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Il Pensiero Politico Sunnita Nel Medioe
Il Pensiero Politico Sunnita Nel Medioe
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Realizzazione editoriale
Coordinamento redazionale Alessandro Mongatti
Redazione Oldoni Graica Editoriale s.r.l.
Impaginazione Nikéos, Firenze
Progetto graico Cinzia Barchielli, Marco Catarzi
Progetto copertina Alfredo La Posta
Edizioni
10 9 8 7 6 5 4 3 2 1
2021 2020 2019 2018 2017
Le Monnier Università
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Nell’eventualità che passi antologici, citazioni o illustrazioni di competenza altrui siano
riprodotti in questo volume, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non si sono
potuti reperire. L’editore porrà inoltre rimedio, in caso di cortese segnalazione, a eventuali
non voluti errori e/o omissioni nei riferimenti relativi.
Introduzione
1. Al-Mawardi
Impariamo da questo brano che abbiamo a che fare con una branca
della giurisprudenza e che al-Mawardi si propone di convogliare in un
unico spazio letterario un materiale che ci descrive come sparso. Si trat-
50 Storia del pensiero politico islamico
ta delle norme che riguardano l’esercizio del potere (sultan), le forme isti-
tuzionali nelle quali tale potere viene incanalato e le prerogative di que-
ste istituzioni il cui pilastro è costituito dall’imamato, il quale imamato è
definito come: «Il fondamento su cui si radicano le basi del credo (milla),
mediante il quale gli interessi della comunità sono regolati – di modo che
le questioni di ordine generale trovino stabilità – e dal quale hanno origi-
ne specifiche funzioni governative » (Ibidem). Le ordinanze di governo è
quindi anzitutto, per il suo autore, un trattato di giurisprudenza che presta
particolare attenzione alle diverse posizioni assunte dalle scuole giuridi-
che sunnite sui vari temi in discussione (ikhtilaf) (cfr. Hurvitz 2007).
Definizione Per un sunnita dell’XI secolo come al-Mawardi, l’imamato è: «Il Ca-
dell’imamato liffato, il quale è stato posto per succedere alla profezia a custodia della
religione e a conduzione delle cose terrene» (Mawardi 1996, p. 13). Vi è
qui dunque una doppia funzione che converge in un’unica figura.
Imam significa guida (za‘im) della comunità. Si tratta di una leader-
ship obbligatoria, nel senso che è un’istituzione necessaria al buon fun-
zionamento della società. Se il fondamento di questa necessità sia razio-
nale o scritturale (hal wajabat bi l- aql aw bi l-shar‘?) è argomento di-
battuto, scrive al-Mawardi. Al contrario di quello che spesso si legge, al-
Mawardi sospende il giudizio, non esprime una preferenza in una dire-
zione piuttosto che un’altra (Ibidem): il suo metodo consiste nell’offrire
diversi punti di vista. Sarà il lettore, in particolare forse il committente
del testo, a scegliere.
Questa obbligatorietà ha un carattere collettivo (farduha ‘alà l-
kifaya) che, nel linguaggio giuridico del tempo, significa questo: qualora
una persona meritevole adempia a tale obbligo, la collettività ne è esen-
tata (Ibidem, p. 14). Una volta chiarita la necessità, quindi l’obbligatorie-
tà, dell’imamato, al-Mawardi comincia a occuparsi di una serie di que-
stioni correlate.
La scelta
Come scegliere l’imam Prima tra tutte: chi può diventare imam e come? Chi è coinvolto in
una scelta così decisiva per la vita della comunità? L’imam viene scelto o
direttamente dal suo predecessore (‘ahd) o da un gruppo di persone de-
nominate «gente della scelta», o «elettori» (ahl al-ikhtiyar) detti anche
«coloro che annodano e snodano» perché hanno la facoltà di contrarre e
sciogliere il contratto di imamato (ahl al-‘ahd wa l-hall). La loro identità
non è specificata. Si dice che dovranno rispondere a determinati requi-
siti: essere moralmente integri, gente di conoscenza e di giudizio di mo-
do da operare la scelta migliore. Dal canto suo il passibile imam dovrà
rispondere a sette requisiti. Anch’egli dovrà essere persona moralmente
integra, sana nei sensi e nel corpo, dotata di coraggio, di sapere e di giu-
dizio, e infine appartenere alla tribù dei Quraysh, quella del Profeta (Ibi-
dem, pp. 14-16). Questo dettaglio, in apparenza poco significativo, è in
realtà cruciale perché implica il diniego ai Buyidi, dinastia sciita di origi-
ne caspica, di accedere al califfato, ma, soprattutto, sottolinea l’elemento
di rappresentanza anche religiosa che il califfato è chiamato a ricoprire.
