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I Tredici Volti del Piacere

di

Helena Vittoria

SeBook
Simonelli electronic Book
INDICE
SENZA SCHEMI

CAVALCATA A SORPRESA

POTERE FELINO

LA SCOPERTA DELLA PASSIONE

AMORE GELOSO

INASPETTATA VISITA

…E FU SUBITO AMORE

RITRATTO A PELLE

LA QUERCIA SACRA

IL NOME DELL’AMANTE

FRESCA DI STAMPA

ANTONIO, FRAGOLE E MIELE

GALEOTTA BIBLIOTECA

COLOPHON
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

SENZA SCHEMI
1.

Paestum - Cilento, estate 2014

Erano partiti da Cento, in provincia di Ferrara, destinazione Cilento.


Paestum per la precisione.
Veronica e Gianni, fidanzati da cinque anni, erano una coppia molto
aperta, sempre pronta a provare nuove emozioni, e quell'anno avevano
deciso di recarsi nel Cilento, alla nuova spiaggia per nudisti, a Paestum.
Avrebbero così approfittato per visitare anche la storica città dei Templi.
Veronica, ventinovenne nata e cresciuta a Cento, non aveva mai fatto
un'esperienza del genere, ma non provava alcuna vergogna al pensiero di
restare nuda davanti ad altre persone, nude anch'esse, e i suoi occhi verdi
brillavano al solo pensiero. Sarebbe stato interessante vedere altra gente en
nature e il loro comportamento, i loro modi di fare, in quel contesto del
tutto nuovo per lei.
I suoi genitori, di origini meridionali, lamentavano che Veronica fosse
priva di pudore. Fu per loro uno shock quella volta che al liceo fu scoperta
dal bidello a fare sesso con il fidanzato nel bagno dei ragazzi. Vennero
spediti dritti in presidenza e furono sospesi per una settimana, facendo
rischiare a Veronica l'anno scolastico e procurandole un mese senza uscite
per punizione e sonori ceffoni da parte del padre.
All’Università, aveva avuto le sue belle storie, troppe a ripensarci e
spesso durante lo spazio di un mattino. Iniziate solo per gioco o per
appagare i suoi desideri.
Si era laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna e subito aveva
iniziato ad insegnare in un liceo di Ferrara. Andare in vacanza nella città dei
Templi e immergersi in quell’ambiente unico, misterioso, ricco di
testimonianze che esaltavano la grandezza e lo splendore dell’età classica,
le avrebbe procurato uno stato di benessere difficilmente spiegabile ai non
appassionati di arte. Lei, che aveva tanto viaggiato nei luoghi d’arte di
mezzo mondo, dall’Africa all’estremo oriente, non era mai stata giù nella
terra del suo amato Parmenide. Ma dai musei di mezza Italia che aveva
visitato, alle piramidi in Egitto fino ai templi buddisti in Giappone,
l’atmosfera creata da quelle opere le faceva sempre lo stesso strano,
inspiegabile, effetto, si sentiva trasportata, come sospesa nel vuoto, le
veniva a mancar l’aria, quasi come colpita dalla Sindrome di Stendhal e
subito dopo si sentiva accalorata, eccitata, presa da una voglia irrefrenabile
di cercare il piacere all’interno di quei luoghi, che l'avvolgevano con il loro
carico di mistero e di bellezza. Ed era stato proprio un giovane custode
giapponese del tempio buddista Daigo-ji a Kyoto, alcuni anni prima, ad
appagare quei suoi peccaminosi desideri mentre era in visita nel Paese del
Sol Levante.
Quindi, emozionata più che mai, con i neri capelli raccolti in due corti
codini, e vestita con una semplice canottiera stretta che enfatizzava il suo
seno - una terza misura di cui andava fiera – mettendone in mostra i
capezzoli, e un paio di pantaloncini corti, era pronta a recarsi alla spiaggia
che distava pochi chilometri dal residence dove alloggiavano, con l'Harley
Davidson nera di Gianni.
Gianni invece, durante i suoi trent'anni, aveva già frequentato questo tipo
di spiagge, sia all'estero che in Italia. Nativo di Ferrara, non si era mai
preoccupato del pudore, anzi: andava fiero delle sue parti intime, ben
sviluppate, che mostrava con piacere ed orgoglio, insieme ai suoi pettorali,
che si depilava frequentemente, scolpiti nelle tante ore passate in palestra,
tanto da rendere il suo fisico simile a quello delle marmoree statue greche
dell'età classica.
Ora era ansioso di ritornare su una spiaggia di nudisti, ne aveva quasi
nostalgia.
I suoi genitori, figli degli anni Sessanta, madre femminista e padre con
un passato da leader studentesco negli anni della contestazione, lo avevano
abituato sin da piccolo a frequentare simili posti. Il suo papà, Walter, finito
di frequentare con successo l'istituto tecnico Copernico di Ferrara, dopo
qualche anno speso più che altro a fare attivismo politico presso la facoltà
di Chimica industriale di Bologna, decise di andare a lavorare nella fabbrica
del padre, anche perché quest'ultimo, appurato che il suo bravo figliolo non
conseguiva risultati apprezzabili nello studio, minacciava di tagliargli i
fondi.
Aveva cominciato quindi ad affiancare l’anziano genitore nella sua
piccola fabbrica di carpenteria metallica. Dopo l'improvvisa morte del
padre, Walter aveva preso in mano le redini dell'azienda trasformandola
negli anni da piccola officina in una media impresa che fabbricava serbatoi
e tubature in acciaio e carbonio per usi industriali. Appena il babbo era
scomparso aveva deciso di sposarsi con la sua amata di sempre, Marilisa e
aveva dato al suo primogenito il nome del compianto genitore.
Negli anni aveva ciclicamente frequentato con la sua famiglia le spiagge
nudiste di mezza Europa. Da Saint-Tropez a Ile de Levant e Cap D'Ail nel
sud della Francia alla Playa d'Es Cavallet a Ibiza in Spagna passando
ovviamente anche per le poche italiane.
Ma erano oramai anni che vi mancava. Da prima che si fidanzasse con
Veronica. Un giorno di primavera del 2014 glielo propose, ben sapendo
come la pensasse la ragazza in proposito, risvegliando di colpo la sua
curiosità e il suo lato malizioso.
Alto poco più della compagna, Gianni quella mattina si era aggiustato i
capelli castani con il gel, sperando che avrebbero retto alla pressione del
casco, indossato una t-shirt e un costume a pantaloncino e, con i chiari
occhi pieni di passione, ora si apprestava ad andare in spiaggia.
Prese le chiavi della moto e chiese a Veronica: -Pronta?
Lei annuì, sempre più impaziente e, alle dieci, varcarono l'ingresso di
quel mondo dove il pudore rimaneva fuori e la parola chiave era libertà.
Decisero di sistemarsi a poca distanza dalla riva dove Veronica poteva
prendere la tintarella e arrivare agevolmente al mare senza dover passare
sulla sabbia bollente, e magari sedersi sulla battigia, allungando le snelle
gambe nelle acque limpide del Cilento.
Appena trovato il posto giusto, distesero gli asciugamani e si
spogliarono, liberandosi in un baleno non solo dei pochi indumenti che
indossavano, ma anche di tutte le regole e le responsabilità che la vita
quotidiana imponeva.
Veronica si guardò attorno, per nulla imbarazzata. La spiaggia era di
sabbia chiara e finissima. Il mare calmo, non soffiava un alito di vento e il
sole brillava alto nel cielo azzurro senza nemmeno l’ombra di una nuvola ad
oscurarlo; era una giornata splendida.
Più in là c'era una pineta ma, a parte quella, il nulla intorno a loro, solo
un'immensa distesa d'acqua punteggiata da qualche scoglio. Gianni si
diresse subito verso il mare, per bagnarsi e rinfrescarsi. L'acqua era troppo
bassa per potersi tuffare, quindi fece per incamminarsi verso il largo, ma poi
si girò a lanciare un'occhiata al magnifico corpo di Veronica. Il seno era
perfetto per lui, né troppo piccolo né troppo abbondante, con dei grandi
capezzoli rosa circondati dalle areole un po' più scure e piccole, e aveva un
vitino da vespa che scendeva giù, fino all'inguine, senza un filo di grasso e
senza un pelo. Veronica era meticolosa nel prendersi cura del proprio corpo
e questo comprendeva anche il non far intravedere nemmeno il più piccolo
pelo. Infatti era stata dall'estetista il giorno prima di partire per sottoporsi a
una ceretta completa.
- Vieni con me, Verò? - le chiese Gianni, sperando che accettasse, poiché
aveva voglia di fare l'amore in mare.
Veronica guardò il suo compagno, in piedi nell'acqua, era desiderosa di
accarezzare tutto il suo corpo, ma non al punto di bagnarsi subito; voleva
prima studiare gli altri ospiti della spiaggia, oltre che rilassarsi un po'.
Poi i suoi occhi scesero verso l'inguine di Gianni e vide quanto fosse
invitante quello spettacolo. Forse un pensierino... ma all'improvviso un
pallone da spiaggia la colpì al braccio, facendole distogliere lo sguardo da
quella visione stimolante e che prometteva momenti di intenso piacere.
Anche lo sguardo di Gianni andò verso la direzione da cui proveniva la
palla e videro arrivare correndo due ragazze e un ragazzo. Tutti e tre
avevano capelli biondi, anche se di tonalità diverse. Forse erano
imparentati, dato che anche i tratti del viso erano molto simili.
Decise di uscire dall'acqua - il suo bagno rinfrescante e il sesso in mare
dovevano aspettare - e si diresse verso Veronica e i tre ragazzi che si erano
fermati di fronte a lei con il pallone recuperato in mano.
- Scusa noi, signora - disse una delle due ragazze, sembrava fosse la più
giovane, con un accento straniero. - Non volevamo colpire.
- Non vi preoccupate - rispose Veronica sorridendo.
Vedendo arrivare anche Gianni, il ragazzo decise di presentare sé stesso
e le due ragazze che erano con lui.
- Piacere - disse, sempre con un accento straniero, allungando la mano
verso Gianni. - Io sono Maxim Mulder e loro sono mie sorelle, Joy e Tara.
- Piacere - rispose Gianni, stringendogli la mano, per poi passare a quella
delle due ragazze. - Io sono Gianni, e lei è la mia compagna, Veronica.
- Non siete italiani, giusto? - chiese Veronica, nel mentre li salutava.
- Olandesi - rispose la più piccola, Tara. - Siamo in camper a campeggio
qui vicino. Veniamo in Italia ogni estate. Siamo con genitori.
Come fossero sincronizzati, una coppia di mezza età si avvicinò a loro.
Si presentarono come Edgar e Ingrid Mulder, i genitori di Joy, Maxim e
Tara.
Edgar Mulder era un uomo sulla cinquantina, un po' sovrappeso, con il
petto calante e lo stomaco ampio e flaccido. Sotto quella massa enorme a
malapena si intravedeva il membro raggrinzito dall’età e dal grasso. Era
leggermente più alto di Veronica e aveva i capelli quasi bianchi, con un
principio di calvizie sulla fronte. Gli occhi azzurri guardavano Veronica con
interesse e malizia, ma lei lo ignorò.
Ingrid Mulder, invece, era ancora una bella donna, alta e magra, a parte
qualche rotolino dovuto agli anni, con un seno leggermente calante - doveva
essere una seconda misura, pensava Gianni - e il pube coperto da un leggera
peluria rosso rame, lo stesso colore dei capelli. Gli occhi marroni
studiavano la coppia di italiani che era venuta a trovarsi sul loro cammino,
indifferente dell'interesse del marito per la donna.
Joy, che poi si scoprì essere la maggiore, ventisettenne, alta quasi quanto
la madre e magra come lei, con un corpo perfetto, attirò immediatamente
l’attenzione di Gianni; il seno era un po' più piccolo di quello di Veronica,
come lo erano i capezzoli, circondati da due grandi areole scure. I capelli di
un biondo cenere erano legati in una coda e i famelici occhi azzurro
ghiaccio erano fissi su Gianni, che a stento riuscì a trattenere il pene davanti
a tutti quei corpi femminili che per il momento, non aveva alcuna
possibilità di esplorare. Il ventre magro portava a un ciuffo di peli biondi
che sembravano chiamare il suo membro a gran voce.
Maxim, ventiquattrenne, era più alto della madre e aveva un fisico che
rivaleggiava con quello di Gianni e, Veronica lo trovava molto eccitante. I
capelli erano di un biondo chiaro da sembrare quasi bianchi e gli occhi
azzurri si muovevano velocemente fissando con curiosità i due italiani,
studiandoli in modo palesemente sfacciato. Lo sguardo di Veronica andò
inevitabilmente alla virilità del ragazzo e, anche per quanto riguardava
quella, reggeva il appieno il confronto con il suo compagno. Veronica si
sentiva sempre più eccitata; non certo per il signor Mulder ma, per il
giovane Maxim.
Infine Tara, diciannovenne, era alta quanto il padre, i lunghi capelli
biondi tendevano invece al rosso ed erano legati in modo sbarazzino in due
codini. I suoi grandi occhioni verdi erano fissi su Veronica. Era
mingherlina, con un seno che sarebbe perfettamente entrato nella mano di
Gianni, ma lui sembrava più interessato alla sorella maggiore. I capezzoli
piccoli e rosa erano dritti e la ragazza ci passò sopra una mano, come a
volerli calmare con una carezza. Tara, a differenza della madre e della
sorella, si era depilata l'inguine.
Tutta la famiglia aveva la pelle chiara e Veronica si domandò come
facessero a non bruciarsi con il sole.
- Che ne dite di unirvi a noi? - chiese Gianni.
- A noi farebbe molto piacere, vero papà? - chiese Tara. Era molto
sfacciata, quella ragazza, e aveva un bel po' di malizia in corpo.
Il padre confermò e la famiglia si allontanò per prendere i propri effetti.
- Che ne pensi? - chiese Gianni a Veronica.
- Joy vorrebbe fare una galoppata con te, tesoro mio - rispose Veronica,
ridendo.
- E Tara con te, piccoletta - ribatté Gianni.
- Cosa? Ma è una ragazza!
- Quindi?
- Vedo più realistico che Maxim voglia farsi una cavalcata con me.
- Vedremo... - e Gianni si azzittì, dato che la famigliola stava tornando
con gli asciugamani e le borse.
Mentre Veronica iniziava a giocare a palla con Maxim e Tara, Gianni
decise di andare a farsi il tanto sospirato bagno in mare, e Joy lo seguì,
dicendo di avere bisogno di una rinfrescata poiché il sole le stava dando alla
testa.
All'improvviso Tara colpì forte la palla con il piede che andò troppo in
alto, Veronica non riuscì a prenderla e andò a cadere nella retrostante pineta.
- Ops, scusate - disse Tara. - Vado a prendere lei.
- La solita - si lamentò Maxim. - Sbrigati! - urlò poi alla sorella che,
messe le infradito, corse verso gli alberi.
Veronica e Maxim iniziarono un po' a parlare delle proprie famiglie e,
vedendo che dopo cinque minuti Tara non tornava, Veronica iniziò a
preoccuparsi, mentre Maxim a spazientirsi.
- Vado a fare tuffo. Sono stanco aspettare sempre lei - esplose Maxim.
Disse qualcosa in olandese, un'imprecazione rivolta alla sorella
probabilmente, e si diresse verso l'acqua. Poi, come ricordandosi qualcosa,
si girò di nuovo verso Veronica e le chiese: - Tu vieni?
Veronica era tentata, ma si stava preoccupando per la giovane. E se si
fosse persa?
- No, grazie - gli rispose con rammarico. - Andrò a cercare Tara. Non
vorrei le fosse accaduto qualcosa.
- Come volere tu - ribatté, con un'alzata di spalle. Poi si girò di nuovo
verso il mare e vi si immerse.
Che strani che erano quegli olandesi... pensava Veronica, mettendosi le
infradito e un pareo per coprire la propria nudità. Non sapeva quanto ci
avrebbe messo a trovare Tara e probabilmente nella pineta faceva più
fresco.
Entrando all'ombra dei pini non vide nessuno, quindi decise di inoltrarsi
più a fondo, lasciandosi il calore e la luce del sole dietro le spalle.
Mentre si trovava abbastanza all'interno della pineta, sentì un rumore
provenire da dietro un albero e un improvviso "Cuccù" la fece sobbalzare.
Si girò e vide Tara fare capolino da dietro l'albero, sorridendole.
- Che paura, Tara! - esclamò Veronica. - Dov'eri finita?
- Cercavo palla - e gliela mostrò. - E aspettavo te - aggiunse poi.
- Perché mi aspettavi? - le chiese Veronica, perplessa.
- Tu piacere me, Veronica - le rispose Tara, girandole attorno. – Tu
piacere tanto me.
Veronica rimase scioccata. Non aveva mai creduto di poter intrigare e
piacere a un'altra donna. Anzi, no. Non una donna, ma una ragazza. Tara era
poco più di un'adolescente!
- Non è possibile, Tara. A te dovrebbero piacere i ragazzi della tua età -
cercò di farla ragionare Veronica.
Tara scoppiò a ridere, poi disse: - Andata con ragazzi e piaciuto, ma
piaciuto tanto più con donna.
Veronica non credeva alle proprie orecchie e Tara, accorgendosi della sua
sorpresa, le chiese: - Non sei stata mai con donna? - ma era una domanda
retorica, tant'è che poi si rispose da sola: - Io pensa di no. Devi provare, sai?
Molto bello.
Veronica non la perdeva mai di vista. Poi Tara le si fermò davanti e le
accarezzò una guancia.
- Hai pelle morbidissima - le disse, facendo scendere la mano lungo la
gola e poi sopra il pareo che Veronica si era messa a mo' di vestito. - E
anche tuo seno perfetto. Non piccolo come mia sorella, ma nemmeno
grande come mia amica che aspettare mio ritorno ad Amsterdam.
Veronica non poteva credere che Gianni avesse indovinato i desideri di
quella ragazza.
Intanto la mano di Tara, dopo essersi soffermata un po' sul seno, iniziò a
scendere lungo il ventre piatto di Veronica, fino a soffermarsi sul monte di
Venere.
Poi, all'improvviso, la baciò sulle labbra, senza spostare la mano dal
punto in cui si trovava. Veronica non sapeva che fare; non le era mai
capitata una cosa del genere.
Tara fece pressione con la lingua per aprire le labbra di Veronica, che
cedettero. La curiosità e un po' di eccitazione crescente sostituirono la
sorpresa e le perplessità iniziali, permettendo a Veronica di rispondere al
bacio. In fondo era solo un'esperienza in più da vivere, come la spiaggia per
nudisti.
Continuarono a baciarsi, duellando con le lingue. Tara succhiò quella di
Veronica, facendola gemere.
Interruppero il bacio e Veronica passò la lingua sulle labbra di Tara,
tracciandone il profilo. E quello fu il momento della giovane olandese di
gemere.
- Togliamo pareo - sussurrò Tara, slacciando il fiocco del vestito
improvvisato. Il telo cadde a terra con una carezza, mettendo in mostra il
corpo nudo di Veronica.
- Farò conoscere te come si fa con donne, Veronica - disse Tara,
passandole le mani sui seni, accarezzandole i capezzoli, per poi baciarglieli.
Veronica rimaneva passiva, essendo per lei tutto nuovo. Certo, i suoi
capezzoli erano già stati baciati, ma sempre da uomini.
Essere baciata, vezzeggiata, adorata da una donna era diverso in un certo
qual modo, anche se Veronica non lo sapeva spiegare bene. Ma le piaceva,
altroché se le piaceva.
Tara smise di succhiarle e accarezzarle i capezzoli per poter prendere il
pareo di Veronica e stenderlo al centro della radura.
- Che vuoi fare, Tara? - chiese Veronica, tra l'eccitazione e il turbamento.
- Stenditi - le ordinò Tara. – Fidare me.
- E se dovesse venire qualcuno?
- Chi viene a pineta quando c’è mare grande?
Veronica ebbe un fulmineo conflitto dentro di sé, tra il cedere al suo
invito o riprendersi il pareo, trovare Gianni e tornare al residence, per non
mettere mai più piede su quella spiaggia. Ma alla fine vinse l'eccitazione,
unita alla curiosità. Un mix micidiale, che poteva portare sia all'estasi più
sublime, sia al turbamento più totale.
Una volta che Veronica indugiando si distese, Tara le si inginocchiò
accanto. Le allargò le gambe per poi mettercisi in mezzo.
Veronica iniziava a sentirsi bagnata. Quella era una situazione strana, ma
non spiacevole.
Tara strusciò i suoi seni su quelli di Veronica, capezzoli contro capezzoli,
come due eschimesi che si baciavano, facendo naso contro naso. I capezzoli
di Veronica divennero subito sensibili, bisognosi di più attenzioni.
Attenzioni che arrivarono subito dopo. Tara riprese a baciarla sulle labbra,
mettendosi al suo fianco, mentre una mano andava su un seno.
- Tocca me, Veronica - la invitò Tara, prendendole una mano e
portandosela su un seno.
Veronica iniziò subito ad accarezzarglielo, sentendo la setosità della
giovane pelle, e il capezzolo eretto, che chiedeva solo di essere stretto tra
pollice e indice. Cosa che Veronica fece ben volentieri, ricevendo lo stesso
erotico trattamento da parte di Tara.
- Tocca me dove vuoi essere toccata - la spronò Tara.
E allora la mano di Veronica, dopo aver dato un'altra stretta al capezzolo,
passò all'altro seno. E la mano di Tara fece lo stesso, come se Veronica si
trovasse di fronte ad uno specchio.
Poi Veronica fece scendere la propria mano lungo tutto il ventre della
giovane, disegnando dei piccoli segni circolari intorno all'ombelico, e Tara
la seguì.
- Tu vuoi fermare mano all'ombelico, Veronica? - chiese Tara con quel
suo italiano stentato ma con voce eccitata.
Per tutta risposta, Veronica scese ancora di più, fermando la mano sulla
coscia della giovane olandese, che prontamente aprì le gambe, come lo
erano già quelle della sua amante.
Allora Veronica andò ad esplorare per la prima volta l'intimità di un'altra
donna. Dal monte di Venere scese più giù con una lenta carezza e la sua
mano andò a posizionarsi sulla femminilità di Tara, per sentire poi la mano
della giovane nella propria.
- Come vorresti che donna ti dare piacere, Veronica? - chiese Tara. - Fa
vedere.
E Veronica glielo fece vedere. Con il pollice prese a stuzzicarle il
clitoride, mentre l'indice la penetrava pian piano. E la stessa cosa fecero il
pollice e l'indice di Tara all'intimità di Veronica.
Entrambe gemettero, mentre le dita entravano ed uscivano, allo stesso
ritmo.
Veronica tornò a baciare Tara, che prontamente rispose al bacio, come se
non aspettasse altro, ma non volendole mettere fretta e farla andare secondo
i suoi tempi.
Il ritmo delle dita aumentò, sempre più frenetico e, mentre continuavano
a baciarsi, raggiunsero l’orgasmo nello stesso momento, in sintonia tra loro.
Si staccarono cercando di riprendere fiato, Veronica non avrebbe mai
creduto di poter provare un piacere così grande e intenso con una del suo
stesso sesso.
Tara, ripresasi dall'orgasmo, stava per mettersi tra le gambe ancora aperte
di Veronica, quando udirono delle voci chiamarle.
- Veronica! Tara! - erano Gianni, Joy e Maxim che le stavano cercando.
Veronica si alzò immediatamente in piedi e, fatta alzare anche Tara,
riprese il pareo, lo scrollò per togliervi la terra e gli aghi di pino e se lo
rimise addosso.
Subito dopo comparvero alla vista i tre ragazzi.
- Oh, eccovi. Dove eravate? - chiese loro Maxim, scocciato.
- Stavamo chiacchierando al fresco e abbiamo perso la cognizione del
tempo - spiegò loro Veronica, tutto d'un fiato.
Gianni la guardò con gli occhi socchiusi, come se non le credesse, ma
disse soltanto, allungando la mano verso di lei: - Vieni, ho invitato la
famiglia Mulder a pranzo da noi.
Veronica gli prese la mano e tutti e cinque si incamminarono verso la
spiaggia.
Usciti dal folto della pineta, Veronica dovette schermarsi gli occhi,
perché la luce del sole era aumentata da quando era andata a cercare Tara.
Chissà quanto erano rimaste nell’ombra.
Tornati al punto dove si erano “acquartierati”, si rivestirono. La famiglia
Mulder si diresse verso il camping per sistemarsi e raggiungere la coppia al
residence.
Gianni e Veronica salirono in moto in direzione del loro alloggio.
Appena entrati, Gianni la guardò sorridendo e chiese: - Che è successo
tra te e la piccola Tara?
Veronica non rispose, ancora confusa per l’accaduto ma, Gianni che la
conosceva come meglio di ogni altra persona al mondo, lo capì e rise.
- Te l'avevo detto che ci provava!
- Hai mai fatto sesso con un uomo, Gianni? - gli chiese di punto in
bianco Veronica.
- Cielo, no! – ribatté seccato. - Ma deve essere molto erotico vedere due
donne fare sesso. Allora, che ti ha fatto?
Veronica, sapendo che Gianni non le avrebbe dato pace fino a quando
non glielo avesse raccontato, gli disse: - Andiamo sotto la doccia e te lo
faccio vedere.
Gianni accettò volentieri e, appena entrati nella doccia, Veronica iniziò a
baciarlo e ad accarezzarlo.
- Tu devi seguire i miei movimenti, come se fossi il mio specchio - gli
spiegò.
Lui annuì e allora Veronica iniziò a strusciare i propri capezzoli sui suoi.
- Uhm...- gemette Gianni.
Poi Veronica iniziò ad accarezzarlo, a strizzargli i capezzoli tra pollice e
indice, per poi scendere giù lungo il ventre e fermarsi all'ombelico,
disegnando dei segni circolari.
Veronica rivisse la stessa esperienza della pineta, solo che questa volta le
mani che l'accarezzavano erano quelle di un uomo.
Poi scese al membro e, in un orecchio, gli sussurrò: - Con il pollice le ho
toccato il clitoride, mentre con l'indice l'ho penetrata. A te non posso farlo,
per ovvie ragioni, ma posso fare questo... - e iniziò ad accarezzargli il
membro, su e giù, mentre Gianni le riservava il trattamento ricevuto da
Tara.
Gianni, sentendo quel racconto, si eccitò di più e, dopo un po', perse il
controllo.
Prese Veronica per le natiche e l'alzò, appoggiandola alla parete della
doccia. Lei gli strinse la vita con le gambe e, con una potente spinta venne
penetrata.
Gianni iniziò a muoversi velocemente; non avevano molto tempo,
dovevano preparare il pranzo per gli ospiti, ma era tutto il giorno che
aspettava di farla sua e non gli importava che era stata con un'altra donna.
Anzi, la cosa lo eccitava tantissimo. Era una nuova esperienza per lei.
Veronica venne quasi subito, già stimolata dall'incontro avuto con Tara, e
dal pensiero di quello che sarebbe potuto ancora accadere se non fossero
state interrotte.
Gianni la seguì nell'orgasmo, uscendo dal corpo di Veronica e
spargendole il seme sul seno.
La doccia aveva una piccola rientranza a mo' di sedile, e Veronica vi si
lasciò andare, stremata ancora per tutte le emozioni della mattinata. E c'era
ancora il pomeriggio ad attenderla. A quel pensiero sorrise.
Finirono di lavarsi ed uscirono dalla doccia. La loro camera si trovava di
fronte al bagno, la porta spostata un po' sulla destra.
Nella stanza vi era un immenso letto matrimoniale, con un comodino a
ciascun lato e di fronte un televisore al plasma.
I colori predominanti erano quelli del verde e dell'oro. Attaccato a una
parete, c'era un grande specchio, che permetteva agli occupanti di guardarsi
interamente anche nelle posizioni più intime.
Gianni e Veronica si fermarono lì davanti, nudi, ad ammirarsi a vicenda.
- Su, dai, dobbiamo vestirci - disse Veronica, accarezzandogli il petto
con voluttà.
Si prepararono. Gianni indossò un paio di bermuda al ginocchio blu e
una t - shirt bianca, ai piedi le infradito. Veronica invece scelse una
salopette a gonna di jeans, con sotto una maglietta bianca. Come intimo, un
completino rosa chiaro, perizoma e reggiseno.
Andarono nel salotto che comprendeva un angolo cottura, con fornelli
elettrici. Di fronte c'era un tavolo allungabile e, appeso al muro, un altro
televisore.
L'appartamento era composto da un secondo piano, raggiungibile con
una scala di legno, dove c'erano un altro letto, singolo questa volta, e un
divanetto che poteva essere usato anch'esso per dormire comodamente. Il
pavimento era tutto in parquet, tranne nel bagno dove c’erano mattonelle
bianche.
Iniziarono a cucinare, una semplice pasta al pesto e, mentre preparavano
la tavola suonò il citofono.
Gianni andò ad aprire e dopo un po' la famiglia Mulder fece capolino
alla porta.
- È permesso? - chiese la signora Mulder.
- Entrate pure - rispose Veronica, posizionando le ultime posate sul
tavolo che per l'occasione era stato aperto e allungato.
Mangiarono tutti con gusto: l'aria di mare mette appetito, è risaputo… E
non solo di cibo.
Gianni guardò prima la piccola Tara, immaginandola con Veronica,
eccitandosi al solo pensiero. Poi il suo sguardo andò a posizionarsi
inevitabilmente su Joy, che si stava togliendo un po' di pesto dalle labbra
con la lingua. Gianni si ritrovò con il pene che chiedeva attenzioni, non
sazio dell'interludio avuto poco prima con Veronica. Ora aveva voglia di
“provare” quella bella olandese. Gianni cercò di tenere a bada
quell'insubordinato del suo membro ed emise un gemito sommesso, che
venne però percepito da Veronica, seduta accanto a lui.
- Tutto ok, caro? - gli chiese.
Gianni si alzò di scatto e disse: - Certo! Stavo pensando di fare
un'escursione ai Templi.
- Ottima idea, ragazzo - esclamò il signor Mulder. - È tantissimo strano
vedere che oggi giovani ancora interessati ad archeologia. Scorso anno visto
Pompei, prima di venire in Cilento.
Veronica, con l'aiuto della signora Mulder e di Tara sparecchiò e poi
uscirono tutti.
La famiglia Mulder aveva noleggiato un Doblò Fiat per potersi muovere
agevolmente lasciando il grosso camper parcheggiato alla piazzola, quindi
non ebbero problemi a raggiungere i Templi.
Arrivati all'area archeologica, entrarono dalla Porta della Giustizia,
posizionata a sud. Davanti si trovarono il Tempio di Hera e il Tempio di
Nettuno. Più in là sorgeva il Tempio di Athena, più piccolo degli altri due,
ma tutti e tre avevano un loro fascino. Erano stati eretti in stile dorico, con
un doppio ordine di colonne e sei nella facciata, a parte quello di Hera che
ne aveva nove.
Giunti a destinazione il gruppo si divise: i signori Mulder che
conoscevano bene quegli splendidi monumenti visto che erano habitué di
quei luoghi, si diressero verso il Santuario Meridionale, anche per lasciare
più liberi i giovani; Tara propose subito a Veronica di andare verso il
Tempio di Athena, dall'altra parte dell'area archeologica, ammiccandole. La
sua intenzione era evidentemente quella di continuare il “round” iniziato la
mattina in pineta.
Gianni rimase con gli altri 2 fratelli poi Maxim, solitario di natura, si
congedò e si avviò verso l'Anfiteatro e l'Agorà. Al quel punto Gianni era
rimasto solo con Joy. Essendo le due e mezza del pomeriggio, con un sole
cocente che da poco aveva superato il suo zenit – tenuto conto che il quel
periodo dell’anno è in vigore l’ora legale - che arroventava l’aria e generava
un caldo asfissiante, l'area era pressoché deserta. Eran tutti rintanati al
fresco in casa o in albergo, oppure in spiaggia o sui bordi delle piscine a
prendere il sole.
- Tempio di Hera, conosciuto anche come Basilica di Paestum - iniziò a
raccontare Joy. - Era probabilmente dedicato a sposa di Zeus - mormorò
imbarazzata con il suo italiano per rompere il ghiaccio con Gianni. - Hera,
appunto, che fu la principale divinità venerata a Poseidonia, la Paestum di
oggi.
- Mentre quello accanto, più maestoso, è il Tempio di Poseidone,
costruito in onore del dio del mare - intervenne Gianni. - Ovviamente è più
grande proprio perché dedicato a un dio e non a una dea.
Joy lo guardò in cagnesco. Che aveva detto di male? La risposta gli
arrivò quando lei chiese: - Sei tu maschilista? È così che dici in Italia,
giusto? Quando voi uomini vi sentite superiori a donne in tutto.
- Uhm, sì, si dice così, ma non sono maschilista, te lo posso assicurare,
Joy.
- La frase che tu detto su Tempio di Poseidone sembra proprio frase da
maschilista - ribatté la ragazza e si allontanò, entrando nel Tempio di Hera.
- Su, Joy, non fare la femminista - le disse, seguendola all'interno del
Tempio.
- Non sono femminista, Jan - rispose lei, chiamandolo in olandese. -
Sono per parità di sessi!
I due giovani si fronteggiarono, con fulminanti occhiate.
- Ok, basta litigare, Jan - disse Joy, distogliendo lo sguardo per prima.
Gianni la guardò. Era molto affascinante in canotta bianca e gonna di
jeans, con i capelli sempre legati a coda. E a lui, guardandole le labbra, gli
tornò in mente quando a tavola se le era leccate per togliere il pesto,
eccitandosi immediatamente.
Si guardò intorno; non c'era anima viva, soprattutto non c'era nessuno del
loro gruppo. Se avesse voluto baciarla, avrebbe potuto farlo, senza incorrere
nelle ire di Veronica.
Quindi le si avvicinò, le alzò il mento e, abbassando le proprie labbra
sulle sue, la baciò.
Un bacio che venne subito corrisposto. Joy gli buttò le braccia al collo,
stringendogli la nuca e si strusciò addosso a lui, inguine contro inguine,
sentendo così l'eccitazione di Gianni.
- Joy, non c'è nessuno - disse lui, interrompendo il bacio.
- Lo so, Jan - e tornò a baciarlo con passione.
Gianni la spinse dolcemente dietro una colonna, facendola appoggiare, e
continuò a baciarla con trasporto. Le mise una mano sotto la canotta e le
sfiorò dolcemente una morbida sfera sopra il reggiseno.
- Perché indossate questi strumenti di tortura? - le chiese Gianni,
riferendosi a quell’indumento.
- Perché possono proteggere da cattivoni - gli sussurrò Joy, leccandogli
l'orecchio e mordendogli il lobo.
- Al diavolo - esclamò Gianni, alzando la maglietta e slacciandoglielo.
Per fortuna aveva la chiusura davanti e non trovò complicazioni.
Il seno di Joy era stupendo. Quei piccoli capezzoli lo invitavano ad
assaggiarli. Invito che Gianni non rifiutò.
La sua bocca calò su un seno, prendendo il capezzolo tra i denti e
succhiandolo. Le mani di Joy andarono tra i capelli di Gianni, spingendogli
la testa ancora più verso quella dolce rotondità.
Erano entrambi in preda alla passione. Gianni voleva di più, e così Joy.
Gianni passò all'altro capezzolo dopo essersi occupato ben bene del
primo, che ora era bagnato e dolorante, ma anche molto sensibile.
- Jan... - mormorò Joy. - Toccami giù. Toccami là - e portò una mano
dell'uomo sotto la propria gonna.
Gianni l'assecondò, e mise la mano sulla sua femminilità libera. Joy non
portava slip sotto la gonna. Era un vero spettacolo quella ragazza.
- Ragazza spudorata - le mormorò in un orecchio. - Non porti niente
sotto la gonna - e le sfiorò il fulcro della sua intimità con un dito, facendola
gemere.
- No, Jan, non porto niente - gli rispose con un sussurro.
-Perfetto.
Un dito di Gianni la penetrò e Joy si morse il labbro inferiore per non
urlare a quella dolce invasione.
Non volendo rimanere inerme e passiva di fronte a quell’intima
esplorazione, Joy portò le mani al bottone dei bermuda, aprendoli. Fece
scendere la lampo e infilò una mano dentro, e fece una birichina scoperta.
Nemmeno Gianni indossava alcuna biancheria intima, cosicché il suo
membro fu libero di uscire non appena i pantaloni furono leggermente
abbassati.
Già aveva notato la sua virilità e Joy la trovava stupenda. Era grossa,
sembrava marmo rosa, dura, liscia e pronta per essere accarezzata.
Mentre Gianni continuava ad esplorare la sua umida cavità con la mano,
accompagnandosi con un secondo dito, Joy iniziò a lambire la sua
mascolinità. Liscia e calda al tatto, la strinse dolcemente. La lasciò un
attimo solo per mettersi un dito in bocca per poi strofinarlo sulla virilità di
Gianni, trasmettendogli un brivido di piacere.
- Ti voglio, Joy – le sussurrò. – E subito! - specificò con
un'esclamazione.
La fece spostare dalla colonna, ci si appoggiò lui e si lasciò scivolare a
terra, con la schiena appoggiata al pilastro.
Prese Joy per mano e la fece sedere sopra di sé, in modo che le loro
intimità fossero a contatto. Un contatto molto piacevole, non c'erano dubbi.
Gianni fece per penetrarla, ma Joy lo fermò.
Si mise accanto a lui in ginocchio, incurante di sporcarsi le sue
bellissime gambe, e iniziò ad adorare la sua meravigliosa parte con la
bocca. Lo assaporò tutto, fino alla radice, mentre con la mano accarezzava i
testicoli.
Gianni credette di impazzire. Quella lingua sul suo membro era come il
paradiso. Non sapeva per quanto poteva resistere e per quanto tempo
avessero avuto la privacy necessaria.
- Basta, Joy - gemette Gianni. - Ora ti voglio.
Joy lo accontentò e si mise a cavalcioni su di lui, alzandosi la gonna.
Pian piano, con una lentezza esasperante per Gianni, si abbassò sul suo
membro, accogliendolo centimetro dopo centimetro, come aveva fatto
prima con la bocca.
Una volta che fu tutto dentro, entrambi emisero un sospiro di sollievo e
di piacere. Joy iniziò a muoversi, prima lentamente, poi sempre più veloce,
fino a quando Gianni non si accorse di essere vicinissimo all'orgasmo.
Quindi portò la mano tra i loro corpi uniti ed iniziò ad accarezzare quel
magico bottoncino, che apriva le porte del paradiso.
Joy continuava, sempre più veloce, provando emozioni uniche, anche
grazie alle carezze intime di Gianni. Sentiva il piacere avvicinarsi, pronto a
prevalere su tutte le altre emozioni.
Finalmente la ragazza raggiunse la vetta del piacere. Anche Gianni stava
per farlo e, all'ultimo istante, sollevò Joy spargendo il proprio seme sul
pavimento del Tempio di Hera.
Ah, se la dea lo vedesse ora… Andrebbe su tutte le furie e gli lancerebbe
qualche sortilegio per aver profanato la sua dimora.
Joy, seduta accanto a lui, stava pian piano riprendendo fiato, così come
Gianni.
- Dovremmo rifarlo, Jan - disse lei, all'improvviso.
- Domani - le propose lui. - Alla pineta?
- No, al camper, quando tutti saranno in spiaggia.
Audace la ragazza. Gianni accettò e concordarono per le undici e mezzo.
Sentirono delle voci avvicinarsi e si ricomposero alla svelta, alzandosi
come se il Tempio stesse andando a fuoco.
Pochi attimi dopo comparvero i signori Mulder e Maxim. Quest'ultimo li
osservava con una strana espressione nello sguardo, ma non disse nulla.
- Bello questo tempio - disse la signora Mulder. - Dovreste vedere anche
Santuario Meridionale e Anfiteatro, per non dire di Agorà.
- Dov'è Tara? - chiese Maxim.
- È con Veronica - rispose Gianni. - Staranno visitando il Tempio di
Athena.
- Beh, che aspettiamo? Raggiungiamo a loro - esclamò la signora Mulder
con entusiasmo.
2.

