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Massimo Campanini (Milano, 1954) è Massimo Campanini (a cura di) Lo studio del pensiero politico è fonda-

Massimo Campanini (a cura di)


laureato in Filosoia (Università di Mi-
lano, 1977) e diplomato in Lingua e
Massimo Campanini mentale per comprendere i caratteri di
una cultura, quella islamica, in cui la
cultura araba (IsMEO di Milano, Storia del pensiero politico islamico (a cura di) religione ha evidenti ricadute nell’am-
1984). Ha insegnato come professore bito pubblico, sociale e istituzionale. Il
a contratto nelle Università di Urbino
e Milano Statale, come ricercatore
nell’Università di Napoli L’Orientale e
Storia libro raccoglie quindici saggi di stu-
diosi affermati e di giovani ricercatori,
italiani e non, che ricostruiscono le
come professore associato nell’Uni- tappe principali della storia del pensie-
versità di Trento. Fin dall’inizio si è
occupato di studi coranici, di pensiero
ilosoico e politico medievale e mo-
del pensiero ro politico islamico dal profeta Muham-
mad ad oggi. Prima opera di questo
genere pubblicata in Italia, il libro si
derno, di storia contemporanea dei
Paesi arabi. Oltre a un centinaio di ar-
ticoli scientiici, ha pubblicato trentot-
politico islamico occupa non solo dei consueti temi del
pensiero politico islamico (il califfato,
la distinzione tra sunniti e sciiti, il con-
to monograie tra le quali: Islam e po- fronto con la modernità), ma anche di
litica (Mulino, 2015, terza edizione), Dal profeta Muhammad ad oggi aspetti di solito poco considerati (i rap-
Storia del Medio Oriente contempora- porti tra mistica e politica, le donne e la

Storia del pensiero politico islamico


neo (Mulino, 2014, quarta edizione), politica, il pensiero politico di aree ap-
The Qur’an: Modern Muslim Interpre- In un mondo agitato da guerre e terrorismo, parentemente periferiche come il mon-
tations (Routledge, 2011), Philosophi- do turco e mongolo). Gli argomenti so-
cal Perspectives on Modern Qur’anic appare come non mai urgente e decisiva no ordinati tematicamente in modo
Exegesis (Equinox, 2016). Ha tradotto la rifondazione di un pensiero e di un sistema diacronico, più che per correnti o sin-
per BUR Rizzoli e Utet opere di Aver- gole personalità.
roè, al-Ghazali, al-Farabi. politico musulmani che si basino su e facciano
riferimento a endogeni paradigmi islamici
armonizzati con gli imperativi della giustizia,
dell’equità, della cittadinanza, del pluralismo.
In copertina: La moschea Lotfallah di Isfahan
© tunart.
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Storia del pensiero politico islamico
Massimo Campanini
(a cura di)

Storia del pensiero


politico islamico
Dal profeta Muhammad a oggi
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Coordinamento redazionale Alessandro Mongatti
Redazione Oldoni Graica Editoriale s.r.l.
Impaginazione Nikéos, Firenze
Progetto graico Cinzia Barchielli, Marco Catarzi
Progetto copertina Alfredo La Posta

Prima edizione Le Monnier Università, marzo 2017


www.mondadorieducation.it

Edizioni
10 9 8 7 6 5 4 3 2 1
2021 2020 2019 2018 2017

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non voluti errori e/o omissioni nei riferimenti relativi.

Lineagraica s.r.l. – Città di Castello (PG)


Stampato in Italia – Printed in Italy – marzo 2017
Indice

Introduzione, di Massimo Campanini 1


Riferimenti bibliograici 4

Capitolo 1. Il pensiero politico dell’Islam nascente,


dal profeta Muhammad alle scuole giuridiche, di Roberto Tottoli 5
Introduzione 5
1. Origine e storia dell’Islam e questione politica 6
2. Il sunnismo e la tradizione nella comunità islamica 9
3. Il Corano 10
4. Tematiche politiche nella letteratura sunnita 13
5. L’autorità 14
6. Comunità ed esercizio del potere 16
Conclusioni 19
Riferimenti bibliograici 20

Capitolo 2. La promozione del jihad militare come ideologia


di Stato sotto gli Umayyadi, di Asma Afsaruddin 21
1. Il Musannaf di ‘Abd al-Razzaq al-San‘ani 22
2. Il Kitab al-Jihad (Libro del jihad)
di ‘Abd Allah Ibn al-Mubarak (m. 797) 25
Conclusioni 28
Riferimenti bibliograici 30

Capitolo 3. Il pensiero politico dello sciismo nel Medioevo,


di Leonardo Capezzone 31
1. Le origini dello scisma tra sunniti e sciiti 31
2. La nobiltà morale degli sconitti 33
3. Lo sciismo imamita e la nascita di una comunità carismatica 35
4. L’ismailismo e l’anticaliffato dei Fatimidi 38
5. Il nemico di tutti: gli ismailiti di Alamut 40
6. Quale sovrano è preferibile? La risposta imamita
ai mongoli 43
Riferimenti bibliograici 45
VI Storia del pensiero politico islamico

Capitolo 4. Il pensiero politico sunnita nel Medioevo.


La questione del califato: al-Mawardi (m. 1058) e Ibn Taymiyya (m. 1328),
di Caterina Bori 47
Introduzione 47
1. Al-Mawardi 49
2. Ibn Taymiyya 56
Riferimenti bibliograici 66

Capitolo 5. Al-Farabi, di Massimo Campanini 68


1. La vita e le opere ilosoiche di al-Farabi 68
2. L’utopia farabiana 69
3. Analogie e differenze con la ilosoia platonica e col pensiero
di sant’Agostino 72
4. Il rapporto tra religione, ilosoia e politica nel pensiero di al-Farabi 76
Riferimenti bibliograici 79

Capitolo 6. Il pensiero politico in al-Andalus,


di Josep Puig Montada 80
Introduzione 80
1. Ibn Hazm (m. 1064) 81
2. Ibn Bajja o Avempace (m. 1139) 83
3. Ibn Tufayl (m. 1185) 87
4. Averroè (m. 1198) 89
Riferimenti bibliograici 95

Capitolo 7. Ibn Khaldun, di Francesca Forte 97


1. L’opera di Ibn Khaldun: la Muqaddima
e il Kitab al-Ibar 97
2. Struttura dell’opera 99
3. Il terzo capitolo della Muqaddima: la rilessione sul potere 100
4. Determinismo, realismo e visione ciclica della storia 102
5. Governo divino? Il fattore religioso nell’analisi
del potere e la rilessione sul califfato 104
6. La città ideale: confronto con i modelli ilosoici 106
7. Originalità e continuità del pensiero khalduniano 108
Conclusioni 112
Riferimenti bibliograici 113

Capitolo 8. Il pensiero politico nell’Asia musulmana.


Mongoli, Timuridi e Ottomani, di Michele Bernardini 114
1. I Mongoli nel mondo islamico 114
2. L’epoca dei mediatori politici 116
3. Ministri persiani ai tempi della yasa 117
4. Rashid al-Din, un riformatore? 119
5. Il suismo come soggetto politico 122
6. Un’epoca di disgregazione: 1335-1370 123
7. Murad I e Bayazid I: nascita dell’impero ottomano 125
8. Tamerlano e l’arresto dell’ascesa ottomana 127
Indice VII

9. Da Mehmed I a un nuovo consolidamento


dello Stato ottomano 129
10. Mehmed II, la presa di Costantinopoli
e la sconitta degli Aq Qoyunlu 131
Alcune conclusioni 133
Riferimenti bibliograici 135

Capitolo 9. Suismo e politica, dal Medioevo ai nostri giorni,


di Francesco Alfonso Leccese 138
1. Suismo e confraternite: una cornice storica 138
2. Il suismo e la politica del Sé 140
3. Sui e confraternite nel Medioevo islamico 142
4. Le confraternite e il confronto con il potere coloniale 146
5. Il suismo tra confronto politico
e dibattito dottrinale oggi 150
Riferimenti bibliograici 153

Capitolo 10. Le origini del pensiero ilosoico e politico moderno


dell’Islam: il percorso della riforma islamica (islah), di Paolo Nicelli 155
1. Il movimento di al-nahda (il risveglio) 155
2. La riforma islamica (islah) e la modernità 156
3. Quattro modelli di riformismo islamico 161
Riferimenti bibliograici 174

Capitolo 11. Il pensiero politico sciita contemporaneo,


di Pejman Abdolmohammadi 175
1. Le origini del pensiero politico sciita 175
2. I Safavidi e l’istituzionalizzazione della Shi‘a 175
3. Il «Protestantesimo» islamico sciita
(Mehdi Kadivar e Sheikh Mehdi Haeri) 184
Riferimenti bibliograici 188

Capitolo 12. Il pensiero politico di Sayyid Qutb,


di Massimo Campanini 189
1. Sayyid Qutb e i Fratelli Musulmani 189
2. Il pensiero politico di Qutb 190
Riferimenti bibliograici 194

Capitolo 13. Il pensiero politico sunnita contemporaneo in conlitto:


Salaismo e islamismo, di Marco Di Donato 195
1. L’islamismo (e i movimenti freristi) prima e durante
le rivolte arabe 197
2. Hizb al-Nur e gli altri: nuove fenomenologie
del Salaismo contemporaneo 200
3. Salaismo e islamismo: sinonimi o contrari? 203
Conclusioni 207
Riferimenti bibliograici 210
VIII Storia del pensiero politico islamico

Capitolo 14. Pensiero politico islamico e prassi nel Sud-est asiatico:


i casi indonesiano e malese, di Azyumardi Azra 211
1. L’egemonia sunnita 212
2. Riforme islamiche 213
3. Le organizzazioni sunnite uficiali 215
4. Islam, Stato e politica nel Sud-est asiatico 218
5. Pensiero politico: classico e moderno 219
6. Le radici islamiche del pluralismo: lo Stato indonesiano 221
Conclusioni 223
Riferimenti bibliograici 225

