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Romano Ruffini

Uomini e fatti
del
“Risorgimento maceratese”

Associazione Culturale “Le Casette”


Macerata

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Premessa
Passato il travagliato periodo delle due occupazioni francesi,
ritornate sotto l’autorità dello Stato Pontificio, a Macerata come
in tutte le Marche, non si poteva ovviare ad un tratto un periodo
storico che aveva aperto nuovi orizzonti, sostituendo la vecchia
legislazione assolutista, con un codice che riconosceva la libertà
individuale, entro i limiti della legge, e l’uguaglianza di tutti i
cittadini.
Tutto ciò, nonostante la strage compiuta dai francesi nel
1799, durante il “Sacco di Macerata”, e le “insorgenze” anti-
francesi, durante la loro seconda occupazione, con gli orrori e le
violenze che accompagnarono questi eventi.
Le diverse culture che avrebbero animato il Risorgimento
italiano, anche a livello locale, restando “vive” ma sotterranee,
fermentavano la società maceratese. In particolare erano vive le
cellule delle società segrete, della carboneria e della guelfia,
nonché le aspirazioni repubblicane che attingevano la loro linfa
da una lunga tradizione, come pure le tendenze nazionalistiche
che aspiravano all’unità d’Italia e quelle egualitarie che la Rivo-
luzione francese aveva originato. Così si tentavano di superare
le rigide divisioni in classi e la strutturazione piramidale ed
assolutista della società degli antichi regimi.
L’aspirazione dell’unità, comunque partita, arriverà ad una
prima affermazione nel 1861. Ma teniamo presente che l’unità
degli italiani non è solo un fatto storico: è una realtà affidata ad
ogni generazione e a ciascuno di noi. Per questo, trovandoci
oggi a vivere in una società complessa in continua evoluzione,
l’unità stessa, pur ottenuta, necessita di essere continuamente
rigenerata, curata e perfezionata.

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Il preludio locale del Risorgimento
Per convenzione, il Risorgimento italiano inizia dal 1815,
ma le sue radici sono più lontane.
Una delle figure di spicco pre-risorgimentali è quella del-
l’abate Fortunato Benigni di Treia.
Questi, da erudito illuminista, nel
1778, fece rinascere nella sua città
l’Accademia Georgica. Egli scrive-
va: «Parte della nostra Italia è ancora
addormentata e perduta dietro vani e
sterili studi e non conosce bene tutti i
vantaggi che potrebbe avere. Ma chi
sa che presto non giunga il momento
di risvegliarsi?».
A Macerata, nel 1794, fu scoperto
un club giacobino di cui facevano parte, tra gli altri, il conte
Nicola Graziani (il quale aveva scritto: «tutti gli uomini sono
naturalmente liberi ed uguali»), nonché Bernardo e Pacifico
Carradori. Tutti i componenti del club, sapendo di essere stati
scoperti dalla polizia pontificia, per evitare l’arresto fuggirono
fuori dalle Marche.
Telesforo Benigni, fratello di Fortunato, nel 1799, mentre
Ancona era assediata da chi voleva la fine del periodo
giacobino (1798-1799) dell’occupazione francese e la resta-
urazione dello Stato Pontificio, in una denuncia, così scriveva:
«In Treia si spargono nuove molto allarmanti sull'assedio di
Ancona. I capi di questo complotto sono Agostino Giezzi, che
ha per moglie un'Anconitana, Federico Castellani, Fortunato
mio fratello. Ve lo scrivo con dispiacere, ma più del sangue mi
interessa la Patria e il bene universale». Fortunato Benigni,
dopo la restaurazione dello Stato Pontificio, fu arrestato e rin-
chiuso nella fortezza di Civitella del Tronto.
Durante la seconda occupazione francese (fase del Regno
d’Italia 1808-1814), si verificarono le insorgenze, che si posso-
no anche considerare come una sorta di prima guerra civile
italiana. Poi vi fu l’occupazione napoletana (1814) delle Mar-
che, guidata da Gioacchino Murat, che invadeva i territori
lasciati da Napoleone. Nel 1815, il Murat, con il proclama di
Rimini del 30 marzo, in cui esortava i suoi sudditi a combattere
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per l’indipendenza italiana, tentò di coinvolgere le popolazioni
dei vari Stati in una guerra per l’unità d’Italia contro l’esercito
austriaco, che combatteva per la restaurazione degli antichi re-
gimi.
Il podestà, Giuseppe Perozzi, faceva pubblicare il seguente
manifesto:

Maceratesi!
Voi non avete saputo nascondere il palpito del vostro cuore
al primo grido, che emise la Patria per eccitarvi a soccorrerla
nell'alta impresa di riacquistare la sua libertà. Ed invero niun
Italiano può mancare del sentimento di possedere una
Patria …
All'Armi dunque all'Armi …
I Ruoli sono aperti per chi vuol dar prova di Patriottismo ....
Io non mi rimarrò dal far di tutto per dar mano a questa
Impresa, e se l'uno de' miei figli [Emilio] ho già offerto
all'altare della Patria, e se fo iniziarvici l'altro [Pirro], non è
che io risparmierei me stesso, quando la necessità mi chi-
amasse dall'Amministrazione all'Armi.

All’appello di Giuseppe Perozzi risposero in quaranta, che si


unirono come volontari alle truppe del Murat: tra questi il conte
Antonio Gatti, il marchese Benedetto Ugolini, Domenico
Pianesi e Livio Aurispa, mentre il Comune concorse con il
finanziamento di ben 15.000 Lire.
È necessario, però, dire qualcosa sui Perozzi: questa straor-
dinaria famiglia di patrioti, che troveremo in tutto l’arco del
Risorgimento italiano. Furono sempre in primo piano nelle
attività per l’indipendenza italiana: da Luigi Perozzi (che nel
1799 partecipò alla difesa di Ancona), a Francesco Saverio
Perozzi (ufficiale dell’Armata napoleonica), a Lavinia Aurispa
(moglie di Giuseppe, podestà di Macerata), ai figli Emilio
(1786), Pirro (1800) ed Ettore (1803), nonché al figlio di Ettore,
Gustavo Perozzi (1847).

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La battaglia di Tolentino
Il 2 maggio 1815 il Murat attaccò il centro delle truppe
austriache, comandate dal generale Bianchi, nella pianura della
Rancia. Nella battaglia prevalsero le truppe austriache e
rimasero sul campo oltre 2.000 soldati italiani. Le truppe
napoletane si ritirarono disordinatamente dal campo di bat-
taglia e si paventava il saccheggio di Macerata, che fu
evitato per l’energico intervento del podestà Giuseppe
Perozzi, il quale chiese l’intervento dello stesso Murat.
Poi una delegazione, che comprendeva il vescovo Strambi e
lo stesso Perozzi, accolse a Porta Romana il comandante au-
striaco che prendeva possesso di Macerata.
Terminava così la breve esperienza napoletana, mentre nella
città si instaurava un governo provvisorio austriaco.
L’8 luglio 1815 Giuseppe Perozzi venne arrestato sotto
l’accusa di aver venduto agli austriaci cibi avariati: in realtà si
sapeva che il motivo era un altro e cioè l’appoggio che Perozzi
aveva dato sia all’amministrazione napoleonica che a quella
napoletana.
Intervenne, però, il vescovo Strambi presso il comandante
tedesco, ed ottenne la sua immediata liberazione.
Questo periodo aveva prodotto una mutazione importante:
prima delle occupazioni francese e napoletana, la gente si
sentiva borbonica, lombarda, toscana, romana, ecc. Dopo le
insorgenze era iniziata a svilupparsi una coscienza nazionale: ci
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si sentiva italiani. Infatti, su-
bito dopo il Congresso di
Vienna (1814-1815), che re-
staurava gli antichi regimi, il
Segretario di Stato Pontifi-
cio, card. Consalvi in una let-
tera scriveva: «In Italia si è
in grandissimo pericolo per-
ché l’idea del regno unico,
dell’Italia tutta unita ed indi-
pendente, guadagna ogni gi-
orno smisuratamente e si cor-
re il r ischio di a ndar per
aria un’altra volta».
Il cardinale aveva proprio
ragione, perché anche nella
popolazione marchigiana stava fer-mentando qualcosa di
nuovo: si stava consolidando l’idea libe-rale, favorita anche
dalla massoneria, che lo spirito di oppo-sizione al governo
francese aveva suscitato.

Le sètte clandestine
Durante l’occupazione napoletana delle Marche, per con-
taminazione, si diffuse in modo particolare la Sètta dei Car-
bonari, di derivazione massonica (come gran parte delle diver-
se sètte segrete di quel periodo).
Per coinvolgere anche i cattolici, si spacciava per vera una
falsa bolla pontificia di papa Pio VII che approvava la costi-
tuzione delle sètte, la quale veniva letta nelle riunioni dei nuovi
adepti. Obiettivo dei Carbonari era quello di abbattere i troni ed
erigere repubbliche indipendenti e ottenere quanto meno regimi
costituzionali.
Si costituì la prima Vendita madre (aggregazione principale
dei carbonari in un dato territorio a cui facevano riferimento le
Vendite figlie) in Ancona, per poi diffondersi in tutte le Marche.
Mentre dall’Emilia Romagna, da Bologna, sempre per
contaminazione, si diffusero nella nostra regione le Società dei
Guelfi.

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Nel giro di pochi anni, specialmente dopo il Congresso di
Vienna, nello Stato Pontificio, in particolare nelle Mar-
che, vi furono almeno tremila membri appartenenti a queste due
sètte.
A Macerata si istituì una Vendita madre, da cui la carboneria
si diffuse in tutto il Maceratese, dove si istituirono numerose
Vendite figlie. Le prime riunioni avvennero nell’ex Convento di
S. Agostino, ma si utilizzarono anche la Locanda della Pace, la
Locanda Monachesi, la Locanda del Riccio e il Caffè Berretta.
Centri importanti di
diffusione furono: Cingoli,
Corridonia, Montecassia-
no, Montelupone, Monte-
cosaro, Potenza P icena ,
Sarnano e San Ginesio.
A Treia fu istituita una
Ruota [equivalente alla
Vendita madre a cui face-
vano riferimento i raggi] della Società Guelfa.

La messa fuori legge delle società segrete


Già nel 1814 un editto dello Stato Pontificio (come pure un
decreto di Murat) aveva messo fuori legge le società segrete
affermando: «resta proibito … di continuare, riassumere, ripri-
stinare o istituire Adunanze di cosiddetti Liberi Muratori, o
altre consimili sotto qualunque denominazione antica, moderna
o nuovamente immaginata sotto il nome dei così detti Car-
bonari».
A questi editti fece seguito un decreto del Delegato apo-
stolico di Macerata, mons. Tiberi, datato 16 agosto 1816, che
ottimisticamente affermava: «Per sudditi di Chi è più Padre che
Monarca; in un Governo che ha per base l’Equità e la Giustizia,
debbono essere estranei i nomi di Conventicole, Complotti,
Unioni sospette. Ci lusinghiamo che non più esistano i Cal-
di Partigiani di una chimerica Indipendenza». Dato che le atti-
vità erano proibite, se si volevano continuare, dovevano essere
clandestine con il rischio di essere scoperte dalle polizie dei vari
Stati.

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Di questo segreto movimento nelle Marche ne aveva avuto
sentore, nei primi mesi del 1816, il famigerato Principe di
Canosa, che a Napoli teneva in quel tempo la direzione di
polizia. In una lettera del 20 marzo di quell'anno, diretta al
marchese Giuseppe di S. Agapito, Intendente di Chieti, accen-
nando al suo ministero di sorveglianza dello spirito pubblico,
scriveva:
«… voglio avvertirti che, siccome regna nelle Marche uno
spirito di fermento unito alla massima immoralità ed
irreligione (retaggio del Sig. Gioacchino), così verso quella
parte dovrebbe raddoppiarsi la nostra vigilanza. Tu intanto ti
condurrai perfettamente se ti aprissi nelle Marche una o più
comunicazioni, e, credendolo necessario, se colà benanche
spedissi persona acuta e di tua fiducia; questa si potrebbe
colà condurre sotto qualche plausibile pretesto, o meglio
potrebbe servirci qualche Carbonaro pentito di vero cuore».

I primi s os pe ttati e d arre s ti a M ace rata e d Ascoli


Piceno
Nella prima metà del 1816, il Tribunale criminale di Mace-
rata sequestrò ad Alessandrini, impiegato presso l’Ammini-
strazione de’ beni ecclesiastici, «uno scintiglione e un nastro
tricolororato e il catechismo e i regolamenti da tenersi nelle
baracche [luogo dove si incontravano] e nell’introduzione de’
cugini [affiliati alla carboneria] alla setta dei carbonari».
L’Alessandrini fu processato ma, non essendo ritenuto perico-
loso, fu liberato dopo una spontanea professione di fede.
Altra perquisizione fu effettuata nell’abitazione in Monte-
lupone dell’anconetano Alessandro Cellini, contro cui, su istan-
za del 2 luglio 1816 del Commissario criminale di Macerata, fu
iniziato un processo come «prevenuto d’aver disseminato nel
territorio di Montelupone massime irreligiose e di aver dimo-
strato contrarietà al Governo pontificio, non senza fondato
sospetto ch’egli potesse appartenere a qualche segreta adu-
nanza», per cui, era stato arrestato e sottoposto ad interro-
gatorio.

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Il Delegato apostolico di Ascoli, Ugo Pietro Spinola, alla
fine di settembre 1816, esponeva una importante descrizione
della situazione di quella città: «sono adesso giunto ad iscoprire
la tela di una setta bene estesa, che col nome … de’ Carbonai,
andando di giorno in giorno ad arruolare soggetti nuovi,
comincia a prendere un tuono d’importanza e pel numero de’
settari, e per le di loro intenzioni … Questi settari quasi ogni
giorno vanno facendo nuove iscrizioni ed usano le più ener-
giche cautele per non essere discoperti. A quest’oggetto il regi-
stro di tutti gli associati si ritiene dal solo Presidente, il quale
assicura i medesimi che sta celato, che manco la polizia giun-
gerà ad iscoprirlo …. Tutti i giorni si radunano dieci, o dodici di
essi in casa del Presidente Aubert, ma non tengono carte di sorta
alcuna; onde se fossero sorpresi, allegando una innocente con-
versazione, non si avrebbe corpo di delitto da smentirli … Ogni
operazione poi riuscirebbe sempre a me difficile ad eseguirsi,
perché essi hanno molti de’ loro soci in tutti i rami della forza
pubblica, … onde qualunque mia disposizione o giungerebbe
facilmente a di loro notizia prima di avere effetto, o non sarebbe
eseguita con la dovuta esattezza e fedeltà».
Nella notte tra il 28 e il 29 dicembre 1816 fu arrestato il
farmacista Francesco Prospero Aubert – Venerabile della Log-
gia massonica La Sibilla e Gran Maestro della Vendita Madre di
Ascoli – il quale era in corrispondenza «con tal Salvatori di
Fermo, e questo con l’Aurispa di Macerata e questo con il
Passano di Ancona, e questo con Baldassarre Centroni di Bolo-
gna».
Insieme all’Aubert furono arrestati il chirurgo Lattanzi,
Luigi Boatti, già cappuccino, Francesco Pieri, Giulio Cesare
Brescia: considerati i più pericolosi carbonari di Ascoli. I cin-
que arrestati furono portati a Roma il 7 gennaio 1817 e rinchiusi
a Castel Sant’Angelo. Sia per i documenti trovati sia per le in-
formazioni che avevano ricevute dai più collaborativi, il Go-
verno pontificio aveva ormai in mano il filo d’Arianna, per
orientarsi nel tenebroso labirinto delle Marche intricato e set-
tario.
Gli arresti proseguirono; infatti, nella notte tra il 25 e il 26
gennaio 1817, avvenne quello di Francesco Antonio Passano
– considerato il pr incipale punto di riferimento sia per la

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massoneria che per le sètte
segrete nelle Marche – a
cui sequestrarono «statuti,
patenti ed emblemi mas-
sonici e scritti in france-
se», per poi confinarlo a
Roma nel Forte di S. An-
gelo.
Altro arresto avvenne a
Macerata, dove fu rintrac-
ciato Luigi Domenico Va-
lentini, militare disertore
di Reggio Emilia, al quale fu sequestrato «il Catechismo Gu-
elfo» ed estorto informazioni importanti sulla sua adesione alla
carboneria e alla guelfia, come pure sugli aderenti, sui principi e
sugli scopi e segni di riconoscimento.
Il Valentini fece soprattutto i nomi di personaggi importanti
di «Ancona, dove era Maestro presidente Giacomo Papis ed
eran Maestri il cappellaro al castoro Peona e Vittorio Braga, ed
aggregati Nicola Fucili, impiegato del demanio, il tenente Paga-
nelli e il Salvi e dove a suo dire il Passano superava d’un grado
ogni setta; Macerata, ove erano addetti alle società segre-
te: Rossi Filippo, Benedetto Ilari, Capanna, Cassini, Ba-
stianelli, Nicola Venturini, l’anconetano Giuseppe Alessan-
drini, Capitani, uno de’ primi impiegati di polizia; Fermo, ove
era gran Maestro di tutte le tre sette Paolo Monti, e apparte-
nevano alla setta i carabinieri Tenente Mortaccini e il sergente
maggiore Ruani».
A Roma ebbe luogo un altro arresto, nella notte tra il 3 e il 4
maggio 1817: si trattava del cappellano del Cav. Alessandro
Marefoschi, don Luigi Ferri, di Recanati. Questi era stato per
quindici anni all’Aquila, poi si era trasferito a Macerata, dove
aveva ricevuto la prima educazione presbiterale, per poi svol-
gere la funzione di cappellano di Bandini in S. Maria in Selva e
vice custode della Cattedrale. Ma per la sua condotta, il vescovo
Strambi lo sospese a divinis: e così don Ferri emigrò a Roma
dal Marefoschi.
Durante l’interrogatorio confessò di aver aderito cinque mesi
prima alla carboneria, ad opera di un certo Ciannavei di Ascoli,

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Capitano delle truppe di Finanza in Rieti, ed aveva conosciuto
l’anconetano Raffaele Pasquini, già impiegato del Demanio a
Macerata, ed anche il maceratese Francesco Agostini, negozi-
ante, ed altri marchigiani.
Dalle rivelazioni degli arrestati e da altre deposizioni rila-
sciate successivamente in occasione dei processi, veniva a
distinguersi il loro pensiero circa l’insurrezione che pensavano
di attuare. «I carbonari dicevano che poco tempo rimaneva al-
l’effetto delle loro brame, al conseguimento cioè dell’in-
dipendenza italiana, e che attendevano di essere avvisati, dai
capi primari della setta per eseguire una rivoluzione, la quale
sarebbe stata garantita dalla forza di potenza esterna».
Inoltre, emergeva la convinzione che in primavera ci sarebbe
stata una nuova fuga di Napoleone, che sarebbe tornato in Italia,
che una flotta anglo-americana, con una divisione di truppe da
sbarco, era alla fonda a Corfù e che entro la primavera 1817,
sarebbe sbarcata nelle coste adriatiche per invadere lo Stato
Pontificio ed appoggiare la rivoluzione. Tutto ciò rendeva otti-
misti i carbonari più accesi, circa l’esito della rivoluzione.

Le prime riunioni degli affiliati alle Società segrete a


Macerata
A Macerata, che allora contava circa 14.000 mila abitanti, vi
erano trenta chiese e diciassette conventi. Non si hanno notizie
precise su organizzazioni segrete in città, se non a partire dal
1815, anno in cui, si sarebbero tenute le prime “baracche”, cioè
le prime riunioni nel locale dell’ex refettorio del Seminario, in
quel tempo in costruzione, og-
gi Facoltà di Economia del-
l’Università di Macerata. Tale
edificio, già Convento dei
frati Agostiniani, era stato uti-
lizzato durante l’occupazione
napoleonica e successiva-
mente di quella del Murat,
come sede d’ufficio gover-
nativo. Sappiamo, ad ogni
modo che non pochi mace-
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ratesi erano stati coinvolti nelle società segrete. Tali società si
erano diffuse in tutto il Maceratese coinvolgendo una notevole
quantità di persone. Si può dire che non v’era paese in cui non
esisteva una o più di queste società.
A Macerata era presente sia la Vendita Madre dei carbonari
sia il Consiglio guelfo, riferimenti, questi, per tutte le altre ag-
gregazioni presenti nel territorio del Maceratese.
Il Gran Maestro dei carbonari, nonché Presidente della Guelfia
“Lealtà”, iscritto alla Loggia massonica “Real Gioseffina” di
Milano, era il conte Cesare Gallo di Osimo. Questi, prima
della Restaurazione aveva coperto la carica di Podestà di
Osimo, poi venne a risiedere a Macerata perché assunto
all'Ufficio del Registro con il ruolo di prevosto.
Oltre al Gallo, vi erano l’avvocato
Pietro Castellano, che svolgeva il ruolo
di Oratore per i carbonari e di Visibile
per i guelfi. Invece Antonio Cotoloni,
impiegato nell’Ufficio del Registro, rico-
priva l’incarico di Segretario della Ven-
dita. Inoltre vi erano ex militari, come
Luigi Carletti, il sarto Carlo Scarponi,
l’artista da ballo Vincenzo Pieri, il
medico Luigi Fioretti, Cesare Giacomini, che da Ascoli si era
trasferito a Macerata, poi il nobile Gabriele Filippucci, il pos-
sidente Sante Palmieri, Nicola Pennelli, Giuseppe Tamburrini,
Giuliano Gullini e il mugnaio Francesco Molinelli.
Il 27 maggio 1817, Giacomo Papis, Gran Maestro dell'Alta
Vendita di Ancona, presidente della Guelfia “Speranza” e libe-
ro muratore della loggia “Eugenia Adriatica” di Venezia,
scrisse al Conte Gallo una lettera che
concludeva così: «Siate dunque atti-
vo, giacché se mai l'occasione è
stata propizia, lo è certamente in que-
sti tempi, in cui la ben giusta in-
dignazione popolare ci favorisce, e le
notizie che ci prevengono ci assicu-
rano riuscire nell'intento».
Si cominciava, infatti, a concepire
seriamente l'idea di una generale ri-

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volta, la quale dalle Marche si sarebbe dovuta estendere
fino a Bologna e nell’Umbria. A ciò non mancava che il
momento opportuno e questo si riconobbe nell’evenienza della
morte del Pontefice che si sperava vicina, data la tarda età tra
l’altro aggravata da salute cagionevole e subite traversie.
Perché, dunque, si sperava nell’indignazione popolare?

La situazione economica dello Stato Pontificio


Una carestia aveva colpito fortemente, nel 1816 e nel 1817,
il territorio maceratese, come del resto buona parte della peni-
sola. Già il raccolto del 1815 era stato scarso, nel 1816 la situa-
zione peggiorò ulteriormente.
Il governo pontificio era seriamente preoccupato per la grave
crisi economica ed alimentare, che, tra l'altro, avrebbe potuto
cagionare inquietanti rivolte popolari, com'era già avvenuto
negli anni precedenti.
Nel febbraio del 1816 il Delegato apostolico di Macerata,
con una circolare riservata, inviata agli amministratori comu-
nali, raccomandava urgenti provvedimenti occupazionali al fine
di alleviare le gravi difficoltà.
Il 30 novembre dello stesso anno anche il Segretario dello
Stato Pontificio, cardinale Ercole Consalvi, per provvedere in
qualche modo ai bisogni dei più poveri, attanagliati dalla fa-
me, suggeriva di avviare lavori pubblici e di organizzare la
distribuzione di zuppe economiche.
In un diario troviamo annotato che erano stati utilizzati «più
di due milla scudi per soccorrere i poveri, cioè porzione di essi
è stata impiegata in menestre di legume giornaliere per il
mantenimento degli invalidi, ed il resto per impiegare la gente
nel riattamento delle strade esterne. Ma tutta questa somma,
unita anche alle moltissime elemosine dei particolari, poco ha
potuto giovare ai poveri per la loro gran moltitudine contan-
dosene a migliaia, per cui molti di essi sono dovuti morire per la
fame. Oh Dio! Che flagello terribile è stato mai questo! Oltre la
carestia del genere vi si è aggiunto ancora il più turpe e infame
monopolio per parte degli avari speculatori mercatanti insa-
ziabili».

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Nello stesso scritto poi si specificava che: «Generalmente il
cibo consisteva specialmente fra i contadini di nocchia di oliva,
di seme di lino, e di cose anche sordide e di fieno. Fortunati
quelli che si son potuti cibare di semmola di grano, o di gran-
turco... Moltissime persone sono morte quasi all'istante, che per
non aver avuto occasione di mangiare in qualche circostanza del
cibo in qualche abbondanza, perché lo stommaco aveva perduta
per la fame l'attività nella digestione, chi per essersi nutrite di
cibi animaleschi, chi per l'uso delle fave fresche divorate ancora
assieme alle brancie ed alla scorza con la maggiore voracità.
Gran flagello di Dio. Si vedono elemosinare i più bravi conta-
dini, ed artigiani; e persino i capi bottega, giacché nessuno trova
lavori, per mancanza di denaro … Conveniva struggersi in la-
grime nel vedere dei scheletri ambulanti di gran numero, che
chiedevano pietà, come la chieggono nell'atto che io scrivo … i
quali hanno perduta del tutto l'effigie umana, non mirandosi in
essi, che occhi estremamente incavati e di colore di morte come
in tutta la faccia; e in tutta la persona, che la sola pelle ingrin-
zita, nonché nei giovani più robusti di età ed i nervi distesi, e le
vene quasi tutte scoperte».
In questa tragica situazione il vescovo Strambi radunò il
clero nella chiesa Cattedrale, per esortarlo a contribuire nel-
l’opera di soccorso per i po-
veri. Egli stesso consegnò
subito trecento scudi. Le sue
richieste di danaro furono ri-
volte anche ai nobili ed ai
mercanti, i quali consegna-
rono complessivamente la ri-
levante somma di dodici-
mila scudi. Il danaro, così
reperito, servì per acquista-
re in Ancona una certa quan-
tità di fagioli, fava, riso e
carne salata, che un’apposita
commissione – con sede prin-
cipale nel Convento dei Do-
menicani, fuori Porta Mon-
tana (oggi Convitto Nazio-

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nale) – avrebbe distribuito due o tre volte alla settimana.
Non bastava la crisi alimentare con i morti per fame, quan-
do, nel maggio 1817, si diffuse un’epidemia con sintomi spa-
ventosi: febbre putrida-verminosa che poi diveniva “ner-
vosa”, in quanto interessava il sistema nervoso con convul-
sioni, e poi la comparsa di “petecchie”, a cui faceva spesso
seguito la morte (epidemia di tifo petecchiale).
In città si attivò una Deputazione sanitaria comunale, la
quale ordinò a delle guardie di custodire le porte della città, per
non far passare i mendicanti forestieri; anzi questi dovevano
essere arrestati e portati nel Convento di S. Domenico, dove si
allestì lo Spedale degli Accattoni forestieri. Qui venivano visi-
tati: se sani, erano rifocillati ed espulsi, se malati trattenuti e
curati.
Ma l’epide mia avanzava e si levarono proteste perché gli
accattoni forestieri ve-
nivano curati, mentre
quelli de lla città
non venivano soccor-
si. Così si arrivò al
ricovero anche dei
maceratesi poveri,
sia a S. Domenico,
sia allo Spedale civile
che in quello di S.
Martino.

“Il moto di san Giovanni” a Macerata: prima ins urre -


zione risorgimentale italiana (1817)
Da questa situazione generale derivava un malcontento
grandissimo da cui i “carbonari” cercarono di trarre profitto; ma
a seguito della notizia che la salute del Papa era migliorata,
l'azione progettata fu rinviata.
Il Supremo Consiglio centrale di Bologna, divenuto Co-
mitato direttivo delle sètte presenti nello Stato Pontificio, diede
incarico a Paolo Monti, Gran Maestro della Vendita di Fermo,
di combinare un piano di sollevazione che avrebbe dovuto ef-
fettuarsi al momento della Sede vacante del Papa.
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Tale piano, a quanto pare, fu redatto parte in base ai sug-
gerimenti del Consiglio centrale e parte con riferimento alle
idee del Monti; per attivarlo era però necessaria «una scintilla
incendiaria, che poteva dipendere dalle circostanze dei rispettivi
luoghi».
Pertanto, il piano medesimo conteneva soltanto le linee
generali di un’eventuale insurrezione. Invece per l’organiz-
zazione della rivolta locale, che doveva avere a Macerata il suo
inizio, si interessò l'ex militare e inge-
gnere Luigi Carletti.
A Macerata giunse anche Fran-
cesco Riva, ex militare napoleonico,
maestro di scherma, il quale, insieme
al Carletti, entrò nel dettaglio dell’in-
surrezione: i congiurati dovevano es-
sere da 400 a 500, provenienti una
parte «da Recanati, altra da Filot-
trano, guidata dal carbonaro Gobbi,
altra da Montecassiano sotto gli ordini di Buratti (un sacerdote),
altra da Cingoli diretta da Santucci, altra da San Ginesio con-
dotta dall'ex gendarme Gentili, altra da Mont'Olmo comandata
da D. Francesco Cani, altra da Civitanova diretta da un tal Con-
cetti, altra da Monte Lupone, guidata da Ludovico Pochini, ed
ancora da Montecosaro, da Montesanto e Morrovalle».
Queste forze avrebbero dovuto prima raccogliersi in diversi
luoghi all’esterno delle mura: sul ponte del Potenza, a S. Croce,
alle Vergini e presso la chiesa di S. Stefano, e poi convergere
tutti in quest'ultimo luogo.
Da qui i rivoltosi, ar-
mati, sarebbero dovuti
procedere verso Porta Ro-
mana, dove le guardie
pontificie, che conniventi
con i carbonari la presi-
diavano, ad un segnale
convenuto, avrebbero do-
vuto aprire le porte. Così
gli insorti, entrati in città, si sarebbero dovuti dirigere verso la
piazza centrale, dove, nell'ex Convento dei Barnabiti (oggi

19
università), era concentrato un altro gruppo di carbonari che
doveva dirigere le operazioni in città.
Tutte queste forze esterne, unite ai congiurati presenti in
città, dovevano suddividersi in tanti drappelli, «alla testa dei
quali vi sarebbe andato un capo, a cui sarebbe stato consegnato
un foglio scritto per le operazioni da eseguire, che tanto la forza
di linea quanto i carabinieri erano tutti del partito e si sarebbero
uniti ai rivoltosi».

L’assalto ai palazzi del pote re


Le prime operazioni da effettuare sarebbero state quelle di
impadronirsi del corpo di Guardia e dei quartieri militari, poi si
doveva procedere distintamente all'assalto del Palazzo del
Delegato apostolico, del Palazzo vescovile, del Palazzo comu-
nale, nonché delle carceri per liberare i prigionieri.

Prese le sedi istituzionali, si sarebbe dovuto procedere al-


l'arresto del Delegato apostolico e del Vescovo, nonché con-
tinuare ad occupare i Palazzi di Conventati, Gabuccini e
Carradori, saccheggiandone i granai, «trucidandone gli abitanti
ed uccidendo tutti i Sanfedisti» più compromessi, come pure
alcuni funzionari considerati corrotti.
Una volta posta la città sotto controllo dei rivoltosi, si do-
vevano accendere dei razzi luminosi sulla torre comunale, «per
dare il segno alla Fermana» del successo dell'insurrezione; poi
un «tal Bontempi di Sirolo» avrebbe acceso dei fuochi «sul
monte d'Ancona», per dare l’avvio all’insurrezione della città
dorica, quindi sul Monte S. Vicino. Così via, di monte in monte,
il segnale sarebbe arrivato alle altre città nei territori delle
Marche, della Romagna e dell'Umbria.

20
Acquisite le risorse finanziarie della cassa comunale e di
quella delegatizia – aperti i magazzini dell’Annona per soccorre
il popolo che pativa la fame – si sarebbe instaurato un governo
provvisorio repubblicano. Questo, in sintesi, il piano ipotizzato.
Nella primavera del 1817 iniziò una fase sempre più con-
vulsa di incontri di affiliati per discutere sul piano insur-
rezionale e sulla ripartizione dei compiti. Da molti scritti, redatti
prima durante e dopo il processo che seguì il moto insurre-
zionale, scopriamo che le riunioni dei cospiratori si tenevano
prevalentemente nelle osterie. Qui sotto vediamo segnalati il
locale dell’ex chiesa di S. Agostino, il Caffè Berretta e l’Osteria
del Riccio, nel vicolo della Rota.

Altre volte si riunivano nella Locanda Monachesi, al termine


della Via Mandiroli (oggi via Crescimbeni). Quando arrivava
qualche emissario da fuori si ritrovavano nella camera da lui
occupata nella Locanda della Pace, oppure nell’Osteria di
Moschini.