Al Tempio di Athena, Veronica e Tara camminavano intorno alle


colonne. Veronica era a disagio per quello che era successo in mattinata, e
anche per quello che non era successo, dal momento che erano state
interrotte.
- Tara, posso farti una domanda? - chiese Veronica.
- Certo.
- Stamane, prima che arrivassero gli altri, cosa volevi fare?
Tara si guardò attorno e, vedendo che nei paraggi non c'era nessuno, le
rispose: - Se vuoi io mostro a te questo...
Veronica era curiosa, quindi annuì.
Tara allora la prese per mano e la fece sedere sulla scalinata che portava
all'entrata del tempio, le allargò le gambe e ci si sedette in mezzo,
appoggiandosi sui talloni.
Tara guardò Veronica negli occhi e le chiese: - Sicura?
Veronica annuì nuovamente e la testa di Tara scomparve sotto la gonna.
Con una mano spostò il perizoma, esponendo all'aria calda la femminilità di
Veronica.
La giovane italiana rabbrividì, guardandosi attorno, sperando che
nessuno passasse di lì, soprattutto Gianni e la famiglia Mulder.
Tara soffiò pian piano sull'intimità di Veronica, facendola sussultare di
piacere.
Era strano ricevere piacere da una donna, ma Veronica gradiva…
Tara le diede una leccata sul clitoride, facendola gemere, mentre con un
dito la penetrava.
Veronica si aggrappò forte con le mani al bordo dello scalino dove era
seduta, tanto che le nocche le divennero bianche per lo sforzo.
La lingua di Tara iniziò a fare l'amore con la vagina di Veronica. Le
leccò ancora il clitoride, per poi introdursi nella femminilità, sostituendo il
dito, uscendo e rientrando nuovamente, agitando la lingua all'interno con
movimenti circolari.
Veronica si morse il labbro inferiore per non urlare, aumentando la presa
delle mani sulla roccia, come se le servisse a rimanere ancorata alla terra.
Tara aumentò la velocità della lingua, fino a che Veronica non raggiunse
il picco del piacere, inarcandosi verso la bocca della giovane olandese.
A quel punto Tara si mise seduta dritta, guardandola mentre si riprendeva
dall’ebbrezza dell’orgasmo. A Tara piaceva quella giovane donna italiana.
Aveva un bellissimo corpo ed era molto passionale, oltre ad essere
disinibita.
- Immagino che questo tu hai ricevuto solo da uomini - disse Tara.
Veronica annuì. Però Tara ora voleva il proprio piacere; non dava mai
niente senza ricevere qualcosa in cambio.
Non avevano molto tempo: si erano separate dal resto del gruppo da un
bel po'.
Quindi Tara fece alzare Veronica e le chiese: - Vuoi provare altro prima
che ci raggiungano?
Veronica si guardò nuovamente attorno. Erano ancora da sole, per
fortuna.
- Cosa di preciso, Tara? - indagò.
- Vieni con me - le disse la giovane, prendendole la mano. La portò verso
una delle colonne del Tempio e ve la fece appoggiare.
Tara, che indossava un paio di pantaloni corti e una t - shirt, alzò la
gonna di Veronica, chiedendole di tenerla su, per poi slacciarsi i
pantaloncini e abbassarli leggermente insieme agli slip, mettendo a nudo la
propria femminilità. Poi abbassò anche il perizoma di Veronica e le si
appoggiò contro. Erano pressoché della stessa altezza, quindi Tara non
trovò difficoltà a far combaciare i loro inguini.
- Tara, cosa vuoi fare? - chiese Veronica. Era eccitata, non aveva
problemi ad ammetterlo. Anche il rischio di essere scoperte contribuiva a
farle salire l'adrenalina. Come quando faceva sesso nel bagno della scuola.
- Vedrai, Veronica. Piacerà a noi tutte.
Tara iniziò a strusciare il suo inguine su quello di Veronica, stimolando
così il clitoride di entrambe.
Veronica cominciò ad ansimare per il piacere e Tara le fece eco.
Aumentarono la velocità e Veronica, prendendo l'iniziativa, mise una mano
nello spazio tra i loro petti e le accarezzò un seno. Sotto la t - shirt Tara non
portava nulla e Veronica sentì il capezzolo della giovane indurito dal
piacere.
- Sì, Veronica, così - gemette Tara, stringendole le braccia e continuando
a muoversi.
Veronica fece scendere la mano verso il punto dove i loro corpi si
strusciavano e penetrò Tara con un dito, scansandola leggermente da lei.
Tara allora inarcò il bacino verso la mano di Veronica, in preda al
piacere.
Dopo un po' scansò la mano della donna e tornò a strusciarsi contro di
lei. Voleva che raggiungessero l'orgasmo assieme. Cosa che avvenne pochi
secondi dopo, con Veronica che ansimava con gli occhi spalancati e Tara
che si gustata quel momento ad occhi chiusi, per percepire meglio le proprie
sensazioni.
All'improvviso sentirono delle voci che si avvicinavano e si ricomposero
alla svelta, Tara alzandosi slip e pantaloncini, Veronica recuperando il
proprio perizoma da terra e abbassandosi la gonna.
- Eccovi qui, ragazze - esordì il signor Mulder. - Fa caldo, vero?
- Sì, papà - intervenne Maxim. - Perché non torniamo a spiaggia?
Tutti concordarono sul fatto che un bel bagno pomeridiano sarebbe stato
l'ideale, quindi la famiglia olandese si mise in marcia verso la piazzola dei
camper, mentre Gianni e Veronica, saliti in moto, partirono in direzione del
residence, dandosi appuntamento alla spiaggia dei nudisti dopo un'ora e
mezza.
Il pomeriggio passò in fretta. Decisero di cenare tutti assieme in un
ristorante sul lungomare, famoso per i piatti tipici della zona, Veronica optò
per la classica pizza margherita con mozzarella di bufala, Gianni invece
scelse un primo, cavatielli alla cilentana, un piatto di pasta fatta a mano
condito con pomodoro, carne di maiale, aglio, peperoncino e cacio ricotta,
scelta condivisa anche dai signori Mulder. Maxim scelse alici alla
policastrese, Tara, vegana convinta, optò anch’essa per la pizza ordinando
una marinara, infine Joy, nel chiaro intento di indispettire la sorella più
piccola, prese un filetto al sangue. Come contorno patate, insalata, carciofi
ammollicati.
Il tutto innaffiato da litri di aglianico che, specialmente gli olandesi,
parevano gradire particolarmente.
Era stata una giornata lunga, carica di emozioni e di nuove esperienze
ma, soprattutto faticosa. I 2 gruppi di amici si salutarono e raggiunsero le
loro dimore per un salutare riposo, dandosi appuntamento l’indomani in
spiaggia, verso le dieci.
3.

La mattina dopo, quando arrivarono, Gianni e Veronica vi trovarono la


famiglia al completo, già liberi dai vestiti.
I signori Mulder decisero di andare a passeggiare lungo la riva, che si
estendeva circa per un chilometro e mezzo.
Gianni invece decise di andare a nuotare un po' al largo prima
dell'erotico incontro con Joy che lo aspettava.
- Ricorda, Jan. Undici e mezzo - gli sussurrò all'orecchio la ragazza
prima che lui si dirigesse verso il mare, per poi allontanarsi ancheggiando.
Veronica e Tara si erano sedute su un asciugamano a chiacchierare, solo
loro sapevano di cosa, dato che parlavano sommessamente, come se si
stessero facendo delle confidenze.
Maxim invece, era scomparso, andato chissà dove.
Gianni non pensò più né alle due ragazze sedute a parlare, né allo strano
giovane olandese. Mentre nuotava sempre più in là, dove non c'era nessuno,
i suoi pensieri erano rivolti soltanto verso Joy.
All'improvviso si sentì accarezzare una coscia sotto l'acqua. Pensando
che fosse la giovane olandese, impaziente come lui di riprovare le intense
emozioni del giorno prima, gemette e disse: - Joy, tesoro, ragazza
impaziente. Tra un po' sarei venuto io da te.
Ma una testa emerse da sotto l'acqua e non era quella della ragazza. Era
Maxim che lo accarezzava.
- Allora fai sesso con mia sorella - gli disse, con un sorriso malizioso
sulle labbra.
Gianni rimase in un imbarazzato silenzio, non sapendo cosa rispondere.
- Non c'è niente male, se vi piacete - continuò Maxim. - Noi olandesi
abbiamo mente molto aperta, vedute larghe. Come voi a nord Italia, se non
ricordo male. Ebbi avventura con ragazzo torinese. Molto soddisfacente.
- Ragazzo? - domandò Gianni, preoccupato. Si chiedeva se Maxim
volesse per caso un'avventura con lui. La cosa lo impensieriva, e molto
anche.
- Preferisco uomini a donne, Gianni - spiegò Maxim, rispondendo alla
domanda dell'italiano. - Mi piace essere penetrato da fallo grosso. E tu, da
come visto ieri e anche ora, hai molto grande...
- Non vorrei offenderti Maxim, - iniziò Gianni. - Ma io non sono
interessato agli uomini. E poi si sta facendo tardi e dovrei andare...
- Da Joy? - domandò Maxim sorridendo. Non sembrava arrabbiato al
pensiero che Gianni avesse un'avventura con sua sorella, anzi. Era più
indifferenza quella che gli si leggeva in faccia. Indifferenza che scomparve
appena si avvicinò un po' di più a Gianni, sostituita dal desiderio.
- Gianni, prova. Ti piacerà. È come penetrare ano a donna, solo con
membro da accarezzare invece di vagina.
Maxim iniziò ad accarezzargli il torace, muscoloso come il suo.
Per molti motivi quel ragazzo italiano gli era piaciuto subito: era magro,
ben fatto, i muscoli scolpiti dalla palestra e, infine, aveva un pene ben
sviluppato, ottimo per la penetrazione.
Maxim era eccitato e si eccitò ancora di più mentre con la mano
scendeva lungo il ventre di Gianni, scomparendo sotto l'acqua e arrivando
fino al membro, prima duro, ora meno, ma Maxim era intenzionato a
provvedere.
Lo afferrò con la mano, stringendolo piano e accarezzandolo. E il suo
impegno dopo un po' fu premiato, quando ricomparve un accenno
dell'erezione iniziale.
- Vedo che ti stanno piacendo mie carezze, Gianni.
Sì, gli stavano piacendo, e la cosa lo preoccupava un po'. Gianni era
conosciuto a Cento e buona parte di Ferrara per la sua passione per le
donne, e per il piacere che era in grado di dare loro.
- Vuoi provare, Gianni? Potrebbe piacerti...
Le carezze continuavano sempre più intense ed eccitanti.
- Maxim, non so se sia una buona idea – farfugliò Gianni, ancora
titubante. Nei suoi trent’anni di vita non aveva mai pensato di aver rapporti
intimi con qualcuno di diverso da una donna.
- Nuotando ho scorto scoglio isolato. Andiamo là, tu non pentire -
propose Maxim.
Lo scoglio non era lontano, l'aveva notato anche Gianni il giorno prima,
fantasticando su incontri piccanti con Veronica o Joy, immaginandole
distese al sole su quel pezzo di roccia e lui pronto a soddisfarle. E ora quello
scoglio, forse, sarebbe stato testimone di un inedito incontro, tra Gianni e
Maxim...
Perché non provare?, si domandò Gianni. Alla fine sarebbe stato Maxim
il passivo, non lui. E iniziava a provare un certo interesse per quello strano
ragazzo.
Quindi, alla fine, accettò.
Lo scoglio era abbastanza ampio da permettere ad entrambi di starci
comodamente e abbastanza lontano da non essere visti da chi si trovava a
riva. Arrivatici vicino, Gianni salì per primo, subito seguito dal giovane
olandese che, appena sistematosi, ricominciò ad accarezzargli il membro,
facendolo ingrossare di più.
All'improvviso la mano fu sostituta dalla bocca, che accolse quella
virilità al suo interno, gustandola appieno.
Gianni, nonostante fosse ancora dubbioso, iniziò a gemere in preda al
piacere; quel ragazzo aveva talento con la lingua. Sapeva far godere.
Maxim, ad un tratto, fece stendere Gianni sulla roccia e si mise a
cavalcioni su di lui, con la testa rivolta verso il membro che chiedeva
ancora attenzioni.
Il giovane olandese continuò allora a dargli piacere lambendo e
succhiando il virile pene e giocandoci con la lingua.
Gianni stava per perdere il controllo, e rischiava di esplodere, con il
membro ancora alla mercé della bocca di Maxim.
Questi aumentò il ritmo fino a quando non raggiunse l'estasi.
Si accasciarono sullo scoglio, Maxim accanto a lui con sguardo pieno di
cupidigia.
Gianni aprì gli occhi e notò che Maxim lo stava osservando, seduto lì
accanto. Il giovane prima aveva parlato di voler essere penetrato e Gianni
iniziava a trovare l’idea abbastanza eccitante, soprattutto dopo quanto
appena avuto.
- E ora? - si informò Gianni.
- Ora - rispose Maxim. – Tu scopa me. Però prima - continuò,
avvicinando la mano al membro a riposo. - Vediamo di risvegliare qualcuno
- e iniziò ad accarezzarlo nuovamente e pian piano “questo qualcuno” tornò
a svegliarsi.
Maxim guardò la virtù del compagno: era grande, grossa, pronta ad
entrare ovunque avesse voluto. E in quel momento voleva che lo prendesse.
- Caro Gianni - gli sussurrò all'orecchio Maxim, con quel suo accento
olandese che iniziava a piacergli sempre più. - Stai per penetrare un uomo
per la prima volta. Sei pronto?
- Che devo fare? - chiese Gianni, con voce roca. Non aveva esperienza
riguardo ai rapporti omosessuali, non aveva mai pensato di averne uno. E
ora eccolo lì, a chiedere cosa doveva fare.
- Tu prendi iniziativa. Come penetreresti donna con sesso anale? - lo
incitò Maxim.
Allora Gianni gli disse di mettersi in ginocchio e poi piegarsi a 90 gradi,
gli fece allungare leggermente le braccia e abbassare la testa, cosicché il
sedere di Maxim fosse rivolto verso di lui.
Poi Gianni gli diede un bacio sulla nuca, trasmettendogli una scarica di
piacere.
Una volta che Maxim fu in posizione, Gianni iniziò ad accarezzargli il
sedere, dandogli un piccolo schiaffetto ogni tanto, ogni pensiero di donne
possedute in passato scomparso.
- Hai un bel sedere sodo, Maxim, sai? - lo elogiò Gianni, dandogli un
altro schiaffo. Maxim gemette, ad ogni schiaffo sempre più forte.
Gianni immerse una mano nel mare, bagnandola. Poi la riportò al sedere
del giovane e, con un dito bagnato, lo penetrò.
Maxim assaporò le sensazioni provate dalla piccola invasione del dito.
Mentre Gianni continuava in quell’azione, con l'altra mano andò ad
accarezzargli il membro.
Poi Gianni aggiunse un secondo dito e Maxim sussultò ancora di più per
il piacere.
Il giovane italiano, accorgendosene, gli baciò un gluteo prima, l'altro poi.
Maxim, di riflesso, spinse il sedere verso la bocca di Gianni, e le due dita
penetrarono ancora più a fondo.
- Voglio tuo fallo in me, Gianni – disse Maxim, muovendo il sedere.
Quindi Gianni tolse le dita, si bagnò entrambe le mani e il membro, pronto a
penetrare l’orifizio del giovane olandese.
- Accarezzami, Gianni – lo istruì Maxim, prendendogli una mano e
portandogliela sul membro eretto.
Gianni portò il proprio pene verso il sedere di Maxim, entrando pian
piano, mentre l'altra mano accarezzava e vezzeggiava il fallo eccitato del
compagno.
Maxim gemette, ma non per il dolore. Gli piaceva quando i suoi amanti
lo prendevano. Adorava le sensazioni che provava nel momento in cui un
membro stava per penetrarlo e l’anticipazione del piacere che si faceva
sentire in tutto il corpo. Gianni procedeva con lentezza, senza fargli male ed
eccitandolo maggiormente, grazie anche alla mano che stuzzicava il suo
fallo.
Appena Gianni entrò dentro il suo orifizio per tutta la sua lunghezza,
Maxim trasalì.
- Ti faccio sentire dolore? – domandò Gianni, preoccupato, interpretando
male i sussulti del compagno.
Maxim mosse un po' il sedere facendo capire all'amante che poteva
continuare. E Gianni continuò, uscendo leggermente per poi rientrare con
un colpo solo, uscendo e rientrando nuovamente, stringendo il membro del
ragazzo ad ogni spinta.
Il ritmo aumentò sempre più, con l'ano di Maxim ormai entrato i sintonia
con quel grande fallo, ed entrambi gli uomini ormai ansimavano come se
stessero correndo una maratona.
Ancora qualche spinta e Gianni raggiunse l'orgasmo, seguito da Maxim,
a cui non aveva smesso di masturbare il pene, espellendo il proprio seme
sullo scoglio.
I due ragazzi si accasciarono, sazi e stremati.
Maxim, appena si fu ripreso, baciò sulle labbra Gianni, per poi tuffarsi in
mare e tornare verso la spiaggia nuotando dolcemente di dorso.
Era strano quel ragazzo, pensava Gianni. Ma gli aveva fatto provare un
nuovo volto del piacere. Era stato intrigante fare sesso con un altro uomo.
Decise di rimanere lì ancora un po'. Era ancora leggermente sconvolto
dalla nuova esperienza e oramai l'appuntamento con Joy era bello che
saltato. Inoltre Gianni si sentiva troppo stanco e appagato per avere ancora
voglia di “sessualizzare” con chicchessia.
4.

Tara e Veronica intanto, erano sedute su un telo da mare, poco lontane


dalla riva.
Gianni era andato a nuotare, mentre Joy era scomparsa chissà dove.
Maxim, ovviamente, non si vedeva da nessuna parte.
- Oggi è caldo tanto - iniziò a lamentarsi Tara. - Io volere andare in
camper a fresco, venire tu con me? Lui è vicino a spiaggia.
Veronica era tentata, anche perché avrebbe potuto nuovamente far
l’amore con Tara, ma se Gianni fosse tornato e non l'avesse trovata, si
sarebbe preoccupato.
Sembrò che la giovane olandese le leggesse nel pensiero, dato che la
rassicurò, dicendole: - Sono qua miei genitori. Dire loro che fare
passeggiata, così nessuno si preoccupare.
Veronica accettò e, mentre Tara andava ad informare i signori Mulder,
iniziò a vestirsi, infilandosi la gonna corta. Stava per indossare la maglietta
quando la giovane olandese tornò, si infilò un corto vestito di cotone bianco
a pois celesti.
Appena pronte, uscirono dalla spiaggia e si incamminarono verso la
piazzola delle roulotte.
5.

Jan era in ritardo. Era mezzogiorno meno un quarto e il giovane italiano


ancora non si vedeva.
Joy era distesa sul divano nel camper e lo attendeva, impaziente,
sfogliando una rivista di moda che si era portata da Amsterdam.
L'abitacolo del grosso mezzo era composto da un divano a tre posti che
si trasformava in un comodo letto matrimoniale, affiancato da una poltrona
per ciascun lato, un tavolo di fronte che si abbassava fino al pavimento
quando i genitori dovevano dormire, sulle pareti lettini a cuccetta
richiudibili, anche se i ragazzi quando viaggiavano d’estate preferivano
dormire nella grande tenda montata a fianco del camper sulla stessa
piazzola; infine un piccolo angolo cottura e un bagno. I colori predominanti
erano il beige e il verde, a parte la toilette, che era azzurra.
All'improvviso la porta del camper si aprì e Joy, senza alzare lo sguardo
dalla rivista, salutò: - Alla buon'ora! Perso tu?
- Veramente conosco bene la strada per venire qua. Anche se non
immaginavo che mi stessi aspettando - rispose la voce di sua sorella Tara, in
olandese.
Joy alzò lo sguardo e, lanciandole un'occhiataccia, le chiese: - E tu che ci
fai qui?
- Era della nostra famiglia il camper, l'ultima volta che ho controllato -
rispose Tara, ironicamente nella sua lingua. - Non credevo di aver bisogno
del tuo permesso per venire qua con Veronica.
Subito dopo Joy vide anche la giovane compagna di Jan, come lei lo
chiamava, e si raggelò. A quel punto sperò fortemente che il ragazzo non
sarebbe più arrivato.
- Come mai voi qui? - domandò Joy, tornando all’italiano per farsi capire
anche dall’ospite mentre si alzava dal divano. Tornata al camper, aveva
indossato un leggero abito di cotone rosa, legato dietro la nuca che le
lasciava la schiena scoperta. Non voleva domandare a Veronica di Jan; non
voleva che le facessero domande indesiderate.
- È troppo caldo fuori, sorellina - rispose Tara, lasciandosi cadere sul
divano e facendo segno a Veronica di raggiungerla.
Questa dal canto suo, era fortemente a disagio. Erano andate nel camper
per poter restare in intimità sicure di non essere disturbate mentre invece, la
sorella aveva rovinato loro il piano.
- Joy, perché tu non torni a spiaggia? - chiese Tara alla sorella, con un
tono misto tra il persuasivo e il minaccioso.
- L'hai detto tu stessa, Tara - rispose Joy, sedendosi accanto a Veronica,
che era sempre più a disagio. - Fa troppo caldo.
Joy osservò Veronica con gli occhi socchiusi e, dopo un attento esame
che la giovane italiana aveva retto a testa alta, chiese alla sorella, in italiano:
- Che dirà Julie di tua avventura estiva?
- Niente, se nessuno dirà - rispose Tara, lanciando uno sguardo
ammonitore alla sorella.
- Sai, Veronica, la nostra piccola Tara ha amichetta in Amsterdam. Ed è
molto gelosa. Non voleva partisse con noi.
- Joy, finiscila!
- Perché? Se tu e Veronica avere avventura insieme è giusto lei sapere di
Julie.
- So che ha un'amica ad Amsterdam - intervenne Veronica, mettendo da
parte il disagio per poter calmare le acque, che stavano diventando troppo
turbolente, tra le due sorelle.
- E sai anche che, a volte, Julie stava con entrambe? - chiese Joy,
sorridendole.
- Entrambe? - Veronica non capiva cosa poteva interessare a lei se la
ormai famosa Julie aveva delle relazioni anche con Joy.
-Sì, entrambe. Contemporaneamente.
Voleva dire che avevano relazioni a tre? Era intrigante.
Il sogno di molti uomini era fare l’amore con due donne assieme, ma non
sapeva che tale desiderio lo avessero anche le stesse donne.
Tara guardò Veronica cercando di capire cosa pensasse di quel rapporto a
tre. Non sembrava sconvolta, anzi… pareva eccitata!
- Interessante - disse infatti dopo qualche secondo. - Ma voi due siete
sorelle.
- Quindi? - disse Joy. - Io, differenza mia sorella, preferisco uomini,
come te immagino, ma piace se vedo bella donna come te.
- E scommetto che non vorresti tirarti indietro neanche ora? - chiese
Veronica, maliziosa. Il disagio era completamente superato.
Joy guardò Tara per vedere se lei fosse d'accordo. In fondo Veronica era
la sua avventura estiva e lei non gliel'avrebbe mai rovinata.
- Perché no? - disse Tara in risposta allo sguardo di Joy che, abituata a
tenere il comando, iniziò subito ad accarezzare il corpo di Veronica, imitata
a ruota dalla sorella.
Quindi Veronica si ritrovò alla mercé delle due olandesi, pronta a farsi
vezzeggiare e adorare. Non aveva intenzione di rimanere inerme per molto,
ma decise che per un po’ sarebbe rimasta passiva.
Dopo che le ebbero sfilato la maglietta, Joy iniziò ad accarezzare il seno
sinistro di Veronica, mentre Tara si occupava del destro. Veronica, nel
frattempo, aveva lo sguardo ipnotizzato su quelle dita che la stavano
toccando, eccitandola terribilmente.
Joy sostituì le dita con i denti, mordendole il capezzolo sinistro mentre
Tara le stringeva il destro tra pollice e indice, giocherellandoci.
Il respiro di Veronica iniziava ad essere affannato, lo sguardo era sempre
fisso sui propri seni, mentre con la mano sinistra accarezzava la testa di Joy,
china sul suo petto facendole provare intenso piacere.
Una mano di Tara e una di Joy scesero lungo il ventre di Veronica senza
però interrompere ciò che stavano facendo, in sintonia, come se l'avessero
fatto milioni di volte, probabilmente con quella Julie.
Arrivarono al monte di Venere, coperto da una gonna e dal costume.
Entrambe le ragazze si fermarono, alzarono la testa e Joy esclamò: -
Togliamo indumenti!
Quindi si alzò dal divano e, fece cenno a Veronica di slacciarle il vestito.
Veronica, malferma sulle gambe per via dell'eccitazione e del desiderio
insoddisfatto, si mise dietro Joy. Nel frattempo Tara si era messa più
comoda sul divano e stava osservando le due ragazze, sorridendo.
L’italiana decise che era arrivato il momento di attivarsi. Quindi iniziò ad
accarezzare la schiena di Joy, lentamente. Il tocco delle dita fu seguito da
quello di velluto delle labbra che la baciavano.
Joy mugolò di piacere e inarcò la schiena. Veronica continuava a
scendere, fino ad arrivare al bordo della scollatura. Allora sciolse l'abito e lo
fece cadere in terra, ai piedi di Joy, per poi continuare la discesa delle dita e
delle labbra.
Arrivò al sedere, Joy non portava biancheria intima, quindi Veronica
poté accarezzarle le natiche.
La maggiore delle sorelle respirava a fatica, così come Tara, spettatrice
di quell'erotica esplorazione. Veronica era affascinata dal potere che ora
sapeva di avere su un'altra donna.
Inginocchiatasi dietro Joy, le passò un dito tra le due natiche, che la
giovane olandese strinse.
A quel punto Tara si alzò e raggiunse le due ragazze, mettendosi a sua
volta dietro Veronica. Iniziò ad accarezzarle le spalle, mentre la donna
italiana continuava ad esplorare con le mani il fondoschiena di Joy.
Le mani di Tara dalle spalle si spostarono alle clavicole, scendendo poi
giù verso il seno. Fu quello il momento di Veronica di gemere.
Joy interruppe l'esplorazione a cui era sottoposta girandosi verso le altre
due ragazze e vide Tara toccare i seni della giovane italiana.
Entrambe le sorelle fecero rialzare Veronica e la portarono verso una
delle poltrone. Prima di farla sedere, le tolsero le scarpe, la gonna e gli slip.
Veronica le lasciò fare. Una volta che fu seduta, Joy le allargò le gambe
mentre Tara iniziò a rovistare nella sua valigia.
Joy si inginocchiò tra le gambe aperte di Veronica facendola sussultare
sotto i tocchi della sua lingua che con vorace avidità assaporava l’oramai
umida intimità dell’amica.
Joy iniziò a stuzzicarle il clitoride, mentre le sue mani erano posate sulle
cosce aperte di Veronica.
Tara si riavvicinò alla poltrona e l’italiana, tra i fumi del desiderio, la
sentì esclamare: - Ehi, non prendere tu tutto divertimento!
Veronica, che aveva chiuso gli occhi, li aprì e vide che Tara aveva una
scatola in mano.
- Che c'è lì dentro? - chiese con voce roca.
- Oggetti che aumentano nostro piacere - rispose la più giovane e,
togliendo il coperchio, tirò fuori un fallo di silicone e lo passò a Joy. Poi si
spogliò e si mise anche lei inginocchio accanto a una gamba di Veronica.
- Metti gambe su braccioli, Veronica - sussurrò Joy e Veronica eseguì.
In quella posizione la femminilità di Veronica era esposta allo sguardo
delle due olandesi ed era ancora bagnata dai suoi umori e dalla saliva di Joy
per cui, quando quest'ultima la penetrò con il fallo artificiale, l'oggetto entrò
facilmente, trasmettendole forti scariche di piacere.
Intanto Tara era andata a posizionarsi dietro allo schienale della poltrona
dove era seduta Veronica e le sue mani tornarono a toccare con desiderio il
seno sodo dell’amica.
Veronica dopo un po' raggiunse l'orgasmo emettendo un forte urlo.
Joy e Tara a quel punto la portarono sul divano e la fecero stendere. Joy
le allargò nuovamente le gambe e si mise sopra di lei, con il volto rivolto
verso quella bontà che aveva appena goduto e che aveva ancora intenzione
di far godere, mentre il viso di Veronica si trovò a sua volta all'altezza delle
intime labbra di Joy.
Veronica capì il desiderio della maggiore, quindi iniziò ad assaggiare la
sua femminilità.
Tara invece si sedette sulla poltrona guardando la sorella e l'amante darsi
piacere a vicenda. Iniziò a toccarsi, prima i seni, scendendo poi lungo il
ventre fino ad arrivare alla propria porta del piacere. Si accarezzò il
clitoride, ci passò la mano sopra, ci premette il pollice, poi si penetrò, lo
sguardo ancora rivolto al divano, dove la lingua di Joy entrava insaziabile
nella vagina di Veronica, ricevendo lo stesso trattamento dalla partner.
Joy, per essere una ragazza che preferiva gli uomini, provava gusto a dar
piacere a un'altra donna. Le piaceva controllare la situazione, tutto doveva
svolgersi secondo la sua volontà, e Veronica glielo lasciava fare. Fino a
quando Joy non raggiunse la vetta del piacere, alzando la testa e urlando di
goduria.
A quel punto Tara si avvicinò a loro con il fallo in mano e, mettendosi di
fronte a Joy, portò l’oggetto alla bocca della sorella, che lo leccò. Poi essa
tornò ad occuparsi della femminilità di Veronica, che non aveva ancora
raggiunto il picco del piacere, succhiandole e leccandole il clitoride, mentre
Tara la penetrava con l’oggetto sessuale bagnato.
Veronica stava provando emozioni intense; sentiva la tensione crescere
nel ventre, inarcava il bacino quel tanto che il peso di Joy le permetteva e,
dopo l’ennesima spinta da parte del fallo siliconato di Tara, raggiunse anche
lei l’orgasmo.
Appena si fu ripresa, Veronica decise di attivarsi nuovamente; fece alzare
Joy, facendola stendere al suo posto, poi si girò verso Tara e la baciò,
riportandola verso la poltrona, poi prese il fallo di silicone, fece allargare le
gambe a Tara e, senza preavviso, la penetrò.
Tara, già eccitata e bagnata per l'autoerotismo e per aver procurato
piacere a Veronica, accolse con voluttà quello strumento di piacere dentro di
sé.
Veronica aveva iniziato a muoverlo, quando Joy, stanca di stare là a
guardare, si avvicinò a Veronica che stava in ginocchio tra le gambe di Tara.
- Mettere tu a quattro zampe - le sussurrò Joy e Veronica lo fece,
continuando a dare piacere alla più piccola.
Joy si allontanò per prendere alcune cose dalla scatola di Tara. Poi tornò
da Veronica e iniziò a toccarle con dolcezza il sedere. Veronica non era
preoccupata di quello che avrebbe potuto fare l'altra, tant'è che quando Joy
le passò un liquido freddo in mezzo alle natiche, non si impensierì. Sapeva
di che cosa si trattasse: aveva già fatto sesso anale con Gianni e conosceva
quella pratica.
Joy preparò l'apertura ben bene, baciando ogni tanto una natica di
Veronica, che a ogni bacio o carezza muoveva il sedere sempre più.
Appena Joy vide che l'apertura dell'ano era ben bagnata, prese un
secondo fallo, più piccolo di quello che stava usando Veronica su Tara, e la
penetrò adagio.
Veronica sussultò e intanto continuava a penetrare Tara, che gemeva
forte, raggiungendo la vetta sempre più velocemente.
Joy iniziò a muovere il proprio fallo, portando intanto la mano libera al
clitoride di Veronica, stringendolo tra pollice e indice.
Tara raggiunse l'orgasmo e, dopo un po', Veronica la seguì,
afflosciandosi a terra appena Joy tolse la presa.
- Dio, che esperienza - disse Veronica, tra un ansito e l'altro.
Anche Tara ansimava, mentre Joy si stava rivestendo.
- Lascio voi due a riprendere. Io andare spiaggia.
Detto ciò, uscì, andando alla ricerca di Jan.
6.

Gianni era tornato alla spiaggia e non vi aveva trovato nessuno.


Ancora stremato per “il match erotico” con Maxim prima e la nuotata
dopo, si sdraiò su un asciugamano, chiudendo gli occhi.
Erano passati dieci minuti, quando sentì qualcuno schiarirsi la voce e
fargli ombra. Aprì gli occhi e si trovò davanti Joy, splendida nella sua
nudità. Si alzò di scatto.
- Joy, mi dispiace moltissimo - le disse, cercando una scusa per il
mancato appuntamento, ma lei lo tranquillizzò subito dandogli un bacio e
dicendogli: - Non preoccupare, Jan. Ci rifaremo anno dopo. Noi domani
mattina partire con urgenza- gli spiegò.
- Mio papà tornare subito ad Amsterdam – continuò Joy a un Gianni
rimasto sbalordito e senza parole - lui vice capo di diga di Afsluitdijk, diga
ha problema, si rischia che acqua passa.
La diga di Afsluitdijk, scoprì poi Gianni, protegge Amsterdam dalle
inondazioni. Per lui era impronunciabile ma Joy gli spiegò che in dialetto
della Frisia - regione ove essa è ubicata - significava letteralmente “diga di
sbarramento”.
A quel punto arrivarono anche i signori Mulder e Maxim, per poi essere
raggiunti da Tara e Veronica a cui fu comunicata la spiacevole novità.
Il pomeriggio volgeva al termine. Andarono a cena tutti assieme, i
giovani e la coppia ferrarese erano mesti, la signora Mulder visibilmente
seccata, il marito molto preoccupato. Doveva essere successo qualcosa di
grosso se lo avevano richiamato così di fretta. A fine pasto si congedarono
dandosi appuntamento al mattino seguente per i saluti.
Gianni e Veronica tornarono nel loro appartamento dove si
addormentarono praticamente di colpo. Durante il tragitto nessuno dei due
proferì parola…
7.

- Ci rivedremo anno prossimo - salutò il signor Mulder, salendo alla


guida del camper.
- È stato un piacere conoscere due giovani così a modo - disse la signora,
baciando entrambi sulle guance per poi raggiungere il marito.
- Bene, Jan. Ci salutiamo allora - disse Joy, dandogli un bacio sulla
guancia. – Hai mio contatto facebook e mia mail.
- Sì, Joy. Al prossimo anno, rispose il giovane con lo sguardo triste.
- Ciao Veronica. È stato un piacere - disse Joy, rivolgendosi alla ragazza.
- Anche per me - rispose Veronica, sorridendo tristemente.
E anche Joy si diresse verso il camper.
- Grazie Veronica - disse Tara, stringendola a sé con forza e con gli occhi
lucidi.
- Grazie a te, Tara. Scrivimi, appena arrivate, mi raccomando.
Poi rivolgendosi al compagno gli disse: - Ciao Gianni, prendere cura tu
di lei.
- Lo farò, ragazzina - rispose Gianni, facendole l'occhiolino.
Tara raggiunse la sorella e i genitori lasciando lì Maxim, che salutò
prima Veronica.
- Buona vacanza - disse, stringendole la mano.
- Buon viaggio - rispose.
Vedendo che Tara la stava chiamando, disse: - Probabilmente Tara mi
dovrà dare una cosa. Torno subito - e si allontanò.
- Bene Gianni. A estate prossima.
- Sì, Maxim. Però cerchiamo un posto migliore dello scoglio - rispose
l’amico strizzandogli l’occhio.
I due ragazzi si abbracciarono.
- Ci sentiamo su Facebook, Maxim – disse Gianni.
Maxim raggiunse il resto della famiglia, mentre Veronica stava tornando.
Il signor Mulder mise in moto il camper e la famiglia partì.
- Che ti ha dato Tara? - chiese Gianni, mentre si incamminavano verso la
moto.
- Un ricordo - rispose Veronica, misteriosa.
Gianni non insistette. Salirono sulla moto e mentre correvano per le
strade di Paestum, con il vento rovente che accarezzava i loro volti e le loro
membra, Veronica pensava al fallo di silicone che aveva in borsa.
Sì, era stata proprio una vacanza fuori dagli schemi.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

CAVALCATA A SORPRESA
Campagna romana, metà ottobre 1871

Vittorio si trovava da solo nel giardino illuminato dalla luna piena.


