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Il libro

D un’importante presentazione di lavoro, a Leena viene


“suggerito” dall’azienda di prendersi due mesi sabbatici. Ha
sicuramente bisogno di riposo e decide di rifugiarsi in campagna a
casa di nonna Eileen, una donna forte e vivace che vorrebbe tanto
trovare un nuovo amore, nonostante l’età. Ma il minuscolo paese
dello Yorkshire dove abita non offre un ampio ventaglio di scapoli
papabili. È così che a Leena viene un’idea: scambiarsi la casa con la
nonna per due mesi. Nonna Eileen può andare a vivere nel suo
appartamento di Londra dove ha più possibilità di incontrare un
uomo interessante, mentre Leena si ritirerà in campagna. Ma
cambiare luogo non sempre equivale a intraprendere avventure
ele rizzanti. Leena deve destreggiarsi tra una combriccola di anziani
petulanti e le insistenze dell’insegnante della scuola – non male, a
dire il vero – mentre nonna Eileen è alle prese con i suoi nuovi
giovani coinquilini e gli appuntamenti online…

Dopo il successo internazionale di Un le o per due, che l’ha resa una


delle scri rici più amate della commedia inglese, Beth O’Leary torna
con la sua voce brillante e commovente a parlarci di solitudine,
nuove opportunità e amore.
L’autrice

Beth O’Leary vive in campagna fuori Londra e prima di dedicarsi alla


scri ura ha lavorato nel se ore Ragazzi di una grande casa editrice
inglese. Nel 2019 Mondadori ha pubblicato Un le o per due. O o
se imane per cambiare vita è il suo secondo romanzo e a una se imana
dall’uscita in UK è entrato nella Top 10 della classifica del “Sunday
Times” e al primo posto nella classifica ebook di Amazon.
Beth O’Leary

OTTO SETTIMANE PER


CAMBIARE VITA
ROMANZO

Traduzione di Teresa Albanese


O o se imane per cambiare vita

A Helena e Jeannine,
le mie nonne coraggiose e brillanti,
che mi sono state di enorme ispirazione
1
Leena

«Forse è meglio se ci scambiamo» dico a Bee, alzandomi a metà sulla


sedia per parlarle sopra lo schermo del computer. «Me la sto facendo
so o. Perché non ti prendi tu l’inizio e io la fine, così quando arriverà
il mio turno sarò meno, come dire…» Agito le mani per descrivere il
mio stato mentale.
«Meno schizzata?» chiede Bee, con fare interrogativo.
«Dai, ti prego!»
«Leena, mia cara amica. Mio faro nella no e. Mia rompiscatole
preferita. Sei molto più brava di me a cominciare le presentazioni e
non possiamo cambiare l’ordine adesso, dieci minuti prima della
riunione con il nostro cliente più importante, proprio come non ci
siamo scambiate di posto all’ultima riunione, o a quella precedente,
o a quella prima ancora, perché sarebbe una follia e a essere sincera
non ho la più pallida idea di cosa ci sia sulle slide iniziali.»
Mi lascio ricadere sulla sedia. «E va bene, d’accordo.» Mi rialzo.
«Solo che stavolta mi sento davvero…»
«Mmh» dice Bee, senza distogliere gli occhi dallo schermo. «Certo.
Peggio del peggio. Tremori, palmi sudati e compagnia bella. Peccato
che appena entrata sarai brillante e travolgente come ogni santa
volta e nessuno si accorgerà di niente.»
«E se invece…»
«Impossibile.»
«Bee, penso davvero…»
«So che lo pensi.»
«Ma stavolta…»
«Mancano o o minuti, Leena. Prova a fare quella cosa con la
respirazione.»
«Quale cosa?»
Bee si ferma. «Hai presente: respirare?»
«Ah, respirare e basta? Pensavo che avessi in mente una specie di
tecnica di meditazione.»
Lei sbuffa. Una pausa di silenzio. «Hai affrontato centinaia di cose
peggiori, Leena» dice.
Faccio una smorfia, stringendo tra le mani la mia tazza di caffè. La
paura si annida nella cavità alla base delle costole, tanto reale che
quasi ne sento la consistenza: una pietra, un nodo, qualcosa che si
potrebbe tagliare via con un coltello.
«Lo so» dico. «Certo.»
«Devi solo riprendere sicurezza» dice Bee. «E l’unico modo per
farlo è restare in sella. Okay? Andiamo! Sei Leena Co on, la più
giovane consulente senior dell’azienda, l’astro in ascesa della
Selmount Consulting per il 2020. E…» abbassa la voce «presto… un
giorno… la co-presidente della nostra società. Rendo l’idea?»
Sì. Solo che non mi sento quella Leena Co on.
Bee adesso mi sta guardando, le sopracciglia disegnate a matita
inarcate dalla preoccupazione. Chiudo gli occhi e cerco di scacciare
la paura, e per un istante sembra funzionare: avverto un barlume
della persona che ero un anno e mezzo fa, la persona che avrebbe
fa o una presentazione come questa senza ba er ciglio.
«Sei pronta, Leena?» chiama l’assistente dell’amministratore
delegato, che sta arrivando dall’altra parte dell’ufficio della Upgo.
Quando mi alzo inizia a girarmi la testa e vengo travolta da
un’ondata di nausea. Mi afferro al bordo della scrivania. Merda.
Questo non mi era mai capitato.
«Tu o bene?» sussurra Bee.
Mando giù la saliva e premo le mani sulla scrivania finché non
cominciano a farmi male i polsi. Per un a imo penso di non
potercela fare – proprio non me la sento, per la miseria, sono
talmente stanca –, ma alla fine la grinta riprende il sopravvento.
«Benissimo» dico. «Andiamo.»

È passata mezz’ora. Non è che sia un tempo molto lungo. Non


basterebbe per guardare un episodio intero di Buffy, o… che so…
bollire una grossa patata. Ma per distruggere una carriera è più che
sufficiente.
Avevo una gran paura che succedesse. Era da più di un anno che
perdevo colpi al lavoro, tra sviste ed errori di distrazione, quel
genere di cose che di solito una come me non fa. È come se da
quando è morta Carla avessi cambiato la mano con cui scrivo, e
all’improvviso mi trovassi a fare tu o con la sinistra invece che con
la destra. Eppure ce l’ho messa tu a, mi sono sforzata, e pensavo
davvero che me la sarei cavata.
A quanto pare, sbagliavo.
Ho pensato sinceramente di morirci, in quella riunione. Avevo già
avuto un a acco di panico, quando ero all’università, ma non era
stato bru o come questo. Non mi ero mai sentita così fuori controllo.
Era come se la paura si fosse dilatata: non era più un nodo compa o,
ma aveva i tentacoli, e questi tentacoli mi stringevano i polsi, le
caviglie, mi serravano la gola. Il cuore mi ba eva così forte – sempre
più forte – finché ho avuto l’impressione che non facesse nemmeno
più parte del mio corpo, come un uccellino frenetico intrappolato
nella mia gabbia toracica.
Sbagliare una cifra del fa urato sarebbe stato perdonabile. Ma
quando è successo sono stata colta da una vertigine, e ne ho
sbagliata un’altra, e un’altra ancora, e a quel punto mi è venuto
l’affanno e il cervello mi si è riempito di… non tanto una nebbia,
quanto una specie di luce accecante. Troppo accecante per riuscire a
vederci qualcosa.
E così, quando Bee è intervenuta dicendo: “Perme etemi di…”.
E poi qualcun altro ha commentato: “Andiamo, è ridicolo…”.
E quando l’amministratore delegato della Upgo Finance ha
concluso: “Penso che abbiamo visto abbastanza, che ne dite?”.
Io ero già andata. Piegata in due, con il respiro affannoso, sicura al
cento per cento che sarei morta.
«Va tu o bene» sta dicendo adesso Bee, stringendomi forte le
mani. Ci siamo rintanate in uno dei cubicoli per telefonare
nell’angolo degli uffici della Upgo; è stata Bee a portarmi qui mentre
ero ancora in iperventilazione, sudata fradicia. «Sono qui. Va tu o
bene.»
Ogni respiro mi esce spezzato. «Ho appena fa o perdere alla
Selmount il contra o con la Upgo, vero?» farfuglio.
«Rebecca sta parlando al telefono con l’amministratore delegato.
Sono certa che sistemeranno tu o. Dai, respira.»
«Leena?» chiama qualcuno. «Leena, stai bene?»
Tengo gli occhi chiusi. Forse, se rimango così, non sarà davvero la
voce dell’assistente del mio capo.
«Leena? Sono Ceci, l’assistente di Rebecca.»
Santo cielo. Come ha fa o ad arrivare così in fre a? Gli uffici della
Upgo sono a venti minuti buoni di metropolitana dalla sede della
Selmount.
«Oh, Leena, che casino!» dice Ceci. Ci raggiunge nel cubicolo e mi
strofina le spalle in cerchi fastidiosi. «Poverina. Okay, sfogati pure
con un bel pianto.»
Non sto piangendo, in realtà. Espiro lentamente e guardo Ceci,
che sfoggia un vestito di sartoria e un sorriso più radioso che mai, e
ricordo a me stessa per la centesima volta quanto sia importante la
solidarietà tra donne sul lavoro. Ne sono convinta, fermamente
convinta. È il mio codice di condo a, ed è così che ho in programma
di arrivare in cima.
Ma le donne in fondo sono, insomma… persone. E alcune persone
sono ripugnanti.
«Che cosa possiamo fare per te, Ceci?» chiede Bee a denti stre i.
«Rebecca mi ha mandato a controllare che stiate bene» dice lei.
«Sapete. Dopo la tua…» Agita le dita. «La tua piccola incertezza.» Il
suo iPhone vibra. «Oh! Mi ha mandato una e-mail proprio adesso.»
Io e Bee aspe iamo, le spalle rigide. Ceci legge il messaggio con
lentezza disumana.
«Allora?» dice Bee.
«Cosa?» risponde Ceci.
«Rebecca. Cosa dice? Ha… Ho mandato a monte il contra o?»
balbe o.
Ceci inclina la testa, senza alzare gli occhi dal telefono. Noi
restiamo in a esa, e io sento incombere un a acco di panico, pronto
a trascinarmi di nuovo con sé.
«Rebecca ha risolto tu o… non è fantastica? Terranno comunque
la Selmount per questo proge o e sono stati molto comprensivi, tu o
considerato» dice Ceci alla fine, con un sorrise o. «Vuole vederti
subito, quindi meglio che torni di corsa all’ufficio, non credi?»
«Dove?» dico con un filo di voce. «Dove vuole incontrarmi?»
«Come? Ah, nella 5C , l’ufficio delle risorse umane.»
Certo. Dove altro potrebbe convocarmi per licenziarmi?

Io e Rebecca siamo sedute una di fronte all’altra. Judy delle risorse


umane è di fianco a lei. Non prendo come un buon segno il fa o che
sia sul suo lato del tavolo, invece che sul mio.
Rebecca si scosta i capelli dal viso e mi guarda con mesta
commiserazione, il che non può che essere un pessimo segno. Stiamo
parlando di Rebecca, la regina del pugno di ferro, campionessa delle
sfuriate nel bel mezzo delle riunioni. Una volta mi ha de o che
aspe arsi l’impossibile è l’unica strada praticabile per o enere un
risultato eccellente.
In pratica, se è gentile con me, significa che mi sta dando per
persa.
«Leena» comincia Rebecca. «Stai bene?»
«Sì, certo, sto benissimo» rispondo. «Ti prego, Rebecca, lascia che
ti spieghi. Quello che è successo alla riunione è stato…» Mi
interrompo, perché Rebecca sta agitando la mano con espressione
truce.
«Senti, Leena, so che sei brava nel tuo ruolo, e Dio sa se non ti
adoro per questo.» Lancia un’occhiata a Judy. «Voglio dire, la
Selmount considera prezioso il tuo a eggiamento… grintoso, fiero.
Ma non giriamoci a orno: hai un’aria da schifo.»
Judy tossicchia sommessamente.
«Insomma, ci chiediamo se tu non sia un po’ esaurita» dice
Rebecca, senza perdere un colpo. «Abbiamo appena controllato la
tua situazione… sai quando è stata l’ultima volta che sei andata in
vacanza?»
«È… è una domanda trabocche o?»
«Sì, Leena, lo è, perché l’ultimo anno non hai preso nemmeno un
giorno di ferie.» Rebecca fulmina Judy con lo sguardo. «Cosa che, tra
l’altro, non dovrebbe nemmeno essere possibile.»
«Te l’ho de o» sibila Judy, «non so come abbia fa o a sfuggirmi!»
So bene come ha fa o a sfuggirle. Quelli delle risorse umane
parlano tanto di assicurarsi che il personale prenda le ferie cui ha
diri o, ma in realtà non fanno altro che mandarti una e-mail un paio
di volte l’anno per dirti quanti giorni ti restano e aggiungendo
qualcosa di incoraggiante sul “benessere” e “il nostro approccio
olistico” e “prendersi una pausa per massimizzare il tuo potenziale”.
«Davvero, Rebecca, sto una favola. Mi dispiace un sacco che la
mia… di aver rovinato la riunione di stama ina, ma se mi perme i
di…»
Altra occhiataccia e gesticolare di mani.
«Leena, mi spiace. So che per te è stato un periodo molto difficile.
Questo proge o è terribilmente stressante, e da qualche tempo penso
sia stato un errore affidarlo a te. So che di solito mi sfo ete quando
dico questo genere di cose, ma il tuo benessere mi sta davvero a
cuore, capisci? Così ho parlato con i miei soci, e ti togliamo dal
proge o della Upgo.»
All’improvviso sono percorsa da un tremito quasi caricaturale, e il
mio corpo mi ricorda che non ho ancora ripreso del tu o il controllo.
Apro la bocca per parlare, ma Rebecca mi precede.
«E abbiamo deciso di non assegnarti altri proge i per i prossimi
due mesi» continua. «Consideralo un sabbatico. Una vacanza di due
mesi. Non hai il permesso di tornare alla Selmount finché non ti
sarai riposata e rilassata, e non sme erai di assomigliare a un reduce
di guerra. D’accordo?»
«Non è necessario» dico. «Rebecca, per favore. Dammi una
possibilità di dimostrare che…»
«Ma cazzo, Leena, è un regalo» dice Rebecca, esasperata. «Un
congedo retribuito! Di due mesi!»
«Io non lo voglio. Voglio lavorare.»
«Ah, davvero? Perché la tua faccia dice che vuoi dormire. Pensi che
non sappia che questa se imana hai lavorato ogni giorno fino alle
due di no e?»
«Mi dispiace. So che dovrei essere capace di fare degli orari
normali… solo che ho avuto qualche…»
«Non ti sto criticando per come gestisci il tuo carico di lavoro, ti
sto chiedendo quando ti prenderai una cazzo di pausa, donna.»
Judy si produce in una serie di colpe i di tosse. Rebecca le lancia
un’occhiata irritata.
«Una se imana» dico, disperata. «Mi prendo una se imana di
pausa, mi riposo un po’, e quando tornerò…»
«Due. Mesi. Di. Ferie. Fine della storia. Non è una tra ativa,
Leena. Ne hai bisogno. Non farmi sguinzagliare le risorse umane per
dimostrartelo.» Questo lo dice con uno sprezzante cenno del capo in
direzione di Judy, che si ritrae come se qualcuno le avesse tirato uno
schiaffo, o un buffe o sulla fronte.
Sento che il mio respiro accelera di nuovo. È vero, sto accusando
un po’ di stanchezza, ma non posso prendermi due mesi. Non posso.
Alla Selmount la reputazione è tu o: se sto fuori dai giochi per o o
se imane dopo la riunione alla Upgo, diventerò lo zimbello
generale.
«In o o se imane non cambierà niente» mi dice Rebecca. «Okay?
Quando tornerai saremo ancora qui. Sarai ancora Leena Co on, la
nostra senior più giovane, la nostra lavoratrice più indefessa, la
nostra cervellona.» Rebecca mi rivolge uno sguardo penetrante.
«Tu i prima o poi abbiamo bisogno di staccare. Anche tu.»
Esco dall’incontro con un senso di nausea. Pensavo che volessero
licenziarmi… avevo già pronte le ba ute sul licenziamento ingiusto.
Ma… un sabbatico?
«Allora?» chiede Bee, spuntando a così poca distanza che per non
finirle addosso inciampo. «Ti stavo aspe ando» mi spiega. «Che
cos’ha de o Rebecca?»
«Ha de o che devo… devo andare in vacanza.»
Bee mi guarda sba endo gli occhi. «Usciamo a pranzo.»

Mentre ci dirigiamo verso Commercial Street schivando turisti e


uomini d’affari, il telefono mi squilla in mano. Guardo il display e
barcollo, rischiando di schiantarmi contro un uomo con una sigare a
ele ronica che gli penzola dalle labbra come una pipa.
g p pp
Bee sbircia il telefono da sopra la mia spalla. «Non devi
rispondere subito. Puoi lasciarlo squillare.»
Il mio dito è sospeso sull’icona verde dello schermo. Do una
spallata a un passante in giacca e crava a; lui scuote la testa mentre
io barcollo sul marciapiede, e Bee deve sostenermi.
«Che cosa mi diresti di fare se adesso fossi al posto tuo?» mi
chiede.
Prendo la chiamata. Bee sospira e apre la porta del Watson’s Café,
il nostro locale preferito nelle rare occasioni speciali in cui usciamo
dagli uffici della Selmount per mangiare qualcosa.
«Ciao, mamma» dico.
«Leena, ciao!»
Sobbalzo. Ha un tono di finta spensieratezza, come se avesse
provato il saluto prima di chiamare.
«Voglio parlarti dell’ipnoterapia» dice.
Mi siedo di fronte a Bee. «Di cosa?»
«Ipnoterapia» ripete mamma, stavolta con un briciolo di sicurezza
in meno. «Ne hai sentito parlare? C’è qualcuno che la pratica a
Leeds, e penso che ci farebbe un gran bene, Leena, così ho pensato
che potremmo andarci insieme, la prossima volta che vieni a
trovarmi…»
«Io non ho bisogno dell’ipnoterapia, mamma.»
«Non si tra a di ipnotizzare la gente come fa quell’illusionista in
tivù, è…»
«Non ho bisogno dell’ipnoterapia, mamma.» Le parole mi escono
taglienti; dal silenzio che segue mi rendo conto che si è offesa.
Chiudo gli occhi, controllando il respiro. «Tu provala pure, ma a me
non serve.»
«Ho solo pensato che forse ci farebbe bene fare qualcosa insieme,
non per forza una terapia, ma…»
Noto che ha lasciato perdere l’“ipno”. Mi liscio i capelli, sentendo
la familiare consistenza rigida e appiccicosa della lacca so o le dita,
ed evito lo sguardo di Bee.
«Penso che dovremmo provare a parlare, magari in un posto in
cui… non possano essere de e cose che feriscono. Solo un dialogo
positivo.»
p
Dietro questa conversazione sento aleggiare l’ultimo libro di auto-
aiuto di mia madre. Lo capisco dall’uso prudente del passivo, dal
tono misurato, dal “dialogo positivo” e dalle “cose che feriscono”.
Ma quando questo mi fa vacillare, quando mi fa venir voglia di dire:
“Sì, mamma, qualsiasi cosa pur di farti star meglio”, penso alla scelta
che mia madre ha aiutato Carla a fare. A come ha lasciato che mia
sorella interrompesse le cure, che… che ge asse la spugna.
Non sono sicura che nemmeno l’ipnoterapia di un mago da prima
serata potrebbe aiutarmi a venire a pa i con questo.
«Ci penserò» dico. «Ciao, mamma.»
«Ciao, Leena.»
Bee mi guarda, aspe ando che mi ricomponga. «Tu o okay?» mi
dice alla fine. Bee si è occupata con me del proge o della Upgo per
tu o l’ultimo anno, mi ha aiutata a superare ogni singola giornata da
quando Carla è morta. Del mio rapporto con mia madre ne sa
quanto il mio ragazzo, se non di più… Ethan lo vedo solo nei fine
se imana e in qualche sporadica serata feriale in cui riusciamo tu i e
due a uscire in orario dal lavoro, mentre io e Bee passiamo insieme
sedici ore al giorno.
Mi strofino gli occhi; quando allontano le mani, sono tu e sporche
di mascara. Devo avere un’aria dereli a. «Avevi ragione. Non avrei
dovuto rispondere. Ho sbagliato tu o.»
«A me sembra che non te la sei cavata malaccio» dice Bee.
«Per favore, parliamo di qualcos’altro. Qualcosa che non sia la mia
famiglia. O il lavoro. O qualcosa di altre anto catastrofico. Parlami
del tuo appuntamento di ieri sera.»
«Se vuoi qualcosa di non catastrofico, ti toccherà scegliere un altro
argomento» dice Bee, appoggiandosi allo schienale della sedia.
«Oh, no, non è andata?» chiedo.
Sto lo ando contro le lacrime, ma Bee prosegue, fingendo di non
accorgersene.
«Proprio no. Odioso. Ho capito che non c’era verso quando si è
chinato per baciarmi sulla guancia e ho sentito la puzza
dell’asciugamano lercio che doveva aver usato per lavarsi la faccia.»
Funziona… è abbastanza schifoso da riportarmi al presente.
«Bleah» dico.
«Aveva anche una crosta gigantesca nell’angolo dell’occhio.»
«Oh, Bee…» Sto cercando di trovare il modo giusto di dirle di
sme ere di liquidare così in fre a le persone, ma la mia parlantina
sembra avermi abbandonato e in ogni caso la faccenda
dell’asciugamano è davvero disgustosa.
«Sono sul punto di mollare il colpo e affrontare un’eternità da
madre single» dice Bee, cercando di interce are lo sguardo del
cameriere. «Sono giunta alla conclusione che questi appuntamenti al
buio sono decisamente peggio della solitudine. Almeno quando sei
solo non c’è speranza, giusto?»
«Non c’è speranza?»
«Già. Niente speranza. Fantastico. Tu i abbiamo ben presente la
situazione: siamo entrati nel mondo da soli e da soli lo lasceremo, e
via dicendo… Mentre quando provi a frequentare dei ragazzi sei
piena di speranza. Anzi, è un lunghissimo, doloroso esercizio di
scoperta di quanto siano deludenti gli altri esseri umani. Ogni volta
che cominci a pensare di aver trovato un uomo bravo, gentile…»
Agita le dita. «Ecco che vengono fuori i problemi con mammina,
l’ego fragile e i bizzarri feticismi con il formaggio.»
Finalmente il cameriere ci degna della sua a enzione. «Il solito?»
ci grida, dall’altra parte del locale.
«Sì! Con sciroppo extra sui suoi pancake» risponde Bee,
indicandomi.
«Hai de o feticismi con il formaggio?» chiedo.
«Diciamo solo che ho visto alcune foto che mi hanno fa o passare
la voglia di mangiare il brie.»
«Il brie?» dico, inorridita. «Ma… oh, santo cielo, il brie è squisito!
Com’è possibile rovinare il brie?»
Bee mi dà un colpe o sulla mano. «Ho il sospe o che non lo
scoprirai mai, amica mia. Comunque, se devo tirarti su il morale,
perché non parliamo della tua perfe a vita amorosa? Sicuramente
siamo al conto alla rovescia prima che Ethan ti faccia la grande
proposta.» Nota la mia espressione. «No? Non vuoi parlare
nemmeno di questo?»
«Ho solo…» Agito la mano, sentendomi di nuovo sul punto di
piangere. «Un a acco di terrore. Oddio, oddio, oddio.»
p g
«Per quale problema esistenziale stai gemendo, tanto per sapere?»
chiede Bee.
«Il lavoro.» Mi premo le nocche contro gli occhi fino a farmi male.
«Non posso credere che mi diano il benservito per due mesi. È come
un… mini licenziamento.»
«In realtà» dice Bee, e il suo tono mi spinge ad aprire gli occhi, «è
una vacanza di due mesi.»
«Sì, ma…»
«Leena. Io ti voglio bene, e so che al momento ci sono parecchie
cose nella tua vita che non vanno, ma ti prego, cerca di vederla come
una bella cosa, eh? Perché sarà un po’ difficile continuare a volerti
bene se passerai le prossime o o se imane a lamentarti perché hai
avuto un congedo pagato di due mesi.»
«Ma io…»
«Potresti andare a Bali! Oppure esplorare la foresta pluviale
dell’Amazzonia! O fare un giro del mondo in barca a vela!» Alza le
sopracciglia. «Sai che cosa darei per avere questo genere di libertà?»
«Sì. Giusto. Mi dispiace, Bee.»
«Non c’è problema. So che per te non si tra a solo di avere del
tempo libero dal lavoro. Dedica solo un pensiero alle persone come
noi che passano le ferie nei musei di dinosauri pieni di bambini di
nove anni, okay?»
Respiro lentamente, cercando di assimilare le sue parole. «Grazie»
dico, quando il cameriere si avvicina al nostro tavolo. «Avevo
bisogno di sentirmelo dire.»
Bee mi sorride, poi abbassa lo sguardo sul suo pia o. «Sai» dice
con disinvoltura, «potresti anche usare questo tempo libero per
riprendere in mano il nostro business plan.»
Ho un sussulto. Io e Bee abbiamo in mente di fondare un nostro
studio di consulenza da un paio d’anni… eravamo quasi pronte a
partire quando Carla si è ammalata. Adesso siamo arrivate a una
specie di… stallo.
«Sì!» dico, con tu o l’entusiasmo che riesco a racimolare.
«Assolutamente.»
Bee inarca un sopracciglio. Io mi affloscio.
«Mi dispiace tanto, Bee. Lo vorrei, lo vorrei tanto, solo che mi
sembra… impossibile, in questo momento. Come facciamo a lanciare
una nostra impresa quando faccio già fatica a tenermi il lavoro alla
Selmount?»
Bee mastica un pezzo di pancake e prende un’aria assorta. «E va
bene» dice. «La tua autostima ultimamente ha subito un colpo, me
ne rendo conto. Posso aspe are. Ma anche se non utilizzi questo
tempo per lavorare al business plan, dovresti utilizzarlo per lavorare
su di te. La mia Leena Co on non parla di “tenersi il lavoro” come se
fosse il meglio a cui può aspirare, e certo non usa la parola
“impossibile”. E io rivoglio la mia Leena Co on. Dunque» mi punta
contro la forche a «ti do due mesi per trovarla.»
«E secondo te come devo fare?»
Bee si stringe nelle spalle. «Non è che “trovare se stessi” sia il mio
forte. Sto solo pensando in modo strategico… voglio che porti a casa
dei risultati.»
Le sue parole mi fanno ridere. «Grazie, Bee» dico, allungando la
mano verso la sua. «Sei un tesoro. Davvero. Sei fenomenale.»
«Mmh, be’. Dillo agli scapoli di Londra, amica mia» dice, dandomi
una pacca sulla mano e poi riprendendo la forche a.
2
Eileen

Sono passati qua ro lunghi mesi da quando mio marito se n’è


andato con l’istru rice del nostro corso di ballo, e fino a questo
preciso momento non ho sentito la sua mancanza nemmeno una
volta.
Guardo inferocita il bara olo sulla credenza. Ho il polso ancora
dolorante per aver passato un quarto d’ora a cercare di svitare il
coperchio, ma non ho intenzione di arrendermi. Alcune donne
vivono da sole per tu a la vita, e certo mangiano cibo in scatola.
Lancio un’altra occhiataccia al bara olo e faccio una piccola
paternale a me stessa. Sono una donna di se antanove anni. Ho
partorito figli. Mi sono incatenata a una ruspa per salvare un bosco.
Ho tenuto testa a Betsy sulle nuove regole del parcheggio in Lower
Lane.
Senza dubbio posso aprire quel malede o bara olo di salsa.
Dec mi scruta dal davanzale della finestra mentre frugo nel
casse o degli a rezzi di cucina in cerca di qualcosa che possa
svolgere il lavoro delle mie dita sempre più inservibili.
«Pensi che sia una vecchia cretina, eh?» dico al ga o.
Dec fa oscillare la coda. Una mossa sardonica. “Tu i gli esseri
umani sono cretini” dice quella coda. “Dovresti imparare da me. Io i
bara oli me li faccio aprire dagli altri.”
«Dovresti essere contento che il tuo tè per stasera sia in un
sacche o» gli dico, agitando un cucchiaio nella sua direzione. I ga i
nemmeno mi piacciono. È stata un’idea di Wade prendere dei
cuccioli l’anno scorso, ma ha perso ogni interesse per Ant e Dec non
appena ha incontrato Miss Cha-Cha-Cha e ha deciso che Hamleigh
era troppo piccola per lui, e che solo i vecchi vivono con i ga i. «Puoi
tenerli entrambi» mi ha de o, con fare magnanimo. «Sono più ada i
al tuo stile di vita.»
Bru o stronzo arrogante. Tanto per cominciare è più vecchio di
me: o antun anni a se embre. E quanto al mio stile di vita… Be’.
Aspe a e vedrai, Wade Co on. Aspe a e vedrai, stronzo.
«Le cose cambieranno qui, Declan» dico al ga o, stringendo le
dita a orno al coltello del pane in fondo al casse o. Dec sba e le
palpebre impassibile, poi sbarra gli occhi e sguscia fuori dalla
finestra quando alzo il coltello con entrambe le mani per pugnalare il
coperchio del bara olo. Lancio un urle o quando lo perforo; mi ci
vuole qualche fendente, come un assassino dile ante in una
commedia di Agatha Christie, ma stavolta, quando lo svito, il
coperchio cede senza resistenza. Canticchio trionfante svuotandone
il contenuto nella padella.
Missione compiuta. Una volta che la salsa è scaldata e la pasta
co a, mi siedo al tavolo della sala da pranzo con il tè ed esamino la
mia lista.

Basil Wallingham

Pro:

– Vive sulla mia strada, ci arriverei a piedi


– Ha ancora i denti
– Ha ancora abbastanza energia da cacciare gli scoia oli dalle
mangiatoie per gli uccelli

Contro:

– È tremendamente noioso
– Veste sempre di tweed
– Potrebbe tranquillamente essere un fascista

Signor Rogers

Pro:
– Ha solo 67 anni
– Ha tu i i capelli (incredibile)
– Danza come quei ballerini dei talent (ancora più incredibile)
– Educato con tu i, persino con Basil (e questa è la cosa più
incredibile di tu e)

Contro:

– Molto religioso. Molto, molto devoto. Non è che sarà una barba
a le o?
– Visita Hamleigh solo una volta al mese
– Non dà segni di interesse per nessuno che non sia Gesù

Do or Piotr Nowak

Pro:

– Polacco. Molto esotico!


– Medico. Utile per i dolore i
– Interessante nella conversazione e un campione a Scarabeo

Contro:

– Davvero troppo giovane per me (59)


– Quasi sicuramente ancora innamorato della ex moglie
– Assomiglia un po’ a Wade (non è colpa sua, ma è scoraggiante)

Mastico lentamente e prendo la penna. È tu o il giorno che ignoro


il pensiero, ma se ho inserito anche Basil dovrei davvero elencare
tu i i signori non impegnati dell’età giusta.

Arnold Macintyre

Pro:

– Vive nella casa a fianco


– Età appropriata (72)
Contro:

– Essere umano ribu ante


– Ha avvelenato il mio coniglio (ancora non ho le prove, ma so che
è stato lui)
– Ha potato il mio albero pieno di nidi
– Toglie ogni gioia dal mondo
– Probabilmente mangia ga ini a colazione
– Credo discenda dagli orchi
– Mi odia quasi quanto io odio lui

Dopo un istante, cancello “credo discenda dagli orchi”, perché


non dovrei me ere in mezzo i suoi genitori: per quello che ne so,
potrebbero essere state persone perbene. La parte dei ga ini, invece,
la lascio.
Ecco. Una lista completa. Inclino la testa, ma da quella
angolazione risulta deprimente quanto prima. Devo guardare in
faccia la verità: la scelta è molto ristre a a Hamleigh-in-Harksdale,
con una popolazione di centosessanto o abitanti. Se voglio trovare
l’amore in questa fase della mia vita, devo guardare oltre. A
Tauntingham, per esempio. A Tauntingham abitano almeno
duecento persone, ed è a solo mezz’ora di autobus.
Il telefono squilla; raggiungo il soggiorno appena in tempo.
«Pronto?»
«Nonna? Sono Leena.»
Sorrido di gioia. «Aspe a un a imo che mi siedo.»
Mi sistemo nella mia poltrona preferita, quella verde con il motivo
di rose. Questa telefonata è la parte migliore di qualsiasi giornata.
Anche quando la conversazione era triste e amara, quando non
parlavamo altro che della morte di Carla – o di qualsiasi cosa a parte
quello, perché era troppo doloroso –, anche allora queste chiamate di
Leena mi facevano andare avanti.
«Come stai, tesoro?» le chiedo.
«Bene, e tu?»
Qualcosa non torna. «Non stai bene.»
«Lo so, mi è venuto da dire così, mi dispiace. Come quando uno
starnutisce e tu dici: “Salute”.» La sento mandare giù la saliva.
«Nonna, ho avuto un… un a acco di panico al lavoro. Mi hanno
mandato in sabbatico per due mesi.»
«Oh, Leena!» Mi premo la mano sul cuore. «Ma non è una cosa
così terribile che tu abbia un po’ di tempo libero» mi affre o a dire.
«Una piccola pausa ti farà bene.»
«Mi stanno me endo da parte. Sono fuori dai giochi, nonna.»
«Be’, è comprensibile, se si considera…»
«No» dice lei, e le manca la voce. «Non lo è. Santo cielo… lo avevo
promesso a Carla, le avevo giurato che non avrei lasciato che questo,
che il fa o di perderla mi fermasse, e lei diceva sempre… diceva
sempre di essere così orgogliosa di me, ma adesso…»
Sta piangendo. La mia mano artiglia il cardigan, come le zampe di
Ant o Dec quando mi sono seduti in braccio. Anche da bambina,
Leena non piangeva quasi mai. Non come Carla. Quando Carla era
turbata, lanciava le braccia in aria, l’immagine stessa dell’infelicità,
come un’a rice melodrammatica sulla scena… era difficile non
ridere. Ma Leena si limitava ad aggro are la fronte e chinare la testa,
guardandoti di so o in su con aria di rimprovero da quelle ciglia
lunghe e scure.
«Andiamo, tesoro. Carla avrebbe voluto che tu ogni tanto andassi
in ferie» le dico.
«So che dovrei prenderla come una vacanza, ma non ci riesco. È
che… detesto aver fa o quella figuraccia.» Queste parole escono
soffocate, come se parlasse con le mani davanti alla bocca.
Mi tolgo gli occhiali e mi strofino l’a accatura del naso. «Non hai
fa o nessuna figuraccia, tesoro. Sei stressata, tu o qui. Perché non
vieni qui per il weekend? Tu o sembra più facile davanti a una tazza
di cioccolata calda, e così potremo parlare con calma, e tu potrai
staccare un po’ da tu o, quassù a Hamleigh…»
Cala un lungo silenzio.
«È un sacco di tempo che non vieni a trovarmi» dico, esitante.
«Lo so. Mi dispiace tanto, nonna.»
«Oh. Non c’è problema. Sei venuta quando Wade se n’è andato, te
ne sono stata così riconoscente. E ho la fortuna di avere una nipote
p
che mi chiama così spesso.»
«Ma so che chiacchierare al telefono non è la stessa cosa. E non è
che… Sai che avrei davvero voglia di vederti.»
Nessun accenno a sua madre. Prima della morte di Carla, Leena
andava a trovare Marian almeno una volta al mese. Quando finirà,
questa odiosa faida tra di loro? Sto così a enta a non parlarne mai…
non voglio interferire, non spe a a me. Eppure…
«Tua madre ti ha chiamato?»
Un altro lungo silenzio. «Sì.»
«Per parlarti…» Qual era la sua ultima fissa? «Dell’iperterapia?»
«Ipnoterapia.»
«Ah, già.»
Leena non dice niente. È così testarda, la nostra Leena. Come
faranno quelle due a superare questa impasse quando sono
entrambe così zuccone?
«D’accordo. Ne starò fuori» dico, interrompendo il silenzio.
«Mi dispiace, nonna. So che per te è difficile.»
«No, no, non preoccuparti per me. Ma ci farai un pensierino a
venire qui per il weekend? È dura aiutarti da lontano, tesoro.»
La sento tirare su con il naso. «Sai una cosa, nonna? Vengo. Avevo
comunque pensato di farlo, e… ho davvero tanta voglia di vederti.»
«Evviva!» dico con entusiasmo. «Sarà fantastico. Ti preparerò uno
dei tuoi dolci preferiti per il tè e ti aggiornerò su tu i i pe egolezzi
del paese. Roland sta facendo una dieta, sai. E Betsy ha cercato di
tingersi i capelli, ma qualcosa è andato storto, e ho dovuto portarla
dalla parrucchiera con un asciugamano in testa.»
Leena scoppia a ridere. «Grazie, nonna» dice dopo un a imo. «Sai
sempre come tirarmi su il morale.»
«È questo che fanno le Eileen» dico. «Si sostengono a vicenda.»
Glielo dicevo sempre da piccola: anche il nome completo di Leena è
Eileen. Marian le ha dato il mio nome quando tu i pensavamo che
sarei morta dopo una bru a polmonite all’inizio degli anni Novanta;
quando ci siamo resi conto che in fondo non ero in punto di morte è
nata una gran confusione, e così Leena è diventata Leena.
«Ti voglio bene, nonna» dice lei.
«Anch’io, tesoro.»
Dopo che ha ria accato, mi rendo conto di non averle parlato del
mio nuovo proge o. Faccio una smorfia. Mi ero ripromessa di
dirglielo la prossima volta che avesse chiamato. Non è esa amente
che mi imbarazzi cercare l’amore. Ma i giovani tendono a trovare
buffe le persone anziane che hanno voglia di innamorarsi. Non per
ca iveria, ma senza pensare, come si ride di un bambino che si
comporta come un adulto, o di un marito che cerca di fare la spesa
se imanale.
Torno in sala da pranzo e guardo la mia triste, striminzita lista di
uomini papabili di Hamleigh. Adesso mi sembra tu o così
meschino. In testa ho solo Carla. Cerco di pensare ad altre cose – le
giacche di tweed di Basil, la ex moglie di Piotr –, ma non serve a
niente, quindi mi arrendo e mi lascio andare ai ricordi.
Penso a Carla da bambina, con una massa di ricci e le ginocchia
sbucciate, che stringe la mano della sorella. Penso alla ragazza con la
maglie a sdrucita di Greenpeace, troppo magra, ma sorridente, con
un fuoco dentro. E poi penso alla Carla che era sdraiata nel
soggiorno di Marian. Scheletrica e scavata, intenta a comba ere il
cancro con tu e le forze che le restavano.
Non dovrei dipingerla così, come se avesse un’aria fragile: era
sempre Carla, così focosa. Anche in occasione dell’ultima visita di
Leena, pochissimi giorni prima di morire, Carla aveva tenuto testa
alla sorella maggiore.
Era nel suo speciale le o da ospedale, portato nel soggiorno di
Marian una sera da un gruppo di gentili inservienti del servizio
sanitario, che lo avevano montato con sorprendente efficienza ed
erano spariti prima che riuscissi a offrire loro una tazza di tè. Io e
Marian eravamo in piedi sulla soglia. Leena era accanto al le o, nella
poltrona che avevamo portato lì a un certo punto e mai rimesso al
suo posto. Il soggiorno non ruotava più a orno al televisore, ma
a orno a quel le o, con le sue sbarre di legno chiaro su ogni lato del
materasso, e quel telecomando grigio, che si perdeva sempre so o le
coperte, per regolare l’altezza del le o e spostare Carla quando
voleva sedersi.
«Sei incredibile» stava dicendo Leena alla sorella, gli occhi pieni
di lacrime. «Penso che tu sia… sia incredibile, e così coraggiosa, e…»
gg
Carla aveva allungato la mano, più veloce di quanto avrei creduto
possibile, ormai, e le aveva dato uno schiaffo sul braccio.
«Piantala. Non diresti mai una cosa del genere se non fossi in
punto di morte» disse. Anche con la voce flebile e secca, la sua forza
di cara ere si faceva sentire. «Di questi tempi sei molto più gentile
con me. È strano. Mi manca sentirti dire che sto bu ando la mia
vita.»
Leena aveva sussultato. «Non ho mai…»
«Leena, stai tranquilla, ti prendo in giro.»
Leena era a disagio, e Carla aveva alzato gli occhi al cielo, come a
dire: “Per la miseria”. A quel punto mi ero abituata a vedere il suo
viso senza sopracciglia, ma ricordo quanto mi era sembrato strano
all’inizio, ancora più strano, per certi versi, della perdita dei suoi
lunghi riccioli neri.
«D’accordo, d’accordo. Ora sono seria» aveva de o.
Aveva guardato me e Marian, poi aveva preso la mano di Leena,
le dita troppo pallide contro la pelle abbronzata della sorella.
«Va bene? Ora mi me o in modalità persona seria.» Carla aveva
chiuso gli occhi per un istante. «Ci sono un po’ di cose che volevo
dirti. Cose serie.» A quel punto aveva aperto gli occhi, fissando lo
sguardo su Leena. «Ricordi quando siamo andate insieme al
campeggio l’estate che sei tornata dall’università, e tu mi hai de o
che pensavi che la consulenza aziendale fosse la strada per cambiare
il mondo, e io sono scoppiata a ridere? E poi abbiamo litigato a
proposito del capitalismo?»
«Sì» aveva risposto Leena.
«Non avrei dovuto ridere.» Carla aveva deglutito a fatica; il
dolore le increspava i lineamenti, una contrazione a orno agli occhi,
un tremito delle labbra secche. «Avrei dovuto ascoltarti e dirti che
ero fiera di te. Stai plasmando il mondo, in un certo senso… lo stai
rendendo migliore, e il mondo ha bisogno di gente come te. Voglio
che bu i fuori tu i quei vecchi uomini incartapecoriti e che dirigi da
sola la baracca. Lancia la tua società. Aiuta le persone. E prome imi
che non lascerai che la mia morte ti fermi.»
Leena a quel punto stava piangendo, le spalle curve e tremanti.
Carla aveva scosso la testa.
«Leena, dacci un taglio, per favore! Santo cielo, ecco cosa si
guadagna a essere seri! Devo menarti di nuovo?»
«No» aveva de o Leena, ridendo tra le lacrime. «Per favore, no.
Mi hai fa o male.»
«Bene. Sappi solo che ogni volta che ti lasci sfuggire un’occasione,
ogni volta che ti chiedi se puoi davvero farcela, ogni volta che pensi
di rinunciare a qualsiasi cosa tu voglia… io ti darò uno schiaffo
dall’aldilà.»
Questa era Carla Co on.
Era ardimentosa, ed era spiritosa, e sapeva che senza di lei non
potevamo farcela.
3
Leena

