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Hassan e Colette

Hassan e Colette (I parte)

Stravolto e fiaccato dal desiderio come da una febbre, Elias ripensa, nelle
notti di Fes, ai primi fremiti carnali, nella sua adolescenza in Svizzera, e a
come bellezza e repulsione siano strettamente legate nel suo piacere. Si
ritrova poi nel bordello di Lalla Jasmina, a vivere il preludio di una notte
piena di sorprese.
Il calore vero è piombato su Fes all’improvviso. Un giorno, al mercato della
frutta, i carretti di fragole hanno ceduto il passo a quelli di bianche more di
gelso, l’aria frizzante del mattino non si è presentata all’appello e le voci dei
muezzin, nel buio che precede l’aurora, hanno richiamato alla preghiera
fedeli già svegli e insolitamente nervosi.
Elias ha ascoltato le loro grida con gli occhi appesi al lento movimento delle
pale che affettano il soffitto di legno fittamente decorato della sua camera.
Malinconiche e solenni, gli suonano sempre, le parole che seguono il primo
accorato “Allaaa-hu Aaa-kbar”, le parole che sono l’adhan, il richiamo alla
preghiera. Non sa cosa dicano esattamente, ma gli è piaciuto il verso che un
giorno Samir gli ha tradotto: “Affrettatevi alla felicità”.
Mai come in quei giorni l’invocazione trova terreno fertile nell’animo
inquieto di Elias, sebbene la felicità che brama sia molto lontana da quella
che il testo sacro invita a cercare nella preghiera. Eppure, si domanda,
mentre il cielo comincia a tingersi di un pallido rosa all’orizzonte, perché
affrettarsi a cercare la felicità nella pace, non è forse una contraddizione?
La pace non sfugge come sfuggono la giovinezza e le occasioni, come
sfuggono gli occhi, le mani desiderate, come sfugge l’emozione che stringe
la gola, come sfugge il sentimento che batte nelle tempie.
Nonostante le premure di Samir, le serate trascorse assieme a lui e Alain
sulla terrazza, o in giro per le strade della città, spesso in compagnia del
poeta e del suo silente amico, nonostante il profumo sempre più forte del
gelsomino e la struggente bellezza degli ultimi tramonti, Elias porta addosso
il peso di un’inquietudine senza nome. Ogni passo furtivo che si affianca per
un attimo al suo, ogni ombra che sparisce rapida nell’angolo retto di un
vicolo scuro, ogni profumo muschiato o sguardo che si ferma nel suo per un
battito di ciglia lo vede trasalire, bloccarsi, a volte, in mezzo alla strada, o
inseguire, persino, ignare passanti per tratti di percorso. Fino a desistere,
sconsolato, deluso o vergognandosi di sé, quando il suo comportamento
suscita reazioni di paura nelle malcapitate, o di divertito sgomento negli
amici che lo accompagnano.
Due ombre danzano nella sua testa, due figure ugualmente inavvicinabili e
piene di mistero: la donna dietro la finestra – nei pressi della quale è
ripassato molte volte senza rivederla, la finestra anzi resa cieca, dopo quel
giorno, da grossolane assi di legno – e la sconosciuta che gli si è offerta la
notte della festa dalla contessa, fuggendo poi nella notte.
Della prima, Samir non è ancora riuscito a scoprire nulla; quanto alla
seconda, è come aver fatto l’amore con uno spettro. Elias ha sperato ogni