Pensava a quanto fosse strana la vita: non voleva tornare a casa dallo zio,
nella campagna romana, ma questi l’aveva richiamato perché purtroppo non
godeva più della salute di un tempo e non era in grado di mandare avanti al
meglio la tenuta di famiglia.
Ormai la guerra era finita, l'Italia unificata e le chiavi di Roma erano in
mano a Vittorio Emanuele II. Lui aveva fatto il proprio dovere, stando
accanto al generale Cadorna e aprendo quella breccia che permise alla
fanteria e ai bersaglieri di prendere la città.
Ora, un anno dopo, Roma era divenuta capitale del Regno d'Italia, non
era più in mano al papato, e Vittorio, capendo che ormai doveva occuparsi
di altri doveri, quelli verso la propria famiglia, aveva riposto l’amata divisa
del Regio Esercito ed era tornato nella tenuta avita, alle porte di Roma. A
malincuore.
Arrivato in quell’immensa dimora, vi aveva trovato delle novità. Erano
anni che mancava da quella casa e l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era
trovarvi una stupenda giovincella, affidata allo zio.
La ragazza, Bella, diminutivo di Arabella, era la nipote di uno dei soci
dell’anziano uomo d'affari, nonché suo migliore amico, morto da un paio
d’anni. La ragazza era stata cresciuta dal nonno sin dall’età di cinque anni,
da quando cioè i suoi genitori erano morti durante un naufragio, mentre
ritornavano dal sud della Francia ove si erano recati in viaggio. Prima di
spirare, l'anziano amico l'aveva affidata a suo zio con la preghiera di
continuare a impartirle un'appropriata educazione e di amministrare la sua
eredità fin quando la nipote non fosse stata in grado di farlo da sola. Fedele
alla promessa, quindi l'uomo l'aveva presa sotto la propria ala protettrice.
Mentre era assorto nei suoi pensieri, Vittorio all’improvviso sentì dei
passi sul sentiero di ghiaia. Si avvicinò silenzioso per vedere chi fosse e
notò un ragazzo che si dirigeva furtivo verso le scuderie.
Curioso e preoccupato, lo seguì, attento a rimanere sull’erba per non
farsi scorgere.
Lo vide aprire la porta della scuderia guardandosi attorno con fare
sospetto, quindi decise di avvicinarsi e fermarlo. Il ragazzo entrò e lui lo
seguì velocemente per prenderlo alle spalle e tappargli la bocca con una
mano.
- Ditemi chi siete e cosa ci fate qui e forse vi lascerò andare – gli
sussurrò in un orecchio.
Per tutta risposta ricevette un morso alla mano e lo sconosciuto si liberò
dalla stretta. La luce della luna penetrò dalla porta aperta e Vittorio vide il
ragazzo in faccia: ma non era un ragazzo bensì la ragazza che fino a pochi
minuti prima aveva riempito i suoi pensieri, la signorina Arabella.
I lunghi capelli castani erano infilati sotto al berretto da garzone. I
luminosi occhi verdi erano fissi su di lui e la bellissima bocca era aperta, un
po’ per la sorpresa e un po’ per l’affanno. Il suo bellissimo corpo era
fasciato da dei calzoni attillati, appartenuti a chissà chi e sopra portava una
camicia che le metteva in risalto la curva dei seni.
- Che cosa ci fate voi qui? – gli chiese lei, con quella sua voce
melodiosa. Quella voce che lo faceva eccitare, ma forse anche il modo in
cui vestiva vi contribuiva molto.
- Veramente vi stavo per porre la stessa domanda – le rispose,
riprendendosi. – E vestita in questo modo, per di più!
Arabella abbassò la testa, ma la rialzò subito, incatenando i suoi
bellissimi occhi verdi ai suoi azzurri.
- Allora? – la spronò Vittorio.
- Volevo fare una cavalcata – rispose lei, guardandolo dritto negli occhi.
Quanto sono belli i suoi occhi, pensò lui. Occhi da gatta.
- Dovevate incontrarvi con qualcuno? – le chiese, provando una punta di
gelosia.
Al solo pensiero che potesse incontrarsi con un altro uomo, gli veniva la
voglia di buttarla sul fieno, spogliarla e amarla.
- Non mi devo vedere con nessuno! – rispose Arabella, offesa. Forse
diceva la verità.
- Allora potete anche rientrare e andare a dormire. Non mi pare l’ora
adatta per fare una cavalcata, soprattutto non con quegli abiti.
- Che hanno i miei abiti che non vanno? – chiese Arabella, sorpresa. -
Sono ottimi per cavalcare!
Vittorio la guardò con occhi furiosi e le ordinò: - Ora, voi andrete in
camera vostra e ci rimarrete!
Lei per tutta risposta gli diede le spalle e si avviò verso il box del suo
cavallo.
Allora lui perse la pazienza: la prese in braccio e se la caricò in spalla,
come un sacco di farina.
Arabella era indignata e iniziò a dimenarsi con la speranza che la
mettesse giù.
In fondo voleva fare solo una cavalcata… L’aveva sempre fatto! Quelle
terre erano dello zio dell’uomo che la stava trattando come un sacco di
patate e lei le conosceva a menadito. E prima di cavalcarvici sopra,
cavalcava su quelle del nonno, confinanti a quelle dell’anziano uomo. E
molto spesso si ritrovava a sconfinare in quelle che ormai erano roba sua.
E ora quell’uomo voleva tarparle le ali. Non era giusto! Iniziò a
tempestargli la schiena di pugni, ordinandogli di metterla giù. Niente! Anzi,
le diede uno schiaffo sul sedere dicendole: - State buona ragazzina. Vi
riporto a letto!
Vittorio si pentì subito di quelle parole, perché gli fecero venire in mente
scene erotiche, con lei che si dimenava sul letto, in preda alla passione.
- Intanto uscirò di nuovo! – disse Bella. – Anche se mi chiuderete a
chiave. So scavalcare il davanzale e uscire calandomi dall’albero!
- Siete proprio un maschiaccio, allora – sogghignò lui. - Rimedieremo
anche a questo!
Nel frattempo erano arrivati alla casa padronale. Vittorio entrò dalla
porta di servizio e la richiuse dietro di sé. Iniziò a salire ai piani superiori
attraverso le scale della servitù e si fermò davanti a una porta che Bella non
conosceva.
- Dove mi state portando? Che stanza è questa? – chiese lei cercando di
girare il capo. Quello non era il piano dove si trovava la sua stanza!
- È la mia camera – rispose lui, tranquillo. – Così sono sicuro che non
andrete di nuovo a zonzo nella notte.
La mise giù buttandola sul letto e i suoi capelli si liberarono del berretto,
che cascò sulle lenzuola. Aveva voglia di passarci le mani in quei capelli.
Bella si alzò appoggiandosi ai gomiti e si guardò attorno. La stanza era
ampia ed aveva un tocco tutto maschile. Si vedeva che non ci viveva una
donna, lì. Di fronte al letto dove era stata scaricata c'era una porta che
doveva portare allo spogliatoio, mentre vicino alla finestra, una libreria
occupava spazio.
Il letto dove si trovava era ampio, sormontato da un baldacchino. Il tutto
era stato costruito con del pregiato legno di noce. Le pareti erano color
palissandro, un po' più scure del colore del letto.
A terra, il tappeto persiano spiccava per i suoi motivi circolari di vari
colori, su uno sfondo rosso vinaccia.
Quella stanza denotava ricchezza e sicurezza nella persona che vi
dormiva.
- Che intenzioni avete? – gli chiese. Non aveva paura, la ragazzina. Beh,
faceva male! Era troppo eccitato, tanto che iniziò a pensare che non fosse
stata una buona idea portarla lì. Vederla distesa sul suo letto, con i capelli
arruffati, aumentò il suo desiderio.
Lo sguardo di Bella scese da viso al torace, per poi arrivare alla patta dei
pantaloni e li vide tesi.
Sapeva cosa significava: aveva visto tanti cavalli così, pronti a montare
la giumenta. Solo che l’animale non le era mai sembrata molto contenta di
quel che poi accadeva. Sì, concluse, quel rigonfiamento là doveva essere
causato dall’eccitazione.
- Ti piace ciò che stai guardando? – le chiese Vittorio, ignorando la
domanda che gli fece prima di quell’attento esame e passando a un tono più
confidenziale.
Bella deglutì e si leccò le labbra. Lui sapeva che non voleva essere un
gesto provocante, era troppo innocente, ne era sicuro nonostante l’avesse
accusata di doversi vedere con un uomo.
Ma proprio perché era un gesto fatto senza malizia, gli provocò un
effetto devastante.
Ma il desiderio di un uomo quali limiti può sopportare senza essere
esaudito?, si domandò Vittorio.
Bella arrossì e gli chiese di nuovo che intenzioni avesse. Lui iniziò a
camminare avanti e indietro e rispose: - La mia intenzione iniziale era
quella di non farti uscire. Ora però...
Si bloccò e si girò a guardarla. Lei aspettò che continuasse, ma dato che
il silenzio persisteva, domandò: - Però?
Vittorio si avvicinò al letto, si mise seduto accanto a lei e iniziò a giocare
con i bottoni della sua camicia.
- So che sei innocente e non dovrei, ma non resisto – e la baciò. Prima fu
un bacio pieno di passione e di rabbia, poi divenne più dolce.
Bella si aggrappò alle sue spalle e lo tirò a sé, stendendosi sul letto. Lui
la seguì volentieri, pronto ad approfondire quel bacio, ad andare oltre.
Si staccò da lei e le chiese: - Sicura? Poi non si potrà più tornare indietro.
Arabella ormai era stregata; voleva andare oltre, conoscere un nuovo
mondo e non le importava che le giumente non lo trovassero molto
piacevole. Era sicura che, con quell’uomo, di piacere ce ne sarebbe stato
tanto. Quindi fece di sì con la testa, sorridendogli.
Quel sorriso timido, ma nello stesso tempo sensuale, gli fece perdere
definitivamente il controllo.
Iniziò a slacciarle la camicia, aprendola pian piano, bottone dopo
bottone, fino a quando non arrivò all’ultimo. Scostò i due lembi e scoprì un
seno perfetto, pronto per essere baciato.
Lei cercò di chiudere di nuovo i due lembi della camicia: si vergognava.
Non lo considerava un corpo perfetto, come quello di molte dame che aveva
visto durante le feste di paese a cui aveva partecipato.
Vittorio glielo impedì, mettendole le braccia sopra la testa e bloccandole
i polsi con una mano. Con l’altra prese ad accarezzarla: prima un seno, poi
l’altro. I capezzoli si inturgidirono, divennero due sassolini duri. Lui
abbassò la testa e li gustò con gran piacere.
- Che fate?- chiese Bella, trattenendo il fiato e iniziando a dimenarsi.
Vittorio alzò la testa, le fece un sorrisino e le rispose: - Banchetto!- e
tornò giù con la bocca, leccandole un capezzolo, poi l’altro. Ne prese uno
tra i denti, mordendolo piano e giocò con la lingua, facendola urlare di
piacere.
- Shh – le sussurrò all’orecchio. – Non vorrai che qualcuno ci senta,
vero? – e le succhiò il lobo.
Bella si sentiva strana. In basso, nelle sue parti più intime, si sentiva
bagnata e sentiva un fortissimo bisogno di essere riempita.
Lui le lasciò i polsi, la mise seduta e le tolse la camicia, lanciandola a
terra. Lei tornò a coprirsi i seni con le braccia: si sentiva troppo esposta
senza camicia, mentre lui era ancora tutto vestito.
Lo vide alzarsi e dirigersi verso la porta dello spogliatoio. Ne uscì con
una cravatta in mano.
- Cosa volete fare? – gli chiese.
- Prima cosa – iniziò Vittorio. - Non ti pare il caso di darmi del tu?
Stiamo per fare l’amore insieme, in fondo. Vedrai – la rassicurò. – Ti
piacerà!
Bella indicò con la testa la cravatta e domandò: - Cosa
volete...ehm...vuoi fare con quella?
- Aspetta e vedrai – rispose. Si avvicinò al letto, le tolse le braccia dal
seno e le riportò sopra la testa. Questa volta però non le bloccò i polsi con la
mano, ma li legò alla spalliera del letto con la cravatta.
- Cosa vuoi fare? Perché mi hai legata? – domandò Bella, un po’
impaurita, cercando di liberarsi i polsi. Ma il nodo era fatto troppo bene.
- Voglio divertirmi e darti piacere – rispose lui. – Ma se continui a
portare le tue braccia su questo splendido seno, - e glielo accarezzò,
facendola vibrare e gemere di passione. – Non mi sarà possibile farlo. E
preferisco avere tutte e due le mani libere.
Detto ciò iniziò a toglierle gli stivali e le calze. Bella non poteva reagire,
legata com’era.
Poi Vittorio portò le mani alla patta dei pantaloni e glieli slacciò.
- Sai una cosa? – le chiese. – Sono stati questi pantaloni che indossi ad
eccitarmi. Ti fasciano il corpo perfettamente. Mi domando come abbia fatto
a scambiarti per un ragazzo. Ora, cara, alza il tuo bel sedere e aiutami a
toglierteli.
Bella obbedì meglio che poté e in un lampo i calzoni non c’erano più.
Ora si sentiva totalmente esposta e chiuse le gambe, impedendogli di vedere
quello che bramava di più.
- Che vuoi fare? - domandò per celare l'imbarazzo, visto che già
conosceva la risposta.
- Ora lo vedrai, mia cara - rispose, con quel sorriso che, Bella sospettava,
aveva fatto perdere la testa a moltissime donne.
Vittorio a quel punto iniziò a spogliarsi, un indumento dopo l’altro, fino
a quando non rimase nudo, davanti a lei, facendosi ammirare.
Bella aveva visto alcune statue greche, durante i pochi viaggi che faceva
con il nonno, ma lui le batteva tutte! Era in carne ed ossa e il suo attributo
era di ben altro livello rispetto a quello delle migliori statue. Però ora un
nuovo timore l’aveva invasa: come faceva ad entrare nel suo corpo? Le
avrebbe di sicuro fatto male!
Vittorio sembrò capire i suoi timori perché le disse: - Non ti preoccupare,
piccola, fidati di me. Sentirai un po’ di dolore, ma poi arriverà tanto piacere,
promesso!
Bella gli credette.
Vittorio si avvicinò e iniziò a baciarla sulle labbra, mentre nel frattempo
le mani scendevano sul seno e poi più giù, sul ventre, fino ad arrivare al
monte di venere.
Interruppe il bacio e le disse: - Apri le gambe.
Bella fece di no con la testa: si sentiva un po’ a disagio al solo pensiero
che lui la toccasse lì, ma intanto il bisogno di essere riempita non era
diminuito, anzi!
Vittorio sorrise, si staccò da lei e si mise ai piedi del letto. Con le mani le
allargò le gambe e fissò il suo sguardo su quella parte del corpo che tanto
bramava.
La vide arrossire ancora di più e, avvicinandosi al suo orecchio, le
sussurrò: - Non ti vergognare di me. Ti sto adorando. Vedrai che ti piacerà.
Lei si rilassò un po’ e lui, rimanendo sempre tra le sue gambe, le baciò la
gola. Aveva un ottimo sapore, di donna!
Con la lingua le tracciò una lunga scia fino al capezzolo, che succhiò
ancora con ardore. Bella ispirò forte e Vittorio sentì il suo bacino che si
alzava, la sua femminilità che spingeva contro il suo ginocchio, già pronta.
Non gli importava che lo fosse già: voleva continuare con quella duplice
tortura. Ormai il suo corpo reclamava il premio, ma lui non gli diede retta e
passò all’altro capezzolo, riservandogli lo stesso trattamento.
- Ti prego – gemette Bella. Voleva di più, voleva che quel bisogno si
attenuasse, voleva lui!
Vittorio si fermò e la guardò.
- Ti prego, cosa? Devo smettere? – le chiese, conoscendo già la risposta.
Bella fece di no con la testa e gli disse di continuare. Allora Vittorio
tracciò una scia di baci fino all’ombelico, dove poi vi infilò la lingua.
Lei continuava a gemere per il piacere.
Vittorio le slegò i polsi, glieli massaggiò, poi le prese una mano e,
portandola al membro, le disse: - Vedi che effetto mi fai? Lui è pronto per
te, come tu sei pronta per lui – e portò la mano in mezzo alle gambe,
accarezzandola.
Bella inarcò la schiena, cercando di avvicinarsi sempre più alla sua
mano, per sentirla di più.
Vittorio usò un dito e lei trattenne il fiato. Era bagnata, calda e stretta e
lui vi infilò un secondo dito. Intanto col pollice iniziò a stuzzicarle il
clitoride, fino a quando Bella dovette mordersi il labbro per non urlare dal
piacere. Nel frattempo la sua mano era rimasta sul pene di lui e, in seguito
ad un’altra ondata di piacere, glielo strinse e Vittorio trattenne il fiato.
- Accarezzalo, su e giù – le ordinò. Bella obbedì, felice di dargli piacere,
come lui lo stava dando a lei. Sotto le mani sentì tutta la sua potenza. Duro
e liscio e, appena vide una goccia uscire dal glande, la accarezzò con un
dito e se lo portò alle labbra, succhiandolo.
Quanta voglia che aveva di prenderla, ma doveva andarci piano.
La mano di Bella tornò sulla sua mascolinità, subito seguita dalla lingua,
che gli leccò un’altra gocciolina.
- Voglio di più - implora Vittorio, volendo maggior piacere.
Bella lo guardò, all’inizio confusa, poi incuriosita e infine eccitata al solo
pensiero di dargli piacere.
Quindi si portò il membro alle labbra, lentamente, facendolo impazzire.
Poi lo accolse e iniziò a succhiarlo come prima aveva fatto Vittorio col suo
capezzolo.
Lui, sapendo che se avesse continuato non avrebbe resistito, la scansò da
sé e la fece stendere di nuovo.
- Perché mi hai fatto smettere? – chiese Bella. – Non ti piaceva?
- Anche troppo, è questo il problema – rispose lui, abbassando la testa tra
le sue gambe.
Bella si stava domandando che intenzioni avesse, quando sentì un dito
entrare dentro di lei, subito seguito da un secondo. La bocca di lui andò sul
clitoride.
Aveva un sapore paradisiaco: ci sarebbe stato le ore ad assaporarla. La
lingua prese il posto delle dita, facendola impazzire di piacere, con il pollice
e l’indice le prese il clitoride, stuzzicandoglielo e strizzandoglielo,
facendola gemere incontrollatamente.
Bella raggiunse l’orgasmo e Vittorio, appurato che era più che pronta, la
penetrò in un solo colpo, sentendo la fragile barriera infrangersi, per poi
fermarsi.
Lei sentì una fitta di dolore, subito scomparsa per lasciare il posto al
piacere di sentirlo dentro di sé.
- Ti ho fatto male? – le chiese, preoccupato, baciandole gli occhi, la
fronte, le guance, la bocca.
- Un po’, ma è passato subito – rispose Bella, imbarazzata. Si chiedeva
se fosse finito tutto così, e questa domanda le si dovette leggere in faccia
perché Vittorio disse: - Ora inizia la parte migliore.
Bella si domandò cosa ci fosse di più bello delle sensazioni provate
prima, ma, appena Vittorio iniziò a muoversi, lo scoprì.
Era stupendo sentire la sua potenza muoversi dentro di sé. Vittorio mise
una mano tra i due corpi per stimolarle il clitoride e Bella raggiunse di
nuovo l’orgasmo, urlando senza controllo.
Vittorio la seguì subito dopo e volarono assieme fino al paradiso, per poi
scendere di nuovo giù, stanchi ma appagati, sudati e col fiatone.
Vittorio si mise al fianco della ragazza per poter riprendere fiato e
l’abbracciò.
Bella sorrise e lui, accorgendosene, le chiese: - Perché sorridi, piccola?
- Perché questo è molto meglio di una cavalcata! – rispose lei.
Scoppiarono a ridere entrambi e, dopo un po’, si addormentarono col
sorriso sulle labbra.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

POTERE FELINO
Marlowe Park, Surrey, Inghilterra 1815

Avevano litigato! Il motivo? Una stupidaggine! Però l’orgoglio impediva


a James di andare in camera di Valerie per fare la pace. Quindi, si trovava
immerso nei suoi pensieri, seduto sulla sua poltrona preferita, nella sua
stanza, davanti al camino acceso con un bicchiere di brandy in mano.
Tutta colpa di quel gattino che lei voleva tenersi in casa se ora non
poteva stare nel letto, al caldo, con accanto la sua adorata moglie.
James era contrario ad avere i gatti in casa: quella dimora era il regno di
Zeus, il suo alano. Zeus aveva dieci anni, si stava invecchiando e l'ultima
cosa di cui avesse avuto bisogno era che un batuffolo micioso girasse
attorno al suo grosso muso nero striato di bianco, innervosendolo. Zeus gli
era stato regalato dal padre poco prima che una malattia alle vie respiratorie
lo portasse via, era un regalo di addio, e per James contava molto quel cane.
Il solo pensiero che potesse perdere anche lui lo faceva impazzire. Sarebbe
stato un duro colpo non vedere più quel musone di forma rettangolare con i
neri occhi tondi che lo guardavano con intelligenza, come se capissero i
suoi stati d'animo e le orecchie a punta, pendenti che, nonostante la
grandezza, gli conferivano un'espressione dolcissima. Ora Zeus riposava
nello studio di James, davanti al camino per tenere al caldo quelle vecchie
ossa. Non c’era posto per i gatti: il luogo dove dovevano stare era sempre
stato la stalla!
James Dundee, marchese di Marlowe, era sposato con Valerie da un anno
e non avevano mai litigato, nemmeno durante il fidanzamento. Lei, figlia di
un conte, era cresciuta nella tenuta di famiglia nel Dorset, per poi essere
portata, nel 1813, a Londra per la Stagione, il periodo in cui tutta la nobiltà
inglese si riuniva nella capitale, immergendosi nello sfarzo dei balli, del
teatro e di altri intrattenimenti. E, durante il ballo organizzato per
presentarla in società, James, arrivato ai ventisette anni celibe nonostante le
pressioni da parte di sua madre per sposarsi, l'aveva vista e aveva deciso che
doveva essere sua. Diciassettenne vestita di bianco, Valerie era scesa dallo
scalone della casa di città del padre con fare regale, a testa alta, consapevole
del proprio valore, grazie anche alla dote che il conte le aveva assegnato e
di cui tutta Londra ne era a conoscenza. I bellissimi capelli castani erano
raccolti in una pettinatura semplice, abbellita da delle roselline dello stesso
colore del sontuoso abito da ballo che portava.
Di carnagione non era molto chiara, non proprio alla moda, avrebbero
detto in molte, con un pizzico di gelosia nella voce. Secondo James aveva i
più begli occhi che avesse mai visto, di uno strano colore, tra il marrone e il
verde, che osservavano, studiavano la folla riunitasi nella casa di città del
conte in preda alla curiosità. Si era molto parlato dell'unica figlia del conte
di Stalbridge, considerata da chi l'aveva conosciuta una vera bellezza. E ora
quella curiosità era stata soddisfatta.
Il primo ballo la giovane Valerie l'aveva danzato con il padre, fiero della
propria figlia, per poi passare da un compagno all'altro. James si era
assicurato di avere per sé il valzer che precedeva la cena e l'ultima danza,
così, quando era arrivato il momento, si era inchinato di fronte a lei e alla
contessa come prevedeva l'etichetta, e l'aveva presa tra le braccia,
muovendosi al ritmo della musica. Ballava in modo elegante, senza
sbagliare un passo. Parlarono molto durante il valzer, per poi continuare a
cena. E James ormai era deciso: voleva sposarla.
Fu così che il giorno dopo era iniziato il corteggiamento, accettato di
buon grado sia da Valerie che dai genitori, essendo lui un bel marchese
molto ricco e giovane.
Valerie, durante il fidanzamento aveva detto di trovarlo molto attraente
con quei corti capelli neri tagliati alla moda e gli azzurri occhi che
sembrava ogni volta volessero divorarla. James dal canto suo era
estremamente soddisfatto per quei complimenti. Sentiva che non erano
pronunciati solo per compiacerlo.
Quindi, dopo un anno di fidanzamento, si erano sposati con una
cerimonia nella cattedrale di St. Paul, seguita da un rinfresco a Marlowe
House, dove la marchesa madre aveva versato fiumi di lacrime per la
felicità.
La loro luna di miele James decise di trascorrerla nella Madrepatria, dal
momento che l'Europa era in guerra contro Napoleone. Portò quindi Valerie
a Marlowe Park, per poi tornare a Londra per la Stagione.
Marlowe Park era una tenuta risalente al periodo Tudor, donata alla
famiglia Dundee, insieme al titolo di marchese, da Enrico VIII. Era
circondata da un giardino all'italiana e da ettari ed ettari di verde, dove
James e Valerie si divertivano a cavalcare e fare picnic. Entrambi amavano
quel posto.
Quindi, terminata la Stagione, vi erano tornati e proprio lì dunque,
avevano avuto il loro primo litigio.
Da una parte voleva correre da sua moglie, accarezzarle i lunghi capelli
castani, dirle che l’amava e che poteva portarsi in casa quel gattino che le
piaceva tanto, purché stesse lontano dal suo Zeus. Ma dall’altra, aveva il
suo orgoglio che lo bloccava, con la sola luce del camino acceso, su quella
poltrona. Era lui in fondo il padrone di casa e la sua parola era legge, anche
se si trattava di un semplice gattino.
Stava ancora combattendo col suo orgoglio, quando sentì aprirsi la porta
tra il salone e la stanza di Valerie. Quindi era lei che aveva ceduto …
La vide guardarsi attorno, finché non lo individuò. Valerie aspettò che
fosse lui il primo a parlare, in fondo aveva fatto il primo passo. E non la
deluse.
- Cosa ci fai qui? – le chiese.
Lei si morse il labbro, nervosa. Quel gesto fece leggermente indurire la
sua virtù. Accavallò le gambe, continuando a guardarla, in attesa di una
risposta. Non dovette attendere molto.
- Volevo fare la pace – disse infatti. – Non mi piace litigare con te.
James si portò il bicchiere di brandy alle labbra, nascondendo un sorriso.
Lo sapeva che prima o poi sarebbe tornata sui suoi passi, rinunciando al
gatto in casa. Ma per sicurezza le domandò: - Hai rinunciato alla folle idea
di avere un gatto in casa, allora?
Vederla irrigidire gli fece spegnere il sorriso. Infatti rispose puntuale: -
No, non ho cambiato idea. Continuo a pensare che anche io ho il diritto di
avere il mio animale domestico in casa.
- E allora cosa ci fai qui? – ribatté.
Valerie ci pensò un attimo su, mordendosi di nuovo il labbro inferiore.
James dovette cambiare nuovamente posizione per via dell'eccitazione.
- Diciamo che sono venuta qui per una tregua. E magari per farti
cambiare idea.
-Uhm...e come? – domandò lui, sentendo il pene indurirsi sempre più al
solo pensiero del reciproco piacere che si sarebbero scambiati. Valerie si
avvicinò alla sua poltrona. Il fuoco nel camino rendeva la sua camicia da
notte trasparente.
Iniziò ad accarezzargli le spalle sotto la vestaglia. Poi le mani andarono a
toccare i folti capelli neri. Scese ad accarezzargli le guance, per poi passare
al petto, scendendo giù per il torace, fino ad arrivare alla patta dei pantaloni.
E fu lì che lui la fermò.
- No – le disse.
- Perché? – chiese, confusa.
- Voglio che ti spogli – le ordinò. Aveva un’idea che gli frullava per la
testa. Sua moglie era molto pudica a letto, sotto certi aspetti. Ovvio, gli
dava gioia anche con la bocca ma, in un certo senso, si tratteneva e non
faceva uscire tutta la passione che c’era in lei.
- Perché vuoi che mi spogli? – gli chiese.
- Perché voglio darti piacere, tesoro mio – le rispose. – Ma in modo
diverso dal solito.
Valerie lo guardò confusa. La litigata di quel giorno forse gli aveva dato
alla testa, pensava intanto.
- Su cara, non te ne pentirai.
Lei si tolse la camicia da notte dalla testa e rimase lì, aspettando che le
dicesse cosa fare.
- Bene – disse James, contemplandola. – Stupenda come sempre.
La vide arrossire. Era uno splendore e il suo pene ormai reclamava quel
corpo. Cambiò di nuovo posizione, cercando di non farle capire quanto
fosse a disagio.
- Vai sul letto, appoggiando la schiena alla testata – le ordinò. Valerie
obbedì, sempre più confusa da quel comportamento strano. Era sempre stato
James a spogliarla, a farla stendere delicatamente sul letto...
- Bene, tesoro – le disse, osservandola famelico. – Ora allarga le gambe.
Lei lo fece, allargandole un po’.
- No, di più – ordinò lui. – Divaricale completamente, come se dovessero
abbracciare il mio corpo che entra in te.
Valerie lo guardò con gli occhi sbarrati, arrossendo ancora di più, ma
obbedì e divaricò le gambe come chiedeva, aspettando che James si alzasse
e la raggiungesse. Invece aspettò invano perché le disse: - Ora, toccati!
- Cosa? – chiese lei.
- Toccati – ripeté lui. – Datti piacere con le tue mani.
- E come? -. Non sapeva veramente cosa fare. Era sempre stato James a
darle piacere.
- Inizia da quel tuo bel seno pieno – la istruì lui. – Toccati i capezzoli,
stuzzicali come te li stuzzico sempre io. Ti piace quando lo faccio, no?
Vedendo che Valerie annuiva, disse: - Allora fallo.
Lei si portò le mani al seno. Era molto sensibile ultimamente. Si toccò
con i pollici i capezzoli, sussultando.
- Bene, mia cara – disse James, con voce roca. Continuava ad eccitarsi
sempre più. – Ora fai scendere le mani più giù. Toccati il ventre,
immaginando che siano le mie mani che ti stiano toccando.
Lei eseguì, ormai ipnotizzata dai suoi occhi che la guardavano, la
divoravano, famelici. Suo marito, quel bastardo, se la stava godendo!
- Ora porta le mani sulla tua vagina – le disse. Valerie sussultò sentendo
l’ultima parola. Da quando suo marito era diventato così spinto? Glielo
stava per domandare, quando James riprese: - Infilati un dito dentro, come
faccio io quando voglio prepararti per prenderti. Ti piace quando lo faccio,
no?
Valerie era sbigottita, ma si stava anche eccitando. Quell’aspetto di suo
marito le piaceva.
Con la mano scese, la portò tra le gambe e, guardandolo dritto negli
occhi, infilò un dito nella vagina, pian piano.
- Bene, stai andando benissimo – disse James, con la voce un po’
affannata. Quello spettacolo lo faceva davvero impazzire di desiderio, ma
voleva abbattere tutte le barriere della moglie, facendo uscire
completamente la sua passione. Ne valeva la pena soffrire un po’, se poi il
risultato sarebbe stato soddisfacente.
- Con l’altra mano toccati il clitoride.
Valerie lo fece, chiudendo gli occhi per assaporare di più le sensazioni
che stava provando. Non aveva mai pensato di potersi procurare il piacere
da sola. E il fatto che il marito la stesse guardando, contribuiva molto a ciò.
- Così, amore mio – disse lui. – Mi stai facendo impazzire, ma non
fermarti. Datti ancora più piacere. Aggiungi un altro dito visto che è già
bagnata.
Lei lo fece, ormai non più padrona del suo corpo.
- Bene , amore. Fai entrare e uscire le dita, come se fossero il mio pene
che ti sta prendendo, che ti sta portando all’estasi. Sì, così amore...
James si alzò, si tolse i pantaloni, si rimise seduto e cominciò a toccarsi.
- Apri gli occhi, amore, e guarda che effetto mi fai. Il mio membro sta
per scoppiare – le sussurrò concitato. - Vorrebbe entrare in te, ma questo è il
tuo momento. Fai uscire tutta la tua passione.
Valerie aprì gli occhi e lo vide, seduto sulla poltrona, eccitato, pronto a
penetrarla, come stavano facendo in quel momento le sue dita. Continuò a
farle entrare ed uscire, toccandosi il clitoride con l’altra mano, tra l’indice e
il pollice. Lo stringeva e poi lo accarezzava.
James intanto continuava a toccarsi, su e giù, dandosi sempre più piacere
davanti a quello spettacolo pieno di erotismo, di sensualità, di passione.
- Sento i capezzoli che chiedono di essere toccati – disse lei, in preda al
piacere.
- Toccali, allora. Accontentali.
Valerie smise di toccarsi il clitoride e portò la mano oramai umida ai seni
pieni, bisognosi di essere accarezzati, stretti, amati.
Si passò la mano sotto il seno, alzandolo e col pollice iniziò a toccarsi il
capezzolo.
- Stringilo tra il pollice e l’indice – le disse James che con movimenti
sempre più veloci si dava piacere.
Lei intanto continuava a guardarlo, ipnotizzata da quel modo di fare
l’amore diverso.
Continuava a far entrare ed uscire le dita dalla sua vagina, mentre con
l’altra mano si toccava prima un seno e poi l’altro.
Stava per raggiungere l’orgasmo, voleva dirglielo ma, James l’anticipò: -
Sì, amore, raggiungi le vette del piacere. Anche io ci sono vicino. Vedi
come il mio pene si è ingrossato? Ora sta per esplodere, grazie soprattutto
alla vista della tua fonte del piacere bagnata, alle tue mani che ti toccano,
che entrano ed escono dal tuo corpo da dea.
Valerie, sentite quelle parole, emise un urlo, arrivando, e James la seguì,
facendo uscire il suo seme, quel seme che, prima o poi, avrebbe dato un
erede ad entrambi, rendendoli ancora più felici.
Mentre Valerie cercava di riprendersi da quell’orgasmo, James andò
nella stanza da bagno, si ripulì e tornò da lei. Le si stese accanto, cominciò
ad accarezzarla e le chiese: -Tutto bene, amore?
Lei annuì e si accoccolò tra le sue braccia dicendogli: - Grazie.
- E di cosa? – chiese lui.
- Di avermi fatto scoprire un nuovo mondo.
- Volevo soltanto che tutta la tua passione uscisse fuori – le disse,
baciandola. – Sono sicuro che la prossima volta che faremo l’amore non ti
tratterrai.
Valerie sorrise e gli domandò: - Vogliamo provare subito?
James rise e disse: - Ho creato un mostro! Piccola strega, dammi il
tempo di riprendermi!
Poi ripensò al motivo per cui lei era venuta là.
- Per quanto riguarda il gattino – cominciò. – Puoi portarlo in casa, basta
che stia lontano da Zeus!
- Grazie, amore!
Lo baciò e poi, facendo l’impertinente, aggiunse: - Intanto lo avrei
portato dentro anche senza il tuo permesso.
Come a voler confermare quelle parole, una testolina arancione pelosa si
affacciò dalla porta rimasta socchiusa e il micio, dopo pochi passi incerti e
timorosi, si mise a correre per saltare sul letto.
- Vedo – commentò James, più divertito che arrabbiato. – Quando avevi
intenzione di dirmelo?
- Tra poco – rispose lei, sorridendo. – Insieme ad un’altra notizia.
- E quale, di grazia?
Che altro gli aveva portato in casa sua moglie?
- Tra meno di nove mesi avremo un altro cucciolo, con noi – rispose
Valerie, sorridendo.
James all’inizio non capì, poi il suo sguardo andò al ventre della moglie.
Lei annuì e lui allora l’abbracciò.
- Mi hai reso l’uomo più felice del mondo, amore, grazie!
- Grazie a te. Da sola non potevo fare niente.
Gli diede un bacio sulla bocca, si accoccolò meglio tra le sue braccia e si
addormentò felice, col gattino ai piedi del letto che faceva le fusa.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

LA SCOPERTA DELLA PASSIONE


Inghilterra, Contea del Devonshire, agosto 1854

Lucas era stupito. Aveva avuto tantissime donne, ma nessuna gli aveva
mai fatto quell’effetto. Nessuna l’aveva mai fatto sentire completo come
Melody. Avevano finito di fare l’amore da un’oretta, poi entrambi si erano
addormentati soddisfatti.
Ora lui era sveglio e i suoi occhi azzurri si posarono sulla compagna.
Melody aveva un corpo stupendo, magro ma con le curve nei posti giusti.
Conosceva Melody da quando era una bambina pestifera che seguiva il
fratello e lui ovunque, con le trecce al vento mentre correva per
raggiungerli.
Tornato in Inghilterra da uno dei suoi viaggi diplomatici fatto per conto
del governo di Sua Maestà la regina Vittoria, Lucas era stato invitato a un
ricevimento in campagna, nella tenuta del suo migliore amico, il fratello di
Melody.
Erano passati cinque anni dall'ultima volta che aveva visto la ragazza.
L'aveva lasciata con le trecce per ritrovarla oramai donna, pronta per
debuttare e trovare marito. Infatti, quel ricevimento in campagna serviva
proprio per prepararla ad affrontare la buona società, una giungla spietata.
Nella settimana appena passata, Melody aveva civettato spudoratamente
con lui, ignorando gli improperi del fratello maggiore e della madre che, la
invitavano ad essere meno impudica e a tenere un contegno più appropriato.
Ma Melody era sempre stata una ribelle pronta ad ottenere quello che
voleva.
Lucas aveva cercato di trattarla come la bambina che era stata, ma con
quel décolleté ben sviluppato, era stato difficile.
Aveva provato veramente a rimanere indifferente nei confronti della
sorella del suo migliore amico, ma non ce l'aveva fatta. E quella notte ne era
stata testimone.
Lucas aveva voglia di passarle le dita tra quei lunghi capelli castani.
Aveva voglia di baciarle le labbra, il viso, per poi scendere alla gola,
svegliarla e ricominciare ad amarla.
Si passò le mani tra i corti capelli neri e alla fine si decise: si sporse su di
lei. Melody era girata su un fianco dandogli le spalle. Iniziò proprio da
quelle, baciandole le scapole, per poi risalire sulla nuca e, scansandole i
capelli, gliela baciò. La sentì rabbrividire, ma non si svegliò. Allora Lucas
iniziò a baciarle la spalla e a mordergliela e, sentendola gemere, con una
scia di baci, arrivò alla guancia sino al punto dove, quando sorrideva, le
compariva la fossetta che tanto gli piaceva.
Melody si girò verso di lui e aprì i suoi stupendi occhioni castani, dove
lui leggeva tutte le sue emozioni, e in quel momento esprimevano sorpresa.
A Melody le pareva di sognare. I baci di Lucas la destarono e all’inizio
non si ricordò cosa fosse successo. Poi tutto le tornò alla mente: aveva fatto
l’amore con lui, finalmente! E non era stato un sogno: il leggero fastidio in
mezzo alle gambe glielo confermava!
- Salve, bella addormentata - la salutò Lucas.
Quegli occhi azzurri la scrutavano e Melody aveva l’impressione che le
leggesse dentro.
- Salve – rispose, stiracchiandosi. – Che ore sono?
Lucas sentì una parte del suo corpo risvegliarsi mentre vedeva quei seni
invitanti alzarsi.
Vedendo che non le rispondeva, Melody portò lo sguardo su di lui e vide
che guardava il suo petto.
Si coprì immediatamente. Anche se avevano fatto l’amore, si sentiva
ancora timida sotto il suo sguardo.
- Perché ti copri? – le chiese, cercando di toglierle il lenzuolo.
- Meglio che me ne torni nella mia stanza, prima che i domestici si
sveglino - disse Melody e si alzò.
Lucas fu veloce nell’alzarsi e mettersi di fronte a lei. Melody era
rallentata dal lenzuolo che non voleva lasciare mentre lui non si vergognava
di starle davanti nudo ed eccitato.
Melody lo guardò con ammirazione e non sembrava intenzionata a
distogliere lo sguardo.
- Ti piace quello che vedi? – le chiese Lucas, con un sorriso malizioso.
Lei deglutì ma non distolse lo sguardo.
- Melody, è ancora notte fonda – continuò Lucas, intenzionato a farla
restare un altro po’. – Ci vorranno ancora un paio di ore prima che i
domestici si sveglino.
Si avvicinò un po’ di più e le tolse il lenzuolo dalle mani. Lei lo lasciò
fare, troppo intenta ad ammirarlo. Lucas era un bell’uomo: era grosso, ma
quello che aveva non era grasso, bensì muscoli. Era più alto di lei,
nonostante Melody fosse alta per essere una donna.
Lucas aveva il potere di farla sentire protetta e amata. Era sempre stato
così, fin da bambina. Ma non doveva illudersi. Melody non aveva
intenzione di sposarsi, ma voleva comunque conoscere la passione ed era
per questo motivo che gli aveva chiesto di darle lezioni di sesso, se così si
potevano chiamare, poche notti prima in biblioteca, quando si erano
incontrati per caso, entrambi con difficoltà a prendere sonno.
Lui all’inizio era stato molto titubante ma, dopo aver cercato di sedurlo
comparendo in camera sua in camicia da notte, era riuscita a convincerlo.
Lucas non sembrava pentito, né tantomeno lei.
Era stata una notte davvero speciale dove la fanciulla aveva imparato
molte cose, tra cui la passione.
- Non vorrei che mi vedessero – disse con poca convinzione.
Lucas le aveva tolto il lenzuolo e l’ammirò, eccitato.
- Non ti preoccupare – rispose con voce roca. – Tornerai in camera tua in
tempo.
Iniziò ad accarezzarle il capezzolo con l’indice e, vedendolo indurirsi, le
chiese: - Sei pronta per un’altra lezione? Oppure sei dolorante qui? – e le
portò l’altra mano tra le gambe, toccando il clitoride col pollice.
Melody trattenne il fiato, provando un piacere pari a quello di prima.
Sentì le ginocchia cedere e si appoggiò a Lucas. Lui la fece stendere sul
bordo del letto con le gambe che sporgevano fuori. Gliele prese e gliele
piegò, facendole poggiare i piedi sul bordo. Mise la testa tra le sue gambe e
la baciò nell’intimo, poi i baci lasciarono il posto alla lingua che salì tra le
profondità nascoste, mentre il pollice continuava il suo lavoro con il
clitoride.
Melody, all’intrusione della lingua, inarcò il bacino, portando la sua
femminilità più vicina alla bocca di Lucas. Lui la muoveva dentro e fuori,
come prima aveva fatto col suo membro e le leccava le labbra quando
usciva, per poi tornare dentro e muoverla senza fermarsi.
Melody non riusciva più a resistere: sentiva la tensione salire e con un
urlo raggiunse l’orgasmo.
Lucas allora si scansò e la guardò respirare a fatica. Anche lui aveva il
fiatone per quanto era eccitato.
- Questo è solo un altro dei tanti modi che esistono per provare piacere –
disse. – Vuoi scoprire gli altri?
Lei si alzò appoggiandosi sui gomiti e lo guardò.
- In quali altri modi si può provare piacere? – chiese, con la voce piena
di desiderio.
Lucas, a quella domanda, sentì il pene indurirsi di più. La fece mettere
seduta e le disse: - Io ho provato piacere dandolo a te. Vuoi provare anche
tu?
- Che devo fare? – gli chiese, entusiasta di conoscere tutte le facce della
passione.
- Ricambiando lo stesso piacere che ti ho dato – rispose. Se Melody si
sentì offesa per la richiesta del rapporto orale, non lo diede affatto a vedere.
Anzi, allungò il braccio verso il suo membro, lo afferrò e piano lo portò alle
labbra. Lucas trattenne il fiato e, quando lei chiuse la bocca racchiudendolo
nel suo calore umido, lo tirò fuori, stringendo i denti per non arrivare subito.
Voleva godere di quel momento il più a lungo possibile.
Melody non aveva mai pensato che il sesso comprendesse quello che
stava facendo, oppure quello che le aveva fatto lui prima. Pensava che si
limitasse all’uomo che penetrava la donna, come accadeva con gli animali.
E invece ora scopriva un nuovo mondo, il mondo della passione, del
desiderio, del piacere. Il membro di Lucas era liscio al tatto, ma anche duro
e aveva un sapore piacevole. Lo succhiò per assaggiarlo meglio ma,
sentendo che lui gemeva, si fermò e gli chiese: - Tutto bene?
Lui la guardò e annuì, quindi lei fece per continuare, ma lui la fermò.
- No, basta – disse.
- Perché? – chiese Melody, credendo di aver fatto qualcosa di sbagliato.
- Perché altrimenti non ti resisto e le tue lezioni finirebbero subito – le
rispose sorridendole e baciandola.
Lucas si allontanò e sparì nella stanza accanto, per poi tornare con una
boccetta in mano.
- Girati – le disse.
- Cos’è? – gli chiese, guardinga.
- Un olio – le rispose. – Serve a fare i massaggi … ed altro.
Era quel “altro” che non la convinceva, ma si stese sulla pancia,
appoggiando la testa sulle braccia congiunte. Lucas si mise sopra di lei a
cavalcioni e le versò alcune gocce sulla schiena.
- È freddo – si lamentò Melody. – Ma ha un buon odore.
Lucas non disse nulla e iniziò a massaggiarla: prima le spalle, poi le
scapole, che prima aveva baciato molto volentieri. Poi scese più giù, fino
all’osso sacro. Lo massaggiò con mani dolci ed esperte, facendola rilassare
sempre più. Però, quando lui le allargò il sedere con le mani e le mise
qualche goccia in mezzo, Melody si irrigidì, cercando di girarsi, ma Lucas
glielo impedì.
- Rilassati – le disse.
- Ma cosa vuoi fare?
- Farti conoscere un nuovo lato della passione – le rispose.
- Che nuovo lato?
Lui sospirò, rassegnato, capendo che, fino a quando non le avesse
spiegato cosa voleva farle, Melody non si sarebbe mai rilassata come lui
voleva. Quindi si spostò, mettendosi su un lato del letto, e Melody si girò.
- Hai mai sentito parlare di Sodoma e Gomorra ? – le chiese.
Melody fece no con la testa e Lucas gemette. Le cose teoriche non gli
erano mai piaciute: preferiva la pratica!
La fece mettere di fianco e le disse: - Erano città situate sulla riva destra
del fiume Giordano, vicino al Mar Morto che nella Genesi furono
paragonate al giardino dell’Eden. Gli abitanti erano gente dai facili costumi
e avevano piacere anche praticando sesso che oggi i benpensanti
definiscono "contro natura". In poche parole quando il mio membro invece
di entrare di qua – e le toccò la sua femminilità, - entra da quest'altro lato –
e spostò la mano, portandola in mezzo al sedere.
- E farà male? – chiese Melody.
Era un po’ impaurita e Lucas decise di dirle la verità.
- Forse un pochino, all’inizio, soprattutto se non si prepara bene
l’entrata. Ecco perché l’olio.
Lei rimase un po’ in silenzio, poi chiese: - Se ti chiederò di fermarti, lo
farai?
Lucas la guardò ad occhi spalancati dicendole: - Certo che sì! Non farei
mai una cosa che non ti da piacere.
Melody annuì e si rimise di nuovo a pancia in sotto. Non a tutte le donne
piaceva il sesso anale, Lucas lo sapeva benissimo. Molte sue amanti si
erano rifiutate per paura del dolore mentre, questa ragazza gli stava
concedendo tutta la sua fiducia.
Lucas tornò a cavalcioni su di lei e riprese a massaggiarle le spalle, per
farla rilassare e nel frattempo le sussurrava all’orecchio parole dolci.
Arrivato di nuovo al sedere, la sentì di nuovo irrigidirsi un poco e quindi
le sussurrò: - Shh, vedrai che ti piacerà, fidati di me, piccola.
Melody si rilassò di nuovo e allora lui le alzò il bacino, chiedendole di
piegare le ginocchia e si mise lui stesso in ginocchio. Lei lo fece e Lucas
iniziò a baciarle il sedere, prima una natica, poi l’altra. Si mise un po’ di
olio sulle mani e glielo passò sul buco posteriore, infilando poi un dito. La
sentì irrigidirsi di nuovo, ma non gli chiese di smettere.
Le aveva infilato il dito, pensava intanto Melody. Era fastidioso, ma era
un fastidio lieve. Lucas quella notte le aveva dato tanto, e sopportare un po’
per fargli piacere era accettabile. Sentì Lucas togliere il dito e far colare un
altro po’ di olio. Chissà quando, al posto del dito, infilerà il suo membro
che, ovviamente, era molto più grande!
Melody mosse il sedere: si sentiva un po’ a disagio in quella posizione.
Lucas si sporse a baciarla sul collo e a morderle il lobo dell’orecchio,
facendola rabbrividire dal piacere.
- Sei pronta? – le chiese. No, non lo era, ma disse di sì lo stesso. Lucas si
alzò, prese un po’ di olio e se lo passò sul pene turgido. Poi le portò una
mano davanti e le infilò l’indice nella vagina, facendola bagnare e intanto
col pollice le stuzzicò il clitoride.
Con l’altra mano, invece, portò il pene ben oliato all’entrata dell’ano e lo
fece entrare adagio, facendo dentro e fuori e per un po’.
Finora Melody lo trovava piacevole, anche grazie alle dita che stavano
giocando con la sua vagina e il clitoride.
Poi all’improvviso lo sentì entrare tutto e Melody si irrigidì dal dolore,
ma non gli chiese di smettere.
Lucas, capendo dal suo irrigidimento che provava dolore, si fermò,
aspettando la sua richiesta di smettere, ma quando vide che non arrivava,
iniziò a muoversi, facendo seguire al dito nella vagina lo stesso ritmo del
pene.
Melody non sentiva più tanto dolore, sostituito dal piacere provocato dal
dito che faceva dentro e fuori. Sentiva la tensione crescere, come prima
quando Lucas giocò con la lingua. Sentiva anche Lucas godere e questo
aumentò il suo piacere.
Lucas stava godendo tantissimo. Sentiva un’affinità speciale con quella
ragazza coraggiosa. Aveva tutte le intenzioni di farla godere, quindi
aumentò il ritmo delle dita sulla sua vagina, facendola urlare di gioia.
Melody raggiunse l’orgasmo e se non fosse stato per il braccio di Lucas
che la stringeva, sarebbe cascata sul letto.
Lucas aumentò anche il ritmo del pene e dopo un po’ raggiunse anche lui
il piacere, inondandola del suo seme.
Poi la fece stendere bene sul letto, mettendosi accanto a lei. Si
addormentarono entrambi immediatamente e quando Melody si svegliò, il
mattino dopo, soddisfatta e riposata, si ritrovò nel suo letto.
Si guardò attorno, confusa, pensando di aver sognato ma, accanto al
cuscino, vide una rosa rossa e allora capì che era stato tutto reale: aveva
scoperto cosa fosse la passione e, cosa che la preoccupava, le piaceva
molto. Ma, la cosa che più temeva, era la convinzione che con un altro
uomo, non le sarebbe piaciuto affatto.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

