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1. Simbolica ed epocalità
molto di più che singolo esemplare di una specie che si vuole onorare
di eccezionale dignità. In realtà, l’individuo è sostanzialmente avulso
da effettivi contesti, non solo di appartenenza culturale, di costume e
di credenze, ma altresì personali nella loro irripetibilità. L’individuo, in
ultima analisi, viene concepito in un contesto che si ispira ad un astratto
principio egualitario individualizzato. Si tratta di un fattore risalente a
quel genere di indistinzione che opera nella natura stessa della massa.
Pensare, per principio, un individuo uguale a qualsiasi altro, al di fuori
di contesti affettivi, culturali e situazionali di appartenenza – così come
dichiarare un cittadino uguale ad un altro all’interno di un’ipotetica citta-
dinanza universale – e poi assumere tale pensiero come criterio primario
di una regola sociale universale, significa addivenire all’idea che ognuno
sia un semplice numero, senza qualità e condizioni realmente personali
di appartenenza. Siamo di fronte a processi che cancellano strutture rela-
zionali e di appartenenza, vanificano stili di vita, costumi, culture, popoli
in quanto tali ed ogni genere di effettiva singolarità personale e colletti-
va. Il processo tendenziale è in direzione di una regressione al biologico
e al biopatico, che sono condizioni riducibili a significanti puri, ossia
incapaci di produrre significanza. Individualismo, massificazione e af-
fermazione di uguaglianza tra individui si coniugano vicendevolmente.
Uguaglianza, nel quadro dell’individualismo di massa, coincide con in-
differenza; indifferenza agisce qui nel doppio significato descrittivo e
morale, ossia di non differenziazione e di disinteresse alla singolarità.
Decisivo in proposito è il ruolo svolto dalla comunicazione di mas-
sa, che coltiva l’opinionismo sociale, ostile alle competenze critiche in
quanto tali, ed è omologante i vari modelli comportamentali. Col lin-
guaggio di Aristotele si può focalizzare il quadro: i media fungono da
moderni retori, i prodotti di mercato da moderni analitici, la finanza
rappresenta i moderni dialettici. La comunicazione generalizzata – che
subissa anche con oggetti materiali la collettività di usi quotidiani e di
informazioni, sostanzialmente inutilizzabili e frastornanti – fa piuttosto
la parte di anima della massa. La massa di cui parliamo – teniamolo in
debito conto – non è tipologicamente assimilabile alla massa che si for-
ma nei regimi totalitari (i due grandi esempi novecenteschi sono, ovvia-
mente, quelli del nazismo e del comunismo). Come presupposto di base
l’individualismo di massa non si definisce in rapporto a un nemico – tut-
ti, per principio, devono sentirsi amici – mentre il nemico è figura essen-
ziale e costituiva della massa totalitaria. Evidenti le conseguenze sulle
rispettive etiche e sul modello di individuo che considerano esemplare2.
Sono intuitive le strette complementarità e le congruenze interne
delle tre dinamiche ora accennate che fanno di esse un tutt’uno. Quali
che siano le vedute che si seguano, ignorare tali dinamiche significa
brancolare nell’irrealtà; appoggiarne acriticamente gli sviluppi signi-
fica muovere attivamente o passivamente verso il nulla. Qualsiasi ob-
biettivo ci si proponga, dunque, e qualsiasi valutazione si effettui della
realtà e delle aspettative del momento, richiedono di adottare i tre fe-
nomeni epocali sopra indicati come criteri di orientamento delle scelte,
ma al tempo stesso di saperli tenere a misurata distanza.
il punto di vista di Dio? della volontà o della ragione divina? come ri-
solvere i problemi in sintonia col pensiero divino e con la Rivelazione?
come interpretare i segni rivelati oppure rivelativi, che la sua potenza
ha messo a disposizione dell’uomo?» Altrimenti formulati, i quesiti si
compendiano in uno: «Come far rientrare nell’ordine della creazione,
secondo la volontà o la ragione di Dio, le risposte che devo dare?»