Capitolo 15. Il privato è politico: relazioni di genere


e diritti delle donne nel pensiero islamico, di Margherita Picchi 227
1. La genesi di una concezione gerarchica del genere
nel pensiero islamico classico 228
2. «Perché essi donano dei loro beni per mantenerle»:
breve storia del concetto di qiwwama 231
3. Il femminismo islamico e la sida dell’uguaglianza
di genere 238
Riferimenti bibliograici 245

Conclusioni. Il pensiero politico islamico del futuro


come problema aperto, di Massimo Campanini 247
Riferimenti bibliograici 251

Gli autori 253


Indice dei nomi 257
Introduzione
Capitolo 4 1. Al-Mawardi
2. Ibn Taymiyya
Il pensiero politico sunnita
nel Medioevo.
La questione del califfato:
al-Mawardi (m. 1058)
e Ibn Taymiyya (m. 1328)
di Caterina Bori

Introduzione

Non esiste un’unica proposta sunnita sul Califfato, ne esistono di-


verse, alcune più durature di altre, nel senso che hanno segnato la storia
delle riflessioni in materia tanto all’interno del pensiero islamico quan-
to nella storia degli studi di questo pensiero. Questo capitolo non descri-
verà i molti autori che si sono occupati del califfato in epoca medievale,
che nella storia delle società musulmane è per convenzione il periodo
che si estende dalla metà del X all’inizio del XVI secolo. Esistono già
molte trattazioni di questo tipo (per esempio Crone 2004, pp. 219-255;
Black 2001, parte II e III; Anjum 2012, specialmente pp. 93-136; Cam-
panini 2015, pp. 103-140). Piuttosto il capitolo discuterà due proposte in
particolare; l’una costituisce una tappa fondamentale nella codificazio-
ne dell’istituzione califfale; l’altra ha riformulato il problema cruciale
del rapporto tra pratica politica e normatività religiosa. Le due propo-
ste portano a esiti del tutto diversi.
Il califfato (khilafa) è quell’istituzione governativa che si vuole rap- L’istituzione
presenti la guida del profeta Muhammad nella sua comunità dopo la del califfato
morte di quest’ultimo. Essa ha gradualmente preso forma nel tempo e
si è stabilizzata a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo. Califfo
(khalifa) significa successore, vicario, sostituto, quindi: successore del
messaggero di Dio alla guida della sua comunità. Così ci diranno gli
esperti musulmani che discuteranno nel corso dei secoli le prerogative
e le funzioni di questa figura. Quanto o meno la titolatura di khalifat al-
48 Storia del pensiero politico islamico

lah (successore, vicario di Dio, oppure: successore voluto da Dio?), che


troviamo in alcune monete e fonti letterarie del periodo precedente al
califfato della dinastia abbaside (750-1258), quello umayyade (661-750),
tradisse le ambizioni teocratiche di alcuni dei primi sovrani è ancora
oggetto di discussione. In ogni caso, l’idea del califfo come successo-
re di Dio sulla terra sembra essere accantonata nel periodo in cui giu-
risti e teologi si mettono al lavoro per codificare, retrospettivamente,
quest’istituzione (per uno status quaestionis, cf. Anjum 2012, pp. 42-48
e Shahin-Kadi 2012, pp. 81-86)
Nell’XI secolo in ambienti sunniti iracheni, anzitutto, prende forma
un nuovo genere letterario che si occupa di descrivere come dovrebbe
funzionare l’apparato governativo, in primis il califfato. Gli studiosi si
trovano generalmente d’accordo nel presentare questo periodo della sto-
ria delle società islamiche come un momento particolarmente delicato.
Da qualche secolo ormai il califfato è detenuto dalla famiglia abbaside
e ha sede a Baghdad. Il califfo ha tipicamente il compito di mantenere
unita e sicura la comunità. Mantenere unita e sicura la comunità signifi-
ca di fatto proteggerla da attacchi esterni, assicurare che regni la giusti-
zia e mantenere compatto e uniforme il credo religioso.
L’affiancamento Dal 945 d.C., il califfo è forzatamente affiancato dai membri di una di-
politico del califfo nastia sciita, forse zaydita o forse imamita, i Buyidi, o Buwayhidi, che pro-
vengono dalla regione caspica del Daylam. I Buyidi, riconoscono l’autorità
e la legittimità del califfato abbaside, ma sono detentori del potere militare
e amministrativo. Califfi sunniti ed emiri Buyidi convivono, si sopporta-
no, ma non sono necessariamente in buone relazioni. I Buyidi depongono
i califfi o li privano di risorse economiche e controllo amministrativo. Ibn
al-Athir (m. 1223), autore di una rinomata storia universale ad impianto
annalistico, descrive i primi anni del dominio Buyide e testimonia il loro
arrivo a Baghdad: «Non rimase al califfo alcun ministro se non un segre-
tario che amministrava i suoi appezzamenti terreni e le sue spese» (Ibn al-
Athir 1966, 8: 452 e 453). Nonostante ciò, i Buyidi dipendono dall’autorità
del califfo per il riconoscimento, quindi la legittimazione, del loro potere.
I Buyidi sciiti saranno sostituiti dopo poco più di un secolo dal loro arrivo
a Baghdad dalla dinastia sunnita dei Turchi Selgiuchidi (1055) i quali af-
fiancheranno il califfato in un simile meccanismo di suddivisione dei po-
teri (cfr. Scarcia Amoretti 2013, pp. 88-92). I Selgiuchidi si presentano co-
me indefessi sostenitori di un posizionamento assertivo del sunnismo nor-
malmente noto tra studiosi come «revival sunnita» (il tema è dibattuto. Cfr.
Makdisi 1963, p. 312; 1973, pp. 155-168; 1975, pp. 228-236, in part. 233-236.
Berkey 2003, pp. 189-202; Lange-Mecit 2011, in particolare gli scritti di Tor,
Gleave e Lange). È sempre nel corso del X secolo che si instaureranno due
califfati alternativi rispetto a quello di Baghdad. Il primo in mano alla di-
nastia dei Fatimidi, sciiti ismailiti, si installerà al Cairo nel 969 d.C. dopo
essere stato riconosciuto nel 909 in Ifriqiya (Tunisia di oggi, estremità oc-
cidentale dell’Algeria e Cirenaica orientale), e il secondo in Andalusia con
la figura di ‘Abd al-Rahman III che prenderà il titolo di califfo a partire dal
929. È in quest’atmosfera che emergono i primi trattati di diritto pubblico.
Il giudice e giurista Abu al-Hasan al-Mawardi (974-1058) svolge un ruolo
decisivo in quella che è un’impresa innovativa.
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 49

1. Al-Mawardi

Abu ’l-Hasan al-Mawardi, nato a Basra, poi trasferitosi a Baghdad, fu Al-Mawardi


un giurisperito e in particolare i suoi biografi ce lo presentano come un e il «diritto pubblico»
esperto di scuola sunnita shafi‘ita. Al-Mawardi non fu però solo uno stu-
dioso di diritto, ma anche un uomo che sperimentò la dimensione pratica
della giurisprudenza; fu infatti un qadi, giudice. Al-Mawardi visse duran-
te i califfati di al-Qadir (r. 991-1031) e al-Qaʾim (r. 1031-1075), fu vicino a
questi due sovrani e per conto loro in contatto con gli emiri Buyidi, che –
appunto – controllavano militarmente l’Iran e l’Iraq (per le fonti cfr. al-
Subki 1964, 5, pp. 267-285; Ibn al-Athir vol. 9, Ibn al-Jawzi, vol. 15; per la
letteratura moderna: Mikhail 1995, pp. 61-63; Laoust 1968, pp. 11-92). In
effetti, le fonti ce lo descrivono come stimato da alcuni emiri Buyidi. In
un contesto di generale indebolimento dei poteri effettivi del califfo, al-
Qadir e al-Qaʾim regnano con decisione e continuità. Per quasi un seco-
lo il califfato è così più vitale, più assertivo, di quello che si è solitamen-
te disposti a concedere, e questa osservazione particolare è fondamenta-
le per comprendere il significato del pensiero politico di al-Mawardi sul
califfato (cfr. Laoust 1968, pp. 13-15 e Hanne 2015, pp. 51-52 e 65-68).
La sua opera più conosciuta e studiata, al-Ahkam al-sultaniyya o Le
ordinanze di governo, è tanto il frutto delle competenze giuridiche di al-
Mawardi quanto della sua frequentazione degli ambienti governativi del
tempo; secondo alcuni si tratta di un’opera matura, scritta nell’ultimo de-
cennio della sua vita (Laoust 1968, pp. 16-17; Melchert 2010, p. 55). Gli
Ahkam non sono l’unico scritto di al-Mawardi che si interessa di proble-
mi amministrativi e governativi. Ve ne sono altri che appartengono piut-
tosto al genere del «consiglio ai principi», o letteratura di consiglio.
Si legge spesso che in al-Ahkam al-sultaniyya Abu ’l-Hasan al-Mawar-
di avrebbe inventato un nuovo genere giuridico (per esempio Crone 2004,
p. 223) che noi chiameremmo «diritto pubblico». Si tratta di una descri-
zione di come dovrebbe funzionare l’apparato di governo a partire dalla
primissima e più vitale delle sue istituzioni, ovvero l’imamato, o Califfa-
to (i due termini sono sinonimi in quest’opera) a cui al-Mawardi dedica
il primo capitolo dei suoi Ahkam e che qui ci interessa particolarmente.
«Politico» in questo contesto è ciò che a che fare con l’arte di governare.
Il testo incomincia così:

Siccome le norme di governo sono maggiormente applicabili tramite colo-


ro che detengono l’autorità, e siccome la loro mescolanza con altre norme
impedisce a costoro di esaminarle – oltre al fatto che essi sono occupati
in questioni pratiche di conduzione e amministrazione (bi’l-siyasa wa’l-
tadbir) – vi ho dedicato un libro a parte in cui mi sono adeguato all’or-
dine di colui al quale devo obbedienza affinché apprenda le dottrine dei
giuristi riguardo ai suoi diritti, sì da chiedere il soddisfacimento, e ai suoi -ne
doveri, sì da adempierli (Mawardi 1996, p. 11).

