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GIULIO MARIA CHIODI

IL MITO POLITICO COME COSCIENZA COLLETTIVA

1. Simbolica ed epocalità

Non mi propongo di analizzare la complessa natura del mito, né i


concetti che diversamente ne hanno elaborato l’interpretazione. Non
parlerò, cioè, né da mitologo, né da antropologo, ma da politologo.
Cercherò, dunque, di concentrare l’attenzione sul genere di mito che
in modo particolare attiene alla dimensione della politicità. La specifi-
cazione di «coscienza collettiva», che figura nel titolo, vuole appunto
sottolineare questa specificità. Aggiungo che il mio proposito è di rac-
cogliere le indicazioni essenziali, che ci permettano di ragionare sulla
portata del tema, in maniera tale che ne possiamo trarre dei lumi soprat-
tutto in merito all’attualità.
La consapevolezza delle cose del tempo si acquista più a fondo os-
servandole con l’occhio dello storico e con quello del filosofo; il primo
vede i fatti, il secondo le idee, ma il loro insieme può anche produrre
una visione strabica e malcerta. Per comprendere il tempo che si attra-
versa occorre il terzo occhio, l’occhio epocale, l’unico capace di fon-
dere, senza confondere, la visione degli altri due. Esso è dotato di uno
sguardo stereoscopico e liminare insieme. Liminare significa capace
di osservare nel contempo quanto è visibile e documentabile e quanto
esprime condizioni del vissuto che riguardano l’immaginazione e le di-
mensioni inconsce dell’anima collettiva. Il mito politico, come diremo,
ha direttamente a che fare con una coscienza liminare.
Orientarsi nelle complessità del presente richiede – come del resto
accade per ogni epoca – possedere dei punti cardinali, che consentano
di stabilire quello che amo definire il «punto-epoca», in analogia col
punto-nave, che stabilisce la posizione di un’imbarcazione, necessaria
per mantenere la rotta. Tre sono i fattori orientativi che ritengo deb-
bano essere tenuti presenti nell’orizzonte delle nostre considerazioni,
onde renderle realistiche. Essi sono: l’autoriproduzione cieca delle tec-

Hermeneutica (2011) 139-170

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nologie; la burocratizzazione procedurale; l’individualismo di massa.


Mi è consueto paragonare tali fattori a una sorta di drago tricefalo, col
quale dobbiamo comunque fare i conti. Riassumiamone in breve la
specifica natura.
1) Autoriproduzione cieca delle tecnologie. L’evoluzione delle
risorse umane ha portato ad una graduale sostituzione dell’elemento
naturale con quello artificiale. In una prima fase la macchina ha sosti-
tuito la forza umana e gli strumenti artigianali, che ne erano un prolun-
gamento potenziato, lasciando all’uomo la disponibilità delle facoltà
intellettive, arrivando all’impiego di seghe elettriche, martelli pneuma-
tici, gru e perforatrici. Siamo nell’ordine della meccanica.
In un secondo tempo, che possiamo dire tuttora in espansione, alla
macchina sono state trasferite anche le funzioni fino allora riservate al
cervello umano. L’avvento delle tecnologie elettroniche non ha soltanto
preso il posto della memoria e dell’informazione, ma si è assunto an-
che l’onere delle più complesse operazioni logiche, mediante analisi e
calcoli nonché le più svariate elaborazioni delle conoscenze, giungen-
do a controllare la materia con intelligenze artificiali e procedimenti
insostenibili per la semplice attività mentale. Ormai non si dà proget-
to o programmazione che non siano affidati a processi della macchina
tecnologica. In tal modo lo sviluppo delle conoscenze e delle tecniche
obbedisce sempre più a criteri di autoriproduzione, che definiamo cieca,
giacché sempre meno condizionata dalla valutazione puramente uma-
na. Spesso si ha la precisa sensazione che la macchina, da strumento
dell’uomo, tende a strumentalizzare l’uomo. Come già la filosofia he-
geliana aveva intravisto, lo strumento tende a prevalere su chi lo usa e
addirittura sul fine da questi perseguito. Siamo ancora nell’ordine della
sfera intellettiva; ma a questo punto stiamo già varcando la soglia di una
terza fase, nella quale al trasferimento alle tecniche della forza fisica e
del potenziale logico si sta aggiungendo quello della nostra stessa entità
psico-fisica. Le biotecnologie non si limitano più a sostituire parti e fun-
zioni organiche del nostro corpo, ma si apprestano altresì alla program-
mazione dei caratteri dell’essere umano, sia fisici che psico-morali. Si
profila, così, una tormentata messa in dubbio tanto delle identità indi-
viduali quanto di quelle, addirittura, della intera specie in quanto tale.
Siamo nell’ordine della sfera organica.

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In Umano troppo umano Nietzsche sosteneva che la macchina era sì


un potente prodotto della mente umana, ma che degli uomini metteva in
movimento solo i sentimenti più bassi, addormentandone l’anima1. Si
può condividere o respingere questo pensiero, aggiornarlo o adattarlo
e distorcerlo, ma il fenomeno non è del tutto contestabile. Parleremo di
miti politici, ma nelle nostre valutazioni sul punto-epoca non possia-
mo ignorare le dinamiche dell’autoriproduzione cieca delle tecnologie,
dalla quale si può diventare pericolosamente troppo dipendenti. Non è
del tutto assurdo pensare che del processo di innovazione tecnologica
si può anche perdere completamente il controllo, dal momento che la
tecnologia tende a sostituire i compiti della cultura e, paradossalmente,
si sostituisce perfino alla scienza. L’episteme tende tende in tal modo a
dipendere dalla techne.
2) La burocratizzazione meramente procedurale è il secondo punto
cardinale dell’orizzonte caratterizzante la nostra epoca. In tale genere
di burocratizzazione dobbiamo individuare la vera e concreta forma di
governo che attualmente si impone nella sfera politica. Si tratta di una
modalità di governo che è applicata indipendentemente da ogni pro-
gramma ideologico e che è perfettamente coerente tanto col fenomeno
dell’autoriproduzione cieca delle tecnologie, quanto col seguente, di
cui più avanti diremo.
L’aggettivo «procedurale» sta ad indicare che si tratta di un fenome-
no di burocratismo, che non ha a che fare con l’amministrazione vera
e propria in quanto tale, che è ovviamente funzionale e irrinunciabile
nell’organizzazione di governo. Alludiamo ad un’altra realtà, pesante-
mente incombente, che fagocita ogni scelta, anche indirettamente di
portata pubblica, formalizzandola per vie normative, legistiche e rego-
lamentari, sì da far prevalere gli strumenti formali sopra i contenuti e
sopra le finalità. In pratica, mentre le necessità amministrative sono po-
ste al servizio degli obbiettivi, il burocratismo di cui parliamo si serve di
questi ultimi come pretesti della propria autoriproduzione. L’adozione
di criteri ispirati per lo più al geometrismo giuridico e ad un apparente
coinvolgimento delle cittadinanze – in modo tale, per cui istanze, pro-
grammi fatti, persone, relazioni vengono ridotti soltanto ad entità seriali
e generalizzate – si risolve nel continuo accrescimento dell’articolazio-
1
Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano (1880), II, 2-220.

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ne in uffici, commissioni, ruoli, competenze istituzionali e soprattutto


adempimenti di formalità, che si risolvono in una sorta di patologia
procedurale, che investe l’intero sistema di rapporti collettivi. Qualsiasi
genere di istanza può aspirare ad essere recepita a condizione di essere
assorbita dal proceduralismo, che in ultima analisi finisce per svuotarla
dei suoi contenuti o per alterarla, dislocandola nelle dinamiche dei suoi
apparati, in base a principî genericamente ordinativi e protocollari, fal-
samente tutorî e tanto più opachi quanto più li si vogliono trasparenti.
L’esito è nella sostituzione delle competenze sostanziali o funzionali
con quelle astrattamente normative e proceduralmente prefigurate.
Nella sostanza, il buroproceduralismo, che penetra capillarmente in
tutte le strutture istituzionali anche private, e che si frappone tra singoli
cittadini e autorità o obbiettivi proposti, comporta da una parte l’inardi-
mento delle iniziative, e dall’altra la deresponsabilizzazione dei sogget-
ti operanti. Il rispetto dei protocolli e delle regole procedurali esonera,
infatti, da ogni responsabilità sull’operato dei soggetti; ogni responsa-
bilità è riversata sull’ufficio e sulla procedura, che di fatto equivale al
suo annullamento o al riversamento sul cittadino delle eventuali conse-
guenze. Salvaguardata la procedura, tutto il resto diventa irrilevante o
estraneo alla rilevanza pubblica. Il buroproceduralismo assomiglia ad
un’irresponsabilità pubblica programmata, kafkianamente fatta di muri
respingenti o di risucchi alteratori o di specchi e maglie deformanti. La
proliferazione generalizzata, sistematica e sanzionata, soffoca la vitalità
stessa della sfera politica e la depaupera di ogni senso, alla stregua di un
rito privo di mito, cioè fine a se stesso. Preziose osservazioni, che preco-
nizzano questo quadro, sono state avanzate dai noti studi di Max Weber
e di Robert Michels, dove ne mettono in evidenza le prime avvisaglie.
3) L’individualismo di massa. Questo terzo fenomeno si instaura
paradigmandosi su un principio di uguaglianza. Il mercato internazio-
nale e le organizzazioni mondiali, che provocano a ripetizione compor-
tamenti omologanti, ormai usi ad essere definiti col termine di globa-
lizzazione, sono gli agenti principali dell’individualismo di massa. Essi
ragionano – e diversamente non potrebbero – in maniera seriale.
Quando, per esempio, sentiamo parlare con insistenza di diritti uma-
ni, al di là delle dichiarazioni benintenzionate, l’individuo viene di fat-
to considerato in maniera certamente patetica, ma altresì seriale, non