Cercare di osservare il mondo in armonia con l’ordine divino della cre-
azione significa porre il punto di vista veritativo (ossia il vertice della
ideale piramide) in una posizione apofatica, infinita e indefinibile, la
quale osserva il mondo catafatico, finito, definibile: è guardare il finito
da un punto di vista infinito, il commensurabile dall’incommensurabi-
le. Dobbiamo a considerare questa posizione come fondata su principî
rivelativi, sì che, nella sua pienezza, può essere identificata come una
posizione sostanzialmente sacrale.
Quando il principio determinativo delle cose – comunque lo si in-
terpreti nella sua natura e nei suoi effetti – è situato in una posizione
di trascendenza o in una fonte comunque numinosa, ossia ritenuta non
prodotta né dalla libera scelta di esseri umani né dall’ordine naturale, ci
troviamo di fronte ad una realtà mitico-rivelativa. Spieghiamo, di prima
approssimazione, i due termini di questa definizione.
Rivelativo indica la manifestazione di una potenza superiore, che
è al di là delle capacità di controllo umane; manifestazione, quindi, di
una potenza sovrumana, alla quale ci si sente soggetti o alla quale si
accede soltanto per connaturata partecipazione o per ritualità. La so-
vrumanità e la soprannaturalità comportano che la rappresentazione di
tale manifestazione sia concepibile soltanto in un contesto mitico. In
sostanza è essa stessa un mito, ossia non è costruita noeticamente, non
è una costruzione né induttiva né deduttiva; e nemmeno la si può dire
ipotetica, e nemmeno volontaristica, concordata, opportunisticamente
o utilitaristicamente individuata, funzionalistica et similia. Il fattore de-
cisivo, per averne una nozione, è che si tratta di una realtà di natura
sacrale, e che deve essere considerata nel suo insieme come espressa
o esprimentesi secondo un punto prospettico superiore, superordinato
ad ogni riduzione intellettiva, che non può che darsi da sé per via ri-
velativa. La tesi, che sostengo in merito, ritiene che la sacralità, in tal
modo intesa, rappresenta la matrice storica, simbolica e concettuale di
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Il concetto di immaginale, diversamente contestualizzato, trova una precisa collocazione
teorica in F. Creuzer, Symbolik und Mythologie der alten Völker (1819) con l’aggiunta del 1839,
e in H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Flammarion, Paris 1985 e
Temple et contemplation, Flammarion, Paris 1980.
tiche. La sola forza, che può servirsi di qualsiasi mezzo anche indiretto,
senza il supporto delle convinzioni che la motivano e la sorreggono,
è di breve durata, non costruisce nulla e sostanzialmente sarebbe solo
distruttiva; le sole convinzioni, senza la forza che le sostengono, sono
assolutamente inefficaci. La convinzione, alla sua base sempre d’ordine
mitico, può presentarsi come idealità, come sentimento di appartenen-
za, rappresentazione di bene comune, come credenza religiosa o fede,
tollerante oppure fanatica, ma comunque non muta lo statuto struttura-
le dell’ideologia mitizzante. Anche parlare di obbligazione politica, di
contratti sociali, di patti o accordi di convenienza, di scelte razionali,
che darebbero vita ad aggregazioni politiche, alle statualità, alla socie-
tà civile o, più in generale, a una socialità organizzata e alle comuni-
tà, significa, in ultima analisi, fare leva su convinzioni. Ugualmente si
deve altresì dire di ogni genere di convenzione: essa deve risolversi in
convinzione, perché senza la convinzione di stipularla e soprattutto di
rispettarla, sarebbe priva di qualsiasi efficacia. Anche le istituzioni e le
consuetudini tramandate si consolidano in misura della convinzione co-
mune che le alimenta e le sorregge. Che cosa è aggregante in tale genere
di convinzioni, se non la mitizzazione di alcunché? Mitizzazione che
può essere tanto drastica e fanatica, quanto anche blanda e accomodan-
te; nell’un caso sarà dogmaticamente chiusa in se stessa e con identità
di gruppo forte, nell’altro produrrà aggregazioni identitarie alquanto
deboli, rendendo fragile e labile la compagine di appartenenza.
Una compagine sociale dovrà perciò riconoscersi in un proprio
mito, dal quale trae origine la sua identità.