La Locanda-albergo più frequentata dai carbonari, per la sua


posizione strategica, era quella di Calabresi o del Riccio, che si

21
trovava fuori della città – ossia nell’angolo della strada detta
della Vetreria, lungo il nuovo Borgo Pio – dove, oltre a mettere
a disposizione delle camere, vi erano anche locali dove man-
giare e stalle per i cavalli.
Il gruppo dei carbonari maceratesi, più intransigente e
deciso, sottopose ai responsabili di Ancona e Bologna il sud-
detto piano che prevedeva anche l’uccisione di non pochissime
persone, tra nobili e funzionari compromessi, e il saccheggio
delle loro case; ma questo atteggiamento violento non era con-
diviso e spaventava i responsabili carbonari. Vane riuscirono le
dissuasioni dei Centri di Bologna ed Ancona.
In merito a questo obiettivo indicato nel piano maceratese, i
vari gruppi carbonari si spaccarono, compreso quello della città
dove il conte Cesare Gallo tentò di persuadere l'ala più estre-
mista a desistere dall'operazione, invitandola ad essere più mo-
derata.
Così il gruppo maceratese, guidato da Luigi Carletti, rimase
quasi isolato e, noncurante dei contrordini che giungevano dalle
numerose Vendite, decise di passare comunque all’azione, fi-
dando sul fatto che molti dei carabinieri e dei militari pontifici
parteggiassero per loro e che tuttavia
anche i riottosi alla fine avrebbero par-
tecipato all'insurrezione.
Il Riva e il Carletti tentarono veloce-
mente di contattare i gruppi del Mace-
ratese, per convincerli ad aderire al-
l’insurrezione, nonostante i contrordi-
ni che arrivavano da Bologna e da
Ancona. Per questo mostrarono il
manifesto contenente il Proclama –
fatto stampare dal Riva in una tipografia clandestina di Forlì –
con il quale confermarono che sarebbero passati all’azione nella
notte tra il 23 e il 24 giugno. Appunto nota come la notte di san
Giovanni.
Nei giorni precedenti l’insurrezione inviarono poi emissari
per portare copie del Proclama in varie città, che dovevano af-
figgere nella notte di san Giovanni.
Un primo incidente si verificò, però, per un equivoco, con
«l’accensione di un fuoco la notte innanzi sul monte dell'A-

22
scensione, così si indusse l'affissione dei proclami rivoluzionari
un giorno prima in Ascoli e Ripatransone, e fece leggerne copia
in pubblico a Montedinove».

La non azione della notte di san Giovanni


Ma nella notte di san Giovanni, nel punto di raccolta ai Cap-
puccini vecchi, a Macerata, si ritrovarono, invece che quattro-
cinquecento attesi, solo alcune decine di rivoluzionari.

Mentre si attendeva e si sperava l’arrivo di altri carbonari,


all’improvviso a Porta S. Giorgio partì una carica di cavalleria
pontificia, che costrinse alla fuga i pochi convenuti. All’interno
della città l’oste carbonaro Moschini, vista la piega degli avve-
nimenti, si dette alla fuga verso le mura di tramontana. Fu av-
vistato da una guardia che gli intimò il chi vive; l'oste gli tirò
un'archibugiata, ricevendone in risposta un’altra da parte del
militare e, non colpito, riuscì a scavalcare le mura dandosi alla
fuga in aperta campagna.
I soldati, che presidiavano Porta Romana, all’udire i colpi,
pensando che era partito l’assalto alla città, aprirono le porte,
ma non trovando all'esterno nessuno le chiusero rapidamente
sperando di non essere scoperti.
Anche quanti erano nel Convento dei Barnabiti capirono
come stavano andando le cose e si dettero anch'essi alla fuga.
Così i carbonari del gruppo che aveva osato sfidare l'asso-
lutismo ripristinato dalla Santa Alleanza, fallito il piano, si na-
scosero per non essere arrestati.
Nelle altre città, non vedendosi i segnali pattuiti, nessuno si
mosse. Si registrò solamente l’affissione del Proclama rivolu-
zionario in alcuni centri, infatti, mons. Spinola, Delegato apo-
stolico di Ascoli, con riservata del 29 giugno 1817, informava
il Delegato apostolico di Macerata «che nel dì di S. Giovanni
23
avea avuto luogo in quella città
l'affissione d'un allarmante
proclama a stampa, come pu-
re in Grotte a Mare, delega-
zione di Fermo. Contempora-
neamente in Montedinove vari
sciocchi e rei malintenzionati
avean tentato di produrre allar-
mi, con pubblici discorsi ri-
voltosi e tre erano in mano del-
la giustizia».
Ma questi fatti non turba-
rono affatto la quiete delle Mar-
che e così pure nell'Umbria,
nonostante che la notte della
vigilia di san Giovanni in Foli-
gno furono affissi ben dodici di
quei Proclami, di cui uno pro-
prio sul Palazzo apostolico.
Gli attori del progetto rivo-
luzionario cominciarono a do-
mandarsi il perché non fossero
riusciti nemmeno ad iniziare la
rivolta. Si materializzò così in loro il concreto sospetto del
tradimento. In effetti, il 21 giugno il Delegato apostolico di
Macerata aveva invitato ad un incontro urgente i nobili, i mer-
canti e i capi famiglia, informandoli «che si era scoperta una
congiura, la quale doveva in una notte succedere una rivo-
luzione con dar fuoco e assassinare alcune case»; per questo li
invitava a vigilare e a difendere le proprie famiglie, mentre per
la situazione della città avrebbe provveduto egli stesso, facendo
arrivare centoventi militari. Anche a Roma si sapeva del
tentativo insurrezionale maceratese: lo stesso giorno, infatti, si
chiedeva ed otteneva l'istituzione di una Commissione Speciale
per i processi politici, presso il Supremo tribunale della Sacra
Consulta.

24
La rice rca degli implicati e le condanne nel tentato
moto insurre zionale
Gli abitanti di Macerata non si accorsero quasi di nulla,
mentre gli amministratori comunali inviarono al cardinale
Consalvi una lettera di scuse per la vicenda, chiedendogli di
rassicurare il Pontefice sulla fedeltà dei cittadini maceratesi.
Poi fu avviata la ricerca dei capi della cospirazione. Furono
individuati quasi settecento sospettati di aver partecipato alle
attività sovversive, i più compromessi furono arrestati e tradotti
nelle carceri di Castel Sant'Angelo a Roma.
Erano così tanti i sospettati che la Direzione Generale di
Polizia, con lettere del 4 e 27 agosto 1817, ordinò di sospendere
le indagini e le catture.
Dopo investigazioni, perquisizioni, interrogatori e raccolta di
documenti compromettenti, segreti e cifrati, deposizioni e con-
fessioni, si arrivò alle sentenze. Furono giudicati trentasei car-
bonari, dei quali tredici furono condannati a morte (condanne
poi mutate in ergastoli); due degli inquisiti morirono in carcere
durante il processo. Sommando le altre pene, gli anni comples-
sivi di reclusione ammontarono a centosettantasette.
Tra i trentasei condannati per Fellonia dal Tribunale Crimi-
nale pontificio, vi furono dodici maceratesi: Cesare Gallo,
Luigi Carletti, P ietro Castellano, Nicola Pennelli, Vincenzo
Pieri, Gabriele Filippucci e Carlo Scarponi, tutti condannati
all'ergastolo. Furono inoltre condannati: Giuseppe Tamburrini e
Antonio Cotoloni, a dieci anni di prigione; Francesco Molinelli,
Luigi Fioretti e Sante Palmieri a sette anni di prigione, mentre
Giovanni Romoli morì durante il processo.
Gli altri carbonari condannati provenivano da: Ancona,
Corridonia, Fabriano, Filottrano, Loreto, Montecosaro, Monte-
lupone, Potenza Picena e Ascoli Piceno. Tra questi vi erano an-
che don Francesco Cani di Corridonia e l'ex frate Vincenzo
Cingolani di Potenza Picena.
Ci furono anche non pochi inquisiti collaborazionisti che
non ebbero condanne, ma non si riuscì a sapere di più su di loro
o chi avesse tradito.

25
L’autore della delazione e le abiure
Qualche anno fa, in un archivio privato, ho trovato una
lettera che svelava chi fu l’autore del tradimento in occasione
del moto del 1817.
Nella lettera di supplica si scriveva:
«Ill.mo Signore Conte, Cesare Giacomini maceratese, che
per alcune indisposizioni di salute non può presentarsi per-
sonalmente avanti V. S. Ill.ma, la supplica a voler accettare
benignamente questa preghiera diretta a dimandarle una
qualche sovvenzione alli di lui giornalieri bisogni, e di risor-
sa alla di lui stancata malattia.
L'umiliante Giacomini è quello stesso che con Zelo favorì lo
Stato in rilevare gli Autori, e le trame, che dovevano succe-
dere fatalmente in Macerata nel mese di Giugno del 1817, ed
avendo il medesimo saputo, che Ella soggiorna questa Città
gli viene ispirato di farle ossequiosamente presentare que-
st'istanza, rammentandosi, che nel piano Rivoluzionario
communicato da Egli solo al Governo, svelò e fece cono-
scere, che anche V. S. Ill.ma era stato destinato, e descritto
per uno di quei, che dovevano disgraziatamente esser truci-
dati, e derubati, e che il Cielo non permise stante le pre-
venzioni del supplicante».
I condannati per il fallito moto del 1817, rimasero in carcere
fino al 1831, quando, al sopravvenire di un nuovo tentativo ri-
voluzionario, in
occasione dell'e-
lezione al sogli-
o pontificio di
Gregorio XVI, ci
fu un'amnistia
per tutti i prigi-
onieri polit ici,
che venne pub-
blicata il 23 feb-
braio a Civita Interno del Forte di Civita Castellana
Castellana dal colonnello Lazzarini.
Molti di loro, appena usciti dalla prigionia, malgrado il forte
26
desiderio di rivedere il proprio pa-
ese e i congiunti, si unirono alle trup-
pe dei rivoltosi o parteciparono in qu-
alche modo al nuovo movimento in-
surrezionale.
Il Conte Cesare Gallo, che durante
la prigionia a Civita Castellana aveva
insegnato lo spagnolo ai compagni di
carcere, poi trasferito nel Forte di San
Leo, nelle cui prigioni rimase per tre
anni, invece si ritirò a vita privata.
Mentre l'avv. Pietro Castellano, la
figura più eminente dei condannati, in
carcere si era potuto dedicare agli stu-
di, tanto che vi compose il Nuovo specchio geografico, storico,
politico di tutte le nazioni del globo, opera in otto volumi,
pubblicata a Roma nel 1826. Compose e fece stampare a Fo-
ligno, nel 1824, I fasti di Pio VII, che gli valse la grazia e la
liberazione nel 1828.
Dei prigionieri che rimasero coerenti con le proprie scelte
sono da ricordare il Cottoloni, l'avv. Torello Cerquetti e Sante
Palmieri, il quale, nonostante l'abiura fu tenuto prigioniero nei
forti di Ancona, Pesaro, San Leo e Civita Castellana.
In una cartella dei manoscritti della Biblioteca Comunale di
Macerata si conservano non poche abiure, rilasciate da un certo
numero di patrioti “minori” al vescovo Strambi. Esse ci per-
mettono di verificare la grande confusione tra dimensione reli-
giosa e politica, presente in quell’epoca, come appare in questo
scritto di Pio Sampaolesi:
«Io infrascritto avendo riconosciuto essere le Società segrete
così dette dei Carbonari, Guelfi, e Protettori Repubblicani, in
cui mi trovo ascritto, riprovate dal Governo, fermo d'inten-
zione di voler vivere, e morire da vero cattolico Apostolico
Romano, come ho avuto la grazia di nascere, e di volermi
riconciliare con Dio, e con la nostra Madre Chiesa Cattolica,
Apostolica, Romana, protesto, e dichiaro di non più appar-
tenere alle dette Società, né di più communicare con i Soci
per oggetti riguardanti le medesime, ritrattando formalmente
qualunque giuramento in esse prestato …. ».
27
Ovviamente la maggior parte delle abiure erano “strumen-
tali”, atte cioé ad evitare nell’immediato la prigione o l’emargi-
nazione sociale.
Certamente i risultati del moto “mancato” di san Giovanni,
ci appaiono disastrosi. Eppure ottennero la “conversione” di
Giacomo Leopardi, che in precedenza aveva scritto una satira
sui carbonari, ma dopo i fatti maceratesi comporrà due canzoni:
All’Italia e Sopra il monumento di Dante.
Dunque, al di là dei risultati ottenuti, delle debolezze e dei
tradimenti, il moto maceratese, definito «più folle che temera-
rio», anche a livello locale segnò l'inizio di un movimento cre-
scente che, attraverso congiure, insurrezioni, disfatte e vittorie,
condanne a morte o a lunghe reclusioni, doveva condurre l'Italia
al suo Risorgimento.
Non per nulla, a proposito della nomina a Delegato apo-
stolico a Macerata, in sostituzione di mons. Nembrini, si
scriveva: «non vi è prelato che colà voglia venire» per il timore
di altre macchinazioni. Ovvero, si affermava: «chi dice Mace-
rata, dice inferno aperto». Perciò non ci deve meravigliare se,
nonostante i numerosi arresti e le condanne per i fatti del 1817,
dopo appena tre anni, con fatica e in un clima di frustrazione,
una nuova fitta rete di patrioti stava riannodando nuove trame.

I moti del 1820-1821


Una figura di donna stra-
ordinaria era Lavinia Auri-
spa, moglie di Giuseppe
Perozzi: «Abitava in un ca-
sino di campagna, poco lun-
gi dalla città e sulla via che
conduce a Tolentino … al-
lora ritrovo dei liberali mace-
ratesi e di fuori, tra cui il
conte Leopoldo Armaroli, ex
senatore del Regno Italico: vi
si leggevano le Gazzette di
Lugano e di Francia e libri
28
patriottici».
Questo Casino
di campagna, per
ironia della sorte,
non molti anni do-
po, divenne la re-
sidenza estiva del
Seminario vesco-
vile della Diocesi
di Macerata, edifi-
cio ancora oggi
esistente, uscendo
dalla città, sulla sinistra alla fine di Via Roma, prima del
passaggio a livello ferroviario.
Oltre il salotto di casa Perozzi, altri luoghi d’incontro dei
carbonari maceratesi erano l’abitazione di Livio Aurispa
(Gran Maestro della carboneria), in Via Santa Maria della Porta,
e il villino di campagna di Alessandro Cellini, a Madonna del
Monte.
I frequentatori più importanti erano: Alessandro Cellini,
Antonio Gatti, Benedetto Ilari, Benedetto Ugolini, Marco
Nobili, il medico Antonio Fioretti, i Perozzi, Giuseppe Capan-
na, Giuseppe Pasini, Giuseppe Pellegrini, Vincenzo Pannelli, i
sacerdoti don Giovanni Bucchi, rettore del Seminario, e don
Giovanni Cesaretti di Tolentino.
Questi, nel 1820, erano in grande attività per pianificare
ancora una nuova insurrezione, in un momento in cui in diverse
regioni italiane si stavano realizzando importanti sommosse,
come in Sicilia, nel Napoletano e in P iemonte, dopo che nel
gennaio 1820 era avvenuta una ribellione di militari in Spagna,
che aveva costretto il Re alla riadozione di una costituzione.
Data la situazione politica critica, in città e in provincia, fu
nominato Direttore provinciale di polizia di Macerata un per-
sonaggio particolarmente dotato nell’attività indagatoria: l’avv.
Luigi Mattioli Benvenuti di Cingoli, tanto che Vincenzo
Pannelli, noto patriota, ebbe poi ad esprimersi: «da quando c’è
quel Mattioli Benvenuti la povera Macerata non ha più avuto un
momento di bene».

29
E nella sua attività indagatoria sul mondo antigovernativo e
rivoluzionario il Mattioli, oltre alle informative che gli forniva
l’ex bargello Giuseppe Fioretti, fu aiutato da un’inaspettata for-
tuna, infatti, l’8 agosto del 1820 egli ricevette da Montelupone
un espresso con la seguente lettera:
«Illustrissimo Signore Procuratore Colendissimo.
Senza vista alcuna d’interesse ma col solo oggetto di tornare
nella piena grazia, e protezione del Governo, io mi pro-
pongo, a lei ed al Governo qualora mi autorizzi di parlare
con persone sospette, e altre cose simili necessarie, di ren-
derla informata di cose rilevanti, che troppo interessano al
Governo. A loro io non bramo che tutto debba passare fra
me e lei solo, perché poi un giorno le farò conoscere molti
fatti del 1817: che niente restarono sotto sigillo, ma non per
colpa sua, ma per colpa di un suo impiegato, le quali circo-
stanze mi hanno sempre rattristato il cuore, e compromesso
nella persona. Nella mia vita ritiratissima, che sempre terrò
così, e mai alcuno avrà da rimproverarmi neppure dei pen-
sieri, con tutto questo il caso solo portò a mia cognizione
delle circostanze che troppo vanno ad interessare il Governo.
Sono dunque aspettatore di sua risposta, ed in caso mi sappia
pur dire, se posso scriverle per posta all’assicurazione da me
espressa di sopra, mentre oggi lo faccio per spedizione.
Tanto per ora devo significarle nell’atto che colla dovuta
stima e rispetto mi dichiaro.
Di Vostra Signoria Illustrissima
Devotissimo e Obbligatissimo Servitore
Lorenzo Basvecchi».
Il Basvecchi, entrato nella carboneria nel 1816 – per un
periodo Gran Maestro a Montelupone, poi a Macerata e infine
trasferito a Tolentino – dopo gli eventi del 1817, già sospettato
e coinvolto in quegli avvenimenti, con la lettera (di cui sopra)
opportunamente pubblicata, si proponeva di informare la polizia
pontificia sulle nuove trame dei carbonari maceratesi, per ten-
tare di rifarsi una nuova reputazione anche a costo della rovina
di molti suoi ex compagni.

30
Il Mattioli accettò ben volentieri
l’offerta e fornì al Basvecchi un
salvacondotto che gli permetteva di
muoversi liberamente nel territorio
maceratese. Questi, essendo conosciu-
to come ex Gran Maestro di Mon-
telupone e Macerata, sia da Livio
Aurispa (fratello di Lavinia Perozzi e
in quel momento Gran Maestro della
carboneria maceratese) sia dai più noti
patrioti locali, aveva accesso ad
incontri personali o di gruppi rivoltosi, Livio Aurispa
così poteva intercettare i progetti di insurrezione e rivelare in-
formazioni preziose. Ebbe addirittura appuntamenti con
l’Aurispa nel Casino di campagna dei Perozzi a Macerata, di cui
ho già scritto.
Non passò molto tempo che il Basvecchi scrisse al Mattioli
comunicandogli, tra le altre cose, quanto segue: «Fin qui credo
di dare in Sue mani una nuova scoperta di congiura contro il
Governo, ed un nuovo moto attivo, che si dà la setta dei Car-
bonari per arrivare al rovesciamento di esso e mi auguro aver
la sorte di poter dare a Lei maggiori lumi e cognizioni delle
operazioni, che in appresso accaderanno, e così completare
l’opera mia, che con fondamento ho motivo di sperare, acciò
possa il governo riparare, ed opporsi a qualunque sorpresa, e
attacco, ed io solo farò per tutti quelli individui che Lei potesse
tenere per il discoprimento di tali affari, giacché pochi sono
quelli che penetrar possono in tali luoghi».
Ancora una volta la delazione “amica” metteva a repentaglio
l’azione degli insorgenti, la loro libertà e la loro stessa vita.
Il nuovo piano prevedeva che l’insurrezione, a cui dovevano
partecipare circa trecento persone, armate con fucili, fosse
condotta da esperti ex militari e reduci napoleonici, tra cui il
Maggiore Saccolini, Antonio Gatti, Benedetto Ilari e il mar-
chese Benedetto Ugolini, mentre la direzione delle operazioni
doveva essere gestita da Livio Aur ispa, Marco Nobili e dal
medico Antonio Fioretti.
Il piano, inoltre, specificava quanto segue: «Formato così
un tal corpo, prima e principal cura doveva esser quella di

31
suddividerlo in vari distaccamenti per sorprendere tutti i corpi
di guardia, le caserme, e la truppa di linea e carabinieri,
per impossessarsi delle armi e munizioni risparmiando il san-
gue per quanto possibile, battendosi da disperati nel caso di
resistenza, poiché alla prima mossa che si fosse fatta in questa
città, tutti gli altri carbonari dei paesi limitrofi sarebbero insorti
e la rivoluzione si sarebbe dilatata per tutta la Marca, e sarebbe
stata anche spalleggiata dai carbonari del Regno di Napoli».
Per primi dovevano essere arrestati il Delegato apostolico, il
Vescovo e il Direttore di polizia Mattioli, i «quali avrebbero
dovuto ordinare ai capi della forza, tanto di linea che dei cara-
binieri, di venire a depositare le armi; nel caso in cui non aves-
sero voluto a ciò accondiscendere, si dovesse immediatamente
trucidare, per quindi attaccare in massa la forza qualora ricu-
sasse di unirsi ai rivoltosi». Altre vittime individuate erano «i
due Assessori Ionj e Martini, Cappuccini il Fiscale, Giuseppe
Fioretti ex Bargello; il giudice Chiesa, il notaio criminale Pietro
Montini, Antonio P iani e qualche altro». Nel mirino degli
insorti erano anche i membri della Società dei Sanfedisti, di cui
avevano avuto l’elenco degli affiliati.
Così, dopo le rivelazioni del Basvecchi, nell’ottobre 1820,
prima ancora che fossero messe in atto le operazioni insurre-
zionali, numerose persone furono arrestate, tra cui: Livio
Aurispa, Giuseppe Capanna, Alessandro Cellini, Antonio
Fioretti e Benedetto Ilari, che furono imprigionati. Mentre altri,
invece, fecero in tempo a fuggire in Abruzzo: in particolare
Vincenzo Pannelli, Giuliano Ceresani e Francesco Cattabeni.
Inoltre furono denunciati anche un gruppo di studenti: Pirro
Aurispa, i fratelli Pirro ed Ettore Perozzi e i fratelli Bonomi di
Treia. Mentre Emilio Pe-
rozzi fu visto mentre por-
tava un sacco contenen-
te libri e documenti, pro-
babilmente compromet-
tenti, in contrada Poten-
za. Gli arrestati furono
trasferiti a Castel San-
t’Angelo, a Roma, per la
celebrazione del proces-

32
so, che li vide condannati a pene severe: Livio Aurispa,
Antonio Fioretti, Alessandro Cellini, a sette anni di for-
tezza, mentre Giuseppe Passini e Benedetto Ilari, a cinque anni.
Così furono anch’essi trasferiti nella fortezza di Civita Castel-
lana, dove ritrovarono i condannati dell’insurrezione fallita del
1817.

Vincenzo Pannelli continua l’attività insurrezionale


Vincenzo Pannelli, uno dei maceratesi che era sfuggito
all’arresto – mentre a Macerata era considerato, a torto, come
colui che aveva tradito la causa degli insorgenti e si pensava
addirittura di farlo uccidere – fu l’unico che riuscì a realizzare
una concreta attività insurrezionale. Infatti, dopo la sua fuga nel
Regno di Napoli, in Abruzzo, prese contatti con esponenti della
rete locale della carboneria regionale, nonché con quelle del
Beneventano, di Isernia e di Frosinone.
Successivamente istituì a Teramo l’Unione patriottica per lo
Stato romano, al fine di aggregare i profughi di quello Stato e i
patrioti del Regno di Napoli, in modo da penetrare nelle Marche
e provocare quell’insurrezione che era fallita a Macerata dando
poi allo Stato romano la Costituzione e un governo costituzio-
nale, com’era stato ottenuto in Spagna.
In uno dei suoi tanti incontri a Chieti, il Pannelli incontrò un
carbonaro residente a Filottrano, Luigi Dell’Uomo, poeta estem-
poraneo, a cui confidò i piani per l’invasione nel Sud delle Mar-
che, con due legioni, una costituita da patrioti del Regno di
Napoli e l’altra di patrioti marchigiani e romani.
Il Dell’uomo, che aveva con sé anche una lettera del Pannelli
e un elenco di carbonari da contattare in varie città delle Mar-
che, non appena passato il confine, si recò dall'ispettore di
polizia di Porto d'Ascoli per denunciarlo, affinché ne informas-
se subito il Delegato apostolico di Ascoli. Questi, il 16 novem-
bre 1820, scrisse al Delegato apostolico di Macerata e in breve
la notizia arrivò in tutta la regione e a Roma.
Il piano rivoluzionario era il seguente: si dovevano costituire
due legioni, una composta da patrioti del Regno di Napoli e
l’altra di fuoriusciti dallo Stato Pontificio, in maggior parte
marchigiani. Una legione si doveva dirigere verso Frosinone e

33
da qui verso Roma, mentre l’altra sarebbe entrata nelle Marche.
In entrambe le direzioni si contava sull’effetto di detonazione
per accendere rivolte locali concatenate, in particolar modo su
quattro territori: «il primo in Pesaro, il secondo in Macerata, il
terzo in Spoleto, ed il quarto in Frosinone».
Nella mattina del 15 febbraio 1921, nonostante che la le-
gione dei patrioti del Regno di Napoli non fosse riuscita ad
organizzarsi per mancanza di adesioni, quella romana (com-
posta anche da un centinaio di regnicoli) uscì da Teramo, paese
di confine, per inoltrarsi nelle Marche.
Ad Ancarano la legione romana, composta da 10 compagnie
di 100 uomini con stendardi nei quali era scritto «Viva Pio VII -
Viva la costituzione Ispanica», numericamente molto ridotta, fu
raggiunta dal Pan-
nelli che aveva
avuto dall’Unione
patriottica la no-
mina a suo Diret-
tore.
La progettata,
invasione del bat-
taglione napoleta-
no, che doveva con-
giungersi a Ponte-
corvo con gli emi-
grati frosinonesi,
coi beneventani e
pontecorvesi, non ebbe più luogo, perché si era sparsa la voce
dell’arrivo di truppe austriache e della contrarietà di alcune po-
polazioni.
Da Ancarano il Pannelli scrisse al Delegato apostolico di
Ascoli mons. Zacchia, «per avvertirlo di stare tranquillo e nulla
temere, giacché il tutto aveva per scopo il bene della Patria e del
Sovrano», mentre si stava provvedendo a diffondere i Proclami
per l’auspicata costituzione.
Dopo questa comunicazione, la colonna rivoluzionaria, sotto
la direzione del Pannelli, proseguì nel giorno stesso la sua
marcia verso Offida, passando per i Comuni di Colli e Pagliara,
dove fu pure proclamata la Costituzione, invitando, militari e

34
non, ad unirsi alla colonna dei rivoltosi. Così la sera stessa del
15 febbraio la truppa giunse in Offida.
La mattina seguente nella pubblica piazza, al suono di cam-
pane e trombe, fu divulgata la Costituzione, mediante lettura ed
affissione dei Proclami, con la liberazione dei prigionieri e il
prelevamento dei fondi comunali.
La sera del giorno 16 febbraio i legionari giunsero a Ripa-
transone. Cercarono anche qui di sollevare i militari e non, non-
ché reperire altre armi. Poi gli insorti si recarono al Palazzo
comunale, facendo presente agli amministratori di esser venuti a
Ripatransone per pubblicare la Costituzione, e così lessero i
Proclami.

La fine del tentativo di Vincenzo Pannelli


Ma essendo già noto da tempo l’intento rivoluzionario, fin
dall’8 febbraio si era notificato che le truppe austriache avevano
oltrepassato il Po e rapidamente marciavano verso lo Stato ro-
mano, dirette anche verso il Regno di Napoli. Si era dato l’or-
dine di non ostacolarle e considerarle «come amiche», mentre si
doveva resistere vigorosamente «alle Orde di malintenzionati»
che «osassero violare il Territorio Pontificio», anche comuni-
cando che le fortezze dello Stato fossero poste in difesa. La nota
si concludeva con il seguente monito: «Ma se qualche spirito
turbolento osasse cercare sconsigliatamente negli avvenimenti
presenti la occasione di macchinare pravi disegni, e pensasse di
potere, anche per poco, alterare la pubblica tranquillità, sappia
che la più oculata vigilanza del Governo seguirà i suoi passi, e il
più severo rigore delle Leggi punirà i suoi delitti».
Mentre i legionari romani erano in procinto di proclamare la
Costituzione a Ripatransone, arrivò la notizia che era stata
avvistata una colonna pontificia composta da circa cento uo-
mini, tra soldati di linea e carabinieri. Sia per questa notizia, ma
anche e soprattutto per quella dell’avvicinarsi degli austri-
aci, il capitano dei regnicoli, Costantini, disse di aver ricevuto
l’ordine di rientrare immediatamente in Abruzzo. Ci fu scon-
certo e si disse che il Pannelli fece «una casa d'inferno», ci fu
pure un diverbio e per poco non si venne anche alle mani tra chi
voleva affrontare con le armi i pontifici e chi voleva rien-

35
trare in Abruzzo. Alla fine la maggior parte dei regnicoli, me-
stamente, uscirono dal territorio dello Stato Pontificio.
Subito dopo, da parte dei pontifici iniziò la caccia a quei
legionari che erano rimasti nella zona, molti dei quali furono
arrestati e tradotti nelle carceri politiche di Macerata. Per mag-
gior sicurezza e per ordine della Segreteria di Stato, furono tra-
sferiti nella fortez-
za di Ancona e da
una Commissione
militare speciale fu-
rono rapidamente
processati e con-
dannati a pene se-
verissime.
Il Pannelli, se-
guito dai suoi più
fidi, si diresse prima in Calabria e poi in Sicilia, con l'in-
tenzione di raggiungere l'isola di Malta. Ma giunto con i
suoi compagni a Messina, il 18 aprile 1821, tutti furono
arrestati. Quindi agli inizi di agosto, dopo un viaggio in nave,
giunti ad Anzio vennero consegnati alle autorità pontificie.
Furono imprigionati nelle Carceri nuove di Roma e, in base
ad una prima istruttoria, sottoposti a numerosi interrogatori. Il
processo per «fellonia» si concluse il 21 ottobre 1822 con la
condanna a morte del Pannelli e dei suoi sette compagni,
condanna poi commutata al carcere a vita, mentre altri suoi
compagni furono condannati chi a 10, chi a 7 e chi a 5 anni di
prigione.
Il Pannelli, ritenuto rivoluzionario assai pericoloso, fu
inviato a scontare la condanna nel
triste forte di San Leo, noto come
scoglio del pianto , così definito
dal conte Cesare Gallo e da altri
condannati per la cospirazione del
'17. Vincenzo Pannelli poi uscirà
dal forte di San Leo durante i moti
del 1831, ma soltanto per entrare
nell’Ospizio per mentecatti di Ma-
cerata, per il resto della sua breve

36
vita, dove vi morì il 21 agosto 1833. Tra tutti i patrioti mace-
ratesi, certamente fu il più dimenticato e quello che subì la sorte
più triste.

I moti nello Stato Pontificio del 1831


In tutta Europa stava crescendo sempre più l’insofferenza
per i regimi assolutisti e nell’estate del 1830 si riaccesero i
tentativi insurrezionali in Francia, che a Parigi assunsero carat-
tere particolarmente violento, seguiti poi da altri tentativi in
Belgio e in Polonia.
Le notizie di queste insurrezioni rialimentarono le mai sopite
speranze dei patrioti dei diversi Stati italiani, che si concre-
tizzarono nel Ducato di Modena dopo l’arresto di Ciro Menotti,
avvenuto nei primi giorni del febbraio 1831. Questo fatto prima
provocò una reazione popolare in quella città, poi sfociò in un
grande moto insurrezionale che si allargò a numerosi centri
dello Stato Pontificio. Subito insorse Bologna, dove il 5 feb-
braio i rivoltosi dichiararono la secessione dallo Stato della
Chiesa delle Legazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì. A
seguito di questa sollevazione, la rivolta dilagò anche in altre
zone dello Stato Pontificio. In Romagna le autorità pontificie
cedettero il potere quasi senza resistenza, così gli insorti pro-
clamarono la nascita del Governo provvisorio delle Province
unite italiane, cioè di una repubblica parlamentare con capitale
Bologna, sotto la presidenza di Giovanni Vicini, che ne pro-
mulgò la costituzione. Mi-
nistro della giustizia fu no-
minato il maceratese Leopol-
do Armaroli.
Nel frattempo il generale
Giuseppe Sercognani, co-
mandante de lla Guardia
nazionale di P esaro, che
aveva organizzato un esercito
di volontari, scese con le sue
truppe ad assediare Anco-
na, che poi fu occupata.
Leopoldo Armaroli

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A Macerata, appena avuta la notizia dell’insurrezione di
Bologna, i carbonari si riunirono nello studio dell’avvocato
Paoletti per organizzare una rivolta. Emersero idee divergenti:
chi voleva un’azione violenta e chi non voleva spargimenti di
sangue. Si decise di chiedere al Delegato Apostolico Ciacchi,
sensibile alle idee liberali, di lasciare volontariamente il gover-
no ad un comitato di cinque patrioti, ma il Ciacchi non accettò
la proposta. Allora i congregati chiamarono da Montecosaro il
conte Antonio Gatti, per affidargli la direzione del movimento
insurrezionale, il Gatti con qualche titubanza accettò l’incarico,
mentre fu deciso di chiamare i patrioti dei comuni vicini.
Intanto il 12 febbraio 1831 in città fu organizzata una mani-
festazione patriottica di studenti e popolani, che fu però facil-
mente dissolta dalla guarnigione pontificia.
Si chiese allora al ge-
nerale Sercognani di invia-
re una parte delle sue trup-
pe a Macerata, per convin-
cere il Delegato apostolico
a lasciare il governo della
Delegazione apostolica ,
truppe che giunsero il 17
febbraio. Occupata la città,
fu pubblicato un manifesto
a firma dello stesso «Co-
mandante la Vanguardia
dell’Armata nazionale»,
che esortava a chiedere la Costituzione.
A questo punto il Delegato apostolico – vista la presenza
delle truppe dei rivoltosi e considerate pure le pressioni che gli
giungevano – dopo proteste vivaci e prendendo le distanze da
quanto stava accadendo, lasciò l’ufficio del governo della pro-
vincia.
Fu allora invitato il Gonfaloniere Ranaldi ad organizzare la
designazione dei membri del governo provvisorio, anche af-
frontando evidenti conflitti e difficoltà per arrivare alla loro
nomina. Alla fine il governo provvisorio fu composto dall’avv.
Candido Paoletti, dal conte Giovanni Lauri, dal conte Giuseppe
Graziani, da Andrea Cardinali, dal conte Telesforo Carradori,

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dal marchese Filippo Consalvi e da Domenico Ricci. Si orga-
nizzò la Guardia Nazionale, affidandola al conte Antonio Gatti,
si concesse la libertà di stampa e si ripristinò il Tribunale di
appello, grazie all’interessamento del conte Armaroli, Mini-
stro della Giustizia.

