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Questa non è un’intervista

Un giorno un vicino di casa viene a trovarmi per portarmi qualcosa che ha fatto, da
farmi gustare, come ogni tanto capita.
Ci sediamo in giardino e cominciamo a chiacchierare.
Mi viene in mente l’impegno che ci siamo presi come ingilongi di fare delle interviste
sul teatro.
Opto per portare la conversazione sul Petrella, senza dire esplicitamente che si tratta
di un intervista. Di fatto non lo è. Stavamo parlando del teatro.
Non riporto nel dettaglio tutto ciò che ci siamo detti, ma solo due spunti che ho
trovato interessanti: la vergogna di non esserci mai stato e il sentirsi intruso
nell’entrare in un luogo sconosciuto, diversamente dal partecipare a spettacoli in
piazza.
Questo breve scambio tra due persone che parlano liberamente mi da l’occasione per
una breve riflessione che vorrei condividere in relazione al teatro. In particolare al
suo rapporto tra linguaggio e realtà.
Punto primo e fondamentale. Non essendo un intervista dichiarata, c’è qui un
versante di inganno che si presenta subito, con tutte la domande enigmatiche e
pressanti che porta con se la scelta di non aver dichiarato esplicitamente l’intento:
potrò pubblicare tutto quello che ci siamo detti? Se espliciterò l’intenzione che mi
aveva portato a parlare del teatro, quale reazione ci sarà? È stata violata una privacy?
Tradita una fiducia? Tutte domande che riguardano “l’intervistatore” e non
“l’intervistato”.
Ma siamo sicuri che chiedere il consenso ad un’intervista sia sufficiente a fugare tutti
i dubbi e a mettere a tacere tutte quelle domande, risolvendo il problema?
In una intervista, in un sondaggio, dove la persona è informata del perché e del per
come di quanto gli verrà chiesto, si avrebbe accesso ad una dimensione più
oggettiva? Dove chi risponde si impegna a dire realmente come sono per lui le cose
di cui si parla?
Il teatro può essere considerato come un luogo dove si tratta di un particolare
rapporto tra linguaggio e realtà, tra finzione e reale.
C’è una dimensione dell’inganno che è insita nel fatto stesso di parlare: al di là del
significato di quello che uno dice, che può essere colto in modo chiaro e preciso, ci si
può sempre chiedere quale sia il suo senso. Ovvero, capisco quello che dici, ma non
capisco perché me lo dici. Detto altrimenti, se si mette l’accento sul senso di un detto
e non sul suo riferimento, viene meno o comunque diventa molto problematica
l’oggettività che ci si può immaginare tra parola e cosa.
Lo scrittore Gabriele Romagnoli, in un articolo de La stampa del 9 dicembre 2019 a
pagina 29, racconta una sua esperienza in cui ha incontrato dei bambini per parlare
dell’Africa. Scrive: “Immagina che tua madre ti chiami e ti dica che dovete partire
subito, che puoi riempire soltanto uno zainetto: che cosa ci mette dentro?”, e dopo
aver riportato una serie di risposte dei bambini con cui stava dialogando, annota:
“Stanno provando a identificarsi ma è impossibile, lo sanno anche loro. «Che cosa
faresti se…», è una proposizione che spalanca una porta sul buio. Possiamo
accendere la luce e illuminare la risposta solo se e quando dovesse realizzarsi
veramente”.
Forse è qualcosa di risaputo e di poco considerato, ma prendere sul serio che è
impossibile sapere a priori la propria reazione di fronte ad una ipotetica situazione,
trarne le estreme conseguenze, porta a mettere radicalmente in discussione l’idea che
si ha di sé e il rapporto con la propria vita.
Freud aveva inizialmente creduto che tutte le storie di sesso famigliare di cui gli
parlavano le donne sofferenti di fine Ottocento, fossero accadute realmente. Ad un
certo punto deve però ammettere che era stato ingannato dalle isteriche a cui aveva
creduto. Infatti si domanda in modo sempre più pressante come sia possibile che
nell’epoca vittoriana, tra le mura domestiche della borghesia che si rivolgeva a lui, ci
fosse un dilagare di seduzioni, abusi e pratiche sessuali così frequenti. Con grande
scombussolamento, si rende conto dell’inganno. Tutte quelle storie non sono
accadute realmente, sono solo delle fantasie che però hanno uno statuto particolare.
Le paziente stesse non sanno di raccontare delle storie fantasiose, che stanno
ingannando Freud, ma sono certe di quello che dicono e della realtà di cui parlano.
Sono fantasie “reali”.
“Una volta io ho detto che fino a che ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno
finto sul palcoscenico. Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita
recitano male”. Parole di Edoardo De Filippo, che consuonano con le fantasie “reali”
di cui soffrivano le isteriche al tempo di Freud. Non per niente si è parlato di teatro
privato e di inconscio come Altra scena.
Seguendo l’esperienza freudiana con le parole di Edoardo De Filippo, si può
considerare che il rapporto tra linguaggio e realtà non è così scontato. La finzione
smaschera la credenza in una netta e oggettiva differenza tra vero e finto. Portando in
palcoscenico il filo d’erba raccolto dalla terra, questo diverrebbe meno vero?
Prendere sul serio la finzione che la parola stessa crea, implica fare i conti con
l’impossibilità di identificarsi totalmente con quello che crediamo di essere e poter
alleggerire il peso della realtà che ci costringe a fare della propria vita una brutta
recita.
Cosa che non si fa a buon mercato.

Omar Battisti
Membro SLP

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