Josh.
Sophie, Flamel e Scatty guardarono dal parabrezza incrinato.
— È lei — confermò Scatty, secca.
Una figura era in piedi in mezzo al sentiero, proprio di fronte alla macchina. Alta e robusta,
sembrava scolpita in una lastra massiccia di pietra nera. Un velo di crespi capelli bianchi le rivestiva
il cranio come una cuffia aderente, e i lineamenti del viso erano affilati e spigolosi: zigomi alti, naso
dritto e appuntito, mento affilato, labbra sottili e quasi inesistenti. Le pupille avevano il colore del
burro. Indossava una veste lunga e semplice, di un materiale cangiante che si muoveva appena per una
brezza misteriosa che non sembrava però sfiorare altro. Ondeggiando al vento, la stoffa splendeva di
tutti i colori dell’arcobaleno, che vi scorrevano sopra come luce sull’acqua. Non indossava gioielli,
ma Sophie notò che ciascuna delle unghie corte e arrotondate delle mani era dipinta di un colore
diverso.
— Non dimostra neanche un giorno più di diecimila anni — mormorò Scatty.
— Sii gentile — le ricordò Flamel.
— Chi è? — chiese di nuovo Sophie, fissando la donna. Anche se aveva sembianze umane, c’era
qualcosa di diverso in lei, qualcosa di ultraterreno, che traspariva dall’immobilità assoluta e dalla
posa arrogante della testa.
— È l’Antica Signora nota col nome di Ecate — rispose Nicholas Flamel pronunciando il nome con
una nota di timore reverenziale nella voce.
— La Dea dai Tre Volti — aggiunse acida Scatty.
CAPITOLO QUATTORDICI
— Restate in macchina — ordinò Nicholas Flamel, aprendo lo sportello e scendendo sul prato rasato.
Scatty incrociò le braccia al petto e puntò gli occhi torvi davanti a sé, oltre il parabrezza incrinato.
— Per me va benissimo.
Flamel ignorò la frecciatina e sbatté lo sportello prima che Scathach potesse aggiungere altro.
Cercando di ricomporsi con un profondo respiro, si avvicinò alla donna alta ed elegante circondata da
immensi tronchi di sequoie.
Il sottobosco frusciò e un enorme Torc Allta comparve di fronte all’Alchimista, la testa massiccia
all’altezza del suo petto. Flamel si fermò e rivolse un inchino alla creatura, salutandola in una lingua
che non era stata concepita per la bocca degli uomini. In un attimo ci furono cinghiali ovunque, gli
occhi vivaci e intelligenti, il pelo fulvo e ispido delle groppe irto sotto la luce del tardo pomeriggio,
lunghi e vischiosi filamenti di saliva che colavano dalle enormi zanne. Erano dieci in tutto.
Flamel ebbe cura di rivolgere un inchino a ciascuno di essi. — Non pensavo che il clan Torc Allta
fosse ancora presente nelle Americhe — disse tornando a esprimersi in inglese.
Ecate sorrise, con un lievissimo movimento delle labbra. — Ah, Nicholas, tu più di chiunque altro
dovresti sapere che quando noi scompariremo, quando l’Antica Razza non ci sarà più e quando perfino
gli homines saranno svaniti dalla faccia della Terra, i clan Allta reclameranno questo mondo. Ricorda,
esso è appartenuto ai clan Mannari prima che a ogni altro. — Ecate parlava con una voce profonda,
quasi mascolina, sfiorata da un accento che aveva tutte le sonore del greco e le consonanti liquide di
una lingua antica e affascinante.
Nicholas si inchinò di nuovo. — So che i clan erano forti in Europa, i Torc Madra in particolare, e
ho sentito dire che ci sono di nuovo dei Torc Tiogar in India, e due nuovi clan di Torc Leon in Africa.
Tutto grazie a te.
Ecate sorrise, mostrando denti piccoli e dritti. — I clan mi venerano ancora come una dea. Faccio
quello che posso per loro. — Lo stesso vento invisibile e impercettibile di prima le sfiorò la veste, che
turbinò attorno al suo corpo, accendendosi di venature verdi e dorate. — Ma dubito che tu abbia fatto
tutta questa strada per parlarmi dei miei figli.
— È vero. — Flamel lanciò un’occhiata al SUV pieno di graffi e ammaccature. Josh e Sophie lo
stavano fissando attentamente, gli occhi sgranati per la meraviglia, mentre il volto di Scathach si
vedeva appena nel sedile posteriore. Teneva gli occhi chiusi fingendo di essersi addormentata, ma
Flamel sapeva che la Guerriera non aveva alcun bisogno di dormire. — Voglio ringraziarti per il
Vento Fantasma che ci hai inviato.
Stavolta fu Ecate a fare un inchino. Mosse la mano destra e la aprì, svelando un piccolo cellulare
racchiuso nel palmo. — Uno strumento davvero utile. Ricordo il tempo in cui affidavamo i nostri
messaggi al vento o agli uccelli addestrati. Sembra soltanto ieri — aggiunse. — Sono lieta che il
trucco abbia funzionato. Purtroppo, temo che abbiate rivelato la vostra destinazione alla Morrigan e a
Dee. Sapranno chi ha mandato il Vento, e sono certa che essi conoscono la mia oasi.
— Lo so. E ti porgo le mie scuse per averli condotti da te.
Ecate alzò le spalle in un movimento lieve che fece scivolare un arcobaleno di luce lungo la sua
veste. — Dee ha paura di me. Farà lo spavaldo, si atteggerà a grand’uomo, mi minaccerà, forse
azzarderà perfino qualche incantesimo e sortilegio minore, ma non si muoverà contro di me. Non da
solo… e nemmeno con l’assistenza della Morrigan. Gli servirebbe almeno un altro paio di Oscuri
Signori per affrontarmi… e anche allora non potrebbe dirsi sicuro del successo.
— Ma è un uomo arrogante. E adesso ha il Codice.
— Non tutto, a quanto mi hai detto al telefono.
— No, non tutto. — Nicholas Flamel estrasse le due pagine da sotto la T-shirt. Fece per porgerle a
Ecate, ma lei si scansò bruscamente, alzando una mano per proteggersi gli occhi, e un sibilo le sfuggì
dalle labbra. In un attimo i cinghiali furono attorno a Flamel, vicinissimi, le fauci spalancate, le zanne
enormi e mortali pronte a squarciargli la pelle.
Scathach si gettò fuori dalla macchina, una freccia incoccata sull’arco e puntata su Ecate. —
Richiamali — ordinò.
I Torc Allta non la guardarono nemmeno.
Ecate girò le spalle a Flamel incrociando le braccia, poi lanciò un’occhiata torva a Scathach. La
Guerriera, allora, tese la corda dell’arco. — Pensi davvero di potermi ferire con quella? — rise la dea.
— La freccia è intinta nel sangue di un titano — rispose Scathach calma, la voce che risuonava
nell’aria immobile. — Uno dei tuoi genitori, se ben ricordo, giusto? Uno dei pochi modi rimasti per
ucciderti, a quel che mi risulta.
I gemelli osservarono gli occhi dell’Antica Signora farsi prima gelidi e poi trasformarsi, per una
frazione di secondo, in due specchi d’oro. — Metti via quelle pagine — Ecate ordinò all’Alchimista.
Flamel si infilò subito le due pagine sotto la maglietta. La donna mormorò una parola e i Torc Allta
si allontanarono dall’Alchimista, trottando verso il sottobosco, dove scomparvero all’istante. Ecate si
voltò nuovamente verso Flamel. — Non ti avrebbero toccato senza un mio comando.
— Ne sono certo — rispose Nicholas con voce tremante. Abbassò lo sguardo sui jeans e sugli
anfibi. Erano coperti dalla bava bianca dei Torc Allta. Avrebbero lasciato una macchia, ne era sicuro.
— Non esibire mai il Codice, né una qualsiasi porzione di esso, alla mia presenza… o a quella di
qualunque altro rappresentante dell’Antica Razza. Abbiamo una certa… avversione nei suoi confronti
— spiegò, scegliendo le parole con cura.
— Su di me non ha alcun effetto — disse Scathach, allentando l’arco.
— Questo perché non sei della Prima Generazione — le ricordò Ecate. — Come la Morrigan,
appartieni alla Nuova Generazione. Ma io c’ero quando Abramo il Mago pose le prime parole di
potere nel Libro. Lo vidi intrappolare la Magia Primordiale, la magia più antica di tutte, nelle sue
pagine.
— Ti porgo le mie scuse — si affrettò a dire Flamel. — Non lo sapevo.
— Non avevi modo di saperlo. — Ecate sorrise, ma senza ombra di allegria. — Quella spaventosa
magia è così forte che la maggior parte della mia gente non tollera nemmeno la vista delle lettere del
Libro. Coloro che sono venuti dopo l’Antica Razza originale, seppure del nostro stesso sangue — e
così dicendo fece un gesto verso Scathach — possono posare lo sguardo sul Codice, certo, tuttavia
neanche loro possono toccarlo. I discendenti delle scimmie, gli homines, invece sì. Fu l’ultimo
scherzo di Abramo. Egli sposò una dei primi homines, e credo che abbia voluto fare in modo che solo i
suoi figli potessero toccare il Libro.
— È per questo che il Libro è stato dato in custodia a me?
— Non sei il primo umano a… prendersi cura del Codice — rispose Ecate con cautela, poi sbottò.
— Non avrebbe mai dovuto essere creato! — Venature di luce rossa e verde scorsero lungo la sua
veste, come cavi elettrici sotto tensione. — Chiesi con tutte le mie forze che ogni pagina venisse
stracciata e gettata nel più vicino vulcano, e Abramo con esse.
— Perché non è stato distrutto? — chiese Flamel.
— Perché Abramo aveva il dono della Vista. Riusciva a scorgere gli intricati fili del tempo, e
profetizzò che sarebbe giunto un giorno in cui il Codice e tutto il sapere in esso contenuto sarebbero
stati necessari.
Scatty si allontanò dal SUV e si accostò a Flamel. Aveva ancora l’arco sulla spalla e notò che gli
occhi di burro di Ecate non la perdevano di vista.
— Il Libro del Mago è stato sempre assegnato a un guardiano — spiegò a Flamel. — Alcuni
vengono ricordati dalla storia come grandi e mitici eroi, altri sono meno noti, come te, e qualche altro
ancora è rimasto completamente anonimo.
— Così io, un umano, sono stato scelto per prendermi cura del prezioso Codice perché la vostra
gente non può neanche sfiorarlo con lo sguardo né tanto meno toccarlo… logico, quindi, che sia stato
scelto un altro umano per trovare il Libro — disse Flamel. — Dee.
Ecate confermò con un cenno della testa. — Un nemico pericoloso, il dottor John Dee.
Flamel annuì. Sentiva la pressione delle pagine fresche e ruvide sulla pelle, sotto la maglietta.
Anche se possedeva il Codice da oltre mezzo millennio, sapeva di avere soltanto cominciato a scalfire
la superficie dei suoi segreti. Non aveva neppure ancora idea di quanto fosse antico. Continuava a
collocare sempre più indietro la data della sua creazione. Quando il Libro era entrato per la prima
volta in suo possesso nel Quattordicesimo secolo, gli aveva attribuito cinquecento anni. Poi, a ricerche
iniziate, aveva ritenuto che potesse averne ottocento, quindi mille e, dopo ancora, duemila. Un secolo
prima, alla luce delle nuove scoperte emerse dalle tombe egizie, aveva retrodatato il Libro di altri
tremila anni. E adesso ecco che Ecate, con i suoi diecimila e passa anni, diceva di essere stata presente
quando Abramo il Mago aveva compilato il Libro. Ma se l’Antica Razza – gli dei della mitologia e
della leggenda – non poteva toccare né guardare il Libro, allora chi era Abramo, il suo creatore?
Apparteneva all’Antica Razza, agli homines oppure era altro ancora? Apparteneva a una delle molte
altre razze mitiche che popolavano la Terra all’alba dei tempi?
— Perché sei venuto qui? — chiese Ecate. — Ho saputo subito che il Codice ti è stato sottratto, ma
non posso aiutarti a recuperarlo.
— Sono venuto da te per un’altra ragione — continuò Flamel, allontanandosi ancora un po’ dalla
macchina e abbassando il volume della voce. Ecate dovette chinarsi per ascoltarlo. — Quando Dee mi
ha attaccato, rubando il Libro e rapendo Perenelle, due homines sono venuti in nostro soccorso. Un
giovane e sua sorella. — Si fermò, dopodiché aggiunse: — Gemelli.
— Gemelli? — ripeté lei, la voce piatta e inespressiva come il suo volto.
— Gemelli. Guardali: dimmi cosa vedi.
Gli occhi di Ecate guizzarono verso la macchina. — Un ragazzo e una ragazza, vestiti nella
squallida uniforme di quest’epoca: jeans e maglietta. Nient’altro.
— Guarda meglio — disse Flamel. — E ricorda la profezia — aggiunse.
— Conosco la profezia. Non osare insegnarmi la mia storia! — Gli occhi di Ecate lampeggiarono e,
per un istante, cambiarono colore, diventando scuri e terribili. — Homines? Impossibile. —
Oltrepassando Flamel, scrutò dentro la macchina, guardando prima Sophie e poi Josh.
Da così vicino, i gemelli notarono le sue pupille lunghe e strette, da gatto, e i denti appuntiti come
spilli, sotto la linea sottile delle labbra.
— Argento e oro — sussurrò a un tratto Ecate, lanciando un’occhiata all’Alchimista, la lingua
aguzza che faceva capolino fra le labbra sottili e l’accento ancora più marcato di prima. Si girò di
nuovo verso i gemelli. — Uscite dal veicolo.
I ragazzi guardarono Flamel e, quando lui annuì, scesero. Sophie girò attorno alla macchina per
andare a mettersi di fianco al fratello.
Ecate tese prima la mano a Sophie che, un po’ titubante, allungò la propria. La dea prese il palmo
sinistro della ragazza nella sua destra e lo girò, quindi cercò la mano di Josh. Il ragazzo gliela porse
senza esitare, sforzandosi di ostentare indifferenza, come se toccare una dea di diecimila anni fosse
una cosa che gli capitava tutti i giorni. Notò che la sua pelle era inaspettatamente ruvida e aspra.
Ecate pronunciò una parola in una lingua che precedeva l’avvento delle prime civiltà dell’uomo.
— Arance — bisbigliò Josh, avvertendo di colpo prima l’odore e poi il sapore del frutto.
— No, gelato — disse Sophie. — Gelato alla vaniglia appena fatto. — Si girò a guardare il
fratello… e scoprì che lui la stava fissando sbigottito.
Un bagliore argenteo era apparso attorno alla sorella. Sottile come una seconda pelle, aleggiava a
pochissima distanza dal corpo, pulsando a intermittenza. Quando Sophie batté le palpebre, i suoi occhi
divennero due specchi, privi di espressione.
Il bagliore che rivestiva Josh, invece, era di una calda tonalità dorata. Si concentrava soprattutto
attorno alla testa e alle mani, vibrando e pulsando al ritmo del suo stesso cuore. Le sue iridi erano due
monete d’oro.
Ma pur vedendo il bagliore l’uno dell’altra, i gemelli non si sentivano diversi. C’erano solo quei
profumi nell’aria, arance e gelato alla vaniglia.
Senza dire una parola, Ecate si allontanò, e il bagliore scomparve. Tornatagli accanto, prese Flamel
per il braccio e lo spinse per il sentiero, fuori dalla portata dei ragazzi e di Scatty.
— Hai la minima idea di quello che sta succedendo? — chiese Sophie alla Guerriera. Le tremava la
voce, e aveva ancora il gusto di vaniglia in bocca e il suo profumo nel naso.
— La dea stava studiando la vostra aura — chiarì Scathach.
— Quindi era questo il bagliore dorato che circondava Josh? — domandò Sophie, osservando il
fratello.
— La tua era d’argento — disse subito lui.
Scathach raccolse un sasso piatto e lo gettò fra i cespugli. Colpì qualcosa di solido, che si allontanò
subito con passi pesanti. — La maggior parte delle aure sono fatte di un insieme di colori. Solo un
numero limitatissimo di persone ne possiede una di colore puro.
— Come noi? — chiese Sophie.
— Come voi — confermò Scatty cupamente. — L’ultima persona con un’aura d’argento puro che
ho incontrato era la donna che voi conoscete con il nome di Giovanna d’Arco.
— E dell’aura d’oro che mi dici? — volle sapere Josh.
— È perfino più rara — rispose Scatty. — L’ultima persona ad averla, almeno che io ricordi, era…
— Aggrottò la fronte, concentrandosi. — Il faraone bambino, Tutankhamon.
— È per questo che lo hanno sepolto con tutto quell’oro?
— È una delle ragioni, sì — confermò Scathach.
— Non dirmi che conoscevi il vecchio Tut! — scherzò Josh.
— Non l’ho mai incontrato di persona — rispose Scatty. — Ma ho addestrato la cara Giovanna e ho
combattuto al suo fianco a Orléans. Le avevo detto di non andare a Parigi — aggiunse poi piano, con
un’espressione addolorata negli occhi.
— La mia aura è più rara della tua… — Josh si mise a stuzzicare la sorella per alleggerire
l’atmosfera. Guardò la Vergine Guerriera. — Ma che cosa implica esattamente il fatto di avere
un’aura di colore puro?
Quando Scathach si voltò a guardarlo, aveva il volto inespressivo. — Significa che avete dei poteri
straordinari. Tutti i grandi maghi e stregoni del passato, i condottieri eroici e gli artisti ispirati hanno
avuto un’aura dal colore puro, o di una sola tinta.
I gemelli si scambiarono uno sguardo, esitanti. Quella faccenda era un po’ troppo strana, e la
mancanza di espressione sul volto di Scathach era allarmante. Sophie sgranò di colpo gli occhi,
scioccata. — Ma entrambe le persone che hai citato, Giovanna d’Arco e Tutankhamon, sono morte
giovani!
— Molto giovani — disse Josh, ricordando le lezioni di storia. — Sono morti tutt’e due a
diciannove anni.
— Già… — confermò Scathach, girandosi a guardare Nicholas Flamel e la Dea dai Tre Volti.

— Homines — ringhiò Ecate. — Umani con aure d’argento e d’oro. — Sembrava allo stesso tempo
confusa e arrabbiata.
— È già successo in passato — disse Flamel in tono mite.
— Pensi che non lo sappia?
Erano sulla riva di un gorgogliante ruscello che si insinuava fra gli alberi e affluiva in uno stagno
ottagonale, punteggiato di ninfee bianche. Enormi carpe koi, rosse e bianche, nuotavano sinuose
nell’acqua limpida.
— Non mi ero mai imbattuto nelle due aure insieme, e mai nel caso di gemelli. Possiedono un
enorme potere inutilizzato — insisté Flamel. — Devo ricordarti del Codice? “I due che sono uno e
l’uno che è tutto”: è la primissima profezia di cui parla Abramo.
— Conosco la profezia — lo fulminò Ecate, la veste attraversata da improvvise venature rosse e
nere. — C’ero anch’io quando quel vecchio pazzo l’ha pronunciata.
Flamel stava per formulare una domanda, ma si trattenne.
— E non sbagliava mai — mormorò Ecate. — Sapeva che Danu Talis sarebbe sprofondata fra le
onde e che il nostro mondo sarebbe giunto al termine.
— Ne aveva anche predetto il ritorno — le ricordò Flamel. — Quando “i due che sono uno e l’uno
che è tutto saranno giunti, quando il sole e la luna si saranno uniti”.
Ecate piegò la testa e i suoi occhi da gatto guizzarono verso Josh e Sophie. — Oro e argento, sole e
luna. — Tornò a rivolgersi a Flamel. — Credi che sia a loro che si riferisce la profezia?
— Sì — rispose lui con semplicità. — Credo di sì. Devo crederlo.
— Perché?
— Perché ora che il Codice è perduto, Dee può richiamare gli Oscuri Signori. Se i gemelli sono
quelli menzionati dalla profezia, allora, con un addestramento adeguato, potrei servirmi di loro per
impedirlo… e per salvare Perry.
— E se ti sbagli? — si chiese Ecate ad alta voce.
— Allora io avrò perso l’amore della mia vita, così come saranno perduti questo mondo e tutti gli
homines che lo abitano. Ma, in caso contrario, per avere una minima percentuale di successo, ho
bisogno del tuo aiuto.
Ecate sospirò. — È passato molto… moltissimo tempo dall’ultima volta in cui ho accettato un
allievo. — Si girò a guardare Scathach. — E il risultato non è stato dei migliori.
— Questo è un caso diverso: stavolta lavorerai con un talento grezzo, con un potere puro,
incontaminato. Non abbiamo molto tempo. — Flamel trasse un profondo respiro e, prendendo un tono
molto formale, parlò nell’antica lingua di Danu Talis, l’isola sprofondata. — Figlia di Perseo e Astrea,
Dea della Magia e degli Incantesimi, ti chiedo di risvegliare i poteri magici dei gemelli.
— Se lo farò… che succederà dopo? — domandò Ecate.
— Dopo insegnerò loro le Cinque Magie. Insieme recupereremo il Codice e salveremo Perenelle.
La Dea dai Tre Volti rise, una risata amara e irosa. — Sta’ attento, Nicholas Flamel, Alchimista, o
finirai per creare qualcosa che ci distruggerà tutti.
— Lo farai?
— Devo pensarci. Avrai la mia risposta più tardi.
In fondo alla radura, Sophie e Josh si resero conto di colpo che Flamel ed Ecate si erano girati a
guardarli. E, in quello stesso momento, rabbrividirono.
CAPITOLO QUINDICI
Sophie entrò nella camera da letto del fratello, con il costoso cellulare accostato al viso. — Questa
casa ha proprio qualcosa che non va. Non riesco a prendere il segnale da nessuna parte. — Si aggirò
per la stanza osservando lo schermo, ma il segnale latitava.
Josh guardò la sorella allibito. — Qualcosa che non va? — ripeté in tono incredulo. Poi parlò molto
lentamente. — Sophie, siamo dentro a un albero! Direi che è questo che non va, non credi?
Concluso il suo colloquio con Flamel, Ecate si era girata ed era scomparsa nel bosco senza dire una
parola, lasciando a lui il compito di condurli fino alla sua dimora. L’Alchimista li aveva guidati a
piedi lungo un sentiero stretto e tortuoso che si snodava nel fitto del bosco. Intenti com’erano a
osservare la strana vegetazione – enormi fiori dalle tinte livide che si giravano a seguire i loro
movimenti, viticci che strisciavano e si contorcevano come serpenti al loro passaggio, piante estinte
dall’Oligocene – non si erano accorti che il sentiero si era aperto e che si trovavano di fronte alla
dimora di Ecate. Perfino quando sollevarono lo sguardo, ci misero un po’ a capirlo.
Davanti ai loro occhi, al centro di un’ampia radura in lieve pendenza punteggiata di vaste macchie
di fiori colorati, c’era un albero. Aveva le dimensioni di un grosso grattacielo. La chioma e i rami più
alti si intrecciavano a batuffoli di nubi candide, e le radici che spuntavano dal terreno come dita
artigliate erano alte quanto un’automobile. L’albero nel suo complesso era nodoso e ritorto, con la
corteccia rugosa segnata di crepe e linee profonde. Lunghi tralci rampicanti, simili a grossi tubi, si
avvolgevano attorno al fusto e pendevano dai rami.
— La casa di Ecate — spiegò Flamel. — Siete gli unici homines viventi che l’abbiano vista negli
ultimi duemila anni. Anch’io ne avevo solo letto nei libri.
Scatty sorrise all’espressione dipinta sulle facce dei gemelli e stuzzicò Josh con il gomito. — Dove
ti aspettavi che vivesse, esattamente? In una roulotte?
— Io non… cioè, non lo so… non pensavo… — cominciò Josh. Era uno spettacolo incredibile e, da
quel poco di biologia che aveva studiato, sapeva che nessuna cosa vivente poteva diventare così
enorme. Nessuna cosa naturale, si corresse.
Sophie pensò che l’albero somigliava a una donna molto vecchia, piegata dal peso dell’età. Un
conto era sentire Flamel che parlava del passato remoto, di una guerriera di duemila anni e di una dea
ultramillenaria: i numeri non significavano quasi nulla. Ma trovarsi di fronte all’albero era tutt’altra
storia. Sia lei che Josh avevano già visto degli alberi antichi prima d’allora. I genitori li avevano
portati a vedere le sequoie giganti, vecchie di tremila anni, e avevano trascorso una settimana di
campeggio sulle White Mountains, ai confini fra California e Nevada, mentre il padre studiava il
cosiddetto “Albero Matusalemme”, che con i suoi quasi cinquemila anni era considerato l’essere
vivente più vecchio del pianeta. Di fronte al grosso pino nodoso e ritorto, era facile accettare la sua età
veneranda come un dato di fatto: Sophie non aveva dubbi che l’alberocasa di Ecate fosse
incredibilmente antico, millenni più vecchio dell’Albero Matusalemme.
Seguirono un sentiero di lucida pietra levigata che conduceva alla pianta. Avvicinandosi, si resero
conto che la somiglianza con un grattacielo era perfino maggiore di quanto avessero pensato
all’inizio: c’erano centinaia di finestre intagliate nella corteccia e luci che provenivano dall’interno.
Ma fu solo quando raggiunsero l’ingresso principale che compresero la reale vastità dell’albero. I due
battenti della porta d’ingresso, lucidi e levigati, torreggiavano con i loro sei metri d’altezza e, tuttavia,
nonostante la mole, si aprirono al lievissimo tocco delle dita di Flamel. I gemelli entrarono in un
enorme atrio circolare.
E si fermarono.
L’interno dell’albero era cavo. Sollevando lo sguardo, potevano scorgere il punto in cui gruppi di
nuvole si raccoglievano dentro la pianta. Una scalinata che si snodava in morbide curve su per il
tronco conduceva a soglie aperte e traboccanti di luce. Dozzine di cascatelle sgorgavano dalle pareti e
ricadevano sul pavimento, dove l’acqua si raccoglieva in un’enorme vasca circolare che occupava
gran parte dell’atrio. Le pareti interne erano lisce e disadorne, tranne che per i nodi e i grovigli dei
rampicanti che spuntavano qua e là. Josh pensò che somigliavano a delle vene.
Tutt’attorno, il vuoto.
Nell’albero non si muoveva anima viva, niente – di umano o inumano – saliva le innumerevoli
scale, né c’erano creature alate a solcare l’aria umida.
— Benvenuti nell’Yggdrasill — esclamò Nicholas Flamel, cedendo loro il passo. — Benvenuti
nell’Albero del Mondo.

Josh prese il telefonino. Lo schermo era spento. — E hai notato che non ci sono prese di corrente?
— Ma devono esserci per forza — ribatté decisa Sophie. Si avvicinò al letto e si inginocchiò. — Ci
sono sempre delle prese accanto ai letti…
Invece niente, non ce n’erano.
I gemelli, attoniti, rimasero in piedi al centro della camera di Josh a guardarsi attorno. La stanza era
l’immagine speculare di quella della sorella. Tutto ciò che li circondava era fatto di un legno biondo
del colore del miele, i pavimenti lucidissimi così come le pareti levigate. Non c’erano vetri alle
finestre, e la porta era un rettangolo di legno estremamente sottile, di aspetto e consistenza simili alla
corteccia cartacea di un albero. L’unico mobile presente era il letto, un basso futon di legno coperto di
pesanti pellicce, accanto al quale era disteso uno spesso tappeto di pelliccia maculata, che i gemelli
non riuscirono ad attribuire a nessun animale conosciuto.
C’era anche una pianta che cresceva nel bel mezzo della camera.
Alto, slanciato ed elegante, l’albero dalla corteccia rossa spuntava direttamente dal pavimento. Non
un solo ramo sporgeva dal tronco fino all’altezza del soffitto, dove le fronde prorompevano in una
folta chioma che ricopriva il tetto della stanza. Le foglie erano di un verde profondo e vivido da un
lato e color cenere dall’altro. Di quando in quando, una foglia cadeva e volteggiava fino al pavimento,
formando un morbido tappeto.
— Dove siamo? — chiese infine Sophie.
— California? — provò Josh con il tono di voce di chi non è convinto di ciò che dice.
— Dopo tutto quello che abbiamo visto oggi? — ribatté Sophie. — Non credo. Siamo dentro a un
albero. Un albero talmente grande da contenere tutto il campus dell’Università di San Francisco, e
talmente vecchio che al confronto l’Albero Matusalemme è un fuscello. E non provare a dirmi che è
un palazzo costruito in modo da assomigliare a un albero. Tutto quello che c’è in questo posto è fatto
di materiali naturali. — Inspirò e si guardò attorno. — Pensi che l’albero sia ancora vivo?
Josh scosse la testa. — Impossibile. L’interno è tutto scavato. Forse lo era molto tempo fa, ma
adesso è soltanto un guscio vuoto.
Sophie non ne era così sicura. — Josh, non c’è nulla di moderno o di artificiale in questa stanza,
niente plastica, niente metalli, niente carta; tutto sembra intagliato a mano. Non ci sono nemmeno
candele o lanterne.
— Ci ho messo un po’ a capire a cosa servissero quelle ciotole d’olio — commentò Josh. Ma non
svelò alla sorella che ne aveva quasi bevuto il contenuto, scambiandolo per il succo di chissà quale
frutto delizioso, prima di accorgersi dello stoppino che vi galleggiava dentro.
— La mia stanza è identica alla tua — continuò Sophie. Sollevò di nuovo il telefono. — Non c’è
segnale, e guarda — indicò — la batteria si sta scaricando a vista d’occhio.
Josh avvicinò la testa a quella della sorella, mescolando i capelli biondi ai suoi e fissando lo
schermo rettangolare. L’indicatore della batteria sulla destra stava precipitando visibilmente, una
tacca dopo l’altra. — Pensi che sia per questo che nemmeno il mio iPod funziona? — chiese Josh,
prendendolo dalla tasca posteriore dei jeans. — La carica era al massimo stamattina. E anche il
computer non dà segni di vita. — Poi si guardò l’orologio in stile militare e alzò il braccio per
mostrarlo alla sorella. Il grosso quadrante digitale era spento.
Anche Sophie si guardò l’orologio. — Il mio funziona ancora — esclamò sorpresa. — Perché è di
quelli a carica meccanica — aggiunse, rispondendosi da sola.
— Quindi c’è qualcosa che sta assorbendo l’energia — mormorò Josh. — Una forza nell’aria? —
Non aveva mai sentito parlare di qualcosa che riuscisse ad assorbire l’energia delle batterie.
— È questo posto — disse Scathach, comparendo sulla soglia. Si era cambiata d’abito, sostituendo
il completo militare nero con dei pantaloni mimetici marroni e verdi, un paio di anfibi allacciati al
polpaccio e una maglietta mimetica con le maniche strappate, che le lasciava scoperte le braccia
muscolose. Si era legata una spada corta a una gamba e portava un arco sulla spalla sinistra, e una
faretra piena di frecce che spuntava appena sopra la sua testa. Sophie notò il disegno celtico di una
spirale sulla sua spalla destra; aveva sempre desiderato un tatuaggio, ma sapeva che la mamma non
glielo avrebbe mai permesso. — Avete lasciato il vostro mondo e siete entrati in un Regno d’Ombra
— aggiunse. — I Regni d’Ombra esistono in parte nel vostro mondo e in parte in un tempo e in uno
spazio differenti. — La Guerriera rimase sulla porta.
— Non entri? — chiese Sophie.
— Dovete invitarmi voi a farlo — rispose Scatty, con uno strano e timido sorriso.
— Invitarti? — Sophie si girò verso il fratello, le sopracciglia sollevate in un’espressione
interrogativa.
— Dovete invitarmi voi — ripeté Scatty. — Altrimenti non posso varcare la soglia.
— Proprio come i vampiri — disse Josh, sentendosi di colpo come se avesse la lingua troppo grossa
per la sua bocca. Dopo quella giornata, era prontissimo a credere all’esistenza dei vampiri, anche se
non moriva certo dalla voglia di incontrarne uno. Si rivolse alla sorella. — Un vampiro può entrare in
una casa soltanto se è invitato. Allora ti può succhiare il sangue… — Fissò Scatty, spalancando gli
occhi. — Non sarai un…
— Non mi piace quel termine — lo fulminò Scatty.
— Scathach, entra ti prego — disse Sophie, prima che il fratello potesse protestare ulteriormente.
La Guerriera oltrepassò la soglia con un saltello lieve ed entrò nella stanza. — E sì! — esclamò. —
Sono ciò che voi definireste un vampiro.
— Oh — bisbigliò Sophie. Josh provò a mettersi davanti alla sorella per proteggerla, ma lei lo
scansò. Voleva bene a suo fratello, ma a volte era davvero troppo protettivo.
— Non dovete credere a tutto quello che avete letto sulla mia razza — disse Scathach, muovendosi
per la stanza, scrutando nei giardini lussureggianti al di là delle finestre. Un’enorme farfalla gialla e
bianca svolazzò davanti all’apertura. Era grande quanto un piatto da portata e sulla Terra si era estinta
dal Giurassico. — Ecate ha creato e mantiene in vita questo posto tramite uno straordinario impiego di
magia — continuò. — Ma la magia, come tutto il resto, è sottoposta a determinate regole naturali. Ha
bisogno di energia per funzionare, e prende questa energia ovunque, anche dalle minuscole batterie dei
vostri giocattolini. In mancanza di altre fonti disponibili, invece, attinge alla forza vitale del mago che
l’ha creata, indebolendolo.
— Stai dicendo che in questo Regno d’Ombra non funziona niente che sia alimentato da energia
elettrica? — si chiese Sophie ad alta voce, ma poi scosse subito la testa. — Però Ecate ha usato un
cellulare. Ho visto che lo mostrava a Flamel, prima. Perché la sua batteria non si scarica?
— Ecate ha un potere enorme ed è più o meno immune agli effetti della magia da lei stessa
generata. Immagino che tenga il telefono con sé per impedire che si scarichi, o forse lo fa custodire a
un servitore nel mondo reale. Molti membri dell’Antica Razza hanno servitori umani.
— Come Flamel e Dee? — chiese Sophie.
— Nicholas non serve gli Antichi Signori — rispose Scathach lentamente. — Il suo unico padrone è
il Libro. Dee, al contrario… be’, nessuno sa con precisione chi, o cosa, serva. — Si voltò a osservarli,
soppesandoli con gli occhi. — Probabilmente fra un’oretta vi sentirete esausti e con i muscoli
indolenziti, forse anche con un po’ di mal di testa. È per via del campo magico che si nutre della
vostra aura. Non preoccupatevi troppo, però: le vostre aure così speciali hanno una forza eccezionale.
Solo, bevete molti liquidi. — Scatty passò da una finestra all’altra, sporgendosi per sbirciare fuori. —
So che sono là, ma non riesco a vederli — disse all’improvviso.
— Chi? — si chiese Sophie.
— I Torc Allta.
— Sono davvero cinghiali mannari? Voglio dire, uomini che si trasformano in cinghiali? —
domandò Sophie. Era consapevole del fatto che il fratello non parlava da quando Scatty era entrata
nella stanza. La stava fissando, gli occhi sgranati per l’orrore, la bocca tirata in una linea sottile.
Conosceva bene quell’espressione: Josh aveva paura, e immaginò che stesse pensando a tutti i
romanzi e film di vampiri che conosceva.
— No, non esattamente — rispose Scatty. — So che Nicholas vi ha detto che prima che gli umani
prendessero possesso della Terra, questo mondo apparteneva ad altre creature, ad altre razze. Ma
perfino per l’Antica Razza i clan Torc erano speciali. Passavano dalla forma animale a quella umana e
viceversa con grande facilità. — Scatty sedeva sul bordo del letto, tenendo le gambe distese. —
Quando i primi homines fecero la loro comparsa, i clan Torc insegnarono loro a lavorare il legno e la
pietra e a creare il fuoco. Gli homines li adoravano come dei. Perché altrimenti tante divinità primitive
avrebbero una forma animale? Pensate ai disegni rupestri che rappresentano creature che non sono né
uomini né bestie. Avrete visto le statue delle divinità egizie Sobek, Bastet e Anubi: corpi di homines,
ma teste animali. Pensate alle danze in cui gli uomini fingono di essere animali: non sono altro che
ricordi dell’epoca in cui i clan Torc vivevano fianco a fianco con gli homines.
— Teriomorfismo — disse Sophie con aria assente.
Scatty la guardò attonita.
— L’attribuzione di forme animali alle divinità — spiegò Josh. — Ti avevo detto che i nostri
genitori sono archeologi — aggiunse. Poi lanciò uno sguardo rapido alla donna dai capelli rossi. — Tu
succhi il sangue? — chiese bruscamente.
— Josh! — bisbigliò Sophie.
— No, non succhio il sangue — rispose Scathach tranquilla. — Non adesso. Non sempre.
— Ma i vampiri…
Scathach si alzò e con due passi fu di fronte a Josh. — Esistono molti tipi di vampiri, molti clan,
proprio come esistono molti clan mannari. Alcuni della mia razza succhiano il sangue, è vero.
— Ma tu no — si affrettò a dire Sophie, prima che il fratello potesse rivolgerle altre domande
imbarazzanti.
— No, il mio clan no. Quelli del mio clan… be’, noi ci nutriamo in… altri modi — disse Scatty con
un sorriso ironico. — E ne abbiamo bisogno di rado — aggiunse. Diede loro le spalle e si allontanò. —
Tutto quello che vi è stato insegnato, tutti i miti e le leggende del vostro mondo, contengono un
nocciolo di verità. Oggi avete visto meraviglie. Nei prossimi giorni ne vedrete ancora.
— In che senso, nei prossimi giorni? — la interruppe Josh, alzando la voce allarmato. —
Torneremo a casa, vero? — Ma nel momento stesso in cui poneva la domanda, si accorse di sapere la
risposta.
— Alla fine, sì — disse la Fanciulla Guerriera. — Ma non oggi, e certo non domani.
Sophie posò la mano sul braccio del fratello, troncando sul nascere la sua domanda successiva. —
Cosa stavi dicendo a proposito di miti e leggende? — chiese.
Da qualche punto imprecisato della casa tintinnò un campanello, un suono alto e limpido, che
indugiò nell’aria immobile.
Scathach lo ignorò. — Voglio che ricordiate che tutto quello che sapete, o pensate di sapere, sui
miti e le leggende non è per forza di cose falso, né del tutto vero. Nel cuore di ogni leggenda c’è un
granello di verità. Ho il sospetto che molto di quello che sapete lo abbiate preso dai film o dalla TV.
Xena e Dracula devono rispondere di molto, in proposito. Non tutti i minotauri sono malvagi;
Medusa, la Gorgone, non trasformava tutti gli uomini in pietra; non tutti i vampiri succhiano il
sangue; e i clan Mannari sono una razza fiera e antica.
Josh abbozzò una risata nervosa: era ancora scosso dalla rivelazione che Scathach era un vampiro.
— Adesso ci dirai che esistono i fantasmi.
L’espressione di Scathach rimase seria. — Josh, sei entrato in un Regno d’Ombra, il mondo dei
fantasmi. Voglio che d’ora in poi tutti e due vi fidiate del vostro istinto: dimenticate quello che sapete,
o pensate di sapere, sulle creature e sulle razze che incontreremo. Seguite il vostro cuore. Non fidatevi
di nessuno. Tranne che l’uno dell’altra — aggiunse.
— Però possiamo fidarci di te e Nicholas, giusto? — disse Sophie.
Il campanello suonò di nuovo, calmo e acuto, in lontananza.
— Non fidatevi di nessuno — ripeté Scathach, e i gemelli compresero che non stava rispondendo
alla domanda. Si girò verso la porta. — Penso che sia la campana della cena.
— Possiamo mangiare tutto? — chiese Josh.
— Dipende — rispose Scatty.
— Dipende da cosa? — ribatté lui allarmato.
— Da quello che è, naturalmente. Io per esempio non mangio carne.
— Perché no? — domandò Sophie, chiedendosi se non ci fossero particolari creature antiche che era
meglio evitare.
— Sono vegetariana — rispose Scatty.
CAPITOLO SEDICI
Perenelle Flamel si sedette in un angolo della minuscola stanza senza finestre e si portò le ginocchia
al petto, avvolgendo le braccia attorno alle caviglie. Poggiò il mento sulle ginocchia. Sentiva delle
voci, aspre e irose.
Perry si concentrò sul suono. Lasciò che la sua aura si espandesse un poco, mormorando un piccolo
incantesimo che aveva imparato presso uno sciamano Inuit. Lo sciamano lo usava per ascoltare i pesci
che nuotavano sotto le lastre del ghiaccio artico e gli orsi che facevano crepitare la neve in lontananza.
Funzionava chiudendo tutti gli altri sensi e concentrandosi esclusivamente sull’udito. Perry rimase a
osservare il colore che si dissolveva attorno a lei, finché non calò il buio e divenne cieca. Perse a poco
a poco l’uso dell’olfatto, mentre attraverso un formicolio lungo le dita delle mani e dei piedi intorpidì
anche il senso del tatto, per poi farlo svanire del tutto. Sapeva che, qualunque cosa avesse potuto avere
in bocca, non sarebbe stata in grado di avvertirne il sapore. Le era rimasto solo l’udito, ma amplificato
e ultrasensibile. Sentì gli insetti che strisciavano sulle pareti alle sue spalle, lo scricchiolio di un topo
che rosicchiava il legno da qualche parte sopra la sua testa, e seppe che una colonia di termiti si stava
aprendo un varco chissà dove nelle assi di un pavimento. Udì anche due voci in lontananza, come un
fievole falsetto su una radio sintonizzata male. Piegò la testa per concentrarsi su quel suono. Sentì il
fischio del vento, vestiti che sbattevano all’aria, il grido acuto degli uccelli. Capì che le voci
provenivano dal tetto dell’edificio. Si fecero prima più forti, poi stridule, quindi ovattate e infine, di
colpo, divennero chiare: erano le voci di Dee e della Morrigan, e Perry percepiva nettamente la paura
in quella dell’uomo in grigio e la furia negli strepiti acuti della Dea Corvo.
— La pagherà per questo! La pagherà cara!
— È un’Antica Signora. Intoccabile per quelli come te e come me — disse Dee, provando con
scarsi risultati a calmare la Morrigan.
— Nessuno è intoccabile. Ha interferito dove non le spettava. Le mie creature avevano quasi
sopraffatto l’auto quando il suo Vento Fantasma le ha spazzate via.
— Flamel, la guerriera Scathach e i due homines ora sono scomparsi — echeggiò la voce di Dee, e
Perry aggrottò la fronte, concentrandosi al massimo, cercando di seguire ogni parola. Fu felice di
sapere che Nicholas aveva chiesto l’aiuto di Scathach: era un’alleata formidabile. — Sembra quasi che
siano svaniti dalla faccia della Terra.
— Così è, infatti — scattò la Morrigan. — Flamel li ha condotti nel Regno d’Ombra di Ecate.
Senza rendersene conto, Perry annuì. Ma certo! Dove sarebbe potuto andare Nicholas, altrimenti?
L’ingresso del Regno d’Ombra di Ecate, nella Mill Valley, era vicinissimo a San Francisco e, anche se
l’Antica Signora non era amica dei Flamel, non era certo un’alleata di Dee e degli Oscuri Signori.
— Dobbiamo inseguirli — disse la Morrigan, gelida.
— Impossibile — ribatté Dee, più razionale. — Non ho né le capacità né i poteri per penetrare nel
regno di Ecate. — Fece una pausa, quindi aggiunse: — E nemmeno tu. Lei è della Prima Generazione,
mentre tu appartieni alla Nuova.
— Ma lei non è l’unico Antico Signore della costa occidentale! — La voce della Morrigan ebbe un
moto di trionfo.
— Che cosa stai suggerendo? — La paura aveva restituito alla voce di Dee un poco del suo accento
inglese originale.
— Io so dove riposa Bastet.

Perenelle Flamel abbandonò le spalle contro la pietra gelida e permise ai suoi sensi di tornare. Il tatto
giunse per primo, di nuovo preceduto da un formicolio lungo le dita delle mani e dei piedi, poi fu la
volta dell’olfatto e, infine, della vista. Battendo le palpebre, in attesa che svanissero i puntini di luce
colorata, Perry cercò di capire bene quello che aveva appena scoperto.
Le implicazioni erano terribili. La Morrigan era pronta a risvegliare Bastet e attaccare il Regno
d’Ombra di Ecate per recuperare le pagine del Codice.
Perry rabbrividì. Non aveva mai incontrato Bastet di persona, non sapeva di nessuno che l’avesse
fatto negli ultimi tre secoli e ne fosse uscito vivo, ma la conosceva di fama. Bastet era una delle
rappresentanti più potenti dell’Antica Razza, venerata in Egitto fin dagli albori dell’umanità. Aveva il
corpo di una donna giovane e bella e la testa di un gatto, e Perry non aveva la minima idea delle forze
magiche che controllava.
Stava succedendo qualcosa di grosso: anche la Morrigan era in circolazione. L’ultima volta che
aveva messo piede nel Mondo degli Uomini, l’avevano avvistata nelle spietate trincee di fango della
Somme e, prima ancora, mentre si aggirava per i sanguinosi campi di battaglia della Guerra Civile
americana. La Dea Corvo era attratta dalla morte, che le aleggiava attorno come un alone fetido. Era
fra quegli Antichi Signori convinti che gli esseri umani fossero stati posti sulla Terra al solo scopo di
servirli.
Nicholas e i gemelli erano al sicuro nel Regno d’Ombra di Ecate, ma ancora per quanto? Bastet
apparteneva alla Prima Generazione. I suoi poteri erano quanto meno pari a quelli di Ecate… e se la
Dea Gatto e la Dea Corvo, assieme alla magia alchemica di Dee, attaccavano Ecate, quanto avrebbero
retto le sue difese? Perry non lo sapeva.
E Nicholas, Scathach e i gemelli?
Perenelle si sentì affiorare le lacrime agli occhi, ma le ricacciò indietro. Nicholas avrebbe compiuto
seicentosettantasette anni il 28 settembre, di lì a quattro mesi. Era capacissimo di badare a se stesso,
anche se la sua padronanza degli incantesimi era limitata e a volte poteva essere molto smemorato.
Solo l’estate prima, aveva perso l’uso della lingua inglese ed era tornato al suo francese arcaico
originario. Perry ci aveva messo quasi trenta giorni per riportarlo all’inglese. Prima ancora, aveva
passato un periodo in cui firmava gli assegni in caratteri greci e aramaici. Le labbra di Perenelle si
incurvarono in un sorriso. Nicholas parlava molto bene sedici lingue e un’altra decina discretamente.
Sapeva leggere e scrivere in ventidue lingue – anche se, di questi tempi, non c’erano troppe occasioni
di praticare la lineare B, la cuneiforme o i geroglifici.
Si chiese cosa stesse facendo in quel momento. Di certo la stava cercando… ma era anche
impegnato a proteggere i gemelli e le pagine che Josh aveva strappato dal Codice. Sentì che doveva
assolutamente inviargli un messaggio, doveva fargli sapere che stava bene e avvertirlo del pericolo in
cui si trovavano.
Uno dei primi doni che la giovane donna nota con il nome di Perenelle Delamere aveva scoperto da
bambina era la capacità di parlare con le ombre dei morti. Aveva dovuto compiere sette anni, però, per
rendersi conto che non tutti riuscivano a vedere le tremolanti immagini in bianco e nero in cui lei si
imbatteva tutti i giorni. Alla vigilia del suo settimo compleanno, l’amata nonna, Mamom, era morta.
Perenelle era rimasta a guardare mentre il suo corpo avvizzito veniva delicatamente sollevato dal letto
in cui aveva trascorso gli ultimi dieci anni e deposto nella bara. Al funerale, la bambina aveva seguito
la processione che attraversava il piccolo villaggio di Quimper fino al cimitero affacciato sul mare.
Aveva osservato la piccola bara grezza che veniva calata nella terra, e poi era tornata a casa.
E Mamom era lì, seduta sul letto, gli occhi che brillavano con la malizia abituale. L’unica
differenza era che non vedeva più la nonna con chiarezza. I colori erano svaniti, tutto era in bianco e
nero, e la sua immagine oscillava, sfocandosi in continuazione.
In quell’istante, Perenelle si era resa conto di riuscire a vedere i fantasmi. E quando Mamom si era
girata verso di lei e aveva sorriso, aveva capito che anche loro potevano vedere lei.
Seduta nella piccola cella senza finestre, Perenelle allungò le gambe e premette le mani sul
pavimento di cemento. Nel corso degli anni aveva sviluppato una serie di difese per proteggersi dalle
intrusioni indesiderate dei morti. Se c’era una cosa che aveva imparato molto presto sul conto dei
defunti – soprattutto se vecchi – era che erano estremamente villani, e spuntavano fuori nei momenti
più inappropriati. Andavano particolarmente matti per le stanze da bagno, erano luoghi ideali per loro:
tranquilli e silenziosi, con un sacco di superfici riflettenti. Perenelle ricordava una volta in cui si stava
lavando i denti quando il fantasma di un presidente americano le era apparso nello specchio. Per poco
non aveva inghiottito lo spazzolino.
Perry aveva compreso presto che i fantasmi non riuscivano a vedere certi colori – tutte le sfumature
del blu e del verde e alcune tonalità di giallo – e per questo motivo incoraggiava volutamente la
presenza di quei colori nella sua aura, creandosi uno scudo che la rendeva invisibile a quel particolare
Regno d’Ombra abitato dalle ombre dei morti.
Con gli occhi spalancati, Perenelle si concentrò sulla propria aura, che al naturale era di un candido
color ghiaccio: un vero faro per i defunti, che accorrevano da lei a frotte. Ma al di sopra di essa, come
strati di vernice, si era creata delle aure azzurro brillante, verde smeraldo e giallo primula. Ora, uno
dopo l’altro, Perenelle spense i colori: prima il giallo, poi il verde e infine la difesa azzurra.
E i fantasmi arrivarono, attratti dalla sua aura color ghiaccio come falene da una fiamma. Le
comparvero attorno tremolanti: uomini, donne e bambini, vestiti in abiti che risalivano a decenni
precedenti. Perenelle vagò con gli occhi verdi sulle immagini luccicanti, senza sapere ancora
esattamente cosa cercava. Scartò donne e ragazze nelle vesti fluenti del Diciottesimo secolo e uomini
in stivali e cinturoni del Diciannovesimo, e si concentrò sui fantasmi che indossavano abiti del
Ventesimo secolo. Alla fine scelse un uomo più che maturo, vestito con l’uniforme moderna di un
addetto alla sicurezza. Scansando gentilmente le altre ombre, chiese alla figura di avvicinarsi.
Perenelle capiva perché la gente – soprattutto nelle società moderne e sofisticate – aveva paura dei
fantasmi. Ma lei sapeva che non c’era motivo di temerli: non erano altro che vestigia dell’aura di una
persona, rimaste attaccate a un determinato luogo.
— Posso aiutarla, signora? — La voce dell’ombra era decisa, con un lieve accento della costa
orientale: di Boston, forse. Alto e dritto come un vecchio soldato, il fantasma sembrava avere una
sessantina d’anni, forse di più.
— Potrebbe dirmi dove mi trovo? — gli domandò Perenelle.
— Nel seminterrato del quartier generale della Enoch Enterprises, a ovest della Telegraph Hill. La
Coit Tower è proprio sopra le nostre teste — aggiunse fiero.
— Ne sembra molto certo.
— Non posso sbagliare. Ho lavorato in questo posto per trent’anni. Non è stato sempre di proprietà
della Enoch Enterprises, naturalmente. Ma i posti come questo hanno sempre bisogno di addetti alla
sicurezza. Mai una sola irruzione è avvenuta sotto la mia sorveglianza — la informò.
— Un risultato di cui andare fieri, signor…
— Direi proprio di sì. — Il fantasma fece una pausa, mentre la sua immagine prese a tremare più
forte. — Miller. Era così che mi chiamavo. Jefferson Miller. È passato un pezzo dall’ultima volta in
cui me lo hanno chiesto. Come posso aiutarla? — chiese.
— Be’, mi è stato già di grande aiuto. Almeno so di trovarmi ancora a San Francisco.
Il fantasma continuò a guardarla. — Credeva il contrario?
— Penso di aver dormito, prima; temevo che mi avessero portato fuori città — spiegò.
— La tengono qui contro la sua volontà, signora?
— Sì.
Jefferson Miller si portò più vicino. — Be’, questo non va affatto bene. — Ci fu una lunga pausa,
mentre l’immagine tremò di nuovo. — Ma temo di non poterla aiutare. Vede: sono un fantasma.
Perenelle annuì. — Lo so. — Sorrise. — Solo, non ero certa che lo sapesse lei. — Sapeva che uno
dei motivi per cui i fantasmi spesso rimanevano attaccati a determinati luoghi era proprio perché non
sapevano di essere morti.
La vecchia guardia di sicurezza fece una risata roca. — Ho provato ad andarmene… ma qualcosa
continua a trattenermi. Forse ho trascorso troppo tempo in questo posto da vivo.
Perenelle annuì di nuovo. — Posso aiutarla ad andarsene, se lo desidera. Posso farlo per lei.
Jefferson Miller annuì. — Mi piacerebbe molto. Mia moglie, Ethel, si è spenta dieci anni prima di
me. A volte penso di sentire la sua voce che mi chiama attraverso i Regni d’Ombra.
Perenelle confermò con un cenno della testa. — Sta cercando di portarla a casa. Io posso aiutarla a
tagliare i lacci che la legano a questo posto.
— C’è qualcosa che posso fare per lei, in cambio di questo immenso favore?
Perenelle sorrise. — Be’, una cosa c’è… Forse potrebbe portare un messaggio a mio marito.
CAPITOLO DICIASSETTE
Sophie e Josh seguirono Scathach nei meandri della casa di Ecate, guardandosi attorno. La casa
sembrava comporsi di una serie di stanze circolari che fluivano, in maniera quasi impercettibile, l’una
nell’altra. Quasi tutte erano spoglie, e nella maggior parte di esse alti alberi dalla corteccia rossa
spuntavano al centro del pavimento. Una stanza, discosta e più grande rispetto alle altre, aveva
un’enorme vasca ovale nel mezzo. Ninfee bianche e incredibilmente grandi vi si raccoglievano al
centro, dandole l’apparenza di un enorme occhio fisso. Un’altra stanza era colma di grappoli di
campanelli di legno che pendevano dai rami dell’albero rosso, ciascuno di forma e dimensioni
differenti, alcuni scolpiti e intagliati di simboli, altri disadorni. Rimasero immobili e quieti finché
Sophie non guardò nella stanza, poi cominciarono a tintinnare lenti e melodiosi. Sembravano sussurri
lontani. Lei strinse la spalla di Josh, che però stava pensando ad altro.
— Dove sono tutti quanti? — chiese infine lui.
— C’è soltanto Ecate — rispose Scathach. — I membri dell’Antica Razza sono creature solitarie.
— Ce ne sono molti ancora vivi? — chiese Sophie alla Guerriera.
— Più di quanti credi. La maggior parte non vuole avere niente a che fare con gli homines e
raramente si avventura fuori dal proprio Regno d’Ombra. Altri, come gli Oscuri Signori, auspicano un
ritorno alle vecchie usanze, e si servono di agenti come Dee per renderlo possibile.
— E tu? — domandò Josh. — Tu non vuoi tornare alle vecchie usanze?
— Non ho mai pensato che fossero un gran che — rispose lei. E aggiunse: — Soprattutto per gli
homines.