Impariamo da questo brano che abbiamo a che fare con una branca
della giurisprudenza e che al-Mawardi si propone di convogliare in un
unico spazio letterario un materiale che ci descrive come sparso. Si trat-
50 Storia del pensiero politico islamico

ta delle norme che riguardano l’esercizio del potere (sultan), le forme isti-
tuzionali nelle quali tale potere viene incanalato e le prerogative di que-
ste istituzioni il cui pilastro è costituito dall’imamato, il quale imamato è
definito come: «Il fondamento su cui si radicano le basi del credo (milla),
mediante il quale gli interessi della comunità sono regolati – di modo che
le questioni di ordine generale trovino stabilità – e dal quale hanno origi-
ne specifiche funzioni governative » (Ibidem). Le ordinanze di governo è
quindi anzitutto, per il suo autore, un trattato di giurisprudenza che presta
particolare attenzione alle diverse posizioni assunte dalle scuole giuridi-
che sunnite sui vari temi in discussione (ikhtilaf) (cfr. Hurvitz 2007).
Definizione Per un sunnita dell’XI secolo come al-Mawardi, l’imamato è: «Il Ca-
dell’imamato liffato, il quale è stato posto per succedere alla profezia a custodia della
religione e a conduzione delle cose terrene» (Mawardi 1996, p. 13). Vi è
qui dunque una doppia funzione che converge in un’unica figura.
Imam significa guida (za‘im) della comunità. Si tratta di una leader-
ship obbligatoria, nel senso che è un’istituzione necessaria al buon fun-
zionamento della società. Se il fondamento di questa necessità sia razio-
nale o scritturale (hal wajabat bi l- aql aw bi l-shar‘?) è argomento di-
battuto, scrive al-Mawardi. Al contrario di quello che spesso si legge, al-
Mawardi sospende il giudizio, non esprime una preferenza in una dire-
zione piuttosto che un’altra (Ibidem): il suo metodo consiste nell’offrire
diversi punti di vista. Sarà il lettore, in particolare forse il committente
del testo, a scegliere.
Questa obbligatorietà ha un carattere collettivo (farduha ‘alà l-
kifaya) che, nel linguaggio giuridico del tempo, significa questo: qualora
una persona meritevole adempia a tale obbligo, la collettività ne è esen-
tata (Ibidem, p. 14). Una volta chiarita la necessità, quindi l’obbligatorie-
tà, dell’imamato, al-Mawardi comincia a occuparsi di una serie di que-
stioni correlate.

La scelta

Come scegliere l’imam Prima tra tutte: chi può diventare imam e come? Chi è coinvolto in
una scelta così decisiva per la vita della comunità? L’imam viene scelto o
direttamente dal suo predecessore (‘ahd) o da un gruppo di persone de-
nominate «gente della scelta», o «elettori» (ahl al-ikhtiyar) detti anche
«coloro che annodano e snodano» perché hanno la facoltà di contrarre e
sciogliere il contratto di imamato (ahl al-‘ahd wa l-hall). La loro identità
non è specificata. Si dice che dovranno rispondere a determinati requi-
siti: essere moralmente integri, gente di conoscenza e di giudizio di mo-
do da operare la scelta migliore. Dal canto suo il passibile imam dovrà
rispondere a sette requisiti. Anch’egli dovrà essere persona moralmente
integra, sana nei sensi e nel corpo, dotata di coraggio, di sapere e di giu-
dizio, e infine appartenere alla tribù dei Quraysh, quella del Profeta (Ibi-
dem, pp. 14-16). Questo dettaglio, in apparenza poco significativo, è in
realtà cruciale perché implica il diniego ai Buyidi, dinastia sciita di origi-
ne caspica, di accedere al califfato, ma, soprattutto, sottolinea l’elemento
di rappresentanza anche religiosa che il califfato è chiamato a ricoprire.
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 51

Seguendo un metodo di esposizione tipicamente giuridico, al Mawar- L’esposizione


di procede per casi: qual è il numero minimo richiesto affinché la scel- per casi
ta sia valida (Ibidem, pp. 16-17)? Come comportarsi quando vi siano più
candidati ugualmente competenti? O quando due imam siano prescel-
ti e riconosciuti come tali al tempo stesso in Paesi diversi? Ciò consente
ad al-Mawardi di riportare le scelte di vari gruppi di esperti che, per lo
più, egli non identifica con precisione; altrettanto spesso al-Mawardi non
si sofferma su quale sia la sua, di scelta. Ogni tanto sì, però, e probabil-
mente non casualmente. Per esempio, sulla questione dell’elezione con-
comitante di due imam, al-Mawardi dirà che il diritto all’imamato rica-
de su colui la cui nomina e investitura è avvenuta prima, proprio come
per il matrimonio: qualora una donna venga data in sposa a due uomini,
il marito sarà colui che per primo avrà stipulato il contratto. Inoltre, nel
caso in cui la contesa tra i due imam non si risolva, essa sarà sottoposta
a un’inchiesta (kashf) di fronte alla quale avrà la meglio chi dei due li-
tiganti sarà in grado di fornire la prova decisiva (bayyina) della propria
precedenza temporale.
Al-Mawardi è giudice di mestiere, e non fa altro che considerare le
prove che normalmente due litiganti possono portare davanti al qadi per
risolvere la propria controversia con la differenza abissale però che non
si tratta qui di un contenzioso in cui sono in gioco semplicemente i dirit-
ti del singolo, ma quelli di una comunità intera. Emergono così una serie
di tratti importanti: la formazione giuridica di al-Mawardi, la sua espe-
rienza di qadi, e l’idea specifica che l’imamato sia un contratto tra due
parti contraenti (Ibidem, p. 20).
Al-Mawardi illustra poi il primo modo di scelta, quello in cui è l’imam, Il primo metodo
il califfo in carica che designa il suo successore. Si tratta di una modali- di scelta
tà approvata all’unanimità sulla base di precedenti storici post-profetici,
in particolare l’esperienza dei quattro califfi Ben Guidati che si succe-
dettero alla guida della comunità dopo la morte di Muhammad (632-661
d.C.), il quale non aveva designato alcun successore. Secondo al-Mawar-
di non vi è bisogno del riconoscimento del candidato prescelto anche da
parte degli «elettori» (Ibidem, pp. 20-21).
Tuttavia ci sono altri vincoli che il califfo in carica e il suo successore Altri criteri
devono rispettare nel processo di selezione e assunzione dell’incarico: an- di selezione
zitutto, designazione e incarico sono due momenti differenziati, dei quali
il secondo è sottoposto all’accettazione da parte del candidato. L’imama-
to è infatti un contratto, e in quanto tale la sua validità dipende dal mu-
tuo consenso delle parti. Inoltre, il califfo nominante non può cambia-
re idea ingiustificatamente una volta che abbia scelto il suo successore a
meno che non siano cambiati i requisiti della persona prescelta (Ibidem,
p. 22); lo stesso vale per gli «elettori». Tali requisiti dovranno essere già
presenti al momento della nomina (p. 23). Se il successore, quando viene
nominato, è assente o se non si sa se sia in vita, la sua designazione non
sarà valida; se assente, ma in vita, gli sarà chiesto di presenziare.
Vi è qui un’allusione polemica all’imam nascosto dello sciismo ima-
mita che crede in una guida assente da questo mondo che tornerà alla fi-
ne dei tempi? Può darsi. I Buyidi, lo ricordiamo, probabilmente profes-
sano lo sciismo imamita.
52 Storia del pensiero politico islamico

La successione Proseguendo, se il successore prescelto dal califfo volesse – prima


della morte del califfo in carica – rinunciare al suo futuro incarico,
non lo potrà fare, non avendo egli ancora assunto questo stesso incari-
co. La rinuncia del califfo in carica equivale alla sua morte e giustifica
il passaggio della carica alla persona designata. Il califfo potrà anche
prescegliere due successori; saranno gli «elettori» a individuarne uno
dopo la sua morte. Basandosi sull’esperienza dei Califfi Ben Guidati,
al-Mawardi prevede la possibilità di interazione tra i due modi, quel-
lo «elettivo» e quello «nominativo»: il califfo può nominare un grup-
po di «elettori» che opereranno la scelta dopo la sua morte, così come
può designare un gruppo di persone tra le quali sarà operata la scelta
(Ibidem, pp. 23-24).
Così come il Profeta stabilì chi dovesse mettersi alla guida dell’eser-
cito immaginando una successione fino a tre persone, il califfo può desi-
gnare fino a tre successori che si susseguiranno l’un l’altro in caso di mor-
te. Dopo il terzo, sceglierà la comunità. Al-Mawardi adduce come prova
anche la pratica di Umayyadi e Abbasidi. È un’altra spia, quest’ultima,
del fatto che le sue proposte non sono solo ideali e astratte.
Della tensione tra norma e pratica al-Mawardi è ben consapevole.
Egli racconta della disapprovazione dei suoi colleghi giuristi verso l’ope-
rato del califfo abbaside al-Mansur (m. 775). Il primo califfo della dina-
stia abbaside, al-Saffah (m. 754), aveva nominato due successori, al-Man-
sur stesso, poi il nipote ‘Isa Ibn Musa (m. 783-84). Al-Mansur volle però
che ‘Isa rinunciasse alla sua designazione per poter offrire l’incarico al
figlio, il futuro califfo al-Mahdi (m. 785) (Ibidem, p. 26). La questione è
concreta, quindi importante, così al-Mawardi fa intervenire l’autorità del
giurista al-Shafiʻi (m. 820). La scelta di al-Shafiʻi è del tutto pragmatica:
è il califfo in carica a decidere chi gli succederà; egli non è vincolato a
seguire l’ordine di successione stabilito dal suo predecessore (Ibidem, p.
27). In poche parole, al-Shafiʻi dà ragione ad al-Mansur: in una succes-
sione prestabilita di tre, solo la prima è vincolante (ivi).
Al-Mawardi conclude così questa prima parte, la più dettagliata, del
capitolo dedicato all’imamato. Nell’addentrarsi nei vari casi che si pos-
sono presentare e nelle soluzioni che i giuristi hanno elaborato nel corso
del tempo, al-Mawardi dimostra un intento normativo e partecipativo.
Da un lato le discussioni proposte vogliono regolare il processo di desi-
gnazione o elezione e ridurre il rischio di arbitrio e conflitto. Dall’altro,
nel citare i giuristi, nel concludere menzionando al-Shafiʻi, al-Mawardi
sancisce la propria partecipazione – da giurista stesso – a un discorso di
élite attraverso il quale si mantiene vicino all’istituzione califfale e a chi
in quel momento la rappresenta.