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secondo il quale chi morirà senza conoscere l’imam del proprio tempo
morirà come se si trovasse nel tempo dell’ignoranza pre-islamica (cfr.
Laoust 1968, p. 38).
In ogni caso la comunità ha l’obbligo fondamentale di affidare al ca-
liffo la conduzione generale dei propri affari. Della possibilità di ribel-
larsi a un imam ingiusto al-Mawardi non fa cenno.
Il nome khalifa significa rappresentante, o successore, del Profeta, e
non rappresentante di Dio, come alcuni hanno sostenuto. A uno spirito
pragmatico (che assurdità richiedere a tutti i sudditi della dar al-Islam
di conoscere personalmente il califfo!), al-Mawardi unisce un accenno
a un’annosa questione che evidentemente egli considera conclusa: il ca-
liffo non rappresenta Dio sulla terra, ma rappresenta una persona che
non c’è più o che è assente, in questo caso il Profeta Muhammad (Ibi-
dem, pp. 28-29).
I doveri dell’imam
Il richiamo ai doveri di natura religiosa del califfo è dunque ben pre- I doveri religiosi
sente. Il califfo è insieme maestro e giudice. È maestro perché elucida del califfo
l’errore e ne fornisce la prova (ed è maestro – in qualche modo – proprio
come l’imam degli sciiti è guida e maestro). Dallo storico Ibn al-Jawzi
(m. 1200) sappiamo che il califfo al-Qadir fu il promotore di una politica
religiosa assertiva in direzione anti-sciita e anti-muʻtazilita, politica poi
continuata dal figlio e successore al-Qaʾim. Questa politica si espresse
in iniziative mirate a controllare i contenuti del credo. È famosa la pro-
fessione di fede di al-Qadir (al-i‘tiqad al-qadiri), che fu letta e firmata a
palazzo dagli ‘ulema delle quattro scuole sunnite insieme con i notabili
sotto al-Qaʾim, nell’anno 433 dell’Egira (1041-1042 della nostra era) (Ibn
al-Jawzi 1992, 15, pp. 279-282). Sono ugualmente famose le epistole di ar-
gomento teologico-politico, anch’esse declamate a palazzo e debitamente
firmate dai presenti nel 1029, qualche anno prima, dunque sotto al-Qa-
dir (Ibidem, pp. 197-198). Le epistole e il credo sono forse la tappa fina-
le di un percorso di definizione teologica da parte del califfo cominciato
con la richiesta di ritrattazione che al-Qadir rivolse ai teologi Mu‘tazili-
ti di scuola Hanafita nel 1017, seguita dalla proibizione di insegnare teo-
logia speculativa (kalam), dottrina sciita e qualsiasi «dottrina contraria
all’Islam» (Ibidem, p. 125; Ibn al-Athir 1966, 9, p. 305). Nell’anno suc-
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La destituzione dell’imam
Annullamento Al-Mawardi non ci dice come, ma ci dice quando. Illustra, cioè, le si-
dell’imamato tuazioni in cui il contratto di imamato può essere annullato.
L’argomento è particolarmente delicato, pertanto al-Mawardi proce-
de con cautela. L’imam sarà destituibile quando risulteranno compro-
messe la sua integrità morale (‘adala) o la sua salute, fisica o mentale. La
moralità dell’imam può essere compromessa da un’interpretazione dot-
trinale ambigua, portatrice di un dubbio (shubha) «contrario alla verità»,
o addirittura di miscredenza (kufr), oppure da comportamenti immorali
identificabili in atti riprovevoli o proibiti, in particolare di concupiscenza
(shahwa). Al-Mawardi taglia corto e rimane generico, non dedica all’ar-
gomento più di una pagina (p. 31). Più semplice è occuparsi di quelle di-
sabilità fisiche che annullano la validità del contratto di imamato. L’in-
tegrità fisica dell’imam è compromessa quando risultano compromessi
i suoi sensi, la sua salute mentale, l’integrità fisica e capacità di agire li-
beramente. Si deve però trattare di una perdita che comprometta in mo-
do irreparabile la sua capacità di giudizio, di azione e movimento (p. 33).
Laddove l’imam rimanga capace di esercitare le sue funzioni, seppur in-
valido, resterà in carica. Garantire stabilità all’istituzione del califfato è
ancora una volta priorità. Al-Mawardi non ha dunque un approccio dog-
matico, ma pragmatico. Il fine è mostrare quando sia lecito o meno ri-
muovere il califfo limitando al massimo questa possibilità.
