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Cap.

2
La morte a pochi minuti dalla nascita
“Soltanto il giorno prima erano come noi, noi come loro, ma a loro è accaduto qualcosa che a noi
non è accaduto e adesso apparteniamo a due umanità distinte”

E. Carrer

Gli operatori che assistono i neonati sperimentano una forte tensione quando sentono la vita e poi la
morte passare tra le loro mani. Intimamente toccati dall’evento luttuoso, spesso sentono di aver fallito
perché non sono stati in grado di salvare il neonato, si interrogano e si domandano se per caso
potevano fare qualcosa di più, se la morte di quel bimbo era evitabile.
Nel loro operare in situazioni estreme provano emozioni, affetti e pensieri intensi e gratificanti se il
bambino risponde alle cure, “terribili” o pacificanti quando, nonostante tutti i tentativi, vedono la vita
lasciare il corpo del bambino che gli è stato affidato e talvolta pacificanti quando arriva la morte dopo
lunga agonia.
Le cose pratiche, che il medico nei momenti limite è chiamato a fare e a considerare sono tante e
manca il tempo di ascoltare e restare in contatto con i propri vissuti. Solo dopo, quando si ferma, può
avvertire l’intensità di ciò che ha vissuto.
Così come la richiesta implicita che la società fa ai genitori in lutto è quella di andare avanti
minimizzando il dolore, dagli operatori ci si aspetta che senza interruzioni continuino a lavorare
occupandosi di altri bambini e di altri genitori. Mentre per non bruciarsi a contatto con esperienze
emotivamente intense è necessario fermarsi e ascoltarsi: “Quali sono le emozioni che vivo a contatto
con questo evento tanto perturbante?”, “In che modo come operatore faccio fronte alla sofferenza e
alla morte del neonato e alla disperazione dei genitori?”.
Mi pare che spesso alle emozioni forti viene riconosciuto lo statuto di emozioni esclusivamente
private, da vivere eventualmente al di fuori del proprio setting professionale e la cui elaborazione è
affidata alla sensibilità personale dell’operatore. C’è da chiedersi: “che fine fanno i sentimenti degli
operatori privati di parole e di pensieri, affogati nella quotidianità, in un prevalere assoluto
dell’agire?”.
Il fare che caratterizza le terapie intensive, dove si procede in bilico tra la vita e la morte, dal punto
di vista psicologico sembra permettere agli operatori di non soffermarsi sul dolore, l’angoscia,
l’impotenza sorte dal contatto con eventi incomprensibile e inaccettabile.
Sarebbe certamente indicato che tutti gli operatori coinvolti avessero almeno la possibilità di
raccontare ciò che è accaduto e ciò che hanno sperimentato emozionalmente, altrimenti è come se la
loro esperienza venisse o negata o comunque considerata indicibile e non elaborabile.
Ritengo che le riunioni di equipe sui casi clinici danno la possibilità di esprimere almeno in parte la
sofferenza, le angosce, i dubbi, le difficoltà che il rapporto con il dolore estremo genera, dando agli
operatori la possibilità di non essere sommersi dalle emozioni e di condividerle perché non scivolino
nel buio.
Narrare le esperienze può essere un mezzo per non lasciarle silenti e indigerite dentro di noi, per
ricordare a noi stessi e all’istituzione, che è fondamentale garantire agli operatori spazi per pensare e
pensarsi, oltre che per fare. Similmente uno spazio di ascolto e condivisione dovrebbe essere
organizzato per aiutare i genitori ad avviare il percorso di elaborazione della perdita e del lutto.
E’ importante che tutti gli operatori che, come me, si confrontano giornalmente con il neonato
sofferente e la sua famiglia, possano condividere le risonanze emotive che sorgono faccia a faccia
con il mistero della vita e della morte. Solo dando parola alle esperienze che si vivono le si rende
umane, degne di attenzione, poiché assumono valore e significato agli occhi nostri e a quelli altrui.
Sono necessari genitori e operatori capaci di atti psichici creativi che cerchino di rendere dicibili i
vissuti emozionali trasformando gli eventi in accadimenti psichici che ci riguardano e ci toccano
intimamente.
Come sottolinea Eugenio Borgna la routine, le abitudini scontate, il linguaggio razionale dei reparti
ospedalieri e dei protocolli medici contribuiscono a spegnere lo slancio delle emozioni e dei
sentimenti, togliendo originalità e creatività ai nostri modi di essere e di vivere.
Le emozioni sono molteplici nelle loro connotazioni tematiche, ma l’elemento comune a ciascuna di
esse è il fatto che ci portano fuori dai confini del nostro io, mettendoci in risonanza con il mondo
delle persone e delle cose. Le emozioni sono un’utile e fondamentale risorsa per stare in contatto con
noi stessi, con l’altro e con una realtà che fa sorgere pressanti interrogativi di senso sulla vita.

Con la testimonianza che segue cercherò di narrare brevemente le emozioni e i sentimenti che ho
sperimentato partecipando, nell’arco di pochi minuti, a due eventi intensi e trasformativi come la
nascita e la morte di un neonato. Si tratta di momenti in cui le risonanze emozionali prevalgono sulle
considerazioni oggettive e razionali, ponendoci dinanzi al mistero dell’esistenza.