AMORE GELOSO
India, settembre 1823, città di Calcutta, provincia di Malabar

Era arrabbiato.
Anzi, dire arrabbiato era un eufemismo. Era furioso!
Marc spinse Louise nella carrozza, per poi salire dietro di lei. Non gli
importava se le aveva fatto male. Come si permetteva, Louise, di fare la
gatta morta con quel porco di un libertino di Lord Henry? Davanti a tutti,
poi!
Louise era la sua amante, l’unica donna che lo faceva sentire in pace con
sé stesso e con il mondo intero. L’unica donna che lo facesse sentire
completo. Ma, purtroppo, anche l’unica donna che non poteva sposare!
L'aveva incontrata in India, nel 1822, un anno prima. Lui era appena
arrivato, inviato in quel posto pieno di selvaggi dal padre, un visconte molto
influente a Londra.
Marc, a sentire il nobiluomo, stava infangando il nome di famiglia con le
sue bravate. Quindi, senza alcun preavviso, lo aveva imbarcato sulla prima
nave diretta nelle Indie e affidato allo zio, generale del British Army, inviato
a calmare i bollenti spiriti degli abitanti di quella colonia.
Aveva incontrato Louise in un afoso pomeriggio, mentre passeggiava
con la sua cameriera. La ragazza aveva ricevuto in eredità dal nonno
paterno, di stanza anche lui in India con lo zio di Marc, un'abitazione nella
città di Kerala. Louise, in disaccordo con la nuova moglie del padre, aveva
chiesto di raggiungere il nonno in quella terra lontana, quattro anni prima
che l'anziano uomo morisse, nel 1821, a causa della febbre.
Tra i due era scattata subito la scintilla e avevano iniziato una relazione,
di cui tutta la città ne era venuta a conoscenza. Anche suo zio, e quindi, di
conseguenza, anche il visconte. Ma da Londra non poteva fare nulla se non
richiamarlo a casa, cosa che non aveva la minima intenzione di fare.
Marc si passò la mano tra i folti capelli biondi, resistendo alla tentazione
di prenderla in braccio e marchiarla come sua. Avrebbe aspettato di arrivare
a casa, dove l’avrebbe trascinata in camera e le avrebbe fatto capire a chi
apparteneva. A lui!
Louise si sistemò una ciocca ramata sfuggita dall’acconciatura mentre
Marc la trascinava fuori dalla sontuosa dimora dove si svolgeva il
ricevimento, per poi spingerla in carrozza. Ma come si permetteva?
Lo vedeva che era furioso, ma anche la sua calma era rimasta al ballo.
- Ma che ti è preso? - gli domandò, puntando gli occhi verdi su di lui.
Marc, che non la guardava, spostò lo sguardo su di lei. I suoi occhi grigi
sprizzavano rabbia, ma non solo. Il sentimento che vi leggeva era anche un
altro: possessività!
Beh, aveva capito male quel Lord Antipatico che era il suo amante! Lei
non apparteneva a nessuno!
Lui non rispose, continuando a guardarla, allora Louise emise uno sbuffo
che, di signorile non aveva proprio nulla.
- Non mi hai dato nemmeno il tempo di salutare la nostra ospite! - gli
rinfacciò.
Marc non credeva alle proprie orecchie. Possibile che quella benedetta
ragazza non avesse capito il motivo della sua rabbia? Fece per aprire bocca,
ma in quel momento la carrozza si arrestò davanti alla dimora di Louise.
Non aspettò che il valletto aprisse la portiera, ma lo fece lui stesso. Poi
saltò giù e prese Louise in braccio, portandola dentro casa.
- Marc! - esclamò lei. - Cosa penserebbero i vicini se ti vedessero
portarmi in casa, di corsa, in braccio?
Marc fece un sorriso ironico e rispose: - Che ti so per scopare, mia cara
Lou!
Louise arrossì. Nonostante avessero una relazione da un anno, non si era
ancora abituata al suo linguaggio.
Poi vedeva che Marc era in collera e, non voleva essere presa mentre lui
fosse stato di quell’umore. Gli uomini possono diventare pericolosi quando
sono in collera.
- Non mi sembra sia il caso che stasera facciamo quel che vuoi, Marc... -
disse lei esitante mentre, il maggiordomo apriva la porta. - Non mi sembri
dell’umore adatto, anche se non capisco il perché tu ti sia infuriato.
Marc non rispose e iniziò a salire le scale che portavano alle stanze da
letto sotto lo sguardo impassibile del maggiordomo. Louise era sicura che
entro il giorno seguente, tutta la servitù avrebbe parlato di un furioso Lord
Marc che portava la sua amante di sopra.
Arrivati davanti alla porta della stanza padronale, Marc la aprì senza
posare Louise a terra, e la ragazza si domandò come avesse fatto. Poi la
richiuse con un calcio, si avvicinò al letto e ve la scaraventò sopra a peso
morto.
- Ahi! - esclamò lei. Il materasso era morbido, ma l’impatto fu comunque
una sorpresa.
- Vuoi sapere cosa mi è preso? - chiese Marc, andando a chiudere la
porta a chiave che poi si mise in tasca.
Si voltò verso di lei e, quello che vide lo fece eccitare. Louise stava
distesa sul letto appoggiata ai gomiti, con le gonne intrecciate alle gambe
che scoprivano le caviglie e i rossi capelli ribelli che avevano disertato
l’acconciatura. Con due falcate fu davanti a lei, la fece alzare e le strinse le
braccia per non darle nessuna possibilità di fuggire.
- Hai fatto la gatta morta con Lord Henry per tutta la sera! - disse Marc,
furioso. - E non negarlo!
Louise lo guardò esterrefatta. Lei che faceva la gatta morta con
qualcuno? Ma se fino a pochi mesi fa non sapeva nemmeno cosa fosse il
sesso!
- Beh, ti stai sbagliando, milord! - disse. - Prima di conoscere te, non
sapevo nemmeno come dare piacere ad un uomo!
Marc sapeva che, quando la loro relazione era iniziata, lei era innocente,
ma nell’arco di questi mesi tutta la sua passionalità era venuta fuori,
ammaliando molti uomini.
- Lord Henry è un libertino! - le disse. - E tu devi stare attenta, perché
quelli come lui non ci pensano su due volte a spingerti in una stanza buia e
scoparti!
- Beh, - contrattaccò lei. - Siete della stessa pasta, allora! Altrimenti mi
avresti sposato, a quest’ora!
Quel colpo andò a fondo, dato che Marc lasciò subito la presa sulle sue
braccia, facendola cascare all’indietro, sul letto.
Ripresosi, Marc si inchinò su di lei, come un avvoltoio sulla sua preda.
Fronte contro fronte le disse: - Anche se non siamo sposati, ricordati che tu
sei mia! - e la baciò, non con dolcezza, ma con rabbia che, pian piano,
sfociò nella passione pura.
Louise cercò di resistergli, ma dopo un po’ cedette. Marc interruppe il
bacio e si staccò da lei che, tremando, si alzò per raggiungere la toletta e
togliersi i gioielli, cercando di riprendere il controllo delle sue emozioni.
Anche Marc stava combattendo una battaglia simile con sé stesso. Gli ci
volle poco per riprendere fiato, quindi si girò verso di lei e la vide alle prese
col gancio della collana che non riusciva ad aprire. Si avvicinò per aiutarla e
notò che le tremavano le mani. Gliele scansò e le tolse la collana, per poi
passargliela. Allora lui le sussurrò all’orecchio: - Non voglio più vederti
flirtare con uomini come Lord Henry, Lou. Non sopporto che un altro uomo
ti possa accarezzare i seni come faccio io. Che possa giocare con i tuoi
capezzoli o con la fonte della tua giovinezza, gustandola, per poi portarti al
raggiungimento del piacere.
Louise trattenne il fiato a quelle parole. Adorava quando Marc metteva
in pratica tutto ciò, ma era ancora arrabbiata per il modo in cui l’aveva
trattata, quindi parlò senza riflettere.
- Che ti interessa se qualcun altro lo fa? Per te sono solo un corpo su cui
soddisfare le tue voglie! Che ti importa se anche altri lo usassero?
Capì immediatamente che doveva riflettere prima di dire quelle cose,
perché Marc le strinse di nuovo le braccia in una morsa ferrea.
Marc, sentendo quelle parole vide rosso. Non ci pensò due volte e, con la
forza la fece piegare sul tavolino della toletta con la testa che sfiorava lo
specchio.
- Non ti azzardare mai più - esclamò, scandendo bene le parole nel suo
orecchio. - A dire cose del genere - e le infilò una mano sotto le gonne. Non
portava i mutandoni e le dita di Marc trovarono la strada libera. - Solo le
mie dita possono entrare dentro di te - disse, e infilò un dito lì, facendola
gemere.
- Solo io posso farti godere - e ne infilò subito un altro.
- Solo io posso farti urlare di piacere - e col pollice le toccò il clitoride
facendola gemere.
Marc si rialzò, togliendo anche la mano da sotto le sue gonne. La fece
rialzare, la girò e le disse: - Solo io posso denudarti - e le strappò il corpetto
dell’abito, facendola sussultare.
Louise era indignata: quello era il suo vestito preferito! Ma non riusciva
a dire una parola, ammaliata dal suo sguardo pieno di passione e lussuria.
Le abbassò il vestito, strappandolo ancora quando non voleva scendere.
Poi le tolse il busto, tirando violentemente i lacci dalle asole e buttandolo
lontano, facendola rimanere in camiciola, calze e scarpe. La camiciola fece
la stessa fine del vestito, raggiungendo il busto a terra, lontano.
Poi Marc la prese in braccio e la portò sul letto, dove le tolse le scarpe e
le calze. Le aprì le gambe, abbassò il viso verso il suo basso ventre, la gustò
un attimo con la lingua e poi le disse: - Solo io posso fare questo facendoti
impazzire, tanto da chiedermi di più - e la leccò, prima sul clitoride, poi
sulle labbra, che allargò e infilò la lingua all'interno, facendola sussultare.
Louise strinse i pugni sulle lenzuola per trattenersi dall’accarezzargli i
biondi capelli. Marc si fermò e, soffiando sul suo fuoco, le disse: - Solo io
posso fare tutto questo, e altro ancora. Nessun altro. Perché tu sei mia, e mia
soltanto!
Vedendo che Louise non rispondeva, le pizzicò il clitoride tra pollice e
indice e le chiese: - Capito?!?
Louise annuì, non riuscendo a parlare, ma Marc non si accontentò di
quel cenno della testa e quindi le chiese di nuovo, stringendo di più il
clitoride, facendola urlare: - Hai capito, sì o no?
Louise cercò di trovare le parole e rispose: - Sì, ho capito.
Marc, ancora non compiaciuto, le domandò ancora: - Di chi sei, tu? -
allontanandosi da lei, aspettando la sua risposta.
- Ti prego, torna qui, vieni e prendimi - disse lei, in preda al desiderio.
Voleva il piacere, non le interessava altro, in quel momento.
Marc iniziò a spogliarsi pian piano, guardandola, aspettando una sua
risposta. Rimasto nudo, vedendo che lei ancora non le rispondeva, si
avvicinò di nuovo al letto e, passandole il pollice prima su un capezzolo,
poi sull’altro, le ripeté la domanda: - Di chi sei, tu, Lou? - e le strizzò il
capezzolo tra pollice e indice, come prima aveva fatto col clitoride. -
Rispondimi, maledizione!
Louise, capendo che il sentirsi dire che era sua era un bisogno per Marc,
come il bere e il mangiare, rispose: - Sono tua, Marc, solo tua.
- Sì, sei mia, Lou, non te lo dimenticare.
Le labbra di Marc andarono ai suoi seni, succhiandoli, affamato di lei,
mentre con la mano scendeva di nuovo tra le gambe, penetrandola con due
dita.
Louise si contorceva dal piacere, ma voleva ricambiare quelle attenzioni,
quindi portò una mano alla ricerca del suo membro, per poterlo accarezzare.
Marc, accorgendosi di ciò, smise di succhiare e chiese: - Cosa cerchi,
mia bella Lou? Stai cercando forse il mio maschietto? Cosa vorresti farci?
Toccarlo? Accarezzarlo? assaporarlo?
Louise infine lo trovò. Lo afferrò, accarezzandolo, stringendolo,
facendogli scappare un gemito di piacere.
Marc smise di stuzzicare con le dita il cuore della sua femminilità,
discostò la sua mano dalla sua virilità, si distese, la prese tra le braccia e la
fece distendere sopra di lui, con la testa rivolta verso il suo membro, in
modo che le potesse dargli piacere con la lingua, mentre lui faceva
altrettanto con lei.
Louise capì cosa le chiese, quindi abbassò la testa e iniziò col leccarlo,
poi lo assaggiò per intero, succhiandolo mentre lui, con la lingua entrava
dentro di lei provocandole immensa goduria.
Marc, capendo che se continuava così avrebbe esaurito la potenza
anzitempo, la fece distendere sul letto. Diede un ultimo colpo di lingua, si
inginocchiò tra le sue gambe larghe e, penetrandola pian piano le chiese: -
Ti piace quando uso la lingua, eh? Non lo negare. Se te lo facesse un altro
non ti piacerebbe. Perché sei mia! Solo mia! - e affondò tutto in lei con un
colpo solo, facendola sussultare.
- Senti come entro in te, nel tuo ventre umido? - le chiese, uscendo un
poco.
Louise protestò per quell’uscita ma, Marc l’accontentò subito
affondando dentro di lei con un colpo solo.
- La tua vagina non riceverà mai un altro cazzo così bene come accade
con il mio!
Marc riprese ad uscire facendo rimanere dentro solo il glande e le disse: -
Senti quanto è duro? - e lo mandò di nuovo dentro facendoglielo sentire
tutto.
- Ti piace, vero? - le chiese, uscendo e rientrando di nuovo. - Lo so che ti
piace, Lou.
Marc portò una mano tra i loro corpi uniti e prese ad accarezzarle il
clitoride con movimenti circolari del dito, facendole inarcare il bacino.
Vide che Louise stava per giungere all'orgasmo quindi, si fermò
scatenando i suoi gemiti di protesta.
Marc si alzò, fece alzare anche lei, la portò alla toletta, le fece
appoggiare le mani, le fece inclinare un po’ il busto e allargare le gambe, e
la penetrò di nuovo con una spinta forte e decisa, facendole balzare il seno
in avanti.
- Guarda lo specchio mia cara Lou - le disse. - Guarda come ci
completiamo io e te. Con nessun altro potrai sentirti così, con nessuno! - e
la penetrò sempre più forte e più veloce.
Louise guardò nello specchio e vide la propria faccia deformata dal
piacere, proprio come quella di Marc. Poi con lo sguardo scese verso il suo
seno vedendo che balzava in avanti ad ogni affondo, volendo, desiderando
che lui glielo toccasse.
Sembrò che Marc le leggesse nel pensiero perché staccò le mani dalla
sua vita portandone una al seno e una al pube, a stuzzicarle il clitoride.
Louise chiuse gli occhi ma, Marc le disse: - Guarda, non chiudere gli
occhi - e lei obbedì prontamente perché, nonostante quell’amplesso fosse
dettato dalla rabbia, l’affascinava. Quindi riportò lo sguardo sul suo seno,
con le dita di Marc che giocavano con i capezzoli, prima uno e poi l’altro,
stringendoli.
Poi lo sguardo scese al punto dove erano uniti e la vista di quel pene che
entrava e usciva la eccitò sempre più. Iniziò a dimenarsi col sedere, sempre
più vicina all’orgasmo, fino a quando non lo raggiunse, accovacciandosi
sulla toletta.
Allora Marc iniziò a spingere sempre più veloce, stringendole capezzolo
e clitoride e, con un’ultima spinta decisa, giunse anche lui al piacere
estremo.
Con le ultime forze la riportò sul letto, dove la depose con dolcezza, le si
mise accanto e coprì entrambi. L’abbracciò e respirò il suo dolce profumo,
mischiato all’odore del sesso.
L’aver fatto l’amore con lei l’aveva calmato, l’aveva svuotato di tutta la
rabbia che aveva e, ripensando a quella serata, Louise non aveva veramente
flirtato con Lord Henry. Era solo stata gentile con lui, come lo era stata con
molti altri uomini.
- Scusa - le disse, dopo un po’.
Louise alzò il viso e lo guardò, smarrita.
- Scusa per stasera, per averti trascinata via, per averti accusata di fare la
gatta morta, per...
Louise gli mise un dito sulle labbra e disse: - Accetto le scuse per come ti
sei comportato al ballo, per avermi accusato, ma non ti azzardare a scusarti
per come hai fatto l’amore con me.
- Perché? - chiese Marc. - Sono stato troppo rude.
- Mi è piaciuto - rispose Louise, arrossendo. - Ogni tanto è bello provare
cose nuove.
Quanto la amava! Marc lo capiva giorno dopo giorno e, decidendo di
mandare al diavolo tutti, le chiese: - Louise, mi vuoi sposare?
Lei lo guardò dubbiosa e, vedendolo serio, gli chiese a sua volta: - Ne sei
sicuro? In fondo sono solo una donna rovinata, che ha deciso di sfidare tutti
per la propria indipendenza. Che direbbe la buona società? Un conto è
prendermi come amante, un altro come moglie.
- Non mi importa della buona società, Lou - rispose. - Io ti amo e ho
capito che tu meriti di più, come lo meriteranno dei nostri futuri figli.
Quindi, dolce Lou, vuoi sposarmi?
Lei, commossa dal fatto che lui era pronto a snobbare, o a farsi snobbare,
dalla buona società, gli rispose: - Sì, lo voglio. Ti amo anche io, Marc!
Marc, felicissimo, la abbracciò più forte e le disse: - Non ti merito, ma
sono l’uomo più fortunato del mondo.
Louise sorrise ed entrambi si addormentarono non pensando alle
conseguenze del loro amore.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

INASPETTATA VISITA
Venezia, giugno 2015

Ero in accappatoio, nient’altro indosso e appena uscita dalla doccia.


I capelli ancora bagnati mi scendevano sulla schiena, dritti e pettinati.
In mano un bicchiere di vino rosso, dolce, proprio come piace a me,
mentre lo sorseggiavo in cucina.
Tutto intorno avevo solo candele accese per rilassarmi.
All’improvviso sento suonare alla porta e sobbalzo.
Strano, non aspettavo nessuno quella sera, ma andai ad aprire e mi
ritrovai di fronte un grosso mazzo di fiori che copriva un viso.
Quando tutti quei fiori, rose rosse, si abbassarono, mi ritrovai davanti lui,
Valerio.
Dire che ero sorpresa sarebbe stato un eufemismo. Non lo aspettavo,
erano settimane ormai che non si faceva né sentire né vedere.
E poi quei fiori… quando mai me li aveva regalati?
- Ciao, disturbo? – mi chiese.
Io feci no con la testa e mi spostai per farlo entrare.
Lui mi diede un bacio su una guancia e, conoscendo bene la casa, andò
dritto in cucina dove trovò un vaso. Una volta riempito d’acqua, ci infilò
dentro quel magnifico mazzo di fiori.
- Per te – mi disse, porgendomelo.
Io lo presi, senza avere ancora il coraggio e la forza di dire niente. Ero
rimasta letteralmente di stucco.
- Non dici niente? – mi chiese. – Vedo che sono arrivato in un momento
poco opportuno – continuò, indicando l’accappatoio.
Oddio!!! Mi ero proprio scordata del mio abbigliamento, o meglio del
mio non abbigliamento, molto succinto.
Mi sentii le guance andare a fuoco e probabilmente arrossii perché
Valerio mi sorrise, guardandomi con uno sguardo birichino, malizioso,
tipico di chi sa di averti messo in imbarazzo.
Finalmente ritrovai la parola e gli dissi: - Sai, non aspettavo nessuno!
- Non si direbbe, con questa atmosfera romantica – rispose, indicando le
candele accese e il bicchiere di vino lasciato sul tavolo.
- Mi stavo semplicemente rilassando – gli risposi.
Ormai alla sorpresa subentrava la rabbia: come si permetteva quell’uomo
di giudicarmi dopo giorni e giorni passati senza farmi avere alcuna notizia,
neanche un semplice sms?
- Capisco – rispose, poco convinto.
La mia rabbia aumentò e gli chiesi, stizzita: - Allora, cosa vuoi?
- Vedo che sei arrabbiata, e ne hai tutte le ragioni.
Ne ho sì tutte le ragioni!, pensai.
- Questi fiori, - mi disse, indicandoli. – Sono il primo passo per farmi
perdonare.
Li posai sul tavolo e risposi: - Non hai niente da farti perdonare. In fondo
tra noi non c’è stato niente, se non una semplice avventura di una sera.
Lo vidi diventare scuro in volto e mi disse, sussurrando
minacciosamente: - Solo un’avventura, eh?
Si avvicinò e iniziò a giocare con la cintura del mio accappatoio.
Mi allontanai, riprendendomi il capo della cintura e ribattei: - Sì,
un'avventura, una scopata che anche se piacevole, non significa che
abbiamo dei diritti l’uno sull’altra. O dei doveri.
Valerio si avvicinò di più, avvicinò il suo viso al mio, le labbra sue che
sfioravano le mie e mi sussurrò: - Ah, no? – e poi mi baciò.
Non fu un bacio dolce. Per niente.
Fu un bacio dato per punire, dove la sua lingua aveva il pieno controllo
della mia bocca, aprendomi le labbra e catturandomi la mia, di lingua, per
poi succhiarmela.
Io gemetti, il piacere era troppo.
Valerio mi lasciò andare la bocca, sorridendomi con quell’espressione
trionfante, che mi faceva venire voglia di prenderlo a schiaffi e pestargli i
piedi.
I suoi occhi neri luccicavano divertiti, facendomi infuriare ancor di più.
- Sai di vino. Un ottimo gusto – mi disse. – Posso averne un goccio
anche io?
Sfacciato!, pensai. Dopo avermi dato un bacio che avrebbe fatto crollare
anche una santa, e io santa di certo non lo sono, mi chiedeva un bicchiere
del mio ottimo vino.
Sconcertata e un po’ turbata, andai a prendere un altro calice dalla
credenza e gli versai il vino, pensando: Strozzatici!
Invece gli dissi, semplicemente, con un sorriso tirato sulle labbra: - Ecco
a te.
- Grazie – mi rispose.
Avevo lasciato i piatti della cena nel lavandino e decisi che quello era il
momento di lavarli. Almeno potevo tenere le mani occupate e smorzare la
voglia di schiaffeggiarlo o di accarezzarlo: ero indecisa...
All’improvviso sentii una mano che mi spostava i capelli quasi asciutti
dalla nuca e la sua voce, vicinissima, che mi alitava sul collo e mi diceva: -
Che ottimo profumo che hai.
Io rabbrividii, ma sembrava che Valerio non se ne fosse accorto.
Poi sentii la sua lingua sulla mia nuca.
Rabbrividii di nuovo e, questa volta lui se ne accorse, dato che mentre lo
faceva, lo sentii sorridere.
- Hai anche un ottimo gusto – mi sussurrò, provocandomi un altro
brivido.
Sentii il suo inguine strusciare contro le mie natiche, e mi accorsi della
sua eccitazione, era difficile non sentirla dato che, da quello che ricordavo,
Madre Natura era stata generosa nei suoi confronti.
Non potevo evitare quel contatto dal momento che ero incastrata tra lui e
il lavandino. Non mi mossi, per non incoraggiarlo, ma il mio respiro
divenne affannoso e, ne sono sicura, Valerio lo capì perfettamente. Capì che
lo desideravo ancora.
Mi portò una mano davanti, sotto l’apertura dell’accappatoio e la mise
sul mio seno destro, trovando il capezzolo già duro.
Lo sentii nuovamente sorridere sul mio collo e mi disse: - Mi desideri.
Non era una domanda, piuttosto un'affermazione, quindi non risposi.
Valerio strizzò il mio capezzolo, facendomi gemere.
I piatti oramai erano dimenticati, anche se l’acqua continuava a scorrere,
come scorreva il tempo durante quel passionale interludio.
Mi baciò di nuovo il collo, chiuse l’acqua e mi girò verso di lui, ma io
distolsi lo sguardo.
Mise una mano sotto il mio mento e disse: - Guardami. Lo so che mi
desideri. Non te ne vergognare.
Oddio, pensava che mi vergognassi? Ma se l’altra volta mi ero offerta a
lui senza alcun pudore e senza alcuna remora.
Quindi lo guardai, per fargli capire che in me non c’era né vergogna né
pudore, bensì passione e desiderio.
Lui lo lesse chiaramente nel mio sguardo, perché non riuscì a trattenere
un gemito, prima di baciarmi ancora.
In quel bacio ci stava mettendo piena passione, tutto il suo desiderio.
Strusciò il suo inguine sul mio sussurrandomi: - Ti voglio. Non lo senti
quanto ti voglio?
Oddio, sì, era proprio eccitato e sentii che faceva aumentare il mio
desiderio.
Mi aprì di più l’accappatoio, mettendo in mostra il seno destro, quello
che prima aveva stuzzicato.
Si abbassò e lo succhiò con avidità, la mano destra invece era sul
sinistro.
Emisi un gemito, mi piaceva tantissimo.
Valerio si staccò dal capezzolo destro, ci soffiò sopra, facendomi
rabbrividire, e disse: - Perfetti. Piccoli, ma perfetti. E questi capezzoli, due
ciliegine, pronte per essere divorate - aggiunse.
Io continuavo a tacere, sommersa da tutte quelle emozioni.
L’altra volta fu un rapporto fugace nel bagno del locale dove andammo,
dopo che io flirtai tutta la sera con lui.
Mi era sempre piaciuto, Valerio, e forse quella volta avevo trovato il
coraggio grazie allo champagne, ma ero abbastanza lucida da capire come
sarebbe andata a finire.
Questa volta però era lui a provocarmi, a provocare il mio corpo.
Valerio si allontanò da me, passandosi le mani tra i capelli neri.
Lo guardai, non capendo perché avesse smesso.
Accorgendosi del mio sguardo perplesso, mi spiegò: - Questa volta
nessuna fretta. Voglio andare piano e gustarti per bene.
Detto ciò, mi prese in braccio e mi portò in camera.
Ma non mi mise sul letto, mi mise in piedi, davanti a lui, e iniziò a
slacciarmi l’accappatoio.
Non essendo abituata a rimanere passiva, lo fermai e iniziai a baciargli il
lobo dell’orecchio, per poi morderlo.
Lo sentii trattenere il respiro, e non fece nulla per ritornare a prendere il
controllo.
Gli sussurrai all’orecchio: - Finora ti sei divertito tu. Ora tocca a me – e
gli morsi di nuovo il lobo.
Mi scansai un pochino e iniziai a sbottonargli la camicia e gliela tolsi,
per poi concentrare tutta la mia attenzione sui suoi, di capezzoli.
Chissà se i suoi capezzoli sono sensibili come i miei, pensai.
Decisi di fare una prova e ci passai il pollice sopra.
Valerio si irrigidì e lo sentii inspirare tra i denti.
Allora decisi di essere più audace e passai la lingua prima su un
capezzolo, poi sull’altro.
Lui gemette, ma io ancora non avevo finito.
Dopo averglieli stuzzicati ben bene, tracciai con la lingua un sentiero
lungo il suo ventre, fino all’ombelico.
Gli infilai la lingua dentro e intanto gli sbottonai i pantaloni, che caddero
giù lasciandolo con il boxer. Decisi poi di abbassare anche quello, ma lui mi
fermò.
Si allontanò un po’ da me, si tolse scarpe, pantaloni e il resto,
mostrandosi completamente nudo.
Dio, pensai. È stupendo! E sì, ricordavo perfettamente, era ben dotato. E
per fortuna, tutto quel ben di Dio, lo sapeva anche usare, altrimenti sarebbe
stato tutto inutile.
Mi si avvicinò di nuovo dicendomi: - Puoi fare quello che vuoi, divertiti.
E divertiti ora, perché dopo mi divertirò io.
Quella minaccia mi provocò un ennesimo brivido pieno di aspettativa
lungo la schiena.
Ricominciai con i capezzoli, prima usando le dita, poi strusciandogli i
miei addosso.
Valerio mi strinse le braccia, così forte da farmi male, ma decisi di non
dirgli niente e di continuare.
Nel frattempo gli baciai il collo, il lobo dell’orecchio, facendolo gemere
più forte.
Mi staccai da lui, in modo che mi togliesse le mani dalle braccia, e
iniziai ad inginocchiarmi.
La sua potenza maschia era tutta davanti a me, nella sua maestosità e nel
suo ardore.
Lo provocai con i miei seni, sfiorandolo a turno.
- Dio mio!!! – lo sentii mormorare e sorrisi, compiaciuta.
Decisi finalmente di afferrare il suo vigore. Era duro ma liscio al tatto, e
caldo, molto caldo. Stava bruciando di desiderio quanto me.
Iniziai l'attività manuale e lui strinse i pugni.
Decisi di estasiarlo di più e usai la lingua su tutta la sua lunghezza sino ai
testicoli.
- Voglio di più – mi disse, con voce roca.
Lo accontentai.
Quindi mi riempii la bocca con la sua virtù e feci un buon lavoro.
Poi lo presi in tutta la sua lunghezza, lo usai a mo' di gelato, girando la
lingua intorno, mentre con una mano accarezzavo i testicoli.
I suoi pugni si aprirono e le mani andarono sui miei capelli, tirandomi
indietro la testa.
- Ora basta divertirsi – mi disse, facendomi alzare. – Ora tocca a me – e
mi prese in braccio.
Mi gettò sul letto, togliendomi l’accappatoio e rimasi nuda come lui.
Lo vidi allontanarsi verso i suoi vestiti sparsi a terra e, temendo che mi
avesse solo presa in giro e che si stesse per rivestire e andarsene, gli chiesi:
- Cosa fai?
Valerio capì i miei timori e rispose: - Non ti preoccupare, non me ne
vado. Rilassati e chiudi gli occhi fino a quando non ti dirò di aprirli.
E io obbedii. Mi volli fidare, per una volta. Quindi chiusi gli occhi e mi
rilassai.
Lo sentii avvicinarsi di nuovo e attendevo una sua carezza, un suo bacio
e invece sentii che mi accarezzava con qualcosa di leggero.
- Cos’è? – gli chiesi.
Valerio non rispose e iniziò a passarmi quella cosa sui capezzoli già
turgidi, molto delicatamente.
All’improvviso me la fece scendere per tutto il ventre e, non so come,
capii che mi stava accarezzando con una piuma.
Dove l’avrà presa?, mi chiesi.
Ma quel pensiero fu subito spazzato via dalle due mani che mi
allargavano le gambe e dalla piuma che passava sul clitoride.
Gemetti e inarcai il bacino, chiedendo di più.
Ma Valerio non volle accontentarmi, riportò la piuma sui miei seni per
una frazione di secondo, poi lo sentii alzarsi e allora aprii leggermente gli
occhi.
- Ah! – esclamò lui. – Ti ho visto, sai! Stavi sbirciando e ora mi toccherà
punirti.
Ancora?, pensai. Non era già sufficiente la piuma? Era una bellissima
piuma d’oca di un bel colore rosso.
Mi si avvicinò con tre sciarpette, di quelle che vendevano ai concerti.
Con una mi bendò gli occhi. – Così non sbircerai più – ammonì, mentre
me la legava dietro la nuca.
Con le altre due mi legò i polsi al letto, uno a destra e uno a sinistra.
Ora ero veramente alla sua mercé.
- Bene – disse – ora incomincia il vero divertimento.
Ah, se lo dice lui..., pensai, eccitata e curiosa di conoscere le sue
intenzioni.
Prima mi passò la piuma sulle labbra, per poi farla scendere lungo la
gola e lungo il ventre.
Mi sentivo troppo esposta in quella posizione, quindi chiusi le gambe.
- No!! – mi sussurrò all’orecchio. – Se mi chiudi le gambe, come faccio
a divertirmi? – e mi morse il lobo, come avevo fatto prima con lui.
Mi leccai le labbra sempre più eccitata.
La piuma andò sul pube, sul triangolino di peli, poi lui mi allargò le
gambe e la riportò sul clitoride, facendomi gemere.
- Sì, lo so che ti piace – mi disse. – E so anche che ci vorresti la mia
lingua, al posto della piuma.
Io feci di sì con la testa, troppo scossa per parlare, ma lui continuò a non
accontentarmi.
Portò la piuma all’interno coscia destra, per poi farla scivolare giù, lungo
tutta la gamba, fino alla caviglia, dove la girò tutt’attorno.
Andò al piede, passandomela lungo tutte le dita, dall’alluce al mignolo,
per poi passare all’altro piede e girare la piuma intorno alla caviglia sinistra.
Ricominciò la lenta salita della piuma per tutta la gamba sinistra, per poi
arrivare all’interno coscia.
Continuavo a gemere, a dimenarmi, a volere di più.
La piuma andò sulla mia femminilità, umida e bisognosa.
- Di più – dissi, con voce rauca.
- Aspettavo solo che me lo chiedessi, dolcezza. – mi disse lui, con voce
sadica.
Portò le labbra ai miei seni. La sua mano sul clitoride, mentre leccava un
capezzolo, e poi lo mordeva.
Mi piaceva, tantissimo. Non potevo toccarlo, accarezzarlo, e gli chiesi di
liberarmi.
Lo sentii ridere sul mio capezzolo e bisbigliare, con voce rauca, piena di
desiderio: - No.
Che bastardo, pensai.
Ma subito la mia mente fu occupata a percepire tutte le sensazione che le
sua mani e la sua bocca mi davano.
Sentii che mi penetrava con il dito, subito seguito da un altro, mentre col
pollice continuava a dar piacere al clitoride.
Intanto mi succhiava prima un seno, poi l’altro.
Ero senza fiato, quasi all’orgasmo.
- Vieni per me, dolcezza – mi disse, facendo entrare ed uscire le dita dal
mio corpo sempre più velocemente, mentre ad ogni entrata, il pollice
premeva sempre di più sul clitoride.
Alla fine non resistetti più e raggiunsi l’orgasmo, urlando
selvaggiamente.
A quel punto pensavo che mi slegasse o almeno che mi prendesse.
Mi lasciò il seno e lo sentii portare la testa tra le mie gambe. Sentii aprire
con le mani le grandi labbra intime e la sua lingua calda entrarvi dentro.
Oddio, non pensavo di poter provare ancora più piacere invece, fu
proprio quello che accadde.
Un brivido di piacere attraversò tutto il mio corpo e inarcai il bacino,
avvicinando di più la mia femminilità alla sua bocca.
Lui muoveva freneticamente la lingua facendo su e giù.
All’improvviso si fermò e passò al clitoride. Me lo morse, infilando
ancora due dita dentro.
La tensione era troppo forte e decisi di lasciarmi andare, raggiungendo di
nuovo l’orgasmo.
- Mi vuoi? – mi chiese. Come poteva farmi una domanda così sciocca?
Certo che lo volevo, ma non avevo la forza di rispondere, accidenti a lui.
Fece uscire le dita dal mio ventre e mi chiese: - Vuoi che entri dentro di
te? Vuoi provare più piacere?
Vedendo che io non rispondevo, mi pizzicò il clitoride tra pollice e
indice, dicendomi: - Rispondimi!
Feci di sì con la testa, ma a Valerio non bastava, tant’è che strizzò ancora
più forte e mi chiese: - Allora?
- Sì, ti voglio – gli risposi, con la voce rauca.
Lui mi diede ancora una strizzatina, mi allargò di più le gambe
alzandomi le ginocchia al petto e, con una poderosa spinta, mi penetrò.
Che sensazione meravigliosa!
Iniziò a muoversi piano, ma a me non bastava.
- Più forte – lo supplicai, e Valerio mi accontentò.
Le spinte aumentarono di velocità e di forza, facendomi gemere di
piacere.
Dato che non potevo toccarlo, chiusi le mani a pugno, assimilando tutte
le sensazioni che provavo a sentirlo eccitato dentro di me.
- Vieni – mi disse di nuovo. – Vieni per me. Voglio sentirti godere – e mi
baciò le labbra.
Sentivo di non poter più resistere a quell’ultimo assalto, quindi raggiunsi
l’orgasmo per la terza volta.
Dopo un’ultima spinta, anche lui si liberò.
Sentii il suo seme caldo scorrere dentro di me.
Mi rimise le ginocchia giù, mi slegò i polsi, mi tolse la benda e si mise
disteso accanto a me.
- Scusami se non mi sono fatto sentire per settimane – mi disse.
Oh, beh, l’avevo perdonato già dal primo orgasmo, ma evitai di dirglielo.
Feci finta di pensarci un po’ su, lo guardai con aria dubbiosa e alla fine
gli sorrisi.
- Perdonato – risposi, e lui mi baciò.
Entrambi sazi e appagati, ci addormentammo, chiedendomi se la mattina
dopo l’avrei ritrovato accanto a me.
Beh, non ce lo ritrovai. Un po’ ne rimasi delusa, anche se non glielo
avrei mai detto, ma all’improvviso lo vidi superare la soglia della camera da
letto con solo i pantaloni addosso, e in mano un vassoio con la colazione e
una bellissima rosa, blu questa volta.
Pensai soddisfatta: Lo avessi ogni giorno un simile risveglio...
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