Trovarono Nicholas Flamel seduto fuori, su una terrazza di legno incassata in un ramo dell’albero.
Perpendicolare al tronco, il ramo era largo almeno tre metri e si piegava verso il basso fino a toccare
terra nei pressi di uno stagno a mezzaluna. Attraversando quel ramo, Sophie guardò in basso e rimase
sbigottita: oltre le erbacce verdi che si aggrovigliavano e si intrecciavano nello stagno, scorse dei
piccoli volti, quasi umani, che guardavano in su, con le bocche e gli occhi spalancati. Sulla terrazza,
cinque sedie dallo schienale alto erano disposte attorno a un tavolo circolare, apparecchiato con dei
piatti meravigliosamente intagliati e con eleganti coppe e calici di legno. Pezzi di ruvido pane caldo e
spesse fette di formaggio erano disposti sui vassoi, e c’erano due grandi cesti di frutta – mele, arance e
grosse ciliegie – al centro del tavolo. L’Alchimista stava sbucciando accuratamente una mela verde
smeraldo con una scheggia di metallo annerito, simile alla punta triangolare di una freccia. Sophie
notò che aveva disposto la buccia verde già tagliata in forme che ricordavano lettere di un alfabeto.
Scatty scivolò con grazia sulla sedia accanto all’Alchimista. — Ecate non si unisce a noi? — chiese,
infilandosi in bocca un pezzo di buccia.
— Credo che si stia cambiando per la cena — disse Flamel, affettando un altro ricciolo verde per
rimpiazzare quello che stava masticando Scatty. Guardò Sophie e Josh. — Sedetevi, vi prego. La
nostra ospite ci raggiungerà tra poco e mangeremo. Sarete esausti — aggiunse.
— Sono stanca — ammise Sophie. Se ne era accorta poco prima, e adesso faticava a tenere gli occhi
aperti. Aveva anche un po’ paura, perché si rendeva conto che quella stanchezza era dovuta alla magia
del posto, che si nutriva della sua energia.
— Quando potremo andare a casa? — domandò Josh, riluttante ad ammettere che anche lui era a
pezzi. Gli facevano male perfino le ossa. Si sentiva come se stesse covando l’influenza.
Nicholas Flamel tagliò con precisione una fettina di mela, quindi la ingoiò. — Temo che per un po’
non sarete in grado di ritornare.
— Perché no? — sbottò Josh.
Flamel sospirò. Appoggiò la punta della freccia e la mela, e pose le mani sul tavolo. — In questo
momento, né Dee né la Morrigan sanno chi siete. È solo per questo motivo che voi e la vostra famiglia
siete al sicuro.
— La nostra famiglia? — ribatté Sophie. L’improvviso pensiero che sua madre o suo padre
potessero essere in pericolo le fece mancare il terreno sotto i piedi. Josh ne fu ugualmente colpito, le
labbra tirate in una sottile linea bianca.
— Dee non userà mezze misure — disse Flamel. — Sta proteggendo un segreto millenario, e non si
limiterà a uccidere voi. Tutti quelli che conoscete o con i quali avete un qualche contatto avranno un
incidente. Potrei perfino dire che anche il Coffee Cup di Bernice
sarà raso al suolo da un incendio… solo per il fatto che ci lavoravi tu. Bernice potrebbe perfino
morire tra le fiamme.
— Ma lei non c’entra niente! — protestò Sophie, inorridita.
— È vero, ma Dee questo non lo sa. Né gli interessa. Opera con gli Oscuri Signori da molto tempo,
ormai, ed è giunto ad avere degli esseri umani la stessa considerazione che ne hanno i suoi padroni, e
cioè che siano poco più che animali.
— Ma noi non diremo a nessuno quello che abbiamo visto… — cominciò Josh. — E comunque non
ci crederebbe mai nessuno… — La frase gli si spense sulle labbra.
— E se noi non lo diciamo a nessuno, nessuno lo saprà mai — disse Sophie. — Non ne parleremo
mai più. Dee non ci troverà mai. — Ma già mentre le parole le uscivano di bocca, cominciava a
comprendere che era una causa persa. Sapere dell’esistenza del Codice aveva incastrato lei e Josh
proprio come era successo a Nicholas e Perry.
— Vi troverebbe — disse Flamel in tono ragionevole. Lanciò un’occhiata alla Vergine Guerriera.
— Quanto tempo credi che ci metterebbe Dee o una spia della Morrigan a trovarli?
— Non molto — rispose lei, masticando la buccia della mela. — Un paio d’ore, forse. Prima i ratti
o gli uccelli vi rintraccerebbero, dopodiché avreste subito Dee addosso.
— Quando si viene toccati dalla magia, si cambia per sempre. — Flamel fece un gesto con la mano
destra e una lievissima traccia di fumo verde chiaro rimase sospesa in aria. — Si lascia una scia. —
Soffiò sul fumo verde, che svanì in un ricciolo.
— Sta dicendo che mandiamo un odore riconoscibile? — domandò Josh.
Flamel annuì. — L’odore della magia grezza. Ne avete avuto un assaggio prima, quando Ecate vi ha
toccato. Che cosa avete sentito nell’aria?
— Arance — disse Josh.
— Gelato alla vaniglia — replicò Sophie.
— E ancora prima, quando io e Dee stavamo lottando: che cosa avete sentito?
— Menta e uova marce — rispose subito Josh.
— Ogni mago o maga ha un suo odore distintivo; un po’ come un’impronta digitale magica. Dovete
imparare ad ascoltare i vostri sensi. Gli esseri umani usano soltanto una piccolissima percentuale delle
loro potenzialità: guardano a malapena, ascoltano di rado, non usano mai l’olfatto e pensano di poter
percepire le cose solo attraverso la pelle. Ma parlano, oh, se parlano! Il linguaggio compensa
ampiamente la mancanza d’uso degli altri sensi. Quando tornerete nel vostro mondo, sarete in grado di
riconoscere le persone che sono state in qualche modo toccate dalla magia. — Ricavò un preciso
cubetto di polpa dalla mela per poi portarlo alla bocca. — Noterete che hanno un profumo particolare,
potreste perfino sentire un sapore o vedere un bagliore attorno al loro corpo.
— Quanto durerà questa sensazione? — chiese Sophie incuriosita. Prese una ciliegia, grande quanto
un pomodorino. — Svanirà mai?
Flamel scosse la testa. — Mai. Anzi, diventerà sempre più forte. Ve lo ripeto: dovete rendervi conto
che niente sarà più come prima da oggi in poi, per nessuno di voi due.
Josh dette un sonoro morso alla mela e il succo gli colò sul mento. — Da come lo dice sembra una
brutta cosa — disse con un largo sorriso, pulendosi la bocca con la manica.
Flamel stava per rispondere, ma sollevò lo sguardo e scattò bruscamente in piedi. Anche Scathach si
alzò leggera, senza dire niente. Sophie seguì subito il loro esempio, ma Josh rimase seduto finché lei
non lo prese per la spalla e lo tirò su a forza. Quindi si girò a guardare la Dea dai Tre Volti.
Ma non era Ecate.
La donna che Sophie aveva visto prima era alta, robusta ma elegante, forse di mezza età, i capelli
tagliati corti in una sorta di aderente elmetto, la pelle nera liscia e senza rughe. Questa donna, invece,
era più vecchia, molto, molto più vecchia. La somiglianza con Ecate era evidente e Sophie pensò che
potesse essere la madre o la nonna. Per quanto fosse ancora alta, avanzava china, procedendo con
grande cautela lungo il ramo e appoggiandosi a un bastone intarsiato, alto almeno quanto Sophie. Il
volto era un intreccio di rughe sottili e gli occhi profondamente infossati emanavano un singolare
bagliore giallo. Era calva, e Sophie notò che il cuoio capelluto era ricoperto di sinuosi e intricati
tatuaggi. Anche se indossava un abito simile a quello che Ecate aveva sfoggiato prima, a ogni suo
passo il tessuto dall’aspetto metallico brillava solo di venature nere e rosse.
Sophie batté le palpebre, strizzò gli occhi, quindi batté di nuovo le palpebre. Riusciva a vedere una
lievissima traccia dell’aura che circondava la donna, come se trasudasse una nebbiolina candida e
sottile. Muovendosi, lasciava una scia di riccioli di vapore.
Senza degnare di un saluto nessuno dei presenti, la vecchia si sedette di fronte a Nicholas Flamel.
Soltanto allora anche Flamel e Scathach si risedettero, imitati da Sophie e Josh, che guardavano ora
l’Alchimista ora la vecchia con aria interrogativa.
La donna sollevò un calice dal tavolo, ma non bevve. Qualcosa si mosse nel tronco dell’albero alle
sue spalle, quindi comparvero quattro giovani alti e muscolosi con vassoi carichi di cibo, che deposero
al centro della tavola per poi tornarsene silenziosamente al loro posto. Gli uomini si somigliavano
come fratelli, ma furono soprattutto i loro volti ad attirare l’attenzione dei ragazzi: c’era qualcosa di
strano nelle proporzioni. La fronte calava su delle sopracciglia molto folte, il naso era corto e
schiacciato, gli zigomi pronunciati, il mento quasi inesistente. Un accenno di denti gialli spuntava da
labbra sottili. Avevano il petto scoperto, i piedi nudi e indossavano soltanto dei gonnellini di pelle,
ornati di placche di metallo rettangolari. Petto, gambe e testa erano ricoperti di un’ispida peluria
rossiccia.
Di colpo Sophie si rese conto che li stava fissando e scostò subito lo sguardo. Sembravano
appartenere a una specie di ominidi primitivi, ma lei sapeva riconoscere l’uomo di Neanderthal e
quello di Cro-Magnon, e nello studio del padre c’erano dei calchi in gesso del cranio
dell’Australopithecus, dell’uomo di Pechino e delle grandi scimmie antropomorfe. Quegli uomini non
somigliavano a nessuno di essi. Poi notò che avevano gli occhi azzurri: di un azzurro brillante, con
un’espressione di stupefacente intelligenza.
— Sono Torc Allta — disse, e si irrigidì sorpresa quando tutti si girarono a guardarla. Non si era
accorta di aver parlato ad alta voce.
Josh, che stava scrutando con sospetto un boccone di pesce prelevato da un grosso piatto di stufato,
lanciò un’occhiata agli uomini girati di spalle. — Lo sapevo — disse con noncuranza.
Sophie gli assestò un calcio sotto il tavolo. — Non è vero — borbottò. — Eri troppo occupato a
studiare il cibo che hai nel piatto.
— Ho fame — ribatté lui, poi si sporse verso la sorella. — Si capiva dal pelo rosso e dai nasi
porcini — mormorò. — Pensavo te ne fossi accorta subito.
— Sarebbe un errore farsi sentire da loro a dire queste cose — lo interruppe Nicholas Flamel, piano.
— Sarebbe anche un errore giudicare dalle apparenze o commentare ciò che vedi. In questo tempo, in
questo luogo, valgono parametri e criteri differenti. Qui le parole uccidono… letteralmente.
— O possono farti uccidere — aggiunse Scathach. Si era riempita il piatto di un’infinità di ortaggi,
solo alcuni dei quali noti ai gemelli. Poi fece un cenno in direzione dell’albero. — Ma avete ragione:
sono Torc Allta in forma umana. Probabilmente i migliori guerrieri di tutti i tempi.
— Vi accompagneranno quando lascerete questo posto — disse di colpo la vecchia, con una voce
sorprendentemente forte per quel corpo dall’aria così fragile.
Flamel fece un inchino. — Saremo onorati della loro presenza.
— Non è il caso — lo fulminò lei. — Non vi accompagneranno solo per proteggervi: si
assicureranno che lasciate davvero il mio reame. — Distese la mano affusolata sul tavolo, e Sophie
notò che l’unghia di ogni dito era dipinta di un colore diverso. Stranamente, la decorazione che le
abbelliva era identica a quella che aveva notato sulle unghie di Ecate. — Non potete restare qui —
annunciò la donna in tono brusco. — Dovete andarvene.
I gemelli si scambiarono un’occhiata; perché era così dura?
Scathach fece per parlare, ma Flamel allungò la mano e le strinse il braccio. — Questa è sempre
stata la nostra intenzione — disse dolcemente. La luce del tardo pomeriggio filtrava obliqua fra gli
alberi e screziava il volto dell’uomo, trasformando i suoi occhi chiarissimi in due specchi. — Quando
Dee ha attaccato il mio negozio e mi ha sottratto il Codice, ho capito che non avevo altri posti dove
andare.
— Dovevi andare a sud — ribatté la vecchia, l’abito ormai quasi del tutto nero, i fili rossi
dell’ordito simili a vene. — Sareste stati i benvenuti, lì. Voglio che ve ne andiate.
— Quando ho cominciato a sospettare che la profezia stava cominciando ad avverarsi, ho capito che
dovevo venire da te — continuò Flamel, ignorandola. I gemelli, che seguivano attentamente la scena,
notarono come gli occhi dell’Alchimista erano guizzati per un attimo nella loro direzione.
La vecchia guardò i gemelli con i suoi occhi di burro. Il volto avvizzito si aprì in un sorriso privo di
calore, mettendo in mostra i piccoli denti gialli. — Ho riflettuto al riguardo; sono convinta che la
profezia non si riferisca a degli homines, e tanto meno a degli homines bambini… — aggiunse con un
sibilo.
Il disprezzo nella voce della donna spinse Sophie a protestare. — Vorrei che non parlasse di noi
come se non fossimo presenti — disse.
— E poi — aggiunse Josh — sua figlia aveva intenzione di aiutarci. Perché non aspettiamo di
sentire quello che ha da dire lei?
La donna lo guardò sbigottita, inarcando le sopracciglia quasi invisibili in una domanda muta. —
Mia figlia?
— Sì, la donna che abbiamo incontrato nel pomeriggio. La donna più giovane, sua figlia? O forse
sua nipote? Lei aveva intenzione di aiutarci.
— Non ho né figlie né nipoti! — Con l’abito che divampava per tutta la sua lunghezza di strisce
rosse e nere, e mostrando i denti fra le labbra tese, la vecchia ringhiò delle parole incomprensibili.
Torse le mani come fossero due grossi artigli e l’aria si riempì all’istante del pungente odore del lime.
Dozzine di minuscole sfere rotanti di luce verde le comparvero sui palmi.
Fu a questo punto che Scathach conficcò un pugnale con la lama a doppio taglio al centro del
tavolo. Il legno si spaccò in due con uno schianto fragoroso e una pioggia di schegge, e i piatti delle
pietanze rovinarono a terra. La vecchia si ritrasse, mentre la luce verde precipitava dalle sue dita come
un liquido, scorrendo in schizzi striduli sul pavimento prima di penetrare nel legno.
I quattro Torc Allta furono subito alle spalle della vecchia, impugnando spade ricurve come falci, e
altre tre creature nella loro forma animale sbucarono dal sottobosco e corsero su per il ramo fino alla
terrazza, per prendere posizione dietro Flamel e Scatty.
I gemelli si paralizzarono, terrorizzati, senza capire bene quello che era appena successo. Nicholas
Flamel non si era mosso, e continuava come se niente fosse a sbucciare e mangiare la sua mela.
Scathach rinfoderò con calma il pugnale e incrociò le braccia. Parlò velocemente con la vecchia.
Sophie e Josh videro che le labbra si muovevano, ma udirono soltanto un ronzio metallico, da insetto.
La vecchia non rispose. Con il volto atteggiato a una maschera inespressiva si alzò e lasciò la
tavola, circondata dalle guardie Torc Allta. Stavolta né Flamel né Scathach si alzarono.
Nel lungo silenzio che seguì, Scathach si chinò a raccogliere i frutti e gli ortaggi caduti, li spolverò
e li gettò nell’unico recipiente di legno ancora intatto. Poi ricominciò a mangiare.
Josh stava per porre quella domanda alla quale anche Sophie avrebbe tanto voluto una risposta, ma
la sorella allungò la mano sotto il tavolo e gli strinse il braccio, mettendolo a tacere. Sapeva che era
appena successo qualcosa di estremamente pericoloso e che, in qualche modo, Josh vi era implicato.
— Penso che sia andata bene, non credi? — chiese Scathach infine.
Flamel finì la mela e ripulì la lama della freccia nera su una foglia. — Dipende dalla tua definizione
della parola “bene” — disse.
Scathach rosicchiò una carota cruda. — Siamo ancora vivi e siamo ancora nel Regno d’Ombra —
ribatté. — Poteva andarci peggio. Il sole sta calando. La nostra ospite avrà bisogno di dormire e
domattina sarà una persona diversa. Probabilmente non ricorderà ciò che è accaduto stasera.
— Che cosa le hai detto? — chiese Flamel. — Non ho mai imparato bene l’Antica Lingua…
— Le ho solo rammentato l’antico dovere dell’ospitalità, e le ho assicurato che la mancanza di
rispetto nei suoi riguardi era del tutto involontaria, frutto di ignoranza, e che perciò non era un crimine
al cospetto delle Antiche Leggi.
— È spaventata… — mormorò Flamel, con un’occhiata verso l’enorme tronco. Si distinguevano
ancora i movimenti delle guardie Torc Allta all’interno, mentre il cinghiale più grosso era rimasto
fuori, a bloccare l’ingresso.
— È sempre spaventata quando si avvicina la sera. È il momento in cui è più vulnerabile — osservò
Scathach.
— Sarebbe gentile — la interruppe Sophie — se qualcuno ci spiegasse esattamente quello che è
appena successo. — Non sopportava quando gli adulti parlavano fra loro e ignoravano i ragazzi
presenti. Proprio come in quel momento.
Scathach sorrise, e d’un tratto i suoi denti da vampiro sembrarono molto lunghi. — Tuo fratello
gemello è appena riuscito a insultare un’Antica Signora e ci è mancato poco che venisse ridotto a una
poltiglia verde per il crimine commesso.
Josh scosse la testa. — Ma non ho detto nulla… — protestò. Guardò la sorella in cerca di sostegno
mentre ripassava mentalmente la conversazione avuta con la vecchia. — Ho detto solo che sua figlia o
sua nipote aveva promesso di aiutarci.
Scathach ridacchiò. — Non si trattava della figlia o della nipote. La donna matura che avete visto
questo pomeriggio era Ecate. Anche la vecchia che avete visto questa sera è Ecate, e domattina
incontrerete una giovane, e anch’essa sarà Ecate.
— La Dea dai Tre Volti — ricordò loro Flamel. — Ecate è condannata a invecchiare con il giorno.
Fanciulla al mattino, matrona il pomeriggio, vegliarda la sera. È molto suscettibile riguardo alla sua
età.
Josh deglutì. — Non lo sapevo…
— Non potevi saperlo. Solo, per la tua ignoranza hai rischiato di farti uccidere… o peggio.
— Ma tu che cosa hai fatto al tavolo? — chiese Sophie. Guardò ciò che rimaneva del tavolo
circolare: era spaccato a metà, aperto dove Scatty aveva conficcato il suo coltello, e il legno ai
margini del taglio sembrava secco e polveroso.
— Ferro — disse semplicemente Scatty.
— Uno dei sorprendenti effetti collaterali di questo metallo — disse Flamel — è la sua capacità di
annullare perfino la più potente delle magie. La scoperta del ferro segnò definitivamente la fine del
potere dell’Antica Razza in questo mondo. — Sollevò la punta della freccia nera. — Ecco perché
stavo usando questa. Gli Antichi Signori si innervosiscono in presenza del ferro.
— Tu, però, porti degli oggetti di ferro — disse Sophie a Scatty.
— Io appartengo alla Nuova Generazione: non sono un’Antica pura come Ecate. Posso sostenere la
presenza del ferro.
Josh si passò la lingua sulle labbra secche. Stava ancora pensando alla luce verde che sibilava fra le
mani di Ecate. — Quando hai detto “ridotto a una poltiglia verde”, non intendevi veramente…
Scathach annuì. — Una poltiglia verde e appiccicosa. Piuttosto repellente. E mi pare che la vittima
mantenga un certo livello di coscienza per un po’. — Lanciò un’occhiata a Flamel. — Non riesco a
ricordare l’ultima persona che abbia scatenato l’ira di un Antico Signore senza poi rimetterci la pelle.
E tu?
Flamel si alzò. — Speriamo che domattina non se lo ricordi. Adesso riposate — disse ai gemelli. —
Domani sarà una lunga giornata.
— Perché? — chiesero a una voce Sophie e Josh.
— Perché domani spero di convincere Ecate a risvegliare il vostro potenziale magico. Se vogliamo
che abbiate una speranza di sopravvivere nei prossimi giorni, dovrò addestrarvi perché diventiate dei
maghi.
CAPITOLO DICIOTTO
Nicholas Flamel osservò Sophie e Josh che rientravano seguendo Scathach nell’albero. Solo quando la
porta si chiuse alle loro spalle i suoi occhi chiarissimi tradirono la preoccupazione che provava. C’era
mancato poco: ancora qualche attimo ed Ecate avrebbe ridotto Josh a un liquame gorgogliante. Non
sapeva se la dea sarebbe stata in grado di riportarlo in vita il mattino seguente, una volta assunte le
sembianze di fanciulla. Doveva condurre via i gemelli, prima che la loro ignoranza finisse per
cacciarli nei guai.
Flamel si allontanò dalle rovine del tavolo e seguì il ramo fino allo stagno, giungendo su un sentiero
stretto e sterrato. C’era una moltitudine di impronte sul fango, alcune di cinghiale, altre più simili a
piedi umani… e altre ancora che rivelavano uno strano miscuglio di entrambe. Sapeva di essere
pedinato, che ogni suo movimento era seguito da creature a lui invisibili, e intuiva che i Torc Allta
erano probabilmente solo alcune delle tante guardie di Ecate.
Accovacciandosi sul bordo dell’acqua, trasse un profondo respiro e si concesse un attimo di relax.
Era stato uno dei giorni più intensi della sua lunga vita: era esausto.
Dal momento in cui Dee aveva portato via Perry e il Codice ed erano apparsi i gemelli, Flamel
aveva capito che una delle prime profezie lette nel Libro mezzo millennio prima si stava avverando.
“I due che sono uno, l’uno che è tutto.”
Il Codice abbondava di frasi criptiche ed enunciati incomprensibili. La maggior parte riguardava
l’annientamento di Danu Talis, la patria remota dell’Antica Razza, ma c’era anche una serie di
profezie che aveva a che fare con il ritorno degli Oscuri Signori e con la distruzione e riduzione in
schiavitù degli umani.
“Verrà un giorno in cui il Libro sarà sottratto…”
Be’, questa riga si spiegava da sola.
“… e l’uomo della Regina si alleerà con il Corvo…”
Questa doveva riferirsi a Dee. Era stato il mago personale della Regina Elisabetta. E il Corvo era un
chiaro riferimento alla Dea Corvo.
“Allora gli Antichi Signori usciranno dalle Tenebre…”
Flamel sapeva che Dee operava da secoli al fianco degli Oscuri Signori per preparare il loro ritorno.
Gli erano giunte voci non confermate secondo cui i malvagi dell’Antica Razza stavano lasciando i
propri Regni d’Ombra in numero sempre maggiore, per aggirarsi di nuovo nel mondo degli homines.
“… e l’immortale dovrà addestrare i mortali. I due che sono uno dovranno diventare l’uno che è
tutto.”
Nicholas Flamel era l’immortale della profezia. I gemelli – i due che sono uno – dovevano essere i
mortali da addestrare. Ma non aveva idea del significato dell’ultima frase: “l’uno che è tutto.”
Le circostanze avevano posto i gemelli sotto le sue cure, e lui era deciso a far sì che non accadesse
loro nulla di male, soprattutto adesso, convinto com’era che fossero destinati a giocare un ruolo
decisivo nella guerra contro gli Oscuri Signori. Nicholas sapeva che condurre Josh e Sophie presso la
Dea dai Tre Volti era stato un grosso rischio, soprattutto in compagnia di Scathach. La faida della
Guerriera con la dea era più antica di molte civiltà. Ecate era fra gli Antichi Signori più pericolosi.
Aveva immensi poteri e fra le sue molte abilità c’era quella di risvegliare le potenzialità magiche
presenti in ogni creatura senziente. Tuttavia, come accadeva spesso nell’Antica Razza, il suo
metabolismo era legato a un ciclo lunare o solare. Invecchiava durante il giorno e moriva a tutti gli
effetti con il tramonto, per poi rinascere come fanciulla all’alba. Questo curioso tratto annebbiava e
confondeva il suo pensiero e talvolta, come era accaduto prima, la vecchia Ecate dimenticava le
promesse fatte con uno dei suoi volti più giovani. Flamel sperava di poter ragionare con la fanciulla
Ecate l’indomani mattina per convincerla a risvegliare le straordinarie potenzialità dei gemelli.
L’Alchimista sapeva che in ogni essere umano era riposta una scintilla di magia. E sapeva anche
che una volta accesa, essa tendeva a fortificarsi da sola per sua stessa natura. Qualche volta – molto
raramente – i bambini manifestavano subito poteri straordinari, di solito sottoforma di telepatia,
telecinesi o una combinazione di entrambe. Alcuni capivano che cosa stava succedendo e riuscivano a
controllare i loro poteri, altri invece non lo comprendevano mai davvero. Senza addestramento né
supervisione, l’energia magica si irradiava dai bambini in onde che spostavano i mobili, sbattevano la
gente a terra e scavavano segni nei muri o sui soffitti; eventi spesso registrati come attività
poltergeist. Flamel sapeva che se Ecate avesse risvegliato i poteri latenti dei gemelli, lui avrebbe
potuto usare quello che aveva imparato nel corso di sei secoli di studio per potenziare le loro abilità.
Non solo avrebbe dato loro i mezzi per proteggersi, ma avrebbe anche potuto prepararli per ciò che li
attendeva, qualunque cosa fosse.
Ancora accovacciato sul bordo dello stagno, teneva lo sguardo fisso nell’acqua verdognola. Carpe
koi rosse e bianche si muovevano vicinissime alla superficie, mentre sul fondo dei volti quasi umani
guardavano in su, gli occhi enormi e attoniti, le bocche piene di denti appuntiti come aghi. Decise che
era meglio non intingere le dita nell’acqua.
Tutti gli antichi libri sostenevano che la magia si manifestava sottoforma di quattro elementi: Aria,
Acqua, Terra e Fuoco. Ma secoli di studio avevano rivelato a Nicholas che, in realtà, le forze
elementali erano cinque. La quinta era il Tempo, la forza magica più potente di tutte. Gli Antichi
Signori controllavano tutti gli altri elementi, ma il segreto del quinto era contenuto solo nel Codice…
e quella era una delle molte ragioni per cui Dee e i suoi Oscuri Signori lo volevano. Con il possesso
del Libro, sarebbero giunti a ottenere anche il controllo del Tempo.
Insieme a Perenelle, Nicholas Flamel aveva dedicato gran parte della sua lunga vita a studiare le
forze degli elementi. Mentre Perry aveva imparato a praticare diversi stili di magia, lui si era
concentrato sulle formule e sui teoremi del Codice. Questi costituivano le fondamenta dello studio
della scienza alchemica. Usando le formule, aveva imparato a trasformare i metalli fondamentali in
oro e il carbone in diamante, ma tutto questo aveva poco a che vedere con la magia. Certo, si trattava
di formule estremamente complesse che richiedevano mesi di preparazione, ma il processo in sé era di
una semplicità quasi ridicola. Un giorno era povero, e il giorno dopo si era ritrovato ricco ben oltre i
suoi sogni più sfrenati. Su consiglio di Perry, aveva fondato ospedali, orfanotrofi e scuole a Parigi, la
sua città natale. Bei tempi… anzi no: meravigliosi. La vita era tanto più semplice, allora. Non
sapevano nulla dell’Antica Razza, non avevano nemmeno avuto il più piccolo sospetto intorno al
sapere oscuro che il Codice conteneva.
Negli ultimi anni, Nicholas si era svegliato talvolta nel bel mezzo della notte con un pensiero che
gli frullava in testa: se avesse saputo quello che sapeva ora del Codice, avrebbe continuato la sua
ricerca della pietra filosofale? Quella strada aveva finito per metterlo in contatto con l’Antica Razza –
in particolare con gli Oscuri Signori – e aveva portato il dottor John Dee nella sua vita. Aveva
costretto lui e Perry a simulare la morte e a fuggire da Parigi, e infine a trascorrere il mezzo millennio
successivo alla macchia. Ma lo studio del Codice li aveva anche resi entrambi immortali. La maggior
parte delle notti rispondeva di sì: anche sapendo tutto quello che sapeva ora, avrebbe continuato i suoi
studi e sarebbe diventato l’Alchimista.
Ma c’erano rare occasioni, come quel giorno, in cui la risposta era no. Adesso rischiava di perdere
Perenelle,
e probabilmente anche la vita innocente dei gemelli e quella, non così innocente, di Scathach –
anche se, ne era certo, la Guerriera avrebbe venduto cara la pelle – e poi c’era la possibilità che avesse
condannato il mondo alla rovina.
Nicholas si sentì gelare al solo pensiero. Il Libro di Abramo traboccava di storie, leggende, miti e
racconti – o meglio, di ciò che all’inizio aveva ritenuto tali. Nel corso dei secoli, la sua ricerca aveva
rivelato che tutte quelle storie erano vere, tutti i racconti si basavano sui fatti e che quelli che lui
aveva preso per miti e leggende altro non erano che resoconti di esseri ed eventi reali.
L’Antica Razza esisteva.
Erano creature dall’aspetto umano, talvolta, ma con poteri divini. Avevano governato per diecimila
anni prima che coloro che essi chiamavano gli homines – il genere umano – comparissero sulla Terra.
Gli uomini primitivi veneravano gli Antichi Signori come demoni e divinità, e nel corso delle
generazioni avevano costruito intere mitologie e sistemi di credenze fondati sul culto di uno o più di
essi. Gli dei e le dee dell’Antica Grecia, degli Egizi, dei Sumeri, delle civiltà della Valle dell’Indo, dei
Toltechi e dei Celti esistevano veramente. Evidentemente non erano tutti diversi: gli Antichi Signori
erano sempre gli stessi, solo che venivano chiamati con altri nomi.
L’Antica Razza si divideva in due gruppi: coloro che operavano con gli homines e coloro che li
consideravano alla stregua di schiavi e, talvolta, di cibo. Gli Antichi Signori erano in lotta fra loro, e
combattevano battaglie lunghe anche secoli interi. Di quando in quando, degli homines si schieravano
al fianco dell’uno o dell’altro, e le loro imprese erano ricordate in grandi leggende come quelle di
Gilgamesh e Cuchulain, Atlante e Ippolito, Beowulf ed Elia di Murom.
Infine, quando fu chiaro che tali guerre rischiavano di distruggere il pianeta, il misterioso Abramo
impiegò una potentissima raccolta di incantesimi per costringere tutti gli Antichi Signori – anche
quelli che sostenevano l’umanità – a ritirarsi dalla Terra. La maggior parte, come Ecate, se ne andò di
spontanea volontà, rifugiandosi in Regni d’Ombra artificiali e intrattenendo da allora contatti quasi
inesistenti con gli homines. Altri, come la Morrigan, per quanto molto indeboliti, continuarono ad
avventurarsi nel mondo, adoperandosi per restaurare le vecchie usanze. Altri ancora, come Scathach,
vivevano sotto mentite spoglie in mezzo agli homines. Alla fine, Flamel aveva compreso che il Codice
non conteneva solo gli incantesimi che avevano costretto l’Antica Razza a fuggire nei Regni d’Ombra,
ma anche quelli che avrebbero consentito il loro ritorno.
E se gli Oscuri Signori fossero tornati, la civiltà del Ventunesimo secolo sarebbe stata spazzata via
nel giro di poche ore, durante la guerra di quelle creature dai poteri divini. Era già successo: mitologia
e storia registravano l’evento come il Diluvio Universale.
Adesso Dee aveva il Libro. Gli servivano soltanto le due pagine che Flamel sentiva premute contro
il suo petto. E Nicholas Flamel sapeva che, per averle, Dee e la Morrigan non si sarebbero fermati di
fronte a nulla.
Chinò il capo, desiderando con tutto se stesso di sapere cosa fare. Quanto avrebbe voluto che
Perenelle fosse lì con lui; di certo lei avrebbe avuto un piano.
Una bolla scoppiò sulla superficie dell’acqua. — La signora mi ha chiesto di riferirle… — Un’altra
bolla venne a galla per poi scoppiare. — … che sta bene.
Flamel si allontanò d’istinto dal bordo dello stagno. Riccioli di vapore si levavano dalla superficie
dell’acqua, che gorgogliava di bollicine scoppiettanti. Una sagoma cominciò a delinearsi nella nuvola
di vapore – una sagoma sorprendente: quella di un uomo sulla sessantina, vestito con un’uniforme da
guardia di sicurezza. Rimase sospesa sopra lo stagno, ondeggiando distorta. I raggi dell’ultimo sole si
rifrangevano nelle gocce d’acqua, trasformandole in un brillante arcobaleno di luce. — È un
fantasma? — chiese Nicholas Flamel.
— Sì, signore. O meglio lo ero, prima che la sua signora mi liberasse.
— Mi conosce? — domandò Nicholas Flamel. Si chiese rapidamente se non fosse un trucco di Dee,
ma poi scartò l’idea: lo stregone era potente, ma non tanto da penetrare le difese di Ecate.
Il vapore si mosse, addensandosi. — Sì, signore, credo di sì: lei è Nicholas Flamel, l’Alchimista. La
signora Flamel mi ha chiesto di venire a cercarla. Mi ha suggerito di cercarla qui, in questo particolare
Regno d’Ombra. Ha sentito Dee che ne parlava.
— Mia moglie sta bene? — chiese Flamel, ansioso.
— Sì. L’uomo basso che chiamano John Dee è terrorizzato da lei, ma l’altra donna no.
— Quale donna?
— Una donna alta, con un mantello di piume nere.
— La Morrigan — disse Flamel incupendosi.
— Sì. E questo è il messaggio… — Un pesce balzò fuori dallo stagno e la figura si dissolse in
migliaia di goccioline d’acqua, che rimasero sospese in aria come i pezzetti di un puzzle che
componevano il fantasma. — La signora Flamel dice che dovete andarvene… subito. La Dea Corvo
sta radunando le forze per invadere il Regno d’Ombra.
— Ma non può farcela. Appartiene alla Nuova Generazione, non ne ha il potere.
Il pesce balzò di nuovo, disperdendo le goccioline d’acqua, e la voce del fantasma tremò e cominciò
a svanire in un sussurro, morendo all’esplosione di ogni goccia. — La signora Flamel mi ha detto di
riferirle che la Dea Corvo intende risvegliare Bastet.
CAPITOLO DICIANNOVE
In piedi sulla soglia della stanza di Sophie, Scathach osservava i gemelli con i suoi occhi verde erba.
— Riposatevi — disse, ripetendo il consiglio di Flamel. — Rimanete nelle vostre stanze — aggiunse.
— Potreste sentire degli strani suoni fuori: ignorateli. Siete assolutamente al sicuro finché rimanete
fra queste mura.
— Che genere di suoni? — chiese Josh. La sua immaginazione ormai era sensibilissima, e lui
cominciava a pentirsi di tutte le ore trascorse a spaventarsi inutilmente con tutti quegli stupidi giochi
al computer.
Scathach si fermò un attimo a riflettere. — Grida, forse. Ululati di animali. Oh, e risate. — Sorrise.
— Credetemi, non vi piacerebbe scoprire che cosa sta ridendo — disse, e aggiunse con una punta di
ironia: — Sogni d’oro.
Josh Newman aspettò che Scathach scomparisse dietro l’angolo del corridoio, quindi si girò verso la
sorella. — Dobbiamo andarcene di qui.
Sophie si morse il labbro così forte da lasciare le impronte degli incisivi impresse nella carne,
quindi annuì. — Stavo pensando la stessa cosa.
— Siamo davvero in pericolo — esclamò Josh.
Sophie annuì di nuovo. Gli eventi si erano susseguiti a una tale velocità quel pomeriggio, che aveva
a malapena avuto il tempo di riprendere fiato. Un attimo prima lavorava ancora al caffè, e l’attimo
dopo correva a rotta di collo per San Francisco, in compagnia di un uomo che dichiarava di essere un
alchimista di seicento anni e di una ragazza che sembrava poco più grande di lei, ma giurava di essere
una guerriera millenaria. E un vampiro. — Continuo a cercare le telecamere nascoste — mormorò,
guardandosi attorno.
— Telecamere? — Josh fece una faccia sbigottita. Poi capì al volo quello che aveva in mente la
sorella. — Vuoi dire tipo Candid Camera? — Imbarazzatissimo, si sentì il volto in fiamme: e se
avesse appena fatto la figura dell’idiota di fronte a tutta la nazione? Non sarebbe più riuscito a
presentarsi a scuola. Sbirciò in tutti gli angoli del soffitto, alla ricerca delle telecamere. Di solito si
trovavano dietro gli specchi. Guardò: niente specchi. Non era detta l’ultima parola, però: le telecamere
di nuova generazione erano minuscole, praticamente invisibili. Poi fu colto da un pensiero
improvviso. — E gli uccelli, allora?
Sophie annuì per l’ennesima volta. — Anch’io ritorno sempre agli uccelli. Tutto il resto potrebbe
anche essere il frutto di effetti speciali: i Torc Allta potrebbero essere animali addestrati e uomini
truccati ad arte, quello che è successo nel dojo di Scathach potrebbe essere un trucco e i ratti forse
erano addomesticati. Ma non gli uccelli: erano troppi, e hanno quasi fatto a pezzi la macchina. — Era
per via degli uccelli che alla fine si era convinta del fatto che stavano correndo un pericolo molto
reale… perché se gli uccelli erano reali, allora era reale anche tutto il resto.
Josh si ficcò le mani nelle tasche posteriori dei jeans e si affacciò alla finestra. Il fitto fogliame
arrivava fino al davanzale ma, anche se il vetro non c’era e miriadi di insetti solcavano l’aria della
sera, nessuno di essi osava entrare. Balzò all’indietro quando un grosso serpente azzurro spuntò tra le
foglie: era spesso quanto il suo polso, e la lingua che guizzò nella sua direzione era lunga almeno
quindici centimetri. Il serpente svanì all’apparizione di una minuscola sfera di luci ronzanti, che
sfrecciava sinuosa fra gli alberi. Quando passò davanti alla finestra, Josh avrebbe giurato che quella
sfera fosse composta da uno sciame di una dozzina di piccole fanciulle alate, non più grandi del suo
indice. Era il loro corpo a emanare luce dall’interno. Si passò la lingua sulle labbra secche. — Ok,
supponiamo che sia reale… tutto quanto: la magia, le razze antiche… Allora si ritorna alla mia idea di
partenza: dobbiamo andarcene di qui.
Sophie si avvicinò alla finestra e mise il braccio attorno alle spalle del fratello. Era più grande di lui
di ventotto secondi – meno di mezzo minuto, le ricordava sempre Josh – ma con la madre e il padre
spesso lontani, aveva assunto il ruolo della sorella maggiore. Anche se lui la superava già di cinque
centimetri buoni, sarebbe sempre stato il suo fratellino. — Sono d’accordo — disse in tono stanco. —
Dobbiamo tentare la fuga.
Qualcosa nel tono della sua voce fece girare Josh. — Tu non credi che ce la faremo — disse
asciutto.
— Proviamoci — esclamò lei, senza rispondere davvero. — Ma sono sicura che ci inseguiranno.
— Flamel ha detto che Dee riuscirebbe a trovarci. Sono sicuro che anche Flamel, o Scathach,
potrebbero farlo.
— Flamel non ha motivo di inseguirci — osservò Sophie.
— Ma Dee sì — soggiunse Josh. — Che succede se torniamo a casa e Dee e i suoi ci raggiungono
lì? — si chiese ad alta voce.
Sophie aggrottò la fronte. — Già. Flamel ha detto che una volta toccati dalla magia si è in grado di
vedere l’aura che circonda le persone.
Josh annuì.
— Ma Ecate non ha risvegliato i nostri poteri magici. — Si concentrò di nuovo, cercando di
ricordare le parole esatte di Nicholas Flamel. — Flamel ha detto che avevamo l’odore della magia
grezza.
Josh inspirò profondamente. — Ma io non sento niente. Né frutta, né arance, né gelato alla vaniglia.
Forse non abbiamo nessun odore finché non ci risvegliano.
— Se riusciamo a tornare a casa, potremmo raggiungere mamma e papà nello Utah. Potremmo stare
con loro per il resto dell’estate, finché non si calmano le acque.
— Non è una cattiva idea — disse Josh. — Nessuno ci troverebbe nel deserto. E in questo momento,
il deserto sabbioso, monotono e torrido è una prospettiva molto invitante.
Sophie si girò verso la porta. — C’è solo un problema. Questo posto è un labirinto. Pensi che
riusciremo a ritrovare la strada per la macchina?
— Credo di sì — annuì lui. — Anzi, ne sono sicuro.
— Allora andiamo. — Si frugò la tasca per accertarsi di avere il cellulare. — Prendiamo la tua roba.
I gemelli si fermarono un istante sulla porta della camera e si affacciarono a controllare il
corridoio, a destra e sinistra. Era deserto e immerso nel buio quasi assoluto, tranne che per la luce
bianca e lattiginosa emessa da sparsi e remoti gruppetti di cristalli.
Da qualche parte, lontano, echeggiò un suono a metà fra una risata e un grido. Camminando senza
far rumore grazie alla suola di gomma delle scarpe da ginnastica, i ragazzi raggiunsero la stanza di
Josh.
— Ma come abbiamo fatto a ritrovarci in un impiccio del genere? — si chiese Josh ad alta voce.
— Eravamo nel posto sbagliato al momento sbagliato, tutto qui — disse Sophie. Ma cominciava a
sospettare che non si trattasse solo di quello. C’era qualcos’altro in ballo, qualcosa che aveva a che
fare con la profezia a cui aveva accennato Flamel, qualcosa che aveva a che fare con loro. Ne era
terrorizzata al solo pensiero.
I gemelli si infilarono in corridoio e cominciarono ad attraversare le stanze circolari, con calma,
facendo sempre capolino sulla soglia prima di entrare. Si fermavano ogni volta che stralci di
conversazione in lingue irriconoscibili o musiche suonate da strumenti imprecisabili aleggiavano nel
corridoio. Poi, udendo avvicinarsi una risata stridula e folle, simile a un ululato, si infilarono nella
prima stanza aperta; la risata si spense poco dopo. Quando si affacciarono di nuovo in corridoio,
notarono che tutti i cristalli di luce si erano offuscati ed emettevano un bagliore rosso sangue.
— Sono felice che non abbiamo visto quello che è appena passato — commentò Josh tremante.
Sophie brontolò una risposta. Suo fratello faceva strada; lei lo seguiva a due passi di distanza,
tenendogli la mano sulla spalla. — Come fai a sapere dove stiamo andando? — gli sussurrò
nell’orecchio. A lei tutte le stanze sembravano identiche.
— La prima volta che siamo entrati, ho notato che le pareti e il pavimento erano scuri, ma mentre ci
spostavamo lungo i corridoi, diventavano sempre più chiari. Così ho capito che ci stavamo muovendo
attraverso diverse sfumature del legno, come attraverso gli anelli di un tronco d’albero. Dobbiamo
soltanto seguire il corridoio che porta al legno scuro.
— Geniale — disse Sophie, ammirata.
Josh le sorrise. — Te lo dicevo che quei videogiochi non erano una perdita di tempo. L’unico modo
per orientarsi nei labirinti è osservare gli indizi, come le decorazioni sulle pareti e sul soffitto, e
memorizzare i propri passi in modo da poterci sempre ritornare, se necessario. — Sbucò
nell’ennesimo corridoio. — E, se non mi sbaglio, la porta d’ingresso dovrebbe essere… lì! —
concluse, trionfante.

