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Gli interessi economici nella Campagna d’Afghanistan: l’Arabia Saudita e l’oro nero

Ci sono tre aree, limitrofe alla regione afghana, decisamente importanti per gli assetti futuri degli
equilibri del controllo mondiale delle fonti di energia.

Al nord la regione del Caspio, con un mare (il Mar Caspio) a disposizione come semplice ed
economica via di comunicazione ma soprattutto le gigantesche riserve di gas naturale stimate in 2000
miliardi di metri cubi, il 30% di tutti i giacimenti mondiali, nel sottosuolo del Turkmenistan (ex Unione
Sovietica), dove l’Americana Unocal aveva investito 4.5 mld in gasdotti diretti a Karachi attraverso
l’Afghanistan.

Ad Ovest la regione del Golfo Persico (con in testa l’Arabia Saudita) dalla quale proviene il 65% del
petrolio estratto su scala mondiale.

A sud uno stato pakistano di 125 milioni di abitanti, attanagliato da grosse tensioni interne,
convogliate sull’aspetto religioso, e soprattutto dotato di armamenti nucleari.

In mezzo a tutto questo calderone si trova l’Afghanistan, paese poverissimo, particolarmente aspro sotto
il profilo geografico e frammentato etnicamente dalla concorrenza tra i vari clan, il più grande dei quali
è senza dubbio quello dei pashtun, cui appartengono i Taleban; Afghanistan passato agli onori delle
cronache per essere diventato ultimamente anche il centro dell’attenzione delle tecnologie militari più
sofisticate al mondo, in mano, guarda caso, ai paesi occidentali con un sistema di sviluppo energetico a
base petrolifera.

Le recenti affermazioni, da parte dei vertici statunitensi, di un impegno politico-militare pari solamente
a quanto visto con la seconda guerra mondiale (la guerra fredda ce la siamo sognata!), confermano
ulteriormente quali enormi interessi ci siano nella Campagna di Afghanistan.

Consideriamo il peso della SITUAZIONE DELL’ARABIA SAUDITA.

Nel settembre del 1932 il re Saud proclamò la nascita del Regno Saudita, dopo lunghi anni spesi a
tessere legami con le varie famiglie sparse su quello che risulta lo stato più ricco di petrolio al mondo,
oggi il 25% di tutta la produzione mondiale, oltrechè essere l’Arabian Light di ottima qualità ed
estraibile a poche decine di metri di profondità. Il gruppo che più creò problemi all’unificazione
dell’Arabia Saudita (oggi con 22 milioni di abitanti) fu quello dei Wahabiti, discendenti di una setta
integralista nata sul confine con lo Yemen nel diciottesimo secolo, una zona che oggi risulta tra le meno
avanzate nella regione e dalla quale giungerebbero otto dei suicidi dei recenti attentati, e setta cui si
rifarebbe anche Bin Laden.

Quando già l’anno successivo all’unificazione (per certi affari è necessaria prima la garanzia di
stabilità geopolitica), verrà stipulato un accordo con la SOCAL CALIFORNIANA, saranno proprio i
Wahabiti a creare le maggiori resistenze.

Durerà a lungo la manna per gli Americani, finché nel ’72, con Yamani, brillante ministro del petrolio
nonché futuro presidente dell’Opec, verranno nazionalizzate le riserve petrolifere. L’anno
successivo, durante la guerra tra Egitto e Israele, appoggiato quest’ultimo dagli USA, Yamani
provocherà l’embargo petrolifero come forma di ritorsione e la vertiginosa ascesa del prezzo del petrolio
(dai 2.5 ai 10 dollari il barile). La rivoluzione dell’Ayatollah Komeyni in Iran negli anni ottanta porterà
il prezzo di un barile di petrolio a 40 dollari (con tutte le ripercussioni sulle economie mondiali), per
assestarsi attualmente attorno ai 20 dollari. Un potere economico così rilevante non può che far gola
anche alle oligarchie mediorientali che con il petrolio hanno costruito le loro fortune e che non
vedrebbero l’ora di giocarsi completamente in proprio la partita di tutte queste ricchezze, soprattutto in
un momento di incertezze sulla successione al trono reale, attualmente in reggenza al principe Abdallah,
noto per le sue simpatie nazionaliste arabe e per le sue critiche agli USA. Altro uomo politico di peso e
referente di Bin Laden è il principe Turki, fino ad una settimana prima degli attentati di New York capo
dei servizi segreti sauditi, per vent’anni!

Come se tutto ciò non bastasse, l’abbattimento del reddito pro capite dai 16.000 dollari del 1981 (altri
fonti parlano di 28.000) ai 7.500 attuali degli abitanti della regione che nel seicento diede i natali a
Maometto, rischiano, se accese al momento giusto, di essere una miscela esplosiva. I continui quanto
cospicui finanziamenti voluti dal clero islamico in moschee (25 miliardi di dollari), ricostruzione di
Beirut, aiuti ai palestinesi e università islamiche hanno eroso le finanze pubbliche in un paese in cui il
40% del pil proviene ancora dagli altalenanti introiti del petrolio mentre gli incontrollabili tassi
demografici in aumento (dovuti anche all’immigrazioni) impongono costi enormi. Da qui l’esigenza di
finanziatori privati per investimenti in infrastrutture e produzione cui si oppongono gli integralisti,
mentre tra quelli esistenti il più importante si chiama Saudi Bin Laden Group con un fatturato di 5
miliardi di dollari, già in affari con la famiglia Bush negli anni ottanta (il maggiore dei 54 fratelli Bin
Laden, Salem, muore in uno strano incidente aereo nell’88 in Texas dove stava trattando affari con
Bush, che quell’anno diverrà presidente).

Diventa quasi scontato quindi che, nel tentativo di smantellare le centrali del terrorismo internazionale, i
vertici americani decidano di mettere le mani su personaggi come Yasin Al Qadi, importante finanziere
saudita e principale dirigente della fondazione Mawafaq, anche accusata di finanziamenti ai palestinesi
di Hammas e che ciò incocci con interessi economici estremamente rilevanti vista la vicinanza tra costui
e la casa reale. Ma nella stessa fondazione Mawafaq contano molto anche altri personaggi importanti e
sempre vicini alla casa reale come la famiglia Bin Mahfouz, che controlla la Bank of Saudi Arabia.

Dunque, in una situazione socio-economica così delicata, l’eventualità di una successione palesemente
vicina agli USA, metterebbe il nuovo monarca nella condizione di essere tacciato di miscredenza perché
ha rinnegato il caposaldo della fede wahhbita che condanna chi tradisce i fratelli musulmani per aiutare
gli infedeli. L’eventualità invece di una successione al trono a favore di chi sogna un nuovo governo
islamico, rimette la palla al centro e Bin Laden giocherà sicuramente questa partita fino in fondo . Da
una parte facendosi forte di una popolarità in crescita, dall’altra facendo perno su taluni membri della
casa reale, su ricchi imprenditori, sull’esercito, la Guardia Nazionale e i Servizi di Sicurezza. L’opzione
di eliminare, magari fisicamente, dagli scenari un fattore di instabilità come il nuovo leader
dell’integralismo islamico produrrebbe la sublimazione totale della sua figura: un martire, quanto di più
grande possa esserci per i fanatici dell’integralismo sparsi in tutto il mondo. In questo caso la guerra
diventerebbe veramente imprevedibile e molto lunga.

Fonti: M.Allam, E.Occorsio, S.Chiarini,F.Rampini

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