Leonardo: Eventi estremi in contiguità

“Siamo nella sala parto di un grande ospedale romano. Ogni cosa è predisposta. I
neonatologi che dovranno assistere il neonato, affetto da ernia diaframmatica
congenita, si fanno conoscere dai genitori, prima che il ginecologo effettui
l’intervento di cesarizzazione.
Alla madre viene praticata l’anestesia epidurale in modo che, se le condizioni
respiratorie del bambino lo consentiranno, lei possa almeno vederlo prima che
venga trasferito presso il reparto di terapia intensiva neonatale.
Il futuro padre è accanto alla moglie.
Come psicologa dell’equipe, che ha seguito la coppia dalla 22° settimana di
gravidanza, sono nel corridoio che separa la sala parto dall’isola neonatale, dove
sarà portato Leonardo per essere assistito.
Il cuore mi batte veloce.
Sono consapevole che quando Leonardo uscirà dalla pancia della madre dovrà
essere assistito dal punto di vista respiratorio per una grave ipoplasia polmonare
che potrebbe determinarne la morte.
Sono in attesa con la speranza che le cose vadano bene, con il timore di non sapere
esattamente cosa accadrà e insieme la curiosità di vedere questo bimbo che, per
mesi, abbiamo seguito in gravidanza, a seguito della scelta dei genitori di dargli
l’opportunità di nascere.
Appena Leonardo viene alla luce, l’ostetrica lo porta velocemente nell’isola
neonatale.
Rimango ferma nel corridoio per qualche secondo e poi entro, spinta dalla
necessità di vedere il bambino e di capire come sta.
Non mi posso avvicinare quanto vorrei perché lo spazio è ristretto e ci sono vari
operatori intorno al bambino.
Torno nel corridoio, il padre mi raggiunge dopo poco.
Gli racconto che Leonardo ha tanti capelli, le mani e i piedini lunghi e un bel visetto
tondo.
Mi viene naturale descriverlo per rendergli un po’ più reale la nascita del figlio.
Tutti i gesti, i rituali e le emozioni che in genere accompagnano i primi momenti di
vita – vederlo, toccarlo, sorridergli - sono completamente mancati alla coppia dei
genitori.
Il papà è lì in attesa, mentre il figlio sta lottando per la vita e la moglie è sul lettino
della camera operatoria. Io, che condivido con lui quegli istanti infiniti di attesa,
ho la sensazione di vivere un tempo sospeso. La mente sembra non riuscire a
capacitarsi di tutto ciò che sta avvenendo. Non ci sono parole.
Il padre rompe il silenzio: mi dice di avvertire delle strane sensazioni, la più intensa
è un profondo senso di irrealtà, gli sembra impossibile che Leonardo sia nato e
che, effettivamente, a pochi passi da lui, i medici stiano facendo il possibile per
garantirgli la sopravvivenza.
I minuti cominciano a scorrere uno dopo l’altro, saturi, densi di attesa.
L’ansia, sua e mia, si trasforma in paura: nessuno viene a darci notizie.
Entrambi immaginiamo che ci debbano essere dei problemi ma non ci diciamo
nulla.
Decido di entrare, immediatamente percepisco la preoccupazione e la tensione dei
medici e, anche se nessuno mi parla, comprendo dal colorito del bambino che la
sua ossigenazione è pessima.
Quando esco, il padre mi rivolge uno sguardo interrogativo ma non chiede nulla.
Gli dico che la situazione è grave e che i medici stanno faticando per garantire una
buona ossigenazione a Leonardo.
E’una realtà cruda, semplice, tagliente, così reale da sembrare irreale. E’come
ritrovarsi a dire con tono pacato che il mondo sta crollando.
Mi trovo a constatare gli eventi in maniera fredda e distaccata, l’emozione sorge
solo quando penso e rifletto su ciò che quelle parole implicano.
La considerazione del padre è semplicemente questa:“Che potesse essere così
difficile da subito non ci avevamo mai pensato”. Le aspettative del padre vengono
tradite: il ciclo della vita non prevede che nascita e morte avvengano insieme.
Mi sembra che il senso di irrealtà, che il padre ed io condividiamo in quel momento,
nasca dal forte contrasto tra la gioia potenziale per la nascita del figlio e il timore
per la sua morte imminente. Questi due eventi contrastanti ed insieme così vicini ci
travolgono e sembrano disgregare temporaneamente ogni capacità di pensiero.
Volendo cercare altre metafore potrei dire che era come se ci fosse un tempo
esterno, quello della realtà che scorreva nitida, cruda, senza sbavature e un tempo
interiore molto più lento e dilatato.
Il contesto richiede la capacità di esserci senza poter far niente. Malgrado
l’urgenza che si respira tutto intorno, ed è uno stato-sensazione molto difficile da
sopportare.
Il padre torna in sala operatoria dalla moglie.
Mi ritrovo nuovamente sola, avverto il desiderio e la paura di affacciarmi nell’isola
neonatale. L’atmosfera e il silenzio sono tali che immagino che la situazione stia
precipitando.
Quando entro, vedo che stanno rianimando Leonardo.
L’ultimo tentativo per tenerlo in vita.
C’è silenzio, tensione, preoccupazione nel viso di tutti i presenti.
Dall’espressione del neonatologo, che ben conosco, comprendo che il bambino sta
morendo, non risponde neanche al massaggio cardiaco.
Esco. Dentro di me c’è un urlo silenzioso: “No, non così, non ora, non così presto”.
I miei pensieri sono rivolti alla madre che tra pochi minuti, quando il cesareo sarà
concluso, chiederà di suo figlio.
Non oso immaginare il suo dolore e mi chiedo in che modo sia meglio avvicinarla
alla realtà.
Mi ritrovo nel corridoio, il padre esce dalla sala parto e mi viene incontro, gli
confermo che la situazione è molto grave, c’è il rischio che Leonardo non ce la
faccia.
Il padre mi ripete: “Non avevo mai pensato che potesse accadere così presto e
senza battaglie”.
Ci guardiamo in silenzio. Dopo qualche secondo decide di tornare dalla moglie;
vuole informarla che la situazione del bambino è difficile.
Le sue uniche parole sono: “Vado da Giulia”.
La mamma, che lo ha tenuto dentro di sé per nove mesi, deve sapere ciò che sta
accadendo.
Questo sembra essere il pensiero che lo spinge ad andare da lei.
Nell’impossibilità di stare accanto al figlio e di aiutarlo, così come di stare in
contatto con il pensiero che il figlio, appena nato, sta morendo, cerca la vicinanza
e la condivisione con la moglie.
Io invece vorrei poter stare accanto al bambino, assicurargli una presenza affettiva
e avere così modo, ancora una volta, di rendermi conto di quali siano
effettivamente le sue condizioni.
L’angoscia spinge anche me a fare qualcosa per attenuarne l’intensità.
Temo l’incontro con la madre, sono consapevole che ciò che le diremo le cambierà
la vita, sarà uno spartiacque indelebile nella sua esistenza.
Sperimento di nuovo un forte senso di irrealtà che si coniuga con la percezione di
un tempo come sospeso: sto partecipando ad un evento terribile, violento per la
sua rapidità, che cambierà il corso della vita dei genitori e lascerà certamente un
segno dentro di me.