I gemelli attraversarono di corsa la radura di fronte all’enorme casa-albero e imboccarono il sentiero


alberato che doveva riportarli alla macchina. Anche se era calata la notte, ci vedevano bene. La luna
splendeva bassa all’orizzonte in compagnia di un numero straordinario di stelle che, insieme alla scia
di pulviscolo d’argento avviluppato nelle profondità del cielo, conferivano alla notte una curiosa
luminescenza grigiastra. Solo le ombre rimanevano nere come la pece.
Non era freddo, ma Sophie rabbrividì lo stesso: la notte aveva qualcosa di sbagliato. Josh si tolse la
felpa col cappuccio e la avvolse attorno alle spalle della sorella. — Le stelle sono diverse — mormorò
lei. — Sono così luminose. — Allungando il collo, guardò in su, cercando di scrutare il cielo fra i rami
dell’Yggdrasill.
— Non riesco a vedere l’Orsa Maggiore, e la Stella Polare non c’è.
— E ieri notte non c’era la luna — aggiunse Josh, indicando con un cenno della testa il punto in cui
la luna piena stava sorgendo, enorme e giallo-biancastra, oltre la cima degli alberi. — Non c’era la
luna nel nostro mondo — ribadì in tono solenne.
Sophie la osservò attentamente. Quella luna aveva qualcosa di strano… qualcosa di sbagliato.
Cercò di individuare i familiari crateri sulla superficie, e poi capì, con una stretta allo stomaco. La
mano che puntò verso l’alto era tremante. — Non è la nostra luna!
Josh la studiò con molta attenzione, strizzando gli occhi al bagliore intenso. Poi capì a cosa si
riferiva sua sorella. — La superficie è… diversa. È più liscia — disse piano. — Dove sono i crateri?
Non vedo Keplero e Copernico, e nemmeno Tycho.
— Josh — lo interruppe Sophie. — Penso che stiamo guardando il cielo notturno com’era migliaia,
forse centinaia di migliaia di anni fa. — Piegò la testa e guardò in su. Josh si stupì nel vedere come la
luce della luna dava al suo volto un aspetto scarno, scheletrico, e scostò subito lo sguardo, turbato. Era
sempre stato legato alla sorella, ma quelle ultimissime ore erano servite a ricordargli quanto fosse
importante per lui.
— Scathach non ha detto che è stata Ecate a creare questo Regno d’Ombra? — chiese Josh. —
Scommetto che è modellato sul mondo così come se lo ricordava lei.
— Quindi questi sono la luna e il cielo notturno di milioni di anni fa — esclamò Sophie, sbigottita.
Rimpianse di non avere la macchina fotografica con sé, solo per catturare in una foto la straordinaria
immagine di quella luna perfetta.
I gemelli stavano ancora osservando il cielo, quando un’ombra guizzò davanti alla luna, simile a
una macchia. Forse era un uccello… solo che l’apertura alare era troppo grande e nessun uccello, poi,
aveva un collo e una coda del genere, da serpente.
Josh agguantò la mano di Sophie e tirò la sorella verso la macchina. — Sto cominciando a odiare
questo posto — borbottò.
Il SUV era dove l’avevano lasciato, fermo al centro del sentiero. La luna gettava la sua luce gialla sul
parabrezza, facendo risaltare nell’oscurità il disegno che le crepe tracciavano sul vetro. Il bagliore
metteva anche in evidenza gli sfregi della carrozzeria, i graffi e i punti in cui risultava in parte divelta.
Dove gli uccelli avevano trafitto il metallo con il becco, il tetto era tempestato di centinaia di
forellini, il tergicristallo posteriore si reggeva solo grazie a un filo di gomma e i due specchietti
laterali mancavano del tutto.
I gemelli osservarono il SUV in silenzio, cominciando a rendersi conto solo allora della gravità
dell’attacco subito. Sophie passò il dito su una serie di graffi che segnavano il finestrino del lato del
passeggero. Quei pochi millimetri di vetro erano tutto quello che aveva protetto la sua carne dagli
artigli degli uccelli.
— Andiamo — disse Josh, aprendo lo sportello e infilandosi alla guida. Le chiavi erano dove le
aveva lasciate, inserite nel quadro.
— Mi sento un po’ in colpa, a lasciare Nicholas e Scatty così, senza una parola — disse Sophie,
mentre apriva lo sportello e saliva anche lei in macchina. Ma l’Alchimista immortale e la Guerriera
sarebbero stati meglio senza di loro, pensò. Erano più che capaci di difendersi e l’ultima cosa di cui
avevano bisogno erano due ragazzini a rallentargli il passo.
— Gli chiederemo scusa, se e quando li rivedremo — ribatté Josh, che fra sé e sé sarebbe stato
felicissimo di non vedere più nessuno dei due. Un conto erano i videogiochi. Lì, quando ti
ammazzavano, ricominciavi da capo e amici come prima. In quel Regno d’Ombra, invece, non c’erano
seconde occasioni, ma un sacco di modi in più per morire.
— Sai come si fa a uscire di qui? — chiese Sophie.
— Certo — rispose il fratello con un largo sorriso, i denti che risplendevano candidi alla luce della
luna. — Retromarcia. E non ci fermiamo più, per niente al mondo.
Josh girò la chiave. Si sentì un clic, seguito da una specie di lamento, che si spense subito. Ci provò
di nuovo. Stavolta si sentì solo il clic.
— Josh…? — cominciò Sophie.
Ci misero solo un istante a capire cosa era successo. — La batteria è scarica. Probabilmente per via
della stessa forza che ha prosciugato i nostri cellulari — mormorò Josh. Si voltò per guardare dal
lunotto posteriore. — Sta’ a sentire. Siamo venuti dal sentiero che si trova alle nostre spalle, non
abbiamo mai girato a destra o a sinistra: facciamo una corsa. Che ne dici? — Si voltò verso la sorella,
ma vide che lei non lo stava guardando. Teneva gli occhi fissi davanti a sé. — Non mi stai nemmeno
ascoltando!
Sophie allungò la mano, afferrò la faccia del fratello e lo costrinse a voltarsi verso il parabrezza.
Josh guardò, strizzò gli occhi, deglutì, quindi si affrettò a inserire le chiusure di sicurezza. — E
adesso? — chiese.
Accovacciata proprio di fronte a loro, c’era una creatura che non era né uccello né rettile, ma
qualcosa nel mezzo, alta più o meno quanto un bambino. La luce della luna si rifletteva sul corpo
screziato e sinuoso, simile a quello di un serpente, e riluceva debolmente sulle ali da pipistrello
spiegate, mettendone in evidenza l’ossatura e le vene sottili. Le zampe artigliate si conficcavano nel
terreno soffice e una lunga coda sferzava l’aria, dimenandosi avanti e indietro. Ma fu soprattutto la
testa a catturare l’attenzione dei gemelli. Il cranio era lungo e stretto, gli occhi molto grandi e rotondi,
la bocca aperta e piena di centinaia di piccoli denti bianchi. La testa si piegò prima da un lato e poi
dall’altro, la bocca si aprì e si richiuse di scatto. Con un saltello la creatura si avvicinò alla macchina.
Si sentì un rumore alle sue spalle e una seconda creatura, perfino più grossa della prima, spuntò nel
cielo notturno. Piegò le ali e atterrò, eretta, voltando la terribile testa verso l’auto.
— Forse sono vegetariani — suggerì Josh. Sporgendosi sul sedile, si mise a frugare sul retro della
macchina, alla ricerca di qualcosa da usare come arma.
— Non con quei denti — ribatté cupa la sorella. — Credo che siano pterosauri — disse, ricordando
l’enorme scheletro sospeso che aveva visto al Centro di Scienze Naturali del Texas.
Un terzo pterosauro spuntò nella notte e, come tre vecchietti con la gobba, le creature cominciarono
ad avanzare verso l’auto.
Intanto Josh aveva trovato un piccolo estintore.
— Dovevamo restare nell’albero — mormorò Sophie. Li avevano avvertiti, giusto? Restate nelle
vostre stanze, non uscite… e dopo tutto quello che avevano visto, avrebbero dovuto intuire che il
Regno d’Ombra di Ecate poteva essere un luogo pericoloso e mortale, di notte. E ora eccoli lì, ad
affrontare qualcosa che veniva direttamente dal Cretaceo.
Josh aprì la bocca per replicare, ma la richiuse. Tolse il beccuccio di sicurezza dall’estintore. Non
sapeva cosa sarebbe successo se li avesse colpiti con un getto di gas.
Le tre creature si divisero. Una continuò ad avvicinarsi da davanti; le altre due si accostarono ai
finestrini laterali.
— Quanto vorrei conoscere un po’ di magia, adesso — esclamò Sophie con calore. Si sentiva il
cuore in gola, il fiato corto e la testa leggera.
Lo pterosauro più grosso si sporse sul cofano della macchina, sostenendosi con le enormi ali sul
metallo scorticato. La sua lunga testa da serpente si allungò per scrutare all’interno dell’auto, poi il
suo sguardo si spostò lentamente da Sophie a Josh e poi di nuovo su Sophie. Vista da vicino, la bocca
era enorme, i denti infiniti.
Josh fece aderire il beccuccio dell’estintore a uno dei fori aperti nel parabrezza, mirando allo
pterosauro. Con un’occhiata a destra e una a sinistra, non perdeva di vista le altre due creature che
continuavano ad avvicinarsi. Le mani gli sudavano a tal punto che faceva fatica a reggere l’estintore.
— Josh — bisbigliò Sophie. — Fa’ qualcosa. Subito!
— Forse il gas dell’estintore li spaventerà — replicò Josh, abbassando inconsapevolmente la voce a
un sussurro. — Oppure li avvelenerà, o roba del genere…
— E perché vorresti fare una cosa simile? — Lo pterosauro piegò la testa per guardare Josh, la
bocca in movimento, i denti luccicanti. Le parole erano pronunciate con uno strano accento, tutt’altro
che fluido, ma la lingua era inglese. — Non siamo vostri nemici.
CAPITOLO VENTI
Perfino per Bel Air, la zona di Los Angeles rinomata per le sue dimore stravaganti, quella casa era
fuori dal comune. Vasta e irregolare, costruita interamente in travertino e accessibile soltanto da una
strada privata, occupava oltre due ettari di terreno circondati da un muro alto più di tre metri,
sormontato a sua volta da un recinto elettrico. Il dottor John Dee dovette aspettare dieci minuti di
fronte ai cancelli chiusi mentre una guardia di sicurezza armata esaminava ogni centimetro dell’auto,
scandagliandone perfino lo spazio sottostante con una telecamera. Fu lieto di aver noleggiato una
normale limousine di serie, con un autista umano; non sapeva come avrebbero ridotto un Golem di
fango.
Dee era arrivato in città da San Francisco nel tardo pomeriggio, a bordo del suo jet privato. La
limousine, noleggiata dal suo ufficio, era venuta a prenderlo a Burbank – all’aeroporto che adesso si
chiamava Bob Hope, notò – e lo aveva accompagnato a Sunset Boulevard attraverso il traffico
peggiore mai visto dall’epoca della Londra vittoriana.
Per la prima volta nella sua lunga vita, Dee sentiva che gli eventi gli sfuggivano di mano. Si
susseguivano troppo alla svelta e, in base alla sua esperienza, era proprio in questi casi che gli
incidenti succedevano. Le persone che gli stavano mettendo fretta – be’, non proprio persone,
piuttosto esseri – erano troppo ansiose di ottenere risultati. Oggi lo avevano costretto ad agire contro
Flamel, anche se li aveva avvertiti che gli servivano un altro paio di giorni. E aveva avuto ragione.
Altre ventiquattr’ore di preparazione e sorveglianza gli avrebbero permesso di catturare Nicholas
insieme a Perenelle, oltreché il Codice intatto. Aveva avvisato i suoi superiori che Nicholas Flamel
poteva essere davvero scaltro, ma loro non l’avevano ascoltato. Dee conosceva Flamel meglio di
chiunque. Nel corso dei secoli si era trovato varie volte vicino alla sua cattura – molto vicino – ma in
ogni occasione Flamel e Perenelle erano riusciti a farla franca.
Seduto sul sedile posteriore dell’auto, con l’aria condizionata accesa e le guardie che continuavano
le loro ispezioni, ricordò la prima volta in cui aveva incontrato il famoso Alchimista, Nicholas
Flamel.

John Dee era nato nel 1527. Il suo mondo era quello della regina Elisabetta I, per la quale aveva svolto
molte mansioni: consigliere, traduttore, matematico, astronomo e astrologo personale. Il compito di
stabilire la data della sua incoronazione era toccato a lui, e Dee aveva scelto il 15 gennaio 1559, a
mezzogiorno. Promise alla giovane principessa un lungo regno, e così fu: durò quarantacinque anni.
Il dottor John Dee era anche la spia della regina.
Esercitava il suo incarico in tutta Europa ed era il più potente e autorevole agente segreto sul
continente. In qualità di studioso, scienziato, mago e rinomato alchimista, era bene accolto presso le
corti dei re e i palazzi dei nobili. Dichiarava di conoscere solo l’inglese, il latino e il greco, ma in
realtà parlava bene un’altra dozzina di lingue, incluso l’arabo, e conosceva un po’ la lingua del Catai.
Imparò presto che la gente, non sapendo che lui capiva ogni parola, si lasciava andare spesso a
indiscrezioni in sua presenza, e lui sfruttava a suo vantaggio la situazione. Dee firmava i suoi rapporti
confidenziali con i numeri 007. Trovò incredibilmente ironico il fatto che centinaia di anni più tardi
Ian Fleming, creando il personaggio di James Bond, gli avesse dato lo stesso nome in codice.
John Dee era uno dei maghi più potenti della sua epoca. Conosceva a fondo la negromanzia, la
stregoneria, l’astrologia, la matematica e le molteplici forme della divinazione. Viaggiando per
l’Europa entrò in contatto con tutti i grandi maghi e stregoni dell’epoca… incluso il leggendario
Nicholas Flamel, l’uomo noto come l’Alchimista.
Dee scoprì l’esistenza di Nicholas Flamel – presumibilmente morto nel 1418 – per puro caso.
Quell’incontro avrebbe plasmato il resto della sua vita e, in molti modi, avrebbe influenzato la storia
del mondo.
Nicholas e Perenelle, ritornati a Parigi nella prima decade del Sedicesimo secolo, lavoravano come
medici, occupandosi dei poveri e degli ammalati in quegli stessi ospedali che avevano fondato più di
cento anni prima. Vivevano e lavoravano praticamente all’ombra della grande cattedrale di Notre
Dame. Dee era a Parigi in missione segreta per la regina, ma non appena vide quell’uomo magro,
scuro di capelli, che lavorava sotto le volte dell’ospedale accanto alla bella moglie dagli occhi verdi,
capì chi aveva davanti. Dee era una delle poche persone al mondo a possedere una copia del
capolavoro di Flamel, Il compendio di filosofia, che accanto al titolo recava un’incisione del famoso
Alchimista. Si era presentato al dottore e a sua moglie chiamandoli con il loro vero nome, e nessuno
dei due aveva negato. Naturalmente, anche loro conoscevano di fama il celebre dottor John Dee.
Anche se Perenelle
aveva espresso qualche riserva, Nicholas era stato lieto di accogliere il mago inglese come suo
nuovo apprendista, e lui aveva subito lasciato l’Inghilterra per trascorrere i quattro anni seguenti a
studiare con
Nicholas e Perenelle a Parigi.
E a Parigi, nell’anno 1575, aveva saputo per la prima volta dell’esistenza dell’Antica Razza.
Stava studiando a tarda notte nella sua stanzetta nel sottotetto di casa Flamel, quando una creatura
da incubo era scivolata giù per il camino e si era trascinata sul tappeto bruciacchiato, spargendo pezzi
di carbone e legna da ardere. Era una gargolla, una delle antiche specie di ghoul che infestavano le
fogne e i cimiteri della maggior parte delle città europee. Simile alle rozze forme scolpite nella pietra
che ornavano la vicina cattedrale, era però una creatura vivente, con la carne di marmo e gli occhi neri
come il carbone. Parlando in greco arcaico, la gargolla lo invitò a un appuntamento sul tetto della
cattedrale di Notre Dame. Non era il genere di invito che si poteva rifiutare, e Dee la seguì nella notte.
Procedendo a lunghi passi, talvolta su due zampe, spesso a quattro, la gargolla lo condusse in vicoli
sempre più stretti, poi giù nelle fogne, e infine attraverso un passaggio segreto fin nelle profondità
delle mura della cattedrale gotica. Continuò a seguirla per i mille e uno scalini scavati nelle mura,
finché finalmente non sbucarono sul tetto.
— Aspetta — aveva ordinato la creatura, senza più aggiungere altro. Compiuta la sua missione, la
gargolla ignorò Dee e si accovacciò sul parapetto, curva in avanti, le ali ripiegate sulle spalle, la coda
arricciata stretta sulla schiena, le piccole corna ben visibili sulla fronte. Scrutava la piazza sottostante
alla ricerca di un pasto adeguato, seguendo i movimenti degli ultimi ritardatari della notte o degli
sbandati che non avevano una casa a cui tornare. Per chiunque avesse guardato in alto, la creatura
sarebbe stata indistinguibile dalle miriadi di statue di pietra dell’edificio.
Dee aveva raggiunto il limitare del tetto e si era messo a osservare la città. Tutta la Parigi notturna
era ai suoi piedi, con le migliaia di luci tremolanti dei focolari, delle lampade a olio e delle candele, il
fumo che saliva dritto nell’aria immobile, e il profilo nero e sinuoso della Senna che interrompeva
tutti quegli innumerevoli puntini luminosi. Da quell’altezza, Dee riusciva a sentire il ronzio della città
– un brusio basso, come di un alveare che si prepara per la notte – e percepiva il terribile tanfo che
aleggiava sulle strade: una combinazione di fogna, frutta marcia e carne andata a male, sudore umano
e animale e fetore emanato dal fiume stesso.
Appollaiato sul celebre rosone della cattedrale, Dee attese. Lo studio della magia gli aveva
insegnato molte cose, soprattutto il valore della pazienza. Lo studioso che era in lui si godeva
l’esperienza di trovarsi sul tetto dell’edificio più alto di Parigi e rimpiangeva di non aver portato con
sé l’album degli schizzi. Si accontentò di guardarsi attorno, affidando tutto ciò che vedeva alla sua
prodigiosa memoria. Ripensò a una recente visita a Firenze. C’era andato per esaminare i diari di
Leonardo da Vinci. Erano scritti in uno strano codice che non era stato ancora decifrato; lui ci aveva
messo meno di un’ora: nessuno si era reso conto che Leonardo aveva scritto i suoi diari non solo in
codice, ma anche alla rovescia, come in uno specchio. I diari erano pieni di molti e strabilianti disegni
per possibili invenzioni: pistole che facevano fuoco più volte di seguito, una carrozza di ferro che si
muoveva senza bisogno di cavalli e un congegno in grado di navigare sotto il mare. C’era un disegno,
tuttavia, che aveva acceso il suo interesse più degli altri: un marchingegno che secondo Da Vinci
avrebbe permesso all’uomo di librarsi in volo come un uccello. In quel momento, osservando Parigi
dall’alto, Dee cominciò a immaginare come sarebbe stato legarsi le ali di Da Vinci alle braccia e
volare sopra i tetti.
I suoi pensieri furono interrotti da un suono, come un battito d’ali. Si girò verso nord e vide
qualcosa muoversi nel cielo notturno, un’ombra nera seguita da una scia di puntini. Le sagome più
piccole potevano essere uccelli… solo che, per quanto ne sapeva, gli uccelli non volavano quasi mai di
notte. Dee capì subito e senza il benché minimo dubbio che quell’ombra era lì per lui: era la cosa che
era venuto a incontrare. Si concentrò sulla sagoma più grande mentre a poco a poco si avvicinava,
cercando di decifrare che cosa fosse. Tuttavia solo quando la figura atterrò sul tetto capì: era una
donna dal volto cinereo, vestita completamente di nero, con un lungo mantello di piume di corvo.
Quella notte, il dottor John Dee aveva incontrato per la prima volta la Morrigan. Quella notte, aveva
saputo dell’esistenza dell’Antica Razza e di come essa fosse stata cacciata dal mondo degli uomini per
opera della magia contenuta nel Libro di Abramo il Mago, un libro in possesso di Nicholas Flamel.
Quella notte, Dee aveva saputo che certi Antichi Signori rivendicavano il proprio dominio
sull’umanità. E quella notte, la Dea Corvo aveva promesso a Dee il controllo del mondo, un giorno:
sarebbe stato padrone di un impero che si estendeva da un polo all’altro, dal sorgere del sole fino al
tramonto. Non doveva fare altro che sottrarre il Libro dalle mani di Flamel e consegnarlo a loro.
Quella notte, il dottor John Dee era diventato il paladino degli Oscuri Signori.
Era una missione che l’aveva condotto in giro per tutto il mondo, e nei molti Regni d’Ombra posti
ai suoi insospettabili confini. Aveva combattuto spiriti e ghoul, creature che non avrebbero dovuto
esistere al di fuori degli incubi, e altre che risalivano a un’epoca precedente l’arrivo degli homines.
Era sceso in battaglia alla testa di un esercito di mostri e aveva trascorso almeno un decennio vagando
sperduto in un gelido Altromondo. Molte volte aveva temuto per la propria vita, ma non era mai stato
davvero terrorizzato… fino a quel momento, all’ingresso di una villa di Bel Air nella Los Angeles del
Ventunesimo secolo. All’inizio non era stato pienamente consapevole dei poteri delle creature sue
padrone, ma i quasi quattro secoli e mezzo al loro servizio gli avevano insegnato molte cose… incluso
il fatto che la morte era probabilmente la punizione minore che potessero infliggergli.
La guardia di sicurezza armata si scansò e gli alti cancelli di metallo si aprirono di scatto,
permettendo alla macchina di imboccare il vialetto di pietra bianca che conduceva all’immensa villa
di marmo, appena visibile fra gli alberi. Anche se era sceso il buio, nemmeno un lume era acceso
all’interno della casa e per un attimo Dee immaginò che non ci fosse nessuno. Poi si ricordò che la
persona – la creatura – che era venuto a incontrare preferiva le ore delle tenebre e non aveva bisogno
di luci.
La macchina svoltò nel cortile circolare di fronte al portone d’ingresso e i fari illuminarono le
sagome di tre persone in piedi sull’ultimo gradino. Quando l’auto si fermò facendo stridere le ruote
sulla ghiaia bianca, una di esse si avvicinò allo sportello e lo aprì. I lineamenti erano invisibili nella
penombra, ma la voce che fuoriuscì dalle tenebre era maschile e parlava inglese con un accento molto
marcato. — Il dottor Dee, presumo. Io sono Sinuhe. La prego di accomodarsi. La stavamo aspettando.
Dee scese dalla macchina, si rassettò l’abito costoso e con il cuore in gola seguì Sinuhe dentro la
villa. Le altre due figure gli si misero al fianco. Nessuno disse nulla, ma Dee sapeva che si trattava di
guardie. E non era del tutto certo che fossero umane.
Il mago riconobbe l’odore forte e stucchevole non appena messo piede nell’abitazione: era incenso,
la rara e preziosa gomma aromatica del Medio Oriente, usata in molti regni dell’antichità, dall’Egitto
alla Grecia fino in Cina. A Dee salirono le lacrime agli occhi e si sentì prudere il naso. I membri
dell’Antica Razza adoravano l’incenso, ma a lui faceva venire il mal di testa.
Mentre le tre figure indistinte lo accompagnavano nell’atrio spazioso, Dee sbirciò Sinuhe più da
vicino: era un uomo basso, calvo e dal fisico asciutto, con la carnagione olivastra. Sembrava di origini
mediorientali: Egitto, forse, o Yemen. Sinuhe chiuse il pesante portone d’ingresso, disse due parole –
“Resti qui” – e scomparve nelle tenebre, lasciando il dottore in compagnia delle due guardie mute.
Dee si guardò attorno. Anche nella penombra, capì che l’atrio era spoglio. Non c’erano mobili sul
pavimento di piastrelle, nessun quadro o specchio alle pareti, niente tende alle finestre. Sapeva che
c’erano case come quella sparse in giro per il mondo, case che appartenevano ai pochi Oscuri Signori
che avevano scelto di vivere nel mondo degli uomini, istigando malvagità di ogni tipo. Anche se erano
eccezionalmente abili e pericolosi, i loro poteri erano molto limitati nel mondo moderno a causa della
proliferazione del ferro, che affievoliva la loro energia magica. Come il piombo era tossico per gli
esseri umani, il ferro – il metallo dell’umanità – era mortale per l’Antica Razza. Dee sapeva, senza
bisogno di conferme, che non avrebbe trovato una sola scheggia di ferro nell’intera casa. Gli unici
metalli sarebbero stati l’oro e l’argento, perfino per le maniglie delle porte e per i rubinetti dei bagni.
Gli Oscuri Signori tenevano molto alla loro privacy; preferivano posti tranquilli, fuori mano –
piccole isole, tratti di deserto, paesi come la Svizzera, porzioni dell’ex Unione Sovietica, le regioni
artiche del Canada, i templi himalayani e la giungla brasiliana. Quando invece sceglievano di vivere in
una città come quella, le loro case erano protette da mura e filo spinato, i giardini pattugliati da cani e
guardie armate. E chiunque fosse abbastanza fortunato o folle da arrivare fin dentro la casa, avrebbe
incontrato guardie ben più antiche e oscure, e letali.
— Da questa parte.
Dee fu lieto di essere riuscito a controllare il suo spavento al suono della voce di Sinuhe; non lo
aveva sentito ritornare. Sarebbero saliti o scesi? In base alla sua esperienza, i membri dell’Antica
Razza si dividevano in due categorie: quelli che preferivano dormire sui tetti e quelli che amavano le
cantine. La Morrigan era una creatura dei tetti.
Sinuhe entrò in una pozza di luce e Dee notò che aveva gli occhi truccati con il kohl: la palpebra
superiore era tutta nera e due linee orizzontali spuntavano dall’angolo degli occhi e proseguivano fino
alle orecchie. Tre linee verticali bianche erano dipinte sul mento, sotto le labbra. Condusse Dee sotto
l’ampia scalinata, dove aprì una porta nascosta, pronunciando una parola d’ordine nella lingua di
Tutankhamon, il faraone bambino. Dee lo seguì in un corridoio avvolto nelle tenebre, ma si
immobilizzò quando la porta si richiuse di scatto. Sentì che l’uomo continuava ad avanzare, poi udì i
suoi passi sulle scale.
Stavano scendendo. Dee avrebbe dovuto intuire che l’Oscura Signora presso la quale la Morrigan
l’aveva inviato era una creatura delle cantine. — Avrò bisogno di luce — disse ad alta voce. — Non
voglio cadere per le scale e rompermi l’osso del collo. — Le sue parole riecheggiarono nello spazio
angusto.
— Non c’è elettricità in questa casa, dottor Dee. Ma ci è giunta voce che è un mago di fama. Se
desidera creare un po’ di luce, ha il permesso di farlo.
Senza ribattere, Dee tese la mano. Una scintilla blu si accese sul suo palmo. Ronzò e sibilò, poi
cominciò a crescere, dalle dimensioni di un granello a quelle di un chicco d’uva. Emanava una luce
fredda, bianco-azzurra. Tenendo la mano di fronte a sé, Dee cominciò a scendere le scale.
Iniziò a contare i gradini, ma smise quasi subito, distratto dalle decorazioni che ornavano le pareti,
il soffitto e perfino la scalinata. Era come entrare in un’antica tomba egiziana ma, a differenza delle
innumerevoli tombe che aveva visitato, in cui le opere d’arte erano sbiadite, sbeccate o rotte, e tutto
era ricoperto di un sottile strato di sabbia fine, lì le decorazioni erano perfette, brillanti e integre. I
colori, leggermente distorti dalla luce azzurra che aveva acceso, sembravano stesi di fresco, le
pittografie e i geroglifici erano vivaci e nitidi, i nomi degli dei messi in risalto dalle lamine d’oro.
Un’improvvisa corrente proveniente dal basso fece tremolare la sua sfera di luce e le ombre sulle
pareti guizzarono con un sussulto. Dee dilatò le narici: il vento portava il fetore di qualcosa di
vecchio… vecchio e morto da molto tempo.
Le scale terminavano in un ampio scantinato con soffitto a volta. Dee fece un passo, ma subito sentì
qualcosa che crocchiava e si frantumava sotto i suoi piedi. Abbassò la mano e la luce bianco-azzurra
illuminò il pavimento… che era ricoperto di una miriade di ossicini bianchi, come un tappeto
d’avorio. Solo dopo un lungo istante capì che si trattava di ossa di ratti e topi. Alcune erano così
vecchie che si sgretolavano in una polverina bianca soltanto a toccarle; altre però erano molto più
recenti. Deciso a non porre domande di cui preferiva non conoscere la risposta, Dee seguì la sua guida
silenziosa, le ossa che scricchiolavano e crepitavano a ogni passo. Sollevò la mano, inondando di luce
tutta la camera. A differenza delle scale, tuttavia, la stanza era disadorna, con le pareti striate di nero
per l’umidità, i bordi del pavimento verdi di muffa e il soffitto macchiato di escrescenze fungose.
— A quanto pare avete un problema di umidità — commentò scioccamente Dee, solo per
interrompere il silenzio pesante.
— Non ha alcuna importanza — ribatté tranquillo Sinuhe.
— Siete qui da molto tempo? — chiese Dee, guardandosi attorno.
— In questo posto? — L’altro fece una pausa, riflettendo. — Meno di un secolo. Direi proprio di
no.
Una sagoma si mosse nell’ombra. — E non ci resteremo a lungo. È per questo che sei qui, vero,
dottor Dee? — La voce era a metà fra un ringhio sensuale e le fusa di un felino, e stentava un poco a
pronunciare le parole inglesi. Quasi suo malgrado, Dee sollevò la mano, illuminando a poco a poco la
figura alta e slanciata che si muoveva nella penombra. La luce sfiorò un paio di piedi nudi, le unghie
nere e appuntite come artigli, lambì un pesante gonnellino bianco incastonato di pietre e gemme
preziose e salì su fino al petto, fasciato da ampie cinghie incrociate e incise con caratteri egiziani, e
infine raggiunse la testa.
Per quanto fosse preparato a quella vista, posando gli occhi su Bastet, Dee non riuscì a trattenere lo
shock. Il corpo era quello di una donna, ma la testa che arrivava a sfiorare le volte del soffitto era
quella di un gatto dal pelo liscio, con enormi occhi gialli, dalla pupilla sottile, il muso affusolato e le
orecchie triangolari. La bocca si aprì e la fredda luce del mago fece baluginare i suoi denti gialli.
Questa era la creatura venerata da intere generazioni in tutta la terra d’Egitto.
Dee si passò la lingua sulle labbra secche, prostrandosi in un profondo inchino. — Tua nipote, la
Morrigan, ti manda i suoi saluti e mi ha chiesto di riferirti un messaggio: l’ora della tua vendetta su
colei che ha tre volti è giunta.
Bastet fece un balzo in avanti e conficcò gli artigli affilati fra le pieghe della costosa giacca di Dee,
perforando la seta. — Le parole esatte… dimmi le parole esatte di mia nipote — ordinò.
— L’ho fatto — rispose Dee, alzando gli occhi sul volto terrificante. L’alito di Bastet puzzava di
carne rancida. Il dottore lanciò la sfera di luce, che rimase a turbinare in aria, quindi si tolse con
cautela gli artigli di Bastet dalla giacca, ormai ridotta a uno straccio.
— La Morrigan vuole che tu ti unisca a lei in un attacco congiunto contro il Regno d’Ombra di
Ecate — disse con semplicità.
— L’ora è giunta davvero, quindi! — proclamò Bastet
trionfante.
L’antico mago annuì, e a quel cenno le ombre sulle pareti presero a guizzare e danzare. — L’ora è
giunta — confermò. — L’ora che l’Antica Razza torni a reclamare il suo posto su questa Terra.
Bastet gridò, un verso stridulo, prolungato, terrificante, e l’oscurità alle sue spalle ribollì di
migliaia di gatti di ogni specie e dimensione, che si riversarono nello scantinato per raccogliersi
intorno alla dea, formando un cerchio sempre più ampio. — L’ora di cacciare… e di mangiare è giunta
— annunciò.
I gatti gettarono indietro la testa e miagolarono a lungo, striduli. Dee trovò il frastuono di quelle
grida agghiacciante: sembrava il pianto di miriadi di bambini sperduti.
CAPITOLO VENTUNO
Scathach stava aspettando di fronte alle enormi porte aperte dell’albero quando Josh e Sophie
ritornarono. Uno pterosauro li seguiva a saltelli, mentre gli altri due volteggiavano in cerchi così bassi
che il loro battito d’ali alzava mulinelli di polvere attorno ai ragazzi. Non era stata detta una parola,
ma i gemelli sapevano che, in modo gentile ma fermo, le creature li stavano riportando indietro.
Nella penombra, il volto di Scathach era di un pallore innaturale, e i corti capelli rossi sembravano
quasi neri. Le labbra avevano una piega torva, ma quando parlò, la voce era studiatamente neutra. —
Volete davvero che vi dica quanto sia stato stupido e pericoloso?
Josh aprì la bocca per ribattere, ma Sophie lo zittì afferrandolo per il braccio. — Volevamo solo
andare a casa — si limitò a dire in tono stanco. Sapeva già quello che avrebbe risposto lei.
— Non potete farlo — disse infatti, e si allontanò.
I gemelli esitarono davanti alla porta, poi si girarono verso lo pterosauro. La creatura piegò la testa
di lato, li osservò con gli enormi occhi da rettile e la sua voce risuonò piatta dentro le loro teste. —
Non mi preoccuperei troppo per Scathach; can che abbaia non morde. — Aprì la bocca mostrando
centinaia di denti aguzzi, in quello che avrebbe potuto essere un sorriso. — Era senza dubbio
preoccupata per voi — aggiunse, poi si allontanò, prese una breve rincorsa saltellante e si alzò in volo
in un gran frullare d’ali.
— Non dire una parola — Sophie avvertì il fratello. Le battute e i commenti di Josh non facevano
che cacciarlo nei guai. Mentre Sophie aveva già sviluppato l’abilità di tenere la bocca chiusa quando
notava qualcosa, lui non poteva fare a meno di commentare tutto.
— Non prendo ordini da te — la fulminò Josh, ma gli tremava la voce. La sua paura dei serpenti
risaliva a quella volta in cui, in campeggio con il padre, si era imbattuto nel nido di un serpente a
sonagli. Per fortuna, il rettile letale aveva appena mangiato e aveva scelto di ignorarlo, concedendogli
i secondi necessari per darsela a gambe. Aveva avuto incubi popolati da serpenti per settimane, e ogni
tanto gli succedeva ancora quando era stressato – di solito sotto gli esami. L’enorme pterosauro-
serpente apparteneva ai suoi incubi peggiori e, quando le creature erano balzate fuori dal buio, aveva
sentito il cuore galoppare così forte che aveva avuto l’impressione che anche la sua T-shirt stesse
pulsando. Quando poi una si era accostata al finestrino con quel muso e quei denti lunghi, per un
attimo aveva creduto di svenire. Sentiva ancora i rivoli di sudore gelido lungo la schiena.
Sophie e Josh seguirono Scathach nella dimora di Ecate. Notavano ogni movimento nell’ombra, i
pavimenti che cigolavano al loro passaggio, le pareti di legno che scricchiolavano come se la casa
stesse cambiando, come se stesse crescendo. Notarono anche che le voci, le grida e le urla di prima
erano svanite.
Scathach li condusse in una stanza circolare vuota, dove Nicholas Flamel li stava aspettando. Era in
piedi e dava loro le spalle, le mani intrecciate dietro la schiena, lo sguardo fisso fuori, nelle tenebre.
L’unica luce proveniva dalla luna smisurata che cominciava a calare all’orizzonte. Un lato della
stanza era inondato da un nitido raggio bianco-argenteo, l’altro era buio. Scatty si portò al fianco
dell’Alchimista, incrociò le braccia al petto e si girò verso i gemelli, il volto una maschera
inespressiva.
— Potevate restare uccisi — disse Flamel in tono molto sommesso, senza girarsi. — O peggio.
— Non può tenerci qui — disse Josh, la voce che risuonò troppo forte nel silenzio. — Non siamo
suoi prigionieri.
L’Alchimista si voltò leggermente a guardarli. Indossava i suoi occhialini rotondi e, nella
penombra, gli occhi erano nascosti dietro ai cerchi d’argento. — Hai ragione, non siete miei
prigionieri — rispose con molta calma, lasciando d’un tratto emergere il suo accento francese. —
Siete prigionieri delle circostanze, della coincidenza e del caso… se credete a questo genere di cose.
— Io non ci credo — borbottò Scathach.
— Nemmeno io — concordò Nicholas, voltandosi del tutto. Si tolse gli occhiali e strizzò il ponte
del naso fra le dita. Gli occhi pallidi erano cerchiati dalle occhiaie e le labbra erano tese e sottili. —
Siamo tutti prigionieri della sorte, qui… prigionieri delle circostanze e degli eventi. Quasi settecento
anni fa, comprai un libretto usato, scritto in una lingua incomprensibile. Quel giorno anch’io diventai
un prigioniero, in trappola come dietro alle sbarre. Due mesi fa, Josh, non avresti mai dovuto
chiedermi un posto, e tu, Sophie, non avresti mai dovuto cominciare a lavorare al Coffee Cup. Ma lo
avete fatto e, poiché avete preso queste decisioni, adesso vi trovate entrambi qui con me, stanotte. —
Fece una pausa, lanciando un’occhiata a Scathach. — Naturalmente, una certa scuola di pensiero
suggerisce che eravate destinati a scegliere quei lavori, a incontrare me e Perenelle e a ritrovarvi in
questa avventura.
Scathach annuì. — Destino — disse.
— Sta dicendo che non abbiamo scelta? — chiese Sophie. — Che tutto questo doveva succedere? —
scosse la testa. — Non ci credo, nemmeno per un minuto. — L’idea stessa era contraria a tutto quello
in cui credeva; l’idea che il futuro potesse essere già scritto era semplicemente ridicola.
— Nemmeno io — concordò Josh in tono di sfida.
— Eppure — ribatté Flamel molto piano — che pensereste se vi dicessi che il Libro del Mago, un
libro scritto più di diecimila anni orsono, parla di voi?
— Impossibile — sbottò Josh, terrorizzato dalle implicazioni di un’idea del genere.
— Ah! — Nicholas Flamel allargò le braccia in un gesto ampio. — E questo non è impossibile?
Stanotte avete incontrato i nathair, i guardiani alati del regno di Ecate. Avete udito le loro voci nella
vostra testa. Loro non sono impossibili, forse? E i Torc Allta, non sono anche loro impossibili? Sono
tutte creature che non hanno diritto di esistere fuori dal mito.
— E noi, allora? — chiese Scathach. — Nicholas ha quasi settecento anni, e io sono così vecchia
che ho visto sorgere e crollare più e più imperi. Non siamo anche noi impossibili?
Né Josh né Sophie furono in grado di negarlo.
Nicholas si avvicinò e mise una mano sulla spalla di Josh e una su quella di Sophie. Li guardò
direttamente negli occhi. — Dovete accettare il fatto che siete intrappolati in questo mondo
impossibile. Se ve ne andate, porterete la distruzione su tutti i vostri cari e, con ogni probabilità,
firmerete la vostra condanna a morte.
— Inoltre — proseguì Scatty amaramente — se siete menzionati nel Libro significa che dovete
trovarvi qui.
I gemelli guardarono prima Scatty poi Flamel. Lui annuì. — È vero. Il Libro è pieno di profezie,
alcune delle quali si sono avverate, mentre altre devono ancora accadere. Ma cita esplicitamente “i
due che sono uno”.
— E lei crede…? — sussurrò Sophie.
— Sì, credo che voi possiate essere la profezia. In verità, ne sono convinto.
Scathach si avvicinò al fianco di Flamel. — Il che significa che tutto d’un tratto siete molto più
importanti, non solo per noi, ma anche per Dee e per gli Oscuri Signori.
— Perché? — Josh si passò la lingua sulle labbra secche. — Perché siamo così importanti?
L’Alchimista cercò il sostegno di Scatty con lo sguardo. Lei annuì. — Diglielo. Devono saperlo.
I gemelli li guardarono in silenzio, sentivano che quello che Flamel stava per dirgli era di immensa
importanza. Sophie fece scivolare la mano in quella del fratello, e lui la strinse forte.
— Il Codice profetizza che i due che sono uno verranno per salvare o per distruggere il mondo.
— In che senso, salvare o distruggere? — domandò Josh. — O è l’una o è l’altra cosa, giusto?
— La parola usata nel Codice è simile a un antico simbolo babilonese che può significare entrambe
le cose — spiegò Flamel. — In realtà, ho sempre sospettato che significhi che uno di voi due ha la
capacità di salvare il mondo, mentre l’altro ha il potere di distruggerlo.
Sophie diede un colpetto di gomito a Josh sulle costole. — Questo sei tu.
Flamel si allontanò dai gemelli. — Fra un paio d’ore, quando Ecate si sarà destata, le chiederò di
risvegliare il vostro potenziale magico. Credo che lo farà; spero e prego che sia così — aggiunse in
tono fervente. — Poi partiremo.
— Ma per dove? — chiese Josh, mentre Sophie domandava: — Ecate non ci permetterà di restare?
— La mia speranza è che altri Antichi Signori o umani immortali si lascino persuadere a
addestrarvi. Dee e la Morrigan hanno contattato uno dei più temibili rappresentanti dell’Antica Razza:
Bastet.
— La Dea Gatto egiziana? — chiese Sophie.
Flamel batté le palpebre sorpreso.
— I nostri genitori sono archeologi, gliel’abbiamo detto. Mentre altri bambini ascoltavano le favole
della buonanotte, loro ci raccontavano i miti e le leggende.
L’Alchimista annuì. — In questo stesso momento, Bastet e la Morrigan stanno raccogliendo le
forze per sferrare un attacco a oltranza contro il Regno d’Ombra di Ecate. Credevo che avrebbero
sferrato il loro attacco con le tenebre, mentre Ecate dormiva il suo sonno di morte, ma per ora non si
sono fatti vivi, e l’alba è vicina. Sanno di avere un’unica possibilità e hanno bisogno di essere pronti
al cento per cento. Al momento, ci credono ancora ignari delle loro intenzioni e soprattutto non
immaginano che sappiamo di Bastet. Invece saremo pronti a riceverli.
— E noi come facciamo a saperlo? — gli chiese Sophie.
— Me lo ha detto Perenelle — rispose Flamel, e liquidò la prevedibile domanda successiva con un
gesto della mano. — È una donna piena di risorse. Ha incaricato uno spirito di recapitarmi un
messaggio.
— Uno spirito? — ripeté Sophie. — Vuole dire tipo un fantasma? — E si rese conto che ormai non
faceva nessuna fatica a credere ai fantasmi.
— Proprio così — confermò Flamel.
— Cosa succederà se attaccano? Cioè, di che tipo di attacco stiamo parlando? — chiese Josh.
Flamel guardò Scatty. — Non ero ancora nato l’ultima volta che dei rappresentanti dell’Antica
Razza si sono scontrati in guerra.
— Io sì — disse Scatty cupa. — La stragrande maggioranza degli homines non si accorgerà di
niente. — Alzò le spalle. — Ma lo scontro di energie magiche nei Regni d’Ombra avrà senz’altro
delle ripercussioni sul clima e sulla geologia locale: potrebbero verificarsi terremoti, tornado, uragani
e piogge, un sacco di piogge. E io odio la pioggia — aggiunse. — Uno dei motivi che mi hanno spinto
a lasciare Hibernia.
— Deve pur esserci qualcosa che possiamo fare — disse Sophie. — Dobbiamo avvertire la gente.
— E come spiegheresti la faccenda, esattamente? Diresti che sta per avere luogo una battaglia
magica che potrebbe causare terremoti e inondazioni? Non mi sembra il genere di cose da comunicare
per telefono ai TG locali o alle stazioni meteo, non ti pare?
— Dobbiamo…
— No, non dobbiamo — disse l’Alchimista in tono fermo. — Quello che dobbiamo fare è portare
voi due e le pagine del Libro lontano da qui.
— E che ne sarà di Ecate? — chiese Josh. — Sarà in grado di difendersi?
— Contro Dee e la Morrigan, sì. Ma con Bastet al loro fianco, proprio non lo so — rispose Scatty.
— Non so quanto sia potente la dea.
— Più di quanto possiate immaginare.
Si voltarono verso la porta, dove una bambina di non più di undici anni, in piedi sulla soglia,
batteva le palpebre e sbadigliava. La piccola si stropicciò i vivaci occhi gialli col dorso della mano e li
guardò, quindi sorrise, i denti bianchissimi contro la pelle nera come il carbone. Indossava una specie
di corta tunica simile a una toga, dello stesso materiale iridescente della Ecate vegliarda, ma striato di
sfumature verdi e oro. I capelli candidi come il ghiaccio le scendevano in riccioli sulle spalle.
L’Alchimista si inchinò. — Buongiorno. Non pensavo che ti alzassi prima dell’alba.
— Come potrei dormire con tutta questa attività attorno? — domandò Ecate. — La casa mi ha
svegliato.
— La casa… — cominciò Josh.
— La casa — disse placida Ecate — è viva.
C’erano almeno una dozzina di commenti che Josh avrebbe potuto fare, ma ricordando la poltiglia
verde della sera prima, decise saggiamente di tenere la bocca chiusa.
— E così la Morrigan e la mia Antica sorella Bastet stanno progettando un attacco al mio Regno
d’Ombra — disse la bambina cupamente.
Nicholas lanciò una rapida occhiata a Scathach, che alzò le spalle. Non aveva idea di come Ecate
facesse a saperlo.
— Qualsiasi cosa succeda in questa casa, ogni parola detta o sussurrata, o perfino pensata —
aggiunse, scoccando un’occhiataccia a Josh — io riesco a sentirla. Immagino che comprendiate. — La
bambina sorrise e, in un istante, sembrò la versione più vecchia di se stessa. Il sorriso le incurvava le
labbra, ma gli occhi erano del tutto privi di luce. Avanzò nella stanza e Sophie notò che la casa reagiva
ai suoi movimenti e alla sua presenza. Nel punto in cui si trovava prima erano spuntati dei germogli e
sull’architrave e sulla soglia erano sbocciati dei fiori verdi. La Dea dai Tre Volti si fermò di fronte a
Nicholas Flamel e lo guardò negli occhi inquieti. — Avrei preferito che non foste venuti qui. Avrei
preferito che non foste venuti a turbare la mia vita. Avrei preferito non scontrarmi con mia sorella e
mia nipote. E di certo avrei preferito non essere costretta a schierarmi.
Scathach incrociò le braccia al petto e rimirò la dea cupamente. — Una cosa che non ti è mai
piaciuta, direi… c’è poco da sorprendersi che tu abbia tre facce.
Sophie osservò Ecate mentre la Guerriera parlava, e per un istante colse qualcosa di oscuro e antico,
di età incommensurabile, nel fondo degli occhi della bambina. — Sono sopravvissuta millenni perché
ho badato e protetto le mie cose — la fulminò Ecate. — Ma ho scelto sempre di schierarmi quando ne
valeva pena.
— E adesso — disse Nicholas Flamel in tono sommesso — penso che sia giunta l’ora di farlo di
nuovo. Solo tu puoi decidere, tuttavia: ne vale la pena?
Ecate ignorò la domanda e si pose di fronte a Sophie e a Josh. Mosse la piccola mano nell’aria e
subito le aure attorno ai gemelli si accesero d’oro e d’argento. Piegò la testa di lato, soppesandoli con
lo sguardo, osservando le bollicine d’argento che formicolavano ai bordi dell’aura che avvolgeva
Sophie e seguendo il disegno di venature dorate che pulsava in quella di Josh. — Forse hai ragione —
disse infine. — Potrebbero davvero essere i due menzionati nel maledetto Codice. Sono passati molti
secoli dall’ultima volta in cui mi sono imbattuta in aure così pure. Possiedono un incredibile
potenziale grezzo.
Flamel annuì. — Se avessi tempo, li addestrerei come si deve, risvegliando gradualmente i loro
poteri sopiti… ma gli eventi hanno cospirato contro di me e il tempo è proprio ciò che mi manca. Tu
hai il potere di schiudere il loro potenziale. Tu puoi fare in un istante ciò per cui di norma ci
vorrebbero anni.
Ecate guardò l’Alchimista. — Ed esistono buone ragioni per tutti quegli anni — disse in tono
sprezzante. — Gli homines fanno un uso scarsissimo dei loro sensi. E tu mi stai chiedendo di
risvegliare questi due ragazzini al loro massimo potenziale. Non lo farò: il sovraccarico sensoriale
potrebbe distruggerli, portarli alla follia.
— Ma… — cominciò Flamel.
— Non lo farò. — Tornò a guardare i gemelli. — Quello che mi sta chiedendo di farvi potrebbe
uccidervi… se siete fortunati — disse, dopodiché si girò e uscì dalla stanza, lasciandosi dietro una
scia di piccole impronte d’erba.
CAPITOLO VENTIDUE
I gemelli rimasero per un momento senza parole. Poi Josh cominciò: — Cosa voleva dire…?
Ma Nicholas gli sfrecciò davanti, seguendo Ecate in corridoio. — Sta esagerando — gridò voltandosi
per un secondo. — Sta cercando solo di spaventarvi.
— Be’, c’è riuscita — borbottò Josh. Guardò Scathach, ma lei girò le spalle e uscì in giardino. —
Ehi — gridò, andandole dietro — torna qui. Ho un sacco di domande. — Ebbe uno scatto di rabbia; era
stufo di essere trattato come un bambino. Lui, e sua sorella, meritavano delle risposte.
— Josh — lo ammonì Sophie.
Ma lui le passò davanti senza fermarsi e allungò il braccio per toccare Scathach sulla spalla. Non
arrivò nemmeno a sfiorarla con le dita. In un attimo si vide afferrare, girare, rigirare e scagliare in
aria. Atterrò con tanta violenza sul pavimento da sentirsi svuotare il fiato nei polmoni, dopodiché si
ritrovò a rimirare in tutta la sua lunghezza la spada che Scathach con mano ferma gli puntava dritto in
mezzo agli occhi. Quando la Guerriera parlò, la sua voce era poco più che un sussurro. — Ieri sera hai
insultato una dea dell’Antica Razza; oggi sei riuscito a irritarne una della Nuova Generazione, e non
siamo neanche all’alba — aggiunse. La Vergine Guerriera rinfoderò la spada e posò lo sguardo su una
sbigottita Sophie. Lei non l’aveva nemmeno vista muoversi. — È sempre così? — chiese Scatty.
— Così, come? — ribatté Sophie.
— Sciocco, sconsiderato, avventato…? Devo continuare?
— No, non c’è bisogno. E sì, è spesso così. A volte anche peggio. — Quando erano piccoli,
prendeva in giro suo fratello dicendo che lui aveva ereditato tutti i geni “dell’azione”, mentre a lei
erano toccati quelli “del pensiero”. Josh era impulsivo e avventato, ma, per essere giusti – pensò – era
anche leale e affidabile.
Scathach lo aiutò ad alzarsi. — Se continui di questo passo, non durerai a lungo in questo mondo.
— Volevo solo farti qualche domanda.
— Sei fortunato. Un paio di secoli fa, probabilmente ti avrei ucciso. Avevo un bel caratterino,
prima — ammise. — Ma ho lavorato molto sul mio autocontrollo.
Josh si passò la mano lungo la colonna vertebrale. Se Scathach l’avesse buttato in mezzo ai sassi
avrebbe potuto ferirsi, ma capì che si era preoccupata di farlo atterrare sull’erba e sul muschio. —
Sembrava una mossa di judo — disse con voce tremante, sforzandosi di fare come se niente fosse e di
cambiare argomento.
— Qualcosa di simile…
— E dove hai imparato il judo?
— Non l’ho imparato. Ho inventato gli antenati remoti della maggior parte delle arti marziali che si
studiano oggi — disse la Guerriera dai capelli rossi, i vivaci occhi verdi che scintillavano di malizia.
— In effetti, non vi farebbe male se vi mostrassi un paio di semplici mosse.
— Penso che possiamo fare di meglio — ribatté Josh. — Abbiamo studiato taekwondo quando i
nostri genitori insegnavano a Chicago, e abbiamo fatto un anno di karate a New York… o era Boston?
— Tu hai inventato il judo? — chiese Sophie, cercando di mantenere un tono di voce neutro.
— No, Kano Jigoro ha inventato il judo moderno, ma lui ha basato il suo sistema di combattimento
sul jujitsu, che è legato all’aikido, che si è sviluppato attorno al Quattordicesimo secolo. E
pressappoco a quell’epoca, io ero in Giappone. Tutte le arti marziali hanno una radice comune. E
quella radice sono io — disse Scatty con modestia. — Venite, se conoscete già un po’ di taekwondo e
di karate, vi torneranno utili. Lasciate che vi mostri qualche mossa fondamentale mentre aspettiamo
Nicholas.
— Dov’è andato? — chiese Sophie, girandosi a guardare la casa. Cosa stava succedendo là dentro?
— Sta chiedendo a Ecate di risvegliare il nostro potenziale magico?
— Sì — confermò Scatty.
— Ma Ecate ha detto che potrebbe ucciderci! — esclamò Josh allarmato. Stava cominciando a
sospettare che i progetti di Flamel andassero ben oltre l’obiettivo di proteggerli. L’Alchimista aveva
in mente qualcosa.
— Stava solo facendo delle ipotesi — disse Scatty. — È sempre stata un po’ melodrammatica.
— Quindi Nicholas è sicuro che non corriamo alcun pericolo? — chiese Josh.
— No, non ne è realmente sicuro — sorrise Scatty. — Ma, credetemi, voi siete in pericolo. L’unica
differenza è che se Ecate vi risveglia, allora sarete in grave pericolo.