Gli obblighi della comunità

La comunità La comunità ha il dovere di sapere che è stato nominato un nuovo


califfo, ma non ha l’obbligo di conoscerlo né personalmente né nomi-
nalmente a meno che non ne abbia bisogno in determinati casi parti-
colari. Forse al-Mawardi è qui in polemica con un famoso detto sciita
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 53

secondo il quale chi morirà senza conoscere l’imam del proprio tempo
morirà come se si trovasse nel tempo dell’ignoranza pre-islamica (cfr.
Laoust 1968, p. 38).
In ogni caso la comunità ha l’obbligo fondamentale di affidare al ca-
liffo la conduzione generale dei propri affari. Della possibilità di ribel-
larsi a un imam ingiusto al-Mawardi non fa cenno.
Il nome khalifa significa rappresentante, o successore, del Profeta, e
non rappresentante di Dio, come alcuni hanno sostenuto. A uno spirito
pragmatico (che assurdità richiedere a tutti i sudditi della dar al-Islam
di conoscere personalmente il califfo!), al-Mawardi unisce un accenno
a un’annosa questione che evidentemente egli considera conclusa: il ca-
liffo non rappresenta Dio sulla terra, ma rappresenta una persona che
non c’è più o che è assente, in questo caso il Profeta Muhammad (Ibi-
dem, pp. 28-29).

I doveri dell’imam

Quali sono i compiti e i doveri dell’imam? Gli affari generali che la


comunità affida al proprio imam, e che divengono per costui un obbligo
sono vari. Essi consistono anzitutto nel:

Mantenere la religione ferma sui propri solidi fondamenti e su ciò su cui


i pii antenati hanno convenuto. Se comparirà un innovatore, o se un por-
tatore di dubbio si discosterà da essa, l’imam gli chiarirà la prova e gli
chiarirà la posizione giusta. Gli applicherà i diritti e le pene dovute af-
finché la religione sia protetta dagli errori e la comunità trattenuta dagli
sbagli (Ibidem, p. 29).

Il richiamo ai doveri di natura religiosa del califfo è dunque ben pre- I doveri religiosi
sente. Il califfo è insieme maestro e giudice. È maestro perché elucida del califfo
l’errore e ne fornisce la prova (ed è maestro – in qualche modo – proprio
come l’imam degli sciiti è guida e maestro). Dallo storico Ibn al-Jawzi
(m. 1200) sappiamo che il califfo al-Qadir fu il promotore di una politica
religiosa assertiva in direzione anti-sciita e anti-muʻtazilita, politica poi
continuata dal figlio e successore al-Qaʾim. Questa politica si espresse
in iniziative mirate a controllare i contenuti del credo. È famosa la pro-
fessione di fede di al-Qadir (al-i‘tiqad al-qadiri), che fu letta e firmata a
palazzo dagli ‘ulema delle quattro scuole sunnite insieme con i notabili
sotto al-Qaʾim, nell’anno 433 dell’Egira (1041-1042 della nostra era) (Ibn
al-Jawzi 1992, 15, pp. 279-282). Sono ugualmente famose le epistole di ar-
gomento teologico-politico, anch’esse declamate a palazzo e debitamente
firmate dai presenti nel 1029, qualche anno prima, dunque sotto al-Qa-
dir (Ibidem, pp. 197-198). Le epistole e il credo sono forse la tappa fina-
le di un percorso di definizione teologica da parte del califfo cominciato
con la richiesta di ritrattazione che al-Qadir rivolse ai teologi Mu‘tazili-
ti di scuola Hanafita nel 1017, seguita dalla proibizione di insegnare teo-
logia speculativa (kalam), dottrina sciita e qualsiasi «dottrina contraria
all’Islam» (Ibidem, p. 125; Ibn al-Athir 1966, 9, p. 305). Nell’anno suc-
54 Storia del pensiero politico islamico

cessivo, il 1018, il califfo vieterà di professare la natura creata del Cora-


no, pena l’accusa di miscredenza, quindi la morte (Ibn al-Jawzi 1992, 15,
p. 128). Insomma, l’ingerenza califfale in questioni teologiche è pressan-
te in quegli anni, e un riverbero discreto di questi fatti si ha nel ruolo che
gli Ahkam assegnano al califfo (Makdisi 1963, p. 299; Laoust 1968, pp.
63-76; Hanne 2004, pp. 66-68).
Le funzioni Il califfo è poi giudice perché assicura l’applicazione dei diritti e del-
dell’imam le pene, in particolare quelle stabilite dal Corano (al-hudud) che hanno
il fine di salvaguardare i diritti di Dio e dell’uomo. C’è poi una funzio-
ne di difesa e sicurezza: proteggere il territorio dell’Islam e i suoi luoghi
sacri; difendere le frontiere; combattere chi si oppone all’Islam. L’imam
svolge inoltre un ruolo primario nella distribuzione della ricchezza: rac-
colta di entrate provenienti da elemosine o dal bottino di guerra, calcolo
e pagamento degli stipendi per i funzionari (Mawardi 1996, pp. 29-30).
Infine, l’imam ha il compito di delegare la propria autorità a collabora-
tori ben scelti, senza al tempo stesso rinunciare a una supervisione di-
retta degli affari dei suoi sudditi (p. 30). Anche quest’ultima osservazio-
ne probabilmente non è neutra, ma in relazione all’effettiva situazione
del tempo di al-Mawardi quando il califfato è affiancato da un emirato,
quello dei Buyidi, che reclama per sé il potere effettivo, pur senza disco-
noscere la figura del califfo.
Non privo di implicazioni e di allusioni alla contemporaneità di al-
Mawardi è anche il paragrafo che segue, dedicato alla destituzione dell’i-
mam (Ibidem, pp. 31-36).

La destituzione dell’imam

Annullamento Al-Mawardi non ci dice come, ma ci dice quando. Illustra, cioè, le si-
dell’imamato tuazioni in cui il contratto di imamato può essere annullato.
L’argomento è particolarmente delicato, pertanto al-Mawardi proce-
de con cautela. L’imam sarà destituibile quando risulteranno compro-
messe la sua integrità morale (‘adala) o la sua salute, fisica o mentale. La
moralità dell’imam può essere compromessa da un’interpretazione dot-
trinale ambigua, portatrice di un dubbio (shubha) «contrario alla verità»,
o addirittura di miscredenza (kufr), oppure da comportamenti immorali
identificabili in atti riprovevoli o proibiti, in particolare di concupiscenza
(shahwa). Al-Mawardi taglia corto e rimane generico, non dedica all’ar-
gomento più di una pagina (p. 31). Più semplice è occuparsi di quelle di-
sabilità fisiche che annullano la validità del contratto di imamato. L’in-
tegrità fisica dell’imam è compromessa quando risultano compromessi
i suoi sensi, la sua salute mentale, l’integrità fisica e capacità di agire li-
beramente. Si deve però trattare di una perdita che comprometta in mo-
do irreparabile la sua capacità di giudizio, di azione e movimento (p. 33).
Laddove l’imam rimanga capace di esercitare le sue funzioni, seppur in-
valido, resterà in carica. Garantire stabilità all’istituzione del califfato è
ancora una volta priorità. Al-Mawardi non ha dunque un approccio dog-
matico, ma pragmatico. Il fine è mostrare quando sia lecito o meno ri-
muovere il califfo limitando al massimo questa possibilità.
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 55

L’ultimo caso è il più noto. Che fare quando l’imam non disponga più Il caso in cui l’imam
della propria libertà di azione (pp. 35-36)? Ciò può verificarsi quando non ha più libertà
un collaboratore ha preso il sopravvento su di lui ponendolo sottotute- d’azione
la (al-hajr), la qual cosa è permissibile purché la persona in questione
mostri di amministrare secondo norma e giustizia. Oppure quando l’i-
mam viene preso prigioniero e trattenuto da forze nemiche, siano essi
non musulmani oppure musulmani ribelli. In questo caso la perdita di
libertà è causata da un atto coercitivo, violento (al-qahr). Anche qui si
prospettano diverse possibilità. Quando il califfo sia preso prigioniero
da ribelli musulmani, la comunità dovrà fare di tutto per liberarlo e il
califfo resterà in carica fino a quando ci sarà speranza di poterlo riave-
re. Se non c’è speranza di liberazione, il califfo ostaggio dei ribelli po-
trà divenire il loro stesso imam: «Poiché il loro precedente giuramento
di fedeltà alla sua figura rimane vincolante, e la loro obbedienza a lui è
obbligatoria» (p. 36). «Gli elettori» nomineranno allora un suo deputa-
to. Se invece i ribelli hanno già un loro imam, allora il califfo perderà la
sua funzione di guida; lo stesso avviene se i ribelli non siano musulma-
ni (pp. 35-36). In entrambi i casi «gli elettori» hanno allora il diritto di
nominare un nuovo imam.
L’argomento è ancora una volta delicato per chi, come al-Mawardi, vi-
ve nel pieno dell’esercizio dell’emirato buyide per poi assistere, nei suoi
ultimi anni di vita, all’arrivo dei Selgiuchidi (1055, Baghdad). Le pressioni
che forze «esterne», prevalentemente non arabe ma musulmane, eserci-
tano sul califfato di Baghdad, a cavallo tra X e XI secolo, risuonano nel-
la casistica proposta. Il califfo prigioniero e quello posto sotto tutela rie-
cheggiano senza dubbio la bruciante attualità di al-Mawardi.
A questo punto al-Mawardi, avendo discusso le condizioni, i modi di
eleggibilità e di nomina, i doveri dell’imam e i possibili casi di destitu-
zione, è pronto per ribadire il punto teorico di partenza, vale a dire che
ogni delega e funzionario posto a esercitare tale delega ha origine nella
funzione e nella figura dell’imam. All’imam, califfo, non si può rinun-
ciare, quindi. Il suo compito è decisivo perché imprescindibile punto di
partenza per tutte le altre funzioni di governo.
Il resto del libro si apre a nuove descrizioni, prescrizioni, e casistiche,
sui mestieri di coloro che ricevono in delega dall’imam porzioni di pote-
re governativo.
Concludendo, il problema non è tanto cosa dice al-Mawardi, ma co- L’interpretazione
me interpretarlo. Le sue sono proposte ideali che non descrivono la real- delle posizioni
tà, ma illustrano come dovrebbe funzionare? O si tratta piuttosto di una di al-Mawardi
legittimazione dello status quo? Così sembrerebbe quando al-Mawardi
ci parla del califfo sotto tutela, o più avanti, in pagine che non abbiamo
esaminato, quando descrive le tipologie degli emirati (Ibidem, pp. 51-58;
cfr. Laoust 1968, pp. 31-39). Se invece la proposta di al-Mawardi viene
rapportata a quella che sarà la successiva storia del califfato, destinato a
crollare con la presa di Baghdad da parte dei Mongoli nel 1258, essa può
sembrare del tutto campata per aria.
Una via di uscita da questa apparente contraddizione esiste se met-
tiamo gli Ahkam al-sultaniyya in conversazione con lo specifico conte-
sto dei califfati di al-Qadir e al-Qaʾim. Allora, Le ordinanze di governo
56 Storia del pensiero politico islamico