Non ricordo dopo quanti minuti la madre è uscita dalla camera operatoria.
Ho ancora in mente il suo sguardo alla ricerca di notizie.
Vado verso di lei a malincuore, consapevole che non c’è modo di attutire il dolore,
che la cruda realtà dei fatti genererà. Speravo di poter condividere con lei un
percorso diverso.
Mentre mi avvicino chiedo all’infermiera se è possibile avere una stanza a
disposizione per la mamma.
Mi informa che momentaneamente è tutto occupato.
La mamma è su una barella. A pochi metri da noi c’è un’altra madre che ha appena
partorito con accanto un’incubatrice.
Non ricordo se Giulia mi ha chiesto qualcosa, certamente dentro di me c’è una
forte pressione che mi spinge a pensare: “E’ la mamma, è importante che sappia
ciò che sta accadendo”.
Quando incontro i suoi occhi è chiaro che è molto spaventata, le dico che Leonardo
è un bel bimbo, che è lungo, pesa circa tre kili, più di quanto ci eravamo immaginati
ma purtroppo la situazione è grave, molto più seria del previsto: i medici fanno
molta fatica a farlo respirare.
La mamma comincia a piangere.
Il marito le si avvicina, Giulia cerca la sua mano, stiamo così in silenzio.
C’è spazio solo per sguardi e contatti fugaci.
Cerco di essere vicina, presente, in ascolto, ma gli occhi sbarrati e terrorizzati di
Giulia mi fanno quasi ammutolire e rimane solo il contatto tattile per trasmetterle
la mia vicinanza.
Dopo pochi minuti i medici chiamano il padre.
Io resto con Giulia.
Quando il marito ritorna, dall’espressione del volto è chiaro che il bambino è
morto.
Non ricordo le parole con cui l’ha detto a Giulia; ricordo i loro volti, i pianti, gli
sguardi e la mia sensazione di voler scomparire, di non voler assistere a tanto
dolore.
Una sofferenza immensa stava manifestandosi davanti ai miei occhi. Era accaduto
l’inconcepibile, ciò che nessuno di noi si era immaginato: la morte immediata di
un bimbo, atteso per nove mesi.
Ci aspettavamo una lotta, come diceva il papà, una battaglia in terapia intensiva
che speravamo potesse portare Leonardo alla vita, invece l’immobilità, il silenzio,
la morte.
Marito e moglie non si possono neanche abbracciare perché lei è bloccata sulla
barella.
Finalmente danno una stanza a Giulia, che ripete di continuo: “Non così, non in
questo modo, non doveva andare così”. A questa considerazione della madre, che
non si capacita che la morte del figlio sia potuta accadere, segue questa riflessione
del padre: “Nonostante tutto rifarei le stesse scelte, almeno così non abbiamo
rimpianti, sappiamo di aver fatto il possibile”.
La madre aggiunge: “Lo volevo così tanto questo bambino ma si ricorda,
dottoressa, che avevo sognato la scena del funerale?”.
L’ascolto e poi le domando se vuole vederlo, è titubante, il marito le consiglia di
vederlo, lui l’ha voluto vedere.
Quando Giulia mi dice: “Si”, faccio mettere il bimbo in una culletta aperta e lo
porto da lei, avvicinandomi lentamente. Nel compiere questi gesti mi sento incerta,
mi domando se la vista immediata del figlio non possa rappresentare un’ulteriore
violenza, un confronto troppo brusco con una realtà che, appare terribile già a
parole.
Giulia lo guarda un attimo ma, come immaginavo, è troppo doloroso. Quel corpo
immobile è troppo distante della sensazione di lui vivo, dentro di lei. Scoppia a
piangere e mi chiede di portarlo via dicendo: “Adesso non ce la faccio”.
E’ troppo intenso il contrasto che separa le speranze timorose vissute in gravidanza
e la morte quasi immediata del figlio, avvenuta prima ancora di poter gioire per la
sua nascita.
Anche per me è difficile rimanere in contatto con il bambino, il cui viso, per altro
bellissimo, è già segnato dalla rianimazione subita.
Con la morte si sgretola e svanisce per i genitori la possibilità di condividere la
vita con Leonardo. Avevano deciso di farlo nascere malgrado la malformazione,
dopo un percorso decisionale sofferto e denso di dubbi ed interrogativi etici: “Cosa
è giusto fare? Abbiamo il diritto di mettere al mondo un figlio che già sappiamo
dovrà soffrire e forse morire?”.
Come sottolineano vari autori, quando la morte sopravviene subito dopo il parto,
rimane solo uno straziante senso di vuoto. Nessuno ha conosciuto quel bambino,
l’unica ad avere memorie chiare della sua presenza è la madre, che per nove mesi
l’ha sentito crescere e muovere dentro di sé.
La madre piange, ripete che non doveva andare così, che non aveva mai
lontanamente immaginato che suo figlio potesse morire subito, così, in questo
modo.
“Siamo proprio sfortunati” dice il padre e aggiunge: “forse era meglio se la
gravidanza si fosse interrotta quando ci sono state le minacce d’aborto”.
La moglie non risponde e io, che sento la rabbia e l’amarezza racchiuse in quelle
parole, non dico nulla, mantengo la mia attenzione su di lei, che percepisco senza
barriere difensive ed inerme rispetto alla catastrofe emotiva generata dalla morte
del figlio.
Mi sento in colpa perché io e non lei, che è la madre, ho assistito ai pochi attimi
della vita del figlio.
L’incomprensibilità dell’esperienza è legata, a mio parere, alla coincidenza
temporale tra nascita e morte: i minuti di vita sono stati segnati dalla presenza
sempre più invadente della morte. Quando i colleghi, con cui ero venuta, mi
chiamano per tornare in ospedale mi congedo dai genitori ricordando che sono a
loro disposizione per qualsiasi cosa.
Mi ringraziano per essere stata con loro.
E ‘difficile per me accettare quel ringraziamento ed è come se non li ascoltassi. Li
sto lasciando in un mare di dolore, di cosa mi ringraziano?
Forse quel ringraziamento stava mettendo una distanza, sottolineava la
disuguaglianza delle nostre esperienze.
Quando li saluto anche io, come loro, sono sconvolta. Tremo.
Faccio fatica a rendermi conto di ciò che è accaduto; voglio scappare via per
allontanarmi dal contatto diretto col dolore ma, lasciandoli, mi ritrovo a tu per tu
con le mie emozioni.
Sono turbata e profondamente dispiaciuta per i genitori, per Leonardo, per me in
quanto essere umano. Mi chiedo perché devono esistere questi abissi di dolore e
quale il loro senso. Ho voglia di mangiare, di bere, di riprendere contatto con la
normalità”.
Per i genitori, che rimangono in ospedale, non è previsto alcun aiuto per affrontare
questo difficile momento ed il lento processo del lutto. Io, pur dando la mia
disponibilità, non sto in quell’ospedale e non vengo mai contattata nei giorni
successivi e non ci sono ritornata.
A distanza di tempo, ho voluto scrivere una lettera per congedarmi e allo stesso
tempo per rinnovare la mia disponibilità ad un incontro se e quando ne sentissero
l’esigenza. Ho rincontrato i genitori di Leonardo dopo alcuni mesi e circa un anno
dopo hanno condiviso anche con me la gioia timorosa di essere nuovamente in
attesa.

