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(Out Of The Eons, 1933)

a firma di HAZEL HEALD

Weird Tales, aprile 1935


I

(Manoscritto trovato tra gli effetti dello scomparso Richard


H. Johnson, Ph. D., curatore del Museo archeologico Cabot, Bo-
ston, Massachusetts).

È poco probabile che gli abitanti di Boston, e del resto i letto-


ri attenti di qualsiasi parte del mondo, dimentichino la misterio-
sa vicenda del museo Cabot. La pubblicità data sui giornali alla
terribile mummia, le antiche e paurose voci ad essa connesse, le
morbose ondate d'interesse, l'attività di sette occulte per tutto
l'arco del 1932 e lo spaventoso destino cui, il primo gennaio di
quell'anno, andarono incontro due intrusi, tutto ciò contribuì a
dare corpo a uno di quei classici misteri che si perpetuano nel
folclore per generazioni e diventano il nucleo di interi cicli di
speculazioni agghiaccianti.
La gente si rende conto, fra l'altro, che nel resoconto dell'or-
ribile vicenda fatto al pubblico sono stati omessi alcuni elementi
importanti e di estrema nefandezza. Le prime inquietanti allu-
sioni alle condizioni dei due cadaveri furono scartate e ignorate
con troppa facilità, e le singolari modificazioni della mummia
non ricevettero l'attenzione che il loro semplice valore giornali-
stico avrebbe meritato. La popolazione si stupì, infine, che la
mummia non venisse più rimessa nella sua vetrina. In un'epoca
di grandi progressi nel campo della tassidermia, la scusa che le
sue condizioni semi-disintegrate ne rendevano l'esposizione im-
praticabile è sembrata particolarmente debole.
Come curatore del museo sono in grado di rivelare tutti i fatti
fin qui taciuti, ma ciò non avverrà durante la mia vita. Vi sono
cose, nel mondo e nell'universo, che la maggior parte dell'uma-
nità è meglio non conosca, e in questo non mi sono allontanato
dall'opinione che all'epoca dell'orrore tutti condividemmo: per-
sonale del museo, medici, giornalisti e poliziotti. Allo stesso
tempo, ritengo importante che un episodio di tale rilievo storico
e scientifico venga in qualche modo documentato; di qui il pre-
sente resoconto, che ho preparato per il beneficio dei più seri
studiosi. Lo collocherò fra i documenti che dovranno essere e-
saminati dopo la mia morte e lascerò il suo destino alla discre-
zione dei miei esecutori. Alcune minacce e altri insoliti eventi
che si sono verificati nelle scorse settimane mi hanno indotto a
credere che la mia vita - come quella di altri funzionari del mu-
seo - sia in pericolo per la malevolenza di numerose e diffuse
sette segrete di asiatici, polinesiani e occultisti di varia prove-
nienza; è possibile, quindi, che il compito degli esecutori testa-
mentari non riguardi un futuro troppo lontano. (Nota dell'esecu-
tore: il dottor Johnson morì all'improvviso, e in circostanze al-
quanto misteriose, il 22 aprile 1933 per collasso cardiaco. Wen-
tworth Moore, tassidermista del museo, era scomparso intorno
alla metà del mese precedente. Il 18 febbraio dello stesso anno il
dottor William Minot, che diresse un'autopsia connessa al caso,
fu pugnalato alla schiena e morì il giorno seguente.)
Ritengo che l'inizio dell'orrore risalga al 1879, molto prima
che io diventassi curatore, quando il museo acquistò una mum-
mia orrenda e assolutamente misteriosa dalla Compagnia Mer-
cantile dell'Oriente. La scoperta era stata di per sé alquanto sini-
stra, perché la mummia proveniva da una tomba d'origine sco-
nosciuta, e di eccezionale antichità, che sorgeva su una lingua di
terra emersa improvvisamente dal fondo del Pacifico.
L'11 maggio 1878 Charles Weatherbee, comandante del va-
pore mercantile Eridanus che faceva rotta da Wellington, in
Nuova Zelanda, a Valparaiso, in Cile, avvistò un'isola nuova e
non segnata sulle carte di evidente origine vulcanica. Emergeva
arditamente dal mare e aveva la forma di un cono tronco. Sulle
pendici frastagliate che di lì a poco avrebbero scalato, gli uomini
guidati dal comandante Weatherbee notarono i segni di una pro-
lungata immersione, mentre verso la sommità si notavano tracce
di un'opera di distruzione recente, come quella provocata da un
terremoto. Fra i detriti da cui l'isola era cosparsa spiccavano me-
galiti d'aspetto evidentemente artificiale; un rapido esame per-
mise di accertare la presenza di elementi architettonici gigante-
schi come già sono stati trovati su altre isole del Pacifico, e che
costituiscono un perenne enigma archeologico.
Alla fine i marinai entrarono in una grande sala di pietra che
doveva aver fatto parte di un edificio più grande e immerso pro-
fondamente nel sottosuolo; in un angolo della cripta stava ran-
nicchiata la mummia spaventosa. Dopo un momento di panico,
causato in parte da alcuni bassorilievi che ornavano le pareti, gli
uomini si lasciarono convincere a trasportare la mummia sulla
nave, benché la toccassero con timore e disgusto. Vicino al cor-
po, come se un tempo fosse stato infilato nelle sue vesti, era un
cilindro di metallo sconosciuto che conteneva un rotolo d'una
sostanza membranosa, bianco-azzurra, altrettanto ignota, coperta
di caratteri molto particolari tracciati con un pigmento grigio e
non identificabile. Al centro del vasto pavimento di pietra com-
pariva quella che sembrava una botola, ma gli uomini non ave-
vano strumenti adatti a sollevarla.
Il museo Cabot, allora appena fondato, vagliò le scarse noti-
zie che riguardavano la scoperta e subito intraprese i passi ne-
cessari all'acquisto della mummia e del cilindro. Il curatore Pi-
ckman fece un viaggio personale a Valparaiso e noleggiò uno
schooner per cercare la tomba in cui la mummia era stata rinve-
nuta, ma in questo fallì. Alla latitudine dell'isola non trovò altro
che una sconfinata distesa marina, e i ricercatori si resero conto
che le stesse forze sismiche che avevano improvvisamente cata-
pultato l'isola dalle acque, l'avevano trascinata ancora una volta
nelle tenebre dove aveva riposato per milioni di anni. Il mistero
della botola inamovibile non sarebbe mai stato risolto. La
mummia e il cilindro, comunque, erano state recuperate, e la
prima fu esposta al pubblico all'inizio di novembre 1879, nel pa-
diglione dedicato alle mummie.
Il museo archeologico Cabot, specializzato nei reperti di ci-
viltà antiche o sconosciute che non rientrano nella sfera dell'arte,
è un'istituzione piuttosto piccola e non certo famosa, benché go-
da di un'ottima reputazione nei circoli scientifici. Sorge nel cuo-
re dell'esclusivo quartiere di Beacon Hill a Boston, in Mt. Ver-
non Street, presso l'incrocio con Joy, ed è alloggiato in un'ex-
villa privata cui è stata aggiunta un'ala sul retro. Prima dell'inde-
siderata notorietà seguita ai recenti e terribili avvenimenti, per
gli austeri vicini era motivo di orgoglio.
Il padiglione delle mummie si trova nella parte occidentale
della villa, che fu progettata da Bulfinch e costruita nel 1819; è