La marcia verso Roma


L’obiettivo del generale Sercognani – una volta occupate le
Marche del Nord, Ancona e Macerata – era quello di recarsi
verso Roma per tentare di innescare la rivolta in Umbria e nel
Lazio, al fine di conquistare tutto lo Stato Pontifico. Così il 16
marzo 1831 in tutta la regione si aprì un arruolamento vo-
lontario per la costituzione di otto reggimenti di cavalleria. Il 20
marzo partirono dal Maceratese centoventi volontari, co-
mandati dal marchese Giuseppe Ugolini (reduce napoleonico),
tra i quali vi erano Luigi Carletti (già coinvolto nei moti del
1817), il sarto Napoleone Vecchietti, Ettore ed Emilio Pe-
rozzi.
Le truppe austriache, però, già si erano messe in marcia
verso Bologna, che venne subito occupata. Inoltre il 25 marzo
avvenne la battaglia delle Celle a Rimini, poi fu presa anche
Ancona, determinando la fine dell’esperienza delle Province
Unite.
Il generale Sercognani, invece, era in marcia verso Terni,
mentre a Macerata erano pronti altri volontari – in parte
provenienti dal Fermano, dalla nostra stessa città e da tutto il
Maceratese – che all’alba del 28 marzo partirono per raggiun-
gere la colonna Sercognani. Appena usciti da Porta Romana,
questa fu subito chiusa alle loro spalle, come pure furono chiuse
le porte del Mercato e del duomo. Intanto una folla di mace-
ratesi, incoraggiati dalle notizie dell’arrivo imminente degli
austriaci, iniziò a percorrere le vie della città gridando «evviva
il Papa», eliminando le insegne e le bandiere rivoluzionarie del-
le Provincie Unite, nonché apostrofando quanti avevano favo-
rito il Governo provvisorio. Il 31 marzo ritornò a Macerata il
Delegato apostolico mons. Ciacchi.

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Il giorno succes-
sivo giunsero in città
le truppe austriache
che vi rimasero poco
tempo, perché il 3
aprile ormai in preda
ad uno stato di forte
tensione tra quanti
plaudivano alla Re-
staurazione e quanti
Lo scontro di Rieti «dicevano molte villa-
nie contro il papa, i cardinali ecc.» e tenevano «un contegno
minacciosissimo».
Intanto il generale Sercognani sconfisse a Terni le truppe
pontificie, ma a Rieti trovò schierato
un più consistente esercito ponti-
ficio, che, vista l’impossibilità di
vincere il confronto militare, indus-
se il generale a sciogliere la colon-
na dei suoi volontari, molti dei quali
per non essere arrestati fuggirono in
esilio, tra cui Giacomo e Domenico
Ricci, Ettore ed Emilio Perozzi che
si recarono prima a Marsiglia e poi
a Parigi.
Come sempre seguirono arresti e Carlo Didimi
condanne, non solo dei volontari che avevano partecipato al
tentativo insurrezionale, ma anche di molti patrioti. Tra que-
st’ultimi vi erano anche i campioni di pallone col bracciale:
Carlo Didimi e Luigi Butironi di Treia che furono arrestati a
Tolentino e poi rilasciati.
Malgrado i severi provvedimenti con la rivoluzione del
1831 si chiudeva l’epoca della Carboneria ed iniziava ad
affermarsi la Giovine Italia, fondata a Marsiglia da Giuseppe
Mazzini nel luglio di quell’anno. La Giovine Italia si diffuse
prima ad Ancona e poi in tutte le Marche, sostituendo i gruppi
carbonari che avevano dimostrato una debolezza organizzativa,
con costi umani molto elevati, che rendeva inefficace l’azione
rivoluzionaria.

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Dopo i tentativi insurrezionali che si erano succeduti e la
diffusione della mazziniana Giovine Italia, in tutto il territorio
nazionale e in particolare nello Stato Pontificio, le polizie locali
erano allertate. Così la polizia provinciale della Delegazione
Apostolica di Macerata, il 20 giugno 1833, avendo avuto notizia
di un possibile passaggio di Mazzini nelle Marche, emise un
mandato di cattura in cui era scritto:
«Evvi sospetto che l'Avv. Giuseppe Mazzini di Genova,
Capo della Congrega di Marsiglia, possa penetrare nei
dominii Pontifici. Qualora ciò avvenisse, e giungesse in
codesta Giurisdizione, sarà di Lei cura di farlo diligen-
temente perquisire nella persona, e nel bagaglio, e farlo con-
temporaneamente arrestare, e tradurre sotto sicura scorta a
queste Carceri Centrali. Prevedendo poi il caso che possa
cambiar Nome, segno qui a tergo i di Lui connotati: capelli
nerissimi, fronte bellissima, occhi neri e brillanti».

L’entusiasmo pe r l’elezione di Pio IX


La morte di papa Gregorio XVI, avvenuta nel giugno 1846,
fece rinascere la speranza di un cambiamento politico nello
Stato Pontificio, speranza che si intensificò, il 17 giugno 1846,
con l’annuncio dell’elezione del nuovo pontefice P io IX,
marchigiano (la cui sorella abitava a Macerata), il quale aveva
la fama di “liberale”.
Il nuovo papa iniziò il suo pon-
tificato con l’emanazione di un
«motu proprio» che concedeva
l’amnistia a tutti i condannati po-
litici, cosa che provocò l’entu-
siasmo dei patrioti: in tutta Italia vi
furono manifestazioni con accla-
mazioni a l papa liberale. Oltre
1.300 detenuti politici furono
liberati, mentre gli esuli poterono
ritornare nei loro luoghi di resi-
denza. Inoltre, il pontefice rico-
nobbe una parziale libertà di stam-
pa, istituì un Consiglio di ministri e la Consulta di Stato, nonché
41
la Guardia civica; ordinò la costruzione di nuove linee
ferroviarie, tra cui la Roma-Adriatico-Po, che nel tratto Foligno-
Ancona sarebbe dovuta passare per la Valle del Potenza. Grazie
a questi provvedimenti, Pio IX – sia da parte dei cittadini dello
Stato Pontificio, sia dagli italiani e da altre popolazioni d’Eu-
ropa – fu stimato come iniziatore di una nuova era.
Quindi l’ammirazione per il nuovo Papa si trasformò in
delirio irrefrenabile. A Macerata si costituì un opportuno co-
mitato per organizzare appositi festeggiamenti (da svolgersi il
15 e 16 agosto 1846) per «solennizzare l’accordata amnistia e le
universali speranze». Tali festeggiamenti prevedevano la cele-
brazione di un solenne Te Deum al duomo, un concerto della
banda musicale in Piazza Maggiore, una rappresentazione al
teatro comunale ed uno spettacolo all’Arena Sferisterio, varie
corse di cavalli, nonché «luminarie» in tutta la città. Sulla torre
civica venne issato un grande stendardo raffigurante Pio IX,
mentre a Piazza San Giovanni fu costruita un’«ara di pace» che
nel suo basamento conteneva delle scritte inneggianti al Papa,
composte da Luigi P ianesi che aveva anche affisso una par-
ticolare iscrizione sopra la porta della Cattedrale maceratese. Il
fervore cittadino si espresse anche con azioni di pacificazione
civica ed opere sociali.
Questo spontaneo entusiasmo e l’apprezzamento popolare
dei primi atti di Pio IX furono usati da parte di chi lottava per
l’unità d’Italia – nonché da coloro (una piccola minoranza) che
combattevano per la realizzazione di uno Stato democratico –
per rinforzare il mito del Papa liberale. Pio IX era di certo
sensibile alle spinte indipendentistiche, ma non poteva accettare
la fine dello Stato Pontificio poiché ritenuto indispensabile per
la libertà della Chiesa. Il Papa si trovò, quindi, in mezzo a due
opposte condizioni: doveva esercitare la funzione di capo spi-
rituale di un territorio che comprendeva governi e popolazioni
in violenta lotta tra loro (era perciò necessario che fosse al di
sopra delle parti per il raggiungimento della pace) e con-
testualmente era il «Principe» di uno Stato, che comprendeva
molti cittadini vogliosi di combattere contro l’Austria che occu-
pava il Lombardo-Veneto.
Nel 1847, con l’attenuarsi della censura, una miriade di
giornali comparvero in tutto lo Stato. A Macerata fu stampato il

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settimanale «L’Educatore del Popolo» (il cui direttore era Piero
Giuliani e collaboratore Luigi Pianesi), che l’anno successivo
assunse il nuovo titolo: «Legalità e progresso». Il 24 di set-
tembre a Macerata la Guardia civica, che sostituiva la truppa
regolare pontificia – composta per lo più da mercenari – ebbe in
consegna la piazza cittadina. Furono nominati i seguenti nuovi
ufficiali (alcuni erano di estrazione nobile, altri cittadini del ceto
borghese) dopo alcune polemiche e dimissioni: Tenente colon-
nello, conte Lorenzo Lazzarini Compagnoni, Maggiore, Filippo
Rossi, Aiutante maggiore, Filippo Costa, Capitani, Giacomo
Ricci, Emilio Perozzi, Filopolito Consalvi, Clitofonte Onofri;
Capitani in seconda, conte Domenico Graziani, Carlo Montini,
Nicola Brunelli, Pietro Pellegrini; Quartiermastro, Benedetto
Pianesi, Portabandiera, marchese Sigismondo Bandini.
Si verificarono alcune dimissioni (Filippo Costa, sostituito
da un certo Trani di Ancona, Sigismondo Bandini, sostituito da
Luigi Lauri, e Filippo Rossi, sostituito dall’ex ufficiale napo-
leonico marchese Benedetto Ugolini) e la nomina a Gon-
faloniere del marchese Giacomo Ricci, che entusiasmò i
liberali, e la venuta a Macerata di Massimo d’Azeglio e del
generale Durando, i quali esortarono i maceratesi ad inviare
volontari «per la liberazione dei loro fratelli».

Il 1848: la “Primavera dei popoli”


Intanto la situazione sociale e politica in Europa era in
completa fibrillazione: nel febbraio si verificò la rivolta di
Parigi con la detronizzazione di Luigi Filippo e l’instaurazione
della repubblica democratica e radicale in tutto il Paese. La
rivolta non rimase circoscritta alla sola Francia, infatti dilagò in
Germania, poi in Ungheria e addirittura nella stessa Austria, per
manifestarsi anche in Polonia e in Danimarca. In quell’anno non
vi fu Paese in Europa che non fosse travolto da rivolte popolari
e da convulsioni politico-sociali, compresa l’Italia destinata a
diventare uno dei principali teatri di tumulti e sommosse.
L’ondata eversiva aveva in certo senso carattere unitario in tutto
il vecchio continente, pur assumendo peculiarità profondamente
diverse da Paese a Paese. In alcune Nazioni prevalevano le ragi-
oni per arrivare all’indipendenza (Italia e territori dell’Impero

43
asburgico), in altre, quelle di ordine sociale e democratico
(Francia e Germania). I vecchi regimi non riuscivano più a
frenare la sfida dei popoli che rivendicavano un nuovo assetto
sociale. Il loro impatto storico fu enorme, talmente profondo e
violento che nel linguaggio comune entrò in uso l'espressione
«fare un quarantotto», per indicare una situazione di grave
scompiglio e confusione.
Nello Stato Pontificio, come in tutta Italia e in Europa, si
andavano delineando varie tendenze politiche che in precedenza
non avevano avuto modo di esprimersi, sia perché i pochi mezzi
d’informazione erano controllati con la censura da parte del
governo, sia perché era vietata la costituzione di associazioni
civiche con finalità politiche. Tuttavia, nella primavera del 1848
– dopo che, a seguito delle riforme di P io IX fu concessa la
Costituzione (14 marzo 1848) e varato il Parlamento – si for-
marono le Società del Circolo: aggregazioni che avevano lo
scopo di designare le liste degli eleggibili (costituite da persone
appartenenti solo al ceto nobile). Poi sorsero ovunque nello
Stato Pontificio i Circoli popolari, sull’esempio di quello roma-
no costituito nel novembre 1847. A Macerata tale aggregazione
politica ebbe numerose adesioni, soprattutto da parte di coloro
che avevano partecipato alle lotte risorgimentali. Il Circolo
popolare all’origine si prefigurava come una sorta di partito che
associava persone favorevoli sia alla modernizzazione dello
Stato, sia ad una visione più laica e democratica della politica.

La I guerra d’Indipendenza
Nel febbraio 1848, la famosa invocazione papale «Benedite,
o grande Iddio, l’Italia», nonché la proposta di una Lega difen-
siva tra gli Stati italiani, infiammò ancor più gli animi di tutti i
patrioti. Mentre le
notizie che arriva-
vano dai vari Pae-
si, in particolare
dall’Austria, in cui
era in atto una for-
te rivolta, spinsero
i patrioti di Vene-
zia e Milano ad
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insorgere contro gli austriaci.
L’insurrezione dei milanesi contro le truppe austriache,
comandate dal feldmaresciallo Radetzky, ricordata come “le
cinque giornate“ di Milano, fu uno dei momenti culminanti del
1848, davvero drammatici e memorabili della lotta dei popoli
contro l’oppressione. Vista la debolezza austriaca, il 23 marzo
1848, il Piemonte dichiarò guerra all’Austria. Era l’inizio della
Ia guerra d’Indipendenza.
Ad operazioni militari già iniziate, il Papa diede ordine al
generale Giovanni Durando, comandante dell’esercito pontifi-
cio, di avvicinarsi ai confini con il Lombardo-Veneto per difen-
dere il territorio dello Stato. Tale decisione fu interpretata come
predisposizione dello Stato Pontificio alla guerra contro
l’Austria, invece di una misura di sicurezza per il controllo delle
frontiere dello Stato. Il generale Durando, per forzare la volontà
di Pio IX, il 5 aprile, diramò da Bologna un ordine del giorno
con l’intento di stimolare le truppe, da lui comandate, a com-
battere contro l’Austria e di incentivare l’arruolamento dei vo-
lontari.
In seguito al proclama di Durando, che Pio IX sconfessò, le
truppe dei volontari romagnoli attraversarono il Po (che segnava
allora il confine tra lo Stato Pontificio e il Lombardo-Veneto) e
si scontrarono con gli austriaci. Alle truppe piemontesi, a quelle
dello Stato Pontificio e dei numerosissimi volontari, accorsi da
tutta l’Italia, si unirono anche le guarnigioni del Granducato di
Toscana e del Regno delle due Sicilie.
Nei primi giorni di aprile giunse a Macerata un corpo di
volontari romani, al comando del generale Ferrari, «onde pro-
seguire fino ai confini dello stato e ciò per volere dell’ama-
tissimo nostro Sovrano P io IX». Il generale, con l’aiuto del
gonfaloniere Giacomo Ricci, cercò di sensibilizzare i giovani
all’arruolamento volontario, tanto che «Ottanta circa furono
quelli che dava questa Città di Macerata, e si arruolavano come
Tenenti i Signori Luigi Dottor Pianesi, eletto Giudice nel
Tribunale di Ravenna, e l’avvocato Cesare Bianchini che ven-
nero confermati dal General Ferrari in questo loro grado». Si
costituì, così, una compagnia di volontari al comando del capi-
tano marchese Filopolito Consalvi. Il 7 aprile il corpo dei
volontari si diresse nei pressi dei confini dello Stato Pontificio,

45
vicino al Nord Italia. Antonio Natali racconta così la partenza
di questo contingente:
«alle tre antemeridiane suonò a raccolta la generale, per cui
ogni civico si unì alla sua Compagnia, e fattane dai respettivi
capitani la regolare rassegna, si mossero tutti per la via di
Recanati. La Banda dei Dilettanti era di già preparata, e la
città tutta in movimento come fosse di pieno giorno. Circa le
trè e mezzo ante meridiane la Legione militare si mise in
marcia, avendo ogni cinque o sei coppie una lanterna a cima
delle bajonette, mentre i cittadini con fuochi e torcie a vento
ne illuminavano lo stradale fino alle trè Porte. La Banda si
era collocata innanzi una brillante schiera di giovani Donne
nel numero all’incirca di cinquanta vestite tutte con ele-
ganza, e fregiate di coccarda nazionale con torcia di cera in
mano accompagnando così il Vessillo della Legione viatrice
fino alla Casa della Missione, e dando felici augurj, di
vittoria sollecita su i barbari stranieri a quei valorosi Gio-
vani, che esponevano i loro Petti in difesa della Indipen-
denza Italiana, i quali con ripetuti applausi si congedarono,
ringraziando le schiere del sesso gentile, e gridando vivano
le donne Maceratesi, viva la Civica di quest’ospitale Città,
viva Pio IX, viva l’Italia. Con queste espressioni si dipar-
tirono accompagnati con torcie da molti cittadini fino al
Fiume Potenza, ove si trovò la Banda dei Dilettanti di
Montecassiano, che con armonioso concerto li seguirono per
varie miglia».
Mentre il corpo dei volontari de llo Stato Pontificio era in
viaggio verso il Nord, giunse all’improvviso come doccia fred-
da l’altolà di Pio IX. Il Papa, di fronte all’autonoma iniziativa
dei generali dell’esercito pontificio e al possibile scisma minac-
ciato dalle nazioni di lingua tedesca, in particolare dall’Austria,
proclamò la neutralità della Santa Sede in questo particolare
conflitto, che vedeva cattolici contro cattolici. Dopo la presa di
posizione del Papa, il Re di Napoli e il Granduca di Toscana
ritirarono le loro truppe dai campi di battaglia del Lombardo-
Veneto, indebolendo così il fronte antiaustriaco. L’allocuzione
di Pio IX, del 29 aprile, fu interpretata non solo come il ritiro
del papato dalla guerra contro l’Austria, ma soprattutto come
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un’ostilità alla causa nazionale italiana. Da questo momento
decadde il mito del Papa liberale, riferito a Pio IX, e il Risor-
gimento assunse un carattere antipapale.
Il corpo dei volontari romani, comandato dal generale Fer-
rari, sostenuto solo da grande entusiasmo, aveva scarsa pre-
parazione militare. Infatti, questi giovani volontari – arrivati nel
Lombardo-Veneto per combattere gli austriaci, al primo vero
scontro prolungato e cruento, avvenuto in località Cornuda,
contro un esercito molto organizzato – furono sconfitti e co-
stretti a ritirarsi nella città di Treviso. Durante la ritirata furono
rivolte severe critiche al generale Ferrari: si parlò anche di
tradimento; così i volontari confusi e storditi, «presi dalla paura
uno alla volta incominciarono a defezionare». Tornarono a Ma-
cerata Emilio Perozzi, Gianbattista Salvatori, Calisto Cali-
sti, Ciro e Scipione Lupi, Francesco Marcucci, Luigi Pianesi
ed altri. Al loro arrivo furono accolti con urli e fischi; si chiese
anche di depennarli dalla Guardia civica, mentre «dovettero
restare nascosti per non essere dal Popolo insultati, per cui,
dietro il consiglio dei loro amici, e Parenti con nuovo foglio di
via se ne tornarono al quartier generale per riprendere il servizio
e lavare anche col sangue la macchia al loro onore».
I volontari maceratesi ritornati sul campo di battaglia dovettero
vincere la naturale paura
della morte e sostennero
altri scontri impari con-
tro le truppe austriache
bene addestrate.
Sul Monte Berico,
nei pressi di Vicenza,
videro morire il coman-
dante del loro battagli-
one, Del Grande, e loro
stessi furono sfiorati dalla morte. In questa occasione, un altro
maceratese, Cesare Bianchini, assunse il comando della com-
pagnia di volontari che condusse alla difesa di Vicenza; ma
questa città, l’11 giugno 1848 fu costretta alla capitolazione,
poi, nel mese di agosto, il generale piemontese Salasco, firmò
l’armistizio.

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Così i soldati del corpo dei volontari romani tornarono defi-
nitivamente ai luoghi di origine: i maceratesi furono attesi que-
sta volta con molto calore, come se avessero vinto la guerra:
infatti la convinzione comune era che «La causa dell’indipen-
denza italiana non è ancora perduta». Il Natali, come al solito, ci
offre la narrazione del ritorno a Macerata dei volontari:
«proseguirono il loro viaggio per questa Città di Macerata,
ove già si suonava a raccolta il tamburro per chiamare sotto
le armi l’intero Corpo della civica. Alle 4 ante meridiane
partiva in carrozza all’incontro di questi suoi confratelli il
colonnello con il suo ajutante maggiore. Anche il maggiore
Ugolini a cavallo alla testa del Battaglione civico con Banda
e tamburri si metteva in marcia per la Villa di Potenza, e
molti Legni e vetture di cittadini erano di seguito. Qui il
convoglio si soffermò nella Casa del parroco perfino che
giunsero i valorosi reduci confratelli, che furono accolti fra
gli evviva del numeroso Popolo ivi accorso. Dopo essersi
alquanto ristorati con qualche confortino, e con vino gene-
roso, gli officiali dello stato maggiore civico salutarono ed
acclamarono per Capitano il prode tenente Cesare Bianchini
al quale consegnarono l’ufficiale brevetto, ed insieme al
tenente Quartier Mastro Luigi Pianesi che guidavano questo
eletto Drappello ripresero il loro viaggio per Macerata. Già
gli abitanti tutti di questa città vestiti a festa ricolmavano le
vie, che dovevano trapassare questi loro confratelli. Tappeti
e bandiere ornavano le facciate delle case, e Palazzi e corone
e mazzi di fiori erano preparati per gittarsi ai loro piedi. Era
già tramontato il sole. La gran strada di porta Romana fino ai
Tre Archi era ripiena di cittadini e di eleganti signore, quan-
do alla mezz’ora di notte, essendosi già illuminate le con-
trade interne della città, preceduto dalla banda e dai frago-
rosi tamburri con il seguito del corpo civico, e dei numerosi
legni che erano andati ad incontrarlo, rientrò fra un’immenso
applauso questo eletto Drappello accompagnato fino alla
Piazza Maggiore, ove venne ciascuno di quelli che ne face-
vano parte preso in mezzo dai parenti ed amici, che ba-
gnandolo di calde lacrime e stringendolo al seno con affet-
tuosi baci li ricondussero alla propria abitazione e così ebbe
termine questa festa veramente Patriottica».
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Le elezioni per la Costituente
Dopo la sconfitta dei giovani volontari, caduto il mito del
Papa liberale, nell’immaginario collettivo dei patrioti se ne
formò un altro: quello di un Papa reazionario e principale nemi-
co dell’unità d’Italia. Nello Stato Pontificio la situazione econo-
mica e politica peggiorava rapidamente. Nonostante la conces-
sione della Costituzione e l’avvio dell’esperienza parlamen-
tare, i governi avevano vita breve, a causa di un’evidente
conflittualità tra membri laici, favorevoli all’idea di uno Stato in
guerra con l’Austria, e il clero che rifiutava tale impostazione.
In pochi mesi si susse-
guirono i governi presie-
duti da Mamiani, da Fabbri
(in questa occasione dila-
garono i disordini) e da Pel-
legrino Rossi, il quale era
deciso a riprendere il con-
trollo del territorio e a li-
mitare le funzioni del Par-
lamento dello Stato Pontifi-
cio.
Il 15 novembre 1848, la
grave crisi politica sfociò
nell’assassinio di Pellegrino
Rossi, da parte di un gruppo
di reduci della fallita spedi-
zione nel Lombardo-Veneto.
Dopo due giorni, sotto la pressione della piazza che voleva
un governo più democratico, il Papa nominò monsignor
Emanuele Muzzarelli capo del nuovo governo. Ciò nonostante,
Roma fu investita da molteplici e violenti tumulti, che costrin-
sero il Papa a rifugiarsi a Gaeta. La Giunta provvisoria di Stato
(formata dal principe Tommaso Corsini di Roma, dal conte
Francesco Camerata di Ancona e dall’avvocato Giuseppe Gal-
letti di Bologna) il 23 dicembre nominò un altro governo,
guidato nuovamente da monsignor Emanuele Muzzarelli, con il
compito di promuovere una consultazione popolare per l’ele-
zione dei membri dell’Assemblea costituente. Il ricorso al
«voto universale del popolo [maschile]», era invocata soprat-
49
tutto dai numerosissimi Circoli popolari. Con ciò fu avviato il
primo atto che avrebbe poi portato alla costituzione della
Repubblica romana.
Nel frattempo, nella notte fra il 26 e il 27 novembre era
arrivata a Macerata, una staffetta da Roma con la notizia della
fuga di P io IX. Il Comitato di sicurezza, costituito nell’estate
precedente (composto dal Delegato apostolico Milesi, da Carlo
Chiappini ff. di Gonfaloniere e da Filopolito Consalvi, Luigi
Pignotti, Patrizio Gennari, Teodoro Paoletti, e Gerardo
Luciani), emanò un avviso a tutti i cittadini prescrivendo ordine
e calma. Mentre il Circolo cittadino, accusando i nemici della
libertà dei fatti accaduti, assicurava il mantenimento dell’ordine
(pur riservandosi libertà di azione) desiderato «da tutti i veri
amici dello Stato e dell’Italia». Il Delegato apostolico, data la
situazione incerta, se ne andò in Ancona.
Il 22 dicembre 1848 in città fu pubblicato un manifesto
della Giunta di Stato in cui si
annunciava la prossima convo-
cazione della Costituente, ov-
viamente dopo le elezioni di cui
si doveva fissare la data.
Intanto a Ravenna il generale
Giuseppe Garibaldi aveva costi-
tuito la Legione Italiana, che egli
stesso voleva dirigere verso
Roma. Il Ministro delle Armi,
Campello, accogliendo le diffuse
preoccupazioni, ordinò al gene-
rale di portare i suoi volontari
nelle Marche, al Lido di Fermo,
dove avrebbero potuto fermarsi
e “organizzarsi”. Dato che la Le-
gione doveva passare per il Maceratese e che i “garibaldini” non
godevano di buona fama, la notizia allarmò non poco la
popolazione, mentre il Circolo popolare maceratese faceva
pressione per avere la Legione in città. Per assicurarsi delle
intenzioni del generale, il Comitato di pubblica sicurezza
maceratese inviò a Foligno (dove si trovava la Legione) il
Gonfaloniere, il Capitano dei Carabinieri e il Capitano della

50
Civica, nonché il dottor Bordoni. Questi rappresentanti furono
rassicurati che Giuseppe Garibaldi era stato «assoldato dal
Governo» e che le intenzioni della colonna di garibaldini, che
non erano «assassini come si credeva », sarebbero state ol-
tremodo pacifiche.
Il 1° gennaio 1849 arrivò a Macerata la colonna comandata da
Garibaldi. Questi fu accolto con calore dai componenti del
Circolo popolare e fu al-
loggiato all’Albergo della
Pace, mentre i circa 500
garibaldini furono accolti
nell’ex convento di San
Domenico.
Nello stesso giorno in
città fu pubblicata la convo-
cazione delle elezioni per i
membri della Costituente,
prevista per il 21 gennaio;
ciò rappresentò di fatto l’an-
nuncio della trasformazione
dello Stato Pontificio in una
Albergo della Pace repubblica.
Tale disposizione provocò delle reazioni con le dimissioni
degli amministratori, l’allontanamento del Delegato apostolico
e al contempo la richiesta a Garibaldi, da parte del Circolo
popolare, di rimanere in città per mantenere l’ordine pubblico.
A peggiorare la situazione, il 14 gennaio arrivò la comunica-
zione ufficiale del “monitorio” con cui Pio IX imponeva la
scomunica agli aderenti della repubblica.
Luigi Pianesi, magistrato nel Tribunale di Bologna, fu in-
serito nella rosa degli eleggibili consigliati dal movimento
liberale. Egli – ritenendo che l’aver ottenuta la candidatura già
fosse un successo personale, pensando che fosse improbabile la
sua elezione «per non essere conosciuto dal basso popolo» – si
mise in viaggio per Macerata, nella speranza di incontrare il
generale Garibaldi. Speranza che divenne realtà. Infatti il dottor
Giulio Crudeli, che contattò il Pianesi durante il suo esilio
fiorentino raccogliendo le sue confidenze, a tal proposito scri-
veva: «Luigi Pianesi in quella memorabile occasione fece le più

51
festose accoglienze al prode Generale, e strinse con lui la più
cordiale amicizia. Non passava giorno senza che lo si vedesse in
casa del Pianesi, passeggiando spesso con lui per i giardini della
sua villa. Fu in quell’epoca ch’egli scrisse e pubblicò la famosa
epigrafe in onore di Garibaldi».
Durante le operazioni di voto del 21 e 22 gennaio, che
avrebbero portato all’elezione dei sedici deputati rappresentanti
la provincia di Macerata, si sfiorò la tragedia, quando a Borgo
San Giovanni Battista trenta-quaranta persone – «vinte dal vino
e forse sedotte da perturbatori mal intenzionati a cima del Borgo
stesso gridavano “Viva Pio IX, morte al generale Garibaldi e ai
suoi legionari”» – provocarono la reazione dei garibaldini, che
volevano incendiare le abitazioni degli agitatori. Col cavallo
accorse immediatamente lo stesso Garibaldi (lasciando di gio-
care a carte al Caffè del Corso) che insieme alla Guardia Civica
impedì la rappresaglia, mentre i carabinieri arrestavano quattro
dei più turbolenti.
Le elezioni per la Costituente romana per Garibaldi furono
deludenti. Egli infatti fu il tredicesimo dei sedici eletti, con soli
2.069 voti (nonostante i voti delle truppe garibaldine presenti a
Macerata). Tra gli eletti vi furono i maceratesi Benedetto Zam-
pi (3.928), Sante Palmieri (3.460) e Cimone Santarelli (3.232).
Mentre a Bologna fu eletto
anche Luigi Pianesi con un
notevole numero di con-
sensi, ben oltre undicimila.
Così gli eletti partirono
per Roma, come pure la Le-
gione e Garibaldi, che al-
l’atto di partire volle indi-
rizzare ai cittadini macera-
tesi una lettera, con cui pro-
metteva di dedicare alla cit-
tà «il primo fatto d’armi in
cui potrà dirsi della legione
che ha ben meritato della
patria».
Come Preside della pro-
vincia di Macerata fu no-

52
minato Dionisio Zannini, il quale arrivò in città il 25 gennaio e
indirizzò ai maceratesi un’esortazione alla concordia scacciando
«via le egoistiche gare, via le ambizioni tiranniche, via gli odi
antiumani, via i partiti funesti, via le finzioni giudaiche ».
Zannini stesso fu festeggiato dai circoli liberali, ma non man-
carono critiche da parte dei liberali più estremisti, che ini-
ziarono a fare manovre per farlo rimuovere da Preside.