"A tu per tu con le emozioni"

"Non abbiate paura delle vostre ferite, dei vostri limiti, della vostra impotenza.
Perché è con quel bagaglio che siete al servizio dei malati e non con le vostre
presunte forze, con il vostro presunto sapere"
Frank Ostaseski

Nel suo scritto Lucia ci ha dato testimonianza di quanto la morte di un bambino appena nato rappresenti
un'esperienza traumatica e disorientante non solo per i genitori ma anche per chi opera in TIN, abituato
a convivere con i difficili problemi della sopravvivenza e talvolta con la morte dei bambini ricoverati.
Certamente la consuetudine con i genitori del piccolo Leonardo, seguiti durante gli ultimi cinque
mesi di gravidanza e raggiunti nel momento del parto, ci rivela una disponibilità affettiva relazionale
nei loro confronti e la possibilità di un coinvolgimento profondo, che si può cogliere anche
nelle frasi brevi, essenziali, quasi mozze della sua testimonianza.
Cercheremo di ripercorrere gli stati d'animo che Lucia vive in quel corridoio
d'ospedale, luogo di passaggio e di attesa tra la sala parto e l'isola neonatale dove il
neonato, nel tentativo di salvarlo, era stato portato con estrema urgenza. Uno spazio
intermedio, silenzioso, dove il tempo appare come "sospeso", quasi "irreale" - non
è infatti il tempo del "fare" ma dello stare, dell'attendere, del sentire, dell'essere di
fronte al tempo della vita.
Lucia fin dall'inizio è "in allarme", il cuore le "batte veloce". La preoccupazione
per quel che può accadere e la necessità di conoscere la realtà della situazione la fa
entrare più volte nell'isola neonatale. Al ritorno non nasconde mai la verità al padre
in attesa, si attiene ai fatti, sottolineando gli aspetti fisici e positivi del neonato, che
"è più grande di quanto ci aspettavamo, ha tanti capelli, mani e piedini lunghi, un
bel visetto tondo", ma anche quelli preoccupanti "la situazione è grave, stanno
cercando di rianimarlo.... c'è il rischio che Leonardo non ce la faccia".
Nell'esprimersi in questo modo Lucia mantiene la sua lucidità ma si distacca dalle
proprie emozioni, che emergono appena riesce a pensare e riflettere su ciò che
queste parole implicano: "parole semplici, crude, taglienti, come ritrovarsi a dire in
modo pacato che il mondo sta crollando". Ma distacco e freddezza sono solo
apparenti tanto che, poco dopo, quando non ci sono più speranze per la vita di
Leonardo, "tutto il suo corpo trema" e un "urlo silenzioso" risuona dentro di lei, le
attraversa il corpo e la travolge.
A queste risposte del tutto emozionali, incontrollabili, segue la considerazione:
“No, non così, non ora, non così presto...... senza che tua madre e tuo padre possano
vederti..., senza che io possa fare niente per te". Il desiderio di essere vicina al
neonato, ormai morente, per garantirgli quella presenza affettiva, che i genitori in
quel momento estremo non potevano offrirgli, non è realizzabile: come loro deve
reggere l'impotenza di non poter far nulla, se non essere presente con tutta se stessa,
con un'attenzione rivolta al piccolo Leonardo, al padre, alla madre e agli altri
operatori "in affanno" all'interno dell'isola neonatale.
Le forti emozioni trovano nelle reazioni fisiche del tremore, dell'urlo silenzioso e
degli spostamenti una via per esprimere l'eccesso pulsionale e fronteggiare l'ansia,
l'impotenza, lo sgomento, da cui Lucia si sente invasa. Attraverso le proprie
risonanze può immedesimarsi e comprendere cosa passa nel cuore e nella mente
dei genitori alla definitiva notizia della morte del loro figlio: il suo vissuto e le
parole che l'accompagnano sono le stesse che pronunciano il padre e anche la
madre. La differenza è solo il "così non è giusto" dei genitori. L'operatrice conosce
per esperienza che non c'è il giusto e lo sbagliato, sa che quella è la realtà, dolorosa
e immodificabile, ma è ben consapevole della sofferenza presente e futura dei
genitori, in particolare della madre. Le si avvicina però "a malincuore", perché
"quegli occhi sbarrati e pieni di terrore fanno spavento". Non ci sono parole per
condividere la pena della morte di Leonardo, all'inizio solo l'ascolto e il contatto
corporeo divengono la via per comunicare la sua partecipazione e comprensione
dello shock e dello smarrimento che a mamma sta vivendo nella fase iniziale del
processo del lutto.
Più tardi, quando c'è a disposizione uno spazio riservato, Lucia le chiede se vuole vedere il
bambino, ormai deceduto, atto che molte altre madri nelle sue stesse condizioni rimpiangono
di non aver vissuto. Il contatto corporeo con il proprio figlio, il tenerlo in braccio, lavarlo,
vestirlo, partecipare al funerale divengono degli atti rituali che permettono di riconoscerlo
come proprio e di dare valore e realtà alla sua esistenza, ne celebrano la nascita e la morte,
la presenza e l'assenza e, successivamente nel tempo, sono immagini, sensazioni, ricordi,
memorie a cui far riferimento e che possono confortare. La mamma di Leonardo,
diversamente dal padre, non regge alla vista del figlio immobile e senza vita, non può
riconoscerlo come suo, non è il bambino che aveva immaginato, sperato ed atteso, è troppo
forte la delusione, il disorientamento.
Anche per Lucia, che è sconvolta, tremante e fa "fatica a rendersi conto di quanto è
accaduto", è difficile rimanere in contatto con il volto del neonato e sperimenta un
senso di colpa per aver assistito ai pochi momenti della sua vita, pensando che né
il padre, né la madre hanno avuto questa possibilità.
Più tardi, al momento dei saluti, ha delle perplessità nell' accettare i ringraziamenti
della coppia, pensa che con quelle parole i genitori vogliono porre una distanza,
segnalare la loro diversità. Spesso gli operatori si meravigliano della disponibilità
affettiva dei genitori verso chi li ha seguiti senza un buon esito, non valutano a