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molto di più che singolo esemplare di una specie che si vuole onorare
di eccezionale dignità. In realtà, l’individuo è sostanzialmente avulso
da effettivi contesti, non solo di appartenenza culturale, di costume e
di credenze, ma altresì personali nella loro irripetibilità. L’individuo, in
ultima analisi, viene concepito in un contesto che si ispira ad un astratto
principio egualitario individualizzato. Si tratta di un fattore risalente a
quel genere di indistinzione che opera nella natura stessa della massa.
Pensare, per principio, un individuo uguale a qualsiasi altro, al di fuori
di contesti affettivi, culturali e situazionali di appartenenza – così come
dichiarare un cittadino uguale ad un altro all’interno di un’ipotetica citta-
dinanza universale – e poi assumere tale pensiero come criterio primario
di una regola sociale universale, significa addivenire all’idea che ognuno
sia un semplice numero, senza qualità e condizioni realmente personali
di appartenenza. Siamo di fronte a processi che cancellano strutture rela-
zionali e di appartenenza, vanificano stili di vita, costumi, culture, popoli
in quanto tali ed ogni genere di effettiva singolarità personale e colletti-
va. Il processo tendenziale è in direzione di una regressione al biologico
e al biopatico, che sono condizioni riducibili a significanti puri, ossia
incapaci di produrre significanza. Individualismo, massificazione e af-
fermazione di uguaglianza tra individui si coniugano vicendevolmente.
Uguaglianza, nel quadro dell’individualismo di massa, coincide con in-
differenza; indifferenza agisce qui nel doppio significato descrittivo e
morale, ossia di non differenziazione e di disinteresse alla singolarità.
Decisivo in proposito è il ruolo svolto dalla comunicazione di mas-
sa, che coltiva l’opinionismo sociale, ostile alle competenze critiche in
quanto tali, ed è omologante i vari modelli comportamentali. Col lin-
guaggio di Aristotele si può focalizzare il quadro: i media fungono da
moderni retori, i prodotti di mercato da moderni analitici, la finanza
rappresenta i moderni dialettici. La comunicazione generalizzata – che
subissa anche con oggetti materiali la collettività di usi quotidiani e di
informazioni, sostanzialmente inutilizzabili e frastornanti – fa piuttosto
la parte di anima della massa. La massa di cui parliamo – teniamolo in
debito conto – non è tipologicamente assimilabile alla massa che si for-
ma nei regimi totalitari (i due grandi esempi novecenteschi sono, ovvia-
mente, quelli del nazismo e del comunismo). Come presupposto di base
l’individualismo di massa non si definisce in rapporto a un nemico – tut-

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ti, per principio, devono sentirsi amici – mentre il nemico è figura essen-
ziale e costituiva della massa totalitaria. Evidenti le conseguenze sulle
rispettive etiche e sul modello di individuo che considerano esemplare2.
Sono intuitive le strette complementarità e le congruenze interne
delle tre dinamiche ora accennate che fanno di esse un tutt’uno. Quali
che siano le vedute che si seguano, ignorare tali dinamiche significa
brancolare nell’irrealtà; appoggiarne acriticamente gli sviluppi signi-
fica muovere attivamente o passivamente verso il nulla. Qualsiasi ob-
biettivo ci si proponga, dunque, e qualsiasi valutazione si effettui della
realtà e delle aspettative del momento, richiedono di adottare i tre fe-
nomeni epocali sopra indicati come criteri di orientamento delle scelte,
ma al tempo stesso di saperli tenere a misurata distanza.

2. Prima approssimazione al concetto di mito politico

Possiamo ora incominciare ad introdurre i primi cenni al concetto


di «mito».
È intuitiva la difficoltà d’identificare miti aggregativi sufficiente-
mente stabili in un quadro dominato dall’incombenza delle tre suddette
dinamiche, congiuntamente operanti. Ci possiamo chiedere come si è
giunti a contemplare questo orizzonte, senza necessariamente perderci
nei meandri delle causalità storiche. Il riferimento alle complesse vi-
cende che riassumiamo sotto il concetto, non sempre pacifico, di seco-
larizzazione è qui d’obbligo. Per raffigurare in maniera complessiva il
fenomeno della secolarizzazione in chiave esclusivamente simbolica,
sono consueto ricorrere all’immagine della piramide.
Prima dell’avvento della cosiddetta modernità – segnatamente an-
cora in età medievale – il vertice della piramide, dal quale metaforica-
mente osservare il mondo, era indiscutibilmente posto in alto, per così
dire nei cieli, sotto l’occhio di Dio. Ciò comportava che la spiegazione
delle cose, fondata e data per incontrovertibile, era cercata rispondendo
in ultima analisi alle domande: «quale è, sulle questioni che mi pongo,
2
Per precisazioni sul significato di massa adottato rinvio al mio Massa. Dall’inquadramento
ideologico al governo burocaotico, in «Incursioni» IV, 4, marzo 2009, pp. 9-19. Un’utile
introduzione al concetto sono J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, tr. it., il Mulino,
Bologna 1984 e Leopold von Wiese, System der allgemeinen Soziologie, 2te Aufl., Duncker &
Humblot, Berlin 1933.

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il punto di vista di Dio? della volontà o della ragione divina? come ri-
solvere i problemi in sintonia col pensiero divino e con la Rivelazione?
come interpretare i segni rivelati oppure rivelativi, che la sua potenza
ha messo a disposizione dell’uomo?» Altrimenti formulati, i quesiti si
compendiano in uno: «Come far rientrare nell’ordine della creazione,
secondo la volontà o la ragione di Dio, le risposte che devo dare?»
Cercare di osservare il mondo in armonia con l’ordine divino della cre-
azione significa porre il punto di vista veritativo (ossia il vertice della
ideale piramide) in una posizione apofatica, infinita e indefinibile, la
quale osserva il mondo catafatico, finito, definibile: è guardare il finito
da un punto di vista infinito, il commensurabile dall’incommensurabi-
le. Dobbiamo a considerare questa posizione come fondata su principî
rivelativi, sì che, nella sua pienezza, può essere identificata come una
posizione sostanzialmente sacrale.
Quando il principio determinativo delle cose – comunque lo si in-
terpreti nella sua natura e nei suoi effetti – è situato in una posizione
di trascendenza o in una fonte comunque numinosa, ossia ritenuta non
prodotta né dalla libera scelta di esseri umani né dall’ordine naturale, ci
troviamo di fronte ad una realtà mitico-rivelativa. Spieghiamo, di prima
approssimazione, i due termini di questa definizione.
Rivelativo indica la manifestazione di una potenza superiore, che
è al di là delle capacità di controllo umane; manifestazione, quindi, di
una potenza sovrumana, alla quale ci si sente soggetti o alla quale si
accede soltanto per connaturata partecipazione o per ritualità. La so-
vrumanità e la soprannaturalità comportano che la rappresentazione di
tale manifestazione sia concepibile soltanto in un contesto mitico. In
sostanza è essa stessa un mito, ossia non è costruita noeticamente, non
è una costruzione né induttiva né deduttiva; e nemmeno la si può dire
ipotetica, e nemmeno volontaristica, concordata, opportunisticamente
o utilitaristicamente individuata, funzionalistica et similia. Il fattore de-
cisivo, per averne una nozione, è che si tratta di una realtà di natura
sacrale, e che deve essere considerata nel suo insieme come espressa
o esprimentesi secondo un punto prospettico superiore, superordinato
ad ogni riduzione intellettiva, che non può che darsi da sé per via ri-
velativa. La tesi, che sostengo in merito, ritiene che la sacralità, in tal
modo intesa, rappresenta la matrice storica, simbolica e concettuale di

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quanto siamo consueti definire «mito» in un contesto moderno. Matrice


storica, perché la nostra civiltà è direttamente tributaria del cristianesi-
mo, ma prima ancora di quelle antiche, soprattutto mesopotamiche ed
egizia e poi ebraica; simbolica, perché le strutture identitarie proprie del
nostro mondo simbolico hanno trovato in quelle società sacrali le forme
di espressione costitutive, nonché più intense e complete; concettuale,
perché la definizione di mito, come mostrerò più avanti, è plasmata sul
modello della manifestazione sacrale, nella quale cogliamo l’esperien-
za originaria della stessa mitopoiesi.
Possiamo comprendere bene, in un’ottica simbolica, la modernità
come avvio, e più tardi risultato, di un processo di secolarizzazione (qui
direi meglio di desacralizzazione), se immaginiamo un capovolgimento
della immaginaria piramide, di cui parlavamo, in maniera tale da porre
il suo vertice non più in cielo, ma in terra. Il punto di vista, così, non è
più situato nell’infinito e indefinibile, che guarda nel finito e definibile,
ma è posto nel finito e definito, rovesciando il rapporto cielo-terra.
Porre il punto di vista nel terreno o nel naturale e non più nel celeste
o soprannaturale è il presupposto dell’introduzione della prospettiva.
La prospettiva è la più efficace chiave di lettura di tutta la modernità. La
teorizzazione della prospettiva e delle sue più elementari ed immediate
applicazioni sul piano visivo è dovuta a grandi artisti rinascimentali,
come Piero Della Francesca, Leon Battista Alberti, Filippo Brunelle-
schi, Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer ed altri ancora. Non è certo
un dato casuale che i teorici della prospettiva, per spiegare la visione
prospettica, fondandola su criteri geometrici e di attraversamenti di pia-
ni, anziché su criteri ottici, ricorrano precisamente all’immagine della
piramide, situando i punti di fuga nel suo vertice o sui suoi simmetrici
speculari. Ma l’importanza della visione prospettica delle cose non si
arresta agli aspetti puramente visivi, alle rappresentazioni pittoriche o
alla distribuzione e costruzione di spazi geometrici e architettonici. La
visione prospettica rappresenta, meglio di ogni altro, la sensibilità uma-
nistica, impostasi a partire dalle tesi sulla doppia verità (umano-rituale
e divina) e pone al centro del mondo l’uomo, come hanno teorizzato
personaggi come Pico Della Mirandola, Marsilio Ficino o il Bovillo.
Ma, soprattutto, va detto che il concetto di prospettiva è alla radice della
nascita della differenziazione e specializzazione dei linguaggi.