Apro gli occhi alle sei e ventidue, ventidue minuti dopo la mia solita
sveglia, e sca o a sedere con un gemito. Penso che la ragione per cui
mi sono spaventata sia questo strano silenzio, l’assenza
dell’insopportabile, allegra suoneria della sveglia del mio telefono.
Mi ci vuole un po’ per ricordarmi che non sono in ritardo: non devo
svegliarmi e andare in ufficio. Anzi, non mi è concesso di andare in
ufficio.
Mi lascio ricadere sul cuscino e di nuovo vengo travolta dalla
paura e dalla vergogna. Ho dormito malissimo, rivivendo all’infinito
la presentazione, senza scendere mai so o la soglia del dormiveglia,
e poi, quando mi sono addormentata sul serio, ho sognato Carla, una
delle ultime sere che ho passato a casa di mamma, quando mi ero
infilata nel suo le o e l’avevo stre a a me, il suo fragile corpo
appiccicato al mio come quello di un bambino. Dopo un po’, mi
aveva spinto via con una gomitata. “Piantala di bagnare il cuscino”
mi aveva de o, ma poi mi aveva dato un bacio sulla guancia e mi
aveva spedita a preparare una cioccolata calda di mezzano e, e
avevamo chiacchierato per un po’, ridacchiando nel buio come se
fossimo tornate bambine.
Erano mesi che non sognavo Carla. Adesso che sono sveglia e
rivivo quel sogno, sento tanto la sua mancanza che eme o un grido
strozzato, “Dio”, ricordando le fi e stordenti di dolore che mi
mandavano al tappeto nei primi mesi, sentendone di nuovo
l’impa o per un istante lancinante e chiedendomi come abbia fa o a
sopravvivere a quel periodo.
Non va bene. Ho bisogno di muovermi, di farmi una corsa. Mi
rime erà in sesto. Mi infilo i leggings Lululemon che mi ha regalato
Ethan per il mio compleanno e una vecchia T-shirt, ed esco di casa.
p p
Corro per le strade di Shoreditch finché i ma oni scuri e i graffiti non
lasciano il posto ai magazzini riqualificati di Clerkenwell, ai bar e
ristoranti con la serranda abbassata di Upper Street, alla
lussureggiante ricchezza di Islington, finché non grondo sudore e
non riesco a pensare ad altro che al centimetro di marciapiede che ho
davanti agli occhi. Un passo, un altro passo, un altro passo.
Quando torno, in cucina c’è Martha, che cerca di infilare il suo
corpo molto incinta in uno di quegli assurdi sgabelli art déco che ha
scelto per l’appartamento. Ha i capelli castani raccolti in due codini;
Martha ha sempre l’aria giovane, per via della forma del viso, ma se
si aggiungono i codini non sembra nemmeno avere l’età legale per
aspe are un figlio.
Le porgo il braccio a cui appoggiarsi ma lei mi liquida con un
gesto.
«Molto gentile da parte tua» dice «ma sei un po’ troppo sudata
per toccare altre persone, mia cara.»
Mi asciugo il viso con l’orlo della maglie a e mi dirigo verso il
lavabo per bere un bicchier d’acqua. «Abbiamo bisogno di sedie
normali» le dico dandole la schiena.
«No, che non ne abbiamo bisogno. Queste sono perfe e» riba e
Martha, contorcendosi per cercare di infilare il posteriore sullo
sgabello.
La guardo esasperata.
Martha è una designer d’interni di lusso. È un lavoro
spumeggiante, sfiancante e irregolare; i suoi clienti sono un incubo
di perfezionismo, e non fanno che chiamarla a tu e le ore per lunghi
sfoghi sulla stoffa delle tende. Ma il vantaggio è che si becca degli
sconti sui mobili da collezionismo, e ha riempito casa con un
assortimento di ogge i di grande stile che non hanno affa o uno
scopo – come il vaso a forma di W sul davanzale, o la lampada di
ghisa che eme e solo un tenue bagliore – oppure si rifiutano di
espletare la funzione prevista: gli sgabelli del tavolo da colazione su
cui si fatica a sedersi, il tavolino dalla superficie convessa.
Eppure, sembrano renderla felice, e io sto così poco tempo in casa
che non mi danno un grande fastidio. Non avrei mai dovuto lasciare
che Martha mi convincesse ad affi are quell’appartamento con lei, in
q pp
realtà, ma la novità di vivere in una stampa d’epoca era troppo
alle ante quando ero appena arrivata a Londra. Ora è solo uno
spazio molto costoso in cui posso crollare sul le o, e non mi rendo
conto che quello che stiamo facendo, a quanto pare, è vivere in una
“mostra di arti applicate”. Quando Martha se ne andrà devo
convincere Fi a trasferirci insieme in un posto più ragionevole. A
parte la stravagante vecchia signora dei ga i che vive alla porta
accanto, tu i gli abitanti di questo edificio sembrano avere una barba
da hipster o una start-up: non sono sicura che Shoreditch sia il
quartiere che fa per me.
«Sei riuscita a parlare con Yaz ieri sera?» le chiedo, prendendomi
un altro bicchiere d’acqua.
Yaz è la ragazza di Martha, che al momento è in tournée teatrale
in America per sei mesi. La relazione tra Yaz e Martha mi provoca
alti livelli di stress per procura. Ogni de aglio sembra comportare
una logistica estremamente complessa. Sono sempre in zone con
fuso orario diverso, intente a mandarsi importanti documenti da una
parte all’altra dell’oceano e a prendere cruciali decisioni di vita
chiamandosi su WhatsApp con il segnale che va e viene. La
situazione a uale è un esempio eccellente del loro stile: Yaz tornerà
fra o o se imane, per prendere possesso di una villa (che ancora
deve essere comprata) e spostarvi la sua ragazza incinta prima della
nascita del piccolo, programmata di lì a qualche giorno. Al solo
pensarci mi viene da sudare di nuovo.
«Sì, Yaz sta bene» dice Martha, strofinandosi pigramente la
pancia. «Parla a mille all’ora di Čechov e partite di baseball. Sai, la
solita Yaz.» Il suo sorriso affe uoso si allarga in uno sbadiglio. «Però
sta diventando pelle e ossa. Avrebbe bisogno di fare un pasto
decente.»
Reprimo un sorriso. Martha non sarà ancora una madre, ma da
quando la conosco fa da mamma a chiunque sia a portata di mano.
Sfamare la gente è una delle sue forme preferite di aggressione
benevola. Continua anche a portare amiche del suo corso di Pilates a
casa per il tè, nell’evidente speranza che facciano un uomo onesto di
Fi , l’altro nostro coinquilino.
A proposito di Fi … controllo l’ora sul mio Fitbit. È al suo quarto
nuovo lavoro dell’anno; stavolta sarebbe davvero meglio che non
facesse tardi.
«Fi si è svegliato?» chiedo.
Neanche a farlo apposta, lui entra, alzando il colle o per me ersi
una crava a. Come al solito, la sua barba sembra tagliata con il
righello: è da tre anni che vivo con lui e ancora non capisco come
faccia a o enere quell’effe o. Fi ha sempre un’aria così
ingannevolmente composta. La sua vita è in uno stato di caos
permanente, ma i suoi calzini sono sempre stirati alla perfezione. (A
sua difesa, bisogna dire che sono sempre in vista – lui indossa
pantaloni troppo corti di qualche centimetro – e che sono più
interessanti della media dei calzini che porta la gente. Ne ha un paio
con un motivo di SpongeBob, un altro chiazzato come un quadro di
Van Gogh e il suo paio preferito sono i “calzini politici”, con “La
Brexit è una cazzata” scri o a orno alla caviglia.)
«Io sono sveglio. La questione è perché tu sei sveglia, cara la
nostra vacanziera» dice Fi , annodandosi la crava a so ile.
«Oh, Leena» dice Martha. «Scusami, mi ero completamente
dimenticata che stama ina non vai al lavoro.» Sbarra gli occhi in
segno di solidarietà. «Come ti senti?»
«Malissimo» confesso. «E sono arrabbiata con me stessa perché mi
sento malissimo, perché chi si sentirebbe malissimo se gli avessero
dato un congedo retribuito di due mesi? Ma continuo a rivivere
quella riunione, e mi viene solo voglia di rannicchiarmi in posizione
fetale.»
«La posizione fetale non è statica come si tende a pensare» dice
Martha, facendo una smorfia e accarezzandosi il lato della pancia.
«Comunque è normale, tesoro. Hai bisogno di riposare: è questo che
ti sta dicendo il tuo corpo. E devi perdonare te stessa. Hai solo fa o
un piccolo sbaglio.»
«Leena non ne aveva mai fa i prima» dice Fi , andando verso il
frullatore per farsi uno smoothie. «Dalle solo il tempo di rime ersi in
sesto.»
Lo guardo male. «Ne ho fa i di sbagli.»
«Ma per favore, Miss Perfezione. Ricordamene uno» dice Fi ,
strizzandomi l’occhio.
Martha nota la mia espressione irritata e fa per accarezzarmi il
braccio, poi ricorda quanto sono sudata e opta per una pacca sulla
spalla.
«Hai dei programmi per il fine se imana?» mi chiede.
«Vado a Hamleigh» dico, guardando il telefono. Aspe o un
messaggio da Ethan: ieri sera è dovuto restare al lavoro fino a tardi,
ma spero che stasera sia libero. Ho bisogno di uno dei suoi abbracci,
quei magnifici abbracci prolungati in cui nascondo il viso nel suo
collo e lui mi tiene stre a.
«Ah, sì?» dice Fi con un’espressione strana. «Torni al Nord per
vedere tua mamma… è questo di cui hai bisogno adesso?»
«Fi !» interviene Martha. «A me sembra un’o ima idea, Leena.
Vedere tua nonna ti farà sentire molto meglio, e non devi passare del
tempo con tua madre se non ti senti pronta. Viene anche Ethan?»
«Non credo… è alle prese con quel proge o di Swindon. La
consegna è giovedì prossimo: passa tu o il tempo in ufficio.»
A queste parole, Fi fa partire una sonora frullata. Non ha
bisogno di dire niente: so che pensa che io e Ethan non me iamo
abbastanza la coppia tra le nostre priorità. È vero che non ci vediamo
quanto vorremmo: anche se lavoriamo per la stessa società, ci
vengono sempre assegnati proge i diversi, di solito in diverse zone
industriali dimenticate da dio. Ma questa è una parte del motivo per
cui Ethan è così fantastico: capisce l’importanza del lavoro. Quando
Carla è morta e io faticavo a stare a galla, è stato lui a incoraggiarmi
a mantenere la concentrazione sul mio lavoro, a ricordarmi perché
mi piaceva tanto, a spingermi ad andare avanti perché non andassi a
fondo.
Solo che adesso non ho più nessun lavoro a tenermi in
movimento, non per le prossime o o se imane. Due mesi
interminabili si spalancano di fronte a me, desolati. Se penso a tu e
quelle ore di calma e silenzio e tempo per pensare, sento un vuoto
allo stomaco. Ho bisogno di uno scopo, un proge o, qualcosa. Se non
continuo a muovermi quelle acque si chiuderanno sopra la mia testa,
e il solo pensiero mi fa venire la pelle d’oca.
p p
Controllo l’ora sul telefono. Ethan ha più di un’ora e mezzo di
ritardo: probabile che sia stato interce ato da un collega mentre
stava uscendo dall’ufficio. Ho passato il pomeriggio a pulire
l’appartamento, e finito in tempo per il suo arrivo, ma adesso sono
passate altre due ore, durante le quali ho rivoltato i mobili e
spolverato le gambe delle sedie e fa o quelle pulizie maniacali per le
quali ti ritrovi su un documentario di Channel Four.
Quando finalmente sento la sua chiave nella toppa sguscio fuori
da so o il divano e mi spolvero la gigantesca felpa da pulizie
generali. È di Buffy: davanti c’è una grossa foto del suo viso, mentre
fa la sua migliore espressione assassina. (Molti dei miei vestiti che
non sono tailleur sono felpe oversize da nerd. Forse di questi tempi
non ho molto tempo per dedicarmi ai programmi cult, ma non
manco di dimostrare la mia fedeltà, e a dirla tu a è l’unico genere di
moda per cui mi sembra che valga la pena di spendere soldi.)
Ethan entra e rimane teatralmente a bocca aperta, ruotando sui
tacchi per contemplare la trasformazione. In effe i, è incredibile. Di
solito teniamo la casa abbastanza pulita, ma adesso scintilla.
«Dovevo sapere che non saresti riuscita ad affrontare una giornata
libera senza qualche tipo di a ività frenetica» dice, dandomi un
bacio. Profuma di colonia agli agrumi e ha il naso freddo per la
gelida pioggia di marzo. «Questo appartamento è uno splendore.
Hai voglia di sistemare anche il mio?»
Gli do uno schiaffe o sul braccio e lui ride, scostandosi i capelli
scuri dalla fronte con la sua cara eristica mossa sbilenca. Si china di
nuovo a baciarmi, e provo un moto di invidia sentendo com’è
euforico per il lavoro. Quella sensazione mi manca.
«Scusa il ritardo» dice, andando verso la cucina. «Li mi ha preso
da parte per rivedere le cifre della ricerca e sviluppo per la revisione
della Webster, e sai com’è, io di quelle cose non ci capisco mai niente.
Come sta andando, angelo mio?» conclude parlando da sopra la
spalla.
Mi sento stringere lo stomaco. “Come sta andando, angelo mio?”
Ethan me lo chiedeva al telefono ogni sera, quando Carla era quasi
alla fine; me lo chiedeva sulla porta di casa mia, comparendo proprio
quando avevo bisogno di lui, con una bo iglia di vino e un
q g g
abbraccio; lo chiedeva mentre arrancavo al funerale di Carla,
stringendogli la mano con tanta forza che devo avergli fa o male.
Senza di lui non ce l’avrei mai fa a a uscirne viva. Non so come si
faccia a essere abbastanza grati verso una persona che ti ha sostenuto
in uno dei momenti peggiori della tua vita.
«Sto… bene» dico.
Ethan torna nella stanza, i piedi scalzi che stonano con il completo
da ufficio. «Penso che sia una bella cosa» dice «questo momento di
pausa.»
«Davvero?» chiedo, sprofondando sul divano. Lui si siede vicino
a me, tirandomi le gambe sopra le sue.
«Certo. E comunque puoi tenerti allenata: se vuoi me ere lo
zampino nei miei proge i sei la benvenuta, lo sai, e potrei far sapere
a Rebecca quanto mi stai aiutando, così sarà consapevole che non
perdi la mano mentre sei via.»
Raddrizzo un po’ di più la schiena. «Davvero?»
«Ma certo.» Mi bacia. «Sai che sono dalla tua parte.»
Mi sposto per poterlo guardare bene: la sua bella bocca
espressiva, i capelli scuri che sembrano di seta, la manciata di
lentiggini sugli zigomi. È così bello, ed è qui, adesso, nel momento in
cui ho più bisogno di lui. Sono davvero fortunata ad aver trovato
quest’uomo.
Lui si china di lato per prendere la borsa del computer,
appoggiata vicino al bracciolo. «Vuoi dare un’occhiata con me alle
slide per domani? Per la Webster?»
Io esito, ma lui ha già aperto il computer, me l’ha posato sulle
gambe, così mi me o comoda e lo ascolto parlare, e mi rendo conto
che ha ragione: questo mi aiuta. Insieme a Ethan, sentendo la sua
voce profonda e sommessa parlare di fa urato e previsioni, mi sento
quasi me stessa.
4
Eileen

Il venerdì pomeriggio devo fare tu o di corsa: Dec ha lasciato


viscere di topo sullo zerbino. Sono certa che è un gesto gentile
nell’o ica di un ga o, ma non è stato piacevole gra arle via dalla
suola delle mie scarpe preferite. Arrivo alla sala comunale appena in
tempo per l’incontro del Comitato di vigilanza, e quasi senza fiato.
Il Comitato di vigilanza di Hamleigh è un’associazione non
ufficiale, ma di successo. Il crimine è un argomento che preoccupa
gli abitanti di Hamleigh-in-Harksdale, anche se negli ultimi cinque
anni l’ultimo reato che ricordo è stato il furto del tagliaerba di Basil,
che poi, come si è scoperto, era stato preso in prestito da Betsy, la
quale ha giurato di averlo prima chiesto al legi imo proprietario.
Che le crediate o meno, è difficile parlare di un dilagare
dell’illegalità, e senza dubbio un incontro se imanale di due ore è un
tantino eccessivo.
Per fortuna, adesso sono responsabile dell’associazione, mentre
Betsy è la vicepresidente (è stato concordato che non poteva essere
lei la presidente, alla luce dei succitati precedenti). Abbiamo reso gli
incontri molto più interessanti. Visto che tecnicamente non siamo una
vera guardia civica, ma solo persone che tengono d’occhio i loro
vicini, non c’è bisogno di aderire a regole o normative. Così abbiamo
smesso di fingere di parlare della criminalità, e ci concentriamo su
pe egolezzi, scandali paesani e campanilismo. Abbiamo anche
introdo o una valanga di bisco i omaggio, offerto cuscini per le
sedie e preparato un cartello con scri o “Riservato ai membri” da
me ere sulla porta della sala comunale durante gli incontri, il che ha
avuto l’effe o di ingelosire chiunque non faccia parte del Comitato
di vigilanza, e di rendere i membri orgogliosi di fare parte “del
club”.
Betsy richiama la riunione all’ordine ba endo il martelle o sul
tavolino della sala. (Dio solo sa dove abbia trovato quel martelle o,
ma coglie ogni occasione per usarlo. L’altro giorno, quando Basil si
stava comportando in modo particolarmente belligerante al bingo,
glielo ha picchiato sulla fronte. Questo lo ha messo a tacere. Anche
se in seguito il do or Piotr l’ha presa da parte per spiegarle che,
considerato il recente ictus di Basil, sarebbe meglio evitare lesioni
alla testa.)
«Qual è il primo argomento all’ordine del giorno?» chiede Betsy.
Le passo l’agenda.

Incontro del 20 marzo del Comitato di vigilanza del vicinato

1. Benvenuto
2. Tè con bisco i
3. Do or Piotr: parcheggio davanti all’ambulatorio
4. Roland: stiamo ancora boico ando Julie’s? Rivedere il
provvedimento: non ci sono altri posti in cui comprare un buon
sandwich al bacon
5. Betsy: chiarimento sul fa o che la gonna pantalone sia o meno
“tornata di moda”
6. Bisco i, tè
7. Eileen: serata cineforum; provvedimento per bandire tu i i film
con Jack Nicholson, non li sopporto più, dovrà pur esserci
qualche altro signore capace di recitare
8. Basil: aggiornamento sulla Guerra agli Scoia oli
9. Reati da segnalare?
10. Bisco i, tè
11. Varie ed eventuali

Basil prepara il tè, il che significa che viene fuori atrocemente


annacquato e metà di noi si ritrova la bustina a galleggiare nella
tazza perché lui è troppo miope per vedere quelle che non ha tolto.
Betsy, però, ha procurato un o imo assortimento di bisco i. Ne
sgranocchio uno allo zenzero mentre Piotr parla con il cuore in mano
di “quelli di noi che parcheggiano gli scooter ele rici in modo da
occupare due posti auto” (che sarebbe Roland) e delle “conseguenze
per gli altri pazienti” (ovvero Basil, che se ne lamenta sempre).
Penso alla lista sul tavolo della mia sala da pranzo e
svogliatamente immagino di fare l’amore con il do or Piotr, con la
conseguenza che un pezzo di bisco o mi va di traverso e la riunione
per un a imo è interro a dal panico mentre tu i mi danno pacche
sulla schiena. Betsy si sta giusto preparando a fare la manovra di
Heimlich quando riacquisto la voce e li informo che sto bene. E che,
se dovesse venire il momento in cui mi sto davvero strozzando,
preferirei che a fare le manovre fosse Piotr. Mentre lo dico, ci
scambiamo uno sguardo divertito sopra la testa di Betsy. Con un
briciolo di speranza, mi chiedo se quello sguardo potrebbe avere
addiri ura qualcosa di allusivo, anche se è passato molto tempo e
non so più bene come si faccia a capirlo.
Betsy, come prevedibile, è offesa dal mio commento, ma presto
viene distra a dal diba ito sul fa o che la gonna pantalone sia o
meno di moda. La questione è sorta perché la scorsa se imana
Kathleen ha de o a Betsy che erano l’ultima tendenza, e Betsy ne ha
comprati sei paia sul canale dello shopping. (Kathleen, che ha
trentacinque anni, abbassa notevolmente l’età media del Comitato di
vigilanza. Con tre bambini so o i sei anni ha una voglia così
disperata di uscire di casa che si è iscri a a ogni singola a ività del
paese.) Betsy ha avuto una crisi di fiducia nei suoi nuovi acquisti e
ha bisogno di effe uare un sondaggio. È il suo modo preferito di
assicurarsi che nessuno possa giudicarla per aver fa o qualcosa: se
viene deciso democraticamente, la colpa è di tu i.
Il Comitato di vigilanza delibera che in effe i la gonna pantalone
è di nuovo “in”, anche se credo che Basil non abbia nemmeno capito
di cosa si sta parlando, e il suo è stato il voto decisivo.
Dopo il secondo giro di bisco i faccio la mia arringa sui film di
Jack Nicholson, ma non riesco a impormi: Penelope, a sorpresa, è
una sua grande fan. Poi Basil blatera qualcosa a proposito degli
scoia oli, che è sempre la parte ideale dell’incontro in cui schiacciare
un pisolino, se serve, e poi è di nuovo il momento dei bisco i e
arriva il punto più importante dell’ordine del giorno: “crimini da
segnalare”. Meglio noto come “nuovi pe egolezzi”.
g g p g
«Eileen, Betsy dice che hai venduto la macchina» esordisce
Penelope, guardandomi con il suo sguardo da gufo. Penelope ha la
corporatura di un minuscolo uccellino; sembra così fragile che ho
sempre paura che si rompa qualcosa, ma in realtà la sua tempra è
abbastanza solida. L’altro giorno l’ho vista sparare a un ga o con
una pistola ad acqua, perché stava infastidendo il nido delle sue
cinciarelle: l’ha beccato dri o nell’occhio.
«Penso che sia stato saggio da parte tua rinunciare alla guida,
Eileen» osserva Betsy.
«Non ho smesso di guidare» dico, sedendomi più dri a. «Divido
la macchina con Marian.»
«Ah, quindi guidi ancora?» dice Betsy. «Perbacco. Sei proprio
coraggiosa, dopo quell’incidente in Sniddle Road!»
Betsy è una persona gentile, e una carissima amica, ma è anche
bravissima a dire cose scortesi in un tono di voce che non ti perme e
di obie are. Quanto al mio “incidente” in Sniddle Road, non vale
nemmeno la pena di accennarvi. Amme o che non è stato il mio
miglior tentativo di parcheggiare nella storia, ma chi avrebbe mai
pensato che il fuoristrada di quel tizio si ammaccasse così
facilmente? Sembrava un cavolo di carro armato.
«Hai abbandonato il tuo ultimo proge o, quindi, no?» chiede
Basil, togliendosi dai baffi le briciole dei bisco i. «Non ci portavi in
giro i cani smarriti, con quella macchina?»
«Stavo dando una mano a quei ragazzi adorabili del rifugio per
cani di Daredale» dico, impe ita. «Ma adesso hanno un veicolo
loro.»
«Sono certa che presto ti inventerai qualche altra iniziativa!» dice
Basil con una risatina.
Io lo guardo in cagnesco.
«Hai rinunciato a trovarci uno sponsor per il calendimaggio?»
continua. «Nessuna grande azienda è disposta a prestare il nome alla
festicciola di un piccolo paese?»
Stringo i denti. Si dà il caso che io mi sia fa a in qua ro per
trovare uno sponsor per la sagra del calendimaggio. Avevo sperato
che potessimo devolvere i soldi raccolti all’associazione contro il
cancro che aveva fa o tanto per Carla, invece di coprire i costi come
p p
facciamo di solito. Ma di questi tempi è difficile persino trovare
qualcuno che ti stia a sentire nelle grosse società di Leeds, e le
imprese locali a cui mi sono rivolta stanno tu e tirando la cinghia e
non hanno soldi da devolvere.
«Strano!» ridacchia Basil.
«Non intendo scusarmi per aver cercato di fare una differenza in
questo mondo, Basil» dico, gelida.
«Giusto, giusto» risponde lui. «Ed è molto coraggioso da parte tua
insistere anche se non c’è speranza, dico io.»
La conversazione, per fortuna, si sposta su un altro argomento;
Penelope interroga Piotr sull’ultimo malanno di Roland, e io colgo
l’occasione per scambiare due parole con Betsy.
«Hai parlato con tua figlia, tesoro?» le chiedo in un sussurro. «Le
hai chiesto di venirti a trovare?»
Betsy stringe le labbra. «Ci ho provato» dice. «È andata male.»
Il problema è il marito di Betsy. Sua figlia non ha più intenzione
di stare nella stessa stanza con lui. Lo capisco: Cliff è insopportabile,
e non so come abbia fa o Betsy a reggerlo per tu i questi anni.
Nemmeno Wade lo poteva soffrire. Ma senza dubbio, tagliare Betsy
fuori dalla sua famiglia non potrà che peggiorare le cose. Comunque
non tocca a me interferire; le stringo la mano.
«Verrà quando sarà pronta» le dico.
«Be’, meglio che non aspe i troppo» commenta lei. «Ho
o ant’anni!»
Sorrido. Betsy ne ha o antacinque. Anche quando cerca di
sostenere la tesi che è vecchia, non può fare a meno di togliersi
qualche anno.
«… gli autobus per Knargill sono stati rido i a uno al giorno» sta
dicendo Basil a Roland. «Non posso evitare di pensare che questo
faccia parte del problema.»
Le cose su cui Basil ama lamentarsi sono, nell’ordine: scoia oli,
trasporti pubblici, condizioni meteorologiche e la politica nazionale.
Meglio non provocarlo su nessuno di questi argomenti, ma in
particolare è importante evitare l’ultimo, perché diventa difficile
farsi piacere Basil quando comincia a parlare di immigrazione.
«E lei era lì» sta dicendo Basil, «annegata nella sua minestra di
porri e patate! Uno spe acolo raccapricciante, immagino. La
povere a che l’ha trovata era passata da lei per chiederle se volesse
dei nuovi doppi vetri, ha visto la porta aperta, ed eccola lì: morta da
una se imana e non se n’era accorto nessuno!»
«Che c’è, Basil?» chiedo. «Stai raccontando storie dell’orrore come
al solito?»
«La signora di Knargill» dice Basil, sorseggiando il tè con aria
compiaciuta. «Annegata nel suo pia o di minestra.»
«Ma è orribile!» esclama Betsy.
«C’erano mosche e larve quando l’hanno trovata?» chiede
Penelope con interesse.
«Penelope!» urlano tu i in coro, poi ci giriamo verso Basil in
a esa della risposta.
«Probabile» dice lui, annuendo con aria saputa. «Molto probabile.
Quella povera donna aveva solo se antanove anni. Il marito era
morto l’anno prima. Non aveva un cane che si occupasse di lei. I
vicini hanno de o che da mesi non parlava con nessuno se non con
gli uccelli.»
Di colpo provo una sensazione strana, come una leggera
vertigine, e mentre allungo la mano per prendere un altro bisco o
allo zenzero noto che la mia mano sta tremando più del solito.
Forse sto pensando che quella povera donna aveva la mia stessa
età. Ma le somiglianze finiscono lì, mi dico con convinzione. Io, tanto
per cominciare, non mangerei mai la minestra di porri e patate: è
così insipida.
Eppure, sono inquieta. L’incidente di ieri con il bara olo è stato
uno sgradevole promemoria di quanto possa essere facile non essere
più all’altezza delle incombenze quotidiane. E le cose possono
peggiorare in fre a quando sei solo.
«Dovremmo fare di più per le persone come lei» dico
all’improvviso. «Con i tagli alle corse degli autobus e quelli del
trasporto anziani che hanno problemi di fondi, è difficile per loro
andare da qualche parte anche se ne hanno voglia.»
Tu i hanno l’aria piu osto sorpresa. Di solito, se a un incontro del
Comitato di vigilanza vengono nominati gli abitanti di Knargill,
g g g g
segue una risata maliziosa di Betsy, che subito dopo dichiara: «Così
imparano a vivere a Knargill».
«Be’, sì, immagino di sì» prorompe querula Penelope nel silenzio.
«Me iamolo nel prossimo ordine del giorno» dico. Mi prendo un
appunto sulla stampata.
C’è una pausa vagamente imbarazzata.
«Lo sai che a Firs Blandon stanno parlando di organizzare una
festa concorrente per il calendimaggio?» dice Basil, e mi guarda
maligno, come per sondare la mia lealtà.
«Ma figuriamoci!» lo liquido. Basil dovrebbe sapere che non
parteggerei mai per Firs Blandon. Un paio di decenni fa, quando a
Hamleigh era mancata la corrente per tre giorni dopo una violenta
tempesta, tu i gli altri paesi avevano offerto soldi e stanze libere per
aiutare chi non ce la faceva senza il riscaldamento. Quelli di Firs
Blandon non avevano alzato un dito. «Be’» dico con fermezza. «Un
calendimaggio a Firs Blandon non sarà mai bello come il nostro.»
«Ma certo che no!» conferma Betsy, e tu i si rilassano ora che
siamo tornati su un terreno sicuro. «Chi vuole altri bisco i?»
Il resto dell’incontro procede come al solito, ma quella strana,
fastidiosa sensazione mi perseguita per tu a la giornata. Sono
contenta che domani venga Leena. Mi sento un po’ stanca, ed è
molto più facile essere indipendenti quando c’è qualcuno lì con te.
5
Leena

Hamleigh-in-Harksdale è un luogo pi oresco quanto il suo nome.