acquistano più senso. Né solo pragmatismo, né solo teoria, ma in un cer-


to senso, entrambe le cose. Si avverte, nell’esposizione di al-Mawardi, la
ricerca di equilibrio tra un realismo che consiste anzitutto nell’accetta-
re le cose come stanno e la tensione di ideali etici e giuridici a cui con-
formarsi. L’obiettivo è sorreggere dottrinalmente e giuridicamente l’isti-
tuzione califfale.
Al-Mawardi è discreto nella sua esposizione. Nessun evento contempo-
raneo è menzionato apertamente, eppure – come ho cercato di mostrare – la
sua contemporaneità sottende tutta la trattazione sul califfato. Questa con-
temporaneità è intessuta di un’autorità califfale sunnita che perde potere
effettivo, ma si mantiene assertiva di fronte alla forza buyide, sciita, che sfi-
da l’autorità califfale, ma ne ha al tempo stesso bisogno. In quel momento
storico, l’assertività del califfato si esprime in particolare mediante inizia-
tive volte a imporre e controllare un’ortodossia religiosa. Tale operazione
non può non passare attraverso gli ‘ulema che al-Qadir, poi al-Qa’im con-
vocano regolarmente ad ascoltare e firmare le proprie formulazioni in ma-
teria di fede. Gli Ahkam al-sultaniyya vanno visti anche come il prodotto di
questo legame rinvigorito tra questi due califfi e gli ‘ulema (Hanne 2004).
Inoltre, come qualsiasi scritto di argomento governativo, anche quello
di al-Mawardi è un atto di partecipazione alla vita politica del suo tem-
po; una partecipazione dall’alto verso l’alto. Può darsi che quest’atto di
partecipazione fosse stato richiesto dal califfo stesso. Il brano di apertura
recita: «… mi sono adeguato all’ordine di colui al quale devo obbedien-
za» (al-Mawardi 1996, p. 11). Quello che più importa è che gli Ahkam di
al-Mawardi hanno inaugurato un genere giuridico di successo e segna-
to una tappa fondamentale nel processo di codificazione del califfato.

2. Ibn Taymiyya

Ibn Taymiyya (1263-1328) scrive tre secoli dopo al-Mawardi. Non tro-
viamo nei suoi scritti lo stesso attaccamento all’istituzione califfale, e
questo è il primo dato da segnalare. Vi troviamo però un medesimo spi-
rito pragmatico unito a una tensione ideale. Anche Ibn Taymiyya cerca
di offrire risposte ai problemi della sua epoca; anche Ibn Taymiyya vive
in un momento di grandi cambiamenti politici; e anche Ibn Taymiyya nel-
lo scrivere di questioni governative partecipa a un discorso di élite e nel
farlo afferma un diritto di partecipazione degli ‘ulema alla res publica.
È un’epoca diversa da quella dei Buyidi e dei Selgiuchidi, quella di
Ibn Taymiyya. Siamo nei decenni iniziali del sultanato mamelucco (1250-
1517, Siria e Egitto). I Mongoli hanno saccheggiato Baghdad nel 1258. Il
califfo abbaside è fuggito al Cairo dove è stato preso sotto l’ala protettrice
del sultano, Baybars al-Zahir (m. 1261). Negli anni a seguire il califfo
preserverà un’autorità simbolica carismatica, soprattutto con funzione
legittimante per i sultani mamelucchi, schiavi affrancati di origine tur-
co-mongola. Sarà presente soprattutto nei loro cerimoniali di corte (cfr.
Banister 2014-2015).
Ibn Taymiyya fu teologo e giurista. La sua produzione è caratterizza-
ta da una forte tensione etica controbilanciata da uno spiccato pragma-
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 57

tismo. Fu un polemista e un riformatore iconoclasta, un «attivista» in-


transigente, ma realista, un pensatore coerente. Fu siriano, sunnita, di fa-
miglia hanbalita, nato nella cittadina di Harran, nell’Alta Mesopotamia
(odierna Turchia meridionale), ma trasferitosi a Damasco in giovanissi-
ma età con tutta la famiglia per via dell’arrivo dei Mongoli. Ibn Taymiyya
studiò nella capitale siriana, visse tra il Cairo e Damasco in un periodo
disturbato dalle crociate e dalle invasioni mongole, sotto il sultanato ma-
melucco di Siria e d’Egitto.
La sua esistenza fu movimentata, segnata da vicissitudini complesse. La biografia
Il grande numero di biografie che compare subito dopo la sua morte ne
testimonia la celebrità, negativa o positiva che fosse. Ibn Taymiyya rima-
ne famoso per la sua aspra tempra polemica, lo spirito litigioso e intran-
sigente verso tutte le grandi correnti religiose e intellettuali del suo tem-
po. Anzitutto il sufismo speculativo che facendo capo a Ibn ‘Arabi (m.
1240) affermava la dottrina dell’Unità dell’Esistenza (wahdat al-wujud),
la quale mette in pericolo, secondo Ibn Taymiyya, l’assoluta trascenden-
za di Dio. Poi le correnti filosofiche e la teologia speculativa che, secon-
do lui, con il primato dell’elemento razionale nel processo di conoscenza
del divino e del suo rapporto con l’uomo marginalizzavano il ruolo del-
la Scritture e della profezia. Le forme di sapere religioso a carattere eso-
terico, come quello delle minoranze sciite delle vicine montagne libane-
si, Drusi e Nusayri, lo irritano. Pratiche spesso impropriamente chiama-
te «popolari», come l’usanza di visitare le tombe di santi e profeti, sono
uno dei suoi fronti di battaglia più accaniti poiché sfigurano il suo modo
di concepire l’adorazione che l’uomo deve a Dio.
Ibn Taymiyya si contraddistingue anche per l’attiva partecipazione
alla vita pubblica del suo tempo tra cui spicca l’impegno a mobilitare la
popolazione siriana e i governanti mamelucchi contro i Mongoli invaso-
ri e i loro alleati (tra il 1299-1305). È anche questo suo spirito combatti-
vo, oltre al suo attivismo, che passano alla storia e lo hanno fatto diven-
tare oggi modello di militanza islamica.
I numerosi processi a cui fu sottoposto lo portarono, tra le altre cose, a
risiedere al Cairo e ad Alessandria per vari anni (1306-1312/1313) e con-
tribuiscono a costruire un’immagine di sapiente virtuoso, eroico, incom-
preso e perseguitato, come testimonia l’enorme commozione popolare
che accompagnò il suo funerale. Ibn Taymiyya fu vicino ad alcuni degli
emiri mamelucchi della sua città, Damasco, e al sultano mamelucco al-
Malik al-Nasir (m. 1341), ma inviso a molti suoi influenti colleghi per via
delle sue letture teologiche e giuridiche contro-corrente.
Ibn Taymiyya scrive di tutto e su tutto, ma se volessimo trovare un
centro, potremmo dire che il suo punto di interesse principale è quello
teologico ed epistemologico. Egli è costantemente preoccupato di for-
mulare un modo di pensare, conoscere e descrivere Dio che sia in ac-
cordo anzitutto con il modo in cui Dio ha descritto se stesso, nel Co-
rano anzitutto.
Nell’affrontare questi problemi teorici, Ibn Taymiyya si pone in net- La posizione
ta discontinuità con le grandi correnti intellettuali di cui il suo tempo è discordante
erede: in particolare l’asharismo tardivo e filosofico di Fakhr al-Din al- di Ibn Taymiyya
Razi (m. 1209) e la tradizione filosofica arabo-musulmana, che nasce
58 Storia del pensiero politico islamico

dall’incontro tra la filosofia tardo-antica e il pensiero religioso islamico.