giorno che gli arrivasse un segno, un messaggio di qualunque tipo, ma nulla,
solo quella strana tristezza senza nome che è tutta sua, solo sua,
evidentemente.
La sua mente inquieta ha cominciato, si è reso conto, a fondere le due figure,
a dare al corpo posseduto nel parco il volto della donna alla finestra, i suoi
occhi prodigiosi, la sua pelle. Il pallido seno che per un istante gli ha
mostrato è diventato quello che ha stretto tra le mani, il capezzolo inturgidito
dal desiderio, le dita lunghe ed eleganti sono quelle che si sono strette
attorno al suo sesso, le stesse che hanno lasciato tre segni sanguinanti sulla
sua fronte, il disegno sensuale delle labbra corrisponde a quelle che ha
baciato e succhiato.
Inverosimile, come minimo. Ma, del resto, solo la realtà potrebbe smentire
quella fantasia, e la realtà si allontana e si appanna, ogni giorno di più. Sta
fumando troppo kief, forse. Accade a molti, dopo un certo tempo, e allora le
visioni cominciano a infiltrare la realtà, i confini si assottigliano, si
sprofonda in una malinconia sensuale, che esaspera e sfianca i sensi.
Masturbarsi, anche quello fa fin troppo, ben sapendo che non è un rimedio.
Ma la tentazione è costante, e spesso vi cede, rabbiosamente. Impugna il suo
cazzo inutilmente speranzoso e lo mena con violenza, senza bisogno di
elaborare fantasie, le immagini gli si presentano come nel baraccone degli
specchi al luna park: brutali, come brutale è il veleno che pretende di essere
spurgato. La prima volta che una donna – molto più vecchia di lui, un’amica
di sua madre – si è chinata a prenderglielo in bocca, nel profumo soffocante
e stantio del suo salotto privato, dopo aver riso del suo sguardo allarmato
quando, dopo avergli chiesto della scuola e delle lezioni di scherma che suo
marito gli impartiva, gli aveva messo una mano sulla patta dei calzoni,
cominciando, senza smettere di discorrere del più e del meno, a
massaggiarglielo facendoglielo diventare duro. Era venuto quasi subito,
quella volta, nonostante il fatto che la donna non gli piacesse, eppure non
appena aveva sentito la lingua di lei giocherellare attorno al suo glande
scoperto, mentre le sue labbra spesse succhiavano con forza di polipo,
lasciando sbaffi di rossetto lungo l’asta del suo uccello, il suo seme era
schizzato contro il suo palato.
Ci ripensa ora, nelle lunghe notti e nelle albe di Fés, e come allora le sue
labbra si piegano in una smorfia di disgusto, eppure il suo corpo risponde,
come allora. E rivede anche la coscia pallida di lei, mentre la sollevava sopra
lo schienale del sofà e la gonna scivolava ad arrotolarsi attorno alla sua vita
strizzata nel busto, mostrando la pelle candida e un po’ cadente del suo
ventre, le calze nere rette dalle giarrettiere, il pelo nero del suo sesso che
aveva aperto per lui con la mano, lentamente, come un’offerta.
“Vuoi guardarla da vicino?” gli aveva sussurrato, succhiandosi le dita con
gusto.
“Vuoi sapere che gusto ha?”
Era rimasto interdetto, ma si era comunque avvicinato, non tanto da leccarla
ma abbastanza da sentirne l’odore di talco, sudore e pesce, non proprio
gradevole, come non certo bella era la caverna lucida, scura e polposa che