Nicholas Flamel seguì Ecate nei meandri della casa. Le dita della bambina accarezzavano le pareti,
lasciandosi dietro una scia di brillanti striature di legno chiaro punteggiate di foglie e fiori. — Ho
bisogno del tuo aiuto, Ecate. Non posso farlo da solo — le gridò dietro.
La dea lo ignorò. Imboccato un lungo corridoio dritto, sfrecciò via. Nei punti in cui poggiava i piedi
spuntavano piccole polle rigogliose di erba verde che cresceva a vista d’occhio. Giunto a metà strada,
l’Alchimista se la ritrovò all’altezza del ginocchio, poi della vita, finché all’improvviso il corridoio si
riempì di fili d’erba alti e taglienti, che bisbigliavano suoni simili a parole.
Nicholas Flamel permise che un po’ della rabbia che stava montando veloce in lui filtrasse nella sua
aura. Dopo aver chiuso la mano destra a pugno, la riaprì di colpo e l’odore intenso e pungente della
menta si sprigionò nell’aria. L’erba dinanzi a lui si appiattì come abbattuta da una raffica di vento e
l’Alchimista fece appena in tempo a vedere che la bambina si infilava in una stanza un po’ appartata
dal resto della casa. Un attimo di ritardo, e sarebbe passato oltre senza accorgersi di nulla.
— Basta giochetti — sbottò Flamel, entrando a sua volta nella stanza.
Ecate si girò a fronteggiarlo. Era invecchiata in quella breve corsa e adesso dimostrava una
quindicina d’anni. Il volto era una maschera cupa e gli occhi gialli avevano un’espressione dura. —
Come osi parlarmi in questo modo! — Alzò le mani minacciosa. — Sai che cosa posso farti.
— Non oserai — esclamò Flamel, mostrando una calma che non sentiva affatto.
— E perché no? — chiese Ecate, sorpresa. Non era abituata a sentirsi contraddire.
— Perché sono il Guardiano del Libro.
— Del Libro che hai perso…
— Sono anche il Guardiano menzionato nelle profezie del Libro — ribatté duro Flamel. — Il
penultimo Guardiano — aggiunse. — Anche i gemelli compaiono nel Libro. Dici che conoscevi
Abramo, sai quanto fossero accurate le sue profezie e le sue predizioni.
— Si sbagliava spesso — borbottò Ecate.
— Come Guardiano, ti sto chiedendo di fare qualcosa che ritengo essenziale per la sopravvivenza
non solo dell’Antica Razza, ma anche degli homines: voglio che risvegli il potenziale magico dei
gemelli.
— Potrebbe ucciderli — disse la dea, senza la minima traccia di calore. Non le importava molto se
quei cuccioli di homines vivevano o morivano.
— È una possibilità — ammise Flamel, mentre qualcosa di gelido gli serrava la bocca dello
stomaco. — Ma se tu non ci aiuti, allora la loro morte è certa.
Ecate gli volse le spalle e andò ad affacciarsi alla finestra. Sulla china della radura, Scathach stava
mostrando una serie di pugni ai gemelli, che imitavano agilmente le sue mosse. Flamel raggiunse la
dea.
— In che mondo viviamo — commentò con un sospiro — se tutto, forse perfino la sopravvivenza
stessa della razza umana, è sulle spalle di questi ragazzi…
— Sai perché gli homines hanno trionfato e l’Antica Razza è stata bandita? — chiese Ecate a un
tratto.
— A causa del ferro, giusto?
— Sì, a causa del ferro. Siamo sopravvissuti alla Caduta di Danu Talis, al Diluvio, all’Era Glaciale.
E poi, circa tremila anni orsono, un fabbro, che fino ad allora lavorava il bronzo, cominciò a estrarre
dai minerali il nuovo metallo. Era un uomo solo, eppure riuscì a spazzare via un’intera razza e, con
essa, tutto un sistema di vita. I grandi cambiamenti, a conti fatti, si riducono sempre alle azioni di un
singolo individuo. — Ecate rimase in silenzio, continuando a osservare i gemelli che tiravano pugni e
calci accanto a Scathach. — Argento e oro. Le aure più rare — mormorò e, per una frazione di
secondo, le aure fiorirono attorno ai gemelli. — Se faccio quanto mi chiedi e rimangono uccisi,
riuscirai a vivere con il rimorso?
— Sono vecchio, ormai, molto vecchio — rispose l’Alchimista in un sussurro. — Sai quanti amici
ho sepolto nel corso dei secoli?
— E hai sofferto per la loro perdita? — Nella voce di Ecate c’era una nota di genuina curiosità.
— Per ognuno di essi. Sì.
— E ne senti ancora la mancanza?
— Ogni giorno.
La dea posò una mano sulla sua spalla. — Allora sei ancora umano, Nicholas Flamel. Il giorno in
cui non proverai più niente per nessuno, diventerai come Dee e la sua specie. — Tornò a guardare la
scena che si stava svolgendo. I gemelli cercavano, invano, di assestare qualche colpo, ma Scathach li
schivava uno per uno senza scomporsi. Visti da lontano, sembravano tre comuni adolescenti che
provavano un nuovo ballo; ma Ecate sapeva che non c’era niente di comune in nessuno di loro.
— Lo farò — disse infine. — Risveglierò i loro poteri. Il resto è compito tuo. Sarai tu ad
addestrarli.
Flamel chinò la testa, affinché la dea non vedesse le lacrime che gli erano salite agli occhi. Se i
gemelli sopravvivevano al Risveglio, allora c’era una possibilità, per quanto piccola, che lui riuscisse
a rivedere Perenelle. — Dimmi — cominciò, e tossicchiò per schiarirsi la gola. — L’uomo che ha
scoperto come estrarre il ferro, quel fabbro di tremila anni fa… che ne è stato di lui?
— L’ho ucciso — rispose Ecate, gli occhi gialli spalancati in un’espressione innocente. — Le sue
azioni ci avevano distrutto. Che altro potevo fare? Ma era troppo tardi. Il segreto del ferro era stato
ormai introdotto nel mondo.
Flamel guardò i gemelli, vide Josh che tirava su la sorella e lei che si agganciava alla sua gamba e
lo gettava a terra. La risata dei ragazzi echeggiò nitida e cristallina nell’aria dell’aurora. Pregò che
questa volta non fosse troppo tardi.
CAPITOLO VENTITRÉ
I gatti di San Francisco lasciarono la città nel cuore della notte.
Singolarmente o in coppia, randagi sfregiati e inselvatichiti o pasciuti gatti domestici dal manto liscio,
gatti di ogni tipo e dimensione, di razza o misti, dal pelo lungo o corto, tutti si mossero nelle tenebre
in una silenziosa ondata felina. Affluirono sui ponti, brulicarono nei vicoli, corsero per le gallerie
sotto le strade, balzarono sui tetti.
Tutti diretti a nord.
Sfrecciarono davanti agli ultimi, atterriti frequentatori della notte, passarono davanti a ratti e topi
senza degnarli di uno sguardo, ignorarono nidi di uccelli. E sebbene il corteo si spostasse nel silenzio
più assoluto, il suo passaggio fu segnalato da un frastuono straordinario.
Quella notte la città di San Francisco riecheggiò degli ululati ancestrali di centinaia di migliaia di
cani.
Il dottor John Dee era scontento.
E anche un po’ spaventato. Un conto era parlare di un attacco a Ecate e al suo Regno d’Ombra,
tutt’altro era trovarsi sulla soglia del suo reame invisibile e osservare l’arrivo dei gatti e degli uccelli,
chiamati a raccolta dalle rispettive padrone, Bastet e la Morrigan. Cosa potevano fare quelle piccole
creature contro l’arcaica magia di Ecate dell’Antica Razza?
Dee era seduto in un enorme SUV nero accanto a Sinuhe,
l’umano servitore di Bastet. Nessuno dei due aveva parlato durante il breve volo da Los Angeles a
San Francisco sul jet privato di Dee. I servitori degli Oscuri Signori non amavano le domande.
Avevano raggiunto l’ingresso del Regno d’Ombra di Ecate poco prima delle due del mattino, in
tempo per vedere l’arrivo delle prime creature della Morrigan. Gli uccelli erano piombati giù dal cielo
da nord e da sud, in lunghi stormi scuri, senza emettere un suono che non fosse il loro battito d’ali, e si
erano posati sugli alberi della Mill Valley, in gruppi così fitti che alcuni rami si erano spezzati per il
peso.
Nel giro di poche ore, arrivarono anche i gatti.
Spuntarono dall’oscurità in un’interminabile fiumana di pelo, poi si fermarono, tutti rivolti verso
l’ingresso nascosto del Regno d’Ombra. Dee guardò fuori dal finestrino, e non riuscì più a scorgere il
terreno: fin dove riusciva a spingere lo sguardo, c’erano solo gatti.

Infine, proprio mentre a oriente il cielo cominciava a tingersi di una tenue luce color salmone, Sinuhe
tolse una statuetta nera da un sacchettino che portava al collo e la sistemò sul cruscotto. Era una
splendida scultura egiziana di un gatto, non più grande del suo mignolo. — È giunta l’ora — disse
piano.
Gli occhi della statuetta nera brillarono di una luce rossastra.
— Sta arrivando la mia padrona — disse Sinuhe.
— Perché non abbiamo attaccato prima, mentre Ecate dormiva? — chiese Dee. Nonostante gli anni
dedicati allo studio degli Oscuri Signori, in realtà sapeva molto poco sul loro conto. Ma si consolava
pensando che anch’essi sapevano altrettanto poco sul conto degli esseri umani.
Sinuhe fece un gesto con la mano, a indicare gli uccelli e i gatti che si stavano ancora radunando. —
Ci servivano i nostri alleati — rispose tagliando corto.
Dee annuì. Intuì che in quel momento Bastet stava attraversando i vari Regni d’Ombra ai confini
del mondo degli uomini. L’avversione dei rappresentanti dell’Antica Razza per il ferro implicava
anche che certe comodità moderne – come le macchine e gli aerei – erano loro precluse. Incurvò le
labbra sottili in un sorriso privo di allegria; ecco perché si servivano di agenti come lui e Sinuhe.
Più che vedere, sentì gli uccelli che si agitavano tra le fronde: mezzo milione di testoline – forse più
– si voltò verso est. Seguì la direzione di quello sguardo, nel punto più scuro del cielo. Dapprima non
vide nulla, poi all’orizzonte comparve una sagoma, visibile solo perché offuscava le stelle. Stava
arrivando la Morrigan.
Dee sapeva che al cuore di ogni leggenda c’è un granello di verità. Guardando il cielo notturno,
osservando la creatura dal volto pallido che spuntava a occidente, il mantello di piume spiegato come
due enormi ali alle sue spalle, Dee credette di sapere qual era l’origine delle leggende dei vampiri. Nel
corso della sua lunga vita, aveva incontrato i vampiri – quelli veri – e nessuno era terrificante quanto
la Dea Corvo.
La Morrigan andò a posarsi direttamente di fronte al SUV, dove i gatti si sparpagliarono, cedendole
il posto all’ultimo momento, quando già la dea ripiegava le ali e atterrava. Nell’oscurità, si scorgeva
solo il pallido ovale del suo viso, gli occhi neri come la notte simili a fori bruciati nella carta.
Poi i gatti emisero un brontolio cupo che fece tremare l’aria, e Bastet sbucò dalle tenebre. La Dea
Gatto indossava le vesti di cotone bianco di una principessa egiziana e reggeva una lunga lancia, alta
quanto lei. Avanzò nella marea di gatti, che si divideva al suo passaggio per poi ricomporsi subito
dopo. Svettando sulla Morrigan, la salutò con un profondo inchino. — Nipote, è giunta l’ora? —
chiese la Dea Gatto con suadente voce felina.
— Sì — replicò la Morrigan, ricambiando l’inchino. Scrollando il mantello, rivelò la presenza di un
arco a tracolla sulle sue spalle. La Dea Corvo lo slegò e incoccò una freccia, prelevandola dalla faretra
appesa al suo fianco.
Poi, nello stesso istante, le due Oscure Signore si slanciarono in avanti, tuffandosi con un balzo nel
finto muro di piante e arbusti.
I gatti e gli uccelli confluirono subito dopo.
— Ora si comincia — esclamò esultante Sinuhe, raccogliendo le sue armi – due spade ricurve di
bronzo – e scendendo dall’auto.
“O si finisce” pensò Dee, ma tenne quella paura per sé.
Venerdì 1° giugno
CAPITOLO VENTIQUATTRO
Josh si trovava al margine di un’antica foresta insieme a sua sorella e osservava un trio di minuscole
creature alate, straordinariamente simili a draghi, che roteavano e danzavano nei primi raggi dell’alba.
Lanciò un’occhiata a Sophie, ma scostò subito lo sguardo. — Non voglio che tu lo faccia — sbottò.
Sophie posò la mano sul braccio del fratello. — Perché no? — disse. Gli si mise di fronte,
costringendolo a guardarla. Dietro di lei, davanti all’ingresso dell’incredibile Yggdrasill, vide Flamel,
Scatty ed Ecate che li osservavano. Tutt’attorno, migliaia di Torc Allta, sia in forma umana che
animale, erano impegnati nei preparativi della battaglia. I cinghiali avevano delle piastre di protezione
di cuoio sulla groppa e sulle anche, e i Torc Allta umani erano armati di lance e spade. Grandi stormi
di nathair sorvolavano i cieli e le macchie, mentre i prati d’erba alta brulicavano di creature invisibili,
che strisciavano, serpeggiavano e sgattaiolavano ovunque. Le guardie stavano prendendo posizione
attorno all’Yggdrasill, arrampicandosi faticosamente sugli enormi rami, piazzando archi e lance a
ogni finestra.
Sophie guardò dritto nei limpidi occhi azzurri del fratello. Ci trovò il proprio volto riflesso e d’un
tratto si rese conto che sembravano più grandi per via delle lacrime che non aveva ancora versato.
Fece per toccarlo, ma Josh le prese la mano e strinse le dita con dolcezza. — Non voglio che ti
succeda niente di male — disse semplicemente.
Sophie annuì, senza azzardarsi a parlare. Provava esattamente la stessa cosa per lui.
Nemmeno quando tre enormi nathair-pterosauri sorvolarono le loro teste, alzando pennacchi di
polvere sul terreno, i gemelli distolsero lo sguardo l’uno dall’altra.
— Nicholas ha parlato di rischi — continuò Josh — ma Ecate ha detto che è pericoloso, forse
perfino mortale. Non voglio che ti sottoponi a questo Risveglio col rischio che qualcosa vada storto —
concluse in fretta.
— Dobbiamo farlo. Nicholas ha detto…
— Non sono sicuro di potermi fidare del tutto di lui — la interruppe Josh. — Sento che ha in mente
qualcosa. Insiste troppo perché Ecate risvegli i nostri poteri, nonostante i pericoli che ci sono.
— Ha detto che è la nostra unica possibilità — insisté Sophie.
— Ieri ha detto che doveva portarci via dal negozio per tenerci al sicuro… ora, tutt’a un tratto,
dobbiamo farci addestrare per riuscire a proteggerci da Dee e da questi Oscuri Signori. Dammi retta,
Sophie, Nicholas Flamel sta facendo il suo gioco.
Sophie posò lo sguardo sull’Alchimista. Lo conosceva da un paio di mesi e ricordava di aver scritto
nel suo blog che pensava fosse forte. Certo, adesso si rendeva conto di non conoscerlo affatto. L’uomo
che un tempo chiamava Nick Fleming era un impostore. Una menzogna. Flamel
la stava fissando attentamente e, per un attimo, la ragazza immaginò che sapesse di cosa stavano
parlando.
— Non dobbiamo per forza sottoporci a questo Risveglio tutti e due — continuò Josh. — Lascia che
lo faccia io.
Di nuovo, Sophie lo guardò negli occhi. — E come pensi che mi sentirei se ti succedesse qualcosa?
Stavolta fu Josh a scoprirsi incapace di rispondere. L’idea che qualcosa di terribile potesse accadere
a sua sorella gli era venuta in mente soltanto pochi attimi prima. Ma il solo pensiero lo aveva subito
atterrito.
Sophie gli prese le mani fra le sue. — Dal momento in cui siamo nati, abbiamo fatto tutto insieme
— disse, la voce bassa e seria. — E con mamma e papà tanto spesso lontani, siamo stati davvero
sempre e solo tu e io. Tu ti sei preso cura di me, e io mi sono presa cura di te. Non ti permetterò di
sottoporti a questa… operazione da solo. Faremo questa cosa, come abbiamo sempre fatto tutto il
resto, insieme.
Josh guardò la sorella a lungo, attentamente. — Sei sicura? — chiese. Stava cominciando a vedere
una nuova Sophie.
— Non sono mai stata più sicura.
Sapevano entrambi ciò che non si erano detti: nessuno dei due voleva essere lasciato indietro se
fosse successo qualcosa durante il Risveglio.
Alla fine Josh annuì. Poi strinse forte la mano della sorella e insieme guardarono l’Alchimista,
Ecate e Scatty.
— Siamo pronti — dissero.

— La Morrigan è qui — li informò Scatty mentre attraversavano il vasto ingresso e seguivano


Nicholas ed Ecate fin nel cuore dell’albero. Si era cambiata e ora indossava dei pantaloni neri, una
maglietta nera a collo alto, senza maniche, e degli anfibi da combattimento con la suola molto spessa.
Portava due corte spade a tracolla, con le else che sporgevano appena sopra le spalle, e si era spalmata
sugli occhi e sugli zigomi della pittura nera, che faceva assomigliare in modo stupefacente il suo viso
a un teschio. — Ha portato Bastet con sé. Si stanno già riversando nel Regno d’Ombra.
— Ecate non può respingerli, vero? — chiese Sophie. Aveva solo una nozione vaga dei poteri della
dea, ma il pensiero che ci fosse qualcosa di più potente di lei era terrificante.
Scatty alzò le spalle. — Non ne ho idea. Sono arrivati in forze; hanno portato i loro eserciti.
Sophie rise esitante. — Uccelli e gatti… che possono fare?
Scatty guardò la ragazza, il bianco degli occhi che risaltava sullo sfondo nero della vernice. — Hai
visto quello che gli uccelli hanno fatto alla macchina quando siamo venuti qui.
Sophie annuì, con una stretta allo stomaco. Le immagini di quegli orrendi corvi neri che beccavano
il parabrezza e perforavano il cofano di metallo l’avrebbero tormentata fin nella tomba.
— Be’, immagina cosa succederebbe se si radunassero decine di migliaia di uccelli.
— Decine di migliaia — sussurrò Sophie.
— Di più, centinaia di migliaia — si corresse Scatty, imboccando uno stretto corridoio. — I nathair
in ricognizione hanno fatto una stima di circa mezzo milione.
— E non avevi detto qualcosa anche a proposito dei gatti? — chiese Josh.
— Sì. Più di quanti si riesca a contarne.
Josh guardò la sorella, l’idea del tremendo pericolo in cui si trovavano era ormai ben chiara nella
sua testa. Correvano il rischio di morire in quell’assurdo Regno d’Ombra e nessuno l’avrebbe mai
saputo. Si sentì salire le lacrime agli occhi e le ricacciò indietro battendo le palpebre; i loro genitori
avrebbero passato il resto della vita a chiedersi che cosa fosse successo loro.
Il corridoio piegò in un altro passaggio, perfino più stretto del primo. Il soffitto era così basso che i
gemelli dovettero camminare chinando la testa. Non c’erano né gradini né rampe di scale, ma la
galleria continuava a scendere sempre più in basso, in una lunga e ampia spirale. Capirono di essere
diretti sottoterra, nelle profondità dell’albero. Le pareti divennero più scure, il legno lucido era trafitto
da rigogliose radici che si impigliavano nei capelli dei ragazzi come dita artigliate. L’aria si fece
umida e odorosa di terra fresca, foglie marce e germogli.
— La casa è viva — esclamò stupita Sophie mentre imboccavano la spirale di un altro corridoio,
composto interamente dalle radici rosicchiate e bulbose del grande albero. — Con noi che ci
camminiamo dentro, e nonostante tutte le stanze, le finestre e le vasche che ci sono, l’albero è ancora
vivo e vegeto! — Trovava l’idea tanto stupefacente quanto terrificante.
— È nato da un seme dell’Yggdrasill, l’Albero del Mondo — spiegò sottovoce Scatty, strofinando il
palmo della mano contro le radici nude. Poi si portò la mano al viso e inspirò a fondo, per annusarne
l’aroma. — Millenni fa, quando Danu Talis si inabissò in mare, alcuni Antichi Signori riuscirono a
salvare parte della flora e della fauna dell’isola e a trapiantarla altrove. Ma solo due di essi, Ecate e
Odino, riuscirono a nutrire i semi dell’Yggdrasill fino a portarli in vita. Odino, come Ecate, aveva
potere sulla magia.
Josh aggrottò la fronte, sforzandosi di ricordare quel poco che sapeva sul conto di Odino. Non era
quel dio scandinavo con un occhio solo? Ma prima che potesse chiedere conferma, Ecate scomparve
oltre una soglia incorniciata di nodi e radici. Flamel si era fermato ad aspettare i gemelli e Scatty. I
suoi occhi pallidi erano segnati da profonde occhiaie e una sottile ruga verticale era comparsa fra le
sopracciglia. Quando parlò, scelse le parole con cura, l’accento francese ancora più marcato. — Vorrei
che non foste costretti a farlo — disse. — Ma dovete credermi quando vi dico che non c’è altro modo.
— Posò una mano sulla spalla di Sophie e l’altra su quella di Josh. Le due aure, d’argento e d’oro, si
illuminarono per un istante e nell’aria densa si diffuse un profumo di gelato alla vaniglia e di arance.
— Mi dispiace che, per aiutare me e Perenelle, siate finiti in una situazione terribilmente pericolosa.
Se… anzi, no: quando Ecate avrà risvegliato il vostro potenziale magico, vi insegnerò alcuni
incantesimi di protezione. Poi ci sono altre persone da cui voglio condurvi, specializzate nelle cinque
antiche forme della magia. Spero che completeranno il vostro addestramento.
— Saremo addestrati come maghi? — chiese Sophie. Forse doveva sentirsi più eccitata all’idea, ma
continuava ad avere nella testa le parole di Scatty, e a ricordare che, una volta risvegliati grazie a
Ecate, sarebbero stati in grave pericolo.
— Come maghi e fattucchieri, come negromanti, stregoni e perfino incantatori. — Flamel sorrise.
Si guardò dietro le spalle, quindi tornò a fissare i gemelli. — Adesso entrate e fate tutto ciò che vi
dice. So che siete pieni di paura ma, se potete, tenetela a freno. Tuttavia lasciate che vi dica questo:
non c’è alcuna vergogna nella paura. — Sorrise, ma solo con le labbra; gli occhi rimasero inquieti. —
Quando uscirete da questa stanza, sarete delle persone diverse.
— Non voglio essere una persona diversa — sussurrò Sophie. Voleva che tutto fosse com’era fino a
poche ore prima: normalissimo e noioso. In quel momento, avrebbe dato qualunque cosa per ritornare
a quel mondo.

L’interno della camera era buio. Sophie sentì la mano del fratello nella sua e gli strinse leggermente le
dita. Lui ricambiò la stretta.
Inoltrandosi in quella sorta di antro, molto più grande di quanto fosse sembrato a prima vista, i
gemelli si adattarono a poco a poco alla penombra e la stanza assunse un tenue bagliore verdognolo.
Un muschio spesso e vellutato rivestiva le pareti di radici ritorte, irradiando una luce color giada
delicata e acquosa, tanto che la stanza sembrava immersa nell’acqua. L’aria era così densa di umidità
che si raccoglieva sui capelli e sulla pelle dei ragazzi in goccioline simili a perle di sudore. Non
faceva freddo, ma entrambi rabbrividirono.
— Dovreste considerarvi onorati. — La voce di Ecate proveniva dal bagliore verde direttamente di
fronte a loro. — Non risveglio un figlio di homines da molte generazioni.
— Chi… — cominciò Josh, ma poi la sua voce si incrinò. Diede un colpetto di tosse secca e provò
di nuovo. — Chi è stato l’ultimo umano che ha risvegliato? — Come sempre, era deciso a non
mostrare la sua paura.
— È stato diverso tempo fa, nel Dodicesimo secolo, secondo la vostra misurazione del tempo, un
uomo della terra di Scozia. Non ricordo il suo nome.
Sia Sophie che Josh seppero istintivamente che Ecate stava mentendo.
— Cosa gli è accaduto? — chiese Sophie.
— È morto. — Si udì una curiosa risatina stridula. — Ucciso da un chicco di grandine.
— Dev’essere stato proprio un gran chicco — bisbigliò Josh.
— Oh, sì, lo era — mormorò Ecate. E in quel momento, i gemelli capirono che la dea c’entrava
qualcosa con quella misteriosa morte. A Josh, Ecate ricordò all’improvviso una bambina viziata e
vendicativa.
— E adesso che succede? — chiese il ragazzo. — Dobbiamo stare in piedi o distesi?
— Voi non dovete fare niente — lo fulminò la dea. — E questo non è il genere di cosa da farsi alla
leggera. Per migliaia di generazioni, voi homines avete deliberatamente preso le distanze da quello
che ridicolizzate con il nome di magia. Ma la magia, in realtà, non è altro che l’impiego dell’intero
spettro dei sensi. Gli homines hanno interrotto ogni contatto con i loro sensi. Ora essi vedono solo una
minuscola porzione dello spettro visibile, odono soltanto i suoni più violenti, hanno un olfatto
paurosamente limitato e riescono a distinguere solo i sapori più dolci o i più amari.
I gemelli si accorsero che Ecate aveva cominciato a muoversi attorno a loro. Non riuscivano a
sentirne gli spostamenti, ma la seguivano attraverso il suono della voce. Quando parlò da dietro le loro
spalle, sobbalzarono.
— Un tempo, l’umanità aveva bisogno di tutti questi sensi soltanto per sopravvivere. — Ci fu un
lungo silenzio, poi, quando la dea parlò di nuovo, era così vicina che il suo fiato mosse i capelli di
Sophie. — Ma dopo il mondo è cambiato. Danu Talis è sprofondata fra le onde, l’Età delle Lucertole è
finita, è giunta l’Era del Ghiaccio, e gli homines sono diventati… sofisticati. — Pronunciò la parola
come un’imprecazione. — Gli homines sono diventati indolenti e arroganti. Hanno scoperto di non
avere bisogno di tutti i loro sensi e, a poco a poco, li hanno perduti.
— Sta dicendo che abbiamo perso i poteri della magia perché siamo diventati pigri? — chiese Josh.
Sophie soffocò un lamento; uno di questi giorni suo fratello avrebbe finito per cacciarli in un bel
guaio.
Ma quando Ecate rispose, lo fece con voce sorprendentemente mite, quasi gentile. — Quello che voi
chiamate magia non è altro che un atto dell’immaginazione acceso dai sensi e poi plasmato dal potere
dell’aura. Più l’aura è potente, più grande sarà la magia. Voi due possedete un potenziale
straordinario. L’Alchimista ha ragione: potreste essere i più grandi maghi che il mondo abbia mai
conosciuto. Ma il problema sta proprio qui — continuò Ecate, mentre la stanza si schiariva un po’ e i
ragazzi riuscivano a intravedere al centro la sagoma della giovane donna, sotto un groviglio di radici
simile a un artiglio calato dal cielo. — Gli homines hanno imparato a fare a meno dei loro sensi. Il
cervello filtra così tanti dati dalla coscienza che vivete in una specie di nebbia. Quello che posso fare
io è risvegliare i vostri poteri sopiti, ma il pericolo, il pericolo molto reale, è che i vostri sensi si
sovraccarichino. — Si fermò, poi chiese: — Siete disposti a correre il rischio?
— Io sì — esclamò subito Sophie, prima che il fratello potesse protestare. Temeva che se lui si
fosse tirato indietro, la dea gli avrebbe fatto qualcosa. Qualcosa di orribile e di letale.
La dea fissò Josh.
Il ragazzo cercò la sorella nel buio. La luce verde conferiva al suo viso un aspetto malaticcio. Il
Risveglio sarebbe stato pericoloso, forse perfino mortale, ma non poteva permettere che Sophie vi si
sottoponesse da sola. — Sono pronto — esclamò in tono di sfida.
— Allora cominciamo.
CAPITOLO VENTICINQUE
John Dee aspettò finché l’ultimo degli uccelli e dei gatti non scomparve nel Regno d’Ombra di Ecate,
poi scese dalla macchina e si avvicinò all’ingresso nascosto. Sinuhe se n’era già andato, seguendo la
sua padrona pieno di zelo, ma Dee non aveva condiviso il suo entusiasmo. Combattere in prima linea
era sempre una pessima idea. I soldati delle retrovie erano quelli che vivevano più a lungo. Intuiva che
le guardie di Ecate si erano disposte in massa proprio al di là del muro invisibile e non sentiva alcuna
propensione a varcare la soglia per primo. Il che non faceva di lui un codardo, pensava; era solo
prudente, e la prudenza lo aveva tenuto in vita per svariate centinaia di anni. Tuttavia non poteva
indugiare là fuori per sempre; i suoi padroni non-umani si aspettavano di vederlo sul campo di
battaglia. Il piccolo uomo si strinse nella sua giacca di pelle da duemila dollari e varcò l’ingresso,
lasciandosi dietro l’aria fresca del primo mattino ed entrando in…
… un campo di battaglia.
C’erano corpi dappertutto, e nessuno di essi era umano.
Gli uccelli della Morrigan erano cambiati entrando nel Regno d’Ombra di Ecate: erano diventati
quasi umani… anche se non del tutto. Adesso erano alti e scarni come la loro padrona; le ali si erano
allungate in ali di pipistrello, che terminavano alle estremità in artigli mortali, mentre si univano
tramite un tratto di pelle traslucida a corpi di aspetto umano. Le teste, invece, erano ancora di volatile.
C’erano anche dei gatti sparsi nel campo rivestito di piume. Anch’essi, entrando nel Regno
d’Ombra, erano diventati quasi umani e anch’essi, proprio come Bastet, conservavano una testa
animale. Le mani erano un incrocio fra arti umani e zampe feline, complete di unghie ricurve e
affilate, e i corpi erano coperti da una fine peluria.
Guardandosi attorno, Dee non vide caduti nelle file di Ecate, ed ebbe paura: che cosa aveva messo a
guardia del proprio regno? Da sotto la giacca estrasse la spada che un tempo portava il nome di
Excalibur e si avviò lungo il sentiero che conduceva nel punto in cui l’enorme albero svettava nella
nebbia del mattino. L’alba diffuse bagliori rosso sangue lungo l’antica lama nera.

— Uomini-uccello — mormorò Scathach, e aggiunse un’imprecazione nell’antica lingua celtica della


sua giovinezza. Odiava gli uomini-uccello; le facevano venire l’orticaria. Era in piedi di fronte
all’ingresso dell’Yggdrasill a osservare le creature che sbucavano dalla foresta. Le mitologie di tutti i
popoli raccontavano storie di uomini che si trasformavano in uccelli, o di uccelli che si trasformavano
in creature mezzo umane. Nella sua lunga vita Scatty si era imbattuta in molte di esse e una volta era
stata pericolosamente vicina alla morte combattendo un Sirin, un gufo con la testa di una bellissima
donna. Da quell’incontro, era diventata allergica alle piume di uccello. Cominciava già a pruderle la
pelle e sentiva uno starnuto in agguato. Le creature della Morrigan si muovevano goffamente, come
umani ingobbiti, trascinando le nocche dei piedi a terra. Erano guerrieri mediocri, ma vincevano
spesso per mera forza numerica.
Poi comparvero gli uomini-gatto di Bastet. Si muovevano lenti, furtivi, alcuni su due zampe, la
maggior parte su quattro. Quelle creature, Scatty lo sapeva, erano alla base delle grandi leggende
feline dell’Africa e dell’India. A differenza degli uccelli, erano lottatori micidiali: veloci come il
lampo, con artigli capaci di infliggere ferite terribili. Scathach starnutì; era allergica anche ai gatti.
Lo strano esercito si arrestò, forse sbigottito di fronte a quell’incredibile albero-palazzo o soltanto
confuso alla vista di una sola guerriera nella cornice delle porte aperte. Girarono un po’ attorno alla
rinfusa, poi, come a un unico ordine, ripresero ad avanzare in una lunga, ispida linea.
La Guerriera piegò la testa prima da un lato e poi dall’altro, ruotò le spalle e le due spade corte
apparvero nelle sue mani. Le sollevò sopra la testa, formando una X.
Era il segnale che i Torc Allta e i nathair aspettavano. Spuntando fuori dal nulla, le terrificanti
lucertole sfrecciarono nel cielo a centinaia, per avventarsi contro l’esercito in avanzata. Volavano in
grandi cerchi impetuosi, le enormi ali che sollevavano giganteschi turbini di polvere, accecando e
confondendo uccelli e gatti. Dopodiché i Torc Allta, rimasti nascosti nell’erba alta e fra le tortuose
radici dell’Yggdrasill, irruppero nel mezzo delle file nemiche. Mentre Scatty tornava, correndo, nelle
profondità dell’albero, notò quanto i rumori della battaglia ricordassero l’ora del pasto allo zoo di San
Francisco.

— Non abbiamo più molto tempo — gridò Scathach a Flamel precipitandosi nel corridoio.
— Quanti sono? — chiese Flamel cupamente.
— Troppi — replicò Scatty. Fece una breve pausa e aggiunse: — I Torc Allta e i nathair non
riusciranno a trattenerli a lungo.
— Bastet e la Morrigan?
— Non le ho viste. Ma stanno arrivando, puoi starne certo, e allora… — Lasciò la frase in sospeso.
Con Ecate occupata a risvegliare i gemelli, niente avrebbe potuto resistere alle due Oscure Signore.
— Arriveranno — disse l’altro, cupo.
Scatty si avvicinò a Flamel. Si conoscevano da più di trecento anni e, anche se lei era più vecchia di
quasi due millenni, aveva finito per considerarlo come il padre che ormai non ricordava più. — Prendi
i gemelli e scappa. Io li tratterrò qui. Vi farò guadagnare più tempo possibile.
L’Alchimista posò la mano sulla spalla della Guerriera e strinse. Scoccò una scintilla di energia ed
entrambi, per un attimo, si illuminarono. Senza rendersene conto, Flamel parlò nel francese della sua
giovinezza. — No, non ce ne andremo. Quando lasceremo questo posto, lo faremo insieme. Abbiamo
bisogno dei gemelli, Scatty, e non mi riferisco soltanto a te e a me, ma al mondo intero. Sono convinto
che sono gli unici in grado di opporsi agli Oscuri Signori e al loro piano di impadronirsi della Terra.
Scatty spinse lo sguardo oltre la spalla di Flamel, nella camera avvolta nella penombra. — Gli stai
chiedendo molto. Quando hai intenzione di dire loro tutta la verità? — chiese.
— A tempo debito… — cominciò lui.
— Il tempo è qualcosa che tu non hai — mormorò Scatty. — Hai cominciato a invecchiare. Te lo
leggo sul volto, attorno agli occhi, e c’è più grigio nei tuoi capelli.
Flamel annuì. — Lo so. L’incantesimo di immortalità si sta spezzando. Senza la formula, io e
Perenelle cominceremo a invecchiare di un anno al giorno. Saremo morti entro la fine del mese. Ma se
gli Oscuri Signori avranno successo, tutto questo non avrà più alcuna importanza: quel giorno il
mondo degli homines avrà già cessato di esistere.
— Assicuriamoci che non succeda. — Scatty si distese a terra supina, con la schiena dritta, le
gambe piegate e i piedi poggiati sulle cosce nella posizione del loto, con le braccia distese e i palmi
attorno all’elsa delle spade che teneva in grembo. Se i gatti o gli uccelli fossero entrati nella casa e
avessero trovato il corridoio, avrebbero dovuto superare lei per arrivare a Ecate, e la Guerriera gli
avrebbe reso il compito molto difficile.
Reggendo con entrambe le mani il corto bastone che Ecate gli aveva donato ricavandolo da un ramo
dell’Yggdrasill, Flamel si mise di guardia davanti alla porta della camera in cui la dea stava lavorando
con i gemelli. Se uno qualsiasi degli invasori fosse riuscito a oltrepassare Scathach, avrebbe dovuto
vedersela con lui. Scatty combatteva con spade, mani e piedi, ma le armi dell’Alchimista,
potenzialmente, erano perfino più distruttive. Sollevò la mano e lo spazio angusto del corridoio si
riempì del profumo della menta; la sua aura scintillò e si accese di luce verde, comparendogli attorno.
Era ancora potente, ma ogni uso della magia lo indeboliva, attingendo alla sua forza vitale. Scatty
aveva ragione; aveva cominciato a invecchiare. Sentiva piccoli acciacchi e ombre di dolore laddove
prima non c’era nulla. Perfino la sua vista era meno acuta rispetto al giorno prima. Se fosse stato
costretto a usare i suoi poteri, il processo di invecchiamento avrebbe accelerato, ma era deciso a dare a
Ecate tutto il tempo di cui aveva bisogno. Si guardò alle spalle, cercando di penetrare l’oscurità. Cosa
stava succedendo là dentro?

— Cominceremo dal più anziano di voi — annunciò Ecate.


Sophie si accorse che il fratello stava per protestare, ma lo fermò stritolandogli le dita della mano,
tanto che le sentì scricchiolare. In tutta risposta, Josh le rifilò un calcio su uno stinco.
— Così vuole la tradizione — continuò la dea. — Sophie… — si interruppe, quindi disse: — Come
si chiama la tua famiglia? E qual è il nome dei tuoi genitori?
— Newman… mia madre si chiama Sara, mio padre Richard. — Faceva uno strano effetto chiamare
i suoi genitori in qualunque altro modo diverso da “mamma” e “papà”.
La luce verde della camera divampò e i ragazzi videro il profilo di Ecate stagliarsi sulle pareti
illuminate. Il volto era ancora immerso nell’oscurità, ma gli occhi riflettevano la luce verde come
pagliuzze di vetro levigato. La dea allungò il braccio e posò il palmo della mano sulla fronte di
Sophie. — Sophie, figlia di Sara e Richard, del clan Newman, della razza degli homines…
Cominciò in inglese, quindi passò a una lingua meravigliosa e poetica che precedeva l’avvento
dell’umanità. Mentre parlava, l’aura di Sophie cominciò a risplendere come una nebulosa luce
d’argento attorno al suo corpo. La ragazza si sentì avvolgere da una fresca brezza e d’un tratto si
accorse di non udire più la voce di Ecate. Vedeva la bocca della dea che si muoveva, ma non riusciva a
distinguere le parole, coperte dai suoni emessi dal suo stesso corpo: il respiro che sibilava entrando e
uscendo dal naso, il sangue che le affluiva alle orecchie, il battito robusto del cuore nel suo petto.
Avvertì una pressione alle tempie, come se il cervello le si stesse espandendo nel cranio, e poi una
fitta di dolore lungo la spina dorsale, che si diffuse per tutte le ossa.
La stanza cominciò a illuminarsi. Ecate – ora più vecchia – era lì, in piedi, il profilo delineato da
mutevoli fasci di luci scintillanti. E Sophie capì: stava vedendo l’aura della dea. Osservò le luci che
vorticavano e turbinavano attorno al braccio di Ecate per fluire giù fino alle sue dita, dopodiché, con
un fremito di paura, Sophie comprese che quella luce le stava materialmente penetrando nel cranio.
Per un attimo si sentì stordita, disorientata; poi, superato il ronzio che aveva nelle orecchie, le parole
di Ecate tornarono comprensibili. — … Io risveglio il terribile potere custodito dentro di te… — La
dea spostò le mani sul volto di Sophie, il tocco simile a ghiaccio e fuoco insieme. — Questi sono i
sensi che gli homines hanno abbandonato — continuò Ecate. Premette lievemente i pollici sugli occhi
di Sophie.
— Vedere con acume…
La vista di Sophie sbocciò, e la camera buia divampò di luce, delineando ombre nitide e perfette nei
più piccoli dettagli. Riusciva a vedere ogni filo e ogni punto cucito sulla veste di Ecate, a distinguere
ogni singolo capello che aveva in testa e a seguire la trama delle minuscole rughe che le stavano
crescendo visibilmente agli angoli degli occhi.
— Udire con chiarezza…
Fu come se qualcuno le avesse tolto del cotone dalle orecchie. Di colpo, sentiva. Era una sensazione
simile alla differenza che c’è fra ascoltare la musica nelle cuffie dell’iPod e poi sentire la stessa
canzone sullo stereo in camera. Ogni suono della stanza era più intenso: il sibilo del respiro di Josh
attraverso le narici, gli impercettibili cigolii dell’enorme albero che li sovrastava, il rumore prodotto
dalle creature invisibili che zampettavano e raspavano fra le radici. Chinando leggermente la testa,
riusciva perfino a sentire i suoni lontani di una battaglia: le grida degli uccelli, il miagolio lamentoso
dei gatti e i grugniti dei cinghiali.
— Gustare con purezza…
Le dita di Ecate sfiorarono le labbra di Sophie e la ragazza avvertì un improvviso formicolio sulla
lingua. Si leccò le labbra, trovando tracce del frutto che aveva mangiato ore prima e scoprendo di
riuscire perfino a sentire il sapore dell’aria – forte e terroso – e a distinguere le goccioline d’acqua
nell’atmosfera.
— Toccare con sensibilità…
La pelle di Sophie prese vita. Le stoffe che le premevano sulla pelle – il cotone morbido della
maglietta, quello più rigido dei jeans, la catenina d’oro con il segno zodiacale che portava al collo, i
calzini caldi – lasciavano tutte delle impressioni nettissime e diverse sulla sua carne.
— Odorare con intensità…
Sophie vacillò per l’improvvisa esplosione di odori che la travolse, facendole lacrimare gli occhi: i
profumi speziati, ultraterreni di Ecate, il sentore avvolgente della terra che la circondava, il
deodorante e il gel inodori del fratello, che smentivano palesemente le loro promesse.
Chiuse gli occhi e piegò la testa all’indietro. Colori, odori e suoni la stavano assalendo: più accesi,
più intensi, più forti di qualsiasi altra sensazione avesse mai sperimentato prima. L’effetto dei sensi
esaltati era quasi doloroso… no, era doloroso. Faceva male. Le pulsavano le tempie, le ossa le
dolevano, perfino la pelle scottava – era tutto troppo. Quasi di propria volontà, le braccia si
sollevarono aprendosi ai lati… e la ragazza levitò a dieci centimetri da terra.