…E FU SUBITO AMORE
Castiglion della Pescaia, Grosseto, agosto 2013

Era un’afosa notte di mezz’agosto, era la notte delle stelle cadenti, era la
notte dei desideri inespressi e, Giorgia si trovava a passeggiare sul bordo
della piscina dell’albergo dove alloggiava con i suoi.
A sedici anni si considerava troppo grande per stare in vacanza con i
genitori, ma loro avevano insistito dicendole che la settimana successiva
avrebbe poi potuto partire con gli amici. E quindi Giorgia aveva ceduto. In
fondo amava i suoi genitori e non voleva dar loro alcun dispiacere.
E ora si trovava lì, ad ammirare le stelle in compagnia di una luna piena
e pallida che rischiarava il cielo con i suoi fiochi raggi.
Decise di sedersi a bordo piscina, si tolse le infradito e immerse i piedi
nell’acqua. Era calda e molto piacevole.
Si distese per scrutare meglio le stelle sperando di vederne una cadere. E
all’improvviso la vide per davvero.
Vorrei che un ragazzo mi amasse per quella che sono, e non perché i
miei genitori sono persone influenti, pensò chiudendo gli occhi mentre
esprimeva forte quel desiderio. E lo fece con piena convinzione perché
oramai credeva le fosse dovuto.
- Espresso il desiderio? – sentì chiedersi.
Giorgia si alzò di scatto e si girò verso quella voce che proveniva da un
giovane uomo arrivato il suo stesso giorno.
Il ragazzo, sulla trentina immaginò Giorgia, era alto, con corti capelli
biondi che brillavano sotto la luce della luna e gli occhi dello stesso verde
del boschetto adiacente all’albergo.
Da quel che rammentava Giorgia, era giunto insieme a un numeroso
gruppo di persone composto da giovani e anziani.
Ricordando che le aveva posto una domanda, Giorgia gli rispose: - Sì, e
tu?
Manuel guardò quella giovane ragazza che fino a pochi istanti prima era
assorta nei suoi pensieri, rilassata come se niente potesse distoglierla. Con i
piedi immersi nell’acqua, i lunghi capelli neri come la notte sparsi
tutt’intorno a sé e gli occhi rivolti al cielo alla ricerca di stelle cadenti. Fino
a quando poi l’aveva vista. La sua stella, e a quel punto li aveva spalancati
per la sorpresa e per la felicità poi, dopo un fulmineo sorriso, li aveva chiusi
un attimo giusto il tempo per esprimere l’agognato desiderio.
Manuel ancora non aveva capito di che colore fossero, perché non aveva
avuto l’occasione di ammirarli da vicino.
Quando era arrivato con la sua numerosa famiglia, riunitasi in
quell’albergo per festeggiare i cinquant’anni di matrimonio dei nonni
paterni, lei stava prendendo la chiave della stanza.
Era giunto in quell’hotel insieme ai propri genitori e dell’unica sorella di
suo padre con il marito e i suoi due figli, un maschio, Vittorio, e una
femmina, Sara, con rispettivi consorti e prole.
Lui era l’unico della famiglia a non essersi ancora impegnato anche se,
dai quindici anni in poi, aveva avuto innumerevoli avventure e storie
d'amore. E ora, a ventotto, si ritrovava ad invidiare i suoi cugini.
La ragazza lo guardava in attesa della risposta, con i piedi che
sguazzavano ancora nell’acqua.
Indossava dei jeans corti con una canottierina e una felpa a giubbino
aperta sopra.
Doveva essere un’adolescente, pensò Manuel. Era così giovane, così
innocente.
- Non ho bisogno di esprimere desideri – le rispose. – Lascio questo
privilegio ai romantici.
- E tu non lo sei? – gli chiese.
- Non più. – ribatté. Ed era vero... Lo era stato fino a cinque anni prima,
quando ebbe la più cocente delle delusioni d’amore: la sua fidanzata, che
avrebbe sposato da lì a un mese, la sua amata Martina, aveva deciso di
scappare con un uomo più ricco di lui.
Non che Manuel fosse povero, anzi… La sua era una famiglia di noti
medici e lui invece, giovane e promettente avvocato, capì troppo tardi che
quella donna l’aveva scelto solo per la sua posizione sociale.
- È un peccato che non sei più un romantico – gli replicò.
Giorgia guardava quel ragazzo, anzi quell’uomo, dispiaciuta per lui.
Come si faceva a vivere senza romanticismo? Ovviamente quelli erano
pensieri di un’adolescente, quale lei era, lo sapeva, ma non voleva diventare
una donna disillusa. Naturalmente sua madre le diceva sempre che un
giorno quei sogni adolescenziali, crescendo, sarebbero scomparsi e che
sarebbe diventata o una donna soddisfatta della propria vita, con una
famiglia e un lavoro che le piaceva, oppure una donna frustrata, cinica,
incapace di sognare ancora.
A sua madre era toccato il primo destino: i suoi genitori erano felici,
nonostante qualche volta litigassero.
- Posso unirmi a te? – le chiese l’uomo. – L’acqua sembra molto
invitante.
Giorgia gli indicò il posto accanto a sé, lui si tolse le scarpe da tennis e si
mise seduto sul bordo, immergendo anch’egli i piedi nell’acqua.
Indossava un paio di pantaloni neri lunghi fino al ginocchio e una polo
bianca, che brillava alla luce della luna.
Le braccia erano muscolose, senza un pelo, così come era muscoloso il
torace, messo in risalto dalla maglia stretta.
Le gambe, per niente esili come quelle dei suoi compagni di classe che
mettevano in mostra durante le ore di educazione fisica, avevano un fine
strato di peluria.
- Ah, che bello – sospirò lui.
Giorgia sentì un lungo brivido percorrerle la schiena, come se una mano
invisibile avesse iniziato ad accarezzargliela.
- Comunque, bella fanciulla, il mio nome è Manuel – e le porse la mano.
- Giorgia – rispose lei, stringendogliela.
Aveva una presa forte e calda, che le fece correre un altro brivido, lungo
il braccio questa volta.
Giorgia, pensò Manuel. Quel nome le si addiceva.
- E quanti anni hai, Giorgia? – le chiese.
- Lo sai che non si chiede l’età ad una ragazza? – rispose sorridendogli.
Giorgia aveva un bel sorriso, un sorriso che avrebbe potuto far cadere ai
suoi piedi parecchi uomini. Quel sorriso le arrivava agli occhi chiari, celesti
come l’acqua della piscina quando era baciata dal sole.
- Uhm – fece finta di pensarci su, Manuel. – Sì, avevo sentito una cosa
del genere, ma non seguo molto le regole – e le ricambiò il sorriso.
- Le regole bisogna seguirle – disse lei. – O almeno è ciò che ci ripetono
sempre i professori.
Quindi frequenta ancora la scuola…, pensò Manuel.
Lei dovette capire che con quella frase gli aveva svelato molti dubbi che
aveva, dato che arrossì.
- Che vi dicono i professori? – chiese Manuel per metterla un po’ a
disagio. Gli piaceva vederla impacciata, con le guance rosse, al chiaro di
luna.
- Beh… sì, i professori... – rispose lei, balbettando un pochino.
- Quindi sei una studentessa... – le disse. – Universitaria?
Manuel vide che Giorgia arrossiva ancora di più. L’aveva capito che non
era una studentessa universitaria, non dimostrava nemmeno diciassette anni.
- Ecco, no...però ora non scappare – gli rispose.
Manuel si stupì di quelle parole.
- Perché dovrei scappare, scusa? – le chiese. – Mi trovo bene a parlare
con te, qualsiasi sia la tua età.
- Oh, grazie. – Giorgia arrossì ancora di più, ma si rilassò. Quanto poteva
arrossire una persona, prima di prendere fuoco?, si domandò Manuel.
- Ebbene, ho sedici anni. E sono una liceale. A settembre inizierò il
quarto anno. Non sono poi così piccola, no? Almeno non tanto da farti
scappare, giusto?
Era adorabile, pensava Manuel. Sedici anni, che bella età!
- E tu, invece? – gli chiese.
- Ahimè, io sono più vecchiotto, già laureato in giurisprudenza da
qualche anno.
- Voglio sapere la tua età, non il tuo curriculum – disse Giorgia, ridendo.
Aveva una risata armoniosa, una di quelle che non si sarebbe mai
stancato di ascoltare.
- Uhm, era proprio questo che stavo facendo, vero?
Lei fece di sì con la testa e lo guardò con gli occhi che brillavano,
divertiti.
- Ventotto anni, povero me.
- Eh già, un povero vecchietto decrepito – lo canzonò, dandogli una
pacca sulla schiena.
Giorgia lo sentì irrigidirsi e quindi tolse la mano, sorpresa. Non le
sembrava il tipo che soffrisse al contatto umano. Si portò le mani in grembo
e abbassò lo sguardo, mortificata.
Manuel, appena Giorgia gli ebbe poggiato una mano sulla spalla, aveva
sentito una parte del suo corpo diventare dura, cosa che non gli era mai
successa con un solo tocco della mano di una ragazza, sulla spalla per
giunta. E quindi, di conseguenza, si era irrigidito, mortificandola.
Decise di rompere quel silenzio chiedendole da dove provenisse, anche
se dall’accento gli sembrava che fosse romana.
- Di dove sei? – le chiese, quindi, cogliendola di sorpresa.
- Oh, romana. Non si sente? Anche tu, se non erro.
Lui sorrise e le rispose: - Aho, a bella! – ed entrambi scoppiarono a
ridere, ritrovando la complicità di prima.
Però Manuel si sentiva ancora rigido, accaldato, tanto che si sarebbe
tuffato in piscina. Forse...
- Ti scandalizzeresti, se mi tuffassi in piscina? – le chiese.
Giorgia guardò Manuel, arrossendo di nuovo. Quello era sempre stato un
suo grandissimo difetto, arrossire per un nonnulla.
Manuel dovette notarlo, perché le disse: - Se ti scandalizzi, non mi tuffo.
- Oh no, non mi scandalizzo affatto.
Intanto si tiene i pantaloncini, pensò.
- Ok. – disse, alzandosi con un sorriso. Si tolse la polo, mettendo in
mostra il suo torace muscoloso, con poca peluria, come per le gambe.
A Giorgia venne voglia di accarezzarglielo, ma si trattenne, stringendosi
le mani in grembo.
Invece di tuffarsi, Manuel iniziò a togliersi anche i pantaloni.
Vabbè, rimarrà in mutande o boxer, no? Sarà come vedere un uomo
qualsiasi in costume, pensò allora Giorgia. Ma quello non era un uomo
comune, le faceva battere il cuore come nemmeno il suo unico ragazzo era
riuscito a fare. Ma in quel momento non voleva pensare a Luca,
quell’imbecille!
Tolti i pantaloni, Manuel rimase in mutande, che gli mettevano in risalto
gli intimi attributi, come li chiamava Luca. Solo che quelli di Manuel erano
molto più evoluti!
A quel punto lui si girò verso di lei, sorrise, le diede le spalle, si tolse
anche gli slip e si tuffò, lasciando Giorgia a bocca aperta. Aveva un sedere
bellissimo, almeno per quello che aveva intravisto prima che si tuffasse.
- Ah, è stupenda! – esclamò Manuel, salendo in superficie con la testa. -
Vuoi provare? – le chiese.
Giorgia fece di no con la testa, troppo stupita per parlare.
In fondo, prima di Manuel, aveva già visto un ragazzo nudo, o quasi:
senza maglietta e con i jeans e boxer abbassati, che la penetrava facendole
provare dolore, per poi abbandonarla il giorno dopo.
Giorgia scosse la testa per allontanare quei pensieri. Comunque non
c’era paragone tra un sedicenne mingherlino e un ventottenne in piena
forma, come era quell’uomo che stava nuotando verso di lei.
Manuel le si avvicinò, consapevole di averla imbarazzata e sconvolta.
- Tutto ok? – le chiese, mettendole le mani sulle cosce.
La vide arrossire, di nuovo. Ma quella ragazza arrossiva per tutto?
- Certo, perché?
Stava sulla difensiva, Manuel lo capiva. In fondo non si stava
comportando da bravo ragazzo.
- Sei arrossita...di nuovo – e le sorrise.
- Sì, lo so – rispose Giorgia. – È uno dei miei molti difetti.
- E quali sarebbero gli altri? Sono curioso – e lo era veramente.
- Sono impulsiva, istintiva – incominciò ad elencare lei. – Spesso penso
ad alta voce.
- Oh, interessante – disse Manuel, iniziando a giocherellare con il bordo
dei suoi pantaloncini. – E a cosa stai pensando, ora?
- Non te lo vengo di sicuro a dire a te! – gli rispose.
- E perché no? Magari perché sono pensieri sconvenienti? Erotici forse?
Vedendola arrossire di più, capì di aver indovinato. La faccenda si faceva
sempre più interessante.
- Certo che no! – rispose lei. – In fondo non sei il primo ragazzo che
vedo nudo.
Detto ciò, Giorgia si portò una mano alla bocca, ma le parole ormai le
erano uscite.
-Ah, no? – le chiese Manuel, prendendole la mano che aveva lasciato in
grembo. La tirò e la fece cadere in acqua.
Giorgia urlò per lo spavento o per la sorpresa e, tornando in superficie
con la testa, iniziò a tossire.
- Oh, oh, piano – le disse Manuel, dandole leggere pacche sulla schiena,
mentre lei si riprendeva, appoggiata al bordo della piscina.
- Passato? – le chiese, una volta che si fu calmata la tosse.
Giorgia fece di sì con la testa, poi si girò furibonda verso di lui tentando
di schiaffeggiarlo e apostrofandolo con termini che poco si addicevano a
una bella e signorile giovinetta.
Tentando di schivare i colpi e al contempo bloccarle le mani avide delle
sue guance, Manuel attraverso l’acqua vedeva la canottierina sotto la felpa
che le modellava perfettamente il seno. Dio santo, non aveva niente, sotto!
La bocca gli si seccò e il membro gli si indurì di nuovo.
Giorgia passato il momento d’ira dopo che lui ridendo le aveva chiesto
scusa, si tolse la felpa, posandola dove prima era seduta.
- Intanto ormai non mi serve più – disse seccata girandosi verso di lui.
Dio, ma lo sapeva che effetto faceva?
Vedendo che Manuel non parlava, Giorgia lo guardò in faccia e vide lo
stesso sguardo che aveva Luca quando la portò in camera sua, in intimità.
Solo che in quello di Manuel c’era qualcosa di più: l’esperienza!
Desiderio ed esperienza...che mix!
- Eh no, non ti serve più – disse Manuel, continuando a guardarle il
petto.
Giorgia se ne accorse e gli chiese irritata: - Cosa guardi? – e seguì il suo
sguardo.
Vide la canottierina che le si era appiccicata ai seni e i capezzoli turgidi
che si notavano.
Con un piccolo urlo, si coprì il seno con le braccia, rimproverandolo.
– Potevi avvertirmi! – gli disse.
- E perdermi lo spettacolo? – le sorrise. – Come mai non porti il
reggiseno?
- Mi da fastidio, in estate! Quando posso, evito di metterlo.
- Interessante – e le si avvicinò.
Manuel era eccitatissimo. Dio, ma che potere aveva quella ragazzina?
Era un uomo di ventotto anni, Cristo santo!
- Dato che hai visto altri maschi nudi, - le disse, iniziando a baciarle il
collo dopo averla intrappolata tra il bordo della piscina e il suo corpo. –
Altri maschi avranno visto il tuo.
- So-solo u-uno... – farfugliò Giorgia.
- Ah, solo uno? – le alitò sul collo, facendola rabbrividire. – E dimmi, ti
ha mai baciata qui? – e la baciò di nuovo in quel punto che a Giorgia faceva
venire i brividi.
- O qua? – e le baciò il lobo dell’orecchio, per poi morderlo e succhiarlo.
- No? – chiese lui, vedendo che Giorgia non rispondeva.
- E qua? – e scese a baciarle la gola, per poi passare più giù, dove lei
aveva ancora le braccia.
Gliele scansò vincendo la sua tenue e istintiva resistenza, la mise seduta
sul bordo della piscina, la raggiunse e, prendendola in braccio, la adagiò
sulla sdraio, dove poco prima aveva lasciato un paio di asciugamani in
previsione del tuffo che aveva intenzione di fare.
Iniziò subito a succhiarle un capezzolo attraverso la stoffa bagnata della
canottiera, facendole trattenere il fiato.
Oddio, ma cosa sta facendo?, pensava intanto Giorgia. Luca, quelle
cose, non le aveva mai fatte. Non le aveva mai fatto provare quelle
sensazioni così piacevoli, che la facevano bagnare tra le gambe.
- Neanche qua, ti ha baciata? – le chiese lui, alzando la testa dal suo
seno.
Giorgia fece di no con il capo, sperando che lui continuasse, ma Manuel
portò le mani sul bottone dei pantaloncini e glielo slacciò, per poi abbassare
la chiusura lampo.
Le mise una mano dentro gli slip, facendole battere forte il cuore.
- E qua, - le chiese, accarezzando la sua femminilità. – Ti ha mai
accarezzata, qua? Baciata?
Giorgia non si ricordava che Luca lo avesse fatto: l’unica cosa che si
ricordava era che le aveva alzato la gonna, tolto gli slip e penetrata.
Ebbe un brivido al solo ricordo e, vedendo che Manuel aspettava una
risposta, gli disse: - No.
- Oh beh, allora è stato un amante pessimo – le sussurrò, portando le
mani all’orlo della canottierina.
- Posso? – le chiese.
Giorgia alzò le braccia e Manuel gliela tolse, esponendo il suo bel seno
pieno alla luce lunare.
Giorgia si sentì un po’ esposta, quindi riportò le braccia a coprirsi il
petto, ma Manuel glielo impedì.
- No – le disse. – Non lo coprire. È bellissimo.
- Grazie – rispose Giorgia.
- Togliamo anche questi pantaloncini bagnati? – le chiese, afferrandoli
per la vita.
Giorgia fece di sì con la testa e Manuel glieli abbassò, chiedendole di
alzare un po’ il sedere.
Giorgia obbedì e anche i pantaloncini scomparvero, e rimase in slip.
Intanto portò lo sguardo sulla virilità di Manuel, grossa e pronta. Si
chiese se le avrebbe fatto male e lui dovette leggerle quella domanda in
volto, perché disse: - Non ti preoccupare, ti piacerà.
Giorgia gli sorrise e si fece togliere anche gli slip. Ora era nuda come lui,
esposta ai raggi della luna e al suo sguardo.
- Vuoi toccarmi? – le chiese Manuel.
- Dove?
- Dove vuoi – e le sorrise.
Timidamente, Giorgia gli portò le mani al collo, accarezzandoglielo pian
piano, per poi farle scendere sul petto dell’uomo, così diverso dal proprio.
Manuel gemette a quel tocco innocente. Di solito veniva toccato da
donne che avevano la sua stessa esperienza, ma il tocco della giovane
inesperta fu decisamente più bello.
Giorgia, incoraggiata da quel suono, continuò a farle scendere lungo il
ventre, con un tocco leggero, come quello di una farfalla.
- Va bene così? – gli chiese.
Manuel annuì, chiedendole di continuare, di essere più audace, se lo
avesse voluto, e le mani di Giorgia scesero fin sotto l’ombelico, fermandosi
a un soffio dal membro di Manuel.
Poi le sue mani scesero ancora di più fino ad accarezzarlo e poi
stringerlo. Era duro e liscio come una pietra levigata ma, a differenza di
essa, era caldo e vivo.
Giorgia si leccò le labbra secche: all’improvviso le venne voglia di
assaggiarlo.
- Che sapore ha? – gli chiese, curiosa.
- Provalo – la invitò lui, con voce roca. Dio, quella ragazza lo stava
estasiando.
Giorgia non se lo fece ripete due volte e con la lingua gli toccò il glande,
facendogli trattenere il respiro.
- Allora? – le chiese. – Che sapore ha?
- Non lo so ancora bene – e glielo assaporò tutto, impegnandosi a fondo
con tutta la bocca e facendolo urlare di piacere.
Giorgia capì, non sapeva come, che quello non fu un urlo di dolore e,
soddisfatta, continuò nell'opera.
Manuel aveva paura che sarebbe arrivato come un quindicenne se
Giorgia non avesse smesso subito, quindi le alzò la testa e le chiese: -
Assaggiato bene?
- Sì. È un misto tra dolce e salato. Mi piace – e fece per riabbassare la
testa, ma lui la fermò.
- Ora è il mio turno, di assaggiare – e la fece stendere sotto di sé.
Iniziò a baciarle le labbra, con tenerezza, per poi scendere alla gola,
succhiandole il collo.
Il respiro di Giorgia aumentò, facendo sollevare i seni con un ritmo
accelerato, portando tutta l’attenzione di Manuel su di loro.
Lui scese ancora con la bocca, passandole la lingua intorno a un
capezzolo. Giorgia gli infilò le dita tra i capelli corti e allargò le gambe,
come invitandolo a fare di più.
A Giorgia le piacque sentire l’aria fresca della notte che le accarezzava la
femminilità già bagnata, ma le piacque di più quando Manuel le posò una
mano sopra, accarezzandola, mentre con la lingua continuava a darle
piacere al capezzolo.
Giorgia inarcò i fianchi: voleva di più, ma Manuel non era ancora
propenso a concederglielo. Le succhiò il capezzolo tanto da farla urlare.
- Shh – le sussurrò sul seno umido. Giorgia si portò un pugno alla bocca
per soffocare altre urla di piacere. Manuel la stava facendo impazzire!
Lui passò a stuzzicarle l’altro capezzolo e le infilò un dito nella sua
intimità.
- Sei così stretta e calda – le disse.
Giorgia si contorse dal piacere. Ma ciò che provò in quel momento non
fu nulla rispetto alle sensazioni che percepì mentre Manuel, scendeva per
tutto il ventre con la lingua, per poi posarla là, dove prima aveva la mano.
- Dio santo – gemette Giorgia.
Non immaginava di poter provare tanto piacere.
- Dolce come il miele – disse Manuel, dopo un piccolo assaggio.
Le succhiò il clitoride e poi infilò la lingua nella cavità umida, mentre
Giorgia si sentiva innalzare al cielo per le sensazioni che provava. Non ce la
faceva più: dovette lasciarsi andare e sentì come se il suo corpo si
frantumasse in mille pezzettini. Pian piano tornò in sé e, aprendo gli occhi
che non seppe nemmeno di aver chiuso, vide Manuel di fronte a sé, che la
guardava, con il membro ancora duro e grosso e dietro di lui la volta celeste
a fargli da cornice.
- Che è successo? – gli chiese, con voce rauca.
- Hai raggiunto l’orgasmo, piccola – le rispose lui, baciandola. – Non ti
era mai successo?
Giorgia fece cenno di no e allora Manuel le disse: - Lo proverai di
nuovo, se me lo permetterai. E sarà ancora più bello di prima.
Giorgia annuì e lui le si mise di fronte, in ginocchio, allargandole ancora
di più le gambe e, pian piano, la penetrò. Stavolta Giorgia non sentì dolore,
ma solo piacere, un immenso piacere.
Manuel la prese per le braccia e la fece adagiare sulle sue ginocchia,
senza uscire dal suo corpo, mentre lei si aggrappava alle sue spalle, confusa.
- Non so che fare – gli confidò.
- Allora quell’altro era proprio un incapace – le sussurrò, baciandola. –
Fai ciò che ti senti.
E allora Giorgia iniziò a muoversi, prima goffa ed incerta ma, vedendo
che a lui piaceva quando lo faceva, acquistò sicurezza e i suoi movimenti
furono meno impacciati.
Manuel le strinse un seno, mentre succhiava l’altro e Giorgia aumentò
sempre di più il ritmo.
- Vieni per me, piccola – le sussurrò.
A quelle parole, Giorgia sentì di nuovo che l’orgasmo si avvicinava, per
poi raggiungerlo e accasciarsi su di lui.
Ma Manuel non aveva ancora finito: la fece distendere e la penetrò
velocemente, facendole raggiungere un altro orgasmo.
Catturò il suo urlo di piacere con un bacio, anche lui vicino alla vetta del
paradiso.
Dopo un’ultima spinta, uscì da quel corpo caldo e riversò il proprio seme
sul suo ventre, per poi stendersi accanto a lei, su quel misero lettino sdraio.
Dopo essersi ripreso, Manuel prese Giorgia in braccio e la portò a bordo
piscina, dove la ripulì.
Entrambi tornarono a distendersi sulla sdraio, coprendosi con gli
asciugamani, per poi crollare, sfiniti dal piacere.
All’alba Manuel si svegliò, solo e nudo, con l’asciugamano come unica
copertura. Giorgia e i suoi abiti erano scomparsi, ma lui era sicuro di non
essersela sognata.
A metà mattino ne ebbe la conferma, vedendola, dolce e serena, che
parlava con sua cugina, poco lontano da lui e Manuel era sicuro che quello
sarebbe stato solo l’inizio...
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

RITRATTO A PELLE
Roma, febbraio 2012

Inverno, la stagione che odio di più. Fa freddo e piove, anche se,


stranamente invece, quel giorno nevicava e la città era nel caos più assoluto.
Traffico bloccato, bus fermi... Roma non è proprio una città dove nevicate
del genere si vedono tutti gli anni, quindi quella neve ci aveva trovati tutti
impreparati.
Ero rimasta bloccata a Piazza Venezia, impossibilitata ad andare al
lavoro. Ma anche di tornare a casa non se ne parlava proprio: tutto bloccato,
a causa di quella stramaledetta neve!
Quando ero uscita dalla mia abitazione, quella mattina, la situazione non
sembrava tanto tragica.
Arrabbiata e infreddolita, entrai in un bar, tanto valeva riscaldarsi con
una buona cioccolata calda prima di intraprendere la lunga camminata di
ritorno verso casa, a Monteverde, quartiere romano adiacente a Trastevere.
Certo, non era vicino Piazza Venezia, ma neanche tanto lontano e, in una
giornata di sole, quella lunga passeggiata poteva risultare sicuramente
piacevole. Ma non quel giorno.
Decisi di non pensarci più di tanto, in qualche modo dovevo tornare a
casa e mi sedetti ad un tavolino accanto alla finestra, ordinando cioccolata
calda al cameriere comparso subito.
Mi piace osservare la gente nella loro routine quotidiana, anche se quel
giorno era un po’ diversa. Osservai dei turisti, tedeschi forse, dati i capelli
biondi chiari, che guardavano Palazzo Venezia, ammirati. Loro sì che si
sapevano muovere nella neve, mentre molti romani, o comunque italiani,
arrancavano in quel mucchio bianco che ricopriva le strade della città
eterna, che diventava pian piano grigio.
Ero assorta nei miei pensieri quando una voce mi disse: - Ma
buongiorno!
Sobbalzai sulla sedia e l’uomo rise. Sì, perché proprio di un uomo si
trattava. Giorgio, il suo nome. L’avevo conosciuto tre mesi prima ad una
mostra di pittura. Mi ci aveva trascinato una mia amica, innamorata pazza
del curatore della mostra.
- Scusa, ti ho spaventata – mi disse.
- Mi ero persa nei miei pensieri – gli risposi. – Ma siediti, se hai un po’
di tempo – lo invitai.
Lui si sedette e in quel momento arrivò la mia cioccolata calda.
- Una anche per me – disse al cameriere, che sparì subito alla volta del
bancone, dove la bella barista ne preparò immediatamente un’altra. A me
aveva fatto aspettare cinque minuti buoni, ma vedendo che la seconda era
per un bell’uomo, la preparò all’istante. Sì, perché Giorgio era un
bell’uomo! Romano di nascita, alto, con i capelli neri tagliati corti stile
militare e gli occhi del colore del cielo in estate, che scrutavano tutto e tutti.
Arrivò anche la sua cioccolata e, una volta che il cameriere si fu
allontanato, lo presi in giro dicendogli: - Hai fatto colpo sulla barista, a me
ha fatto aspettare quasi cinque minuti, invece a te l’ha preparata al volo.
Lui rise, ma non ribatté. Sapeva di fare colpo sulle donne, lo ammise lui
stesso uno dei tanti sabati in cui eravamo usciti assieme.
- So che le donne mi guardano apprezzando ciò che vedono – mi aveva
confessato quella volta. – Ma, per poter ricambiare l’apprezzamento mi
devono colpire qui, - e aveva indicato il suo cuore. – E qui – aveva
concluso, portandosi la mano alla fronte.
- Cuore e mente. E il desiderio fisico? – gli avevo chiesto.
- Quello viene automaticamente – mi aveva risposto.
- Come mai da queste parti? – mi chiese, riportandomi al presente.
- Rimasta bloccata dalla neve – risposi, per poi sorseggiare un po’ di
cioccolata.
- Non potevi rimanere a casa?
- E semplificarmi la vita? – gli sorrisi. – Naaa, non sarebbe stato
divertente!
Lui rise, poi mi chiese: - E ora come farai a tornare?
- A piedi – gli risposi con un’alzata di spalle. – Per fortuna mi sono
messa le galosce e non mi bagnerò i piedi. Te, invece? Come mai fuori con
questo freddo?
- Dovevo fare un salto al negozio di colori ad olio. Avevo finito il bianco
– e mi fece vedere la busta che aveva con sé.
- Non potevi aspettare che smettesse di nevicare?
- No. Quando arriva l’ispirazione, meglio assecondarla subito – mi
spiegò.
A Giorgio piaceva molto disegnare e dipingere ed era piuttosto bravo. Mi
aveva fatto vedere dei suoi disegni un sabato di novembre, subito dopo che
ci eravamo conosciuti. Era stata una giornata tiepida, con un bel sole
autunnale a riscaldarti la faccia, l’unica parte del corpo visibile sotto gli
strati di stoffa, e avevamo deciso di andare al parco. Uno rappresentava il
suo gattone, un bel persiano; un altro una donna, che passeggiava con il
figlio; un altro ancora il laghetto artificiale dell’Eur, il quartiere voluto da
Mussolini per l’esposizione universale prevista per il 1942 e mai tenutasi a
causa dello scoppio della guerra. Poi si era messo a disegnare dei bambini
che giocavano sulle altalene e sullo scivolo.
- Però ti sei fermato a prendere una cioccolata calda – lo canzonai.
- Ti avevo visto dalla strada – mi spiegò. – Ma tu non hai visto me – e mi
sorrise.
Imbarazzata, gli dissi: - Ero assorta nei miei pensieri.
- Sì, me ne ero accorto. Cambi espressione, quando ti perdi in chissà
quali mondi. Sarebbe bello dipingerti in uno di quei momenti.
- Oh, no. Lo sai cosa penso dei ritratti. Non sono fotogenica, tanto meno
verrei bene dipinta.
- Dipende dall’artista – controbatté lui.
Alzai le spalle e lasciai cadere il discorso: in quei tre mesi era stata
l’unica cosa su cui non avevamo trovato un compromesso.
Nel frattempo avevamo finito le nostre cioccolate e io capii che era
arrivato il momento di mettersi in cammino.
Chiamai il cameriere con un cenno e gli chiesi il conto.
- Non ti azzardare – mi disse Giorgio, vedendo che stavo per prendere il
portafogli dalla borsa. – Offro io. In fondo ti ho imposto la mia presenza.
- Tu non mi hai imposto nulla, anzi. Mi ha fatto piacere incontrarti. Non
avevo pensato di chiamarti, anche se so che abiti qui vicino.
- Di sicuro più vicino di te – mi disse, prendendo il conto e pagando il
cameriere.
Io mi alzai, mi misi il cappotto e lui fece lo stesso.
- Bene, ti ringrazio per la cioccolata – gli dissi, una volta usciti al freddo.
- Sicura che vuoi incamminarti con questa bufera? – mi chiese,
preoccupato.
- Ho altra scelta? Ho fatto una stupidaggine questa mattina, uscendo.
- Ah, questo è poco ma sicuro, ragazza impulsiva… – mi canzonò.
- Eh, sì, lo ammetto. Sono impulsiva – e gli feci la linguaccia.
Lui mi guardò in silenzio per un po’, poi mi chiese: - Perché non vieni da
me, almeno fino a quando non smette di nevicare?
Rimasi sorpresa.
- Sempre che non ci sia qualcuno ad aspettarti, a casa, ovviamente –
aggiunse.
Sentendo l’ultima frase, scoppiai a ridere.
- Lo sai che non ho nessuno ad aspettarmi – gli dissi.
- E allora vieni. Giuro che non ti mangio.
- Non vorrei disturbare. Chissà quando finirà di nevicare – obiettai. Ma
ero poco convinta, perché l’idea di andare da lui era molto allettante. E
Giorgio se ne accorse.
- Non disturbi, stai serena – e mi sorrise.
Alla fine accettai. – Fino a quando non smette di nevicare – specificai.
Lui sorrise, mi prese a braccetto e ci incamminammo fino a Piazza Navona.
Giunti sotto casa sua, ero oramai congelata e zuppa.
- Vieni, saliamo – mi disse, vedendo che battevo i denti. – Ho i
termosifoni e il camino accesi. Vedrai, ti scalderai in un attimo.
Io annuii, grata al pensiero di tutto quel calore.
In ascensore, lui rise.
- Che ti sghignazzi? – gli chiesi.
- Oh, niente – e rise più forte. – Stavo solo pensando che volevi arrivare
fino a Monteverde ma che a malapena sei riuscita ad arrivare qui, che siamo
a pochi minuti di cammino da Piazza Venezia.
- Non c’è nulla da ridere – ribattei, facendo la finta offesa. Sapevo che
aveva ragione e che sarei probabilmente congelata prima di arrivare a casa.
- È colpa mia se soffro così tanto il freddo?
- No, certo che no, piccola – mi rispose, dandomi un buffetto sul naso
gelato.
L’ ascensore arrivò all’ultimo piano e noi uscimmo. Lui tirò fuori la
chiave di casa e, aperta la porta, mi fece entrare in quel paradiso di calore.
Giorgio era di ottima famiglia, proprietaria di una delle più importanti
aziende di gestione di impianti di condizionamento della capitale. Lui
spesso si occupava della contabilità dell'azienda, attività che intervallava
con la sua grande passione, la pittura.
Appena varcata la soglia mi ritrovai in un minuscolo ingresso. Alla mia
destra si trovava un piccolo salottino, con il camino acceso e una sedia a
dondolo davanti.
A sinistra c’era un piccolo archetto che immetteva nella cucina, un locale
ampio.
Più avanti si notava una scala che portava al piano superiore.
- Vieni, accomodati in salotto – mi disse, facendomi strada.
- Grazie – e lo seguii, togliendomi guanti, cappello, cappotto e sciarpa.
Lui fece lo stesso e, prese le mie cose, le andò ad appendere.
Il salotto conteneva anche delle poltrone e un divano all’ultima moda, un
grande specchio in un angolo, uno stereo e un televisore di ultima
generazione.
- Hai una bellissima casa, complimenti – gli dissi.
- Grazie mille, anche se non hai visto ancora tutto. Ma vieni, ti presento
Spencer – e mi portò alla sedia a dondolo davanti al camino, dove un gatto
persiano nero dormicchiava beato.
- Ma è stupendo! – esclamai.
- Come il padrone? – mi chiese lui, scherzando.
Gli sorrisi e risposi: - Chi lo sa.
- Ti mostro il resto della casa o preferisci rimanere incollata al camino? –
mi chiese.
Gli feci la linguaccia e gli risposi: - Fammi strada.
Mi fece vedere la cucina e poi andammo al piano di sopra dove, oltre alla
camera da letto, si trovavano un bagno, una stanza per gli ospiti e il suo
studio, dove passava tutte le ore libere a dipingere.
Rimanemmo là, dove mi mostrò i suoi dipinti.
- Molto belli – gli dissi.
- Grazie, ma ne manca uno che non ho avuto la possibilità di fare: il tuo.
Gli sorrisi e scossi la testa, senza rispondere. Lui sospirò, ormai
rassegnato.
Iniziai a sentire freddo in quella stanza, dove i riscaldamenti erano al
minimo e mi strofinai le braccia per cercare di riscaldarmi. Lui se ne
accorse e mi disse: - Torniamo in salotto, davanti al camino?
Io annuii grata di quel suggerimento.
Prima di uscire, Giorgio prese un album da disegno, una boccetta di
inchiostro, un pennino e un pennello fine. Lo guardai incuriosita e lui mi
rispose: - Per disegnare mentre chiacchieriamo.
Io alzai le spalle e lo ammonii: - Basta che non disegni me.
- Mi piacerebbe, lo sai, disegnarti come ti vedo io. Non sei minimamente
curiosa? – mi chiese, col suo tono ammaliatore.
Sì, curiosa lo ero, lui lo capiva e quindi giocava su quello per farmi
cedere.
- Dai, piccola, è un disegno con la china. Se non ti dovesse piacere, ma
mi darai il permesso di tenerlo, prometto che non lo farò vedere a nessuno.
Quando mi guardava con quello sguardo da cagnolino che vuole
qualcosa dal suo padrone, non sapevo resistere, quindi alla fine cedetti.
- Ok, - gli dissi. – Ma solo per questa volta.
Lui mi sorrise e tornammo in salotto, dove Giorgio prese una coperta e
dei cuscini dal divano e li posizionò davanti al camino.
- Avrai i piedi ghiacciati – mi disse, togliendosi le scarpe. – Io li ho gelati
e zuppi – e si tolse anche i calzini. Poi si sedette sulla coperta, dicendomi: -
Dai, togliti quelle galosce e raggiungimi.
Lo ascoltai e poi mi sedetti sulla coperta, accanto a lui. In quel momento
Spencer, il gatto, saltò giù dalla sedia a dondolo e si venne ad accucciare
sulle mie gambe incrociate.
- Gli piaci – mi disse. – È raro che fa così con le persone.
Io sorrisi, accarezzando quel bel pelo morbido.
Parlammo, come facevamo sempre, un po’ di tutto, e quei pochi silenzi
che arrivavano, non erano per niente imbarazzanti.
Dopo circa quaranta minuti lui esclamò: - Finito!
- Oh, non so se chiederti di vederlo o meno.
- Sei troppo insicura di te stessa – mi rimproverò. – Ma non so se fartelo
vedere o meno.
Quella frase risvegliò la mia curiosità e gli ordinai: - Ora me lo fai
vedere!
- Promettimi che non ti arrabbierai.
- Perché dovrei arrabbiarmi? – gli chiesi, insospettita.
Lui con un sorriso mi passò l’album da disegno e io, vedendo ciò che era
raffigurato, mi sentii come se fossi cascata dentro il camino acceso: di
sicuro ero arrossita.
Il disegno raffigurava una fata, con le grandi ali spiegate in volo e le
braccia a coprire il seno, in segno di pudicizia. Il pube era raffigurato con
un triangolino di peli, con le cosce unite strettamente e le caviglie
incrociate. Quella fata aveva le mie sembianze.
Vedendo che non proferivo parola, Giorgio mi chiese: - Allora? Che ne
pensi? Sei arrabbiata con me?
Scossi la testa e risposi: - Arrabbiata no, imbarazzata sì.
- Scusa, non volevo imbarazzarti – mi disse lui, con sorriso.
- È così che mi vedi? – gli chiesi.
- Sì, è così. Una fata stupenda, ma insicura di sé e del suo fascino.
- Ma mi hai disegnata...nuda! – ribattei, ridandogli l'album.
- Perché è così che vorrei vederti. – disse Giorgio, posando l'album a
terra e avvicinandosi. Diede un piccolo schiaffetto sul sedere del gatto e
questo, scocciato per essere stato disturbato, si alzò e si allontanò, per
tornare sulla sedia a dondolo.
- Perché l’hai cacciato? – gli chiesi.
- Perché altrimenti non potrei fare questo – mi rispose, prendendomi in
braccio e baciandomi.
Mi prese alla sprovvista e all’inizio restai inerme sotto il piacevole
assalto della sua bocca. Ma quando con la lingua cercò di aprire la mia, di
bocca, lo accontentai e risposi al bacio, mettendogli le mani intorno al collo.
Lui interruppe il bacio e mi disse: - Voglio vederti come in quel disegno:
nuda. E voglio adorare il tuo corpo con la mia arte. Me lo permetti?
Io annuii, incapace di proferire parola e lui iniziò a togliermi il maglione.
Volli togliere il maglione anche a lui, quindi infilai le mani sotto
l’indumento, ma lui mi fermò, dicendomi: - Dopo. Ora fatti guardare in
tutto il tuo splendore – e mi tolse anche il dolcevita e la canottiera,
lasciandomi in reggiseno, gonna e calze.
Con le mani scese, accarezzandomi, dalle guance al collo, dalle spalle
alle braccia, per poi passare al seno nascosto dal reggiseno. Il mio respiro,
così anche il suo, era affannato, come se avessi corso.
Mi portò le mani alla chiusura della gonna. – Alza il sedere – mi disse. Io
obbedii e la gonna scomparve nel mucchio dei vesti già tolti. Fece la stessa
cosa con le calze e rimasi in biancheria intima.
Pian piano Giorgio mi tolse anche il reggiseno, accarezzandomi i
capezzoli, già induriti.
- Proprio come me li immaginavo – disse, portando la bocca su uno e
succhiandolo.
Io trattenni il respiro, in preda al piacere, ma volevo di più. Lui passò
all’altro capezzolo, riservandogli lo stesso trattamento.
- Dio, sei stupenda, piccola – mi disse, togliendomi anche gli slip e
facendomi stendere sulla coperta, con la testa appoggiata al cuscino.
Giorgio si protese a prendere la china e il pennello, che passò intorno ai
miei capezzoli.
- Che intenzioni hai con quella china? – gli chiesi, con voce rauca, piena
di desiderio.
- Te l’ho detto: voglio adorare il tuo corpo con la mia arte. Non ti
preoccupare, si toglierà poi – e continuò a passarmi il pennello pulito da un
capezzolo all’altro, per poi scendere giù, lungo il ventre, fermandosi a
giocare con l’ombelico e poi andare fino al pube, dove mi allargò le gambe.
Io lo lasciavo fare: mi piaceva ciò che stavo provando.
Mi passò il pennello sul clitoride, facendomi sobbalzare. Scese giù, fino
alle labbra intime, per poi tornare sul clitoride e iniziare a giocarci.
- Ti piace? – mi chiese, come se non l’avesse capito dalle reazioni del
mio corpo.
- Molto – gli risposi, sempre più eccitata.
Mentre ancora continuava a giocare con il pennello sul mio clitoride, si
succhiò un dito, facendomi gemere ancora di più, e poi me lo infilò nella
vagina, facendomi inarcare i fianchi.
Tolse il pennello dal clitoride e lo sostituì con la bocca, e io urlai dal
piacere.
Dio, quanto era bravo! Il ritmo del dito aumentò e lui, senza smettere di
succhiare, guardò il mio viso, scorgendo tutte le meravigliose sensazioni
che provavo.
Si accorse anche che ero vicina all’orgasmo perché, togliendo la bocca e
sostituendola con indice e pollice della mano libera che iniziarono ad
accarezzare il clitoride, strizzandolo, mi disse: - Vieni, vieni per me,
piccola.
E io venni, tremando dal piacere. Lui mi abbracciò e baciò, per poi
riprendere in mano il barattolino di china e infilarci dentro il pennello che
aveva usati su di me. Iniziò a dipingermi il corpo, provocando ad ogni
pennellata un brivido di piacere.
Mi domandavo cosa stesse disegnando e quindi alzai la testa per
sbirciare. Lui se ne accorse e mi disse, spingendomi di nuovo la testa sul
cuscino: - No, non sbirciare. Dopo vedrai.
La sua voce era rauca, piena di desiderio, ma eccitato continuava a
dipingermi il corpo. Era partito dalle clavicole e in quel momento era
arrivato al ventre.
Sentii che faceva un ghirigoro intorno all’ombelico, per poi finire di
dipingere sopra il triangolino di peli del pube.
- Ora puoi guardare – mi disse, facendomi alzare e portandomi davanti
all’enorme specchio che si trovava in un angolo del salotto.
Ciò che vidi mi tolse il fiato: sul mio corpo era disegnata una foresta
incantata e Giorgio aveva usato l’ombelico come la tana nell’albero di uno
scoiattolo.
- Un regno incantato per una meravigliosa fata – mi spiegò, vedendo la
mia faccia sbalordita.
Io non sapevo che dire: aveva trasformato il mio corpo in un regno pieno
di magia, con alberi incantati e un limpido ruscello, dove le ninfee facevano
il bagno. O almeno credevo che fossero ninfee. Guardando meglio notai che
avevano le ali.
- Sono le ancelle della regina delle fate, quelle che fanno il bagno nel
ruscello – mi disse lui, che aveva seguito il mio sguardo sotto il petto, dove
aveva disegnato il corso d’acqua. Sopra di esso, i seni erano stati trasformati
in montagne e i capezzoli in alberi in lontananza, dove lui vi aveva aggiunto
altri puntini vicino.
- È stupendo – risposi, un po’ imbarazzata, guardandolo negli occhi
attraverso lo specchio.
Poi mi girai verso di lui e, dopo avergli dato un bacio sulle labbra, gli
sussurrai: - Grazie.
- Di cosa? – mi chiese, accarezzandomi il labbro inferiore con l’indice.
- Di avermi fatto bella.
- Non c’era bisogno del mio disegno: tu sei già bella.
- Anche tu lo sei – gli dissi. – E mi piacerebbe guardarti, come tu hai
guardato me.
Stavolta mi permise di togliergli il maglione e slacciargli la camicia.
Entrambi raggiunsero il mucchio dei miei indumenti. Sotto la camicia lui
non portava nulla, quindi iniziai a baciargli il collo.
- Piccola, cosa stai facendo? – mi chiese, inghiottendo a vuoto.
- Non so disegnare – risposi. – Ma voglio ricambiare il piacere che mi
hai dato prima.
Scesi con la lingua al suo petto e iniziai a leccargli i capezzoli. Lui mi
spostò, in modo che lo specchio riflettesse i nostri profili e tutto ciò che gli
stavo facendo.
- Così posso vedere bene come mi dai piacere – mi disse.
Se questo lo faceva eccitare di più, ero contenta. In fondo, il pensiero che
lui guardasse attraverso lo specchio ciò che gli stavo facendo, faceva
eccitare anche me.
Iniziai a succhiargli prima un capezzolo e poi l’altro e, nel frattempo, gli
slacciai i pantaloni. Questi caddero a terra e lui, allontanandosi un attimo da
me, se li tolse, insieme ai boxer grigi.
Dio, nudo era stupendo! Non che da vestito non lo fosse, ovvio.
Il suo membro svettava fiero e virile sotto un ciuffo di peli neri come i
suoi capelli. Le sue gambe erano muscolose, di uno a cui piaceva fare
movimento.
Lui si fece guardare senza problemi, senza mettermi fretta, senza darmi
alcun ordine.
Dopo un po’, però, mi chiese: - Ti piace tutto questo?
Io non risposi, mi inginocchiai davanti a lui, afferrai con bramosia la sua
potenza con una mano, mentre portavo le labbra ai testicoli e cominciai a
succhiarglieli.
- Dio, bella, mi farai impazzire – disse lui, trattenendo il fiato. Beh, era
proprio quello il mio scopo!
Dopo aver terminato lì, estesi l'azione su tutto il membro, fino al glande,
mordicchiandolo e assaporandolo con vivo gusto.
Lui strinse pugni e denti, probabilmente per trattenere il desiderio. Io
presi a muovere la testa facendo su e giù e giocando con la lingua.
Dopo un po’ mi alzai e gli ordinai: - Toccami.
Lui non se lo fece ripetere due volte e mi accarezzò.
- Guarda allo specchio ciò che ti sto facendo – mi disse, girandomi verso
l’oggetto e mettendosi dietro di me. Attraverso lo specchio vidi che mi
accarezzava i capezzoli e me li strizzava. Io chiusi gli occhi dal piacere, ma
lui mi ordinò: - Apri gli occhi, piccola, e guarda ciò che ti sto facendo. Sto
adorando il tuo corpo, tutta l’adorazione che merita.
Io riaprii gli occhi e vidi che le sue mani scendevano giù, passando
sull’inchiostro ormai asciutto, fino ad arrivare al pube. Mi accarezzò
nell’intimità, facendomi gemere.
Mi baciò il collo, trasmettendomi altri brividi di piacere e iniziò ad
inchinarsi, lasciando sulla mia schiena un’erotica scia con la lingua, fino ad
arrivare al mio sedere, che mi baciò e morse, per poi baciarlo di nuovo.
Intanto con la mano continuava a penetrarmi la vagina e toccare il
clitoride.
- Dio, Giorgio, ti voglio – gli dissi, in preda all’orgasmo che lui mi aveva
procurato, amplificato dal fatto che vedevo tutto.
Lui allora si alzò, mi prese in braccio e mi riportò davanti al camino,
sulla coperta.
Mi ci stese e poi mi allargò le gambe. Sentivo che stava ammirando la
mia femminilità bagnata e calda e poi lo sentii allargare le labbra con le
mani, per poi infilarci la lingua dentro.
Gli accarezzai i corti capelli neri, in preda al desiderio.
Mi fece raggiungere un altro orgasmo e poi si mise sopra il mio corpo,
reggendosi con i gomiti per non pesare su di me.
- Ottimo – mi disse, sorridendo. – Hai un ottimo sapore.
- Anche tu – gli risposi, afferrandogli l'organo del piacere e portandolo
verso la mia intima apertura. Lui mi assecondò e, con una poderosa spinta,
entrò in me, iniziando subito a muoversi. Dio, come mi piaceva! Ad ogni
affondo trasalivo sempre di più, e la stessa cosa si poteva dirsi di lui.
- Cristo, piccola, non ti resisto più – mi disse, aumentando sempre di più
il ritmo.
Misi i talloni a terra e inarcai il bacino, per sentire meglio i suoi affondi.
Con un’ultima spinta, raggiungemmo insieme l’orgasmo.
Lui si spostò subito per non pesarmi e mi trascinò nell’incavo della sua
spalla, dove io ero felicissima di stare.
Lui si addormentò poco dopo, ma io non ci riuscii. Senza svegliarlo, mi
alzai e andai a guardare dalla finestra: aveva smesso di nevicare. Mi girai di
nuovo verso di lui e capii che il nostro rapporto non sarebbe più stato quello
di prima.
Forse era meglio che andavo a riflettere a casa mia, ora che aveva
smesso di nevicare. Recuperai i miei abiti da vicino al camino oramai quasi
asciutti, presi l’album da disegno, la china e il pennino per lasciargli un
messaggio. E fu allora che rividi il disegno. Lo tolsi dall’album e iniziai a
scrivere: "Grazie per oggi, ma è meglio che me ne torni a casa, a riflettere.
Ha smesso di nevicare, quindi non avrò problemi. Il disegno puoi tenerlo.
So che il nostro rapporto non sarà più come prima, ma se vuoi ci sentiremo
per sabato. Ti voglio bene."
Gli lasciai il messaggio accanto alla testa, gli lanciai un bacio per non
svegliarlo, mi misi sciarpa, cappotto, cappello e guanti ed uscii
accompagnando la porta, senza far rumore.
Tornata a casa mi preparai un bagno caldo. Mi dispiaceva togliermi
quello stupendo disegno, ma ero congelata.
Dopo il bagno caldo mi accorsi che il disegno non era scomparso del
tutto.
Avevo appena finito di vestirmi, quando sentii suonare alla porta. Andai
ad aprire e mi ritrovai davanti lui, con in mano il mio messaggio.
- Tu mi hai colpito qui – e si indicò il cuore. – E qui – disse, portandosi
la mano alla fronte.
Io sorrisi, sapendo cosa significava ciò che aveva appena detto.
- Quindi, - continuò lui. – Perché aspettare sabato?
Il mio sorriso si fece più grande e lo feci entrare. Lui mi baciò e mi portò
verso la camera da letto, dove tutto ricominciò...
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