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Ogni linguaggio rispecchia una propria visione prospettica delle


cose. Che di un medesimo oggetto si possa parlare correttamente e in
modo appropriato mediante diversi linguaggi concorrenti (ossia si possa
osservarlo secondo un punto di vista estetico, o morale, o economico,
o naturale, teologico, giuridico, fisio-chimico ecc.), è effetto dell’intro-
duzione di criteri di osservazione di natura prospettica, che sono tipica-
mente antropocentrici e per niente affatto teocentrici. Per quanto con-
cerne la parola, la rigorosa separazione tra logica e retorica, che viene
argomentata nel seicento (vedi soprattutto le dispute di Port-Royal), ma
che ha significati antecedenti soprattutto in Pico della Mirandola, è forse
l’esempio più significativo per cogliere la portata della differenziazione
dei linguaggi sul piano meramente mentale. Ogni linguaggio, ivi com-
presi quello pittorico o architettonico, grazie al principio prospettico è
da considerarsi come un complesso articolato di segni e di combinazioni
di segni e di procedimenti, che con propri mezzi descrivono, esprimono,
comunicano, ricostruiscono, rielaborano gli oggetti assunti sotto la loro
osservazione e sotto le loro forme di trattamento.
I vantaggi sul piano cognitivo e tecnico-applicativo dell’introduzio-
ne di un’osservazione analitica e controllabile, qual è quella struttural-
mente prospettica, sono a tutti evidenti. Prendere in considerazione un
oggetto qualsivoglia secondo criteri prospettici o di linguaggio speciali-
stico comporta un altissimo grado di oggettività e quindi di universaliz-
zazione. Ma si tratta di un’oggettività metodologica e non ontologica,
certificata dalla coerenza e dalla rigorosità dei procedimenti. L’osserva-
zione prospettica, come avviene nella visione pittorica, consente infatti
il controllo, la misurabilità, la verificabilità dei procedimenti di osser-
vazione, conseguendo risultati di elevata attendibilità, per non dire di
certezza. Certezza? Cartesio sostenne la necessità di seguire soltanto
le idee chiare e distinte, al fine di conseguire la certezza degli esiti (al-
tra cosa della certezza è propriamente la verità) e quella che definì res
cogitans non è altro che la sede della costruzione del punto di vista
prospettico della ragione.
Ogni linguaggio ha perciò un suo punto prospettico (e punti pro-
spettici interni subordinati), le sue geometrie, i suoi paradigmi, le sue
simmetrie e asimmetrie, e le sue regole. Ciò gli consente di conseguire
il rigore, la precisione e la coerenza procedurale al proprio interno. Il ri-

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gore interno è dato ad ogni linguaggio dal suo metalinguaggio, che è la


fonte di garanzia delle regolarità del procedimento. Così, per esempio, i
calcoli numerici (linguaggio aritmetico) posso conseguire il loro rigore
solo perché obbediscono alla regolare successione infinita dei numeri
(metalinguaggio); altrettanto un brano musicale ha un suo linguaggio
perché dipende dalla metalinguistica dei rapporti tra suoni; e così è per
una spiegazione chimica piuttosto che per una economica. Il metalin-
guaggio, sappiamo, è la condizione di legittimazione di un linguaggio.
E se ci chiedessimo, però, che cosa legittima, a loro volta, i metalin-
guaggi? Dove e come reperire il metalinguaggio di un metalinguag-
gio? Il meta-metalinguaggio? Qualsiasi risposta si dia a questo terzo
livello, essa si presenta completamente arbitraria. Forse si suggeriranno
soluzioni in base a ricerche di scienze neuro-cognitive, che oggi stanno
godendo di un particolare prestigio, ma probabilmente nemmeno tali
scienze potranno dare completa soddisfazione del senso che si attri-
buisce alle operazioni cognitive stesse in merito alla Sinngebung più
interiore delle singole soggettività, che sollecita ed accompagna quelle
operazioni. Le risposte finora possibili sono fortemente dipendenti dalla
fantasia, da ipotesi indimostrate, dall’immaginazione più o meno esper-
ta. Oppure, nel merito, si tace.
Riprendendo la nostra immagine della piramide prospettica, possia-
mo dire che il vertice si situi sempre in un punto metalinguistico, che
consente di osservare linguisticamente, ossia applicando procedimenti
misurabili, calcolabili, parametrati, adeguatamente funzionali allo sco-
po, che legittimano e oggettivizzano i risultati. Tuttavia lo stesso rigore
che si applica nell’osservare – eccoci all’argomento focale di questi
passaggi introduttivi – non può essere affatto applicato alla scelta del
punto di osservazione. È rigoroso il mio osservare prospettico, ma non
la scelta del «da dove»; il cambiamento di prospettiva non può obbe-
dire, in ultima analisi, a criteri di scelta obbiettivamente determinabili,
ma solo ipoteticamente condizionati. Non c’è motivazione dimostrabile
che sia in grado di dirmi se sia in assoluto più legittimo seguire crite-
ri estetici, piuttosto che storici, piuttosto che economici, matematici o
morali. Dipende dalle intenzioni, e mutano i risultati a seconda dell’im-
piego degli uni o degli altri criteri, così come genererebbe confusione
mescolare indistintamente i diversi criteri. In pratica non abbiamo re-

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gole di omologazione dei metalinguaggi, non possediamo una nomotesi


universalizzabile, per la dimostrabilità delle premesse.
Ogni linguaggio, in conclusione, si serve di propri occhi trascen-
dentali, dotati di propri metodi di ossrvazione. L’occhio trascendentale,
in seguito al processo antropocentristico della secolarizzazione mo-
derna, ha sostituito l’occhio trascendente. La domanda che abbiamo
appena posto è: se il il punto prospettico è trascendentale, qual è il tra-
scendentale dei trascendentali? È la domanda che ha accompagnato la
discesa faustiana alle Madri. E ha senso chiederselo? È la domanda
sottesa alla filosofia prima, alle oscure viscere delle origini, alla ricerca
dei fondamenti, degli Anfänge, degli Ursprünge, di quelli che Husserl
ama chiamare i rizo;mata pavntwn3.
In filosofia, a questo proposito, si parla di ricerca del fondamento.
Ma, in questa navigazione, per usare un’espressione platonica, la ra-
gione non arriva mai in porto, e finisce per naufragare, calando nelle
profondità del movimentato mare delle cause, negli abissi delle cau-
sae causarum. Vi sono tre modi per non annegarvi. Il primo modo è
la decisione volontaristica e dogmatica. È la scelta preferenziale di un
fondamento, mediante la quale si tronca la catena infinita delle cause.
Il secondo modo è rifugiarsi nella metafisica. Nelle sfere metafisiche la
ragione sa muoversi in spazi che vanno al di là di se stessa, oltre i confi-
ni di ogni logica, nelle regioni dei più arditi paralogismi. Nell’universo
della metafisica la ragione sfida se stessa, trova i campi in cui compie
le sue gesta più eroiche. In tali abissi profondi o, se si preferisce, sulle
vette più elevate della speculazione dell’intelligenza pura, la ragione si
autocelebra, ma si misura inesorabilmente con le idee fondative (Dio,
uomo, natura, divenire). Il terzo modo è offerto dalla simbolica, alla
quale appartiene anche il mito.
In breve, secondo questo terzo modo, il livello meta-metalingui-
stico, che non è mai definibile con i rigori linguistici, chiama in causa
valenze dell’immaginario ed è nell’ottica della simbolica che gli si può
riconoscere altresì una natura immaginale. Il mito è, infatti, una realtà
immaginale, perché si esprime mediante simboli.
Il termine «immaginale» ha avuto recentemente molta fortuna in
versioni fantasiose e spesso altresì cialtronesche. Il significato di imma-
3
Cfr. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, Klostermann, Frankfurt a.M. 1965,
p. 48.

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ginale da noi adottato ha una precisa definizione: esso è l’espressione


delle manifestazioni della coscienza liminare, nelle quali sono inscindi-
bili gli aspetti inerenti alla sfera del ponderabile (intelletto, esperienza,
percezione sensibile) e contemporaneamente quella dell’impondera-
bile, derivata dal nostro inconscio, dalle stratificazioni depositate dal
costume e dalle appartenze idioaffettive e culturali, dall’istinto e dall’e-
motività4. Il simbolo, nell’accezione immaginale qui adottata, essendo
inteso come espressione del vissuto nell’unitarietà della psiche umana,
è a pieno titolo un fenomeno immaginale. In virtù dell’azione inscin-
dibile di conscio ed inconscio, che costituisce la sostanza immaginale,
il simbolo è da considerarsi prodotto dalla coscienza liminare, dove
l’aggettivo «liminare» sottolinea l’incontro inscindibile tra dimensio-
ni del conscio e dell’inconscio, dell’azione noeticamente consapevole
e dell’emozionalità, dei ponderabili e degli imponderabili. È questo il
luogo delle manifestazioni della psiche nella sua interezza, della per-
cezione e dell’elaborazione inconscia, che sono proprie delle facoltà
dell’essere umano, considerato nella sua unitarietà. È nel vissuto di
queste manifestazioni che si deve reperire la sostanza del mito politico.

3. Seconda approssimazione al concetto di mito politico

Ogni sistema politico, qualunque siano le ideologie praticate, si


regge su due imprescindibili presupposti: le convinzioni (più enfatica-
mente, una fede) e la forza. Con le convinzioni coincidono le ideologie
in quanto tali, nelle convinzioni rientrano gli apporti delle culture e i
sistemi di interessi socialmente in gioco. Ed è nella convinzione che
vive anche il mito politico; è nella forza la condizione per attuare il suo
imporsi. Evidentemente, più forte è il mito vissuto, più questo acquisirà
forza per imporsi, così come la forza stessa può essere contenuta nel
mito; se si tratta del mito della forza, un sistema si reggerà su di essa
solo se la possiederà anche di fatto.
Anzi, più precisamente, è in particolare il mito a determinare le
convinzioni nelle idee collettive, le quali vivono sempre di valenze mi-

4
Il concetto di immaginale, diversamente contestualizzato, trova una precisa collocazione
teorica in F. Creuzer, Symbolik und Mythologie der alten Völker (1819) con l’aggiunta del 1839,
e in H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Flammarion, Paris 1985 e
Temple et contemplation, Flammarion, Paris 1980.