È il primato conoscitivo della ragione nella conoscenza del divino che
lo disturba. E ciò non per imporre l’egemonia della rivelazione, ma per
argomentare strenuamente invece che ragione e rivelazione non possono
che concordare poiché provengono da un’unica fonte: Dio (Anjum 2012,
173-273; Michot 2000; Hoover 2007).
Gli studi più recenti ci restituiscono una figura molto più complessa di
quanto non si pensasse fino a qualche anno fa: non fu abbastanza «tradizio-
nalista» per rappresentare il fulcro della teologia più conservatrice del suo
tempo, né sufficientemente «razionalista» per partecipare alle grandi cor-
renti teologiche speculative del suo tempo. Avversato dagli uni e dagli altri,
l’immagine di Ibn Taymiyya come fanatico scritturalista oggi non regge più.
Il principio Il ferreo principio di obbedienza a Dio e al suo Messaggero che Ibn
di obbedienza Taymiyya brandisce anche nei suoi scritti di natura politica, lo porta a
un atteggiamento di diffidenza verso l’accettazione non argomentata del-
le opinioni e della pratica di autorevoli figure del passato (taqlid) tra
cui, ma non solo, i fondatori delle scuole giuridiche sunnite. Così facen-
do, Ibn Taymiyya mette prepotentemente in discussione anche l’autori-
tà delle scuole sunnite; ciò produrrà forte avversione nei suoi confronti
da parte dei colleghi giuristi. Il principio del taqlid è anche complice di
atteggiamenti emulatori nei confronti, per esempio, di carismatici santi
sufi, o imam sciiti. Emulazione che trova espressione in forme di devo-
zione inammissibili per Ibn Taymiyya, poiché è solo Dio che l’uomo può
e deve adorare.
Proposta sul tema Le sue proposte in materia governativa si manifestano nella locuzione
del governo al-siyasa al-shar‘iyya che campeggia nel titolo del suo più famoso trattato
di materia governativa al-Siyasa al-shar‘iyya fi islah al-ra‘i wa l-ra‘iyya
(Il governar secondo la normativa religiosa per il risanamento del pastore
e del [suo] gregge) in cui però Ibn Taymiyya non si occupa del califfato.
Questo ha portato alcuni studiosi, Henri Laoust in particolare, ad affer-
mare che Ibn Taymiyya non ritenesse più valida né obbligatoria questa
celebre istituzione. Queste conclusioni sono recentemente state messe in
discussione (Laoust 1939; Hassan 2010; Anjum 2012, pp. 26-29); malgra-
do ciò il califfato non è per Ibn Taymiyya un’istituzione imprescindibile,
come lo era invece per al-Mawardi.
Opere sull’istituzione Ibn Taymiyya discute l’istituzione del califfato in alcuni scritti brevi,
del califfato occasionali, meno strutturati, che non hanno goduto del successo del ce-
lebre trattato sopra menzionato. Si tratta di scritti contenuti nel trentacin-
quesimo volume della raccolta di molte delle sue opere, in arabo Majmu‘
fatawa. Non sappiamo quando siano stati composti né in quale occasio-
ne, potrebbero essere dei canovacci o delle risposte a domande poste da
studenti o da qualcuno desideroso di chiarimenti in materia; non è chia-
ro se e quanto originariamente questi testi fossero collegati gli uni con
gli altri, né che tipo di circolazione abbiano avuto.
Il primo scritto si intitola Precetto abbreviato sul dovere di obbedien-
za a Dio e al suo Messaggero (Ibn Taymiyya s.d., 35:5-17); il secondo
semplicemente Precetto (Qa‘ida) e si occupa dell’obbligatorietà o meno
del califfato e dello statuto di chi eventualmente tralascia tale obbligo
(35:18-32, 33-35). Seguono alcune pagine dedicate al significato del ter-
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 59

mine khalifa (35:42-46) e sulle modalità di elezione al califfato di Abu


Bakr (35:47-49). Il punto non è trascurabile perché fornisce un modello
normativo per i califfati successivi.
Non è sempre semplice restituire il filo logico dell’autore. Proviamo a Il dovere
percorrerne le tappe principali. Anzitutto, il dovere di obbedienza a co- di obbedienza
loro che ricoprono incarichi pubblici, o governativi, è un obbligo vinco-
lante per ciascun membro della comunità. Il fondamento è scritturale; si
tratta della Sura delle donne, versetto 58:

Dio vi ordina di restituire i depositi fiduciari a quelli che ne hanno diritto


e di giudicare secondo giustizia quando giudicate tra gli uomini, com’è
sublime quel che Dio vi esorta a fare, Dio ode e guarda. Voi che credete,
ubbidite a Dio, al Suo inviato e a quelli di voi che detengono l’autorità, e
se vi accadrà di disputare su qualcosa, riferitelo a Dio e al Suo inviato se
credete in Dio e nell’ultimo giorno, è cosa preferibile e è la migliore in-
terpretazione (Corano 2010, pp. 50-51).

È il cosiddetto versetto degli emiri posto in apertura anche di al-Siya- I doveri


sa al-shar‘iyya (Ibn Taymiyya 1996, pp. 11-12). Secondo questo versetto e dei sudditi
l’interpretazione che Ibn Taymiyya ne offre, i governanti hanno il dove-
re di restituire i depositi fiduciari (amanat) a coloro che ne hanno dirit-
to e di governare (o giudicare) secondo giustizia. Ai sudditi spetta inve-
ce riferire ogni disputa a Dio (ossia al Corano) e al suo Messaggero (alla
sua Sunna o pratica esemplare) e obbedire a chi detiene l’autorità anche
qualora si tratti di governanti ingiusti; nessuno è autorizzato a disobbe-
dire, imbrogliare e ribellarsi alle autorità a meno che queste non com-
piano essi stessi o non comandino atti di disobbedienza a Dio (ma‘siya)
(Ibn Taymiyya s.d., 35, 8-9, pp. 14-15). In che cosa consista esattamen-
te un atto di disobbedienza a Dio, non ci viene detto. Alcune esortazio-
ni pronunciate dal Profeta invitano a sopportare con pazienza soprusi, a
rimanere fedeli all’imam ingiusto finché questi conduca i suoi sudditi in
preghiera, a non reagire mai con la spada, a rimproverare un eventuale
atto di disobbedienza dell’imam senza però ribellarsi con le armi, a ob-
bedire – infine – purché gli ordini dell’imam siano ragionevoli (ma‘ruf)
(Ibidem, 35, 8-9, pp. 12-14). Tra le parole del Profeta usate come prove
scritturali a sostegno di questa posizione quietista, tipicamente sunnita,
compare anche il detto in cui si esorta all’obbedienza anche qualora l’uo-
mo d’autorità sia «uno schiavo etiope la cui testa assomiglia a un chicco
di uva passa» (Ibidem, 35, pp. 13-14). Chissà che non sia casuale questa
allusione a uno schiavo d’autorità, visto il contesto mamelucco, di schia-
vi divenuti sultani, che contraddistingue il periodo storico in cui scrive
Ibn Taymiyya.
Rispetto ad al-Mawardi, è nuova l’insistenza sui doveri dei sudditi a
cui di fatto è dedicato questo scritto. A un dovere passivo, di obbedienza
e talora sopportazione, se ne aggiungono altri due che ritraggono un sog-
getto attivo a cui si chiede di riferire le proprie dispute alle grandi fonti
scritturali dell’Islam (di fatto a chi le conosce) e di partecipare alla ge-
stione della cosa pubblica consigliando i governanti. Su questo specifico
punto intervengono una serie di famosi testi profetici (Ibidem, 35, p. 7).
60 Storia del pensiero politico islamico

La responsabilità In un altro passo, proprio alla fine di questo testo, Ibn Taymiyya citerà
del singolo verso ancora una tradizione profetica secondo la quale ciascuno di noi, anche
la comunità il più umile, è sempre anche pastore (ra‘i, termine che si usa anche per
indicare il sovrano), quindi responsabile del proprio gregge (ra‘iyya, ter-
mine che si usa anche per indicare i sudditi). Così, per esempio, lo schia-
vo è responsabile dei beni del proprio padrone (Ibidem, 35, p. 15). La so-
cietà si rivela così un tessuto di rapporti in cui ciascuno, nel proprio mi-
crocosmo, è responsabilizzato rispetto al proprio ruolo di potere. Nello
stesso spirito, nello scritto che segue, Ibn Taymiyya scriverà che sudditi
e governanti sono entrambi corresponsabili quando le istituzioni di go-
verno degenerano (Ibidem, 35, p. 20). È proprio per questo che nel titolo
e in alcuni suoi passi la Siyasa si rivolgerà a entrambe le parti.
La degenerazione È della degenerazione del califfato in regno (mulk), una forma di
del califfato governo che non rappresenta più a pieno l’eredità del Profeta nella co-
munità, che Ibn Taymiyya si occupa nel suo secondo scritto, piuttosto
complesso.
Il vero e proprio califfato è successione alla profezia (khilafat al-nu-
buwwa); esso è durato trent’anni e ha avuto base a Medina. Ibn Taymiyya
rifiuta senza esitazione l’interpretazione secondo la quale il termine ca-
liffo sia da intendersi come il vicereggente di Dio sulla terra; in questo è
d’accordo con al-Mawardi. Ibn Taymiyya restringe il significato di que-
sto titolo per riportarlo a una dimensione temporale: khalifa è colui che
segue, succede, viene dopo qualcuno che è assente o morto. Di certo non
può essere Dio (Ibidem, 35, pp. 42-46) (cf. Minhaj, 1:137-138; 3:131; Bori,
2007, pp. 28-30; Khan 1973, pp. 71-81). È stato il Profeta stesso a preve-
dere la trasformazione del primo califfato in un regno, termine che porta
con sé dei risvolti degenerativi rispetto alla perfezione degli inizi, qualco-
sa di «secolare» potremmo dire (tark ba‘d al-din al-wajib) (Ibn Taymiyya
n.d., 35, pp. 21-22, 24). «È lecito chiamare califfi coloro che sono venuti
dopo i Ben Guidati, anche se sono dei re, e non dei successori di profe-
ti» scrive Ibn Taymiyya (Ibidem, p. 20). I califfi veri sono dunque i primi
successori del Profeta, i quattro Ben Guidati. Gli altri sovrani saranno
formalmente chiamati califfi, pur non essendolo nella sostanza.
In quali casi Di fronte alla domanda piuttosto tecnica se il regno sia lecito, ma il
il regno è lecito? califfato preferibile, oppure se il regno sia lecito solo in caso di necessi-
tà e il califfato obbligatorio, Ibn Taymiyya propende per la seconda ipo-
tesi, il Profeta ha infatti ordinato ai credenti di attenersi alla sua pratica
e a quella dei Ben Guidati evitando le innovazioni. Questa è la prova te-
stuale che Ibn Taymiyya utilizza a sostegno dell’obbligatorietà del calif-
fato (dalil bayyin fi l-wujub) (Ibidem, p. 22). Questa capacità di stare vi-
cini al modello del Profeta e dei Ben Guidati sembra sancire la differen-
za sostanziale tra una reggenza che è vera e propria successione al Pro-
feta e il più semplice regno. Tuttavia, mentre è chiaro che il regno è una
forma di governo moralmente impoverita rispetto al primissimo califfa-
to, non è altrettanto chiaro quali siano i criteri formali che segnano una
distinzione nitida tra le due forme di reggenza.
In ogni caso, Ibn Taymiyya è uno spirito pragmatico, il che significa
scendere a compromesso con le possibilità che la realtà offre. Quindi, il
«califfato puro» è obbligatorio, ma come tutti gli obblighi religiosi, esso
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 61