al secondo piano, e storici e antropologi affermano concorde-
mente che ospita la più grande collezione del suo genere in A-
merica. Vi si possono trovare tipici esempi d'imbalsamazione
egiziana, dai primi esemplari Sakkarah agli ultimi tentativi copti
nell'ottavo secolo; mummie di altre culture, fra cui gli esemplari
preistorici indiani recentemente scoperti nelle isole Aleutine;
calchi in gesso di corpi pompeiani, ricavati direttamente dai tra-
gici originali trovati fra le ceneri della città; cadaveri mummifi-
cati naturalmente e rinvenuti in miniere o altre località sotterra-
nee di tutto il mondo (alcuni sorpresi dal loro terribile destino
nelle grottesche posizioni provocate dagli ultimi spasimi dell'a-
gonia); in breve, tutto ciò che ci si aspetta da una collezione del
genere. Nel 1879, è ovvio, era molto meno ampia di quanto sia
adesso, ma era già notevole. E l'orribile esemplare rinvenuto in
una tomba gigantesca, su un'isola effimera vomitata dall'oceano,
costituiva la sua principale attrazione e il più fitto mistero.
La mummia era quella di un uomo d'altezza media e di razza
sconosciuta, ed era stata preparata in modo da mantenere una
strana posizione rannicchiata. La faccia, per metà nascosta da
mani simili ad artigli, aveva la mascella inferiore notevolmente
sporgente, mentre il viso incartapecorito aveva un'espressione di
terrore così assoluto che pochi potevano guardarlo senza restar-
ne sconvolti. Gli occhi erano chiusi, con le palpebre sigillate sui
bulbi che sembravano molto sporgenti. Sopravvivevano fram-
menti di barba e capelli di colore grigio spento, neutro. La so-
stanza della mummia pareva metà cuoio e metà pietra, e gli e-
sperti che cercavano di stabilire in che modo fosse stata imbal-
samata si scontrarono con un enigma insolubile. In alcuni punti
parte di questa sostanza era stata divorata dal tempo e dalla cor-
ruzione, ma dal corpo pendevano ancora brandelli di un tessuto
particolare, sul quale s'indovinava un disegno sconosciuto.
Non era facile dire cosa la rendesse così infinitamente orribile
e repulsiva. Innanzi tutto c'era un sottile e indefinibile senso di
immensa antichità, di estraneità totale, che colpiva l'osservatore
come la visione che ci si offre sul bordo d'un abisso nero e senza
fondo; ma l'elemento principale era l'espressione di folle paura
sulla faccia grinzosa mezzo nascosta e dalla mascella prognata.
Era un simbolo di terrore infinito, disumano, cosmico, e non po-
teva non trasmettere all'osservatore la stessa emozione, insieme
a un'inquietante aura di mistero e a mille domande senza rispo-
sta.
Fra il pubblico colto che frequentava il museo Cabot quella
reliquia d'un mondo antico e dimenticato acquistò ben presto
una fama sinistra, benché l'isolamento dell'istituzione e la sua
politica di riservatezza impedissero che la mummia diventasse
un fenomeno popolare sul tipo del "gigante di Cardiff". Nel se-
colo scorso l'arte del sensazionalismo non aveva invaso il campo
degli studi più seri, o almeno non nella misura in cui è riuscito a
fare oggi. Ovviamente, scienziati di vario tipo fecero del loro
meglio per classificare l'oggetto spaventoso, ma sempre senza
successo. Le teorie di una civiltà scomparsa del Pacifico, della
quale le statue dell'Isola di Pasqua e le costruzioni megalitiche
di Ponape e Nan-Matol sarebbero le probabili vestigia, circola-
vano liberamente fra gli studiosi, e le riviste scientifiche pubbli-
cavano varie e a volte contrastanti teorie su un antico continente
le cui montagne più alte sopravvivrebbero oggi come gli arcipe-
laghi della Melanesia e Polinesia. Le diverse opinioni sull'epoca
in cui sarebbero fioriti l'ipotetica cultura scomparsa e il conti-
nente che la ospitò, sono allo stesso tempo incredibili e diverten-
ti; ma nei miti di Tahiti e altre isole sono state scoperte allusioni
più che significative.
Quanto allo strano cilindro e al misterioso rotolo coperto di
geroglifici, accuratamente conservati nella biblioteca del museo,
ricevettero una ben meritata attenzione. Non potevano esserci
dubbi sul loro rapporto con la mummia, e tutti si rendevano con-
to che se i geroglifici fossero stati decifrati anche il mistero
dell'orrida creatura si sarebbe chiarito. Il cilindro, lungo circa
dieci centimetri e col diametro di un paio, era di uno strano me-
tallo iridescente che sfidava nel modo più assoluto l'analisi chi-
mica e sembrava refrattario a qualsiasi reagente. Era chiuso fer-
mamente da un cappuccio della stessa sostanza, e scolpito con
motivi ornamentali che forse erano di natura simbolica: disegni
convenzionali ma che seguivano un sistema geometrico para-
dossale, estraneo, poco descrivibile.
Non meno misterioso era il foglio che conteneva: un accurato
rotolo di una sostanza membranosa, sottile, bianco-azzurrastra,
avvolto intorno a una sottile pertica di metallo simile al cilindro;
una volta srotolato, il foglio era lungo circa cinque centimetri. I
geroglifici erano grandi, evidenti, e si allungavano in stretta suc-
cessione verso la metà del foglio; erano tracciati, o dipinti, con
un pigmento grigio che sfidava l'analisi e non rassomigliavano a
nulla di cui linguisti o paleografi avessero esperienza; ne furono
fatte copie fotografiche e vennero esaminati da tutti gli esperti
viventi dei rispettivi campi, ma non si riuscì a decifrarli.
Tuttavia alcuni studiosi - insolitamente versati nella letteratu-
ra magica e occulta - scoprirono vaghe rassomiglianze fra alcuni
glifi e i simboli primordiali descritti o riprodotti in testi esoterici
antichissimi e oscuri come il Libro di Eibon, che sarebbe giunto
fino a noi dalla perduta Iperborea; i Frammenti pnakotici, che
secondo alcuni risalirebbero a culture preumane, e il proibito
Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred. Purtroppo nes-
suna di queste rassomiglianze era definitiva, e poiché il campo
dell'occultismo godeva in genere di poca stima, non venne fatto
alcuno sforzo per diffondere le copie dei geroglifici tra speciali-
sti di quelle dottrine. Se un passo del genere fosse stato compiu-
to, il caso si sarebbe sviluppato in modo assai diverso: anzi, sa-
rebbe bastato che un qualsiasi lettore dei Culti innominabili di
von Junzt desse un'occhiata ai glifi per stabilire un incontrover-
tibile legame. A quell'epoca, tuttavia, i lettori di un'opera così
orrenda e blasfema erano molto pochi, e nel periodo che inter-
corre fra la soppressione dell'edizione originale di Dusseldorf
(1839), la traduzione di Bridewell (1845) e la pubblicazione del-
la versione purgata a opera della Golden Goblin Press, nel 1909,
le copie disponibili erano rarissime. Detto in altri termini, nes-
sun occultista e studioso di dottrine esoteriche del passato ha
avuto modo di soffermarsi sul misterioso rotolo fino alla recente
esplosione di notizie sensazionali, diffuse dai giornali, che han-
no precipitato la vicenda verso il culmine dell'orrore.