gli si spalancava davanti, eppure gli era impossibile sottrarsi, orripilato ed
estasiato allo stesso tempo, percorso da brividi e crampi al basso ventre,
perso in un deliquio mai provato prima, se non in sogno. Aveva sprofondato
un dito nel buio di quella ferita gocciolante, nel calore della carne e la donna
l’aveva stretto contraendo le cosce e aveva mugolato piano. Sorpreso, lui
l’aveva estratto, scivoloso, e lei gli aveva prontamente bloccato il polso.
“Dove vai? Non aver paura, io ti lascio fare tutto, tutto quello che ti passa
per la tua bella testolina, ti puoi togliere ogni capriccio con me. Ho visto sai
come guardavi le ragazze, alla festa di Natale. Scommetto che le avesti
stropicciate tutte, che avresti infilato queste belle mani sotto ogni gonna, e
non solo queste.”
Intanto continuava a sfregare il suo sesso bagnato contro la sua mano,
lasciando uscire gemiti e gridolini quando lui la penetrava con le dita.
“Diavolo che sei, diavolo con la faccia d’angelo” gemeva, “come mi
stuzzichi, vuoi farmi scoppiare, vuoi farmi impazzire dalla voglia di
prendertelo dappertutto.”
Elias aveva sollevato lo sguardo e scoperto che la donna aveva slacciato il
corpetto e liberato i grossi seni dai capezzoli rosei che ora gli offriva,
stringendoli tra le mani a coppa.
“Baciamele, su.”
Questa volta non aveva esitato. Aveva stretto tra le labbra uno dei grossi
capezzoli rosa e succhiato, mentre la donna gemeva e scendeva con la mano
a cercare il suo pene, di nuovo duro.
“Mettimelo dentro, adesso, ti prego. Sbattimi per bene, dai, che non ce la
faccio più.”
Trattenendo a stento una risata – il pensiero all’affettazione con la quale si
esprimeva normalmente quella gran dama che ora gli ringhiava con pesante
accento italiano di sbatterla – Elias aveva eseguito senza indugio, aiutato a
trovare la via da una mano esperta e impaziente, gonfio allo stesso tempo di
estasi e repulsione, vergogna e piacere, una catena che non avrebbe mai
saputo sciogliere, da allora. Il bestiale e il divino, il grottesco e il sublime
sarebbero stati per lui saldamente intrecciati, come due robuste piante
rampicanti, l’aveva capito quel pomeriggio, non avrebbe mai cambiato idea.
È al lato più triviale della faccenda che pensa, mentre fa scivolare le dita
della mano destra su e giù lungo il suo cazzo teso, poco prima di raggiungere
l’orgasmo: ai seni pesanti di quella lussuriosa cinquantenne, ai capezzoli
arrossati dai suoi morsi, alle dita con le unghie rosso lacca con cui lei si
sodomizzava con foga, mentre lui menava colpi alla sua porta principale, ai
rumori volgari, indecenti, ad ogni colpo, alla voce arrochita dal fumo e
dall’eccitazione che gli sussurrava sconcezze. Ma è il volto bellissimo
intravisto alla finestra, è il corpo dolce e forte stretto nella notte che lo
portano oltre il limite dell’eccitazione, che lo spingono ad abbassare
l’elastico dei pantaloni e a impugnare il suo sesso nel cuore della notte o in
un afoso pomeriggio africano, a massaggiarlo o strofinarlo tra la seta delle
lenzuola fino a lasciarvi la sua lucente scia di lumaca. Se ne vergogna, e più
si vergogna più ha voglia di ricominciare.

