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SUL PROGRESSO – ERNST BLOCH

Un buon concetto

Vi sono termini che agiscono da sé in modo del tutto chiaro. Hanno lineamenti schietti, e ci si lascia
convincere senza difficoltà. Il loro significato, quindi il loro concetto, sembra essere così limpido e
semplice che nulla vi è più da obiettare. Ad essi appartiene in prima linea il concetto di progresso,
uno dei più importanti nella nostra lotta e uno di quelli che noi con il mattino abbiamo
indubbiamente al nostro fianco. Questo concetto radioso e positivo agisce anche formalmente in
modo chiaro, come se ciò che esso esprime fosse difficile da conquistare ma facile da comprendere.
Il suo significato appare così non soltanto chiarificatore ma finanche semplice e manifesto.

Il prezzo del progresso

Ma è sempre stato altrettanto chiaro che un progredire, per essere proficuo, non occorre che sia
anche assolutamente identico: qualcosa può andare perduto, è evidente come nel destarsi del
bambino al giovane, del giovane all’uomo. Jean Paul perciò parla del bambino dormiente come di
un duplice bambino: egli ha voluto esprimere una cosa ben diversa dal ben noto sorridere. Nel
crescere qualcosa non giunge a compimento, e non sempre avviene «un superamento»: la semplicità
del bimbo può diventare nel giovane generosità. Un confronto non è possibile; tuttavia, per una
stessa necessità, accade che una situazione precedente confrontata con una susseguente appaia
migliore: anche nell’evolversi sociale infatti non tutti i volti sono lieti. È noto come sia triste la
situazione della classe lavoratrice in Inghilterra al tempo della rivoluzione industriale senza dubbio
progressiva. Certo,- questa miseria formava la premessa per l’inizio dello scatenarsi delle forze
produttive capitaliste; il lato negativo, il completo abbrutimento, venne da essa stessa creato
dialetticamente. Tuttavia, che spaventosa perdita si produsse qui col progresso, un «progredire»
come lo sviluppo dello scorbuto o della tubercolosi! Una carenza non solo nello scopo della comune
sovrapproduzione, ma proprio nel più genuino dilatarsi delle forze produttive. Questo è
caratteristico di tutta la nascente condizione capitalistica: progressiva, e pur tuttavia tristemente
progressiva.

Regresso e così detta insegna dell’Araldo

Ombre in contrasto vi sono ovunque e son per questo inerenti allo stesso progredire. Ma che sarà se
in quello svolgersi delle vicende che presuppone sempre il dopo, il più tardi, come il meglio, in una
evoluzione non solamente numerica - che sarà se questo procedere porta a regressi del pari enormi?
E a dire il vero per nulla dialetticamente necessari come nel caso dell’accresciuta miseria dello
sfruttamento e della rivoluzione industriale:Hitler, per esempio, non era in nessun modo la
negazione di cui il socialismo aveva bisogno per la sua vittoria. Non v’è a questo riguardo nessun
indice sicuro dell’evoluzione temporale del progresso, secondo il quale nella storia, in ogni caso o
anche soltanto nel complesso, il successivo significhi proprio un di più rispetto a ciò che precede.
Questo sembra ovvio. A Hegel comunque non parve tale: la guerra del Peloponneso dopo l’età di
Pericle, la guerra dei Trent’anni dopo il Rinascimento posero serie difficoltà al suo concetto di
negazione, altrimenti generale, ausiliario del progresso. Il pungolo di quella verità lapalissiana
sollecitò a tal punto Rousseau che, per amore del progresso democratico borghese, rappresentò
l’intera storia sino ai nostri giorni, « quando la disuguaglianza tra gli uomini si manifestò», come un
peggioramento, togliendo di mezzo persino la civilizzazione sino allora realizzata come un triste
tratto di tempo a paragone del felice evo remoto, lo stato naturale. Tesi astratta, assurdamente
esagerata, sottolineava, tuttavia, gli esistenti regressi dell’avvicendarsi contro una idolatria del tutto
astratta della successione del tempo in sé. Infatti, la temporale-feticistica idea del progresso
significò, presso la socialdemocrazia che seguì, addirittura un concetto autonomo del progresso
stesso motivato con dati’ in apparenza economici attraverso un preteso sviluppo autonomo del
capitalismo nel socialismo «successivo a quello». Questa specie di euforia del progresso non servì,
come è noto, al progresso medesimo. Impediva piuttosto il vero progredire, così come serviva per lo
più da ideologia per il malcontento, impediva a se stessa di essere una ruota nell’ingranaggio della
storia. Il segno più, dice Hermann Cohen, e l’affermazione è opportuna, è la mazza araldica del
tempo; ma il semplice tempo venne anche raffigurato, non sempre a torto, con l’immagine della
clessidra, come vetro, con sabbia che scorre verso il basso, e la falce. Il segno «più» come insegna
araldica in capo alla marcia suppone in ogni caso, anche in tempi obiettivamente favorevoli, e tanto
più in tempi di reazione o in terreni difficili, uomini d’avanguardia che la portino avanti. Altrimenti
il progresso, che non sempre è agevole e mai formale, diviene appunto il feticcio di un semplice
succedersi e in certi casi un apportatore di danno e di paralisi. Come con Hitler secondo il sedicente
tout va bien di tipo automatico o proprio perché automatico.

Progresso secondo l’imperialismo

Anzi una certa, per così dire, specie bianca di questo concetto poté persino venir utilizzata in modo
del tutto indegno. Non soltanto lo scorbuto o la tubercolosi o il numero dei giovani delinquenti nelle
grandi città occidentali aumenta, ma si estende proprio quella superba dilatazione degli affari che
avanzò al comando «avanti a pieno vapore», e ha lasciato dietro di sé, in due guerre mondiali,
milioni di cadaveri. In questo «progresso» pervertito è persino più chiaro, che non in quello del
semplice susseguirsi, un fine efficiente: infatti, senza riferimento a un fine, nessun succedersi in
genere può venir concepito e valutato come qualcosa che si accresce in qualità. Ogni progresso è
tale rispetto a qualcosa a cui tende, e quasi come sinonimo viene così usato anche il concetto di
evoluzione, perfezionamento — a differenza del semplice sviluppo, dell’evolutio nel significato
primitivo del vocabolo. Nondimeno se questa aggiunta di una meta finale non viene a lungo
mantenuta come qualcosa di conforme a uno scopo umano prezioso, positivo e valido, anche una
palese distruzione, per il solo fatto che essa aumenta e crescendo diviene formidabile, può, come si
è visto, presentarsi quale progresso e come tale ingannare. Quest’ultimo concetto è degno di grande
attenzione; infatti non soltanto l’epoca guglielmina lo aveva magnificamente incrementato e voleva
portarlo al massimo rendimento, ma anche il tramontante imperialismo lavora ancora, a tratti, con
un concetto errato di progresso. Perciò, una classe che storicamente non ha più futuro ha sempre
interesse a negare il vero progresso nella storia (come vedremo poi) - tuttavia è di moda il progresso
corrotto, con obiettivi inumani e di valore negativo: sia a mezzo di una scienza, di una tecnica senza
dubbio sviluppate ma i cui motori, in ultima analisi, sono avviati e mantenuti in funzione
specialmente per il fine della guerra; sia soprattutto col gioco di «sempre nuove fasi» (cioè artifizio
o bolle di sapone) del capitalismo, come se ad esso fossero ancora aperte infinite elusive carriere,
carte da giocare di fronte al socialismo. Prevale appunto proprio quest’ultimo gioco: come se un
eunuco rimproverasse l’impotenza a Ercole infante. All’interno degli Stati imperialisti, quindi, la
reazione viene spacciata per lo meno come un progresso temporale non appena essa riesca a
presentarsi di fronte alle sue vittime come nuovo «avanti a tutto vapore». Con l’apparenza dunque
della massima «modernità», e a differenza del marxismo, che già Goebbels chiamò «il più profondo
diciannovesimo secolo». Di conseguenza, non c’è più proletariato come non ci sono capitalisti, tutto
questo deve anzi considerarsi sorpassato insieme al materiale economico che Marx aveva a suo
tempo esibito. Al suo posto, si dice, è subentrata una nuova «classe media», con crescente
partecipazione al « prodotto sociale », e inoltre una «classe di amministratori», la quale non avrebbe
niente in comune con i precedenti capitalisti se non l’iniziativa, e anche questa, essendo iniziativa di
amministratori, non sarebbe più iniziativa privata. La dottrina della nuova classe media non è a vero
dire altro che l’antico revisionismo; e siccome questo avanza — sostenuto dall’energia del capitale
monopolizzato - con ideologico passo da gigante pieno di apparenti miracoli economici, può
mascherarsi da progresso. Grottesco, s’intende, un progresso che spesso - come apertamente si
ammette - tende al nulla, e tuttavia tale da presentare punte illusorie con carattere di avanguardia.
Per lo meno agli occhi di coloro la cui arretrata coscienza politica punta sulla «modernità» e crede
di trovarla in quell’ultimo stadio del capitalismo che s’impone con risultati spettacolari.