II

Il mistero si trascinò per cinquant'anni dopo l'installazione


della mummia nel museo. L'agghiacciante reperto si conquistò
una certa notorietà fra i bostoniani colti, ma non altro; mentre,
dopo un decennio di infruttuose ricerche, l'esistenza del cilindro
e del rotolo con i geroglifici fu virtualmente dimenticata. Il mu-
seo Cabot era così pacifico e austero che nessun giornalista o
scrittore divulgativo pensò di oltrepassarne i sedati cancelli in
cerca di curiosità per le masse.
L'invasione degli irresponsabili si scatenò nella primavera
1931, quando un acquisto piuttosto spettacolare - quello dei biz-
zarri oggetti e dei cadaveri inspiegabilmente conservati che era-
no stati rinvenuti nelle cripte in rovina di Chateau Faussesflam-
mes, edificio tristemente famoso e cadente nella regione france-
se di Averoigne - portò il museo all'attenzione dei giornalisti.
Fedele alla sua politica "scandalistica", il Boston Pillar inviò un
collaboratore del supplemento domenicale per ricostruire il fatto
e rimpolparlo con una storia generale ed esagerata del museo.
Questo giovanotto, di nome Stuart Reynolds, si convinse che la
mummia senza nome fosse molto più adatta a suscitare sensa-
zione che i recenti acquisti del museo, i quali costituivano il
principale scopo della sua visita. Una verniciata di dottrine teo-
sofiche e una certa passione per le teorie di scrittori come il co-
lonnello Churchward e Lewis Spence a proposito di continenti
perduti e civiltà dimenticate, rendevano Reynolds particolar-
mente sensibile verso una reliquia dell'immemore passato qual
era la mummia.
Al museo il cronista si rese odioso con un'infinita serie di
domande non sempre intelligenti, e con la richiesta di rimuovere
dalle bacheche gli oggetti che vi erano custoditi per poterli foto-
grafare da angoli insoliti. Nella biblioteca che si trovava nel se-
minterrato ponzò per lunghissimo tempo sul bizzarro cilindro e
il rotolo membranoso, fotografandoli da tutte le parti e assicu-
randosi di aver immortalato ogni frammento dei fantastici glifi.
Chiese poi di vedere tutti i libri che avevano a che fare con l'ar-
gomento delle culture primitive e dei continenti sommersi; per
tre ore rimase seduto a prender note e se ne andò solo per potersi
affrettare a Cambridge, dove (se gliene avessero dato il permes-
so) intendeva dare un'occhiata al temuto e proibito Necronomi-
con custodito nella Widener Library.
Il 5 aprile l'edizione domenicale del Pillar pubblicò l'articolo
completo di fotografie della mummia, del cilindro e del rotolo
con i geroglifici: il tutto nello stile tipicamente infantile e affet-
tato che quella testata predilige per il bene d'una clientela vasta e
intellettualmente immatura. Pieno di errori, esagerazioni e sen-
sazionalismo, era precisamente il pezzo che stimola la curiosità
degli scriteriati e suscita l'interesse dell'orda: come risultato, il
museo un tempo tranquillo fu invaso da folle vocianti e dallo
sguardo perso nel vuoto che i suoi austeri corridoi non avevano
mai contemplato.
Ma nonostante la puerilità dell'articolo non mancarono i visi-
tatori preparati e intelligenti: le immagini parlavano da sole e
molte persone educate sfogliano a volte il Pillar per caso. Ri-
cordo un personaggio molto strano che arrivò nel mese di no-
vembre: un uomo di carnagione scura che portava il turbante e
una folta barba, si esprimeva con voce faticosa e innaturale, ave
a una faccia incredibilmente inespressiva e goffe mani nascoste
da assurdi guanti bianchi. Costui fornì un povero indirizzo del
West End e dichiarò di chiamarsi "Swami Chandraputra". Era
profondamente versato nelle dottrine occulte e parve vivamente,
profondamente commosso dalla somiglianza che esisteva fra i
geroglifici sul rotolo e certi segni o simboli di un mondo antico
e dimenticato, a proposito del quale confessava di possedere va-
ste e intuitive conoscenze.
Entro il mese di giugno, la fama della mummia e relative i-
scrizioni aveva oltrepassato di gran lunga i confini di Boston e il
museo ricevette sollecitazioni e richieste di fotografie da occul-
tisti e studiosi di arti arcane sparsi in tutto il mondo. La cosa non
fece particolarmente piacere al nostro gruppo, perché siamo
un'istituzione scientifica e non abbiamo simpatia per i sognatori
e i fantasticoni; tuttavia rispondemmo a tutte le domande con
decoro. Uno dei risultati di questa nuova rete di relazioni fu un
articolo quanto mai erudito apparso su The Occult Review, a
firma del noto esoterista di New Orleans Etienne-Laurent de
Marigny, nel quale si sosteneva la completa identità di alcuni
bizzarri disegni geometrici tracciati sul cilindro iridescente (e di
numerosi geroglifici riprodotti nel rotolo) con ideogrammi dal
terribile significato che vari studiosi dell'occulto avevano copia-
to da monoliti primitivi o dai rituali segreti di sette misteriose, e
che erano sistematicamente esposti nell'infernale Libro nero, no-
to anche come Culti innominabili, di von Junzt.
De Marigny ricordava l'orribile morte di von Junzt avvenuta
nel 1840, un anno dopo la pubblicazione del suo terribile volu-
me a Dusseldorf, e commentava le sue agghiaccianti, e in parte
sospette, fonti d'informazione. Soprattutto, metteva in rilievo
l'enorme importanza dei racconti con cui von Junzt traduceva
buona parte degli ideogrammi mostruosi da lui riprodotti. Che
questi racconti (in cui un cilindro e un rotolo erano esplicita-
mente menzionati) avessero una notevole affinità con gli oggetti
custoditi nel museo, era innegabile; ma si trattava di storie così
sensazionali e stravaganti - a proposito di epoche infinitamente
antiche e bizzarre anomalie del mondo primevo - che si poteva
più facilmente ammirarle che crederle.
E il pubblico certamente le ammirò, perché la stampa se ne
impossessò completamente. Apparvero ovunque articoli illustra-
ti che riferivano, o sostenevano di riferire, le leggende del Libro
Nero, spaziavano sull'orrida mummia, paragonavano le decora-
zioni del cilindro e i geroglifici contenuti nel rotolo con le figure
riprodotte da von Junzt e indulgevano nelle più fantastiche, irra-
gionevoli e sensazionali ipotesi o teorie. I visitatori del museo
triplicarono e il grande interesse del pubblico fu testimoniato
dall'enorme quantità di posta che ricevemmo sull'argomento,
perlopiù inane e superflua. A quanto pare la mummia e la sua
origine costituivano, per le persone dotate d'immaginazione, un
argomento che in quei giorni del 1931 e 1932 rivaleggiava in
importanza solo con la Depressione. Per quanto mi riguarda,
l'effetto principale di questa mania fu di spingermi a leggere il
terribile volume di von Junzt nell'edizione Golden Goblin: espe-
rienza che mi lasciò incerto e nauseato, ma lieto di non aver po-
tuto esaminare il testo integrale nella sua completa infamia.