La Repubblica romana
Il 9 febbraio 1849, a Roma i membri della Costituente con
apposito decreto legiferarono decaduto il potere temporale del
Papa e costituita la Repubblica romana. Tale decreto arrivò a
Macerata «col mezzo di staffetta straordinaria circa l’Ave Maria
del dì 10 di questo mese di Febbraio, e sull’istante veniva pub-
blicato dal Preside col mezzo del Circolo Popolare e della Po-
lizia che immediatamente lo fecero festeggiare col suono della
Banda e del Concerto, ed il popolo con molteplici evviva salu-
tava la nuova Repubblica Romana nella Piazza Maggiore, e per
le vie della città, che furono spontaneamente illuminate, quindi
al Teatro furono ripetuti gli stessi plausi, e vennero acremente
riprovate dal Preside le ingiuriose voci di alcuni che gridavano
morte ad alcune classi di Cittadini da Essi credute contrarie al
progresso liberali». Il cronista Natali, che aveva «non nascoste
simpatie rivoluzionarie», così continuava nel racconto di quegli
avvenimenti: «Nella notte furono tolte dai luoghi pubblici del
Governo gli stemmi pontifici e da alcuni fanatici fu piantato
nella Piazza Maggiore un albero di cipresso come simbolo di
Libertà». Sappiamo che il cipresso fu rubato all’imbocco del
vialetto che conduceva alla colonia Tomassetti [oggi via Ison-
zo], tagliandolo da una proprietà dei Costa, dove rimase un
cipresso gemello. Il furto fu poi stigmatizzato dal Preside, che
lo definì simbolo adatto «più ad un cimitero che ad un trionfo».
Raccontava inoltre il Natali: «Nella mattina appresso il suo-
no delle campane e lo sparo de mortarj annunciava la Festa del
Popolo; quindi l’intero Battaglione Civico recavasi alla Piazza
accompagnato dalla Banda e Concerto, ed ivi dopo varie mili-
tari evoluzioni eseguite da ben regolate scariche a Festa, il
Preside da una finestra della gran Sala del suo Palazzo parlò al

53
Popolo del grande atto avvenuto e della dignità della Repub-
blica, dimostrandone il suo vero significato». I festeggia-
menti continuarono poi con l’estrazione di una tombola, in una
città illuminata a festa, mentre al suono della banda mu-
sicale «si formò una Festa da ballo intorno all’albero della liber-
tà».
L’11 marzo 1849 si elesse anche il nuovo Consiglio Comu-
nale, composto da quaranta membri, tra cui Cesare Bianchini,
Luigi Giacomo Lupi, Perozzi Emilio e Pianesi Benedetto, men-
tre fu eletto Gonfaloniere il liberale moderato Carlo Chiap-
pini.
A Roma nell’attività parla-
mentare ebbe un ruolo impor-
tante Luigi Pianesi: era molto
stimato dal triunvirato, dal quale
fu nominato presidente della
Commissione del Ministero del-
l’interno, una delle commissioni
più importanti della Repubblica.
E ricoprì anche altri incarichi
importanti. Il Pianesi, pur essen-
do molto impegnato, non si
dimenticava della sua città. Egli
si sentiva maceratese fino in
fondo, era molto attaccato al-
Luigi Pianesi la sua terra e lo manifestava
apertamente. Al fratello Benedetto
scrisse un giorno: «Dite al Gonfalo-
niere, che io quantunque non invitato,
quantunque non deputato di cotesta
Provincia ricordo di essere Macera-
tese, e come tale mi corre stretto ob-
bligo d’interessarmi per la Città e Pro-
vincia». E in altra occasione aggiun-
geva: «Ho sommo interesse, che la
Città nostra non sia inferiore ad alcuna
per considerazioni del Governo, e che
quelli che vorrebbero calpestarla sem- Benedetto Pianesi
pre più si convincano della Loro nullità».

54
Uno dei maggiori impegni
(da deputato) di Luigi Pianesi
riguardò la difesa del preside
della provincia di Macerata,
Dionisio Zannini, il quale era
continuamente attaccato dai re-
pubblicani più oltranzisti, che
trovavano nei deputati mace-
ratesi: Zampi e Santarelli, il lo-
ro punto di r iferimento in
seno alla Costituente romana.
Da questa fazione Zannini
veniva accusato di essere un an- Dionisio Zannini
tirepubblicano, come pure un organizzatore del partito
realista (favorevole cioè alla monarchia costituzionale) che si
adoperasse a far tornare al trono P io IX. Tra coloro che
contestavano Dionisio Zannini, oltre a Zampi e Santarelli (a cui
si unì successivamente anche il deputato Montanari), vi erano i
maceratesi Alessandro Cupelli, Tommaso Bonucci, Ciccognani,
«l’ispettore» Gianfelici, «il medico» Luciani e Antonio Paga-
mici.
Luigi Pianesi cercò di neutralizzare queste pressioni sul
triunvirato, esercitate per ottenere quantomeno il trasferimento
di Zannini altrove. E per difendere lo stesso preside, egli attivò
a Macerata una rete di rapporti, che aveva i suoi punti di
maggior forza nei dipendenti del Tribunale e, in particolare, nel
suo presidente Borgognoni, nel gonfaloniere Carlo Chiappini e
nel colonnello Lorenzo Lazzarini Compagnoni, comandante
della Guardia civica, nonché nella componente moderata del
Circolo popolare con a capo Castelletti. Inoltre, il Pianesi a
Roma si serviva della leva politica; al riguardo in una sua lettera
troviamo scritto: «mi sono formato un partito, che a qualunque
mia richiesta, posso contare, si presenti al Triunvirato per soste-
nere il Preside, e smascherare ad un tempo le altrui imposture.
Le persone ineccezionabili che mi assistono sono Onofri, Murri,
Colocci, Castelli di Loreto, Niccolini ed anche qualche altro.
Difficilmente i nemici trionferanno. É bene che il Preside con
brevi lettere informi di continuo il Governo delle sue opera-
zioni, che gli possono fruttare maggiore credito».

55
Pianesi, pur non condividendo le convinzioni politiche di
Zannini, lo stimava sinceramente per il suo passato di patriota,
per le sue capacità di mediazione e per l’assenza di fanatismo. Il
motivo prevalente del suo impegno a difesa di Zannini, riguar-
dava la considerazione che lo stesso preside maceratese poteva,
da un lato, controllare meglio le frange estreme dei repubblicani
inclini ad atti violenti (come le bande degli ammazzarelli di
Senigallia o dei sanguinari di Ancona e di Jesi) e, dall’altro,
combattere le cosche armate, composte da elementi che pero-
ravano il ritorno del Papa e svolgevano la loro azione specie
nell’Ascolano. Certamente una sorta di lavoro di squadra,
organizzato dal Pianesi in collaborazione con il fratello Bene-
detto e gli altri personaggi citati, salvò lo Zannini e la città da
ulteriori difficoltà.

Il Corpo di spedizione francese


Come previsto dallo stesso Pianesi, il 25 aprile 1849, la
Francia, con un corpo di spedizione di 10.000 soldati, giunto al
porto di Civitavecchia, accorse in aiuto dello Stato Pontifico,
mentre la Costituente
romana stava discuten-
do una delle più avan-
zate costituzioni dell’e-
poca.
Il 30 aprile, a Porta
San Pancrazio, ci fu il
primo scontro tra le trup-
pe francesi e i garibaldi-
ni, i quali vinsero la bat-
taglia. E Garibaldi, come aveva promesso, volle dedicare que-
sta vittoria ai maceratesi.
É interessante notare come i deputati del Maceratese godes-
sero della fiducia del triunvirato: infatti, dopo lo sbarco francese
a Civitavecchia, quando ormai era chiaro che i francesi mede-
simi avrebbero attaccato Roma, il triunvirato emanò le dispo-
sizioni per la difesa della città. In ognuno dei quattordici rioni
romani, fu nominato un rappresentante dell’Assemblea e un
capopopolo, per organizzare la difesa del territorio loro affidato

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e per la costruzione delle barricate. Su quattordici rioni, sei
furono affidati a marchigiani e ben cinque a membri del-
l’Assemblea eletti a Macerata: Patrizio Gennari (Rione III,
Colonna), Orazio Antinori (Rione V, Ponte), Giulio Govoni
(Rione IX, Pigna), Cimone Santarelli (Rione XI, Sant’Angelo) e
Massimo Allè (Rione XII, Trastevere). Inoltre alcuni deputati
del Maceratese furono nominati membri in diverse commis-
sioni: Politi nella Commissione affari esteri, Montanari in quel-
la per il commercio ed i lavori pubblici e Palmieri, insieme a
Pianesi, nella Commissione degli affari interni.
Luigi Pianesi avrebbe voluto partecipare personalmente ai
combattimenti contro i francesi tra le barricate, ma fu richi-
amato all’ordine, perché i deputati (meno coloro che rico-
privano incarichi militari) dovevano restare in seduta perma-
nente, onde assumere eventuali iniziative e anche perché i lavori
in Assemblea dovevano continuare per l’approvazione della Co-
stituzione repubblicana, che si stava «discutendo in mezzo al
tuono dei Cannoni». Luigi, poi, in merito a tale approvazione,
un po’ sarcasticamente asseriva ancora: «Non manca chi dice
esser cosa poetica. I poeti sono in maggior numero».
Tra i difensori della repubblica troviamo Emilio Perozzi,
Filippo Perozzi, Enrico Perozzi, Ciccarelli Sigismondo, Antonio
Gatti, Luciano Bizzarri, Domenico Angelucci e Luigi Marzari.
A Macerata la notizia dello sbarco del corpo di spedizione
francese a Civitavecchia, provocò oltre allo sconcerto una riu-
nione unitaria di tutti i Circoli cittadini, che si pronunciarono in
favore della resistenza all’invasione. Tale pronunciamento fu
condiviso anche dall’amministrazione comunale e dal Preside
Zannini. Il 1° maggio lo stesso Zannini costituiva un nuovo Co-
mitato di pubblica sicurezza, composto oltre che da lui, dal
gonfaloniere Chiappini, dal comandante della Guardia civica
Lazzarini, dal maggiore Ugolini, dal maggiore dei carabinieri
Olimpiade Recani, da Luigi Tombesi comandante della piazza,
da Giovanni Mauruzi direttore di Pubblica sicurezza, dai presi-
denti dei Circoli della città e da Luigi Pignotti del Comune. Il
Circolo popolare, poi organizzò per conto proprio le «bande di
guerriglieri», che sarebbero entrate in azione in caso di occu-
pazione del nostro territorio.

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Gli austriaci scesero in Romagna e verso la fine di maggio
occuparono Ancona. A Macerata dilagarono le voci allarmisti-
che, mentre cominciarono le diserzioni e nel territorio mar-
chigiano si verificarono alcune “insorgenze”. In città si rinfor-
zarono le guardie alle porte, che vennero chiuse dopo aver fatto
entrare le donne e i bambini della campagna, ma lasciando i
contadini di fatto indifesi. Quest’ultimi allora cominciarono a
protestare energicamente, tanto da far riaprire anche per loro le
porte.

La fine della Repubblica romana


La sera del 31 maggio gli austriaci erano a Villa Potenza e
Dionisio Zannini, dopo aver fatto pubblicare una protesta
formale, partì per Tolentino «con un semplice fagottino sotto il
braccio» lasciando nella città il rimpianto per la sua azione mo-
derata che aveva frenato le violenze che altrove si erano verifi-
cate. Le Marche erano ormai abbandonate a se stesse, mentre le
«bande di guerriglieri», che avrebbero dovuto combattere le for-
ze occupanti, non si fecero vedere.
Nel primo mattino del 1° giugno 1849 le forze austriache,
composte da alcune centinaia di fanti e da ottanta dragoni, si
presentarono alle Tre Porte [oggi inizio di corso Cavour] e si
accamparono nelle vicinanze.

58
Il Comandante austriaco con un suo drappello entrò in città,
si recò dal gonfaloniere Chiappini e lo rimproverò per la fedeltà
della città alla Repubblica romana, comunicandogli gli «articoli
durissimi che non si sarebbero imposti ad una città presa d’as-
sedio». Fu imposto il coprifuoco, proibita la stampa ed abbat-
tuto l’albero della libertà.
L’otto giugno, su specifico ordine del generale Wimpffen, fu
costituita una Giunta provvisoria di governo, con presidente
l’avv. Antonio Gherardi, mentre a consultori furono chiamati il
marchese Giovanni Accorretti, il barone Camillo Narducci-
Boccaccio, Giovanni Battista Ferraguti e il cav. Andrea Poda-
liri. Così Macerata rimase sotto tutela militare austriaca fino al
1857.
Il 25 giugno 1849 mons. Domenico Savelli, in qualità di
Commissario apostolico straordinario per le Marche, prendeva
possesso in Ancona con il compito di ripristinare le vecchie
Delegazioni apostoliche. Intanto fra i Maceratesi ed il governo
pontificio si era creata una frattura che non fu più risolta.
Le cose per la giovane Repubblica romana ormai volgevano
al peggio, infatti, i francesi, dopo una strenua e sanguinosa
resistenza dei repubblicani, occuparono Roma decretando la
fine della repubblica. L’Assemblea romana del 30 giugno 1849
decise (in opposizione alla proposta mazziniana che optava per
resistere) di sospendere la resistenza militare (permettendo nel
contempo al generale Garibaldi di allontanarsi da Roma con le
sue truppe) e di restare «al suo posto» in attività, nel rispetto del
mandato popolare.
Nella difesa di Roma, morirono 134 marchigiani dei quali
cinque maceratesi, mentre molti dei repubblicani che avevano
partecipato all’esperienza repubblicana e che erano sfuggiti agli
arresti, presero la via dell’esilio. Tra questi Luigi Pianesi ed Et-
tore Perozzi che si recarono nel Granducato di Toscana, Cimone
Santarelli e Felice Peretti che andarono a Genova.
Il malumore dei maceratesi, verso l’amministrazione pon-
tificia ripristinata e nei confronti della presenza del contingente
austriaco, fu espresso in occasione della celebrazione del “Te
Deum”, indetto in cattedrale dal Vescovo per il «ristabilito go-
verno». Tale cerimonia, a cui partecipava anche il principe
Ernesto d’Austria, ebbe «scarse voci del popolo». Il malumore

59
fu accresciuto dall’arresto dei repubblicani più accesi: Bene-
detto Zampi, Giacomo Machelli e Pesaresi, avvenuto nell’a-
gosto di quell’anno, nonché dall’operato della Commissione di
Censura per la provincia di Macerata, che destituì dagli uffici
pubblici quanti avevano appoggiato la repubblica.

Nel 1852-1853 nuove trame eversive


Dopo i turbolenti avvenimenti degli anni 1848-49, a Mace-
rata tutto parve tornare alla normalità, ma nell'ombra si stava
sviluppando una nuova organizzazione mazziniana: infatti, su-
bito dopo l’esperienza fallita della Repubblica romana, fu fon-
data l’Associazione Nazionale Italiana con una sede esterna a
Londra ed una interna, clandestina, a Roma. Dalla direzione
romana si dipanavano Comitati locali, retti da Commissari, per
preparare ed organizzare nuove insurrezioni, radicando nei
territori degli antichi regimi italiani il movimento mazziniano, il
quale, nonostante i ripetuti fallimenti, sognava sempre di tra-
sformare l’Italia in una repubblica democratica unitaria, secon-
do i principi di libertà, indipendenza e unità.
Gaetano Latini di Mogliano – che nel
1849 aveva partecipato alla difesa di
Roma – nel Maceratese ricopriva l’inca-
rico di commissario locale dell’Associa-
zione Nazionale, riannodava i contatti
con i patrioti sparsi nel territorio e or-
ganizzava veri e propri corpi militari,
preparando le auspicate insurrezioni co-
ordinate a livello regionale e nazionale.
Nell’opinione pubblica era cresciuta
l’insofferenza per la presenza militare
austriaca non solo nel Lombardo-Veneto
– dove la macchina poliziesca era op-
primente e spietata, fino ad ordinare non
poche esecuzioni capitali di patrioti – ma anche nello Stato
Pontificio, continuando ancora l’assedio messo in atto dagli
austriaci nel ’49 (per cessare solo nel 1857), la polizia era ormai
diventata più efficiente e pervasiva, anche per un’asfissiante

60
legislazione che portava a processi e condanne a morte per
cospirazione.
Nonostante la crescente oppressione poliziesca, alla fine del
1852, si accelerarono le operazioni per preparare un’ondata
insurrezionale, che da un punto territoriale doveva propagarsi
«per ogni dove, come in un piano cosparso di polvere pirica».
In ogni provincia fu nominato un Commissario di guerra che
doveva organizzare un reggimento, composto da tre battaglioni
ognuno dei quali era costituito da tre compagnie. Per la provin-
cia di Macerata fu confermato lo stesso Gaetano Latini, che
provvide a nominare i responsabili di tutta la struttura reggi-
mentale, che in codice assunse il nome di Reggimento Deuca-
lione, mentre il Latini stesso assumeva il codice di Decio Bruti.
Supponendo che in tutte le province l’organizzazione degli
insurrezionalisti fosse già pronta – pur tra non pochi contrasti
per le diverse opinioni dei dirigenti – Mazzini volle tentare di
far insorgere Milano, dove l’insofferenza per gli austriaci era
più acuta. Da qui la notizia, portata da messi da città a città,
avrebbe dovuto accen-
dere le insurrezioni ne-
gli altri territori. Nel
pomeriggio del 6 feb-
braio 1853 quasi un
migliaio di uomini, tra
artigiani ed operai, ar-
mati solo di coltelli e
pugnali, diedero l'as-
salto ai posti di guar-
dia e alle caserme austriache, sperando pure che i soldati unghe-
resi inquadrati nell'esercito austriaco si ammutinassero, in nome
delle loro aspirazioni all'indipendenza nazionale da Vienna e
collaborassero con loro.
Ma ciò non avvenne, come pure non arrivarono le armi
promesse e non si verificò l’aiuto concordato con un ingegnere
del Comune, che con i suoi operai avrebbe dovuto alzare le
barricate e tagliare i tubi del gas dell’illuminazione, per lasciare
al buio la città. Gli insorti si scontrarono con le truppe del
maresciallo Radetzky dopo essersi divisi in molteplici gruppi
per le strade della città, sperando di coinvolgere la popolazione;

61
ma ciò non si realizzò. Così la sanguinosa rivolta fallì e si
concluse il giorno successivo, anche per l’arrivo dei rinforzi
austriaci. Furono arrestati quasi novecento insorti dei quali se-
dici furono condannati a morte.
Nei giorni precedenti erano stati intercettati messaggi che
facevano presumere l’insurrezione non solo a Milano ma anche
nelle altre città dei diversi Stati, compreso quello pontificio, e
dovunque gli agenti delle polizie erano all’erta, così dopo il
fallimento milanese le altre insurrezioni non si innescarono,
mentre scattarono subito le perquisizioni, gli interrogatori dei
patrioti già individuati e gli arresti in tutte le città.
A Macerata una lettera anonima aveva già messo in agita-
zione la polizia pontificia, che fu allertata, perché avvertiva di
un possibile attentato durante la processione del Venerdì Santo.
In città si vociferava anche di possibili sbarchi clandestini di
fuoriusciti lungo le coste e tutto ciò contribuiva ad aumentare lo
stato di agitazione delle autorità locali e regionali.
Così scattarono le operazioni di polizia con numerose per-
quisizioni e controlli, che portarono a molti arresti: tra cui quelli
di Gaetano Latini di Mogliano, del conte Saverio Grisei di Mor-
rovalle, dei maceratesi avv. Vincenzo Taccari, già membro del
Comitato del Circolo popolare nel 48-49, del commerciante
Emilio Castelletti, già volontario nella guerra dell'indipendenza
del Lombardo-Veneto, del figlio avv. Giovanni Castelletti, che
nel '48-’49 fu presidente del Circolo popolare, degli orefici Et-
tore Giacometti e i fratelli Francesco e Alessandro Bavai, non-
ché di Luigi Carancini di Recanati, deputato alla Costituente, ed
anche un certo Mongardini, ex-soldato pontificio, ritenuto una
spia, e Mariano Fioravanti entrambi di Loreto. Tutti gli arrestati
furono trasferiti nelle prigioni di Ancona, in attesa di un som-
mario processo, che si concluse con le condanne a morte per
impiccagione di undici persone, tra cui Gaetano Latini di Mo-
gliano, e i maceratesi Emilio Castelletti, Ettore Giacometti,
Francesco Bavai e Vincenzo Taccari, Antonio Giannelli di An-
cona, il conte Francesco Grisei di Morrovalle, Fantini Luigi di
Senigallia, Luigi Carancini di Recanati, Antonio Mongardini e
Mariano Fioravanti di Loreto. I condannati furono ristretti nel
forte di Ancona e, dopo un'attesa interminabile con continui ri-
mandi dell'esecuzione e la messa in scena della sua attuazione,

62
le condanne a morte furono tra-
sformate in condanne al carcere a
vita. Per avere un’idea degli arre-
stati poi condannati, solo nelle
carceri di Ancona, Fermo ed A-
scoli Piceno, alla fine del 1853, il
numero dei prigionieri politici
marchigiani era di ben 242.

La Società Nazionale Italiana


Dopo i tanti fallimenti della
strategia insurrezionalista mazzi-
niana, contestualmente all’ascesa
di Cavour al potere, a partire dal
1854, si realizzò un graduale orientamento verso la leadership
piemontese, come unica forza nazionale che poteva essere
determinante nella lotta per l'unificazione italiana. Nell’agosto
1857, forse ispirata dal Cavour, promossa da Daniele Manin, fu
fondata la Società Nazionale Italiana, a cui aderirono ex de-
mocratici che ritenevano esaurita l’esperienza mazziniana,
come Giorgio Pallavicino Trivulzio, Giuseppe Montanelli, Ago-
stino Depretis, Giuseppe La Farina e lo stesso Garibaldi. La
sede della società era a Torino e lo stesso Manin ne fu primo
presidente. Mazzini così rimase isolato ed abbandonato da molti
che lo avevano seguito. Molto rapidamente in tutti gli Stati
preunitari i precedenti gruppi insurrezionalisti confluirono in
questo nuovo movimento clandestino di ispirazione più modera-
ta e liberale.
Così avvenne anche in tutte le Marche, compresa Macerata,
dove questa evoluzione patriottica costituì una sua specifica
ramificazione, con Comitati locali che facevano riferimento a
quello regionale di Ancona. Il movimento liberale a Macerata
era «forte, concorde e bene organizzato» e per questo veniva
affermato che «non crediamo di esagerare dicendo che lo for-
mava, di fatto se non sempre per partecipazione vera e propria
all'organizzazione segreta, quasi tutta la nobiltà e la borghesia,
che agli ufficiali austro-papalini chiusero a Macerata le porte
del proprio vecchio circolo di lettura e divertimenti, detto del
Casino, il quale fu perciò da essi prepotentemente invaso; e vi
63
aderivano o simpatizzavano altresì
moltissimi operai e perfino alcuni
preti».
A Macerata, capo indiscusso del
Comitato locale della Società Nazi-
onale Italiana, era l’avv. Vincenzo
Taccari, da non molto uscito dalle
carceri anconetane.
Al contempo la partecipazione
del Regno di Sardegna alla guerra di
Crimea (1853-1856), promossa da
Cavour, aveva aperto le porte ad
un’alleanza con la Francia, contro il
potere austriaco in Lombardia.
Dopo gli accordi segreti di Plo-
mbières (21 giugno 1858) e l’alleanza vera e propria sardo-
francese del gennaio 1859, che provocò un attacco dell’Austria
al Regno di Sardegna, ebbe inizio la seconda guerra d’in-
dipendenza italiana, con le famose battaglie di Palestro, Solfe-
rino e S. Martino. In tale occasione una quantità notevole di
patrioti da tutte le regioni confluirono in Lombardia per unirsi
all’esercito franco-piemontese. Da Macerata partirono una ses-
santina di volontari per combattere contro gli austriaci. Tra
questi vi furono: i fratelli Ciccarelli Cesare ed Ercole, Crudeli
Giulio e Perozzi Antonio.
Le vittorie militari dei franco-piemontesi costrinsero l’Au-
stria a chiedere l’armistizio (Villafranca 11-12 luglio 1859) e a
cedere la Lombardia, che divenne il punto di partenza delle suc-
cessive rivolte con le annessioni al Piemonte dei territori del
Granducato di Toscana e dei Ducati di Parma e di Modena, non-
ché della Romagna pontificia (la Legazione delle Romagne
comprendeva Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì), le cui autorità
lasciarono il potere a governi provvisori filopiemontesi.

Macerata in stato d’assedio


Nel giugno 1859, a seguito degli accordi di Villafranca, gli
austriaci lasciarono Bologna così i membri della Società Nazi-
onale organizzarono una grande dimostrazione popolare favo-

64
revole all’unione con il Piemonte, che costrinse ad allontanare il
cardinale Legato pontificio. Subito dopo insorsero le altre
legazioni di parte delle Marche e dell’Umbria, insurrezioni che
furono spente dalle truppe pontificie e le cui popolazioni
subirono una dura repressione, culminata il 20 giugno 1859
nelle sanguinose stragi di Perugia ad opera delle truppe svizzere
pontificie.
Macerata fu presidiata dall'intera brigata pontificia (che con-
tava 3.855 militari), comandata dal generale De Courten, com-
posta da due battaglioni di bersaglieri, dal primo reggimento di
linea, da uno squadrone di gendarmeria e da due batterie con 12
cannoni. Inoltre Macerata era stata scelta come centro di reclu-
tamento e addestramento di bersaglieri esteri e di «scapestratis-
simi irlandesi», spesso implicati in continue risse.
In questa situazione da parte dei membri della Società na-
zionale era difficile muoversi. Sappiamo da una nota che Quiri-
no Paolorosso rischiava di partecipare «attivamente alle riunioni
segrete dei patrioti che si davano convegno nel sotterraneo della
tipografia Bianchini». Le tipografie erano importanti per la pos-
sibilità di stampare materiale sovversivo e che quindi erano
tenute d’occhio, infatti nella stessa nota si specificava che lo
stesso Paolorosso «in una perquisizione ivi operata dalla polizia
pontificia riuscì a stento a sottrarsi all'arresto».
Agli inizi del 1860 gli incidenti si moltiplicarono, perché i
maceratesi non sopportavano più le angherie quotidiane degli
irlandesi e dei militari pontifici, nonché lo stato d'assedio che,
di fatto, vigeva nella città. Nonostante ciò, i patrioti maceratesi
organizzarono lo sciopero dei fumatori (con ciò intendevano
danneggiare le finanze del governo pontificio), raccolsero fondi
e programmarono varie
manifestazioni a favore
dell'unità, in particolare
dopo il riuscito Plebisci-
to in Emilia Romagna
(marzo 1860) per l'ade-
sione al P iemonte. Il
Comitato di Ascoli Pi-
ceno della Società Nazi-
onale Italiana , in una

65
corrispondenza, infatti, scriveva: «Macerata ha rizzato bandiere,
ha coperto la città di motti e cartelli allusivi, sicché la dimo-
strazione è riusc ita brillantissima colla disperazione de' poliziot-
ti e gendarmi, che sudano ancora oggi a rovesciar bandiere e a
staccare i cartellini e gli stemmi». La diffusione del materiale
inneggiante all'unità d'Italia fu eseguita di notte, senza che nes-
suno se ne accorgesse; questo fece irritare notevolmente le forze
dell'ordine, che operarono numerose perquisizioni nelle abita-
zioni di alcuni nobili, sospettati di essere favorevoli all'unione, i
quali però – essendo stati avvertiti in anticipo da un graduato di
Pausula, tale Nobili – evitarono le gravi ripercussioni che si
sarebbero patite in caso di reperimento di materiale patriottico.
Si verificarono anche alcuni omicidi di soldati irlandesi, uccisi
con le verzelle utilizzate dai bollettai di Borgo San Giovanni
Battista, poi scaraventati giù dalle mura e ritrovati al mattino.
L'ira dei pontifici è testimoniata da un telegramma inviato al
generale De Courten, che comandava la piazza di Macerata, da
parte del comandante in capo dell’esercito pontificio, generale
De Lamoricière: «Vi prego di occuparvi della situazione politi-
ca della vostra provincia e lasciate pure che i vostri ufficiali si
procurino il rispetto da sé, quando si vede che la polizia è trop-
po debole per saper fare il suo mestiere. Se i cospiratori di Ma-
cerata fossero in carcere, come dovrebbero esserci, tutto questo
non accadrebbe. L'affare del fattorino da Caffè dimostra a qual
segno la polizia di Macerata è debole, seppure non è traditrice; e
l'unica cosa che mi sembrò troppa si fu quella somministrazione
regolare di legnate in una caserma. Meglio valeva di finir colui
sull'istante. Non mi intrattenete più di questi pettegolezzi oppu-
re domandatemi per Macerata lo stato d'assedio. Noi arrestere-
mo allora una venticinquina di persone, ne fucileremo una die-
cina e tutto sarà finito». Il fattorino, citato nel telegramma, era
Domenico De Angelis, inserviente al Caffé Grande, il quale fu
accusato da una spia di aver pronunciato parole offensive nei
confronti degli ufficiali pontifici; per questo motivo fu prelevato
e condannato a subire pubblicamente 25 bastonate nella caser-
ma.

66
La spedizione garibaldina dei Mille
Il 5 maggio 1860 un grup-
po di garibaldini con un
colpo di “scena” si impadro-
nirono di due piroscafi a va-
pore: il Lombardo e il Pie-
monte, della Società Rubat-
tino, di cui era azionista il
governo sardo. Si volle far
credere al colpo di mano dei
garibaldini, ma in realtà la spedizione era stata pianificata a
Genova, sotto gli occhi di tutti: ad aprile, infatti, fervevano i
preparativi, con acquisti di materiale, armi, carte nautiche e
quant’altro. È da ricordare che la spedizione fu finanziata con
tre milioni di franchi anche dalla massoneria inglese e pure il
governo sardo ne era a conoscenza, tanto che il plenipotenziario
francese in Piemonte con una lettera protestò con Cavour, nella
quale affermava: «… 1.400 uomini, palesemente reclutati in
tutte le grandi città del Regno, hanno potuto imbarcarsi impu-
nemente a Genova con finalità ostili a un Governo che, al gior-
no d’oggi non risulta in guerra con nessuna delle potenze eu-
ropee».
Dopo una sosta di due giorni nella fortezza di Talamone,
l’11 maggio i due piro-
scafi sbarcarono i garibal-
dini a Marsala, mentre
erano “coperti” da due
navi da guerra inglesi, che
erano lì per “caso”, ren-
dendo impossibile alle
fregate napoletane Strom-
boli e Partenope di cannoneggiare i due piroscafi a vapore con i
garibaldini. Cosa che, invece, riuscì solamente quando questi
erano già sbarcati, senza riportare danni tanto i tiri erano
imprecisi.
Il 20 agosto Garibaldi e le sue truppe attraversarono lo stret-
to di Messina e presero Reggio Calabria per poi arrivare il 7
settembre a Napoli, segnando la fine dello Stato borbonico del
Regno delle due Sicilie. Molti fatti oggi confermano che ci fu la
67
corruzione degli alti ufficiali borbonici, e spiegano così l’irre-
sistibile avanzata di Garibaldi.
Massimo D’Azeglio ebbe a scrivere in proposito: «Nessuno
più di me stima ed apprezza il carattere e le qualità di Garibaldi:
ma quando s’è vinta un’armata di 60.000, conquistando un
regno di 6 milioni, colla perdita di otto uomini, si dovrebbe pen-
sare che c’è sotto qualcosa di non ordinario ...». In Parlamento
Giuseppe Ferrari affermava successivamente: «È possibile, co-
me il governo vuol far credere, che i 1.500 uomini comandati
da due o tre vagabondi possano tener testa a un intero Regno,
sorretto da un esercito di 120.000 regolari?».
Tra i Mille (in realtà erano 1.087) partiti da Quarto nella
notte tra il 5 e il 6 maggio 1860 vi erano 11 marchigiani: Augu-
sto Elia, Lorenzo Carbonari, Carlo Burattini, Riccardo Zanni,
Alessandro Bevilacqua di Ancona, Giacomo Vittori di Monte-
fiore dell’Aso, Feliciano Novelli di Agugliano, Demetrio Conti
di Loreto, Leonardo Gramaccini di Senigallia, Raffaele Rivo-
secchi di Cupramontana e, unico della provincia di Macerata, il
treiese Luigi Bonvecchi.
Però un gruppo di una sessantina di volontari maceratesi, via
terra, si recò nel Regno delle due Sicilie in aiuto alle truppe
garibaldine. Tra questi troviamo il borghigiano Antonio Boni,
Cesare Ciccarelli e Giulio Crudeli.