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Il mito politico come coscienza collettiva 151

tiche. La sola forza, che può servirsi di qualsiasi mezzo anche indiretto,
senza il supporto delle convinzioni che la motivano e la sorreggono,
è di breve durata, non costruisce nulla e sostanzialmente sarebbe solo
distruttiva; le sole convinzioni, senza la forza che le sostengono, sono
assolutamente inefficaci. La convinzione, alla sua base sempre d’ordine
mitico, può presentarsi come idealità, come sentimento di appartenen-
za, rappresentazione di bene comune, come credenza religiosa o fede,
tollerante oppure fanatica, ma comunque non muta lo statuto struttura-
le dell’ideologia mitizzante. Anche parlare di obbligazione politica, di
contratti sociali, di patti o accordi di convenienza, di scelte razionali,
che darebbero vita ad aggregazioni politiche, alle statualità, alla socie-
tà civile o, più in generale, a una socialità organizzata e alle comuni-
tà, significa, in ultima analisi, fare leva su convinzioni. Ugualmente si
deve altresì dire di ogni genere di convenzione: essa deve risolversi in
convinzione, perché senza la convinzione di stipularla e soprattutto di
rispettarla, sarebbe priva di qualsiasi efficacia. Anche le istituzioni e le
consuetudini tramandate si consolidano in misura della convinzione co-
mune che le alimenta e le sorregge. Che cosa è aggregante in tale genere
di convinzioni, se non la mitizzazione di alcunché? Mitizzazione che
può essere tanto drastica e fanatica, quanto anche blanda e accomodan-
te; nell’un caso sarà dogmaticamente chiusa in se stessa e con identità
di gruppo forte, nell’altro produrrà aggregazioni identitarie alquanto
deboli, rendendo fragile e labile la compagine di appartenenza.
Una compagine sociale dovrà perciò riconoscersi in un proprio
mito, dal quale trae origine la sua identità.
Una volta stabilito che ogni realtà politica trova il suo fondamento
sui due pilastri della forza e del proprio mito aggregante, è facilitata la
considerazione del mito politico in quanto tale. Prima di tutto si devono
dare per acquisite due proprietà del mito, o meglio due lati della mede-
sima proprietà. Il mito, sotto le sue modalità immaginifiche, è sempre
dotato di un suo sistema di conoscenze, in virtù delle quali le sue mani-
festazioni esprimono realtà di per se stesse veritiere e che altrimenti non
si saprebbero ugualmente esprimere; inoltre il mito non è mai arbitrario
– è il secondo lato – sicché è sempre rivelatore di situazioni profon-
damente radicate nel nostro mondo vitale. Questi caratteri dovrebbero
chiarirsi meglio con quanto qui di seguito diremo.

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152 Giulio Maria Chiodi

Ho spesso ripetuto in merito alla cosiddetta civiltà occidentale, alla


quale incominciamo a dubitare di appartenere ancora: dai Greci abbia-
mo imparato a pensare, dai Romani a governare, dai Germani ad agire,
dal mondo ebraico, aggiungo, a cogliere il senso del provvisorio e della
precarietà delle nostre idee. Molti errori si commettono, perché ci scor-
diamo di questi antecedenti o perché, anche senza volerlo, scambiamo
troppo le parti tra loro.
Sotto il profilo politico ci basta qui differenziare l’apporto dell’in-
telligenza greca, carica anche di passionalità e di idealità, dall’apporto
romano, fondato piuttosto sull’autorità delle istituzioni e del diritto col
conseguente spirito di autodisciplina. Questa generalizzazione, ovvia-
mente, non vuole essere descrittiva, ma soltanto di indirizzo caratteriz-
zante. La polis greca affida i suoi costumi ad un nomos, che sottrae il
cittadino alla balìa tanto della hyle della natura quanto del kratos de-
gli dèi, giacché la politeia non si realizza tra individui che si sentano
posseduti dalla divinità o guidati dal puro istinto animalesco. Tale è il
senso, per esempio, della famosa definizione di Aristotele dell’uomo
quale animale «politico». Quanto a Roma, essa ha introdotto un’idea di
universalità istituzionale che i Greci non possedevano affatto, grazie in-
nanzitutto alla sensibilità giuridica della quale i romani hanno rivestito
il loro mos e dell’esaltazione di Roma, l’urbe per eccellenza, in quanto
mito universalistico. Roma costruì il mito di se stessa e si costruì fin
dalla sua origine come mito. Roma come mito politico si perpetuerà nel
tempo anche dopo la sua caduta dalla res publica christiana e dall’impe-
ro medievale al Rinascimento (e l’esempio più classico è Machiavelli),
al mondo vicino alle idee illuministiche, al nazionalismo novecentesco,
e ancor oggi continuiamo a studiarne lo ius. Roma, grazie alle sue istitu-
zioni e al diritto, introdusse nella classicità una visione universalistica,
quindi aperta ed estendentesi verso gli altri, che la concezione politica
greca non seppe o non volle sviluppare, priva, come fu, di istituzioni
universalizzanti e, soprattutto, di un’idea autonoma del diritto. Questa
breve osservazione sull’antichità, che maggiormente è richiamata nei
nostri studi scolastici, ci serve qui soltanto come esempio eloquente,
per dare più efficace risalto all’immagine di una comunità politica uni-
versalistica che ha posto la propria grandezza sulle basi di un mito della
potenza della propria città.

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Il mito politico come coscienza collettiva 153

Dobbiamo, prima di tutto, sgombrare il campo da un facile equivo-


co, che proprio emerge sul terreno delle idealità politiche: è la confu-
sione, abbastanza correntemente praticata, tra mito e utopia. Qui non
faccio menzione né delle varie accezioni del termine e del concetto che
accompagnano mito ed utopia, affidate ad una letteratura ormai stermi-
nata, e nemmeno mi attardo a discutere sulle controverse origini5. La
molteplicità dei punti prospettici, di cui si serve la modernità, consape-
vole del suo costruirsi in forme linguistiche, impoverisce l’energia del
mito, ne condiziona e ridimensiona la forza di attrazione. Proprio lungo
l’età moderna si è accreditata una nozione di mito, termine che, alla
lettera, ha per significato principale quello di racconto d’immaginazio-
ne, che il nostro intelletto cognitivo carica di sfumature spregiative e la
fantasia di connotati idealizzanti. In pratica, la tendenza della modernità
è di convertire il mito in utopia, perciò è necessario chiarire le differen-
ze. Diciamo subito che non si tratta di un problema di contenuti, che
possono indistintamente appartenere all’uno o all’altra.
Condivisibile è la tesi già elaborata da Walter Otto e da Karl Ke-
rény e ribadita da Mircea Eliade, per la quale il mito costituisce sempre
un precedente rispetto ai modi di vivere la realtà6. Altrettanto non si
può certo dire dell’utopia. In generale possiamo affermare che il mito,
innanzitutto, non può essere pensato, programmato, architettato e non
lo si può concepire come un racconto meramente descrittivo. Il mito è
vissuto. È quindi sempre radicato nella realtà, è realtà, realtà vissuta. Di
contro l’utopia non è concepibile se non come una costruzione intellet-
tuale, un’ideazione cosciente ed elaborata dalla mente e dalle sue capa-

5
Sto usando qui il concetto di utopia nel suo significato stretto, ossia di visione contrapposta
alla realtà e consapevolmente inattuabile, luogo ideale di una sovranità dell’intelligenza umana
che contrasta la sovranità di chi governa, dove la creatività umana rivendica la propria assoluta
indipendenza da ogni altro potere. Potrebbe, perciò, fuorviare se si leggesse qui l’utopia
esclusivamente alla luce di contestualizzazioni sociologiche, come accedendo alla ben nota
nozione che si ricava da K. Mannheim, Ideologie und Utopie, Bonn 1929, tr. it. Ideologia e
utopia, il Mulino, Bologna 1957. Importanti riprese, cariche di sintonie con l’opera ora citata sono
reperibili in K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, De Gruyter, Berlin 1931.
6
Cfr. di W.Fr. Otto soprattutto Die Götter Griechenlands, Cohen, Bonn 1929; K. Kerény, Gli
dei e gli eroi della Grecia, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1962; s.a. La religione antica nelle sue linee
fondamentali, tr. it., Zanichelli, Bologna 1940; s.a. Miti e misteri, Einaudi, Torino 1950; M. Eliade,
Mito e realtà, tr. it., Borla, Torino 1966. Per spunti critici, sensibili all’analisi simbolica, cfr. Luigi
Alfieri, Identità e irrazionalità collettiva, in C. Bonvecchio (ed.), L’irrazionale e la politica. Profili
di simbolica politico-giuridica, Ed. Università di Trieste, Trieste 2001.

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154 Giulio Maria Chiodi

cità di progettazione. Mente il mito in quanto tale non è mai un prodotto


d’autore – si può dire correttamente che non ha autori e che, per così
dire, si dà da sé – l’utopia non può non averne, perché è una modellazio-
ne razionale dell’immaginazione, del desiderio o di calcoli ottimizzanti.
Se il mito non si può costruire a tavolino, però si celebra e si tra-
manda. Il mito ripete e trasmette i suoi contenuti, facendo da guida
alla comunità che lo vive, perimetrandone le azioni e le loro esten-
sioni, facendo da guida e insieme da contesto rassicurante. Il mito
salvaguarda dalla morte, nel senso che mantiene in vita l’identità e la
continuità di coloro che ne sono coinvolti, e fintanto che è celebrato
e condiviso mantiene l’autoriconoscimento della collettività. In par-
ticolare il mito sopravvive tramite la ritualità, coi suoi ritmi (il ritmo
è la forma temporale del rito), con le sue ricorrenze, col raccontarsi
costantemente mediante i comportamenti e gli orientamenti sentimen-
tali che induce nell’intimo della comunità che esso aggrega, e anche
con le memorie e, se si vuole, le retoriche, provviste a volte anche di
monumentali materialità. Tipicamente identitario, il mito è concreta-
mente aggregante. Non altrettanto accade nell’utopia, che si sostanzia
di proiezioni idealizzanti e non si costruisce realisticamente nel vis-
suto collettivo. Per di più, l’utopia segna comunque una rottura con
la realtà del presente, nei confronti del quale coltiva sempre venature
alquanto pessimistiche ed in qualche misura esercita un’opposizione,
mentre il mito è necessariamente radicato nel presente, anche se vi
immette elementi di metatemporalità, si somatizza nelle sue ritualità.
Meglio ancora, possiamo sostenere che la compattezza di una collet-
tività si spiega col fatto che le collettività stesse si iconizzano e di-
ventano una sorta di somatizzazione socio-iconizzata dei propri miti.
Diciamo che il mito si celebra e si ritualizza nello spazio e nel tempo;
l’utopia, invece, si cristallizza al di fuori dello spazio e del tempo. È
decisivo comprendere che, sotto il profilo comportamentale, l’utopia
si genera solo in quanto integralmente guidata dal soggetto, perché è
il soggetto che guida l’utopia; al contrario accade nel mito, perché è il
mito che guida il soggetto, essendone questo pervaso interiormente, e
non soltanto nella mente.