decade quando circostanze di forza maggiore lo rendano impraticabile


(Ibidem, p. 25). Quello che conta non è tanto l’aspetto formale (quindi
l’istituzione per sé), ma quello sostanziale, ossia che il potere in carica
sia in grado di agire per il meglio della comunità a prescindere dall’i-
stituzione attraverso la quale questo potere viene esercitato (Ibidem,
p. 26). Ne consegue che la posizione di chi ritiene il califfato preferibi-
le e il regno lecito è anch’essa ammissibile (ivi). Analogamente, è leci-
to ammettere forme miste in cui il regno si mescola al califfato senza
per questo invalidarlo (Ibidem, pp. 27-28). Il primo esempio della sto-
ria musulmana di questa mescolanza (shawb) è quello di Mu‘awiya (r.
661-680), il califfo umayyade che invalidò il principio elettivo adottato
dai Ben Guidati, in qualche modo abbassando gli standard della sovra-
nità (Anjum 2012, p. 259). In altre parole, Mu‘awiya intacca la purez-
za del califfato della profezia, senza tuttavia che la sua reggenza sia da
considerarsi illegittima. Questa mescolanza si è verificata anche nella
storia delle Genti del Libro che precedettero Muhammad. Figure co-
me Salomone, Davide e Giuseppe furono infatti profeti re (al-malik al-
nabi) (Ibidem, pp. 33-34).
Questo è il contenuto semplificato e abbreviato dei brevi scritti men- La via
zionati sopra. Esso si ritrova quasi letteralmente, ma inserito in argomen- di Ibn Taymiyya
tazioni più lunghe ed elaborate, in un’opera invece voluminosa in cui Ibn
Taymiyya demolisce punto per punto la dottrina sciita dell’imamato, va-
le a dire la guida spirituale e politica della comunità. Il titolo, La via del-
la sunna del Profeta nella critica al discorso sciita e qadarita (Minhaj al-
sunna wa’l-nabawiyya fi naqd al-shi‘a al-qadariyya), fa il verso a quello
dell’opera di Ibn al-Mutahhar al-Hilli (m. 1325-1326) che Ibn Taymiyya
confuta: La nobile via nella conoscenza dell’imamato (Minhaj al-karama
fi ma‘rifat al-imama). La datazione è incerta, probabilmente da collocar-
si tra il 1313 e 1317, ma ciò che è certo è che essa è una risposta polemi-
ca ben articolata allo scritto di al-Hilli composto per il sovrano mongolo
Öljeitü (m. 1316) che aveva abbracciato l’Islam sciita. Alla nobile via di
al-Hilli, dunque, Ibn Taymiyya contrappone come suo solito quella del
Profeta (Jamil 2010).
Nella «sua» Via, Ibn Taymiyya non può non affrontare anche il pro- Califfato sunnita
blema del califfato sunnita da contrapporre all’imamato sciita. Nel far- contro imamato sciita
lo, oltre agli elementi illustrati sopra, Ibn Taymiyya afferma anche alcu-
ni requisiti del califfato comuni nel discorso sunnita: in primis il califfo
sarà dei Quraysh e dovrà essere scelto non per designazione (nass), che è
principio portante della concezione sciita dell’imamato, ma per consul-
tazione come conferma l’esperienza di Abu Bakr. Inoltre il califfo sarà
riconosciuto per mutuo giuramento di fedeltà (mubaya‘a), e moralmente
integro, che non significa privo di falle (Minhaj, 1, pp. 140-145; 2, pp. 86-
89). Gli esempi portati sono sempre quelli dei quattro Ben Guidati e di
Mu‘awiya, se ne potrebbe così dedurre che siano questi i criteri che di-
stinguono il califfato della profezia dal regno (Anjum 2012, p. 258; Khan
1973, pp. 84-86).
Pur nell’affermazione di questi criteri formali, Ibn Taymiyya mostra
però nuovamente il suo sguardo disincantato. Al di là delle dispute sul
numero necessario di «elettori» (si ricordi al-Mawardi), l’accesso al ca-
62 Storia del pensiero politico islamico

liffato (o al regno) avviene anzitutto, di fatto, tramite il sostegno di chi


è forte e influente (ahl al-shawka); inoltre l’imamato altro non è che la
capacità (qudra) di accedere al potere ed esercitarlo al fine di realizza-
re gli obiettivi delle funzioni pubbliche» (Minhaj, 1, pp. 141-142). In altre
parole: «Chi non ha la capacità di compiere un certo atto non lo compie.
La capacità di condurre un popolo (al-qudra ‘ala siyasat al-nas) la si ot-
tiene tramite obbedienza o coercizione. Colui che arriva a condurre un
popolo per obbedienza dei suoi sudditi o per coercizione, costui è l’au-
torità (sultan) a cui si deve obbedienza, purché comandi di obbedire a
Dio (Ibidem, 1, pp. 142; Michot 2014, p. 127; Anjum 2012, pp. 263-265)».
Il contesto di queste parole è anti-sciita: che senso ha credere in un
imam assente dal mondo? E che senso ha affermare la sua natura me-
ritevole e desiderare la sua guida, se poi di fatto tale guida egli non è in
grado di esercitarla? Lo spirito pratico di Ibn Taymiyya ha decisamente
il sopravvento sulle discussioni dottrinali.
Così come in precedenza abbiamo intravisto Ibn Taymiyya applica-
re al califfato e al regno il principio secondo il quale la necessità (ha-
ja, darura), l’impossibilità (‘ajz), la difficoltà (al-ta‘assur) trasformano
gli obblighi vincolanti in atti dallo statuto indifferente o lecito (Minhaj,
25, pp. 29-32), in questo passo del Minahj al-sunna non contano tanto
i requisiti formali per l’accesso al potere, ma la capacità effettiva di ac-
cedervi ed esercitarlo.
Il trattato Guardiamo ora finalmente al trattato sulla siyasa shar‘iyya, che è il
sulla siyasa shar‘iyya vero corrispettivo degli Ahkam al-sultaniyya di al-Mawardi per statura,
diffusione e tema. Non siamo più di fronte a scritti minori, o a un’opera
massiccia e altamente «specialistica», testimone delle tensioni politico-
teologiche tra sunniti e sciiti all’inizio del XIV secolo come il Minhaj al-
sunna (Jamil 2010), ma a un testo nitidamente organizzato, di argomento
etico, giuridico e governativo. Un trattato per l’élite dominante che pe-
rò include anche i sudditi. Un trattato che mette bene in evidenza qual
è per Ibn Taymiyya il significato e il fine ultimo (maqsud) delle funzio-
ni pubbliche (wilayat).
Qualche premessa. Siyasa, parola che nell’arabo moderno significa «po-
litica», è nel linguaggio medievale un termine complesso che non è sempli-
ce tradurre perché ricopre più significati. Nel suo senso più generico, siyasa
indica una qualsiasi forma di conduzione, tra cui quella politica o governa-
tiva. È un vocabolo che troviamo spesso utilizzato per esprimere l’arte di
governare e le attività a essa connesse, come amministrare, per esempio, o
punire. In ambito giudiziario, soprattutto penale, siyasa indica i poteri di-
screzionali del sovrano. Di qui il senso più ristretto di siyasa come punizio-
ne particolarmente severa, comminata dal sovrano, non necessariamente
prescritta dalle norme della giurisprudenza islamica (fiqh).
La discrezionalità La locuzione siyasa shar‘iyya accosta due sfere d’azione, anzi so-
del sovrano e le norme prattutto due sfere di autorità, la discrezionalità del sovrano e le norme
del diritto islamico del diritto islamico (shari‘a in senso molto lato, altrimenti fiqh). La pri-
ma ha il compito di promuovere il bene comune per perseguire il quale
può eludere le norme del diritto, il secondo protegge invece i diritti dei
singoli (Vogel 2000). La siyasa è tradizionalmente ambito di azione dei
sovrani e dei loro funzionari, la shari‘a degli studiosi, esperti e praticanti
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 63