È quindi necessario separare il puro e semplice susseguirsi dal suo falso splendore. Tanto più che
l’abuso del concetto di progresso ha anche la capacità di camuffare gli uomini. Non tanto in casa
propria, dove l’asserita elevazione del quarto stato può venir verificata troppo facilmente sul cuore
o i reni, specialmente sul primo. Elevazione e progresso in paesi lontani, presso « la gente di
colore», vengono da tempo presentati come fatto sentimentale, in un senso ideologico-coloniale.
«The white man’s burden», disse una volta Kipling, ed egli intendeva l’assistenza ai negri e anche
agli indiani da parte dei loro altruistici dominatori ed educatori che tanto per essi si adoperavano.
Non si tratta più, qui, di una superiorità del nuovo revisionismo sul sorpassato Marx, ma della
superiorità delle bianche divinità, sempre accettate anche quando i minatori delle loro colonie
dovevano chiamarle diavoli bianchi. Come dicono coloro che utilizzano Kipling, benché siano
tutt’altro che poeti, il colonizzatore spagnolo non ha forse fatto scomparire i sacrifici umani degli
Incas e degli Aztechi? Non ha forse la Compagnia delle Indie orientali messo le basi perché gli
inglesi, sia pure soltanto nel diciannovesimo secolo, proibissero, per legge, che le vedove fossero
bruciate con il cadavere del marito? Infatti, questi miglioramenti del costume esistono, sebbene
siano stati pagati con orrori senza numero (Cortez, Pizarro, Hastings). Ammesso pure che una
determinata parte della colonizzazione abbia, come cosa accessoria e decorativa, portato un
«progresso» di fronte alla «nativa barbarie», il concetto di progresso non è qui particolarmente
degenerato e diretto a uno scopo il cui preteso umanitarismo sbocca esclusivamente nel guadagno?
Per cui lo scopo umanamente negativo trionfa alla fine come sin dal principio era inteso: un
progresso cioè operante in funzione del massimo guadagno con solo qualche beneficio per la
predica domenicale. Ma l’Africa, che era quasi completamente smembrata in colonie, è chiamata
continente oscuro; l’India,con l’ottanta per cento di analfabeti alla fine della dominazione inglese,
vedeva il sacrificio delle vedove sostituito dalle carestie più spaventose della sua storia. Questi
popoli hanno scambiato i propri signori feudali con il freddo dominio del capitale produttivo; il
quale alla fine divenne, grazie alla loro economia mantenuta primitiva, la porta d’entrata dei popoli
delle colonie verso la cultura europea. Ciò a cui serviva prima il «cristianesimo » dei missionari
(Bibbia a parole, cotone nell’intenzione), serve, nella nuova ideologia coloniale, la « cultura
atlantica», come ingannevole progresso contro corrente: anch’esso, anzi esso soprattutto, con intenti
esclusivamente imperialistici. Il progresso, lasciando da parte il miraggio di Atlantide, può venir
pervertito anche da un fine troppo europeo; proprio la limitatezza di questo fine porge, senza che lo
si voglia, un aiuto. Infatti, il ristretto limite che tale progresso si propone può estendersi dalla
ghiacciaia sino al Partenone: dopo di che, reso addirittura canonico, può venir adoperato dalle
divinità bianche in una prospettiva atlantica. Con altre parole, bisogna considerare se non possa
servire all’ideologia dell’imperialismo coloniale una sopravvalutazione, sollecitata da tutt’altre
ragioni, del concetto di classico, configurato dall’Europa come se fosse quello che pone tutto il
resto nell’ombra. Il Partenone (ci atteniamo a questo grande esempio per nulla togliere alla
complessità del problema) non è cresciuto sullo stesso terreno della plastica dei negri né sul terreno
dei templi indiani o delle pagode cinesi; ma in ogni cultura v’è, in forme nazionali, una propria
classicità. Nella stessa Europa, infatti, l’arte greca è soltanto una delle forme giunte a maturazione,
e confrontata con il Gotico o col Barocco non è la sola a essere normativa. In ogni caso un
classicismo tratto da ciò che è classico per i bianchi, in quanto si presenta ovunque come canonico,
può innalzare fino alle stelle la «supremazia dell’uomo bianco». Non soltanto le costruzioni di vetro
americane, ma anche la facciata più classica non è per i popoli dell’Asia un progresso connaturale,
ammesso che lo sia nell’architettura europea. Questo sia scritto nel libro delle memorie anche dei
nostri classicisti, serva alla loro nobile ingenuità, alla loro non sempre innocua grandezza, per
evitare conseguenze che essi invero non avrebbero voluto. Se la vecchia politica, nient’affatto
classicistica, di spoliazione mondiale, che si presenta sempre sotto l’aspetto relativamente luminoso
del progresso, vuol riferirsi al preteso incivilimento e pacificazione fra i popoli delle colonie, si può
sempre opporre che il regime coloniale - anche se col capitalismo avesse diffuso risultati di
incivilimento - non era affatto necessario al raggiungimento di tali effetti. Basta un solo esempio per
togliere al colonialismo l’ultima apparenza di progresso luminoso e di necessità inevitabile: la Cina,
che soltanto su alcuni tratti delle coste, e anche là molto tardi, si era adattata a criteri di
colonialismo imperialista, balza da forme semifeudali alla tecnica e al razionalismo - a quello
giusto. E questo con accanto l’Unione Sovietica, e non a mezzo del progresso da iene
dell’imperialismo e del suo tempo ormai sorpassato.]

Ineguali sviluppi nella infrastruttura tecnica e nella sovrastruttura

È tempo di prendere in considerazione quella nobile regione, nella quale soltanto vive un vero
impulso in avanti. Anche in questo paese appaiono, tuttavia, non poche effettive aporie nel concetto
di progresso che esigono differenziazioni più precise. La differenziazione sorge qui, in forma del
tutto materiale, nell’oggetto stesso; essa necessita soltanto di venir raffigurata filosoficamente (certo
non si può fare a meno della filosofia). Il progresso nell’infrastruttura, conquistato non in modo
tenebroso e perverso, non è affatto eguale nella misura e nella forma. Esso, anzi, è molto diverso, da
un lato nel gruppo funzionale: forze produttive e condizioni di produzione (base economica); e
dall’altro nel gruppo ugualmente funzionale (non soltanto riflesso), ma dal primo regolato:
sovrastruttura. Le forze produttive, infatti, come anche le condizioni di produzione, potrebbero
segnare un progresso a cui eventualmente la sovrastruttura non solo non tiene dietro, ma è talvolta
persino contraria, con particolare danno per la cultura. Un esempio, piccolo ma assai evidente,
attraverso uno stesso tipo di oggetto, è offerto appena lo si osservi dallo sviluppo della tecnica
dell’illuminazione che è o era rappresentato con significativi esemplari nel Museo della Tecnica di
Monaco. Dalla fiaccola, dalla lucerna di terracotta trascorse un lungo periodo, con progressi tanto
tecnici quanto estetici, fino al lampadario romano, bizantino, alle lampade da moschea (che sono
vere fiabe orientali), e anche in seguito la corsa verso il migliore e più bello continua. Finché le vie
del progresso tecnico ed estetico, che rimasero sin qui unite, si separano: giunge la lampada a
petrolio, sempre più chiara, ma anche sempre più brutta, la calza di Auer, abbagliante, in verità,
solo fotometricamente, quindi la nuda lampadina a incandescenza, all’inizio così abbacinante e che
soltanto a poco a poco, per mezzo di un vetro opaco o di schermi, viene attenuata fino a che il suo
considerevole chiarore più non trafigge. Ma il candelabro sui vecchi tavoli di mogano diffonde
veramente anche oggi un lume non solo più mite ma anche più festoso.Come si è detto questo è un
piccolo esempio, uno di quelli che non possono nemmeno venir forzati. Andarono certo di pari
passo per lungo tempo l’illuminazione tecnicamente migliore con la più bella, ma ciò non deve
essere motivo di sentimenti romantici. Nelle cose grandi, importanti, nel punto d’incontro della
tecnica e della cultura, si verifica, talvolta, la famosa norma di Marx della «disparità di sviluppo».
Marx accenna, nell’introduzione alla Kritik der politischen Oekonomie, alla diversità tra elevato
sviluppo artistico e modesto sviluppo tecnico in Grecia, e alla condizione affatto opposta nel mondo
capitalistico moderno. Innanzi tutto, secondo Marx, il grande poema epico può venir creato solo a
un livello di civiltà tecnica relativamente primitivo; sì che il progresso può procedere, nelle forze
produttive da un lato, nella sovrastruttura culturale dall’altro, in modo assai diverso. E qualcosa di
simile vale anche per il progresso nei rapporti di produzione, cioè propriamente nella infrastruttura
in relazione alla sovrastruttura; così, con impressionante contrasto, Bach e Leibniz non
corrispondono affatto alla miseria della Germania di allora. I loro piedi ne sono stati appena sfiorati,
mentre d’altro lato uno sviluppato capitalismo avrebbe potuto essere anche avverso alle Muse. «La
produzione capitalista molto pronunciata», dice Marx nelle Theorien über den Mehrwert, «è nemica
di certi settori spirituali della produzione, come l’arte e la poesia». Senza questa visione, senza
questa separazione di una prosperità economica e sociale da un’epica non altrettanto fiorente, si
arriverebbe alla « illusione dei francesi del diciottesimo secolo, di cui Lessing si faceva beffe con
tanta grazia»; il che significa a sua volta: politica e arte nei riguardi dell’elevazione borghese non
furono sempre vasi comunicanti. Per quanto sia stretta la connessione materiale fra la base
determinante e ciò che essa determina, la sovrastruttura, sulla prima a sua volta operante, il
progresso in ambedue non avviene necessariamente nello stesso modo, nello stesso tempo e
soprattutto al medesimo livello. Vi si aggiunge qualcosa di estremamente decisivo, che concerne
proprio il diverso grado: il fine, ovunque così essenziale alla categoria del progresso. Un’opera, se
non è soltanto importante, ma progressivamente importante, importante in modo sempre più vasto,
si identifica con il fine al quale essa, come opera in divenire, è preordinata, fine che è spesso molto
al di là della così detta « totalità » di una società. Altrimenti sarebbe escluso il fatto che essa non
partecipa al superamento di una passata infrastruttura e anche di una parziale (politica)
sovrastruttura. Non ci sarebbe, altrimenti, nessuna operante eredità culturale: non intendo quella che
si manifesta nelle parrucche (nei balli mascherati o nei costumi teatrali), bensì in Bach e Leibniz; e
non quella della politica dei principi del Rinascimento, ma della cultura del Rinascimento - tanto
sono intramontabili simili rilevanti eredità, a differenza di vasti settori delle loro infrastrutture e
anche di una parte delle sovrastrutture. Anzi, queste eredità sono operanti in un loro specifico
progredire, ben lungi dall’essere raggiunto, con sempre nuove possibilità del loro contenuto. V’è
anche motivo sufficiente per parlare di sviluppo ineguale, di un progresso eccedente nel Werther,
ma anche del tutto localizzato nel tempo nel codice civile prussiano del 1794 o anche nella Laune
des Verliebten. E motivo sufficiente per associare la sovrastruttura in sviluppo del Werther o della
Zauberflöte o del Faust, tenuto conto del loro fine, posto molto lontano e molto in alto, a un
progresso diverso da quello che risulta dalla transitoria armonia delle forze produttive con le
condizioni di produzione.