sufficienza che, con la loro presenza, i genitori si sono sentiti meno soli, meno
abbandonati in balia di eventi sconvolgenti. In questa situazione inoltre nessuna
altra persona conosciuta era stata testimone della breve esistenza di Leonardo
e aveva condiviso con loro questa esperienza estrema: sono attimi preziosi di
vicinanza e contatto che riducono l'intensità del sentimento di sperdimento e di
vuoto.
Forse i genitori avevano semplicemente bisogno di ritrovarsi da soli, in intimità,
per condividere insieme il dolore della perdita del loro bambino. Parallelamente
anche Lucia sente il bisogno di ritrovarsi, di stare con se stessa e sottrarsi alla
relazione per evitare quel cumulo di sofferenza che ha davanti e che si assomma
alla propria.
In seguito, uscendo dall'ospedale, sente anche il desiderio di cose che la riportino
alla quotidianità della vita, quasi a compensare il travaglio patito. E' una salutare e
necessaria considerazione dei propri bisogni. Gli operatori, che ogni giorno vivono
e soffrono situazioni estreme e stressanti, dovrebbero concedersi ampi spazi di
normalità e di relazionalità proprio per non incorrere nel burn out, in un esaurimento
della tensione emozionale nel proprio lavoro.
Nell'allontanarsi Lucia, oltre a ritrovarsi a tu per tu con le proprie emozioni, si pone
le grandi domande esistenziali: "Perché tanto dolore? Quale il senso della vita?".
Domande a cui ciascuno è tenuto a rispondere individualmente. Certamente la
sofferenza e la morte sono esperienze che toccano nel profondo, disorientano,
ribaltano aspettative e speranze, provocano sgomento ma possono offrire uno
stimolo ad interrogarsi sul senso del nostro e altrui essere al mondo, sul mistero e
l'inconoscibile "oltre" che ci attende: un modo per uscire dall'angusta prigione
dell'Io e del mio per accedere all'altro, al noi, all'umano sentire.
Come donna, come operatrice e come essere umano Lucia ha quindi sperimentato
una pluralità di affetti, emozioni, sentimenti anche contrastanti tra loro e difficili da
ricomporre. Echi profondi e intimi legati all'essere persona con tutte le fragilità e le
risorse che la condizione umana comporta. Nelle terapie intensive gli operatori
vivono profonde risonanze emozionali, non si possono trincerare dietro il camice
del professionista, medico, infermiere o psicologo che sia, divenendo semplici
spettatori, nella presunzione illusoria di non esserne toccati.
Il coinvolgimento emotivo non può essere annullato o ammortizzato dall’instaurarsi
di una sorta di abitudine o da una sopravvalutazione delle proprie capacità, se non
a prezzo di una compromissione della propria crescita e benessere personale e della
qualità della relazione con gli altri.
Tali modalità difensive, che si instaurano più o meno consapevolmente per
proteggersi quando le emozioni rischiano di prendere il sopravvento, sono
inevitabili e talvolta necessarie. Noi siamo anche le nostre difese ma dobbiamo
essere consapevoli delle situazioni in cui ci si sente troppo distanti, insensibili o
troppo coinvolti, a disagio, preoccupati, ansiosi, angosciati, dando spazio al
riconoscimento e all’elaborazione di questi sentimenti e degli eventi relazionali che
li hanno destati.
Come reggere e contenere l'inevitabile carico emotivo, senza adottare
una disposizione mentale antalgica, che influisce negativamente nell'agire
professionale oltre che negli altri aspetti della vita personale?
La risposta che emerge dall'esperienza di lavoro e dalla sensibilità di Lucia è quella
di partire dall'analisi del proprio sentire per accedere poi al dialogo e alla
condivisione con gli altri operatori.
Esprimere e riconoscere il proprio smarrimento fisico, emotivo, mentale,
attraversare il territorio della solitudine, dell'impotenza, della sofferenza, del
dissolvimento delle speranze e dei desideri, affacciarsi sul mistero della finitezza
umana è una condizione necessaria per la propria maturazione e per trovare poi la
forza e la speranza per la creazione di qualcosa di nuovo. E' questa la potenzialità
occulta ma generativa del dolore, se lo si ascolta.
Lucia, dopo la dolorosa esperienza della morte "violenta" del piccolo Leonardo, ha
sentito l'urgenza di dare ordine agli stati d'animo sperimentati in una narrazione
coerente, ricomponendo i diversi aspetti personali e professionali dell'esperienza
vissuta.
Connettere insieme fatti e vissuti permette di mutare nel profondo il rapporto con
le proprie emozioni, passando da un coinvolgimento o da un'identificazione con
esse alla possibilità di osservarle di fronte a sè con maggiore obiettività, in questo
modo diventano meno violente, meno angosciose, un poco più accettabili e
soprattutto condivisibili.
Il passo successivo del processo creativo ed elaborativo che può sostenere gli
operatori è quello di avere a disposizione uno spazio-tempo comune per rinarrare
gli eventi e condividere le risonanze emozionali sottese alle difficili situazioni
cliniche seguite: risonanze talvolta impensabili, inesprimibili con parole tanto sono
profonde, e talvolta non riconosciute, sottovalutate o considerate segni di
debolezza, di incapacità, di indulgenza verso il proprio dolore, quasi un
autocompiangersi.
Gli operatori devono pretendere all'interno dell'istituzione, in cui lavorano, uno
spazio-tempo in cui poter con-dividere, ovvero dividere insieme, disagio, dolore,
solitudine, difficoltà, paure, impotenza, vulnerabilità ed anche soddisfazioni,
speranze, esperienze e risultati positivi: uno spazio in cui rompere il silenzio e
scoprire la somiglianza e la differenza delle proprie reazioni emozionali e delle
proprie considerazioni da quelle degli altri. L’impegno comune, centrato sullo
scambio interpersonale, attiva un intenso campo psichico, che consente un
arricchimento reciproco e favorisce l’esperienza di un livello di coscienza, quale
raramente da soli ci si concede.