Un paesino annidato tra due colline nella parte meridionale delle
Yorkshire Dales; mentre l’autobus percorre la strada della valle
intravedo i suoi te i e i suoi esili comignoli tra le rocce brune.
Non sono cresciuta a Hamleigh: mamma ci si è trasferita solo
quando Carla si è ammalata. Nella mia testa ci sono due versioni del
paese: metà dei ricordi sono cara erizzati da una dolce nostalgia
infantile in toni seppia, mentre l’altra metà è oscura e dolorosa,
segnata dal lu o. Mi sento stringere lo stomaco. Cerco di ricordare
come mi sentivo qui da piccola, la gioia di raggiungere questa svolta
della strada e vedere davanti a me i te i di Hamleigh.
Anche da adolescenti, quando ci azzuffavamo di continuo, io e
Carla facevamo pace per la durata della visita alla casa dei nonni.
Mentre mamma ci portava in macchina da Leeds brontolavamo sulle
feste che ci saremmo perse, ma non appena arrivavamo a Hamleigh
ci ricordavamo le persone che eravamo lì. Il sidro illegale e i baci con
i ragazzi più grandi sembravano un po’ assurdi, quasi frammenti
della vita di qualcun altro. Stavamo fuori tu o il giorno, a
raccogliere more in vecchi Tupperware con le crepe sul coperchio,
senza preoccuparci dei graffi sulle gambe appena depilate finché non
tornavamo a casa e ce li trovavamo in bella vista so o le gonne della
scuola arrotolate in vita.
Guardo i colori delle colline sfrecciare dal finestrino sporco
dell’autobus: ruggine, sfumature di verde, il grigio sabbioso dei muri
a secco. Le pecore alzano occhi insonnoliti al nostro passaggio. Sta
piovigginando; sento quasi l’odore fresco che la pioggia trasme e al
terreno, come se si fosse appena svegliato. Qui l’aria è più pulita.
Non sull’autobus, ovviamente. L’aria dentro l’autobus sa di sonno
viziato e dei panini speziati di qualcuno. Ma quando scenderò, so
che il primo respiro sarà celestiale.
La stessa Hamleigh è composta di tre strade appena: Lower Lane,
Middling Lane e Peewit Street, che in realtà avrebbe dovuto
chiamarsi Upper Lane, ma queste sono le stranezze dei paesini. Le
case sono per la maggior parte bassi co age in pietra calcarea con
irregolari te i di ardesia, però in fondo a Middling Lane c’è un
edificio nuovo: spicca come un herpes all’angolo del paese, con i suoi
sfacciati ma oni arancioni e le finestre contornate di nero. La nonna
lo disprezza. Ogni volta che le faccio notare che la Gran Bretagna ha
un bisogno disperato di nuove abitazioni a buon mercato, dice: «Solo
perché le monellacce come te continuano a spendere tanto per quei
bugiga oli di Londra», e devo amme ere che non ha tu i i torti,
economicamente parlando. Vorrei solo essere una delle monellacce
che davvero lo fanno, invece di spendere decine di migliaia di
sterline per affi are uno stile di vita da mostra di design.
Dalla fermata dell’autobus vado dri a a casa della nonna.
Passando davanti alla svolta per la strada di mamma mi trovo a
distogliere gli occhi, come quando si passa vicino a un incidente in
autostrada, con l’atroce consapevolezza di quello che accade ai
margini del tuo campo visivo.
La casa della nonna è la più bella del paese: Clearwater Co age, al
numero 5 di Middling Lane. Un vecchio te o in ardesia sconnesso, il
glicine che si arrampica sul muro della facciata, una porta rosso
rubino… La casa delle fate. Mentre risalgo il vio olo, il nodo di
angoscia annidato tra le costole si scioglie.
Sollevo il batacchio.
«Leena?» sento la voce della nonna.
Confusa, guardo a destra, poi a sinistra, poi in alto.
«Nonna!» strillo.
Mia nonna è a metà dell’albero di mele, a sinistra della porta
d’ingresso. È quasi all’altezza delle finestre al piano di sopra, con
ognuno dei piedi incastrato in un ramo, vestita di pantaloni kaki e
una maglia marrone, che si mimetizzano nel fogliame. Se non fosse
per la zazzera di capelli bianchi, forse non sarei nemmeno riuscita a
vederla.
«Che diavolo ci fai su quell’albero?»
«Sto potando!» urla lei. Agita verso di me un grosso a rezzo
appuntito. Sussulto. La cosa non mi rassicura affa o.
«Sei molto… in alto!» dico, cercando di avere ta o. Non voglio
dire che è troppo vecchia per farlo, ma non riesco a pensare ad altro
che a quell’episodio di 24 Hours in A&E in cui una signora anziana
era caduta da una sedia e si era ro a sei ossa. Quell’albero è molto,
molto più alto di una sedia.
La nonna comincia a lasciarsi scivolare giù. Dico davvero. Scende
velocissima.
«Fai piano! Non affre arti per me!» esclamo, affondando le
unghie nei palmi.
«Ecco qua!» La nonna fa addiri ura un salto per arrivare a terra, e
si strofina le mani sulle cosce. «Se vuoi una cosa fa a bene, fa ela da
solo» mi dice. «Sono mesi che aspe o il giardiniere.»
La guardo da capo a piedi. Sembra incolume. Anzi, è in forma
perfe a, sebbene un tantino stanca: ha un po’ di colore sulle guance
e i suoi occhi nocciola scintillano dietro gli occhiali cerchiati di verde.
Mi allungo per toglierle una foglia dai capelli, e li liscio nel loro
solito casche o ondulato. Lei mi prende la mano e la stringe.
«Ciao, tesoro» dice, e il suo volto si apre in un sorriso. «Una
cioccolata calda?»

La nonna fa la cioccolata calda con tu i i crismi: sul fornello, con la


panna e vero cioccolato. È puro piacere in una tazza. Carla diceva
sempre che se ne bevi più di una non avrai più fame per il resto della
giornata, e questa è la cosa che preferisco in assoluto.
Mi rendo utile, togliendo i pia i asciu i dalla rastrelliera vicino al
lavabo mentre la nonna mescola la cioccolata. Sono mesi che non
vengo qui – l’ultima volta è stata quando nonno Wade se n’è andato,
alla fine dell’anno scorso – ma tu o è esa amente uguale al solito. Il
legno arancione del ba iscopa e della cucina, i tappeti sbiaditi con i
loro motivi, le foto di famiglia pencolanti nelle cornici appese alle
pareti.
p
Non si capisce nemmeno che nonno Wade se n’è andato, o
piu osto che sia mai stato qui. Penso che non abbia portato niente
con sé a parte i vestiti. Clearwater Co age è sempre stata la casa di
nonna, non la sua. Il nonno si limitava a occupare una poltrona
nell’angolo del soggiorno, ascoltando la radio e ignorando chiunque.
È stato un tale shock quando se n’è andato con quell’insegnante di
ballo: non tanto perché pensassi che amava la nonna, quanto perché
non avrei mai immaginato che fosse il tipo da scappare con
qualcuno. È il genere di persona che ama avere qualcosa di cui
lamentarsi, ma non fa mai niente di concreto. Ho dovuto concludere
che l’insegnante di ballo si sia sobbarcata gran parte del lavoro di
seduzione.
«Sono così contenta che sei qui, tesoro» dice la nonna,
guardandomi mentre mescola la cioccolata calda nel suo pentolino
speciale.
«Mi dispiace. Avrei dovuto venire prima.» Giocherello con le
calamite a accate al frigo.
«Non ti biasimo perché sei rimasta a Londra» dice la nonna. «Io
alla tua età avrei fa o lo stesso, se avessi potuto.»
La guardo stupita. La nonna non parla spesso del passato: dice
sempre che preferisce guardare avanti che indietro. So che aveva un
lavoro che la aspe ava a Londra prima che incontrasse il nonno, a
vent’anni. Poi si sono sposati e si sono trasferiti qui, fine della storia.
È così che l’ha sempre messa giù: fine della storia.
Anche se adesso mi viene il dubbio che non dovesse per forza
andare così.
«Potresti ancora andare a Londra» dico. «Potresti persino
trasferirti lì, se volessi, ora che non c’è più il nonno a tra enerti.»
La nonna versa la cioccolata nelle tazze. «Oh, non essere sciocca»
dice. «Non posso filarmela a Londra, non quando tua madre ha
bisogno di me.»
Faccio una smorfia. «Se la caverà, nonna. Non è fragile quanto
pensi.»
A queste parole, la nonna mi guarda, come per dire: “E tu che ne
sai, eh?”.
Mi volto dall’altra parte e vedo il quaderno dei proge i della
nonna aperto sul tavolo. Quel quaderno la segue ovunque: lo tra a
nel modo in cui io tra o il mio telefono, terrorizzata se scopre di non
averlo in borsa, anche se sta solo andando a comprare il la e al
negozio.
«Dunque, cosa c’è oggi sulla lista di cose da fare?» chiedo, poi
rimango di sasso. «“Ha ancora i denti?”» Resto a bocca aperta.
«“Potrebbe essere una barba a le o?” Ma che roba è?»
La nonna mi strappa il quaderno di mano. «Niente!»
«Sei arrossita?» Penso di non aver mai visto mia nonna arrossire
prima.
Porta la mano alla guancia. «Non dire cretinate» dice. «Abbiamo
smesso di arrossire negli anni Sessanta.»
Rido e le scosto la mano dalla guancia. «No, no, sono decisamente
rosse» la informo. «Hai intenzione di dirmi che cosa sta succedendo?
È un nuovo proge o? Di solito non sono stravaganti fino a questo
punto.»
Lei stringe le labbra, e il rosse o color pesca si accumula nelle
rughe.
«Oddio, mi spiace, nonna.» La accompagno a sedersi al tavolo. «È
una cosa importante e mi sto comportando da idiota?»
«No, no» risponde lei, in tono non troppo convincente.
Cerco di riprendere il diario; dopo un a imo, rilu ante, me lo
lascia.
Scorro la lista che ha stilato. A questo punto, è evidente che cosa
sia. Avverto una specie di stucchevole calore dolceamaro, perché
oltre che essere buffa, oltre che essere così tipica di mia nonna,
questa lista ha anche qualcosa di triste.
Nonna tiene le spalle rigide; mi guarda diffidente, e io mi
prenderei a calci per essere stata così insensibile.
«Be’» dico «così non andiamo da nessuna parte.» Guardo di
nuovo la lista. «Basil è quello con i baffi e la spille a Prima i
britannici, no?»
«Già» dice la nonna, sempre diffidente.
«Ti piace?»
«Ecco…» La nonna esita. «Non proprio» confessa. «È una specie
di sciovinista.»
Prendo la penna e cancello il suo nome dalla lista.
«Un a imo!» dice la nonna. «Magari potrebbe… iniziare a
piacermi…»
Il suo tono mi fa sussultare. Sembra così stanca. Come se Basil
fosse il meglio in cui può sperare. Non è in sé: Eileen Co on non si
accontenterebbe mai di un uomo come Basil. Certo, è vero che si è
accontentata del nonno Wade, ma ho sempre avuto l’impressione
che sapesse che era stato un errore e che fosse rimasta con lui per
una specie di ostinata lealtà: il loro rapporto era più una
collaborazione a cui si erano costre i che un matrimonio. Quando
l’ha lasciata lei ha dato l’impressione di vederlo non tanto come un
tradimento, quanto come un a o di estrema scortesia.
«Regola numero uno della vita amorosa» dico alla nonna, nel tono
che uso quando Bee tentenna e pensa di richiamare uno dei tizi
disgustosi con cui è uscita la se imana prima. «Non si può cambiare
un uomo. Anche se ha ancora i denti. Secondo: il signor Rogers. Non
è il papà del prete?»
«È un uomo adorabile» dice la nonna in tono quasi speranzoso.
Sono felice di vedere che le sue spalle si rilassano un po’.
Scorro i pro e i contro. Non riesco a tra enere un verso che è metà
risata e metà sussulto quando leggo i commenti, poi interce o la sua
espressione e mi riscuoto. «Bene. Quindi è evidente che stai cercando
qualcosa di più… fisico rispe o a quello che il signor Rogers è
disposto a offrire.»
«Santo cielo, è una conversazione ben strana da avere con una
nipote» dice la nonna.
«E una volta al mese non è certo abbastanza spesso. Ci vorranno
secoli per conoscerlo, se lo vedi solo ogni qua ro se imane.»
Cancello il signor Rogers dalla lista. «Poi: ah, me lo ricordo il do or
Piotr! Ma questo va contro la regola numero due della vita amorosa,
nonna: non inseguire mai un uomo che emotivamente non è
disponibile. Se il do or Piotr ama ancora la sua ex moglie, sei
destinata a restare con il cuore spezzato.»
La nonna si strofina il mento. «Be’, un uomo può sempre…»
p p
Alzo il dito. «Spero sinceramente che tu non stia per dire
“cambiare”.»
«Mmh» dice la nonna, guardandomi cancellare il do ore dalla
lista.
«E infine…» continuo a leggere. «Oh, nonna, no, no e poi no.
Arnold della casa accanto? Il patrigno di Jackson Greenwood?»
«Ex patrigno, a questo punto» mi dice la nonna, con il malefico
guizzo del sopracciglio che usa quando è in modalità gossip.
«L’uomo più scontroso del mondo?» continuo, decisa a non
lasciarmi distrarre. «Ma tu meriti decisamente di meglio.»
«Per corre ezza dovevo scrivere i nomi di tu i» mi spiega la
nonna mentre faccio uno scarabocchio sopra Arnold. «È l’unico altro
scapolo di Hamleigh che abbia più di se ant’anni.»
Insieme, guardiamo la lista di nomi cancellati. «Be’» dico «è
sempre bene ricominciare da zero.»
Nonna incurva di nuovo le spalle, quindi le prendo le mani.
«Nonna, sono così felice che tu voglia trovare qualcuno» dico. «Sei
stata malissimo con il nonno e meriti una persona adorabile. Farò
assolutamente tu o quello che posso per aiutarti.»
«È gentile da parte tua, ma non c’è molto che tu possa fare. Il fa o
è che non conosco nessun uomo papabile» dice la nonna, prendendo
il fazzole o che ha infilato nella manica e soffiandosi il naso. «Ho
pensato che forse… potrei andare a Tauntingham e vedere se c’è
qualcuno lì…»
Ho delle visioni della nonna che vaga per le stradine della
sonnolenta Tauntingham con il quaderno sfoderato, prendendo
appunti mentre cerca un bell’ome o anziano.
«Non sono sicura che sia il metodo più efficace» dico con
prudenza. «Hai pensato ai siti di incontri su Internet?»
Lei fa una smorfia. «Non saprei da dove cominciare.»
Mi alzo. È un secolo che non mi sento così energica. «Vado a
prendere il computer» dico, già quasi fuori dalla porta.

Faccio una mezz’ora di veloci ricerche prima di impostare il profilo


della nonna. A quanto pare, le cara eristiche di un profilo di
successo sono sincerità, originalità e umorismo e (più di tu e le altre
g p
cose che ho appena de o) una buona foto del profilo. Appena finito,
però, mi rendo conto che abbiamo un problema
Non ci sono persone single della sua età registrate sul sito a meno
di un’ora di auto da qui. Non è che la nonna non conosca i signori
papabili della zona… è che non esistono. Bee si lamenta della
carenza di uomini decenti a Londra, ma non ha idea della sua
fortuna. Se nella tua ci à ci sono o o milioni di abitanti, dovrà pur
esserci qualcuno libero.
Mi giro lentamente sulla sedia per guardare la nonna.
Quando penso a lei, penso sempre a una inesorabile forza della
natura, capace di piegare il mondo al suo volere. Non riesco a
immaginare che al mondo ci sia un’altra anziana così giovanile. La
sua energia sfrenata non ha mai dato segno di esaurirsi mentre si
avvia verso gli o ant’anni: è davvero straordinaria per la sua età.
Eppure in questo momento non sembra quella nonna.
Ha avuto un anno davvero terribile. La morte di una delle sue
uniche due nipoti, sostenere mia madre nel lu o, poi il nonno Wade
che la pianta in asso… All’improvviso mi rendo conto che io
considero mia nonna invincibile, ma è assurdo: nessuno potrebbe
passare indenne tu o quello che ha passato lei. La guardo lì seduta,
mentre valuta la possibilità di uscire con Basil il nazionalista. Le cose
non vanno come dovrebbero a Clearwater Co age.
Lo saprei già, se ogni tanto fossi tornata a casa.
Riprendo il computer. Ogni volta che mi viene in mente che
lunedì non posso tornare al lavoro mi sento affli a, inutile,
spaventata. Ho bisogno di qualcosa da fare, di qualcuno da aiutare,
per sme ere di pensare a tu e le cose che ho sbagliato.
Cambio area di ricerca sul sito di incontri, e di colpo: buongiorno,
qua rocento uomini tra i se anta e gli o antacinque in cerca
d’amore.
«Mi è venuta un’idea» le dico. «Stammi a sentire, okay? Ci sono
centinaia di uomini papabili a Londra.»
La nonna si rigira tra le mani la tazza vuota. «Te l’ho de o, Leena:
tua mamma adesso ha bisogno di me qui. Non posso andarmene a
Londra.»
«Mamma starà benissimo.»
«Ah, già, come no?»
«Hai bisogno di staccare, nonna. Ti meriti di staccare. Andiamo.
Dimmi un po’: perché da giovane avresti voluto andare a Londra?»
«Perché volevo cambiare il mondo» dice la nonna con un
sorrise o. «Forse pensavo che Londra fosse il posto dove…
accadono le cose che contano. E volevo l’avventura. Volevo…» agita
teatralmente le braccia «… prendere un taxi con un meraviglioso
sconosciuto e lasciarmi accompagnare a casa. A raversare London
Bridge per qualche missione fondamentale, i capelli scompigliati dal
vento. Volevo essere una persona importante.»
«Nonna! Ma tu sei importante! Hamleigh andrebbe in pezzi senza
di te, tanto per cominciare. Quante volte avrai salvato il negozio del
paese, ormai? Cinque?»
Lei sorride. «Non sto dicendo di non aver mai fa o niente di utile.
Ho fa o tua madre, e lei ha fa o te e Carla, e tanto mi basta.»
Le stringo la mano. «Che lavoro era? Quello che hai rifiutato per il
nonno?»
La nonna abbassa gli occhi. «Era per un’associazione di
beneficenza. Stavano creando dei centri comunitari per i giovani
nelle zone povere. Immagino che avrei dovuto ba ere a macchina e
preparare il caffè. Ma mi sembrava un inizio. Avevo persino scelto
un appartamento, non lontano da dove vivi tu adesso, anche se
all’epoca il quartiere era molto diverso.»
«Saresti andata a vivere a Shoreditch?» chiedo, affascinata. «È
così…» Non riesco a immaginare come sarebbe mia nonna se avesse
acce ato quel lavoro. È un pensiero così bizzarro.
«Difficile crederlo?» chiede lei in tono secco.
«No! È così fantastico, nonna. Devi venire a stare da me. Possiamo
vivere un sacco di avventure a Shoreditch, proprio come avresti
voluto.»
«Non intendo lasciare tua madre, non ora» dice la nonna,
irremovibile. «E ho troppe cose in ballo per andarmene. Fine della
storia, Leena.»
Eccola di nuovo, con il suo “fine della storia”. Mi sento un po’
ele rizzata, come mi sentivo al lavoro; non provavo questo
formicolio da secoli. So che è la cosa giusta per la nonna: è proprio di
questo che ha bisogno.
All’improvviso mi viene in mente quello che ha de o Bee, sul
fa o che devo trovare me stessa, riprendere possesso di me. A
Londra mi sono nascosta, seppellendomi nel lavoro. Ho evitato mia
madre. In realtà ho evitato qualsiasi cosa. Ma ora ho due mesi per
rime ermi in carreggiata. E dato che non riesco nemmeno a guardare
la casa in cui è morta Carla…
Forse potrebbe essere questo il punto da cui partire.
«Nonna… se ci scambiassimo?» dico. «Se io venissi a occuparmi
di tu i i tuoi proge i, e tu ti prendessi il mio appartamento a Londra
e io restassi qui?»
La nonna alza lo sguardo. «Se ci scambiassimo?»
«Se ci scambiassimo di posto. Tu ti fai la vita di Londra! Cerchi di
uscire con qualcuno nella grande ci à, vivi la tua avventura…
ricordi a te stessa chi eri prima del nonno Wade. Mentre io verrò qui.
Per un po’ vivrò in campagna, cercherò di… rifle ere su tu o quello
che è successo, e mi occuperò dei tuoi piccoli proge i e… se ne ha
bisogno, aiuterò mamma. Farò tu o quello che tu fai per lei, sai,
commissioni o altro.» Di colpo, provo una leggera vertigine. Siamo
sicuri che sia una buona idea? È abbastanza estrema, anche per i
miei standard.
La nonna prende un’espressione assorta. «Tu rimani qui? E sarai
qui per Marian se ha bisogno?»
Capisco cosa sta pensando. Non lo dice mai, ma so che ha una
voglia disperata di convincere me e mamma a parlarci di nuovo da
quando Carla è morta. In realtà, penso che mamma se la stia
cavando molto meglio di quanto non pensi la nonna – certo non ha
bisogno di essere servita e riverita –, ma se la nonna ha bisogno di
sapere che farò tu o quello che lei fa per mamma, allora…
«Ma sì, certo, assolutamente.» Giro il computer nella sua
direzione. «Guarda qui, nonna. Qua rocento uomini aspe ano solo
di incontrarti a Londra.»
La nonna si rime e gli occhiali. «Santo cielo» dice, guardando le
fotografie sullo schermo. Abbassa di nuovo gli occhiali e il suo
sguardo scivola verso il basso. «Ma qui ho anche delle altre
g q
responsabilità. C’è il Comitato di vigilanza, ci sono Ant e Dec, c’è da
guidare il pulmino per il bingo… Non posso chiederti di sobbarcarti
tu o questo.»
Reprimo un sorriso alla lista di pesanti responsabilità della nonna.
«Non me lo stai chiedendo, sono io che mi offro» le dico.
C’è un lungo silenzio.
«Mi pare una follia» dice la nonna alla fine.
«Lo so, un po’ lo è. Ma è anche un’idea geniale, secondo me. Non
acce erò un no, e sai che quando lo dico non scherzo.»
La nonna sembra divertita. «Questo non si può negare.» Espira
lentamente. «Santo cielo. Pensi che riuscirò a gestire Londra?»
«Oh, ti prego. La domanda, nonna, è se Londra riuscirà a gestire
te.»
6
Eileen

Il giorno dopo, Leena è tornata a Londra, ha fa o le valigie ed è


tornata a Hamleigh. Non deve esserci rimasta più di un’ora. Non ho
potuto evitare di chiedermi se non avesse paura che, fermandosi più
a lungo, sarebbe tornata in sé e avrebbe cambiato idea.
Perché questa dello scambio è un’idea folle, inutile negarlo. Da
squilibrati.
Ma è anche brillante, ed è il genere di idea che un tempo sarebbe
venuta a me. Prima che mi abituassi così tanto alla mia sedia
preferita agli incontri del Comitato di vigilanza e alla mia poltrona
verde nel soggiorno e al conforto di incontrare, giorno dopo giorno,
le stesse persone. Prima che Wade mi risucchiasse tu e le idee
brillanti e folli.
Più Leena parla di passeggiare per Hyde Park e frequentare i suoi
caffè preferiti di Shoreditch, più mi sento emozionata. E sapere che
Leena è qui, a Hamleigh, con sua madre… be’, andrei anche più
lontano di Londra se questo significasse che quelle due finalmente
passeranno un po’ di tempo insieme.
Liscio una pagina nuova nel mio diario dei proge i,
sprofondando nella poltrona. Il segreto della riuscita di questa
trovata sarà assicurarsi che Leena sia impegnata finché rimane qui. Il
suo capo potrà anche pensare che ha bisogno di rallentare un
tantino, ma l’ultima volta che Leena ha fa o qualcosa lentamente è
stato nel 1995 (è stata molto, molto lenta a imparare ad andare in
bicicle a) e se non ha niente da fare c’è il rischio che vada a pezzi.
Quindi le lascerò una lista con alcuni dei miei proge i. Potrà
occuparsene lei in mia assenza.

Proge i
g
1) Portare a passeggio il cane di Jackson Greenwood mercoledì
alle se e del ma ino
2) Guidare il pulmino per il bingo il lunedì di Pasqua alle 17.
De agli a pag. 2
3) Partecipare agli incontri del Comitato di vigilanza ogni venerdì
alle 17. (Prendere appunti, altrimenti nessuno, la se imana
dopo, ricorderà di cosa abbiamo parlato. Prendere anche dei
bisco i in più se è il turno di Basil: lui porta sempre dei
pacche i scaduti che ha preso al negozio “tu o a una sterlina”, e
non vanno bene per inzupparli nel tè.)
4) Aiutare a organizzare la festa del calendimaggio. (Io sono la
presidente del comitato, ma è meglio chiedere aiuto a Betsy: a
lei piace gestire questo genere di eventi.)
5) Fare le pulizie di primavera in giardino. (Per favore, partire dal
capanno. È da qualche parte so o l’edera.)

Ecco fa o. Le cose di cui occuparsi non mancano.


Lancio un’occhiata all’orologio della sala da pranzo: sono le sei
del ma ino, e oggi parto per Londra. Inutile stare tanto a pensarci,
dice Leena. Meglio bu arsi.
So o l’eccitazione si nasconde una certa quantità di nervosismo.
Ho avuto molta paura, nell’ultimo anno, ma è tantissimo, tantissimo
tempo che non provo il brivido di non sapere cosa succederà.
Deglutisco con sforzo, mi tremano le mani. Spero che Marian
capisca che un po’ di tempo da sola con Leena è la cosa giusta per
entrambe. E se a raverserà un altro dei suoi periodi difficili, so che
Leena penserà a lei. Devo fidarmi che lo farà.
«Hai fa o le valigie?» chiede Leena, spuntando sulla soglia in
pigiama.
Aveva un’aria così sfinita quando è arrivata, sabato: la sua pelle, di
solito calda e dorata, era giallognola e unta, ed era dimagrita. Ma
oggi i cerchi scuri so o gli occhi si sono a enuati, e per una volta ha
i capelli sciolti, che le danno un aspe o più rilassato. È una stupenda
chioma lunga e castana, ma lei non fa che tirarsela indietro e
impiastrarla di lozioni. I capelli crespi di cui si lamenta tanto
rifle ono la luce come un’aureola, incorniciandole il visino con il
naso adorabile e quelle sopracciglia scure e volitive … l’unica cosa
buona che le abbia lasciato suo padre.
So di essere parziale, ma penso che sia di una bellezza mozzafiato.
«Sì, ho preparato tu o» le dico, un tremito nella voce.
Leena a raversa la sala da pranzo, mi viene accanto e mi circonda
le spalle con un braccio. «È questa la lista delle cose che devo fare?»
chiede con aria divertita, mentre studia il foglio davanti a me.
«Nonna… quante pagine sono?»
«Sono solo alcune informazioni supplementari» spiego.
«C’è uno schema del telecomando della tivù?»
«Sì, è molto complicato.»
«E… nonna, queste sono tu e le tue password? È il tuo pin?»
«In caso ti serva la mia carta di credito di emergenza. È nel
casse o. Posso scriverti anche questo, se vuoi.»
«No, no, la documentazione sui tuoi dati personali è più che
sufficiente, direi» dice Leena, tirando fuori il telefono dalla tasca del
pigiama e guardando il display. «Grazie, nonna.»
«Un’altra cosa» dico. «Mi serve quello.»
«Scusa?» chiede lei, poi segue il mio dito puntato. «Il mio
telefono? Hai bisogno di prenderlo in prestito?»
«Lo voglio per questi due mesi. Io posso darti il mio. E mi prendo
anche quel tuo piccolo computer portatile tanto chic. Tu puoi usare il
mio fisso. Questo scambio non è solo per il mio bene, sai? Devi
lasciarti alle spalle la tua vita di Londra, e questo significa liberarti di
tu i questi marchingegni a cui stai sempre incollata.»
Lei mi fissa stranita. «Darti il mio computer e il mio telefono per
due mesi? Ma… non posso…»
«Non puoi? Non ce la fai a stare senza?»
«Certo che ce la faccio» mi affre o a dire. «Ma non capisco… la
pausa mi sta bene, ma non voglio tagliarmi fuori dall’umanità,
nonna.»
«Con chi vuoi parlare davvero? Basta che mandi un messaggio,
no?, dicendo che per due mesi avrai un altro numero. Andiamo,
possiamo fare subito la lista delle persone a cui vuoi comunicarlo.»
«Ma… e le e-mail? Il lavoro…»
Alzo le sopracciglia. Lei esala piano, gonfiando le guance.
p g p g g
«È un telefono, Leena, non un arto» dico. «Su. Dammelo.»
Faccio per prenderlo. Lei lo tiene stre o, poi, forse rendendosi
conto di quanto sia patetico, lascia la presa. Continua a fissarlo
mentre io prendo il mio telefono cellulare dal casse o e lo accendo.
«Quel coso» dice «sembra uscito dal Neolitico.»
«È in grado di fare chiamate e mandare messaggi» dico. «Altro
non ti serve.»
Guardo di nuovo l’orologio mentre il telefono si me e in
funzione. Mancano solo tre ore al treno. Cosa dovrei indossare?
Vorrei aver rifle uto con più serietà sulla questione della gonna
pantalone. Non mi dispiace il nuovo paio che Betsy mi ha prestato,
ma non voglio sembrare fuori moda di decenni.
«Qualcuno sta bussando?» chiede Leena, con aria stupita.
Per un a imo restiamo in silenzio, con i due telefoni sul tavolo tra
di noi. C’è un ba ito insistente che arriva da qualche punto, ma non
è la porta d’ingresso.
Sbuffo. «Dev’essere Arnold. Lui bussa sempre alla finestra della
cucina.»
Leena storce il naso. «E perché?»
«Non ne ho idea» rispondo, irritata. «C’è un cancello nella siepe
che divide i nostri due giardini, e lui sembra pensare che questo gli
dia il diri o di invadere la proprietà a suo piacimento.»
«Che stronzo» dice Leena con disinvoltura mentre andiamo in
cucina.
«Shh!»
«Ma scusa, Arnold non sta diventando sordo?»
«No, quello è Roland, il marito di Penelope.»
«Oh, be’. In questo caso: che stronzo» ripete Leena in un finto
sussurro, facendomi ridere.
Quando entriamo in cucina, il faccione di Arnold campeggia
enorme nella finestra. Il vetro è appannato dal suo fiato, ma vedo
comunque il naso aquilino, i capelli incolti e spiritati, e gli occhiali a
fondo di bo iglia. Lo guardo in cagnesco.
«Che c’è, Arnold?» dico, rifiutando apposta di aprire la finestra.
Ogni conversazione è uno scontro di volontà quando si tra a di
Arnold. Bisogna mantenere la propria posizione su ogni singolo
punto, anche su quelli insignificanti di cui non ti importa davvero.
«Quei ga i!» strilla.
«Ti sento bene anche a volume normale, grazie» dico, col tono più
gelido che posso. «Sai bene che non ci sono i doppi vetri.» Mi
tormenta sempre anche su questo.
«Quei tuoi ga i hanno mangiato tu e le mie viole!»
«Sciocchezze» gli dico. «I ga i non mangiano le viole.»
«I tuoi sì» riba e Arnold, furioso. «Ti spiace aprire la finestra o
farmi entrare, così possiamo parlare come persone adulte e civili?»
«Ma certo» dico con un sorriso educato. «Basta che vai alla porta
d’ingresso e bussi, così vediamo se sono in casa. Come persone
adulte e civili.»
Con la coda dell’occhio noto che Leena mi guarda con la bocca un
po’ aperta.
«Lo vedo che sei in casa» dice Arnold, e la sua espressione feroce
mi fa capire che l’ho punto sul vivo. «Fammi entrare dalla porta
laterale, dài.»
Il mio sorriso educato non vacilla. «È bloccata.»
«Ti ho vista entrare e uscire solo stama ina per portare fuori la
spazzatura!»
Alzo le sopracciglia. «Che fai, Arnold, mi spii?»
Lui farfuglia. «Ma no» dice, «certo che no. Solo che… là fuori si
scivola dopo che ha piovuto. Dovresti davvero me ere una ringhiera
vicino a quella porta.»
Questo mi fa proprio perdere la pazienza. Le ringhiere sono per le
vecchie che non riescono a mantenere l’equilibrio. Quando arriverò a
quel punto, spero di accedere con la massima grazia agli orrori dei
montascale e dei deambulatori, ma visto che al momento sono in
grado di nuotare per venti vasche nella piscina di Daredale e riesco
persino a farmi una corse a se sto perdendo l’autobus, non mi piace
l’insinuazione che io sia così barcollante da aver bisogno di una
ringhiera.
Ovviamente, è questo il preciso motivo per cui Arnold l’ha
insinuato. Quel vecchio rimbambito.
«Be’» dice Leena tu a allegra «fino a questo punto è stata una
conversazione costru iva, ma stama ina abbiamo molto da fare,
quindi forse sarebbe meglio procedere. Li hai visti con i tuoi occhi, i
ga i che mangiavano le viole?»
Arnold valuta l’ipotesi di mentire. È un bugiardo tremendo: non
riesce a inventarsi una fro ola senza una lunga pausa.
«No» amme e alla fine. «Ma so che sono stati loro. Sono sempre lì
a mangiare i miei fiori non appena sbocciano.»
Leena annuisce comprensiva. «Be’, Arnold, non appena avrai le
prove, facci uno squillo. Io baderò alla casa di Eileen per i prossimi
due mesi, durante la sua assenza, quindi forse è con me che
parlerai.»
Arnold sba e gli occhi qualche volta. Io cerco di non sorridere.
Leena sta usando la sua voce professionale, e incute una
meravigliosa soggezione.
«D’accordo?» incalza Leena.
«Teneteli d’occhio, quei ga i, però» dice Arnold prima di
congedarsi, e poi torna a varcare il cancello tra i nostri due giardini.
«Sarà meglio che sostituisci quel cancello con una bella
staccionata» dice Leena, guardandolo esasperata. «Mi hai fa o
morire, nonna. Non ti avevo mai sentito fare la stronza prima.»
Apro la bocca per protestare ma mi ritrovo a sorridere.
«A Londra andrai alla grande» dice Leena, strizzandomi il
braccio. «Ora troviamo il look perfe o per il tuo debu o nella società
londinese, che ne dici?»

Sono nel corridoio della casa di mia figlia e la stringo con troppa
forza. Al di sopra della sua spalla vedo il soggiorno; il le o di Carla
non c’è più, ma le sedie sono ancora disposte ad arco a orno allo
spazio in cui era collocato. La stanza non ha più ripreso il suo
vecchio asse o.
«Starò benissimo, non preoccuparti» mi dice Marian con
convinzione quando ci stacchiamo. «È un’idea meravigliosa. Ti
meriti una pausa, mamma.»
Ma sta di nuovo per me ersi a piangere. È troppo tempo che non
vedo quegli occhi nocciola asciu i; adesso ci sono delle chiazze nere
q g
so o, come piccoli lividi. È sempre stata così bella, la mia Marian: i
ragazzi la inseguivano per strada, le ragazze copiavano la sua
acconciatura, i genitori guardavano me e Wade chiedendosi dove
l’avessimo trovata. Ha la stessa carnagione dorata di Leena, e i suoi
capelli mossi sono screziati di miele, l’invidia di ogni parrucchiere.
Ma sul suo viso ci sono rughe nuove, che le piegano verso il basso gli
angoli della bocca, e a raverso i so ili leggings da yoga che indossa
vedo quanto è diventata scheletrica. Non voglio lasciarla per due
mesi. Cosa mi è venuto in mente?
«No, non ci pensare» dice Marian, scuotendo un dito nella mia
direzione. «Sto bene. Starò bene. E poi qui ci sarà Leena!» Mi rivolge
un sorriso furbo, e c’è un accenno della vecchia Marian, maliziosa e
impulsiva. «Pensavo che nemmeno tu saresti riuscita a convincere
Leena a venire quassù e ad alloggiare nel raggio di un chilometro
dalla sua orribile madre per due mesi.»
«Lei non pensa che tu sia una madre orribile. E poi l’idea è stata
sua!»
«Ah, sì?»
«Certo!» esclamo. «Ma in effe i penso che vi farà bene.»
Marian sorride, stavolta più debolmente. «È fantastico, mamma.
Sono certa che quando tornerai io e lei ci saremo rappacificate, e
tu o andrà meglio.»
Marian, sempre o imista, anche negli abissi della sofferenza. Le
stringo le braccia e la bacio sulla guancia. È questa la cosa giusta da
fare. Siamo impantanate, noi della famiglia Co on. Se vogliamo
andare da qualche parte, dobbiamo darci una mossa.