LA QUERCIA SACRA
Galles occidentale, 1255

Era notte fonda e nel Bosco di Ayr, nel sud del Galles, non si vedeva
nessuno, tranne una gatta nera, solitaria, che correva veloce.
Anche gli uccelli notturni tacevano, così come il vento che,
improvvisamente, era calato.
Non era un buon segno e la gatta si fermò in uno spiazzo illuminato dalla
luna, si guardò intorno, il suo istinto le sussurrava forte che qualcosa non
andava.
All’improvviso, sentendosi osservata, si girò verso una macchia più fitta
di alberi, con i baffi che le vibravano. Nemmeno quello era un buon segno,
e tantomeno lo erano quegli occhi azzurri che la fissavano, nel buio,
catturando il suo sguardo.
Ecco, lo sapeva, lui l’aveva trovata. Avrebbe riconosciuto quegli occhi
ovunque. L’aveva visti per mesi, che la osservavano, scrutavano, leggevano
dentro. E infatti non si sbagliava: gli occhi azzurri si avvicinarono
lentamente e, con loro, comparve un lupo dal folto manto bianco.
La gatta iniziò a soffiare, sapendo bene che non sarebbe servito a nulla.
Il lupo la guardò con occhi divenuti oramai azzurro ghiaccio, segno che
era arrabbiato.
La gatta indietreggiò, suo malgrado, mentre il lupo si avvicinava sempre
più, ad ogni passo minaccioso più che mai.
In un batter di ciglia, la belva scomparve e al suo posto la gatta dagli
occhi color miele si ritrovò davanti un uomo alto, con i lunghi capelli
bianchi legati da un nastro nero. Gli occhi color azzurro ghiaccio erano
impressi in un volto giovanile, molto bello, che aveva fatto innamorare
decine di fanciulle di Ayr. La bocca era carnosa, anche se in quel momento
era ridotta ad una linea sottile per l’irritazione. Per lui, inseguire quella gatta
era una questione di onore, non le avrebbe mai permesso di fuggire.
Il suo virile e muscoloso corpo era coperto da un gilet nero, che lasciava
gli avambracci scoperti, allacciato a metà, facendo intravedere una porzione
di quel possente torace, ricoperto da una leggera peluria bianca.
Le gambe erano fasciate da un paio di pantaloni di pelle di daino,
anch’essi neri, come neri erano gli stivali al ginocchio che calzava.
Quelle lunghe gambe fecero altri passi, costringendo la gatta ad arretrare
fino a una quercia. I peli della coda le si rizzarono e, girandosi, si accorse di
essere arretrata fino alla Quercia Sacra di Ayr, la quercia che dava la vita al
villaggio, o almeno era quello che credevano le persone come lei e come
lui.
Riportò lo sguardo sull’uomo e vide che non si era mosso. Le labbra non
erano più ridotte ad una sottile linea, ma sorridevano.
- Suvvia, Megan, non vorrai arrampicarti sulla Quercia Sacra pur di
scappare da me – disse l’uomo con un tono di voce dolce. I suoi occhi, da
azzurro ghiaccio, erano diventati del colore del cielo in estate, segno che
l’irritazione e la rabbia provati prima erano scomparsi. Forse perché sapeva,
come lo sapeva la gatta, che ce l’aveva in pugno, ormai.
- Non puoi sfuggirmi, Megan – rincarò la dose l’uomo. – Allora perché
non ne parliamo?
Gli occhi del felino si socchiusero, sospettosi, ben sapendo che l’unico a
parlare sarebbe stato lui, mentre a lei sarebbe toccato ascoltare in silenzio.
Stanca di quel despotismo, la gatta era scappata dal Castello del Principe
Lucien del Regno di Kilmarnack, che si trovava appollaiato su di una
scogliera, dove sovrastava il Villaggio di Ayr, per poi finire nel bosco
incantato, da dove traevano tutta la loro magia. E non aveva nessuna
intenzione di tornare in quel maniero alle condizioni di quel principe che
adorava comandarla. Lei lo amava, ma non era sicura che lui provasse gli
stessi sentimenti.
Quindi decise di tentare il tutto per tutto e, spiccando un salto, oltrepassò
il principe, lasciandogli un graffio sulla guancia sinistra. Almeno così
avrebbe capito che lei rispondeva solo a sé stessa.
Ma non aveva fatto i conti con i suoi poteri, già normalmente potenti e,
in quel luogo, vicino alla Quercia Sacra, ancor di più amplificati.
Lucien si girò con occhi di nuovo azzurro ghiaccio, verso quella gatta
nera e, prima che lei toccasse terra, con uno schiocco di dita le imprigionò
le zampe anteriori e posteriori con delle corde comparse dal nulla, facendola
ricadere malamente.
La gatta nera a quel punto si trasformò istantaneamente in una splendida
donna, con mani e piedi legati.
I folti capelli neri come una notte senza luna le caddero sugli occhi color
ambra, occhi da gatta. Con una scrollata della testa cercò di farli ricadere
indietro, ma ci riuscì solo in parte.
Lucien le si avvicinò e, con una carezza, glieli sistemò dietro un
orecchio. Lo sguardo della donna era ostile e, se i poteri di Lucien non
fossero stati più forti dei suoi, si sarebbe già ritrovato incenerito. Ma Megan
non era stupida: sapeva che qualsiasi magia avesse usato contro di lui, le si
sarebbe ritorta contro.
Lo sguardo di Lucien continuò ad esplorare il suo viso: dagli occhi scese
al naso, piccolo e perfetto, da vera aristocratica quale era, una contessina
del Regno di Kilmarnack, scelta da lui come sua sposa. Le labbra erano
piene e rosse, dolci da baciare, questo Lucien lo sapeva perfettamente. Le
aveva assaggiate tantissime volte, in quei mesi, ma non ne aveva mai avuto
abbastanza, anche se si era mostrata sempre fredda e passiva.
Il suo corpo perfetto, che conosceva a menadito, era fasciato in un abito
da contadinella marrone, che le arrivava fino alle caviglie. I piedi, invece,
erano nudi.
Lucien scosse la testa e le disse: - Megan, mia adorata, questo
abbigliamento non ti rende giustizia. Sei la Principessa del Regno di
Kilmarnack. Meriteresti di vestire in abiti di seta e raso.
Detto ciò, alzandosi, scoccò le dita e l’abito da contadina si trasformò in
uno di seta azzurro, come gli occhi di Lucien in quel momento. La rabbia
derivata dalla sua fuga prima e dal graffio poi, era scomparsa guardandola.
La scollatura quadrata lasciava poco alla fantasia, esponendo buona parte
del generoso seno ai suoi occhi famelici.
Il vitino di vespa la fasciava perfettamente, per poi allargarsi e lasciar
spazio alle ampie gonne che le coprivano le gambe snelle.
Al collo portava una collana con un ciondolo di zaffiri, abbinata agli
orecchini e al bracciale. All’anulare sinistro la sua fede nuziale, anch’essa
corredata di un piccolo zaffiro blu intenso, la pietra della casata di Lucien.
I piedi nudi erano stati rivestiti da un paio di scarpe da ballo azzurre.
Pure le corde, infine, si erano trasformate, e ora era legata con della seta e
non più con una ruvida fune.
- Oh, ora va meglio – decretò Lucien, battendo le mani. – Ma c’è ancora
qualcosa che non va.
Megan lo guardò furiosa e rispose: - Sì, hai proprio ragione. Sono ancora
legata!
Lucien fece di no con la testa, ignorando il suo tono pieno di astio, anche
se non se lo aspettava. In quei mesi era stata la più docile delle donne e,
quando si accorse che era fuggita, lo stupore l'aveva invaso, insieme all’ira.
E se ci ripensava, tutta la sua rabbia tornava in superficie.
Megan lo capì dallo sguardo, che era diventato freddo. Quindi iniziò a
indietreggiare trascinando il sedere e i piedi a terra.
Lucien se ne accorse e la immobilizzò con uno schiocco di dita.
- No, Megan, così rovinerai il vestito.
- All'inferno, Lucien, tu e il vestito!
Megan aveva paura di aver esagerato, ma Lucien scoppiò a ridere,
facendo scomparire il gelo dagli occhi.
Era stupita: in quei mesi era stata docile per non farlo arrabbiare, come le
aveva ordinato il Conte, suo padre, ma non era servito a molto. Ora, invece,
che era stata sfacciata e si era ribellata, lui rideva!
Lucien smise di ridere e si accorse dello sguardo confuso della fanciulla.
Si avvicinò e le toccò i capelli sciolti. Ecco cosa non andava! Non aveva
una pettinatura adatta, ma lui amava quei capelli ribelli.
- Perché quello sguardo confuso, mia dolce Megan? – le chiese,
portandosi una ciocca sul viso. Profumava di rose e di bosco, profumava di
Megan.
- Hai riso – gli rispose. – In questi mesi non lo hai mai fatto. Eri
sempre... – si interruppe un attimo e poi concluse: - Burbero.
- E ti ho spaventata? – le chiese, accarezzandole la guancia.
Lei fece di sì con la testa. Gli occhi di Lucien divennero di un azzurro
cupo: era dispiaciuto di averla impaurita, ma lei non era quella che si
aspettava, alla fine. Credeva di aver scelto una sposa che gli sapesse tener
testa, il suo istinto da lupo glielo diceva, ma lei si era dimostrata sempre
remissiva.
Ma non prima, quando lo aveva praticamente mandato al diavolo.
- Com’è la vera Megan? – le chiese, accarezzandole il labbro inferiore
col pollice. – Non la fanciulla docile che ho visto in questi mesi, vero?
Megan fece di no con la testa e Lucien gioì, sicuro che il suo istinto non
lo aveva ingannato.
- Devi essere passione pura, Megan!
Lucien si alzò e con un ennesimo schioppo di dita i legacci di seta
scomparvero.
La ragazza si alzò, pronta alla fuga se avesse capito che voleva farle del
male. Ma non sembrava fosse quella la sua intenzione.
- Ti leggo nella mente, Megan – le disse, con tono dolce. – Lo vedo dai
tuoi occhi che vorresti scappare, ma non farlo.
Lucien le si avvicinò e le disse: - Mostrami la vera Megan. Sono stufo di
possederti, mentre tu rimani passiva. Voglio vedere la tua vera natura.
Megan non sapeva che dire. Lucien era l’unico uomo che avesse
conosciuto intimamente e con lui aveva sempre represso i suoi istinti felini.
Lucien si allontanò, i suoi occhi azzurro vivo potevano significare solo
una cosa: la sua mente era entrata in azione.
Megan continuava a chiedersi quali fossero le sue intenzioni. Lui la fissò
e gli occhi divennero color zaffiro, lo sguardo della passione.
Oddio, voleva fare l’amore là, vicino alla Quercia Sacra?
Lucien fece schioccare le dita e Megan si ritrovò ad indossare un negligé
azzurro, che non nascondeva quasi nulla.
I capezzoli erano visibili sotto la sottile stoffa dell’indumento, così come
era visibile il triangolino di peli.
Con un urlo, Megan cercò di ripararsi con una coperta che materializzò
dal nulla, ma Lucien glielo impedì, facendola a sua volta scomparire.
Le si avvicinò e le disse: - Lasciami il piacere di spogliarti, Megan.
- Sono già mezza nuda, Lucien, se per caso non te ne fossi ancora
accorto!
Lucien sorrise e continuò: - Sì, Megan, me ne sono accorto. Niente più
camicie da notte caste, da ora in poi.
Iniziò a toccarle con lussuria un capezzolo da sopra il sottile velo di
stoffa, che si indurì subito. Lucien lo leccò, bagnando l’indumento e Megan
gemette.
Dopo la prima notte di nozze avevano avuto rapporti veloci, senza
preliminari. Non che quella notte ve ne fossero stati tanti, il minimo per
prepararla all’invasione carnale di Lucien.
- Che... che intenzioni hai, Lucien? – chiese Megan, con fatica.
Lui alzò lo sguardo da quel bellissimo seno pieno, e lo portò sul viso. La
passione e il desiderio, trasparivano dai suoi occhi. Era stupenda.
- Amarti, ovviamente – rispose Lucien.
- Ma non possiamo, sotto la Quercia Sacra – obiettò lei.
- Certo che possiamo, mia dolce Megan – disse Lucien, accarezzandole
con il pollice un capezzolo eretto, facendole sfuggire un gemito.
Pian piano lui le tolse il negligé, lasciandola nuda davanti ai propri
occhi.
Il suo pene, già duro da quando la fanciulla aveva abbandonato le
sembianze di gatta, si indurì ancora di più.
- Lucien, io non so se sia il caso – ribatté Megan, imbarazzata nel
trovarsi nuda davanti a lui, ancora tutto vestito, indietreggiando.
- Io credo di sì, Megan – la contraddisse lui. – È ora che mi fai vedere il
tuo vero essere. È ora che ci amiamo veramente.
Detto ciò, iniziò a slacciarsi il gilet e se lo tolse, rimanendo a torso nudo.
- Avvicinati, Megan – le ordinò, rimanendo fermo. Ma i suoi occhi erano
più che eloquenti: le dicevano, le promettevano, che non si sarebbe pentita
se gli avesse dato ascolto.
Quindi Megan seguì il richiamo di quegli occhi e, timidamente, gli si
avvicinò.
Lucien non la sfiorò nemmeno, non fece nulla, se non dirle: - Toccami,
Megan. Voglio sentire le tue mani sulla mia pelle.
Megan iniziò ad accarezzargli timidamente il torace. Passò i pollici sui
suoi capezzoli, come lui aveva fatto prima con lei, e si accorse che
tratteneva il respiro. Allora scese con le mani, fino al ventre piatto, con una
carezza lieve come un alito di vento.
Lucien continuava a non fare nulla, se non guardarla, attendendo la sua
prossima mossa. Che arrivò poco dopo.
Le mani di Megan scesero sull’allacciatura dei pantaloni di Lucien, ma
là si fermarono, incerte.
- Hai paura, mia dolce Megan? – la stuzzicò Lucien, con una luce
maliziosa negli occhi azzurri. – Pensavo che fossi una micia temeraria.
Lei non rispose, ma lo scrutò con il suo sguardo felino, che lo faceva
impazzire dal desiderio. Però decise di portare pazienza, e attendere.
- Allora? – la spronò. – Che vuoi fare?
Megan rispose aprendogli l’allacciatura dei pantaloni, facendo uscir fuori
il suo consistente membro oramai eretto, pronto per possederla.
Per un momento la ragazza smise di respirare per l’effetto che le faceva.
Lucien continuava a guardarla, affascinato dalle emozioni che le leggeva
negli occhi.
La bocca di Megan andò a posarsi su un capezzolo di Lucien, con gesti
meccanici, così come era accaduto poco prima quando la sua mano aveva
afferrato il membro.
Megan iniziò a leccare, mordicchiare e succhiare prima un capezzolo,
poi l’altro, ogni momento sempre più sicura di sé. E anche la mano lo
divenne mentre accarezzare la virilità di Lucien, che si induriva sempre
più.
Lucien, già senza fiato, si sentì perduto nel momento in cui la bocca di
Megan lasciò i suoi capezzoli per intraprendere una lenta marcia verso il
pene.
La fanciulla si mise in ginocchio e gli diede tantissimo piacere con la
bocca, aiutandosi con le mani. Iniziò a succhiarlo e leccarlo, mentre con la
mano gli accarezzava i testicoli.
- Dio, Megan! – urlò Lucien, accarezzandoli i capelli. Sentiva di stare
per esplodere ma non poteva permetterselo, quindi staccò la ragazza da sé,
dicendo: - Ora mi diverto io.
Megan lo guardò confusa, pensando di aver fatto qualcosa di sbagliato,
ma lui la rassicurò inginocchiandosi accanto a lei e baciandola con
passione.
Iniziò a succhiarle i capezzoli, mentre una mano andava a cercare il
clitoride, quel piccolo bottoncino che, ne era sicuro, l’avrebbe fatta urlare di
piacere. E infatti non si sbagliava: Megan emise prima un gemito di goduria
poi, ad una pressione maggiore sul clitoride, urlò, in preda ad emozioni mai
provate.
Lucien la fece alzare, anche se Megan non era sicura di riuscire a
reggersi sulle gambe, e con la bocca andò al cuore della sua femminilità,
infilandole la lingua all’interno.
In preda all’orgasmo, Megan si appoggiò alle spalle del marito. Stava per
crollare in ginocchio, quando lui si alzò e la sospinse verso la Quercia
Sacra, facendocela appoggiare.
Stava per possederla contro quell’albero, Megan lo sapeva, ma, arrivata a
quel punto, non le interessava più tanto.
Lucien la prese in braccio, dicendole: - Avvinghia le tue gambe intorno a
me.
Megan obbedì e Lucien la penetrò con una possente spinta. In quel
momento la Quercia Sacra si accese, illuminandosi, ma nessuno dei due ci
fece poi tanto caso, immersi nella passione com’erano.
Lucien spingeva sempre di più, ma non voleva arrivare al capolinea
senza prima aver fatto godere Megan fino in fondo, quindi mise una mano
tra i loro corpi e premette un dito sul clitoride.
Megan singhiozzava dal piacere, vedendo la meta dell’oblio sempre più
vicina, sapendo che tra un po’ sarebbe esplosa in mille pezzi, per poi
ricomporsi tra le braccia di Lucien.
- Sì, vieni, mia dolce Megan – le sussurrò lui, sulle labbra. E Megan
venne, subito seguita dal compagno.
In quel momento la luce emanata dalla Quercia Sacra si intensificò,
illuminando il bosco a giorno.
Lucien e Megan crollarono a terra, sfiniti ma appagati e felici.
- Guarda la Quercia Sacra – disse Megan, col fiatone, fissando l’albero
sacro che sprigionava la forte luce.
Lucien sorrise. Sapeva cosa significava ciò: ogni qual volta che un
Principe del Regno di Kilmarnack concepiva un erede con la donna del suo
cuore, la Quercia Sacra si risvegliava, illuminando il bosco e tutto il
Villaggio di Ayr con una luce magica, che annunciava l’arrivo del nascituro
dopo nove mesi.
Erano mesi che Lucien aspettava di vederla quella luce o sentire gli
abitanti parlarne. E finalmente era accaduto.
- Perché sorridi, Lucien? – gli chiese Megan, confusa.
- Perché ti amo, mia dolce Megan – le rispose lui. – E so che tu ami me.
- Davvero? Ne sei proprio sicuro? – lo stuzzicò lei, sapendo bene che lo
amava: l’aveva amato sin dal primo giorno.
- Certo – ribatté Lucien. – Altrimenti la Quercia Sacra non brillerebbe
così, annunciando a tutto il Villaggio il nostro amore e che tra nove mesi
esso darà i suoi frutti.
Lucien la baciò, dimostrandole tutto il proprio amore, mentre pian piano
la luce emanata dalla Quercia Sacra affievoliva.
Dieci mesi dopo

Lucien entrò nella nursery del castello, dove la sua bella principessa
stava allattando la piccola Gwen sulla poltrona.
- Salve – la salutò.
Megan gli sorrise, allungando una mano verso di lui. Lucien la prese e si
sedette sul bracciolo della poltrona, accarezzando i capelli neri della sua
bambina nata da un mese, con l’altra mano. Era uguale a sua madre e,
probabilmente, ne avrebbe posseduto anche i poteri.
Megan, avendo finito di allattare Gwen, lasciò la mano di Lucien, si alzò
e posò delicatamente la piccola nella culla rosa, con un gatto nero vicino a
vegliarla.
Poi passò alla seconda culla, azzurra questa volta, dove Evan, il
primogenito dai capelli bianchi come il papà, riposava con il pancino pieno,
vegliato da un lupo bianco.
- Sei felice, mia dolce Megan? – le chiese Lucien, abbracciandola da
dietro.
- Certo, mio principe – rispose lei, appoggiandosi al suo ampio e forte
petto.
Un mese prima aveva partorito due bei gemelli, prima Evan poi, con
gran sorpresa di tutti, tranne della partoriente, era venuta fuori anche Gwen.
- Tu? – gli chiese.
- Certo – rispose lui, baciandole i capelli. – Ma sai cosa mi renderebbe
più felice?
Megan fece no con la testa e allora Lucien glielo sussurrò in un orecchio.
- Far brillare di nuovo la Quercia Sacra.
Megan si girò e, sussurrandogli nell’orecchio a sua volta, chiese: - La
nostra camera o la Quercia Sacra?
Lucien rise piano, per non svegliare i bambini e, prendendola in braccio,
si diresse verso il Bosco di Ayr.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