Un percorso non semplice perchè, come un'infermiera con sincerità ha rivelato


durante un incontro di supervisione a un gruppo di operatori: “c’è paura ad esporsi,
timore di essere contagiati dal dolore degli altri e di risvegliare il proprio dolore,
c’è pudore, c’è ritegno, c’è timore, c’è vergogna nell’aprirsi fino in fondo, nel
mostrare la propria insicurezza, la propria debolezza”. Il riconoscimento della
propria vulnerabilità significa tollerarne la presenza e rispettarla anche negli altri:
requisito indispensabile nel processo di umanizzazione della cura e dei curanti.
Infine Lucia fa appello all'istituzione perché prenda in considerazione non solo i
bisogni degli operatori ma anche dei genitori, in genere soli ad affrontare eventi
traumatici, dolorosi, come quello descritto, e soli ad affrontare il percorso del lutto.
E' necessario affiancarsi a loro, accompagnarli, pur con la consapevolezza che non
si può in alcun modo attenuare la loro intollerabile sofferenza, perché è la loro
esperienza di vita, ma la si può ascoltare, comprendere e condividere, essendo un
comune e umano sentire e soffrire.
Questa "comunità di destino" come Eugenio Borgna la chiama, la si può vivere nei
reparti di terapia intensiva "quando riusciamo ad uscire dalla nostra individualità,
dai confini del nostro egoismo, e non viviamo il dolore, la sofferenza altrui, come
qualcosa che non ci tocca ma invece, e sinceramente, come qualcosa che ferisce
anche noi: come qualcosa, cioè, che non ci è estraneo, o indifferente, e nel quale si
sia tutti implicati. La comunità di destino è solo visibile agli occhi del cuore: è
quella nella quale ciascuno di noi sa sentire e vivere il destino di dolore, di angoscia,
di disperazione, di gioia e di speranza dell'altro come se fosse, almeno in parte,
anche il nostro destino: il destino di ciascuno di noi".