Una volta stabilito che ogni realtà politica trova il suo fondamento
sui due pilastri della forza e del proprio mito aggregante, è facilitata la
considerazione del mito politico in quanto tale. Prima di tutto si devono
dare per acquisite due proprietà del mito, o meglio due lati della mede-
sima proprietà. Il mito, sotto le sue modalità immaginifiche, è sempre
dotato di un suo sistema di conoscenze, in virtù delle quali le sue mani-
festazioni esprimono realtà di per se stesse veritiere e che altrimenti non
si saprebbero ugualmente esprimere; inoltre il mito non è mai arbitrario
– è il secondo lato – sicché è sempre rivelatore di situazioni profon-
damente radicate nel nostro mondo vitale. Questi caratteri dovrebbero
chiarirsi meglio con quanto qui di seguito diremo.
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Sto usando qui il concetto di utopia nel suo significato stretto, ossia di visione contrapposta
alla realtà e consapevolmente inattuabile, luogo ideale di una sovranità dell’intelligenza umana
che contrasta la sovranità di chi governa, dove la creatività umana rivendica la propria assoluta
indipendenza da ogni altro potere. Potrebbe, perciò, fuorviare se si leggesse qui l’utopia
esclusivamente alla luce di contestualizzazioni sociologiche, come accedendo alla ben nota
nozione che si ricava da K. Mannheim, Ideologie und Utopie, Bonn 1929, tr. it. Ideologia e
utopia, il Mulino, Bologna 1957. Importanti riprese, cariche di sintonie con l’opera ora citata sono
reperibili in K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, De Gruyter, Berlin 1931.
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Cfr. di W.Fr. Otto soprattutto Die Götter Griechenlands, Cohen, Bonn 1929; K. Kerény, Gli
dei e gli eroi della Grecia, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1962; s.a. La religione antica nelle sue linee
fondamentali, tr. it., Zanichelli, Bologna 1940; s.a. Miti e misteri, Einaudi, Torino 1950; M. Eliade,
Mito e realtà, tr. it., Borla, Torino 1966. Per spunti critici, sensibili all’analisi simbolica, cfr. Luigi
Alfieri, Identità e irrazionalità collettiva, in C. Bonvecchio (ed.), L’irrazionale e la politica. Profili
di simbolica politico-giuridica, Ed. Università di Trieste, Trieste 2001.
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Cfr. R. Barthes, Mythologies, du Seuil, Paris 1957, ora in tr. it., Miti d’oggi, Einaudi, Torino
1994, 2° ed., in particolare pp. 189-238. Il simbolo si distingue dal segno, che è solo informativo,
allusivo o sintomale e che perciò si fonda sulla distinzione tra significante e significato, per alcuni
caratteri fondamentali. Essi sono: la costitutività, la non arbitrarietà, la specularità, il valore
identitario, il valore energetico, l’enantiodromia. Per precisazioni intorno a questi caratteri rinvio
a G.M. Chiodi, Propedeutica alla simbolica politica, I, Franco Angeli, Milano 2006, lezione IV.
può far coincidere questa terza tipologia di mito politico con l’abbando-
no sia del legame con la terra, con le stirpi, con i costumi tradizionali e
con le ritualità collettive, sia del legame con gli ideali, intorno ai quali
si mobilitano i consensi, e quindi anche con le ideologie in generale. È
una condizione, quella terziaria, nella quale il mito vive di una simbo-
lica molto impoverita e si potrebbe dire occasionale, dettata dalla so-
pravvivenza, dalla semplice ricerca di benessere e di vantaggi materiali
o dalle suggestioni del momento. Con più esattezza, dovremmo dire
che del mito rimangono soltanto parvenze caricaturali, frammentate,
sbriciolate e artefatte. Il sentimento di appartenenza si estingue, saltano
i confini tra popoli, costumi ed ideologie. La commistione tra culture
impera, distruggendo ogni cultura e dando vita nel contempo a nuove
realtà sincretiche, che paiono controllate soltanto dalle dinamiche dello
sfruttamento economico della natura e degli uomini, dalle innovazioni
tecnologiche, dalle procedure omologanti e da tutti quegli apparati che
affastellano ogni rappresentazione delle cose che possa essere conse-
gnabile alla comunicazione di massa e alle sue pseudo-nozioni.
