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Il mistero di Glozel

Disputa archeologica o frode?

Un giorno del 1869 alcuni cacciatori usciti in battuta dal castello di Santil-
lana del Mar, ai piedi dei monti Cantabrici nel nord della Spagna, si accorse-
ro che un cane della loro muta si era perso. Dopo un'affannosa ricerca erano
riusciti a sentire i suoi lamenti provenire da una spaccatura nel terreno. Dal-
la fenditura risaliva un flusso di aria fresca. Scesi nel crepaccio, si erano tro-
vati dentro a una grande caverna. Recuperato il cane, avevano fatto ritorno al
castello e riferito al loro padrone, don Marcelino de Sautuola, quello che ave-
vano accidentalmente scoperto. Questi, una volta visitato il posto, considera-
tolo una cavità naturale, non lo aveva ritenuto particolarmente interessante e
aveva dato ordine di chiudere l'accesso affinchè i ragazzi del villaggio non
corressero il rischio di precipitarvi. Per i successivi nove anni la cosa restò
sepolta nell'oblio.
Ma nel 1878 alla Esposizione di Parigi don Marcelino era rimasto forte-
mente affascinato dalla visita al museo archeologico, dove nelle grandi teche
di cristallo aveva avuto modo di osservare resti e graffiti delle età glaciali.
(L'ultima è finita circa 12.000 anni or sono). Tornato a casa, don Marcelino
si era informato presso esperti e studiosi per sapere dove anche lui avrebbe
potuto rintracciare resti e artefatti dell'era glaciale. Aveva allora deciso di ria-
prire l'accesso alla caverna che era tornato a visitare armato di spada e
torcia.
I primi scavi furono deludenti: non portò alla luce nulla. Finalmente, dopo
oltre un anno di lavoro, la sua pazienza era stata premiata con la scoperta di
un'ascia e di alcune pietre lavorate usate come punte da freccia. La scoperta
rinnovò le sue energie. Gli scavi ripresero con vigore. Così un giorno, la fi-
glioletta Maria ch'era con lui nella caverna, aveva preso a chiamarlo tutta ec-
citata. La bimba, grazie al suo corpicino, si era infilata in un recesso che il
padre non aveva notato perché posto troppo in basso. Sulle pareti la bambina
diceva di scorgere rappresentazioni di tori in carica. Dapprincipio Marcelino
non fu in grado di scorgere niente, ma una volta avvicinata la candela alla pa-
rete, aveva immediatamente riconosciuto l'occhio di un bisonte. Una perlu-
strazione più attenta rivelò che tutta la parete dell'anfratto era graffita con di-
segni di bisonti, mucche, tori, raffigurati in tutte le posizioni possibili. Il pri-
mo che don Marcelino riuscì a scorgere interamente era coricato su un fian-
co, nell'atto di accasciarsi morto a terra. Ma non era tutto, perché anche le al-
tre pareti e il soffitto risultavano completamente graffiti. Toccandoli si rese
conto che il pigmento colorato era ancora umido. Sostenuto dall'amico
professore e archeologo Vilanova, Marcelino non esitò a annunciare al
mondo la sua straordinaria scoperta. Curiosi e visitatori -compreso il re di
Spagna - cominciarono a sciamare a frotte nelle grotte (oggi meglio note
come grotte di Altamira). Quando però Marcelino si era recato al congresso
archeologico di Lisbona sulla preistoria era venuto a sapere con sua grande
costernazione che l'opinione accademica considerava la sua scoperta e i suoi
graffiti un falso. Non c'era luminare che valutasse attendibili le sue
testimonianze. Il libro pubblicato non venne accolto da nessuno. Si diceva
che gli antichi artisti non avrebbero mai potuto dipingere in quel modo e con
quello stile. Di certo si era al cospetto di una truffa colossale. Il più acerrimo
contestatore di don Marcelino, il Cartailhac, rinomato esperto di preistoria,
arrivò addirittura a negargli l'iscrizione al congresso di archeologia che si
sarebbe tenuto ad Algeri.
Qualche anno dopo anche il Cartailhac scoprì alcune grotte a Les Eyzies,
nella valle del Vézère, portando alla luce alcune pitture rupestri del tutto si-
mili a quelle di Altamira. Ma era troppo tardi. Quando era andato ad Altami-
ra per portare le sue scuse a don Marcelino aveva trovato la figlia Maria, or-
mai divenuta grande, alla quale non restò che fargli melanconicamente vede-
re la tomba del padre.