Quando l’attesa è per sempre: i genitori colpiti da lutto perinatale

Claudia Ravaldi: Medico psichiatra e psicoterapeuta, fondatrice e presidente Associazione


CiaoLapo onlus

Per i genitori la morte di un bambino alla nascita è un dramma muto,


una catastrofe brutale e il più delle volte silenziosa.
Monique Bydlowski

Il percorso psicologico e fisico che si innesca nelle madri e nei padri durante una gravidanza
desiderata è un percorso di crescita e di innovazione di grande portata, sia sul piano intrapsichico che
sul piano relazionale: le modificazioni che avvengono nella mente delle madri mirano a creare uno
spazio in cui accogliere una nuova persona, già amata spesso ancor prima che attesa, e verso la quale
si innescano meccanismi istintivi e incondizionati di cura, protezione e responsabilità. Anche nella
mente dei padri avvengono modificazioni significative, per quanto a volte impercettibili, legate
soprattutto alla gestione, apparentemente più pragmatica che emotiva, della nuova situazione
familiare. Spesso nei padri, durante l’attesa, è molto forte la sensazione di dover e voler essere
presenti e disponibili per proteggere, tutelare e sostenere la coppia madre-bambino. Nelle mamme e
nei papà avvengono in misura crescente via via che si avvicina la data presunta del parto vere e proprie
trasformazioni: si passa dal desiderio di un figlio alla sua attesa, dal recupero di vecchi valori e antiche
memorie filiali alle fantasie su ciò che sarà, in una proiezione di sé stessi, come singoli e come coppia
in un futuro nuovo, in una nuova relazione. Si assiste a un “divenire genitori” che si sviluppa e si
rinsalda nell’identità del singolo e della coppia spesso molto prima del parto. La genitorialità è un
fenomeno irreversibile, un processo a tratti scarsamente consapevole e non del tutto conscio, che
trasforma le prospettive e i progetti della coppia, modificandola in triade, nel caso dell’attesa di un
primo figlio, o in famiglia che aumenta, quando si aspettano altri bambini.
L’attesa di un figlio non è mai dunque un atto neutro, viste le trasformazioni che implica nel singolo
e nella coppia e visto lo spazio psichico e relazionale che, durante l’attesa, si crea per quel bambino
specifico e per lui soltanto.
Pensare a un nascituro attribuendogli un nome o un nomignolo in modo esplicito o solo nella propria
mente, fantasticare sul suo volto o sulle sue future qualità, è un modo per sancire la relazione che si
sta creando e per affermare l’appartenenza di quel bambino alla sua famiglia. Questo procedimento
è parte costituente del progetto genitoriale.
Una patologia a carico del bambino, sia curabile che incurabile, o la morte di un bambino durante la
gravidanza o alla nascita è sempre per i genitori un momento di grave sconvolgimento e shock.

*Medico psichiatra e psicoterapeuta, fondatrice e presidente Associazione CiaoLapo onlus,


www.ciaolapo.it

La morte, inaspettata o annunciata che sia, non cancella il processo genitoriale, ma lo sospende per
un tempo indefinito.
Pensare che si diventi genitori solo nel momento immediatamente successivo a un parto andato a
buon fine è un grave errore concettuale, che non tiene conto di tutto il movimento psichico e
relazionale compiuto dal singolo e dalla coppia in attesa e che può avere ripercussioni molto gravi
sull’equilibrio e sul benessere della coppia colpita dal lutto.
“Non ci pensare, la prossima volta andrà meglio!” o “E’ una patologia rarissima, non vi capiterà
due volte!” sono frasi inappropriate per i genitori in lutto, che nel nostro paese vengono ancora
pronunciate fuori e dentro gli ospedali, con l’idea (errata) che questo lutto sia più consolabile e
superabile di altri, dal momento che “i figli si rifanno” e “si può sempre avere un altro bambino”.
In realtà il lutto perinatale, come nel caso narrato nelle pagine precedenti, ci costringe a fare i conti
con uno scenario particolarmente spaventoso, ad affrontare il quale non siamo preparati: la morte che
irrompe e vince sulla nascita non è pensabile, tocca corde profonde nell’uomo andando a minare
alcune sicurezze relative al ciclo della vita, al senso della vita, all’impotenza rispetto alla morte. Un
lutto che irrompe in sala parto, nella nursery o in TIN è un lutto che evidenzia la nostra umana
incapacità a controllare gli eventi indesiderati. Ci riporta di fronte al limite e un modo per sottrarsi
all’angoscia del limite è esorcizzarlo.
I genitori in lutto, testimoni viventi del limite, loro malgrado, vivono un lutto triplice: non piangono
solo i loro progetti di vita e il loro bambino morto, ma piangono anche la difficoltà a condividere un
dolore che fa ancora troppa paura per essere accolto e sostenuto.
Come conseguenza di questa difficoltà, più culturale che antropologica, i genitori si trovano soli e
sospesi fin dalla diagnosi, circondati da persone che non riescono a assumere il paziente ruolo dei
“mangiatori di dolore”, così ben narrato da Catherine Dunne (1) in una sua recente pubblicazione:
"In lingua Urdu c’è un modo di dire che amo: «ghum-khaur». Significa «mangiatori di dolore», e
identifica la comunità che si raccoglie intorno a chi vive un lutto, per assorbirne lo strazio. In quella
lingua non ci sono parole per definire un dolore vissuto in solitudine; manca l’idea stessa della
privatezza della perdita.
La nostra cultura, basata sulla performance, sul risultato, sul successo, sull’illusione del lieto fine ad
ogni costo più che sull’utilizzo armonioso del tempo e sulla condivisione, non offre il tempo e lo
spazio ai genitori per compiere i riti necessari a riconoscere la perdita del figlio e fare le scelte
possibili al fine di elaborare al meglio il lutto perinatale senza rimanere intrappolati nel tempo
dell’attesa.
La perdita di un figlio alle soglie della vita è un trauma particolarmente tagliente: priva i genitori non
solo di quel figlio specifico, ma anche di tutti i progetti di vita associati alla sua attesa e al suo arrivo.
Questo lutto è inoltre scarsamente riconosciuto dalla società e scarsamente condivisibile
1) C. Dunne, The death of a child, Peter Stanford, Continuum Edizioni 2011
all’esterno della propria cerchia ristretta di amici e parenti e degli operatori ospedalieri che si trovano
a loro modo coinvolti nell’assistenza alla coppia nel momento più drammatico della loro vita.
Può un bambino che muore alla nascita essere parte di una famiglia ed essere amato e pianto dalla
sua famiglia anche se non è mai vissuto al di fuori della pancia?
Può, se teniamo conto e rispettiamo il legame in crescendo dei genitori per il figlio e restituiamo
valore alla relazione in quanto tale, e non alla sua durata.
Per poter elaborare questa perdita che disintegra il progetto di famiglia dei genitori e rischia di
disintegrare anche la coppia o l’equilibrio psichico del singolo, i genitori in lutto necessitano di una
cornice empatica e protettiva che permetta loro di validare non solo l’importanza dell’evento morte
per le loro vite -" la cosa peggiore che ci sia mai capitata”- ma anche l’importanza del legame e della
relazione con il bambino morto.
Diranno che non sei nato,
registrandoti come nato morto.
Ma tu sei vissuto per me, tutto quel tempo,
nell’oscura camera del mio ventre,
e quando adesso penso a te,
impeccabile nella tua piccola morte,
io so che per me tu sei appena nato ancora;
ti porterò con me per sempre,
bimbo mio, tu sei sempre stato mio,
tu sarai mio per sempre.
La morte e la vita sono il medesimo mistero.
Leonard Clark