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Il mito politico come coscienza collettiva 155

4. Caratterstiche specifiche del mito politico

Modernità è prospettiva e molteplicità di punti prospettici, come so-


pra dicevamo. Perciò il mito politico moderno non può non risentire di
suoi costrutti linguisticamente concepiti. Lasciando sullo sfondo questo
problema, raccogliamo invece le condizioni che abbiamo tracciato per
ragionare del mito politico nelle specificità che ne emergono a partire
dall’età moderna e secondo la metodologia simbolica, e non semioti-
ca, che abbiamo adottato. Un esempio illustre di lettura semiotica del
mito è quello elaborato da Roland Barthes, che in merito voglio citare,
trattandosi di studioso di tutto rispetto ed essendo assolutamente rap-
presentativo di un indirizzo interpretativo del mito, che è alquanto fuor-
viante rispetto alla impostazione prettamente simbolica, che qui stia-
mo praticando. Barthes definisce il mito come mot, cioè «parola» nel
significato estensivo conferitole dai cultori della struttural-linguistica,
adottando peraltro un’accezione correttamente desumibile dall’antico
corrispettivo termine greco. Al valore di «parola» egli accosta l’idea
del qualcosa che «sta al posto di», che «sta per», che «vale per», con
funzione, in ultima analisi, indicativa oppure sintomale. In tal modo si
opera una disgiunzione tra significante e significato, che non è affatto
confacente alla specifica natura simbolica del mito7. Il mito, letto in
chiave simbolica, non sta per nulla al posto di altro, non si costruisce
come significato di altro da sé, ma semplicemente «è», ed è quello che
è. Ciò vale non solo per il mito in generale, ma anche specificamente
per il mito politico.
Prendiamo ora in considerazione il mito politico nella portata che
esso può assumere nella modernità, caratterizzata da concezioni seco-
larizzate, e soprattutto desacralizzate, senza fare riferimento a società
d’ordine sacrale, nelle quali è caratterizzante la natura rivelativa dei
miti praticati (ricordo soltanto che le società sacrali, come ad esempio
l’antico-egizia, vivono infatti secondo concezioni mtico-rituali-rivela-

7
Cfr. R. Barthes, Mythologies, du Seuil, Paris 1957, ora in tr. it., Miti d’oggi, Einaudi, Torino
1994, 2° ed., in particolare pp. 189-238. Il simbolo si distingue dal segno, che è solo informativo,
allusivo o sintomale e che perciò si fonda sulla distinzione tra significante e significato, per alcuni
caratteri fondamentali. Essi sono: la costitutività, la non arbitrarietà, la specularità, il valore
identitario, il valore energetico, l’enantiodromia. Per precisazioni intorno a questi caratteri rinvio
a G.M. Chiodi, Propedeutica alla simbolica politica, I, Franco Angeli, Milano 2006, lezione IV.

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156 Giulio Maria Chiodi

tive). Il mito è sempre un fenomeno culturale e «rivelazione», quindi,


non sta qui ad indicare manifestazioni che realmente discendano da di-
vinità o siano folgoranti e improvvise apparizioni di mondi superiori,
ma allude semplicemente ad una fonte psichicamente espressa da chi
vive quel mito, nella convinzione cultuale e rituale della sua indipen-
denza dalla volontà e dalle credenze umane.
Accostando il mito politico, dobbiamo porre una prima distinzione
generale, che trova giustificazione in un’ottica esclusivamente antro-
pologica. Si tratta di due aspetti del mito, che possono anche coesistere
nel medesimo mito, perché in realtà dipendono dal modo di dare spie-
gazione del mito e del campo di interessi che si vuole evidenziare. La
distinzione è tra miti archetipali e miti ideologici.
I miti archetipali, evocano istinti del profondo, che riposano sotto le
coltri culturali e le convenzioni sociali. L’aggettivo archetipale ci rinvia
indubbiamente a ricerche di Gustav Jung. Possiamo immaginare a la-
tenze pulsionali che appartengono alla specie umana in quanto tale, ma
le cui forme di manifestazione variano, in quanto espresse dalle culture
e dai momenti epocali che attraversano. Dobbiamo in proposito pen-
sare ad impulsi esistenziali, che interpretano bisogni costanti, a volte
sopiti, ma che soprattutto in momenti eccezionali premono sulla psiche
individuale e collettiva, per dare risposta ad esigenze insoddisfatte, o ad
oppressioni, oppure allo sfaldarsi di vincoli sociali, oppure ancora per
contrapporsi a minacce o ad aggressioni in atto. Tali figure archetipali
si impersonano in personaggi reali e in situazioni contingenti e rappre-
sentano, ad esempio, il vendicatore, il salvatore, il conciliatore, la sfida,
il liberatore, la madre e così via. In tali figure leggiamo l’evocazione
di un deposito atavico, che costituisce un patrimonio psico-pulsionale
dell’umanità in quanto tale e che dimora nell’inconscio collettivo. L’e-
mergenza di un mito archetipale normalmente ha portata fortemente
coinvolgente, quando non addirittura scatenante, essendo la manifesta-
zione del substrato iletico della natura umana. Il mito archetipale è per
sua natura restìo ad ogni compromesso. Quando la consistenza degli
aggregati politici viene travolta dagli eventi e solo quando gli equilibri
di un sistema vengono sconvolti, in altri termini quando forze distrutti-
ve sprigionano concretamente fondate o immaginarie paure, allora in-
sorgono incontenibili le energie rivolte sia alla disgregazione sia alla

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Il mito politico come coscienza collettiva 157

salvezza o al riscatto, sia alla vendetta o alle esigenze di rigenerazione.


Questo è il risveglio degli archetipi dormienti, che invadono ed esaltano
le coscienze con spinte mitiche, che assumeranno le vesti simboliche di
rappresentazioni, di ipostatizzazioni e di figure dotate di incontenibile
potenza. È un ritorno della forza dell’epos. Compaiono, così, figure di
salvatori, di fondatori, di rivoluzionari, di vendicatori. Individui, istitu-
zioni, etiche, progetti assumono, per tale via, ruoli improntati al pathos
archetipale. La loro azione è fascinosa, egemonica, alterante ed asser-
vente. Spesso negli atteggiamenti fanatici, assolutamente restii a qual-
siasi compromesso, albergano mitizzazioni che si possono classificare
di tipo archetipale
Per miti ideologici, definibili anche come direttamente e conscia-
mente culturali, dobbiamo intendere quei miti, nei quali non è rico-
noscibile un immaginario dipendente da figure archetipali o, quando
lo fosse, tali figure occuperebbero un posizione subordinata all’elabo-
razione di istanze vissute come guida e a direttive di una psiche pro-
grammatrice e idealizzante. Questa seconda specie comprende miti,
nei quali non è difficile scorgere una dose di realismo utilitaristico o
di utopismo, e vi si rintraccia senza molta difficoltà una componente
fronetica, particolarmente confacente all’esercizio di comportamenti
fautori di socialità e agevolatori della convivenza. Interpreti per lo
più di visioni progettuali e di prospettazioni politiche e sociali, come
avviene per esempio nella normale pratica di movimenti politici o
anche di carattere soltanto morale, i miti ideologici sono particolar-
mente dotati di loro concezioni etiche. È evidente che in questa se-
conda specie di miti il ruolo della razionalità, o semplicemente della
ragionevolezza, gode di maggior spazio che non nei miti puramente
archetipali. I caratteri del mito ideologico saranno integrati da quanto
diremo qui di seguito.
La distinzione tra miti archetipali e miti ideologici non richiede più
di tanto la nostra attenzione. Considero invece di grande rilevanza, per
la comprensione del mito politico, la tripartizione che ora cercherò di
mettere in luce. Essa dipende, più che dai contenuti effettivi del mito,
dall’intensità del suo vissuto collettivo. Chiamo i tre tipi di mito poli-
tico in questione rispettivamente: mito politico primario, secondario e
terziario.

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Mito politico primario. Possiamo innanzitutto fare riferimento alla


stirpe e alla terra. Il legame ancestrale con le proprie ascendenze è uno
dei connotati essenziali che hanno costituito il sentimento di apparte-
nenza di un gruppo. Vi ravvisiamo quell’idea di appartenenza ad una
natio, intesa in maniera più o meno estensiva, che nella storia troverà
anche forme di istituzionalizzazione e che contribuirà altresì alla fon-
dazione degli stati moderni. L’attaccamento alla propria stirpe ha una
rilevanza decisiva soprattutto nelle aggregazioni di origine nomadica e
nelle organizzazioni di genere gentilizio. Ma più importanza è venuto
acquisendo nel tempo il sentimento che lega un popolo alla propria ter-
ra, alle consuetudini delle sue genti, all’indole costumale che viene tra-
mandata, facendo della stirpe o di più stirpi una vera e propria nazione.
L’amore per la propria terra è dotato di forza esemplare. Il legame
con la terra sotto il profilo simbolico, ha numerose valenze proiettive
dell’identità di una compagine sociale. La terra dà sostanza fisica, ma-
terialità e concretezza all’appartenenza, è il visibile e tangibile spazio
della consistenza collettiva. Al valore simbolico della terra si connette
il nutrimento del potenziale idio-affettivo di una comunità, che ne ali-
menta la coesione. La propria terra è consacrata dal lavoro, dalle sof-
ferenze, dalle conquiste di più generazioni, dal sangue versatovi, e ne
conserva testimonianze naturali e costruite. Ricordiamo quanto ebbe a
dire un vecchio capo pellerossa in seguito alla confisca dei territori che
appartenevano alla sua tribù: quando un popolo perde la sua terra, per
quel popolo finisce la vita e incomincia la sopravvivenza8.
La propria terra (sia essa città, regione o territorio qualsivoglia di
abituale abitazione) è luogo del rinnovamento delle energie identitarie e
stabilizzanti, essendo spazio delle continuità e di collocazione materiale
e ideale insieme delle tensioni e dei progetti che animano l’esistenza
della collettività e nella collettività. È quindi, prima di ogni altro, luogo
mentale e sentimentale. Nel provare un profondo legame per la propria
8
Seattle, capo pellerossa della tribù Suquamish, rispose nel 1853 alla richiesta, avanzata dal
presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce, di consegnare al governo federale il suo territorio:
«Qualsiasi cosa accada alla terra, presto accadrà ai figli della terra. Se l’uomo sputa sul terreno,
sputa su se stesso. Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, l’uomo appartiene alla
terra [...] La fine della [sua] vita è l’inizio della sopravvivenza». La citazione è tratta da R. Taraglio,
Il vischio e la quercia. Spiritualità celtica nell’Europa druidica, Edizioni L’età dell’Acquario,
Grignasco (No) 1997, p. 14, dove è detto che la fonte documentaria è presso lo «Smithsonian
Institute – Washington D.C.» e presso gli «U.S. Congressional Archives of Library».