IL NOME DELL’AMANTE
Roma, inizio estate 2014 – quartiere Olgiata

Questa festa è noiosa!, pensai mentre passeggiavo per le stanze di quella


grande e lussuosa villa.
Ancora oggi non capisco il motivo per cui ci andai se non per
accompagnare la mia amica, affascinata dal proprietario, amico di suo
fratello.
Certo, il tipo, Rodolfo, era sfacciatamente ricco e anche molto bello. Ma,
mi chiedevo tra me, si può rimanere affascinati da uno con un nome del
genere?
Comunque, mentre la mia amica si divertiva a flirtare con Rodolfo, io mi
annoiavo.
Era una bella serata e per cui tutti gli invitati di quella barbosa festa
erano raggruppati in giardino e sul bordo della piscina ed io ero stanca di
tutta quella folla e di tutti quegli occhi maschili che si giravano a guardarmi
con cupidigia… Forse perché ero un volto nuovo, forse perché era la prima
volta che mi vedevano ad una delle frequenti feste di Rodolfo, e quindi ero
una novità per loro, stanchi delle solite donne.
Tutta colpa di Claudia, la mia amica, che non solo mi aveva trascinato a
quel dannato party che, a quanto vedevo, era un miracolo che non si
trasformasse in orgia, ma anche per avermi convinto ad indossare
quell’abito! Il colore mi piaceva, un bel celestino, ma mi fasciava il busto
come una seconda pelle, con la scollatura che quasi mi scopriva il modesto
seno che veniva comunque messo in evidenza dalla stoffa del vestito. La
vita era alta e da sotto il seno partiva la gonna, troppo corta per i miei gusti,
anche se arrivava poco sopra il ginocchio. Mentre ai piedi calzavo un paio
di sandali color argento, con un tacco di cinque centimetri, che iniziavo a
non sopportare più.
Per sfuggire a tutti quegli sguardi famelici, mi rifugiai nel salone, ma
anche lì c’era troppa gente. E così mi ritrovai a passeggiare per quella villa
immensa comprendendo il desiderio di Claudia di far colpo su Rodolfo.
Iniziai ad aprire molte di quelle porte, ma ogni stanza era occupata da
una coppia o da più persone, dedite ad atti non adatti a occhi non abituati a
scene impudiche. Dopotutto, quella festa si era evoluta in tante piccole
orge! Ma dove mi aveva portato, Claudia? L’indomani mi avrebbe sentito!
Finalmente trovai una stanza vuota, entrai e chiusi la porta a chiave, per
non essere interrotta durante il mio momento di solitudine e tranquillità.
Mi guardai attorno, con la fioca luce che proveniva dalle lanterne
sistemate in giardino e mi accorsi di trovarmi nella biblioteca, una delle
stanze più belle che si potesse trovare in un’abitazione.
Accesi la luce, sperando di non attirare gli invitati che vi passavano
davanti dalla parte del giardino. Mi girai verso la porta-finestra e mi accorsi
che c’erano delle spesse tende che decisi di chiudere, in modo che nessuno
potesse sbirciare nella stanza.
Dopo aver fatto ciò, mi tolsi le scarpe, proprio lì, sul posto, senza
neanche accomodarmi, tanta era la voglia e il bisogno di liberarmi di quegli
strumenti di tortura pedestre.
“Che saranno mai cinque centimetri di tacco?”, mi aveva chiesto
Claudia, quando avevo protestato per la scelta delle calzature. Per una che
non ci era abituata, erano tanto!
- Hai intenzione di toglierti anche il vestito? – mi chiese una voce
proveniente dall’angolino buio alla mia destra. Era una voce profonda, che
mi fece venire i brividi; una voce da radio, direi, che ha il potere di attirare
fortemente l’attenzione.
Rimasi bloccata dov’ero, raggelata, perché credevo di essere sola. Ma lui
aveva seguito tutti i miei movimenti, perché continuò, dicendomi: - Prima
entri furtiva, chiudi la porta a chiave, accendi la luce, chiudi le tende ed
infine ti togli le scarpe. Ora mi aspetto che da un momento all’altro sparisca
anche il vestito.
Il suo tono di voce aveva una nota divertita, lo sentivo, come se stesse
scherzando, ma non del tutto. Come se si aspettasse veramente che io mi
togliessi il vestito!
Mi girai verso di lui, ancora nella penombra, non consentendomi di
vederlo bene, a parte la sua ombra, seduto su di una poltrona, che non avevo
notato durante il percorso dalla porta alle tende. Sembrava alto e di
corporatura grossa, ma non grasso.
- Sai parlare, vero? – mi chiese, sempre divertito.
- Certo che so parlare! – mi infervorai. La mia speranza di solitudine, la
mia illusione, era sparita nel momento stesso in cui avevo sentito quella
voce che, mi irrita ammetterlo ora, come mi irritava in quel momento, mi
aveva anche un po’ eccitata.
– Solo che mi hai sorpresa. Cercavo un po’ di pace e solitudine!
Nel mio tono c’era una nota di accusa, ma lui non sembrava averci fatto
caso.
- Mi dispiace per la tua solitudine non ritrovata – mi disse, ancora
divertito. – Ma la pace posso dartela anche io.
Che intende dire, con questa frase?, mi chiesi. Ma avevo timore di
trasformare quella domanda in parole a causa della risposta che avrei
potuto ricevere. Lui però, come se mi avesse letto nel pensiero, o meglio
sul mio viso, dato che aveva il vantaggio di vedermi, aggiunse: - La pace
dei sensi. Quella che si trova dopo un intenso orgasmo.
Eccone un altro!, pensai. Almeno i tipi fuori da quella stanza
manifestavano il desiderio solo con gli occhi e non esprimevano in parole le
loro intenzioni, forse anche per via delle occhiatacce che lanciavo loro.
Invece quest’uomo diceva chiaro e tondo ciò che voleva fare. E non posso
negare che le sue parole avevano accentuato l’eccitazione provocata dalla
sua voce.
Decisi di passare al contrattacco, che ritenevo la miglior difesa di
sempre, e gli risposi: - Perché dovrei scopare con qualcuno che non si degna
nemmeno di farsi vedere e che mi prende alla sprovvista, mentre là fuori ci
sono tanti uomini che hanno il tuo stesso intento e sono ben visibili?
Vidi che si alzava pur rimanendo sempre nell’ombra. Allora decisi di
provocarlo ancora, sapendo benissimo di giocare con il fuoco e che,
probabilmente, mi sarei bruciata. Ma non sono mai stata una ragazza
accorta e di sicuro non lo sarei diventata in quel momento.
- Hai paura di farti vedere, per caso? – gli chiesi, con un tono derisorio.
Forse è un vecchio, o uno sfregiato., pensai. Ma le mie supposizioni
erano molto lontane dalla realtà.
Lui iniziò a camminare, lentamente ma con un’andatura sicura e, dopo
qualche attimo si ritrovò sotto il fascio di luce prodotto dal lampadario,
lasciandomi senza fiato. Era l’uomo più bello che avessi mai visto, in grado
di mettere pensieri peccaminosi anche nella mente di una suora di clausura.
Non mi sbagliavo sulla sua altezza: era alto più della media, più di me
con i cinque centimetri di tacco, contando che anche senza sono già
abbastanza alta. Non mi sbagliavo nemmeno sulla corporatura: era grosso,
ma senza un filo di grasso. Ma la cosa che più mi colpii furono i suoi occhi.
Erano di un colore strano, mai visto prima, tra il grigio e l’azzurro.
Sembravano avere lo stesso potere attrattivo e ipnotico della sua voce.
Sulla quarantina, capelli neri come una notte senza luna, a taglio
militare. E, a farci ben caso, aveva anche il portamento di un militare, ma
non di un soldato semplice, bensì di uno abituato a dare ordini, a farsi
rispettare, ma anche stimato.
Era vestito casual, camicia bianca a maniche lunghe - Ma non ha caldo?,
mi chiesi, visto che stavo soffocando, complice la finestra chiusa e un po’ la
presenza di quell’uomo - e un paio di jeans, che gli fasciavano gambe e
cosce così come il vestito fasciava il mio corpo. Ai piedi calzava un paio di
scarpe da ginnastica.
Rimasi in silenzio, ad osservarlo, impossibilitata a distogliere gli occhi
dai suoi che davano solo più risalto al viso ben fatto, non troppo grasso né
troppo magro, con una fossetta sul mento, delle labbra carnose, un naso
leggermente aquilino, due ciglia da fare invidia a molte donne e una fronte
ampia.
Lui si fece osservare, non mostrandosi spazientito.
- Allora? – mi chiese, facendomi tornare in me. – Pensi ancora che io
abbia paura di farmi vedere?
No, quell’uomo sembrava non aver paura di nulla.
- Secondo me, sei fin troppo abituato agli sguardi delle donne – gli dissi.
- E tu a quelli degli uomini – controbatté.
Scoppiai a ridere, più che altro una risata nervosa.
- Cosa c’è da ridere? – mi chiese.
- A parte uomini lussuriosi, così desiderosi di portarsi a letto la prima
donna disponibile, come quelli presenti a questa festa, non vengo molto
osservata.
- Faccio fatica a crederci – mi disse, sicuro di sé.
- Credi quel che vuoi – ribattei, stringendomi le spalle.
Mi inchinai a prendere le scarpe, camminai verso una poltrona, mi
sedetti per infilarmele, quando la voce dell’uomo mi fermò, chiedendomi: -
Cosa fai?
- Mi rimetto le scarpe e vado a cercare un’altra stanza libera, dal
momento che questa è occupata.
Lui mi si avvicinò con pochi passi e mi tolse le scarpe dalle mani,
informandomi: - Non ci sono altre stanze libere; sono tutte occupate da
coppiette o gruppetti. Le feste di mio cugino finiscono sempre così e, in
cambio della mia presenza, gli chiedo sempre l’uso esclusivo della
biblioteca.
Sorrise, forse divertito da qualche pensiero, che mi espose subito: - Mio
cugino crede che la biblioteca mi serva per incontri libidinosi, magari con
donne diverse tra un’apparizione e l’altra, invece la uso solo per avere un
po’ di solitudine.
Quella che cercavo anche io!
- Scusami, se mi sono infiltrata nel tuo regno – gli dissi, cercando di
riprendermi le scarpe.
Lui le scansò e mi chiese: - Perché sei qui? Non sembri affatto il genere
di donna che frequenta questo tipo di feste.
- Mi ci ha trascinato una mia amica, che spera di far colpo su tuo cugino
– sospirai, stanca di tutto quell’ambiente dove la lussuria regnava sovrana.
L’uomo rise, divertito.
- La tua amica è una vera sciocca se pensa di far colpo su Rodolfo.
Almeno se spera di diventare la sua fidanzata. Si è praticamente scopato
quasi tutte le donne presenti a questa festa!
L’uomo mi guardò per controllare se mi fossi turbata, ma rimase deluso
se sperava una cosa del genere.
- Vedo che non ti scandalizzi facilmente – disse, sorridendo. – Mi piace.
- È difficile sconvolgersi per delle parole come “trombare” e “scopare”
dopo essere entrata in tutte le stanze dal salone a qui e vedere coppie o più
persone che facevano di tutto e di più! – ribattei. – E invece tu, perché
partecipi alle feste di tuo cugino, se poi ti rintani nella biblioteca? – gli
chiesi.
- Perché, sapendo che ci sono anche io, molte amiche di Rodolfo
accettano più volentieri l’invito – rispose, cinico. – Molte di loro sperano di
portarsi a letto uno dei due, oppure entrambi.
Lui si inchinò ai miei piedi e ne prese uno in grembo, tra le mani, E
cambiando discorso: - Non sei abituata a portare i tacchi, vero?
- Da cosa lo deduci? – gli chiesi, assecondandolo. E intanto cercai di
togliere il mio piede dal suo grembo, imbarazzata. Non mi piacciono i miei
piedi. Anzi, non mi piacciono i piedi in generale!
- Dal fatto che prima di toglierti le scarpe, eri sofferente mentre, una
volta tolte, hai sospirato di sollievo – rispose, stringendomi ancor di più il
piede tra le mani. – Buona, non te lo mangio mica – fece con tono energico.
Mi guardò, vide l’imbarazzo sul mio volto, sorrise e disse: - Ti vergogni?
Perché? A me piacciono, i tuoi piedi – ed iniziò a massaggiarmi quello che
aveva tra le mani.
Pian piano iniziai a rilassarmi e chiusi gli occhi. Lui cambiò piede,
riservandogli lo stesso trattamento. Ormai pienamente rilassata, non mi
accorsi di quello che stava facendo, fino a quando non sentii le sue mani
sotto la gonna del vestito, poco sotto le cosce. Non mi mossi, ma il respiro
iniziò a farsi pesante, mano a mano che lui saliva.
Riaprii gli occhi e lo vidi che mi stava guardando, E nello sguardo la
stessa espressione degli uomini fuori da quella stanza. Solo che lui aveva
qualcosa in più. Ancora oggi non so spiegarmi cosa; forse il desiderio non
solo di ricevere piacere, ma anche di darlo.
- Hai una pelle così liscia – mi sussurrò, in tono intimo.
Le sue mani salirono fino al perizoma, che Claudia mi aveva obbligato a
indossare. “Non si sa mai chi potresti incontrare!”, mi aveva detto. Parole
profetiche, pensai in quel momento. Ma tutti i pensieri scomparvero quando
lui arrivò alla porta intima del mio corpo, ancora coperta dal misero
indumento, e iniziò a spingere pian piano con un dito, come se mi volesse
penetrare. Trattenni il fiato, soggiogata dalle sensazioni che mi stava
facendo provare e richiusi gli occhi.
Non mi chiese se mi piaceva: lo capiva dalla mia espressione. Era un
uomo sicuro delle sue arti amatorie tanto da non aver necessità di sentirsi
confermare da una donna se le piacesse ciò che le stava facendo.
All’improvviso tolse quel dito, che stava esercitando quella piccola, ma
intensa, pressione.
Riaprii di nuovo gli occhi, per cercare di capire cosa lo avesse indotto a
fermarsi.
Si era alzato e mi fissava.
- Tu non sembri nemmeno una donna da un’avventura di una sera – mi
disse, con fatica. Ciò che mi aveva fatto, aveva avuto effetti anche su di lui.
- No, non lo sono – risposi, sincera. Ero, e lo sono ancora adesso, una
donna che va a letto solo col proprio fidanzato. – Ma – continuai - questo ti
blocca? Perché, sinceramente, era l’ultima cosa a cui stavo pensando, prima
– gli dissi, alzandomi dalla poltrona. Ero sincera: la mia coscienza si era
azzittita, e non avevo nessuna intenzione di risvegliarla in quel momento.
Ci avrei pensato una volta che mi sarei ritrovata da sola.
- Di solito non mi bloccherebbe, lo ammetto – rispose, avvicinandosi.
- E ora, perché ti blocca?
- Non lo so – e mi prese tra le braccia. Mi appoggiai al suo petto,
sentendomi in pace con me stessa.
- Non farti bloccare dalla tua coscienza – ripresi. – Mi piaceva ciò che mi
stavi facendo.
- Ah, sì? – mi domandò lui, sospingendomi verso il tavolo che si trovava
poco più in là.
- Questi li possiamo togliere – disse, prendendomi gli occhiali.
Mi fece appoggiare al mobile e iniziò ad accarezzarmi il collo, le mani
seguite dalle labbra.
Chiusi nuovamente gli occhi per poter meglio sentire le forti sensazioni
che mi stava trasmettendo.
Fece scendere una spallina del vestito, poi l’altra. Tirò giù la lampo
dietro la schiena e l’abito scivolò a terra, lasciandomi in perizoma; non
portavo il reggiseno, dato che era già incorporato nel vestito.
Lui iniziò ad accarezzarmi il seno, con i capezzoli già eretti, pronti per
essere amati.
- Seno a coppa di champagne – disse, portando le labbra su di un
capezzolo, mordicchiandolo, facendomi sentire quel bisogno giù tra le
gambe di essere riempita, che non sentivo da molto tempo, ormai.
Smise di mordicchiarmelo con i denti e sussurrò: - Areole piccole e
scure, che circondano capezzoli che sembrano due ciliegine, ma dal sapore
più buono – e scese a mordermi l’altro capezzolo.
Ormai la mia lucidità era scomparsa e sentii a malapena ciò che lui
diceva.
Mentre continuava a leccarmi e mordermi prima un capezzolo, poi
l’altro, le mani scesero verso il perizoma e lo abbassarono, facendogli
raggiungere il vestito, già dimenticato.
Una mano andò ad esplorare tra le mie cosce, in quel triangolino di peli
scuri e oramai umidicci, e un dito entrò facendomi sussultare, sia per la
sorpresa, sia per il piacere che mi provocò. Poi un secondo dito lo
raggiunse, mentre il pollice di quella mano birichina iniziava a spingere il
clitoride.
Trattenni un urlo di godimento mordendomi il labbro inferiore e
stringendogli le spalle con le mani, che vi tenevo appoggiate.
- Non trattenerti dall’urlare, dolcezza – mi sussurrò all’orecchio,
staccandosi dal mio seno. – In questa villa è normale sentire urlare le donne
dal piacere – e iniziò a succhiarmi il lobo di un orecchio, mentre le dita
dentro di me aumentavano il ritmo di movimento, sempre più veloce.
A quel punto non riuscii più a trattenere l’urlo di piacere che mi era
salito in gola, seguito da un orgasmo che mi lasciò spossata per alcuni
minuti.
L’uomo ritirò la mano dalla mia femminilità palpitante e mi fece sedere
sul tavolo; mi allargò le gambe e mi si inginocchiò davanti. Aprii gli occhi
appena percepii il suo fiato sulla mia vagina bagnata di desiderio e
dell’orgasmo sopraggiunto poco prima.
All’improvviso mi sentii intimidita, imbarazzata, sapendo che i suoi
bellissimi occhi grigio-azzurri erano tutti concentrati sulla mia parte più
segreta, quindi cercai di chiudere le gambe, come se potessi celargli il mio
essere. Ma le sue mani, sulle mie cosce, me lo impedirono.
- Hai uno stupendo corpo – sussurrò, mandandomi brividi per tutta la
schiena. Portò le mani alle labbra intime e le allargò, per poi baciarmi e
infilarci la lingua dentro.
Trattenni il fiato e mi sentii arrossire, ma non potei, e non volli, impedire
al mio corpo di provare un grande piacere. La lingua dell’uomo si muoveva
esperta, come se non avesse fatto altro nella vita. Succhiò il clitoride,
facendomi nuovamente urlare di piacere, sentendo che un altro orgasmo si
avvicinava inesorabilmente.
Tenendomi sempre le labbra aperte, tornò con la lingua ad assaggiare il
nettare della mia sessualità. E fu a quel punto che raggiunsi ancora la vetta
del piacere.
Lui si rialzò, accarezzandomi un’ultima volta la vulva, si mise tra le mie
gambe e disse: - Hai un ottimo sapore.
Riaprii gli occhi, che non mi ero nemmeno accorta di aver chiuso, e presi
coscienza della situazione: io, nuda, sul tavolo, le gambe spalancate, lui
ancora vestito di tutto punto in mezzo, le sue mani sui miei fianchi, mentre
si leccava le labbra, come se stesse ancora gustando il mio sapore, il sapore
del mio orgasmo.
Allora, dopo essermi ripresa da quell’ultimo, potente momento di
piacere, con una leggera spinta gli feci capire che si doveva scansare. Lui
obbedì, staccandosi da me. Scesi dal tavolo, spostai con un piede gli
indumenti a terra, abbandonati sul mio cammino e mi avvicinai a lui, a
quell’uomo che mi stava facendo fare cose di cui non credevo fossi capace.
Senza una parola, iniziai a sbottonargli la camicia, aprendogliela e
accarezzandogli il petto. Aveva pochi peli, scuri come i suo capelli, che
tracciavano una linea per tutto il torace, fino alla cinta dei jeans.
Probabilmente continuava anche sotto i pantaloni, ma quello, decisi, lo
avrei scoperto dopo.
Gli tolsi la camicia, mentre lui non muoveva un muscolo. Non mi
sembrava, però, il tipo da rimanere passivo mentre una donna, a cui aveva
appena dato piacere, era intenzionata a ricambiarlo.
Buttai la camicia sopra il mio vestito abbandonato e stetti là a guardarlo,
ammirata. Nonostante non portassi gli occhiali, ci vedevo bene da vicino,
soprattutto una volta che la vista si era abituata.
La mia impressione era stata giusta, rendendomene conto ancora di più
in quel momento, col torace nudo. Era muscoloso, sì, ma non come quei
ragazzi palestrati imbottiti di steroidi. Erano muscoli naturali,
generosamente donati da Madre Natura, non avevo dubbi.
Iniziai ad accarezzarlo con la punta delle dita sui capezzoli, un tocco
lieve. Anni fa, scoprii che lo stuzzicare i capezzoli ha, su alcuni uomini, lo
stesso effetto che ha sulle donne. E ovviamente, a quanto pareva, lui era uno
di quelli.
Lo sentii trattenere il fiato e, se la sua reazione era quella per un tocco
impercettibile, se avessi usato la lingua, quale sarebbe stata? Decisi di
scoprirlo.
Dato che lui era più alto di me, le mie labbra si trovavano all’altezza del
suo collo, che iniziai a baciare, per poi leccarlo, mentre gli spingevo i
pollici sui capezzoli.
- Dio, dolcezza! – esclamò lui, con voce roca. Io sorrisi, con le labbra
premute sulla sua pelle.
Con la lingua tracciai una scia, dal collo al petto, portandola su un
capezzolo. Erano piccoli, rosa, circondati da grandi areole scure. La sua
pelle aveva un buon sapore, oltre a un gradevole odore di pulito, senza
profumi o colonie, proprio come preferivo.
A lui piaceva ciò che gli facevo, lo sentivo da suo respiro divenuto
profondo e dalla rigidità assunta dal suo corpo, mentre passavo all’altro
capezzolo.
Continuai a gustarmelo ancora per un po’, poi mi fermai e feci un passo
indietro.
- Che pensi di fare, ora? Scappare? – mi chiese lui, già pronto ad
acciuffarmi se mai mi fossi tirata indietro. Ma quella era l’ultima cosa che a
quel punto avrei mai fatto. Allungai le mani sulla cintura dei pantaloni,
rispondendogli e provocandolo un po’: - No, non scappo, a meno che non
sia tu quello a volersi tirare indietro.
Non era una frase che avrei mai pensato di dire ad un uomo, soprattutto
uno sconosciuto, ma quella sera, a quanto pareva, non ero in me, complice
anche il bicchiere di champagne che il padrone di casa mi aveva messo tra
le mani appena arrivata, e che mi era sembrato scortese non bere. Mi piace,
lo champagne, anche se a piccoli sorsi, ma mi fa fare o dire cose che
normalmente non farei né direi, anche avendone voglia, come in quel
momento.
- Io? Tirarmi indietro? – rise lui, anche se si sentiva dalla voce che era
eccitato. – Arrivati al punto in cui tu mi stai slacciando i jeans per darmi
piacere in tutti i modi possibili? – altra risata, sempre più eccitato, ne ero
sicura, al pensiero di quello che aveva appena detto. – Assolutamente no! –
concluse, nello stesso momento in cui gli abbassavo i jeans.
Lui si tolse le scarpe facendo leva con il piede opposto e si calò i jeans,
seguiti dal boxer, ed entrambi raggiunsero il mucchio di indumenti più in là
con un volo.
Dio, era stupendo! Rimasi a contemplarlo, occhi e bocca spalancati,
affascinata dai polpacci e dalle cosce muscolosi, come se fosse un uomo a
cui piaceva correre.
Poi c’era il suo pene, membro o come lo vogliamo chiamare, che era
splendido in tutta la sua erezione. Era largo e, ne ero sicura, avrebbe
riempito pienamente il corpo di una donna, anche grazie alla sua lunghezza.
Deglutii, incapace per un minuto di fare qualsiasi altra cosa, se non
ammirarlo.
Lui portava pazienza, di nuovo, probabilmente abituato a quell’esame da
parte di una donna.
- Ti piace ciò che vedi? – mi chiese, mentre il suo pene era sempre più
sull’attenti.
Con uno sforzo tornai in me, al presente e passai all’azione.
- Sì, mi piace, tanto da dimostrartelo nel migliore dei modi.
- Accomodati pure, dolcezza.
Quel “dolcezza” non suonava come villania, detto da lui, ma denotava
affettuosità, come se venisse detto da un innamorato alla donna del suo
cuore, e non come un uomo che sta parlando a una sconosciuta con cui sta
per fare sesso.
E io mi accomodai: mi inginocchiai, misi le mani sul suo sedere – era
sodo e liscio, come marmo ma, a differenza della pietra, era caldo – e strinsi
il suo membro tra le labbra e nella bocca. Duro e liscio, come il suo sedere,
e altrettanto caldo. Era difficile assaporarlo tutto e mi aiutai con una mano
che, purtroppo, dovetti staccare dal suo sedere. La misi alla base del pene,
iniziando a masturbarlo mentre succhiavo la parte del membro che riuscivo
ad assaporare. Decisi che l’altra mano poteva occuparsi dei testicoli, e
iniziai ad accarezzarglieli delicatamente.
- Dolcezza, mi stai facendo impazzire! – mi urlò. Io continuai a
succhiarlo, concentrandomi sul glande. Feci uscire il pene dalla mia bocca e
iniziai a passargli la lingua sulla fessura e sulla cappella, da dove usciva un
po’ di liquido. Era buono, aveva un sapore salato.
La mia bocca si spostò sui testicoli, glieli leccai e succhiai, mentre lui mi
infilava le mani nei capelli castani, disfacendomi l’acconciatura fatta da
Claudia.
Ripresi ad assaporare il membro iniziandolo a pompare, su e giù,
aiutandomi con la mano.
- Dio, ti voglio! Ti devo prendere! – esclamò, staccandomi e facendomi
alzare. Tirò un grosso sospiro, come per calmarsi, per riprendere il controllo
di sé, poi mi fece girare e inchinare sul tavolo, allungandomi le braccia in
avanti, esponendo alla sua vista il mio sedere.
- Bellissimo – disse, accarezzandomelo, per poi darci un piccolo
schiaffetto. Sobbalzai ma, contemporaneamente, mi eccitai di più ed emisi
un piccolo gemito, non di dolore, ma di piacere.
- Ti piace? – mi chiese, dandomene un altro.
- Sì – risposi, con voce roca. Ero proprio eccitata ma volevo sentirlo
dentro me, che mi riempiva. – Ma preferirei che mi prendessi!
- Ti accontento – mi rispose, dandomi un ultimo schiaffetto e portando
una mano tra le mie gambe. – Dio, come sei bagnata – gemette, per poi
sostituire con il membro la mano, che portò sul clitoride, mentre l’altra la
mise su un seno, iniziando a toccarmi i due bottoncini
contemporaneamente. E poi iniziò a muoversi. Sentii i suoi testicoli
sbattermi addosso e io non potevo far altro che tenere le braccia stese
davanti, come me le aveva messe lui.
Ad ogni spinta, il desiderio aumentava e pian piano iniziai a volare,
sempre più in alto, fino a quando non esplosi in un terzo orgasmo, che
superava di intensità i primi due messi assieme.
Lui si accorse del mio piacere e mi disse: - Brava bambina. Ora fammi tu
arrivare all’orgasmo. Voglio la tua bocca – e mi girò, facendomi
inginocchiare.
Ero troppo stordita dal piacere per replicare, quindi trovai più facile
obbedirgli.
Afferrai il suo membro e me lo portai alle labbra, pompando e
masturbandolo, mentre lui gemeva e mi toccava i capelli.
Non mi fermai, anzi continuai sempre più veloce, anche se sentivo che la
mano iniziava a farmi male.
All’improvviso lui urlò, mi tirò i capelli, ma non me ne accorsi
nemmeno, sentendo il suo seme caldo che mi scivolava giù in gola.
Era una sensazione del tutto nuova per me, ma il suo sapore mi piacque,
un misto tra salato e dolce.
L’uomo si accasciò sul pavimento, coperto da un folto tappeto, spossato
ma soddisfatto, e mi tirò a sé, facendomi stendere accanto a lui.
Eravamo entrambi sudati, ma non ci interessava molto, non dopo
quell’esperienza, quelle sensazioni mai provate, almeno da parte mia.
Lui si addormentò subito, io invece decisi che era arrivata l’ora di andare
a cercare Claudia per tornare a casa e, se lei non avesse voluto, avrei preso
un taxi.
Non me la sentivo di rivedere quell’uomo fuori da quella stanza. L’unico
mio desiderio era andare a casa, farmi la doccia e mettermi a dormire.
Mi vestii il più silenziosamente possibile, mi rimisi gli occhiali, presi in
mano le scarpe che lui aveva abbandonato ed uscii.
Solo dopo che mi trovai sul taxi, riflettei sul fatto che, di quell’uomo,
non conoscevo nemmeno il nome.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

FRESCA DI STAMPA
Roma, 25 ottobre 1896. Le due del mattino

Era tutta la notte che lavoravo sull’articolo delle nozze del figlio di
Umberto I, Re d’Italia e della regina Margherita, Vittorio Emanuele, con
Elena Petrovic-Niegos, principessa del Montenegro, tenutasi il giorno prima
nella chiesa di Santa Maria degli Angeli. Era stata una cerimonia senza
fasti, con l’assenza della madre della sposa e della benedizione della Santa
Sede, dal momento che a seguito dell’occupazione di Roma avvenuta un
quarto di secolo prima e la conseguente scomunica lanciata dal pontefice
Pio IX, i rapporti tra quest’ultima e Casa Savoia erano completamente
interrotti.
Il mio caporedattore mi scelse come inviata. O meglio, glielo chiesi io,
così da avere una scusa per rimanere al giornale fino a tardi, ma non fino a
quell’ora, quando mancava poco alla stampa del quotidiano. Ormai, però,
quello che era fatto, era fatto. Mio marito nemmeno si sarebbe accorto della
mia assenza, troppo impegnato con la “sua” politica.
Prima che io finissi di sistemare l’articolo, nel piccolo studio entrò
Andrea Saveri, il mio caporedattore.
- Ancora qui, Vittoria? – mi chiese, con voce preoccupata. – Se sapevo
che eri intenzionata a lavorare fino a tardi su questo pezzo, ti avrei detto di
no. Tuo marito sarà in pensiero.
- Figurati! – esclamai. Mariano in pensiero? Sì, come no! Sarebbe stato
più preoccupato della scomparsa di un suo prezioso documento, che di
quella della moglie.
- Dai, non dire così. A quest’ora può essere che stia camminando avanti e
indietro per il suo studio, preoccupato per te.
- Se mai stesse camminando avanti e indietro per il suo studio, - risposi,
con indifferenza. – Sarebbe per una proposta di legge scritta male.
- Non essere così cinica – mi disse lui, sorridendomi sia con le labbra che
con quei bellissimi occhi verdi che aveva.
- Non sono cinica, ma realista.
Andrea, che fino a quel momento era rimasto sulla porta, si avvicinò alla
scrivania dove ero seduta, sovrastandomi con tutto il suo metro e
ottantacinque di altezza. I capelli biondi, notai, erano tutti spettinati, come
se ci avesse passato decine e decine di volte le mani, in quel momento
macchiate d’inchiostro. A quanto pareva anche lui era rimasto in redazione
fino a tardi per finire un articolo, probabilmente sul Presidente del
Consiglio, il marchese di Rudinì, dato che era la politica il settore che
prediligeva.
Visto che i rapporti con mio marito non erano idilliaci, mai lo erano stati
e tantomeno lo sarebbero stati in futuro, decisi di cambiare argomento.
- Tu come mai sei ancora qui? – gli chiesi. Con il tempo, tre anni per la
precisione, da quando mio marito Mariano capì che non gli avrei mai dato
un figlio ed acconsentì a chiedere al direttore di quel quotidiano di
assumermi come giornalista – scrivere era sempre stata la mia passione –, io
e Andrea avevamo stretto una grande amicizia, nonostante lui fosse il mio
caporedattore.
Essendo una delle poche donne in quella redazione, Andrea mi prese da
subito sotto la propria ala protettrice, come richiestogli esplicitamente dal
direttore. “Perché di Andrea Saveri ci si può fidare”, diceva sempre il
grande capo. Ed era vero!
- Ero tutto preso dall’articolo su Rudinì che stavo scrivendo – mi spiegò,
passandosi la mano tra i capelli.
Finii gli ultimi aggiustamenti al mio pezzo e mi alzai dalla sedia, per non
sentirmi troppo piccola, con lui in piedi, accanto.
- Articolo finito! – gli dissi, consegnandoglielo. – Pronto per essere
stampato.
Mentre Andrea leggeva con attenzione, mi tolsi gli occhiali, che portavo
solo per leggere e scrivere, un po’ nervosa.
Quando ebbe finito, alzò gli occhi, mi guardò, mi sorrise ed esclamò: -
Perfetto, come sempre! Chi lo legge, viene catapultato nella cerimonia. Io
non ci sono venuto, ma mi sembra di avervi partecipato, leggendo ciò! – ed
innalzò i fogli dell’articolo a mo’ di gesto di vittoria.
Mi rilassai visibilmente e Andrea scoppiò a ridere.
- Vittoria, davvero, non capisco perché tu ti preoccupi tanto, ogni volta!
Tuo marito dovrebbe essere fiero di te.
In quel momento mi uscì un suono simile ad uno sbuffo.
Andrea mi diede un buffetto sul naso e, scherzando, mi disse: - Questi
non sono versi adatti ad una gentildonna, figlia e moglie di un politico.
- Preferirei essere figlia e moglie di un fabbro, che di un politico!
Detto ciò, feci per avvicinarmi all’attaccapanni per prendere il cappotto.
- Vittoria, dove vuoi andare, a quest’ora? – mi chiese Andrea,
bloccandomi la strada.
- A casa, ovvio. Anche se non sono felice di essere sposata con un uomo
che non si preoccuperebbe se scomparissi, vorrei riposarmi prima di tornare
qui – e cercai di sorpassarlo.
- Non te ne andrai da sola! Immagino che Mariano non ti abbia mandato
una carrozza – ribatté Andrea, prendendomi per le braccia, delicatamente.
- Immagini bene, ma so cavarmela da sola.
- Sei troppo indipendente, Vittoria.
- Se non fossi stata indipendente, Andrea, a quest’ora mi ritroverei a
casa, nel mio letto solitario, aspettando il nuovo giorno per farmi incolpare
da mio marito per il fatto di non essere riuscita a dargli un erede!
- Ma potrebbe non essere colpa tua, Vittoria!
La questione di non avere avuto figli faceva ancora male, dopo tanti
anni. Però il fatto che Andrea cercasse sempre di consolarmi, era
commovente.
- No, Vittoria, non piangere – mi disse, asciugandomi una lacrima che
non mi accorsi di aver versato. – I tuoi occhioni sono belli asciutti e
sorridenti – e mi baciò una guancia, dove una seconda lacrima scese, come
se avesse vita propria.
Le labbra di Andrea scesero fino al mento, baciandolo e mordendolo,
facendomi sussultare, ma non dal dolore, bensì da una piccola scarica di
piacere. Poi me lo leccò, come a lenire il morsetto dato pochi secondi
prima.
Passò all’altra guancia, baciandomela. Sbalordita, gli chiesi: - Cosa stai
facendo, Andrea?
Lui smise di baciarmi, mi guardò e disse: - Meriti un po’ di felicità,
Vittoria.
Andrea era un bell’uomo con quegli occhi verdi e i capelli biondi, il naso
perfetto, la fronte ampia e la mascella squadrata. Anche nel fisico non era
affatto male: alto, con il panciotto nero e la camicia bianca che, ne ero
sicura, nascondevano un fisico atletico. In quel momento era con le
maniche rialzate, che mettevano in mostra gli avambracci, ricoperti da una
lieve peluria bionda. Le gambe erano fasciate in un paio di pantaloni di
camoscio nero, come le scarpe. Sì, era un bell’uomo, ma era anche mio
amico.
Vedendo che non dicevo niente, Andrea riprese: - Vittoria, lui non ti
merita.
- È pur sempre mio marito, Andrea.
Lui mi accarezzò lievemente una guancia, per poi portare le dita sulle
mie labbra. Forse sarà stata l’ora tarda, ma fu come se un incantesimo fosse
sceso in quella stanza, e così socchiusi le labbra.
Andrea tolse le dita e le sostituì con la bocca, baciandomi. All’inizio fu
un bacio dolce, ma nel momento in cui gli succhiai il labbro inferiore,
divenne pieno di passione. Lui mi spinse facendomi indietreggiare fino alla
scrivania.
- Se vuoi che mi fermi, - mi disse, interrompendo il bacio. – Dillo subito,
perché poi sarà troppo tardi!
Per tutta risposta iniziai a slacciargli il panciotto e glielo tolsi, per poi
dedicarmi alla camicia. Tolta anche quella, gli accarezzai la gola, scendendo
fino al petto, dove mi soffermai sui capezzoli. Mi abbassai e con dolcezza
glieli baciai, per poi morderli e leccarli, come lui aveva fatto prima con il
mio mento.
Nella mia mente, in un angolino nascosto, sapevo che ciò che stavo
facendo era profondamente sbagliato ma, come aveva detto solo pochi
minuti prima Andrea, meritavo di essere felice. E se per esserlo dovevo
infrangere qualche regola di quella vita monotona che facevo con un marito
che avevo deluso, pazienza.
- Vittoria – lo sentii sussurrare, con voce roca. Ciò che gli stavo facendo,
a quanto mi parve di capire, gli piacque e ne fui soddisfatta.
Ma non era finita lì: con la lingua scesi lungo il suo torace, anch’esso,
come le braccia, coperto da una lieve peluria bionda, fino ad arrivare
all’ombelico, dove mi fermai a giocarellare un po’. La mia lingua lo prese
d’assalto, girandoci attorno prima, affondandoci dentro poi.
Inizia a sbottonargli i pantaloni ma, slacciato il primo bottone, Andrea mi
fermò, facendomi alzare. Si scansò, andò a chiudere a chiave la porta, anche
se a quell’ora tarda era raro che ci fosse qualcuno al giornale, e poi tornò da
me.
- Vieni qui, Vittoria.
Iniziò ad aprire i bottoni di madreperla di uno dei vestiti che usavo per
lavorare, allacciati sul davanti. Aperto il corpino, mi liberò le braccia dalla
stoffa e mi tirò giù il vestito, lasciandomi in camiciola, calze, rette dalla
giarrettiera, e scarpe.
Mi sentii a disagio: con Mariano l’avevamo sempre fatto sul letto, con la
luce spenta e con la camicia da notte alzata, a scoprirmi le cosce. Invece in
quel momento, non solo stavamo lontano da una camera da letto, ma la luce
era accesa ed Andrea sembrava che avesse tutta l’aria di farmi restare nuda.
Iniziò ad accarezzarmi il seno sopra la camiciola – non portavo mai il
corsetto quando dovevo lavorare – facendomi provare un brivido di piacere.
I miei seni non erano grossi come quelli delle cortigiane che si trovavano
nei migliori bordelli del Corso o in qualsiasi via malfamata di Roma, ma
sembrava che Andrea li stesse venerando. Mi stava facendo sentire bella
con quello sguardo pieno di desiderio fisso su di me.
Alla fine, non so come, sparì anche la camiciola, lasciandomi con solo le
calze rette dalle giarrettiere, e le scarpe.
Imbarazzata a rimanere così esposta di fronte al suo sguardo che mi
bruciava, decisi di agire, così continuai quello che stavo facendo prima che
lui mi fermasse: slacciargli i pantaloni. Ma, appena poggiai due dita sul
secondo bottone, lui mi interruppe di nuovo e si scansò.
- Voglio guardarti – mi disse, in risposta al mio sguardo sorpreso per
quella piccola ritirata.
- Toccati – mi disse, in tono di comando.
- Co…cosa? – chiesi io, perplessa e imbarazzata.
- Toccati, Vittoria. Toccati come vorresti essere toccata da un uomo. Da
me.
Quelle parole mi provocarono una stretta allo stomaco, ma non per la
paura, bensì dal piacere.
- Guidami – gli chiesi, stupendo me stessa per prima.
Anche Andrea parve sorpreso, ma poi la sua espressione divenne
compiaciuta.
- Toccati i seni – mi ordinò.
- Come?
Quel momento di passione si era trasformato in un gioco di seduzione,
guidato da lui, ma il ruolo della provocatrice, alla fine, era il mio.
- Metti le mani sotto la coppa dei tuoi seni – mi ordinò ed io,
timidamente, eseguii. – Poi con i pollici toccati i capezzoli. – La sua voce
diventò roca. – Quei bei capezzoli eretti, pronti per le mie labbra.
Con un gemito me li toccai con i pollici, prima lentamente,
delicatamente, poi al suo: - Premi i pollici sui capezzoli – li schiacciai.
- Ora strizzati i capezzoli con pollici e indici.
Dio, quell’uomo mi stava stregando e, in balia della sua voce, obbedii.
Iniziai a gemere più forte, ma quelle sensazioni non erano abbastanza per
raggiungere una vetta a me sconosciuta.
- Che devo fare? – gli chiesi, in preda ai brividi di piacere, consapevole
dello sguardo di Andrea su di me.
- Spiegati meglio, Vittoria – mi sussurrò lui all’orecchio. Si era
avvicinato senza che io me ne accorgessi, presa com’ero dalle sensazioni
che stavo provando.
- Che devo fare…per raggiungere…non so nemmeno io cosa…come…
una vetta…- cercai di spiegarmi, tra un gemito e l’altro.
- Tu vuoi raggiungere l’orgasmo, vero Vittoria?
Quelle parole, sussurrate con tono suadente, mi fecero gemere ancora di
più. Annuii , impossibilitata a parlare, ma lui non accontentò.
- Vuoi raggiungere l’orgasmo, Vittoria? Dimmelo!
La sua voce aveva il potere di eccitarmi ancora di più e, con fatica,
risposi: - Sì, Andrea.
- Devi solo toccarti, Vittoria – mi alitò nell’orecchio.
- Lo sto facendo – gli risposi, guardandolo negli occhi.
- Toccati più a fondo.
Si mise dietro di me e mi guidò la mano destra verso l’inguine, sopra il
Monte di Venere.
- Qui, toccati qui, Vittoria – e mi portò la mano ancora più in basso, fino
alle labbra della mia femminilità.
- Andrea, io… - Ero imbarazzata, nonostante l’eccitazione. Nemmeno
Mariano mi aveva mai toccata là, nella parte più intima del mio essere.
- Non ti vergognare, Vittoria – sussurrò Andrea, dandomi un bacio sul
collo. – Non c’è niente di sbagliato, nel toccarsi la propria femminilità.
Arrossii a quelle parole, ma nel frattempo mi diedero il coraggio di
osare. Quindi iniziai ad accarezzarmi. Ero bagnata, come non lo ero mai
stata in vita mia, e feci su e giù con un dito, ma non mi bastava.
Andrea, in qualche modo, lo capì e sostituì la mia mano con la sua.
- Toccati i capezzoli, mentre io mi occupo della parte più dolce del tuo
corpo.
Le mie mani, quindi, tornarono sui seni, mentre un suo dito mi penetrò,
facendomi sussultare e bagnare ancora di più. Subito dopo un secondo dito
lo raggiunse e, insieme, imitarono l’atto dell’amore, uscendo ed entrando di
nuovo, in profondità.
Dio, che sensazioni! Ero sicura di stare per esplodere, cosa che accadde
appena il pollice di Andrea andò a toccarmi il clitoride, premendolo. E fu
allora che urlai di piacere.
L’orgasmo arrivò con potenza, con i muscoli interni della vagina che
stringevano quelle due dita nel mio corpo.
Quando anche l’ultima scintilla di orgasmo scomparve, mi appoggiai
completamente al torace di Andrea. Lui tolse le dita e mi abbracciò,
accarezzandomi sempre là, dove ero sempre più bagnata.
Appena ripresomi un po’, con il respiro tornato normale, mi scansai dal
suo corpo e mi girai a fronteggiarlo.
- Ora posso slacciarti i pantaloni? – gli chiesi, con uno sguardo
sbarazzino.
- Accomodati – mi rispose lui, appoggiandosi alla scrivania e allargando
braccia e gambe.
Mi avvicinai e gli sbottonai i pantaloni, facendo saettare fuori l’erezione.
Glieli abbassai e mi inginocchiai all’altezza di quel fallo eretto e maestoso
come fosse un sovrano.
Iniziai ad accarezzarlo, delicatamente, per paura di fargli male, ma lui
mise una mano intorno alla mia, stringendo.
Allora capii cosa dovevo fare: strinsi delicatamente e incominciai a
strofinarlo. Sembrava che gli piacesse, dato che gemeva, ma senza una sola
nota di dolore.
Guardandolo, mi venne voglia di assaggiarlo e quindi avvicinai con la
bocca.
- Sì, Vittoria – gemette lui. – Continua così!!! Succhia il tutto ti prego – e
intanto mi accarezzava i capelli, ormai scompigliati a causa della passione.
Lo accontentai dandogli immenso piacere con la mia generosa bocca. Lo
assaporai completamente e usai molto la lingua, lambendogli tutto il pene.
Una mano andò ai testicoli, accarezzandoli. Gli piacque anche quello,
dato che mi chiese di continuare. E io continuai. Fino a quando lui non mi
scansò da sé.
- Se continui così, tesoro, - mi disse, con il fiatone. – Finirà tutto subito.
La tua lingua e le tue labbra sono sublimi. Un paradiso.
Quindi voleva che la smettessi con la bocca. Ma avevo altre frecce nel
mio arco!
Portai il mio seno all’altezza del suo membro e iniziai a strusciargli i
capezzoli sulla cappella.
- Dio, Vittoria! – esclamò. – Vuoi farmi impazzire?
Io sorrisi e gli misi il pene tra i miei due seni, nonostante non fossero
troppo grandi. Stringendomeli, iniziai a fare su e giù, con la sua potenza
incastrata lì in mezzo.
- Ora basta! – mi disse, scansandomi del tutto. Mi fece rialzare,
prendendomi in braccio, e mi depositò sulla scrivania, allargandomi le
gambe.
Si inchinò là, davanti alla mia vagina e la sua bocca, in un secondo, fu
sulle mie labbra intime.
- È bellissima, sai? – mi alitò sopra quella fessura bagnata di desiderio.
Subito dopo me la baciò. La lingua entrò fin dentro di me, come prima
avevano fatto le sue dita, e in poco tempo raggiunsi un secondo orgasmo,
più potente del primo.
Mi accasciai sulla scrivania, ma lui non aveva finito. Si rialzò in piedi,
mi allargò ancora di più le cosce e, con una possente spinta, penetrò in me.
Dio, che paradiso! Mi sentivo a casa, anche se tutt’ora non so spiegarne
il motivo.
Iniziò a muoversi con azioni decise, facendomi sobbalzare tutto il corpo.
Non era un amplesso dolce, romantico, ma quasi brutale e pieno di
passione.
- Ti ho desiderata fin dal primo giorno che ti ho vista – mi disse, tra una
spinta e l’altra. – Ma tu eri già impegnata. Ma ora sei mia. Mia!
Sbagliava, non ero sua. Dopo quella notte, sarei tornata comunque da
mio marito che, ogni tanto, ancora visitava il mio letto. Ma quello non era il
momento di pensarci, dato che la mia attenzione era tutta incentrata nel
piacere che stavo provando, sentendo un terzo orgasmo avvicinarsi.
- Sì, Vittoria, vieni per me. Solo per me – mi disse Andrea, accorgendosi
probabilmente che ero vicina alla meta. E io lo accontentai. Venni. Solo per
lui.
Dopo un’ultima spinta, venne anche lui. Sentii il suo seme caldo
scivolare nel mio corpo bagnato, mescolandosi con i miei umori.
Andrea si scansò e crollò a terra, stremato, ma soddisfatto. Glielo
leggevo in faccia. I suoi occhi brillavano di soddisfazione, ma non solo.
Non volli soffermarmi su ciò che esprimevano i suoi occhi e, alzandomi
dalla scrivania, ricominciai a vestirmi, in silenzio.
Andrea si alzò dal pavimento, avendo ripreso fiato, e si alzò i pantaloni,
allacciandoseli.
- Tutto a posto, Vittoria? – mi chiese, avvicinandosi a me e
allacciandomi i bottoni del vestito, con mani esperte. Potevo farlo anche da
sola, dato che erano sul davanti, ma le mani mi tremavano troppo.
Solo in quel momento capii quello che avevo fatto veramente: avevo
tradito mio marito! Mariano non avrebbe mai dovuto saperlo.
Finito che ebbe di allacciarmi il vestito, Andrea fece un passo indietro e
mi guardò.
- Non hai risposto alla mia domanda, tesoro. È tutto a posto?
Mi accarezzò una guancia. Non ebbi la forza di scansare quella mano che
mi aveva fatto provare emozioni così forti.
Capii di essere nei guai, perché amavo Andrea Saveri. Amavo il mio
caporedattore. Amavo il mio migliore amico. Ma ero sposata con un uomo
che odiavo!
- Sì – risposi, per tranquillizzarlo. – Tutto bene, Andrea. Vorrei solo
tornare a casa. Sono stanca.
- Sì, capisco. Ti accompagno.
- No, non ce n’è bisogno. Prenderò una vettura di piazza.
- Fatti almeno accompagnare alla vettura, per favore – mi disse,
infilandosi la camicia. – La notte è pericolosa, lo sai.
E chi lo poteva sapere meglio di una persona che scriveva su un giornale
tutte le cose brutte che accadevano in quella grande città?
Accettai di farmi accompagnare alla vettura di piazza. Arrivati davanti
alla carrozza, gli accarezzai una guancia.
- Grazie, Andrea – gli dissi.
- Grazie a te, Vittoria.
Salii sulla carrozza, guardandolo un’ultima volta mentre lui chiudeva lo
sportello.
Arrivata a casa, presi una decisione che mi spezzò il cuore.
Il giorno dopo dissi a Mariano che non volevo più tornare al giornale,
che mi ero stufata di quell’impiego, di volermi impegnare a dargli un erede,
di voler continuare a provarci, fino a quando non sarebbe arrivato.
Mariano mi sorrise, come non mi aveva mai sorriso in tutti gli anni di
matrimonio. Probabilmente, con quella dichiarazione, l’avevo reso felice.
Quella sera venne nel mio letto, dove facemmo l’amore con dolcezza,
cosa mai accaduta.
Nove mesi dopo, nacquero Ettore e Giulia, due bellissimi gemelli che,
per fortuna, assomigliarono a me e non al loro padre…
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

ANTONIO, FRAGOLE E MIELE


Pompei, 54 d.C.