— Sophie? — bisbigliò Josh, incapace di nascondere nella voce il terrore che provava. — Sophie… —
Sua sorella, avvolta in un tremolante bagliore argentato, galleggiava nell’aria di fronte a lui. La luce
emessa dal suo corpo era così forte che tingeva la camera circolare di ombre nere e d’argento.
Sembrava la scena di un terrificante film dell’orrore.
— Non toccarla — ordinò Ecate, severa. — Il suo corpo sta cercando di assimilare l’ondata di
sensazioni. È il momento più pericoloso.
A Josh si seccò la lingua, non riusciva a deglutire. — Pericoloso… in che senso, pericoloso? —
Qualcosa fece clic nella sua mente e sentì che le sue peggiori paure stavano per realizzarsi.
— Nella maggior parte dei casi, il cervello non riesce ad affrontare le sensazioni esaltate del
Risveglio.
— Nella maggior parte dei casi? — ripeté lui in un sussurro, atterrito.
— In quasi tutti i casi — disse Ecate, e Josh udì una punta di rimorso nella voce della dea. — Ecco
perché non volevo farlo.
Nonostante temesse la risposta, Josh riuscì a chiedere: — Che succede?
— Il cervello si chiude. La persona entra in un coma da cui non si risveglia più.
— E Flamel sapeva che c’era questo rischio? — chiese Josh, mentre una rabbia crescente lo
assaliva partendo dallo stomaco. Si sentiva malissimo. L’Alchimista sapeva che il Risveglio avrebbe
potuto, con ogni probabilità, mandare lui e Sophie in coma e, nonostante ciò, li aveva esposti a questo
rischio. La rabbia esplose dentro di lui come un incendio, alimentata in parti uguali dalla paura e da un
terribile senso di tradimento. Pensava che Flamel fosse un amico. Ma si era sbagliato.
— Naturalmente — rispose Ecate. — Vi ha avvertito del pericolo, vero?
— Non ci ha detto tutto — sbottò Josh.
— Nicholas Flamel non dice mai tutto a nessuno. — Un lato del suo volto era illuminato dalla luce
argentea emanata da Sophie, l’altro era schermato dall’ombra. Di colpo, le narici della dea si
spalancarono ed Ecate sgranò gli occhi. — No — sussultò. — No!
Anche gli occhi di Sophie si sbarrarono sgomenti, e la ragazza urlò. — Fuoco!
— Stanno bruciando l’Albero del Mondo! — gridò Ecate, il viso contorto in una maschera furente.
Scansando Josh, si precipitò in corridoio, lasciandolo solo con la persona che un tempo era sua sorella.
Lui rimase a guardarla levitare, senza sapere cosa fare, con la paura perfino di toccarla. Sapeva solo
una cosa: per la prima volta nella loro vita, erano diversi, in modi che non riusciva nemmeno a
concepire.
CAPITOLO VENTISEI
— Presto, dobbiamo andare. — Nicholas Flamel afferrò Josh per la spalla e lo scosse, riportandolo al
presente.
Il ragazzo si girò a guardare l’Alchimista. Le lacrime gli rigavano le guance, ma non se ne rendeva
neanche conto. — Sophie… — bisbigliò.
— … starà bene — concluse Nicholas in tono deciso. Fuori, in corridoio, echeggiarono grida e
rumori: un improvviso clangore di armi mescolato a ruggiti umani e animali. Sopra a tutto, la risata
allegra di Scathach. Flamel tese il braccio verso Sophie, che galleggiava ancora a dieci centimetri da
terra, e l’aura dell’Alchimista brillò di luce bianco-verdognola mentre toccava la mano della ragazza e
la riportava delicatamente a terra. Non appena i suoi piedi sfiorarono il suolo, fu come se tutte le forze
abbandonassero il suo corpo, e lui fece appena in tempo a sorreggere Sophie prima che crollasse sul
pavimento, priva di sensi.
Josh fu subito al fianco della sorella. Scansò Flamel e la prese fra le braccia. L’aura cominciava a
sbiadire, ma delle scintille di energia lo colpirono comunque; Josh non registrò il minimo dolore.
Quando guardò Flamel, il viso del ragazzo era una maschera di rabbia. — Lei lo sapeva — lo accusò.
— Sapeva quanto fosse pericoloso. Mia sorella poteva andare in coma.
— Sapevo che non sarebbe successo — ribatté Nicholas in tono calmo, accovacciandosi accanto a
Josh. — La sua aura, come la tua, è troppo forte. Sapevo che sareste sopravvissuti entrambi. Non vi
avrei mai messo deliberatamente in pericolo. Lo giuro. — Fece per prendere il braccio di Sophie e
tastarle il polso, ma Josh gli scansò la mano. Non gli credeva; voleva credergli, ma in qualche modo le
parole di Flamel suonavano false.
Sobbalzarono entrambi quando dal corridoio li raggiunse il miagolio agonizzante di un gatto, subito
seguito dalla voce di Scatty. — Dovremmo proprio andarcene. E subito!
L’odore di legno bruciato era più intenso, e dei riccioli di fumo cominciavano a penetrare nella
camera.
— Dobbiamo andare. Ne parleremo più tardi — disse Flamel deciso.
— Può starne certo — promise Josh.
— Ti aiuto a portarla — si offrì l’Alchimista.
— Ci riesco da solo — ribatté Josh, e sollevò la sorella fra le braccia. Non aveva intenzione di
affidare Sophie a nessun altro. Si sorprese constatando quanto fosse leggera, e fu di colpo grato per
tutti quei mesi di sofferto allenamento a football americano, grazie ai quali era più forte di quanto
sembrasse.
L’Alchimista raccolse il bastone che aveva appoggiato al muro e lo fece roteare in aria. La punta si
accese di una luce verde, lasciando una debole scia. — Pronto? — chiese.
Josh, con la sorella stretta saldamente al petto, annuì.
— Qualunque cosa accada, qualunque cosa tu veda, non fermarti e non voltarti indietro. Tutto
quello che c’è oltre quella porta non esiterà a ucciderti.
Josh varcò la soglia subito dopo Flamel… e si fermò all’istante, impietrito dallo shock. Scatty era
al centro del corridoio, le spade che turbinavano di fronte a lei. Dietro di esse, accalcate in quello
spazio stretto, c’erano le creature più terrificanti che avesse mai visto. Si aspettava di vedere dei
mostri, ma non degli esseri perfino più terrorizzanti. Quelle creature non erano né umane né animali,
ma qualcosa nel mezzo. Umani dalla testa felina ringhiavano e attaccavano Scatty, e i loro artigli
provocavano scintille scontrandosi con le sue lame. Altri, anch’essi con corpi umani, avevano crani
enormi dal becco di corvo, che puntavano come spietati pugnali sulla Guerriera cercando
accanitamente di ferirla.
— Scatty… giù! — gridò Flamel. Senza nemmeno accertarsi che lei avesse sentito, l’uomo tese il
braccio e puntò il bastone. L’aura verde dell’Alchimista si illuminò e l’aria si riempì dell’odore
pungente della menta. Sulla punta del bastone si formò una sfera di luce rotante che subito si staccò
con uno schiocco, scagliandosi in avanti. Scatty riuscì a chinarsi appena in tempo, prima che la
sfrigolante sfera di luce fendesse l’aria e andasse a infrangersi sul soffitto, a pochi centimetri dalla sua
testa. Il proiettile magico lasciò un segno luminoso, simile a una macchia, che cominciò a trasudare e
a gocciolare una vischiosa luce verde. Un gatto tigrato con una cicatrice sul muso cercò di oltrepassare
quel segno, le fauci spalancate, i denti luccicanti. Prese di mira Scatty e tentò un affondo, ma una
goccia di luce vischiosa gli cadde sulla testa. La creatura felina impazzì. Si ritrasse subito da dov’era
venuta e cominciò ad attaccare qualunque cosa le capitasse a tiro. Un uomo-uccello si fece avanti a
sua volta e fu inondato dalle gocce di luce verde. Fori e squarci deturparono subito le sue ali nere e
l’essere ricadde indietro, gracchiando orribilmente. Josh notò che, sebbene quella luce densa come il
miele scottasse le creature, non aveva alcun effetto sul legno. Sapeva anche che avrebbe dovuto stare
più attento a ciò che succedeva, ma era concentrato sulla sorella, che aveva il respiro affannoso e gli
occhi che danzavano inquieti dietro le palpebre chiuse.
Scatty si rimise in piedi e in un attimo si portò al fianco degli altri due. — Molto impressionante —
borbottò. — Non sapevo che ne fossi capace.
Flamel ruotò il bastone come una mazza. — Il bastone mi aiuta a concentrare il mio potere.
Scatty si guardò attorno. — A quanto pare siamo in trappola.
— Ecate è andata da questa parte — disse Nicholas, indicando sulla destra quella che sembrava
un’impenetrabile barriera di radici nodose. — L’ho vista uscire di corsa dalla camera e infilarsi qui
dentro. — Si avvicinò al legno nodoso, allungò la mano e il braccio scomparve fino al gomito.
— Vado prima io — esclamò Scatty. Josh notò che, nonostante avesse combattuto quella micidiale
combinazione di uccelli e gatti, non aveva né un graffio né un capello fuori posto. Non aveva
nemmeno il fiato corto, per quanto, se fosse stata davvero un vampiro, forse non avrebbe avuto
bisogno di respirare, pensò. Scatty si scagliò in avanti e, appena prima di toccare la parete di radici, vi
si tuffò dentro incrociando le spade al petto.
Flamel e Josh si scambiarono uno sguardo nel breve istante che seguì… poi la testa di Scatty spuntò
dal fitto groviglio di radici. — Via libera.
— Io starò in retroguardia — disse Flamel, cedendo il passo a Josh. — Penserò agli eventuali
inseguitori.
Josh annuì, deciso a non rivolgere la parola a Flamel. Era ancora furioso con l’Alchimista per aver
messo in pericolo la vita della sorella, ma doveva ammettere che adesso stava combattendo per loro,
mettendosi in un pericolo molto serio per proteggerli. Si avvicinò al muro di radici ritorte e terra
pressata, chiuse gli occhi… ed entrò. Per un attimo fu avvolto dal freddo e dall’umidità, poi riaprì gli
occhi e vide Scatty. Si trovava in una camera bassa e stretta, ricavata interamente dalle radici
rosicchiate dell’Yggdrasill. Macchie di muschio verde gettavano una debole luce color giada sulle
pareti, e Josh si accorse che Scatty stava in fondo a una stretta rampa di gradini irregolari che salivano
nell’oscurità. La testa della Guerriera era piegata di lato, ma prima che lui potesse chiederle cosa
sentiva, Flamel sbucò dalla parete, sorridente. La punta del suo bastone emetteva ancora tracce di gas
verde. — Questo dovrebbe tenerli a bada per un po’.
— Andiamo — gridò Scatty non appena comparve l’Alchimista.
Le scale erano così strette che Josh fu costretto a muoversi di lato, come un gambero, con il capo
chino e Sophie ben stretta al petto per evitare che le gambe e la testa della ragazza cozzassero contro
le pareti di legno ruvido. Provava ogni gradino prima di salirci sopra; non voleva rischiare di cadere e
di lasciarsi sfuggire la sorella dalle braccia. Di colpo si rese conto che l’intera rampa era intagliata
nello spazio esistente fra la corteccia interna e quella esterna del grande albero e non poté fare a meno
di chiedersi se una pianta delle dimensioni dell’Yggdrasill non fosse piena zeppa di passaggi segreti,
stanze nascoste, camere dimenticate e scale perdute. Sicuramente sì, decise. Chissà se Ecate sapeva
dove si trovavano tutti? E poi, la mente che turbinava di mille pensieri, si chiese chi aveva creato quei
gradini. Non se la vedeva proprio la dea che li scolpiva nel legno vivo di persona.
Salendo, sentivano l’odore amaro del legno che bruciava e i suoni della battaglia che si facevano
più chiari. Le grida dei gatti divennero perfino più umane, le strida degli uccelli erano terrificanti
come non mai, mischiate ai grugniti feroci dei cinghiali e al sibilare dei nathair. Ora che non si
trovavano più sottoterra, il calore e il fumo erano più intensi e tutti si accorsero di un altro suono – un
rombo basso, profondo, cupo.
— Dobbiamo sbrigarci! — La voce di Scatty li raggiunse fuori dall’oscurità. — Dobbiamo proprio
sbrigarci, ora… — E in qualche modo la calma forzata nella voce della Guerriera spaventò Josh più di
un grido. — Prudenti, ora; qui c’è un varco. Siamo alla fine di una grossa radice, a meno di trenta
metri dal corpo principale dell’albero. Nettamente lontano dal cuore della battaglia — aggiunse.
Josh girò l’angolo e scorse Scatty inondata dai raggi del primo mattino, che penetravano da una
cortina di tralci proprio di fronte a lei. La giovane si voltò a guardarlo; la luce del sole le bagnava
d’oro i capelli e risplendeva sulle lame delle sue spade e, in quel momento, Josh la vide come l’antica
e terrificante Guerriera che era. Nonostante il clamore della battaglia, il rombo che sembrava vibrare
nelle profondità della terra sommergeva ogni altro rumore. — Cos’è questo suono? — chiese.
— Sono le grida dell’Yggdrasill — rispose Scatty cupa. — I nemici di Ecate hanno dato fuoco
all’Albero del Mondo.
— Ma perché? — Trovava orripilante soltanto l’idea: quell’antico albero vivente non aveva fatto
del male a nessuno. Ma ciò gli fece capire quale scarsa considerazione gli Oscuri Signori avessero per
la vita.
— I poteri di Ecate sono inestricabilmente legati a quelli dell’albero; è stata la sua magia a portarlo
in vita e l’Yggdrasill contraccambia mantenendo forte la dea con la propria energia vitale. Credono
che distruggendo l’uno, distruggeranno anche l’altra.
Flamel raggiunse Josh in cima alle scale, con il fiato grosso. Il volto sottile dell’Alchimista era
paonazzo e imperlato di sudore. — Ah, la vecchiaia — esclamò, con un sorriso amaro. Guardò Scatty.
— Qual è il piano?
— Semplice — cominciò la Guerriera. — Ce ne andiamo via di qui il più in fretta possibile. — Poi
girò la spada che teneva nella mano sinistra, in modo che la lama aderisse al braccio. Indicò qualcosa
con l’elsa. Flamel e Josh, accanto a lei, scrutarono attraverso la cortina di tralci. Sul lato opposto del
campo, il dottor John Dee si muoveva con cautela nel sottobosco. La corta spada dalla lama nera che
teneva con entrambe le mani splendette, emanando bagliori di una fredda luce azzurrina.
— Dee — disse Flamel. — Chi l’avrebbe mai detto che un giorno sarei stato felice di vederlo?
Questa è davvero una buona notizia.
Scatty e Josh lo guardarono sorpresi.
— Dee è un uomo… il che significa che è arrivato qui con mezzi di trasporto umani — spiegò
l’Alchimista.
— Una macchina — concordò Scatty con un cenno della testa — che probabilmente avrà lasciato
all’ingresso del Regno d’Ombra.
Josh stava per chiedere come faceva a saperlo, quando si rese conto di conoscere la risposta. —
Perché sapeva che se l’avesse condotta qui, la batteria si sarebbe scaricata.
— Guardate — mormorò Scatty.
Osservarono uno degli enormi Torc Allta emergere dall’erba alle spalle di Dee. Sebbene fosse
ancora in forma animale, la creatura si mise in posizione eretta poggiando sulle zampe posteriori,
finché non superò quasi di tre volte l’altezza dell’uomo.
— Lo ucciderà — mormorò Josh.
La spada di Dee divampò d’azzurro, e il piccolo uomo si scagliò all’indietro, verso il Torc Allta,
compiendo con la lama un breve movimento ad arco. Lo scatto improvviso sembrò sorprendere la
creatura, che parò senza problemi il colpo… e si immobilizzò. Laddove la lama aveva toccato la
carne, una sottile guaina di ghiaccio cominciava ad avvolgere la zampa dell’animale, scintillando di
minuscoli cristalli alla luce del primo mattino. Il ghiaccio rivestì il petto del Torc Allta, scese lungo le
massicce zampe posteriori, salì fino alle spalle e alla testa. Nel giro di pochi attimi la creatura era
racchiusa in un gelido blocco venato d’azzurro. Dee si alzò da terra reggendosi alla spada, si spolverò
la giacca e poi, di colpo, batté ripetutamente sul ghiaccio con l’elsa. Il blocco s’infranse in milioni di
tintinnanti pezzetti, ciascuno dei quali conteneva un frammento del Torc Allta.
— Una delle spade elementali — commentò Scatty, cupa. — Excalibur, la Spada di Ghiaccio.
Pensavo fosse andata perduta secoli fa, dopo che fu gettata nel lago alla morte di Artorius.
— A quanto pare il dottore l’ha trovata — mormorò Flamel.
Josh scoprì di non sorprendersi affatto alla notizia che re Artù fosse realmente esistito e si ritrovò a
chiedersi quali altre figure leggendarie fossero reali.
Rimasero a guardare mentre Dee si rituffava nel sottobosco, diretto all’altro lato dell’enorme casa-
albero, dove il frastuono della battaglia era più forte. L’odore del fumo adesso era più intenso. Aspro e
penetrante, si avvolgeva e si contorceva attorno all’albero, portando con sé le esalazioni di luoghi
antichi e spezie dimenticate. Il legno crepitava e scoppiettava, la linfa ribolliva e gorgogliava e il
rombo, basso e profondo ormai, era così forte da far vibrare tutta la pianta.
— Io aprirò la strada — disse Scatty, oltrepassando i tralci in un lampo. Quasi all’istante, tre
uomini-uccello le furono addosso in picchiata, seguiti da un paio di guerrieri-gatto che correvano a
quattro zampe.
— Dobbiamo aiutarla! — esclamò Josh disperato, anche se non aveva idea di cosa fare.
— È Scathach; non ha bisogno del nostro aiuto — disse Flamel. — Per prima cosa li allontanerà da
noi…
Scathach si tuffò nel sottobosco, con una corsa leggera: i pesanti anfibi non producevano alcun
rumore sulla terra soffice. Gli uccelli e i gatti la seguirono.
— Troverà il punto adatto per coprirsi le spalle, in modo che possano aggredirla solo da un lato,
quindi si girerà ad affrontarli.
Josh vide Scatty dare la schiena a una vecchia quercia corrosa e voltarsi a fronteggiare i nemici. Le
creature feline furono le prime a raggiungerla, attaccandola con gli artigli, ma le spade di Scathach
furono più veloci, e scoccarono scintille. Una creatura-uccello le piombò addosso, con le enormi ali
che sbattevano con violenza e gli artigli spiegati. Facendo leva sulla spada sinistra conficcata nella
terra, Scathach si sollevò, afferrò il volatile per la zampa e lo strappò all’aria, gettandolo fra i gatti
inferociti. L’uccello istintivamente si scagliò contro i gatti, e di colpo gli animali si misero a
combattere fra di loro. Altri due uccelli piombarono subito sui felini, con uno schiamazzo terribile.
Scatty estrasse la spada da terra e la usò per dare un segnale a Flamel e Josh.
— Vai. Raggiungi Scathach — disse l’Alchimista.
Josh si girò a guardarlo. — E lei?
— Io aspetterò un attimo, poi ti seguirò per proteggerti.
E anche se sapeva che Flamel li aveva messi in terribile pericolo, non aveva dubbi che gli avrebbe
coperto le spalle. Annuì, quindi si tuffò oltre la cortina di tralci e corse, con la sorella ben stretta al
petto. Lontano dal riparo dell’albero, il rumore della battaglia era incredibile, ma Josh si concentrò sui
propri passi, badando che non ci fossero radici o altre irregolarità del terreno in cui inciampare. Fra le
sue braccia, Sophie era irrequieta; sbatté le palpebre e cominciò a muoversi.
Josh strinse la presa. — Buona — la ammonì, anche se non era sicuro che potesse sentirlo. Cambiò
direzione, spostandosi sulla destra per allontanarsi dalla zuffa ancora in corso, ma non poté fare a
meno di notare che, quando erano ferite gravemente, le creature tornavano alla loro forma originaria.
Due gatti dall’aria molto confusa e tre corvi malconci si sollevarono da terra e lo guardarono passare.
Josh sentiva Flamel che correva alle sue spalle, e l’odore della menta si sprigionava nell’aria del
mattino mentre l’Alchimista operava la sua magia. Altri dieci o quindici passi e sarebbe stato al
fianco di Scatty, al sicuro. Ma non fece in tempo a raggiungerla che vide gli occhi della Guerriera
sgranarsi d’orrore. Si voltò per guardare e vide una donna alta con testa e artigli felini, vestita in abiti
dell’Antico Egitto, che con un balzo di almeno sei metri atterrava sulla schiena di Nicholas Flamel,
gettandolo a terra. Vibrando un artiglio affilato come una falce, la creatura troncò di netto il bastone
del mago, quindi gettò indietro la testa ed emise un lungo soffio felino, trionfante.
CAPITOLO VENTISETTE
Perenelle Flamel venne prelevata dalla sua piccola cella sotterranea da quattro guardie basse, vestite
interamente di pelle nera, la testa e il volto coperti con dei caschi da motociclista. Non era del tutto
sicura che fossero umani; di certo però non percepiva tracce di aure, battito cardiaco o fiato. Quando
le si fecero attorno, colse un vaghissimo odore di qualcosa di vecchio e di morto, simile alle uova
marce e alla frutta andata a male. Pensò che forse erano simulacri, creature artificiali allevate in
recipienti di liquido putrido e gorgogliante. Perenelle sapeva che Dee aveva sempre accarezzato l’idea
di crearsi un proprio seguito personale, e che aveva dedicato decenni a sperimentare Golem, simulacri
e omuncoli.
Senza dire una parola, e muovendosi a scatti, le quattro figure la scortarono fuori dalla cella per un
corridoio lungo e stretto, illuminato da una luce fioca. Perenelle camminava volutamente molto piano,
prendendosi il tempo di raccogliere le forze e assorbire impressioni del luogo. Jefferson Miller, il
fantasma della guardia di sicurezza, le aveva detto che si trovava nello scantinato della Enoch
Enterprises, a ovest della Telegraph Hill, vicinissimo alla famosa Coit Tower. Sapeva di trovarsi molti
metri sottoterra: le pareti erano segnate dall’umidità e l’aria era così fredda che il fiato le usciva di
bocca in candide nuvolette di vapore. Fuori dalla cella, lontano dagli incantesimi di protezione e di
guardia, cominciavano a tornarle un po’ di forze. Perenelle cercò disperatamente di pensare a un
incantesimo utile contro le guardie, ma il contatto con il fantasma del signor Miller l’aveva lasciata
esausta e il forte mal di testa che le faceva pulsare le tempie le impediva di concentrarsi.
Poi, d’un tratto, una sagoma tremolante le comparve davanti agli occhi. Il suo fiato, una nebbiolina
candida nell’aria gelida, aveva per un attimo assunto il profilo di un volto.
Perenelle scrutò le guardie accanto a lei e vide che non si erano accorte di nulla. Inspirò a pieni
polmoni e trattenne il fiato, lo riscaldò con il calore del corpo ed espirò, molto, molto lentamente.
Nella nebbia prese forma un volto: quello di Jefferson Miller.
Perenelle aggrottò la fronte; il fantasma doveva essersene già andato. A meno che… a meno che
non fosse tornato a dirle qualcosa.
“Nicholas!”
All’istante, capì che suo marito era in pericolo. Perenelle inspirò di nuovo a pieni polmoni e
trattenne il fiato. Si concentrò intensamente su Nicholas, inquadrandolo con l’occhio della mente: il
volto scarno, l’espressione addolorata, gli occhi pallidi e i corti capelli rasati. Sorrise, ricordando
quando il marito, da giovane, aveva i capelli folti e scuri più lunghi dei suoi. Li portava sempre legati
sulla nuca con un nastro di velluto viola. Espirò e la nuvoletta di vapore candido assunse subito le
sembianze di Jefferson Miller. Perenelle guardò il fantasma negli occhi, e lì, riflesso nelle sue pupille,
vide il marito intrappolato sotto gli artigli della dea dalla testa felina.
Si sentì avvampare di rabbia e terrore e, di colpo, il mal di testa e la stanchezza svanirono. I lunghi
capelli intrecciati di fili d’argento si sollevarono come mossi da una forte brezza, emanando
scoppiettanti scintille bianco-azzurrine. L’aura di ghiaccio la avvolse come una seconda pelle. Le
guardie si resero conto troppo tardi che qualcosa non andava. Fecero per agguantarla, ma nel momento
stesso in cui le loro mani toccarono i bordi luccicanti dell’aura, vennero sbalzati lontano, come
folgorati da una potente scossa elettrica. Uno di loro tentò di avventarsi contro di lei, ma prima che
riuscisse a sfiorarla con un dito, l’aura lo catturò, scaraventandolo sul muro con una violenza tale da
fargli volare via il casco. Scivolò giù per la parete, braccia e gambe ritorte in posizioni assurde.
Guardandolo in faccia, Perenelle capì che le creature che la stavano scortando erano davvero
simulacri. Quello, in particolare, era incompiuto: la testa e il volto erano fatti solo di carne liscia,
senza capelli, occhi, naso, bocca e orecchie.
La donna si mise a correre lungo il corridoio, fermandosi solo quando raggiunse una pozza di
liquido oleoso sul pavimento. Qui si accovacciò, si concentrò intensamente e sfiorò l’acqua torbida
con l’indice e il mignolo di entrambe le mani. Al contatto con la sua aura candida il liquido sfrigolò
fumando brevemente, poi, una volta tornato limpido, Perenelle si ritrovò a osservare la stessa scena
intravista negli occhi del fantasma. Suo marito giaceva sotto le grinfie di Bastet. Dietro, Scatty
cercava di respingere l’attacco dei gatti e degli uccelli, mentre Josh era addossato a un albero e
colpiva qualunque cosa si avvicinasse usando un ramo a mo’ di mazza da baseball. Sophie, distesa ai
suoi piedi, si muoveva lentamente, battendo le palpebre confusa.
Perenelle alzò gli occhi e scrutò il corridoio in entrambe le direzioni. Sentì dei rumori lontani, dei
passi sulla pietra, e capì che si stavano avvicinando altre guardie. Poteva correre a nascondersi o
decidere di affrontarle; le era tornata un po’ di forza. Ma così facendo non avrebbe aiutato Nicholas e i
ragazzi.
Tornò a guardare la pozza. In lontananza, vide Ecate che resisteva all’attacco combinato della
Morrigan, degli uccelli e dei gatti di Bastet. Scorse anche Dee che si aggirava alle spalle della dea, con
la spada che risplendeva di un azzurro vivido, velenoso, mentre dietro di loro l’Yggdrasill divampava
di fiamme rosse e verdi.
Le restava una sola cosa da fare. Una cosa disperata e pericolosa, che in caso di successo l’avrebbe
lasciata stremata e totalmente inerme. Le creature di Dee l’avrebbero presa e portata via senza il
minimo sforzo.
Perenelle non ci pensò due volte.
Accovacciandosi sopra la pozza oleosa, posò la mano destra sulla sinistra, il palmo rivolto in alto, e
si concentrò con tutte le sue forze. L’aura di Perenelle tremò e si mosse, fluì lungo le sue braccia
come fumo trasportato dalla corrente e cominciò a raccogliersi nel palmo della sua mano, scorrendo
come liquido fra le insenature e lungo le linee della carne. Una microscopica scintilla di luce bianco-
argentata comparve fra le pieghe della sua pelle. Si solidificò in una sfera perfetta e cominciò a
vorticare e a ingrandirsi, mentre i candidi rivoli dell’aura fluivano più speditamente lungo le sue
braccia. In un attimo la sfera raggiunse le dimensioni di un uovo. Allora Perenelle rovesciò il palmo
della mano e gettò il proiettile di pura energia aurica nell’acqua. Pronunciò due parole.
— Sophie. Svegliati!
CAPITOLO VENTOTTO
— Sophie. Svegliati!
Gli occhi di Sophie Newman si spalancarono di colpo. Poi si chiusero di nuovo, ben stretti, e la
ragazza si schiacciò le orecchie con le mani. Le luci erano intense, accecanti, i suoni della battaglia
incredibilmente chiari e distinti.
— Sophie. Svegliati!
Lo shock di udire di nuovo quella voce la costrinse a riaprire gli occhi e guardarsi attorno. Riusciva
a sentire Perenelle Flamel con la massima chiarezza, come se fosse lì accanto a lei, solo che non c’era.
Sophie era distesa, addossata contro la corteccia ruvida di una quercia, e al suo fianco c’era Josh che
scacciava a disperati colpi di bastone delle creature terrificanti.
Sophie si alzò faticosamente in piedi, reggendosi all’albero. L’ultima cosa che ricordava era l’odore
aspro del legno verde in fiamme. Ricordava anche di aver gridato “Fuoco!”, ma il resto era una serie
di immagini confuse: una galleria stretta, creature con teste di uccello e crani felini… forse soltanto
sogni.
Ma quando gli occhi si riadattarono alla luce e la ragazza si guardò attorno, capì che non si era
affatto trattato di sogni.
Erano completamente circondati da uccelli e gatti, a centinaia. Alcuni umani dalla testa felina erano
appostati in mezzo all’erba alta e cercavano di avvicinarsi di soppiatto, acquattati sulle zampe,
soffiando e mostrando gli artigli. Uomini-uccello si insinuavano fra i rami della quercia, cercando il
punto giusto per piombare in picchiata, mentre altri attaccavano da terra, tentando di colpire Josh con
il loro becco malefico.
Dall’altra parte della radura, l’Yggdrasill bruciava. L’antico legno scoppiettava e crepitava, mentre
gocce di linfa arroventata schizzavano nell’aria pura come fuochi d’artificio. Ma perfino mentre il
legno carbonizzato si staccava dall’albero, spuntavano nuovi virgulti, freschi e verdissimi, a riparare il
danno. Sophie percepiva anche un altro suono, e capì che proveniva anch’esso dall’Yggdrasill. Adesso,
con l’incredibile udito che aveva appena scoperto di avere, pensò di riuscire a decifrare frasi e parole,
pezzi di canzoni e frammenti di poesie in mezzo alle grida agonizzanti dell’albero. In lontananza,
scorgeva Ecate che cercava disperatamente di estinguere le fiamme, combattendo al tempo stesso la
Morrigan, i gatti e gli uccelli. Sophie notò anche che non c’erano più nathair in cielo e che i Torc Allta
rimasti a guardia della loro antica padrona erano decimati.
Più vicino, Sophie vide i vivaci capelli rossi di Scatty.

Anche lei era circondata da dozzine di uccelli e gatti. La Guerriera si muoveva in quella che sembrava
un’intricata danza, e le spade gemelle respingevano le rumorose creature saettando veloci. Scatty
cercava di aprirsi un varco per arrivare nel punto in cui Nicholas Flamel, con la faccia a terra, giaceva
sotto le grinfie della creatura più terrificante che Sophie avesse mai visto: Bastet, la Dea Gatto. Con la
sua vista incredibilmente acuta, la ragazza distinse ogni singolo baffo del volto felino, e scorse perfino
una gocciolina di saliva raccogliersi su un dente affilato e cadere giù, addosso alla sua preda.
Flamel si accorse che Sophie li guardava. Cercò di raccogliere il fiato, ma era difficile con la
pesante creatura che lo schiacciava sulla schiena. — Scappa — sussurrò. — Scappa.
— Sophie, ho pochissimo tempo… — la voce di Perenelle riecheggiò nella testa della ragazza,
svegliandola del tutto. — Ecco quello che devi fare. Devi lasciarmi parlare attraverso di te…

Josh si accorse che la sorella si stava rimettendo in piedi, vacillando, le mani premute sulle orecchie,
gli occhi stretti. La vide muovere le labbra, come se parlasse da sola. Continuando a tenerla d’occhio,
inflisse dei colpi a un paio di umani con la testa da cornacchia che provarono a farsi avanti. Il grosso
bastone prese una delle creature in pieno becco, facendola arretrare confusa e sbigottita. L’altra
continuava a girargli intorno, e Josh capì che non era lui il bersaglio: stava cercando di arrivare a
Sophie. Si girò e sferrò un colpo, ma proprio in quel momento, un uomo alto e snello, con la testa di
un gatto tigrato, gli balzò contro. Josh cercò di difendersi con il bastone, ma perse l’equilibrio;
l’uomo-gatto schivò il colpo e si scagliò contro di lui, le fauci spalancate, gli artigli tesi. Con un
sapore amaro in gola, Josh ammise con se stesso che la situazione era disperata. Doveva raggiungere
Sophie, cercare di proteggerla… e, in quell’istante, capì che non ce l’avrebbe fatta. Chiuse gli occhi
all’ultimo, quando la feroce creatura felina era a un palmo dal suo petto, aspettandosi di sentire la fitta
degli artigli, il verso stridulo sulla faccia… ma udì soltanto delle fusa tenere. Batté le palpebre e aprì
gli occhi: fra le sue braccia c’era un soffice gattino.
Sophie! Si girò di scatto… e rimase immobile, sgomento.
L’aura d’argento puro di Sophie era divampata attorno al suo corpo. In alcuni punti era così densa
da riflettere perfino la luce del sole, simile a un’armatura medievale. Scintille d’argento le
crepitavano fra i capelli e colavano come un liquido dalle sue dita.
— Sophie? — bisbigliò Josh, euforico. Sua sorella stava bene.
Poi Sophie si voltò lentamente a guardarlo e Josh sperimentò una scioccante, sconvolgente
rivelazione: lei non lo riconosceva.
L’uomo-uccello che si stava preparando ad attaccarla si scagliò in avanti, il becco che mirava agli
occhi. Sophie scoccò le dita: minuscole gocce d’argento si staccarono dalle sue mani e caddero sulla
creatura, che subito si piegò contorcendosi e trasformandosi in un tordo alquanto disorientato.
Sophie superò il fratello e avanzò verso Bastet.
— Non un altro passo, ragazzina — ordinò Bastet, alzando una mano artigliata.
Sophie spalancò gli occhi e sorrise e, per la prima volta nella sua vita, Josh sentì di avere paura di
sua sorella. Sapeva che quella non era Sophie; quella creatura terrificante non poteva essere sua
sorella.
Quando la ragazza parlò, la sua voce era un gracidio rauco. — Tu non hai idea di ciò che ti posso
fare.
Gli enormi occhi felini di Bastet si sgranarono per la sorpresa. — Tu non puoi farmi niente,
ragazzina.
— Non sono una ragazzina. Per quanto tu sia antica, non hai mai incontrato niente di simile a me.
Io possiedo il potere grezzo che è in grado di annientare la tua magia. Posso usarlo per far tornare gli
uccelli e i gatti alla loro forma naturale. — La testa di Sophie si piegò di lato, un gesto che Josh
conosceva bene; sua sorella lo faceva quando ascoltava attentamente qualcuno. Poi tese le braccia
verso l’Oscura Signora. — Cosa credi che ti accadrebbe se ti toccassi?
Bastet sibilò un ordine, e un trio di enormi uomini-gatto partì all’attacco della ragazza. Sophie
sollevò un braccio e una lunga, sinuosa spirale d’energia argentata, simile a una frusta, le sgorgò dalla
mano. La usò per toccare tutte e tre le creature, facendola crepitare sulle zampe e sulle teste di
ciascuna, ed esse si bloccarono e caddero a terra, rotolandosi e dimenandosi. In un istante tornarono a
essere gatti comuni: due mici a pelo corto e un persiano arruffato che balzarono sulle zampe e
sfrecciarono via con un miagolio disperato.
Sophie roteò la frusta in alto, sopra la testa, scagliando gocce di liquido d’argento in ogni direzione.
— Lascia che ti dia un assaggio di ciò che so fare… — Mentre la frusta d’argento schioccava e
crepitava, Sophie avanzò di un altro passo.

Scatty scoprì che tre dei suoi avversari erano diventati un tordo migratore, un ciuffolotto messicano e
un passero cantore, mentre l’uomo-gatto dall’aria esotica che prima la fronteggiava adesso si
contorceva fino a diventare uno sconcertato siamese.
Sophie scoccò ripetutamente la frusta, scacciando gli aggressori e schizzando gocce d’argento
ovunque; sempre più uomini-gatto e uccelli tornavano alla loro forma naturale. — Allontanati da
Nicholas — disse, le labbra che non si muovevano in sincronia con le parole. — O scopriremo qual è
la tua vera forma, Bastet, nonché Mafdet, Sekhmet e Menhit.
Bastet si scostò lentamente da Flamel, ergendosi in tutta la sua altezza. Gli occhi felini erano
sbarrati, la bocca serrata. — È passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno mi ha chiamato
con questi nomi. Chi sei tu?… di certo non una moderna figlia di homines!
La bocca di Sophie si mosse, seguita solo qualche attimo dopo dalle parole. — Attenta a questa
figlia di homines, Bastet. È il tuo destino.
Bastet rizzò il pelo, e le braccia nude si incresparono per la pelle d’oca. Lentamente arretrò di
qualche passo, quindi si girò e corse via, verso l’Yggdrasill. Per la prima volta in tutti i millenni della
sua vita, aveva paura.
Nicholas barcollando si alzò e raggiunse Sophie, Josh e Scatty. Si avvicinò alla ragazza. —
Perenelle? — sussurrò.
Sophie si volse verso di lui, gli occhi assenti e inespressivi. La bocca si mosse e poi, come in un
film doppiato male, giunsero le parole. — Sono a San Francisco, prigioniera nel seminterrato della
Enoch Enterprises. Sono sana e salva. Porta i ragazzi a sud, Nicholas. — Ci fu un lungo momento di
silenzio; poi le parole giunsero più veloci e l’aura argentata della ragazza cominciò a svanire, gli
occhi a chiudersi. — Portali dalla Strega.
CAPITOLO VENTINOVE
Il dottor John Dee cominciava a perdere la calma. Stava andando tutto per il verso sbagliato e adesso,
con ogni probabilità, gli toccava pure prendere parte attiva nella battaglia.
Flamel, Scatty e i gemelli erano riusciti a fuggire dall’interno dell’Yggdrasill e stavano
combattendo dall’altra parte della radura, a meno di duecento metri di distanza, ma lui non poteva
raggiungerli: avrebbe dovuto attraversare il campo di battaglia. I nathair erano già stati sconfitti.
All’inizio, i serpenti alati avevano gettato gatti e uccelli nel caos e nella confusione più totale, ma
quando non erano in volo erano goffi e pesanti, sicché la maggior parte di essi era stata uccisa una
volta a terra. Il massiccio esercito dei Torc Allta era stato decimato e, nel giro di un’ora, prevedeva il
dottore, non ci sarebbero più stati cinghiali mannari in Nord America.
Ma non poteva permettersi di aspettare tanto. Doveva raggiungere subito Flamel. Doveva
recuperare le pagine del Codice prima possibile.
Nascosto dietro una macchia di cespugli, Dee osservò le Antiche Signore. Ecate era all’ingresso
della casaalbero, circondata dalle sue ultime guardie personali Torc Allta. Mentre i cinghiali
combattevano contro gatti e uccelli, affrontava da sola le forze combinate della Morrigan e di Bastet.
Le dee ignoravano le bestie semi-umane che combattevano attorno a loro. Un osservatore
sprovveduto avrebbe detto che le tre Antiche Signore si stavano semplicemente fissando negli occhi.
Dee, tuttavia, si accorse delle nuvole scure, quasi viola, che si raccoglievano solo sopra la chioma
dell’Yggdrasill; vide come i delicati fiori bianchi e dorati sparsi attorno all’enorme albero
appassivano e morivano, mutandosi in poltiglia nera; e notò che un’orribile scia di muffa era già
comparsa sul sentiero di pietra lucida. Il dottore sorrise; non doveva volerci più molto. Quanto ancora
avrebbe saputo resistere Ecate contro ben due Antiche Signore, zia e nipote?
Ma la dea non mostrava segni di cedimento.
E proprio allora, anzi, passò al contrattacco.
Anche se l’aria, ormai fetida per le esalazioni prodotte dall’albero in fiamme, era immobile, Dee
assisté allo spettacolo di un vento invisibile e impercettibile che sferzava il mantello della Morrigan e
investiva l’imponente Bastet, costringendola a chinare la testa e a piegarsi in avanti. I disegni sulla
veste metallica di Ecate turbinarono con una rapidità accecante, confondendo e distorcendo i colori.
Con crescente timore, vide un’ombra scura fluire tra l’erba appassita e osservò uno sciame di
piccole mosche nere posarsi sul pelo raso di Bastet e penetrarle nelle orecchie e nel naso. La Dea
Gatto emise un lungo miagolio lamentoso e arretrò, strofinandosi furiosamente il viso. Cadde a terra,
rotolandosi nell’erba alta, cercando di liberarsi dagli insetti. Ma continuavano ad arrivarne, sempre di
più, e alle mosche si univano anche formiche rosse e ragni violino, che sbucarono dall’erba per
sciamare sul corpo della dea. Accucciata a quattro zampe, Bastet gettò indietro la testa ed emise un
lungo grido agonizzante, poi prese a correre in mezzo al prato, rotolandosi e strisciando nell’erba,
tuffandosi in un piccolo stagno nel tentativo di liberarsi. Era giunta quasi a metà della radura quando
la fitta nube di insetti la abbandonò. Dopo essersi ripulita furiosamente il viso e le braccia,
procurandosi dei lunghi graffi sulla pelle, la dea si rialzò e fece per tornare all’Yggdrasill. Ma lo
sciame di mosche, ora più fitto, si riformò subito a sbarrarle la strada.
In quel momento, Dee pensò che forse – ma soltanto forse – Ecate poteva vincere. Dividere Bastet e
la Morrigan era stato un colpo da maestro; fare in modo che Bastet non riuscisse a tornare indietro era
genialità pura e semplice.
Rendendosi conto di non poter tornare all’Yggdrasill, Bastet soffiò la sua rabbia, quindi corse verso
il punto in cui Flamel, Scatty e i gemelli stavano cercando di difendersi. Dee la vide balzare da una
distanza incredibile e gettare l’Alchimista a terra. La scena gli procurò almeno una certa
soddisfazione e si concesse un breve sorriso, che svanì subito dopo: era ancora intrappolato dall’altra
parte della radura. Come avrebbe potuto raggiungere Ecate?
Anche se l’Yggdrasill stava ardendo violentemente, con intere sezioni in fiamme, foglie infuocate e
pezzi di legno annerito che precipitavano a terra e strie di resina appiccicosa e bollente che
esplodevano al crollo dei rami, i poteri di Ecate sembravano inalterati. Dee digrignò i denti per la
frustrazione: tutte le sue ricerche dimostravano che la dea aveva dato vita all’albero infondendogli un
po’ della sua forza. In cambio, l’albero rinnovava e nutriva i suoi poteri. Dare fuoco all’Yggdrasill era
stata una sua idea. Aveva supposto che mentre l’albero bruciava, Ecate si sarebbe indebolita. Ma si
stava verificando il contrario: l’incendio era servito solo a fare infuriare la dea e la rabbia la rendeva
ancora più micidiale. Quando vide le labbra di Ecate che si piegavano in quello che poteva sembrare
un sorriso e la Morrigan vacillare e arretrare, Dee cominciò a rendersi conto che lì, nel suo Regno
d’Ombra, la Dea dai Tre Volti era troppo potente per loro.
Doveva pensarci lui.
Tenendosi al riparo della vegetazione, si mosse attorno al tronco dell’enorme Yggdrasill. Fu
costretto ad accovacciarsi quando un cinghiale Torc Allta precipitò fra gli arbusti di fronte, con
almeno una dozzina di creature-gatto e anche il doppio di uomini-uccello avventati sulla groppa.
Sbucò fuori dall’altra parte dell’albero, sul lato opposto a quello in cui Ecate e la Morrigan stavano
combattendo. Alla sua destra, vide che stava succedendo qualcosa nel gruppo di Flamel; c’erano
uccelli e gatti che fuggivano in ogni direzione… e poi si rese conto che erano uccelli e gatti normali,
non creature semi-umane. Gli incantesimi di metamorfosi della Morrigan e di Bastet stavano fallendo:
possibile che Ecate fosse così potente? Doveva subito porre fine a tutto questo.
Il dottor John Dee sollevò la spada in una mano. Una luce azzurro sporco serpeggiò lungo tutta la
lama e, per un istante, l’antica arma di pietra vibrò al tocco di una brezza invisibile. I serpenti
intrecciati che ornavano l’elsa si animarono, contorcendosi e sibilando.
Stringendo forte l’elsa, Dee premette la punta della lama contro la corteccia corrosa dell’antico
albero… e affondò.
Excalibur scivolò agilmente nel legno, affondando fino all’elsa senza incontrare resistenza. Per un
lungo momento non accadde nulla, poi l’Yggdrasill liberò un lungo gemito, simile al verso di un
animale ferito: un rombo profondo, che crebbe ben presto in una sorta di pianto stridulo e acuto.
Laddove l’elsa della spada sporgeva dalla corteccia, comparve una macchia azzurra. Come inchiostro
grondante, colò lungo il tronco e filtrò nella terra; dopodiché la luce untuosa e bluastra si insinuò fra
le venature e le crepe del legno. Le grida dell’Yggdrasill divennero sempre più acute, insopportabili. I
Torc Allta rimasti crollarono a terra, contorcendosi dal dolore e premendosi le zampe sulle orecchie;
gli uomini-uccello cominciarono a volare in tondo confusi, mentre le creature feline si misero a
soffiare e a miagolare.
La macchia azzurra si diffuse tutt’intorno all’albero, rivestendolo di un sottile velo di luccicanti
cristalli di ghiaccio. Arcobaleni nero-bluastri e verde-violacei brillarono nell’aria.
La chiazza oleosa dilagò verso l’alto, iniettandosi lungo il tronco e su per i rami, trasformando tutto
ciò che toccava in cristalli sfaccettati. Le fiamme gelarono, colte nell’attimo di disegnare intricati
motivi di fuoco nell’aria, quindi si incrinarono come la superficie ghiacciata di uno stagno e infine si
dissolsero in una polvere luccicante. Non appena la macchia azzurra arrivò a lambire la chioma, le
foglie presero a indurirsi e a staccarsi dai rami. Non cadevano a terra leggere: piombavano giù di peso,
per infrangersi con un sonoro tintinnio; mentre i rami, ormai ridotti a solidi pezzi di ghiaccio, si
strappavano violentemente dal tronco e precipitavano a terra. Dee si scostò per non finire trafitto da
un pezzo di legno ghiacciato lungo quasi un metro. Afferrando l’elsa di Excalibur, estrasse la lama di
pietra dall’antico albero e corse a ripararsi.
L’Yggdrasill stava morendo. Enormi porzioni di corteccia si staccarono come iceberg da una calotta
glaciale, e schiantarono a terra imbrattando lo splendido paesaggio del Regno d’Ombra di grossi
frammenti affilati di ghiaccio.
Mantenendosi a distanza di sicurezza e gettando un occhio ai rami che continuavano a cadere, Dee
corse attorno all’albero; doveva vedere Ecate.
Anche la Dea dai Tre Volti stava morendo.
Immobile, in piedi di fronte alle rovine dell’Yggdrasill, Ecate passava dall’una all’altra delle sue
sembianze – giovane, matura e vecchia – in un battito di ciglia. La metamorfosi era così rapida che la
carne non aveva il tempo di adattarsi e la dea rimaneva imbrigliata fra le diverse fasi della
trasformazione: occhi giovani su un volto anziano, la testa di una ragazza sul corpo di una donna, il
corpo di una donna con le braccia di una bambina. La veste della dea aveva perso i suoi colori
cangianti ed era ormai dello stesso nero compatto della sua pelle.
Dee si portò al fianco della Morrigan e insieme rimasero a guardare in silenzio. Poi Bastet li
raggiunse, e tutti e tre osservarono gli ultimi attimi di vita di Ecate e dell’Yggdrasill.
L’Albero del Mondo ormai era quasi interamente ricoperto di uno strato di ghiaccio azzurro. Le
radici gelate erano esplose dal sottosuolo, rompendo la perfetta armonia della superficie, lasciando
solchi spessi e profondi. Grossi fori erano apparsi sul tronco massiccio, svelando le stanze circolari al
suo interno, anch’esse deturpate e imbrattate di ghiaccio.
La trasformazione continua di Ecate rallentò. I cambiamenti impiegavano più tempo per
materializzarsi, perché adesso la macchia azzurra stava salendo lentamente anche su per il corpo della
dea, indurendo la pelle, mutandola in cristalli di ghiaccio.
La Morrigan lanciò un’occhiata alla lama che Dee teneva in mano, ma scansò subito lo sguardo. —
Perfino dopo tutti questi anni al nostro servizio, dottor Dee, riesci sempre a sorprenderci — disse
piano. — Non sapevo che avessi la Spada di Ghiaccio.
— Sono felice di averla portata — esclamò Dee, senza risponderle direttamente. — A quanto pare i
poteri di Ecate erano più forti di quanto ci aspettassimo. Almeno il mio sospetto, e cioè che la sua
forza dipendesse dall’albero, era giusto.
L’Yggdrasill era ormai ridotto a un solido blocco di ghiaccio. La stessa Ecate era totalmente
ricoperta da un velo ghiacciato, anche se oltre i cristalli azzurri, i suoi occhi di burro erano ancora
attivi e vivaci. La cima dell’albero cominciò a sciogliersi e dell’acqua sporca iniziò a scorrere lungo
la corteccia, incidendovi dei solchi profondi.
— Quando mi sono reso conto che aveva il potere di annullare i vostri incantesimi, ho capito di
dover fare qualcosa — disse Dee. — Ho visto che i gatti e gli uccelli stavano tornando alla loro forma
naturale.
— Non era opera di Ecate — ringhiò Bastet di colpo, l’accento marcato, la voce animalesca.
La Morrigan e Dee si girarono a guardare la Dea Gatto. La creatura alzò un artiglio felino e indicò
dall’altra parte della radura. — È stata la ragazza. Qualcuno parlava attraverso di lei, qualcuno che
conosceva i miei veri nomi, qualcuno che ha usato l’aura della ragazza per brandire una frusta di
energia pura: ecco cos’ha invertito l’effetto degli incantesimi.
Dee guardò nel punto in cui prima aveva visto Flamel, Scatty e i gemelli riuniti attorno alla quercia.
Ma erano svaniti. Stava per girarsi e ordinare ai gatti e agli uccelli rimasti di trovarli, quando vide
Sinuhe che saliva verso di loro, vacillando. L’uomo anziano era sporco di fango e di sangue, anche se
non sembrava si trattasse del suo, e aveva perso una delle sue spade ricurve di bronzo. La seconda era
spezzata a metà.
— Flamel e gli altri sono fuggiti — disse col fiato mozzo. — Li ho seguiti fuori dal Regno
d’Ombra. Stanno rubando la nostra auto — aggiunse indignato.
Urlando la sua rabbia, il dottor John Dee si girò e scagliò Excalibur contro l’Yggdrasill. La lama di
pietra colpì l’antico Albero del Mondo, che risuonò con il rintocco solenne di una grande campana. La
nota solitaria, alta e serena, vibrò sospesa nell’aria… e l’Yggdrasill cominciò a spaccarsi. Lunghi
squarci e profonde fratture si aprirono per tutta la sua altezza, allargandosi e diffondendosi a mano a
mano che salivano verso l’alto. Nel giro di pochi attimi l’intero albero fu ricoperto di zigzaganti
crepacci. Poi l’Yggdrasill crollò, infrangendosi sulla statua di ghiaccio di Ecate e riducendola in
polvere.
CAPITOLO TRENTA
Josh Newman spalancò lo sportello del suv nero con uno strattone e si sentì assalire da un’ondata di
sollievo. Le chiavi erano nel quadro. Tirò anche lo sportello posteriore e lo tenne aperto, mentre
Nicholas Flamel raggiungeva la macchina tenendo in braccio Sophie. L’Alchimista si infilò nell’auto
e distese con delicatezza la ragazza sul sedile. Scatty sbucò in fretta e furia dalla barriera vegetale e
sfrecciò giù per il sentiero, con un largo sorriso stampato sulla faccia.
— Cavolo! — esclamò tuffandosi in macchina. — Era da un millennio che non mi divertivo così
tanto.
Josh salì al volante, aggiustò il sedile e girò la chiave. Il grosso motore V6 ruggì.
Flamel balzò sul lato passeggero e sbatté lo sportello. — Portaci fuori di qui!
Josh inserì la marcia, afferrò il volante di pelle con tutte e due le mani e schiacciò sull’acceleratore.
Il massiccio SUV barcollò in avanti, sollevando sassi e terriccio nella manovra, quindi ripartì per il
sentiero, sobbalzando sui solchi del terreno, mentre rami e cespugli sbattevano sulle fiancate
sfregiando la vernice.
Anche se il sole era già sorto sia nel Regno d’Ombra che nel mondo reale, la strada era ancora
immersa nel buio e Josh non riusciva a trovare il comando dei fari da nessuna parte. Continuava a
scrutare in tutti gli specchietti, aspettandosi da un momento all’altro di vedere la Morrigan o la Dea
Gatto sbucare dal muro vegetale. Quando il sentiero finì, sbucando in pieno sole, Josh sterzò
bruscamente a destra e riportò il SUV su una stretta strada asfaltata. Solo allora allentò la pressione
sull’acceleratore. L’auto perse subito velocità.
— Tutti bene? — chiese con voce tremante.
Piegò lo specchietto retrovisore verso il basso, in modo da poter vedere il sedile posteriore. Sua
sorella era distesa sugli ampi sedili di pelle, la testa sul grembo di Scatty. La Guerriera usava un
brandello di stoffa che si era strappata dalla maglietta per asciugarle la fronte. La pelle di Sophie era
di un pallore mortale, e anche se gli occhi erano chiusi, le pupille si muovevano veloci sotto le
palpebre, mentre tutto il suo corpo si agitava come in preda a un incubo. Scathach vide che Josh le
stava guardando e gli rivolse un sorriso di incoraggiamento. — Starà bene — disse.
— Non può fare niente? — domandò Josh, lanciando un’occhiata a Flamel, che gli sedeva accanto. I
suoi sentimenti per l’Alchimista erano ormai nella confusione più totale. Se da un lato li aveva messi
in terribile pericolo, dall’altro Josh aveva visto come si era battuto per difenderli.
— No, non posso fare niente — rispose Flamel stanco. — È soltanto esausta, tutto qui. — Anche
Nicholas sembrava stremato. Aveva i vestiti striati di fango e di qualcosa di simile a sangue, piume
fra i capelli e le mani piene di graffi per via dello scontro con i gatti. — Lasciala dormire, vedrai che
quando si sveglierà, fra qualche ora, starà bene. Te lo prometto.
Josh annuì. Si concentrò sulla strada, restio a continuare la conversazione con l’Alchimista.
Dubitava che sua sorella si sarebbe mai sentita di nuovo bene. Aveva visto come l’aveva guardato, con
gli occhi attoniti e privi di espressione: non l’aveva riconosciuto. Aveva sentito la voce che le era
uscita dalla bocca: era una voce che lui non conosceva. Sua sorella, la sua gemella, aveva subito un
cambiamento radicale.
Raggiunsero un cartello che segnalava la Mill Valley, e Josh girò a sinistra. Non aveva idea di dove
fossero diretti; voleva soltanto andarsene dal Regno d’Ombra. Anzi, di più: voleva andare a casa,
tornare alla vita di tutti i giorni e dimenticare di essersi mai imbattuto in quell’annuncio sul giornale
dell’università che suo padre aveva portato a casa.
“Cercasi assistente di libreria. Niente lettori, solo lavoratori.”
Aveva mandato il curriculum e un paio di giorni dopo l’avevano chiamato per un colloquio. Quel
giorno Sophie non aveva niente da fare ed era andata con lui per fargli compagnia. Mentre lo
aspettava, si era presa un chai latte al negozio di fronte. Quando Josh era uscito dalla Piccola Libreria,
raggiante perché gli era stato offerto il lavoro, aveva scoperto che anche sua sorella aveva trovato un
posto al Coffee Cup. Avrebbero lavorato l’uno di fronte all’altra: era perfetto! E così era stato, in
effetti – fino al giorno prima, quando era cominciata quella follia. Guardò di nuovo Sophie nello
specchietto. Adesso riposava tranquilla e immobile, si sentì sollevato nel vedere che le era tornato un
po’ di colore sulle guance.
Che cosa aveva fatto Ecate? No, che cosa aveva fatto Flamel? Dipendeva tutto dall’Alchimista. Era
tutta colpa sua. La dea non voleva risvegliare i gemelli, conosceva i rischi. Ma Flamel aveva insistito,
e adesso, per colpa dell’Alchimista, il paradisiaco Regno d’Ombra di Ecate stava subendo un pesante
attacco e sua sorella era diventata un’estranea.
Quando Josh aveva cominciato a lavorare in libreria per l’uomo che conosceva come Nick Fleming,
aveva pensato che il suo capo fosse un tipo un po’ strano ed eccentrico, forse perfino un po’ strambo.
Ma conoscendolo meglio, aveva finito per andargli a genio, lo ammirava perfino. Fleming era tutto
ciò che non era suo padre. Era divertente, si interessava a quello che faceva Josh e conosceva una
quantità incredibile di cose assurde. Josh sapeva che suo padre, Richard, si sentiva veramente felice e
a proprio agio solo di fronte a un’aula magna piena di studenti o quando era immerso nel fango fino al
ginocchio.
Fleming era diverso. Quando Josh citava Bart Simpson, lui passava al contrattacco con Groucho, e
gli aveva fatto conoscere i film dei fratelli Marx. Tutti e due amavano la musica, anche se avevano
gusti molto diversi; Josh aveva passato a Nick i Green Day, Lamb e Dido; Fleming aveva ricambiato
con Peter Gabriel, i Genesis e i Pink Floyd. Quando Josh gli aveva fatto sentire un po’ di musica
ambient e trance dal suo iPod, Fleming gli aveva prestato dei CD di Mike Oldfield e Brian Eno. Josh
aveva introdotto Nick nel mondo dei blog, gli aveva mostrato quello che avevano fatto lui e sua
sorella e avevano cominciato persino a parlare di mettere online l’assortimento della libreria.
Con il passare del tempo Josh aveva cominciato a vedere in Fleming il fratello maggiore che aveva
sempre desiderato. E adesso quell’uomo lo aveva tradito.
In realtà, aveva mentito a Josh fin dall’inizio. Non si chiamava nemmeno Nick Fleming. E in un
angolino remoto del suo cervello, stava prendendo forma una terribile domanda. Tenendo la voce
bassa e gli occhi sulla strada, chiese: — Sapeva che tutto questo sarebbe successo?
Flamel si lasciò cadere con le spalle contro il sedile e si girò a guardare Josh. L’Alchimista era in
parte schermato dall’ombra e stringeva la cintura di sicurezza sul petto con entrambe le mani. —
Tutto questo, cosa? — chiese prudentemente.
— Non sono un bambino — ribatté Josh, alzando la voce. — Quindi non mi parli come se lo fossi.
— Sul sedile posteriore, Sophie mormorò qualcosa nel sonno, così si costrinse ad abbassare la voce.
— Il suo prezioso Libro aveva predetto tutto questo? — Vide di sfuggita Scatty che si muoveva alle
loro spalle e capì che si era sporta in avanti per sentire la risposta dell’Alchimista.
Flamel si prese una lunga pausa per rispondere. Alla fine disse: — Prima ci sono alcune cose che
devi sapere riguardo al Libro di Abramo il Mago. — Vide che Josh stava per replicare e si affrettò a
proseguire: — Fammi finire. Ho sempre saputo che il Codice era antico — cominciò. — Solo che non
sapevo quanto. Ieri Ecate ha detto che era presente quando Abramo lo ha creato… significa che stiamo
parlando di almeno diecimila anni fa. Il mondo era un posto molto diverso allora. In genere si pensa
che l’umanità sia comparsa circa a metà dell’Età della Pietra. Ma la verità è molto, molto diversa. Ci
rimangono brandelli di verità nei miti e nelle leggende. Volendo credere a queste storie — proseguì —
le creature dell’Antica Razza dominavano la Terra. Avevano il potere di volare, possedevano vascelli
capaci di attraversare gli oceani, controllavano il clima e avevano persino perfezionato quello che
oggi noi definiremmo clonazione. In altre parole, la scienza a cui avevano accesso era talmente
avanzata che noi la definiremmo magia.
Josh cominciò a scrollare la testa. Erano troppe le cose da assimilare.
— E prima che tu mi dica che è tutto troppo inverosimile, pensa ai passi che la razza umana ha
compiuto solo negli ultimi dieci anni. Se qualcuno avesse detto ai tuoi genitori, per esempio, che
avrebbero potuto mettersi in tasca tutta la loro collezione musicale, ci avrebbero creduto? Adesso
abbiamo cellulari che hanno una potenza di calcolo maggiore di quella usata per mandare i primi razzi
nello spazio. Abbiamo microscopi elettronici che riescono a vedere gli atomi. Curiamo abitualmente
malattie che soltanto cinquant’anni fa erano mortali. E il ritmo del cambiamento è sempre più rapido.
Oggi siamo in grado di fare quello che i tuoi genitori avrebbero liquidato come impossibile e che i
tuoi nonni avrebbero definito vera e propria magia.
— Non ha risposto alla mia domanda — disse Josh, che stava controllando la velocità con molta
attenzione; non potevano permettersi di essere fermati dalla polizia.
— Quello che ti sto dicendo è che non so esattamente cosa era in grado di fare l’Antica Razza.
Abramo stava scrivendo delle profezie oppure stava solo registrando quello che in qualche modo
aveva visto? Conosceva il futuro o in realtà lo vedeva letteralmente? — Si girò sul sedile per guardare
Scatty. — Tu lo sai?
La Guerriera alzò le spalle, le labbra piegate in un lieve sorriso. — Io sono della Nuova
Generazione; gran parte dell’Antico Mondo era già svanita prima che io nascessi e Danu Talis si era
da tempo inabissata. Non ho idea di cosa fossero in grado di fare. Potevano vedere nel tempo? — Fece
una pausa, riflettendo. — Ho conosciuto Antichi Signori che possedevano questo dono: la Sibilla di
certo era fra questi, e anche Temi e Melampo, naturalmente. Ma si sbagliavano il più delle volte. Se
c’è una cosa che i miei viaggi mi hanno insegnato è che siamo noi a crearci il nostro futuro. Ho visto
eventi capitali andare e venire senza che nessuno li avesse predetti, e assistito a profezie, di solito
riguardanti la fine del mondo, che non si sono mai avverate.
Una macchina li sorpassò sulla stradina di campagna: era la prima che incontravano in tutta la
mattinata.
— Glielo chiederò ancora una volta — disse Josh, sforzandosi di mantenere la voce calma. — E,
stavolta, la prego di rispondermi con un sì o con un no: tutto quello che è appena successo era stato
predetto dal Codice?
— No — si affrettò a rispondere Flamel.
— Mi pare di sentire un “ma” sospeso da qualche parte — disse Scatty.
L’Alchimista annuì. — C’è un piccolo “ma”. Il Libro non dice niente sul conto di Ecate o del suo
Regno d’Ombra, niente su Dee, Bastet o la Morrigan. Ma… — sospirò. — Ci sono diverse profezie
che parlano di gemelli.
— Gemelli — ripeté Josh teso. — Vuole dire di gemelli in generale o proprio di me e Sophie?
— Il Codice parla di gemelli d’oro e d’argento, “i due che sono uno e l’uno che è tutto”. Non è una
coincidenza che le vostre aure siano d’oro e d’argento puro. Perciò sì, sono convinto che il Codice si
riferisca a te e a tua sorella. — Si sporse per guardare Josh. — E se mi stai chiedendo da quanto tempo
lo so, allora la risposta è questa: ho cominciato a sospettarlo solo ieri, quando tu e Sophie mi avete
aiutato al negozio. Ecate ha confermato i miei sospetti poche ore più tardi, quando ha reso visibili le
vostre aure. Ti do la mia parola che tutto ciò che ho fatto è stato per proteggervi.
Josh cominciò a scuotere la testa; non sapeva se credere a Flamel. Scatty gli posò una mano sulla
spalla. — Conosco Nicholas Flamel da moltissimo tempo — disse con voce bassa e seria e un accento
celtico di colpo pronunciato. — La colonizzazione dell’America era appena cominciata quando ci
siamo incontrati. Quest’uomo è molte cose: pericoloso e ambiguo, astuto e micidiale, un buon amico e
un nemico implacabile, ma viene da un’epoca in cui la parola di un uomo era davvero preziosa. Se ti
dà la sua parola quando dice di aver fatto tutto questo per proteggervi, ti suggerisco di credergli.
Finalmente Josh annuì e liberò il fiato tirando un profondo sospiro. — Le credo — disse ad alta
voce. Ma in un angolino remoto del cervello continuava a sentire le ultime parole che Ecate gli aveva
detto: “Nicholas Flamel non dice mai tutto a nessuno.” Ed ebbe la netta impressione che l’Alchimista
non gli stesse ancora dicendo tutto ciò che sapeva.
All’improvviso, Nicholas batté la mano sul braccio di Josh. — Qui… fermati qui.
— Perché? C’è qualcosa che non va? — domandò Scatty, pronta a sguainare le spade.
Josh inserì la freccia e accostò il SUV nel punto in cui si era appena accesa l’insegna luminosa di un
ristorante sulla strada.
— Non c’è niente che non va — sorrise Flamel. — È soltanto ora di fare colazione.
— Fantastico, sto morendo di fame — disse Scatty. — Mi mangerei un cavallo, se non fossi
vegetariana… e se mi piacessero i cavalli, naturalmente.
E se non fossi un vampiro, pensò Josh, ma tenne la bocca chiusa.