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 55
L’ultimo caso è il più noto. Che fare quando l’imam non disponga più Il caso in cui l’imam
della propria libertà di azione (pp. 35-36)? Ciò può verificarsi quando non ha più libertà
un collaboratore ha preso il sopravvento su di lui ponendolo sottotute- d’azione
la (al-hajr), la qual cosa è permissibile purché la persona in questione
mostri di amministrare secondo norma e giustizia. Oppure quando l’i-
mam viene preso prigioniero e trattenuto da forze nemiche, siano essi
non musulmani oppure musulmani ribelli. In questo caso la perdita di
libertà è causata da un atto coercitivo, violento (al-qahr). Anche qui si
prospettano diverse possibilità. Quando il califfo sia preso prigioniero
da ribelli musulmani, la comunità dovrà fare di tutto per liberarlo e il
califfo resterà in carica fino a quando ci sarà speranza di poterlo riave-
re. Se non c’è speranza di liberazione, il califfo ostaggio dei ribelli po-
trà divenire il loro stesso imam: «Poiché il loro precedente giuramento
di fedeltà alla sua figura rimane vincolante, e la loro obbedienza a lui è
obbligatoria» (p. 36). «Gli elettori» nomineranno allora un suo deputa-
to. Se invece i ribelli hanno già un loro imam, allora il califfo perderà la
sua funzione di guida; lo stesso avviene se i ribelli non siano musulma-
ni (pp. 35-36). In entrambi i casi «gli elettori» hanno allora il diritto di
nominare un nuovo imam.
L’argomento è ancora una volta delicato per chi, come al-Mawardi, vi-
ve nel pieno dell’esercizio dell’emirato buyide per poi assistere, nei suoi
ultimi anni di vita, all’arrivo dei Selgiuchidi (1055, Baghdad). Le pressioni
che forze «esterne», prevalentemente non arabe ma musulmane, eserci-
tano sul califfato di Baghdad, a cavallo tra X e XI secolo, risuonano nel-
la casistica proposta. Il califfo prigioniero e quello posto sotto tutela rie-
cheggiano senza dubbio la bruciante attualità di al-Mawardi.
A questo punto al-Mawardi, avendo discusso le condizioni, i modi di
eleggibilità e di nomina, i doveri dell’imam e i possibili casi di destitu-
zione, è pronto per ribadire il punto teorico di partenza, vale a dire che
ogni delega e funzionario posto a esercitare tale delega ha origine nella
funzione e nella figura dell’imam. All’imam, califfo, non si può rinun-
ciare, quindi. Il suo compito è decisivo perché imprescindibile punto di
partenza per tutte le altre funzioni di governo.
Il resto del libro si apre a nuove descrizioni, prescrizioni, e casistiche,
sui mestieri di coloro che ricevono in delega dall’imam porzioni di pote-
re governativo.
Concludendo, il problema non è tanto cosa dice al-Mawardi, ma co- L’interpretazione
me interpretarlo. Le sue sono proposte ideali che non descrivono la real- delle posizioni
tà, ma illustrano come dovrebbe funzionare? O si tratta piuttosto di una di al-Mawardi
legittimazione dello status quo? Così sembrerebbe quando al-Mawardi
ci parla del califfo sotto tutela, o più avanti, in pagine che non abbiamo
esaminato, quando descrive le tipologie degli emirati (Ibidem, pp. 51-58;
cfr. Laoust 1968, pp. 31-39). Se invece la proposta di al-Mawardi viene
rapportata a quella che sarà la successiva storia del califfato, destinato a
crollare con la presa di Baghdad da parte dei Mongoli nel 1258, essa può
sembrare del tutto campata per aria.
Una via di uscita da questa apparente contraddizione esiste se met-
tiamo gli Ahkam al-sultaniyya in conversazione con lo specifico conte-
sto dei califfati di al-Qadir e al-Qaʾim. Allora, Le ordinanze di governo
56 Storia del pensiero politico islamico
2. Ibn Taymiyya
Ibn Taymiyya (1263-1328) scrive tre secoli dopo al-Mawardi. Non tro-
viamo nei suoi scritti lo stesso attaccamento all’istituzione califfale, e
questo è il primo dato da segnalare. Vi troviamo però un medesimo spi-
rito pragmatico unito a una tensione ideale. Anche Ibn Taymiyya cerca
di offrire risposte ai problemi della sua epoca; anche Ibn Taymiyya vive
in un momento di grandi cambiamenti politici; e anche Ibn Taymiyya nel-
lo scrivere di questioni governative partecipa a un discorso di élite e nel
farlo afferma un diritto di partecipazione degli ‘ulema alla res publica.