Con mia grande sorpresa, quando arriviamo alla stazione di


Daredale troviamo ad aspe arci sul binario quasi tu i i membri del
Comitato di vigilanza: li ha accompagnati il do or Piotr con il
pulmino della scuola, che Dio lo benedica. È un lungo viaggio per
tu i da Hamleigh, quindi sono commossa. Quando una Betsy
lacrimevole mi infila in mano il suo numero di casa – «in caso non te
lo sia scri o da qualche parte» – mi trovo a chiedermi perché mai sto
lasciando Hamleigh-in-Harksdale. Poi guardo il do or Piotr, e Basil
che sfoggia la sua spille a con la bandiera inglese sul bavero di
gg p g
tweed, e poi Leena, in piedi da sola, magra e tirata. La mia
determinazione torna.
È questa la cosa giusta per la mia famiglia. E poi quest’anno
compio o ant’anni. Se voglio un’avventura, non posso più
rimandare.
Leena mi aiuta a salire sul treno e ripone la valigia nella
cappelliera, estorcendo promesse da diversi dei miei compagni di
viaggio che mi aiuteranno a tirarla giù quando arriveremo a Londra.
Ci salutiamo con un abbraccio, e lei scende dal treno appena in
tempo.
Saluto i miei amici dal finestrino, e vedo lo Yorkshire scorrere via,
e mentre sfrecciamo tra i campi in direzione di Londra sento un
improvviso impeto di vita, un’accelerazione, una nuova speranza,
come un levriero appena liberato.
7
Leena

La casa di mia madre è in Lower Lane: una ville a semi


indipendente, con una porta grigio tortora e un batacchio di o one.
Esito un istante sulla soglia, poi prendo la chiave che mi ha dato la
nonna: la mia l’ho lasciata a Londra. Un lapsus freudiano, è proprio
il caso di dirlo.
Trovo un tantino imbarazzante introdurmi a casa di mia madre,
ma bussare sarebbe ancora più imbarazzante. Un anno e mezzo fa
avrei fa o irruzione senza il minimo scrupolo.
Resto nel vano della porta, cercando di calmare il respiro. È
orribile quanto l’atrio di ingresso sia come l’avevo lasciato: un debole
profumo di detergenti, il vecchio tavolo di legno, il folto tappeto che
ti dà la sensazione di camminare sopra un divano. La mamma ha
sempre amato le case – è un’agente immobiliare – ma ora capisco che
questo posto ha qualcosa di démodé: lei non ha mai cambiato i
mobili del precedente proprietario, e il caldo giallo crema delle
pareti non ha niente a che fare con l’audace carta da parati della casa
in cui sono cresciuta. Questa è stata comprata per ragioni
pragmatiche: è stata comprata per Carla, non per mamma.
È atroce essere di nuovo qui. Sento lo stesso vuoto allo stomaco di
quando avvisti un ex ragazzo a una festa, un senso delle vostre due
vite che si schiantano orribilmente nel presente.
Ed eccola lì, in fondo al corridoio: la porta del soggiorno. Mando
giù la saliva. Non riesco nemmeno a guardarla. Allora mi concentro
sull’enorme fotografia incorniciata di Carla sopra il tavolo ai piedi
delle scale. Mamma ce l’ha messa quando Carla è morta, e io la
detesto: entrare in questa casa è come arrivare a una veglia funebre.
Mia sorella non assomiglia per niente alla persona che era: è vestita
elegante per andare al ballo della scuola, i capelli raccolti con due
g p p
ciocche che le ricadono sulla fronte stile Keira Knightley in Love
Actually. Si è tolta il piercing al naso, e la foto è stata sca ata prima
che si facesse quelli alle sopracciglia; senza, non sembra lei. Ha
sempre de o che al suo viso mancava qualcosa senza qualche
anellino qua e là. “Sarebbe come se tu uscissi senza cinque strati di
lacca” diceva per prendermi in giro, e mi tirava la coda di cavallo.
Mamma appare in cima alle scale. Indossa un maglione sformato
e un paio di jeans, e mentre scende i gradini ha un che di irrequieto,
come se l’avessi sorpresa mentre stava preparando una cena con
molte portate o mentre correva fuori per incontrare una persona
importante.
«Leena, ciao» dice, fermandosi di colpo in fondo alle scale. È
molto più magra di prima, tu a gomiti e ginocchia. Distolgo lo
sguardo.
«Ciao, ma’.»
Non mi sposto dallo zerbino. Lei si avvicina con prudenza, come
se potessi esplodere. Vedo due versioni di mia madre insieme, come
fogli sovrapposti di carta da lucido. C’è questa, frenetica, fragile, sul
punto di cedere; la donna che ha aiutato mia sorella a morire e non
ha voluto ascoltare quando le dicevo che avevamo una scelta, delle
alternative, farmaci sperimentali. E l’altra, la madre che mi ha
cresciuto, un turbinio di capelli color miele e nobili ideali. Impulsiva,
brillante e irrefrenabile, e sempre, immancabilmente, dalla mia parte.
La rabbia che provo al solo guardarla è allarmante. Odio questa
sensazione, il modo in cui mi si diffonde nelle viscere come
inchiostro nell’acqua, e in questo momento mi sovviene quanto sia
stato stupido costringermi a tornare qui per o o se imane intere.
Vorrei sme ere di essere arrabbiata, vorrei perdonarla, ma poi la
vedo e ricordo, e le emozioni mi assalgono.
Aveva ragione Fi : era l’ultima cosa di cui avevo bisogno dopo
l’a acco di panico della se imana scorsa.
«Non so come possiamo fare, a essere sincera» dice mamma con
un sorriso di scuse. «Ma sono davvero felice che sei qui. È un inizio.»
«Già. Volevo solo dirti che, sai, come ha de o la nonna, ti aiuterò
per qualsiasi cosa tu abbia bisogno. Con la spesa, qualsiasi cosa…»
Mi lancia una strana occhiata. «La nonna ti ha de o che avevo
bisogno di aiuto con la spesa?»
In realtà, la nonna non è mai stata molto specifica su cosa
comporti aiutare mamma, anche se lo fa sempre suonare
imprescindibile.
«Ma no, solo quello che ti può servire» dico io, a disagio. Quel
nodo compa o di angoscia ha ripreso il suo posto tra le mie costole.
Mamma inclina la testa. «Non vuoi entrare?»
Ancora non lo so. Pensavo che ci sarei riuscita, ma ora che sono
qui non ne sono più certa. Cerco una distrazione, qualcosa da dire, e
il mio sguardo si posa su un’immagine appesa alla parete, la foto
preferita di mia madre: un tempio indonesiano con in primo piano
uno yogi snodato nella posizione dell’albero. Mi pare che abbia
cambiato la cornice: è strano che abbia aggiornato quella e
nient’altro. Di solito si piazzava davanti a quella foto quando aveva
avuto una bru a giornata al lavoro, o quando io e Carla facevamo le
bizze, e diceva: «E va bene, ragazze: per dieci secondi, andrò lì».
Chiudeva gli occhi e si proie ava in quel luogo con
l’immaginazione, poi, quando li riapriva, diceva: «Eccomi tornata.
Ora sto meglio».
Il mio sguardo si sposta sul piano del tavolo. È tu o coperto di…
cosa? Sassolini? Cristalli?
«Cosa sono quelle pietre?»
Mamma abbocca subito. «Oh, i miei cristalli! Sono meravigliosi. Li
ho comprati online. Questo è ossidiana fiocco di neve – serve per il
dolore del lu o, ti purifica –, mentre quello lì è acquamarina, che
infonde coraggio, e poi…»
«Mamma, ma…» Ricaccio indietro il resto delle parole. Non
dovrei dirle che sono un mucchio di stronzate, ma santo cielo, è così
frustrante guardarla a raversare le solite fasi. All’inizio è così, in
piena effervescenza, sicura che quelle cianfrusaglie risolveranno
tu o. Poi, quando capisce che l’ossidiana (guarda un po’!) non fa
sparire per magia la sofferenza di aver perso una figlia, crolla di
nuovo. La nonna pensa che non ci sia niente di male, ma a me pare
crudele aggrapparsi ogni volta a queste speranze. Non c’è nessuna
pozione magica per il dolore. Non si può far altro che andare avanti
a testa bassa, anche se fa un male cane.
«Per te ho preso questa» dice, raccogliendo un sasso a lato del
mucchio. «Pietra di luna. Esalta l’intuito e porta in superficie le
emozioni sepolte. È per i nuovi inizi.»
«Non sono sicura che qualcuno vorrebbe le mie emozioni in
superficie in questo momento.» Dovrebbe essere una ba uta, ma non
mi riesce bene.
«Hai la sensazione che ti distruggerebbero, se affiorassero» dice la
mamma. «Ma non è così. Tu i i miei episodi mi sono stati utili, a
modo loro. Ne sono fermamente convinta.»
La guardo stupefa a. «Quali episodi?»
La mamma aggro a la fronte, incrociando il mio sguardo. «Scusa»
dice, venendo verso di me. «Pensavo che tua nonna ti avesse
accennato qualcosa. Non importa. Prendi la pietra di luna, Leena.»
«Non voglio la pietra di luna. Quali episodi?»
«Tieni» dice lei, allungando la mano. «Prendila.»
«Non la voglio. Cosa dovrei farci?»
«Me ila nel tuo le o.»
«Non la prendo.»
«Acce ala, su. Piantala di essere così o usa!»
Me la ficca in mano, e io indietreggio; cade sullo zerbino con un
insopportabile tonfo sordo. Restiamo lì per un po’, a guardare quel
ridicolo sassolino tra i nostri piedi.
Mamma si schiarisce la gola, poi si china a raccoglierlo.
«Ricominciamo» dice, con più dolcezza. «Accomodati. Ti preparo un
tè.»
Indica il soggiorno e io esito.
«No, dovrei andare. La nonna mi ha lasciato una intera lista di
cose da fare e dovrei… dovrei portarmi avanti.»
C’è un lungo silenzio.
«Okay. Possiamo almeno abbracciarci?» chiede la mamma alla
fine.
Tentenno un istante, poi spalanco le braccia. Lei sembra fragile, le
sue scapole sono troppo appuntite. Questo abbraccio ha qualcosa di
stonato: non è un vero abbraccio, più un incastro di membra, una
formalità.
Una volta fuori, mi trovo a respirare a fondo, come se là dentro
avessi tra enuto il fiato. Torno verso la casa della nonna, in fre a,
ancora più in fre a, finché non mi me o a correre, oltrepassandola e
imboccando la strada principale. Almeno sento placarsi quella
rabbia dilagante, e anche l’infelicità e la commiserazione mollano la
presa.
Solo quando rientro in casa mi rendo conto che mia madre mi ha
fa o scivolare in tasca la pietra di luna. Bisogna concederglielo:
quando ha deciso di fare una cosa, quando ha stabilito che è la cosa
giusta, non molla. In questo ho preso da lei.
E temo che la cosa faccia parte del problema.

Di solito, quando mi sento così, mi me o a lavorare. Se possibile,


qualcosa che preveda dati in quantità: le cifre sono meglio delle
parole per schiarirti le idee. È la loro durezza, come una matita
so ile rispe o al carboncino.
In assenza di lavori da eseguire, ho fa o appello alla lista della
nonna. Mi sto dando al giardinaggio.
Finora non mi fa impazzire.
Non se ne vede la fine. Ho riempito due sacchi di edera e poi mi
sono resa conto che ce n’era anche dall’altra parte del capanno, e
sugli alberi, e che allungava i suoi molesti tentacoli verde scuro so o
il capanno, e adesso ho scoperto che in realtà c’è più edera che
capanno, quindi se la tolgo cosa resterà?
Mi massaggio la spalla, guardando le colline dietro il vecchio
muro di pietra alla fine del giardino; le nuvole sono un’ombra
minacciosa di grigio. Un’o ima scusa per sme ere di confrontarmi
con l’enormità dell’impresa.
Torno all’interno. È strano essere al Clearwater Co age senza la
nonna, a fare il tè nelle sue tazze di porcellana a fiorellini, a
muovermi come se fosse casa mia. Ma Ethan verrà a stare qui nei
weekend, quindi non mi sentirò troppo sola. Anzi, penso che questa
permanenza sarà perfe a per noi dopo un anno così difficile:
weekend insieme, farci le coccole accanto al fuoco, parlare di
adorabili sciocchezze, senza mai nominare la Selmount…
Oh, la Selmount! Parola proibita. Tu i i pensieri sulla Selmount
devono essere lasciati alla porta del Clearwater Co age; non
possono varcare la soglia. Come i vampiri. E Arnold, secondo gli
appunti della nonna.
Sento un colpo alla porta: stavolta senza dubbio è quella
d’ingresso, non la finestra della cucina. Mi do un’occhiata. La mia
felpa preferita di Buffy è coperta di terriccio e di pezzi di… non se
nemmeno bene cosa sia, una poltiglia di foglie morte. Non sono in
condizione di ricevere visite. Prendo in considerazione l’idea di
fingere di non essere in casa, ma siamo a Hamleigh: chiunque sia ha
probabilmente saputo da Arnold che ero fuori in giardino. Mi scrollo
dai capelli i detriti più vistosi e vado ad aprire.
La persona alla porta è il genere di vecchie a che si rivela essere
un alieno in un episodio del Doctor Who. È davvero un’immagine
troppo perfe a di una vecchia signora. Capelli grigio-bianchi
permanentati, lindo foulard al collo, occhiali agganciati a una
catenella, borsa stre a con entrambe le mani. Ricordo che faceva
parte del gruppe o di anziani che erano venuti a salutare la nonna
alla stazione, e sono certa di averla vista in compagnia dei nonni
quando ero piccola. Deve tra arsi di Betsy.
«Ciao, cara» mi dice. «Come vanno le cose senza Eileen?»
Ba o le palpebre. «Be’, ecco…» dico «è passato solo un giorno
quindi… tu o bene. Grazie.»
«Stai portando avanti tu i i suoi proge i, vero?»
«Sì, sì, mi sembra di essere abbastanza in pari. Se la nonna ce la fa,
penso di potermela cavare anch’io.»
Betsy mi guarda con aria molto seria. «Non c’è nessuno come
Eileen.»
«No, certo che no. Volevo dire che… Oh!»
In qualche modo, senza che io nemmeno mi scostassi, Betsy è
nell’ingresso e si dirige con una certa determinazione verso il
soggiorno. Per un a imo resto a guardarla stranita, prima di
ricordarmi le buone maniere.
«Gradisci una tazza di tè?» dico, chiudendo la porta.
p
«Nero, con due cucchiai di zucchero!» dice Betsy, accomodandosi
in una poltrona.
Vado in cucina scuotendo la testa. Solo immaginare un mio vicino
che si autoinvita nel mio appartamento di Londra… Potrei come
minimo chiamare la polizia.
Una volta che io e Betsy siamo entrambe sedute con i nostri tè,
cala il silenzio. Lei mi guarda piena di aspe ativa, ma io non ho idea
dell’argomento di cui dovrei parlare. È facile parlare con la nonna,
perché lei è mia nonna, ma per il resto non so proprio di cosa si
chiacchieri con le persone anziane. L’unica altra persona anziana che
conosco è il nonno Wade, e lui è sempre stato uno stronzo, quindi in
genere lo ignoravo.
Cerco di immaginare che sia un incontro con un nuovo cliente e
faccio appello alle capacità di conversazione che in genere riesco a
evocare nei momenti di necessità, ma Betsy mi precede.
«Allora come stai, Leena, tesoro?» chiede, prendendo un sorso di
tè.
«Oh, molto bene, grazie» dico.
«No, davvero» chiede lei, e mi inchioda con quegli acquosi occhi
azzurri, tu a sincerità e determinazione.
Mi agito a disagio. «Sto davvero bene.»
«È… santo cielo, più di un anno, ormai, no, da quando hai perso
Carla?»
Odio questa espressione, “perso Carla”. Come se non avessimo
fa o abbastanza a enzione e l’avessimo lasciata andare via. Non
abbiamo le parole giuste per parlare della morte: la sminuiscono
tu e.
«Già. Un anno e due mesi.»
«Che cara ragazza era!»
Fisso il mio tè. Dubito che Betsy trovasse Carla molto simpatica…
mia sorella era troppo sfacciata e insolente per essere il tipo di
ragazza che Betsy approverebbe. Stringo i denti, sorpresa di sentire il
calore a orno agli occhi che indica l’imminenza delle lacrime.
«E tua madre… Per lei è stata molto dura, vero?»
Come ha fa o questa conversazione a diventare così intima, così
in fre a? Bevo qualche altro sorso di tè: è bollente e mi sco a la
q
lingua.
«Ognuno elabora il lu o in modo diverso.» Trovo la ba uta molto
utile nelle conversazioni come queste. In genere chiude il discorso.
«Sì, ma lei è praticamente… implosa, no? Mi chiedo se riesca a
gestire la cosa.»
Fisso Betsy. Dall’intimo stiamo passando al maleducato, o
sbaglio?
«Non possiamo fare qualcosa?» dice Betsy, posando il tè. «Ci
perme eresti di aiutare?»
«E che cosa potreste fare voi?» La frase mi esce troppo tagliente,
con un’enfasi sul voi che non avrei voluto me ere, e vedo che Betsy
si ritira, offesa. «Voglio dire… non vedo come…»
«Capisco» dice Betsy, piccata. «Non posso rendermi utile in alcun
modo.»
«Ma no, è che…»
Lascio la frase a metà, e il suo telefono squilla, assordante nel
silenzio. Betsy ci me e un secolo a rispondere, armeggiando con la
custodia di pelle.
«Pronto?»
Dal telefono proviene una voce metallica, indistinta ma
indubbiamente alta.
«Ci sono prosciu o e formaggio nel frigo, se vuoi farti un panino»
dice Betsy.
Altri suoni metallici.
«Be’, io me o la maionese su un lato e… Sì. Sono certa che… va
bene, Cliff, tesoro, torno a casa. Sì. Certo. Arrivo appena posso.»
Faccio una smorfia. Davvero l’ha appena chiamata a casa per
fargli un panino? Mi sembra così assurdo… se Ethan cercasse di fare
una cosa del genere, io… A dire la verità, probabilmente scoppierei a
ridere, perché sarebbe così assurdo che saprei che sta scherzando.
Per la generazione di Betsy dev’essere diverso: cinquant’anni fa non
doveva apparire strano che una donna preparasse tu i i pasti del
marito, immagino.
Betsy ripone il telefono nella borsa, poi cerca di alzarsi troppo in
fre a senza darsi slancio sufficiente. Ricade sulla poltrona,
impotente, come una di quelle bambole con un peso nel posteriore.
p q p p
«Resta» dico, sapendo di aver de o tu e le cose sbagliate. «Sono
certa che tuo marito può aspe are, se vuole…»
«Mio marito non può aspe are» dice Betsy tagliente. «Devo
andare.»
Faccio per aiutarla ad alzarsi.
«No, no, tu o a posto» dice lei. Una volta in piedi, mi lancia
un’altra occhiata molto severa. «Spero tu capisca che cosa ti stai
sobbarcando qui a Hamleigh, Leena.»
Non riesco a evitare un mezzo sorrise o. Lo sguardo di Betsy si fa
ancora più serio.
«Immagino che sembri tu o molto facile per una persona come te,
ma Eileen qui fa tantissimo, e abbiamo bisogno che tu tenga il passo.
Ti assumerai anche le sue responsabilità nel comitato di
pianificazione del calendimaggio, da quel che ho capito…»
«Ma certo» dico io, e stavolta riesco a rimanere seria.
«Okay, bene. Presto passerò a darti la lista dei tuoi compiti. Ciao,
Leena» dice, e poi, con fare baldanzoso, si dirige verso la porta.
8
Eileen

È onestamente un miracolo che io sia ancora qui. Dal mio arrivo a


Londra, ho sfiorato la morte cinque volte.

1) Sono stata quasi investita da un coso che, come ho poi


imparato, si chiama “birriciclo”: un bizzarro veicolo mosso da
una manciata di giovani schiamazzanti che pedalano e bevono
birra allo stesso tempo. Ho dovuto praticamente lanciarmi
dall’altra parte della strada per evitarlo. Sono un po’
preoccupata per le mie ginocchia, ma è già tanto che siano
ancora a accate al resto del corpo.
2) Ho tenuto la sinistra sulla scala mobile (non è socialmente
acce abile, a quanto ho capito).
3) Ho mangiato una cosa “saltata in padella” da Fi (un cuoco
pessimo. Agghiacciante. Cercherò di insegnargli un paio di
cose e durante la mia permanenza).
4) Ho cambiato alla stazione di Monument (la cartina dice che è la
stessa cosa di Bank, ma non ne sono convinta. Il tragi o da un
treno all’altro mi è sembrato durare secoli. Le mie gambe erano
già provate dalla corsa per me ermi in salvo dal birriciclo; ho
dovuto riposarmi vicino a un vagabondo che suonava l’ukulele.
Lui è stato molto comprensivo. Mi ha fa o sedere
sull’amplificatore).
5) Ho conosciuto il ga o che vive nella casa accanto, un feroce
soriano con mezzo orecchio mancante. Mi si è lanciato contro
sulle scale, soffiando, e poi è andato a schiantarsi contro la
ringhiera. Ben gli sta.
Detesto amme erlo, ma sono esausta, e non poco scossa. Londra è
troppo frenetica, e tu i sono così infelici. In metropolitana, un uomo
mi ha coperta di insulti perché ero troppo lenta; quando mi sono
fermata per tirare fuori la cartina in Oxford Street una signora mi è
venuta addosso e non ha nemmeno chiesto scusa. Poi, una volta
tornata nel condominio di Leena, ho incontrato i vicini di so o, una
giovane coppia stravagante che portava i sandali con le calze, e
quando ho cercato di a accare discorso ho visto la donna lanciare
un’occhiata esasperata al marito.
Mi sento come un pesce fuor d’acqua. Ho visto solo tre persone
che sembravano avere più di se ant’anni in tu o il giorno, e uno di
loro, ho poi scoperto, era un artista di strada travestito da Einstein.
Devo dire che mi ha a raversato la mente il pensiero che sarebbe
un po’ più facile se non fossi da sola – se, per esempio, con me ci
fosse Wade –, ma Wade in Oxford Street non ci sarebbe mai venuto.
Non sento la sua mancanza, ma a volte mi manca l’idea di un marito,
qualcuno che possa porgermi il braccio quando devo scendere
dall’autobus, o tenermi l’ombrello mentre pago una tazza di tè.
Devo restare o imista, però. La mia avventura è appena agli inizi,
ed è normale che in questa fase ci siano delle difficoltà. Devo solo
tenermi occupata. Domani sera l’amica di Leena, Bee, verrà
all’appartamento per aiutarmi con gli “incontri online”. Leena dice
che Bee è una vera esperta. Chissà, magari per giovedì mi sarò già
aggiudicata un appuntamento.
Il la e nel frigo di Leena ha cominciato a coagularsi; lo verso nel
lavandino con un sospiro, e prendo la borsa per un’altra sortita.
Stavolta, senza la distrazione dei vicini maleducati in sandali e calze,
quando arrivo a pianterreno mi guardo bene a orno. Tra le scale e la
porta d’ingresso del palazzo si apre un grande spazio con tre divani
in angolazioni strane, uno con delle sospe e macchie scure, gli altri
con delle macchie chiare altre anto sospe e. La moque e è
consumata, ma ci sono due splendide vetrate che fanno entrare il
sole. È stata concepita come area comune, immagino… peccato che
nessuno la sfru i.
Quando torno dalla spesa, il soriano feroce salta giù dal divano
macchiato di scuro e viene a strofinarmi la testa contro le gambe.
g
Non cammina esa amente in linea re a. Spero che non si sia
procurato una lesione al cervello con l’incidente della ringhiera.
Stama ina ho intravisto la padrona del ga o, mentre usciva
dall’edificio con il trolley. È un’anziana ingobbita, che sta diventando
calva. Esito, guardando il ga o che si avvia a zigzag verso le scale.
Se fosse Ant o Dec, vorrei che qualcuno me lo dicesse. Forse qui le
cose funzionano in un altro modo, ma una buona vicina è una buona
vicina, ovunque uno sia.
Salgo le scale e busso alla porta della padrona del ga o, posando
la borsa della spesa tra i piedi.
«Chi è?» sento rispondere.
«Buongiorno» dico. «Sono la nonna di Leena.»
«Chi?»
«La nonna di Leena.»
«La nonna di chi?»
«Leena. La sua vicina» dico con pazienza. Forse la signora sta
perdendo qualche colpo. Sta cominciando a succedere a Penelope: è
una cosa tristissima, anche se il lato positivo è che sembra aver
dimenticato che non può soffrire Roland. Per quei due, è una specie
di seconda luna di miele.
«Quale?» chiede la donna. Ha la voce roca come se avesse bisogno
di schiarirsi la gola. «La lesbica, la principessina elegante o l’altra?»
Sono confusa. Martha dev’essere la lesbica: mi ha raccontato tu o
della sua ragazza dopo che ho fa o la gaffe di chiederle chi fosse il
padre del bambino. E, per quanto adori mia nipote, se non indossa
una tuta, il suo guardaroba sembra limitato ad affari con le immagini
delle star televisive. Non la definirei proprio “elegante”. Dunque
rimane…
«L’altra?» provo.
«Quella con i capelli color topo tirati indietro? Quella bassa,
sempre di corsa, sempre imbronciata?»
«Leena ha dei capelli bellissimi» esclamo, poi mi mordo la lingua.
«Ma… sì. Credo sia lei.»
«Oh, bene. Grazie, ma non sono interessata» dice la signora, e la
sento allontanarsi.
«A cosa?» chiedo stupita.
p
«A qualsiasi cosa voglia» dice la signora.
Aggro o la fronte. «Ma io non voglio niente.» Comincio a capire
perché Arnold si offende tanto quando non lo faccio entrare in casa.
Non è piacevole avere una conversazione così. «Sono venuta a
parlarle del suo ga o.»
«Ah.» Sembra più diffidente che mai, ma la sento avvicinarsi di
nuovo alla porta, e poi la apre di un paio di centimetri. Due grandi
occhi nocciola mi scrutano dallo spiraglio.
«Temo che abbia avuto uno scontro con la ringhiera delle scale»
dico in tono colpevole. «O meglio, ci è andato a sba ere.»
Mi guarda in cagnesco.
«Le ha dato un calcio, eh?» chiede la donna.
«Cosa? Certo che no! Non prenderei mai a calci un ga o!» dico,
sconvolta. «Ne ho due anch’io, sa. Due ga i neri che si chiamano
Ant e Dec.»
Gli occhi si spalancano, e la porta si apre un po’ di più. «Adoro i
ga i neri» dice la signora.
Sorrido. «Be’, allora sono certa che potremo diventare amiche»
dico, infilando la mano nello spiraglio per stringere la sua. «Mi
chiamo Eileen.»
Impiega un tempo così lungo a prendere la mia mano tesa che
quasi la lascio cadere, ma poi, alla fine, le sue dita si chiudono sulle
mie. «Letitia» dice. «Vuole… forse…» Si schiarisce la gola. «Non è
che vuole entrare? Solo per spiegarmi del ga o» aggiunge in tu a
fre a.
«Volentieri» dico, ed entro.

La casa di Letitia è stravagante come lei, ma non come ci si


aspe erebbe. Lei ha qualcosa della… senzate o, ma l’interno del suo
appartamento è tu a un’altra storia. Il posto è pieno di anticaglie e
curiosità. Vecchie monete, disposte a spirali sul piano di tavoli in
legno di quercia; piume di oro luccicante e blu pavone, agganciate
alle molle e su un filo del bucato; delicate ciotole di porcellana
impilate con cura dentro armadie i con le gambe esili e le maniglie
in ferro ba uto. È davvero straordinaria. Un incrocio tra un riga iere
e un museo particolarmente affollato, e forse una stanza per
bambini.
Sorseggio la terza tazza di tè che ho bevuto da quando ho varcato
la soglia e le sorrido oltre la collezione di vasi e recipienti che occupa
la maggior parte del tavolo da pranzo. Mi sento meglio di quanto sia
stata tu o il giorno. Che donna affascinante vive alla porta accanto! È
incredibile che Leena non me ne abbia mai parlato, anche se sembra
che loro due non si siano incrociate molto spesso. Trovo difficile
crederlo, considerato che c’è solo una parete so ilissima a dividere le
loro vite, ma da quel che ho capito Letitia non parla con nessuno dei
suoi vicini. O piu osto, nessuno dei vicini parla con lei.
«Nessuno?» chiedo. «Nemmeno una sola persona è venuta a
presentarsi quando ti sei trasferita in questa casa?»
Letitia scuote la testa, facendo tintinnare i lunghi orecchini. Le
appesantiscono i lobi delle orecchie, conferendole un’aria piu osto
mistica. «Nessuno mi rivolge la parola» dice lei, senza particolare
rancore. «Mi sa che sei la prima persona con cui scambio una parola
da…» esita «da venerdì scorso, quando mi hanno consegnato la
spesa.»
«Oh, cielo. E che mi dici della stanza comune al piano di so o?
Hai provato a me erti lì? A quel punto le persone ti saluterebbero
passando.»
«Una volta ci ho provato» dice Letitia. «Ma qualcuno si è
lamentato. Ha de o che nuoceva all’immagine del condominio.
Quindi adesso me ne sto quassù, dove non do fastidio a nessuno.»
«Ma è orribile! Non ti senti sola?» chiedo, poi mi pento. «Scusami,
sono stata troppo invadente.»
«In effe i, mi sento sola» dice Letitia dopo un a imo. «Ma ho
Solstice. La ga a. Che cammina sempre in quella maniera un po’
strana, comunque» aggiunge. Avevamo iniziato a parlare del ga o,
ma poi siamo passate ad altri argomenti, e a questo punto sono
passate tre ore.
«Be’. Sono molto dispiaciuta che Leena non sia mai venuta a
trovarti.»
Letitia fa spallucce. Noto le macchie sul suo vestito a tunica e mi
preoccupo.
p p
«Non è quasi mai in casa, da quel che ne so, e quando c’è è con
quel suo fidanzato. Quello con i capelli impomatati. A me non piace
per niente. Mi sembra…» Letitia agita una mano, facendo oscillare
un acchiappasogni sopra la sua testa, che a sua volta fa tintinnare
uno scacciapensieri viola e argento. «Mi sembra unto.»
Ooh, questa Letitia mi sta proprio simpatica.
Lei guarda la mia tazza. Stiamo bevendo tè con le foglie: sul fondo
della mia tazza c’è una collezione di resti bruni. «Vuoi che te le
legga?» chiede.
«Sai leggere le foglie di tè?»
«Facevo l’indovina» dice Letitia. «Mi sedevo in Trafalgar Square e
leggevo la mano, una volta.»
Letitia è forse la donna più interessante che abbia mai incontrato.
E pensare che se ne sta chiusa qui, un giorno dopo l’altro, senza
un’anima che venga a parlarle! Mi chiedo quante altre persone
affascinanti siano rintanate in questi minuscoli appartamenti in giro
per la ci à.
«Che emozione! Ti prego, fai pure» dico, spingendo la tazza verso
di lei.
Lei me la restituisce. «Sollevala con la mano sinistra e falla girare,
almeno tre volte» dice.
Io obbedisco, guardando le foglie spostarsi nell’ultimo goccio di tè
in fondo alla tazza. «Così?»
«Sì, bravissima.» Prende la tazza e poi lascia gocciolare con cura il
liquido restante nel pia ino, lasciando solo le foglie. La rigira con
enorme lentezza, respirando profondamente, assorta, e mi rendo
conto che sto tra enendo il fiato. Non sono sicura di credere che si
possa leggere il futuro nella tazza di qualcuno, ma in fondo che cosa
ne so? Per un a imo mi chiedo cosa avrebbe de o Wade – sarebbe
molto critico – e poi scaccio quel pensiero. Chi se ne importa di quel
che avrebbe pensato quella vecchia ciaba a!
«Mmh» dice Letitia.
«Che c’è?» chiedo speranzosa.
Letitia stringe le labbra, mormora di nuovo, e poi alza gli occhi
con un’espressione di scuse.
«Non… non vedi niente?» chiedo, cercando di sbirciare nella
tazza.
«Be’, qualcosa sì» dice Letitia, strofinandosi il mento. «È
abbastanza… chiaro.»
Spinge la tazza verso di me, girandola in modo da avere il manico
verso di lei.
Io guardo le foglie. Le spalle di Letitia iniziano a tremare prima
che io veda quello che vede lei; quando scoppio a ridere, lei si sta
praticamente sganasciando, con le lacrime agli occhi, e la sua tunica
macchiata rimbalza a ogni scroscio di risa.
Le foglie hanno la forma di… genitali. Genitali maschili. Non
sarebbe potuto essere più chiaro se avessi cercato di disporle apposta
così.
«E cosa significa, eh?» chiedo, quando infine riprendo fiato.
«Penso significhi che stanno arrivando buone notizie» dice Letitia,
asciugandosi gli occhi. «A meno che non voglia dire a me che questa
storia delle foglie di tè è un mucchio di balle.»
Mi me o la mano davanti alla bocca per il suo linguaggio, poi
scoppio di nuovo a ridere. Non mi sentivo così bene da… boh. Non
lo ricordo nemmeno.
«Verrai di nuovo a trovarmi?» chiede Letitia.
Allungo la mano scansando i vasi sul tavolo. «Tu e le volte che
vuoi.» Indico la tazza. «Immagino che vorrai sapere cosa ne è della
tua piccola predizione, no?»
«Non c’è niente di piccolo in questo caso» dice Letitia, e ridiamo
di nuovo.
9
Leena

Sono le sei e ventidue, e sono sveglia. Questa sembra essere la mia


nuova routine. Vado in bagno, poi cerco di tornare a dormire, ma ho
lasciato la porta socchiusa e Ant impiega venti secondi al massimo
per infilarsi dentro, individuare la mia faccia e acciambellarvisi
sopra.
Lo spingo via con un grugnito e mi alzo. Oh, era Dec, non Ant.
Ba ezzare i suoi indistinguibili ga i Ant e Dec come quei due
presentatori sempre in coppia è proprio il genere di scherzo maligno
e a lungo termine che piace a mia nonna anche se immagino che,
interrogata, si fingerebbe innocente e direbbe che è stata un’idea del
nonno Wade.
Al piano di so o, dopo aver dato da mangiare ad Ant/Dec – che
miagolano a turno per tu e le scale, senza quasi prendere fiato tra i
versi lamentosi – guardo insonnolita l’assortimento di tè dietro il
bollitore, tu i disposti in scatole di vecchi bisco i con etiche e
meticolose. Santo cielo, mi manca la macchine a del caffè di Fi . Né
il tè né il caffè solubile sono capaci di levarti quella particolare
voglia.
Oggi è mercoledì, il che significa che devo portare a passeggio il
cane di Jackson Greenwood; ieri sera sono rimasta sveglia fino a
tardi per preparare premie i per cani fa i in casa con quello che
sono riuscita a trovare in frigo. Ho fa o un po’ di ricerche su come
portare a passeggio i cani, e pare che i premie i siano una parte
cruciale del procedimento. All’ora in cui me ne sono resa conto, i
negozi – o meglio, il negozio, al singolare – erano chiusi, quindi ho
dovuto darmi un po’ da fare. Ora, in un sacche o sulla credenza, ci
sono dei cube i appiccicosi a base di carne trita, uova e cereali
schiacciati. Hanno un aspe o ribu ante.
p
Mentre l’acqua bolle, fisso il cibo per cani e mi prendo un a imo
per chiedermi che diavolo sto facendo della mia vita, e poi – dato che
questi pensieri non portano quasi mai a nulla di fru uoso, ed è un
po’ tardi per cambiare programma – mi preparo una tazza di tè.
Mi avventuro nel corridoio con il mio tè e vedo una le era so o la
porta. È indirizzata a “Leena Co on” in una grafia larga e incerta.
Dentro c’è una lista scri a a mano, con l’intestazione:
“Responsabilità del comitato di programmazione del
calendimaggio, da trasferire a Leena Co on, mentre Eileen Co on,
da tempo co-presidente del comitato, è in congedo.”
In congedo! Per poco non mi va di traverso il tè.