Questa storia, emblematica del comportamento dei cosiddetti "esperti", ci è
servita come preludio per raccontare un'altra avventura iniziata nel 1924,
quando una mucca era precipitata in una grotta nel sud della Francia. Il fatto
era accaduto nel terreno della famiglia Fradin, in una fattoria di Glozel, loca-
lità non distante da Vichy. Già al tempo della prima guerra mondiale i Fradin
avevano portato alla luce nei loro campi alcuni frammenti di ceramica; ora,
perlustrando la grotta in cui era precipitato l'animale, avevano scoperto una
"specie di tomba", contenente vasellame e tavolette incise. Il pavimento ovale
era ottenuto con mattonelle, su alcune delle quali si distingueva ancora una
sorta di strato vitreo, mentre qua e là erano stati trovati altri ammassi vetrosi.
Un esperto locale aveva spiegato ai Fradin che molto probabilmente avevano
portato alla luce un sito crematorio, cosa che, fra l'altro, rendeva ragione della
presenza dei granuli vitrei, anche se a seguito di ulteriori visite, il sito sembrò
risalire a tempi più recenti, a una fornace romana se non addirittura me-
dievale.
L'anno seguente, un medico di Vichy di nome Morlet, pure lui archeologo
appassionato, si era recato alla fattoria. Di recente aveva portato alla luce uno
scheletro nel suo giardino di casa. Quando i Fradin si lamentarono con lui di-
cendogli che intercedesse per loro presso il comune della città affinchè li sol-
levasse dal pagamento dei diritti di scavo, Morlet fece l'errore di offrirsi di
acquistare lui i loro diritti. Avrebbero potuto ovviamente continuare a godere
del terreno, ma sarebbe stato meglio circondare la parte interessata dagli sca-
vi con una staccionata. Fu un grave errore perché questo fu il primo motivo
di accusa mosso ai Fradin dai loro detrattori: avevano inscenato una colossale
farsa solo per guadagnare soldi. Accusa infondata, perché fino all'arrivo
del dottor Morlet, i Fradin non avevano tratto mai un quattrino dalla loro sco-
perta archeologica. Morlet e la famiglia Fradin diedero così insieme il via agli
scavi nel terreno, presto conosciuto come il "campo del morto". Sin
dall'inizio venne alla luce una varietà impressionante di oggetti fra cui ossa
lavorate, disegni di renne su pietra e strani segni che parevano scrittura. Ed in
effetti, vennero trovate molte tavolette iscritte; ma anche volti graffiti e la
figura di un uomo a cavallo di un animale. Lo scrittore francese Robert
Charroux, i cui libri sugli antichi misteri avevano trovato in Erich von
Dàniken un estimatore, nel 1969 ebbe a dichiarare in via confidenziale:
«Sappiamo ben poco sulla civiltà di Glozel, salvo che esisteva certamente
prima del grande diluvio, il grande cataclisma che sigillò le grotte di Lascaux
e le necropoli di Glozel appunto, dal momento che a causa del disastro non si
salvò nessuno». Secondo Charroux la civiltà di Glozel fiorì attorno al 15.000
a.C, vale a dire attorno alla fine dell'ultima era glaciale.
Era il periodo della cosiddetta cultura magdaleniana, quello a cui le pitture
rupestri di Altamira e Lescaux (scoperte nel 1940) sembrano appartenere.
Poiché i cacciatori e i pescatori di questo periodo erano letteralmente som-
mersi da abbondanza di cibo, si registrò una vera e propria esplosione demo-
grafica, col trasferimento di molti nuclei umani sulle palafitte. Se Glozel -
come Charroux ritiene - è da ascrivere a questo periodo, è allora probabile
che le numerose tavolette incise venute alla luce raccontino la sua storia, sup-
portando l'ipotesi di una civiltà molto più antica di quanto crediamo: teoria
che offrirebbe nuovi spunti e argomenti per coloro che sostengono la tesi de-
gli "antichi astronauti".