« Volontà d’arte », giusto movente ma anche ostacolo allo sviluppo culturale

Una nuova complicazione è connessa al movimento in avanti: o piuttosto, non al procedere stesso,
ma a nuovi intralci, diciamo, sul suo cammino troppo rettilineo. Le aporie che ora sorgono derivano
prima di tutto da nuove valutazioni di forme che furono a lungo ritenute semplici stadi di
preparazione a presunte forme più perfette. Per molto tempo si videro nelle sculture egiziane i rigidi
archetipi di quelle greche; anche perché si giudicò la plastica egizia in analogia con quella arcaica
greca veramente «rigida». Naturalmente il giudizio di valutazione era dato dall’ideale classico di
bellezza, ed era parziale; alla fine persino Thorvaldsen, di fronte alla testa di re Zoser della III
dinastia, era considerato un «progresso». Per cui Edipo 21

avrebbe risolto l’enigma non soltanto della sfinge tebana ma anche di quella egiziana, e la soluzione
fu: l’uomo - proprio nel suo aspetto esclusivamente greco-classico. Oggi, questo creduto progresso
dalla plastica egizia alla greca non è più così evidente; anzi, appunto in Egitto appare un maggiore
valore plastico in forza della unità di blocco delle sue statue. Alois Riegl aveva perciò introdotto, al
posto della svalutazione classicistica di tutta l’arte non attica, il concetto di « volontà d’arte», nel
senso di propositi artistici individuali e problemi di forma in ogni grande cultura. (La cosa non è
nuova in verità: il problema si presentò già nel XVIII secolo nelle Letters on Chivalry and Romance
di Richard Hurts, 1762, nella prima riscoperta del Gotico). Il concetto di «individuale volontà
d’arte» fu in seguito, da Worringer (Abstraktion und Einfühlung, 1908), reso troppo psicologico,
dualizzato e addirittura irrazionalizzato; tuttavia anche presso il Riegl (Stilfragen,1893; Die
spätrömische Kunstindustrie,1901) manca ancora qualsiasi consapevolezza di un assunto
reazionario; egli eliminava solamente lo schema classicistico. Nell’orizzonte di questa «volontà
d’arte» sorse, senza mediatori finalmente, l’arte extra-europea; a un esame più diretto scomparve il
presunto superamento della scultura egizia da parte della successiva plastica greca. Mentre così
l’arte greca non appariva più indiscutibilmente progredita di fronte a quella egizia, veniva nello
stesso tempo posto il principio per inserire, in modo diciamo del tutto poetico, nuove aporie nel
concetto di progresso. D’altra parte, poco dopo Riegl, tali aporie coincisero con l’interesse della
borghesia decadente volto a svalorizzare il progresso come categoria storico-filosofica, a non
considerarlo, per lo meno in questioni propriamente culturali, come storico. A tal fine venne
sfruttata la molteplice diversità esistente tra fioritura tecnica e culturale, diversità che fu esagerata
fino alla tesi dell’astoricità dell’arte e della sua intenzionalità. Qui entra anche la sociologia della
cultura di Alfred Weber: essa ammette il progresso nella «evoluzione della società» e nel «processo
della civiltà» tecnico scientifico, ma scorge il «procedere della cultura», che deve operare al di là di
queste «esteriorità», di questo «involucro», in «ritmi di vita » del tutto diversi da quelli del
progresso nel suo costante accrescersi. Per Hegel l’intera storia consisteva ancora in un «progresso
nella coscienza della libertà»; storia era per lui solo il progresso umano strettamente unitario,
conforme al concetto base della sua filosofia della storia: «Tantae molis erat humanam condere
gentem». Il «salvamento» in sé così meritevole dell’arte sino allora sottovalutata (anche di quella
così detta dei barbari) portò invece, principalmente nel tempo della decadenza borghese,
dell’antidemocrazia, alla demolizione del concetto di progresso della cultura. Non soltanto il
fascismo sottrasse alla Nona sinfonia il suo senso di umanità, ma addirittura annullò il concetto di
unità del genere umano, già intuito dalla Stoa quando il progresso era stato compreso come coerente
e appunto storico-universale. Qualcosa in tutto questo non collima. [Mentre il cattivo uso del
progresso nella ideologia storico-coloniale era trasparente inganno, la corrispondente negazione del
progresso secondo le conseguenze riegliane non è affatto trasparente né scevra di problemi. L’Egitto
e la Cina, quali innegabili aporie niente affatto «pre-greche», ci rendono edotti del concetto di
progresso sino ad ora seguito, di quello, come si è visto, troppo rigidamente indirizzato all’Europa.]
Le aporie del concetto di progresso seguito finora, troppo rigidamente indirizzato all’Europa, hanno
per sé una vasta storia dell’arte insieme a proprie valutazioni estetiche assolutamente sostenibili, per
lo meno serenamente discutibili, dell’arte non greca e soprattutto non europea.[Lo sviluppo
disuguale infrastruttura-sovrastruttura, divenuto evidente nel precedente capitolo, appare ora,
mutatis mutandis, come discontinuità del progresso tra alcuni stadi dell’arte nella sovrastruttura
medesima. Se queste aporie non verranno rimosse, se ogni tipo d’arte primitiva o sconosciuta verrà
posto ad un medesimo livello, prima o intorno a una specie di Magna Grecia europea, la
demolizione reazionaria del progresso non soltanto si farà ancora più grandiosa, ma finirà per
utilizzare un materiale marxista non ancora sufficientemente ordinato ed elaborato. Se questo
materiale viene invece preso in considerazione, sarà per il nemico la disfatta, ma alla grande causa,
alla causa dell’umanità, che irresistibilmente avanza con tiro a quattro, servirà per una nuova
conquista. La vera vita dei popoli non è ovunque cercata e affermata sotto la bandiera rossa e
soltanto sotto questa? L’ampiezza di questa visione non si riferisce anche a un’arte popolare ancora
«bizzarra», «esotica» e a una cultura del passato anche non ellenica? Ed ecco come si arriva alla
soluzione: il problema Egitto-Grecia posto all’inizio rivela, quando giunge in mani esperte, la
propria funzione di progresso - sebbene a prezzo di un concetto di progresso troppo
schematicamente applicato, così astratto, che è escluso appartenga al marxismo, alla sua vita e alla
sua ricca dottrina. Certo, la relativa negazione del progresso si presenta in interessante contrasto con
la sua vile manipolazione presentata come giustificazione del colonialismo. Tanto la falsificazione
colonialismo-ideologica quanto l’astorica negazione del progresso sono reazionarie, ma sono anche
tra loro non conciliabili. Se due truffatori si bisticciano, dice Lessing, l’uomo onesto conserva il
suo denaro: in altre parole un veleno, come la negazione del progresso culturale, può contenere,
senza volerlo, nello stesso campo, un antidoto contro l’ideologia coloniale e il suo cosmopolitismo.
Il concetto «volontà d’arte» aveva qualcosa di protettivo, di condiscendente, e il suo irrazionale
procedere da gambero implicava il paradosso della tolleranza reazionaria, diciamo, tolleranza che si
riferiva certamente solo al dispotismo, alla stregoneria, al cattivo irrazionale nei «cicli culturali» dei
popoli di colore. In ogni modo il paradosso non può accompagnarsi con la supremazia dell’uomo
bianco e con tutte le snazionalizzazioni che conducono a Washington. Ma si lascino da parte le
contraddizioni che il tardo capitalismo è costretto a porre nella sua ideologia; al posto di qualsiasi
«individuale volontà d’arte», al posto anche degli incapsulati «cicli culturali » (di cui parleremo fra
poco) una cosa sola conta: quel cocchio dai molti cavalli si impone sempre più, l’intelligenza per il
folklore e insieme per le culture nazionali si struttura sull’unità del socialismo. Esse sole rendono
manifesto il loro non sminuito contributo derivante da mille fonti insieme, secondo un concetto di
valore veramente democratico. Se un Oriente nella « preistoria » viene sostituito da
un’estremamente attuale Cina o dall’India, che diviene sempre più attuale, o anche dall’Africa,
sorge allora, da quel fine di incivilimento imposto dai bianchi, qualcosa come il concetto di orgoglio
degli uomini di colore per le culture nazionali non mediate dall’Europa. E lo stesso Partenone, per il
fatto che si presenta come fondato in forme stilistiche antichissime e preasiatiche, appare, nella sua
vera grande umanità, non classicistico.]