A stretto rigore il mito politico terziario, dunque, non è un mito a
tutto tondo, bensì è generico e si presenta sporadicamente, a brandelli,
più sotto la forma di attrazioni occasionali e circostanziali che non di
vissuto interiormente orientato. Esso fluisce in un mondo contaminato:
contaminate, del resto, sono tutte le culture, quanto lo sono l’ambiente
ed ogni produzione. Ma in questo genere di mito la contaminazione e
le misture sono di regola. Non si danno purezze di sorta, vi mancano
sicurezze, né si riscontrano solide appartenenze. Il mito terziario agisce,
per così dire, solo sulla superficie delle coscienze. È anche per questo
motivo che ordinariamente, sotto le suggestioni di mitizzazioni improv-
visate, non compare mai la figura di un effettivo nemico o comunque di
un avversario: la debolezza e fragilità delle identità e lo stato effimero
che queste inducono sugli individui, creano una generale condizione di
provvisorietà e di precarietà, spesso di vera e propria instabilità fisiolo-
gica, che rendono malcerto l’intero sistema di relazioni.
Un buon inquadramento della natura del mito terziario può essere
suggerito dalle osservazioni avanzate nel primo paragrafo intorno ai
tre fenomeni epocali congiunti dell’autoriproduzione cieca delle tec-
nologie, del burocratismo procedurale e dell’individualismo di massa.
5. Considerazioni complessive
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L’osservazione si fonda su un preciso assunto della simbolica politica. Ogni organismo vita-
le, e quindi anche una struttura istituzionale, per godere di un funzionamento equilibrato, stabile e
al tempo stesso capace di evolversi in maniera adeguata, richiede la compresenza dei due principî
vitali, maschile e femminile. L’uno è performativo, autoritativo e direttivo, l’altro fluido, ricettivo
ed alimentatore. Nell’esempio di una costituzione – come si fa nel testo, alludendo al caso di Wei-
mar – le norme svolgono un ruolo maschile rispetto alla società (rappresentano il momento auto-
ritativo, direttivo e performativo), la società a cui esse si riferiscono svolge, invece, un ruolo fem-
minile (fluido, ricettivo, alimentante). Per la legge della complementarietà e della compensazione
dei due principî, un eccesso di autoritarismo e dirigismo da parte dell’ordinamento costituzionale
provoca una reazione libertaria nella società. Viceversa un eccesso di permissività e libertarismo
nelle regole istituzionali suscita nella società, per compensazione, istanze autoritative e richieste
di ordine. Questo secondo è appunto il caso della repubblica di Weimar. Ho esposto im maniera
più articolata queste considerazioni in due miei lavori, Weimar. Allegoria di una repubblica, Arca,
Torino 1979 e Sul diritto europeo. Nota di simbolica giuridica, in «Sviluppo dei diritti dell’uomo
e protezione giuridica», a cura di L. D’Avack, Guida, Napoli 2003, pp. 73-90.
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Preciso che sacro e trascendenza, in termini simbolici, non sono concetti correlati. Il sacro ha
natura rivelativa e come tale non distingue tra immanenza e trascendenza, la cui contrapposizione
ha natura filosofico-speculativa.
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Per avere contatto con un’indagine nell’attualità, che applica il concetto di sacroide – che,
però, non ha nulla a che vedere con l’esempio del nazionalismo, di cui parlo in testo – cfr. G.
Parotto, Sacra officina. La simbolica religiosa di Silvio Berlusconi, Postfazione di G.M. Chiodi,
Franco Angeli, Milano 2007 e, in versione riveduta, Silvio Berlusconi. Der doppelete Körper des
Politikers, Vorwort Claus-Ekkehart Bärsch, Fink, München 2009.
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Sul ruolo irrinunciabile di un fattore di trascendenza, visto in termini di rivelazione, ha
valore emblematico la seguente affermazione: «se ci chiediamo qual’è l’origine e il fine della vita
umana, la risposta ci rinvia senz’altro alla fede rivelata, al di fuori della quale non c’è che nichili-
smo» (K. Jaspers, La fede filosofica, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 61).
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Su fenomeni regressivi dovuti al declino del ruolo della parola scritta, sostituito dall’oralità
e dai mezzi audiovisivi cfr. le tesi di M. McLuhan, in AA.VV., Mythostheorie, Reclam, Stuttgart
p. 121.
ABSTRACT