Ma lo studio archeologico delle ceramiche di Glozel ha vanificato questa
possibilità; non da ultimo, inoltre, sappiamo che i resti ceramici più antichi
mai rintracciati al mondo possono risalire al massimo a 9000 anni or sono in
Giappone e poco dopo in Europa. Su alcuni manufatti ceramici di Glozel com-
paiono teste di civette, gli stessi motivi che si rintracciano nella ceramica
ascrivibile all'Età del Bronzo (attorno al 2000 a.C). Lo stesso Morlèt, d'altro
canto, aveva datato certe pietre appuntite al periodo Neolitico (la cosiddetta
età della pietra nuova o lavorata) circoscrivibile attorno al 9000 a.C. Se mai
questa ipotesi fosse corretta, vorrebbe dire che l'invenzione della scrittura non
risalirebbe al Medio Oriente (Sumer) come normalmente creduto attorno al
3500 a.C, ma in Francia circa 5000 anni prima. Una eminente autorità in me-
rito è stato il professor Salomon Reinach, autore di un best-seller sulla storia
delle religioni intitolato Orfeo. La prima reazione davanti ai reperti di Glozel
era stata di rigetto: tutti falsi. In realtà, quando si era recato a Glozel si era de-
cisamente ricreduto, arrivando a mutare opinione. Anche in questo caso gli
scettici non tardarono a intervenire. Qualcuno arrivò persino a dire che Rei-
nach aveva deciso di abbracciare la genuinità dei reperti di Glozel perché,
combinazione, sostenevano in pieno le sue teorie come, per esempio, l'idea
che le renne avessero abitato la Francia, come molti altri archeologi credeva-
no, e che la Francia e non altri paesi fosse stata la culla della civiltà. Ad ogni
buon conto, mutata opinione, Reinach aveva dichiarato di accettare i ritrova-
menti come genuini, suscitando attorno alla questione un interesse mondiale
che trasformò Glozel in una attrazione turistica fra le più ricercate. Ma le
opposizioni non cessavano. Un gruppo di archeologi disse che si trattava di
un inganno perpetrato dalla famiglia Fradin, che dopo aver realizzato i
manufatti li aveva sepolti per simulare un ritrovamento archeologico. Quando
vennero alla luce altre tombe ritenute altrettanto sospette, gli oppositori
dissero che era per lo meno singolare che in tante migliaia di anni le aperture
di accesso non si fossero ostruite. Venne poi resa pubblica la testimonianza
del direttore del Museo archeologico di Villeneuve-sur-Lot, il quale di-
chiarò che un giorno, trovato per caso rifugio in un granaio abbandonato,
aveva trovato alcuni manufatti e oggetti simili a quelli di Glozel non ancora
finiti e alcune tavolette di terracotta ancora da cuocere. Era evidente che se
questo fosse stato confermato, tutto sarebbe saltato in aria. Ma anche in que-
sto caso c'era un vizio e un sospetto, messo in risalto dai sostenitori dell'au-
tenticità della civiltà di Glozel: era normale che il direttore di un museo aves-
se buoni motivi per cercare di sminuire, per non dire ridicolizzare, le conqui-
ste e le scoperte di un concorrente.
Nel 1927, per cercare di fare chiarezza, una commissione scientifica di
esperti inviata dal Congresso internazionale archeologico fece visita a Glo-
zel. Il parere fu decisamente negativo, con la precisazione che, tutto somma-
to, i reperti non erano poi così antichi. Anche la polizia si era scomodata.Pre-
levati alcuni campioni, li aveva spediti a Parigi, presso il laboratorio di ana-
lisi del suo centro specialistico. Qui Reinach si era fatto in quattro per riusci-
re, tramite l'aiuto di un agente svedese, certo Soderman, a far spedire gli og-
getti da valutare al laboratorio di Stoccolma. La risposta segnalò che il con-
tenuto organico delle ossa era inferiore a quello di un osso recente. Il rapporto
della polizia parigina, invece, riferiva che gli oggetti rinvenuti a Glozel da-
vano segno di essere decisamente più freschi, e addirittura la testa di un'ascia
sembrava lavorata con uno strumento e non scalfita a mano. Malgrado tutte
queste pesanti osservazioni, i sostenitori di Glozel non demordevano Quando
venne accusato di falso e frode, Emile Fradin fece causa e vinse; gli venne ri-
conosciuta come indennità la cifra simbolica di un solo franco.
La controversia comunque non si placò, anche se - come era stato per il caso
di Altamira - era il senso di scetticismo a prevalere, tanto che l'opinione
pubblica si orientò decisamente sull'ipotesi che i reperti di Glozel fossero dei
falsi. Quando nel 1953,l'adesso celeberrimo "cranio di Piltdown" venne ri-
conosciuto come falso, furono in molti ad accostare a questo evento i fatti
di Glozel. Questo perché anche nel caso della civiltà di Glozel si era a lungo
parlato di anello mancante - nella fattispecie il collegamento non ancora
scoperto fra i cacciatori dell'Età della Pietra e gli agricoltori sedentari del
Neolitico - un buco archeologico a cui gli esperti si riferivano parlando di
"antico iato". Si credeva che i cacciatori dell'Età della Pietra avessero
seguito la ritirata verso nord dei grandi branchi di renne, mentre gli
agricoltori stanziali del Neolitico avevano trovato dimora altrove, proba-
bilmente in Asia. Reinach era arciconvinto - e a ragione, come si venne poi
a scoprire - che questi eventi non erano mai accaduti e che molto più sem-
plicemente gli agricoltori del Neolitico avevano poco alla volta scalzato e so-
stituito i cacciatori-raccoglitori dell'Età della Pietra; in questo senso la civiltà
di Glozel colmava lo iato, la lacuna. Ma, proprio come l'anello mancante
evolutivo umano, allo stesso modo lo iato di civiltà si dissolse in una bolla di
sapone, al punto che il caso di Glozel si trasformò da sospetto a irrilevante.