Era stata condotta in uno degli appartamenti più belli e lussuosi che
avesse mai visto. Se non fosse stata preoccupata per il suo destino, Dalia
avrebbe apprezzato di più tutto quello sfarzo.
Dopo essersi lavata con l’aiuto di due serve nella sala da bagno della
Domus del patrizio romano a cui era stata venduta come schiava, fu
accompagnata in quel sontuoso appartamento, all'ultimo piano della grande
abitazione. Era suddiviso in due stanze. Un salottino con cuscini sparsi
attorno a un tavolino, su cui erano appoggiati un cesto di frutta, una brocca
di vino e due bicchieri; tende di seta alle finestre, mosse dalla brezza estiva
che entrava e le pareti affrescate con scene di preliminari, dove l'uomo e la
donna si eccitavano a vicenda, e Dalia si sentì arrossire soltanto a vederle.
Poi decise di vedere anche la seconda camera e, non appena ne ebbe
varcata la soglia, rimase a bocca aperta: c'era un letto immenso che la
occupava quasi completamente, con veli trasparenti che partivano dal
soffitto e lo racchiudevano, trasformandolo in un luogo più intimo del
dovuto, dove scambiarsi le più spinte effusioni d'amore. Alle finestre ancora
tende di seta, stavolta di un bel color pesca, come le coperte sull’ampio
letto. Ma la cosa che più la sconvolse, furono gli affreschi sul muro: non
solo l'uomo e la donna si davano piacere a vicenda, ma l'uomo possedeva la
donna; scene dirette, inequivocabili in cui il pene entrava nella vagina, altre
in cui la donna era sull'uomo, ma tutti gli affreschi, sia quelli del salottino
che quelli della stanza, avevano un elemento in comune: sul viso dei
protagonisti era presente un'espressione di piacere estremo.
Dalia non sapeva come la donna potesse provare piacere a fare quelle
cose: lei, con il suo defunto marito, non lo aveva mai provato. Sentendosi a
disagio in quel luogo, tornò nel salottino, anche se lì non era che si sentisse
tanto di più a suo agio.
Mentre nella camera da letto il colore predominante era la pesca, nel
salottino prevaleva invece il verde, che aveva il potere di calmarla.
Po ad un tratto la grande porta dell'appartamento fatta di quercia e
finemente decorata, si aprì, ed entrò un uomo che indossava una toga di
fattura pregiata, più alto di lei di almeno mezzo metro, capelli neri tagliati
alla moda dell'epoca e un paio di occhi scuri che le trasmettevano strane
sensazioni: il padrone di casa, il suo padrone!
Antonio Aurelio entrò nell'appartamento che riservava alle sue amanti,
quasi sempre schiave comprate al mercato, che poi liberava una volta
stancatosi di loro, e rimase come paralizzato. Nemmeno badò alla guardia
che richiudeva la porta dietro di lui.
Quando si accorse di desiderare un'altra amante, si recò al mercato degli
schiavi, insieme alla propria scorta e, appena vide quella ragazza incatenata
sulla pedana, decise di volerla ad ogni costo. Quindi sborsò cinquanta
denari, una cifra considerevole per l’epoca e se l’accaparrò. E quello che
vedeva ora davanti ai suoi occhi lo convinceva ancor di più che erano stati
soldi ben spesi: quella ragazza sporca, con i vestiti laceri e i capelli tutti
arruffati, ora gli si presentava lavata, pettinata e ben vestita. Certo, era
ancora malnutrita, ma Antonio Aurelio avrebbe rimediato anche a quello.
- Come ti chiami? - le chiese.
Dalia saltò al suono della voce del suo padrone: non sapeva cosa
aspettarsi da lui, tanto meno quella domanda, fatta con il tono di un uomo
abituato a comandare, ma anche con una piccola nota di dolcezza. Di sicuro
non se l'era aspettato.
- Dalia, signore - rispose, prima che lui si innervosisse e quella piccola
nota inaspettata scomparisse.
- Ti si addice - le disse Antonio. Dalia aveva la pelle scurita dal sole e dei
lunghi capelli neri che aveva ordinato alle serve di lasciare sciolti. Se prima
erano sporchi, ora brillavano alla luce del sole. Non vedeva l'ora di perdersi
in quel manto scuro.
Gli occhi verdi lo scrutavano guardinghi, e Antonio non se ne stupì:
quella ragazza ispanica era stata catturata e poi venduta come schiava e non
sapeva cosa aspettarsi da lui.
- Il mio nome è Antonio Aurelio, Dalia.
Dalia inchinò la testa con fare regale, come se fosse nata e cresciuta in
una famiglia patrizia di Roma. Ma Antonio sapeva che veniva da terre
lontane.
Il corpo della ragazza lo attirava inesorabilmente. Era bassa, ma ben
proporzionata.
La veste che aveva fatto preparare per lei, di fine seta azzurra, le copriva
a malapena il prosperoso seno che gli faceva formicolare le mani dalla
voglia di toccarlo.
Dalia si accorse dello sguardo di Antonio sul suo petto e, in un momento
di imbarazzo, si coprì la profonda scollatura con le braccia. Non era stata
d'accordo ad indossare quella veste, ma le serve avevano detto che era un
ordine del padrone.
Antonio si stupì di quell'attimo di pudore e gli sorse un dubbio.
- Sei vergine, Dalia? - le chiese, facendola arrossire.
- Sono stata sposata, signore - rispose lei, abbassando lo sguardo.
Antonio sospettava che non le erano piaciute molto le attenzioni del
marito.
Dalia abbassò le braccia e aspettò una mossa di Antonio. E intanto lo
studiava.
Aveva un fisico atletico, non dell'idea di patrizio romano che si era fatta:
basso, grasso e dispotico. Antonio non sembrava dispotico, e di sicuro non
era né basso né grasso. Anche se, come Dalia aveva imparato con il suo
defunto marito, le apparenze ingannavano.
- E tuo marito? - Se anche il marito fosse stato venduto come schiavo,
Antonio decise che l'avrebbe trovato, se Dalia voleva riunirsi a lui.
Non sapeva perché, ma quella ragazza gli ispirava un senso di
protezione. Voleva renderla felice. Lui, Antonio Aurelio Fulcinia, uno degli
uomini più potenti di Roma, rischiava di essere messo in ginocchio da una
schiava che aveva comprato per il proprio piacere sessuale. Forse era una
strega.
- E' morto, signore.
Antonio lasciò andare il fiato che non si era accorto di trattenere: gli
dispiaceva per l'uomo ma era felice perché così poteva instaurare più
facilmente un rapporto con Dalia.
- Chiamami Antonio, signore è troppo formale - le disse. Voleva sentire il
proprio nome uscire da quelle labbra piene e rosse.
- Sei il mio padrone, signore, e ogni tuo desiderio dovrei esaudirlo.
- Se un mio desiderio ti dovesse mettere a disagio, non lo esaudire. Non
verrai frustata per questo, bellissima Dalia.
Nel frattempo Antonio le si era avvicinato e le sfiorò una guancia con
una carezza, trasmettendole uno strano brivido lungo la schiena, che si
intensificò quando quella mano scese lungo la gola, e poi sulla curva
scoperta del seno.
Il respiro di Dalia divenne affannoso, come se avesse corso per tutta
Roma senza fermarsi.
- Ti dava piacere tuo marito, Dalia? - le chiese di punto in bianco
Antonio.
- Ci provava, signore...Antonio - si corresse subito.
Il membro sotto la toga scattò nel sentire pronunciare il proprio nome da
Dalia. La ragazza se ne accorse e si allontanò di scatto.
- Non devi avere paura di me - la rassicurò lui.
- Non ho paura. Sono solo...sorpresa.
- Di cosa? - chiese Antonio, confuso e poi vide dove puntava lo sguardo
della ragazza.
- Sorpresa della mia eccitazione? - le chiese e quando lei annuì le
domandò: - Perché? Sei una bella donna.
- Mio marito...non si eccitava facilmente - confessò lei.
- Quello era un problema di tuo marito, Dalia. Al mercato ho visto
sguardi ardenti di desiderio tra gli uomini, quando sei salita sulla pedana - le
spiegò.
Antonio si riavvicinò lentamente, per non spaventarla e le pose un’altra
domanda: - Sai perché sei stata comprata al mercato degli schiavi e perché
ora sei qui?
- Per darti piacere, Antonio - rispose Dalia, rimanendo ferma al proprio
posto e lasciando che lui si avvicinasse, permettendogli pure di toccarla, se
avesse voluto.
- E sai come potresti darmi piacere, Dalia?
La ragazza arrossì, pensando a lei che faceva ad Antonio le stesse cose
che le donne raffigurate sulle pareti facevano agli uomini. Con suo marito
non aveva mai fatto niente di tutto ciò.
- Non sono sicura di riuscire a darti piacere, Antonio. Non saprei che
fare.
Antonio le accarezzò una guancia e le disse: - Potresti darmi piacere
iniziando a rilassarti, Dalia. Qui dentro non accadrà niente che non vorrai.
L'uomo le prese la mano e la portò ai cuscini sparsi a terra, facendola
sedere, per poi raggiungerla subito, e mettendosi alle sue spalle.
Dalia si irrigidì ancora di più e Antonio le sussurrò all'orecchio: -
Rilassati, bellissima Dalia. Ti voglio solo massaggiare - e iniziò a
frizionarle le spalle.
Dalia pian piano si rilassò, sorpresa dal comportamento gentile e
premuroso di Antonio. Ma si sentiva fortunata: poteva capitarle un padrone
con la frusta, che la violentava e poi la rilegava in un tugurio. "Chi ti dice
che Antonio poi non lo farà?", si chiese preoccupata.
Antonio la sentì rilassarsi, ma dopo un po' si accorse che si irrigidiva di
nuovo. Cercò quindi di calmarla rassicurandola sul suo futuro: non le
avrebbe mai fatto del male e che poteva sentirsi libera di esprimere tutti i
dubbi che aveva.
- Che mi accadrà una volta che ti sarai stancato di me? - gli chiese,
mentre lui scendeva a massaggiarle l'osso sacro, procurandole un altro
brivido lungo tutta la schiena che il vestito lasciava scoperta.
- Sarai libera - le rispose, serenamente. - Le schiave che ho comprato per
il mio piacere le ho liberate quando mi sono stancato di loro e hanno potuto
scegliere se restare come serve o tornare dalle loro famiglie. Molte hanno
scelto di vivere qui, anche se non entrano più nel mio letto.
Dalia gli credette e si rilassò nuovamente. Antonio finì il massaggio e le
si mise davanti.
- Va meglio? - le chiese.
Dalia fece di sì con la testa e guardò altrove. Era più rilassata, ma ancora
a disagio, soprattutto mentre sentiva gli occhi dell'uomo su di sé.
Decise di rompere il silenzio e gli chiese: - Cosa posso fare per te,
Antonio?
Antonio allungò la mano verso il tavolo e prese la ciotola con la frutta.
Dentro vi si trovavano uva, fichi secchi e more.
- Farti sfamare, Dalia. Voglio che ti rimetti in forze - e le porse un chicco
d'uva. Dalia fece per prenderlo, ma lui scansò la mano, dicendole: - Fatti
imboccare. Mi piacerebbe molto.
Dalia allora aprì la bocca e Antonio le mise il chicco d'uva dentro. La
ragazza lo gustò con piacere: era tanto che non mangiava qualcosa di così
buono e fresco. Antonio fece per darle un secondo chicco, quando si sentì
bussare alla porta. Allora il patrizio si alzò, posando la ciotola sul tavolino,
e andò ad aprire.
Dalia vide una cameriera che gli consegnava due ciotole e poi la porta fu
subito richiusa dalla guardia.
- Fragole e miele. Le avevo ordinate prima di salire da te.
Antonio abbassò le due ciotole e Dalia vide che in una c'erano le fragole,
mentre nell'altra il miele.
Antonio si accorse che alla ragazza avevano iniziato a brillare gli occhi:
chissà da quanto tempo non mangiava cibi così prelibati.
Pose le due ciotole sul tavolino, prese una fragola e la intinse nel miele
per poi portarla alla bocca di Dalia. Lei la aprì immediatamente e, mentre
mordeva il frutto, un po' di miele le colò sul mento.
Fece per pulirsi, ma Antonio la fermò. Posò la fragola morsicata e le
leccò il miele dal mento, dolcemente.
- Ottimo - disse, baciandola sulle labbra.
Dalia non sapeva che fare. Conosceva il motivo per cui si trovava lì, ma
il marito non l'aveva mai baciata così, facendola rabbrividire di piacere.
Quando Antonio le aprì la bocca con la lingua, Dalia rispose al bacio,
andandogli incontro con la propria e mettendogli le mani dietro la nuca.
Lui interruppe il bacio e, con voce roca, le ordinò: - Spogliati.
Dalia lo fece: si abbassò la veste e il suo magnifico seno comparve
davanti agli occhi dell'uomo. Antonio non aveva mai visto niente di così
bello e allungò la mano per accarezzare uno di quei piccoli capezzoli eretti
che svettavano su un paio di areole rosa e grandi.
- Antonio - gemette Dalia a quel tocco.
- Stenditi, Dalia.
Lei lo fece e lui le tolse del tutto la veste, lasciandola nuda.
Prese la ciotola del miele e ne fece colare un po' sul seno di lei. Ripose la
ciotola sul tavolo e si chinò su quella meraviglia, succhiando e mordendo
quei capezzoli resi più dolci dal nettare.
Dalia trattenne il fiato, si sentì in preda a delle strane sensazioni e voleva
di più. Allungò una mano ad accarezzargli i capelli e Antonio aumentò il
ritmo delle leccate sul suo seno.
La lingua di Antonio lasciò i seni e scese sul ventre, seguendo la scia di
miele che era colata lungo il suo corpo.
La assaggiò a fondo, gustandola appieno, fino ad arrivare all'ombelico.
Là si fermò e alzò lo sguardo per guardarla: era bellissima, eccitata, con le
guance soffuse di rosso, tanto da lasciarlo senza fiato. Il suo pene si fece
sentire di più, come a ricordargli che voleva essere soddisfatto, ma doveva
attendere.
Dalia aprì gli occhi e lo guardò, confusa sul perché si fosse fermato. La
propria parte intima chiedeva di essere toccata e soddisfatta. Ma la mano di
Antonio si trovava sul suo ventre e da lì sembrava non volersi muovere.
Si mosse a disagio, sperando che lui capisse, mentre la guardava con
desiderio.
- E' tutto questo che posso fare per te, Antonio? - gli chiese.
A quelle parole, il membro di Antonio sobbalzò, ma lui cercò di tenerlo
ancora a bada.
- Cosa vorresti fare per me, Dalia?
- Ciò che mi chiedi - gli rispose lei, con voce rauca.
Allora Antonio si alzò e si tolse la toga, rimanendo nudo di fronte a lei,
con il pene che svettava fiero, reclamando le attenzioni della donna che
aveva di fronte. Attenzioni che arrivarono subito.
Con timidezza e insicurezza, Dalia si mise seduta sulle ginocchia e
allungò una mano verso il membro, lo afferrò e iniziò ad accarezzarlo. Era
duro, ma vellutato e molto caldo. Le piaceva.
Antonio gemette e, quando lei avvicinò le labbra al pene, temette di non
resistere per molto.
Dalia lo assaggiò, salato e dolce allo stesso tempo, poi le venne un'idea.
Allungò la mano a prendere la ciotola del miele e gli chiese: - Posso?
Antonio trattenne il fiato, chiedendosi cosa avesse in mente la ragazza,
ma decise di assecondarla, stringendo i denti per non venire come un
ragazzino alle prime armi.
- Fai come vuoi - le rispose, allargando le braccia.
Dalia intinse un dito nella ciotola e se lo portò alla bocca, facendolo
gemere dal desiderio.
- Buono...- disse lei, succhiando il dito. Poi lo immerse di nuovo nella
ciotola, ma questa volta lo direzionò verso il membro. Lo passò sulla
cappella, poi lo leccò.
Antonio mise le mani sulla testa di Dalia e, quando la ragazza ricoprì
metà membro di miele per poi leccarlo a cominciare da lì, Antonio le strinse
i capelli, mentre veniva trascinato in un vortice di piacere.
Non ce la fece a resistere per molto: quel piacere era troppo intenso,
troppo tutto! Quindi Dalia assaporò il gusto del suo seme insieme al sapore
del miele.
- Scusa, Dalia - gemette lui, cadendo in ginocchio sui cuscini una volta
che lei ebbe staccato la bocca dal membro soddisfatto ormai.
- Non mi devi chiedere scusa, Antonio - rispose Dalia, cercando di
ricoprirsi. - E' per questo che mi hai comprato al mercato, no?
- Ferma - le ordinò Antonio, riprendendo fiato. - Non ti ricoprire. Non
abbiamo ancora finito.
Dalia abbandonò la veste che aveva recuperato e lo guardò. - Ma tu hai
raggiunto il piacere - gli fece notare, confusa.
- Ma tu no - le spiegò lui. - E io non lascio mai una donna insoddisfatta.
Il seno di Dalia, pieno e sodo, lo tentava ancora. Antonio allungò una
mano per accarezzarlo. Riusciva a ricoprirlo tutto a malapena, grazie alle
sue grosse mani.
Con il pollice le stuzzicò il capezzolo e Dalia trattenne il fiato. Antonio
aveva ragione: non avevano ancora finito.
La fece stendere di nuovo e la mano libera scese verso il ventre della
donna, per poi annidarsi tra le pieghe della sua femminilità.
Dalia si irrigidì, sorpresa, nonostante prima avesse desiderato quel tocco:
suo marito non aveva mai fatto niente di ciò che Antonio le aveva fatto in
quell'ultima ora. A lui bastava solo raggiungere l'orgasmo.
- Rilassati, Dalia - le sussurrò all'orecchio. - Non ti farò del male - e le
mordicchiò il lobo, facendola rabbrividire.
Dalia si rilassò e Antonio scese con il viso all'altezza della mano che si
trovava tra le sue cosce, seguito dall'altra mano.
Le allargò le grandi labbra della sua femminilità e la osservò. Dalia si
sentì a disagio, esposta, fino a quando lui disse: - Sei tutta da assaggiare.
La lingua di Antonio guizzò vorace nella sua vagina, trasmettendole
sensazioni forti, eccitanti, uniche.
Antonio sentì il proprio pene risvegliarsi grazie a quell'intima
esplorazione. Dalia era già calda, bagnata, pronta per lui, ma volle aspettare
a penetrarla: prima voleva vezzeggiarla, adorarla, assaggiarla più che poté.
Dalia sentì il piacere salire, la tensione accumularsi in tutto il proprio
corpo, tensione che esplose quando il pollice di Antonio andò a dedicarsi al
clitoride.
Raggiunse l'orgasmo e dopo un po' si rilassò, respirando a fatica.
Antonio si staccò da lei, in bocca il dolce sapore del suo nettare.
- Hai un così bel seno - le disse, distendendosi accanto a lei sui cuscini
ed accarezzandoglielo.
Dalia arrossì e rispose: - E' troppo grande.
- Non direi - le assicurò Antonio, baciandoglielo.
Dalia guardò gli affreschi che all'inizio l'avevano intimidita e turbata, e
uno in particolare le fece venire un'idea. Si mise in ginocchio e lo invitò a
fare lo stesso. Lo fece mettere in piedi e, sempre in ginocchio, si mise
davanti a lui.
- Che vuoi fare, Dalia? - le chiese.
- Darti di nuovo piacere, Antonio - gli rispose lei con voce suadente.
Gli afferrò il membro, di nuovo duro e pronto, e se lo posizionò tra i due
seni, imprigionandolo.
Iniziò a muoversi su e giù con il busto, trascinando il pene con sé e
dando immenso piacere al padrone.
Le mani di Antonio tornarono tra i capelli di Dalia, ormai scarmigliati, e
si godé le magnifiche sensazioni che gli stava facendo provare.
Quando capì di non poter resistere ancora per molto e volendola
possedere fino nell'anima, si staccò da lei e la fece stendere, non tanto
dolcemente, ma in quel momento non se ne preoccupò, tanto meno lo fece
Dalia.
Le allargò le gambe e, mettendosi in ginocchio tra le sue cosce, la
penetrò con slancio, facendola urlare di piacere.
Iniziò a muoversi, continuando a tenere le gambe di Dalia tra le proprie
mani.
Dalia sentì di nuovo quella tensione crescere, sempre di più.
Antonio portò una mano tra le gambe della donna e, come aveva fatto
prima, le stuzzicò il clitoride, strofinandolo tra pollice e indice.
A quel punto Dalia raggiunse nuovamente l'orgasmo, mentre Antonio
continuava a spingere sempre più velocemente, arrivando a propria volta
alla vetta del piacere.
Antonio si staccò da Dalia per non caderle addosso e pesarle, e si stese al
suo fianco, cercando di riprendere fiato.
La fece accoccolare addosso a sé e Dalia si addormentò
immediatamente. Prima che cadesse anche lui in un sonno profondo dovuto
al sopraggiungere dell'orgasmo, Antonio la prese in braccio, la portò nella
camera affianco e l'adagiò sul letto, coprendola. Poi si mise al suo fianco,
dove si addormentò, soddisfatto e contento, immaginando ciò che avrebbe
potuto fare a Dalia con quell'ottimo vino che non avevano ancora gustato.
I TREDICI VOLTI DEL PIACERE

GALEOTTA BIBLIOTECA
Harvard, Massachussetts – fine settembre, 2011

"Quanto mi piacerebbe che si accorgesse di me, che mi desiderasse”,


pensava Caterina, camminando dopo la fine delle lezioni nel campus di
Harvard, diretta al dormitorio. Si riferiva a Steve Hamilton, l’insegnante di
filosofia che le faceva passare notti in bianco, eccitata al solo pensare a lui.
Era lui che le teneva occupati i pensieri, tanto da trovare difficoltà anche
nello studiare.
Aveva seguito le sue lezioni per un intero semestre, impegnandosi più
del solito, solo per fare bella figura con lui. Sì, all’esame le aveva dato il
massimo dei voti, ma non una parola di elogio era uscita dalle sue labbra.
Ed era da quel giorno che non lo vedeva, dato che oramai finito il corso e
sostenuto l’esame non aveva più avuto occasione di incontrarlo.
All’improvviso andò a sbattere contro un torace possente, ricoperto da
una camicia bianca. Due mani forti la trattennero per non farla cadere.
- Oh, scusi, signore – biascicò Caterina, alzando lo sguardo e
incontrando due occhi azzurri come zaffiri, che incentravano l’attenzione
delle persone su quel viso dal naso patrizio e due labbra carnose, sempre
pronte a regalare un sorriso a chiunque.
Era il professor Hamilton, uscito proprio dai suoi pensieri, con quei
capelli castani spettinati dal vento, sopra la camicia una giacca aperta e una
cravatta nera e le lunghe gambe fasciate da jeans.
- Tutto bene, signorina McGregor? – le chiese, allontanandola da sé e
lasciando la presa solo nel momento in cui fu sicuro che non sarebbe
caduta.
Caterina si stupì. Come faceva a ricordarsi di lei, dopo tre mesi che
aveva finito il suo corso? Ok, durante quel semestre trovava ogni scusa per
vederlo, da un libro di Kant a una frase di Freud, ma ogni studentessa
faceva così: il professore meritava eccome!
- Signorina McGregor? – insistette il professor Hamilton.
- Sì? – rispose riprendendosi Caterina.
- È tutto a posto?
- Certo, professor Hamilton. La ringrazio e mi scusi ancora se l’ho
investita. Ero sovrappensiero.
Steve guardò la signorina Caterina McGregor, la migliore studentessa
che avesse mai avuto, e anche la più bella.
I rossi capelli, raccolti in una treccia che portava sulla spalla sinistra,
brillavano alla luce del tramonto, mentre gli occhi marroni sfuggivano il suo
sguardo, imbarazzata per l’incidente, probabilmente. Non era molto alta, la
testa gli arrivava al mento, ma aveva uno stupendo seno, né troppo grande
né troppo piccolo. Una terza misura, probabilmente.
Ma cosa gli veniva in mente? Caterina, anche se non frequentava più il
suo corso, era comunque una studentessa!
- Dove stavi andando, con la testa tra le nubi? – le chiese, vedendola
subito arrossire.
- Ho finito l’ultima lezione e stavo tornando al dormitorio, professore.
- Quindi non hai altri impegni?
Il cuore di Caterina aumentò il battito – non che prima battesse
regolarmente – e fece di no con la testa.
- Bene – disse Steve. – Mi servirebbe l’aiuto di uno studente. Doveva
venire Mr. Vincent Carson, ma non si è presentato, probabilmente distratto
da un qualche videogame, e stavo appunto andandolo a cercare. Ma se
potessi aiutarmi tu, mi risparmieresti tempo, fatica e voce per sgridarlo.
Caterina sorrise, come accadeva sempre quando il professor Hamilton
cercava di fare il severo con i suoi alunni ma non gli riusciva molto bene.
- In cosa le serviva aiuto, professore? – gli chiese con voce tremante per
l’emozione. Poteva stare un po’ con lui, anche se era solo per aiutarlo.
- Ci sono alcuni libri di filosofia da mettere in ordine in biblioteca e altri
da scegliere. La signora Buttle, la bibliotecaria, mi ha lasciato le chiavi, ma
entro le nove di questa sera devo riconsegnargliele: sai quanto è gelosa del
suo regno.
La signora Buttle, uno stuzzicadenti di donna, viveva per i libri e la
biblioteca, non permettendo a nessuno di starci senza il suo permesso.
La biblioteca del campus chiudeva alle diciannove e nessuno doveva più
metterci piede fino alla mattina successiva. In quel momento erano le
diciannove e cinque minuti.
- Come ha fatto a convincere la signora Buttle a lasciarle usare la
biblioteca senza la sua supervisione? – gli chiese.
Steve sorrise un po’ imbarazzato e rispose: - Con un po’ di moine.
Caterina rise e Steve trovò che fosse un bellissimo spettacolo.
- Va bene, l’aiuterò professore – rispose, calmandosi. – Solo per poter
dire di essere stata in biblioteca senza l’occhio vigile della signora Buttle su
di me – e risero entrambi.
Appena entrati nell’edificio, Caterina si sentì ancora più nervosa: il
campus era quasi deserto, la biblioteca silenziosa e buia. Il professor
Hamilton accese le luci e chiuse a chiave la porta.
- Così nessuno penserà che è aperta e la signora Buttle non mi sgriderà –
le spiegò, con un sorriso.
Caterina annuì e insieme si diressero verso il reparto filosofia dove, su
un tavolo al centro, c’era una pila di libri.
- Al lavoro, signorina McGregor! – disse il professor Hamilton,
togliendosi la giacca e rimanendo in maniche di camicia, con la cravatta
nera che svettava sul bianco. Come al solito, il professore indossava jeans
aderenti. Caterina era sicura che quelle gambe avessero distolto l’attenzione
dalla lezione di molte studentesse, lei compresa.
Solo che per lei durava un attimo: la voce del professore aveva un potere
maggiore.
Caterina si tolse la giacca, Steve la guardò mentre la posava su una sedia,
poi lei si girò verso di lui, lasciandolo senza fiato. Quella ragazza non
mancava mai di affascinarlo. Forse non era stata una buona idea chiederle
aiuto.
La maglietta rosa, un colore che le donava particolarmente, aveva una
normale scollatura, ma era attillata e le evidenziava il seno. La gonna di
jeans le cadeva perfettamente addosso e le gambe erano fasciate da calze di
nylon.
- Allora, da dove iniziamo? – chiese Caterina, sentendosi un po’
intimidita.
- Sì, allora, i libri vanno in ordine alfabetico secondo l’autore – rispose
Steve. – Mi raccomando, non dobbiamo sbagliare, altrimenti la signora
Buttle potrebbe uccidermi.
E così iniziarono. Pian piano Caterina si tranquillizzò, fino a quando,
un’ora dopo, ebbero finito di riordinarli.
- Non è facile catalogarli in ordine alfabetico – disse Caterina,
sistemando l’ultimo volume sullo scaffale più in alto, reggendosi con una
mano sola sulla scala.
- Non prenderò più in giro la signora Buttle ogni volta che si arrabbierà
con uno studente per non aver messo al posto giusto un libro.
Vedendo che il professore non diceva niente, guardò giù e perse
l’equilibrio. Per fortuna Steve si trovava proprio là sotto, incantato dallo
spettacolo che vedeva: Caterina portava delle calze autoreggenti che le
lasciavano le cosce scoperte. Ma appena quella vista scomparve da davanti
ai suoi occhi, allungò le braccia e prese la ragazza al volo.
- Tutto bene, signorina McGregor? – le chiese, appoggiandola su un
tavolo vicino.
- Sì, grazie, professore – rispose Caterina, poggiando le mani sulle spalle
dell’uomo, riprendendo fiato per lo spavento provato. E ora che la ragazza
era in salvo, a Steve tornò in mente lo spettacolo che aveva visto prima che
perdesse l’equilibrio.
Non pensava che Caterina portasse delle calze autoreggenti, lasciando
scoperte due bianche cosce, che i suoi occhi avevano apprezzato. E non
soltanto loro. Anche un’altra parte del corpo di Steve lo aveva fatto.
- Forse ti servirebbe un bicchiere d’acqua – le disse, cercando di togliersi
dalla mente quell’immagine.
- Non ce n’è bisogno, davvero – lo tranquillizzò Caterina, già più calma.
Lo spavento stava scomparendo.
Steve sapeva che doveva allontanarsi da lei, che non erano etici i pensieri
che gli stavano affollando la testa: voleva prenderla lì, proprio su quel
tavolo. Allargarle le gambe, spostare un po’ gli slip e penetrarla con una
sola spinta.
E la ragazza ancora non gli lasciava le spalle.
- Caterina – iniziò, per poi accorgersi di aver usato il suo nome di
battesimo, cosa che evitava sempre con gli studenti. – Cioè, signorina
McGregor...- si corresse, quindi. – Forse è meglio che tu vada.
- Perché? – chiese lei. – Mi sono ripresa e l’aiuterò a cercare gli altri
libri. Abbiamo ancora un po’ di tempo prima che torni la signora Buttle.
“Abbastanza per fare quello che desidero farti, signorina McGregor”,
pensò Steve.
- Non credo che sia il caso che tu rimanga ancora – cercò di spiegarle.
- Per quello stupido incidente? Sono stata maldestra e le prometto che
non salirò sulla scala.
- Signorina McGregor...
- La prego professore, non mi mandi via – gli disse, stringendogli le
spalle.
Steve si immaginava quelle mani che gli afferravano il pene.
Si allontanò di scatto, lasciando che le mani di Caterina le ricadessero in
grembo e si girò, dandole le spalle.
La ragazza ci rimase male. Per una perdita di equilibrio, il professor
Hamilton non voleva più il suo aiuto, ma lei non voleva andarsene. Aveva il
desiderio di restare ancora un po’ con lui.
Steve si girò di nuovo verso di lei e Caterina vide i suoi occhi
lampeggiare di...desiderio? No, doveva sbagliarsi. Lei era solo una
studentessa, mentre lui aveva più di trent’anni, era un uomo navigato,
Caterina ne era certa.
- Signorina McGregor, è meglio che tu vada – le ripeté Steve, quasi
pregandola. Poi decise di essere onesto: Caterina si sarebbe spaventata del
desiderio di un professore nei suoi confronti e l’avrebbe evitato fino alla
laurea. – Altrimenti potrei fare qualcosa di cui poi mi pentirò - aggiunse tra
il serio e il faceto.
- Cioè? – chiese Caterina. Non poteva essere che il professor Hamilton la
desiderasse veramente.
- Potrei prenderti su quel tavolo, Caterina, e non sarebbe etico né giusto
nei tuoi confronti!
Se Steve avesse sperato di vederla scappare, ne rimase deluso. Caterina
lo guardò con gli occhi spalancati, ma lui non vi lesse spavento o orrore, ma
desiderio.
E infatti Caterina aveva una grandissima voglia, sperava, che lui
mettesse in pratica ciò che aveva appena detto.
- Ma a me non dispiacerebbe – disse.
- Caterina, sono il tuo professore... – cercò di ribattere Steve.
- Non frequento più il tuo corso – rispose Caterina, passando al tu.
Vedendo che il professore non si muoveva, Caterina disse: - Ti prego,
Steve...
A quel punto, sentendo il proprio nome uscire da quelle labbra rosa da
baciare, Steve cedette. Le si avvicinò e le accarezzò una guancia. Poi le
allargò le gambe per mettervisi in mezzo e, alla fine, la baciò.
Se non fosse stata seduta sul tavolo, Caterina era sicura che sarebbe
caduta a terra, tanto stava tremando. Aveva aspettato quasi un anno quel
momento, sicura che non sarebbe mai arrivato. Invece eccola lì, che stava
baciando con trasporto Steve Hamilton, il professore più amato dalle
studentesse.
Steve abbandonò le sue labbra per dedicarsi a quel magnifico collo,
baciandoglielo. Caterina inarcò il busto, desiderando avere di più. Il
professore portò una mano tra le gambe della ragazza, spostò gli slip e
iniziò ad accarezzarla nell’intimo, ad allargarle con pollice e indice le porte
del piacere per poi penetrarla con un dito, seguito subito da un secondo,
mentre il pollice iniziava a dedicarsi al clitoride. Ma a Caterina ancora non
bastava.
- Steve, voglio di più, ti voglio dentro di me – lo supplicò infatti,
dimenticando i loro ruoli – professore e studentessa – grazie alle sensazioni
che le stava facendo provare l’uomo.
- Sei sicura, Caterina? – le chiese, baciandole una guancia.
Caterina fece di sì con la testa e Steve l’accontentò. Abbandonò la sua
femminilità per slacciarsi i pantaloni e far uscire la sua virilità dalla
costrizione degli indumenti.
Caterina, attratta dal suo membro, allungò una mano e glielo afferrò,
iniziò a massaggiarglielo e poi lo portò verso l’entrata della porta intima del
suo corpo, oramai bagnata, e pronta a riceverlo.
Steve, intanto, le infilava una mano sotto la maglietta e sotto al reggiseno
per accarezzarle il petto, stuzzicarle i capezzoli, farla gemere di piacere. Ma
quando la penetrò, non fu solo un piccolo gemito quello che Caterina gli
dedicò, ma un piccolo urlo, che esprimeva la soddisfazione di averlo dentro
di sé.
- Caterina...- mormorò Steve, togliendole la maglia e il reggiseno e
ammirandole il seno. Ancora non si era mosso.
Caterina gli tolse la cravatta e gli slacciò la camicia. Gli accarezzò il
petto, glielo baciò e glielo leccò, facendolo rabbrividire di piacere.
- Steve...prendimi, ti prego...- lo supplicò lei. E allora Steve iniziò a
muoversi, continuando ad accarezzarle il seno, dando ogni tanto un
morsetto a un capezzolo oppure un bacio.
Caterina gli strinse le gambe attorno ai fianchi, incitandolo ad aumentare
il ritmo, a non essere dolce. La dolcezza non faceva per lei.
E Steve l’accontentò. Aumentò la potenza delle spinte, fino a quando la
ragazza non raggiunse l’orgasmo.
Caterina urlò, ma l’urlo fu inghiottito dal bacio di Steve, che venne a sua
volta, mordendole il labbro inferiore.
Caterina si abbandonò sul suo torace, lo circondò con le braccia, mentre
Steve pensava a quanto fosse stato bello possederla, ma anche a quanto
fosse stato sbagliato.
- Rivestiti, Caterina – le disse, staccandosi, uscendo dal suo corpo.
Sgomento, si rese conto di non aver usato precauzioni con una studentessa a
cui mancavano pochi esami per laurearsi e che aveva un futuro davanti a sé.
Caterina si sentì ferita dalla ritirata di Steve. Non che si aspettasse
coccole o cose del genere, ma almeno un bacio dopo l’atto sarebbe stato
gradito. Ma non voleva fargli capire di essere rimasta ferita, quindi si alzò
dal tavolo, gli diede le spalle e si rimise reggiseno e maglietta in silenzio. Si
sistemò meglio gli slip e si girò a guardare di nuovo il professore, che nel
frattempo si era rimesso la camicia, ma non la cravatta. Era stupendo.
- Adesso è veramente meglio che vai, signorina McGregor – le disse
Steve, in tono di congedo. E stavolta Caterina non aveva la forza di
ribattere, di dirgli che voleva rimanere là ad aiutarlo ancora, che per lei era
stata l’esperienza migliore della propria vita.
- Tra un po’ arriverà la signora Buttle a riprendersi le chiavi – si ritrovò
in dovere di spiegarle Steve.
- Certo, professor Hamilton – gli rispose Caterina, tornando al lei. – Le
auguro una buona serata.
Caterina si allontanò in direzione dell’entrata della biblioteca,
lasciandogli un vuoto dentro. Ma era meglio così: restava comunque una
studentessa di quel campus. Sperava solo che se ci fossero state
conseguenze, gliel’avrebbe detto senza remore.
Nel frattempo Caterina aprì la porta della biblioteca e si ritrovò di fronte
l’arcigna signora Buttle. La salutò e scomparve dalla vista della
bibliotecaria.
Un anno dopo, Caterina si laureò con il massimo dei voti. Non aveva più
rivisto il professor Hamilton da quel pomeriggio della biblioteca. Un mese
dopo, Caterina seppe che si era trasferito in un’altra università ove aveva
conosciuto una donna con cui era in procinto di sposarsi. Ne fu dispiaciuta
e contenta allo stesso tempo, perché era una persona splendida e la felicità
la meritava davvero tutta. E intanto la ragazza era decisa a pensare alla
propria carriera. Per gli uomini ci sarebbe stato poi tempo.
SeBook
Simonelli electronic Book

I TREDICI VOLTI DEL PIACERE


di
Helena Vittoria
ISBN: 9788876470646

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