La Campagna delle Marche


Mentre Garibaldi risaliva la penisola, prevedendo che presto
ci sarebbe stata una resa dei conti,
lo Stato pontificio cercò di rior-
ganizzare il suo debolissimo eser-
cito. Pertanto chiamò in aiuto il
generale francese Lamoricière, il
quale fece un appello alle nazioni
cattoliche per rinforzare l’esercito
stesso con dei volontari. Così gi-
unsero a Roma irlandesi, france-
si, belgi, olandesi, inglesi ed an-
che canadesi; fu inoltre costituito

68
il corpo degli Zuavi composto da giovani di nobili origini, che
portarono gli effettivi delle forze pontificie a 28.000 uomini.
Il 10 settembre fu consegnata una lettera al Lamoricière in
cui si preavvertiva che, se nello Stato Pontificio venivano re-
presse eventuali manifestazioni favorevoli all’unità d’Italia,
sarebbe intervenuto l’esercito piemontese. Una rivolta scoppiata
nel Pesarese – evidentemente preordinata – dette l’atteso pre-
testo per l’annunciato intervento militare. Così, per prepararsi
ad affrontare i piemontesi nelle Marche, il comandante in capo
dell'esercito dello Stato Pontificio con le sue truppe, prove-
nendo da Spoleto, giunse a Macerata e subito proclamò lo stato
d'assedio.
Cavour, temendo che Garibaldi volesse occupare anche lo
Stato Pontificio, sfruttando l’opportunità che gli veniva data
dalla rivolta nel pesarese, fece penetrare l’esercito piemontese
nello Stato Pontificio. Il V Corpo d’Armata, con a capo il gene-
rale Della Rocca, penetrò in Umbria mentre il IV Corpo d’ar-
mata, forte di circa 26.000 uomini, comandato dal generale
Cialdini, l’11 settembre penetrò nelle Marche del Nord, occu-
pando velocemente Pesaro, Urbino, Fano, Senigallia e poi Jesi.
Nonostante le rigidissime disposizioni e la possibilità di es-
ser passati immediatamente per le armi, i membri del Comitato
locale della Società Nazionale Italiana, fecero arrivare al gene-
rale Cialdini informazioni sugli spostamenti delle truppe ponti-
ficie. Infatti il Lamoricière pensò di trincerarsi nella munita
piazzaforte di Ancona, diversificando le sue truppe in più colon-
ne e con diversi
percorsi, cercando
di evitare i pos-
sibili scontri con i
piemontesi. Però,
nella mattinata del
18 settembre, le
colonne pont ifi-
cie furono inter-
cettate dall’eserci-
to piemontese ed attaccate in località Montoro di Castelfidar-
do.Verso mezzogiorno terminò la battaglia, con le truppe
pontificie in fuga e lo stesso generale che le comandava riuscì a

69
mala pena a riparare in Ancona, con un centinaio di uomini, per
tentare un’ultima resistenza.
Quel giorno a Macerata molti patrioti e cittadini, verso le
dieci del mattino, al rumore dei cannoni si precipitarono sulle
mura prospicienti le vallate verso Ancona, per interpretare i
rumori che giungevano mentre era in atto lo scontro finale dei
due eserciti. Solo in serata giunsero notizie confuse sulla bat-
taglia di Castelfidardo, che riportarono però la sicura vittoria
dell'esercito piemontese. Il giorno successivo, a Macerata, dopo
una riunione segreta nel negozio di Paoletti – mentre era ancora
in vigore lo stato d'assedio e prima che giungesse un solo
soldato piemontese – dai liberali maceratesi fu organizzata al
centro della città una grande dimostrazione popolare, durante la
quale furono abbattuti gli stemmi pontifici e fu proclamato «de-
caduto il governo teocratico». Il Delegato apostolico, Achille
Appolloni fu invitato a lasciare la città, cosa che fece dopo aver
redatto una protesta scritta, mentre si dimetteva anche il
Gonfaloniere del Comune di Macerata, Francesco Prosperi.
Per colmare la mancanza di go-
verno nella regione il 12 settembre
con Regio Decreto fu nominato
Commissario straordinario per le
Marche, Lorenzo Valerio, «perfetto
burocrate piemontese» strettamente
ligio al governo sardo, che a sua
volta nominò Commissario per la
provincia di Macerata l’avv. Luigi
Tegas.
A presidiare la città il 20 set-
tembre arrivarono le truppe piemontesi comandate dal generale
Fanti, il quale incaricò il conte Cesare Pallotta, il conte Antonio
Carradori e Vincenzo Taccari di formare una Commissione
provinciale di Governo, la quale subito comunicò la necessità di
costituire la Guardia civica, nonché l'istituzione di una Giunta
provvisoria di governo per la provincia di Macerata (costituita
dagli stessi tre ed integrata con il marchese Giacomo Ricci –
eletto presidente – e dal dottor Francesco Marcucci).

70
La Giunta, dopo aver no-
minato la Commissione pro-
vinciale (equivalente al Con-
siglio provinciale), provvide
anche allo scioglimento del
vecchio Consiglio comunale di
Macerata, nominando la nuova
Commissione municipale.
Questa era formata dalle
seguenti autorità: conte Tom-
maso Lauri, conte Lorenzo
Lazzarini-Compagnoni, conte
Giulio Compagnoni, marchese
Gregorio Ugolini, Nazario Pan-
taleoni, Piero Giuliani, Orazio
Baynes, conte Domenico Graziani, Teofilo Valenti, Alessandro
Mignardi e Luigi Pignotti. La nuova Commissione subito
dimostrò grande apertura, infatti, con un manifesto, invitò la
popolazione a dare offerte per soccorrere i militari feriti «di
ambe le parti», perché «dinanzi alla sventura deve acquietarsi
ogni risentimento politico». Subito dopo, il 25 settembre, istituì
la Guardia Nazionale provvisoria, dandone il comando al Conte
Giovanni Lauri. Nell'elenco dei componenti la Guardia Nazio-
nale vi furono 492 militi, che andavano a costituire quattro
compagnie con 123 militi ognuna. Nel manifesto del 3 ottobre
1860, nell'elenco dei militi troviamo: Aurispa Livio, Bianchini
Cesare, Ciccarelli Sigismondo, Costa march. Benedetto, Costa
march. Giacomo, Giorgini Ferdinando, Lauri Giuseppe, Lauri
Tommaso, Marchetti Anastasio, Pannelli Ruggero, Paolorossi
Quirino, Pianesi Benedetto, Pianesi Gaetano, Pignotti Odoardo,
Ricci march. Matteo, Santini Pirro, Taccari Vincenzo, Torresi
Antonio, Zampi Luigi.
La costituenda Guardia Nazionale – che aveva il delicato
compito di mantenere l'ordine pubblico in un momento in cui
emergevano forti resistenze e reazioni al nuovo assetto politico
– ebbe subito modo di mettersi in mostra: infatti giungeva a
Macerata per la prima visita il re Vittorio Emanuele II. La
descrizione della storica giornata maceratese fu così raccontata:

71
«Il 9 ottobre del
1860 sarà sempre
ricordato dai Mace-
ratesi con legittimo
orgoglio. Ché in quel
giorno ebbero la gio-
ia di accogliere trion-
falmente dentro le
proprie mura Vittorio
Emanuele II il quale
– quantunque Macerata si trovasse lontana molte miglia
dalla strada marina ch'egli doveva percorrere per recarsi da
Ancona nel regno di Napoli – anche per consiglio del
ministro Farini, volle visitare la patriottica città che per oltre
sessant'anni, malgrado carceri, esili e minaccie di fucilazioni
sommarie, aveva mantenuta sempre ardente ed operosa la
sua fede nella redenzione d'Italia. (...) Così nella mattinata
del 9 ottobre Macerata apparve trasfigurata e abbigliata a
gran festa. “Sfidando quasi la strettezza del tempo (scrisse
un testimone oculare) la città si trovò come per incanto cam-
biata: non era via che non fosse tappezzata di fiori, non casa
che non apparisse bella di addobbi, non finestra che non fos-
se ornata a festoni, non balcone da cui non isventolasse la
bandiera Sabauda. Innumerevoli iscrizioni e ritratti del Re tu
vedevi ad ogni rivolta di strada, ammiravi in ogni bottega”.
Fin dalle prime ore del mattino incominciarono a giungere le
deputazioni dei municipi della provincia, accompagnate da
numerosi cittadini e dalle bande rispettive, che, insieme alle
due di Macerata, furon ben diciannove. Venendo da Osimo,
Vittorio Emanuele verso le ore 9 antimeridiane giunse a
Montefano e verso le 10 a Montecassiano, dove furono
improvvisati a suo onore degli archi trionfali. Finalmente
alle 11 giunse a Macerata, accompagnato dal ministro Farini.
Alle Tre Porte fu ricevuto dalla Commissione municipale, il
cui presidente conte Tommaso Lauri salutò il Re con poche
parole “Sire, il Municipio di Macerata, troppo onorato del-
l'augusta presenza della Maestà Vostra porge ossequioso
omaggio al più prode Guerriero, al Re d'Italia”. La Porta
Romana, magnificamente ornata a bandiere e trofei, avea ai

72
lati due grandi ed artistici palchi, che accoglievano un'eletta
schiera di signore, cittadine e forestiere. Quando vi apparve
Vittorio Emanuele fu tale uno scoppio d'applausi, tale una
pioggia di fiori, tale un'affollarsi di gente che il corteggio
dovette fermarsi per alcuni istanti. E questo festoso spet-
tacolo continuò ininterrotto per tutta la strada fino al palazzo
delegatizio (ora del Prefetto) dove il Re fu ospitato nel suo
breve soggiorno a Macerata. Davanti al portone del detto
palazzo trovavasi schierata in divisa la Guardia Nazionale
comandata dal conte Giovanni Lauri. A piedi dello scalone
Vittorio Emanuele fu accolto dalla Giunta provvisoria di
Governo, alla quale egli rivolse parole assai lusinghiere di
elogio per il senno e la abnegazione dimostrati nel reggere la
provincia. La gente acclamante lo costrinse a mostrarsi per
tre volte al balcone. Quindi il re, poco dopo il mezzodì, rice-
vette ufficialmente, presentategli dal Regio Commissario
avv. Tegas, la Giunta provvisoria di governo e quella muni-
cipale. Ricevette poi la Commissione provinciale, che gli
presentò le deputazioni dei diversi municipi».
Nell’ex Palazzo delegatizio, dove nel grande salone dei rice-
vimenti il Re accolse le delegazioni comunali della provincia e
dove si svolse la cena ufficiale (ma il Re non toccò cibo, solle-
vando molte perplessità), per non turbare il monarca furono
“opportunamente” coperte le insegne dei pontefici e dei cardi-
nali Legati che si erano succeduti. Per la tarda serata, poi, in suo
onore era stata organizzata allo Sferisterio una festa popolare,
che però fu rovinata da un tempo inclemente, perché «fu all'im-
provviso turbata da un vento impetuoso, che distrusse quasi
totalmente l'artistica illuminazione preparata dal Municipio in
onore dell'augusto ospite. A causa della pioggia che fece ritar-
dare la partenza, il Re lasciò Macerata alle ore dieci e tre quarti
del 10 [ottobre]... Sebbene il tempo fosse poco favorevole,
un'immensa folla andò a salutarlo, ed egli partì commosso in
mezzo ad una vera pioggia di fiori».
Invece, il giornale cattolico torinese «L'Armonia», esageran-
do non poco, scriveva: «Tuoni e fulmini a Macerata … alle 9 di
sera, Sua Maestà si portò allo Sferisterio per godere di un'illu-
minazione a bengala e fuochi di artificio, quando un orribile
uragano, accompagnato da gran pioggia, sconvolse la festa, e la
73
popolazione ivi adunata rimase atterrita per lo spavento. Ban-
diere, lampioncini, archi trionfali andarono alla malora».
Essendo nominate poi le nuove Giunte e le Commissioni
comunali e provinciali, il 17 ottobre furono sciolte quelle prov-
visorie, così si entrò nella normalità istituzionale, anche se la
strada da percorrere era appena all'inizio.

La legittimazione piemontese
Ora mancava il Plebiscito che avrebbe dato una parvenza di
legittimità alle conquiste piemontesi. Il 21 ottobre fu affisso nel
Comune di Macerata, come in tutti i Comuni delle Marche, il
manifesto che indiceva il voto per i giorni di domenica 4 e
lunedì 5 novembre 1860: gli elettori marchigiani chiamati alle
urne erano 212.000 (solo il 24,9 % degli abitanti della regione),
potevano votare solo gli uomini che avevano compiuto 21 anni
e godevano dei diritti civili.
Esisteva però il problema di costituire gli “stati”, cioè le liste
degli aventi diritto al voto, poiché, non esistendo l'anagrafe
comunale, facevano fede solo i registri delle parrocchie. L'arci-
vescovo di Fermo, monsignor De Angelis, con una circolare del
17 settembre inviata a tutti i
parroci, imponeva loro di non
consegnare «l'elenco dei loro
parrocchiani sia per la forma-
zione della Guardia Civica,
sia per la così detta coscri-
zione, poiché verrebbesi a
facilitare, e prestar fonda-
mento alla creazione di una
guardia, la quale tende a con-
solidare un Governo usurpa-
tore, e nemico della S. Sede
... Dovranno quindi i Parro-
chi ricusarsi di dare tale elen-
co con civili, ma ferme ma-
niere, e lascino piuttosto che
la forza s'impossessi dei li-
bri». Ciò comportava molti
74
problemi per la predisposizione degli elenchi degli aventi diritto
al voto: se era agevole riordinarli per gli abitanti della città, era
molto più difficile per gli abitanti delle campagne.
Intanto a Macerata, il 1° ottobre 1860, iniziò la pubblicazio-
ne del giornale «L'Annessione Picena», con l'obiettivo di soste-
nere sia l'annessione al Piemonte sia il governo provvisorio
della regione e locale, con l’impegno di «annunziare immedia-
tamente tutti i fatti del giorno e di rendere esatto conto dell'opi-
nione pubblica dell'Europa». Per prima cosa, per preparare il
terreno al Plebiscito, il giornale cominciò una campagna anti-
clericale piuttosto violenta: l'annessione era il primo e indispen-
sabile obiettivo da raggiungere a tutti i costi, infatti, l'occupa-
zione piemontese era appena avvenuta e si doveva quindi legit-
timare giuridicamente l'invasione, poi consolidare le istituzioni
e combattere le inevitabili opposizioni ad esse.
Il giorno prima del Plebiscito furono appesi ovunque mani-
festi con la notizia che il Commissario straordinario per le
Marche, Valerio, aveva decretato che la tassa più odiata dalla
popolazione, quella sul Macinato, era stata abolita nelle provin-
ce delle Marche a partire dal 1° gennaio 1862. Il decreto sul-
l’abolizione della tassa sul macinato entrava cioè in vigore più
di un anno dopo (mentre in Umbria tale decreto era entrato in
vigore già nel 1860). Evidentemente questo provvedimento era
stato redatto da tempo e veniva diffuso appena prima del voto,
nel tentativo di conquistarsi il favore popolare, senza perdere le
entrate della suddetta tassa fino alla fine del 1861.
Il Plebiscito fu organizzato con presupposti che oggi non sa-
rebbero giudicati legalmente validi, infatti il secco quesito non
era accompagnato da alcun tipo di patto o clausola che garantis-
sero la sopravvivenza o meno delle istituzioni o della legisla-
zione precedente. A Macerata, come ovunque, gli elettori non
ricevevano la scheda al seggio come oggi: dovevano procurar-
sela da sé, perciò le schede stampate per la votazione furono
distribuite gratuitamente dai seguenti negozi cittadini: «Nego-
zio dei Fratelli Castelletti in via del Duomo n. 1334, Negozio
Paoletti via di S. Francesco n. 13, Stamperia Bianchini via di S.
Francesco n. 44 B, Negozio Teofani Piazza S. Salvatore n. 252,
Caffè Bigi fuori Porta Romana n. 1662, Negozio [Antonio]
Boni Borgo S. Giovanni Battista n. 1600 A». Questo elenco ci

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fa capire che l’indicazione dei negozi era stata preparata accura-
tamente, scegliendo personaggi favorevoli all'annessione e che
non solo potevano distribuire gratis le schede elettorali, ma
contestualmente anche tentare di fare “campagna elettorale”.
Altro aspetto di non poco conto era quello della segretezza
del voto: il cittadino presa la scheda da uno dei negozi elencati
o presso gli uffici comunali, si sarebbe potuto tranquillamente
presentare ai seggi con il voto già espresso ed immetterlo
nell'urna. Un episodio portato ad esempio di volontà annessio-
nista veniva così dimostrato: «L'Avvocato Filippo Borgogelli
Professore di Diritto Canonico in questa Università nel recarsi il
giorno del plebiscito al
Palazzo Municipale onde
deporre nell'Urna il suo
voto, fu colto miseramen-
te da una Vettura, e n'eb-
be a risentire gran male
specialmente alla gamba
destra, su cui passò una
ruota del carro. In mezzo
allo spavento e al dolore
egli non iscordò di essere
italiano, e toltasi pubbli-
camente dal seno la già
preparata scheda per il SI,
la consegnò perché a suo
nome fosse solennemente
deposta nell'Urna!».
Chi era contrario all'annessione si trovava quasi nell'im-
possibilità di esprimere le proprie opinioni senza subirne le
conseguenze. Infatti chiunque avesse espresso, anche soltanto a
parole, un'opinione antipiemontese rischiava di essere arrestato,
come dimostravano, tra le altre documentazioni, i rapporti degli
organi di polizia e dei sindaci nei confronti dei reazionari che
tentavano di promuovere l'astensione. In pratica l'opposizione
fu quasi lasciata nelle mani o nelle parole del solo clero, intento
ad azzardare l'astensione al voto, nonostante il rischio di arresto.
Mentre le autorità, nominate dal Commissario straordinario Va-
lerio, non si preoccuparono di dimostrare la più che minima im-

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parzialità, anzi la loro azione era pressante ed incisiva. Il rischio
avvertito dal ceto nobile e dalla nuova borghesia che sosteneva-
no l'annessione, non era certamente quello della vittoria dei voti
contrari, ipotesi praticamente inesistente, ma di una forte asten-
sione. Oltre alla propaganda semiclandestina dei clericali, si
temeva il maltempo e il fatto che «oltre cinquemila campagnoli
trovansi nei lavori dell'Agro romano». È comunque da notare
un’evidente contraddizione che emergeva dal confronto del
numero degli aventi diritto al voto che ammontava a 5.065 –
pubblicati dal Comune nei manifesti degli “stati” – con l'affer-
mazione dei cinquemila campagnoli che si trovavano nell'Agro
romano e il numero di 4.127 maceratesi che si recarono a vota-
re.
Una forma per tentare di limitare l'astensionismo e di condi-
zionare l'elettorato in senso filopiemontese, era quello di far
votare per corporazioni o per proprietari terrieri, con diritto di
precedenza sugli altri elettori, che «accederanno singolarmente
per il voto». Il manifesto con le norme per il voto infatti affer-
mava: «Eguale preferenza avranno gli elettori della campagna
quando accedessero in corporazioni, o parrocchie, o condotti dai
loro padroni o fattori». In molti casi i proprietari unionisti delle
tenute agricole chiamavano a raccolta i propri contadini a cui
distribuivano le sole schede prestampate unioniste; li costringe-
vano a recarsi al seggio minacciando, in caso di diniego, il
licenziamento. Anche per le
corporazioni succedeva la
stessa cosa: i capi corpora-
zione si procuravano le
schede prestampate e le
distribuivano; se qualcuno
non voleva la scheda unio-
nista, doveva rifiutarla e
quindi facendo conoscere
pubblicamente il proprio pensiero politico si esponevano alle
rischiose conseguenze. Inoltre ogni corporazione doveva proce-
dere con «una bandiera coi colori nazionali avente la leggenda,
la quale indichi il nome del corpo o corporazione». I membri
delle stesse corporazioni avevano anche il vantaggio di votare
«o nell'una o nell'altra delle due sezioni» preparate: una nella

77
sala grande del Comune ed un'altra nel lungo corridoio dell'U-
niversità, mentre i singoli cittadini avevano un seggio predesti-
nato.
Il Plebiscito era stato organizzato in modo da provocare un
diffuso clima di festa, per “attirare” i cittadini. Nel manifesto
già citato era scritto, affinché le votazioni «procedano con or-
dine, e sieno ne l medesimo tempo festeggiati con dimostrazioni
di gioia si pubblicano le disposizioni seguenti»:

«Nei giorni di domenica e lunedì prossimi tutti i Cittadini


orneranno lo esterno delle loro case con bandiere nazionali,
ed addobbi.
I corpo filarmonici allieteranno colle loro melodie giorni
così solenni, ed ambedue le sere saravvi generale illumi-
nazione.
La campana maggiore del Comune, suonata alla distesa in
ambi i giorni dalle otto alle nove ore antimeridiane, annun-
zierà la convocazione dei generali comizii, ed alle ore cinque
pomeridiane ne annunzierà del pari la chiusura.
L'apertura dei comizii alle ore nove antemeridiane sarà salu-
tata da una salva di mortai.
Per comodo dei cittadini il corpo degli elettori sarà diviso in
due sezioni: una avrà il suo officio nella sala maggiore del
palazzo Municipale: l'altra nel grande corridoio della Uni-
versità degli studii.
Gli Elettori dovranno uniformarsi alla consegna, che sarà
data tanto alla guardia nazionale posta a disposizione degli
Officii rispettivi, quanto agli uscieri Municipali, che in
uniforme saranno alle porte degli officii.
La Guardia nazionale, dovendo prestare il suo servizio, sarà
la prima a votare metà nel primo, metà nel secondo giorno».
Alla sera del 5 novembre 1860 l'impressione dei fautori del-
l'annessione era molto positiva, infatti, il giornale «L'Annessio-
ne Picena» scriveva: «Le corporazioni delle arti, le parrocchie,
ogni ordine di cittadini sono accorsi all'urna. Su poco più che
5.000 iscritti, ieri sera alla chiusura dell'Urna i votant i avevano
superato i 3.200. L'entusiasmo fu notevole in tutta la giornata, e
la sera crebbe al colmo: le vie erano tutte messe ad addobbi, ed

78
illuminate: una folla immensa le percorreva con bandiere, mu-
sica, canti nazionali e lietissimi evviva».
Il risultato ufficiale delle urne, annunciato da parte dell'Avv.
Belardini dal balcone del Municipio, fu il seguente: elettori
iscritti 5.065, votanti 4.127. I voti favorevoli al quesito così
espresso: «Volete far parte della monarchia costituzionale del re
Vittorio Emanuele?» furono 4.104, mentre in 17 votarono per il
no e 6 schede risultarono nulle. Votarono a favore anche i cano-
nici di S. Salvatore: Don Disma Pantaleoni, Don Rodolfo Ma-
riani e Don Gaetano Fratalocchi, mentre non votò, per discipli-
na, il noto poeta dialettale Don Giuseppe Mancioli.
L'annessione delle Marche al Regno d'Italia fu ufficializzata
il 22 novembre 1860, mentre due giorni dopo, tramite l'affissio-
ne di manifesti, fu pubblicato un decreto del Valerio risalente al
12 settembre, con il quale veniva ordinata la coscrizione obbli-
gatoria. È evidente che il decreto era stato tenuto nascosto nel
timore che tale decisione, avversata dalla maggioranza della po-
polazione, influenzasse il voto. Comunque la partita del Plebi-
scito si chiuse in questo modo. Oggi la ricerca storica ha messo
però in luce tutti i limiti di questa vicenda e la sua limitata
validità legale. A tale riguardo, in merito al processo di unifica-
zione, lo storico Mack Smith ha così scritto: «La storia venne
falsificata per dimostrare che la rivoluzione era stata un movi-
mento puramente liberale».
Un brevissimo articolo de «L'Annessione Picena» ci fa capi-
re il clima sociale, in cui si era svolta l'importante consultazione
elettorale, con la seguente espressione: «L'altra mattina fu rin-
venuto morto miseramente sotto la neve un Sagrestano di S.
Giovanni, che fu uno dei diciassette che votarono per il nò!
Avviso agli altri di aversi cura dal freddo. Intanto il popolo
canta: Erano Diciassette / Sono rimasti a Sedici / Otto per navi-
gare / Otto a gridare piopò!».
Tra le fila di quanti volevano l'unione, emergeva la consape-
volezza che l’obiettivo raggiunto era molto fragile e che era
perciò necessario difendere quanto conquistato. Per questo era
importante la Guardia Nazionale. Scriveva il giornale: «Sarebbe
stoltezza pensare, che i combattimenti, i travagli, i pericoli per
la nostra unità, indipendenza, libertà fosser finiti. Ciò non è, né
può essere. Che anzi più noi crediamo di essere prossimi all'ul-

79
timo atto del grande dramma, che da due anni si svolge in Italia,
più noi deggiam credere di essere attorniati da pericoli e da
cimenti. I nemici d'Italia sono ancora e molti e potenti. Il corso
e la gravità degli avvenimenti ne ha sgominato le file, ne ha in
grande parte sventato gli attentati, ma essi dispongono tuttora di
mezzi, che sarebbe follia disprezzare, ed attendono ora a ranno-
darsi in aspettativa di una riscossa, Ora la prima cosa, che deve
farsi è una organizzazione militare la più estesa, e la più perfet-
ta. Bando alle gare ed alle meschine ambizioni personali. La
sola ambizione lecita ed onorevole è quella di far ciascuno
meglio dell'altro il suo dovere verso la patria. La organizzazio-
ne, ed il servigio della Guardia Nazionale è quindi il più impe-
rioso dei bisogni».

Il ritorno degli esuli


Il 27 gennaio e 3 febbraio 1861
(1° e 2° turno) si svolsero le prime
elezioni politiche del nuovo Regno
d'Italia (su 22 milioni di abitanti,
avevano diritto al voto poco più di
400.000 persone, cioè l’1,9% della
popolazione) che videro nella cir-
coscrizione di Macerata l'elezione
di Diomede Pantaleoni nel primo
Parlamento italiano, già collabo-
ratore di Cavour per la “Questione
romana”.
Dopo il Plebiscito e le elezioni politiche, nei primi giorni di
febbraio 1861, si ebbe il rientro degli esuli che erano stati co-
stretti all’esilio, tra questi sono da ricordare in particolare, dopo
undici anni trascorsi a Firenze, Luigi Pianesi, nonché Ettore Pe-
rozzi con sua moglie Rita Cini e il loro bambino Gustavo.
Certamente il P ianesi era l’esule di maggiore spicco ed anche il
personaggio che aveva pagato un altissimo prezzo per le sue
convinzioni politiche. Era allora cinquantunenne, non esercitava
più le funzioni di magistrato ed era difficile per lui ricominciare
l’attività forense, la salute, tra l’altro, non l’assisteva e poi non
aveva potuto formarsi una famiglia. L’essere un convinto re-

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pubblicano e il ruolo che aveva avuto durante la Costituente
romana del 1849, gli avevano procurato l’ostilità del Valerio e
dei “piemontesi” integrali. Ostilità determinata anche dal fatto
che a Firenze gli era stata offerta la candidatura alle elezioni per
il primo Parlamento del Regno d’Italia, con sede a Torino, che
Pianesi rifiutò categoricamente per rimanere coerente con l’ide-
ale democratico che aveva sempre propugnato. Passata la fase
costitutiva del Regno d'Italia, che aveva unito tutti coloro che
erano favorevoli all'unità della nazione, ora emergevano i diffe-
renti orientamenti politici, le divisioni e i tentativi di limitare
l'azione altrui.
Le autorità maceratesi però vollero in qualche modo gratifi-
carlo, valorizzando la sua esperienza e competenza. Dopo pochi
giorni dal suo ritorno in città, fu infatti nominato membro del
Consiglio per le scuole della provincia. Nel maggio dello stesso
anno, con l’avvallo del Ministero dell’interno, entrò a far parte
della Congregazione di carità. Quindi, con voto unanime del
Consiglio universitario maceratese e del Collegio legale della
stessa Università, ottenne la cattedra di filosofia del diritto.
Mentre nell’agosto 1861 fu eletto Consigliere provinciale nel
Mandamento di Macerata, nel cui Consiglio ritrovò alcuni espo-
nenti liberali con i quali aveva collaborato negli anni precedenti
all’esilio.
Intanto il 19 gennaio era cessato il governo del Regio Com-
missario Valerio, il quale aveva notevolmente ridotto il peso
della nostra città, che «da centro importante di uno stato piccolo
divenne una qualsiasi cittadina in uno stato molto più vasto».
Contestualmente alla fine del governo del Valerio, cominciò il
rilevante fenomeno della renitenza e dell'opposizione al Regno
d'Italia (liquidato con il termine di brigantaggio), alimentato dai
giovani della classe 1839-1840, i quali, essendo chiamati sotto
le armi a partire dalla data dell’8 maggio 1861, «consigliati dai
retrivi», si dettero alla macchia.

Le «riprovevoli dimostrazioni reazionarie »


Lo stesso Valerio denunciò l’inizio del fenomeno del “bri-
gantaggio”, particolarmente ampio nell’ascolano, infatti così
scriveva: «Gli ultimi giorni del mio governo furono funestati
81
dai movimenti reazionari dell’Ascolano». In uno scontro tra
reazionari ed esercito piemontese nelle vicinanze di Ascoli (un
giornale, forse esagerando, scrisse trattarsi di 4.000 briganti)
ebbero la meglio i reazionari. I piemontesi erano quasi assediati
nel capoluogo, tanto che furono inviati 2.000 rinforzi per repri-
mere la rivolta, che fu sedata con «il terrore», con fucilazioni di
sacerdoti e frati, nonché con il coinvolgimento anche di inermi
civili, che nulla avevano a che fare
con i reazionari. Un proclama del ge-
nerale Ferdinando Pinelli, che poi di-
venterà noto per le sue efferratezze
nelle province napoletane, ne è una di-
mostrazione: «Chiunque consegnerà
alle Autorità Militari in Arquata, Ac-
quasanta ed Ascoli, vivo o morto, uno
dei sottonotati individui, avrà l’indul-
do per se e tutta la famiglia, più la
somma di 100 scudi romani. Gli indi-
vidui per cui è imposto il taglione
sono: Alessandro Vagnarelli di Valle-
dacqua, Don Giovanni Bernardini pre-
vosto di Valledacqua, Don Domenico Giovannozzi curato di
Talvacchia, Don Paolino De Santis prevosto di Colonna, Gio-
vanni Piccioni e tutti i suoi figli, Don Francesco Velenosi curato
di Predicava, Giovanni Tosti di Mozzano».
A Macerata e in provincia la reazione non fu così grave. Una
prima avversità al nuovo corso si ebbe il 21 giugno 1861,
quando la Guardia Nazionale fu chiamata al Borgo San Gio-
vanni Battista (oggi Borgo Cairoli) per una «riprovevole dimo-
strazione reazionaria», per «sciogliere gli attruppamenti dei tu-
multanti e a ristabilire l'ordine turbato». Così raccontava un
teste al processo intentato contro Pacifico Perugini, il quale era
stato arrestato, bastonato per bene e poi condannato ad un mese
di carcere: «sono Morresi Vincenzo Giusto del fu Luigi nato e
residente in Macerata d'anni 42 stampatore ammogliato con
prole e sottoscrivo non ho alcuna relazione ne' interesse col-
l'imputato. Nella sera del 21 corrente mese si faceva in Borgo
San Giovanni Battista l'illuminazione per la ricorrenza del-
l'Incoronazione del papa, e vari gruppi di persone si formarono

82
lungo la via. Questa dimostrazione era piuttosto diretta
all'opposizione allo attuale sistema politico. Fra gli altri gruppi
di gente eravene uno alquanto più folto in mezzo al Borgo
stesso. Essendo passata la Guardia Nazionale fece sciogliere
quella moltitudine ma però debbo osservare che varie persone
che non conosco inveirono contro quei militi nazionali.
Ritornata indietro la pattuglia già erasi radunata nello stesso sito
altra folla e da questa partirono fischi e parole ingiuriose contro
la milizia nazionale come di birbaccioni e simili; ed io ho visto
fra le altre persone un tale che rivolto alla Guardia nazionale e
colla mano accennando alla stessa disse “a che vanno pas-
seggiando questi puzzoni” e questo individuo fu tosto condotto
in arresto. Varie altre ingiurie partirono anche da persone che si
trovavano la vicine ma però non saprei indicare quali siano
queste perché non le conosco».
Questa manifestazione, pur essendo modesta, significava
comunque una dimostrazione di contrarietà al nuovo stato di
cose, anche se veniva taciuta e non comunicata come molte
altre che avvenivano nel territorio. Altre manifestazioni, avve-
nute in agosto, furono più rilevanti: alle due di notte fu inviata
la Guardia Nazionale di Macerata ad otto chilometri dalla città
verso Pollenza «sopra un colle detto Monte di Maceratino ove si
era veduta una bandiera bianco-gialla ... Al loro arrivo i 14
Refrattari aveano preso la fuga lasciando la bandiera, che era un
cattivo fazzoletto bianco e giallo. Tolto quel lurido cencio, ves-
sillo di più lurida corte, le dette guardie si ritirarono col dispi-
acere di non aver potuto dar prova di sé». Anche verso la Roc-
caccia di Treia fu segnalato e ricercato un gruppo di refrattari –
qualcuno disse di circa 200 uomini – con un vessillo bianco-
giallo, cioè con i colori dello Stato Pontificio.
Il 1° settembre del 1861, alle sei della mattina una banda di
circa 40 contadini renitenti di Pausula, Monte San Giusto e
Monte San Pietrangeli, armati di fucili, carabine, baionette e
bastoni, si recò con schiamazzi ed urla presso il casino di cam-
pagna di Aristide Lauri, comandante della Guardia Nazionale di
Pausula, chiedendo il rilascio di arrestati per renitenza, altri-
menti sarebbero tornati per fargli «la pelle», cantando «si gli
farem la pelle, viva Pio IX, viva Lamorcière».

83
Il fenomeno della renitenza dilagò ed arrivò a registrare oltre
1.500 casi in quell'anno; ciò costringeva la Guardia Nazionale
ad un superlavoro.