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Alain lo sta osservando, lo sa. Sempre più spesso lo guarda in silenzio, lo
studia. È preoccupato, o lo sarà a breve. Del resto, Elias è il primo a non
capire il proprio buio. Ha anche pensato – non seriamente, in verità – di
tornare a Ginevra, di lasciare Fes.
In qualche modo, sente che l’atmosfera della città cospira al suo tormento,
esaspera il bisogno che lo mangia come una febbre. Ora si chiede che aspetto
avrebbe, il poeta, se avesse trascorso gli ultimi mesi nella natia Bretagna, o a
Parigi, invece che in Africa, se il suo volto mostrerebbe gli stessi segni di
dissoluzione, se apparirebbe così ammalato di desiderio, a Londra o in
America. Chissà se ha scritto uno solo di quei versi irriverenti e infuocati che
l’hanno reso una celebrità in Francia, da che è arrivato. Quel che sa, è che lui
invece non ha scritto nulla, a parte qualche appunto dei primi giorni, qualche
mera descrizione, nemmeno l’abbozzo di una storia. Non era proprio perché
era in cerca di storie che è venuto quaggiù? Non è questo che ha raccontato
ai suoi amici, alla sua sorellina Tecla, che piangeva vedendolo fare le
valigie? Perché ha l’impressione che Fes gli concederà di viverle, delle
storie, ma gli impedirà di renderne testimonianza? Perché ogni storia che
accade qui è come la città, è un labirinto sporco e meraviglioso, è un tale
intrico di perversione e innocenza che le parole che conosce non gli
permetteranno mai di raccontarlo. L’arabo deve essere una lingua
perfettamente ambigua, come i suoi suoni, che passano da un’asprezza
feroce a un tubare di colomba, mettendo la gola a dura prova. Suoni che non
trovano corrispettivo nei segni grafici occidentali, intraducibili.
Elias si alza dal letto e si scruta nel lungo specchio antico, appeso tra la
finestra aperta e il cassettone intarsiato: cosa vedrebbe sua madre, ora?
Riconoscerebbe in questo lungo corpo emaciato, in questi occhi stanchi, nei
capelli troppo lunghi ora incollati alla fronte dall’afa di questa notte africana
il suo figlio prediletto? O vi vedrebbe già, forse, i primi segni della follia?
Perché non può essere che questo, follia, il suo dibattersi dentro questa
ragnatela. I sogni infuocati, che lo lasciano spossato e insoddisfatto, e quella
sensazione di essere osservato, la sensazione di un’impalpabile presenza
sempre vicina. Follia.
Tre colpi sommessi alla porta, non può che essere Alain.
“Già in piedi!” lo saluta l’amico, sorridendo, ma il suo sguardo si muove
veloce nella stanza, come in cerca di qualcosa, forse solo di un segno che
possa rivelargli che cosa stava facendo, cosa fa nudo in piedi davanti allo
specchio.
Elias si stringe nelle spalle: “Mi ha svegliato il caldo”.
“Ah. Stavo per andare via senza salutarti, per non svegliarti, ma poi ho
sentito i tuoi passi sul mio soffitto.”
“Vai via?”
“Sì, te l’avevo detto, non ricordi? Vado a Meknès per vedere i gioielli di
quell’orafo. Non credo, sinceramente, che possano essere migliori di quelli
di qui, ma chissà, potrei anche stupirmi. Sarò di ritorno prima di cena, in
ogni caso. Preparati, che stasera abbiamo un programma.”
Il tono malizioso è confermato dalla strizzata d’occhio.
Elias scuote la testa: “Non so”.
“Oh, sì. Ho promesso al poeta di portarlo da Lalla Jasmina, e tu dovrai
venire con noi, per forza.”
“Alain…”
“Non accetterò un rifiuto. Devo toglierti quell’aria malinconica, stai
diventando spettrale. Bravo, ridi, va già meglio, ma non basta.”
Il suo sguardo sembra indugiare, un istante, sul corpo di Elias: “A stasera.”
Poi, con la stessa affettuosa noncuranza con cui si assesta una pacca sulla
spalla ad un amico, Alain lascia scorrere un dito lungo il torso liscio di Elias,
dal petto fino alla striscia di peluria bionda che scende dall’ombelico al sesso
morbido, a riposo. Solo gli occhi di Alain si muovono, cercando quelli del
giovane amico con un’occhiata divertita, forse anche lievemente
interrogativa. Elias non muove un muscolo, regge il suo sguardo in silenzio.
Le dita dell’amico si avvolgono solo per un secondo attorno al suo cazzo, il
tempo di mandare una scossa al cervello, di farlo socchiudere gli occhi
accogliendo la morbidezza della carezza.
“Un giorno” dice Alain, e sorride, uscendo dalla stanza.