III

Gli antichi racconti riferiti nel Libro Nero, tutti collegati a


simboli o disegni affini a quelli del nostro cilindro e del rotolo
che conteneva, erano del tipo che lascia sbalorditi e non poco in-
timoriti. Superando un abisso di tempo che aveva dell'incredibile
e spingendosi al di là di tutte le civiltà, razze e paesi che cono-
sciamo, essi si accentravano intorno a una nazione e a un conti-
nente svanito in un'epoca incerta e favolosa, all'alba del mon-
do... il continente che le leggende chiamano Mu, e che le antiche
tavolette nel primitivo linguaggio Naacal affermano essere fiori-
to duecentomila anni fa, quando l'Europa ospitava solo creature
ibride e nella perduta Iperborea si celebravano i riti senza nome
in onore dell'amorfo, nero Tsathoggua.
Vi si faceva menzione d'un regno o provincia di nome K'naa,
in una terra molto antica dove i primi esseri umani avevano tro-
vato mostruose rovine lasciate da quelli che vi avevano abitato
prima (oscure ondate di esseri sconosciuti che erano filtrati dalle
stelle e avevano vissuto per lunghissimi cicli su un mondo na-
scente e dimenticato). K'naa era un luogo sacro, perché dal suo
centro si innalzavano minacciose al cielo le nude pareti di basal-
to del monte Yaddith-Gho, sormontato da una gigantesca fortez-
za di megaliti infinitamente più antica dell'umanità e costruita
dalla stirpe extraterrestre del nero pianeta Yuggoth, che aveva
colonizzato il nostro mondo prima della nascita della vita sulla
terra.
La stirpe di Yuggoth era perita da milioni di anni, ma aveva
lasciato dietro di sé una creatura viva, terribile e mostruosa che
non sarebbe mai morta: il suo dio infernale, o demone patrono,
Ghathanothoa, che stava rintanato nei sotterranei della fortezza
di Yaddith-Gho e meditava in eterno, cupo e invisibile. Nessun
uomo aveva mai scalato lo Yaddith-Gho o aveva visto la fortez-
za maledetta, se non come una sagoma lontana e dall'abnorme
geometria profilata contro il cielo; ma molti erano convinti che
Ghatanothoa fosse ancora al suo posto, a sguazzare nel fango e a
rintanarsi in cavità inimmaginabili sotto le mura megalitiche. E
c'erano quelli che credevano che Ghatanothoa avesse bisogno
costante di sacrifici, altrimenti sarebbe uscito dall'abisso che lo
nascondeva e si sarebbe fatto strada, barcollando, nel mondo de-
gli uomini, come un tempo si era avventurato nel regno primiti-
vo delle creature di Yuggoth.
Alcuni dicevano che, in mancanza di sacrifici, Ghatanothoa
sarebbe filtrato alla luce del giorno e si sarebbe trascinato giù
dalle pareti di basalto dello Yaddith-Gho, portando la morte a
tutti coloro che incontrasse. Perché nessun essere vivente poteva
guardare Ghathanothoa, o un'immagine scolpita di lui, senza pa-
tire un mutamento più orribile della morte. La vista del dio o
della sua immagine - concordavano le leggende della stirpe di
Yuggoth - conduceva alla paralisi e a una forma di pietrificazio-
ne di tipo orribile e speciale, in cui la vittima era mutata este-
riormente in pietra o altra sostanza durissima, mentre il cervello
restava vivo per l'eternità: un'orrenda prigionia e un'immobilità
senza fine, con la mente ben consapevole del passaggio di ère
interminabili in cui non c'era altro da fare che attendere il mo-
mento in cui il caso, o il tempo, completassero l'erosione del gu-
scio pietrificato e lasciassero il cervello esposto a morire. La
maggior parte delle menti, è ovvio, sarebbero impazzite molto
prima di quella liberazione rinviata per millenni. Si diceva che
nessun essere umano avesse visto Ghatanothoa, benché il peri-
colo fosse oggi altrettanto grande di quanto era stato per la pro-
genie di Yuggoth.
C'era dunque, a K'naa, una religione che adorava Ghatano-
thoa e ogni anno gli sacrificava dodici giovani guerrieri e dodici
vergini. Le vittime venivano offerte su altari fiammeggianti nel
tempio di marmo presso la base della montagna, perché nessuno
osava scalare le pareti di basalto dello Yaddith-Gho o avvicinar-
si alla fortezza preumana che ne sormontava la cima. Grande era
il potere dei sacerdoti di Ghatanothoa, perché da loro soli dipen-
deva la preservazione di K'naa, e di tutta la terra di Mu, dal ri-
schio che Ghatanothoa il pietrificatore emergesse dai suoi labi-
rinti sotterranei.
C'erano nel paese cento sacerdoti del Dio Oscuro, comandati
dall'Arciprete Imash-Mo, che nella festa di Nath precedeva re
Thabon e rimaneva orgogliosamente in piedi quando il monarca
s'inginocchiava dinanzi all'altare dorico. Ogni sacerdote posse-
deva una casa di marmo, un baule d'oro, duecento schiavi e cen-
to concubine, oltre all'immunità dalla legge civile e potere di vi-
ta e di morte su tutta la popolazione di K'naa, a parte i sacerdoti
del re. Ma nonostante questi difensori c'era sempre la paura, nel
paese, che Ghathanothoa strisciasse dall'abisso e si calasse dalla
montagna con le peggiori intenzioni, per portare l'orrore e la pie-
trificazione all'umanità. Negli ultimi tempi i sacerdoti proibirono
agli uomini finanche di immaginare quale fosse il suo aspetto
spaventoso.
Fu nell'Anno della Luna Rossa (che secondo von Junzt corri-
sponde al 173.148 a.C.) che un essere umano osò sfidare per la
prima volta Ghathanothoa e il suo pericolo senza nome. Questo
eretico coraggioso si chiamava T'yog ed era gran sacerdote di
Shub-Niggurath, oltre che guardiano del tempio di rame del Ca-
pro dai Mille Cuccioli. T'yog aveva lungamente meditato sui po-
teri degli altri dèi e aveva avuto sogni prodigiosi e rivelazioni
che riguardavano la vita su questo e i mondi più antichi. Infine
fu sicuro che gli dèi amici dell'umanità avrebbero formato una
coalizione contro quelli ostili e si convinse che Shub-Niggurath,
Nug, Yeb e perfino Yig, il dio-serpente, fossero pronti a fian-
cheggiare l'umanità contro la tirannide e la presunzione di Gha-
thanothoa.
Ispirato dalla Dea Madre, T'yog scrisse una formula misterio-
sa nell'arcano linguaggio Naacal del suo ordine: egli riteneva
che il suo possessore sarebbe diventato immune al potere pietri-
ficante del Dio Oscuro. Con questa protezione, rifletté, un uomo
coraggioso avrebbe potuto scalare le temute pareti di basalto e -
primo fra tutti gli esseri umani - sarebbe penetrato nella ciclopi-
ca fortezza sotto la quale si pensava che vivesse Ghathanothoa.
Faccia a faccia col dio, e potendo confidare nel potere di Shub-
Niggurath e dei suoi figli, T'yog pensava di poter domare il mo-
stro e liberare l'umanità dalla sua tenebrosa minaccia. Una volta
affrancato il genere umano grazie ai suoi sforzi, non ci sarebbero
stati limiti agli onori che T'yog avrebbe potuto chiedere. Tutti i
privilegi dei sacerdoti di Ghathanothoa sarebbero passati, ov-
viamente, a lui, e non era inconcepibile aspirare alla corona e al-
la divinizzazione.
Dunque T'yog scrisse la formula protettiva su un rotolo di
membrana o pthagon (secondo von Junzt, la parte interna della
pelle di un rettile estinto, lo yakith) e la chiuse in un cilindro i-
storiato di un metallo chiamato lagb, lo stesso che Quelli-di-
prima avevano portato da Yuggoth e che non si trovava in nes-
suna miniera della terra. Questa incantesimo, portato nelle pie-
ghe della sua tunica, lo avrebbe messo in salvo dal pericolo di
Ghathanothoa: anzi, avrebbe riportato alla normalità le vittime
pietrificate del Dio Oscuro se quella mostruosa entità fosse riu-
scita a emergere e a cominciare le sue devastazioni. T'yog si
propose di risalire la montagna temuta e su cui nessun uomo a-
veva messo mai piede, di invadere la cittadella megalitica co-
struita secondo una bizzarra geometria e di confrontarsi con l'or-
ribile creatura-demonio nella sua tana. Quello che sarebbe acca-
duto poi non riusciva nemmeno a immaginarlo: ma la speranza
di essere il salvatore dell'umanità rafforzava la sua determina-
zione.
Ma non aveva fatto i conti con la gelosia e gli interessi dei
fortunati sacerdoti di Ghathanothoa. Appena vennero a sapere
del suo piano, e temendo per la sorte del loro prestigio e relativi
privilegi nel caso che il dio-demonio fosse detronizzato, insce-
narono un'isterica protesta contro il sacrilegio, affermando che
nessun uomo poteva avere la meglio su Ghatanothoa e che ogni
sforzo di stanarlo lo avrebbe semplicemente provocato a com-
piere un orrendo massacro contro l'umanità, e allora nemmeno il
clero sarebbe riuscito a fermarlo. Con quelle esternazioni spera-
vano di volgere l'opinione pubblica contro T'yog, ma il popolo
desiderava a tal punto liberarsi di Ghatanothoa e riponeva tanta
fiducia nell'abilità e nello zelo di T'yog, che le proteste del clero
non valsero a nulla. Anche il re di solito un semplice burattino
nelle mani dei sacerdoti, rifiutò di proibire il coraggioso pelle-
grinaggio di T'yog.
Allora i preti di Ghatanothoa fecero con l'inganno ciò che non
avevano potuto apertamente. Una notte Imash-Mo l'Arciprete si