1) Brillantini
2) Lanterne
3) Potatura alberi – organizzare
4) Chioschi per mangiare
5) Trovare finanziatori
6) Ghirlande
7) Gabine i chimici
8) Cartelli
9) Parcheggio
10) Costumi per la sfilata

Decisamente ha destato il mio interesse. Sembra un proge o


divertente: non ho mai organizzato eventi prima, e a giudicare da
questa lista la nonna si occupa di buona parte della logistica:
parcheggio, cartelli, chioschi del cibo. E… brillantini. Qualsiasi cosa
significhi. Devo chiedere chiarimenti a Betsy.
Sento quel calore nella pancia, quella scintilla di eccitazione che si
accendeva ogni volta che al lavoro mi veniva assegnato un nuovo
proge o, e all’improvviso penso al mio splendido business plan in
colori coordinati per la “B&L Boutique Consulting”. I file sono su
Dropbox; dopo potrei aprirli sul computer della nonna. Il calore
aumenta, e finisco il tè con una sorsata, riguardando la lista.
“Trovare finanziatori” è stato cancellato. Ricordo che la nonna mi
ha accennato che sperava di trovare degli sponsor per la sagra del
calendimaggio, in modo che i profi i dei biglie i potessero essere
devoluti all’associazione benefica contro il cancro che ci ha tanto
aiutato quando Carla era malata. Forse si è arresa? Prendo una
penna dal tavolo del corridoio e me o un asterisco su quella voce.
Un’altra tazza di tè, e sono fuori dalla porta. Sono abbastanza
curiosa di rivedere Jackson Greenwood. Quando venivo a trovare i
nonni da bambina, lo vedevo spesso, perché viveva con Arnold: era
un ragazzo taciturno, imbronciato, che non faceva che passeggiare
nel cortile con il vecchio cane alle calcagna. Jackson era il tipo di
bambino che tu i consideravano “problematico”, anche se in realtà
non aveva fa o niente di male, nello specifico. Era solo un po’
musone.
A quanto pare adesso insegna alla scuola elementare della zona.
Solo che… i conti non tornano. Nella mia testa, i maestri delle
elementari sono sorridenti e allegri e dicono cose come: “Hai quasi
indovinato!”, mentre Jackson teneva sempre il broncio.
Oggi vive in uno dei nuovi isolati all’angolo di Hamleigh; mentre
mi avvicino al suo complesso residenziale, mi colpisce quanto
sembri stranamente bidimensionale sullo sfondo ombroso delle
colline, come un rendering al computer di come apparirebbe un
palazzo una volta costruito. I giardini sono grigi e uniformi alla luce
dei lampioni, tu i erba ispida e ghiaia, ma il cortile di Jackson è un
tripudio lussureggiante di vegetazione. Lo ha trasformato in un orto.
Dio solo sa che cosa ne penseranno i vicini: i loro giardini sono molto
più in tono con il complesso, con vasi in terraco a di rosmarino e
qualche tralcio addomesticato di vite che si arrampica sui graticci
accanto alle porte.
Al mio colpo alla porta risponde un fragoroso latrato di
eccitazione, che si interrompe bruscamente. Faccio una smorfia.
Sospe o che qualcuno sia appena stato rimproverato.
Quando Jackson apre la porta, non ho tempo di guardarlo, perché
un ammasso di pelo nero che si trascina dietro il guinzaglio mi ha
appena colpita in pancia bu andomi a terra.
«Ahia!» Sono a errata sull’osso sacro, e il polso ha a utito l’urto
della caduta, ma il problema principale che mi trovo ad affrontare al
momento è il cane, che mi sta leccando la faccia con grande
entusiasmo. «Ciao, non è che… ti spiace… Cristo…»
Mi sta seduto sopra e ha la mia catenina tra i denti. Oh, e adesso
ha cominciato a giocarci al tiro alla fune. Fantastico, è davvero…
«Porca miseria, mi dispiace.» Una manona si abbassa e afferra il
cane del collare. «Hank. Seduto.»
Hank si stacca da me e si me e seduto. Purtroppo, porta con sé la
mia collana; gli penzola dai denti, con il ciondolo che oscilla dalla
catenina ro a. Seguo lo sguardo adorante di Hank rivolto al suo
padrone.
È strano, guardare Jackson. È senza dubbio il bambino che
conoscevo, ma è come se prima fosse tu o accartocciato e adesso
qualcuno lo avesse stirato: la mandibola serrata si è rilassata, le
spalle curve si sono raddrizzate, e lui si è trasformato in un gigante
dalle spalle grandi e dagli occhi sonnolenti, con una massa
disordinata di capelli castani. C’è quello che sembra caffè sul davanti
della sua maglie a, e un buco enorme nel ginocchio sinistro dei
jeans. A orno al braccio che adesso tiene il guinzaglio di Hank si
vede una striscia bianca al posto in cui dovrebbe esserci l’orologio: i
suoi avambracci sono un po’ bruciati dal sole, un’impresa notevole
nella primavera inglese.
D’impulso direi che la sua espressione è qualcosa a metà tra lo
stupore e la timidezza, ma ha uno di quei volti indecifrabili che
possono significare che sei profondo e misterioso oppure che non hai
molto da dire, quindi non ne sono proprio sicura.
«Ma tu non sei Eileen Co on» dice. Il suo accento dello Yorkshire
è più forte di quando era giovane, o forse sono stata via troppo
tempo.
«In realtà, tecnicamente sì. Sono Leena. Ti ricordi di me?»
Lui sba e gli occhi. Dopo qualche istante, li spalanca. «Leena
Co on?»
«Già!»
«Ah.» Dopo qualche lunghissimo istante, Jackson sposta lo
sguardo verso l’orizzonte e si schiarisce la gola. «Mmh» dice. «Sei
diventata… diversa. Cioè, hai un aspe o diverso.»
«Anche tu!» dico. «Sei molto più…» Arrossisco. Dove voglio
andare a parare con questa frase? La prima parola che mi è venuta in
mente è “virile”, che non è una cosa da dire ad alta voce. «Ho sentito
che adesso insegni alle elementari» mi affre o ad aggiungere.
«Sì, è così.» Si passa una mano tra i capelli. Adesso gli stanno
quasi ri i sulla testa.
«Bene!» dico, guardando Hank, che ha mollato la catenina e ora
sta tentando l’impresa senza dubbio abbastanza frustrante di cercare
di riafferrarla senza pollici opponibili. «Immagino che questo sia il
cane!»
Sto starnazzando troppo. Perché starnazzo così?
«Già» dice Jackson, schiarendosi di nuovo la gola. «Lui è Hank.»
Aspe o. «Fantastico!» dico alla fine. «Bene. Quindi devo portarlo
a passeggio?»
Jackson esita, una mano ancora sulla testa. «Eh?»
«Il cane. Devo portarlo a passeggio?»
Jackson guarda Hank. Hank ricambia lo sguardo, e adesso la sua
coda spazza metodicamente la mia collanina avanti e indietro sulla
soglia.
«Dov’è Eileen?» chiede Jackson dopo un’altra lunga pausa carica
di sorpresa.
«Ah, non te l’ha de o? È andata a Londra per due mesi. Io le sto
guardando la casa, e mi occupo di tu e le sue incombenze: le cose e
che fa in paese, sai.»
«Hai dei grossi stivali da riempire, come si dice da queste parti»
dice Jackson, gra andosi la nuca. È un gesto che un altro uomo
userebbe come scusa per sfoggiare i bicipiti, ma lui ne sembra
davvero inconsapevole. Ha una specie di sensualità scombinata,
aiutata da un paio di occhi molto azzurri e dal classico naso da
giocatore di rugby, storto da un lato per essere stato ro o.
«Sono sicura che ce la farò!» dico.
«Hai mai portato a passeggio un cane, prima?»
«No, ma non ti preoccupare. Sono molto ben preparata.» Non
serve dirgli che ho fa o molte ricerche sul dog-si ing, sulla razza
Labrador e sul percorso preciso che la nonna mi ha de o di seguire
per la passeggiata.
p p gg
«Ha solo o o mesi» dice Jackson, gra andosi di nuovo la testa. «È
ancora piu osto incontenibile. In realtà chiedo a Eileen di portarlo a
passeggio al mercoledì solo perché è così brava con lui, e questo mi
dà la possibilità di andare a scuola prima, e di programmare un po’
le lezioni prima che arrivino i ragazzi…»
Faccio per riprendermi la collanina; Hank guaisce e subito cerca
di prendermi la mano in bocca. Senza volere strillo, ritirando la
mano, e poi impreco. È proprio quello che non si deve fare, questo lo
so. Avrei dovuto prima allungare la mano dalla parte del dorso.
«Hank! Non è educato. Seduto.»
Hank si siede con la testa penzoloni, il ritra o della vergogna e
dello sconforto. Non sono convinta che ci sia un vero rimorso da
parte sua. Quegli occhioni da cane affli o stanno ancora sbirciando
la mia catenina.
Mi schiarisco la gola. «Quindi basta che lo riporto fra un’ora?»
«Grazie. Se sei sicura… Io sarò a scuola. Tieni» dice Jackson,
porgendomi una chiave. «Fallo entrare nel giardino d’inverno e poi
chiudi.»
Fisso la chiave che ho in mano. So che non siamo del tu o
sconosciuti, ma non parlo con Jackson da circa dieci anni, e sono un
po’ sorpresa che sia disposto a garantirmi un accesso permanente
alla sua abitazione. Non ho tempo per rifle erci, però, perché Hank
sta contemplando la possibilità che la chiave sia un bisco ino e mi
sta saltando addosso per indagare.
Jackson lo tira indietro e lo me e seduto. «Piccolo delinquente.
Non ho mai incontrato un cane così difficile da addestrare» dice
mestamente, scuotendo la testa, ma gra andolo comunque dietro le
orecchie.
Ah, bene. Un cane difficile.
«Sei sicura di farcela?» chiede Jackson, forse notando la mia
espressione. Sembra dubbioso.
Dopo essermi quasi fa a mordere, in effe i, sono un po’ meno
entusiasta di portare a passeggio questo cane, ma se Jackson pensa
che non ce la farò, io devo farcela per forza, quindi non c’è altro da
aggiungere.
«Staremo alla grande, non è vero, Hank?»
g
Hank mi salta addosso estasiato. Io strillo e perdo l’equilibrio.
Comincio a pensare che Google non mi abbia preparato fino in fondo
per questa esperienza.
«Allora andiamo, su!» dico, con la fiducia che riesco a racimolare.
«Ciao!»
«A presto» dice Jackson mentre imbocchiamo il vio olo a razzo.
«Se hai qualsiasi problema, basta che…»
Penso che Jackson stia ancora parlando, ma io non sento più
niente perché Hank è davvero molto ansioso di andare. Santo cielo,
non ho quasi bisogno di darmi la spinta per camminare, Hank mi sta
trascinando con sé… oh, merda, è sulla strada, è… bene, ecco di
nuovo… ma cosa sta mangiando? Dove l’ha preso?
Il percorso che a raversa il paese per raggiungere i campi aperti
rappresenta i dieci minuti più lunghi della mia vita. Senza contare
che incrociamo praticamente ogni singolo abitante di Hamleigh-in-
Harksdale: sembra che abbiano tu i scelto questo preciso momento
per uscire di casa, e guardarmi mentre vengo trascinata sul
marciapiede da un Labrador su di giri.
Un vecchio cerca di superarmi sul suo scooter ele rico per tu a la
lunghezza di Middling Lane. È seminascosto da un’enorme mantella
per proteggersi dalla pioggerellina; a raverso la plastica, mi urla:
«Dovresti tenerlo al piede!».
«Sì!» dico. «Grazie!»
«Eileen fa così!» mi urla il vecchio, ormai alla mia altezza.
«Buono a sapersi» dico allegramente, mentre Hank cerca di
slogarmi la spalla. «Piede, Hank» provo, con la voce a arzilla che si
usa con i bambini o con i cani. Hank non mi considera nemmeno.
«Sono Roland!» dice l’uomo in scooter. «Tu devi essere Leena!»
«Già, sono proprio io. Piede, Hank! Piede!»
Hank si ferma di bo o per annusare qualche odore interessante e
io gli frano addosso. Mentre sono a terra, mi lecca la faccia. Nel
fra empo Roland coglie l’occasione per completare trionfante il
sorpasso, cosa che mi infastidisce oltre ogni dire, perché anche se
non avevo ammesso che fosse una gara ho chiaramente perso.
Quando finalmente siamo arrivati al confine del paese e fuori
dalla vista di occhi indagatori, costringo Hank a fermarsi e mi
g g
appoggio a un albero. Per la miseria, più che una passeggiata è una
marcia forzata. Come cavolo fa mia nonna a gestire questa bestia?
Mi guardo a orno: ricordo questi campi. Con il bru o tempo
hanno un’aria diversa, ma io e Carla facevamo sempre dei picnic qui
da piccole; una volta lei è rimasta intrappolata tra i rami di
quest’albero ed è scoppiata in un pianto disperato, che non si è
interro o nemmeno quando le ho dato istruzioni per aiutarla a
scendere, un passo alla volta.
Hank mi riporta al presente stra onando il guinzaglio. Tira così
disperatamente che è riuscito a sollevare dal terreno le zampe
anteriori. Sono abbastanza sicura che Internet dicesse di non lasciare
che un cane tiri al guinzaglio: dovrei incoraggiarlo a venire verso di
me, no?
Prendo uno dei premie i fa i in casa e lo chiamo per nome; lui si
lancia, divora il cibo, poi continua a tirare come se niente fosse. La
procedura si ripete altre tre volte. I premie i si sono rido i in
poltiglia nel sacche o; sento i resti di quella sbobba so o le unghie.
Sconfi a, riprendo la marcia e cammino veloce a orno al
perimetro del campo. Di tanto in tanto azzardo un o imistico
“piede” o tiro Hank al mio fianco, ma per la maggior parte, se devo
essere onesta, vengo portata io a passeggio da questo cane.
Stranamente, visto il commento di Jackson sui “grossi stivali da
riempire”, al momento sto davvero indossando gli stivali della
nonna: non ne ho un paio mio e io e la nonna portiamo lo stesso
numero. Gli stivali mi sfregano i calcagni da quando sono uscita dal
Clearwater Co age, e adesso ho anche un’enorme vescica su uno
degli alluci. Faccio un tentativo fallito di bloccare Hank, poi mi chino
a togliermi lo stivale torturatore.
Ho la situazione so o controllo. Ovvio. Non si può allentare la
presa con un cane come Hank. Peccato che… non so come,
saltellando su un piede solo lo stivale mi cade, e nel tentativo di non
appoggiare sul fango il piede scalzo, a quanto pare, lo lascio andare.
Hank parte come un proie ile. Sta correndo a tu a birra, con le
zampe davanti e dietro che quasi si incrociano nel mezzo, dire o con
feroce determinazione verso i campi in lontananza.
«Merda! Merda!» Sono partita di corsa, ma ho solo uno stivale, e
correre con uno stivale è molto complicato – un po’ come fare da sola
una corsa a tre gambe – e dopo solo qualche passo inciampo e cado
di nuovo. Hank ormai è lontanissimo. Mi rime o in piedi a fatica, in
preda al panico e senza fiato, oddio, oddio, non lo vedo nemmeno
più… è… è… dov’è finito?
Torno di volata a prendere lo stivale, ci caccio dentro il piede e
parto all’inseguimento. Non ho mai corso così forte in tu a la mia
vita. Dopo qualche minuto di corsa alla cieca, recupero un minimo
di lucidità e mi rendo conto che sarebbe meglio procedere in modo
almeno vagamente metodico, quindi prendo a zigzagare tra i campi,
senza fiato. A un certo punto mi me o a piangere, il che non facilita
certo lo sprint, e alla fine, quando è passata quasi un’ora, crollo so o
un albero in preda ai singhiozzi.
Ho perso il cane di Jackson. Prendere il posto della nonna doveva
essere facile, riposante, qualcosa in cui non potevo fallire. E invece è
orribile. Dio solo sa che cosa potrebbe succedere a Hank, tu o solo.
Se arrivasse su una strada principale? Se qualcosa… qualcosa lo
mangiasse? Nelle Yorkshire Dales c’è forse qualche animale che
mangia i cuccioli? Oddio, perché diavolo sto piangendo tanto?
Mi rialzo dopo qualche a imo, perché stare seduta immobile è
ancora peggio che correre. Continuo a chiamarlo con tu o il fiato che
ho in gola, ma c’è un tale vento che quasi non mi sento nemmeno io.
Una se imana fa ero in piedi in una sala riunioni a esporre un piano
in sedici punti per assicurare il consenso degli azionisti a
un’iniziativa di ristru urazione aziendale. Ora sto piangendo in un
campo e continuo a urlare “Hank” nel vento con i piedi scorticati e i
capelli – che senza dubbio a questo punto saranno un disastro totale
– che mi frustano la faccia. Non posso fare a meno di pensare che sto
reagendo malissimo. Di solito sono brava a gestire le emergenze, no?
Sono certa che Rebecca ha de o questo l’ultima volta che mi ha
lodato.
Mi aggrappo a questo pensiero. Cerco di riprendere fiato. Non c’è
altro da fare: devo tornare a Hamleigh. Non ho il numero di Jackson
(errore madornale: come ho potuto non pensarci?), e lui deve sapere
che cos’è successo.
Provo un senso di nausea. Mi odierà. È ovvio. Mi odio perfino io
in questo momento. Oh, povero Hank, da solo nei campi:
probabilmente non ha idea di cosa fare ora che si è reso conto di
avermi perso. Sto singhiozzando al punto che non riesco a respirare.
Devo riprendere il controllo. Andiamo. Andiamo, che cosa mi
prende?
La traversata di Hamleigh mi era sembrata terribile all’andata, ma
ora è cento volte peggio. Sguardi silenziosi mi osservano dalle
finestre e dalle porte. Un bambino mi segna a dito dal marciapiede
opposto, gridando: «Guarda, mamma, un cavernicolo!». Roland
sfreccia di nuovo sul suo scooter, poi, quando mi raggiunge, mi
guarda sorpreso.
«Dov’è Hank?» chiede.
«L’ho perso» dico singhiozzando.
Lui è esterrefa o. «Perdindirindina!»
Stringo i denti e continuo a camminare.
«Dobbiamo organizzare una squadra di ricerca!» dice Roland.
«Dobbiamo convocare subito il comitato di paese! Ne parlerò con
Betsy.»
Oh, no, non Betsy.
«Devo parlare con Jackson» dico io, asciugandomi la faccia con la
manica. «Per favore. Lascia che parli con lui prima di avvertire
Betsy.»
Ma Roland è così impegnato a fare un’inversione a U che non
sembra avermi sentito.
«Fammi parlare prima con Jackson!» urlo.
«Non ti agitare, Leena, troveremo noi Hank» dice Roland, poi
sparisce.
Borbo o una parolaccia e continuo ad arrancare. Sto cercando di
ripassare quello che devo dire a Jackson, ma a quanto pare non esiste
un modo dignitoso per dire a una persona che hai perso il suo cane,
e ripercorrere la conversazione all’infinito non fa che peggiorare la
sensazione di nausea. Quando arrivo alla sua porta sono nell’esa o
stato di tensione nervosa in cui entro poco prima di una
presentazione importante, il che, basandosi sulle ultime esperienze,
significa che ho buone probabilità di avere un a acco di panico.
g p p
Suono il campanello, poi, in ritardo, ricordo la chiave che ho in
tasca. Oddio, Jackson deve essere già uscito: mi toccherà andare alla
scuola del paese per dirgli che ho perso il suo cane? Non è una
conversazione che vorrei avere davanti a un’aula piena di bambini.
Con mia sorpresa, però, Jackson apre la porta.
Ho una sensazione schiacciante di déjà-vu. Annaspare di zampe,
cadere all’indietro, cane che lecca la faccia, padrone che ci guarda
dall’alto…
«Hank!» strillo, affondandogli il viso nella pelliccia e stringendolo
più forte che posso, considerato che si sta muovendo come uno
stallone imbizzarrito. «Hank! Santo cielo, pensavo…»
Mi accorgo degli occhi di Jackson puntati su di me. Alzo lo
sguardo.
Lui sembra altissimo. Prima era alto, ma adesso… torreggia sopra
di me. Però non ha più l’aria del gigante buono, ma quella di un
uomo che potrebbe porre fine a una rissa tra ubriaconi con una sola
parola pronunciata a bassa voce.
«Mi dispiace così tanto, Jackson» dico, mentre Hank mi cammina
sopra, lasciando con le zampe nuovi strati di fango sui miei jeans
lerci. «Per favore, credimi. Non l’ho lasciato apposta, mi è scappato.
Mi dispiace. Pensavo di essere preparata, ma… Sono desolata. Sei in
ritardo per la scuola?»
«Ho chiamato per avvertire quando il prete mi ha telefonato e mi
ha de o di aver visto Hank scorrazzare in Peewit Street. Il preside
mi sta sostituendo.»
Affondo il viso nella pelliccia di Hank.
«Tu stai bene?» chiede Jackson.
«Se io sto bene?» dico, con la voce a utita.
«Sembri… ecco…»
«Messa da schifo?»
Jackson fa tanto d’occhi. «Non è quello che stavo per dire.»
Alzo lo sguardo; la sua espressione si è addolcita, e si appoggia
allo stipite della porta.
«Sto bene» dico, asciugandomi le guance. «In realtà mi sento
malissimo… avrei dovuto stare più a enta.»
«Senti, non è successo niente» dice Jackson. «Sei sicura di stare
bene?»
Hank comincia un’indagine molto approfondita dei miei stivali,
fiutando come un pazzo e sba endomi la coda in faccia.
«Non devi essere gentile» dico, schivando gli scodinzolii del cane.
«Puoi essere arrabbiato con me. Me lo merito.»
Jackson sembra non capire. «Ero arrabbiato, ma poi… Hai de o
che ti dispiace, no?»
«Be’, sì, ma…»
Jackson mi guarda rialzarmi e fare un vago tentativo di pulirmi i
jeans con le mani.
«Sei perdonata, se è questo che vuoi» dice. «Hank comunque è un
malandrino, non avrei dovuto appioppartelo.»
«Mi rifarò» dico, cercando di ricompormi.
«Non occorre.»
«No» dico con determinazione. «Dimmi solo una cosa che posso
fare e io la faccio. Vuoi che pulisca le aule a scuola? O hai bisogno di
aiuto con i conti? In quello sono bravissima.»
«Stai cercando una specie di… punizione?» chiede lui, interde o.
«Ho combinato un vero casino» dico, ormai frustrata. «Sto solo
cercando di rimediare.»
«Non c’è niente da rimediare.» Jackson esita. «Ma se davvero vuoi
un lavoro da fare, le aule avrebbero bisogno di una mano di vernice.
Mi servirebbe un aiuto.»
«Sì, assolutamente» dico. «Dimmi solo quando e ci sarò.»
«Okay. Ti faccio sapere.» Si accovaccia vicino a Hank,
gra andogli le orecchie, poi mi guarda. «Non c’è problema, Leena.
Tu o a posto. È di nuovo so o controllo, vedi?»
Hank sarà anche di nuovo so o controllo, ma io no. Che cosa mi
ha preso nei campi, per me ermi a piangere a quel modo, urlare nel
vento, correre in tondo? Bee ha ragione: le cose non vanno come
dovrebbero. Questo non è da me.
10
Eileen

Quando Bee entra nell’appartamento, resto a bocca aperta. È a dir


poco la persona più affascinante che abbia mai incontrato. Il suo viso
è incantevole, anche se – o forse perché – è asimmetrico: un occhio
più alto dell’altro, un angolo della bocca un po’ più su. La sua pelle è
di uno splendido nocciola e i capelli meravigliosamente lisci e
brillanti, come acqua nera che scorre giù da una diga. Per un a imo
cerco di immaginarmi come possa essere la vita quando sei così
giovane e bella. Mi pare che potresti fare qualsiasi cosa.
Mezz’ora con Bee e scopro con sommo stupore che non è così.
«Non riesco a trovare uno straccio di uomo in questa ci à
malede a» mi dice Bee, riempiendo i nostri bicchieri di vino. «Fanno
tu i vomitare… perdoni il linguaggio. Leena continua a dirmi che
gli uomini decenti esistono, che prima bisogna baciare qualche
ranocchio, ma io mi sto limonando anfibi da quasi un anno ormai, e
mi. Sta. Passando. La. Voglia.» Quest’ultima parte è so olineata da
diverse sorsate. «Mi scusi… non voglio scoraggiarla. Forse quella
degli ultrase antenni è una piazza migliore.»
«Ne dubito» dico sconfortata. È una follia. Mi imbarazza persino
discutere della mia vita amorosa con una persona come Bee; se lei
non riesce a trovare un uomo, a cosa posso aspirare io? Non sono
riuscita nemmeno a tenermi il marito.
Bee nota la mia espressione e posa il bicchiere. «Oh, non mi stia a
sentire. Sono solo logorata e sfinita da questi appuntamenti di
merda. Ma lei! Lei ha un mondo di divertimento davanti. Diamo
un’occhiata al suo profilo, va bene?»
«Oh, no, non disturbarti» dico con un filo di voce, ricordando le
cose imbarazzanti che ci ha scri o Leena. “Ama la vita all’aria aperta!
Giovane dentro! In cerca d’amore!”
Bee ignora le mie proteste e apre il portatile. «Leena mi ha dato le
sue credenziali» dice, ba endo sulla tastiera. «Oohh, c’è già qualche
messaggio!»
«Davvero?» Mi chino in avanti, sistemandomi gli occhiali sul
naso. «Santo cielo, ma quello è… oh, mio Dio!»
Bee chiude il computer di sca o. «Oooh» dice lei, sbarrando gli
occhi. «Ecco. Questo è un momento di passaggio fondamentale. La
sua prima dick pic.»
«La mia prima cosa?»
Lei fa una smorfia. «Caspita, è peggio che spiegare a mia figlia
come nascono i bambini. Ecco…»
Scoppio a ridere. «Non c’è problema» le dico. «Ho se antanove
anni. Potrei sembrarti un’innocente vecchie a, ma ho avuto
cinquant’anni in più per vedere gli orrori che il mondo ha da offrire,
e qualsiasi cosa fosse quel coso non è niente rispe o al didietro
bitorzoluto del mio ex marito.»
Bee scoppia a ridere. Non ho tempo di rifle ere sul fa o che per la
prima volta ho de o ad alta voce ex marito, perché Bee ha riaperto il
computer e sullo schermo c’è un’immagine gigante.
Inclino la testa. «Perdiana» dico.
«Sembra piu osto arzillo per avere o ant’anni» commenta Bee,
inclinando la testa dalla parte opposta.
«E mandare questa foto cosa vorrebbe significare?»
«O ima domanda» dice Bee. «Immagino sia pensata per farle
venire voglia di fare sesso con quest’uomo.»
«Davvero?» chiedo, affascinata. «Ma qualche volta funziona?»
«È un grande mistero. Si direbbe di no, ma allora perché
continuano a farlo? Persino i topi sono in grado di imparare che le
tecniche di accoppiamento inefficaci vanno abbandonate, no?»
«Forse è come quegli esibizionisti al parco» dico, strizzando gli
occhi. «Non è questione che a te piaccia: a loro basta sfoggiare i
gioielli di famiglia.»
Bee scoppia di nuovo a ridere. «I gioielli di famiglia!» ripete,
asciugandosi gli occhi. «Ah, Leena aveva ragione, lei fa morire. Ora.
Vogliamo bloccare questo particolare signore dal comunicare di
nuovo con lei?»
«Sì, ti prego» dico, pensando alle foglie di tè di ieri. «Direi che per
il momento è abbastanza.»
«Che ne dice di questo?» chiede Bee.
Guardo lo schermo con una certa diffidenza, ma stavolta a
guardarmi c’è un volto sorridente. È un uomo piu osto bello, in
realtà, con i capelli argentati scostati da una fronte larga, importante,
e una bocca di denti perfe i. Sembra quasi una foto professionale.
«Ma esiste davvero?» chiedo. A volte si sente di questi uomini su
Internet che poi si rivelano essere eccentriche signore del Texas.
«Buona domanda, sopra u o con una foto come questa.» Digita
per un po’ sulla tastiera. «Okay, ho cercato per immagini e l’unico
altro posto in cui è usata è qui. Stesso nome, i dati biografici
corrispondono… Immagino che sia un a ore!» Bee mi mostra il sito
di un teatro; la foto è accostata a una descrizione di Tod Malone, che
a quanto pare interpreta il ruolo di Sir Toby Belch nella Dodicesima
no e al St John’s Theatre. «Mmh, sembra un bel tipo. Gli
rispondiamo?»
«Che cosa dice?» chiedo, sbirciando da sopra la sua spalla.
«“Ciao, Eileen! A quanto pare sei a Londra per un’avventura
entusiasmante: mi incuriosirebbe sapere come ti è venuta l’idea…”»
legge Bee.
«Posso?»
Bee spinge il computer verso di me; comincio a digitare.
“Mia nipote voleva una pausa in campagna, e io avevo bisogno di
un po’ di mondanità” scrivo. “Così ci siamo scambiate di posto…”
«Ooh, mi piace» dice Bee, con approvazione. «Questi puntini!
Molto misterioso.»
Sorrido. «Be’, grazie!»
Bee clicca per inviare il messaggio. «Ora aspe iamo» dice,
riprendendo il bicchiere di vino.
«Perché nel fra empo non diamo un’occhiata al tuo profilo?»
«Al mio? Oh, santo cielo, no, meglio che non lo veda.»
«Ma io ti ho fa o vedere il mio!» osservo, prendendo un sorso dal
mio bicchiere. Era un sacco che non bevevo vino, ma
nell’appartamento di Leena sembra una presenza fissa. C’è una cassa
di bo iglie so o il televisore, e sempre almeno una bo iglia di vino
bianco nel frigo.
«In realtà io uso una app, non un sito come questo» dice Bee.
«Quindi ce l’ho sul telefono.»
«Me la cavo a guardare un telefono» riba o con pazienza.
Bee assume un’aria colpevole. «Già, non volevo offenderla.» Si
morde il labbro inferiore e poi, dopo un a imo, prende il telefono e
digita una serie di cifre. «Ecco qui.» Scorre le sue foto. So o c’è una
breve descrizione: “Mamma lavoratrice molto impegnata. Poco
tempo, poca pazienza, molta caffeina”.
Oh, cielo. Se pensavo che Bee fosse di una bellezza soggiogante
dal vivo, non è niente rispe o a come appare qui. Tu e le sue
fotografie sembrano uscite da una rivista patinata – «Sì, per un po’
l’anno scorso ho fa o la modella, come a ività collaterale» mi dice
disinvolta –, eppure la sua descrizione di sé non potrebbe essere
meno invitante.
Mi mostra come far scorrere con il dito a destra e a sinistra, e la
pagina dove può mandare messaggi ai vari pretendenti.
«Ce ne sono così tanti!» Guardo più da vicino. «Perché non hai
risposto? Questo qui è molto bello.»
«Ah, quel tizio è uno di quegli amministratori delegati di grande
successo» dice lei, sprezzante. «Non è il mio genere.»
Aggro o la fronte. «Perché no?»
«Non mi piace uscire con uomini che guadagnano più di me» dice
lei, alzando le spalle. «È una delle mie regole.»
«E quali sono le altre?» chiedo, rifle endo su quello che ha de o.
Lei conta sulle dita. «Deve essere sportivo, non può lavorare nella
consulenza o nella finanza, dev’essere un bravo ballerino, dev’essere
molto sexy, non può avere un soprannome buffo, deve amare i ga i,
non può essere snob o avere genitori ricchi, non deve avere hobby
noiosi da uomo come le macchine o le frecce e, dev’essere
femminista, e intendo davvero femminista, non solo quando gli fa
comodo, dev’essere di mentalità aperta riguardo a Jaime, mia
figlia…»
«Oh! Raccontami di tua figlia» dico io, distraendomi mio
malgrado.
g
«Jaime» dice Bee, facendo scorrere le schermate così in fre a che
perdo il filo. «Stasera è con suo padre.» Adesso sta scorrendo le foto,
e alla fine sceglie l’immagine di una bambina con i capelli scuri
tagliati corti, che sorride all’obie ivo dietro a un paio di occhiali
dalla montatura spessa. «Eccola qui» dice Bee tu a fiera.
«Che bambina adorabile!» Sento una stre a al cuore, non tanto
per la bambina – anche se è davvero molto carina – quanto per
l’espressione di Bee. Questa donna si è sciolta. Ama quella ragazzina
più di qualsiasi altra cosa, si vede subito.
«Diventerà campionessa mondiale di tennis» dice Bee. «È già la
prima nella categoria della sua età al circolo.»
«Caspita.»
«Le piacciono anche i dinosauri, e leggere cose sul cervello»
aggiunge Bee. «E poi è vegana. Il che è davvero irritante.»
«Oh, sì» dico, comprensiva, «anche la mia amica Kathleen ce
l’ha.»
«Ha cosa, scusi?»
«Il veganismo.»
Bee ridacchia. Ha una risata così acca ivante: sentendola, e
avendo visto la sua espressione mentre guardava Jaime, di colpo mi
sembra di conoscerla molto meglio, e di trovarla anche molto più
simpatica. Immagino che sia questo il problema degli incontri su
Internet. Non c’è modo di sentire una risata o di vedere come i tuoi
occhi diventano sognanti quando parli di qualcosa che ami.
Guardo Bee scorrere altre foto di sua figlia, e mi dico: forse non so
niente dei siti d’incontri online, ma penso che me la caverei meglio
di lei a trovarle un uomo.
Prendo il mio nuovo quaderno dei proge i. Ne ho comprato uno
ieri da Smith’s: Leena ha il mio, a Hamleigh.
In cima alla lista c’è “Area comune: dare una rinfrescata”.
Stama ina ne ho parlato con Martha; lei si è esaltata e ha iniziato a
mostrarmi cartelle colori. So che qui le cose funzionano in un altro
modo, ma non posso evitare di pensare che a questo condominio
non farebbe male un briciolo di senso comunitario.
So o questo appunto, scrivo: “Trovare un uomo per Bee”.
«Oohhh, il suo teatrante dai capelli d’argento ha risposto!» esclama
Bee. Gira il computer verso di me.

Toddietrolequinte dice: Ciao, Eileen. A questo punto sono più curioso


che mai: che idea divertente! Tua nipote come sta trovando la vita in
campagna? E tu come te la passi a Londra? È una specie di shock?

Sorrido e comincio a scrivere.

EileenCotton79 dice: Mia nipote non mi sta tenendo informata, il che


vuol dire che o sta molto bene, o ha bruciato la casa! E io mi sento un
tantino sopraffatta da Londra. È difficile capire da dove iniziare!

«Oh, signora Co on» dice Bee. «Questa sì che è una furbata.»

Toddietrolequinte dice: Be’, io vivo a Londra da sessantacinque anni…


quindi se vuoi qualche consiglio da esperto, potrei mostrarti qualche
posticino che vale la pena visitare. Che ne dici, magari, di cominciare da
un caffè?

Faccio per rispondere, ma Bee mi spinge via la mano. «Lo lasci un


po’ sulla graticola!» dice.
La guardo esasperata. «Quelle scemenze sono per i giovani» le
dico.

EileenCotton79 dice: Sarebbe carino. Che ne dici di venerdì?