«Cicli culturali», geografismi e posizione della pluralità

Altro ancora si tenta: speculare su ciò che è innegabilmente difficile, e lo si fa a proprio danno.
Ecco, già il termine « cicli di cultura », gravido di un significato che va ben al di là di Riegl,
addirittura oltre l’arte figurativa. Si fa valere una nuova aporia nel concetto di progresso, che
proviene anch’essa dalla sua unilinearità, ora strettamente legata alle pretese di una vera e propria
storia universale: l’aporia dell’insufficiente spazio storico, cioè la difficoltà di sistemare in modo
visibile l’enorme materiale storico extra-europeo. In tal modo il semplice susseguirsi del progresso,
quella concezione assiale del tempo, europea, se non proprio tedesca, di cui si erano serviti Herder,
Hegel, Ranke - sebbene con molti capitoli contemporanei, marginali e celebrativi - si vendica.
Babilonia e l’antico Egitto possono essere sì considerati assai semplicemente come passate culture
all’inizio dell’epoca storica, ma una simile localizzazione non appare giustificata per la Cina e
l’India, le cui civiltà non possono dirsi passate come quella babilonese. E del resto anche per
l’antico Egitto e Babilonia il perdurare della colossale influenza esercitata dalla loro civiltà, il loro
sistema fluviale ancora vitale, non può trovare adeguata sistemazione. Questa reazionaria dottrina
dei cicli di cultura non voleva certo porre di nuovo sul tappeto il problema storico della Cina e
dell’India, al contrario. Essa intratteneva legami con la superimperialistica geopolitica e lavorava in
generale col sistema reazionario dell’egemonia, che poi nel fascismo, con la penetrante parola
spazio, ottenne anche una propria figura di fronte alla spiacevole parola tempo. Al posto di uno
«storicismo» troppo lineare, con Frobenius, Spengler e altri « morfologi » e in ultimo anche con
Toynbee, prese il sopravvento una specie di «geografismo»: non con movimenti progressivi, ma
solo con stati biologici di maturità all’interno dei singoli «spazi di cultura», e alla fine soprattutto
con fenomeni di età. Naturalmente anche questi processi discontinui dovevano aver valore solo
all’interno dei singoli cicli di cultura, non però all’interno della totalità e per la totalità del corso
storico. A meno che questi fenomeni di età, ma solo questi, non vengano posti in relazione con la
storia universale: nichilistica totale rovina per tutto il sistema; e il geografismo frammentario
sembra confermarlo anziché escluderlo. Non soltanto il concetto dell’unità del genere umano,
espresso dalla Stoa, ma soprattutto il concetto, implicito in Sant’Agostino, di una storia unitaria del
genere umano, viene così abbandonato. E viene abbandonato proprio il concetto di «processo»
storico, con il quale la borghesia ancora in ascesa aveva avvalorato in particolare la fredda nozione
di « progresso » del diciottesimo secolo. Avvalorato con una specie di chimica storica, riconoscibile
non soltanto nella filosofia naturale del periodo romantico, ma anche nella filosofia della storia, in
primo luogo in quella di Hegel. Mentre il concetto di progresso in Hegel parlava di un «erompere
dall’interno» del contenuto, come se si andasse formando nella massa in fermento della fusione del
metallo storico la «folgorazione» dell’essenziale, proprio in Hegel questo erompere dall’interno
doveva essere in ultima analisi qualcosa di unitario, con un divenire-per-sé che in funzione di fine-
unità tutto collega. Ma tutto ciò, e anche di più, scompare con la dottrina dei cicli di cultura, con i
compartimenti stagni e le ipotetiche isole (senza comunicazione), che la «morfologia» della storia
universale di Spengler lasciava sussistere. Non solo l’Egitto o l’India o la Cina sono mondi a sé
stanti, ma anche la Grecia (con il suo « concetto euclideo di cultura dello spirito») si presenta
radicalmente separata dal più tardo Occidente (con il suo « concetto faustiano di cultura dello
spirito»). Perciò il geografismo si raccomandava come spazio di deposito, ampio e particolarmente
comodo, per tutte queste culture e la loro storia. Costruendo la loro storia soltanto secondo
l’analogia infanzia-gioventù-virilità-vecchiaia, il tempo, che non si può certo negare, veniva
anch’esso assimilato a un ciclo, e una coesistenza di molti cicli era così resa possibile. Divenuto il
tempo un ciclo, come la vita degli organismi che pure trascorre ciclicamente, il progresso fu
concepito come un arco che alla fine sempre si ripete. Ma poiché tali archi e cicli trovano un posto
quasi illimitato sulla terra uno accanto all’altro, senza un prima e un dopo, persino senza una
necessaria contemporaneità, quel sistema spaziale geografico e segregante urta contro il sistema
temporale storico e in evoluzione. L’aporia sollevata dal concetto unilineare di tempo, appunto per
il collocamento sistematico del materiale storico, specialmente extra-europeo, era certamente
evitata, messa da canto, diciamo così. A mezzo di una cura radicale però, con la morte dello stesso
corso della storia che comprende e unisce paesi, popoli e tempi.Anche qui tuttavia l’avversario
mette in evidenza ciò che il progresso così concepito gli toglie immediatamente di mano. Come nel
concetto della «volontà d’arte» e nelle sue conseguenze, se lo «spazio» non è avvelenato, può dar
luogo a un significato molto diverso da quello che i creatori dei cicli culturali si erano prefissi. Essi
stessi sezionano la storia in parti, isole, autarchie e affinano parti costruite in modo fittizio con
ulteriore particolare artificio. Nel caso migliore la storia appare come un circo americano, dove in
piste diverse e del tutto isolati gli uni dagli altri si esibiscono contemporaneamente ginnasti,
cavallerizzi o divoratori di fuoco. Oppure, dato che ciò non serve alla dottrina dei cicli culturali, la
storia può essere considerata senza scopo e venir trasformata in un gruppo montuoso circolare e
artificiosamente tracciato, simile a un paesaggio lunare. A non altro conduce il geografismo
reazionario, creato, come tale, soltanto per la negazione dell’impulso di progresso e del suo giusto
concetto. A tal fine tuttavia - e anche questa è una specie di astuzia della ragione - non si trova nella
categoria dello spazio che qui appare tanto offesa quanto esagerata, nessuna difficoltà per sistemare
il colossale materiale storico della terra. Perciò bisogna tener conto, una volta esaminato il concetto
dei cicli culturali, di una specie di appendice spaziale nella linea del tempo storico — del tutto
estranea alla statica interessata del geografismo. Con altre parole, bisogna domandarsi se,
all’interno del concetto di storia come un susseguirsi di tempi, non siano per lo meno necessari
teatri contemporanei o molto vicini nel tempo, rappresentabili press’a poco come accade nell’arte
epica. Certo, gli avvenimenti che la grande epica rappresenta su vari teatri sono per necessità
potentemente concatenati fra di loro, mentre l’Europa e l’India e ancor più la Cina per millenni
comunicano poco o nient’affatto, e soprattutto sono tutt’altro che «contemporanei» i diversi livelli
sociali raggiunti dai popoli della terra. Tuttavia, la rappresentazione di una molteplicità è qui
possibile: una sistematica ricchezza del tempo e del concatenarsi dei tempi, un’ampiezza di spazio,
quindi, nella descritta evoluzione storica, che non ha bisogno di nessun geografismo. Se in certi casi
le manchevoli o interrotte comunicazioni fra popoli e i diversi livelli sociali introducono
separazioni, ciò non turba affatto l’unitarietà del corso: anche una sinfonia, per citare questo
esempio particolarmente adatto, non si svolge affatto con un continuo di tutte le voci, al contrario. Il
corso unitario della rappresentazione è garantito, qualunque interruzione si presenti (e si dà forse
una realtà senza interruzioni?), già per mezzo della legge interna di ogni sviluppo sociale e dal suo
sempre presente rapporto base-sovrastruttura. Il perdurare di una originaria comunità, al di sopra
delle società di classe fino alla maturazione del socialismo, si trova ovunque; in ogni nucleo di
relazioni sociali c’è un elemento di umanità - dall’antropologico fino all’umano - che variamente lo
colora e lo comprende in unità. Rappresentare la storia universale come una successione di periodi è
senza dubbio molto più facile che rappresentarla nella contemporaneità di luoghi e nella pluralità
delle sue voci; questo concetto topografico esige, infatti, per lo meno quando si presenta come
storico-universale, un multiversum - anche nel tempo. Ma il concetto di progresso attraverso tale sua
maggiore difficoltà è meno soggetto a perdersi; mentre tutt’altro accade col geografismo stagnante e
incline a soste. L’operante e presente multiversum delle culture è esso stesso espressione del fatto
che l’umano non è stato ancora trovato, ma ovunque viene cercato e sperimentato; così questo
umano sempre in divenire, dalle molte vie che ne fanno esperienza per raggiungerlo, rappresenta la
sola meta, veramente consentita, cioè utopisticamente consentita. E quante più nazioni e culture
nazionali apparterranno al campo umanistico [socialista], tanto più ampia, più sicura e operante, e
perciò comprensibile, diverrà l’unicità della meta per i multiversa nella nuova storia della cultura.
Il problema di una struttura temporale «elastica» nella storia, secondo l’analogia dello spazio di
Riemann

[Il tempo è lo spazio della storia. Karl Marx]