Percepire la presenza di una cornice empatica e di uno spazio fisico, ma anche psichico e temporale
per sintonizzarsi sull’evento, permette ai genitori di sviluppare le loro risorse personali e la loro
progettualità, anche in questa drammatica situazione.
Validare l’importanza di quella relazione precocemente interrotta è compito degli operatori
soprattutto nelle fasi iniziali di estremo shock: i genitori, piegati dal dolore e confusi dalla paura
dell’indicibile evento, ripongono notevoli speranze nell’operato del personale sanitario, che si trova
ad essere testimone del passaggio del loro figlio su questa terra, anche se per pochi istanti. I genitori,
smarriti e increduli ma pur sempre e per sempre genitori di quel bambino, si aspettano un sostegno
emotivo e una presenza partecipe e discreta degli operatori nel percorso decisionale. L’operatore è
per il genitore spesso uno specchio, attraverso il quale valutare la liceità di quello che ancora si può
fare, di come si può esprimere il dolore e di come si può vivere il saluto al proprio figlio. I genitori si
aspettano di leggere negli occhi degli operatori sostegno e non paura, nei loro gesti rispetto e amore
e non evitamento e negazione, soprattutto perché sono gli operatori stessi, entrando in contatto col
corpo del bambino, che dovrebbero fare da tramite tra il bimbo morto ed i genitori.
Stare accanto a un genitore in lutto è compito difficile ma necessario, che consente al genitore di
compiere le migliori scelte possibili in quel momento (scelte che possono essere differenti da genitore
a genitore), e restituisce al genitore la sensazione di avere fatto del suo meglio ed essere stato
all’interno della difficile esperienza nel modo più giusto possibile per lui.
Non c’è nulla che aggravi l’elaborazione del lutto perinatale più del percepire abbandono e
indifferenza da parte dei curanti e dalla ristretta cerchia delle relazioni significative.
Questo fenomeno, definito traumatizzazione secondaria, è molto pericoloso, perché può ostacolare
l’elaborazione del lutto e innescare nei genitori dei meccanismi di reazione scarsamente adattivi o
chiaramente disadattivi.
Offrire ai genitori la possibilità di narrare il legame col proprio bambino e di coltivare per quanto
possibile il ricordo di quella specifica esperienza genitoriale, permette una migliore adattabilità al
lutto e riduce il rischio di patologie psichiatriche importanti nelle gravidanze successive e dopo le
nuove nascite. Offrire ai genitori la possibilità di tenere a mente tutte le declinazioni della loro
genitorialità, anche quelle più drammatiche e intense, permette loro di dare lo spazio dovuto a ciascun
bambino, senza sovrapporre storie diverse, senza amplificare le assenze a discapito delle presenze
affettive.
“Finalmente siete genitori anche voi!” è ad esempio una delle frasi più spesso ascoltate dai genitori
che partoriscono un bambino sano dopo un precedente lutto perinatale. Le nuove gravidanze o i
percorsi adottivi innescano frequentemente un riverbero acuto del lutto, tanto più profondo quanto
meno è stato possibile per i genitori intraprendere un adeguato percorso di elaborazione.
Gli aspetti culturali, psicosociali e relazionali hanno un forte impatto sul percorso di trasformazione
che un genitore colpito da lutto perinatale sperimenta sulla propria pelle. L’esperienza luttuosa è per
definizione inconsolabile, perché nulla può alleviare la lacerazione del legame col bambino e non
dovrebbe essere questo lo scopo dei curanti, degli amici e dei parenti.
Il rispetto dell’esperienza in quanto tale, ed il rispetto del valore intrinseco di quel bambino che
mancherà per sempre all’appello, sono il punto di partenza dal quale chiunque si relazioni a un
genitore in lutto dovrebbe muovere.

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