introdusse nella cella del tempio dove T'yog dormiva e gli rubo
nel sonno il cilindro di metallo; poi estrasse il rotolo con i poten-
ti incantesimi e lo sostituì con uno molto simile, ma modificato
quel tanto che bastava per non aver effetto su alcun dio o demo-
ne. Quando il cilindro fu risistemato nel mantello del dormiente
Imash-Mo fu soddisfatto perché sapeva che era poco probabile
che T'yog esaminasse di nuovo il contenuto del rotolo. Pensando
di essere protetto da un autentico talismano, l'eretico avrebbe
scalato la montagna proibita e si sarebbe imbattuto nella Presen-
za Malefica: Ghatanothoa, non più inibito dalla magia, avrebbe
fatto il resto.
Non sarebbe stato più necessario che i sacerdoti predicassero
contro l'eresia di T'yog: che facesse a modo suo e andasse incon-
tro al proprio destino. I preti avrebbero custodito in segreto il ro-
tolo rubato, il vero e potente incantesimo, passandolo da un Ar-
ciprete all'altro per usarlo in un futuro più o meno remoto, quan-
do si fosse reso necessario contrastare il volere del dio-demonio.
Così per il resto della notte Imash-Mo dormì in grande pace, con
il rotolo genuino nascosto in un nuovo cilindro fatto apposta per
lui.
All'alba del Giorno delle Fiamme in Cielo (definizione non
meglio chiarita da von Junzt), T'yog, fra i canti e le preghiere del
popolo e con la benedizione personale di re Thabon, cominciò la
scalata della temuta montagna con un bastone di legno tlath nel-
la mano destra. Nella tunica portava il cilindro di quello che ri-
teneva il vero incantesimo, perché non si era accorto dell'impo-
stura. Non si accorse neppure dell'ironia con cui Imash-Mo e gli
altri sacerdoti di Ghatanothoa si univano alle preghiere per la
sua salvezza e il suo successo.
Per tutta la mattina il popolo rimase a guardare la sagoma di
T'yog che diventava sempre più piccola e faticava sulle temute
pendici di basalto, fino a quel giorno mai toccate dall'uomo; e
molti rimasero a guardare anche dopo che fu scomparso dietro
un pericoloso costone che conduceva al lato nascosto della mon-
tagna. Quella notte alcuni sognatori particolarmente sensibili
ebbero l'impressione che l'odiata cima fosse scossa da un tremi-
to, ma molti li irrisero. Il giorno seguente grandi folle tennero
d'occhio la montagna e pregarono, domandandosi quando T'yog
sarebbe tornato. E così il giorno dopo, e quello dopo ancora. Per
settimane sperarono e attesero, poi cominciarono a piangere.
Nessuno avrebbe più rivisto T'yog, che sperava di salvare l'uma-
nità dalla paura.
In seguito gli uomini rabbrividirono della presunzione di
T'yog e cercarono di non pensare alla punizione cui la sua em-
pietà doveva averlo esposto. E i sacerdoti di Ghatanothoa risero
di coloro che osavano ribellarsi alla volontà del dio o sfidare il
suo diritto a ricevere sacrifici. Col passare degli anni l'inganno
di Imash-Mo venne scoperto dal popolo, ma questo non modifi-
cò il sentimento generale: era meglio non opporsi a Ghatanotho-
a. Nessuno osò più sfidarlo. Passarono i secoli e re succedette a
re, Arciprete ad Arciprete; nuove nazioni conobbero la gloria e
la decadenza, nuove terre emersero dalle acque per sprofondarvi
ancora. Col passare dei millenni la terra di K'naa conobbe la de-
cadenza, finché alla fine, in un terribile giorno di tuoni e tempe-
sta, di boati spaventosi e onde alte come montagne, l'intero con-
tinente di Mu s'inabissò per sempre.
Ma nei millenni che seguirono i segreti primordiali continua-
rono a tramandarsi come un esile rivolo. In terre lontane si in-
contrarono fuggiaschi dal viso grigio che erano sopravvissuti al-
la furia del demone marino, e cieli stranieri assorbirono il fumo
degli altari innalzati a dèi e demoni scomparsi. Benché nessuno
sapesse in quali abissi fosse precipitata la montagna sacra e la
gigantesca fortezza del terribile Ghatanothoa, c'erano ancora
quelli che mormoravano il suo nome e gli offrivano orrendi sa-
crifici, per evitare che salisse dal fondo dell'oceano e si trasci-
nasse fra gli uomini, spargendo l'orrore e la pietrificazione.
Fra i sacerdoti sparsi qua e là crebbero i rudimenti di una re-
ligione oscura e segreta (segreta perché i popoli delle nuove ter-
re avevano altri dèi e demoni, e pensavano male di quelli più an-
tichi o stranieri); e all'interno di quella religione vennero com-
piuti molti atti orrendi, e strani oggetti furono adorati. Si mor-
morava che una setta di misteriosi officianti conservasse tuttora
il potente incantesimo contro Ghatanothoa che Imash-Mo aveva
rubato al dormiente T'yog; ma nessuno era più in grado di legge-
re i simboli misteriosi o immaginare in che parte del mondo si
fossero trovate la perduta K'naa, l'aborrito monte Yaddith-Gho e
la gigantesca fortezza in cui si nascondeva il dio-demonio.
Benché il culto fiorisse principalmente nelle regioni del Paci-
fico dove un tempo era sorta la stessa Mu, echi della religione
segreta e temuta di Ghatanothoa circolavano nella predestinata
Atlantide e sull'aborrito altipiano di Leng. Von Junzt sosteneva
che la sua presenza si era perpetuata nella favolosa regione sot-
terranea di K'n-yan e forniva prove incontrovertibili della sua
penetrazione in Egitto, Caldea, Persia, Cina, nei dimenticati im-
peri semiti d'Africa e, nel nuovo mondo, in Messico e Perù. Lo
stesso von Junzt lasciava intendere che i collegamenti di questa
antica religione con la stregoneria europea - contro la quale era-
no servite a poco le bolle dei papi - fosse tenace. L'Occidente,
tuttavia, non era mai stato favorevole al suo sviluppo e la pub-
blica indignazione, suscitata dagli accenni a riti orrendi e sacri-
fici senza nome, ne aveva calpestate parecchie ramificazioni. In-
fine il culto si trasformo in un'attività perseguitata, sotterranea e
doppiamente furtiva, ma il nucleo centrale non fu mai sradicato.
In un modo o nell'altro riuscì a sopravvivere nell'Estremo Orien-
te e sulle isole del Pacifico, dove i suoi insegnamenti si mescola-
rono alle tradizioni esoteriche degli Areoi polinesiani.
Von Junzt faceva sottili e inquietanti allusioni al fatto di esse-
re entrato personalmente in contatto con quella religione, e pro-
seguendo nella lettura rabbrividii al pensiero di quel che si sape-
va intorno alla sua morte. Parlava del fiorire di nuove idee circa
l'aspetto del dio-demonio, creatura che nessun essere umano a-
veva mai visto (a parte, forse, il coraggioso T'yog, che comun-
que non era più tornato), e sottolineava il contrasto fra questo
tipo di speculazioni e il tabù prevalente nell'antica Mu contro
qualsiasi tentativo di immaginare la forma esteriore del mostro.
Nel modo in cui gli adepti affrontavano l'argomento, affascinati
e intimoriti a un tempo, c'era una nota costante di paura: lo face-
vano con prudenza, pur non mascherando una specie di morbosa
curiosità sulla precisa natura dell'essere che T'yog si era trovato
davanti prima della fine - se era stata la fine - nello spaventoso
edificio preumano che sorgeva sulla montagna aborrita e ormai
sprofondata nelle acque. I vaghi e insidiosi riferimenti dello stu-
dioso tedesco a tal proposito mi lasciarono particolarmente in-
quieto.
Poco meno inquietanti erano le congetture di von Junzt sul
luogo in cui si trovava il rotolo con gli autentici incantesimi con-
tro Ghatanothoa, e sull'uso definitivo che avrebbe potuto farse-
ne. Nonostante la mia fiducia nel fatto che tutta la faccenda fos-
se un mito e niente più, non potei fare a meno di rabbrividire
all'idea di una resurrezione del dio mostruoso ai nostri giorni, e
all'immagine di un'umanità trasformata improvvisamente in una
razza di statue artificiali, ognuna dotata di un cervello vivo ma
condannato a una forma di coscienza inerte e impotente per in-
numerevoli millenni. Il vecchio occultista di Dusseldorf aveva la
micidiale abilità di suggerire più che non dicesse, e mi resi per-
fettamente conto del perché il suo libro fosse stato bandito in
tanti paesi come blasfemo, pericoloso e impuro.
Vibravo di repulsione, ma l'opera esercitava su di me un fa-
scino insano e non riuscii a metterla da parte prima di averla fi-
nita. Le pretese riproduzioni di disegni e ideogrammi di Mu era-
no meravigliosamente simili (e questo mi sorprendeva) ai dise-
gni del bizzarro cilindro e ai glifi tracciati sul rotolo; tutto il rac-
conto poi era pieno di particolari che avevano una vaga e irritan-
te rassomiglianza con gli oggetti connessi alla mummia miste-
riosa. Il rotolo e il cilindro, l'ambientazione nell'oceano Pacifico,
le insistenti dichiarazioni del vecchio comandante Weatherbee
secondo cui la cripta ciclopica in cui la mummia era stata rinve-
nuta doveva essersi trovata un tempo nelle profondità di un im-
menso edificio... per qualche ragione ero addirittura felice che
l'atollo vulcanico fosse sprofondato prima che potessimo aprire
quella che sembrava una botola gigantesca.