11
Leena

Venerdì pomeriggio, nel silenzio della casa, con Ant e Dec che mi
sgusciano tra i piedi, mi siedo al computer della nonna e mi collego
con il mio Dropbox. È tu o lì. “B&L Boutique Consulting. Strategia
tariffaria. Ricerche di mercato. Operazioni e logistica.” Non tocco
nulla, non ancora, rileggo solo tu o quanto. Dopo un po’ sono
talmente assorta che perdo la cognizione del tempo. Alle cinque c’è il
Comitato di vigilanza… parto come un razzo con la bici che ho
disso errato dal capanno-edera della nonna, e svoltando in Lower
Lane rischio di volare per terra.
Solo mentre varco la soglia della sala mi rendo conto che non so di
preciso che cosa sia il Comitato di vigilanza. Stiamo forse…
comba endo il crimine? È un circolo di lo a alla criminalità?
Studio l’accozzaglia di persone riunite al centro della sala e decido
che o sono supereroi in incognito o questo non può in nessun modo
essere un circolo di lo a alla criminalità. C’è Roland, l’organizzatore
troppo insistente di squadre di ricerca; Betsy, che sfoggia una sciarpa
rosa confe o, un rosse o in tinta e una gonna pantalone; e il do or
Piotr, molto più corpulento di come lo ricordavo dalla mia infanzia,
ma ancora inequivocabilmente l’uomo che mi ha ricucito il ginocchio
quando avevo nove anni e che una volta ha estra o un pisello secco
dall’orecchio di Carla.
Poi c’è un uccellino di donna che sembra fa a di fiammiferi, un
uomo baffuto e strabico che riconosco come Basil lo sciovinista e una
giovane dall’aria insofferente con quello che sembra vomito di
neonato sulla manica.
«Oh, cielo» dice, seguendo il mio sguardo. «Avevo intenzione di
pulirlo.»
«Leena» dico, porgendole la mano.
«Kathleen» risponde lei. I colpi di sole avrebbero bisogno di una
rinfrescata e sul mento ha uno sbaffo di dentifricio: ha scri o in
fronte “mamma esausta”. Non posso evitare di chiedermi perché
mai si sia presa il disturbo di venire a questo incontro invece di, che
so, farsi un pisolino…
«Io sono Penelope» dice la signora-uccellino. Porge la mano come
farebbe un sovrano: dalla parte del dorso, come se dovessi baciarla.
Incerta sul da farsi, le do una scrollata.
Betsy rimane esterrefa a vedendomi. Il suo sorriso arriva troppo
tardi per essere sincero. «Ciao, Leena» dice. «Non ero sicura che
saresti venuta.»
«Ma certo!» dico. «Ho portato il cartello, per la porta.»
«C’è spazio per una persona in più?» dice una voce dalla soglia.
«Oh, quale onore!» gorgheggia Betsy. «Jackson, non pensavo che
saresti riuscito a venire.»
Alzo gli occhi e sento che sto arrossendo. Jackson entra con una
maglia da rugby e un vecchio berre o consumato. Ero in condizioni
così pietose l’ultima volta che mi ha visto; non appena mi ricordo
sudata e singhiozzante sulla sua soglia mi viene voglia di filarmela a
Londra con la coda tra le gambe. Cerco di incrociare il suo sguardo,
ma lui ha da fare: tu e le vecchie e sono gravitate nella sua
direzione, e adesso sfoggia una donna per braccio come Hugh
Hefner, solo con le età dei protagonisti scambiate. Basil gli piazza in
mano una tazza di tè. A me non l’hanno ancora offerto, noto a
disagio. Non è un buon segno, vero?
«Be’, ora che Leena è finalmente arrivata, vogliamo cominciare?»
chiede Betsy. Resisto all’impulso di puntualizzare che non sono stata
io l’ultima ad arrivare, ma Jackson… solo che sono tu i troppo
impegnati a passargli i bisco i per rendersene conto. «Prendete
posto, per favore!»
È difficile non trasalire quando gli anziani presenti si piazzano di
fronte alle loro sedie e – prima lentamente, poi acquistando velocità
– piegano le ginocchia più che possono finché non a errano in
qualche punto della seduta con un tonfo.
«Di solito quello è il posto di Jackson» dice Roland, proprio
mentre sto per sedermi.
«Ah» mi guardo a orno, con le gambe piegate. «Jackson, ti spiace
se…»
Jackson agita la sua manona affabile. «Ma figurati, accomodati
pure.»
«No» dice Roland severo, quando il mio sedere tocca la sedia.
«No, no, quello è il posto di Jackson.»
Jackson scoppia a ridere. «Roland, non è un problema.»
«Ma tu preferisci quel posto!» protesta Roland.
«Lo cedo a Leena.»
«Che uomo premuroso» dice Penelope a Betsy.
«Mmh. Ed è stato così calmo dopo l’incidente con il cane, no?»
risponde Betsy, giungendo le mani sulle ginocchia.
Stringo i denti e raddrizzo la schiena. «Ho un’idea. Perché non ci
scambiamo tu i di posto, tanto per vedere come cambia la nostra
prospe iva?» propongo. «Vi sorprenderebbe la differenza che fa.»
Tu i mi guardano senza capire, a parte Jackson, che sembra
sforzarsi strenuamente di non ridere.
«Io me ne sto seduto qui» dichiara Basil con convinzione. «Non
ho nessuna voglia di cambiare la mia prospe iva, grazie tante. Mi
piace qui e basta.»
«Ma…»
«Sai quanto è stato difficile sedersi su questa sedia, ragazza?»
chiede Roland.
«Ma posso aiutarvi a…»
«E poi questo posto è il più vicino al bagno dei signori» dice Basil.
«Già» dice Penelope, «e quando Basil deve assentarsi, deve
proprio assentarsi, mia cara, non c’è verso.»
«Va bene, d’accordo» cedo.
Sembrano compiaciuti. Hanno scongiurato il mio tentativo di fare
un semplice esercizio di gestione del cambiamento con i loro
vaneggiamenti sul controllo della vescica.
«Meglio che ti siedi qui, Jackson» dico, e mi avvio verso un’altra
sedia. Bisogna scegliere le proprie ba aglie; questa non mi sembra la
causa più importante per cui immolarmi.
p p p
«Davvero, non mi importa» dice Jackson con dolcezza.
«No, no» dico, con voce più aspra di quanto vorrei. «Goditi la tua
sedia preferita. A me va benissimo questa.»
Una volta che abbiamo iniziato, passo buona parte della riunione
a chiedermi quale sia l’argomento, sensazione che non mi è ignota –
direi che l’o anta per cento degli incontri con i clienti a cui partecipo
si svolge così – ma mi rende difficile partecipare alla discussione.
L’aspe o che più mi disorienta è la totale mancanza di accenni
alla criminalità. Per ora abbiamo parlato di: panini al bacon (Roland
ha scoperto che Mabel al n. 5 di Peewit Street ne prepara di
eccellenti, quindi è tornato a boico are Julie’s, che da quel che ho
capito è un caffè di Knargill), scoia oli (Basil è decisamente
contrario) e se le patate facciano ingrassare (io penso che piu osto
dovrebbero preoccuparsi dei panini al bacon). Poi tu i passano venti
minuti a lamentarsi di Firs Blandon, un paesino della zona che a
quanto pare ha creato subbuglio spostando la staccionata di un
contadino mezzo metro a sinistra per rifle ere quello che secondo
loro è il confine tra i due distre i. A questo punto perdo un po’ il filo
e mi dedico ai bisco i.
Guardo l’ordine del giorno. Manca solo un punto da discutere
prima di raggiungere “Reati da segnalare”, in cui, finalmente, si
parlerà un po’ di criminalità vera e propria.
«Ah, sì, questo era l’ultimo piccolo proge o di Eileen, no?» dice
Betsy. «Quindi te ne occuperai tu al suo posto, Leena?»
«Quale, scusa?» chiedo, a metà di quello che deve essere il mio
centesimo bisco o.
«Aiutare le persone sole e anziane di Knargill offrendo loro un
trasporto» legge Betsy. «Non so bene come avesse in mente di farlo,
ma…» Betsy mi guarda piena di aspe ativa.
Ci penso un a imo. Mi sembra abbastanza semplice.
«Quanti di voi hanno l’auto?» chiedo. «A parte Jackson, Piotr e
Kathleen, ovviamente, che non hanno tempo libero da dedicare…
mentre il resto di voi è in pensione, no? Potreste occuparvi di un
trasporto, diciamo, ogni due giorni?»
Tu i appaiono allarmati, a parte Jackson, che ha l’aria più
divertita che mai.
«Dove pensate che potremmo accompagnarli per queste
scampagnate? Leeds è troppo lontana» dico, guardando di nuovo
Betsy. «Forse Daredale?»
C’è un silenzio prolungato. Alla fine il do or Piotr ha
compassione di me.
«Ah, Leena, molte delle persone qui sono… Anche se per la
maggior parte possiedono delle auto» lo dice con un’aria di
imperce ibile rassegnazione «non sono tu i incoraggiati a guidare
fino a Daredale.»
«Non è per dire che non possiamo» dice Betsy. «Io la patente ce l’ho
ancora, sai.»
«E il do or Piotr non può proibirmi di guidare finché non sarò
ufficialmente rimbambita» dice Penelope, con fierezza.
«Ah, bene» dico. «Io comunque avevo in mente di procurarmi
un’auto per qualche tempo, visto che quella della nonna è…»
«Fuori uso?» interviene Betsy.
«Irrimediabilmente danneggiata?» dice Basil allo stesso tempo.
«Qualcuno di voi ha una macchina che sarebbe disposto a
prestarmi finché sono qui?»
Silenzio.
«Penelope!» dico con entusiasmo. Mi sembra l’alternativa
migliore. Gli uomini non si smuoveranno, e certo non avrò il minimo
sostegno da parte di Betsy. «Potrei prendere in prestito la tua
macchina di tanto in tanto?»
«Oh, ma io… io ancora, insomma…» Si interrompe, poi, senza
molta gentilezza: «Be’, direi di sì».
«Fantastico, grazie, Penelope!» dico. Aspe o che abbia distolto lo
sguardo prima di strizzare l’occhio al do or Piotr. Lui alza il pollice
in risposta.
Adesso, perlomeno, ho il do ore dalla mia parte. E
un’automobile.
«Dunque, questo è quanto!» dice Betsy, ba endo le mani.
«Andiamo avanti… il calendimaggio! So che questo non è un
incontro ufficiale del comitato, ma poiché tu i i membri sono
presenti, e ci sono alcune questioni urgenti che non possono
aspe are, forse potremmo accennare a un paio di cose e?»
p p p
Tu i annuiscono. Sono abbastanza sicura che il comitato del
calendimaggio sia composto dalle stesse identiche persone del
Comitato di vigilanza, quindi potrei far notare che due riunioni
separate non sono affa o necessarie. Ma, pensandoci bene, è meglio
di no.
«Tema! Immagino che tu i siamo soddisfa i della proposta di
Jackson: tropicale!»
«Tropicale?» chiedo, senza riuscire a tra enermi.
Betsy si gira di sca o per fulminarmi con lo sguardo. «Sì, Leena.
Tropicale. È perfe o per una festa primaverile piena di sole. Non ti
pare?»
«Ecco…»
Mi guardo a orno, poi guardo Jackson, che ha alzato
imperce ibilmente le sopracciglia, come per dire: “Prego, esprimi
pure il tuo parere”.
«Solo non sono sicura che esalti i nostri punti di forza. La gente
sarà a ra a da una pi oresca sagra paesana a cui può portare i
bambini. “Tropicale” mi fa pensare, non so… a una serata di
bisboccia a Clapham.»
La gente mi guarda senza capire.
«Puoi proporre un’alternativa, se vuoi, Leena» dice Betsy gelida.
Guardo di nuovo Jackson. È appoggiato allo schienale, le braccia
incrociate, e c’è qualcosa di così sbruffone in quella postura che il
mio piano di astenermi e conquistare il gruppo prima di proporre il
minimo cambiamento finisce dri o fuori dalla finestra.
«Che ne dite di “medievale”?» propongo, pensando al Trono di
spade, di cui sto riguardando tu e le puntate da quando sono
arrivata a Hamleigh. Ethan ha sempre riso di me perché registravo
su DVD i miei programmi preferiti, ma chi ride adesso che sono nella
terra dove la banda larga è sconosciuta? «Potremmo servire
idromele, e avere dei “bardi” che cantino storie da far ascoltare ai
bambini, e il Re e la Regina del calendimaggio potrebbero indossare
splendidi abiti con le maniche a sbuffo e ghirlande di fiori, come re
Artù e la regina Ginevra.» Non sono proprio sicura che re Artù
vivesse nel Medioevo, ma non è il momento di essere pignoli. «E poi
potremmo chiamare falconieri e giocolieri, e la musica potrebbe
essere suonata da arpe e liuti. Immagino ghirlande di fiori appese ai
lampioni, bancarelle piene di fru a fresca e dolciumi, falò, maiale
arrostito…»
«Mmh. Be’. Vogliamo me erlo ai voti?» dice Betsy. «Il programma
di Leena di riportarci tu i al Medioevo o l’idea di Jackson su cui ci
eravamo praticamente accordati tu i la scorsa se imana?»
Faccio una risata incredula. «La domanda è un po’ tendenziosa,
Betsy.»
«Alzate le mani per l’idea di Leena» dice Betsy, impassibile.
Tu i si guardano. Nessuno alza la mano.
«E ora per l’idea di Jackson» dice Betsy.
Tu e le mani si alzano.
«Ecco. Apprezziamo il tentativo, Leena» dice Betsy con un sorriso.
«Datemi un paio di se imane» dico. «Farò un brainstorming vero
e proprio, tirerò fuori qualche idea concreta, me erò insieme
qualcosa da farvi vedere. Rifacciamo la votazione al prossimo
incontro ufficiale del calendimaggio. In fondo, è corre o chiudere la
questione del calendimaggio a un incontro del Comitato di
vigilanza?»
Il sorriso di Betsy vacilla.
«Non ha tu i i torti» dice Roland. «Non sarebbe corre o.»
«Non sarebbe corre o» ripeto. «Esa o, Roland.»
«E va bene, allora. Due se imane» dice Betsy.
Lancio un’occhiata a Jackson. Questa non è una competizione,
chiaro, ma io al momento ho segnato un punto, e sarei felice che lo
avesse notato. Lui ricambia il mio sguardo, sempre spaparanzato
sulla sedia con le gambe spalancate come fanno sempre gli uomini in
metropolitana, con la stessa aria divertita e impassibile che ha
conservato per tu o l’incontro.
«È tu o, gente» dice Betsy. «E Leena, ricordati che la prossima
volta tocca a te portare i bisco i.»
«Certo. Nessun problema.»
«E quella è la tua sedia» dice Roland, con un cenno di
incoraggiamento. «Ricordati anche questo.»
«Grazie, Roland. Senza dubbio.»
«Ah, e… Leena?» dice Betsy. «Penso che tu ieri abbia dimenticato
di me ere fuori i bidoni di Eileen.»
Espiro lentamente dal naso.
Stanno solo cercando di aiutare. Credo.
«Grazie, Betsy» dico. «Buono a sapersi.»
C’è uno strusciare generale di sedie e scalpicciare di piedi quando
tu i si alzano e vanno verso la porta. Accanto a me, Kathleen si
sveglia di soprassalto.
«Merda.» Controlla l’orologio. «A che punto siamo? Abbiamo
fa o la guerra agli scoia oli?» Interce a la mia espressione
sconfortata. «Oh, no» dice. «Hanno vinto gli scoia oli?»
12
Eileen

Non può funzionare. Bisogna che chiami Leena e le dica che è stata
una cretinata pensare che ci potessimo scambiare le vite così, e poi
fare i bagagli. Potremmo berci una cioccolata calda e riderci su, per
poi tornare al posto, e alla persona, che ci appartengono.
Sono irremovibile su questa decisione finché Fi non entra nel
soggiorno.
«Santo guacamole» dice, fermandosi di bo o. «Eileen! Sei una
favola!»
«Io non ci vado» gli dico con convinzione, iniziando a slacciarmi
le scarpe. «È un’idiozia.»
«No, no, no!» Fi raccoglie le mie pantofole da so o il tavolino
prima che possa infilarle. «Non sprecherà quella piega da urlo in un
pomeriggio casalingo» dice, con un dito ammonitore. «Lei è uno
schianto, signora Co on, e deve incontrare quel Tod!»
Ieri sera ho raccontato a Fi del mio imminente appuntamento. O
meglio, stama ina: io mi ero svegliata per cominciare la giornata e
lui stava tornando da una serata in ci à. Sembrava piu osto
malmesso – in fondo erano le cinque del ma ino passate – così
avevo dato per scontato che non si sarebbe ricordato della nostra
conversazione, ma purtroppo la sua memoria è migliore del
previsto.
Mi agito a disagio sul divano: la mia gonna a pieghe più elegante
mi stringe dolorosamente sui fianchi. Sento formicolare la schiena.
«Sono troppo vecchia per queste cose» dico. «Non posso sopportare
queste…» Indico lo stomaco.
Fi fa un sorriso malizioso. «Farfalle?» chiede.
«Oh, che scemenze» dico, ma non riesco a trovare un’alternativa
migliore.
g
Lui viene a sedersi accanto a me sul divano. «Ora, Eileen, io non
la conosco molto bene, però conosco Leena, e la mia impressione è
che molte delle sue qualità vengano da lei. E Leena odia fallire.»
«Questo non è un fallimento!» protesto.
«Ha ragione» dice Fi , «deve provare per fallire. E lei non ci sta
nemmeno provando.»
Mi girano le scatole. «Ho capito dove vuoi andare a parare» gli
dico.
«Sta funzionando?»
«Certo, per la miseria. Ora passami quelle scarpe, per favore.»

Per poco non mi manca di nuovo il coraggio durante il tragi o verso


il caffè. Apro addiri ura la bocca per dire al tassista di fare marcia
indietro. Ma mentre avanziamo a passo di lumaca in mezzo al
traffico, passa in bicicle a una donna con i ricci scuri che le spuntano
dal casco, e mi viene in mente Carla. A lei piacerebbe vedere la sua
vecchia nonna che va a un appuntamento. E scomme o che mi
direbbe che sarebbe un vero peccato lasciarmi sfuggire un
affascinante a ore del West End.
Mi preoccupo di non trovare Tod nel locale, ma in realtà non è
difficile individuarlo. Spicca, come spiccano i ricchi ovunque: gli
abiti lo fasciano con perfezione un po’ eccessiva, e la pelle ha una
specie di luminescenza, come se fosse truccato.
Oh, in realtà è truccato. Be’, non avrei mai… certo dev’essere
appena tornato dal teatro, ma comunque… Che cosa direbbe Wade?
«Eileen?» mi apostrofa. Mi rendo conto che lo sto fissando, e mi
sento arrossire. È la seconda volta che arrossisco, questa se imana.
Devo darmi un contegno.
«Sì» dico, tendendo la mano.
Si alza per scostarmi la sedia. È piu osto agile per un uomo della
sua età, e quando mi passa di fianco mi arriva una zaffata di colonia.
Sa di legni e agrumi, e mi verrebbe da dire che è costosa quanto il
suo cappo o di lana scura.
«Sei bella come nella foto» dice, riaccomodandosi sulla sedia di
fronte con un sorriso. Ha i denti di un bianco abbagliante.
«Oh, so che non è vero, perché è stata mia nipote a scegliere
quella foto, ed è vecchia di almeno dieci anni» dico. Che frase da
smorfiosa! Ma Tod ride.
«Non sei invecchiata di un minuto» mi assicura. «Caffè?»
«Oh, io…» Faccio per prendere la borsa, ma lui mi liquida con la
mano.
«Offro io. Per favore, insisto. Un flat white?»
«Un… come, scusa?»
«Vuoi un flat white?»
«Non ho la più pallida idea di cosa sia» gli confido.
Lui esplode in una risata scrosciante. «Oh, penso che sarai un
toccasana per me, Eileen Co on.»
Proprio non capisco cosa ci sia di divertente, ma sorrido
comunque, perché è davvero a raente quando ride. E anche il resto
del tempo. All’inizio il trucco è un po’ sconcertante: la sua pelle
appare strana, con quel colore uniforme. Ma a quanto pare mi ci sto
abituando.
«Un flat white è una specie di cappuccino» spiega Tod, chiamando
il cameriere con un gesto esperto. «Fidati, ti piacerà.»
«Allora proviamo» dico, e Tod ordina le bevande. Mi me e molta
meno soggezione di quanto mi aspe assi, e mi rendo conto che mi
sto rilassando mentre lui scherza con il cameriere, scostandosi i
capelli dalla fronte.
«Ora» dice Tod, concentrando la sua a enzione su di me. Mi
rivolge un sorriso smagliante. «Per quanto mi riguarda, siamo
troppo vecchi per menare il can per l’aia. Tanto vale me ere le carte
in tavola.»
«Oh, certo» dico. «Mi pare giusto.»
«Non sto cercando una relazione seria» dice Tod. «Sono già stato
sposato una volta, con una donna davvero meravigliosa, e quelli
sono stati gli anni più felici della mia vita: non mi interessa cercare di
replicarli, perché replicarli è impossibile.»
«Oh» dico, commossa, nonostante il suo tono sbrigativo. «Devo
dire che è molto romantico.»
Tod ride di nuovo. «Quello che sto cercando, Eileen, è un po’ di
divertimento.»
«Un po’ di divertimento?» Socchiudo gli occhi. «Nell’interesse di
me ere le carte in tavola…» Ba o sul tavolo che ci divide. «Potresti
essere un tantino più specifico?»
Lui mi prende la mano. «Posso?» sussurra.
«Sì» rispondo, anche se non ho capito bene a cosa sto
acconsentendo.
Lui mi gira la mano e preme il pollice con grande delicatezza sulla
pelle morbida tra il polso e il palmo, poi comincia ad accarezzarla in
lenti, languidi cerchi.
Il mio respiro accelera.
«Nello specifico» dice «mi piacerebbe che ci godessimo o imi
caffè, o imo cibo, o imo vino e poi vorrei che andassimo a le o
insieme.»
«A… le o» ripeto, con la gola secca. «Insieme.»
Lui inclina la testa. «Un’avventure a, in pratica. Niente di
esclusivo. Pura sensualità. Solo per la durata del tuo soggiorno a
Londra, dopodiché ci saluteremo senza rimpianti.» Mi lascia andare
la mano. «Che te ne pare, Eileen?»
«Sembra…» Mi schiarisco la gola, strofinando il palmo
formicolante con l’altra mano. In realtà, tu o in me formicola. Sono
sorpresa che non mi si possa sentire sfrigolare come un radiatore che
si sta riscaldando. «Sembra divertente» finisco, e mi mordo il labbro
per impedirmi di sorridere.

«L’appuntamento è andato molto bene» dico a Leena, con il mio


miglior tono da “fine della discussione”. Mi siedo sul divano,
infilandomi un cuscino dietro la schiena. «Com’è andato il tuo primo
incontro con il Comitato di vigilanza?»
«Oh, tu o bene, tu o bene» dice Leena. «Dài, devi dirmi qualcosa
di più di quest’uomo del mistero!»
«Le signore non parlano di queste cose» dico. «E Marian? Come se
la passa?»
«Nonna! Ci sei andata a le o?»
«Scusa? No! Che razza di domanda da fare a una nonna» esclamo.
«Be’, quando la gente dice “le signore non parlano di queste
cose”, di solito è quello che intendono» dice Leena, in tono divertito.
q
«Davvero non vuoi dirmi niente di questo Tod?»
«No, credo di no» decido.
Ne ho parlato con Fi , ma gli ho fa o giurare di mantenere il
segreto, e lui ha de o che non avrebbe spifferato niente a Leena. È
solo che non ho molta voglia di discutere della mia nuova
“avventure a” con mia nipote.
«Be’» brontola Leena. «In fondo sono stata io a incoraggiarti a
darti da fare.» Si interrompe. «Nonna… posso chiederti una cosa?»
«Certo.»
«È successo qualcosa alla mamma? Qualcosa che non mi hai
de o?»
«In che senso?» chiedo, prudente.
«Mi ha accennato a degli “episodi”.»
Chiudo gli occhi. «Ah.»
«Che cos’è successo?»
«Ha avuto qualche… bru o momento.»
«Tipo me ersi a piangere sull’autobus? O tipo che è dovuta
andare dal do ore?»
«La seconda, tesoro.»
«Perché non me l’hai de o?»
«Continuavo a ripeterti che era in difficoltà, Leena.»
«Sì, ma pensavo che volessi dire… pensavo che fosse… non mi
sono resa conto che avesse delle vere e proprie crisi.»
«Pensavo che te l’avrebbe de o lei, se voleva farlo. Non volevo
immischiarmi.»
«E quando mi hai lasciato qui a badare alla mamma, non hai
pensato che fosse il caso di accennare che potrebbe avere uno di
questi “episodi” in qualsiasi momento? Come funziona di preciso?
Devo andare a trovarla più spesso? Quanto è grave la situazione?
Che cosa ha de o il medico?»
Mi massaggio l’a accatura del naso. «Un paio di mesi fa il do or
Piotr le ha dato delle pillole.»
«Antidepressivi?»
«Penso di sì.»
«E lei li sta prendendo?»
«Penso di sì.»
«Okay. D’accordo. Santo cielo, nonna. Io… capisco che tu non
voglia immischiarti, ma… vorrei che me l’avessi de o.»
«Avrebbe forse cambiato i tuoi sentimenti? Saresti tornata a casa
prima?»
C’è un lungo silenzio. «Mi piacerebbe pensare di sì, ma… so che
sono stata… un po’ strana nei suoi confronti ultimamente. Ma voglio
che le cose vadano meglio. Bee dice che non sono in me, e ha
ragione, e penso che in parte sia dovuto, sai, alla distanza tra me e la
mamma, alla rabbia che ho provato verso di lei… Voglio rimediare.
Per me, e anche per lei.»
Sorrido. Be’, se a questo punto mi è concesso immischiarmi…
«Anche lei lo vuole, tesoro. Le manchi disperatamente.»
Leena tira su con il naso. C’è un a imo di silenzio, poi: «Devo
andare, nonna… un tizio mi sta chiamando sul tuo cellulare per
parlarmi della falconeria».
«Come, scusa?» chiedo, ma lei ha già ria accato.
Sospiro. Adesso sono più preoccupata che mai per Marian.
Sto per spegnare il telefono di Leena quando sulla parte alta del
display compare un messaggio. Viene da qualcuno che si chiama
Ceci. Sono certa di ricordare che Leena me l’abbia nominata. Non è
quella tizia orribile e dispe osa dell’ufficio?

Ciao, Leena! Volevo solo dirti che il progetto della Upgo va a gonfie vele
in tua assenza, in realtà sta andando sempre meglio, in caso fossi
preoccupata! Fammi sapere se passi da Londra prossimamente, Cx

Aggro o la fronte. Leena non ha bisogno di sentir parlare del


proge o della Upgo, e non ha dato a Ceci il suo nuovo numero, il
che significa che non vuole sentirla mentre è via. Mi pare di
ricordare che l’abbia descri a come “o anta per cento gambe, venti
per cento ca ive intenzioni”; qualcosa mi dice che non deve avere a
cuore le sorti di Leena. Sbuffando, chiudo il messaggio.
Dopo la telefonata con mia nipote, mi sento irrequieta; mi guardo
a orno in cerca di qualcosa che mi tenga occupata. Sto
occhieggiando i pia i sporchi di Fi , ma poi vedo il computer di
Leena sul banco della colazione e mi ringalluzzisco. Forse Tod è
disponibile per fare due chiacchiere.
Sul sito di incontri c’è un nuovo messaggio, ma viene da una
persona nuova.

OldCountryBoy dice: Ciao, Eileen. Spero che non ti spiaccia se ti dico


ciao.

La foto del profilo è una sua immagine da giovane, con indosso


una giacca bianca informale e un berre o. Senza dubbio all’epoca era
a raente, ma a questo punto non vuol dire molto. Anche se della
bellezza non mi importa poi tanto. In fin dei conti, Wade era un vero
schianto, e guarda com’è andata a finire.

EileenCotton79 dice: Ma certo! Sono su questo sito apposta per


conoscere persone.

Esito, poi, dopo un a imo di riflessione, aggiungo una faccina


sorridente, come fa Leena nei suoi messaggi. Ha qualcosa di
cive uolo, mi sembra, ma in fondo perché no? Io e Tod, in fondo,
non formiamo una coppia esclusiva. E la Eileen Co on ventenne, con
i suoi grandi proge i per l’avventura londinese… Lei avrebbe certo
immaginato che fosse previsto più di un uomo.
13
Leena

«Ma non potevi comprarle una torta e basta?» chiede Ethan.


Sto tenendo il telefono in equilibrio sul frullatore d’epoca della
nonna mentre cerco di preparare i brownies. Ho deciso che Roland e
Penelope saranno la mia prima tappa nel percorso per convincere il
comitato del calendimaggio del mio tema medievale. Se una squadra
ha fa o muro contro di te, l’approccio migliore è il “divide et
impera”, e in Penelope ho individuato l’anello debole. Lontana
dall’influenza di Betsy, credo che potrebbe dimostrarsi abbastanza
amichevole. In fin dei conti, mi sta prestando la sua macchina.
«No! Sono nel mio idillio bucolico qui a Hamleigh, ricordi?
Cucinare dolci è molto idilliaco e molto bucolico.» Il coltello scivola
sul blocco di burro freddo, ferendomi il pollice. Mi sforzo di non
imprecare, per non rovinare l’atmosfera da buona massaia che sto
cercando di irradiare.
«Cucinare dolci è anche molto difficile» dice Ethan con calma,
«sopra u o se non l’hai mai fa o prima.»
«Mi sto basando sul post molto a endibile di un blog di cucina»
gli dico, leggendo i minuscoli cara eri sulla stampata vicino al
frullatore e succhiandomi il pollice dolorante. Apro il pacco di
farina, che si strappa, facendomi piovere sui jeans una nevicata di
autolievitante. «Uffa.»
«Andiamo, angelo mio. Compra dei brownies, me ili su un
vassoio e fai qualcosa di interessante, piu osto. Per esempio, sono
ore che studio questa matrice di tracciabilità dei requisiti di sistema e
non faccio il minimo progresso. Hai voglia di dare un’occhiata?»
Mi spolvero i jeans. No, che non ne ho voglia: è incredibilmente
piacevole dimenticarmi della Selmount mentre me ne sto quassù. E
poi le matrici di tracciabilità non piacciono neanche a me.
p p
«Ti spiace se rifiuto?» dico, esitante. «Scusami, ma sento di aver
bisogno di una pausa.»
«Caspita, rifiuti un foglio di calcolo! È la prima volta nella storia.»
«Scusami!»
«Tranquilla. Però devo andare: se devo farlo da solo, mi aspe ano
ore di lavoro.»
«È vero, mi dispiace. Ma nel weekend verrai, vero?»
«Certo, di sicuro, ammesso che riesca a filarmela. Okay, angelo, ci
sentiamo!»
«Buon…»
Oh. Ha già ria accato.

Quella sera Penelope viene ad aprirmi la porta e fissa il vassoio di


brownies molto, molto scuri che le sto porgendo.
«Ehm… buonasera» dice.
«Buonasera! Ti ho preparato i brownies!»
Mi sto affidando al principio “è il pensiero che conta”, perché è
evidente che sono bruciati.
«Senti, sono una cuoca terrificante» confesso «ma ci tenevo a
portarti qualcosa per ringraziarti di aver acce ato di prestarmi la
macchina.»
Penelope per un a imo mi guarda senza capire. «Roland!» strilla,
a volume così alto che rimango a bocca aperta. «Scusami» dice lei,
accorgendosene. «È un po’ sordo, sai. Roland! Roland! C’è qui la
figlia di Marian, vuole parlare della macchina!»
«Magari posso entrare e parlare con tu i e due?» propongo,
mentre Penelope continua a gridare all’indirizzo del marito. Ha dei
polmoni notevoli per essere una donna così piccola e dall’aria così
fragile.
«Uh» dice Penelope, di colpo un po’ sfuggente.
«Penelope, cara!» urla una voce familiare dall’interno della casa.
«Vieni a vedere questi cocktail tropicali che ha preparato Jackson,
sono uno spasso!»
Questa non può che essere Betsy.
Rimango a onita. Jackson appare nel corridoio dietro Penelope.
«Ah, ciao» dice. Regge un cocktail in quello che mi sembra un
bicchiere da frullato. C’è persino un ombrellino giallo in cima.
Un ombrellino richiede una certa pianificazione.
«State facendo un incontro per il calendimaggio senza di me?»
chiedo, fissandolo con il mio sguardo più truce, quello che di solito
riservo ai pervertiti sulla metropolitana.
Jackson fa un passo indietro. «No» risponde. «No, no,
assolutamente. Sto solo preparando un tè per Penelope e Roland, lo
faccio ogni se imana, e a volte vengono anche Betsy e Basil, e per
caso ci siamo trovati… a parlare di cocktail.»
«Ne avete solo parlato, no?»
«Perché non entri, Leena?» chiede Penelope.
Lo faccio. La casa sembra una capsula del tempo venuta dagli
anni Sessanta: un tappeto a motivi autunnali arancioni e marroni,
scuri quadri a olio, tre anatre di porcellana che si arrampicano sulla
parete del corridoio, oltre la tromba delle scale. C’è un caldo
soffocante, e un odore di fiori secchi e sugo.
Roland, Betsy, Basil e Penelope sono seduti a orno al tavolo da
pranzo, tu i con in mano cocktail con ombrellini di colore diverso e
fe e di ananas che adornano i bicchieri.
«Salve» dico, con tu a la giovialità che riesco a racimolare.
«Allora, cosa prevede il menu?»
«Un semplice arrosto» dice Jackson, sparendo in cucina.
Oh, certo, un semplice arrosto.
«E brownies come dessert» aggiunge.
Sono felice che non possa vedere la mia espressione perché sono
sicura di non essere riuscita a nascondere il disappunto. Poso
silenziosamente il vassoio di brownies bruciacchiati sul casse one di
fianco alla porta, chiedendomi se ci sia un posto in cui posso
nasconderlo perché Jackson non lo veda. In un angolo c’è un vaso di
fiori abbastanza grande. Forse il mio dolce potrebbe passare per
terriccio.
«Di che cosa volevi parlare, tesoro?» chiede Penelope, tornando al
suo posto.
«Dell’auto!» dico, dopo aver cercato per un a imo di ricordare
quale fosse la scusa per portarle il dolce.
q p p
«Ah, già. Ti è utile, vero?» chiede Roland.
«Sì, volevo solo ringraziarvi… è davvero meravigliosa» mento.
Quell’auto è un ro ame. Nell’ultima se imana di guida ho
scoperto che l’aria condizionata passa inspiegabilmente da un caldo
sauna a un freddo gelido, e per quanto abbia le o il manuale online
non sono riuscita a capire il motivo. Questo senza dubbio mi rende
una guidatrice più pericolosa. Per esempio, mentre sono al volante,
non faccio che me ermi e togliermi i vestiti.
«Speriamo, per il bene di Penelope, che tu sia più brava di Eileen a
parcheggiare» interviene Basil.
La sua osservazione mi irrita, ma Betsy gli risponde a tono prima
che io ne abbia la possibilità.
«Almeno Eileen ha il buon senso di allacciarsi le scarpe prima di
uscire per strada, Basil» dice, con asprezza.
Basil aggro a la fronte, strofinandosi il ginocchio. «Quella caduta
non era mica da ridere, grazie. E non sono stati i lacci delle scarpe,
ma le buche di Lower Lane. Ci faranno crepare tu i, ne sono certo.»
«È vero» dice Roland. «L’altro giorno per poco non mi ribaltavo
con lo scooter.»
«Cocktail?» chiede Jackson, riemergendo dalla cucina con i guanti
da forno sulla spalla e un nuovo cocktail in mano.
Lo guardo. In effe i, ha un’aria invitante. Ed è una buona cosa
avere un assaggio della concorrenza. «Sì, ti ringrazio. Anche se,
qualora dovessero svolgersi altre riunioni per il calendimaggio, mi
piacerebbe essere invitata» gli dico inarcando le sopracciglia.
«Non era una…» Sospira. «D’accordo. Niente più assaggi di
cocktail tropicali senza che tu ne sia a conoscenza. Soddisfa a?»
«Molto.» Mi viene in mente una cosa. «Già che siete tu i qui,
volevo chiedervi una cosa. Trovare uno sponsor per il
calendimaggio: è stata la nonna a decidere di rinunciare, per qualche
motivo?»
«Ah» dice Basil. «L’ultimo proge o di Eileen. Neanche quello è
riuscita a completare, da quel che ricordo.»
«E adesso che se n’è andata a Londra, abbiamo pensato di non
addossarlo a te» dice Betsy, sorseggiando il suo drink.
Basil scuote la testa incredulo. «Eileen ha qualche idea
strampalata, ma andarsene a Londra mi sembra la più strampalata di
tu e. Lo sapevi che vive con una lesbica?» dice a Betsy. «E come se
non bastasse, una lesbica incinta. Ci puoi credere?»
«Già» interrompo. «Si dà il caso che la lesbica incinta sia la mia
coinquilina e una delle mie più care amiche. Hai un problema con le
lesbiche, Basil?»
Basil è stupefa o. «Cosa?»
«O forse per te è un problema che abbiano dei bambini?»
«Oh, ma io…»
«Forse può esserti utile sapere che i bambini allevati da una
coppia dello stesso sesso in un ambiente stabile crescono altre anto
bene di quelli allevati da una coppia eterosessuale. La cosa
importante, Basil, è stare vicino al proprio bambino, amarlo,
occuparsi di lui… È questo che ti rende un genitore.»
Sto per continuare, ma Jackson si alza bruscamente e si allontana
dal tavolo, lasciandomi senza parole per lo stupore.
Lo guardo andare via. Forse l’ho offeso? È omofobo? La cosa… mi
delude?
«Jackson non ha la fortuna di stare vicino alla sua bambina»
sussurra Betsy.
Mi giro verso di lei. «Come?»
«La figlia di Jackson. Vive in America.»
«Oh… non lo sapevo.» Mi sento avvampare. «Non volevo dire che
non puoi essere un buon genitore se… forse dovrei… andare a
scusarmi…»
Penelope si alza e mi posa una mano sul braccio. «Meglio di no»
dice lei, senza essere scortese. «Vado io.»