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Il mito politico come coscienza collettiva 159

terra si intessono sottili ma resistenti trame, che formano la forza coe-


siva e invisibile di affinità e solidarietà, con cui si vivono e si costrui-
scono le sorti comuni.
L’effetto fondamentale che dobbiamo cogliere nell’amore per la
propria terra sta nel ritrovarvi la consistenza praticabile e consapevol-
mente circoscrivibile, nella quale si situa in maniera radicale il binomio
cielo-terra. L’immagine della terra, consacrata come dicevamo dal la-
voro e dal sangue di generazioni, sotto quel medesimo cielo, è per un
popolo la presenza viva e concreta delle sue ascendenze e dello spazio,
in cui si colloca quell’axis mundi che si converte nell’axis sui; sono gli
axes di quel popolo.
La propria terra è fatta anche di racconti; narra ed attesta una sto-
ria. Le generazioni che l’hanno vissuta, costruita, trasformata, difesa,
tramandata prolungano la loro presenza nel ricordo e nel costume. Nel
sentimento di attaccamento si percepiscono anche il respiro delle ge-
nerazioni passate e le segrete promesse che investono quelle future.
Dell’appartenenza alla propria terra fa parte anche la sua storia, con le
sue memorie, le sue glorie, le sue sofferenze, i suoi monumenti, le sue
rovine, i suoi artisti e creatori, la sua lingua. Le consuetudini, che si ap-
prendono dall’infanzia e che si coltivano da adulti, ritmano l’esistenza
collettiva delle comunità che vivono l’amore per la propria terra, tra-
smettendone il senso alle nuove generazioni. È il modo di pensare e di
agire che connota e tipicizza gli ambienti, imprimendo loro un proprio
stile di vita. Vi si accompagnano cerimonie, ricorrenze, ritualità, tanto
di tipo pubblico quanto domestiche, e spesso anche il modo di gestire,
di vestire e di giudicare, l’uso di canti e di danze rientrano negli aspetti
delle continuità locali.
Nella fusione tra terra, con la sua natura e con le opere che la inte-
grano, e costume tradizionale, si delinea la struttura liminare, riflessa
nel modo di essere di chi sente di far parte di quel tutto. Abbiamo parla-
to di ricordo, ma il contesto dell’amore per la propria terra comporta di
più, perché in esso si congiungono inscindibilmente passato, presente
e futuro. La propria terra con le memorie che tramanda, è custode del
ricordo collettivo, ma insieme accoglie nel presente e indirizza nel fu-
turo, introiettata negli animi secondo le sue forme e il suo modularsi;
in tal modo accomuna – nel passato, nel presente e nel futuro – in una
articolata e dinamica unione delle sorti.

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Il valore della terra di appartenenza non è dunque soltanto spaziale,


ma anche temporale. È un valore cronotopico, cioè dotato di una com-
pattezza, nella quale spazio e tempo sono inscindibili, perché assimilati
dal nostro animo come acquisizioni della totalità della nostra psiche.
Questo carattere chiama in causa anche la componente della continuità
della stirpe, sia essa etnìa, nazionalità. Il riferimento è al sangue comu-
ne. Ma il più consistente rafforzativo di questo lato del mito è aver ver-
sato del sangue, aver attraversato le vicissitudini di una guerra, che ha
fatto sentire un popolo più unito. È uno degli alimenti più corroboranti
del mito. Aggiungiamo che non è strutturale a questo genere di mito,
che abbiamo definito primario, la presenza di un nemico; strutturale è
per esso, invece, che ci sia il diverso, a seconda dei casi amico, nemico,
estraneo. Altro elemento fortemente connotante può essere la comune
fede religiosa politicizzata, soprattutto se fanatizzata. La forza del mito
può rendere disponibili perfino a perdere la vita per non tradirlo e per
difenderlo. Il mito della patria o il mito della fede religiosa sono stati, in
proposito, il più costante esempio del genere nella storia.
Nel mito politico primario stirpe, terra, costume finiscono per fare
un tutt’uno (Blut und Boden, avrebbe detto qualcuno rafforzando la
connotazione). La legittimazione di un potere politico si fonda nelle
sue linee essenziali, secondo il mito primario, sul legame identitario
con un complesso di costumanze e di continuità di stirpe territorialmen-
te stanziata. Consilimi considerazioni possono essere riferite anche ad
aggregazioni di gruppi prive di un preciso stanziamento territoriale, a
condizione che il sentimento di appartenenza al gruppo sia fortemente
identitario e indipendente da esclusive scelte personali o da maturazioni
interiori in coloro che sentono di farne parte. È il tipico caso di apparte-
nenze tribali, quali si riscontrano in popolazioni nomadiche, o di appar-
tenenze ataviche ad un sistema di credenze religiose o anche di legami
emotivamente insuperabili con una propria etnia. Anche prescindendo
dall’insediamento in uno specifico territorio, tali forme di appartenenza
collettiva possono a pieno titolo essere ritenute fondate su miti primari.
A grandi linee possiamo definire il mito primario come la sede delle
convinzioni politiche psico-emotive.
Mito politico secondario. Possiamo definire questo secondo tipo
di mito come caratteristico dell’appartenenza ad un’ideologia. Anche

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Il mito politico come coscienza collettiva 161

se quelli che abbiamo denominati miti ideologici rientrano per lo più


in questa categoria, non vi è perfetta coincidenza con essi, data la di-
versità del criterio distintivo. Un mito ideologico, peraltro, potrebbe
fare propri degli elementi compositivi di un mito primario. Definendolo
caratterizzato da dimensioni ideologiche, si vuole mettere in evidenza
che il mito politico secondario nasce generalmente da una costruzione
programmatica, da una progettualità, che ha ad oggetto una determinata
interpretazione del bene comune, o anche particolare di un gruppo, e
del giusto da perseguire per una collettività e che la traduce in azione. Il
mito secondario può dunque prescindere completamente dai riferimenti
caratteristici del mito primario, ossia dai legami con la terra, con le
tradizioni e con le appartenenze cultural-costumali, con fedi religiose.
Mentre il mito primario non si fonda sull’intenzionalità di chi lo vive,
perché la trascende, nel mito secondario l’intenzionalità è una compo-
nente possibile. Le proprietà identitarie delle posizioni che connotano
il mito secondario sono riposte in costruzioni ideali o in interpretazioni
più o meno argomentate dei bisogni e delle aspettative della collettività,
sì che il sentimento di appartenenza viene orientato ad obbiettivi, verso
i quali l’azione politica mira a convogliare i consensi.
Gli esempi più diretti si possono attingere alle varie ideologie che
hanno incominciato ad attraversare il continente europeo, specialmente
a partire dal XVIII secolo. In particolare, le idee illuministiche hanno
propugnato la convinzione che alla guida dei popoli dovesse essere po-
sta la ragione. E ciò è un mito secondario, a partire dal quale ha preso
avvio tra i popoli il propagarsi delle vedute più varie, giacché alla ragio-
ne politica sono stati affidati i compiti politici più contrastanti e spesso
altresì confliggenti. Non occorre un ingegno tanto smaliziato ed esper-
to delle arti di governo per sapere che, a partire dalla politica guidata
dalla ragione si finisce per arrivare alla ragione guidata dalla politica.
Così accade con le grandi e piccole ideologie, che per un lungo periodo
hanno campeggiato nelle compagini europee, probabilmente anche lo-
gorandone le risorse morali.
È essenziale alla visione che si stabilisce su questo genere di mito
– certo dalle radici piuttosto artificiose – la presenza di uno o più avver-
sari, specialmente interni (o anche veri e propri nemici), rappresentati
da coloro che non condividono quella determinata ideologia o che ne

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condividono altre, conviventi in concorrenza o apertamente incompati-


bili e confliggenti. A differenza dagli altri due modelli tipologici, del re-
sto, quello secondario è l’unico idoneo a favorire opere di proselitismo.
Praticamente, sotto il vissuto di un mito secondario, la legittimazione
del potere politico di un sistema si fonda essenzialmente sulle idealità
di una scelta ideologica.
Sono miti politici secondari, per fare esempi macroscopici, quelli
praticati dai vari comunismi, populismi, dai liberalismi, dai socialismi,
dai conservatorismi, dai rivoluzionari di qualsiasi compagine o orien-
tamento, che ritengono di interpretare e propugnare il bene comune o
di essere investiti da una missione storica, più o meno ragionata e resa
strategica.
Ma tra i miti secondari sono da annoverare anche quelli che si co-
struiscono come neutralizzatori del sentimento politico di appartenen-
za, intendendo per neutralizzazione il concepire gli apparati di aggre-
gazione politica esclusivamente in funzione strumentale. Si possono
trarre esempi, innanzitutto, da quelle posizioni spintamente liberali, che
ripongono i valori collettivi nella libera esplicazione delle istanze degli
individui e dei loro associazionismi, concependo nel contempo le isti-
tuzioni politico-amministrative come semplici strutture razionalmente
o giuridicamente costruite, per assicurare la tutela del pacifico svilup-
po dei rapporti sociali. È evidente, anche in questo caso, l’esclusiva
ideologicità della scelta strategica. Non dissimile, però, è l’atteggia-
mento riscontrabile in quelle posizioni fideistiche, frequenti soprattutto
in periodi di accentuato dogmatismo religioso, che ripongono i valori
aggreganti esclusivamente nelle istituzioni che rappresentano il proprio
credo, subordinando a queste ultime gli apparati amministrativi di ca-
rattere statuale. L’esempio storico più significativo, in contesti euro-
pei, risale ai cosiddetti stati confessionali. In realtà, nei due esempi ora
riportati, le esigenze della politicità e i relativi tratti mitici non sono
propriamente cancellati, ma solo trasferiti in sedi che la mentalità po-
litica statocentrica non ritiene, in tutto o in grande misura, confacenti
alle esigenze delle comunità, giacché vede nello stato stesso il luogo
delle proprie ideologie. Il mito politico secondario è, in sostanza la sede
psico-razionale delle idealità.
Mito politico terziario. Il mito politico terziario attenua e relativizza
il mito politico in quanto tale e addirittura lo dissolve. A grandi linee si