Il giornale maceratese «Il Vessillo delle Marche», che era


succeduto a «L'Annessione Picena», anch'esso di orientamento
liberale e favorevole al nuovo governo, tentava di sminuire tale
fenomeno, ma di fronte all'evidenza dei fatti cominciò a lan-
ciare messaggi di grande preoccupazione:
«La nostra provincia è tranquilla: questi sono paesi di ottimi
istinti: in questi luoghi il brigantaggio è impossibile. Ecco
quali sono le frasi, che ordinariamente odonsi quando v'ha
chi sollecita energici provvedimenti diretti a guarentire la
pubblica tranquillità e sicurezza. Sia pur tutto vero quello
che si risponde, ma fare a fidanza co' mali nel suo esordire
per la sola ragione, che sien piccoli mali, è imprudenza per
lo meno, poiché è a piccioli mali, che dee ripararsi affinché
non divengano grandi. E chi ci dice che il brigantaggio
vinto, schiacciato, domo ancor, se vorrete, ma non spento
nelle campagne delle provincie meridionali, non tenti una
riscossa in queste marchiane? Una banda di renitenti alla
leva comparsa in prossimità de' paesi circonvicini, sapete
cosa diceva palesemente saran venti giorni indietro? Oh! Se
noi avessimo un capo che ci conducesse! Non avremmo
paura né di paesi né di città. E badate che con tutti i buoni
istinti di questi luoghi le sono parole assai gravi quelle, che
abbiam riportate. Frattanto il gravissimo fatto di millecin-
quecento renitenti alla leva, è fatto che nessuno potrà
84
dissimulare, e questo è fatto della nostra sola provincia. Chi
sa il numero dei renitenti nelle altre provincie Marchiane e
nell'Umbria? Si dirà che i renitenti sono illusi da perfidi
consigli, e da fallaci speranze, che ad essi spacciano gratis e
chierici e chiericanti».
Per combattere il fenomeno dei renitenti, che stava assu-
mendo in provincia proporzioni notevoli, fu organizzata dal-
l'Ufficio Centrale di Pubblica Sicurezza una perlustrazione
straordinaria, «all'effetto di sorprendere ed arrestare possibil-
mente i renitenti alla Leva, i disertori, i ladri, gli assassini, i
vagabondi ed ogni classe di gente responsabile in faccia alla
Legge … L'esito corrispose alle concepite speranze perché si
ebbero in mano diversi renitenti, alcuni vagabondi e zingari; e
quello che più conta fu eseguito l'arresto di tre individui che
venivano dalla voce pubblica designati autori di furti e gras-
sazioni». I risultati dell'operazione, se si valuta le forze im-
piegate, non erano certamente esaltanti, anche se, oltre agli
arresti già indicati, «Furono pure sequestrate in diversi casolari
parecchie armi da fuoco che potevano servire a tutt'altro che a
propria difesa».
I fatti violenti causati dai renitenti o da vere e proprie bande
di delinquenti si moltiplicarono nel territorio e tennero tutti in
apprensione: furono sparati più colpi d'armi da fuoco contro le
finestre della casa del Sindaco d'Appignano, fu ucciso un milite
della Guardia Nazionale nella vicina città di Filottrano e due
altri furono feriti. A Macerata fu accoltellato il canonico don
Ignazio Filati, cinque banditi col volto coperto avevano deru-
bato i viaggiatori di una carrozza verso Jesi, «mentre a Mace-
rata Sette individui armati di fucili e coltelli, e vestiti alla foggia
di carabinieri sonosi introdotti a mezzanotte in casa di Luigi
Bartoli contadino nella cura delle Vergini e legando con funi gli
uomini della famiglia hanno svaligiato tutta la casa depredando
un valore di circa 450 Lire». Oltre a ciò non mancarono altre
prodezze da parte della famosa banda di grassatori, detta del
Ragno, e molti altri fatti rilevati in quel periodo.
Inoltre, il Prefetto, per combattere il fenomeno della reni-
tenza, adottò anche delle misure straordinarie, infatti decise di
collocare drappelli di militi della Guardia Nazionale presso le
case dei renitenti, facendoli alloggiare e vettovagliare a spese
85
delle loro famiglie, fino a quando i loro familiari renitenti non si
fossero consegnati alle autorità, colpendoli così sotto l’aspetto
economico-affettivo.
Oltre a queste misure c'era da far fronte anche ad altre
questioni di ordine pubblico, come dimostra un altro fatto
avvenuto a Macerata a Porta Mercato: «I nazionali di guardia
aveano ordine d'impedire la partenza del grano senza permesso
della Municipalità. Alcuni carrettieri furono richiesti se aves-
sero il permesso, ed al loro nò furono intimati di far retrocedere
le loro carrette cariche. Allora il popolo del sobborgo vi prese
parte, e cominciò ad applaudire; ma alla partenza più tarda dei
carri forniti d'Autorizzazione egli incominciò ad opporsi, ed a
minacciare. L'arrivo però sul luogo del Commissario di Sicu-
rezza pubblica, di alcuni carabinieri, e d'alcuni Bersaglieri che
scortarono i carri per breve tratto restituì l'ordine e la tran-
quillità. Nella notte furono coperti di sozzure alcuni proclami
emanati dalle autorità, ma si sa che ciò fù l'opera di qualche
individuo, che ne darà conto alla giustizia».
Il fenomeno della renitenza fu notevole negli anni 1861-
1862 e in tutto il 1863, poi si ridusse gradualmente.

Il tiro a segno e la decadenza di Macerata


Data la situazione di instabilità politica e dell’ordine pub-
blico, anche su suggerimento di Garibaldi – in previsione delle
ulteriori campagne militari per il rag-
giungimento della completa conqui-
sta dei territori, non ancora sottratti
agli austriaci e allo Stato pontificio –
nell’agosto 1861 un decreto mini-
steriale imponeva che in tutti i Co-
muni del Regno d’Italia si istitu-
issero i Tiri a segno, con il seguente
scopo: «Il Governo del Re volendo
che l'esercizio e il maneggio delle
armi riuscisse abituale e fosse me-
todo di virile cittadina educazione,
ha permesso lo Stabilimento dei Tiri … e ciò non per mol-
tiplicare invano gli enti, ma per destare una nobile gara di

86
emulazione fra i Tiratori dei diversi Paesi, e premiare quelli che
si distinguono per la maggiore precisione dei Tiri». Se erano
impegnati gli enti locali a creare gli impianti, la gestione
dell’attività “militare-sportiva” era affidata ad apposite società:
«si formino delle Società private, ... dietro patti e convenzioni
da stipularsi col Comune, col Mandamento, con la Provincia».
In poco tempo a livello nazionale sorsero così oltre 200 impianti
dedicati al tiro a segno.
Mentre a Macerata si stavano preparando le pratiche per il
terreno adatto e predisporre il progetto del campo di tiro a se-
gno, per inaugurare questa istituzione si pensò di invitare Giu-
seppe Garibaldi. Per coinvolgere il generale, alla fine di aprile
1862, si inviò una delegazione a Rezzago, nella Villa Fenaroli,
dove in quel periodo egli risiedeva, incaricando Luigi Pianesi
(che dal Re era stato nominato da poco Rettore dell’Università
di Macerata) di guidarla, dato che questi aveva un rapporto di
amicizia con Garibaldi, fin dall’epoca della sua permanenza a
Macerata. «Il Vessillo delle Marche» scriveva la seguente nota
su quest’incontro:
«I Signori Luigi Avv. Pianesi, Giovanni Dott. Angelelli,
Sciava Dott. Attilio, e Baldelli Ceriaco ben noti patriotti
della Marca, i primi due di Macerata, i secondi di Castel-
fidardo si sono recati a Rezzato nella Villa Fenaroli per
ossequiare il Generale Garibaldi ed invitarlo a venire fra noi
ad inaugurare il tiro Nazionale. Il Generale accoltili colla sua
solita affabilità, disse che verrà con piacere nelle Marche, e
particolarmente nella Città di Macerata dove ha passato lieti
giorni in tempi avversi e dove si ritiene viva la sua memoria:
che verrà ad inaugurare il tiro nazionale di cui raccomanda
caldamente l'istituzione, perché lo crede l'unico mezzo per
cacciare lo straniero. Quando tutti gli Italiani avranno bene
appreso, egli aggiunse, il maneggio delle armi non potrà più
lo straniero infestare la nostra Italia tanto più che il suolo
italiano è seminato di grandi alberi, ognuno dei quali può
servire di baluardo ad ogni Italiano che prende un fucile per
la difesa della patria: e che per queste naturali baricate qua-
lunque inimico d’Italia dovrà trovarvi la tomba in ogni
passo. Ringrazia i presentatisi; ed assicura di nuovo che esso

87
verrà, non precisando però se dopo il giro della Romagna, o
della Toscana».
Il 2 maggio 1862, il prefetto di Macerata, Carlo Bosi, inviò
una circolare a tutti i Comuni per stimolare la creazione degli
impianti, nonché l’istituzione delle Società dei tiri a segno, sia
da parte dei Comuni medesimi o dei Mandamenti ovvero anche
da parte di privati associati.
A Macerata la realizzazione del progetto, però, non fu rapida
come si voleva e l’inaugurazione scivolò alla Festa dello Statuto
del 5 giugno 1864. Per questo il generale Garibaldi non poté
essere presente alla cerimonia di Macerata, come si era auspi-
cato. Quel giorno furono inaugurate due strutture militari-
sportive, legate anche allo sviluppo delle società sportive della
città: il Campo di Marte (oggi Campo sportivo della Vittoria),
che poteva essere utilizzato sia dalla vicina Caserma della Mis-
sione sia per le attività sportive, come pure l’impianto del Tiro a
segno. La Società di Tiro a segno di Macerata nel tempo si atte-
stò come la più importante di tutta la provincia, organizzando
innumerevoli gare a cui parteciparono i migliori tiratori sia
locali che nazionali.

In quel periodo Luigi Pianesi era considerato il personaggio


più importante della provincia e il più influente in Parlamento.
Per tale motivo fu inviato diverse volte a Torino per perorare la
causa della nostra provincia ed in particolare per le questioni
riguardanti l’Università, il Tribunale d’appello e la linea ferro-
88
viaria. Nel settembre 1862, lo stesso Pianesi, fu incaricato di
stilare la relazione della Deputazione sullo stato economico e
morale della provincia, come pure di presentarla al Consiglio
provinciale il 19 settembre, alla presenza del Commissario del
Re. Tale relazione, molto incisiva, fu decisamente critica nei
confronti del Governo. La denuncia apparve ancor più rilevante,
alla presenza dello stesso Commissario, poiché il Pianesi illu-
strò la “decadenza” della provincia di Macerata, sia per il tra-
sferimento in Ancona del Tribunale d’appello, sia per lo scor-
poro dalla provincia di quattro mandamenti (Sassoferrato,
Fabriano, Filottrano e Loreto), sia per l’Università ridotta ad
una sola facoltà, nonché per le difficoltà a realizzare la tratta
ferroviaria che doveva collegare anche Macerata. La sua
relazione senza dubbio rappresentava l’attacco pubblico più
duro nei confronti del governo, contro la cosiddetta piemon-
tizzazione delle Marche, nonché per l’accentramento delle
risorse in Ancona e l’emarginazione di Macerata stessa, infatti,
Luigi Pianesi affermava: «Tutto dì scende benefica la mano del
Governo sopra l’illustre città di Ancona. In meno di due anni
sono stati profusi in essa più e più milioni … ma la grandezza di
Ancona può sussistere senza la ruina nostra». Inoltre allargava il
suo discorso alla penalizzazione più generale dei marchigiani,
con il seguente passaggio:
«Sarà forse per falso concetto sul grado della nostra istru-
zione, che taluni ravvisano la condizione delle Marche, e
particolarmente della nostra Provincia esser piuttosto infe-
lice in fatto di considerazioni governative? Che per questo
non abbiamo un Prefetto, un Consigliere di Stato, un Consi-
gliere alla Corte de’ conti, e che fra tante migliaia d’impie-
gati con larghi stipendi nella Capitale provvisoria, non s’oda
quasi mai l’accento marchigiano? Sarà per questo, che il
foglio officiale del Regno non registri quasi mai per t itolo di
onorificenza i nomi de’ Marchegiani, mentre qualche colon-
na di esso è quotidianamente ornata de’ nomi di uomini di
altre Provincie? Sarà per questo, che i pochi impiegati che
abbiamo incontrino ostacoli nell’avanzamento della loro car-
riera? Sarà per questo stesso, che gl’impiegati destituiti per
la causa italiana non siano stati ancora reintegrati ai loro

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posti, e né tampoco ammessi alla liquidazione della pensio-
ne?».
Queste parole di Luigi Pianesi
lasciavano trasparire non solo la
sua personale convinzione, ma
anche il sentimento provato dalla
maggior parte degli amministra-
tori, sentimento che non li spin-
geva a guardare con nostalgia ad
un passato comunque da supe-
rare, bensì verso un presente che
avrebbero desiderato diverso e
che costituiva la premessa della
nascita dei partiti e della dia-
lettica politica. Luigi nel suo
discorso affermò ancora: «Oh! sarebbe ormai tempo, che
cessassero di adunarcisi sul capo immeritate tempeste! Ne
abbiam patite abbastanza. Le parti più ricche della Provincia
sono state avulse; i tribunali ridotti a scheletro; tolte le dirette
corrispondenze per Fermo ed Ascoli; l’isolamento per
mancanza di ferrovie temuto; menomata di troppo l’importanza
morale. Sono sanguinanti ancora le piaghe, e questo Capoluogo
non potrebbe non lamentare una perdita ulteriore».
I toni e le argomentazioni usati da Luigi P ianesi fecero
nascere un «insolito incidente», perché appunto non si era anco-
ra abituati alla dialettica politica. Dopo l’intervento di Luigi,
accolto dai membri del Consiglio provinciale con un signi-
ficativo «prolungato applauso», il Commissario del Re chiese la
parola osservando «che se non ha male inteso, il Relatore nel
toccare le sventure che Egli dice sofferte da Macerata le ha
quasi volute attribuire al Governo». Puntualizzò poi che «Il
consiglio può ben discutere e domandare al Governo quanto
creda utile per migliorare le condizioni della Provincia, ma non
è certo fra le sue attribuzioni il prendere in esame gli atti del
Governo medesimo». Il Pianesi, per nulla intimorito, confermò
quanto detto nella lunga relazione, replicando «che Egli non
potea tacere della triste posizione, nella quale era caduta la
Provincia ed il suo Capoluogo, poiché questa è una delle
principali ragioni, che ci obbligano a provvedere con altri mezzi
90
per migliorarne la sorte, per evitare nuove sventure che ci
minacciano. Ha constatato i fatti, non ha inteso mettere in
discussione gli atti del Governo; in ogni modo si dichiara
pronto a moderare o cancellare la frase, che ha promosso la
osservazione del Commissario del Re».
La relazione del Pianesi raccoglieva anche la notevole
irritazione degli amministratori che non digerivano la cosiddetta
piemontizzazione, cioè l’estensione de lla legislazione piemon-
tese a tutto il territorio italiano. In una lettera ad esempio si
affermava: «in tutti i rami amministrativi vengono da Torino
delle circolari che richiamano leggi e regolamenti … per uni-
formarvisi, mentre queste leggi e regolamenti non sono stati mai
comunicati. Che tutto il mondo sappia le leggi e i regolamenti
sardi senza leggerli è una pretenzione impossibile. Tutte le
amministrazioni sarde possono dirsi modello di perfezione
all’Italia? Ciascuna parte dell’infelice e divisa Italia aveva qual-
che particolare amministrazione bene organizzata e quel popolo
che se la vede annullata per introdurci il sistema piemontese,
forse peggiore, ne resta indispettita. Si contentano solo di dire
“non vogliamo essere piemontizzati”». La stessa cosa valeva
per l’occupazione dei posti più importanti nella struttura statale
con uomini di fiducia del governo ed in particolare, piemontesi.
Dei quali si diceva: «Questi benedetti Piemontesi si portano con
una arroganza nei loro Uffici che ci trattano quasi come un
popolo conquistato».

I “briganti” e le deportazioni
Mentre si discuteva della penalizzazione di Macerata, delle
Marche e della piemontizzazione, si stava sviluppando un’igno-
bile tragedia, sottaciuta per molti anni, che apriva una ferita che
ancora oggi non si può considerare del tutto guarita, tragedia
che riguardava le deportazioni degli ex militari e del cosiddetto
“brigantaggio”. Fenomeno di reazione all’occupazione del Sud,
da parte di Garibaldi, e del Centro Italia da parte dei piemontesi,
che, come abbiamo scritto, si presentò anche nelle Marche.
Quello che veniva chiamato brigantaggio in realtà, quasi sem-
pre, non si trattava dell’azione di briganti, ma di militari che
rifiutavano di prestare giuramento al nuovo sovrano Vittorio

91
Emanuele II, nonché di renitenti alla leva. Il destino di decine di
migliaia di militari ex borbonici, ex papalini, ex degli altri Stati,
colpevoli di voler rimanere fedeli al loro vecchio sovrano e di
non voler essere “normalizzati” nell’esercito piemontese, era
quello di essere deportati in veri e propri lager nel Nord Italia.
Per questo motivo erano disprezzati, tanto che il generale La
Marmora li definì «un branco di carogne», mentre Cavour in
una lettera al Re, per giustificare le deportazioni, scriveva: «I
vecchi soldati borbonici appesterebbero l'esercito». Il fenomeno
riguardò oltre 20.000 militari (non esistono stime precise) in
maggioranza borbonici, che furono internati nelle fortezze del
Nord Italia, quasi tutti in Piemonte (Alessandria, Pinerolo,
Sestriere, San Maurizio Canavese, in particolare Fenestrelle).
L’enorme fortezza
di Fenestrelle, che
si sviluppa sul cri-
nale della monta-
gna per una lun-
ghezza di oltre 3
chilometri, con una
superficie comples-
siva un milione e
trecentocinquanta-
mila metri quadrati e un dislivello di circa 600 metri (il primo
forte del complesso – il più grande d’Europa – è a 1.400 metri
di altezza), con una scalinata di ben 2 chilometri e 4.000 scalini
per arrivare alla fortificazione più alta, era anche detta la
grande muraglia piemontese. È significativa la frase posta
all’ingresso della fortezza ancor oggi visibile che dice: «Ognu-
no vale non in quanto è ma in quanto produce».
Per via delle condizioni malsane e delle temperature molto
rigide, si ritiene che gran parte dei detenuti perì per fame, stenti
e malattie. Nella medesima prigione furono rinchiusi anche
alcuni garibaldini fatti prigionieri sull'Aspromonte, nel 1862,
mentre tentavano una spedizione contro lo Stato Pontificio.
Oltre all’efferatezza delle condizioni di prigionia è sconcertante
il fatto che il neonato Regno d'Italia tentò di relegare questi
detenuti al di fuori dei confini nazionali, intraprendendo trat-
tative per istituire colonie penali in alcuni paesi del Nord Africa

92
o in Asia, con il Portogallo e perfino con l’Argentina, per realiz-
zare una colonia nella sperduta Patagonia. Nel 2008 fu posta
all'interno della fortezza di Fenestrelle una lapide commemo-
rativa in ricordo ai deportati borbonici.
La rivista «Civiltà cattolica», in merito alle deportazioni,
scriveva che «per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra,
già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad uno
spediente crudele e disumano che fa fremere. Quei meschinelli
(i militari borbonici, ndr), appena ricoperti di cenci di tela e
rifiniti di fame, perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e
acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide case-
matte di Fenestrelle e di altri luoghi, posti nei più aspri siti delle
Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come
quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi
negri schiavi, a spasimar di fame e di stento tra le ghiacciaie! E
ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo
Re!».
All’inizio di gennaio 1863, dal governo fu lanciata la Sotto-
scrizione Nazionale pel brigantaggio per finanziare l'ingente
costo militare della lotta alla resistenza contro l'unità d'Italia,
«la quale mostri al mondo come l'Italia intenda e voglia esser
una, e come i dolori i patimenti di alcune membra siano dolori e
patimenti di tutto il corpo». Il Comune di Macerata sottoscrisse
ben tremila lire ed inoltre organizzò un apposito Comitato, con
sedici signore della nobiltà maceratese incaricate – nelle quattro
parrocchie della città (Duomo, S. Maria della Porta, S. Giovanni
e S. Giorgio) – a raccogliere le offerte dei cittadini. Inoltre «Il
Vessillo delle Marche» lanciò una propria sottoscrizione, così
pure la Società Operaia e la Guardia Nazionale, al fine di con-
correre «al sollievo della vittime del Brigantaggio» – questa la
finalità ufficiale –, ma quanto ricavato in realtà serviva per co-
prire i debiti enormi che erano stati contratti per finanziare le
operazioni militari. La Guardia Nazionale comunale per l’occa-
sione fece stampare dei manifesti con il seguente testo:
«Ufficiali Sotto-Ufficiali e Militi
Non sia tra voi chi non risponda volenteroso all'invito del
governo; né ad alcuno sia ritegno la tenuità dell'offerta, che
gli è consentita dalle sue fortune. Darete molto se darete quel
che potrete. Il vostro Colonnello si confida non essere tra
93
Voi chi alla patria che domanda, non possa o non voglia
recare alcuna cosa.
Ufficiali Sotto-Ufficiali e Militi
Le forze de' nemici della libertà non sono così grandi, come
vantano coloro che rimpiangono i caduti; ma né sono si
poche che non dimandino ancora sacrifici di tesori e di
sangue. All'opera di sterminarle concorriamo per ora col
denaro. Se sarà mestieri, le Milizie Cittadine da ogni lato
d'Italia concorreranno colla offerta del braccio e della vita.
Viva l'unità d'Italia – Viva il Re
Macerata li 15 Gennaio 1863
Il Colonnello
Claudio Ciccolini Silenzi»

Firenze capitale del Regno d’Italia


Il 3 febbraio 1865 Vittorio Emanuele II lasciava Torino per
stabilirsi nella nuova Capitale del Regno, Firenze, attuando così
il disegno di legge che nel 1864 il Senato aveva approvato in
via definitiva, per autorizzare la spesa di tale trasferimento.
Questo cambiamento non fu indolore, infatti, il foglio filo-
governativo maceratese «Il Vessillo delle Marche», scriveva:
«Vittorio Emanuele ha lasciato Torino – ha lasciato l’antica
sede de' suoi avi – ha lasciato la città che si vantava di essere
il palladio della dinastia e l' ultimo saluto che questa città gli
ha rivolto furono le dimostrazioni di lunedì sera; e lo sde-
gnoso silenzio del suo municipio, il quale non seppe trovare
una parola per biasimare l’offesa fatta con quegli atti alla
Corona d’Italia, perché sapeva forse nella sua coscienza che
la responsabilità morale di quegli atti risaliva sino a lui.
È partito non salutato, non salutante, con l’amarezza nell'ani-
ma da quella città che quando lo accoglieva reduce da
Milano, da Napoli, da Firenze gli prodigava feste, applausi,
onoranze per mostrargli che nell’amarlo, nel rispettarlo,
nell'onorarlo era prima sempre e su tutte.
II Re d'Italia è ormai nella nuova sua sede – e con questo atto
il Regno di Piemonte finisce – il Regno d'Italia comincia.

94
Questo atto di fermezza e di decisione era ormai neces-
sario».
L'abbandono del-
la città piemontese
in favore di Firenze
fu accompagnato da
numerosi scontri,
culminati con la co-
siddetta "strage di
Torino": un eccidio
compiuto da alcuni
membri del Regio
Esercito italiano ai danni di gruppi di manifestanti, che voleva-
no opporsi al trasferimento della capitale.
Nello stesso anno 1865 ricorreva il sesto centenario della
nascita di Dante Alighieri (1265-1865), che fu elevato a simbolo
di coloro che lottavano per l’unità d’Italia e contro i regimi as-
solutistici. Dante venne ricordato, tra l’altro, come il fondatore
della lingua “laica” che caratterizzava uniti gli Stati italiani e al
contempo li distingueva dalle altre nazioni. Egli, essendo un
ghibellino, poteva ben rappresentare quanti preferivano uno
Stato laico e avevano lottato contro il potere temporale della
Chiesa. I festeggiamenti che si celebrarono a Firenze e a Raven-
na furono l’occasione per riaffermare i valori che avevano por-
tato all’unità d’Italia.
Le celebrazioni fiorentine assunsero un significato politico

95
straordinario, non solo perché Dante aveva prefigurato l’unità
d’Italia, ma anche perché Firenze ne era divenuta da pochi mesi
la capitale. Per dare un’idea di come la manifestazione dantesca
fosse percepita, è di straordinario interesse umano e politico una
lunga lettera che Victor Hugo indirizzò per l’occasione al
Gonfaloniere di Firenze, pubblicata per intero anche a Macerata
da «Il Vessillo delle Marche», di cui riportiamo il seguente
brano:
«Dante covava nel tredicesimo secolo l’idea apparsa nel
diciannovesimo. Egli sapeva che nessuna realizzazione deve
fallire al diritto e alla giustizia, egli sapeva che la legge di
crescimento è divina, epperò voleva l’unità d’Italia. Oggi, la
sua utopia è un fatto. I sogni dei grandi uomini sono le ge-
stazioni dell’avvenire. I pensatori meditano conformemente
a ciò che deve succedere. L’Unità che Gherardo Grozio e
Reuchlin reclamavano per la Germania, e che Dante esigeva
per l’Italia, non è solo la vita delle nazioni, ma bensì lo sco-
po dell’umanità. Laddove le divisioni si cancellano, il male
scompare. La schiavitù è per iscomparire in America, per-
che? perché l’unità è per rinascere: la guerra tende ad estin-
guersi in Europa, perché? perché l’unità tende a formarsi.
Parallelismo meraviglioso della decandenza dei flagelli col-
l’avvento dell’umanità Una. Una solennità come questa è un
grandissimo sintomo. É la festa di tutti gli uomini celebrata
da una nazione in occasione d’un genio. Questa festa la Ger-
mania la celebra per Schiller, poi l’Inghilterra per Shake-
speare, poi l’Italia per Dante. E l’Europa partecipa alla festa.
É una comunione sublime. Ogni nazione dà alle altre una
parte del suo grand’uomo. L’unione dei popoli s’inizia nella
comunione de’ geni. Il progresso camminerà sempre più in
questa via che è la via della luce. E così arriveremo, passo
passo alla grande realizzazione, così, figli della despersione,
entreremo nella concordia, così tutti per la sola forza delle
cose, per la sola potenza delle idee, raggiungeremo la fra-
ternità, la pace, l’armonia. Non ci saranno più stranieri. Tutta
la terra sarà compatriota. Questa è la verità suprema, quest’è
il compimento necessario. L’unità dell’uomo corrisponde
all’unità di Dio. M’associo quindi filialmente alla festa d’Ita-
96
lia, e ho l’onore d’essere Signor Gonfaloniere il vostro umi-
lissimo servo. Vittore Hugo».
Il fatto che Firenze fosse divenuta capitale d’Italia, fu dai più
vissuto sia come un avvicinamento al tempo in cui Roma poteva
assumere il ruolo di città guida della nazione, sia come speranza
per uscire dall’odiata piemontizzazione.
Proprio in questo contesto, il 14 maggio 1865, si svolsero i
festeggiamenti in onore di Dante, ai quali partecipò una
rappresentanza dell’Ateneo maceratese guidata da Luigi Piane-
si. Tale manifestazione prevedeva anche l’inaugurazione di una
statua raffigurante Dante stesso. Il Pianesi, per l’occasione,
compose tre epigrafi, dedicate al sommo poeta ed ai temi del
Risorgimento italiano, in una delle quali egli così scriveva:

«I rappresentanti dell’Ateneo maceratese


un affettuoso saluto inviano da Firenze
ove gl’italiani d’ogni terra
convenuti ad onorare il divino poeta
raffermano unanimi il giuramento
che l’Italia
sarà signora di sé».

Come già accennato, pure la città di Ravenna, il 26 giugno,


nel sesto centenario della sua nascita, organizzò una manife-
stazione pubblica in onore di Dante Alighieri. Luigi Pianesi «e
la patriottica gioventù della città di Macerata» vollero essere
presenti anche a questa cerimonia, non solo per onorare Dante,
ma anche l’unità italiana.

L’epide mia di colera


Mentre in Europa si stavano addensando nubi nefaste per un
nuovo conflitto in cui poteva essere coinvolta anche l’Italia, nel-
l’estate 1865 si sparse la notizia che in Ancona era scoppiata
un’epidemia di colera. Ciò mise tutta Macerata in grande al-
larme poiché si ricordava ancora quella del 1855. La Giunta
provvide subito ad istituire una Commissione di sanità straor-
dinaria e ad organizzare appositi controlli alle porte della città,
ed inoltre ordinò l’occupazione del Convento dei PP. Missionari
97
al Porton Pio per «stabilirvi uno spedale di colerosi». Alle porte
della città si fecero costruire delle «casette di legno» per «isfu-
migare sopra coloro che volessero entrarne le porte»; infatti,
dopo l'esplosione dell'epidemia in Ancona, si stava verificando
l'arrivo di non pochi anconetani anche a Macerata. Ma per il
pericolo che giungessero persone contagiate, il Comune, tramite
un apposito manifesto, pubblicizzò alcune normative emanate
dalla Commissione sanitaria, ordinando che nessuno poteva
entrare a Macerata «se non presenti certificato del proprio Sin-
daco col quale si dichiari, che da venti giorni non ha toccato
luogo infetto», mentre chi non aveva tale certificato era obbli-
gato a stare in quarantena nell'apposito locale approntato dal
Comune o in un altro locale a sue spese.
Il Prefetto, Giuseppe Tirelli, a seguito di questo manifesto,
che di fatto rendeva impossibile agli anconetani di essere accolti
a Macerata, seguendo le indicazioni del Governo, decise di
sconfessare le decisioni del Comune, eliminò pertanto i prov-
vedimenti e i controlli contumaciali e ordinò perentoriamente
che gli anconetani potessero entrare a Macerata. A seguito di
questa presa di posizione si dimise l’intera Giunta, criticando
fortemente e pubblicamente il Prefetto e il Governo. Allora il
Prefetto nominò un Commissario straordinario, poiché in tutta
la città si verificarono svariati disordini compreso un assalto al
Palazzo della Prefettura.
Mentre nei primi giorni di settembre l'angoscia serpeggiava
in tutta la città e si manifestarono i primi casi di colera. Perciò
fu riaperto il Convento dei PP. Missionari alle Tre Porte, per
utilizzarlo come «lo Spedale de' Colerosi per una quarantina di
infermi, e provveduto di quanto era necessario alla lor cura ed
assistenza».
Negli ultimi giorni di settembre, l'epidemia cominciò a
declinare e verso la metà di ottobre poteva dirsi esaurita.
Quando si tirarono le somme, fu constatato che 111 persone
furono contagiate dal colera e ne morirono 60, tra cui 18
bambini sotto i 10 anni.