«Nonna! Perché non mi hai de o che Jackson ha una figlia?» chiedo


mentre mi allontano dalla casa di Penelope, con le guance ancora in
fiamme.
«Oh, la famiglia Greenwood ha avuto alcuni anni molto
interessanti» mi dice la nonna, usando la voce più bassa di qualche
o ava che riserva ai pe egolezzi più piccanti del paese. «Quando la
madre di Jackson ha lasciato Arnold, lei… Scusami» dice la nonna,
«ho ricevuto un messaggio, fammi solo…»
Tu-tu-tu. Sospiro, aspe o dieci secondi e la richiamo.
«Ho interro o la chiamata, tesoro?»
«Sì, ma non ti preoccupare… mi stavi dicendo della mamma di
Jackson» dico, svoltando in Lower Lane. Basil ha ragione: queste
buche sono pericolose; mi riprome o di chiamare il Comune per
suggerire di sistemarle.
«Aaaah, sì. Insomma, ha mollato il vecchio, scorbutico Arnold ed è
scappata con Denley di Tauntingham. Sai, quello con la casa in
Spagna probabilmente comprata con i soldi sporchi della rivendita
di auto usate di suo padre?»
Rido. «Nonna, sto a malapena venendo a sapere qualche
retroscena di Hamleigh. Non posso ricoprire l’intero Yorkshire per il
momento.»
«Oh, ci me erai un a imo a informarti, basta che prendi un caffè
con Betsy una volta alla se imana. Lei può aggiornarti su tu o
quello che ti serve.»
Faccio una smorfia. Ho l’impressione che Betsy non avrebbe una
gran voglia di prendere un caffè con me una volta alla se imana.
«Vai avanti, nonna… la figlia di Jackson?»
«A quel punto Jackson viveva con Arnold… non ho mai capito
bene perché, ma Jackson sembrava nutrire uno strano affe o per lui,
e così ho scoperto che usciva con una bionda spumeggiante chiamata
Marigold di Daredale che si credeva la prossima star di Hollywood.
Sapevo che era una poco di buono» dice la nonna, e all’improvviso
mi sembra di sentir parlare Betsy. «Portava quelle orrende scarpe
con i tacchi a spillo che restavano sempre impantanate nel fango del
viale o, e strillava finché Jackson non la sollevava di peso.»
«Tacchi a spillo, che roba» dico. «Dove andremo a finire!»
«Oh, non cercare di farmi passare per antiquata» dice la nonna.
«Ti informo che Fi ieri mi ha portato a fare shopping e ho comprato
un sacco di capi di tendenza. E poi ho preso in prestito i tuoi stivali
con il tacco per andare fuori a bere più tardi.»
Sgrano gli occhi, allarmata. Sarà abbastanza stabile per indossare
quegli stivali?
q g
«Ma quella ragazza se ne andava dappertu o con i suoi tacchi e
certe minigonne che quasi le impedivano di muoversi. Jackson era
sempre lì ad aprire porte e aiutarla a salire in macchina e a portarle
la spesa, e lei non alzava mai un dito. Poi la loro storia è finita, o
almeno penso perché lei ha smesso di venire, e sei mesi più tardi è
ricomparsa con una pagno a in forno.»
Questa mi fa ridere. «Una pagno a in forno?»
«Proprio così» dice la nonna con gioia. «Incinta! Poi,
all’improvviso Jackson si trova a passare a Daredale metà del suo
tempo, per badare alla bambina. Questo è successo… mmh… tre o
qua ro anni fa? E infine… colpo di scena… Marigold si è trasferita a
Los Angeles per sfondare nel cinema, e ha portato con sé la piccola.
Jackson non la vede praticamente mai.»
Oh, cielo. Povero, povero Jackson. Mi sento così male per quello
che ho de o a casa di Penelope che non sono nemmeno arrabbiata
con lui per aver organizzato di soppia o quella cosa dei cocktail.
O almeno, non arrabbiatissima.
Il mio telefono vibra. Questo arnese è una reliquia dell’era dei
floppy disc e dei Game Boys, e mi ci vuole un po’ per capire cosa sta
succedendo: sto ricevendo un’altra chiamata.
«Devo lasciarti, nonna… ci sentiamo, ti voglio bene.»
«Oh, ciao, tesoro» dice lei, e io ria acco e passo alla chiamata in
a esa.
«Pronto?» dice una voce tremolante all’altro capo. «Parlo con
Leena Co on?»
«Sì, sono io.» Ho appena usato la mia voce da lavoro. È stato un
po’ strano.
«Mi chiamo Nicola Alderson» dice la signora «e la chiamo per un
annuncio che ho visto al negozio di alimentari, su dei passaggi…»
«Ah!» Ieri sono andata fino a Knargill e ho a accato alcuni
volantini (o meglio, fogli stampati dal computer della nonna): non
mi ero aspe ata una risposta così rapida. «Salve, Nicola, grazie per
avermi chiamato.»
«È sicura che sia gratis?» chiede Nicola. «Sembra troppo… bello
per essere vero. Mio nipote non fa che me ermi in guardia da quelle
e-mail che dicono che hai vinto dei soldi, e un’offerta di passaggi
p gg
gratis mi sembra ricadere nella stessa categoria. Nessuno fa niente
per niente, come si suol dire.»
Annuisco. Non ha tu i i torti. Anzi, vorrei che mia nonna fosse
altre anto sospe osa in questo genere di situazioni. Ci siamo presi
un bello spavento qualche anno fa, quando ha scambiato una le era
truffaldina per una le era ufficiale della banca e ha rischiato di
trasferire tu i i suoi risparmi su un misterioso conto russo.
«Certo. In pratica è andata così: mia nonna ha avuto questa idea
di aiutare le persone che vivono sole a muoversi di più, e siccome al
momento abito a casa sua e mi occupo dei suoi proge i… insomma,
mi è sembrato il modo più semplice di dare una mano. Ho una
macchina e ho del tempo libero, quindi…»
«C’è un modo in cui posso assicurarmi che non mi porterà nei
boschi e mi mangerà?»
Scoppio a ridere. «Ecco» dico, «veramente io potrei chiedere lo
stesso.»
«In effe i…»
«Ho un certificato penale, se può farla sentire più sicura.»
«Non ho idea di cosa sia» dice Nicola. «Ma probabilmente saprò
giudicare vedendola. Vuole che ci incontriamo in chiesa? Dovrebbe
essere una bella delinquente per ammazzarmi lì.»
«Fantastico» rispondo. «Mi dica solo quando.»
14
Eileen

Sono le dieci di sera. Sto baciando un uomo sui gradini di casa sua.
Porto degli stivali con il tacco alto. Le mani di Tod si insinuano so o
la mia giacca, e il pollice sfiora la cerniera dell’abito lungo di lino,
come se cercasse la strada per dopo.
Da quando ho incontrato Tod mi è sembrato di aver aperto una
porta su una parte di me stessa che avevo dimenticato. Ieri mi sono
trovata a ridacchiare per l’emozione. Non sono sicura di averlo fa o
nemmeno da giovane.
È piacevole. Davvero. Ma percepisco anche un fremito oscuro e
colpevole nella pancia. Sono stata così brava a lasciarmi Wade alle
spalle. Da quando ho cominciato a uscire con Tod, però, è diventato
più difficile non pensare a lui.
Penso che sia solo questione di rinunciare a un’abitudine. In
fondo, erano cinquant’anni che non baciavo un uomo che non fosse
mio marito. Le labbra di Tod sono così diverse; anche la forma della
testa, del collo, delle spalle sembra strana al ta o dopo tanti anni
passati a imparare a memoria i contorni del corpo di Wade. È come
provarsi i vestiti di qualcun altro. Strano e sconcertante, senza
dubbio… ma divertente.
Mi stacco rilu ante dal suo abbraccio.
«Ti va di venire su?» dice Tod.
«Non ancora.» Gli sorrido. «Siamo solo al terzo appuntamento.»
Queste erano le mie condizioni. Ho acce ato tu e le clausole di
Tod per questa nostra relazione, ma ho de o che non sarei andata a
le o con lui prima della quinta uscita. Volevo il tempo di decidere se
potevo fidarmi. Non mi spiace divertirmi un po’, ma non ho
intenzione di… come ha de o Fi ?… diventare il “gioca olo” di
qualcun altro. In fin dei conti il sesso per me significa qualcosa, e non
voglio condividerlo con un uomo che non mi piace tanto.
Si dà il caso, però, che Tod mi piaccia moltissimo. Tanto che la mia
regola sembra quasi…
Lui alza un sopracciglio. «Riconosco una donna che sta per cedere
quando la vedo» dice. Mi stampa un altro lungo bacio sulle labbra.
«Sali su un taxi prima che facciamo qualcosa di cui potremmo
pentirci, eh? Le regole sono regole.» Mi strizza l’occhio.
Santo cielo, quell’occhiolino!
Meglio che prenda un taxi.

Il giorno dopo dormo fino a tardi, e mi sveglio alle o o. Quando esco


dalla stanza di Leena, trovo Martha in lacrime sul divano.
«Oh, Martha!» Mi fermo incerta sulla soglia. Non voglio me erla
in imbarazzo. Ma lei si volta verso di me con il viso bagnato di
lacrime e mi fa cenno di avvicinarmi.
«Per favore, venga qui a sedersi con me» dice, accarezzandosi la
pancia. «Piangere da sola è veramente cadere in basso. Di solito ho la
spalla di Leena su cui piangere.» Tira su con il naso. «Ha un
bell’aspe o, signora Co on. Ooh, ieri è uscita con il suo bel
spasimante?»
Mi sento avvampare. Martha sorride.
«Non si affezioni troppo, se lo ricordi» dice lei, soffiandosi il naso.
«Anche se glielo dico solo perché mi ha de o di ricordarglielo.
Personalmente, mi sembra un o imo partito.»
«Non pensare a me. Qual è il problema, tesoro?» Esito. «Se non ti
spiace che te lo chieda?»
«Io e Yaz stiamo per andare a vivere in una ville a» dice. «A me
non piace, ma lei dice che non abbiamo tempo di fare le schizzinose
e io ho de o che è una decisione così importante che non voglio fare
le cose di fre a, e…» Si me e a piangere di nuovo; le lacrime le
gocciolano dal mento. «Ho tanta paura che non sarò capace, che non
sono pronta per avere un bambino, e il fa o che Yaz sia la solita Yaz
in tu i gli altri campi non aiuta. Presto arriverà il piccolo, e Yaz
pensa che tra noi non cambierà niente. Invece cambierà, vero? Sarà
tu o diverso. E spaventoso. E noi davvero non siamo pronte. Oh,
santo cielo…»
Cerco di ricordarmi il panico dolceamaro di scoprire che ero
incinta. Quel momento era stato complicato per me e Wade. Non
eravamo sposati quando Marian è stata concepita. Nemmeno
fidanzati, in realtà. Io ero stata bravissima a coprire il pancione nelle
foto di nozze, quindi adesso nessuno lo sa, nemmeno Marian, e
preferisco così. Ma ricordo, in tu o quel caos, i momenti di puro
panico che mi facevano perdere la testa, come sta succedendo adesso
a Martha.
Era stato il cambiamento di programma a sconvolgermi. A quel
punto dovevo dire addio al sogno di un lavoro a Londra, di lasciare
un segno, di vivere delle avventure; o meglio, l’avventura più
grande, ma che avrei dovuto affrontare nel mio paesino. Non era
possibile lasciare Hamleigh a quel punto. E quanto agli uomini…
be’, avrei dovuto accontentarmi di Wade, per sempre. Lui si era
comportato da uomo onesto e mi aveva chiesto di sposarlo, e io
gliene ero stata grata. Chissà come avrebbero reagito mia madre e
mio padre se lui non l’avesse fa o.
Prendo la mano di Martha. «Sai cosa ti serve, tesoro?» le dico. «Ti
serve una lista. Prendiamo carta e penna e appuntiamoci tu i i
compiti che dobbiamo portare a termine prima dell’arrivo del
bambino, così possiamo stilare un programma, e un programma di
riserva.»
Questo la fa sorridere. «Ora capisco da chi ha preso Leena,
signora Co on.»
«Chiamami Eileen, per favore» dico. «Non mi sento più una
“signora”.»
Tiro fuori il mio nuovo quaderno dei proge i e comincio l’elenco.
«Ah! Hai parlato con il proprietario della zona comune?» chiedo,
intravedendo la “rinfrescata” nella lista di cose da fare.
Martha raddrizza la schiena, asciugandosi la faccia. «Sì, volevo
dirtelo. L’idea gli è piaciuta un sacco. Ha de o che è persino
disposto a me erci un po’ di soldi. Solo cinquecento sterline, ma…»
«Cinquecento sterline?» Rimango di stucco. «Ma basta e avanza!»
Guardo Martha. Ha l’aria di essere rimasta lì a piangere sul divano
p g
per un pezzo. «Forse adesso non è il momento di pensare a questo.
Possiamo lavorare dopo alla tua lista.»
«In realtà, sai cosa? Facciamolo. Ho frignato abbastanza.» Si alza,
strofinandosi gli occhi. «Stavo pensando che potremmo dare
un’occhiata al riga iere in fondo alla strada, per vedere se troviamo
qualche mobile carino senza spendere troppo!»
Sorrido. «Io ho un’idea migliore.»

«Oh, mio Dio.» Martha si porta le mani alla gola. «Questo posto. È la
gro a del tesoro. Ma quello è un Chesterfield autentico? Dietro la
poltrona?»
Inizia a scavalcare uno dei tanti tavolini di Letitia nell’ansia di
arrivare al divano; allungo una mano per aiutarla, ridendo.
«Con calma, tesoro. Ci servirà un aiuto per spostare tu a questa
roba.»
«E lei è davvero sicura che possiamo tenerla al piano di so o?»
chiede Martha a Letitia, con gli occhi spalancati.
Letitia fa spallucce. «Perché no? Finché non se ne va in giro per la
ci à, a me sta bene prestarla. Sopra u o se…» Ha un’esitazione. «Mi
piace l’idea di una zona di ritrovo. Potrebbe essere un bel modo per
conoscere gente.»
Mi soffermo a rifle ere, giocherellando con una delle ceste di
cianfrusaglie di Letitia. Devono esserci un sacco di persone come
Letitia in circolazione. Non riesco a immaginare che gli altri
condomini siano meglio di questo nel far socializzare le persone.
Dev’essere dura vivere soli in questa ci à, sopra u o per gli anziani.
«Pensi che il proprietario ci lascerebbe usare lo spazio per
qualcosa di… un po’… più ambizioso?» chiedo a Martha.
«Perché? Cos’ha in mente?»
«Non lo so ancora bene» dico. «Ma… Letitia, tu ce l’avresti
qualche tavolo da pranzo in più?»
«Ne ho alcuni di riserva» dice. «In cantina.»
Martha sembra sul punto di svenire. «Riserva!» esclama. «C’è una
riserva!»
«Facci strada» dico a Letitia. «E mentre andiamo dobbiamo
trovare qualche aiutante. So chi fa al caso nostro.»
q
I tizi maleducati con i sandali che mi avevano guardato esasperati
si chiamano Rupert e Aurora, come ho scoperto (grazie alle pareti
so ilissime). Busso con decisione alla loro porta, affiancata da Letitia
e Martha.
Rupert viene ad aprire e sembra colto alla sprovvista. Con aria
assorta, si accarezza la pancia rotonda e si sistema i capelli dietro le
orecchie.
«Ah, salve» dice. «Temo di aver dimenticato il suo nome… Isla?»
«Eileen» lo correggo. «Eileen Co on. Lei è Martha, e lei Letitia. E
lei?»
«Rupert» risponde lui, tendendo la mano. È schizzata di pi ura.
La stringo, ma solo dopo un paio di secondi. Un conto è il buon
vicinato, un conto non avere spina dorsale.
«Senta, Eileen, volevo venire da lei per chiederle scusa» dice
Rupert, con aria mortificata. «La mia ragazza può essere un po’
scorbutica quando sta lavorando a una nuova opera… fa la scultrice.
La prima volta che l’abbiamo incontrata stava lo ando con una
statua in ferro molto difficile, non mangiava da quasi un giorno e… è
stata piu osto scortese. Mi dispiace davvero. E anche a lei.»
Il mio sorriso si fa un po’ meno altezzoso. «Be’, tu i possiamo
avere la luna storta quando abbiamo fame» dico, comprensiva. «E se
vuole farsi perdonare, abbiamo un lavoro per lei. Venga.»
«Che cosa?… Adesso?»
Mi giro di nuovo a guardarlo. «Ha da fare, eh?»
«No, no» si affre a a rispondere. «Mi me o le scarpe e sono tu o
vostro.»

Siamo disposti in cerchio al centro di quello che presto sarà il nostro


spazio comune, con un’accozzaglia di mobili su ogni lato, il sole che
entra dalle splendide vecchie finestre.
Ora che tu i mi guardano con tanta aspe ativa, la mia sicurezza
vacilla. Per un a imo, mi sento la vecchia me stessa; mi viene in
mente il cerchio di volti a oniti nella sala comunale ogni volta che
propongo una nuova idea agli incontri del Comitato di vigilanza.
Deglutisco a fatica. Chi non risica… e tu o il resto. Che cosa
farebbe Leena?
«Pensavo che potremmo creare un circolo» dico, giocherellando
con la tracolla della borsa. «Potrebbero essere organizzate delle
a ività: domino, giochi di carte, Scarabeo, questo genere di cose. E
un pasto caldo, se troviamo il modo di finanziarlo. Stare qui a
Londra, alla mia età, mi ha fa o capire che alcune persone anziane
potrebbero sentirsi sole.»
C’è un lungo silenzio.
«Forse è un’idea stupida. Basil dice sempre che i miei proge i
sono troppo ambiziosi. Ma io… una volta, quando ero più giovane,
stavo per venire a Londra a lavorare a una cosa un po’ simile, per i
giovani. E adesso penso che sarebbe… insomma, per me sarebbe
davvero speciale poter creare una comunità qui, ma stavolta per gli
anziani.» Alzo le spalle, un po’ sfiduciata. «Forse non è fa ibile. Non
saprei nemmeno da dove cominciare.»
«Il parquet» dice Martha all’improvviso.
Ci voltiamo tu i a guardarla.
«Scusate» dice, saltellando sulla punta dei piedi. «Ma penso che
so o questa moque e logora potrebbe esserci del legno, e ho
pensato che potrebbe essere il punto da cui partire se vogliamo
rendere questo posto più invitante. Dopodiché possiamo me ere i
giochi da tavolo qui, le partite a carte qui… Magari il bridge, mio
nonno è un appassionato. E un tavolo più lungo là in fondo, per
mangiare tu i insieme.» Mi sorride. «Mi piace un sacco la tua idea,
Eileen. È geniale. E non è troppo ambiziosa, per niente.»
«Non ci sono idee troppo ambiziose» dice Fi . «O almeno così mi
dice sempre Leena quando cerco delle scuse per non candidarmi a
un certo lavoro.» Mi strizza l’occhio. È arrivato proprio mentre
stavamo trascinando un enorme tavolo pieghevole dalla cantina di
Letitia, e – che Dio lo benedica – ha mollato le borse, si è rimboccato
le maniche ed è venuto in nostro soccorso. Da quel momento non ha
smesso di spostare mobili.
«Cosa ne dici, Letitia?» chiedo, con un certo nervosismo. «Pensi
che qualcuno verrebbe?»
«Io ci verrei» dice lei dopo un a imo. «E penso che ci siano altre
persone come me, anche se non ho mai capito come si faccia a
trovarle.»
Questa, senza dubbio, è la prossima difficoltà. Apro la borsa e tiro
fuori il quaderno, ansiosa di cominciare una nuova lista.
«Parlerò di nuovo con il proprietario, e poi farò un giro di e-mail
per vedere se tu i gli inquilini sono d’accordo» dice Martha.
Letitia fa una smorfia. «Dobbiamo proprio chiedere a tu i?
Chiunque si sia lamentato del fa o che ero seduta qui probabilmente
non sarà felice di vedere una cricca di vecchie i che ciondolano qua
so o, no?»
Incasso il colpo. «Ah.»
«Qualcuno si è lamentato del fa o che era seduta qui?» chiede Fi ,
rialzandosi dopo aver cercato di sollevare un lembo di moque e
dietro istruzioni di Martha. «Ma è terribile!»
Letitia alza le spalle.
«Be’» dice Fi «chiunque sia stato ormai deve essersi trasferito.
Sono abbastanza sicuro che io, Leena e Martha a questo punto siamo
i residenti di più lunga data.»
«Io abito qui da trent’anni» obie a Letitia.
Fi la guarda sconvolto. «Oh, caspita. Allora vince lei.»
«Potrei tenere un corso di pi ura» salta su Rupert, guardando
l’angolo della stanza che Martha non ha ancora assegnato a nessuna
funzione. «Per il circolo. Io e Aurora potremmo farlo insieme.
Abbiamo un sacco di avanzi, pi ura in più, gesse i, questo genere di
cose.»
Lo guardo raggiante, riprendendo coraggio. «Meraviglioso!»
«E il tizio dell’interno 17 è un prestigiatore. Immagino che
potrebbe fare qualche spe acolino, magari addiri ura un
laboratorio» propone Rupert.
Tu a ringalluzzita, comincio a scrivere. «Bene» dico. «Punto uno:
parquet. Punto due…»

Dopo una giornata meravigliosa e sfiancante di programmi,


tinteggiatura e spostamento di mobili, crollo sul le o e cado in un
sonno più profondo di quanto mi succeda da anni. Quando mi
sveglio, mi viene in mente che ho dimenticato di ringraziare Letitia
per aver donato tu i quei mobili. È stato davvero molto generoso.
D’un tra o sento l’urgenza di ricambiare la sua generosità, e slancio
g g
le gambe giù dal le o con tanto entusiasmo che mi ci vuole un
a imo per riprendermi prima di alzarmi in piedi.
«Vuoi andare a fare shopping?» chiede Letitia sospe osa quando
mi presento davanti alla sua porta con le mie scarpe più comode e la
mia borsa più capiente. «Che cosa vuoi comprare?»
«Nuovi vestiti! Offro io, per ringraziarti!»
«Oh, non devi spendere soldi per me» dice Letitia, inorridita.
«Il mio ex marito non aveva idea di quanti risparmi ho messo da
parte negli anni, e ho in mente di spenderli prima che se ne accorga e
tenti di me erci le mani sopra. Dài. Dammi una mano.»
Questo le suscita un sorriso. «Io non seguo molto la moda» dice.
«E dove possiamo andare a fare shopping?» Il suo sorriso svanisce, e
sembra un tantino nervosa. «Non vorrai mica andare a Oxford
Street?»
Non ho in programma di ripetere l’esperienza di Oxford Street.
Sono stata pugnalata da un ombrello, presa a male parole da un
turista americano inferocito, e, non so perché, tallonata da una
guardia di sicurezza dentro Primark.
«No, andremo nei negozi dell’usato» dico. «Ce ne sono cinque in
un raggio di dieci minuti da qui e sono pieni di gioiellini scartati
dagli elegantoni londinesi.»
Letitia si illumina. Avevo sospe ato che i negozi dell’usato fossero
più ada i a lei dei centri commerciali che sembrano vendere abiti
solo per persone alte con il seno prosperoso e la vita da uccellino. E
anche se questa parte di Londra all’inizio mi era sembrata sordida –
con tu i quei graffiti, i negozi di tatuaggi, le motocicle e – adesso la
preferisco di gran lunga al rumore e al caos del centro.
Da quando Fi mi ha portato a fare shopping, ho imparato tu o
sul tema “nuovo look”. Fi mi ha fa o provare le cose più assurde:
gonne che mostravano le ginocchia, scarpe che non si possono
portare con le calze. Poi mi sono resa conto che era una ta ica astuta
per rendermi più avventurosa. Una volta che ho provato una gonna
corta in jeans la mia zona di comfort si è estesa al punto che non è
sembrato un azzardo comprarmi il vestito di lino con le maniche
lunghe che ho indossato per il mio terzo appuntamento con Tod, per
esempio, e dopo aver infilato i piedi in sandali con il tacco, gli
p p p g
splendidi stivali di cuoio che mi ha convinto a prendere in prestito
da Leena mi sono sembrati quasi comodi.
Ci provo anche con Letitia, solo che mi spingo troppo oltre e lei
quasi scappa da Save the Children quando cerco di infilarle una
camice a rosa a illata. Tento un nuovo approccio e le parlo del suo
gusto, ma lei insiste cocciutamente che la moda non le interessa e le
va benissimo la sua tunica blu scuro, che non ha bisogno di essere
lavata tanto spesso quanto la gente crede.
Infine, quando sto per arrendermi, la vedo ammirare una giacca
ricamata da Help the Aged. Mi si accende una lampadina. Ricordo
quale straordinario antro di stravaganze sia l’appartamento di Letitia
e la osservo più da vicino.
«Che cosa stai guardando?» chiede lei sospe osa.
«I tuoi orecchini» dico. «Sono splendidi. E anche gli ultimi che
avevi erano fantastici.»
«Oh.» Sembra compiaciuta. «Grazie. Sono degli anni Quaranta: li
ho trovati in un mercatino e li ho lucidati io stessa.»
«O imo acquisto!» La trascino fuori dal negozie o verso il
gigantesco Oxfam dove Fi si è comprato tre camicie floreali.
«Guarda» dico, con disinvoltura. «Hanno alcune cose d’epoca.
Perdiana, guarda il motivo a edera di questa gonna! Pazzesco!»
Se Letitia fosse stata un ga o, avrebbe rizzato le orecchie. Si
avvicina e allunga la mano per accarezzare la stoffa.
Devo cambiare la sua visione dell’abbigliamento. È una gazza
ladra, colleziona ogge i bellissimi: perché non usarli anche per
valorizzare se stessa? Se prestasse alla sua persona metà
dell’a enzione che riserva a casa sua… Forse sembrerebbe ancora
un’eccentrica, ma almeno sarebbe un po’ fiera del suo aspe o.
«Devo… devo provarla?» chiede Letitia nervosa, tenendo in mano
la gonna con il motivo d’edera.
«Perché no?» chiedo, già spingendola nella cabina di prova.
15
Leena

Ant/Dec mi sveglia, come ormai è nostra abitudine; a essere sincera


comincia a piacermi una testa pelosa sulla faccia quando apro gli
occhi. È molto più gradevole della sveglia.
Balzando giù dal le o, fa cadere dal comodino la pietra di luna
della mamma. La raccolgo, facendola rotolare tra le dita. Ha una
sfumatura azzurra e un aspe o quasi alieno. Mi chiedo chi abbia
stabilito che significa “nuovi inizi”.
Con una certa esitazione, prendo il telefono. C’è un messaggio
della buonano e di Ethan, mandato all’una con qua ro baci al posto
dei soliti tre. Anche questo weekend il lavoro gli impedisce di
venirmi a trovare: sono qui da tre se imane, ormai, e lui non è
venuto neanche una volta. Lo capisco, ma è comunque frustrante.
Scorro la rubrica. La mamma si sveglia ancora prima di me: di
solito alle cinque.
La chiamo. Le ho mandato un messaggio quasi tu i i giorni, per
controllare se avesse bisogno di qualcosa, e lei ha sempre risposto di
no. Avrei dovuto chiamarla o passare di nuovo a trovarla, ma…
«Pronto? Leena? Tu o bene?»
Il panico nella sua voce mi proie a indietro nel tempo. Solo
perché il mio telefono squilla così spesso ho scacciato l’ombra
dell’improvviso, nauseante terrore che provavo ogni volta che
suonava nel periodo in cui Carla stava morendo, la convinzione che
quella chiamata mi avrebbe portato la notizia più bru a del mondo.
Ora, mentre sento il terrore nella voce di mia madre, sento una fi a
allo stomaco. Mi alzo dal le o per camminare avanti e indietro,
sudata, ansiosa di porre fine alla chiamata prima ancora di dire una
parola.
«Pronto, scusa mamma, va tu o bene!» mi affre o a dire. «Volevo
solo salutarti, e dirti che domani sera c’è il bingo, magari vuoi venire.
Il pulmino lo guido io.»
Una breve pausa. «Oh, io… Ma sì, perché no? Se ti fa piacere che
venga…»
Rimane in silenzio.
«Ma certo che mi fa piacere!» dico con voce troppo stridula, e mi
premo un pugno nel punto tra le costole dove si sta formando il
solito nodo. «Certo, vieni, dài! Alle cinque di pomeriggio. D’accordo?
Fantastico.»
Se ria acco questa sensazione di panico sparirà, ma non ho de o
quello che volevo dire, non davvero.
«Leena, fai un bel respiro» dice la mamma.
Chiudo gli occhi e rallento la respirazione. La sensazione
formicolante al pe o e al viso si a enua, finché gli spilli che mi
trafiggevano si trasformano in una pioggerella leggera sulla pelle.
Apro gli occhi e faccio un ultimo respiro profondo. «Mamma, la
nonna mi ha de o che sei stata dal medico e lui ti ha dato degli
antidepressivi.»
Una lunga pausa. «Già» risponde lei.
«Non mi ero resa conto che le cose andassero… così male» dico.
«Mi… mi dispiace.»
«Non preoccuparti, tesoro.» La sua voce adesso è più calma.
«E ti stanno aiutando?»
«In effe i, sì. Anche se è difficile capire se siano gli antidepressivi
o i cristalli.»
Alzo gli occhi al cielo.
«Hai appena alzato gli occhi al cielo?»
«No.»
La sento sorridere. «Sei così sicura, tu, del mondo, Leena. Ma io
non sono come te. Tu sai qual è per te il modo migliore di guarire, e
l’hai applicato: lavorare sodo, so raendo il tempo a me e a tua
nonna. Io non ho ancora capito come guarire. Quindi le sto
provando tu e. È il mio modo.»
Rigiro di nuovo la pietra di luna tra le dita.
«Non sono sicura di conoscere il modo migliore di guarire» dico
con un filo di voce. «Non sono sicura che me la sto cavando troppo
bene, a dirla tu a.»
«È per questo che sei qui?» chiede la mamma. «A Hamleigh?»
«Forse.» Inghio o la saliva. «Allora ci vediamo al bingo?»
«Ci vediamo al bingo.»
Dopo la chiamata stendo le braccia in fuori: sono contra e, come
se avessi stre o il volante per un viaggio lungo e difficile. Ho troppo
caldo. Mi trascino fuori per una corse a, molto breve. Quando torno
e preparo il caffè, sto respirando in modo normale, sento di avere la
situazione più so o controllo, ma continuo comunque a passeggiare
per la sala da pranzo con la tazza tra le mani, incapace di restare
seduta per più di due secondi. Ho bisogno di una distrazione.
Sento dei colpi insistenti alla finestra della cucina.
Gemo. Non questa distrazione, per favore. Sono solo le se e e
mezzo del ma ino: cosa mai può volere Arnold a quest’ora? Quasi
quasi fingo di essere ancora a le o.
«Ehi!» urla Arnold. «Vedo che le luci sono accese! Ehi!»
Potrei anche dormire con le luci accese. Questa è una casa grande,
vecchia, magari la trovo spaventosa.
«Ehi! Dal bollitore esce ancora il vapore, devi essere sveglia. Ehi!»
Potrei anche essermi fa a una tazza di tè ed essere tornata a…
«Ehi, Leena! Ti ho visto tornare dalla corsa. Ehi!»
Ma santo cielo, perché quest’uomo non è nel Comitato di
vigilanza? È la sua vocazione. Stringo i denti e vado in cucina.
«Buongiorno, Arnold» dico, con tu a la gentilezza che riesco a
racimolare. «Quale sarebbe il problema?»
«La tua macchina» dice Arnold. «È dentro la siepe.»
Sba o le palpebre. «La mia… Come, scusa?»
«La tua macchina» dice Arnold con pazienza. «La siepe. Ci è finita
dentro. Vuoi una mano a tirarla fuori?»
«Oddio» dico, chinandomi in avanti per cercare di vedere il
viale o. «Come ha fa o a finire nella siepe? Quale siepe?»
«Avevi messo il freno a mano?» chiede Arnold.
«Ma certo!» dico, cercando di ricordare se l’ho fa o. Era un bel po’
di tempo che non guidavo: a Londra ovviamente non ho un’auto,
p g
perché a Londra hai un’auto solo sei stai cercando l’occasione per
sfogare l’aggressività al volante o per lanciarti in una manovra di
parcheggio al cardiopalma. «Oh, mio Dio, ho distru o la macchina
di Penelope?»
Arnold si strofina il mento, guardando in direzione del viale o.
«Vuoi che la tiriamo fuori dalla siepe, così lo scopriamo?»

A quanto pare, non ero stata abbastanza determinata nel tirare il


freno a mano.
Arnold, che è molto più forte di quanto sembri, mi ha aiutato a
spingere la Ford Ka fuori dalla siepe di cipressi, abbastanza da
perme ermi di salire al posto del guidatore. Innesto la retromarcia,
con le ruote che stridono, e Arnold alza il pollice quando guadagno
la ghiaia del viale o. Spero che alla nonna non importi se adesso la
sua siepe di destra ha una grossa rientranza a forma di auto, con
linee scure che corrono sull’erba dove sono passate le ruote.
«È bella, quella macchina» dice Arnold, mentre scendo e sba o la
portiera. «Come si chiama?»
«Come si chiama?»
«Non le hai dato un nome?» chiede Arnold, sfregandosi le mani
sui pantaloni. Sembra pieno di energia. Con una maglie a larga e un
cardigan di lana al posto del solito maglione divorato dalle tarme, e
un berre o che gli copre il riporto, dimostra dieci anni di meno. Lo
guardo strofinare il finestrino della macchina con un fazzole o che
ha tirato fuori dalla tasca.
«Non gliel’ho dato» rispondo. «Hai qualche idea?»
«La mia si chiama Wilkie» dice.
«Davvero? Come Wilkie Collins?»
Arnold si impe isce, con aria estasiata. «Ti piace?»
«La nonna una volta mi ha regalato La pietra di luna per Natale. Mi
è piaciuto un sacco. Lei mi regalava sempre libri.»
Arnold appare interessato. «Non ho mai saputo che fosse una
le rice.»
«Oh, certo. Agatha Christie è la sua preferita. Adora i gialli.»
«Come tu e le persone ficcanaso» dice Arnold seccamente. «È una
buona scusa.»
Io rido, sorpresa. Era quasi una ba uta. Chi avrebbe mai de o che
Arnold potesse essere spiritoso?
«Allora chiamiamo l’auto Agatha, in onore della nonna» dico,
dandole una pacca sul te uccio. Poi, d’impulso: «Non è che hai
voglia di entrare per un caffè?».
Arnold guarda la casa della nonna. «Entrare?»
«Già, per un caffè. O un tè, se preferisci.»
«Eileen non mi ha mai invitato a entrare» dice Arnold.
Storco il naso. «Mai?» Non è proprio da mia nonna. Lei invita
sempre chiunque, e se rientrano nella categoria di “vicini” hanno
praticamente la chiave.
«Io e tua nonna non andiamo molto d’accordo» dice Arnold.
«Siamo partiti con il piede sbagliato molto tempo fa e da allora lei mi
disprezza.» Alza le spalle. «Non è un problema mio. Per come la
vedo, se non ti piaccio ti arrangi.»
«Spesso è un sentimento molto ammirevole» dico «ma a volte è
anche una scusa per essere scorbutici e irragionevoli.»
«Eh?» dice Arnold.
«Ti ho visto, al ma ino, mentre curi le piante della nonna.»
Arnold ha un’aria imbarazzata. «Ma no, è solo che…»
«Ed eccoti qui, che mi hai appena aiutata a tirare fuori la
macchina da una siepe.»
«Ho solo pensato…» Aggro a la fronte. «Dove vuoi arrivare?»
«Non sono sicura di credere alla storia dello scorbutico, tu o qui.»
Chiudo la macchina e mi avvio verso la panchina so o il melo della
nonna; dopo un istante, Arnold mi imita. «E poi non è mai troppo
tardi per cambiare: basta guardare mia nonna. Il nonno se n’è
andato, e lei che ha fa o? È partita per una nuova avventura a
Londra e ha cominciato a conoscere uomini su Internet.»
Arnold sembra esterrefa o. «Su Internet? Tua nonna?»
«Già. Secondo me è una bella cosa. Si merita una storia sua, sai, e
una pausa dopo aver badato a tu e noi.»
Quel pensiero sembra disturbare un po’ Arnold. «Su Internet»
ripete alla fine. «Pensa un po’. Quella donna è una forza della
natura.» Mi lancia un’occhiata. «Dev’essere una costante nella vostra
famiglia.»
g
Sbuffo. «Non so che cosa ti abbia dato questa impressione. Da
quando sono arrivata qui, non ho fa o che combinare casini. Anzi,
diciamo le cose come stanno: da un anno a questa parte non ho fa o
che combinare casini.»
Arnold mi guarda stringendo gli occhi. «Da quello che ho sentito,
mentre cercavi di superare la morte di tua sorella, hai conservato un
lavoro in ci à con orari impossibili, hai aiutato il tuo fidanzato, hai
messo Betsy al suo posto e hai fa o in modo che Penelope sme esse
di guidare.»
Ammutolisco per lo stupore. Qui tu i parlano così apertamente
della morte di Carla, come se fosse una cosa capitata a tu i noi: avrei
pensato che potesse darmi fastidio, invece per qualche motivo
migliora le cose.
«Non era mia intenzione rime ere Betsy al suo posto» dico. «È
questo che dice la gente?»
Arnold ridacchia. «Ah, lo vedono tu i che le dai del filo da
torcere. Ma non preoccuparti, ha bisogno di abbassare la cresta ogni
tanto. Cerca sul vocabolario “impicciona” e troverai lei.»
In realtà io penso che Betsy non sia solo quello. C’è qualcosa di
difensivo nella sua prepotenza, come se volesse anticiparti, dirti
come vivere la tua vita prima che tu possa dirle come vivere la sua.
«Come vanno le cose con Cliff, suo marito?» chiedo.
Arnold abbassa gli occhi, trascinando un piede. «Mmh» dice.
«Bru a storia. Quel tizio non lo augurerei a nessuna.»
«In che senso?» Preoccupata, ricordo la fre a con cui Betsy si era
alzata quando Cliff l’aveva convocata a casa da Clearwater Co age.
«Dici che… tra a male Betsy?»
«Io non ne ho idea» si affre a a dire Arnold. «Tra moglie e marito
non me ere il dito.»
«Certo, ma… solo fino a un certo punto, no? Hai mai visto
qualcosa che ti abbia fa o preoccupare?»
«Non dovrei…» Arnold mi guarda di so ecchi. «Non sono affari
miei.»
«Non voglio spe egolare» dico. «Voglio solo assicurarmi che
Betsy non abbia problemi.»
Arnold si strofina il mento. «Ci sono delle cose che non tornano.
Cliff è un tipo pignolo. Si arrabbia quando Betsy fa qualcosa di
sbagliato. Di questi tempi lui non esce molto: lei è praticamente al
suo servizio, a quanto mi pare di capire, ma se passi davanti a casa
loro con le finestre aperte al momento sbagliato sentirai come le
parla, e non è…» Arnold scuote la testa. «Non si dovrebbe parlare
così a una donna, dico solo questo. La sta logorando. Lei non è più
quella di un tempo. Ma tu i facciamo quello che possiamo.
Chiunque in paese la prenderebbe in casa se ne avesse bisogno.»
Lei questo lo sa?, mi chiedo. Qualcuno glielo dice espressamente,
o fanno tu i quello che fa mia nonna: stanno in silenzio, per non
interferire? Mi riprome o di sforzarmi di più con Betsy. Non sono
esa amente la persona che lei sceglierebbe per confidarsi, ma forse
potrei diventarlo.
Di colpo, Arnold si ba e la fronte. «Porca miseria. Volevo
chiederti una cosa. È per questo che ero venuto, in realtà. Stama ina
non hai da fare, vero? Ci servirebbe un favore.»
«Cioè?» chiedo, diffidente, chiedendomi che cosa indichi quel
plurale.
«Sai che giorno è oggi?»
«Ehm…» In tu a sincerità, ho un po’ perso il conto. «Domenica?»
«È la domenica di Pasqua» dice Arnold, alzandosi dalla panca. «E
ci serve un coniglio pasquale.»
«Jackson. Avrei dovuto saperlo che c’eri tu dietro questa storia.»
Jackson sembra perplesso. Le spalle del suo maglione sono fradice
di pioggia, e ha in mano un cesto di vimini pieno di uova di
cioccolato ricoperte di stagnola colorata. Siamo nella sala comunale,
che è stata decorata con speciali bandierine pasquali e grossi cartelli
che proclamano che questo è il punto di partenza dell’annuale caccia
alle uova di Hamleigh-in-Harksdale, che partirà fra mezz’ora.
«Dietro questo… evento gratuito per bambini?» chiede.
«Sì» dico io. «Sì, esa o.»
Lui mi rivolge uno sguardo innocente, ma io non ci casco. Mi sta
prendendo in giro, ci scomme erei. L’altro giorno ho fa o dei
progressi concreti con il do or Piotr, nella coda al negozio del paese:
mi ha quasi promesso che voterà il mio tema per il calendimaggio.
q p p gg
Poi ho visto Jackson che sfogliava i quotidiani alle nostre spalle,
senza dubbio origliando.
Questa dev’essere la sua vende a.
«La nostra Leena non è uno schianto?» chiede Arnold da dietro.
Indosso un paio di pantaloni bianchi di pile con una coda da
coniglio cucita sopra; sono circa di sei taglie più grandi, e tra enuti
da una cintura di pelle prestata da Arnold. Sfoggio anche un gilet
con (nel caso non fosse chiara la situazione) dei coniglie i disegnati.
E un paio di orecchie da coniglio. Non dovrebbero essere sexy, le
orecchie da coniglio? Io mi sento una pagliaccia.
«Zi o, Arnold» dico.
Un sorriso incurva le labbra di Jackson. «Ancora meglio di quanto
mi aspe assi. Ti dona.»
Sento un verso di sorpresa alle mie spalle. Mi giro e mi trovo di
fronte una bambina incredibilmente carina. Ha i capelli biondi
raccolti in due codini storti, una lunga striscia di quello che sembra
pennarello indelebile sulla guancia, e una delle gambe dei pantaloni
arrotolata a rivelare una calza lunga a righe. Ha entrambe le mani
sulle guance, come l’emoji della faccia sorpresa, e gli occhi azzurri
spalancati… e molto familiari.
«Il coniglio pasquale» sussurra, guardandomi ammirata. «WOW .»
«Samantha, mia figlia» dice Jackson. «Crede moltissimo nel
coniglio pasquale.»
Questo è un monito. Per chi mi ha presa, per un mostro? Forse
non mi piacerà tanto essere vestita come un ridicolo coniglio, ma è
ovvio che c’è solo un modo appropriato per reagire a questa
situazione.
«Oh, ma ciao, Samantha» dico, accovacciandomi. «Come sono
contenta di averti trovata!»
«Trovata?» dice lei, con gli occhioni sgranati.
«Ho lasciato la mia tana stama ina presto e ho saltellato per tu a
la campagna in cerca di qualcuno che potesse aiutarmi, e penso che
quella persona potresti essere proprio tu, Samantha.»
«Io?» dice lei, senza fiato.
«Be’, vediamo, che dici? Ti piacciono le uova di cioccolato?»
«Sì!» dice Samantha, con un saltello.
«Sei brava a nascondere le cose?»
«Sì!»
«Come la mia scarpa sinistra» dice Jackson piccato, anche se sento
che in realtà sta sorridendo. «Stama ina l’hai nascosta davvero
molto bene.»
«Molto, molto bene» dice Samantha, senza staccare gli occhi dalla
mia faccia.
«E adesso, questa è la cosa più importante, Samantha: sai tenere
un segreto? Perché se sarai l’aiutante del coniglio pasquale, saprai
dove sono nascoste tu e le uova di cioccolato. E tu i gli altri bambini
ti chiederanno indizi.»
«Non dico niente!» urla Samantha. «Non dico niente!»
«Bene, allora» dico, raddrizzandomi e rivolgendomi a Jackson.
«Credo di aver trovato la mia aiutante speciale.»
Jackson mi sorride. È il primo sorriso vero e proprio che gli abbia
mai visto fare: ha le fosse e, delle vere fosse e, una per guancia.
Afferra Samantha da so o le ascelle, prendendola in braccio.
«Ma che signorina fortunata» dice, solleticandole il collo con il
naso finché lei non singhiozza quasi dal ridere.
Vederlo con Samantha tra le braccia fa sca are qualcosa a livello
viscerale, come se mi fosse andato il cervello in pappa.
«Grazie» articola Jackson senza suono. Si china a sollevare il cesto
delle uova, poi lo porge a Samantha. Lei gli appoggia la testa sulla
spalla con la fiducia totale dei bambini. «Pronta?»
Samantha si divincola dalla sua stre a e corre verso di me,
tendendo la mano libera per afferrare la mia. Quando la lascia
andare, l’espressione di Jackson si addolcisce e mostra una tale
vulnerabilità, come se l’amore che prova per lei gli facesse male, ed è
una cosa così straziante e intima che distolgo gli occhi: non mi
sembra giusto guardare. Quella sensazione strana nella pancia si
intensifica quando le piccole dita di Samantha stringono le mie.
Jackson si piega a darle un rapido bacio sulla fronte, poi apre la
porta della sala.
«Meglio che andate, voi due» dice. «Ah, Leena?»
«Cosa?»
«Il coniglio pasquale saltella. Ovunque vada. Facendo ondeggiare
il cestino. Solo per ricordartelo.»
«Ma pensa un po’» dico, a denti stre i.
Lui mi rivolge un altro sorriso, ma prima che possa dire altro una
saltellante Samantha mi sta trascinando giù dai gradini, e poi fuori,
so o la pioggia.
16
Eileen

Mi sento una di quelle donne nelle pubblicità del profumo alla TV .