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può far coincidere questa terza tipologia di mito politico con l’abbando-
no sia del legame con la terra, con le stirpi, con i costumi tradizionali e
con le ritualità collettive, sia del legame con gli ideali, intorno ai quali
si mobilitano i consensi, e quindi anche con le ideologie in generale. È
una condizione, quella terziaria, nella quale il mito vive di una simbo-
lica molto impoverita e si potrebbe dire occasionale, dettata dalla so-
pravvivenza, dalla semplice ricerca di benessere e di vantaggi materiali
o dalle suggestioni del momento. Con più esattezza, dovremmo dire
che del mito rimangono soltanto parvenze caricaturali, frammentate,
sbriciolate e artefatte. Il sentimento di appartenenza si estingue, saltano
i confini tra popoli, costumi ed ideologie. La commistione tra culture
impera, distruggendo ogni cultura e dando vita nel contempo a nuove
realtà sincretiche, che paiono controllate soltanto dalle dinamiche dello
sfruttamento economico della natura e degli uomini, dalle innovazioni
tecnologiche, dalle procedure omologanti e da tutti quegli apparati che
affastellano ogni rappresentazione delle cose che possa essere conse-
gnabile alla comunicazione di massa e alle sue pseudo-nozioni.
A stretto rigore il mito politico terziario, dunque, non è un mito a
tutto tondo, bensì è generico e si presenta sporadicamente, a brandelli,
più sotto la forma di attrazioni occasionali e circostanziali che non di
vissuto interiormente orientato. Esso fluisce in un mondo contaminato:
contaminate, del resto, sono tutte le culture, quanto lo sono l’ambiente
ed ogni produzione. Ma in questo genere di mito la contaminazione e
le misture sono di regola. Non si danno purezze di sorta, vi mancano
sicurezze, né si riscontrano solide appartenenze. Il mito terziario agisce,
per così dire, solo sulla superficie delle coscienze. È anche per questo
motivo che ordinariamente, sotto le suggestioni di mitizzazioni improv-
visate, non compare mai la figura di un effettivo nemico o comunque di
un avversario: la debolezza e fragilità delle identità e lo stato effimero
che queste inducono sugli individui, creano una generale condizione di
provvisorietà e di precarietà, spesso di vera e propria instabilità fisiolo-
gica, che rendono malcerto l’intero sistema di relazioni.
Un buon inquadramento della natura del mito terziario può essere
suggerito dalle osservazioni avanzate nel primo paragrafo intorno ai
tre fenomeni epocali congiunti dell’autoriproduzione cieca delle tec-
nologie, del burocratismo procedurale e dell’individualismo di massa.

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Sotto la loro pressione incombente i simboli sono ridotti a segni, più


precisamente a significanti dissociati da un loro significato ed abban-
donati al puro insignificante del suggestionismo. Né uomini, né cose,
né ambienti valgono più in quanto tali o in loro precise Sinngebungen,
ma solo come situazioni e strumenti di riproduzione delle dinamiche
in atto. Né territorio, né consuetudini, né religione, né idealità-guida
hanno più valenza; se di tanto in tanto se ne mostrano ancora delle
parvenze è perché essi sono ridotti a funzioni strumentali, per interessi
completamente estranei a quei fenomeni. Anche la conoscenza delle
cose viene privata di ogni reale epos, di ogni ethos, e, al limite, perfino
di ogni pathos, dal momento che viene ridotta e canalizzata a mere
funzionalità materiali e circostanziali. Gli eventi sono smontati in dati
statistici e in protocolli di risulta, che tengono luogo dell’intelligenza
dei fenomeni e che sono privi di ogni coinvolgimento idio-affettivo.
Sotto l’impero di sincretismi, egualitarismi livellatori, globalizzazione
dei problemi, efficientismo materialistico e artificialità dei contenuti,
dei contesti e delle relazioni, sotto l’egemonia di pianificazioni più o
meno virtuali e sotto il governo dell’effimero e dell’occasionale, il mito
politico si dilegua nei controlli e nelle procedure degli apparati, che gli
consentono di autoriprodursi e di impedire il formarsi tanto di miti pri-
mari quanto di miti secondari. I miti terziari, effimeri ed eterodiretti, si
reggono sostanzialmente sull’imitazione, come strumento soggettivato
per superare la solitudine sociale e l’indifferenza apprensiva nonché
il sentirsi esclusi dalle dinamiche in atto. Il mito terziario si fa sede
dell’universalità insignificante.
Le tre tipologie, a grandi linee, sono assimilabili a caratteristiche
rispettivamente epiche, etiche e patetiche. Ma più evidenti sono altre
particolarità. Il mito primario si fonda sulla differenza. Esso, oltre a
rappresentare con più intensità degli altri la natura del mito, pone an-
che le premesse di una possoibile realtà di fatto di tipo radicalmente
pluralistico, per via del suo esclusivismo interno, che può anche rin-
chiudersi in sovranità autoreferenziali. Il mito secondario, a sua volta,
può altrettanto rinchiudersi in visioni autosufficienti, ma essendo carat-
terizzato da idealità, e non da fattori indisponibili alle scelte, si presenta
più esposto alle permeabilità ideologiche e agli effetti propagandistici.
Il mito terziario è soggetto, invece, alla indeterminatezza e alle sugge-

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stioni dell’effimero, sì che vive di continue comparse e scomparse di


richiami frammentati ed è portato a ignorare specifiche peculiarità sta-
bili, sostanziandosi di articolata ed indifferente espansione. Possiamo,
dunque, riconoscere nei tre tipi di mito politico il rispettivo predominio
della particolarità, dell’idealità e dell’universalità indifferenziata; tutta-
via, trattandosi di una tipologia modellare, è ovvio che nella effettività
della vita associata si incontrino di fatto forme frammiste.

5. Considerazioni complessive

Attualità del mito politico? La risposta si evince da quanto finora


esposto. Sì, se si pensa alla sua necessità per la realizzazione di una
compagine politica autocosciente e coesa; no, oppure molto poco, se si
pensa alla descrizione della realtà odierna, soprattutto quella europea.
All’assenza di un mito di fondazione o di appartenenza sufficientemente
convissuto – mi riferisco in particolare alle condizioni euro-occidentali
– si accompagnano sporadici accavallarsi di mitismi terziari snaturanti.
E un mito, ripetiamo, non può essere inventato o programmato, non
può essere frutto di proclamazione delle decisioni prese da qualsivoglia
organo pubblico.
Tali carenze non sono prive di pericoli. Il bisogno di senso, che
è sempre latente nell’esistenza umana e soprattutto in rapporto con la
vita collettiva, può incanalarsi anche verso sbocchi indesiderati. Le so-
luzioni sono due: una società, con la sua civiltà e col suo patrimonio
culturale, che sia in preda a miti terziari, prima di tutto finisce per vivere
miti altrui, esteriori ed alteranti, e in secondo luogo corre il rischio di
estinguersi o di impennarsi sotto l’azione di improvvisi miti primari,
nei quali le forze irrazionali sono in grado di cancellare forme di convi-
venza sufficientemente ragionevoli.
Certe tipologie di governi totalitari sono l’espressione del vuoto
creatosi al venir meno di miti collettivi tradizionali. Tali regimi, il più
delle volte, sanno bene interpretare sensibilità, che percorrono l’animo
popolare o che in esso appaiono sopite, e se prendiamo ad esempio
quello che nella nostra storia ancora recente è sicuramente il più signifi-
cativo – alludo precisamente al nazionalsocialismo tedesco – possiamo
renderci conto di come un mito politico intervenga nella mobilitazione

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di una popolazione in se stessa anche molto articolata e, come nel caso


tedesco, tutt’altro che culturalmente arretrata. L’esempio del nazismo
ci insegna molte cose. La quantità di studi storici che si sono susseguiti
sulle sue vicende non ha forse ancora preso in debita considerazione –
tranne in parte talune indagini su particolari pratiche cultuali collegate
con suggestioni esoterico-iniziatiche – una lettura simbolica, proprio
connessa con la natura del mito politico.
Due sono i punti-chiave da sottoporre all’attenzione, secondo para-
metri tipici della simbolica politica. Il primo, meno connesso col nostro
tema, concerne il principio vitale androginico, il secondo direttamente
le caratteristiche del mito politico.
Sul primo punto ci basti dire che il contesto politico tedesco, in-
terpretato istituzionalmente dalla cosiddetta Costituzione di Weimar,
presentava caratteristiche istituzionali simbolicamente troppo ispirate
al «principio femminile» rispetto al contesto sociale che disciplinavano,
con la conseguenza che la risposta portò ad uno sbilanciamento dell’in-
tero sistema, spostandone il baricentro su un eccesso opposto, ossia sul
principio maschile9. La repubblica di Weimar, oltre alla povertà di miti
aggregativi (anzi, i costituenti furono propensi ad avversare quelli tra-
dizionali, perché evocativi di echi monarchici), viveva su un sistema
istituzionale giuridicamente astratto e sbilanciato nelle sue strutture ar-
chetipali o primarie (cioè nei due princpî vitali). Detto altrimenti, ha
presunto di potersi instaurare in assenza di un vero e proprio mito fon-
dativo e di appartenenza. Ma a noi interessa di più il secondo punto.