Nessun rifiuto, Alain è stato di parola. Per quanto Elias si sia impegnato per
tutto il giorno a confezionare scuse plausibili, si trova a percorrere, accanto
all’amico, lo strettissimo budello che conduce alla spessa porta di legno
intagliato sormontato da una piccola lanterna dalla luce aranciata. Da fuori
non si ode alcun rumore ma, c’è da scommetterci, dietro le spesse mura un
grammofono sta spandendo nell’aria note languide e le voci drammatiche di
Edith Piaf o di Josephine Baker. Dietro quelle mura ci sarà musica, e fumo,
forse anche risate, non eccessive, mai sguaiate, Lalla Jasmina ci tiene al
decoro della sua casa.
Le ragazze, come al solito, saranno vestite di tutto punto, perfettamente
pettinate e truccate. Belle e fragili come fiori esotici, piene di grazia,
delicate, desiderabili come se non fossero in vendita.

Il gigantesco Othman viene ad aprire la porta, come sempre, e li riceve con


garbo e allegria, come si accolgono clienti abituali, ricordando con una risata
bonaria ad Alain di abbassare la testa, per passare sotto l’arco della porta; lo
fa sempre, da che una volta, dimenticandosene, l’alto straniero aveva battuto
dolorosamente la fronte.
“I vostri amici sono già arrivati” dice.
Infatti eccoli, il poeta ed Hassan, seduti in un angolo, sopra una montagna di
cuscini, che sorseggiano tè alla menta in compagnia della meravigliosa
Amina, che stasera indossa un costume arabo particolarmente ricco, dello
stesso verde smeraldo dei suoi occhi.
La ragazza sta ridendo di una facezia del poeta, di sicuro, anche perché da
Hassan non ci si può aspettare motti di spirito o altro.
Eppure, Elias lo realizza avvicinandosi a loro, la sua presenza non si fa
dimenticare, anche quando ci si è abituati al suo aspetto esotico, ai suoi abiti
blu e al velo che gli copre gran parte del volto, anche dopo essersi rassegnati
al fatto che il poveretto non possa profferire parola… Sarebbe semplice
attribuirgli un ruolo di contorno, puramente decorativo, dimenticarsi di lui
come persona, insomma, dal momento che non può esprimere nulla, né con
le parole né con le espressioni del volto. Ma non è così. Ogni volta che dice
qualcosa, Elias si trova a indagare la reazione degli occhi di Hassan, e anche
mentre sono gli altri a parlare, il suo sguardo si ferma spesso in quelle pozze
verde fluoro, o sulle sue mani, di solito posate quietamente sulle sue
ginocchia, come ora, mentre sta seduto all’orientale, con le gambe
incrociate.
Non si può dire che l’immobilità di Hassan non comunichi. Allo stesso
tempo non si può dire come, pur non facendo nulla, Hassan arrivi a
trasmettere delle sensazioni. Ma è così. Per esempio, Elias, stasera sarebbe
pronto ad affermare di vederlo nervoso, forse per la prima volta da che l’ha
incontrato. Come? Mistero. Eppure sì, c’è della tensione in lui, la avverte.
Forse è Amina, forse l’ambiente.
A parte loro, quella sera ci sono solo due inglesi che conoscono di vista –
archeologi, dicono, ma più probabilmente ladri di reperti che rivenderanno a
collezionisti europei – seduti all’altro angolo dell’ampia stanza con la
giovane Najat e la vivace Habiba. Volgari, ubriachi forse – alcol bevuto
altrove, Lalla Jasmina non permetterebbe – uno dei due ha infilato una mano
sotto al caftano di Habiba e cerca di forzarla a tenere le gambe aperte con
l’altra, mentre le parla nell’orecchio palpandola e ammiccando all’amico.
Elias lo vede tirar fuori la mano e annusarsi le dita con trasporto, prima di
passarle sotto al naso del socio, che si tira Najat più vicina, sul divano su cui
è sprofondato, e la costringe a sedersi sulle sue ginocchia. Le ragazze
sorridono, ma a Elias non sfugge il loro nervosismo.
Tra i due uomini deve esserci in corso una sorta di sfida. Ora è quello con
Najat che fa risalire la mano sulla sua gamba, sotto al vestito. La ragazza
stringe le cosce, ridendo, ma il pollice dell’uomo rivelato dai movimenti
sotto la stoffa, si agita già nel suo grembo. Con il braccio che la circonda se
la stringe di più addosso, la mano impudentemente le abbranca un seno
attraverso il vestito, incurante delle proteste semiserie della ragazza.
Scene usuali nei bordelli di tutto il mondo, ma non qui, non a Fes.