È un’epoca diversa da quella dei Buyidi e dei Selgiuchidi, quella di
Ibn Taymiyya. Siamo nei decenni iniziali del sultanato mamelucco (1250-
1517, Siria e Egitto). I Mongoli hanno saccheggiato Baghdad nel 1258. Il
califfo abbaside è fuggito al Cairo dove è stato preso sotto l’ala protettrice
del sultano, Baybars al-Zahir (m. 1261). Negli anni a seguire il califfo
preserverà un’autorità simbolica carismatica, soprattutto con funzione
legittimante per i sultani mamelucchi, schiavi affrancati di origine tur-
co-mongola. Sarà presente soprattutto nei loro cerimoniali di corte (cfr.
Banister 2014-2015).
Ibn Taymiyya fu teologo e giurista. La sua produzione è caratterizza-
ta da una forte tensione etica controbilanciata da uno spiccato pragma-
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 57
La responsabilità In un altro passo, proprio alla fine di questo testo, Ibn Taymiyya citerà
del singolo verso ancora una tradizione profetica secondo la quale ciascuno di noi, anche
la comunità il più umile, è sempre anche pastore (ra‘i, termine che si usa anche per
indicare il sovrano), quindi responsabile del proprio gregge (ra‘iyya, ter-
mine che si usa anche per indicare i sudditi). Così, per esempio, lo schia-
vo è responsabile dei beni del proprio padrone (Ibidem, 35, p. 15). La so-
cietà si rivela così un tessuto di rapporti in cui ciascuno, nel proprio mi-
crocosmo, è responsabilizzato rispetto al proprio ruolo di potere. Nello
stesso spirito, nello scritto che segue, Ibn Taymiyya scriverà che sudditi
e governanti sono entrambi corresponsabili quando le istituzioni di go-
verno degenerano (Ibidem, 35, p. 20). È proprio per questo che nel titolo
e in alcuni suoi passi la Siyasa si rivolgerà a entrambe le parti.
La degenerazione È della degenerazione del califfato in regno (mulk), una forma di
del califfato governo che non rappresenta più a pieno l’eredità del Profeta nella co-
munità, che Ibn Taymiyya si occupa nel suo secondo scritto, piuttosto
complesso.
Il vero e proprio califfato è successione alla profezia (khilafat al-nu-
buwwa); esso è durato trent’anni e ha avuto base a Medina. Ibn Taymiyya
rifiuta senza esitazione l’interpretazione secondo la quale il termine ca-
liffo sia da intendersi come il vicereggente di Dio sulla terra; in questo è
d’accordo con al-Mawardi. Ibn Taymiyya restringe il significato di que-
sto titolo per riportarlo a una dimensione temporale: khalifa è colui che
segue, succede, viene dopo qualcuno che è assente o morto. Di certo non
può essere Dio (Ibidem, 35, pp. 42-46) (cf. Minhaj, 1:137-138; 3:131; Bori,
2007, pp. 28-30; Khan 1973, pp. 71-81). È stato il Profeta stesso a preve-
dere la trasformazione del primo califfato in un regno, termine che porta
con sé dei risvolti degenerativi rispetto alla perfezione degli inizi, qualco-
sa di «secolare» potremmo dire (tark ba‘d al-din al-wajib) (Ibn Taymiyya
n.d., 35, pp. 21-22, 24). «È lecito chiamare califfi coloro che sono venuti
dopo i Ben Guidati, anche se sono dei re, e non dei successori di profe-
ti» scrive Ibn Taymiyya (Ibidem, p. 20). I califfi veri sono dunque i primi
successori del Profeta, i quattro Ben Guidati. Gli altri sovrani saranno
formalmente chiamati califfi, pur non essendolo nella sostanza.
In quali casi Di fronte alla domanda piuttosto tecnica se il regno sia lecito, ma il
il regno è lecito? califfato preferibile, oppure se il regno sia lecito solo in caso di necessi-
tà e il califfato obbligatorio, Ibn Taymiyya propende per la seconda ipo-
tesi, il Profeta ha infatti ordinato ai credenti di attenersi alla sua pratica
e a quella dei Ben Guidati evitando le innovazioni. Questa è la prova te-
stuale che Ibn Taymiyya utilizza a sostegno dell’obbligatorietà del calif-
fato (dalil bayyin fi l-wujub) (Ibidem, p. 22). Questa capacità di stare vi-
cini al modello del Profeta e dei Ben Guidati sembra sancire la differen-
za sostanziale tra una reggenza che è vera e propria successione al Pro-
feta e il più semplice regno. Tuttavia, mentre è chiaro che il regno è una
forma di governo moralmente impoverita rispetto al primissimo califfa-
to, non è altrettanto chiaro quali siano i criteri formali che segnano una
distinzione nitida tra le due forme di reggenza.
In ogni caso, Ibn Taymiyya è uno spirito pragmatico, il che significa
scendere a compromesso con le possibilità che la realtà offre. Quindi, il
«califfato puro» è obbligatorio, ma come tutti gli obblighi religiosi, esso
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