IV

Ciò che lessi nel Libro nero costituì una terribile forma di
preparazione alle notizie che entro breve tempo avrei appreso
dai giornali e agli eventi più immediati che s'imposero alla mia
attenzione nella primavera 1932. Non ricordo esattamente quan-
do cominciarono a colpirmi le notizie sempre più frequenti di
interventi della polizia contro bizzarre e fantastiche sette religio-
se, in Oriente o altrove; ma fra maggio e giugno mi resi conto
che in tutto il mondo era in corso una sorprendente e insolita at-
tività da parte di organizzazioni occulte, segrete ed esoteriche
normalmente tranquille, e di cui non si sentiva mai parlare.
Non è probabile che avrei collegato queste notizie con le idee
di von Junzt o con l'eccezionale interesse suscitato dalla mum-
mia e dal cilindro custoditi nel museo, se non fosse per alcune
parole e insistenti somiglianze (che la stampa enfatizzava in
massimo grado) riscontrate nei riti e nei discorsi dei vari cele-
branti e quindi portate alla pubblica attenzione. In effetti, non
potei non notare con inquietudine la frequente ricorrenza di un
nome che, sia pure in forme corrotte, costituiva il punto focale
del culto in tutte le sette, e che era evidentemente considerato
con un misto di reverenza e terrore. Alcune forme del nome,
stando ai giornali, erano G'tanta, Tanotah, Than-Tha, Gatan e
Ktan-Tah: non furono necessari i suggerimenti dei miei corri-
spondenti nel campo dell'occulto, ormai numerosi, per farmi ve-
dere in queste varianti un'orribile e suggestiva relazione con il
nome mostruoso che von Junzt aveva reso come Ghatanothoa.
Ma c'erano altri aspetti inquietanti. Sempre più spesso le no-
tizie parlavano di accenni vaghi e pieni di timore al "vero roto-
lo", qualcosa da cui sembravano dipendere tremende conse-
guenze e che era tenuto in custodia da un certo "Nagob", chiun-
que o qualunque cosa fosse. Ma anche un altro nome era ripetu-
to con insistenza, e suonava di volta in volta come Tog, Tiok,
Yog, Zob o Yob, e che la mia coscienza sempre più eccitata col-
legò al nome dello sfortunato eretico T'yog, così come reso dal
Libro Nero. Il nome era citato di solito in relazione a frasi miste-
riose come "Non è altri che lui", "Colui che vide il suo volto",
"Egli sa tutto, anche se non può vedere e sentire", "Ha conserva-
to la memoria di migliaia di anni", "Il vero rotolo lo libererà",
"Nagob possiede il vero rotolo", "Egli può dire dove trovarlo".
C'era nell'aria qualcosa di indubbiamente insolito, e non mi
meravigliai quando i miei corrispondenti nel campo dell'occulto,
e del resto i supplementi domenicali sensazionali, collegarono
l'anomala attività delle sette con le leggende di Mu da una parte
e con la spaventosa, recente sensazione provocata dalla mum-
mia. Gli articoli diffusi dalla prima ondata di pubblicità, che le-
gavano insistentemente la mummia, il cilindro e il rotolo con il
racconto del Libro Nero e costruivano in proposito fantastiche
teorie, sono forse responsabili di aver suscitato il fanatismo la-
tente in centinaia di gruppi segreti e occulti di cui abbonda il no-
stro mondo complesso. Né i giornali smisero di soffiare sul fuo-
co: perché i resoconti sull'attività delle sette erano ancora più e-
sagitati dei precedenti.
Durante l'estate gli addetti al museo notarono un nuovo e cu-
rioso elemento nelle turbe di visitatori che - dopo una tregua se-
guita al primo scoppio di pubblicità - furono attratte verso l'isti-
tuzione dal secondo clamore. Sempre più frequenti erano le per-
sone di aspetto strano o esotico: scuri asiatici, gente dai lunghi
capelli e dall'aspetto indefinibile, uomini bruni e barbuti che non
portavano con naturalezza gli abiti europei; costoro chiedevano
invariabilmente dove fosse la sala delle mummie e in seguito
venivano sorpresi ad ammirare l'orribile esemplare del Pacifico
in preda a una vera e propria estasi. In quella marea di eccentrici
forestieri c'era un blando, sinistro legame sotterraneo che im-
pressionò il personale del museo, e da cui fui turbato io stesso.
Non potei fare a meno di pensare che i membri delle sette in agi-
tazione fossero proprio personaggi come questi e al legame che
univa le sette, a loro volta, con miti pericolosamente vicini alla
spaventosa mummia e al cilindro con il rotolo.
A volte ero tentato di ritirare la mummia dall'esposizione, e la
tentazione si fece più forte quando un inserviente mi disse che
aveva notato parecchi stranieri fare gesti di devozione al suo co-
spetto e aveva sentito borbottare cantilene simili a inni o riti
propiziatori, il tutto durante le ore di minor afflusso della folla.
Uno dei custodi sviluppò una strana forma di allucinazione nei
confronti dell'orrore pietrificato che occupava la solitaria vetrina
di cristallo: gli sembrava di notare, di giorno in giorno, vaghi e
quasi impercettibili mutamenti nella disperata flessione delle di-
ta adunche e nel volto incartapecorito ma stravolto dal terrore.
Non riusciva a liberarsi della terrificante idea che quegli orribili
occhi sporgenti stessero per spalancarsi da un momento all'altro.
Ai primi di settembre, quando la folla dei curiosi diminuì e il
padiglione era spesso vacante, venne compiuto un tentativo di
arrivare alla mummia tagliando il cristallo della vetrina. Il col-
pevole, un polinesiano dalla pelle scura, fu scoperto in tempo da
un custode e ridotto all'impotenza prima di poter fare qualsiasi
danno. Le indagini dimostrarono che si trattava di un hawaiano
noto per la sua attività in circoli religiosi segreti e con un lungo
dossier della polizia a suo carico: si parlava di riti inumani e di
sacrifici. Alcuni giornali trovati nella sua stanza si rivelarono
misteriosi e inquietanti: ne facevano parte numerosi fogli coperti
di geroglifici che somigliavano fortemente a quelli riprodotti sul
rotolo del museo e sul Libro nero di von Junzt; ma nessuno riu-
scì a farlo parlare di quest'argomento.
Circa una settimana dopo l'incidente, un altro tentativo di ar-
rivare alla mummia (stavolta scassinando il lucchetto della ve-
trina) portò a un secondo arresto. Il reo, un cingalese, aveva un
lungo e poco piacevole curriculum per disgustose attività all'in-
terno di una setta, proprio come l'hawaiano, e mostrò un'identica
riluttanza a parlare con la polizia. Ciò che rese il caso doppia-
mente interessante - anche se più sinistro - fu il particolare che il
custode aveva notato quest'uomo molte altre volte e l'aveva sen-
tito rivolgere alla mummia un canto particolare in cui veniva in-
confondibilmente ripetuta la parola "T'yog". Dopo questo nuovo
incidente raddoppiai la sorveglianza nella sala delle mummie e
ordinai agli uomini di non perdere di vista il famoso esemplare
neanche per un momento.
Come si può ben immaginare, la stampa sfruttò al massimo i
due incidenti e ricominciò a parlare dell'antica e favolosa Mu,
affermando spavaldamente che l'orribile mummia altri non era
che l'eretico T'yog, pietrificato da qualcosa che aveva visto nella
fortezza preumana da lui invasa, e conservatosi per 175.000 anni
attraverso la storia turbolenta del pianeta. Fu inoltre ripetuto e
sottolineato nel modo più sensazionale che i misteriosi adepti
coltivavano una religione derivata da Mu e che adoravano la
mummia, o cercavano addirittura di riportarla in vita con incan-
tesimi e sortilegi.
Gli autori degli articoli sottolinearono l'insistenza delle vec-
chie leggende sul fatto che il cervello delle vittime pietrificate
da Ghatanothoa rimanesse cosciente e in funzione: fatto che ser-
vì come base alle ipotesi più fantastiche e improbabili. La men-
zione del "vero rotolo" ricevette altrettanta considerazione, per-
ché la teoria popolare più in voga voleva che il talismano rubato
a T'yog contro Ghatanothoa esistesse ancora, e che i membri
delle sette cercassero di usarlo su T'yog per i loro scopi. Come
risultato di questa terza campagna stampa, una nuova ondata di
allibiti visitatori inondò il museo per contemplare la mummia
maledetta che formava il nucleo e la base dell'intera vicenda.
Fu tra questa folla di spettatori, molti dei quali tornavano più
volte, che cominciarono a diffondersi le voci sugli impercettibili
cambiamenti della mummia. Per mio conto immagino - nono-
stante la nervosa confessione di un custode qualche mese prima
- che il personale del museo fosse troppo abituato alla vista di
oggetti stravaganti per fare grande attenzione ai particolari; co-
munque, furono le voci eccitate dei visitatori che alla lunga spin-
sero i guardiani a notare il sottile mutamento che si andava ma-
nifestando da qualche tempo. E quasi nello stesso tempo la
stampa ci si buttò a pesce, con gli spettacolari risultati che si
possono immaginare.
Ovviamente esaminai la questione con la massima attenzione,
e verso la metà di ottobre decisi che la mummia andava incontro
a un processo di definitiva disintegrazione. Attraverso l'influsso
chimico o fisico dell'aria le fibre per metà pietrificate e per metà
dure come cuoio sembravano rilassarsi poco a poco, provocando
percettibili variazioni nell'angolazione delle membra e in alcuni
particolari del volto contorto dalla paura. Dopo mezzo secolo di
perfetta conservazione era uno sviluppo quanto meno sconcer-
tante, e chiesi al tassidermista del museo, il dottor Moore, di e-
saminare il sinistro reperto parecchie volte. Moore ammise che
era in atto un generale rilassamento e ammorbidimento e spruz-
zò la mummia di due o tre strati di astringente, ma non osò
compiere passi più drastici nel timore che la corruzione venisse
accelerata e il reperto andasse in frantumi.
L'effetto di tutto questo sulla folla dei visitatori fu strano. Fi-
no a quel momento ogni nuova rivelazione fatta dalla stampa
scandalistica ci aveva portato ondate di pubblico che si guardava
intorno con tanto d'occhi, bisbigliando; ma ora - benché i giorna-
li blaterassero a più non posso sui cambiamenti della mummia -
il pubblico sembrava dominato da un senso di paura ben preciso
che aveva la meglio anche sulla curiosità morbosa. Pareva che la
gente avvertisse un'aura sinistra aleggiare sul museo, e le fre-
quenze calarono dal massimo storico a un livello che scendeva
addirittura sotto il normale. La ridotta presenza di visitatori fa-
ceva risaltare ancor più il flusso di eccentrici stranieri che conti-
nuavano a infestare il museo, e il cui numero non sembrava af-
fatto diminuito.
Il 18 novembre un peruviano di sangue indio fu colto da un
attacco epilettico davanti alla mummia, e in seguito gridò dal
suo letto d'ospedale: "Ha cercato di aprire gli occhi! T'yog ha
cercato di aprire gli occhi e di guardarmi!". A questo punto pen-
sai di vietare l'esposizione del reperto, ma consentii all'austero
collegio dei nostri direttori - riunitosi in seduta - di farmi recede-
re dall'intento. Mi accorsi, tuttavia, che il museo cominciava a
godere di pessima fama nel suo tranquillo e severo quartiere.
Dopo quest'ultimo incidente ordinai che a nessuno fosse per-
messo di sostare davanti alla terrificante reliquia del Pacifico per
più di qualche minuto.
Il 24 novembre, dopo la chiusura del museo alle cinque, uno
dei custodi notò una minuscola apertura sotto le palpebre della
mummia. Il fenomeno era limitato e non si vedeva che una pic-
cola mezzaluna bianca in ciascun occhio, ma era ugualmente
della massima importanza. Il dottor Moore, chiamato in fretta,
stava per esaminare con una lente d'ingrandimento la porzione
dell'occhio così rivelata, quando nel muovere la mummia le pal-
pebre spesse come cuoio si chiusero di nuovo. Qualsiasi sforzo
di aprirle con cautela fallì e il tassidermista non se la sentì di u-
sare mezzi più drastici. Quando tutto questo mi fu comunicato
per telefono, provai un senso di paura che non era facile attribui-
re solo all'episodio in questione. Per un attimo condivisi l'opi-
nione popolare secondo cui un imprecisato, malefico destino che
aveva origine nelle insondate profondità del tempo e dello spa-
zio incombesse, oscuro e minaccioso, sopra il museo.
Due sere dopo un cupo filippino cercò di nascondersi nei lo-
cali dopo l'ora di chiusura. Arrestato e condotto alla polizia, ri-
fiutò di dare persino il suo nome e fu trattenuto come persona
sospetta. Nel frattempo, la stretta sorveglianza della mummia
sembrava scoraggiare l'orda dei forestieri dal frequentarla. Se
non altro, dopo la messa in atto dell'ordine di "scorrere" il nume-
ro dei visitatori stranieri diminuì.
Il culmine orrendo della vicenda venne nelle prime ore del
mattino di giovedì primo dicembre. Verso l'una tremende urla di
terrore e agonia risuonarono nel museo, e una serie di telefonate
preoccupate da parte dei vicini portò in fretta e contemporanea-
mente sul posto una squadra di polizia e parecchi funzionari del
museo, fra cui io stesso. Una parte dei poliziotti circondò l'edifi-
cio, mentre altri, insieme a noi del museo, entrarono cautamente.
Nel corridoio principale trovammo il guardiano notturno morto
per strangolamento, con un pezzo di canapa indiana ancora stret-
to al collo; così ci rendemmo conto che nonostante le precauzio-
ni uno o più malintenzionati erano riusciti a penetrare nell'edifi-
cio. Ora un silenzio di tomba gravava su tutto e noi esitavamo a
salire al piano superiore, verso l'ala del museo dove sapevamo
che doveva annidarsi il cuore del problema. Dopo aver acceso
gli interruttori centrali che si trovavano nel corridoio, e aver i-
nondato il palazzo di luce, ci sentimmo un po' più tranquilli; e
finalmente, sia pur con riluttanza, salimmo la scala a chiocciola
e superammo il grande arco che immetteva nel padiglione delle
mummie.