Sophie si svegliò mentre Scatty e Flamel stavano ordinando la colazione da portar via. Un attimo
prima dormiva e l’attimo dopo era saltata a sedere sul sedile posteriore. Josh sobbalzò e si lasciò
sfuggire un grido soffocato per lo spavento.
Dalla sua postazione al volante, si girò per mettersi a sedere sulle ginocchia e sporgersi verso di lei.
— Sophie? — chiamò con voce cauta. Era terrorizzato all’idea di scorgere di nuovo negli occhi della
sorella qualcosa di strano e di antico.
— Non immagini neanche quello che stavo sognando — disse Sophie, stirando le braccia e la
schiena. Fece scrocchiare il collo con un movimento rotatorio. — Ahi. Mi fa male dappertutto.
— Come ti senti? — Be’, sembrava proprio sua sorella.
— Come se mi stesse arrivando l’influenza. — Si guardò attorno. — Dove siamo? Di chi è questa
macchina?
Josh sorrise, i denti candidi nella penombra. — L’abbiamo fregata a Dee. Siamo da qualche parte
sulla strada per la Mill Valley, però stavolta diretti a San Francisco, credo.
— Cos’è successo… cos’è successo dove eravamo prima? — chiese Sophie.
Il sorriso di Josh si allargò ancora di più. — È successo che ci hai salvato, con i tuoi nuovi poteri
risvegliati. Sei stata incredibile: avevi una frusta d’argento fatta di energia o roba del genere, con la
quale, ogni volta che toccavi uno dei gatti o degli uccelli, li facevi tornare alla loro vera forma. —
Tagliò corto quando la vide scuotere la testa. — Non ti ricordi niente?
— Un po’, sì. Sentivo Perenelle che mi parlava, che mi diceva cosa fare. L’ho sentita riversare la
sua aura dentro di me — disse sgomenta. — Riuscivo a sentire la sua voce, la vedevo perfino, più o
meno. — Di colpo trasse un profondo respiro, rabbrividendo. — Poi sono venuti a prenderla. Non
ricordo altro.
— Chi è venuto a prenderla?
— Uomini senza volto. Un sacco di uomini senza volto. Ho visto che la trascinavano via.
— Come sarebbe a dire, senza volto?
Gli occhi di Sophie erano sbarrati, pieni di terrore. — Non avevano la faccia.
— Portavano una maschera?
— No, Josh, non avevano una maschera. Avevano la faccia liscia, senza gli occhi e la bocca… solo
e soltanto pelle liscia.
L’immagine che gli si formò in testa era disgustosa e Josh cambiò volutamente discorso. — Ti
senti… diversa? — Scelse la parola con cura.
Sophie rifletté per un momento. Ma che aveva
Josh? Perché era tanto preoccupato? — Diversa? In che senso?
— Ti ricordi di Ecate che risveglia i tuoi poteri?
— Sì.
— Che effetto fa? — chiese esitante.
Per un istante, gli occhi di Sophie brillarono di una fredda luce argentata. — Come se qualcuno
avesse premuto un interruttore dentro la mia testa, Josh. Mi sono sentita viva. Per la prima volta in
tutta la mia vita, mi sono sentita viva.
Josh sentì un’improvvisa e inesplicabile fitta di gelosia. Con la coda dell’occhio, vide Flamel e
Scatty che uscivano dal ristorante, le braccia piene di sacchetti. — E adesso come ti senti?
— Affamata — rispose lei. — Molto affamata.

Mangiarono in silenzio: burritos, uova, salsicce, panini bianchi e integrali, il tutto annaffiato da bibite
gassate. Scatty prese un po’ di frutta e dell’acqua.
Josh alla fine si pulì la bocca con un tovagliolo e si spazzolò le briciole dai jeans. Era il primo pasto
decente che faceva dopo il pranzo del giorno prima. — Mi sento di nuovo un essere umano — e con
un’occhiata in tralice a Scatty aggiunse: — Senza offesa.
— Non c’è problema — lo rassicurò Scatty. — Credimi: non ho mai voluto essere umana, anche se
ci sono, credo, alcuni vantaggi — aggiunse enigmatica.
Nicholas raccolse i resti della colazione e li infilò in un sacchetto di carta. Poi si sporse in avanti e
tamburellò sullo schermo del navigatore satellitare montato sul cruscotto. — Sai come funziona
quest’affare?
Josh scosse la testa. — In teoria, sì. Si scrive una destinazione e lui ti dice il modo migliore per
arrivarci. Non ne ho mai usato uno, però. La macchina di papà non ce l’ha — aggiunse. Richard
Newman guidava la stessa Volvo station wagon da cinque anni.
— Se ci dai un’occhiata, pensi di poterlo far funzionare? — insisté Flamel.
— Forse — rispose Josh poco convinto.
— Ma certo! Josh è un genio del computer — esclamò orgogliosa Sophie dal sedile posteriore.
— Questo non è mica un computer — mormorò il fratello, sporgendosi e pigiando sul tasto ON.
L’ampio schermo quadrato si accese all’istante e mostrò subito la posizione del SUV su una strada
secondaria senza nome. Il monte Tamalpais prese forma in un piccolo triangolo in cima allo schermo
e delle frecce puntavano a sud, verso San Francisco. Il piccolo sentiero che conduceva al Regno
d’Ombra di Ecate non compariva affatto.
— Dobbiamo andare a sud — continuò Flamel.
Josh armeggiò un po’ con i tasti finché non trovò il menu principale. — Ok. Mi serve l’indirizzo.
— Mettici l’ufficio postale all’angolo di Signal Street e Ojai Avenue, a Ojai.
Scatty si agitò sul sedile posteriore. — Oh no, Ojai no. Ti prego, dimmi che non ci stiamo andando.
Flamel si girò. — Perenelle mi ha detto di andare a sud.
— Los Angeles è a sud. Il Messico è a sud. Perfino il Cile è a sud rispetto a dove siamo ora. Ci sono
un sacco di bei posti a sud…
— Perenelle mi ha detto di portare i ragazzi dalla Strega — ribatté Flamel, paziente. — E la Strega
si trova a Ojai.
Sophie e Josh si scambiarono un rapido sguardo.
Scatty si lasciò andare sul sedile e sospirò melodrammatica. — Conterebbe qualcosa se ti dicessi
che non ci voglio andare?
— No.
Sophie si infilò nello spazio fra i due sedili anteriori per fissare lo schermo del navigatore. —
Quanto ci vorrà? Quanto siamo lontani? — si chiese ad alta voce.
— Ci vorrà quasi tutto il giorno — disse Josh, sporgendosi per osservare lo schermo. Quando i suoi
capelli sfiorarono quelli della sorella, crepitò una scintilla. — Dobbiamo arrivare sulla Highway 1. Poi
attraversiamo il ponte Richmond… — disse, seguendo con le dita il tracciato di linee colorate. —
Quindi la I-580, che alla fine sfocia nella I-5. — Batté le palpebre sorpreso. — E poi proseguiamo per
più di quattrocento chilometri. — Pigiò un altro tasto, per calcolare i totali. — Sono più di seicento
chilometri in tutto, e ci vorranno almeno sei ore e mezzo. E pensare che prima di oggi non ho mai
fatto più di quindici chilometri!
— Be’, vorrà dire che farai un sacco di pratica — disse l’Alchimista con un sorriso.
Sophie guardò prima Flamel poi Scatty. — Chi è la Strega da cui stiamo andando?
Flamel si allacciò la cintura di sicurezza. — Stiamo andando dalla Strega di Endor.
Josh girò la chiave e mise in moto. Lanciò un’occhiata a Scatty dallo specchietto retrovisore. — Hai
combattuto anche contro di lei? — chiese.
Scathach fece una smorfia. — Peggio — borbottò. — È mia nonna.
CAPITOLO TRENTUNO
Il Regno d’Ombra si stava sgretolando.
A occidente, le nuvole erano svanite ed enormi porzioni di cielo erano già scomparse, lasciando solo
le stelle sfavillanti e la luna smisurata sullo sfondo nero. Uno dopo l’altro, gli astri si stavano
spegnendo, e la luna cominciava a sfilacciarsi ai bordi.
— Non abbiamo molto tempo — disse la Morrigan, osservando il cielo.
Accucciato a terra per raccogliere tutti i frammenti di Ecate che riusciva a trovare, Dee pensò di
udire in quella voce una nota di paura. — Abbiamo tempo — ribatté calmo.
— Non possiamo trovarci qui quando il Regno d’Ombra scompare — continuò la dea, guardandolo
dall’alto, il volto inespressivo. Ma Dee capiva dal modo in cui si stringeva nel mantello di piume
corvine che era nervosa.
— Cosa accadrebbe? — si chiese Dee ad alta voce. Non aveva mai visto la Dea Corvo in quello
stato prima d’allora e si compiacque del suo turbamento.
La Morrigan alzò la testa per contemplare l’oscurità incombente, gli occhi neri che riflettevano i
puntini delle stelle. — Be’, scompariremmo anche noi. Risucchiati nel nulla — aggiunse sommessa,
osservando le montagne che si polverizzavano in lontananza. La polvere saliva in lunghe spirali verso
il cielo nero e poi svaniva. — Una morte vera — mormorò la Morrigan.
Dee era accovacciato fra i resti disciolti dell’Yggdrasill mentre tutt’attorno a lui lo splendido,
elegante mondo di Ecate si polverizzava, spazzato da venti invisibili. La dea aveva creato dal nulla il
Regno d’Ombra, che adesso, senza la sua presenza che lo teneva insieme, stava ritornando da dove era
venuto. Le montagne erano svanite, soffiate via come granelli di sabbia, interi tratti di foresta stavano
scolorendo a poco a poco, mentre la luna smisurata si era già ridotta a una sfera informe. A oriente, il
sole appena sorto era un globo di luce nel cielo ancora azzurro.
La Dea Corvo si rivolse a sua zia. — Quanto ci vorrà perché scompaia tutto? — chiese.
Bastet miagolò rauca e scrollò le spalle imponenti. — Chi lo sa? Nemmeno io ho mai assistito alla
morte di un intero Regno d’Ombra. Forse minuti…
— Non chiedo di più. — Dee mise Excalibur a terra. La lama lucida e levigata rifletté l’oscurità
incombente del cielo occidentale. Dee trovò tre dei frammenti più grossi che un tempo componevano
Ecate e li posò sulla spada.
La Morrigan e Bastet gli si fecero vicino per guardare l’arma, e il riflesso delle due divinità
comparve tremolante e distorto sulla lama. — Cosa devi fare di così importante qui? — chiese Bastet.
— Questa era la casa di Ecate — replicò Dee. — E qui, proprio qui, nel luogo della sua morte, la
connessione con lei sarà fortissima.
— Connessione… — soffiò Bastet, e poi annuì. Aveva capito le intenzioni del dottore: era la più
tetra e la più pericolosa di tutte le arti oscure.
— Negromanzia — sussurrò Dee. — Parlerò alla dea defunta. Ha trascorso qui così tanti millenni
che questo luogo è parte di lei. Scommetto che la sua coscienza è ancora attiva e imbrigliata a questo
posto. — Allungò la mano e toccò la spada. La lama mandò un bagliore giallognolo e i serpenti
dell’elsa presero per un attimo vita, le lingue scattanti e sibilanti. Mentre il ghiaccio si scioglieva, il
liquido fluiva sopra la lama, ricoprendola di una sottile pellicola oleosa. — Ora vedremo quello che
vedremo — mormorò Dee.
L’acqua sulla lama cominciò a ribollire e gorgogliare, sfrigolando e crepitando. E un volto
comparve in ogni bolla: il volto di Ecate. Continuava a passare dall’una all’altra delle sue tre
sembianze, solo gli occhi – del colore del burro e pieni di odio – rimanevano immutati, e fissavano il
dottore.
— Parlami — gridò Dee. — Te lo ordino. Perché Flamel è venuto qui?
La voce di Ecate era uno scoppiettio liquido e gorgogliante. — Per fuggire da te.
— Parlami dei ragazzi umani.
Le immagini che comparvero sulla lama della spada erano sorprendentemente dettagliate. Era come
guardare dagli occhi di Ecate. Mostravano l’arrivo di Flamel con i gemelli, i ragazzi seduti in
macchina, il viso pallido e spaventato.
— Flamel ritiene che siano i gemelli leggendari menzionati nel Codice.
La Morrigan e Bastet si accostarono ancora un poco, ignorando il nulla incombente. A ovest, ormai,
le stelle erano tutte spente, la luna era scomparsa e grandi porzioni di cielo erano totalmente svanite,
rimpiazzate da tenebre vuote.
— E lo sono? — domandò Dee.
L’immagine successiva sulla spada mostrava le aure dei gemelli, che luccicavano d’argento e d’oro.
— Luna e sole — mormorò Dee. Non sapeva se sentirsi terrorizzato o euforico. I suoi sospetti erano
confermati. Dal primo momento in cui li aveva visti insieme, aveva cominciato a chiedersi se i
ragazzi non fossero, in realtà, gemelli.
— Sono i gemelli predetti nella leggenda? — domandò di nuovo.
Bastet accostò la testa massiccia a quella di Dee, inchinandosi. I suoi lunghi baffi gli solleticarono
il viso, ma il dottore non si arrischiò a scansarli, vicino com’era alle sue zanne. La dea odorava di
gatto bagnato e di incenso; il dottore sentì uno starnuto in arrivo. La Dea Gatto fece per toccare la
lama, ma lui la fermò, prendendole la mano. — Non toccare, ti prego; è un incantesimo delicato. Forse
abbiamo ancora tempo per un paio di altre domande — aggiunse, indicando con un cenno della testa
l’orizzonte occidentale, dove i bordi della terra cominciavano a sfaldarsi, soffiati via come polvere
colorata.
Bastet guardò la lama nera con gli occhi felini gelidi e lampeggianti. — Mia sorella ha – o per
meglio dire, aveva – una dote molto speciale. Era in grado di risvegliare i poteri altrui. Chiedile se lo
ha fatto con questi gemelli umani.
Dee annuì, cogliendo il punto al volo; si era domandato come mai Flamel avesse portato i gemelli
proprio lì. Adesso ricordava: nel mondo antico, si credeva che Ecate avesse potere sulla magia e sugli
incantesimi. — Hai risvegliato le capacità magiche dei gemelli? — chiese.
Una singola bolla scoppiò. — No.
Dee vacillò, sorpreso. Si era aspettato una risposta positiva. Flamel aveva fallito, dunque?
Bastet ruggì. — Sta mentendo.
— Non può mentire — ribatté Dee. — Risponde a ciò che chiediamo.
— Ho visto la ragazza con i miei occhi — ringhiò la dea egizia. — L’ho vista agitare una frusta di
pura energia aurica. Non avevo mai visto un potere del genere in tutta la mia vita, non dopo l’Antica
Era.
Il dottor Dee le rivolse uno sguardo penetrante. — Hai visto la ragazza… ma il ragazzo? Che stava
facendo lui?
— Non l’ho notato.
— Ah! — esclamò Dee trionfante. Tornò a guardare la spada.
Il mantello della Morrigan frusciò allarmato. — Che sia l’ultima domanda, dottore.
I tre alzarono lo sguardo e videro che le tenebre assolute stavano per sovrastarli. A meno di tre
metri di distanza, il mondo finiva nel nulla. Dee tornò a guardare la spada. — Hai risvegliato la
ragazza?
Una bolla scoppiò e sulla spada brillarono le immagini di Sophie che si levava da terra, l’aura
d’argento fiammante. — Sì.
— E il ragazzo?
La spada mostrò Josh accucciato nell’angolo di una camera buia. — No.
Le mani artigliate della Morrigan afferrarono Dee per le spalle e lo strattonarono. Il dottore
raccolse la spada e scosse le gocce d’acqua gorgogliante nel vuoto, ormai vicinissimo.
Il terzetto male assortito – l’imponente Bastet, la scura Morrigan e il piccolo uomo – fuggì,
lasciandosi alle spalle il mondo che si sgretolava nel nulla. Gli ultimi resti del loro esercito – uomini-
uccello e creature-gatto – erano ancora lì, a vagare senza meta. Quando videro le padrone fuggire, si
lanciarono al loro inseguimento, e ben presto correvano tutti verso est, dove le ultime porzioni del
Regno d’Ombra sembravano resistere. Sinuhe inseguiva Bastet zoppicando e invocando il suo nome,
pregandola di fermarsi, di soccorrerlo.
Ma il mondo si dissolveva troppo in fretta. Inghiottì uccelli e gatti, assorbì orchidee e alberi antichi,
creature magiche e mostri mitici. Consumò fino all’ultimo brandello della magia di Ecate.
Poi il vuoto rivendicò il sole, il mondo fu avvolto dalle tenebre e svanì per sempre.
CAPITOLO TRENTADUE
Bastet e la Morrigan sbucarono in fretta e furia fuori dal groviglio di arbusti, trascinandosi dietro John
Dee. L’attimo dopo il muro di vegetazione svanì e al suo posto comparve uno dei tanti sentieri
tortuosi che conducevano al Monte Tamalpais. Inciamparono, e Dee cadde scompostamente a terra.
— E adesso? — ringhiò Bastet. — Abbiamo perso? Hanno vinto loro? Abbiamo distrutto Ecate, ma
lei ha risvegliato la ragazza.
John Dee si rimise vacillando in piedi e si spazzolò la giacca rovinata. C’erano graffi e strappi sulla
manica e qualcosa gli aveva procurato un grosso buco nella fodera. Pulendo Excalibur con molta cura,
la ripose nel fodero nascosto. — Non è sulla ragazza che dobbiamo concentrarci ora. È il ragazzo. Il
ragazzo è la chiave.
La Morrigan scosse la testa, arruffando le piume. — Tu parli per enigmi. — La dea alzò lo sguardo
sul cielo sereno del mattino e una nuvola grigia comparve quasi sopra la sua testa.
— Ha assistito al Risveglio degli enormi poteri magici della sorella; come credete che si senta ora?
Spaventato, arrabbiato, geloso? Solo? — Guardò prima la Morrigan poi la Dea Gatto. — Il ragazzo è
potente almeno quanto la ragazza. Non c’è nessun altro su questo continente da cui Flamel potrebbe
portarlo per risvegliare i suoi talenti?
— Black Annis è nelle Catskills — suggerì la Morrigan, con palese circospezione.
— Troppo imprevedibile — disse Dee. — Finirebbe col mangiarselo.
— Ho sentito dire che Persefone era nel Canada settentrionale — disse Bastet.
Dee scosse la testa. — Gli anni trascorsi nel Regno d’Ombra Sottomondano le hanno fatto perdere il
senno. È pericolosissima.
La Morrigan si strinse di più nel suo mantello. La nuvola sopra la sua testa si addensò, cominciando
a calare verso la terra. — Allora non c’è nessun altro in Nord America. Ho incontrato Nocticula in
Austria, e so che Eritone si nasconde ancora in Tessaglia…
— Ti sbagli — la interruppe Dee. — C’è qualcun altro che potrebbe risvegliare il ragazzo.
— Chi? — ringhiò Bastet, scurendosi e aggrottando il muso.
Il dottor John Dee si girò solenne verso la Dea Corvo. — Tu.
La Morrigan fece un passo indietro, allontanandosi da Dee, gli occhi neri sgranati per la sorpresa, i
denti aguzzi premuti contro la carne livida delle labbra sottili. Un lieve soffio d’aria investì il
mantello, arruffando tutte le piume.
— Ti sbagli — soffiò Bastet. — Mia nipote è della Nuova Generazione, non ne ha i poteri.
Dee si girò ad affrontare la Dea Corvo. Se si rendeva conto di fare un gioco pericoloso, forse
perfino mortale, non lo dava a vedere. — Un tempo, forse, era vero. Ma i poteri della Morrigan sono
molto, molto maggiori di un tempo.
— Nipote, di cosa sta parlando? — domandò la Dea Gatto.
— Stai molto, molto attento, figlio di homines — gracchiò la Dea Corvo.
— La mia lealtà è fuori questione — si affrettò ad aggiungere Dee. — Servo gli Antichi Signori da
mezzo millennio, ormai. Sto solo cercando un modo per raggiungere i nostri scopi. — Fece un passo
avanti, avvicinandosi alla Morrigan. — Una volta, come Ecate, indossavi tre volti: eri la Morrigan,
Macha e Badb. A differenza di Ecate, però, tu e le tue sorelle occupavate tre corpi diversi. Erano le
vostre coscienze a essere collegate. Singolarmente eravate potenti; insieme, eravate invincibili — si
interruppe come per raccogliere i propri pensieri, ma in realtà si stava accertando di avere una presa
salda su Excalibur, sotto la giacca. — Quando hai deciso di uccidere le tue sorelle? — chiese con
noncuranza.
Con un grido acuto e terribile la Morrigan si scagliò su Dee.
E si fermò.
In un lampo, la lama di Excalibur era sotto la sua gola, scintillando e crepitando di luce azzurrina. I
serpenti dell’elsa si animarono, minacciosi e sibilanti.
— Ti prego — sorrise Dee, con una smorfia gelida sulle labbra — mi sono già reso responsabile
della morte di un’Antica Signora, quest’oggi. Non ho alcun desiderio di aggiungerne un’altra alla
lista. — Mentre parlava, teneva d’occhio Bastet, che si stava portando alle sue spalle. — La Morrigan
ha il potere di risvegliare il ragazzo — disse svelto. — Possiede la conoscenza e il potere delle sue
due sorelle. Se possiamo risvegliare il ragazzo e portarlo dalla nostra parte, ci saremo guadagnati un
potente alleato. Ricorda la profezia: “i due che sono uno e l’uno che è tutto”. Uno ha il potere di
salvare il mondo, l’altro di distruggerlo.
— E quale dei due è il ragazzo? — chiese Bastet.
— Quello che noi decidiamo che sia — rispose Dee, con gli occhi che guizzavano dalla Morrigan a
Bastet per poi fermarsi alla fine sulla Dea Corvo.
Di colpo, Bastet fu accanto al dottore, la mano dagli enormi artigli attorno alla sua gola. Lo sollevò
leggermente, costringendolo a guardarla negli occhi terrificanti. Per una frazione di secondo, Dee
pensò di girare la spada, ma sapeva che la Dea Gatto era più veloce, molto più veloce di quanto lui
potesse mai essere. Notando lo scatto delle spalle, gli avrebbe staccato la testa in un secondo.
Bastet guardò gelida la nipote. — È vero? Macha e Badb sono morte?
— Sì. — La Morrigan fulminò Dee con lo sguardo. — Ma non le ho uccise io. Sono morte di loro
spontanea volontà, e vivono ancora dentro di me. — Per un momento, i suoi occhi lampeggiarono
prima gialli, poi rossi e poi di nuovo neri, i colori delle tre antiche dee.
Il dottore fu tentato di chiederle come fossero entrate dentro di lei, poi decise che era meglio non
saperlo – e del resto quello non era decisamente il momento giusto per domandarglielo.
— Saresti in grado di risvegliare il ragazzo? — domandò Bastet.
— Sì.
— Allora fallo, nipote — ordinò la Dea Gatto. Tornò a rivolgere la sua attenzione a Dee. Premendo
il pollice sul suo mento, gli rimise la testa a posto. — E se oserai sollevare ancora una volta un’arma
contro un membro dell’Antica Razza, farò in modo che tu trascorra il prossimo millennio in un Regno
d’Ombra di mia speciale creazione. E fidati di me, non ti piacerà. — Lasciò la presa e lo scansò con
un gesto brusco, gettandolo a terra con la spada ancora in mano.
— Dimmi — ordinò Bastet, sovrastandolo. — Dove sono Flamel e i gemelli, adesso? Dove sono
andati?
Dee si rimise in piedi tremante. Si spolverò la giacca e scoprì un altro strappo; decise di non
comprare più capi in pelle in vita sua. — Dovrà cominciare a addestrare la ragazza. Ecate l’ha
risvegliata, ma non ha avuto modo di insegnarle nessun incantesimo di protezione. Qualcuno dovrà
dirle come proteggersi e come controllare i propri poteri prima che gli stimoli del mondo fisico la
portino alla pazzia.
— Dove andranno, quindi? — ringhiò Bastet. Si strinse le braccia attorno al corpo, rabbrividendo.
La nuvola che la Morrigan aveva evocato si era addensata e scurita, avvicinandosi a terra, e adesso
attendeva sulle cime degli alberi vicini. L’umidità aleggiava nell’aria, insieme all’odore vago di
indefinibili spezie.
— Non rimarrà a San Francisco — continuò Dee. — Sa che abbiamo troppi agenti, sia in città che
fuori.
La Morrigan chiuse gli occhi e si girò lentamente, poi alzò le braccia. — Stanno andando a sud;
riesco a percepire le tracce argentate dell’aura della ragazza. Ha un potere incredibile.
— Chi è l’Antico Signore più potente da quelle parti? — chiese Dee concitato. — Qualcuno esperto
di magia elementale?
— Endor — rispose subito Bastet. — A Ojai. La micidiale Strega di Endor.
— Signora dell’Aria — aggiunse la Morrigan.
Bastet chinò la testa, il fiato fetido puntato sulla faccia dell’uomo basso. — Sai dove devi andare.
Sai cosa devi fare. Dobbiamo avere a tutti i costi le pagine del Codice.
— E i gemelli? — chiese Dee con la voce tesa, sforzandosi di non respirare.
— Catturali, se puoi, altrimenti uccidili per impedire a Flamel di usare i loro poteri. — E detto
questo le due Oscure Signore entrarono nella nuvola densa e sparirono. La nebbia grigia scomparve,
lasciando il dottor John Dee da solo sul sentiero isolato.
— E io come ci arrivo a Ojai? — gridò.
Ma non ci fu risposta.
Dee si ficcò le mani nelle tasche della giacca rovinata e si avviò lungo il sentiero. Odiava quando
facevano così, quando lo liquidavano come un bambino.
Ma le cose sarebbero cambiate.
Agli Antichi Signori piaceva pensare che Dee fosse il loro burattino, il loro giocattolo. Aveva visto
come Bastet aveva abbandonato Sinuhe, che le era stato fedele per tutto quel tempo, senza neanche un
attimo di ripensamento. Sapeva che avrebbero fatto la stessa identica cosa con lui, all’occasione.
Ma il dottor John Dee aveva i suoi piani: avrebbe fatto in modo che quell’occasione non si
verificasse mai.
CAPITOLO TRENTATRÉ
Era già pomeriggio inoltrato quando Josh imboccò finalmente la strada lunga e piena di curve che
conduceva alla cittadina di Ojai. Lo stress di seicento chilometri passati alla guida gli era rimasto
impresso sul volto e, anche se il computer aveva calcolato circa sei ore e mezzo di viaggio, ce ne
erano volute quasi nove. Guidare il suv in autostrada era sorprendentemente facile: bastava impostare
il controllo automatico della velocità ed era fatta. Era noioso, ma fuori dall’autostrada e in qualunque
altro tipo di percorso, controllare quel bestione era un incubo. Non somigliava affatto a nessuno dei
suoi giochi al computer. Era troppo grosso e Josh aveva il terrore di mettere sotto qualcosa o
qualcuno. L’enorme veicolo nero, inoltre, attirava un sacco di attenzione. Non aveva mai pensato che
sarebbe stato così felice di avere i finestrini scuri. Si chiese cosa avrebbe pensato la gente se avesse
saputo che c’era un quindicenne alla guida.
La strada piegò a destra, e apparve la lunga e dritta via principale di Ojai. Josh rallentò
oltrepassando la Psychic Boutique e il teatro cittadino; poi, quando su Signal Street scattò il rosso,
fermò l’auto, si appoggiò al volante e scrutò oltre il parabrezza sudicio e imbrattato di insetti. La sua
prima impressione guardando la strada vuota fu che Ojai era incredibilmente verde: c’erano alberi
ovunque, che contrastavano con la pietra bianca degli edifici. Di fronte a lui, sulla destra, la bassa
torre di pietra bianca dell’ufficio postale si stagliava nel cielo terso, mentre sulla sinistra una fila di
negozi era discosta dalla strada, al riparo sotto una serie di arcate.
Sbirciando nello specchietto retrovisore, fu sorpreso di incrociare gli occhi di Scatty.
— Pensavo che dormissi — disse piano. Sophie, che si era spostata al suo fianco dopo qualche ora
di viaggio, dormiva rannicchiata sul sedile e Flamel russava leggermente accanto a Scathach.
— Io non ho bisogno di dormire — rispose lei.
Ancora una volta c’erano un sacco di domande che avrebbe voluto fare ma, di nuovo, si limitò a
chiedere: — Conosci la strada?
La ragazza si sporse in avanti, si appoggiò al suo schienale e posò il mento sulle braccia. — Vai
dritto, supera l’ufficio postale, l’edificio con la torre, poi gira a destra dopo Libbey Park, su Fox
Street. Trova un parcheggio da quelle parti. — Fece un cenno con la testa indicando a sinistra, verso
una fila di negozi annidati fra le arcate bianche. — Stiamo andando lì.
— È lì che vive tua nonna?
— Sì — rispose Scatty concisa.
— Ed è davvero una strega?
— Non una strega qualunque. Lei è la Strega originaria.

— Come ti senti? — chiese Sophie. Era sul marciapiede e si stava stiracchiando in punta di piedi,
arcuando la schiena. Qualcosa le scrocchiò nel collo. — Che bello — aggiunse, girando il viso e
chiudendo gli occhi al sole, che era ancora alto nel cielo turchese e senza nuvole.
— Dovrei essere io a farti questa domanda — ribatté Josh, scendendo dall’auto. Si stirò con uno
sbadiglio, ruotando la testa da una parte all’altra. — Non voglio guidare mai più in vita mia —
aggiunse. Poi abbassò la voce a un sussurro. — Sono contento che tu stia bene. — Esitò. — Perché tu
stai bene, vero?
Sophie allungò la mano e gli strinse il braccio. — Credo di sì.
Flamel scese dall’auto e sbatté lo sportello. Scatty si era già allontanata dalla macchina per andare a
ripararsi sotto un albero. Aveva tirato fuori dalla tasca un paio di occhiali a specchio e se li era
infilati. L’Alchimista la raggiunse.
— Dobbiamo parlare — disse Flamel piano, anche se quel lato della strada era deserto. Si passò le
dita fra i capelli corti, e gliene rimase qualcuno in mano. Lui li guardò per un attimo, poi si ripulì sui
jeans. Un altro anno era impresso sul suo viso, segnando un po’ di più le rughe attorno agli occhi e
quelle agli angoli della bocca. — La persona che stiamo per incontrare può essere… — esitò, poi
aggiunse: — … difficile.
— Non dirlo a me — mormorò Scatty.
— In che senso “difficile”? — chiese Josh allarmato. Dopo tutto quello che avevano appena
affrontato, “difficile” poteva significare qualsiasi cosa.
— Scorbutica, malefica, irritabile… e questo quando è di buon umore — rispose Scatty.
— E quando è di cattivo umore?
— Meglio cambiare città!
Josh era confuso. Si rivolse all’Alchimista. — Allora perché andiamo a trovarla?
— Perché così mi ha detto Perenelle — disse in tono paziente. — Perché lei è la Signora dell’Aria:
può insegnare a Sophie le basi della magia dell’elemento aereo e darle qualche consiglio per
proteggersi meglio.
— Da cosa? — chiese Josh, stupito.
— Da se stessa — rispose Flamel breve, per poi allontanarsi subito verso Ojai Avenue. Scatty uscì
dall’ombra e lo seguì. — Vorrei essermi portata la crema solare. Mi scotto in un attimo con questo
sole — brontolò mentre si allontanavano. — Vedrete che lentiggini domattina.
Josh si girò a guardare la sorella; cominciava ad avere qualche idea dell’enorme divario di
conoscenza che ormai lo separava dalla sua gemella. — Di cosa stava parlando, ne hai un’idea?
Proteggerti da te stessa? Che vorrebbe dire?
— Penso di saperlo — Sophie aggrottò la fronte. — Tutto quello che mi circonda è così…
rumoroso, così vivido, così violento e intenso. È come se qualcuno avesse alzato il volume. I miei
sensi sono così acuti; non te lo immagini nemmeno quello che riesco a sentire. — Indicò una
malandata Toyota rossa che passava lentamente per la strada. — La donna in quella macchina sta
parlando con la madre al telefono. Le sta dicendo che vuole il pesce per cena. — Indicò un furgone
parcheggiato in un cortile sul lato opposto della strada. — C’è un adesivo sul retro di quel furgone;
vuoi che ti dica quello che c’è scritto?
Josh strizzò gli occhi; non riusciva nemmeno a leggere la targa.
— Quando oggi abbiamo mangiato, il sapore del cibo era così travolgente che c’è mancato poco che
vomitassi. Sentivo ogni singolo granello di sale del panino. — Si fermò e raccolse una foglia di
jacaranda da terra. — Riesco a trovare ogni più piccola venatura sul dorso di questa foglia a occhi
chiusi. Ma sai qual è la cosa peggiore di tutte? Gli odori — disse, guardandolo dritto negli occhi.
— Ehi… — Fin dalla pubertà, Josh aveva sperimentato ogni possibile deodorante sul mercato.
— No, non mi riferisco solo a te — sorrise — anche se dovresti proprio riconsiderare il tuo
deodorante, e vedrai che ti toccherà bruciare quei calzini. Sono tutti gli odori, in continuazione. La
puzza del gas nell’aria è terribile, l’odore della gomma calda sulla strada, del cibo grasso, perfino il
profumo di questi fiori è soffocante. — Si fermò in mezzo alla strada, e cambiò bruscamente tono.
Guardò il fratello, e le lacrime che aveva negli occhi senza saperlo cominciarono a traboccare. — È
troppo, Josh. Troppo. Ho la nausea e la testa mi pulsa in continuazione, mi bruciano gli occhi, mi
fanno male le orecchie e ho la gola in fiamme.
Josh cercò goffamente di abbracciare la sorella, ma lei lo respinse. — Ti prego, non toccarmi. Non
ce la faccio.
Josh si sforzò di trovare le parole per rispondere, ma non c’era niente che potesse dire o fare. Si
sentiva così impotente. Sophie era sempre così forte, aveva sempre il controllo di tutto; era lei la
persona da cui andava quando si cacciava nei guai. Lei aveva sempre le risposte.
Fino a ora.
“Flamel!” Josh sentì di nuovo montare la rabbia. Era colpa di Flamel. Non avrebbe mai perdonato
l’Alchimista per quello che aveva fatto. Alzò lo sguardo per vedere Flamel e Scathach che si giravano
a guardarli.
La Guerriera li raggiunse di corsa. — Asciugati gli occhi — ordinò severa. — Cerchiamo di non
attirare l’attenzione.
— Non parlare a mia so… — cominciò Josh, ma Scatty lo zittì con uno sguardo.
— Entriamo nel negozio di mia nonna; lei ti potrà aiutare. È solo dall’altra parte della strada.
Coraggio.
Sophie si asciugò docilmente gli occhi con la manica e seguì la Guerriera. Si sentiva così
impotente. Piangeva di rado, e aveva perfino riso al finale di Titanic: allora perché adesso lo stava
facendo?
Risvegliare il suo potenziale magico era sembrata una cosa grandiosa. Le era piaciuta l’idea di poter
controllare e plasmare la sua volontà, di incanalare l’energia aurica e fare magie. Ma il risultato era
stato diverso. Il Risveglio l’aveva lasciata stremata ed esausta. L’aveva lasciata sofferente. Ecco
perché piangeva.
Aveva il terrore che la sofferenza non sarebbe passata più. E in quel caso, che cosa avrebbe fatto,
che cosa avrebbe potuto fare?
Sophie alzò lo sguardo, per trovare il fratello che la fissava, gli occhi sbarrati per la
preoccupazione. —
Flamel ha detto che la Strega potrà aiutarti — disse.
— E se invece non può, Josh? Che succederà, se non può?
Josh non aveva risposte da darle.