Il tempo esiste solo perché qualcosa accade e dove qualcosa accade. Ma finora non si è abbastanza
riflettuto se e in qual modo, nella varia forma del suo accadere, si manifesti anche la diversa natura
di ciò che accade. Nel tempo semplicemente vissuto è chiarissimo, almeno per ciò che riguarda un
percepire e un rappresentare soggettivo, spesso troppo soggettivo. L’esperienza del tempo per
motivi che qui non discuteremo, è del tutto contraria alla sua rappresentazione. Un’ora piena di vita
passa in un attimo e una vuota si prolunga all’infinito; nel ricordo invece le ore piene o una
«grande» giornata si estendono potentemente, mentre mesi di vuoto si raccorciano nel ricordo fino a
scomparire. Ma da questa diversa misurazione di un periodo eguale per durata, e talvolta per
contenuto, risulta chiaro che il mero tempo vissuto non dice molto al nostro problema. In
particolare, la concezione soggettiva del tempo si riferisce soltanto alla lunghezza del periodo,
proprio come per il tempo dell’orologio, esteriormente conchiuso. Una differenza di contenuto o di
qualità viene tutt’al più indicata con l’espressione tempo «vuoto» o «pieno». In ogni modo si
enuncia così qualcosa che non risulta più nel concetto usuale di tempo in quanto non soggettivo e
metrico formale.In questa valutazione sono escluse le mutevoli e sempre inconciliabili misure della
pura esperienza vissuta. Il tempo cronologico è un progredire simmetricamente suddiviso in spazi
eguali; e perciò esso trapassa con violenza «inesorabile», ossia uniforme. È possibile allora
riportarlo a una successione numerica ed esprimerlo grazie ad essa: quadranti e calendari divengono
realizzabili. Ma un progredire che si può esprimere in tal modo è assolutamente indifferente ai
propri contenuti, che in esso avvengono o anche non avvengono. È un’astrazione dalla vicenda
vissuta, a sua volta astratta: il tempo rettifica il vissuto, ma a prezzo di una rigidezza da formulario.
Rigidezza inevitabile per la misurazione razionale del tempo, anche per il tempo lavorativo (per
quanto qualitativamente valorizzato in modo molto diverso), per la cronologia storica, per la durata
giuridica dei contratti, e il metronomo è nelle arti il cui campo è il tempo ciò che il regolo è per
quelle dello spazio. Ma neppure il «vuoto» e il «pieno», come denominazioni appena
approssimative di densità, si presentano nel tempo cronologico: esso è dappertutto ugualmente
denso; oppure come cosa astratta, è ovunque ugualmente vuoto, con il suo trascorrere o avanzare, in
cui naturalmente non si accenna ad un progredire qualitativo. Con quel formale battere in avanti non
viene indicato nemmeno uno scorrere inesorabile, dato che vi sono mescolati contenuti di
derivazione molto diversa. Quando la moglie del maresciallo, nel Rosenkavalier, ferma talvolta,
nella notte, tutti gli orologi perché essi segnano il tempo « che scorre » verso la vecchiaia e la
morte, vecchiaia e morte sono connesse allo scorrere delle lancette, come per ornamento negli
orologi barocchi si soleva collocare una piccola immagine di stagno della morte che con la falce
batteva perpendicolarmente le ore. E se è vero che la ruota della storia, quanto meno alla lunga, non
si può far girare all’indietro, anche se deriva dall’orologio ed è ancora una cosa sola con
l’innegabile procedere in avanti della lancetta, con quella ruota si indica un tempo-tendenza e quindi
qualcosa di qualitativo e non il tempo in sé neutro dell’orologio. E sebbene tale tempo, essendo
quello della cronologia, si trovi per necessità alla base di ogni contenuto storico, non rappresenta
altro che il rigido scheletro sotto la carne e il sangue del tempo concepito come tendenza. Se perciò
il tempo cronologico viene assolutizzato, offre proprio il concetto opposto a ogni tentativo di
pensare la forma del tempo (in certi casi, quando il suo contenuto lo esige) come non rigida, anzi di
pensarlo come «elastico»: come la nuova fisica, non più euclidea, in determinate condizioni,
minime o soprattutto grandissime, afferra e comprende lo spazio. Il tempo cronologico batte invece
dopo come prima lo stesso eguale battito cronometrico, indica la serie astratta del puro uniforme
succedersi. Per comprendere in modo adeguato il tempo storico e i suoi «tempi» sarà dunque
necessario molto di più di un «rubato» o anche di un semplice mutamento di ritmo del metronomo.
In rapporto alla materia inanimata in movimento il tempo sembra dapprima un concetto più
semplice. Questa misura, quantitativa, coincide con l’uniforme e continuo succedersi della serie
numerica. E il tempo in generale, da un punto di vista fisico, non esplica neppur lontanamente la
stessa funzione dello spazio, a lungo ritenuto uniforme per antonomasia. Il tempo non esplica questa
funzione in Galilei, il quale tuttavia misurò aritmeticamente in particolare il moto non
uniformemente accelerato. E neanche in Newton: nel suo sistema il tempo t rappresenta soltanto
una variabile quantitativamente «scorrente» e indipendente per poter stabilire relazioni
numericamente esatte. Uno dei contrassegni essenziali del tempo storico, finalità e irreversibilità,
manca da sempre nelle equazioni fisiche del tempo. Soltanto il secondo principio della
termodinamica, riguardante la così detta morte del freddo in un sistema chiuso, conosce la finalità
irreversibile nel concetto di tempo, espresso da una disequazione;ma tale principio, dell’entropia, è
divenuto anche il più strutturalmente estraneo fra tutte le grandi leggi della fisica. La nuova fisica,
caratterizzata dalla teoria della relatività e dei quanti, ha trattato la categoria del tempo da punti di
vista del tutto nuovi, specialmente per mezzo della critica di Einstein, che rifiuta l’ipotesi di Newton
dell’isocronia di tutti gli eventi molto lontani. Com’è noto, esiste sincronismo (con differenze così
esigue da essere trascurate) solo per luoghi vicini, ma non applicabile ai grandi spazi. Luoghi molto
lontani non hanno attimi eguali; non soltanto perché manca la possibilità di misura della
simultaneità (ciò che in fondo sarebbe una precisazione di carattere idealistico e non reale e
sperimentale), ma perché ogni luogo, secondo Einstein, ha il proprio tempo, almeno per quanto
concerne l’attimo. Tuttavia, sebbene la teoria della relatività si trovi a procedere in connessione ai
problemi del tempo («avvenimento-attimo», ad esempio), e così la teoria dei quanti (tempo soltanto
come aggregato di quanti e non come unico quanto di azione), è e rimane vero che il tempo - nel
concetto fisico di natura, prima quantificato poi matematizzato - risulta in conclusione del tutto
declassato. Collegato con le tre dimensioni dello spazio in quanto unidimensionalità che non
emerge in modo particolare, non produce asimmetria nella pluralità delle quattro dimensioni. Ogni
« punto del mondo» (ora e qui) viene determinato dalle sue coordinate di tempo-spazio
x1 , x 2 , x 3 , x 4 , ma queste formano solo i valori numerici dell’«asse di coordinate» del tempo, e il
tempo da loro determinato non si distingue per nessun particolare carattere. Insomma nella fisica, di
tempo propriamente storico-naturale, come modo di essere di un accadere che ha una tendenza,
non è il caso di parlare. Ma ben diverso è il caso dello spazio, inteso ora nella fisica in modo così
nuovo ed elastico, sebbene in esso il tempo, per la sua totale matematizzazione, sia declassato, e il
concetto di spazio si connetta strettamente col concetto di tempo. Non si tratta infatti di discutere
questa connessione (con un puro tempo della meccanica e per di più astorico), ma unicamente la
stessa metrica variabile, non più euclidea e quindi riferita soprattutto allo spazio. Dallo spazio di
Riemann, inteso elasticamente, potrebbe derivare ora un motivo di riflessione in favore di un non
rigido concetto di tempo nella storia proprio al centro delle aporie del progresso e, strettamente
collegate con esse, delle aporie della sistemazione del materiale storico. Lo spazio di Riemann non
porta affatto in sé rigidezza, anzi è variabile, permette che le unità di misura vengano in esso
cambiate e questo a sua volta non per ragioni di calcolo operativo-idealistiche, ma soprattutto per
motivi derivanti dall’oggetto stesso. A tal fine Riemann obiettivamente ammise (e così fece «posto»
alle teorie della relatività) che il campo metrico non è dato per fisso una volta per sempre, ma sta in
dipendenza causale con la materia e con essa si trasforma; il campo perciò non appartiene alla
forma quieta e omogenea, ma a quella del mutevolissimo accadere della materia. Per quanto i
postulati e le amplificazioni della teoria generale della relatività e delle equazioni di gravitazione di
Einstein debbano essere ancora provate, la suddivisione oggettivamente varia e il diverso
movimento della materia nel cosmo esigono una metrica variabile e quindi diversa da quella
euclidea. Ecco ciò che, secondo un’analogia lecita e sollecitata, deve essere preso in considerazione
per il concetto storico del tempo, precisamente in considerazione delle varie suddivisioni del
materiale storico. A differenza del nuovo concetto fisico di spazio, non viene abbandonato il campo
dell’evidenza, e anche l’analogia, se usata metodicamente, offre solo degli indici, e in ogni caso
solo fortemente modificata da uno spazio conforme a natura può essere riferita a un tempo storico.
Ma la storia corrente non conosce affatto il problema di una misura variabile del tempo, e meno
ancora il concetto non rigido di tempo, esaminato in analogia con lo spazio di Riemann, in base alla
diversa partizione della materia storica. Il quadridimensionale spazio-tempo-universo, come è
concepito dalla moderna fisica soprattutto per le situazioni «macrocosmiche», cioè astronomiche,
non è tale che il tempo vi scorra dentro come modo di essere del movimento reale. Così mancano al