È da questo punto in poi che la versione ufficiale dell'orribile


caso è stata censurata: convenimmo tutti che la conoscenza delle
reali condizioni in cui si trova il nostro mondo, così come gli
sviluppi del caso lasciano presumere, non possa portare ad alcun
bene. Ho detto che inondammo di luce l'edificio prima di salire.
Ora, sotto i fasci che piovevano sulle vetrine splendenti e sul lo-
ro terribile contenuto, vedemmo una scena di muto orrore i cui
sconcertanti particolari parlavano di avvenimenti molto al di là
della nostra comprensione. C'erano due intrusi, che come in se-
guito stabilimmo si erano nascosti nel museo prima della chiusu-
ra, ma nessuno li avrebbe giustiziati per l'assassinio del custode.
Avevano già scontato la pena.
Uno era un birmano e l'altro un abitante delle isole Fiji, en-
trambi noti alla polizia per la loro affiliazione a culti disgustosi.
Erano senza vita, ed esaminandoli ci rendemmo conto che il
modo in cui erano morti doveva essere stato atroce, mostruoso.
Su entrambi i volti era stampata un'espressione di paura inuma-
na, come nemmeno il più vecchio dei poliziotti aveva mai visto;
ma nello stato dei cadaveri c'erano profonde e significative dif-
ferenze.
Il birmano era caduto vicino alla vetrina della mummia sco-
nosciuta, da cui era stato ritagliato con accuratezza un quadrato
di cristallo. Nella mano destra teneva un rotolo membranoso,
azzurrastro, che, come mi accorsi immediatamente, era coperto
di geroglifici grigi: era un duplicato quasi perfetto del rotolo che
custodivamo nella biblioteca del museo, ma un'analisi più atten-
ta ci avrebbe rivelato sottili differenze. Sul cadavere non c'erano
segni di violenza, e tenuto conto dell'espressione disperata e
spastica impressa sul volto contratto, concludemmo che fosse
morto di pura e semplice paura.
Ma l'isolano delle Fiji ci riservava uno shock molto più pro-
fondo. Un poliziotto fu il primo a toccarlo, e l'urlo che gli sfuggì
aggiunse un altro brivido alla notte di terrore del vicinato. Dal
grigiore mortale e dall'espressione sconvolta del volto un tempo
nero (ma anche dalla posizione delle mani ossute, una delle qua-
li impugnava ancora la torcia elettrica), avremmo dovuto capire
che c'era qualcosa di orribile; tuttavia, eravamo impreparati a ciò
che il gesto esitante del poliziotto ci aveva rivelato. Anche oggi
riesco a pensarci solo col massimo disgusto e repulsione. Per
dirla in breve, lo sventurato intruso che solo un'ora prima era
stato un robusto e vivace melanesiano dedito a pratiche perver-
se, si era trasformato in una statua grigia, rigida, di una sostanza
dura come il cuoio e pietrificata, simile in tutto e per tutto all'or-
rido reperto che occupava la vetrina infranta.
Ma non era questo il peggio. Il culmine di tutti gli orrori, e
ciò che attirò la nostra attenzione prima ancora che esaminassi-
mo i cadaveri sul pavimento, era lo stato della mummia spaven-
tosa. Il mutamento che si era verificato non poteva più essere
definito vago o sottile, perché si trattava di un radicale cambio
di posizione. Si era afflosciata e incurvata con una straordinaria
perdita di rigidità; le dita ossute e adunche si erano abbassate,
tanto che non coprivano, nemmeno parzialmente, il volto grin-
zoso e sconvolto dalla paura; e - Dio ci aiuti! - gli occhi spor-
genti e terribili si erano spalancati, e sembravano fissare i due
intrusi morti di paura o peggio.
Quell'orrido sguardo spento aveva un che d'ipnotico, e ci os-
sessionò per tutto il tempo in cui esaminammo i corpi delle vit-
time. Il suo effetto sui nervi era maledettamente strano, perché a
volte ci sembrava di dover lottare contro uno stato di rigidità che
si insinuava nei nostri muscoli e tentava di impedire anche i più
semplici movimenti... rigidità che scomparve in modo altrettanto
insolito quando prendemmo il rotolo con i geroglifici, per esa-
minarlo. Ogni tanto il mio sguardo era attratto irresistibilmente
verso gli orribili occhi sporgenti nella vetrina, e osservandoli di
nuovo dopo aver esaminato i corpi, mi sembrò di notare qualco-
sa di molto strano sulla superficie vitrea delle pupille nere e me-
ravigliosamente conservate. Più le guardavo più ne ero affasci-
nato, e alla fine scesi nel mio ufficio (lottando contro un senso di
rigidità nelle gambe) e presi una potente lente d'ingrandimento
multipla. Con quello strumento cominciai un esame ravvicinato
e scrupoloso delle pupille spente, mentre gli altri si affollavano
intorno a me in attesa.
La teoria secondo cui, in caso di morte o coma profondo,
scene e oggetti rimangono fotografati sulla retina, mi aveva
sempre trovato scettico; ma quando guardai attraverso la lente,
mi resi conto che negli occhi sporgenti di quella sconosciuta re-
liquia del passato non c'era solo il riflesso del padiglione.
Sull'antichissima retina era delineata un'immagine piuttosto va-
ga, e non dubitai per un attimo che fosse l'ultima scena apparsa
decine di migliaia di anni fa a quegli occhi ancora in vita. Sem-
brava che svanisse progressivamente, e armeggiai con l'apparec-
chio per inquadrarla con una seconda lente. Comunque, quando
gli intrusi se l'erano trovata di fronte (e, in risposta a un atto o
incantesimo malvagio che avevano compiuto durante la visita ne
erano stati atterriti fino alla morte), l'immagine doveva essere
stata precisa e a fuoco, anche se infinitamente piccola. Con la
lente supplementare riuscii a distinguere molti particolari fino a
quel momento invisibili, e il gruppo di uomini intimoriti che mi
stava alle spalle ascoltava il fiume di parole con cui tentai di de-
scrivere quel che vedevo.
Perché lì, nell'anno 1932, un uomo della città di Boston si
trovava di fronte a qualcosa che apparteneva a un mondo scono-
sciuto e completamente estraneo... un mondo che era scomparso
dalla terra e dalla memoria migliaia di secoli fa. Si vedeva un
ambiente enorme, una sala di megaliti ciclopici; il punto di vista
era quello di un osservatore che si trovasse in un angolo. Sulle
pareti c'erano bassorilievi così orrendi che perfino la loro imma-
gine imperfetta mi sconvolse, comunicandomi un senso di mal-
vagità bestiale. Non era possibile che gli artefici di quelle scultu-
re fossero umani, o che al momento di realizzare le spaventose
figure che ghignavano all'osservatore avessero mai visto un es-
sere umano. Al centro della sala c'era un'enorme botola di pietra,
sollevata per permettere l'emergenza di qualcosa dal basso. Que-
sto "qualcosa" avrebbe dovuto essere perfettamente visibile (e
probabilmente lo era stato, quando gli occhi si erano aperti per
la prima volta sui due intrusi terrorizzati), ma sotto le mie lenti
appariva come una chiazza mostruosa e nient'altro.
Quando aggiunsi la lente supplementare stavo esaminando
l'occhio destro. Avrei voluto fermarmi a quel punto, ma l'eccita-
zione della scoperta e della rivelazione si era impadronita di me
e spostai le potentissime lenti sull'occhio sinistro, nella speranza
che qui l'immagine fosse meno sbiadita. Le mie mani, che tre-
mavano d'eccitazione e che per un'oscura influenza parevano
anormalmente rigide, impiegarono un certo tempo a mettere a
fuoco l'ingranditore, ma un attimo dopo mi resi conto che l'im-
magine era effettivamente meno sbiadita. In un orribile lampo di
relativa chiarezza vidi l'intollerabile creatura che sorgeva dalla
botola di quella cripta gigantesca, antica oltre ogni memoria, in
un mondo perduto... Poi svenni, con un grido inarticolato di cui
non mi vergogno affatto.
Quando ripresi i sensi, negli occhi della terribile mummia
non c'era più un'immagine distinta. Il sergente di polizia Keefe
guardò attraverso la lente, perché io non avevo la forza di af-
frontare di nuovo quell'essere abnorme, e ringraziai le potenze
del cosmo di non aver guardato qualche minuto prima. Ci volle
tutta la mia decisione, oltre a una raffica di domande, perché
raccontassi quello che avevo visto nell'orribile momento della