9
L’osservazione si fonda su un preciso assunto della simbolica politica. Ogni organismo vita-
le, e quindi anche una struttura istituzionale, per godere di un funzionamento equilibrato, stabile e
al tempo stesso capace di evolversi in maniera adeguata, richiede la compresenza dei due principî
vitali, maschile e femminile. L’uno è performativo, autoritativo e direttivo, l’altro fluido, ricettivo
ed alimentatore. Nell’esempio di una costituzione – come si fa nel testo, alludendo al caso di Wei-
mar – le norme svolgono un ruolo maschile rispetto alla società (rappresentano il momento auto-
ritativo, direttivo e performativo), la società a cui esse si riferiscono svolge, invece, un ruolo fem-
minile (fluido, ricettivo, alimentante). Per la legge della complementarietà e della compensazione
dei due principî, un eccesso di autoritarismo e dirigismo da parte dell’ordinamento costituzionale
provoca una reazione libertaria nella società. Viceversa un eccesso di permissività e libertarismo
nelle regole istituzionali suscita nella società, per compensazione, istanze autoritative e richieste
di ordine. Questo secondo è appunto il caso della repubblica di Weimar. Ho esposto im maniera
più articolata queste considerazioni in due miei lavori, Weimar. Allegoria di una repubblica, Arca,
Torino 1979 e Sul diritto europeo. Nota di simbolica giuridica, in «Sviluppo dei diritti dell’uomo
e protezione giuridica», a cura di L. D’Avack, Guida, Napoli 2003, pp. 73-90.

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Il mito politico come coscienza collettiva 167

Richiamiamo tre concetti: mito, rito, rivelazione. Quando la fe-


nomenologia che riguarda questi tre concetti li manifesta in maniera
unitaria e contestuale ci troviamo di fronte ad una realtà sacrale. Un
vissuto collettivo sacralmente costituito, nel senso stretto del termine,
è mitico-rituale e insieme rivelativo. Occorre la compresenza delle tre
componenti. Se ci accostiamo a quanto costituisce il nucleo più centrale
del nazismo – parlando sempre in chiave simbolica – non v’è dubbio
che vi scopriamo caratteristiche mitico-rituali decisamente spiccate. Lo
dimostrano i discorsi pubblici del dittatore, nei quali contava di più
ascoltare il risuonare delle parole, animatrici di folle, che vibravano
sopra le squadre schierate, piuttosto che aver materia su cui riflettere
circa i loro contenuti, e importava di più essere partecipi delle cerimo-
nie evocative e provare l’orgoglio di marciare sotto una stessa bandiera
che non imbastire interpretazioni della realtà sociale. Troppo spesso si
liquida il senso di quelle manifestazioni col definirle «retorica». Del re-
sto deve essere chiaro che un mito di per sé non è affatto retorico, anche
se la politica talvolta può renderlo tale. Non precisamente di retorica si
tratta, ma di ritualità, non soltanto di scenografia (peraltro innegabile),
ma di vera e propria liturgia laica. È errato, in sostanza, pensare che i
cerimoniali di quel regime si risolvessero soltanto in suggestioni pro-
pagandistiche – che senza dubbio abbondavano in quelle accurate regìe
pubbliche – giacché nella coscienza liminare collettiva si concentrava
una potenza mitopoietica di profonda intensità rituale.
Quando una collettività vive un mito e lo ritualizza o mitizza i suoi
riti, essa sviluppa una potenza di energie patiche, che possono assumere
le più svariate direzioni; tutto dipenderà dai caratteri del mito vissuto. E
mito-rito è il binomio che costituisce la struttura elementare della sim-
bolica collettiva del nazionalsocialismo. Ma ecco il nodo: assente era in
quel contesto il dato rivelativo; in suo luogo si è posta la ripresa di culti
pagani attinti all’antico germanesimo. Assente era dunque una visione
aperta a dimensioni della trascendenza10. E perciò il mito nazista non
può essere confuso con un mito sacrale. Il suo mondo non è sacrale,
ma tutt’al più sacroidale, se col termine «sacroide» intendiamo quanto

10
Preciso che sacro e trascendenza, in termini simbolici, non sono concetti correlati. Il sacro ha
natura rivelativa e come tale non distingue tra immanenza e trascendenza, la cui contrapposizione
ha natura filosofico-speculativa.

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sostituisce il sacro e colma il vuoto rivelativo, presente in una società


desacralizzata11. Mito-rito-trascendenza (o rivelazione) è una combina-
zione che ci dà una soluzione sacrale; tolta la trascendenza (tanto più
la rivelazione) mito e rito si possono dischiudere a qualsiasi avventura.
Per dare una sintetica conclusione a queste osservazioni, intendo
dare evidenza quanto segue:
a) l’errore di chi ritiene che una collettività possa reggersi senza un
proprio mito politico;
b) l’idea che la presenza del mito politico comporti necessariamente il
dominio dell’irrazionalità e dell’oscurità derivata dalle suggestioni e
dal pregiudizio;
c) la necessità che il mito politico, in assenza di visioni mitico-rivelati-
ve, mantenga comunque un’apertura a dimensioni di trascendenza, che
riequilibrano le chiusure ideologiche12;
d) una collettività che stenta a riconoscere il proprio mito politico, o
che addirittura ne è priva, non ha che tre alternative: la disgregazione,
il cadere preda di insorgenti e incontrollabili miti archetipali, il finire
assoggettata a miti altrui.
Attualità del mito? Questo era il tema generale proposto. Risposta:
sì; anzi, necessità, diremmo meglio. Ma non è una risposta descrittiva,
soprattutto se ci riferiamo alla nostra odierna realtà europea. Mi fermo
a quest’ultima. L’esempio dell’attuale Europa è sotto gli occhi di tutti.
Ci induce a pensare, tutt’al più, a miti regressivi, cioè da una parte a
miti meramente connessi col corporeo e col benessere fisico-materiale
e, dall’altra, a miti solo imitati, riflessi e provincialmente importati e per
lo più effimeri come le mode superficiali. Siamo nell’ordine dei confor-
mismi e delle rivendicazioni. Quanto agli autoinvestitisi costituenti di
un’Europa unita, per rimanere nell’esempio, essi hanno ignorato com-
pletamente la necessità di farsi interpreti di una realtà di natura mitica

11
Per avere contatto con un’indagine nell’attualità, che applica il concetto di sacroide – che,
però, non ha nulla a che vedere con l’esempio del nazionalismo, di cui parlo in testo – cfr. G.
Parotto, Sacra officina. La simbolica religiosa di Silvio Berlusconi, Postfazione di G.M. Chiodi,
Franco Angeli, Milano 2007 e, in versione riveduta, Silvio Berlusconi. Der doppelete Körper des
Politikers, Vorwort Claus-Ekkehart Bärsch, Fink, München 2009.
12
Sul ruolo irrinunciabile di un fattore di trascendenza, visto in termini di rivelazione, ha
valore emblematico la seguente affermazione: «se ci chiediamo qual’è l’origine e il fine della vita
umana, la risposta ci rinvia senz’altro alla fede rivelata, al di fuori della quale non c’è che nichili-
smo» (K. Jaspers, La fede filosofica, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 61).

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Il mito politico come coscienza collettiva 169

– che non sapevano, comunque, dove e come trovare – immaginando


di contro una grande comunità senza alcun mito fondativo storicamente
radicato; in suo luogo hanno introdotto discussioni intellettualistiche,
spesso cervellotiche e perfino tendenziosamente ideologico-program-
matiche, per costruire a tavolino proclamazioni di preamboli costitu-
zionali. La lontananza da miti politici fondativi non può essere più evi-
dente. Per guardare al futuro l’Europa non può certo prescindere dal
suo passato. Per civiltà che hanno alle loro spalle una storia lunga e
culturalmente densa, l’aggancio col passato è indispensabile per guar-
dare al futuro, ma rende più difficile sostenere gli oneri del presente. In
ogni caso non sono pochi i sintomi che invitano ad estendere molti tratti
di questa situazione alla civiltà occidentale in generale.13
È pensabile, dunque, immaginare un mito di appartenenza nella
mentalità attualmente corrente? Nessuno può stabilirlo a priori; chiun-
que, però, è in grado di comprendere che non ha senso cercarlo in for-
mulazioni di principio. Sembra un consiglio saggio quello di imparare
a prendere misurate distanze dalla realtà sociale, così come essa è co-
munemente vissuta, se si vuole recuperare un Lebensinn e porre le con-
dizioni per non lasciarsi fagocitare dal nulla o dall’arbitrio. I mezzi più
efficaci sono l’ironia e la preghiera. Sono distanza e vicinanza insieme.
L’ironia, che è prima di tutto autoironia, è l’autocoscienza che relativiz-
za la portata delle scelte e con consapevolezza surroga nell’immanenza
il vuoto aperto dalla secolarizzazione. La preghiera segna il dischiuder-
si dei confini che circoscrivono il senso della vita. Sotto un profilo etico
si è tentati di sostenere, con riferimento alla vita collettiva del presente
ed usando un’antica tripartizione neoplatonica, che chi non prega e non
è ironico assomiglia ad un essere «ilico», chi prega senza essere ironico
o è ironico senza pregare assomiglia ad un essere «psichico», chi prega
ed è ironico assomiglia ad un essere «pneumatico».

13
Su fenomeni regressivi dovuti al declino del ruolo della parola scritta, sostituito dall’oralità
e dai mezzi audiovisivi cfr. le tesi di M. McLuhan, in AA.VV., Mythostheorie, Reclam, Stuttgart
p. 121.

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ABSTRACT

Having recalled some of the basic socio-cultural characteristics of


our time (the automatic reproduction of technologies, the adoption of
bureaucracy as a mere formality, individualism en masse) the paper
identifies myth to be a fundamentally sacred element, that displays the
truth in an almost revelatory way and while this cannot be denied if one
takes an intellectual stance, it can be symbolized in a ritual fashion.
The piece takes off from this assumption, distancing itself from a purely
«irrational» interpretation of myth, and goes on to highlight the main
criteria that identify the political myth, showing that the political myth
is a requisite for the creation of any cohesive political community.

Dopo aver richiamato alcune caratteristiche socio-culturali di


base della nostra epoca (autoriproduzione cieca delle tecnologie,
burocratizzazione meramente procedurale, individualismo di massa)
il saggio individua nell’elemento sacrale il tratto fondante del mito,
ovvero nella manifestazione per via ritenuta rivelativa di un contenuto
veritativo non riducibile dal punto di vista intellettuale ma capace di
essere simbolizzato in modo rituale. A partire da questo assunto, che
prende le distante da una concezione puramente «irrazionalistica»
del mito, vengono individuati i principali criteri identificanti del
mito politico, che illustrano la necessità di quest’ultimo ai fini della
realizzazione di una comunità politica coesa.

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