Sophie e Josh attraversarono Ojai Avenue e si infilarono sotto il porticato che correva tutt’attorno
all’isolato. La temperatura divenne subito più sopportabile.
Raggiunsero Nicholas Flamel, che si era fermato davanti a una bottega d’antiquariato, con
un’espressione costernata dipinta in faccia. Il negozio era chiuso. Senza dire una parola, tamburellò
sulla porta in corrispondenza dell’orologio di carta appeso sul lato interno. Le lancette segnavano le
due e trenta e uno scarabocchio scritto a mano diceva: “Sono a pranzo. Si riapre alle 2:30.”
Solo che erano quasi le tre e mezzo.
Flamel e Scatty si accostarono alla porta per sbirciare dentro, mentre i gemelli guardavano dalla
vetrina. La bottega sembrava vendere soltanto vetri e cristalli: ciotole, caraffe, piatti, fermacarte,
soprammobili e specchi. Moltissimi specchi. Erano dappertutto, di tutte le forme e dimensioni, da
piccoli cerchi a rettangoli smisurati. La maggior parte degli articoli aveva un’aria moderna, ma alcuni
dei pezzi in vetrina erano decisamente antichi.
— E adesso che facciamo? — chiese Flamel. — Dove potrà essere?
— Sarà andata a fare un giro per pranzo e poi si sarà dimenticata di tornare — disse Scatty,
girandosi a guardare la strada in tutte e due le direzioni. — Non c’è un gran viavai oggi, eh? — Anche
se era venerdì pomeriggio, il traffico sulla via principale era rado, e c’era meno di una dozzina di
pedoni a passeggio sotto il porticato.
— Potremmo controllare i ristoranti — suggerì Flamel. — Che cosa le piace mangiare?
— Non me lo chiedere — si affrettò a rispondere Scatty. — Meglio non saperlo.
— Forse se ci dividiamo… — cominciò Nicholas.
D’impulso Sophie si accostò alla porta e girò la maniglia: al tintinnio musicale di una campanella,
la porta si aprì.
— Bel colpo, sorella.
— L’ho visto fare in un film — mormorò lei. — Salve — esclamò ad alta voce entrando.
Non rispose nessuno.
La bottega d’antiquariato era molto piccola, poco più di una lunga stanza rettangolare, ma per
effetto delle centinaia di specchi – alcuni dei quali pendevano perfino dal soffitto – sembrava assai più
grande.
Sophie tirò indietro la testa e inspirò profondamente, le narici dilatate. — Lo sentite?
Suo fratello fece cenno di no. Tutti quegli specchi lo innervosivano; continuava a vedersi riflesso da
ogni angolatura, e ciascuno specchio gli rimandava un’immagine diversa di se stesso, frammentaria o
distorta.
— Che odore senti? — chiese Scatty.
— Come di… — Sophie fece una pausa. — Di fumo… legna bruciata, in autunno.
— Allora è stata qui.
Sophie e Josh la guardarono attoniti.
— È l’odore della Strega di Endor. Il profumo della magia arcana.
Flamel stava sulla porta a controllare la strada. — Non può essere andata lontano, se ha lasciato il
negozio aperto. Andrò a cercarla. — Si girò verso Scatty. — Come la riconosco?
La ragazza sorrise, gli occhi che brillavano di malizia. — Fidati: la riconoscerai quando la vedi.
— Torno subito.
Non appena Flamel uscì in strada, una grossa motocicletta accostò quasi davanti al negozio. Il
motociclista rimase lì fermo per un attimo, poi fece rombare il motore a tutto gas e sfrecciò via.
Provocò un chiasso incredibile: tutti i cristalli del negozio presero a tremare e vibrare all’unisono.
Sophie si premette le mani sulle orecchie. — Non so per quanto tempo riuscirò ancora a sopportarlo
— sussurrò fra le lacrime.
Josh accompagnò la sorella a una sedia di legno, poi si accovacciò accanto a lei. Voleva prenderle la
mano, ma aveva paura di toccarla. Si sentiva spaventosamente inutile.
Scatty si inginocchiò di fronte a Sophie, in modo che potessero guardarsi negli occhi. — Quando
Ecate ti ha risvegliato, non ha avuto la possibilità di insegnarti come accendere e spegnere i sensi. Ora
sono rimasti fermi a quell’istante, ma non sarà sempre così, te lo prometto. Con un po’ di
addestramento e pochi incantesimi di protezione di base, imparerai ad attivarli solo per brevissimi
periodi.
Josh guardò le due ragazze. Ancora una volta, provò un senso di distacco dalla sorella: di vero
distacco. Erano gemelli fraterni, quindi non identici geneticamente. Non condividevano quel genere di
sensazioni di cui parlavano spesso i gemelli omozigoti – provare dolore quando uno dei due era ferito,
accorgersi se l’altro era in pericolo – ma in quel momento riusciva a percepire tutto il malessere della
sorella. Avrebbe tanto voluto poter fare qualcosa per alleviare la sua sofferenza.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Scatty disse a un tratto: — C’è una cosa che posso fare per
aiutarti. — I gemelli colsero la nota di esitazione nella sua voce. — Non fa male — aggiunse subito.
— Non può farmi più male di come mi sento ora — sussurrò Sophie. — Fallo — aggiunse in fretta.
— Soph… — cominciò Josh, ma sua sorella lo ignorò.
— Fallo — ripeté Sophie. — Ti prego — implorò.
— Come vi ho detto, io sono ciò che voi umani chiamate un vampiro…
— Non le succhierai il sangue! — urlò Josh, inorridito. Gli si rivoltava lo stomaco soltanto a
pensarci.
— Te l’ho già detto, il mio clan non succhia il sangue.
— Non mi interessa…
— Josh — intervenne Sophie con foga, facendo brillare l’aura di rabbia e riempiendo così il
negozio del profumo dolce del gelato alla vaniglia. Un set di campanelli appeso alla parete tremò e
tintinnò, mosso da un’impercettibile brezza. — Josh, zitto. — Poi tornò a guardare Scatty. — Che
cosa mi vuoi fare?
— Dammi la mano destra.
Sophie tese subito la mano e Scatty la prese fra le sue. Poi la Guerriera unì delicatamente le dita
della sua mano sinistra con quelle della ragazza, pollice contro pollice, indice contro indice, mignolo
contro mignolo. — I vampiri che succhiano il sangue — disse con voce assente, concentrandosi
sull’allineamento delle dita — in verità sono i più deboli, i rappresentanti più modesti del nostro clan.
Vi siete mai chiesti perché lo fanno? In realtà sono morti, il loro cuore non batte, non hanno bisogno
di mangiare, perciò il sangue non fornisce loro alcun nutrimento.
— Tu sei morta? — Sophie formulò la domanda che Josh stava per fare.
— No, non proprio.
Josh guardò negli specchi e vide chiaramente il riflesso di Scatty. La ragazza se ne accorse e
sorrise. — Non credere alla storiella dei vampiri che non si riflettono negli specchi: è una
sciocchezza; dopo tutto, siamo solidi pure noi.
Josh osservò attentamente mentre Scathach premeva le dita su quelle della sorella. Sembrava che
non succedesse nulla. Poi notò una scintilla d’argento in uno specchio alle spalle di Scatty e si rese
conto che, nel riflesso, la mano di Sophie aveva cominciato a brillare di una pallida luce argentata.
— La mia razza, il clan Vampiro — continuò Scatty molto dolcemente, fissando il palmo di Sophie
— appartiene alla Nuova Generazione.
Nello specchio, Josh vide che la luce d’argento aveva cominciato a raccogliersi nel palmo della
mano di Sophie.
— Non siamo dell’Antica Razza. Tutti noi nati dopo la caduta di Danu Talis siamo totalmente
diversi dai nostri genitori; diversi in modi incomprensibili.
— Hai già nominato Danu Talis — mormorò Sophie con voce assonnata. — Che cos’è? Un luogo?
— Una sensazione calda, lenitiva, stava fluendo su per il suo braccio, simile a un formicolio, ma più
piacevole.
— Era il centro del mondo nell’Antica Era. L’Antica Razza governava questo pianeta da una grande
isola continentale chiamata Danu Talis, che si stendeva dalle coste dell’odierna Africa alle sponde del
Nord America, fino al Golfo del Messico.
— Non ho mai sentito parlare di Danu Talis — sussurrò Sophie.
— Sì, invece — disse Scathach. — I Celti la chiamavano De Danann; il mondo moderno la conosce
come Atlantide.
Nello specchio, Josh vide che la mano di Sophie adesso brillava di luce bianco-argentata. Sembrava
quasi indossare un guanto. Piccole spirali scintillanti si avvolsero attorno alle dita di Scatty come
anelli intrecciati e la giovane donna rabbrividì.
— Danu Talis si spaccò in due perché i Gemelli Regnanti, Sole e Luna, combatterono l’uno contro
l’altro in cima alla Grande Piramide. Le incredibili forze magiche scaturite da quello scontro
sconvolsero l’equilibrio della natura. Mi hanno detto che fu per via di quella magia grezza, rimasta ad
aleggiare nell’atmosfera, che si produssero i mutamenti nella Nuova Generazione. Alcuni di noi
nacquero come mostri, altri rimasero imbrigliati tra una forma e l’altra, altri, ma in minor numero,
possedevano straordinari poteri di metamorfosi e potevano tramutarsi in belve a loro piacere. E altri,
come coloro che finirono col formare il clan Vampiro, scoprirono di essere incapaci di sentire.
Josh osservò Scathach con uno sguardo penetrante. — In che senso, “sentire”?
La Guerriera sorrise e lo guardò. Tutto a un tratto, i suoi denti sembrarono lunghissimi. — Non
sentivamo quasi nessuna emozione. Ci mancava la capacità di provare paura, di sperimentare l’amore,
di godere delle sensazioni di felicità e di piacere. E i guerrieri migliori non sono solo quelli che non
conoscono la paura, ma anche quelli che sono privi di rabbia.
Josh si alzò, scostandosi da Scatty, e inspirò profondamente. Cominciava ad avere i crampi alle
gambe e gli formicolavano le dita dei piedi. Ma aveva anche bisogno di allontanarsi dal vampiro. Ora
tutti gli specchi e le superfici di cristallo lucido mostravano la luce d’argento che fluiva dalla mano di
Sophie su per il braccio di Scatty. Scompariva nella sua carne prima di raggiungere il gomito.
Scatty si girò a guardare Josh e lui notò che il bianco delle sue pupille era diventato d’argento. — I
vampiri che succhiano il sangue non è del sangue che hanno bisogno, ma delle emozioni, delle
sensazioni che il sangue trasporta.
— Stai rubando i sentimenti di Sophie — sussurrò Josh, inorridito. — Sophie, fermala…
— No! — gridò la sorella, spalancando gli occhi. Anche il bianco delle sue pupille era uno specchio
d’argento. — Sento che il dolore se ne sta andando.
— Le sensazioni sono troppo forti, tua sorella non riesce più a sopportarle. Stanno diventando
dolorose e questo la spaventa. Le sto solo portando via il dolore e la paura.
— E perché mai si vorrebbe provare sensazioni come il dolore o la paura? — si chiese Josh ad alta
voce, al tempo stesso incuriosito e disgustato all’idea. In qualche modo, sembrava una cosa sbagliata.
— Per sentirsi vivi — disse Scatty.
CAPITOLO TRENTAQUATTRO
Perfino prima di aprire gli occhi, Perenelle Flamel capì che l’avevano trasferita in una prigione più
sicura. In un qualche posto profondo, oscuro e sinistro. Sentiva il male antico intriso nelle pareti,
riusciva quasi a percepirne il sapore nell’aria. Distesa e immobile, provò a liberare i sensi, ma la
coltre di malvagità e disperazione era troppo forte: scoprì di non riuscire a usare la sua magia. Si mise
in ascolto e, solo quando fu sicura di essere sola, aprì gli occhi.
Era in una cella.
Tre pareti di solido cemento armato, e una quarta fatta di sbarre di metallo. Oltre le sbarre, un’altra
fila di celle.
Era in un carcere!
Perenelle tese le gambe fuori dalla brandina stretta e si mise lentamente in piedi. Notò che i suoi
vestiti odoravano leggermente di salsedine e le parve di sentire i suoni dell’oceano non troppo
lontano.
La cella era spoglia, poco più di una scatola vuota, lunga circa tre metri e larga neanche un metro e
mezzo. C’era un vassoio di cartone sul pavimento, dal lato interno delle sbarre. Conteneva una caraffa
d’acqua di plastica, un bicchiere di plastica e un grosso pezzo di pane nero su un piatto di carta. La
vista del cibo le ricordò quanto fosse affamata, ma in quel frangente lo ignorò e schiacciò la testa fra
le sbarre, per sbirciare fuori. Guardando a destra e a sinistra, vide soltanto celle, tutte vuote.
Era la sola prigioniera del reparto. Ma dove…
E poi la sirena di una nave, sperduta e malinconica, risuonò in lontananza. Con un brivido, Perenelle
capì dove gli uomini di Dee l’avevano portata: era sull’isola di Alcatraz, il famigerato carcere di
massima sicurezza.
Si guardò attorno, facendo particolare attenzione all’area circostante il cancello di metallo. A
differenza della sua prigione precedente, non riusciva a scorgere nessun incantesimo di guardia o
sigillo di protezione dipinto sull’architrave o sul pavimento. Perenelle non poté trattenere un piccolo
sorriso. Ma cosa pensavano i tirapiedi di Dee? Non appena recuperate le forze, avrebbe caricato la sua
aura e, piegando il metallo come creta, sarebbe uscita di lì in un baleno.
Le ci volle un attimo per rendersi conto che il tic-tic che aveva scambiato per uno sgocciolio
d’acqua era, in realtà, qualcosa che si avvicinava piano, deliberatamente piano. Premendosi contro le
sbarre, cercò di sbirciare in fondo al corridoio. Un’ombra si mosse. “Altri simulacri senza volto di
Dee?” si chiese. Non avrebbero potuto trattenerla a lungo.
L’ombra, enorme e sformata, spuntò fuori dal buio e avanzò lungo il corridoio, per piazzarsi di
fronte alla sua cella. E d’un tratto Perenelle fu grata per le sbarre che la separavano da quell’entità
terrificante.
A ingombrare il corridoio c’era una creatura che non calpestava la terra da oltre mille anni prima
della comparsa delle piramidi sul Nilo. Era una sfinge, un enorme leone con le ali di un’aquila e la
testa di una bellissima donna. La sfinge sorrise, piegò la testa di lato e fece guizzare fuori una lunga
lingua nera e biforcuta. Perenelle notò che aveva le pupille piatte e orizzontali.
Questa non era una creazione di Dee. La sfinge era una delle figlie di Echidna, uno dei più malvagi
rappresentanti dell’Antica Razza, evitata e temuta perfino dai suoi simili, perfino dagli Oscuri
Signori. Perenelle si ritrovò a chiedersi chi, esattamente, fossero coloro che Dee serviva.
La sfinge premette la faccia contro le sbarre. La lingua biforcuta si allungò di nuovo, assaggiando
l’aria, sfiorando quasi le labbra di Perenelle. — C’è bisogno che ti ricordi, Perenelle Flamel — chiese
nella lingua del Nilo — che una delle speciali abilità della mia razza è quella di assorbire l’energia
aurica? — Sbatté le enormi ali, riempiendo quasi tutto il corridoio. — Non hai alcun potere magico
quando sei vicina a me.
Un brivido gelido percorse la spina dorsale di Perenelle quando si rese conto dell’astuzia di Dee.
Adesso era una qualunque prigioniera di Alcatraz, inerme e impotente, e sapeva che nessuno era mai
fuggito vivo di lì.
CAPITOLO TRENTACINQUE
Una campanella tintinnò quando Nicholas Flamel aprì la porta e si fece da parte, cedendo il passo a
una donna anziana di aspetto piuttosto comune, vestita con una semplice camicetta grigia e una gonna
dello stesso colore. Bassa e rotondetta, con i capelli vagamente azzurrini acconciati in una
permanente, si faceva notare solo per i grandi occhiali neri, che le coprivano gran parte del viso.
Aveva un bastone bianco ripiegato nella mano destra.
Sophie e Josh capirono subito che era cieca.
Flamel si schiarì la voce. — Permettete che vi presenti… — si interruppe e guardò la donna. — Mi
scusi. Come devo chiamarla?
— Mi chiami Dora, come fanno tutti. — Parlava con un marcato accento newyorkese. — Scathach?
— disse a un tratto. — Scathach! — E poi le parole si dissolsero in una lingua che sembrava fatta di
una grande quantità di suoni sputacchianti… e che Sophie, con sua sorpresa, scoprì di riuscire a
comprendere.
— Vuole sapere perché Scatty non è venuta a trovarla negli ultimi trecentosettantadue anni, sei
mesi e quattro giorni — tradusse per Josh. Stava fissando attentamente l’anziana donna e non si
accorse della paura e dell’invidia che si dipinsero per un attimo sul volto del fratello.
La vecchia si muoveva molto svelta in quello spazio angusto, spostando la testa da ogni lato, senza
mai rivolgersi direttamente a Scatty. Continuava a parlare, quasi senza riprendere fiato.
— Sta dicendo a Scatty che poteva anche essere morta all’insaputa di tutti. E senza che importasse a
nessuno. Caspita, non più di qualche decina di anni fa, si è ammalata gravemente e nessuno ha
telefonato, né scritto…
— Nonna… — cominciò Scatty.
— Non chiamarmi nonna! — disse Dora, tornando all’inglese. — Potevi scrivere… in una qualsiasi
lingua. Potevi telefonare…
— Non hai il telefono.
— E la posta elettronica? Il fax?
— Nonna, ce li hai il computer e il fax?
Dora si fermò. — No. Che me ne farei?
La mano di Dora si mosse e il bastone bianco si allungò di scatto. La donna lo usò per tamburellare
sulla superficie di un semplice specchio quadrato. — Non ce l’hai uno specchio?
— Sì, nonna — disse Scatty, affranta. Le sue guance pallide erano arrossite per l’imbarazzo.
— E così non hai trovato il tempo di guardarci dentro per parlare con me. Sei così occupata in
questi giorni? L’ho dovuto sapere da tuo fratello. E quando è stata l’ultima volta che hai parlato con
tua madre?
Scathach si girò verso i gemelli. — Questa è mia nonna, la leggendaria Strega di Endor. Nonna,
questi sono Sophie e Josh. E hai già conosciuto Nicholas Flamel.
— Sì, che uomo simpatico. — Continuava a girare la testa tutt’intorno, le narici dilatate. —
Gemelli — disse infine.
Sophie e Josh si scambiarono uno sguardo. Come faceva a saperlo? Glielo aveva detto Nicholas?
C’era qualcosa nel modo in cui la donna continuava a muovere la testa che incuriosì Josh. Cercò di
seguire la direzione del suo sguardo… e si rese conto del perché continuasse a muoverla a destra e a
manca: in qualche modo, riusciva a vederli attraverso gli specchi. Automaticamente, toccò la mano
della sorella e indicò uno specchio con un cenno della testa. Lei lo guardò, scrutò la vecchia e poi di
nuovo lo specchio, quindi annuì.
Dora si avvicinò a Scathach, la testa piegata di lato a fissare intensamente un lungo specchio
levigato. — Sei sciupata. Mangi come si deve?
— Nonna, sono così da due millenni e mezzo, ormai.
— Non mi starai dicendo che sto diventando cieca, eh? — sbottò la vecchia, poi sorprese tutti
scoppiando in una profonda risata. — Vieni a dare un bell’abbraccio alla tua vecchia nonna.
Scathach abbracciò delicatamente l’anziana donna e la baciò sulla guancia. — Sono contenta di
vederti, nonna. Hai un ottimo aspetto.
— Sembro proprio una vecchia. Ti sembro vecchia?
— Non dimostri più di diecimila anni — sorrise Scatty.
La Strega le diede un buffetto sulla guancia. — L’ultimo a essersi preso gioco di me è stato un
ispettore delle tasse. L’ho trasformato in un fermacarte — disse. — Devo averlo ancora qui da qualche
parte.
Flamel tossicchiò con discrezione. — Madame Endor…
— Mi chiami Dora — lo fulminò la vecchia.
— Dora. È a conoscenza di quello che è accaduto nel Regno d’Ombra di Ecate qualche ora fa? —
Non aveva mai incontrato la Strega prima d’allora: la conosceva solo di fama, ma sapeva che andava
trattata con la massima cautela. Era la leggendaria Antica Signora che aveva lasciato Danu Talis per
vivere come maestra in mezzo agli homines, secoli prima che l’isola si inabissasse. Si credeva che
fosse stata lei a creare il primo alfabeto degli uomini, quello sumero.
— Datemi una sedia — disse Dora ai suoi ospiti. Sophie prese quella su cui era seduta lei e Scatty
ci fece accomodare sua nonna. La vecchia si sporse in avanti, le mani appoggiate in cima al suo
bastone bianco. — So cosa è successo. Sono certa che ogni membro dell’Antica Razza sul continente
ha sentito la sua morte. — Vide lo sguardo di sorpresa dei suoi ascoltatori. — Non lo sapevate? —
Spostò la testa di lato e fissò uno specchio che si trovava di fronte a Scatty. — Ecate è morta e il suo
Regno d’Ombra è svanito. So che un’Antica Signora, una della Nuova Generazione e un umano
immortale sono responsabili della sua morte. Ecate dovrà essere vendicata. Non ora, e forse non tanto
presto: ma faceva parte della famiglia, e glielo devo. Pensaci tu.
Scatty si inchinò.
La Strega di Endor aveva pronunciato la sentenza di morte in tono pacato e Flamel capì che era
perfino più pericolosa di quanto avesse immaginato.
Dora si voltò in un’altra direzione e Flamel si ritrovò a guardare il suo riflesso in un elaborato
specchio dalla cornice d’argento. La donna tamburellò sul cristallo. — Ho visto quello che è accaduto
stamattina, un mese fa.
— E non hai avvertito Ecate! — esclamò Scatty.
— Era soltanto uno dei tanti fili dei futuri possibili. In altri, Ecate uccideva Bastet, e la Morrigan
eliminava Dee. In un altro ancora, Ecate uccideva lei, signor Flamel, e veniva a sua volta uccisa da
Scathach.
Erano tutte possibili versioni del futuro. Oggi ho scoperto quale si è avverata. — Volse lo sguardo
per la stanza, passando da specchi a vasi di cristallo a cornici pregiate. — Quindi so per quale motivo
siete qui, e so cosa volete che faccia. Ho riflettuto a lungo sulla risposta da darvi. Ho avuto un mese
per pensarci.
— E noi? — chiese Sophie. — Anche noi eravamo nei suoi fili?
— Sì, in molti — rispose la Strega.
— Cosa ci accadeva negli altri? — La domanda uscì dalla bocca di Josh prima che avesse avuto il
tempo di pensarci. In realtà non voleva conoscere la risposta.
— Dee e i suoi Golem oppure i ratti e gli uccelli vi uccidevano la maggior parte della volte. In altri
avevate un incidente con la macchina. Oppure morivate durante il Risveglio e cadevate insieme al
Regno d’Ombra.
Josh deglutì a fatica. — Sopravvivevamo solo in un filo?
— Sì, in uno soltanto.
— Non è una buona cosa, giusto? — bisbigliò.
— No — confermò la Strega di Endor seccamente. — Niente affatto buona. — Ci fu una lunga
pausa mentre Dora guardava con la coda dell’occhio la superficie di una teiera d’argento. Poi
l’anziana donna ricominciò di colpo a parlare. — Per prima cosa, sappiate che non posso risvegliare il
ragazzo. A questo dovranno pensare altri.
Josh alzò subito lo sguardo. — Ci sono altri in grado di farlo?
La Strega di Endor lo ignorò. — La ragazza ha una delle aure d’argento più pure che io abbia
incontrato in molte epoche. Bisogna insegnarle alcuni incantesimi di protezione personale se
vogliamo che sopravviva al resto del processo di Risveglio. Il fatto che sia ancora viva e vegeta dopo
tutte queste ore è una prova della sua forza di volontà. — Piegò la testa all’indietro e Sophie vide che
la stava osservando da uno specchio appeso al soffitto. — E lo farò.
— Grazie — disse Nicholas Flamel tirando un profondo sospiro. — So quanto sono state difficili le
ultime ore per lei.
Josh scoprì di non riuscire a guardare sua sorella. Il Risveglio non era ancora finito, c’era ancora
altro. Significava che doveva continuare a soffrire? Era una cosa insopportabile.
Scathach si inginocchiò di fronte alla sedia di sua nonna e le posò una mano sul braccio. — Nonna,
Dee e i suoi padroni stanno dando la caccia alle due pagine mancanti del Codice — disse. —
Immagino che ora sappiano, o per lo meno sospettino, che Sophie e Josh sono i gemelli menzionati nel
Libro di Abramo.
Dora annuì. — Dee lo sa.
Scathach sbirciò Flamel di sottecchi. — Allora sa che non può limitarsi a recuperare le due pagine,
ma deve anche catturare o uccidere i gemelli.
— Sì, sa anche questo — confermò Dora.
— E se riuscirà nel suo intento, questo mondo finirà? — domandò Scathach, trasformando la frase
in una domanda.
— Il mondo è già finito altre volte — rispose la Strega, sorridendo. — E sono sicura che finirà
ancora molte volte prima che il sole perda tutta la sua luce.
— Sai che Dee intende richiamare gli Oscuri Signori?
— Sì.
— Il Codice dice che gli Oscuri Signori possono essere fermati solo dall’Argento e dall’Oro —
continuò Scatty.
— Il Codice dice anche, se la memoria non m’inganna, che le mele sono velenose e che i ranocchi
si trasformano in principi. Non vorrai credere a tutto quello che c’è scritto — sbottò la Strega.
Flamel aveva letto il brano del Codice sulle mele. Pensava che si riferisse ai semi, che in effetti
erano velenosi, a patto che se ne mangiassero a chili. Ma non si era mai imbattuto nella sezione in cui
si parlava di ranocchi e di principi, anche se aveva letto il Libro centinaia di volte. Avrebbe voluto
indagare, ma non era quello il motivo per cui erano venuti. — Dora, insegnerà a Sophie i principi della
magia dell’Aria? Ha bisogno di saperne almeno quanto basta per riuscire a difendersi in caso di
attacco.
Dora alzò le spalle e sorrise. — Ho forse scelta?
Flamel non si era aspettato quella risposta. — Certo che ce l’ha.
La Strega di Endor scosse la testa. — Non questa volta. — Alzò la mano e si tolse gli occhiali.
Scatty non si mosse, e solo il brusco movimento muscolare della mascella di Flamel tradì la sua
sorpresa. I gemelli, invece, sobbalzarono per l’orrore, sconvolti. La Strega di Endor non aveva occhi.
Al loro posto, le orbite ospitavano due specchi di una perfetta forma ovale. — Ho rinunciato agli occhi
in cambio della Vista, la capacità di vedere i disegni del tempo: passato, presente e futuro-possibile.
Ci sono molti disegni, molte versioni di futuro-possibile, ma meno di quanto si creda. In questi ultimi
anni, i disegni hanno cominciato a unirsi, a congiungersi sempre di più. Ora rimangono soltanto pochi
futuri-possibili, e per la maggior parte terrificanti — aggiunse cupa. — E tutti sono collegati a voi
due. — Indicò con mano ferma Sophie e Josh. — Perciò, che scelta mi rimane? Questo è anche il mio
mondo. Ero qui prima ancora degli homines, ho dato loro il fuoco e il linguaggio. Non li abbandonerò
adesso. Addestrerò la ragazza, le insegnerò a proteggersi e le instillerò la capacità di controllare la
magia dell’Aria.
— Grazie — disse Sophie cautamente nel lungo silenzio che seguì.
— Non ringraziarmi. Questo non è un dono. È una maledizione!
CAPITOLO TRENTASEI
Josh uscì dalla bottega d’antiquariato, le guance in fiamme, con le ultime parole della Strega che gli
risuonavano ancora nelle orecchie. «Tu non puoi stare qui. Quello che insegno io non è fatto per le
orecchie degli homines.»
Guardandosi attorno, posando gli occhi prima su Flamel e Scatty e infine sulla sua gemella, Josh si
era d’un tratto reso conto di essere l’unico umano puro in quella stanza. Evidentemente, agli occhi
della Strega di Endor, Sophie non era più del tutto tale.
— Non c’è problema. Aspetterò… — aveva cominciato con la voce incrinata. Si era schiarito la
gola e aveva ritentato: — Aspetterò nel parco qui davanti. — E poi, senza voltarsi, aveva lasciato il
negozio, chiudendo la porta al tintinnio beffardo della campanella.
Ma il problema c’era. E pure bello grosso.

Sophie rimase a guardare suo fratello che usciva dal negozio, e non ebbe bisogno di ricorrere ai suoi
sensi risvegliati per sapere che era avvilito e arrabbiato. Voleva fermarlo, inseguirlo, ma Scatty le
sbarrò la strada, e con un dito sulle labbra e un impercettibile cenno del capo l’avvertì di non fiatare.
Prendendola per una spalla, Scatty la condusse di fronte alla Strega di Endor. L’anziana donna sollevò
le mani e seguì con dita inaspettatamente gentili il profilo e i lineamenti di Sophie. L’aura della
ragazza vibrò frizzando a ogni tocco.
— Quanti anni hai adesso? — chiese.
— Quindici. Cioè, quindici e mezzo. — Sophie non sapeva se il mezzo anno in più fosse
importante.
— Quindici anni e mezzo — ripeté Dora, scuotendo la testa. — Non mi ricordo nemmeno com’ero
alla tua età. — Abbassò il mento, quindi lo rialzò facendo cenno a Scatty. — Tu te li ricordi ancora i
tuoi quindici anni?
— Come se fosse ieri — rispose Scathach, incupendosi. — Non era quando venni a trovarti a
Babilonia e tu provasti a rifilarmi in moglie a Nabucodonosor?
— Sono sicura che ti sbagli — trillò Dora. — Penso che questo sia successo un po’ più tardi. E
comunque sarebbe stato un ottimo marito — aggiunse. Tornò a guardare Sophie, e la ragazza si scoprì
riflessa negli specchi che erano gli occhi della Strega. — Due sono le cose che devo insegnarti. Una di
queste è proteggerti, ed è la cosa più semplice del mondo. Ma istruirti nella magia dell’Aria è un po’
più complicato. L’ultima volta che l’ho fatto con un figlio degli homines, il poveretto ci ha impiegato
sessant’anni per impadronirsi delle basi, e perfino allora è caduto giù dal cielo al primo volo.
— Sessant’anni. — Sophie deglutì. Significava che ci avrebbe messo una vita per controllare quel
potere?
— Nonna, non abbiamo tutto questo tempo. Forse non ci restano nemmeno sessanta minuti.
Dora la fulminò dal riflesso di una cornice di cristallo vuota. — Allora perché non ci pensi tu, visto
che sei tanto esperta, eh?
— Nonna… — sospirò Scathach.
— Non dire “nonna” con quel tono di voce — disse Dora minacciosa. — Farò a modo mio.
— Non abbiamo tempo per farlo nel modo tradizionale.
— Non parlare a me di tradizione. Che vuoi che ne sappiano i giovani? Fidati di me, quando avremo
finito, Sophie saprà tutto quello che so io sulla magia elementale dell’Aria. — Tornò a guardare
Sophie. — Ma facciamo le cose con ordine: i tuoi genitori sono ancora vivi?
— Sì — rispose Sophie, sorpresa, non sapendo dove voleva andare a parare.
— Bene. E tu parli con tua madre?
— Sì, quasi tutti i giorni.
Dora rifilò a Scatty un’occhiataccia. — Sentito? Quasi tutti i giorni. — Prese una mano di Sophie
fra le sue e le diede dei colpetti affettuosi sul dorso. — Forse dovresti insegnare a Scathach un paio di
cosette. E una nonna ce l’hai?
— Sì, la madre di mio padre. Di solito la chiamo tutti i venerdì — aggiunse, rendendosi conto che
era proprio venerdì e che la nonna si sarebbe aspettata una telefonata.
— Tutti i venerdì — ripeté la Strega di Endor rimarcando le parole e guardando di nuovo Scatty, ma
la Guerriera scansò volutamente lo sguardo e si concentrò su un elaborato fermacarte di cristallo. Lo
rimise a posto non appena si accorse che dentro c’era un omino in giacca a cravatta, con una valigetta
in una mano e un fascio di documenti nell’altra. Batteva ancora le palpebre.
— Non ti farà male — disse la Strega.
Sophie dubitava che potesse essere peggio di quello che aveva già passato. Arricciò il naso
all’odore di legna bruciata e si sentì investire le mani da una brezza fresca. Abbassò lo sguardo. Una
sottilissima ragnatela bianca si stava sprigionando vorticosamente dalle dita della Strega di Endor, per
poi avvilupparsi come una benda attorno a quelle di Sophie. La ragnatela si aggrovigliò attorno al suo
palmo, ricoprendolo completamente, quindi si avvolse attorno al polso e cominciò a salirle per il
braccio. A questo punto capì che la Strega aveva voluto distrarla con le sue domande. Sophie guardò
negli occhi a specchio della donna e scoprì di non riuscire più a formulare i propri dubbi ad alta voce.
Era come se avesse perso la capacità di parlare. Si stupì, inoltre, scoprendo di non avere affatto paura;
anzi, dal momento in cui la Strega le aveva preso la mano, un’ondata di pace e di serenità l’aveva
pervasa in tutto il corpo. Guardò di sottecchi Scatty e Flamel. Stavano osservando il processo
sconvolti, con gli occhi sbarrati, e Scathach aveva persino un’espressione simile all’orrore dipinta sul
viso.
— Nonna… sei sicura di quello che fai? — domandò Scathach.
— Certo che sono sicura — la fulminò l’anziana donna.
E anche se la Strega di Endor si stava rivolgendo a Scathach, Sophie riusciva a sentire la voce della
vecchia nella sua testa: le stava parlando, sussurrava antichi segreti, mormorava incantesimi arcaici,
divulgava il sapere di un’intera vita nell’arco di un respiro e di un battito di ciglia.
— Questa non è una ragnatela — spiegò Dora allo sbigottito e silenzioso Flamel, notando che
l’uomo osservava i fili che si avviluppavano attorno alle braccia di Sophie. — È aria concentrata e
mescolata con la mia aura. Tutta la mia conoscenza, la mia esperienza e perfino la mia dottrina sono
raccolte in essa. E da quando ha toccato Sophie, lei ha cominciato ad assorbire tutto questo sapere.
Sophie respirò a fondo, riempiendosi i polmoni dell’aria odorosa di legno. Le immagini
cominciarono a susseguirsi nella sua testa a una velocità spaventosa: epoche e luoghi remoti, mura
ciclopiche, navi d’oro massiccio, dinosauri e draghi, una città scavata in una montagna di ghiaccio e
volti… centinaia, migliaia di volti, di ogni razza ed epoca, umani e semiumani, creature mannare e
mostri. Tutto quello che la Strega aveva visto le stava adesso passando davanti agli occhi.
— Gli egiziani non avevano capito — continuò Dora, le mani operose troppo veloci perché Flamel
riuscisse a seguirne i movimenti. — Loro bendavano i morti — proseguì. — Ma non si erano resi
conto che io bendavo i vivi. C’è stato un tempo in cui infondevo un po’ del mio sapere nei miei
seguaci e li inviavo per il mondo per insegnare a mio nome. Evidentemente, nell’antichità qualcuno ha
assistito a questo processo e ha provato a copiarlo.
D’un tratto Sophie vide una dozzina di persone avvolte come lei e una Dora più giovane che si
muoveva in mezzo a loro, vestita nel costume dell’antica Babilonia. E capì che si trattava dei
sacerdoti e delle sacerdotesse del culto dedicato alla Strega.
La tela di aria candida adesso fluì lungo le gambe di Sophie, legandole assieme. D’istinto, la
ragazza incrociò le braccia al petto, la mano destra sulla spalla sinistra, la sinistra su quella destra. La
Strega approvò con un cenno.
Sophie chiuse gli occhi e vide delle nuvole. Senza sapere come, conosceva i loro nomi: cirro,
cirrocumulo, altostrato, stratocumulo, nembostrato e cumulo. Erano tutte diverse, e ciascuna aveva le
sue caratteristiche e le sue qualità particolari. E si rese conto di sapere come riuscire a usarle, a
plasmarle, a crearle e a muoverle.
Le immagini tremarono.
Lampeggiarono.
Vide una donna minuta sotto un limpido cielo azzurro alzare una mano e creare una nuvola sopra la
propria testa. La pioggia irrigò un campo riarso.
Le immagini lampeggiarono di nuovo.
Un uomo alto e barbuto in riva al mare alzava le mani e un vento impetuoso divideva le acque.
E le immagini lampeggiarono ancora.
Una giovane donna bloccava l’infuriare di una tempesta con un solo gesto, poi correva in una
casupola di legno e afferrava un bambino. Un istante dopo la tempesta inghiottiva la casa.
Sophie osservava le immagini e imparava.
La Strega di Endor accarezzò la guancia di Sophie e la ragazza aprì gli occhi. Il bianco delle pupille
era punteggiato di scintille d’argento. — Alcuni ti diranno che la magia del Fuoco o dell’Acqua, o
perfino della Terra, è la più potente di tutte. Ma si sbagliano. La magia dell’Aria supera tutte le altre.
L’Aria può estinguere il fuoco. Può ridurre l’acqua a vapore e sollevare la terra. Ma può anche
ravvivare le fiamme, spingere una barca in mare e plasmare il paesaggio. L’aria può ripulire una
ferita, può sfilare una scheggia da un dito. L’Aria può uccidere.
L’ultima candida ragnatela d’aria ricoprì il volto di Sophie e lei fu completamente avvolta, come
una mummia.
— Quello che ti ho appena dato è un dono terrificante. Dentro di te, adesso, è racchiusa una vita
intera, una vita molto lunga, ricca di esperienza. Spero che ti sarà utile nei difficili giorni a venire.
Sophie stava di fronte alla Strega di Endor avvolta nelle candide bende d’aria. Non era come il
Risveglio. Questo processo era più sottile, più dolce. Scoprì di conoscere cose… incredibili. Aveva
ricordi di epoche impossibili e di luoghi straordinari. Ma insieme a quei ricordi e a quelle emozioni,
aveva anche i propri pensieri. Stava già trovando difficile separarli.
Poi il fumo cominciò ad agitarsi, a sibilare, a sbuffare vapore.
Dora si girò di colpo verso Scatty. — Vieni ad abbracciarmi, bambina. Non ti vedrò più.
— Nonna?
Dora avvolse le braccia attorno alle spalle di Scatty e accostò le labbra al suo orecchio.
Abbassò la voce a poco più di un sussurro. — Ho dato a questa ragazza un potere raro e terribile.
Fai in modo che venga usato a fin di bene.
Scathach annuì, non del tutto certa di capire cosa l’anziana donna le stava suggerendo.
— E chiama tua madre. È preoccupata per te.
— Va bene, nonna.
L’involucro simile a una mummia si dissolse all’improvviso in una nuvola di vapore e nebbia, e
l’aura di Sophie brillò di un argento accecante. La ragazza allungò le braccia, le dita larghe e distese, e
un breve soffio di vento entrò nella stanza.
— Attenta! Chi rompe paga — la avvertì la Strega.
Poi, all’improvviso, Scathach, Dora e Sophie si girarono a guardare fuori, fissando il cielo del
pomeriggio che si scuriva. Un istante dopo, Flamel sentì l’inconfondibile odore sulfureo delle uova
marce. — Dee!
— Josh! — Gli occhi di Sophie si spalancarono. — Josh è là fuori!
CAPITOLO TRENTASETTE
Il dottor John Dee arrivò a Ojai quando le luci del tramonto stavano tingendo di spettacolari sfumature
rosate le montagne circostanti. Aveva viaggiato tutto il giorno; era stanco e irritabile, e aspettava solo
una scusa per prendersela con qualcuno.
Il Regno d’Ombra di Ecate gli aveva prosciugato la batteria del cellulare, così ci aveva messo più di
un’ora per trovare un telefono e contattare il suo ufficio. Poi era dovuto starsene a sedere sul ciglio
della strada per altri novanta minuti, fumante di rabbia, mentre un’intera squadra di autisti perlustrava
tutte le vie secondarie della Mill Valley alla sua ricerca. Erano quasi le nove e trenta quando
finalmente era rientrato nei suoi uffici della Enoch Enterprises, nel cuore della città.
Lì aveva saputo che Perenelle era già stata trasferita ad Alcatraz. La sua compagnia aveva
recentemente acquistato l’isola dallo Stato, per poi chiuderla al pubblico con la scusa dei lavori di
restauro. Sui giornali girava voce che il carcere potesse diventare un museo storico permanente. In
realtà, il dottore intendeva restituirlo alla sua natura originaria: quella di una delle prigioni più sicure
del mondo. Per un attimo, Dee aveva pensato di raggiungere l’isola e prelevare Perenelle, ma poi si
era detto che sarebbe stata una perdita di tempo. Le pagine mancanti del Codice e i gemelli erano le
sue priorità. Anche se Bastet gli aveva ordinato di ucciderli se non fosse riuscito a rapirli, lui aveva
altro in mente.
Dee era a conoscenza della famosa profezia del Libro di Abramo il Mago. Gli Antichi Signori
avevano saputo dell’arrivo dei gemelli, “i due che sono uno e l’uno che è tutto”. Uno per salvare il
mondo, uno per distruggerlo. Ma chi era chi? Chissà se era possibile plasmare e piegare i loro poteri
tramite un addestramento adeguato? Trovare il ragazzo stava diventando importante quanto recuperare
le pagine mancanti del Codice. Quell’aura d’oro doveva essere sua.

Il dottor John Dee aveva vissuto per qualche tempo a Ojai, a cavallo fra il Diciannovesimo e il
Ventesimo secolo, quando ancora la città si chiamava Nordhoff, per depredare dei loro cimeli preziosi
i cimiteri degli indiani Chumash della zona. L’aveva odiata: Ojai era troppo piccola, troppo
provinciale e, nei mesi estivi, troppo calda per i suoi gusti. Dee preferiva sempre le grandi città, dove
era più facile rimanere invisibili e anonimi.
Era arrivato a Santa Barbara in elicottero da San Francisco, e poi aveva noleggiato un’automobile,
un’anonima Ford, al piccolo aeroporto. Da qui aveva raggiunto Ojai in macchina, arrivando proprio
mentre il sole di quello spettacolare tramonto tingeva la città di ombre lunghe ed eleganti. Ojai era
cambiata radicalmente nei cento anni circa trascorsi dall’ultima volta in cui l’aveva vista… ma
continuava a non piacergli.
Imboccò Ojai Avenue e rallentò. Flamel e gli altri erano vicini; lo sentiva. Ma doveva andarci
piano, adesso. Se lui riusciva a percepirli, significava che anche loro – soprattutto l’Alchimista e
Scathach – riuscivano a percepire lui. E ancora non aveva idea di cosa fosse capace la Strega di Endor.
Il fatto che un Antico Signore del suo livello vivesse in California a sua totale insaputa era
estremamente preoccupante. Pensava di conoscere la posizione esatta della maggior parte degli
Antichi Signori e degli umani immortali più importanti al mondo. Dee si chiese come doveva
interpretare il fatto che la Morrigan fosse stata irrintracciabile per tutto il giorno. Le aveva telefonato
varie volte lungo il tragitto, ma lei non aveva mai risposto. Era sicuramente su eBay oppure si
dedicava a uno di quegli interminabili giochi di strategia online da cui era dipendente. Non sapeva
dove fosse Bastet e non gli interessava. Aveva paura di lei, e Dee tendeva a distruggere coloro che
temeva.
Flamel, Scathach e i gemelli potevano essere ovunque in città. Ma dove?
Dee riversò un po’ d’energia nella sua aura. Batté le palpebre sentendosi affiorare le lacrime agli
occhi, quindi le batté di nuovo per ricacciarle indietro. Di colpo, i passeggeri dell’auto accanto, le
persone che attraversavano la strada e i pedoni sul marciapiede si accesero di aure mobili e
multicolori. Alcune erano solo ciuffi di fumo diafano, altre erano macchie scure oppure strati di colori
opachi e senza sfumature.
Alla fine, li trovò per puro caso: stava attraversando Ojai Avenue, poco dopo il Libbey Park, quando
intravide il SUV nero fermo in Fox Street. Accostò e parcheggiò dietro l’auto. Nel momento stesso in
cui scese dalla macchina, colse il vago bagliore di un’aura d’oro puro che proveniva dal parco, vicino
alla fontana. Le labbra di Dee si piegarono in un sorriso privo di allegria.
Stavolta non gli sarebbero sfuggiti.