98
Terza guerra d’indipendenza
Ormai, però, tutta l’attenzione della città era presa dai venti
di guerra: infatti Otto von Bismarck, cancelliere prussiano,
volendo scalfire l’egemonia austriaca nell’area germanica e,
ottenute rassicurazioni di neutralità rispetto ad un eventuale
conflitto austro-prussiano dalla Gran Bretagna, dalla Russia e
soprattutto dalla Francia, la Prussia cercò un accordo militare
con il Regno d’Italia. A Berlino, il 10 marzo 1866, fu firmato il
trattato in cui la Prussia si impegnava a difendere l’Italia, in
caso di attacco austriaco, e l’Italia si impegnava ad intra-
prendere una guerra contro l’Austria, qualora lo avesse già fatto
la Prussia. Nel trattato si prevedeva, inoltre, che nel caso in cui
l’Austria avesse offerto il Veneto all’Italia, l’armistizio non si
sarebbe potuto rifiutare. Ottenuto l’appoggio prussiano, Vittorio
Emanuele II poteva valutare di riprendere le ostilità nei
confronti del nemico austriaco.
Nei primi mesi del 1866, in previsione delle spese per la
campagna di guerra e per «sollevare il credito pubblico e dello
Stato», venne promossa la costituzione di un Consorzio
nazionale allo scopo di reperire fondi, «mercé lo spontaneo
concorso dei Cittadini e dei Corpi morali». A tal fine la Giunta
municipale di Macerata nominò un apposito Comitato, con il
compito di raccogliere le sottoscrizioni. Per la formazione dello
stesso Comitato furono contattate alcune personalità della città e
tra queste Luigi Pianesi, che, trattandosi di interessi nazionali,
accettò la nomina con entusiasmo affermando che riteneva «suo
dovere di accettare l’incarico».
Il Consiglio provinciale di Macerata, invece, discusse di
provvedimenti economici in favore dei giovani che avrebbero
partecipato alla guerra antiaustriaca. Il 4 giugno 1866, il
segretario Piero Giuliani dette «lettura di un patriottico rapporto
della Deputazione provinciale, in cui esposto come in occasione
della prossima guerra nazionale che andrà a combattersi per
conquistare la compiuta indipendenza della patria, sia un dovere
d’imitare gli esempi, che han dato finora quindici delle
rappresentanze provinciali italiane collo accorrere in soccorso
delle famiglie povere di quei cittadini, che sono stati chiamati
sotto le armi, e che con uno slancio in vero ammirabile han
risposto allo appello della patria». Il Consiglio deliberò la
99
costituzione di un fondo di 30.000 lire e il premio di 1.000 lire
«a quel qualunque provinciale, che militando nelle file
dell’esercito, o dei volontari, o della guardia nazionale
mobilizzata verrà insignito della medaglia di oro al valor
militare, ed un premio di L. 400» a chi conseguirà la medaglia
d’argento.
Negli Atti provinciali poi veniva riportato quanto segue:
«Esaurita la prima proposta il Consigliere Avv. Cavalier Pianesi
Luigi domanda la parola al Presidente, e prendendo argomento
dal voto del Consiglio, lo invita a votare una sua proposta», che
egli illustrò così:

«Onorevoli Colleghi! Siam giunti ad un’epoca la più


memoranda nella storia nostra. Ci troviamo in un momento
così supremo e così segnalato da farci esclamare, che alla
perfine cielo e terra proteggono la causa nostra. La stella
d’Italia per tanti secoli ecclissata tramanda già vivissima la
sua luce. L’odio, la rabbia e le armi dei nemici nostri sono
rese impotenti dalle simpatie che tutto il mondo civile ci
appalesa. Noi abbiamo lo slancio portentoso del paese che
ha il sentimento profondo di abnegazione, e fede incrollabile
ne’ suoi destini. Abbiamo la guida, il braccio e l’anima
ardente di un RE prode e leale, e degli Augusti suoi Figli.
Abbiamo un poderoso esercito di terra e di mare; un novello
esercito di generosi volontariamente accorsi e cui altri sono
frementi di accorrere. Abbiamo la spada dell’eroe Garibaldi,
e il nostro diritto universalmente riconosciuto. Non basta;
abbiamo le grandi anime di Cavour, di Oddone, di Massimo
d’Azeglio, di Angelo Brofferio che c’infuocano e ci additano
dall’alto la via della vittoria, la via di Venezia e di Roma.
Come è giunta questa grande epoca in cui dalla terra dei
morti sorgon giganti? In cui tutto quanto il suolo italiano è
un vasto campo aperto alle gare di onore, di filantropia, di
sacrificio, di patriottismo? In cui da ogni lato odesi unanime
il grido di concordia, di fratellanza? Com’è giunta questa
grande epoca, in cui i figli che han succhiato il latte di non
libere madri ardono del sacro fuoco di libertà, e ripudiano i
sistemi de’ lor padri? Com’è che le madri baciando e
benedicendo i figli impugnanti le armi piangon forse più di

100
consolazione che di dolore? Come noi ci troviamo in questo
supremo momento così propizio, così provvidenziale per le
sorti della patria? Voi lo sapete. Ebbene io propongo
felicitazioni al RE ed ai suoi Figli, felicitazioni all’Esercito,
felicitazioni a Garibaldi, felicitazioni ai Volontari, i quali
tutti prodighi di sangue sono fieri di combattere le ultime
battaglie, di rendere una, libera e fiorente la patria, e di
accrescere la potenza e la gloria delle armi».
Le parole di Luigi Pianesi infiammarono i membri del
Consiglio provinciale che lo applaudirono a lungo e con vivo
entusiasmo; così «il voto del Consigliere Pianesi» fu approvato
per acclamazione.
Agli inizi di giugno la Prussia provocò l’Austria e questa il
14 giugno 1866 mobilitava l’esercito; la Prussia, il giorno
successivo, invase la Sassonia. Essendo ormai scoppiata la
guerra austro-prussiana, il 20 giugno l’Italia dichiarava guerra
all’Austria, che era così attaccata da Nord dalla Prussia e da Sud
dall’Italia, nell’area
delle fortezze del “qua-
drilatero” di Peschiera,
Mantova, Verona e Le-
gnago. Presso il lago di
Garda, il 24 giugno
1866, l’esercito austri-
aco e quello italiano si
scontrarono: l’esercito
italiano si battè valorosamente, ma scontando una pessima
organizzazione fu aspramente sconfitto nella battaglia di Cu-
stoza.
Sul fronte settentrionale l’Austria si trovò, invece, in grande
difficoltà; dopo aver vinto le resistenze di vari alleati austriaci,
la Prussia, il 3 luglio 1866, sconfisse l’Austria nella battaglia di
Sadowa. L’Italia proseguì la campagna nel Veneto ed iniziò
anche le ostilità navali. Si voleva ottenere una vittoria che
salvasse l’Italia dall’umiliazione di dover accettare il Veneto da
Napoleone III, senza averlo conquistato militarmente, in modo
anche di sedersi al tavolo della pace in posizione di relativa
forza. L’esercito italiano occupò Padova e Vicenza, mentre
Garibaldi con i suoi volontari entrò in territorio trentino e il 21
101
luglio 1866 le sue armate sconfissero l’esercito austriaco nella
battaglia di Bezzecca. Ma la nuovissima flotta navale italiana

(da pochissimo fornita dall’Inghilterra), partita dal Porto di


Ancona, fu sconfitta clamorosamente al largo della costa
dalmata, davanti all’isola di Lissa. L’11 luglio 1866 Austria e
Italia stipularono l’armistizio a Cormons, mentre con il trattato
di Praga del 23 agosto Austria e Prussia definirono i termini
della pace. Solo il corpo dei volontari di Garibaldi fu all’altezza
della situazione, vincendo a Bezzeca. In realtà senza la vittoria
dell’esercito prussiano a Sadowa, l’Italia avrebbe perso la
guerra. Per taluni comportamenti incomprensibili dell’esercito
italiano, ci fu addirittura il sospetto che gli insuccessi italiani
fossero un «proposito doloso», cioè parte di un accordo segreto
per fare della guerra in Italia un semplice simulacro, quasi una
«guerra per finta».
Comunque sia, il 7 novembre Vittorio Emanuele II entrava
trionfalmente a Venezia, così, nonostante le deficienze del-
l’esercito italiano, finalmente a Venezia e in tutto il Veneto
annesso all’Italia, sventolò il tricolore. Tutto il territorio
nazionale partecipò all’evento militare, restava però la grande
delusione per le “terre irredente” di Trento e Trieste, che non si
riuscirono ad annettere al Regno d’Italia.
I maceratesi, che parteciparono come volontar i a questa
guerra, furono ben 153: tra i volontari garibaldini vi erano,
Marino Mazzetti, Pietro Natali, Perozzi Brunoro e i tre fratelli
Ciccarelli: Ercole, Sigismondo e Cesare. Quest’ultimo fu
colpito ed ucciso nella battaglia di Bezzeca, dove perì anche il
treiese Giovanni Sacchi e rimase ferito Gaetano Didimi.

102
Garibaldi tenta di risolvere la “Questione romana” a
modo suo
Oltre alle “terre irredente” rimaneva irrisolta la “Questione
romana” che vedeva particolarmente impegnato Garibaldi, il
quale andava dichiarando come fosse venuto il tempo di «far
crollare la baracca pontificia». La sua popolarità era enor-
memente cresciuta dopo la battaglia di Bezzecca, in quanto era
l’unico generale ad aver battuto gli austriaci. Ciò gli conferiva
un rinnovato margine di manovra e rendeva assai più difficile al
governo regio – che era vincolato dalle convenzioni – fermare
l'agitazione o i preparativi delle camicie rosse per concretizzare
l’intervento contro il residuo Stato della Chiesa.
Però la notizia della formazione di questa Legione di
garibaldini era stata sbandierata ed era divenuta di dominio
pubblico: ciò permise a Napoleone III di programmare per
tempo un corpo di spedizione in aiuto al pontefice. Furono
anche messe in stato di allerta le truppe dell’esercito pontificio.
La mobilitazione finalizzata all'invasione dello Stato
Pontificio apparve imminente, così il 21 settembre 1867 il
governo fece pubblicare sulla «Gazzetta Ufficiale» un monito
con cui si esortavano gli italiani a rispettare l'integrità
territoriale pontificia e a non violarne la frontiera. Veniva anche
avvertito che ogni tentativo di sconfinamento sarebbe stato
impedito. Garibaldi, che questa volta non rispose “obbedisco”
come a Bezzecca un anno prima, reagì disobbedendo al divieto,
chiamando all'appello i volontari per la conquista di Roma.
Questi accorsero numerosi da tutta Italia, in ben 10.000, mentre
si studiava un piano per la sollevazione popolare dei romani
contro il papato. Due
giorni dopo, il generale
decise di spostarsi ver-
so il confine, ma il
Prefetto di Perugia ne
ordinò l'arresto. Men-
tre ancora dormiva a
Sinalunga, Garibaldi
fu arrestato senza op-
porre resistenza. Salì

103
sul treno e fu scortato fino ad Alessandria. Alla notizia
dell'arresto, si verificarono numerosi tumulti di protesta in
alcune città d'Italia, mentre Garibaldi esprimeva il desiderio di
essere trasferito a Caprera, desiderio che il governo accolse.
L’allontanamento del generale tuttavia non determinò lo
scioglimento delle truppe garibaldine, anzi all’inizio di ottobre i
garibaldini, guidati dal figlio del generale Menotti Garibaldi, si
misero in marcia verso il Lazio. Non riuscendo le truppe
italiane ad arginare il fenomeno, Napoleone III annunciò
l'imminente invio di un corpo di spedizione francese. Il 16
ottobre la situazione precipitò quando Garibaldi evase da
Caprera – presentandosi qualche giorno dopo in piazza Santa
Maria Novella a Firenze – per arringare la folla. Era evidente a
tutti che alle autorità italiane ormai era sfuggita di mano la
situazione e l’invasione dei garibaldini nel Lazio era iniziata.
A Macerata, dato che si voleva sostenere l’operazione di
Garibaldi, fu redatto un messaggio con una sottoscrizione per il
Re – al fine di forzarlo a combattere per la conquista di Roma –
che aveva il seguente testo:
«A Sua Maestà il Re d'Italia
Sire. Nelle gravi contingenze in cui versa il Paese, è duopo
che la voce della Coscienza Nazionale giunga a Voi libera e
franca; e Macerata anch'essa ne sente il dovere. Il sangue
italiano già scorse abbastanza sopra un suolo che è nostro, e
che la rapacità sacerdotale ci contende con l'aiuto di orde
straniere.
Accorrete, o Sire; disperdete i vili satelliti; è a Roma che il
voto del Parlamento, e il grido della Nazione Vi chiamano; è
a Roma soltanto che la grande opera della redenzione d'Italia
sarà compiuta.
Pressioni straniere non vangano a raffrenare lo slancio d'un
popolo che sa e sente di propugnare la causa del diritto.
Fidate in esso e nei destini d'Italia, e l'Italia sarà tutta con
Voi».
La sottoscrizione, però, raccolse appena 385 firme, sia
perché avvenne in ritardo (ormai Garibaldi era già entrato nel
Lazio) sia perché aveva raccolto non tanti consensi. Per questo
probabilmente non fu nemmeno inviata.
104
Intanto in città – sotto traccia – si cercava di creare un corpo
di volontari a disposizione del generale per la conquista di
Roma. Macerata, dopo Milano, fu la seconda città d’Italia a
costituire un Comitato per favorire l’insurrezione di Roma. Ne
dava notizia con qualche evidente reticenza «Il Vessillo delle
Marche».
«Ci si dice che anche nella nostra Città siasi costituito un
Comitato allo scopo di aiutare il movimento degli insorti
Romani. Maggiore soddisfazione proviamo poi nel sentire
che il buon pensiero dei pochi sia stato già subbito accolto e
secondato dalla nostra generosa gioventù, molti dei quali
rotta ogni impazienza son già corsi nel luogo della lotta, e
dai più cospicui Cittadini con generose offerte di danaro
aiutati anche le limitrofe Città e Paesi dalla Provincia, ci si
aggiunge abbiano con prontezza risposto all’appello; ci si
assicura che nessuna di essa vorrà rinunciare al dovere di
dare in qualche modo il suo contingente.
Questo fatto prova ad evidenza che la Città nostra e l’intera
Provincia se non brillano per strepitose ed inutili
dimostrazioni non saranno mai ultime quando trattasi di
compiere una buona azione. Se la riservatezza necessaria in
simili congiunture non c’imponesse di esser discritissimi,
potremmo riferire anche qualche cosa di meglio, che presso
noi si opera a vantaggio della desideratissima impresa.
Chiudiamo quindi con il rallegrarci di cuore per l’ottimo
spirito addimostrato da questa Provincia Marchegiana, e se
non fossimo persuasi essere una assoluta superficialità,
aggiungeremmo, continuate con costanza e crescente
energia».
Per iniziativa del sindaco Ferdinando Giorgini fu proposto al
Consiglio comunale di contribuire alla raccolta a sostegno del
Comitato per l’insurrezione di Roma. Il Consiglio, «nonostante
la ristrettezza delle sue finanze», deliberò di mettere a dispo-
sizione la somma di Lire 500.
Intanto a Roma si stavano preparando degli attentati con
esplosivo, che però furono scoperti, mentre il 22 ottobre andò in
porto l’attentato terroristico alla Caserma Serristori, dove
avevano il loro quartier generale gli zuavi pontifici. Tale
105
attentato causò la morte di venticinque militari, nonché quella di
un padre con la sua bambina, che passavano per caso in quella
zona. All'attentato, che era stato eseguito da Giuseppe Monti,
muratore fermano, e dal romano Gaetano Tognetti – con la
partecipazione del treiese Pietro Santarelli, che aveva preparato
l’ordigno esplosivo – doveva dare il via alla sollevazione della
popolazione romana che però non fu attuata.

Morte di Enrico Cairoli

Il 23 ottobre 1867 fallì anche l’incursione di un drappello di


settantasei volontari guidati da Enrico e Giovanni Cairoli, che a
Villa Glori pensavano che ad attenderli vi fossero un nutrito
numero di rivoluzionari romani, che invece non trovarono. Così
i componenti di questo drappello di volontari garibaldini
caddero quasi tutti, combattendo fino all’ultimo.
A Macerata le notizie arrivarono con un certo ritardo e
l’avvicinarsi di Garibaldi a Roma, gli attentati falliti e quello
riuscito suscitarono entusiasmo, come pure l’assoluta sicurezza
che l’obiettivo della conquista del Lazio e della stessa città si
sarebbe raggiunto rapidamente. Il periodico «Il Vessillo delle
Marche» seguiva costantemente l’evolversi delle operazioni
militari dei garibaldini e così scriveva lasciando trasparire un
certo ottimismo: «L’ora del riscatto doveva suonare, ed è
suonata; e dal Campidoglio sorgerà il grido di Roma capitale di
Italia, qual grido annuncierà all’Europa intera che quei Romani
che mancavano all’Italia da secoli per aver fornicato co’
sacerdoti e liviti, si sono gloriosamente oggi congiunti,
ricostituendo così l’intera nazionalità italiana».

106
Queste notizie facevano presumere che anche all’interno
della città si stava preparando una grande insurrezione popolare,
così una moltitudine di maceratesi scesero in strada per
manifestare la propria gioia, di cui «Il Vessillo delle Marche» ne
faceva la cronaca:
«Alle ore 5 pom. di jeri corse per la Città il lieto annunzio
della insurrezione romana. Poco dopo venivano distribuiti
per cura del nostro Comitato, i due Bollettini di quello di
Firenze, coi quali si annunziava il dessiderato avvenimento.
Gli animi in un subito si rialzarono dall’abbattimento a cui si
eran dati da due giorni, ed una gioja indiscrivibile traspariva
sul volto di tutti. Intanto le Campane della Torre maggiore
annunziavano ai Borghi ed al contado la lieta novella. In un
subito le case si videro illuminate; le bandiere nazionali
sventolare per ogni via; ed una immensa popolazione
raccogliersi alla piazza della Prefettura ove la Banda
nazionale intuonava la marcia reale alternandola coll’inno di
Garibaldi. È indescrivibile l’entusiasmo della popolazione: si
gridò e sempre Viva il Re, Viva Garibaldi, Viva Roma
insorta, i Volontari, l'Esercito. Non mancò chi invitasse la
popolazione ad un evviva a Vittorio Emanuele incoronato al
Campidoglio, e chi al caduto potere temporale. Non poteva
non solo farsi, nè immaginarsi una dimostrazione più
splendida e tranquilla.
La Banda Nazionale percorse l’intera Città, ed il popolo
l’accompagnava collo stesso entusiasmo. Restituitasi alla
Piazza della Prefettura il nostro Comitato di soccorso si recò
dal Prefetto pregandolo di significare al Superiore Governo
che con quella dimostrazione il popolo Maceratese intendeva
raffermare il diritto d'Italia di aver Roma per sua Capitale. Il
Prefetto rispose colla consueta sue cordialità promettendo
immediatamente tenerne informato il Governo del Re. La
risposta da uno del Comitato fu riferita alla accorsa
moltitudine che accolse con ripetute evviva al Re a
Garibaldi, ai Volontari, all'Esercito. Quindi il comitato
sciolse la dimostrazione».
Lo stesso giornale riportava anche altre informazioni,
precisando «che abbiamo ragione di credere esatte», cioè che
107
gl’insorti romani circondavano il Gianicolo, dove si erano
fortificate le truppe estere pontificie, che Garibaldi si trovava
già nelle vicinanze di Roma e «possiamo credere, che nel
momento in cui scriviamo, sia riuscito a circondarla cogli
emigrati Romani da lui capitanati, da Porta del Popolo a Porta
Salara; nel mentre che gl’insorti di Velletri, Albano e paesi
circostanti la chiudono dall’altra parte riunendosi ai primi». In
realtà si era verificata una vera e propria battaglia a
Monterotondo, che alla fine con non poche difficoltà fu
occupata dai garibaldini.

La fine della campagna per Roma e il ritorno dei


prigionieri
A questo punto il re Vittorio Emanuele per evitare
l’intervento francese emise da Firenze un proclama con il quale,
senza nominare Garibaldi, denunciava il comportamento di
«schiere di volontari eccitati e sedotti dall’opera di un partito
senza autorizzazione mia né del mio governo» confidando che
«cittadini italiani che violarono quel diritto si porranno
prontamente dietro le linee delle nostre truppe», ovvero
rientreranno nei confini nazionali ponendo fine all’impresa. In
caso contrario il Re sarebbe stato pronto ad usare di nuovo la
forza come in Aspromonte, se l’imperatore dei francesi
Napoleone III, per evitare questa nuova tragedia, non lo avesse
esentato affermando che avrebbe lui solo provveduto alla
bisogna.
Contestualmente le prefetture dovevano forzosamente
chiudere i Comitati per l’insurrezione di Roma, così avvenne
anche a Macerata, con non poco sconcerto nella popolazione
che non riusciva a comprendere l’intervento del Re e del
Governo. I membri del Comitato non potevano far altro che
adeguarsi alle direttive del Prefetto, ma vollero comunque
esprimere una decisa protesta, che fu pubblicata da «Il Vessillo
delle Marche»:

«Protesta
DEL COMITATO DI SOCCORSO PER L’INSURRE-
ZIONE ROMANA emessa nell'atto in cui ha ricevuto dal
Sig. Prefetto della Provincia l’ordine di sciogliersi.
108
I sottoscritti Presidente, e membri di questo Comitato di
Soccorso per l'Insurrezione romana, all'ordine partecipato
dal Sig. Prefetto della Provincia da parte del Governo del Re
di sciogliere il Comitato, nell'atto che dichiarano di accettare
tale ordine per amor di concordia, e perché potrebbe esser
posto in atto colla forza, si credono in dovere di protestare
per la integrità del diritto di riunione che lo Statuto
Costituzionale guarentisce agl’Italiani, come pure di
affermare il diritto degli Italiani su Roma Capitale d’Italia
diritto sancito già dal voto del Parlamento Nazionale, ed
affermato ora più solennemente dalli concordi indirizzi di
tutte le città italiane nei momenti supremi che attraversa ora
la Nazione.
Macerata 31 Ottobre 1867
IL COMITATO
Giuliani Avv. Cav. Piero Presidente
Carzini Dott. Domenico, Cerquetti Dott. Giorgio, Cinelli
Adriano, Garampi Conte Luigi, Giacometti Ettore, Lori
Luigi, Mancini Cortesi Federico, Marcucci Alessandro,
Montini Vincenzo, Natali Pietro, Palmieri Sigismondo,
Pannelli Ing. Ruggero, Paoletti Raffaele, Pignotti Dott.
Eduardo».
Dopo il proclama del Re, oltre tremila garibaldini lasciarono
il campo di battaglia. Così Garibaldi, dato che la popolazione
romana non si era sollevata e che erano arrivate le truppe
francesi, decise di sciogliere la legione andando verso Tivoli,
ma una serie di disgu-
idi, fraintendimenti e
ritardi nel recepimento
degli ordini portarono
allo scontro del 3 no-
vembre 1867. In que-
sto giorno si fronteg-
giarono a Mentana le
truppe pontificie, coa-
diuvate dai francesi, e
da quanti altri erano restati con Garibaldi. Le forze in campo
erano favorevoli ai franco-pontifici e la sconfitta di Garibaldi e
109
dei suoi volontari, inevitabile. Questa fu l’ultima battaglia,
combattuta dai garibaldini in territorio italiano, che segnò il
tramonto di un glorioso modello volontaristico che ormai non
risultava più vincente.
Garibaldi fu costretto ad uscire dal Lazio, ma in Toscana, a
Figline, nonostante le sue proteste fu arrestato e imbarcato su di
un treno diretto al carcere di Varignano in Liguria, dove rimase
per oltre venti giorni, per poi essere ricondotto a Caprera, dopo
una sua formale promessa di rimanervi per almeno sei mesi.
Alla battaglia di Mentana – tra i garibaldini rimasti fino in
fondo fedeli a Garibaldi – parteciparono anche 83 maceratesi,
tra i quali: Ercole e Sigismondo Ciccarelli, Marino Mazzetti,
Brunoro Perozzi e Torello Perozzi.
Come si può ben comprendere, questa vicenda fu davvero
lacerante per molti patrioti, i quali volevano la fine del papato e
Roma capitale d’Italia e facevano fatica a capire il Re;
soprattutto erano sconcertati dal fatto che era risaputo che il
governo sapesse degli intenti di Garibaldi e che ora, invece,
addirittura lo avesse fatto arrestare. Comunque, dopo questi
avvenimenti, ci si convinse che erano finite due ideologie:
quella del movimentismo garibaldino e quella dello stragismo
mazziniano.
«Il Vessillo delle Marche», facendo una totale inversione di
tendenza, in merito all'arresto di Garibaldi, affermava: «Noi
domandiamo se giunti a tale [punto] fosse necessario un tanto
severo provvedimento, e la calma ragione non esita a
pronunciarsi affermativamente».
Intanto si verificava il ritorno di quanti sfuggivano
all’arresto e, gradualmente, di quanti invece erano stati fatti
prigionieri e raccontavano qualcosa degli eventi a cui avevano
partecipato, così riportati da «Il Vessillo delle Marche»:
«Jeri sera sono giunti alcuni nostri volontari. L’animo ci
rifugge di poter riferire tutto ciò che questi valorosi giovani
pieni di patriottismo ci raccontano. Sono essi concordi nel
dire che erano truppe francesi quelle imboscate nella collina
che domina quella di Montano, in altri punti, ed in Montano
stesso sulle di cui falde andavano a passare i volontari per
restituirsi al confine. Il fuoco, incominciato ad un’ora
pomeridiana del giorno 3, che questi prodi hanno sostenuto
110
contro l’artiglieria e moschetteria francese durò per oltre
cinque ore, ed han desistito dal combattimento allora solo
che avevano terminato le loro cariche. I due pezzi di
artiglieria che essi avevano tolto agli zuavi a Monterotondo
agirono con grave danno delle truppe imboscate e cessarono
il fuoco per mancanza anche essi di nunizioni. Uno dei pezzi
fu lasciato nel luogo del combattimento perché essendosi
affondato non fu possibile nella ritirata trarlo fuori. Le
perdite dei volontari sono state oltre modo gravi e cagionate
principalmente dalla moschetteria e dagli assalti della
cavalleria. Ci dicono ancora che la poca artiglieria degli
assaliti abbia cagionato non minori perdite nelle file degli
assalitori. I volontari rientrarono sulla sera al confine al
passo Corese, dove da quelle autorità militari vennero
disarmati, ma accolti con dimostrazioni di molto affetto e
fratellanza. Fu somministrato ad essi due razioni di pane,
soccorsi i feriti. Diamo questi brevi cenni sul disastro per
averli uditi da alcuno dei nostri volontari».
Altri, arrestati a Mentana, raccontarono che «veniva
somministrato ad essi un solo vitto ogni 24 ore il quale
consisteva in un pane e una minestra spesso di pasta tignata: e
per avere poca acqua a dissetarsi non bastavano preghiere». Lo
stesso foglio, inoltre, pubblicò l’elenco dei nomi, con
specificata professione, di quanti della nostra provincia
rimasero prigionieri, così come riportato addirittura dalla
Gazzetta Ufficiale, dei quali ci piace ricordare quanti erano
della nostra città: Abbati Valentino di Raffaele, calzolaio,
Bontempi Marcello, sarto, Bocci Luigi, studente, Bocci
Giovanni, negoziante, Buratti Luigi, caffettiere, Torresi
Francesco, falegname, Cardoni Giovanni, caffettiere, Firmani
Augusto, cameriere, Giorgetti Pio di Ciriaco, barbiere,
Gentilucci P io di Giovanni, possidente (sergente, ferito),
Mancini Pietro, falegname, Marchesini Nazzareno, fabbro,
Mogarelli Cesare, orologiaio, Marconi Angelo, calzolaio,
Orlandi Guido, studente, Pagnanelli Costantino, tipografo,
Polini Nicola, sellaio, Pompei Antonio, calzolaio, Poloni
Domenico, Paternoster Francesco, falegname, Pacciarelli
Francesco, calzolaio, Rossi Giovanni, sarto, Recchi Luigi,
calzolaio, Sordini Angelo, barbiere, Teofani Giuseppe,
111
possidente, Topi Vincenzo di Giuseppe, impiegato, Ugolini
Augusto, Ventura Achille, studente, Venturi Socrate di
Guerrino, cappellaio (caporale, ferito).
Oltre alla delusione per come si era conclusa la vicenda
dell’occupazione del Lazio e per l’arresto di Garibaldi,
rimaneva anche un forte risentimento nei confronti della politica
francese, che ancora una volta si era frapposta all’annessione
del Lazio e della desiderata elevazione di Roma a capitale del
Regno d’Italia. Si sviluppò così una sorta di tentativo di
boicottaggio dei prodotti francesi, come proposto anche da «Il
Vessillo delle Marche» con il seguente articolo:
«L’impegno di non consumare merci francesi sembra a
certi dottrinari qualcosa di strano e di puerile: sappiano essi
che con questo mezzo le colonie inglesi cominciarono la loro
emancipazione dall’Inghilterra. E non sarebbe una vera
emancipazione la nostra, mentre ora non osiamo di mettere
nemmeno sulle cose prodotte dalle fabbriche italiane la
etichetta nazionale, e per venderle si deve metter sopra
Paris? Non sarebbe un guadagno da far vedere che siamo
meno indietro degli altri? Non sarebbe un guadagno far
conoscere che Milano, Torino, Genova, Venezia, Firenze,
Roma e Napoli hanno tessuti di lana e di seta che se per la
apparenza non eguaglino quelli francesi, per la solidità certo
li superano?; che i vini di Asti, Marsala ed altri sono migliori
di quello della falsata sciampagna? Non sarebbe un
guadagno di rompere una volta per sempre la nostra servitù a
tutto ciò che è francese? In francese si parla, in francese si
scrive, in francese si pensa, si mangia, si beve, si veste, e ci
lagniamo poi di essere in tutto servi alla francia? La prima
emancipazione è quella dei bisogni fittizi; e se gli italiani
sapranno emanciparsi di tutti i bisogni fittizi che ci fanno
preferire le cose di francia, sentiranno di valere più di
prima».
Nel frattempo era in corso il processo contro gli autori di
diversi attentati, sventati e realizzati, nella città di Roma, in
particolare quello relativo ai responsabili della strage della
Caserma Serristori: il fermano Giuseppe Monti, il romano
Gaetano Tognetti, che fecero esplodere due barili di polvere
112
nera, provocando il crollo parziale dell’edificio; nonché il
treiese Pietro Santarelli che aveva preparato l’ordigno esplosivo
che doveva far deflagrare i due barili. Dopo «lunga ed accurata
inquisizione», il 26 settembre 1868 fu emessa la sentenza di
condanna a morte per decapitazione di Monti e Tognetti, mentre
il Santarelli fu condannato a 20 anni di carcere. Le sentenze
furono poi confermate dal Tribunale supremo della Sacra
Consulta il 16 ottobre.
«L’Osservatore Romano» riportò la cronaca dell’esecuzione
dei due condannati a morte
che fu eseguita il 24 no-
vembre 1868 e comunicata
per telegrafo anche a Ma-
cerata. Il giornale scriveva:
«Non è chi ignori come il
22 ottobre dello scorso an-
no, la rivoluzione, che ten-
tava con tutti i modi d’im-
padronirsi di questa Eterna
Città, non s’arrestò dinanzi
al più spaventoso eccesso
che mente umana non pos-
sa immaginare, e, per mano di due disgraziati, faceva saltare in
aria la caserma Serristori. Nè questa sola era la caserma cui
veniva riserbato si miserando eccidio: se non che le vigili cure
della polizia romana riuscivano a sventare le altre consimili
macchinazioni».
Il foglio continuava: «La sentenza aveva questa mane il suo
plenario effetto colla morte d’esemplarità inflitta agli esecutori
del terribile misfatto. Appena fu annunziata loro la sentenza
ambedue i condannati vennero abbracciati ed assistiti dai
confratelli di San Giovanni Decollato e si sono devotamente
confessati ad un padre gesuita ed ad un passionista, che si
prestarono con zelo ammirevole appena furono richiesti dai
condannati stessi». I condannati assistettero alla messa e dopo la
comunione, chiesero perdono al colonnello degli zuavi De
Charette per l’eccidio commesso, poi furono portati «sulla
Piazza dei Cerchi [vicino al Circo Massimo] in due cittadine

113
scortate da molti gendarmi a cavallo» dove fu eseguita la
sentenza per decapitazione.
Altre notizie sull’esecuzione furono pubblicate da «Il
Vessillo delle Marche», che specificava: «L’esecuzione ha
avuto luogo come si era stabilito alle 7 precise sulla Piazza dei
Cerchi, dove nella notte si era alzata la ghigliottina. Tutte le
truppe di guarnigione erano in servizio, altre a guardia dei
quartieri, altre alle carceri, altre in pattuglia per la città, ed altre
sul luogo del supplizio. Per garantir questo da ogni evenienza si
erano prescelte le truppe straniere e si era fatto chiudere ogni
accesso alla Piazza dei Cerchi da un intero reggimento di zuavi,
da molte compagnie di carabinieri esteri ed antiboini, non che
da uno squadrone di dragoni e da numerosa gendarmeria a piedi
ed a cavallo». All’esecuzione assistettero in silenzio anche
numerosi romani, probabilmente colpiti dalla strage, mentre da
molte città si elevarono proteste e richieste di tramutare la
sentenza di morte in condanna al carcere perpetuo.
Il foglio citato si era unito per questo a molti altri giornali,
come testimoniato dal seguente brano di un articolo:

«I più accreditati periodici ci giunsero jeri listi a nero


facendo precedere questo tristissimo annunzio da parole le
più dolorose (.…) Si dirà che questi due Italiani si erano resi
[colpevoli] di un delitto gravissimo, volevano rovesciare
quel potere che li ha immolati, avevano sacrificato anch’essi
delle vittime innocentissime, e molte altre obiezioni si
affacceranno per giustificare questo assassinio, ma nulla è
che possa bastare, non che a giustificazione che è
impossibile, a scusa. Come! E lo scopo a cui questi giovani
ardimentosi tendevano, e il fascino di un’idea che li
trascinava, e le esigenze e la disciplina del partito a cui essi
servivano, e di cui non erano che gli istrumenti, non erano
forse sufficiente ragione per difenderli, non da una qualsiasi
condanna, ma almeno dalla più feroce ed estrema?
Noi sappiamo porci spassionatamente dal lato del Governo
romano, ed entrare nell’ordine d’idee e di apprezziazioni che
possono averlo condotto a questo lacrimevole eccesso, e dal
suo punto di vista possiamo convenire che Monti e Tognetti

114
meritassero una punizione, una gravissima punizione: ma
meritavano essi la morte?».
Fa pensare che il giornale adottasse la stessa giustificazione,
che poi verrà utilizzata anche dai gerarchi nazisti accusati di
stragi e violenze: che erano degli esecutori di ordini superiori.
Comunque anche a Macerata lo sdegno fu notevole e diffuso.
«Il Corriere delle Marche» aprì una sottoscrizione per aiutare
economicamente le due famiglie ed anche il «Il Vessillo delle
Marche» aderì all’iniziativa e tra i primissimi a contribuire
troviamo i direttori dello stesso giornale, che aveva la sede in
Piazza Duomo, Marino Ilari e Luigi Pianesi, che versarono una
Lira.