di giurisprudenza. In realtà, nel progetto di Ibn Taymiyya siyasa e sha-


ri‘a sono due volti della stessa medaglia poiché rispondono entrambe a
un’autorità superiore che è quella della «normatività rivelata» (al-shar‘
al-munazzal) di cui Ibn Taymiyya ha una visione assai inclusiva. Essa
è costituita dalle norme derivate dal Corano e dalla Sunna del Profeta
da intendersi in modo molto ampio. La Sunna del Profeta comprende
pratica e credo, i suoi silenzi, le sue azioni, la sua approvazione di (pro-
to) istituzioni, di attività, mestieri e forme contrattuali (Johansen 2008,
p. 272). Sunna è anche la pratica a tutto tondo dei Califfi Ben Guidati,
che è vincolante come abbiamo appreso, e quella delle due generazioni
di musulmani a seguire.
Il consenso come fonte normativa è quello prodotto da queste fonti e, Il consenso
infine, il ragionamento analogico consiste nel far derivare nuove norme
appoggiandosi agli elementi scritturali o razionali presenti in esse. D’al-
tronde il Corano è portatore non solo di prove scritturali, ma anche ra-
zionali poiché la ragione si accorda alla rivelazione, non la contraddice,
secondo l’assunto portante di Ibn Taymiyya (Johansen 2008, pp. 270-74).
Ora, governanti e professionisti della shari‘a sono vincolati da que-
sta «normatività rivelata», perfetta nel senso di inclusiva e completa, che
essi hanno il compito di implementare. Siyasa e shari‘a hanno dunque
lo stesso obiettivo al quale i loro rispettivi attori devono tendere coope-
rando gli uni con gli altri. Se vogliamo capire perché Ibn Taymiyya non
parla del califfato in questo suo trattato, non si può prescindere da que-
sta visione d’insieme.
Anche la Siyasa al-shar‘ iyya non è semplice da datare. Fu forse scrit- La Siyasa al-shar‘iyya
ta nel secondo decennio del 1300 (cfr. Laoust 1948, pp. XXVIII-XXIX;
1942, pp. 150-151) e fu forse composta per un membro dell’elite mame-
lucca, si tratta infatti di un’opera sorprendentemente ben organizzata ri-
spetto allo stile digressivo dell’autore. Ibn Taymiyya vi si promette di sin-
tetizzare quelli che chiama «i principi della conduzione divina e dell’eser-
cizio dell’autorità secondo il Profeta» (al-siyasa al-ilahiyya wa l-wilaya
al-nabawiyya) (Ibn Taymiyya 1996, p. 9). Si tratta di parole ambigue nel-
la loro genericità, così come l’intera opera appare piuttosto astratta. Non
lo è, in realtà. Una lettura del testo da vicino è in grado di rilevare una
commistione di realismo, tensione morale e proposte riformatrici. La ten-
sione morale è particolarmente vibrante. Ibn Taymiyya propone le sue
soluzioni per una società migliore il cui perno ruota intorno a un eserci-
zio della funzione pubblica forte, capace, onesto, proteso sempre al bene
comune, quindi alla realizzazione della volontà divina:

Obiettivo obbligatorio dell’autorità pubblica (wilayat) è il risanamento


delle condizioni spirituali degli uomini (islah din al-Khalq) […] e il ri-
sanamento delle loro condizioni materiali (islah … min amr dunyahum)
senza il quale la religione non può elevarsi. Il risanamento delle condizio-
ni materiali si esprime in due modi: distribuire ricchezza agli aventi di-
ritto e punire i trasgressori […]. Qualora il pastore si sforzi al massimo di
risanare le condizioni spirituali e materiali del suo gregge – nella misura
in cui gli è possibile – egli è tra gli uomini più eccellenti del suo tempo e
tra i più eccellenti combattenti sulla via di Dio (p. 37).
64 Storia del pensiero politico islamico

E, verso la fine del trattato:

Bisogna sapere che l’esercizio dell’autorità pubblica costituisce uno dei


doveri più importanti della religione (wilayat amr al-nas min a zam waji-
bat al-din); anzi, dirò di più, l’autorità pubblica è indispensabile all’esi-
stenza stessa della religione (la qiyam li’l-din illa bihi) (p. 191).

La necessità Ibn Taymiyya continua proponendo un’argomentazione razionale che


di un capo si associa poi al dato scritturale. Il bene comune (maslaha) dell’uomo si
completa solo vivendo in società, gli uomini hanno infatti bisogno gli uni
degli altri. Per perseguire questo obiettivo, tra gli uomini è necessaria la
presenza di un capo (ra’s) proprio come il Profeta ordinò che anche in
una piccola «società» composta da tre persone in viaggio, uno dovesse
prendere il ruolo di guida. Seguire, obbedire a questa guida è un obbli-
go. Secondo il precetto coranico, Dio ha ordinato di comandare il bene e
proibire il male. Questo è dunque il primo fine delle funzioni governati-
ve, il quale si può ottenere solo con onestà e uso della forza. È chiaro che
così inteso l’esercizio dell’autorità (wilaya) è un’attività devota tramite la
quale ci si avvicina a Dio (pp. 191 ss.).
Di fatto nel suo famoso trattato, Ibn Taymiyya offre consiglio alle
classi dominanti, poiché offrire consiglio è dovere dei sudditi. L’impian-
to del testo è coerente. Esso ruota intorno a Corano 4:59 dal quale emer-
gono – come si è visto – compiti imprescindibili per chi detiene l’autorità
e per chi, in qualche modo, la riceve (op. cit., 11-12). I primi sono tenuti
a restituire i depositi fiduciari (ada al-amanat) e a giudicare (o ammini-
strare) con equità. I secondi a obbedire e consigliare.
La restituzione dei depositi fiduciari si esprime in due modi: attraver-
so l’appropriato esercizio degli incarichi pubblici e l’equa gestione delle
risorse finanziarie. In entrambi i casi l’idea del «deposito fiduciario» ha
a che fare con qualcosa che è stato affidato, che non va tradito, o mono-
polizzato, ma amministrato con cura, nel migliore dei modi.
I quattro nodi tematici A partire da questo punto iniziale, il testo della siyasa si struttura co-
della siyasa erentemente intorno a quattro nodi tematici. Il primo si incentra sulle
qualità richieste a chi eserciti una qualsivoglia funzione pubblica. Esse
andranno esercitate con forza e onestà (quwwa e amana) e affidate so-
lo al migliore, o al più adatto a seconda del compito chiamato a svolgere
(pp. 13-40). Il secondo si occupa delle risorse pubbliche e della loro spe-
sa, o equa distribuzione, da parte di chi le gestisce (pp. 41-78). La neces-
sità di dare o restituire quanto dovuto, che si tratti di un debito insoluto
o di proprietà illegalmente confiscate, riguarda tutti, sudditi e governan-
ti ed è un tema portante di questi capitoli. Con il terzo si entra nell’am-
bito della seconda parte del versetto degli emiri che esorta a «giudicare
con equità» (al-hukm bi l-‘adl). Ibn Taymiyya si concentra allora sul te-
ma della giustizia (pp. 81-186), ossia sull’imprescindibile necessità di ap-
plicare le pene prescritte e restaurare i diritti dei singoli. Il trattato se-
gue una suddivisione classica in diritti di Dio, e diritti e doveri dell’uo-
mo (rispettivamente terzo e quarto nodo tematico). Questi ultimi inclu-
dono l’obbligo di offrire consiglio (a chi governa) e di cercare consiglio
(da parte di chi governa).
Il pensiero politico sunnita nel Medioevo 65

A differenza di al-Mawardi e degli altri suoi stessi scritti, Ibn Taymiyya


si disinteressa qui dell’obbligatorietà del califfato, dei requisiti morali e
fisici dell’imamato, delle modalità di elezione o nomina dell’imam, non
elenca una ad una le varie istituzioni pubbliche, i loro compiti, la loro ne-
cessità poiché:

Qualora l’interesse comune (al-maslaha) non si completi mediante una


sola persona, lo si concentrerà tra più (jumi‘a bayna ‘adad). È necessa-
rio dare [sempre] precedenza alla persona più idonea (al-aslah), oppure
moltiplicare il numero degli incaricati se si verificasse una situazione in
cui un certo incarico non viene svolto in maniera soddisfacente median-
te una sola persona (p. 31).

Altrove, nel suo trattato sulla Hisba, un testo complementare alla


Siyasa shar‘iyya per molti aspetti, Ibn Taymiyya scriverà che la normati-
vità religiosa non ha fissato i limiti e le competenze delle singole funzio-
ni governative che infatti variano a seconda dei luoghi e dei tempi, degli
usi e delle circostanze (Ibn Taymiyya s.d., 28, pp. 67-68). Non è impor-
tante quale istituzione faccia che cosa, né la specifica fisionomia delle
singole istituzioni, ma come esse agiscono e soprattutto con quale fine.
Seguendo questa prospettiva, nella sua opera «politica» più famosa, al-
Siyasa al-shar‘iyya appunto, Ibn Taymiyya rimane silenzioso sul califfa-
to che menziona una volta sola, il primo in un elenco di figure d’autorità
(Ibn Taymiyya 1996, p. 25).
Tuttavia, come abbiamo visto, altrove Ibn Taymiyya parla del califfa- Le aporie nel discorso
to e ne ammette l’obbligatorietà, circostanze storiche permettendo. Co- di Ibn Taymiyya
me spiegare allora quella che appare come un’aporia? Semplicemente
considerando attentamente lo spazio letterario all’interno del quale Ibn
Taymiyya si muove di volta in volta. È infatti quest’ultimo, la sua speci-
fica circostanzialità, l’occasione e gli obiettivi di ciascuno scritto, a det-
tare l’inclusione o esclusione del tema in questione.
Laddove Ibn Taymiyya ingaggia una polemica altamente specialistica
con il suo autorevole collega sciita, al-Hilli, non ha nessun interesse ad
accantonare il califfato, anzi, se ne serve per dimostrare l’astrusità del-
la visione sciita. Laddove Ibn Taymiyya viene specificamente interroga-
to sul califfato, risponde affermandone l’autorevolezza seppur con uno
sguardo tutto concreto sulla storia. Laddove, infine, Ibn Taymiyya intra-
prende una proposta di governo etico, il califfato non vi rientra, così co-
me non vi rientra nessun’altra istituzione politica e amministrativa nello
specifico. Nella Siyasa al-shar‘iyya Ibn Taymiyya non discute né descri-
ve, nello stile di al-Mawardi, le varie mansioni governative. Il suo pro-
getto, la sua visione, di una pratica politica forte e, per quanto possibile,
virtuosa, vincolata dalla normatività rivelata e, al tempo stesso, al ser-
vizio di questa stessa è ben più ampio. Non conta più la forma delle sin-
gole istituzioni, ma come e a quale fine la pratica politica viene esercita-
ta. All’interno di questo progetto, il califfato non è più imprescindibile.
66 Storia del pensiero politico islamico

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