Lalla Jasmina, che fino a quel momento ha finto di non vedere, si avvicina ai
due clienti e, sorridendo, dice qualcosa che li riporta istantaneamente a un
comportamento più consono all’ambiente. Le ragazze si alzano e i due le
seguono verso il piano superiore. Soddisfatta, la tenutaria viene verso di loro
ondeggiando, sulle note di J’ai deux amours, nel tintinnio dei suoi bracciali e
cavigliere, sfoggiando il migliore dei suoi sorrisi. L’età della donna è da
sempre oggetto di discussione tra Elias, Alain e Samir.
Quest’ultimo, che questa sera non si è unito a loro a causa di un
imprescindibile riunione familiare, probabilmente conosce la vera età di
Jasmina, ma si diverte a confonderli, dichiarandone ogni volta una diversa, e
con uguale convinzione. L’aspetto più divertente è che nessuna ipotesi riesce
davvero a convincerli, ma nessuna è davvero improponibile. Lalla Jasmina
potrebbe avere una qualsiasi età compresa tra i trenta i sessant’anni. A volte,
quando è allegra come stasera, sembra poco più grande di loro, quasi
coetanea, in altri momenti, in serate strane, quando qualcosa di doloroso –
che non viene mai rivelato – è passato nella sua vita, il suo bel viso sembra
appesantirsi di anni e anni di tribolazioni e sconfitte. Appare allora fragile,
più magra, più curva, le mani tremanti, gli occhi appannati, crepe impietose
che le solcano gli angoli della bocca volitiva. Quelle sere, di solito, al
grammofono trova posto solo la Piaf, la sua voce potente ma sempre
immaginabile sull’orlo del pianto, anche quando ride.
Stasera però Lalla Jasmina è in gran forma, i suoi gioielli più chiassosi che
mai, il suo sorriso come lo scroscio ininterrotto della fontana al centro del
patio in ombra, lo sguardo scintillante di divertita malizia.
Tra lei e il poeta deve essere passato qualcosa, si cercano con lo sguardo
come complici, mentre Jasmina offre tè alla menta e discorre degli ultimi
eventi della città, come ama fare, senza ostentazione ma con la certezza, per
nulla millantata, di saperne più di consoli e generali.
È solo dopo una mezz’ora di lieve e brillante conversazione che, abbassando
lievemente il tono di voce e le lunghe ciglia annerite dal kohl, e rivolgendosi
– si direbbe – al poeta più che agli altri, che lascia cadere una frase sibillina,
sul fatto con Amina si troveranno perfettamente d’accordo e poi, con garbo,
si congeda.
“È un guaio” dice il poeta, lasciando uscire un sospiro.
Maya Sokol
Maya Sokol è venuta al mondo là dove la sera che si augura è sempre
luminosa, dove il buio si coltiva nelle strade per non farsi mangiare dalla
luce.Dalla madre scultrice ha ereditato la sindrome di Stendhal di fronte ai
corpi, la passione per i bagni al chiaro di luna e il gene della malinconia,
dal padre diplomatico, coltissimo e spietato, il feticismo per i libri e il
disprezzo per i padri e per le serate di gala. Cresciuta nella migliore società,
ha sempre scelto di accompagnarsi alla peggiore, alla crème preferisce la
polpa, ai country club i marciapiedi, il vino rosso allo champagne. Il
profumo del gelsomino le dà ebbrezza. Ha gli occhi di due diversi colori.
Fotografie
di Anonimo

Fotografia di Anonimo
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Hassan e Colette
© 2012 by Maya Sokol

ISBN 9788866650386

LITE PASSION/LITE EDITIONS


http://www.lite-editions.com

AC edizioni Srl – Lite Editions


Sede legale: via Elia Lombardini 6, 20143 Milano
Prima edizione digitale: 2012
info@lite-editions.com www.lite-editions.com

Progetto grafico: Marco De Luca info@dlassociatesdesign.com

Immagine di copertina: Anonimo

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Questo libro è un lavoro di finzione. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono prodotti
dell'immaginazione dell'autore o degli autori o sono usati in modo fittizio e funzionale
all'immaginazione degli autori stessi, non devono essere considerati come reali. Ogni
somiglianza a persone vive e/o morte, eventi realmente accaduti, luoghi e/o organizzazioni
realmente esistenti è da considerarsi totalmente accidentale e/o casuale.

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