L’occupazione e l’annessione di Roma


Dopo il tentativo garibaldino di occupare Roma, la Francia
lasciò delle guarnigioni a Civitavecchia, Tarquinia e Viterbo a
protezione di Roma. Ma il 15 luglio 1870 la stessa Francia
dichiarò guerra alla Prussia (a causa del crescente potere che lo
Stato prussiano stava conquistando in Europa) e per far fronte
allo sforzo bellico ritirò tutte le sue truppe presenti in Italia,
comprese quelle rimaste nello Stato Pontificio che lasciarono il
3 agosto. La guerra franco-prussiana (luglio 1870-maggio 1871)
subito volse male per la Francia, che capitolò completamente a
Sedan il 2 settembre 1870, determinando così la fine del
Secondo impero con la deposizione di Napoleone III e la nascita
della Terza Repubblica.
Il re Vittorio Emanuele II, rompendo gli accordi con la
Francia (con la quale si era impegnato a non occupare Roma)
tentò un accordo con Pio IX ed anche di far sollevare la
popolazione romana, ma furono tentativi fallimentari. Il Re
indirizzò ugualmente un messaggio al Papa, dicendosi costretto
ad intervenire «per la sicurezza di Sua Santità e per il
mantenimento dell’ordine» (che in realtà non era affatto
turbato).
La questione di Roma capitale era molto sentita dalle
popolazioni, così in molte città italiane furono organizzate delle
manifestazioni sollecitando l’intervento delle truppe italiane per
l’occupazione del Lazio. Anche a Macerata ci fu una
115
manifestazione in favore dell’occupazione, così brevemente
descritta da «Il Vessillo delle Marche»: «Anche la nostra città
ha voluto fare la sera dell'8 un’imponente dimostrazione.
Un’immensa popolazione verso l'una di notte percorse le vie
della città preceduta dalla Banda Cittadina, alle grida di Viva
Roma Capitale d'Italia: Viva il Re incoronato al Campidoglio,
Viva Garibaldi: Viva l’esercito, i Romani. La dimostrazione fu
calma e dignitosa quale si addice a civile popolazione educata a
viver libero». Anche il Consiglio provinciale, presente il Regio
Prefetto, adottò un voto «per acclamazione» da presentare al
governo favorevole all’intervento «perché l’Italia abbia la sua
capitale Roma».
In realtà tutto era stato già pianificato per l’occupazione del
Lazio con l’invio di un esercito di 50.000 soldati, formanti
cinque divisioni che dovevano invadere il territorio residuo
dello Stato Pontificio in tre punti distinti: a Nord-est, presso
Orvieto, vi era la II Divisione al comando del generale Nino
Bixio [con Aiutante di campo Gustavo Perozzi]; a Est vi era il
grosso dell'esercito (40.000 uomini su 50.000), costituito da tre
divisioni: l'XI, guidata dal generale Enrico Gomez; la XII, al
comando del generale Gustavo Mazè de la Roche; la XIII, agli
ordini del generale Emilio Ferrero; a Sud, sulla vecchia
frontiera napoletana, era stanziata la IX Divisione, al comando
del generale Diego Angioletti.
Il 13 settembre fu pubblicato, ancora su «Il Vessillo delle
Marche», il seguente Dispaccio Ufficiale del Ministero
dell'Interno ai Prefetti del Regno:
«Sua Maestà ha ordinato che il primo corpo di armata
comandato dal luogotenente generale Cadorna passi il
confine per occupare Roma. Gli avvenimenti straordinari
cagionati dalla tremenda guerra tra la Francia e la Germania,
e le condizioni politiche create da questi avvenimenti in
Europa ed Italia consigliarono al Governo del Re questa
risoluzione. Lo scopo dell'occupazione del territorio e di
Roma mira al consolidamento della sicurezza, e della
concordia d'Italia, e a rassicurare l’indipendenza del
POTERE SPIRITUALE DEL PONTEFICE, sottraendolo
alle eventualità di un intervento straniero, e al pericolo di
partiti sovversivi».
116
La notizia dell’attesa decisione si sparse in un baleno per la
città e subito dette vita ad una spontanea manifestazione di
giubilo, che fu descritta nella cronaca cittadina dello stesso
foglio:
«L’annunzio che le truppe italiane avessero varcato il
confine marciando su Roma riempì l’animo de' nostri
concittadini di indescrivibile gioia. La Città venne in
un'istante imbandierata. Le campane della Torre Municipale
col loro festevole suono ed i spari dei mortari invitavano sul
mezzodì la popolazione a riunirsi nella piazza maggiore ove
la Banda Cittadina rendeva maggiormente lieta e festevole la
dimostrazione. Fu un’accorrere precipitoso di tutte le classi
de' cittadini i quali più e più volte, acclamarono il Re,
l’Esercito, e Roma. La riunione si sciolse dopo di aver
percorso la Città, e dopo di aver fragorosamente acclamato
l’inno reale di guerra. Verso le ore sei pomeridiane
nuovamente la popolazione si raccoglieva nella piazza e la
Banda Cittadina intuonando la marcia reale percorreva la
Città, e facendo ritorno avanti il Palazzo di Prefettura
rinnovava le entusiastiche acclamazioni, le quali furono più
imponenti nella prima ora di notte nel percorrere la città che
era tutta vagamente illuminata. Per cura di alcuni cittadini
furono accesi fuochi di bengala a colori nazionali. Fu poi
sorprendente la vista di centinaia di giovani che attorniavano
il corpo musicale con piccoli lampioni di carta di svariati
colori fermi su aste e che ebri di gioia applaudivano
incessantemente al Re, al Principe Umberto, all'Esercito, ai
romani. Sul tardi la riunione si sciolse lasciando nel cuore di
ogni cittadino una grata rimembranza, ai nostri figli
un’imperituro ricordo».
Data la grande attesa che si era creata in città, «Il Vessillo
delle Marche» sfornava articoli con notizie relative
all’avanzamento delle truppe nel Lazio, che in realtà non
trovavano altro che modeste sacche di resistenza. Il 20
settembre un lungo articolo, dall’emblematico titolo «a Roma»,
ci permette di scoprire tutta la tensione emotiva di quel
momento:
117
«I sessantamila uomini di truppa Italiana che trovansi non
più scaglionati lungo il confine dello stato che fu del papa,
ma che occupano interamente lo stato medesimo, e al
momento in che scriviamo stanno davanti le porte di Roma,
ci sono arra non dubbia del felice successo della nobile
impresa a cui si è accinto il governo del re.
Il potere temporale dei pontefici di Roma; quel mostruoso
potere che per 10 secoli stette incrollabile fra l’incessante
avvicendarsi di lotte gigantesche e di rivoluzioni che
mutarono la faccia del mondo, crolla ora, e per sempre al
soffio poderoso della libertà, in presenza dell'Europa
indifferente alla grande caduta!
L’Italia, nel breve giro di due lustri appena, risorta per
volontà di popolo a vita libera, atterrati i troni di ben sette
monarchie che le laceravano il seno, e cacciati gli stranieri
oltre i confini segnati dalla natura, compie oggi il più grande
atto del suo politico e sociale rinnovamento.
L’Europa liberale dovrà riserbare all’Italia eterna
riconoscenza. Il più grande problema dell’epoca nostra, la
indipendenza della potestà civile dal potere ecclesiastico; la
separazione del pastorale e della spada; la rivendicazione
della ragione sul fanatismo o sull'ignoranza, l'Italia sola li
ottiene di propria mano con le proprie forze inaugurando
l'era nuova aspettata di tanti secoli, preconizzata dai
pensatori, nè mai potuta raggiungere per quanto sangue
abbiano versato mille e mille martiri della santissima causa
della libertà!
Il complemento della nostra unità, per quanto possa
soddisfare l’amor proprio nazionale scompare quasi dinanzi
ai grandi principi di libertà e di tolleranza che colla caduta
del poter temporale ricevono novella sanzione. Pochi giorni
ancora e per la prima volta da secoli l'Italia avrà un solo Re
ed una sola bandiera; pochi giorni ancora ed il sogno di tante
generazioni sarà compiuto.
Noi possiamo gettare con soddisfazione uno sguardo, dietro
di noi; rallegrarci del cammino percorso in soli undici anni
noi abbiamo risuscitata la patria senza rivoluzioni
disordinate e senza scosse. Bisogna confessare che in tutto
ciò v'ha qualche cosa di provvidenziale! La moderazione
118
stessa con cui il grande atto dell'occupazione di Roma si
compie è guarentigia che l'Italia comprende gli interessi
morali, politici e religiosi che si commettono all'esistenza del
papato.
Noi salutiamo con gioia questo grande avvenimento che è
forse il principio di un'era novella, la fine fortunata di ogni
civile discordia: lo salutiamo come una vittoria del progresso
e della civiltà.
L’occupazione di Roma rivendicata al principio governativo
costituisce all'edifizio nazionale una base di granito, segna il
termine delle disordinate agitazioni, e colloca l'Italia fra le
forze politiche essenzialmente moderatrici dell'Europa
civile.
In momenti tanto solenni non potremmo esprimere anche
volendolo tutta l’emozione dell’animo nostro; v'hanno certe
soddisfazioni che meglio si appalesano col silenzio, sono le
soddisfazioni che ci ricordano gli entusiasmi del 1860.
In questo sublime movimento dell'Italia sulla via delle utili
imprese uno solo è il grido che accompagna nostri soldati al
di là dei varcati confini.
Viva Roma Capitate d'Italia».
Il 20 settembre
1870 (mentre a Ma-
cerata era noto l’arti-
colo riportato) a Ro-
ma, aperta la breccia
nelle vicinanze di Por-
ta Pia, le truppe italia-
ne con in testa i bersa-
glieri entrarono nella città capitolina, superata la simbolica
resistenza delle truppe pontificie (il Papa aveva dato ordine di
non resistere); così Roma fu
occupata.
Edmondo De Amicis, uf-
ficiale dell'esercito italiano, pre-
sente al momento di entrare in
Roma attraverso la breccia, così
scri-veva: «La porta Pia era tutta
sfracellata; la sola immagine
119
enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta;
le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo
intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di
berretti di zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina
entravano rapidamente i nostri reggimenti». Pio IX condannò
aspramente l'occupazione di Roma e del Lazio; non
riconoscendo la sovranità italiana su Roma, si ritirò in Vaticano
dichiarandosi «prigioniero» fino alla morte. La popolazione si
dimostrò molto tiepida e non scese in piazza per festeggiare,
come si voleva e s'immaginava. Si temevano azioni violente
degli occupanti nei confronti del Papa, mentre essi innalzavano
un tripudio di bandiere tricolori e fiaccolate. Commentava
amareggiato lo zuavo pontificio Michele Barsotti: «Nelle
botteghe sul Corso sono stati spezzati i ritratti di P io IX. Nello
stesso tempo i “patrioti”, portando fasci di bandiere tricolori, si
sono presentati alle case col pugnale alla mano, e hanno
ordinato di metterle fuori dalle finestre. Quindi hanno fatto
sapere che questa sera “si deve” fare l’illuminazione. E se
qualcuno ha cercato di mostrarsi indipendente ha ricevuto
insulti, minacce e sassate alle finestre». L'Italia trovava così la
sua capitale, ma, per contro, esplodeva la questione romana.
Tra i maceratesi presenti nella
conquista del Lazio vi furono Giu-
seppe Buldorini, Antonio Latini e
Pio Morresi, mentre non fu di
secondo piano Gustavo Perozzi,
ufficiale dell’Esercito e Aiutante di
campo del Comandante Nino Bixio,
conosciuto personalmente da Giu-
seppe Garibaldi, come documentato
da una lettera dello stesso generale a
lui indirizzata, conservata nella
Biblioteca Comunale di Macerata.
Gustavo Pe rozzi A Macerata arrivò telegraficamente
l’attesa notizia dalla torinese e famosa Agenzia Stefani: «Le
Regie Truppe sono entrate in ROMA questa mane per una
breccia laterale a Porta Pia». Mentre alle «ore 8 sera» il secondo
comunicato era più esplicito: «La Divisione Bixio apriva
stamane alle ore 6. il fuoco contro la porta S. Pancrazio, ed i

120
bastioni laterali. Successivamente si avvicinò alla cinta
occupando il Convento di S. Pancrazio ed il Palazzo dei quattro
venti. La Piazza mantenne un fuoco vivo per qualche ora. Verso
le ore 10. antemeridiane inalberò bandiera Bianca sopra tutte le
batterie per ordine del Pontefice. Fu spedito un parlamentario al
quartier Generale del comandante in capo Cadorna. Perdite
lievi».
«Il Vessillo delle Marche» così descrisse la reazione popo-
lare che avvenne a Macerata dopo l’arrivo dei due dispacci:
«L’Espettazione che ormai degenerava in parosismo, già da
due giorni si dipingea sul volto di ognuno. Scorrevano
angosciose le ore, e gente d'ogni stampo al battito del
proprio cuore contava i minuti, che dovevano sollecitare
l'avvenimento sollenne. Per ogni via, nella piazza e perfin
nel contado era un domandarsi un sogguardare ansioso che
rivolgeva senza posa alla sede governativa, quasiche si fosse
voluto interrogare il silenzio stesso che vi regnava sulle sorti
della gloriosa Metropoli. Quà scorgevi un crocchio di
cittadini dalla fronte altera e irradiata di puro entusiasmo, là
un letamajo di bieche birbe dagli occhi rimbambolati, che ad
ogni lieve stormir di fronda minacciano di sgusciarsi dalle
orbite: nel volto di quelli siede la coscienza della morale e
politica rigenerazione, nei grifi di queste il riverbero
dell'anima degradata da un impotente furore, e dal rimorso
per il sangue e le lacrime inessiccabili fatte versare all'Italia
per una serie prodigiosa di secoli. Intanto sorge segnalato da
storiche ricordanze il giorno 20 Settembre, e già tutti gli
animi erompono in generosa impazienza, quando il
Commendator Federico Papa venerando per onorata canizie
e liberi sensi, fattosi al balcone che domina la Piazza
Maggiore e circondato dalla sua famiglia annunzia col
vessillo tricolore in mano al popolo Maceratese il crollo
decisivo della contaminata tiara del rinnegato Pio Nono. oh!
istante sublime che non può dimenticare la popolazione di
Macerata! In un baleno la piazza è gremita: la commozione,
il contento strappa le lagrime agli uni, rende gli altri attoniti
e incosci di se stessi. Ma la causa di si svariato
atteggiamento è una, uno il principio che scuote 1'anima
dell'illustre Prefetto e del popolo, che immoto pende dalle
121
sue labbra. Un grido unanime immenso prorompe alla fine
da mille petti, è il grido di Roma a Capitale d'Italia. Non più
sinistri messaggeri di mensogne e di morte i sacri bronzi
innalzano al cielo il loro suono, ma si accordano all'inno dei
liberi che per ogni dove echeggiando si spande. È un correre
in ogni senso e ricambiarsi la felice novella: quasi per
incanto tutte le vie sono parate a festa e ornate dei colori
nazionali. Il concerto cittadino alterna le sue melodie agli
evviva al Re Galantuomo e a Roma Capitale; è una festa
improvvisata, che nel suo tranquillo disordine riesce più gaja
e più imponente; luminarie e candelizze accartocciate in
fogli tricolori rischiarano in sulla sera tutta la città, e il
popolo accorre a dividere si generoso tripudio, e con simili
fiaccole acconciate alla meglio offre all'occhio uno
spettacolo oltre modo piacevole, e coll'incessante sfilare
nelle vie principali preceduto dal concerto musicale. Tutte le
farmacie incendiarono fuochi di bengala ma più che le altre
per perfezione e vivacità di colori si distinse quella di S.
Paolo, avendo con bell’ordine non pure illuminata la porta
ma eziandio il Foro Annonario che le sta dirimpetto, in guisa
da produrre un colpo d'occhi ammirabile. Che se oltremodo
brillante fu la sera del 20 Settembre, qual non sarà il giorno
che si attende per festeggiare degnamente questo grande
avvenimento del nostro secolo?...
Oh! Roma Roma quante memorie offri a noi, alle
generazioni avvenire! II sogno di tanti secoli è avverato.
L’edificio cadente del Temporale ha dato il traballone,
perché ne scossero le fondamenta il sangue di tante vittime,
e la spada della Giustizia resa mercato e bordello della
tirannide e dell’ingordigia di Svergognati Farisei.
Le dimostrazioni di gioia si aumentarono per tutta la
giornata di jeri, specialmente nella sera, la piazza maggiore
ed il corso erano vagamente illuminate a disegno, fuochi di
bengala per le vie della Città ed a cima della torre
municipale, un’immensa popolazione trovavasi raccolta,
l’entusiasmo della quale a causa della ristrettezza de lle
nostre colonne non ci è dato descrivere».

122
Il Plebiscito pe r l’annessione al Regno d’Italia del 2
ottobre 1870
Il governo aveva diramato ai governanti d’Europa alcuni
memorandum per legittimare l’occupazione del Lazio, nei quali
aveva «proclamato il diritto dei romani di scegliersi il governo
che desideravano». Così – come era stato fatto per le altre
province italiane, anche per il Lazio, Roma compresa – fu
quindi indetto un referendum per sancire l'avvenuta riuni-
ficazione del Lazio al Regno d'Italia, ponendo la seguente
domanda: «Desideriamo essere uniti al Regno d'Italia, sotto la
monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II e dei suoi
successori?».
Il plebiscito, che si svolse nella domenica 2 ottobre 1870,
vide la schiacciante vittoria dei sì in tutto il territorio annesso,
con 133.681 “Sì”, contro 1.507 “No”, ma l’astensionismo fu
molto elevato e imputato alle schiere cattoliche che avevano
lavorato per tale fine. Ma l'invito all'astensione non fu
lungimirante: permise al governo italiano di ostentare la
schiacciante maggioranza dei sì, mentre il numero dei non
votanti, per non parlare dei non iscritti, rimase nell'ombra. Poi,
con il Regio decreto del 9 ottobre 1870, fu proclamata
ufficialmente l’annessione del Lazio all’Italia, pertanto
legittimata dal referendum.

A ricordo dell'unificazione che dava vita al moderno Stato


d’Italia, la data del XX Settembre divenne festa nazionale – fino
alla sua abolizione dopo i Patti Lateranensi del 1929 – e quasi
tutte le città italiane la riportarono nella propria toponomastica.

123
Il 13 ottobre «Il Vessillo delle Marche» pubblicò un articolo
sull’avvenuto e ratificato plebiscito, sul suo valore dal titolo: Il
Plebiscito romano e il conte Armin (il quale era un osservatore
dell’imperatore di Germania e re di Prussia, Gugliemo I). Il
testo dell’articolo è il seguente:
«Roma, che per una serie non interrotta di secoli dominò il
mondo col Diritto della Forza rappresentato nello splendido
periodo della Repubblica e dell'Impero dalla onnipotenza
dell'Aquila Latina, sempre mai pronta ad insozzare i suoi
artigli nel sangue dei deboli, e in tempi a noi più vicini
esercitato dalla Teocrazia, incatenando e opprimendo di
ceppi la volontà e l’intelligenza dell'uomo, bruc iandolo vivo
nei roghi della Inquisizione. Roma nella seconda metà del
secolo decimonono coll'affermazione dell'immortale suo
Plebiscito del due Ottobre aboliva in eterno quel fatale
principio, proclamando altamente in faccia all'Europa il
principio della giustizia la Forza cioè del Diritto.
Gli Italiani giunti finalmente a costituirsi in forte e rispettata
Nazione con la Sede incrollabile della Città eterna
percorrendo una via ingombra dal sangue e dalle ossa di
mille martiri, da Boezio ai due generosi Operai Monti e
Tognetti caduti sotto il ferro dei carnefici dell'Amore della
Patria mostreranno alle Nazioni d'ogni più remota parte del
Globo che le Aquile delle loro Bandiere non hanno rostro ed
artiglio per avventarsi alla preda al par della antiche che
meritamente attiraron l’odio sui figli di Roma, a buon diritto
dai Britanni, appellati ladroni del mondo, che mancata la
terra alle loro devastazioni, corrono alla rapina nel mare,
mostreranno essi che le loro aquile contente ai liberi voli da
Trento a Marsala, non agogneranno di scendere a spiegar
l’unghie nel Messico o sulle rive del Reno, come quelle della
Francia.
I simboli stessi sono cangiati: non è più il fulmine di Giove
Capitolino che stringe maestosa regina dell'Aria, ma
l'emblema della libertà, il patibolo apprestato dai tiranni al
figlio dell'operajo di Nazaret, la Croce.
Il grand'atto politico adunque compiuto colla massima
libertà dai Romani, segna una novella Era non pure per la
nostra ma altresì per le straniere nazioni; Era di sicurezza e
124
di pace, Era di vero progresso e di giustizia. Due volte Roma
ha sparso i secondi germi della civiltà fra gli uomini; ed ora
non potrà fallire al nuovo suo compito.
Testimonio all'esercizio del più sacro dei diritti era in Roma
il 2 Ottobre il Conte Arnim Ambasciatore di Prussia presso
la sepolta corte del Vaticano. Ci ha goduto l'animo udendo
che un cosi segnalato personaggio straniero siasi fermato per
ben tre ore sulla immensa piazza del Popolo a contemplare
migliaia di votanti dirigersi alle urne del Campidoglio;
scoprendosi il capo al passar delle nazionali bandiere,
spiegate da innumerevoli associazioni sorte colla Libertà
sulle sponde del Tevere come per incanto. Egli richiamato in
seno alla patria Alemanna narrerà ai seguaci di Lutero
invocati al soccorso del Trono dei due Papi dai seguaci della
Confessione Cattolica, che 46 rinnegati figli di Roma
attendono a braccia aperte al vessillo germanico alla
restaurazione di un potere che 400.000 Romani solenne-
mente ripudiano.
Potrà dire l'Arnim quali artificii, quali violenze, quali
inganni abbiano potuto raccogliere un si sterminato numero
di voti dalle mani di una cittadinanza, che fino a ieri veniva
proclamata felice di vivere sotto il paterno dominio di un
angelico Sovrano, che la reggea soavemente colle schiere de'
Cherubini e de' Serafini travestiti, per acconciarsi alla foggia
de' poveri mortali, da Antiboini e Zuavi.
Si rechi inoltre il Signor Conte presso il suo vittorioso
Guglielmo, una seconda specie d'infallibilità Luterana per
Diritto Divino, e gli dica, non con l'accento del Cortigiano,
ma col nobile linguaggio del galantuomo, che in Italia si
lasciano liberi i popoli nella scelta del reggimento politico
che meglio loro conviene, che in Italia si consultano,
gl’Italiani se vogliono tornare in seno alla Patria Comune;
non si conquistano, non si contrattano come mandra
insensate di pecore.
Gli faccia notar francamente che se egli non intende, di
trattare col governo di Parigi dichiarandolo figlio della
violenza, e proclama che in Francia esiste per lui tuttavia il
governo del Bonaparte e il Corpo legislativo, perché usciti
dalle urne elettorali colla maggioranza de' comizii di tutta la

125
Francia, così non potrà presumere che l'Europa riconosca i
futuri suoi governanti dell'Alsazia e della Lorena, se queste
non abbiano prima espresso liberamente la loro volontà,
come han fatto spontaneamente gli ex-sudditi di Giovanni
Mastai. In una parola gli faccia intendere che il Diritto di
conquista, è il diritto brutale della forza; che il Plebiscito
soltanto rappresenta la Forza del Diritto, che è destinata a
prevalere nel mondo».
La reazione del papa Pio IX all’occupazione di Roma, oltre
alle proteste inviate ai rappresentanti degli Stati stranieri, si
manifestò il 1º novembre 1870 pubblicando l’enciclica
Respicientes ea, nella quale dichiarava «ingiusta, violenta, nulla
e invalida … l’usurpazione» dei domini della Santa Sede. Infine
il pontefice si dichiarò «prigioniero politico del Governo
italiano». Lo Stato Italiano, nel tentativo di allentare la tensione
creata con l’occupazione, promulgò successivamente la
cosiddetta Legge delle guarentigie, che concedeva alla Chiesa
l'usufrutto dei beni del territorio dell’attuale Città del Vaticano,
mentre si riconoscevano al Papa una serie di garanzie per la sua
indipendenza. Tuttavia tale compromesso non venne mai
accettato né da papa Pio IX né dai suoi successori, lasciando
aperta la Questione romana.

Roma capitale del Regno


La dichiarazione di Roma capitale era stata fissata per il 1°
luglio 1871, successivamente avrebbero avuto luogo il
trasferimento del Re a Roma e il trasloco della sede del governo
da Firenze alla nuova capitale d’Italia. A Macerata, per
celebrare l’avvenimento, la Giunta municipale fece affiggere in
tutta la città il seguente manifesto.

MUNICIPIO DI MACERATA
PROGRAMMA
Concittadini !
Nel 1 luglio imminente, Roma, la eterna città, sarà dichiarata
di fatto Capitale del Regno d’Italia. Questo fausto
avvenimento deve essere con gioia festeggiato da ogni Città,
e la Giunta Municipale di Macerata crederebbe non
126
interpretare i vostri patriottici sentimenti, le vostre
aspirazioni, se non prendesse parte alla festa, se non si
associasse alla vostra allegrezza.
Roma Capitale d'Italia, sogno d'ogni patriotta, consacrato col
sangue di tanti martiri, indica che l’unità nazionale è
raggiunta, e che cessate le lotte prodotte dallo stato
provvisorio e dalle gare Municipali, fra breve risentiremo i
benefici della libertà e della indipendenza.
Concittadini!
Alle pubbliche dimostrazioni della Municipale Rappre-
sentanza associate adunque le vostre, e sarà uno spettacolo,
superiore a qualunque festa ufficiale, quello di vedere una
popolazione unita e compatta per celebrare il giorno che
segnerà nella storia patria una delle epoche più memorande,
al grido unanime di
VIVA L' ITALIA
VIVA ROMA CAPITALE D' ITALIA
Dalla Residenza Municipale li 28 Giugno 1871.
La Giunta Municipale
Ferdinando Giorgini Sindaco
Gaetano Graziani
Luigi Garampi
Francesco Staurini
Giorgio Cerquetti Segretario.
Per assistere alla cerimonia e ai festeggiamenti dell’inse-
diamento del Re nella nuova capitale, fu invitato dal primo
sindaco di Roma post-unità, Francesco Pallavicini, anche il
sindaco di Macerata, mentre la nostra città iniziò i
festeggiamenti per l’atteso avvenimento. Ancora «Il Vessillo
delle Marche» riportava la cronaca delle manifestazioni e del
“clima” di festa:
«Lo scorso sabbato la nostra Città volle, come le altre,
festeggiare il trasporto della Capitale a Roma e l’ingresso
solenne del Re. Fin dal mattino tutte le vie erano parate a
festa ed ornate di colori nazionali e un insolito movimento
dei cittadini manifestava il generale tripudio. La Banda
cittadina percorse sul mezzodì la Città fra una moltitudine
127
plaudente al Re, a Roma. Nelle prime ore della sera vi fu
generale e splendida illuminazione. II popolo numeroso si
riunì nella piazza maggiore ove la banda Cittadina
nuovamente alternava le sue melodie agli evviva al Re
Galantuomo a Roma capitale d'Italia. Si volle ripetuto l’inno
reale fra le più entusiastiche acclamazioni.
Per iniziativa di alcuni cittadini venne aperta una volontaria
sottoscrizione ad un indirizzo a Roma: le firme venivano
raccolte sotto l’arco di mezzo del loggiato del Palazzo di
Città riccamente illuminato ed addobbato, e benché sopra un
lungo tavolo vi fossero aperti molti fogli per raccogliere le
firme, pure gli accorsi era costretti a in lungo attendere, tanta
era l’affluenza dei sottoscrittori. Noi non conosciamo ancora
il numero delle firme apposte a quel indirizzo, ma abbiamo
ragione di ritenerlo ben grande dall’ora tarda nella quale
ebbe termine la sempre affollatissima soscrizione.
Le dimostrazioni di gioja si ripeterono più entusiastiche
nella sera della domenica».
Il giornale poi riportò un dispaccio del Sindaco:
«Pubblichiamo il seguente Dispaccio che il Nobile Ferdi-
nando Giorgini Sindaco della nostra Città spediva da Roma
alla Giunta Municipale dopo di aver presentato al Sindaco di
Roma l’indirizzo coperto da migliaia di firme dei Cittadini
Maceratesi.
Stamane ricevuto indirizzo sottoscritto Romani, già presen-
tato Sindaco Roma. Accettazione simpatica, graditissima,
riprodotto giornali. Accettate ringraziamenti Giunta.
GIORGINI».
Lo stesso foglio dedicò diversi numeri ai festeggiamenti per
Roma capitale e l’arrivo del Re nella città, trasferendosi nella
sua nuova sede al Quirinale. Un articolo ci illustra i sentimenti e
le considerazioni del giornale maceratese in quel particolare
momento:
«ROMA CAPITALE
Oggi, che si sono definitivamente compiti i grandi destini
della patria nostra, mercé l’ufficiale inaugurazione della

128
rivendicata nostra Capitale, Roma; mandiamo sulle ali del
nostro figliale affetto, il tributo della nostra leale gratitudine
e devozione sincera all'ottimo nostro Principe e Monarca al
più Magnanimo al più liberale dei Re, al rigeneratore d'Italia
nostra VITTORIO EMANUELE II, che irremovibilmente
fedele al giurato patto dei nostri PLEBISCITI, realizzò
completamente le aspirazioni di mille generazioni di martiri
riponendo l'Italia su quel trono dei Cesari, che colla prisca
civiltà latina ebbe l’imperio sulle universe genti.
Si, noi italiani dobbiamo il nostro politico risorgimento, la
nostra libertà, e l'autonomia della nostra Nazione al nome
augusto, alla lealtà e alla bandiera di VITTORIO
EMANUELE di Savoja. Senza di Lui, la nostra unificazione
era impossibile; e le prodigiose imprese dell'Eroe dei due
mondi, Giuseppe Garibaldi, avrebbero trovato nel sospetto
dei popoli delle varie provincie italiane, asserviti dalla
secolare tirranide dei Re del dritto divino, e dalle mene
infernali della romana curia, insormontabili ostacoli al
conseguimento di tanto scopo. Avremmo al più potuto
ottenere un'Italia confederate che, la durata di tal politica
trasformazione, era a quest’ora una storica rimembranza.
Sorga perciò unanime un grido dall’un all’altro capo d’Italia
VIVA VITTORIO EMANUELE II».
Diversi altri articoli
erano dedicati alla cro-
naca dell’arrivo del Re, a
cui assistette anche il
nostro sindaco Giorgini,
insieme agli altri sindaci
d’Italia, che ci piace ri-
portare. Non mancava
qualche puntata polemica
nei confronti dei «poveri
prigionieri che hanno potuto così godere la festa generale»,
riferita ovviamente alla Curia romana e al Papa. Questo il brano
di un più esteso articolo:
«Fine dalle nove del mattino le legioni della Guardia
Nazionale si schieravano nei luoghi di convegno, come pure
129
i reggimenti della linea e dei bersaglieri del nostro glorioso
esercito. Le une e gli altri si schieravano poi verso le dieci su
tutto lo stradale che il Re doveva percorrere. I Circoli, i
Rioni, le Società operaie, le Accademie, le Scuole
municipali, e tutte le altre Associazioni esistenti in Roma si
radunavano alle 11 precise sulla piazza di Venezia a del
Gesù. Alle 11 e mezza tutta questa massa ingente di popolo
muoveva alla stazione preceduta dal concerto dei Vigili.
Aprivano la marcia le bandiere dei 14 Rioni di Roma;
venivano poi le bandiere dei vari Circoli, poi i Reduci delle
patrie battaglie e della Legione di Roma con la loro
bandiera, poi le Società operaie, poi le Scuole municipali
coll'Istituto di S. Michele, poi il Circolo artistico internazio-
nale, poi le Accademie della Filarmonica e di S. Cecilia.
L'aspetto di Roma era gaio oltremodo, Bandiere e stendardi
tricolori sventolavano ovunque. Vero giorno di festa. Le vie
specialmente quelle in cui il corteggio reale doveva passare,
erano gremite di popolo. Centomila persone percorrevano
quella linea che dalla Stazione al Quirinale era tracciata per
il passaggio del Re.
Il treno reale entrò nella Stazione alle 12 e 30 minuti.
Appena sceso dal vagone, il Re andò incontro al Principe
Umberto, e lo abbracciò e lo baciò con un affetto veramente
paterno.
Nelle sale della stazione erano ad attendere l'Augusto
Sovrano il Sindaco e la Giunta di Roma, i Ministri, le
rappresentanze del Senato e della Camera, le Commissioni
ufficiali del Consiglio Comunale e Provinciale e tutti i
Sindaci delle altre città d'Italia che sono in questi giorni
nostri ospiti graditissimi.
Nell'entrare nella sala una fanciullina bianco vestita presentò
al Re una corona d'alloro ed un indirizzo. Il Re l’accolse con
la più distinta cortesia, prese la corona e l'indirizzo e baciò
l'angioletto caro che a lui l’offriva.
Le carrozze di corte erano cinque. Le precedevano due
squadroni, uno di guardia nazionale a cavallo, uno di
corrazzieri; due uguali picchetti le seguivano. Venivano poi
tutte le altre carrozze.

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Lungo la via e specialmente sul corso le grida e gli applausi
rintuonavano nell'aria. Una nube di fiori cadeva da destra e
da sinistra sulla carrozza reale.
Chi poté far in tempo e dal Corso riuscire al Quirinale prima
che il Re v’entrasse, ha visto trentamila persone unire le loro
voci in un grido solo. Viva il Re d'Italia!».
In un tempo brevissimo (1860-1871) l'idea dell'unificazione
d'Italia divenne una realtà. Unificata l'Italia si doveva, però,
arrivare all'unità di tutti gli italiani, cosa non facile a causa delle
“ferite” provocate, per le
diverse ideologie che l’ave-
vano alimentata (Vittorio
Emanuele II, Cavour, Gari-
baldi, Mazzini) e per le gran-
di “questioni” che rimane-
vano aperte, in particolare
quella meridionale e quella
del rapporto con la Chiesa
cattolica, erano ferite che
dividevano gli animi. Tali
divisioni vennero introiettate
nella società e si può dire
che ancora oggi sono alla
base della conflittualità tra
paese legale (Stato) e paese
reale (popolazione).
Non possiamo chiudere questo lavoro senza considerare che
il contributo che Macerata e tutto il Maceratese hanno dato, sia
a livello nazionale che locale, in tutto il periodo risorgimentale,
contributo che non è stato certamente di secondo piano, è stato
effettivamente di tutto rispetto.

Romano Ruffini

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