rivelazione. In realtà non riuscii a parlare finché non avemmo
raggiunto l'ufficio di sotto, lontani dal riflesso della creatura
demoniaca che non aveva il diritto di esistere. Perché sulla
mummia dagli occhi vitrei e sporgenti avevo cominciato a nutri-
re le più terribili, fantastiche idee: che avesse una sorta di infer-
nale coscienza, che vedesse tutto ciò che accadeva intorno a lei e
cercasse, invano, di comunicare un messaggio spaventoso
dall'abisso del tempo. Tutto questo era follia... ma alla fine deci-
si che sarei stato meglio se avessi raccontato quel che avevo vi-
sto.
Dopo tutto, non ci voleva molto. Dalla botola nella cripta gi-
gantesca avevo visto sorgere, o filtrare, un mostro di proporzioni
bibliche, tanto che non avevo dubitato un attimo della sua capa-
cità di uccidere col semplice sguardo. Anche ora non riesco a
descriverlo con nessuna delle parole di cui dispongo. Potrei dire
che era enorme, tentacolato, con la proboscide e gli occhi di una
piovra, plastico, semiamorfo, parte squamoso e parte rugoso...
Ah, niente di ciò che dico può adombrare anche lontanamente
quell'obbrobrio disgustoso, sacrilego, inumano, venuto da oltre
la galassia... quel concentrato di odio e malvagità indicibili, pro-
genie aborrita del nero caos e della notte senza confini. Mentre
scrivo queste parole, l'immagine mentale che ne deriva mi co-
stringe ad appoggiarmi allo schienale, esausto e disgustato.
Quando raccontai ciò che avevo visto agli uomini che mi attor-
niavano nell'ufficio, dovetti lottare per conservare la coscienza
appena ritrovata.
I miei ascoltatori non furono meno impressionati. Nessuno
aprì bocca per un quarto d'ora, poi qualcuno ricordò con timore
e in modo furtivo le spaventose leggende del Libro nero, fino ai
recenti servizi apparsi sui giornali in cui si parlava di sette in
fermento e ai misteriosi avvenimenti nel museo. Ghatanothoa, la
cui più piccola immagine è in grado di pietrificare... T'yog... il
falso rotolo, colui che non tornò indietro... il rotolo autentico che
poteva disfare, in tutto o in parte, l'effetto della pietrificazione...
Esisteva ancora...? Le sette segrete, le frasi bisbigliate: "Non è
altri che lui", "Colui che vide il suo volto", "Egli sa tutto, anche
se non può vedere e sentire", "Ha conservato la memoria di mi-
gliaia di anni", "Il vero rotolo lo libererà", "Nagob possiede il
vero rotolo", "Egli può dire dove trovarlo". Solo il grigiore
dell'alba riuscì ad alleviarci e a riportarci verso la salute menta-
le: condizione che si poteva mantenere solo a patto di conserva-
re il segreto su ciò che avevo visto, e a cui non avremmo accen-
nato e pensato mai più.
Consegnammo alla stampa il nostro resoconto parziale e in
seguito collaborammo con i giornali per eliminare altri partico-
lari. Per esempio, quando l'autopsia mostrò che il cervello e altri
organi interni dell'isolano erano intatti e funzionanti, anche se
ermeticamente sigillati dalla pietrificazione della carne (un fe-
nomeno su cui i medici discutono tuttora con cautela, al colmo
dello stupore), facemmo di tutto perché non si scatenasse una
nuova ondata di curiosità. Sapevamo troppo bene quello che i
giornali scandalistici avrebbero fatto di queste notizie, e ricorda-
vamo ciò che avevano scritto a proposito del cervello intatto e
della coscienza tuttora presente nelle vittime di Ghatanothoa.
Così come stavano le cose, si limitarono a osservare che
l'uomo che aveva in mano il rotolo coi geroglifici - e che, evi-
dentemente, l'aveva gettato alla mummia attraverso l'apertura
nella vetrina - non era rimasto pietrificato, mentre quello che
non aveva il rotolo aveva subito un altro destino. Quando ci
chiesero di compiere degli esperimenti, applicando il rotolo sia
al corpo pietrificato dell'isolano che alla mummia, ci rifiutammo
indignati di sottometterci a simili superstizioni. Ovviamente la
mummia fu tolta dall'esposizione e trasferita nel laboratorio del
museo, in attesa di un vero esame scientifico di fronte a un'auto-
rità medica competente. Ricordando quello che era accaduto, la
tenemmo sotto stretta sorveglianza: ma anche così il 5 dicembre,
alle due e venticinque del mattino, fu fatto un tentativo di intru-
sione nel museo. Il pronto funzionamento dell'allarme impedì
questo disegno, ma purtroppo il criminale o i criminali fuggiro-
no.
Sono contento del fatto che nessun'altra notizia sia giunta al
pubblico, e vorrei che non ci fosse altro da dire. Ovviamente ci
saranno dei pettegolezzi, e se mi accadrà qualcosa non so cosa
decideranno i miei esecutori a proposito di questo manoscritto.
Se non altro, quando la rivelazione giungerà il caso non sarà do-
lorosamente fresco nella memoria della gente. Inoltre, ben pochi
crederanno alla mia testimonianza. Nelle masse c'è questo di
strano: quando una notizia viene divulgata dalla stampa scanda-
listica, i lettori sono pronti a mandare giù qualunque cosa; ma se
viene svelato qualcosa di veramente portentoso e abnorme, le
stesse persone se ne prendono gioco come se fosse una frottola.
E del resto, per la salute mentale della gente è forse meglio così.
Ho detto che aspettavamo di compiere un esame scientifico
della terribile mummia. Questo avvenne l'8 dicembre, giusto una
settimana dopo l'apice della vicenda, e fu diretto dall'eminente
dottor William Minot insieme al dottor Wentworth Moore, tas-
sidermista del museo. La settimana prima il dottor Minot aveva
assistito all'autopsia dell'isolano misteriosamente pietrificato.
Erano presenti, inoltre, i signori Lawrence Cabot e Dudley Sal-
tonstall in rappresentanza dei garanti del museo, i dottori Mason,
Wells e Carver del personale scientifico, due giornalisti ed io.
Durante la settimana le condizioni dell'orribile reperto non erano
granché cambiate, sebbene un certo rilassamento delle fibre a-
vesse fatto in modo che la posizione degli occhi vitrei e aperti
cambiasse leggermente, di tanto in tanto. Eravamo tutt'altro che
lieti di guardare la mummia, perché la sensazione che ci osser-
vasse in modo tranquillo e cosciente era diventata insopportabi-
le; solo con uno sforzo riuscii a costringermi a presenziare.
Il dottor Minot arrivò poco dopo l'una del pomeriggio, e in
pochi minuti cominciò l'esame della mummia. Sotto le sue mani
i tessuti cominciarono a disintegrarsi: in considerazione di que-
sto, e di ciò che gli raccontammo sul progressivo rilassamento
dell'esemplare dopo il primo ottobre, Minot decise che si rende-
va necessaria una dissezione completa prima che la materia fos-
se ulteriormente danneggiata. Nel laboratorio avevamo gli stru-
menti adatti ed egli cominciò subito, esclamando di sorpresa per
la natura fibrosa e del tutto insolita della sostanza grigia, mum-
mificata.
Ma quando fece la prima incisione l'esclamazione fu ancora
più forte, perché dal taglio colò lentamente un rivolo rosso e ap-
piccicoso la cui natura (nonostante i secoli infiniti che divideva-
no l'epoca di quell'orrore dal presente) era inconfondibile. Poche
altre incisioni rivelarono gli organi interni in uno stato di con-
servazione incredibile, considerato il fatto che non erano pietri-
ficati: erano tutti intatti, salvo dove i danni apportati all'involu-
cro pietrificato avevano prodotto guasti e malformazioni. La
somiglianza fra le condizioni della mummia e quelle dell'isolano
morto di paura era così evidente che il celebre chirurgo mandò
un gemito di stupore. La perfezione dei terribili occhi sporgenti
aveva del soprannaturale, e non era facile stabilire il loro stato
rispetto al processo di pietrificazione.
Alle tre e mezzo fu aperta la scatola cranica; dieci minuti do-
po tutti i membri del nostro gruppo giurarono di mantenere un
segreto che solo documenti come questo manoscritto, peraltro
ben custodito, potranno tradire. Anche i due giornalisti furono
lieti di sottoscrivere la promessa del silenzio. Perché la rimozio-
ne della calotta aveva rivelato un cervello vivo e pulsante.

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