tempo fisico (ad eccezione di quello dell’entropia) tutti i contrassegni della finalità, anzi di qualsiasi
pensabile singolarità. Tuttavia, proprio per questo, lo spazio fisico può insegnare qualcosa al tempo,
e cioè che, nel suo succedersi storico, questo dev’essere concepito come non costante e, se non
proprio, curvo, per lo meno a suo modo ricco di curve. Una «pluridimensionalità» della linea del
tempo, come è necessaria alla ricchezza geografica del materiale storico, è alla fisica assolutamente
estranea. Che la fisica per altro ammetta «-dimensioni, non giova al concetto «spazio di tempo»
nell’unione tempo-spazio. Anche qui, dunque, sarebbe necessaria, ogni qual volta la storia, la
storia naturale, viene a contatto con la fisica, una «elasticità» completamente diversa per
rappresentare una determinata evoluzione come forma variabile dei mutevoli movimenti, delle
trasformazioni cosmogoniche.
Per quanto riguarda gli avvenimenti umani ci si è accontentati di dividerli in vari tempi.
Naturalmente questi periodi vengono indicati con nomi diversi: Antichità, Medioevo, Età Moderna,
come se il tempo prendesse con ciò particolari colorazioni. Come se in tali diverse denominazioni
fosse contenuto ciò che in questi periodi accadde. Tuttavia il colore rimane esterno e marginale, è
una semplice tinta scolorita di ciò che nella società, al confine delle varie epoche, talvolta comincia
o finisce. Il tempo stesso rimane qui, nonostante tutte le suddivisioni cronologiche, eguale; tutt’al
più gli viene attribuito figurativamente qualcosa come l’età dell’uomo, «periodo greco, giovinezza
del genere umano», e così via. Si trova sempre ripetuta un’espressione, di ben scarso valore,
arieggiante a una aurora: «sorgere del secolo», per tacere poi delle antiche mistico-numeriche
accentuazioni (anno 1000 o anche 1524). Ma ora è assai degno di rilievo che non la storia come
semplice narrazione, ma le «discipline particolari» dell’essere e della coscienza storici, che tutte
insieme appartengono alla storia, ci hanno fatto conoscere strutture del tempo proprie e legittime.
Prima di tutto troviamo il concetto, sul piano economico tanto importante, del tempo lavorativo: in
esso la stessa ora ha un coefficiente, cioè viene diversamente calcolata secondo il lavoro qualitativo
esplicato. Si trovano inoltre concetti del tempo assolutamente particolari nella sovrastruttura; basta
solo accennare ai ritmi musicali e poetici e prima di tutto ai costruttori della frase.
V’è un tempo tranquillo nella forma della fuga, un tempo teso e pieno d’ansietà nella sonata. V’è un
tempo che si svolge copioso nell’ampio spazio dell’epica, a differenza di quello del dramma, non
artisticamente ma materialmente complesso o raccorciato o pieno di omissioni o anche di salti
cronologici. Nella costruzione della sonata come del dramma appare, inoltre, una relazione tonica-
dominante propria del loro tempo specifico: la forma dell’andamento non è più per così dire
cronica, ma acuta, propria dell’incalzante, imminente e finalmente verificantesi fausto o infausto
accadere. Intere civiltà non solo esistono nel tempo, ma contengono esse stesse, specialmente nella
loro mitologia o religione, un proprio tempo che si comunica alle loro singole forme culturali del
tempo: basti accennare al tempo greco quasi privo di futuro e a quello cristiano che ne è così ricco.
Per questo la mitologia greca ha divinità temporali, divinità del momento: Eos, Nike, Hermes,
divinità alate. Ma quale differenza con il «Dio del tempo», Jahwe, che colmo di futuro, innanzi a
Mosé, così si definisce: «Io sarò colui che sarò». E ancora consecutio temporum per così dire
terrena: che cos’ha in comune, non solo in Giovanni Battista, ma anche in Münzer, il tempo-kairos,
un tempo che in sé «afferma la propria imminenza», «la propria pienezza», con il tempo greco, così
poco rilevante, o anche con quell’infinito trascorrere, che Hegel chiama cattiva infinità?Varietà di
strutture temporali non si trovano nella semplice cronologia di un susseguirsi storico (di nuovo in
relazione soltanto con il tempo-orologio), ma proprio nel problema di una colorazione del tempo dei
singoli periodi storici e soprattutto, con pieno diritto, nelle singole sovrastrutture. Tali differenziate
strutture del tempo non sono però - come si è veduto - quelle che permettono di ridurre a un comune
denominatore il progresso nell’organizzazione economica, nella tecnica e nell’arte. Di qui risulta
che fra il molteplice materiale che modifica il concetto di tempo storico (per forma e contenuto), e
lo rende adatto di volta in volta ai vari contenuti, si trova alla fin fine il multiforme materiale dello
scopo,
al quale, come elemento valorizzante, il succedersi delle serie temporali è talvolta riferito. Appunto
questi riferimenti finalistici non ancora del tutto omogeneizzati tra loro, variano, oltre alle forme del
progresso, anche le strutture del tempo nelle quali avvengono quelle differenti e spesso disuguali
forme (organizzazione sociale, tecnica, arte e così via). Di volta in volta l’insieme delle tendenze
sociali si sovrappone certo, anche come generale tendenza, ai movimenti temporalmente stratificati
della tendenza stessa; tuttavia le diverse correnti della stratificazione rimangono in questo insieme.
Ed esse esigono particolari concezioni temporali-contenutistiche non più di forma omogenea -
esigono una specie di tempo riemanniano: un concetto di tempo variamente misurabile, secondo la
partizione, e soprattutto secondo i contenuti finalistici - ancora vari e molto nascosti - del materiale
storico. Leibniz ha fatto comprendere il tempo e non soltanto lo spazio come forma attiva delle
forze e del loro movimento, come modo del movimento: una concezione dinamica del tempo che
nelle sue conseguenze non considera le serie temporali della storia umana come immutabili e
ovunque egualmente costituite. E in primo luogo essa vede una differenza fra i milioni di anni della
preistoria (per non parlare dei miliardi di anni geologici e persino cosmologici) e il paio di millenni
di storia della cultura a partire dal periodo neolitico. Qui si manifesta non soltanto una differenza
cronometrica, ma in particolare una distinzione inerente alla densità dell’essere-tempo, specie nella
sua struttura qualitativa, in breve, una oggettiva variabilità anche nella successione: con tutta
l’insopprimibile unità di connessione dello sviluppo storico, connessione non lineare-temporale,
bensì anche cronologicamente differenziata e federativa, e solo così utilmente centripeta.
Una postilla. Naturalmente non ci sono tempi o forme di tempo in sé. Al di fuori della vita sociale
del proprio «tempo» non c’è metrica diversa, discutibile, come se una struttura temporale come tale
vivesse e si muovesse. Ma non c’è neppure nella storia mero tempo cronologico oppure, il che è lo
stesso, il tempo come contenente neutro astratto. Soltanto per un’abitudine irriflessa poteva venir
ammesso qualcosa di simile di fronte alle difficoltà di collocazione del materiale della storia
universale. O anche per un interesse statico di tipo reazionario, come forse in Nicolai Hartmann,
quando afferma che il tempo rimane sempre tempo, e sempre lo stesso, assolutamente eguale,
qualunque cosa accada. La coscienza filosofica non può, a differenza di quella storica, «scambiare
estensione e dimensione: ciò che nel tempo si estende non è mai il tempo stesso», il quale trascorre
piuttosto indifferente verso tutto ciò che avviene (Philosophie der Natur, 1950, p. 144). Ma la presa
di posizione negativa di Hartmann è istruttiva, ci fa conoscere come il formalismo e la statica
categoriale siano l’unica risoluta presa di posizione contro Leibniz e le sue derivazioni. Di qui le
differenziazioni nel concetto di progresso-serie temporale possono apparire, secondo i vari punti di
vista, soltanto assurde o pazze. Per lasciar da parte l’immobilismo di natura reazionaria, ogni
irriflessa abitudine al tempo cronologico mostra poi certe parentele con la separazione della così
detta logica formale dalla dialettica - in questo caso nella stessa dottrina delle categorie. Infatti,
anche con una reificazione della cronometria è eliminata la nozione dei mutamenti dialettici, i quali
tuttavia appartengono così inseparabilmente al concetto del tempo come a qualsiasi altra nozione
che rappresenti un processo - e quale concetto rappresenta processi più genuini di quello del tempo?
Hermann Weyl paragona lo spazio di Riemann, a differenza di quello fisso euclideo, «a un
liquido..., a una posizione e a un orientamento mobili, cedevoli di fronte a forze agenti»
(Philosophie der Mathematik und Naturwissenschaft, 1927, p. 63): come potrebbe questa variabilità
non essere adeguata al punta rhei del tempo? Qui non si tratta, a vero dire, di una molteplicità n-
dimensionale come in una geometria semplicemente non intuitiva e ampliata, ma della molteplicità
visibile, imposta dalla concretezza della storia, nella quale i mutamenti cronologici sono
localizzabili. Il progresso non procede solo in una successione omogenea di periodi, ma scorre
anche in diversi sovrapposti o sottoposti piani temporali. Scorre in una umana unità del trascorrere e
dell’acquistare, a sua volta e soltanto risultato di un processo molteplice. Il tempo unitario, reale e
generale, del processo storico, anzi del processo universale, germina ovunque per primo: come
forma del tempo di una nascente identità, cioè del non estraneato nel rapporto fra uomo e uomo e
fra uomo e natura. Ma anche al di fuori di questo problema limite, il tempo, precisamente come
«pura irrequietezza della vita», come lo chiama Hegel nella Fenomenologia dello spirito,sta di
fronte ai suoi variabili contenuti non nel rapporto di esteriorità invariabile. Come modo di essere dei
movimenti e processi materiali, che manifestamente sostiene, vi prende parte e ne viene
determinato, in periodi e in settori di cultura, in modo concreto e caratteristico.