Josh Newman era seduto sul bordo della bassa e lunga fontana di Libbey Park, di fronte al negozio
d’antiquariato, fissando l’acqua. Due grandi vasche a forma di fiore, più grandi di quella, erano
posizionate una sopra l’altra al centro di un bacino circolare. L’acqua fuoriusciva a spruzzi dalla vasca
superiore e ricadeva ai lati in quella inferiore e più grande, per poi fluire nel bacino principale. Il
suono aiutava a smorzare i rumori del traffico vicino.
Josh si sentiva solo, e più che mai sperduto.
Quando la Strega gli aveva ordinato di uscire dal negozio, aveva passeggiato un po’ sotto le arcate e
si era fermato davanti a una gelateria, attratto dagli odori del cioccolato e della vaniglia. Era rimasto
fuori, a leggere il menu pieno di gusti esotici, e si era chiesto come mai l’aura di sua sorella
profumasse di gelato alla vaniglia e la sua di arance. A lei il gelato non piaceva neanche tanto; era lui
quello che ne andava matto.
Tamburellando con il dito sul menù, aveva indicato il gelato ai mirtilli.
Si era ficcato la mano nella tasca posteriore dei jeans… e in un attimo era stato preso dal panico,
accorgendosi che il portafoglio non c’era. L’aveva lasciato in macchina oppure l’aveva…? Si era
interrotto.
Sapeva esattamente dove l’aveva lasciato.
L’ultima volta che aveva visto il suo portafoglio, insieme al cellulare scarico, all’iPod e al portatile,
era sul pavimento accanto al letto della sua camera, nell’Yggdrasill. Perdere il portafoglio era già un
guaio, ma perdere il computer era un disastro bello e buono. C’erano dentro tutte le sue e-mail, tutti
gli appunti di scuola, un progetto estivo già iniziato, tre anni di foto – incluso l’ultimo viaggio di
Natale a Cancùn – e almeno sessanta giga di MP3. Non ricordava l’ultima volta che aveva fatto il back-
up, ma di certo non era una data molto recente. Si era sentito letteralmente male e, di colpo, i profumi
della gelateria non gli erano sembrati più tanto dolci e invitanti.
Al colmo dello sconforto, aveva girato l’angolo e attraversato la strada al semaforo di fronte
all’ufficio postale, quindi si era diretto a sinistra, verso il parco.
L’iPod era stato un regalo di Natale dei suoi genitori. Cosa gli avrebbe detto per spiegare che
l’aveva perso? Senza contare che lì c’erano almeno altri trenta giga di musica.
Ma peggio ancora della perdita dell’iPod, del portafoglio e perfino del computer, era la perdita del
cellulare. Quello era un vero e proprio incubo. C’erano tutti i numeri dei suoi amici, e sapeva di non
averli scritti da nessuna parte. Col fatto che i loro genitori viaggiavano così tanto, i gemelli facevano
di rado più di uno o due semestri nella stessa scuola. Stringevano amicizia facilmente, soprattutto
Sophie, ed erano ancora in contatto con ragazzi conosciuti anni prima in scuole sparse per tutta
l’America. Senza quegli indirizzi email e quei numeri di telefono, come avrebbe fatto a rintracciarli?
E come li avrebbe ritrovati?
C’era una fontanella in un angolo prima dell’ingresso del parco, e si era chinato a bere. Dal muretto
sporgeva la testa ornamentale di un leone in ferro battuto, sotto la quale una targhetta rettangolare
recitava: “L’amore è l’acqua della vita, bevilo fino in fondo.” Dopo essersi rinfrescato le labbra con
l’acqua gelida, si era girato a guardare il negozio. Chissà cosa stava succedendo lì dentro. Voleva bene
a sua sorella, ma lei gliene voleva ancora? Poteva volergli ancora bene, adesso che lui era… normale?
Il parco era tranquillo. Josh sentiva i bambini che scorrazzavano nel vicino campo giochi, ma le
loro voci sembravano acute e molto lontane. Un terzetto di anziani vestiti in maniera identica –
camicie a maniche corte, pantaloni corti, calzini bianchi e sandali – se ne stava su una panchina
all’ombra. Uno gettava briciole a una manciata di piccioni pigri e grassocci. Josh si era seduto sul
bordo della grande fontana, sporgendosi per sfiorare l’acqua con la mano. Dopo tutto il caldo
opprimente del pomeriggio, la sensazione era fresca e gradevole; si era passato le dita bagnate fra i
capelli, lasciando che le gocce d’acqua gli arrivassero fino al collo.
Che cosa avrebbe fatto?
Poteva fare qualcosa?
Nel giro di ventiquattro ore la sua vita, e quella di sua sorella, era cambiata radicalmente e in modi
incomprensibili. Quelle che un tempo riteneva semplici storie, si erano rivelate verità. La mitologia
era diventata storia e le leggende realtà. Quando prima Scatty aveva rivelato che la misteriosa Danu
Talis era chiamata anche Atlantide, per poco non le aveva riso in faccia. Per lui, Atlantide era sempre
stata una favola. Ma se Scathach, Ecate, la Morrigan e Bastet erano reali, allora anche Danu Talis
doveva esserlo. E il lavoro a cui i suoi genitori stavano dedicando la vita, l’archeologia, non aveva più
alcun senso.
Josh era consapevole dentro di sé di aver perso anche la sua gemella, la costante della sua vita,
l’unica persona su cui poteva sempre contare. Era cambiata in modi che lui non riusciva nemmeno a
concepire. Perché non era stato risvegliato anche lui? Avrebbe dovuto insistere per essere il primo.
Chissà com’era avere quei poteri. Riusciva a paragonarli solo a quelli dei supereroi. Anche se i sensi
appena risvegliati di Sophie la stavano facendo soffrire, Josh la invidiava.
Con la coda dell’occhio, intravide un uomo sedersi sul bordo della fontana, ma lo ignorò. Raccolse
con aria assente uno dei frammenti di ceramica azzurri sparsi lì attorno.
Che cosa avrebbe fatto?
E la risposta era sempre la stessa: che cosa poteva fare?
— Anche tu sei una vittima?
Gli ci volle un attimo per rendersi conto che la figura seduta alla sua destra stava parlando con lui.
Fece per alzarsi, rispettando la regola d’oro per affrontare ogni genere di maniaco: mai rispondere e
mai, mai farsi coinvolgere in una conversazione.
— A quanto pare siamo tutti vittime di Nicholas Flamel.
Sbigottito, Josh alzò lo sguardo… e scoprì di trovarsi di fronte al dottor John Dee, l’uomo che si era
augurato di non incontrare mai più in vita sua. L’ultima volta che lo aveva visto era stato nel Regno
d’Ombra, e Dee teneva Excalibur fra le mani. Adesso gli stava seduto davanti, con un’aria piuttosto
fuori luogo nel suo impeccabile completo grigio. Josh si guardò rapidamente attorno, aspettandosi di
vedere Golem o ratti, o perfino la Morrigan in agguato nell’ombra.
— Sono solo — disse Dee in tono amichevole, con un sorriso cortese.
La mente di Josh era in subbuglio. Doveva raggiungere Flamel, doveva avvertirlo che Dee era a
Ojai. Si chiese cosa sarebbe successo se si fosse alzato e messo a correre. Dee avrebbe provato a
fermarlo con la magia di fronte a tutta quella gente? Josh guardò di nuovo i tre vecchietti, e capì che
se Dee l’avesse trasformato in un elefante, in pieno centro cittadino, probabilmente non lo avrebbero
nemmeno notato.
— Sai da quanto tempo sto dando la caccia a Nicholas Flamel, o Nick Fleming, o a una qualsiasi
delle sue centinaia di identità fasulle? — continuò Dee imperturbabile, nel tono di chi fa
conversazione. Si sporse per far scorrere le dita nell’acqua. — Almeno cinquecento anni. E mi è
sempre sfuggito, tanto è astuto e pericoloso. Nel 1666, quando lo avevo quasi messo alle strette a
Londra, ha appiccato un incendio che per poco non ha raso la città al suolo.
— Flamel ha detto che è stato lei a causare il Grande Incendio — si lasciò sfuggire Josh.
Nonostante la paura, era curioso. E di colpo si ricordò uno dei primi consigli che Flamel gli aveva
dato: “Niente è come sembra. Dubitate di tutto.” Josh si ritrovò a chiedersi se il consiglio valeva
anche per lo stesso Alchimista. Il sole era tramontato, e c’era una decisa punta di freddo nell’aria della
sera. Josh rabbrividì. I tre vecchietti si allontanarono ciabattando, senza guardare mai dalla sua parte,
lasciandolo solo con il mago. Strano a dirsi, non si sentiva minacciato dalla sua presenza.
Sulle labbra sottili di Dee balenò un sorriso. — Flamel non dice mai tutto a nessuno — disse. — Un
tempo amavo ripetere che metà di quello che dice è una menzogna, e che nemmeno l’altra metà è mai
del tutto vera.
— Nicholas dice che lei lavora con gli Oscuri Signori. Quando avrà ottenuto tutto il Codice, li
riporterà su questo mondo.
— Corretto fino al minimo dettaglio — disse Dee, cogliendolo di sorpresa. — Anche se non c’è
dubbio che Nicholas ha distorto un po’ la storia. È vero, lavoro con gli Antichi Signori — continuò —
e sì, sto cercando le ultime due pagine del Libro di Abramo il Mago, comunemente noto come il
Codice. Ma solo perché Flamel e sua moglie lo hanno rubato dalla sua sede originaria, la Bibliothèque
du Roi del Louvre.
— Flamel lo ha rubato?
— Permettimi di parlarti di Nicholas Flamel — disse Dee, paziente. — Sono certo che lui ti ha
parlato di me. Egli è stato molte cose ai suoi tempi: medico e cuoco, libraio e soldato, maestro di
lingue e di chimica, ufficiale della legge e ladro insieme. Ma è ed è sempre stato un bugiardo, un
ciarlatano e un imbroglione. Ha rubato il Libro dal Louvre quando ha scoperto che conteneva non
soltanto la pozione per l’immortalità, ma anche la formula della pietra filosofale. Fabbrica la pozione
dell’immortalità ogni mese per mantenere se stesso e Perenelle alla stessa identica età del giorno in
cui l’hanno bevuta per la prima volta. Usa la formula della pietra filosofale per trasformare il rame e
il piombo in oro, e pezzi di carbone in diamanti. Impiega una delle più straordinarie raccolte di sapere
del mondo unicamente a scopi personali. Ecco la verità.
— E Scatty ed Ecate? Appartengono o no all’Antica Razza?
— Oh, assolutamente. Ma Ecate era anche una nota criminale. Era stata bandita da Danu Talis per i
suoi esperimenti con gli animali. Quella che voi chiamereste ingegneria genetica, suppongo: ha creato
lei i clan Mannari, per esempio, riversando poi quella piaga sull’umanità. Avrai visto anche tu alcuni
dei suoi esperimenti, ieri… gli uomini-cinghiale. Scathach non è che una mercenaria, condannata per i
suoi crimini a rimanere nel corpo di un’adolescente per il resto dei suoi giorni. Quando Flamel ha
saputo che ormai gli ero addosso, loro erano le uniche persone a cui poteva rivolgersi.
A questo punto Josh era terribilmente confuso. Chi diceva la verità? Flamel o Dee?
Aveva freddo. La notte non era ancora calata del tutto, ma una bassa nebbia avvolgeva la città.
L’aria odorava di terra umida, con in più un lieve sentore di uova marce. — E lei? Sta davvero
lavorando per il ritorno degli Antichi Signori?
— Ma certo — rispose Dee, con voce sorpresa. — Probabilmente è la cosa migliore che possa fare
per questo mondo.
— Flamel dice che gli Antichi Signori, gli Oscuri Signori, come li chiama lui, distruggerebbero il
mondo.
Dee alzò le spalle. — Credimi quando ti dico che vi sta mentendo. Gli Antichi Signori
cambierebbero questo mondo in meglio… — Le dita di Dee si mossero nell’acqua, e la superficie si
increspò di piccole onde languide e incantate. Sbigottito, Josh vide comparirvi delle immagini che
corrispondevano alle parole suadenti di Dee. — Nei tempi antichi, la terra era un paradiso. La
tecnologia era incredibilmente avanzata, ma l’aria era pulita, l’acqua pura, i mari limpidi.
Comparve l’immagine ondulata di un’isola sotto un cielo limpido e terso; all’orizzonte, campi
sconfinati di grano, alberi carichi di ogni possibile frutto esotico.
— Non solo l’Antica Razza ha plasmato questo mondo, ma ha anche avviato un ominide primitivo
sulla strada dell’evoluzione. Ma gli Antichi Signori sono stati scacciati da questo paradiso dalle
stupide superstizioni di Abramo e dagli incantesimi del Codice. Essi non sono morti, ci vuole ben
altro per ucciderli: sono solo in attesa. Sapevano che un giorno l’umanità sarebbe tornata in sé e li
avrebbe richiamati a salvare la Terra.
Josh non riusciva a staccare gli occhi dall’acqua scintillante. Molte delle cose che aveva detto Dee
sembravano plausibili.
— Se riusciamo a riportarli indietro, gli Antichi Signori hanno il potere e la capacità di riplasmare
questo mondo. Possono far fiorire i deserti…
Una nuova immagine si formò nell’acqua: enormi dune desertiche spazzate dal vento diventavano
verdi e rigogliose d’erba.
Poi comparve un’altra immagine. Josh guardava la Terra dallo spazio, come in Google Earth. Un
grosso vortice di nuvole si era formato sopra il Golfo del Messico, diretto sul Texas. — Controllano il
clima — disse Dee, e la tempesta si dissipò.
Le dita di Dee si mossero e comparve l’inconfondibile immagine di una corsia d’ospedale, con una
lunga fila di letti vuoti.
— E curano le malattie. Ricorda, questi esseri erano adorati come divinità per via dei loro poteri. È
il loro ritorno che Flamel sta cercando di ostacolare.
Josh ci mise un secolo per chiedere: — Perché? — Non riusciva a capire il motivo per cui Flamel
volesse impedire un progresso così evidente.
— Perché ha i suoi padroni, Antichi Signori come Ecate e la Strega di Endor, per esempio, che
preferiscono che il mondo si dissolva nel caos e nell’anarchia. E quando ciò accadrà, essi usciranno
dall’ombra e si proclameranno padroni del mondo. — Dee scosse la testa tristemente. — Mi addolora
dirlo, ma a Flamel non importa niente né di te, né di tua sorella. Oggi le ha fatto correre un pericolo
terribile solo per risvegliare rozzamente i suoi poteri. Gli Antichi Signori per i quali opero io
impiegano tre giorni per guidare qualcuno nella cerimonia del Risveglio.
— Tre giorni — borbottò Josh. — Flamel ha detto che non c’era nessun altro in Nord America in
grado di risvegliarmi. — Non voleva credere a Dee… eppure tutto quello che aveva detto suonava così
ragionevole.
— Un’altra menzogna. I miei Antichi Signori potrebbero farlo. E lo farebbero nel modo più
appropriato e più sicuro. Dopo tutto, è un processo pericoloso.
Dee si alzò lentamente e andò ad accovacciarsi accanto a Josh, per guardarlo dritto negli occhi. Una
coltre di nebbia cominciò a addensarsi e a vorticare attorno alla fontana, gonfiandosi e spostandosi
con i movimenti dell’uomo. La voce di Dee era suadente e vellutata, un tenue mormorio monotono in
sincronia con le increspature dell’acqua. — Come ti chiami?
— Josh.
— Josh — gli fece eco Dee. — Dov’è Nicholas Flamel ora?
Perfino in quello stato di stordimento, un campanellino d’allarme – molto debole e molto, molto
lontano – risuonò nella testa di Josh. Non poteva fidarsi di Dee, non doveva fidarsi di Dee… eppure
molte delle sue parole sembravano contenere un nocciolo di verità.
— Dov’è, Josh? — insisté Dee.
Josh cominciò a scuotere la testa. Anche se credeva a Dee, perché tutto quello che aveva detto
sembrava avere senso, voleva prima parlare con Sophie, aveva bisogno del suo consiglio e della sua
opinione.
— Dimmelo. — Dee sollevò la mano intorpidita di Josh e la immerse nella vasca. L’acqua si
increspò. Quando le onde si stabilizzarono, apparve l’immagine di una bottega d’antiquariato piena di
cristalli, di fronte a Libbey Park. Con un sorriso di trionfo, Dee si alzò in piedi, lo sguardo puntato
dall’altra parte della strada, i sensi all’erta.
Individuò le aure all’istante.
Il verde di Flamel, il grigio di Scathach, il marrone della Strega di Endor e l’argento puro della
ragazza. Li aveva in pugno – e niente errori né fughe, stavolta.
— Tu rimani seduto qui a goderti queste graziose immagini — mormorò Dee, con un colpetto sulla
spalla di Josh. L’acqua fiorì di disegni esotici e geometrici, ammaliatori e ipnotizzanti.
— Torno subito. — Poi, senza muovere un muscolo, richiamò il suo esercito in agguato.
Di colpo, la nebbia si addensò e si scurì, fetida della puzza di uova marce e di qualcos’altro: polvere
e terra secca, umidità e muffa.
E l’orrore calò su Ojai.
CAPITOLO TRENTOTTO
Le mani di Nicholas Flamel stavano già cominciando a mandare bagliori verdi quando aprì la porta
della bottega, reagendo con una smorfia di fastidio al suono allegro della campanella.
Il sole era precocemente scomparso al di là dell’orizzonte e una nebbia gelida era calata sulla valle.
Mulinava e serpeggiava lungo tutta Ojai Avenue, arricciandosi e vorticando fra gli alberi, rivestendo
di umidità tutto ciò che toccava. Le macchine procedevano a passo d’uomo, i fari ridotti ad aloni di
luce che penetravano a stento nell’oscurità. La strada era completamente deserta: la gente che prima
passeggiava vestita per l’estate era corsa in casa a ripararsi dall’umidità.
Scatty raggiunse Flamel sulla porta, con una spada corta in una mano e il nunchaku che ciondolava
dall’altra. — Questa nebbia non promette niente di buono. — Inspirò a fondo. — Lo senti?
Flamel annuì. — Zolfo. L’odore di Dee.
Scatty scosse il nunchaku. — Sta davvero cominciando a seccarmi.
Da qualche parte in lontananza si sentì il rumore metallico di due macchine che si scontravano.
L’allarme di un automobile echeggiò desolatamente alle loro spalle. Poi si sentì un grido, acuto e
terrificante, subito seguito da un altro e da un altro ancora.
— Sta arrivando. Qualunque cosa sia — disse Nicholas Flamel cupo.
— Non vogliamo rimanere intrappolati qui — esclamò Scatty. — Recuperiamo Josh e torniamo alla
macchina.
— D’accordo. Chi scappa vive più a lungo. — Si girò per guardare dentro la bottega. La Strega di
Endor, con il volto allarmato, aveva preso Sophie per il braccio e le stava sussurrando qualcosa
all’orecchio. Riccioli di fumo bianco si levavano ancora dalla ragazza e volute di aria candida
colavano dalle sue dita come bende sciolte.
Sophie baciò l’anziana donna sulla guancia, poi si girò e li raggiunse di corsa. — Dobbiamo
andarcene — disse senza fiato. — Dobbiamo filare via di qui. — Non aveva idea di cosa ci fosse fuori,
ma le nuove conoscenze appena acquisite le consentivano di popolare la nebbia di centinaia di
creature mostruose.
— E chiudetevi la porta alle spalle — gridò la Strega.
In quel preciso istante, tutte le luci tremarono e si spensero. Ojai era piombata nelle tenebre.
La campanella tintinnò quando il trio uscì nella strada ormai deserta. La nebbia era diventata così
fitta che gli automobilisti erano stati costretti ad accostare, e non c’era più traffico in movimento sulla
strada principale. Un silenzio innaturale era calato ovunque. Flamel si girò verso Sophie. — Riesci a
individuare Josh?
— Ha detto che ci avrebbe aspettati nel parco. — Sophie strizzò gli occhi, sforzandosi di penetrare
nella nebbia, ma era così fitta che non riusciva quasi a vedere a un palmo dal naso. Con al fianco
Flamel e Scatty, scese sul marciapiede e si diresse al centro della strada. — Josh? — La nebbia
inghiottì il suo richiamo, smorzandolo a poco più di un sussurro. — Josh — gridò di nuovo.
Nessuno rispose.
Colta da un pensiero improvviso, tese la mano destra, le dita spalancate. Uno sbuffo d’aria si
sprigionò dal suo palmo, ma servì solo a far vorticare e danzare la nebbia. Ci riprovò, e un vento forte
e gelido spazzò la strada, tagliando un nitido corridoio nella foschia e ammaccando il paraurti
posteriore di una macchina abbandonata in mezzo alla strada. — Ops! Mi sa che mi serve un po’ di
pratica — mormorò.
Una sagoma avanzò nell’apertura, seguita da una seconda e da una terza. E nessuna delle tre era
viva.
A pochissimi passi da Sophie, Flamel e Scatty, c’era uno scheletro completo, alto e dritto come un
fuso, con indosso i brandelli blu dell’uniforme da ufficiale della cavalleria americana. Le dita ossute
reggevano il moncone di una spada arrugginita. Quando girò la testa verso di loro, le ossa alla base del
cranio scricchiolarono.
— Negromanzia — disse Flamel con un filo di voce. — Dee ha evocato i morti.
Un’altra figura emerse dalla nebbia: era il corpo parzialmente mummificato di un uomo di fatica
delle ferrovie, con una grossa mazza di metallo fra le mani. Alle sue spalle c’era un altro morto, con
pochi residui di carne ridotti alla consistenza del cuoio. Aveva un paio di cinturoni di pelle sui fianchi
e, quando vide il gruppo, fece per afferrare le pistole mancanti con le dita scheletriche.
Sophie era impietrita e il vento fra le sue dita si spense. — Sono morti — sussurrò. — Scheletri.
Mummie. Sono tutti morti.
— Eh già — confermò Scatty in tono pratico. — Scheletri e mummie. Dipende dal tipo di terreno in
cui sono stati sepolti: terra umida? Ti toccano gli scheletri. — Fece un passo avanti e scagliò un colpo
di nunchaku, mozzando di netto la testa di un altro pistolero che stava per portarsi un fucile
arrugginito alla spalla. — Terra secca? Ti becchi le mummie. Il che però non gli impedisce di farti del
male. — Lo scheletrico ufficiale di cavalleria con la spada mozza partì all’attacco, e Scatty parò il
colpo con la sua spada. La lama arrugginita del morto si dissolse in polvere. Scatty sferrò un altro
attacco e staccò la testa dal corpo, che subito crollò a terra.
Nonostante le traballanti creature si muovessero nel silenzio più assoluto, cominciarono a levarsi
grida ovunque. E anche se erano attutite dalla nebbia, non v’era dubbio che esprimessero paura e
terrore puro. I cittadini di Ojai si erano accorti dei morti che camminavano per le loro strade.
La nebbia ormai brulicava di creature. Giungevano da tutte le parti, accalcandosi attorno al trio,
circondandolo in mezzo alla strada. Gli strati di vapore si gonfiavano e serpeggiavano ovunque,
rivelando a tratti un numero sempre maggiore di resti mummificati e scheletrici: soldati nelle sbiadite
uniformi blu e grigie della Guerra Civile; contadini con indosso quel poco che rimaneva di vecchie
tute da lavoro; cowboy con i copricalzoni logori e i jeans strappati; donne in lunghi abiti fruscianti,
ormai sudici e malridotti; minatori in lisi pantaloni di pelle scamosciata.
— Ha svuotato il cimitero di collina di una delle città abbandonate dei dintorni! — esclamò Scatty,
distribuendo colpi a destra e a manca. — I vestiti più moderni non superano il 1880. — Due donne
scheletriche con indosso l’abito della festa e cappellini in tinta avanzavano scricchiolanti sul viale,
dirette verso di lei a braccia tese. La spada di Scatty saettò, tagliando loro le braccia, ma quelle non
rallentarono nemmeno. Scathach si infilò il nunchaku sotto la cintura ed estrasse la seconda spada.
Colpì di nuovo, formando una X in aria con le due spade, e mozzò entrambe le teste, che volarono via
nella nebbia. Gli scheletri crollarono a terra in un cumulo disordinato di ossa.
— Josh — gridò di nuovo Sophie, con voce alta e disperata. — Josh! Dove sei? — Forse le
mummie e gli scheletri lo avevano già preso. Forse tra poco sarebbe sbucato fuori dalla nebbia, con gli
occhi spenti e fissi, la testa piegata in qualche assurda angolatura. Sophie scosse la testa, cercando di
allontanare quei lugubri pensieri.
Le mani di Flamel ardevano di freddo fuoco verde e l’aria umida era piena dell’odore della menta.
Schioccando le dita, l’Alchimista scagliò una cortina di fuoco virescente nella nebbia. Le nuvole di
vapore brillarono di luce smeraldo e acquamarina, ma la magia non ebbe altri effetti. Il colpo
successivo di Flamel fu una sfera di luce verde gettata su due scheletri traballanti che gli erano appena
sbucati di fronte. Il fuoco divampò sulle creature, carbonizzando i resti delle uniformi grigie della
Confederazione, ma esse continuarono ad avanzare, le ossa che cigolavano sulla strada, avvicinandosi,
seguite da centinaia di loro simili.
— Sophie, va’ dalla Strega! Ci serve il suo aiuto.
— Ma lei non può aiutarci — ribatté Sophie disperata. — Non può fare più niente. Non le è rimasto
alcun potere: lo ha dato tutto a me.
— Tutto? — Flamel ripeté sbigottito, abbassando la testa per schivare un colpo. Poggiò la mano
sulla cassa toracica del morto e spinse, gettando lo scheletro in mezzo alla mischia, dove ricadde con
un gran frastuono d’ossa. — Bene, Sophie, allora fa’ qualcosa tu!
— Cosa? — gridò. Che cosa poteva fare contro un esercito di morti viventi? Aveva solo quindici
anni.
— Qualunque cosa!
Un braccio mummificato spuntò dalla nebbia e la colpì sulle spalle. Faceva lo stesso effetto di un
asciugamano bagnato.
Paura, repulsione e rabbia le diedero la forza. Dapprima, tuttavia, non riuscì a ricordare niente di
quello che la Strega le aveva insegnato. Poi il suo istinto – o forse l’istinto della Strega – prese il
sopravvento. Permise alla rabbia di irrompere nella sua aura. Di colpo, l’aria si riempì del profumo
denso della vaniglia, e l’aura d’argento puro di Sophie s’illuminò. Portandosi il palmo della mano
destra al viso, le dita chiuse a coppa, vi soffiò sopra, quindi gettò il respiro così catturato in mezzo
alla mischia. Un turbine alto quasi due metri, come un tornado in miniatura, comparve, levandosi dal
suolo. Risucchiò i morti più vicini, scuotendo e percuotendo le loro ossa, per poi sputarne i resti.
Sophie ne gettò un secondo e quindi un terzo. I tre tornado danzavano e roteavano fra gli scheletri e le
mummie, falciando le creature e aprendosi un varco. Sophie scoprì di riuscire a dirigere i tornado
facilmente: bastava che guardasse in una direzione, e quelli si spostavano ubbidienti.
All’improvviso, la voce di Dee riecheggiò nella nebbia. — Ti piace il mio esercito, Nicholas? — La
nebbia appiattì il suono, rendendo impossibile localizzarlo. — L’ultima volta che sono stato a Ojai,
oltre un centinaio di anni fa, ho scoperto un piccolo e meraviglioso cimitero proprio sotto il Picco
delle Tre Sorelle. La città che gli sorgeva al fianco è svanita da tempo, ma le tombe e il loro contenuto
sono ancora là.
Flamel stava combattendo freneticamente, schivando pugni, graffi e calci. I colpi degli scheletri e i
goffi schiaffi delle mummie non erano violenti, ma ciò che mancava loro in forza, lo recuperavano in
quantità. Erano semplicemente in troppi. L’Alchimista aveva un occhio sempre più livido, e il dorso
di una mano era segnato da un lungo sfregio. Scatty si muoveva attorno a Sophie, difendendola mentre
la ragazza controllava i mulinelli d’aria.
— Non so per quanto tempo sia stato usato il cimitero. Un paio di secoli, sicuramente. Non ho idea
di quanti corpi contenga. Centinaia, forse migliaia. E sappi, Nicholas, che li ho evocati tutti.
— Ma dov’è? — disse Flamel a denti stretti. — Deve essere vicino, molto vicino, per controllare
tutti questi corpi. Ho bisogno di sapere dove si trova per riuscire a fare qualcosa.
Sophie si sentì assalire da un’ondata di stanchezza e, d’un tratto, uno dei tornado tremò e si spense.
I due rimasti ondeggiavano incerti mentre la forza della ragazza scemava. Ne svanì un altro e anche
quello rimasto si stava rapidamente indebolendo. La stanchezza era il prezzo da pagare per l’uso della
magia, capì Sophie. Ma doveva resistere ancora un po’; doveva trovare suo fratello.
— Dobbiamo andarcene di qui. — Scathach afferrò il braccio di Sophie e la sostenne. I morti
scheletrici continuavano ad avanzare e la Guerriera li respingeva con colpi di spada netti e precisi.
— Josh — sussurrò Sophie esausta. — Dov’è Josh? Dobbiamo trovare Josh.
La nebbia privava la voce di Dee di gran parte del colore, ma il tono di giubilo era evidente quando
disse: — E sai che altro ho scoperto? Queste montagne non hanno accolto soltanto creature umane
negli ultimi millenni. La terra qui trabocca di ossa. Centinaia di ossa. E ricordati, Nicholas, che io
sono, in primo luogo e soprattutto, un negromante.
L’orso che sbucò fuori dal banco di nebbia grigia era alto più di due metri. E anche se conservava
ancora qualche porzione di pelliccia qua e là, era evidente che era morto da molto tempo. Le ossa
candide come la neve non facevano che mettere in risalto gli enormi artigli affilati.
Dietro all’orso, comparve lo scheletro di una tigre dai denti a sciabola. E poi un puma e un altro
orso, stavolta più piccolo, e non altrettanto decomposto.
— Mi basta una parola per fermarli — tuonò la voce di Dee. — Voglio le pagine del Codice.
— No — rispose Flamel cupo. — Ma dov’è? Dove si sta nascondendo?
— Dov’è mio fratello? — gridò Sophie disperata, e poi strillò quando la mano di un morto le
artigliò i capelli. Scathach la mozzò di netto al polso, ma la mano rimase appesa come un macabro
fermaglio. — Che cosa hai fatto a mio fratello?
— Tuo fratello sta riflettendo sulle sue opzioni. La vostra non è l’unica parte possibile da cui stare
in questa battaglia. E ora, dal momento che ho il ragazzo, mi servono soltanto le pagine.
— Mai.
L’orso e la tigre caricarono in mezzo alla folla di morti viventi, spingendoli e calpestandoli nella
foga di arrivare al trio. La tigre dai denti a sciabola fu la prima. La testa scheletrica e luccicante era
enorme, e le due zanne ricurve verso il basso erano lunghe almeno venti centimetri. Flamel si frappose
fra Sophie e la creatura.
— Consegnami le pagine, Nicholas, o scatenerò i cadaveri viventi di queste belve sulla città.
Nicholas frugò disperatamente fra i suoi ricordi alla ricerca di un incantesimo in grado di fermare la
creatura. Adesso si pentiva di non aver approfondito meglio lo studio della magia. Schioccò le dita e
una piccola bolla di luce cadde a terra, di fronte alla tigre.
— Tutto qui quello che riesci a fare, Nicholas? Che diamine, ti stai indebolendo.
La bolla scoppiò e dilagò al suolo come una gelida macchia color smeraldo.
— È abbastanza vicino da vederci — disse Nicholas. — Mi basterebbe scorgerlo per un attimo.
La massiccia zampa anteriore destra della tigre si posò sulla luce verde. E vi rimase incollata. La
creatura cercò di sollevarla, ma spessi filamenti verdi e appiccicosi la incatenavano alla strada. E
subito anche la zampa sinistra andò incontro alla stessa fine.
— Mica tanto debole, eh, Dee? — gridò Flamel.
Ma la marea di corpi dietro alla tigre dai denti a sciabola continuava a premere. Di colpo, le zampe
ossute dell’animale si ruppero, e il bestione rovinò in avanti. Flamel riuscì ad alzare le braccia appena
in tempo, prima che il mostro gli crollasse addosso, le fauci spalancate, i denti enormi e feroci.
— Addio, Nicholas Flamel — gridò Dee. — Preleverò le pagine dal tuo cadavere.
— No — sussurrò Sophie. No, non poteva finire così. Lei era stata risvegliata, e la Strega di Endor
le aveva trasmesso tutto il suo sapere. Doveva esserci qualcosa che poteva fare. Sophie aprì la bocca e
urlò, avvolta in un’aura d’argento incandescente.
CAPITOLO TRENTANOVE
Josh si svegliò con l’urlo vibrante della sorella nelle orecchie.
Gli ci volle qualche secondo per rendersi conto di dove si trovava: seduto sul bordo della fontana di
Libbey Park, mentre tutt’attorno a lui banchine di nebbia densa e puzzolente avanzavano e
vorticavano, brulicanti di mummie e scheletri vestiti di stracci.
Sophie!
Doveva raggiungere sua sorella. Alla sua destra, in mezzo al vapore grigio-nero, brillavano scintille
di luce verde e d’argento, illuminando a tratti la nebbia dall’interno, gettando ombre mostruose.
Sophie era lì; e anche Flamel e Scathach, e si stavano battendo contro quei mostri. Avrebbe dovuto
essere con loro.
Si rimise in piedi vacillando e scoprì che il dottor John Dee era proprio di fronte a lui.
Il dottore era circondato da una malefica aura gialla. Scintillava, crepitava e friggeva come olio
bollente, emanando l’odore rancido delle uova marce. L’uomo gli dava la schiena, e si appoggiava con
entrambe le mani sul muretto della fontanella da cui Josh aveva bevuto. Dee fissava attentamente gli
eventi che stavano avendo luogo sulla strada, tremando per la concentrazione e lo sforzo necessari a
controllare l’interminabile schiera di scheletri e uomini mummificati che avanzava strascicando i
piedi. Ora che si era alzato, Josh notò che c’erano anche altre creature nella nebbia. Vide i resti di orsi
e tigri, linci e lupi.
Sentì il grido di Flamel e l’urlo di Sophie, e il suo primo pensiero fu quello di scagliarsi addosso a
Dee. Ma dubitava che sarebbe riuscito perfino ad avvicinarsi. Che cosa poteva fare contro il potente
mago? Non era come la sua gemella: non aveva poteri.
Ma questo non significava che lui fosse inutile.

L’urlo di Sophie provocò una gelida onda d’urto che ridusse in polvere la tigre dai denti a sciabola e
abbatté gli scheletri più vicini. L’enorme orso crollò a terra, schiacciando una dozzina di altri scheletri
col peso del proprio corpo. Lo spostamento d’aria spazzò via anche un po’ di nebbia e, per la prima
volta, Sophie si rese conto dell’entità di ciò che stavano affrontando. Non si trattava di qualche
dozzina o di centinaia, ma di migliaia di morti del vecchio Far West che marciavano in strada pronti
ad assalirli. Qua e là nella macabra folla, c’erano i resti corporei degli animali che avevano
imperversato in quelle montagne per secoli. Non sapeva che altro poteva fare. L’ultimo impiego della
magia l’aveva lasciata esausta, e si era accasciata su Scathach, che la reggeva con il braccio sinistro
manovrando allo stesso tempo la spada con la destra.
Flamel si rimise faticosamente in piedi. L’uso della magia aveva prosciugato anche le sue riserve di
energia, e perfino nei pochi minuti trascorsi era invecchiato. Le rughe attorno agli occhi si erano fatte
più profonde, i capelli più radi. Scathach sapeva che non poteva sopravvivere ancora a lungo.
— Dagli le pagine, Nicholas — esclamò in tono pressante.
L’uomo scosse la testa caparbio. — No. Non posso. Ho dedicato tutta la vita a proteggere il Libro.
— Chi scappa vive più a lungo — gli ricordò la Guerriera.
Flamel scosse di nuovo la testa. Era piegato in avanti e aveva il fiato grosso. Il viso era di un pallore
mortale, con due innaturali chiazze di rosso acceso sulle guance. — Questa è l’eccezione che
conferma la regola, Scathach. Se gli consegno le pagine, condanno tutti noi, inclusi Perry e il mondo
intero, alla distruzione. — Raddrizzò la schiena e si preparò ad affrontare di nuovo le creature per
quella che sapevano sarebbe stata l’ultima volta. — Pensi di poter portare Sophie via di qui?
Scathach scosse la testa. — Non posso combattere e portare lei allo stesso tempo.
— Pensi di riuscire ad andartene da sola?
— Sì, potrei cavarmela — rispose esitante.
— Allora vai, Scatty. Scappa. Raggiungi gli altri Antichi Signori, contatta gli umani immortali,
riferisci cosa è successo qui e cominciate a combattere gli Oscuri prima che sia troppo tardi.
— Non lascerò te e Sophie qui da soli — protestò Scathach con voce ferma. — Ci staremo dentro
insieme, in questa cosa, fino alla fine. Qualunque essa sia.
— È ora di morire, Nicholas Flamel — gridò Dee dalle tenebre. — Vedrò di raccontare a Perenelle
questo momento fino all’ultimo particolare.
Un fremito scosse la massa di uomini scheletrici e corpi animali che, assieme, si mosse in avanti.

E un mostro sbucò dalla nebbia.


Enorme e nero, con un ruggito selvaggio, due grandi occhi giallo-biancastri e dozzine di altri
piccoli occhi lampeggianti, investì in pieno la fontana del parco, riducendola in polvere e frantumando
i vasi ornamentali, per poi puntare minacciosamente sul dottor John Dee.
Il negromante riuscì a gettarsi di lato prima che il SUV si schiantasse contro il muretto, riducendolo
in briciole. L’auto rimase conficcata col muso fra le pietre rimaste, le ruote posteriori che giravano a
vuoto nell’aria, il motore urlante. Lo sportello si aprì, Josh si arrampicò fuori e si calò con prudenza a
terra, massaggiandosi il petto per il violento strattone ricevuto dalla cintura di sicurezza.
Ojai Avenue era ingombra dei resti dei morti del passato. Senza Dee a controllarli, erano solo un
mucchio di ossa.
Josh si portò con passo incerto in strada, facendosi largo fra gli scheletri infranti e i brandelli di
stoffa. Qualcosa scrocchiò sotto i suoi piedi, ma lui non abbassò nemmeno lo sguardo.
All’improvviso, i morti erano spariti.
Sophie non sapeva cosa fosse successo. Si era sentito un rombo tremendo, lo stridore di lamiere
contorte e lo schianto di pietre sgretolate, poi il silenzio. E in quel silenzio, i morti erano caduti a terra
come erba spazzata dal vento. Cosa aveva evocato Dee adesso?
Una sagoma si mosse fra le volute di nebbia.
Flamel raccolse le ultime energie in una solida sfera di cristallo verde. Sophie raddrizzò la schiena
e cercò di radunare quel poco di forze che le era rimasto. Scathach si sgranchì le dita. Una volta le
avevano detto che sarebbe morta in un posto esotico; si chiese se Ojai, in California, corrispondesse
alla definizione.
La sagoma si fece più vicina.
Flamel alzò la mano, Sophie chiamò a raccolta i venti e Scathach sollevò la spada dentellata. Josh
sbucò dalle tenebre. — Ho rotto la macchina — annunciò.
Sophie gridò di felicità. Corse incontro al fratello, ma il grido di gioia si trasformò subito in un urlo
d’orrore. Lo scheletro dell’orso si era risollevato alle spalle di Josh, le grinfie pronte a colpire.
Scathach spinse il ragazzo con violenza, scaraventandolo in mezzo a un mucchio d’ossa. Le spade
della Guerriera pararono gli artigli dell’orso, mandando scintille nella nebbia, e al colpo successivo la
zampa dell’animale, grande quanto la sua mano, volò via.
Uno dopo l’altro, le belve scheletriche si stavano rimettendo in piedi. Due lupi enormi, uno ridotto a
poco più che un cumulo d’ossa, l’altro con pochi brandelli di carne addosso, sbucarono nella nebbia.
— Da questa parte. Qui! Da questa parte. — La voce della Strega risuonò secca in strada, e il
rettangolo di luce di una porta aperta illuminò la notte. Scatty sostenne Flamel e Josh prese quasi in
braccio la sorella, e insieme attraversarono la strada correndo, diretti al negozio. La Strega di Endor
era sulla soglia, lo sguardo cieco puntato nelle tenebre, una vecchia lanterna a olio in mano. —
Dobbiamo portarvi fuori di qui. — Chiuse la porta e mise i chiavistelli. — Questo non li tratterrà a
lungo — mormorò.
— Ha detto… ha detto di non avere più poteri — mormorò Sophie.
— È vero — confermò Dora con un rapido sorriso, rivelando denti candidi e perfetti. — Ma questo
posto ce li ha ancora. — Li guidò fino al retrobottega. — Sapete che cos’ha Ojai di tanto speciale? —
chiese.
Qualcosa batté contro la porta e tutti i cristalli del negozio tintinnarono tremanti.
— La città sorge su un’intersezione di linee di energia.
Josh aprì la bocca e la domanda “Cosa?” stava per comparire sulle sue labbra, quando sua sorella gli
bisbigliò all’orecchio: — Linee di forza che attraversano il globo.
— Come fai a saperlo?
— Non lo so; credo che me lo abbia insegnato la Strega. Molti dei più famosi edifici e dei luoghi
più antichi del mondo sorgono sull’incrocio di queste linee.
— Esatto — confermò Dora, compiaciuta. — Non avrei saputo spiegarlo meglio. — Il piccolo
magazzino era vuoto, tranne che per una lunga cornice rettangolare addossata contro una parete,
rivestita di pagine ingiallite dell’“Ojai Valley Times”.
Altri colpi scossero la vetrina del negozio e il gruppo si mise all’erta al rumore delle ossa contro il
vetro.
Dora gettò i fogli di giornale a terra e scoprì uno specchio. Era alto circa un metro e mezzo e largo
un metro, e la superficie sporca, ondulata e piena di macchie rifletteva le immagini appannandole e
distorcendole. — E sapete cosa mi ha portato a Ojai, in primo luogo? — chiese. — Sette grandi linee
di energia si incontrano proprio in questo punto. E formano una porta.
— Qui? — sussurrò Flamel. Conosceva le linee di energia e aveva sentito dire che in passato gli
antichi riuscivano a viaggiare da un punto all’altro del mondo in un istante, servendosi delle porte che
si formavano alle loro intersezioni. Non pensava che esistessero ancora.
Dora batté sul pavimento con il piede. — Sì, proprio qui. E sapete come si usano le porte di
energia?
Flamel scosse la testa.
Dora allungò la mano verso Sophie. — Dammi la mano, bambina. — La Strega prese la mano di
Sophie e la poggiò sul vetro. — Con gli specchi.
Lo specchio si illuminò all’istante, brillando prima d’argento e poi schiarendosi. Quando lo
guardarono di nuovo, non mostrava più i loro riflessi, ma l’immagine di una stanza vuota, che
somigliava a una cantina.
— Dove? — chiese Flamel.
— Parigi — rispose Dora.
— La Francia. — Flamel sorrise. — Casa. — E senza esitazione, entrò nello specchio. Quando gli
altri guardarono di nuovo, lo videro dall’altra parte. L’Alchimista si girò e con una mano fece loro
cenno di seguirlo.
— Detesto le porte di energia — brontolò Scatty. — Mi fanno venire la nausea. — Balzò dentro,
raggiungendo Flamel con una capriola. Quando si girò a guardare i gemelli, aveva proprio l’aria di chi
sta per vomitare.

Lo scheletro dell’orso varcò con passo pesante la porta del negozio, strappandola dai cardini. Lupi e
linci lo seguirono. I cristalli caddero, gli specchi si ruppero, le suppellettili si infransero mentre le
belve si aggiravano tutt’intorno.
John Dee, pieno di lividi e graffi, si precipitò dentro scansando gli animali. Una lince cercò di
azzannarlo e lui la colpì sul muso. Se la creatura avesse avuto gli occhi, li avrebbe sgranati per la
sorpresa.
— Siete in trappola! — gridò trionfante. — In trappola e senza vie d’uscita!
Ma quando entrò nel magazzino, capì che gli erano sfuggiti ancora una volta. Ci mise una frazione
di secondo per abbracciare tutta la scena con lo sguardo: lo specchio alto, le due figure nello specchio
che guardavano fuori, la vecchia vicino alla ragazza, che teneva premuta la sua mano sulla superficie
di cristallo. — Una porta di energia — sussurrò sbigottito. Gli specchi fungevano sempre da porte.
Dall’altra parte dello specchio, chissà dove, ce n’era un altro che faceva da collegamento.
La vecchia afferrò la ragazza e la spinse dentro lo specchio. Sophie ricadde ai piedi di Flamel, si
accovacciò e si girò a guardarsi indietro. La bocca si mosse, ma non uscì alcun suono. Josh.
— Josh — ordinò Dee, fissando il ragazzo. — Resta dove sei.
Il ragazzo si girò verso lo specchio. L’immagine cominciava già a sbiadire.
— Ti ho detto la verità sul conto di Flamel — insisté Dee, pressante. Non doveva fare altro che
distrarre il ragazzo per un altro istante o due e lo specchio avrebbe perso il suo potere. — Resta con
me. Io posso risvegliarti. Renderti potente. Puoi contribuire a cambiare il mondo, Josh. A cambiarlo in
meglio!
— Non lo so… — L’offerta era invitante, così invitante. Ma sapeva che se si fosse schierato con
Dee, avrebbe perso definitivamente sua sorella. Oppure no? Se Dee lo risvegliava, sarebbero tornati
alla pari, di nuovo simili. Forse era un modo per ricongiungersi con lei.
— Guarda — esclamò Dee in tono di trionfo, indicando l’immagine che scompariva nello specchio.
— Ti hanno lasciato, ti hanno abbandonato un’altra volta, perché non sei uno di loro. Non sei più
importante.
Lo specchio si illuminò d’argento… e Sophie balzò fuori. — Josh? Sbrigati — lo incitò, senza
guardare Dee.
— Io… — cominciò. — Sei tornata indietro solo per me…
— Ma certo! Sei mio fratello. Non ti abbandonerò mai. — Poi, afferrandolo per una mano, intrecciò
le dita con le sue e lo tirò dentro.
E Dora spinse lo specchio a terra, infrangendolo. — Ops! — Si volse verso Dee togliendosi gli
occhiali, rivelando gli specchi dei suoi occhi. — Le consiglio di andare. Ha tre secondi circa.
Dee uscì appena in tempo prima dell’esplosione del negozio.
CAPITOLO QUARANTA
COMPAGNIA CINEMATOGRAFICA GETTA LA BELLA CITTADINA DI OJAI NEL CAOS

Nella serata di ieri, l’ultimo della lunga serie di film dell’orrore della Enoch Studios ha gettato il
traffico di Ojai nel caos, causando molta confusione nel centro della cittadina. Gli effetti speciali
sono stati un po’ troppo realistici per alcuni abitanti del luogo, e i servizi d’emergenza sono stati
inondati dalle chiamate di persone che dichiaravano di vedere i morti in giro per le strade.
John Dee, presidente della Enoch Films, divisione della Enoch Enterprises, si è prodigato in scuse
per la confusione, amplificata dal blackout e dalla nebbia fuori stagione calata proprio durante le
riprese del nuovo film. “Di certo ha contribuito a rendere gli effetti speciali molto speciali” ha
commentato il suo portavoce. In un incidente correlato all’episodio, un automobilista ubriaco ha
sfondato la storica fontana di Libbey Park e la pergola recentemente restaurata. Dee ha promesso di
riportare entrambi alla loro antica gloria.
“Ojai Valley News”

ESPLOSIONE DEVASTA BOTTEGA D’ANTIQUARIATO LOCALE

Un’esplosione di gas ha distrutto il negozio di Dora Witcherly, una delle più anziane residenti di
Ojai, la scorsa notte. Un guasto elettrico ha infiammato dei solventi usati dalla proprietaria per
pulire, lucidare e restaurare la merce. La signorina Witcherly era nel retrobottega quando è avvenuta
l’esplosione ed è rimasta illesa e niente affatto scioccata dall’appuntamento sfiorato con la morte.
«Quando si è vissuto tanto come me, niente riesce più a sorprenderti.» Ha promesso di riaprire in
tempo per le vacanze.
“Ojai Online”
CAPITOLO QUARANTUNO
Nelle profondità di Alcatraz, Perenelle Flamel era distesa su una stretta brandina, il viso rivolto alla
parete della cella. Alle sue spalle, sentiva la sfinge che pattugliava il corridoio ticchettando con le
zampe sul freddo pavimento di pietra, l’aria era carica degli odori muschiati del rettile e del felino.
Perenelle rabbrividì. La cella era gelida e dell’acqua verdognola colava sul muro a pochi centimetri
dalla sua faccia.
Dov’era Nicholas?
Che cosa stava succedendo?
Perenelle aveva paura, ma non per se stessa. Il fatto che fosse viva provava che Dee aveva bisogno
di lei e che prima o poi si sarebbe trovata faccia a faccia con lui. E se Dee aveva un punto debole, era
la sua arroganza. L’avrebbe sottovalutata… e lei avrebbe colpito! C’era un incantesimo
particolarmente sgradevole che aveva imparato ai piedi dei Carpazi, in Transilvania, e che teneva in
serbo apposta per lui.
Dov’era Nicholas?
Aveva paura per lui e i ragazzi. Era difficile capire quanto tempo fosse passato, ma esaminando le
rughe che si stavano formando sul dorso della sua mano, intuiva di essere invecchiata almeno di due
anni, il che significava che erano trascorsi due giorni. Gli rimaneva solo un mese prima di soccombere
sotto il peso – il grande peso – dell’età.
E con nessuno a contrastarli, Dee e quelli della sua specie avrebbero scatenato di nuovo gli Oscuri
Signori nel mondo. Sarebbe stato il caos, la fine della civiltà.
Dov’era Nicholas?
Perenelle scacciò le lacrime battendo le palpebre. Non avrebbe dato alla sfinge la soddisfazione di
sentirla piangere. Gli Antichi Signori consideravano le emozioni umane con disprezzo; le ritenevano
la loro maggiore debolezza. Perenelle, invece, sapeva che erano la grande forza dell’umanità.
Batté di nuovo le palpebre, e ci mise un attimo per capire che cosa stava vedendo.
L’acqua sporca che gocciolava lungo la parete si era per un attimo raccolta a formare un disegno.
Perenelle si concentrò, sforzandosi di capire.
Il liquido si mosse e ribollì, plasmandosi in un volto: Jefferson Miller, il fantasma della guardia di
sicurezza. Le gocce d’acqua si piegarono a formare delle lettere sulla parete striata di muschio.
“Flamel. Ragazzi.”
Le lettere durarono per meno di un secondo e poi fluirono via.
“Salvi.”
Adesso Perenelle dovette battere le palpebre ancora più forte per impedirsi di piangere. Flamel e i
ragazzi erano salvi!
“Ojai. Porta di energia. Parigi.”
— Grazie — disse Perenelle muovendo le labbra ma senza emettere alcun suono, mentre la faccia
di Jefferson Miller si dissolveva colando sulla parete. Le rimanevano tante domande, ma almeno
adesso qualche risposta ce l’aveva: Nicholas e i ragazzi erano sani e salvi. Evidentemente erano andati
a Ojai, dove avevano incontrato la Strega di Endor. E lei doveva avergli aperto una porta d’energia per
Parigi: ciò lasciava supporre che li avesse anche aiutati istruendo Sophie nella magia dell’Aria.
Perenelle sapeva che la Strega non sarebbe stata in grado di risvegliare i poteri di Josh, ma a Parigi
e in Europa c’erano Antichi Signori e umani immortali in grado di aiutarli, capaci di risvegliare Josh e
di addestrare i gemelli nella magia dei cinque elementi.
Si girò sulla schiena e guardò la sfinge, che adesso era accucciata fuori dalla sua cella, la testa
umana poggiata sulle enormi zampe leonine, le ali ripiegate. La creatura sorrise pigramente, facendo
guizzare la lunga lingua nera e biforcuta.
— È la fine, immortale — sussurrò la sfinge.
Perenelle ricambiò con un sorriso terrificante. — Al contrario — replicò. — È solo il principio.
NOTA DELL’AUTORE
Nicholas e Perenelle Flamel erano persone reali. Come pure il dottor John Dee. In effetti, tutti i
personaggi dell’Alchimista, con l’unica eccezione dei gemelli, si basano su personaggi storici reali o
esseri mitologici.
Quando ho concepito l’idea originaria per L’Alchimista, pensavo che l’eroe sarebbe stato il dottor
John Dee.
John Dee mi aveva sempre affascinato. Nell’età elisabettiana, l’epoca dello straordinario, lui era
eccezionale. Era uno degli uomini più brillanti del suo tempo, e tutti i particolari della sua vita
presenti nell’Alchimista sono veri: era un alchimista, un matematico, un geografo, un astronomo e un
astrologo. Fu lui a scegliere la data per l’incoronazione di Elisabetta I e, nel periodo in cui fece parte
della sua rete di spie, firmava i suoi messaggi in codice “007”. I due zero rappresentavano gli occhi
della regina e il simbolo che somigliava a un sette era il marchio personale di Dee. Esistono
testimonianze secondo le quali Shakespeare, quando concepì il personaggio di Prospero per La
tempesta, lo modellò su Dee.
La serie di libri basata sulla figura di un alchimista ha impiegato qualche anno per prendere forma
nella mia mente e in una pila di quaderni, e sembrava del tutto naturale che dovesse essere la serie di
Dee. Mentre scrivevo altri libri, continuavo a ritornare sull’idea, aggiungendo altro materiale,
intrecciando insieme tutte le mitologie del mondo e creando l’enorme e intricato sfondo della storia.
Ho compiuto numerose ricerche per le ambientazioni, visitando, rivisitando e fotografando ogni luogo
che intendevo usare nella serie.
Tutte le storie nascono da un’idea, ma poi sono i personaggi a farle progredire. I gemelli sono stati i
primi personaggi a farsi largo. La mia storia aveva sempre riguardato un fratello e una sorella e, in
termini mitologici, i gemelli sono molto speciali. Praticamente ogni razza e ogni mitologia include
una storia di gemelli. Mentre l’intreccio procedeva, sono comparsi anche i personaggi secondari,
come Scathach e la Morrigan, e in seguito Ecate e la Strega di Endor. In qualche modo, però, mi
mancava ancora l’eroe, il mentore, il maestro dei gemelli. Il dottor John Dee, pur essendo un
magnifico personaggio, semplicemente non era quello giusto.
Poi un giorno, sul finire dell’autunno del 2000, mi trovavo a Parigi per affari. È difficile perdersi a
Parigi, finché sai dov’è la Senna – di solito, ovunque tu sia, puoi sempre vedere un paio di punti di
riferimento riconoscibili, come la Torre Eiffel, il Sacré-Coeur o Notre Dame – ma in qualche modo io
ci sono riuscito. Mi ero lasciato Notre Dame alle spalle, avevo attraversato la Senna sul Pont d’Arcole,
diretto al Centre Pompidou, e da qualche parte fra boulevard de Sebastopol e rue Beaubourg mi sono
perso. Non del tutto perso: sapevo vagamente dove mi trovavo, ma stava per calare la notte. Ho
lasciato rue Beaubourg, imboccato la stretta rue Montmorency e mi sono ritrovato a guardare
un’insegna alta, con scritto AUBERGE NICOLAS FLAMEL: ostello Nicholas Flamel. Di fronte all’edificio
c’era un cartello che spiegava che la casa, dove un tempo erano vissuti Flamel e sua moglie, risaliva al
1407, il che la rendeva una delle case più vecchie di Parigi.
Entrando ho trovato un grazioso ristorante, dove quella sera ho cenato. Era un’esperienza strana,
mangiare nella stessa stanza in cui il leggendario Nicholas Flamel aveva vissuto e lavorato. Le travi a
vista del soffitto sembravano originali, quindi probabilmente erano le stesse che Nicholas Flamel
aveva guardato. Nella cantina sotto i miei piedi, Nicholas e Perenelle avevano conservato il vino e le
provviste, e la loro camera da letto era stata la piccola stanza direttamente sopra la mia testa.
Conoscevo parecchie cose sul conto del famoso Nicholas Flamel. Dee, che possedeva una delle più
grandi biblioteche d’Inghilterra, aveva i libri di Flamel e probabilmente aveva studiato le sue opere.
Nicholas Flamel era uno dei più famosi alchimisti del suo tempo. L’alchimia è una singolare
combinazione di chimica, botanica, medicina, astronomia e astrologia. Ha una lunga e ragguardevole
storia ed era studiata nell’Antica Grecia e in Cina; alcuni sostengono che sia alla base della chimica
moderna. Come per Dee, anche tutti i particolari presenti nell’Alchimista sul conto di Nicholas Flamel
sono veri. Sappiamo parecchie cose su di lui, non solo perché i suoi scritti esistono davvero, ma anche
perché molte persone hanno scritto di lui quando era in vita.
Nato nel 1330, si guadagnava da vivere come libraio e scrivano, vergando lettere e copiando libri su
commissione. Un giorno comprò un libro molto speciale: il Libro di Abramo. Anch’esso è esistito
veramente, e Nicholas Flamel ci ha lasciato una dettagliata descrizione di quel libro rilegato in rame,
scritto su qualcosa di simile a corteccia d’albero.
In compagnia di Perenelle, viaggiò per oltre vent’anni, cercando di tradurre la strana lingua in cui il
libro era scritto.
Nessuno sa cosa successe a Nicholas Flamel durante quel viaggio. Ciò che si sa per certo è che
quando ritornò a Parigi, verso la fine del Quattordicesimo secolo, era straordinariamente ricco. Si
diffuse subito la voce che avesse scoperto i segreti dell’alchimia nel Libro di Abramo: come creare la
pietra filosofale, che mutava il metallo comune in oro, e come ottenere l’immortalità. Né Nicholas né
Perenelle confermarono mai le voci o spiegarono l’origine della loro ricchezza.
Sebbene Nicholas e Perenelle continuassero a condurre una vita tranquilla e modesta, diedero molto
del loro denaro a opere di carità, e fondarono ospedali, chiese e orfanotrofi.
I documenti attestano che Perenelle morì per prima; non molto tempo dopo, nel 1418, viene
riportata anche la morte di Nicholas Flamel. La sua casa fu venduta e i compratori la misero
sottosopra alla ricerca della grande ricchezza di Flamel. Non si trovò mai nulla.
In seguito, nel cuore della notte, la tomba di Nicholas e Perenelle fu aperta con la forza… e fu
allora che si scoprì che era vuota. Erano stati sepolti in una tomba segreta o non erano mai morti? Le
voci si diffusero in tutta Parigi e la leggenda dell’immortale Nicholas Flamel prese subito piede.
Negli anni successivi, ci furono avvistamenti dei Flamel in giro per l’Europa.

Quando sono uscito dall’Auberge Nicolas Flamel, quella sera, mi sono girato a guardare quella casa
antica. Seicento anni prima, uno dei più famosi alchimisti del mondo aveva vissuto e lavorato lì. Un
uomo dedito alla scienza, che aveva costruito e dilapidato una grande fortuna e la cui casa era stata
conservata dal popolo grato di Parigi, che ha voluto dedicare all’uomo e a sua moglie perfino delle
strade (rue Nicolas Flamel e rue Pernelle, nel quarto arrondissement).
Un immortale.
E in quel momento, ho capito che il mentore dei gemelli non era Dee: a istruire Sophie e Josh
sarebbero stati Nicholas e Perenelle. Lì, di fronte alla casa di Nicholas e Perenelle in quell’umida
serata autunnale, tutti gli elementi del Libro hanno trovato il loro posto, e I segreti di Nicholas
Flamel, l’immortale ha preso forma.
RINGRAZIAMENTI
Soltanto un nome compare di solito sulla copertina di un libro, ma dietro quel nome ci sono dozzine di
persone coinvolte nella creazione dell’opera. Di uguale importanza, ma senza un ordine particolare,
devo ringraziare…

Krista Marino, la più paziente delle redattrici, che ha detto: «Un po’ più di prospettiva…»

Frank Weimann, del Literary Group, che ha detto: «Questo lo posso vendere». E lo ha fatto.

Michael Carrol, che lo ha letto da cima a fondo e ha detto: «Dobbiamo parlare di…»

O.R. Melling, che ha detto: «Hai già finito?»

Claudette Sutherland, che ha detto: «Dovresti davvero riflettere su…»

E infine, naturalmente: Barry Krost, di BKM, senza dubbio il nonno dell’Alchimista, il che fa
probabilmente di John Sobanski suo nipote!
INSERTO FOTOGRAFICO
Ingresso dell’Auberge Nicolas Flamel a Parigi, in
rue Montmorency
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www.librimondadori.it
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I segreti di Nicholas Flamel l’immortale - L’Alchimista


di Michael Scott
© 2007 Michael Scott, per il testo
© 2007 Michael Wagner, per l’illustrazione di copertina
© 2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana
Titolo dell’opera originale The Alchemyst: The Secrets of the Immortal Nicholas Flamel
Ebook ISBN 9788852023019

COPERTINA || ART DIRECTOR: FERNANDO AMBROSI | PROGETTO GRAFICO ORIGINALE: DELACORTE PRESS | ILLUSTRAZIONE DI MICHAEL WAGNER
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
I segreti di Nicholas Flamel l'immortale - L'Alchimista
Giovedì 31 Maggio
Venerdì 1° giugno
Nota dell’autore
INSERTO FOTOGRAFICO
Copyright

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