Nel 1974, Emile Fradin - che all'epoca della scoperta era appena diciasset-
tenne - annunciò ai mass media che alcuni esami scientifici condotti in Da-
nimarca sui reperti di Glozel ne avevano dimostrato la piena autenticità. La
tecnica usata era stata quella della termoluminescenza. Quando la ceramica
viene cotta, rilascia in libertà degli elettroni che lasciano delle tracce radioat-
tive nella terracotta lavorata. Dopo, gli elettroni dispersi vengono progressi-
vamente recuperati dalla radioattività. Se la pasta ceramica è stata cotta fra i
300 e i 500°C, è in grado di rilasciare di una certa luminosità risultante dalla
liberazione degli elettroni. Maggiore è la luminosità irradiata, più antico è il
manufatto esaminato. Alcuni campioni rinvenuti a Glozel erano dunque stati
spediti al dr. Hugh McKerrel del Museo nazionale scozzese di antichità e al
dr. Vagn Mejdahl della Commissione danese per l'energia atomica. Valutata
la termoluminescenza delle ceramiche di Glozel avevano concluso che era
stata cotta all'incirca al tempo di Cristo, qualche pezzo forse 800 anni prima.
Datazione che, ovviamente, contraddiceva quella proposta da Reinach che
parlava di ceramica neolitica; ma demoliva anche le accuse degli oppositori
quando sostenevano che gli oggetti erano stati ottenuti in una fornace della
fattoria dei Fradin. Allo stesso periodo vennero anche associate alcune tavo-
lette con segni che facevano pensare a una misteriosa scrittura.
Scoppiò una feroce polemica. Gli archeologi accusarono i fisici di dabbe-
naggine e superficialità. La BBC non si lasciò sfuggire l'opportunità e decise
di inviare ancora una volta alcuni esperti a Glozel per dare un'occhiata atten-
ta. Ne venne fuori un'altra soluzione ancora, in grado di complicare ulterior-
mente il già intricato intreccio. Se i primi reperti esaminati risalivano dai
2000 ai 2800 anni or sono, allora gli ultimi esemplari di ceramica avrebbero
dovuto risalire al periodo in cui la Gallia (l'odierna Francia) era occupata dai
Romani. Risultò che non era affatto così, si trattava di qualcosa sui generis,
di unico e distinto. E così il mistero continuava a persistere. Era dunque
Glozel un'altra "bufala" come il cranio di Piltdown? È senz'altro una
conclusione tentatrice, ma se decidiamo di accettarla dobbiamo ignorare
alcuni fatti che attesterebbero l'esatto contrario. Charles Dawson, l'uomo che
disse di aver trovato il teschio di Piltdown, era un archeologo dilettante e
poteva avere qualche motivo per inscenare una truffa (anche se, a tutt'oggi,
non si sa ancora quale avrebbe potuto essere). Ma quando il giovane Emile
Fradin e il nonno avevano scoperto la prima "tomba" (o, meglio, la fornace
vitrea) non avevano alcun motivo per ingannare e se, poi, è vero che le loro
scoperte iniziali risalivano addirittura al tempo della prima guerra mondiale,
questo punto diventa ancora più importante. Non cercarono mai di trarre
guadagni e profitti dal ritrovamento ed era stato soltanto un anno dopo,
quando sulla scena era comparso il dottor Morlet che la famiglia Fradin
aveva incominciato a considerare la possibilità di ricavare del danaro dagli
scavi.
Fu forse questo lo spunto che li spinse sulla strada dell'inganno? Non lo
sappiamo, ma potrebbe essere possibile. Viene però spontaneo chiedersi co-
me un contadino francese rozzo e ignorante abbia potuto realizzare tali e tanti
preziosi manufatti: ceramiche, teste di ascia, figurine in osso, tavolette
d'argilla graffite. Non da ultimo, c'è da osservare che un mattone con "scrit-
tura" era stato proprio uno dei primissimi ritrovamenti. Va da sé che se que-
sto era autentico anche tutti gli altri scoperti dopo avrebbero dovuto esserlo.
Se così fosse, la conclusione è che al tempo del grande Socrate, il centro fran-
cese di Glozel ospitava una comunità fiorente, che poteva vantare una pro-
pria, originalissima cultura.
In quanto a Reinach, non possiamo dargli ragione. La scrittura non nacque
per la prima volta in Francia nell'Età della Pietra. C'è però ancora una cosa
da dire (vista la grande confusione): la storia ci ha spesso insegnato e fatto
toccare con mano che i cosiddetti esperti sbagliano spesso e volentieri. Chissà
allora che un giorno anche la famiglia Fradin non venga rivalutata, così
come è già accaduto ad altri scopritori, quale per esempio il bistrattato don
Marcelino.

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