La serie, fisica e culturale, e il sole di Omero

Se il tempo è solo là dove accade qualcosa, che succede dove poco o soltanto spaventosamente
adagio qualcosa avviene? O forse una serie che, per così dire, conta solo se stessa e all’interno della
quale quasi nulla si trasforma, può veramente procedere, come eguale, in una serie ricca di
avvenimenti, «storica»? In altre parole: il tempo, nel quale l’acqua per centinaia di migliaia d’anni
lava sempre le stesse fredde pietre, nel quale le onde si frangono sempre allo stesso modo sulla riva,
è veramente più lungo o non è egualmente denso che quel solo breve anno russo 1917? Queste
domande devono essere comprese in modo oggettivo e concreto, non come problemi del tempo
vissuto, il quale non può neanche essere preso in considerazione quando si tratti di migliaia e
milioni di anni geologici. Tutte le successioni di tempo, non soltanto quella storica, devono essere
comprese in connessione con le suddivisioni variamente dense dell’accadere storico materiale, delle
sue tendenze e dei suoi contenuti. Esiste una differenza intensiva e qualitativa del tempo storico
stesso di fronte al tempo-natura come si presenta nella «storia naturale», diverso inoltre dall’altro
indicato dalla componente t della fisica. Ora si comprende (si presenterà in seguito un aspetto del
tutto diverso della cosa) che il tempo della natura offre una minore densità nella sua estensione,
formalmente molto più ampia di quella storico-culturale. Confrontato con questo, è un meno,
dilatato all’infinito, in tempo intensivo-qualitativo; come anche la natura preistorica contiene un
meno nello sviluppo del proprio essere. E i suoi milioni e miliardi d’anni, che sono (o sembrano)
disposti in serie apparentemente omogenea prima del paio di migliaia d’anni della storia umana,
sono perciò da usare per un confronto non troppo stringente ma illustrativo, una specie di tempo
inflazionato a confronto con «l’età dell’oro» storico-culturale. La formale e tanto più lunga
estensione del tempo della natura, come tempo esistente prima della storia dell’uomo, è però più
lunga solo se applicata al passato, non al futuro, il quale, secondo il concetto corrente, nella storia
dell’uomo conta infinitamente di più. Quest’ultima appare a noi come l’unica non conchiusa, e la
storia naturale invece sostanzialmente chiusa — nonostante il suo eterno movimento da vapore
ardente a vapore ardente o anche da fredda polvere a fredda polvere, anzi grazie a questo
movimento soltanto circolare e quindi sostanzialmente conchiuso. Poiché l’evoluzione da nebbia
primordiale a soli e pianeti e forse a una vita variamente sviluppata porterebbe sì, all’interno di
ciascun processo, al passaggio dal sorgere delle manifestazioni della vita a cose sempre nuove, ma
mai nulla di nuovo appare quanto ai puri processi inorganici né riguardo al ciclo del vapore. Essi si
aggirano in se stessi, stereotipi e infruttuosi come se ci si trovasse nella materia universa prima della
storia dell’uomo, anche se questa poi alla fine prevale, li riconduce a sé. Così appare poi -dal punto
di vista di una natura semplicemente « preistorica » - un più di tempo storico ricco e denso, di fronte
al tempo della natura dilatato e pigro di processi. Naturalmente qui si suppone che il tempo delle
così dette cose morte si trovi senza eccezione prima del tempo umano. E non solo: il tempo della
natura, come tutto ciò che in esso accade, deve essere concepito come un puro passato, in realtà
non deve contenere nulla di nuovo che gli appartenga. Soltanto così precede la storia dell’uomo: un
guscio dal quale è uscito il grano, qualcosa che ha svolto la sua funzione, una colossale vuota
preistoria e niente altro. Solo così la storia della natura, procedendo rettilinea, sbocca nella storia
umana che la segue e « incorona» il suo sviluppo storico. Tempo addietro uno scritto di
divulgazione scientifico fu intitolato: Dalla nebulosa a Scheidemann: anche se il nome
Scheidemann viene sostituito da uno più significativo, è una realtà storico-culturale che chiude
l’anteriore storia della natura, la lascia dietro come un semplice antecedente ormai conchiuso, come
una macchina generatrice esaurita che ora continua a correre a vuoto. Un futuro, ancora da venire,
certo, ma positivamente orientato verso l’umano, non si trova più, da quanto abbiamo detto,
all’interno di un meccanico procedere naturale. La physis,come base, può anche essere tenuta in
molto conto, ma per una precisazione storico-culturale del suo
ante rem essa si trova nel vicolo chiuso del già avvenuto. Il ricordo di un falso concetto di passato,
proprio nella storia della cultura, si fa subito innanzi: la questione del posto che rimaneva
disponibile a Herder, Ranke e soprattutto a Hegel per le antiche culture dell’Asia, l’India e la Cina
in particolare. Paesi per Hegel sprofondati nel passato come la terra e la natura in generale, sebbene
esistessero e fossero operanti e attuali. Ma così per i filosofi evoluzionisti di quel tempo la natura,
specialmente quella inorganica, si avvicinava sulla linea del progresso, al timido, superato inizio,
col suo «morto linguaggio». Hegel, che sottoponeva interamente la natura alla storia, ha in un certo
senso sanzionato il carattere di puro antecedente, di preterito assoluto attribuito al mondo
inorganico: «Un tempo la storia è caduta sulla terra, ora però è giunta alla quiete: una vita che
fermentando in se stessa aveva in sé il tempo, lo spirito della terra non ancor giunto all’antitesi, il
movimento e i sogni di un dormiente, finché esso si desta e acquista coscienza nell’uomo e si fa
innanzi come tranquilla figura» (Werke, VII, 1, 437; ed. Lasson, XX, 109; Moldenhauer-Michel, IX,
347).Decisiva preminenza della storia umana, dunque, che tutto domina, e può creare un’antichità;
mentre la natura diviene così un semplice preludio, anche il suo tempo deve apparire del tutto
rarefatto e povero di contenuto, come è stato rappresentato nella prima trattazione del problema. Ma
ora abbiamo la seconda e complementare concezione: la natura nella storia dell’uomo è una
semplice antichità, un campo di tempo posto senz’altro alle spalle dell’uomo? Non è assurdo dire
che la natura è passata come le crociate, per esempio, e che, come quelle o altre cose passate, viva
soltanto in alcune conseguenze? Non v’è forse, nel modo più evidente, l’incessante rapporto
dell’uomo all’uomo e alla natura? alla materia greggia, alle forze della natura e alle loro leggi,
come pure il rapporto estetico dell’uomo con i problemi della bellezza della natura e dei miti che vi
risuonano ancora ripetutamente? Non risplende anche per noi il sole di Omero e, per vero, al di
fuori di ogni « eredità culturale », proprio il sole stesso, come qualcosa di veramente non
tramontato, che ignora cosa voglia dire esser considerato dalla storia umana come antico? Sarebbe
proprio assurdo dire che l’immenso universo e il suo corso, del tutto disgiunto da noi con le sue
miriadi di stelle, abbia trovato la sua « continuazione » nella presente storia dell’uomo e il suo
scopo nell’attuale umano grado di civiltà? L’«Iliade della natura» sarebbe quindi letteralmente
conchiusa e finita nell’umana «Odissea dello spirito», per cui anche il tempo di tutta la storia
naturale finora svoltasi appare vuoto e a differenza del tempo storico umano non ha più un futuro
degno di nota. Senza un progresso sui generis, dunque, senza reale possibilità di raggiungere
quell’estremo lontano, ancora così lontano dalla presente storia e così profondo da parere appena
raggiungibile, che Marx ha prospettato come umanizzazione della natura.
Pertanto, in una vera «topologia» storico-universale dei tempi non può non essere preso in
considerazione il problema di una vera e propria serie di tempi naturali che non dappertutto
sbocca nella presente serie storica. Lo svolgersi lineare, in fila indiana, del prima e del dopo non
può assolutamente sostenersi ad un prima naturale considerato soltanto come trascorso, ad un
dopo della storia della cultura considerato soltanto come determinante.
Parimenti, l’immensa costruzione della natura si presenta più come uno scenario, sul quale il
dramma che a esso corrisponde per dimensione non è stato ancora rappresentato nella storia
dell’uomo, più di quanto l’essere e la coscienza storico-umani appaiano l’occhio già aperto di tutta
l’essenza della natura. Un’essenza della natura che non solo si trova prima della nostra storia e la
sostiene, ma in gran parte l’avvolge, a lungo, come storia per forme e contenuto ancora in via di
mediazione con il tempo della storia. Certo, non come una storia che debba rimanere non mediata
con il tempo della natura e con i particolari contenuti latenti, che ne strutturano i periodi - come una
contabilità a partita doppia: meta del progresso storico («regno della libertà») da un lato, fine
dell’evoluzione della natura («entropia») dall’altro. Questo dualismo, anche se lontano, è una
minaccia proprio là dove la natura senza eccezione è considerata come quel prima della storia che
da ultimo seppellisce in un fumo-caldo, in fredda polvere, quei periodi storici che, orgogliosamente
superiori al tempo della natura, non sono però ancora in nessun modo con essa mediati né in essa si
preparano a sfociare. Quel dualismo, cioè, riconduce al semplice prima uguale dopo, al dopo
uguale prima. Anche qui dunque si notano aporie della tanto ricca storia dell’evoluzione, nel tempo
storico e naturale, proprio qui, ed esse provengono dai già accennati due aspetti di posizione nel
tempo della natura: un conchiuso passato, un dischiuso mattino della natura. Il relativamente vuoto
e privo di futuro tempo naturale da un lato, il sostanziale e ricco di futuro tempo naturale dall’altro:
sono ambedue presenti e niente affatto come procedimenti di metodo, ma appunto quali aspetti
reali che si completano. L’uno si trova nell’aspetto meccanico del passato e di ciò che di
quantitativo e costante a esso corrisponde; l’altro si trova nell’aspetto anticipante di un’aurora e di
ciò che vi può corrispondere per qualità e possibilità, anzi per il simbolico nel processo naturale,
soprattutto secondo un concetto goethiano e non newtoniano. Le due direzioni del tempo non
corrono però separate una accanto all’altra, la seconda non sostiene la prima semplicemente perché
ha valore pro rata: anche per i due tempi della natura esiste un poli-ritmo interno intrecciato.
Dove il tempo di natura del suo concetto aurorale come umanizzazione della natura è in modo
particolare unito ai contenuti di tendenza del tempo storico-culturale.
Il che significa: la vera «età dell’oro» dell’antropologia storica non può essere compresa senza
l’altrettanto reale « età dell’oro » di una nuova cosmologia umanistica - che ha come precedente
ricco di conseguenze la storia umana, e porta così a compimento, infine, la storia anche in natura,
in una misura universale, come possibile-positivo, anziché seppellirla come un possibile-negativo.

Ancora una volta connessione ovvero progresso nel «senso» della storia

Rimane chiaro che l’appello che spinge in avanti è tanto poco cosciente di sé come la cosa che esso
significa. Il concetto di progresso implica un verso dove e a che scopo, e invero uno scopo che si
deve volere e perciò buono, e uno scopo da conquistare e perciò non ancora conseguito. Senza un
verso dove e un perché il progresso non è neppure pensabile, non si può riferirlo a nessuna misura e
soprattutto non è assolutamente pensabile come la cosa stessa. L’«a che scopo» non solo implica
una «meta», ma — affinché non venga senz’altro a coincidere — uno «scopo» e - di nuovo, perché
non sia sempre identico — un « senso » dell’accadere, per lo meno dell’umano lottare e lavorare.
Un accadere per così dire automatico, anzi la vita stessa, non ha bisogno, per essere una vita, di
avere un «senso» (gli uomini in prima istanza non vivono per vivere, ma perché esistono). Ma
l’accadere e la vita voluti, pensati e messi in opera come progresso, non approdano a nulla senza
essere dotati di senso, anzi, senza di questo, tale vita e attività non emerge neppure, e chi nega realtà
a tale senso (anche se non ancora realizzato) scalza proprio alla base il progresso, sia come concetto
sia come contenuto concreto. Non ancora concretamente effettuale vuol dire: il suo senso è
contenuto non in uno statico essere presente, bensì nell’oggettiva-oggettivante possibilità reale e
nella tendenza dialettica di realizzazione di tale possibilità, nei riguardi della volontà di progresso e
del mondo dove esso ha un senso. Senso è dunque prospettiva, in quanto essa è possibile nel mondo
che dovrà mutare, in quanto ha per sé in potenza un fine utile nella capacità di perfezionamento del
mondo. Questa prospettiva precede passo passo l’idea e l’esecuzione di ciò che attualmente è
necessario, ma sempre, in questa idea ed esecuzione, il totum di ciò che è necessario deve aver un
carattere intenzionale e sottinteso, affinché senso come prospettiva e prospettiva come senso siano
presenti. Un tale concetto, come si vede, si estende subito a tutto ciò che esiste, a tutta la storia, a
tutto il senso del mondo. Sempre come un senso non staticamente presente, ma che progredendo per
mezzo degli uomini si può sviluppare - la via è imboccata, porti a compimento il viaggio.
Certamente se manca la coscienza universale e la coscienza dell’universalità di un tale senso,
utopisticamente ma concretamente fondato (per lo meno non ancora reso vano da una totale
inutilità), anche i singoli e particolari contenuti del progresso storico son privi di un’intima finalità,
di una sostenibile serietà filosofica, cioè universalmente scientifica. Se il mondo avesse per base
soltanto il meccanismo e la sua «entropia», la storia sarebbe come quando i pesci in un barile si
mordono o rappresentano un dramma d’amore e in quello entra dalla porta la cuoca con l’assurdo
coltello, che a tutto pone fine. Il senso della storia umana, che si trova ancora agli inizi, è
l’edificazione del regno della libertà; tuttavia senza un senso positivamente-possibile e
possibilmente-positivo della cosmologia circostante,nella quale alla fine sfocia ogni storico
accadere, il progresso di questo accadere, almeno a un esame rigoroso e complessivo, è come non
vero, come in realtà non avvenuto. S’intenda bene: anche un unico giorno può trascorrere denso di
significato, una vita ben diretta e assai produttiva ha senz’altro il suo senso, specialmente nella
valutazione retrospettiva. Tuttavia questo senso del buon senso, come lo si può chiamare, è nel suo
insieme di qualità mesocosmica (per adoperare ancora un istruttivo concetto della fisica): le
imprecisioni sono qui tanto insignificanti che possono essere lasciate da parte. Ma diversamente
agiscono le imprecisioni in un rapporto macrocosmico, in questo caso appunto nella totalità: esse
hanno bisogno di un aggiustamento, affinché anche l’uso secondo il bon sens del concetto di senso
possa reggere a qualsiasi obiezione. Ulteriori implicazioni perciò sorgono nel concetto di
progresso, in virtù del senso che esso contiene. L’umano come indicazione dominante, riassuntiva
di ogni senso, è certo un campo vasto, non limitabile semplicemente a un settore antropologico.
Proprio nella categoria progresso ne consegue: non c’è nuova antropologia marxista senza nuova
cosmologia marxista. Entrambe, profonda fiducia nell’uomo e profonda fiducia nel mondo, vanno
già da molto tempo nella storia della rivoluzione di pari passo verso il loro scopo, indisturbate da
meccanismi ed estraneità. Ma l’ottimismo militante, come aspetto soggettivo del vero progresso,
implica anche la ricerca di un verso dove e di un a che scopo sull’intero lato oggettivo dell’essere
progrediente, senza il quale non esisterebbe coscienza progressiva. E l’umano è così vasto nella
possibilità reale del suo contenuto finale che permette di ordinare tutti i movimenti e tutte le forme
delle civiltà umane in tempi concomitanti e vari, e con tale forza che non può andare distrutto di
fronte a un mero tempo circolare meccanicisticamente inteso.
Ma più vicino a noi un ampio Omega, questa volta non come punto d’arrivo che s’orienta solo
sull’Occidente, deve superare la prova della storia extra-europea, dunque la prova decisiva del
risveglio attuale, non meramente storico dell’Africa e dell’Asia. Per questi continenti il passato
bianco è a malapena il loro passato, e spesso, per i popoli rimasti senza futuro, la storia è ciò che
inizia domani. Quanto più fallisce la tradizionale accentuazione meramente occidentale - per non
parlare poi del discredito che le è proprio in quanto imperialista - tanto più può essere d’aiuto una
visione utopisticamente aperta, essa stessa ancora sperimentale. Solo in tal modo centinaia di
culture possono confluire nell’unità del genere umano che così viene a formarsi, secondo un tempo
storico non lineare, secondo un orientamento della storia non uggiosamente monocorde. Proprio per
amor dell’unità del genere umano, l’Africa e l’Asia segnano all’unisono un percorso sia poliritmico
che polifonico del progresso verso questa unità, sebbene sotto un sole sorto, sia dal punto di vista
pratico che teoretico, in Europa, e che vorrebbe illuminare una comunità davvero senza schiavitù.
Dopotutto il concetto occidentale di progresso non ha implicato nelle sue rivoluzioni vertici europei
(e neppure africani o asiatici), bensì una terra sola, nel suo insieme migliore.

Tesi

1. Il concetto di progresso è per noi uno dei più cari e importanti.


2. Il concetto di progresso deve ogni volta venir considerato e studiato sulla base del suo
compito sociale - del suo fine; infatti, può anche essere usato abusivamente e corrotto
nell’interpretazione ideologico-colonialistica.
3. Il concetto di progresso può valere per le forze produttive, ma riguardo alla sovrastruttura
può essere relativamente non valido, o per lo meno più debolmente valido, e viceversa.
Qualcosa di simile vale per sovrastrutture (culture) che si susseguono nel tempo,
particolarmente per la categoria del progresso nell’arte.
4. Il concetto di progresso non sopporta «cicli culturali », nei quali il tempo è inchiodato allo
spazio reazionario, ma ha bisogno, in luogo della unilinearità, di un multiversum ampio,
elastico, pienamente dinamico, un continuo e spesso intrecciato contrappunto delle voci
della storia. Per essere giusti verso il gigantesco materiale extra-europeo, non si può più
lavorare secondo una linea retta, senza curve nella serie, senza una nuova e complessa
molteplicità del tempo (problemi di un tempo «riemanniano»).
5. Il contenuto-fine, che il vero progresso evoca e promuove, deve essere riconosciuto per così
ricco e insieme profondo che i vari popoli, società e culture sulla terra -nonostante tutta
l’unitarietà dei loro stadi di sviluppo economico-sociale e le leggi dialettiche degli stessi —
trovino posto in esso e verso di esso. Le vive culture extraeuropee devono essere
rappresentate sul piano filosofico-storico senza violenza europeizzante o anche soltanto
senza livellamento delle loro specifiche testimonianze della ricchezza della natura umana.
6. Questo contenuto-fine non è qualcosa di già definito, ma di non ancora manifesto, un umano
concreto-utopistico. Soltanto così il rapporto al presente, che opera in profondità, in
relazione al quale i diversi corsi storici sono ordinati, diventa rappresentabile come una
profondità tanto ampia che - in una cronologia riccamente strutturata - trovano posto i
processi evolutivi di tutto il mondo. Per l’umano che erompe dall’interno, ultimo,
preminente punto d’arrivo del progresso, tutte quante le culture della terra, insieme al loro
sostrato ereditario sono esperimenti e testimonianze in vario modo importanti. Esse non
convergono perciò in una cultura già presente in qualche luogo, sia pure una cultura
«dominante», di importanza «classica», che per la sua qualità (pur sempre soltanto
sperimentale) sarebbe «canonica». Le passate, presenti e future civiltà convergono soltanto
in un umano in nessun luogo ancora sufficientemente manifesto, ma certo sufficientemente
anticipabile.
7. Non estraneo al precedente è il ben fondato problema concreto di un «senso» della storia in
relazione a un «senso» del mondo. Ma l’umano unificante – eschaton nel punto finale del
progresso - non è qui garantito dal risultato-uomo già manifesto e da quello del mondo
cosmico che lo circonda. Esso si trova sulla linea di prolungamento anche della meta
naturale-umana, posta innanzi, il più lontano possibile: nella più lontana immanenza, non
preclusa all’anticipazione scientifica, di una reale possibilità dell’uomo e della natura.

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