Avete presente: quelle che veleggiano a qualche centimetro da terra,
avvolte nello chiffon, con un sorriso estatico, magari mentre i
passanti si me ono spontaneamente a cantare in coro.
Ho passato la no e nel le o di Tod. È davvero un uomo
straordinario. Erano circa vent’anni che non facevo sesso – in nessun
senso del termine – e senza dubbio adesso che ne ho se antanove è
un po’ diverso, ma sempre meraviglioso. Mi ci è voluto un po’ per
rientrare nell’ordine di idee e mi sento un po’ indolenzita in tanti
punti, ma santo cielo, ne è valsa la pena.
Tod è chiaramente molto esperto. Non mi importa se le frasi che
ha de o sul mio corpo da favola e la mia pelle splendente erano solo
frasi di cortesia… hanno funzionato. Non mi sentivo così bene da
anni.
Stama ina incontro Bee per un caffè. Dice di voler ascoltare i miei
racconti su Tod. Penso che senta la mancanza di Jaime, che è con la
famiglia del padre per Pasqua, ma mi ha comunque commosso
ricevere il suo messaggio.
Il bar in cui dobbiamo incontrarci si chiama Watson’s Coffee, ed è
molto alla moda. Due delle pareti sono dipinte di verde, le altre due
di rosa. Ci sono corna di cervo finte sopra il bancone e una collezione
di candele al neon semisciolte al centro di ogni tavolo grigio acciaio.
L’effe o complessivo ha un che di gro esco, ed è terribilmente
affollato: è il lunedì di Pasque a, quindi nessuno è al lavoro, e da
queste parti, mi pare di aver capito, se non sei in ufficio sei in un bar.
Bee è riuscita ad aggiudicarsi un tavolo. Mi sorride mentre mi
avvicino, quel sorriso caloroso e sincero che ho intravisto quando mi
ha mostrato le foto della figlia. Ha un effe o sorprendente, quel
sorriso, come un faro caldo puntato nella tua direzione. Ha i capelli
fermati dietro le orecchie e sfoggia una bellissima collana d’argento;
indossa un bellissimo abito turchese provocante proprio perché non
rivela quasi nulla.
«Buongiorno!» dice. «Ti prendo un caffè: come lo vuoi?»
«Un flat white, per favore» dico, con compiacimento.
Bee inarca le sopracciglia e ride. «O imo!» dice. «Torno subito.»
Tiro fuori il telefono dalla borsa mentre lei va a fare l’ordinazione.
Mi ci è voluto un po’ – e diverse lezioni di Fi – per abituarmi al
telefono di Leena, ma inizio a prenderci la mano. Ne so abbastanza
per capire che è arrivato un messaggio da Tod, per esempio. E sento
di nuovo quelle farfalle…

Cara Eileen, che splendida serata. Ripetiamola presto, vuoi?


Con affetto, Tod x

«Oh, so che sbirciare è sbagliato, quindi ho intenzione di essere


sincera e dirti subito che ho le o il messaggio» dice Bee, sedendosi e
posando un vassoio sul tavolo. Ha preso anche dei muffin. «Limone
o cioccolato?» chiede.
Bee non è affa o come mi aspe avo. In realtà è molto premurosa.
Non so bene perché davo per scontato che non lo fosse… forse solo
perché è così bella, il che è ingeneroso da parte mia.
«Cioccolato» azzardo, intuendo che lei vuole il limone. Sembra
contenta e tira il vassoio verso di sé. «E ti perdono per aver sbirciato.
Anch’io lo faccio sempre in metropolitana. È l’unico vantaggio dello
stare stre i come sardine.»
Bee fa una risatina. «E allora? Tod è quello giusto?»
«Oh, no» esclamo. «È una relazione senza impegno. Non
esclusiva.»
Bee mi guarda sconvolta. «Davvero?»
«È così sorprendente?»
«Be’, come dire…» Si ferma a pensare, masticando il muffin.
«Forse mi ero fa a l’idea che cercassi una storia seria. Un compagno
di vita.»
Tento di alzare le spalle con noncuranza, ma faccio una smorfia
perché il movimento stiracchia un muscolo dolorante della schiena.
«Forse. In realtà mi sto godendo l’avventura.»
Bee sospira. «Quanto vorrei poterlo fare anch’io. Cercare un
futuro padre per la tua bambina toglie ogni spasso da un primo
appuntamento.»
«Ancora niente fortuna?»
Bee fa una smorfia. «Sapevo che il mercato degli ultrase antenni
sarebbe stato meglio. Forse dovrei scegliermi un uomo più vecchio.»
«Basta che non invadi il mio campo, ragazza» dico. «Lascia i
vecchie i alle vecchie e, altrimenti non abbiamo nessuna speranza.»
Bee ride. «No, no, ve li lascio. Ma a volte ho paura di essere un
tantino schizzinosa.»
Mi concentro sul muffin. In realtà, non dovrei interferire: Bee
conosce se stessa, sa che cos’è giusto per lei.
Ma ho molta più esperienza di Bee. E lei è stata così sincera con
me. Forse non c’è niente di male a rivelarle la mia opinione.
«Posso dirti che cosa ho pensato quando ho sentito la tua lista di
regole?» chiedo.
«Certo» dice Bee. «Ti prego.»
«Mi è sembrata la rice a perfe a per restare zitella.»
Lei scoppia a ridere. «Ma per favore!» dice. «La mia lista è
assolutamente fa ibile. Come società abbiamo degli standard
davvero bassi per gli uomini, lo sai questo?»
Penso a Wade. A lui non chiedevo quasi niente, sopra u o una
volta che Marian era cresciuta. Mi aspe avo solo la fedeltà, anche se
ho scoperto che era una pretesa esagerata anche quella. E al padre di
Carla e Leena, cosa chiedeva Marian? Lui se ne stava spaparanzato
tu o il giorno con i pantaloni della tuta, a guardare oscuri sport su
canali strampalati, e lei comunque si faceva in qua ro per tenerselo.
Quando infine se n’è andato, non è più tornato indietro: vedeva le
ragazze una volta all’anno, se andava bene, e adesso lui e Leena non
si sentono nemmeno più.
Forse Bee non ha tu i i torti. Eppure…
«Io sono molto favorevole alle liste, ma penso che il tuo approccio
potrebbe essere sbagliato. Dovresti sme ere di pensare e cominciare
p g p
ad agire.»
Finisco il caffè e mi alzo, facendo stridere la sedia sul pavimento
di cemento. Questo locale sembra un bunker di guerra dipinto a
colori brillanti. Mi me e a disagio.
«Cominciare ad agire in che senso? Dove stiamo andando?»
chiede Bee, mentre prendo la borsa.
«A trovare un tipo di uomo diverso» dico fieramente, portandola
fuori dal bar.

«La biblioteca?» Bee si guarda a orno, interde a. «Non sapevo


nemmeno che ci fosse una biblioteca a Shoreditch.»
«Dovresti essere iscri a» le dico severamente. «Le biblioteche
stanno morendo, e poi sarebbe una copertura.»
Bee appare mortificata. «Giusto» replica, sbirciando il primo
scaffale, che per caso contiene romanzi d’amore. Si ravviva. «Oooh,
questo andrebbe benissimo» dice, indicando un signore a torso nudo
su una copertina.
La prendo per un braccio e la indirizzo verso la sezione gialli. È
improbabile che trovi un uomo se orbita a orno ai romanzi d’amore;
l’unica altra persona in vista è una signora dallo sguardo sfuggente
che deve aver mollato il marito per un paio di minuti e ha in mente
di sfru arli al massimo. Ah, ecco qua: c’è un uomo biondo in jeans e
maglie a che guarda i libri di John Grisham. Senza dubbio, è un
buon candidato.
«Che ne dici?» sussurro, nascondendomi dietro i libri di cucina e
indicandolo a Bee.
Lei si sporge per guardare il biondo. «Ooh!» dice, meditabonda.
«Sì, forse! Oh, no, aspe a, quelle scarpe… Quei mocassini mi sanno
da figlio di papà di Oxford» mi spiega rammaricata. «Prevedo uno
stipendio a cinque zeri e un complesso di inferiorità distru ivo
instillato da genitori assillanti.»
«Cerca di essere aperta» le ricordo. «Ti fidi di me, Bee?»
«Be’… sì, in realtà, sì.»
Mi liscio le maniche. «In tal caso» dico «lascia fare a me.»
«Lei crede che una donna dovrebbe prendere il cognome del marito
quando si sposa?»
«Oh, ecco… be’, in realtà penso che sia una scelta molto
personale, quindi…»
«E che mi dice di aiutare nei lavori domestici? Lei è bravo a
passare l’aspirapolvere?»
«Sono… discreto, direi. Scusi, posso chiederle cosa…»
«Si definirebbe un romantico?»
«Sì, mi considero così, ammesso che…»
«E la sua ultima relazione, giovano o? Com’è finita?»
Il giovane mi guarda con la bocca un po’ aperta. Io lo fisso
trepidante.
Ti puoi perme ere qualsiasi indiscrezione quando sei una
vecchie a.
«Semplicemente… lei ha smesso di amarmi.»
«Oddio, che cosa triste» dico, dandogli una pacca sul braccio.
«Scusi, come siamo…» Ha un’aria frastornata. «Stavamo parlando
dei romanzi di John Grisham, e lei ha cominciato a… farmi
domande… e adesso… sono diventate… davvero molto personali…»
Esito mentre cerco di ricordare l’espressione che ha usato Fi
l’altra sera. «Faccio da spalla» dico.
«Lei sta…»
«Per la mia amica, Bee. Bee!»
Lei appare da dietro l’angolo, me endosi un dito sulla bocca.
«Eileen! Oh, santo cielo, sono desolata, è così imbarazzante» dice al
ragazzo. «Vieni, Eileen, andiamo via, hai già rubato abbastanza
tempo a questo signore…»
Gli rivolge una versione smorzata del suo sorriso disarmante. Il
biondo spalanca gli occhi e il libro che ha in mano si abbassa di
qualche centimetro, come se avesse dimenticato che deve reggerlo.
«Non c’è problema» dice lui. «Mmh.»
«Bee, questo giovano o vorrebbe offrirti un caffè in quel bel locale
in fondo alla strada» dico. «Che ne dici, tesoro?»
«In realtà» dice il biondo, cominciando ad arrossire. «In effe i, sì.»
Quando torno a casa, Fi si alza dal divano con espressione funerea.
«Eileen, ho delle pessime notizie.»
Mi me o la mano sul pe o. «Che c’è? Cos’è successo?»
«No, no, non così pessime. Riguardo al nostro Silver Social Club.»
Io, Fi e Martha abbiamo scelto questo nome per il nostro circolo
ieri sera, dopo un bicchierone di vino. A me sembra favoloso.
Abbiamo anche tu i deciso che il giorno dopo saremmo andati a
correre, idea che era molto meno favolosa, e che è stata subito
abbandonata a causa delle mie ginocchia, della gravidanza avanzata
di Martha e del “generale malessere ma utino” di Fi , qualsiasi
cosa esso sia.
«L’idea piace quasi a tu i e abbiamo anche il via libera del
proprietario, a pa o che i numeri non superino le venticinque
persone e non si rompa niente. Ma c’è una signora all’interno 6 che
non è d’accordo» dice Fi , aiutandomi a sfilarmi la giacca. «Dice che
non vuole dare accesso al palazzo a tanti sconosciuti.»
Aggro o la fronte. «E immagino che con la stessa scusa impedisca
le feste di compleanno, no?»
Fi fa una smorfia. «Giusto. Le scriverò una e-mail per
spiegarle…»
Lo liquido con un gesto. «Basta con queste scemenze delle e-mail.
Vado a parlarle io.»
Fi sba e gli occhi, con la mia giacca ancora in mano. «Oh» dice.
«Va bene.»
Solo che lei non è in casa. Penso di infilarle un biglie ino so o la
porta, ma no, sarebbe poco meglio di una e-mail. Voglio che questa
signora mi guardi negli occhi e mi spieghi di preciso perché non
vuole che una manciata di vecchie i si goda una lezione di pi ura o
un pranzo in uno spazio che è vagamente vicino al suo appartamento.
Sono seccata. Torno all’appartamento di Leena. Fi mi porge il
computer di Leena mentre io mi siedo nella mia poltrona.
«Questo le tirerà su il morale» dice. «Non fanno che arrivare
nuovi messaggi.»
Il sito di incontri è già aperto. Negli ultimi tempi lo visito
abbastanza spesso, in genere per scrivere a Old Country Boy, che in
realtà si chiama Howard, e sembra molto dolce. L’altro giorno stavo
g
ripensando alla nostra conversazione e mi ha sorpreso scoprire che
ci siamo già scambiati tanti messaggi.

OldCountryBoy dice: Come stai oggi, Eileen? Io ho avuto una giornata


tranquilla. Non è che succeda molto, per la verità.
OldCountryBoy dice: Continuo a leggere i tuoi messaggi e a pensare a
te. Ci conosciamo da pochissimo tempo, ma sembra che siamo vecchi
amici!
OldCountryBoy dice: Spero di non essere troppo schietto! È solo che mi
sento molto fortunato ad averti incontrata qui. In una giornata fiacca
come oggi, è meraviglioso poter tornare alla nostra chiacchierata.

Sospiro. Caro Howard, è un filino troppo entusiasta. Non sono


abituata agli uomini che parlano tanto dei loro sentimenti. Non
capisco bene che effe o mi fa.
Poi penso a Letitia, curva sul tavolo tra gli scacciapensieri, in
a esa della sua consegna del supermercato, e mi chiedo se per caso
non si senta semplicemente molto solo. Ed è davvero carino il fa o
che dia peso al tempo che passiamo chiacchierando.

EileenCotton79 dice: Ciao, Howard. Mi dispiace che la tua giornata non


stia andando troppo bene. Hai dei vicini con cui puoi parlare?
OldCountryBoy dice: Sono tutti giovani e alla moda! Non sarebbero
interessati a parlare con me.

Esito. Sarebbe troppo esplicito accennare al Silver Social Club?


Oh, al diavolo. Perché no?

EileenCotton79 dice: Sto cercando di creare un circolo che forse ti


piacerebbe. È per gli ultrasettantenni del mio quartiere. Al momento
stiamo avendo qualche difficoltà a partire, ma quando avremo rotto il
ghiaccio saresti interessato a frequentarlo? So che tu abiti dall’altra
parte della città, ma saresti comunque più che benvenuto!

C’è un ritardo insolito prima della sua risposta, e comincio a


sentirmi un po’ stupida. Forse “più che benvenuto” era un po’
p p p p
esagerato. Ma poi…

OldCountryBoy dice: Mi piacerebbe tantissimo! Tu ci sarai?


EileenCotton79 dice: Ma certo!
OldCountryBoy dice: Allora non vedo l’ora di conoscerti di persona :)

Sorrido, ma prima che possa rispondere sullo schermo compaiono


degli altri puntini di sospensione.

OldCountryBoy dice: Forse potrei anche darti una mano. Sono bravo a
creare siti web: faceva parte del mio lavoro. Se sei interessata, posso
crearne uno per il vostro circolo!
EileenCotton79 dice: Fantastico! Sì, sono molto interessata. Al momento
stiamo aspettando il permesso da un altro residente, ma dovremmo
ottenerlo presto.
OldCountryBoy dice: Non vedo l’ora di partecipare!

Sono davvero contenta. Arriva una notifica, facendomi


sobbalzare.

Un nuovo utente ha visitato il tuo profilo.

Non so se cliccare o no, poi ricordo di quando Bee mi ha mostrato


come si può tenere una conversazione aperta in un’altra scheda.
Clicco.
Arnold1234. Nessuna foto del profilo, nessuna descrizione, niente
di niente. Abbastanza insolito per questo sito. Il mio profilo racconta
ogni genere di cose, dalle mie destinazioni di villeggiatura preferite
ai libri più amati.
Lo guardo diffidente. Figuriamoci, il mondo è pieno di Arnold.
Non è che sia un nome poco comune.
Eppure, non posso tra enermi dal pensare che…
Premo il pulsante dei messaggi.

EileenCotton79 dice: Ciao, Arnold! Ho visto che stai guardando la mia


pagina e ho pensato di salutarti.
Torno alla mia conversazione con Old Country Boy. Sarebbe
facilissimo confondersi e mandare il messaggio all’uomo sbagliato.
Non che giostrarmi tra gli uomini mi dispiaccia, a enzione.

OldCountryBoy dice: Ho intenzione di passare la serata con un buon


libro! Tu che cosa stai leggendo in questo momento?
EileenCotton79 dice: Sto rileggendo le pièce teatrali di Agatha Christie.
Non mi stanco mai di lei!

Nel fra empo, nell’altra finestra:

Arnold1234 dice: Eileen? Sono Arnold Macintyre, il tuo vicino.

Lo sapevo! Che cosa ci fa quella vecchia ciaba a sulla mia pagina?


Premo su “Il mio profilo” e lo rileggo con gli occhi di Arnold. Mi
viene un brivido. Di colpo sembra molto vanesio, e molto sciocco.
Come ho potuto scrivere che sono “piena di vita e in cerca di nuove
avventure”?

EileenCotton79 dice: Che cosa ci fai qui, Arnold???

Rimpiango il triplice punto interrogativo non appena ho premuto


“Invia”. Non trasme e l’a eggiamento altezzoso e di superiorità che
di solito cerco di ado are quando ho a che fare con Arnold.

Arnold1234 dice: Potrei farti la stessa domanda.

Sbuffo.

EileenCotton79 dice: Be’, fai come vuoi, ma stai alla larga dal mio profilo!
Arnold1234 dice: Scusami, Eileen. Stavo solo cercando qualche idea per
il mio. Non sono molto bravo in questo genere di cose.

Mi ammorbidisco un po’. A questo non avevo pensato.


EileenCotton79 dice: Ho chiesto all’amica di Leena di aiutarmi. Perché
non chiedi aiuto a Jackson?
Arnold1234 dice: Chiedere consiglio a Jackson? Finirei con qualche
baldracca chiamata Petunia o Begonia.

Mi viene da ridere.

EileenCotton79 dice: Sarebbe una bella fortuna, Arnold Macintyre!

Ops, mi sono dimenticata di Howard. Torno alla conversazione


giusta. Non voglio farmi distrarre dai vecchi conoscenti di
Hamleigh.

OldCountryBoy dice: Non ho mai letto Agatha Christie, ma se me la


consigli lo farò. Con quale romanzo dovrei iniziare, Eileen?

Sto già digitando, con un sorriso. Questo sì che è pane per i miei
denti.
17
Leena

Guardo l’orologio, tamburellando sul volante. Sono seduta al posto


del conducente del pulmino della scuola, che a quanto pare di tanto
in tanto viene prestato a mia nonna in modo che possa portare
l’allegra compagnia al bingo. Vicino a me c’è Nicola, la nuova, e
unica, cliente nel mio ruolo di tassista volontaria per gli anziani di
Knargill. Deve avere almeno novantacinque anni – non ho mai visto
nessuno con tante rughe –, ma i capelli castani sono appena screziati
di grigio, e ha due stupende sopracciglia folte, cespugliose come
quelle di un professore eccentrico. Per ora, ha passato buona parte
del nostro viaggio insieme a dare giudizi elaborati e infondati su
ogni autista che abbiamo incrociato; è molto sgarbata, e fa morire
dalle risate. Ho informato Bee che ho una nuova migliore amica.
Oltre a essere molto anziana, e molto critica, Nicola è anche molto
sola. Quando ci siamo conosciute mi ha de o che non sapeva che
cosa fosse la solitudine finché suo marito non è mancato, qua ro
anni fa; adesso passa giorni, a volte se imane, senza neanche
incrociare lo sguardo con anima viva. Non c’è niente di
paragonabile, dice. È una specie di pazzia.
Sono giorni che cerco di trovare una buona scusa per tirarla fuori
di casa, e finalmente ho avuto l’illuminazione quando la mamma mi
ha chiesto di andare a prenderla per portarla al bingo. Il bingo è
perfe o. E più siamo più ci divertiamo, ora che ho preso la decisione
di invitare mia madre, con cui non ho una vera conversazione da un
anno e due mesi.
«Perché sei così nervosa?» chiede Nicola, guardandomi con
a enzione.
«Non sono nervosa.»
Lei non dice niente, ma ha un che di piccato.
p
«È mia mamma. Noi non… non andiamo molto d’accordo
ultimamente. E poi è in ritardo.» Guardo di nuovo l’orologio. La
mamma è stata al suo corso di yoga a Tauntingham e mi ha chiesto
di andare a prenderla lì, una bella deviazione, ma mi sto sforzando
di non mostrarmi infastidita.
«Avete bisticciato, eh?»
«Più o meno.»
«Comunque sia, sono sicura che non vale la pena di litigare con
tua madre. La vita è troppo breve.»
«Be’, non ha voluto lasciare che convincessi mia sorella a provare
una terapia anticancro che avrebbe potuto salvarla. E adesso mia
sorella è morta.»
Nicola rimane in silenzio. «Capito» dice. «Per la miseria.»
In quel momento la portiera del pulmino si apre e mia madre sale
a bordo. Noto, con un sussulto, che il finestrino dalla parte di Nicola
è spalancato.
«Una terapia anticancro che avrebbe potuto salvarle la vita?»
ripete mia madre. Il tono rabbioso della sua voce mi provoca un
vuoto allo stomaco. Non mi parla così da quando ero una bambina.
«Quale terapia avrebbe potuto salvarle la vita, Leena?»
«Te l’avevo spiegato» dico, afferrando il volante, senza girarmi.
«Ti avevo mostrato gli studi, ti avevo dato la brochure della clinica
negli Stati…»
«Ah, la brochure. Certo. La terapia che i medici di Carla ci avevano
sconsigliato. Quella che secondo tu i non avrebbe funzionato e
avrebbe solo prolungato la sua sofferenza e…»
«Non tu i.»
«Scusa, tu i a parte quel tuo medico americano che voleva farci
pagare decine di migliaia di sterline per una falsa speranza.»
Do una manata al volante e mi volto verso di lei. È rossa per
l’agitazione: ha il pe o chiazzato, le guance paonazze. Ho quasi
paura, perché adesso lo stiamo facendo davvero, finalmente ne
parliamo.
«Una speranza. Una possibilità. Hai sempre de o, per tu a la vita,
“le Co on non mollano”, e poi, nel momento più cruciale, hai
lasciato che Carla mollasse.»
Nicola si schiarisce la gola. Imbarazzate, io e la mamma
guardiamo nella sua direzione con la bocca aperta, come se fossimo
rimaste a metà della frase.
«Buongiorno» dice Nicola a mia madre. «Nicola Alderson.»
Come se avesse forato una bolla, entrambe ci sgonfiamo.
«Oh, buongiorno, sono desolata» dice la mamma, sistemandosi
sul sedile e allacciandosi la cintura. «Sono davvero desolata. È
incredibilmente scortese da parte nostra… sono desolata.»
Mi schiarisco la gola e torno a guardare davanti a me. Ho il cuore
che va a mille e sono senza fiato. A questo punto sono in ritardo per
andare a prendere gli altri partecipanti; giro la chiave nell’accensione
ed esco dal parcheggio.
… per andare a sba ere contro un palo.
Merda. Merda. Sapevo che c’era quel palo, mi ero ripromessa di
starci a enta quando avevo parcheggiato, mi ero de a: “Quando
esci, non dimenticarti di quel palo appena fuori dal tuo campo
visivo”.
E che cazzo.
Salto giù dal pulmino e faccio una smorfia, coprendomi il volto
con le mani. C’è una bru a ammaccatura sulla parte destra del
cofano.
«In realtà, no» dice mamma, saltando giù dal pulmino dietro di
me e sba endo la portiera. «Sono stanca di fare queste mezze
conversazioni con te. Mi dispiace, Nicola, ma non abbiamo finito.»
«Non c’è problema» esclama Nicola. «Alzo il finestrino, che dite?»
«Come osi comportarti come se avessi lasciato morire mia figlia?»
dice mamma, stringendo i pugni.
Io sto ancora pensando all’ammaccatura. «Mamma, io…»
«Tu non la vedevi ogni santo giorno.» La voce di mia madre è
sempre più stridula. «Le corse in pronto soccorso, l’infinito, violento,
straziante vomitare, le volte che era così debole che non riusciva ad
arrivare in bagno. Quando venivi a trovarla faceva la dura… non
l’hai mai vista nella sua versione peggiore!»
Sospiro. Questo sì che fa male. «Avrei voluto esserci più spesso.»
Mi bruciano gli occhi, sono sul punto di piangere. «Sai che Carla non
voleva che lasciassi il lavoro e io… io non potevo esserci tu o il
tempo, mamma, lo sai.»
«Io, però, c’ero. L’ho visto. L’ho sentito, quello che provava lei.
Sono sua madre.»
Gli occhi di mamma si stringono come quelli di un ga o,
spaventosi. Prima che possa riba ere, ricomincia a parlare. Le parole
si riversano fuori da lei con una voce rauca e acuta, che non sembra
nemmeno la sua.
«È per questo che ci hai lasciato e ci hai tagliato fuori dalla tua
vita? Per punirmi, perché pensi che non mi sia impegnata
abbastanza per Carla? E allora lascia che ti dica una cosa, Leena. Tu
non puoi nemmeno immaginare quanto avrei voluto che il tuo
do ore americano avesse ragione. Non te lo immagini proprio.
Perdere Carla mi spinge a chiedermi perché diavolo sto vivendo
ogni minuto di ogni giornata, e se avessi creduto in qualsiasi modo
di poter salvare la mia bambina ci avrei provato.» Ha le guance
bagnate di lacrime. «Ma non avrebbe funzionato, Leena, e tu lo sai.»
«Avrebbe potuto funzionare» dico, premendomi le mani sulla
faccia. «Avrebbe potuto.»
«E che razza di vita avrebbe avuto Carla? È stata sua la scelta,
Leena.»
«Ah, sì? Ebbene, sbagliava anche lei!» urlo, lasciando cadere le
braccia e stringendo i pugni. «Detesto che abbia smesso di lo are.
Detesto che tu abbia smesso di lo are per lei. E chi sei tu per dire che
vi ho lasciato? Chi sei per dire che vi ho tagliato fuori?» Sono
sopraffa a dalla violenza delle emozioni, e questa volta non faccio
niente per controllarle. «Ti sei disintegrata, cazzo. Sono stata io a
tenere bo a, sono stata io a organizzare il funerale, a compilare
moduli mentre tu andavi in pezzi. Quindi non dire che ti ho lasciato.
Dove cazzo eri tu quando io ho perso mia sorella? Dov’eri, cazzo?»
La mamma arretra imperce ibilmente. Sto gridando come una
pazza. Non ho mai gridato così contro nessuno.
«Leena…»
«No» dico, asciugandomi il viso con la manica e spalancando la
portiera. «No. Ne ho abbastanza.»
«Non sei nelle condizioni di guidare» dice Nicola.
g
Con le mani tremanti, giro la chiave dell’accensione. Il pulmino
prende vita, borbo ando. Me ne sto seduta, gli occhi fissi sulla
strada, la sensazione di aver perso completamente il controllo.
Nicola apre la portiera.
La guardo. «Che sta facendo?» chiedo, la voce impastata di
lacrime.
«Non ho intenzione di lasciarmi portare da nessuna parte da te»
dice.
Apro anch’io la porta, allora, perché Nicola non può scendere dal
pulmino senza aiuto. La mamma è ancora in piedi dove l’ho lasciata,
le braccia a orno al corpo. Per un a imo, vorrei correre da lei e
lasciare che mi accarezzi i capelli come quando ero bambina.
Invece mi giro dall’altra parte e aiuto Nicola a scendere dal posto
del passeggero. Mi sento fisicamente esausta, come se avessi passato
ore in palestra. Restiamo lì tu e e tre, io e la mamma che guardiamo
ovunque pur di non incrociare gli occhi. Il vento soffia intorno a noi.
«Bene» dice Nicola. «Quindi.»
Ancora silenzio.
«No?» chiede Nicola. «Nessuno dice niente?»
L’idea di dire qualcosa sembra del tu o al di là delle mie forze.
Fisso l’asfalto, con i capelli che mi disegnano sentieri bagnati sulle
guance.
«Non so niente della vostra famiglia» dice Nicola «ma quello che
so è che sta per me ersi a diluviare e noi staremo qui come allocche
in mezzo alla strada finché Leena non si sarà calmata abbastanza per
guidare, quindi prima risolviamo la cosa meglio è.»
«Io sono calma» dico. «Sono calma.»
Nicola mi guarda con sce icismo. «Stai tremando come una foglia
e hai del mascara sul mento» osserva.
A quel punto la mamma si scuote, tendendo una mano. «Dammi
le chiavi, guido io.»
«Non sei assicurata.» Odio il suono della mia voce, tremante e
debole.
La mamma si avvicina mentre un autobus sbuca dalla curva e
viene nella nostra direzione.
«Bene, allora chiamo quelli dell’assicurazione» dice.
q
«Non so se è più in grado di guidare di sua figlia» dice Nicola,
squadrando mia madre da capo a piedi.
«Autobus» dico io.
«Come?» chiede Nicola.
Io lo indico, poi agito un braccio, e poi entrambe le braccia.
L’autobus si ferma.
«Perdinci» dice l’autista, accostando. «Che cos’è successo qui?
State tu e bene? C’è stato un incidente?»
«Solo in senso simbolico, giovano o» dice Nicola, salendo a
bordo. «Tu sei stabile, almeno? Non inizierai a farneticare?»
«Be’, io sto alla grande» dice il conducente.
«Bene, bene. Dunque salite, signore. Via che si va.»

Io e la mamma finiamo in due posti separati dal corridoio, con lo


sguardo fisso avanti. Piano piano mi lascio andare sul sedile, e il
pianto si calma. Soffiarmi il naso sembra farmi sentire molto meglio,
come se fosse la conclusione formale di tu i quei piagnistei, e
mentre ci avviciniamo a Hamleigh la sensazione terrificante di aver
perso il controllo si placa, alleviando il nodo che mi serra la gola e
facendo rallentare il ba ito cardiaco.
Non so bene che cosa sia successo, in realtà, ma non c’è molto
tempo per rifle erci: il conducente ha la gentilezza di fare una
deviazione dal suo percorso abituale per lasciarci al paese, ma anche
così siamo in ritardo.
Gli habitué del bingo sono riuniti all’angolo tra Peewit Street e
Middling Lane, davanti al negozio del paese; ha iniziato a piovere e
buona parte della compagnia è a malapena riconoscibile, infago ata
com’è in impermeabili e mantelle.
«Che cosa facciamo?» chiede Nicola mentre ci avviciniamo agli
appassionati del bingo. «Non abbiamo il pulmino per portarli alla
sala bingo. Dobbiamo dire che è cancellato?»
«Come, scusi?» dico, asciugandomi la faccia. «No che non è
cancellato. Serve solo un po’ di creatività.»
«Sei sicura di essere in grado di…» Mamma si interrompe
vedendo la mia espressione. «Okay» dice. «Che cosa ti serve?»
«Pennarelli» dico. «Sedie. E una salvie a per il viso, per il mascara
sul mento.»

«Ventise e! Due-se e! Trentuno! Tre-uno, trentuno!»


Ho la voce roca a forza di urlare dopo tu o quel pianto. Grazie al
cielo la nonna ha la stampante: c’è voluta una mezz’ora con
quell’arnese da robivecchi, ma alla fine abbiamo o enuto quindici
cartelle del bingo. Nel fra empo, mia madre è sparita (forse è meglio
così), ma il resto degli appassionati sono seduti su ogni sedia
disponibile a casa della nonna, più tre portate da Arnold. A parte
qualche brontolio iniziale, i giocatori sono sembrati scontrosamente
colpiti dall’allestimento, e dopo che ho riscaldato degli stuzzichini
trovati nel freezer della nonna e distribuito un po’ di sidro, l’umore
nella stanza è notevolmente migliorato.
Abbiamo risistemato il soggiorno in modo che io possa stare in
piedi sul davanti, dove c’è il televisore, e i giocatori possano vedermi
tu i. E, in teoria, sentirmi, ma da questo punto di vista le cose non
vanno.
«Come?» urla Roland. «Hai de o quarantanove?»
«Trentuno!» grida di rimando Penelope.
«Ventuno?»
«Trentuno!» strilla lei.
«Forse Penelope dovrebbe sedersi vicino a Roland?» suggerisco.
«In modo da ripetergli quello che ho de o?»
«Non avremmo avuto questo problema alla sala bingo» osserva
Betsy, rigida.
«Il sidro non è così buono alla sala bingo» interviene Roland,
sorseggiando felice dalla bo iglia.
«E quegli involtini primavera sono una delizia» aggiunge
Penelope.
Reprimo un sorriso e sposto di nuovo lo sguardo sul generatore
di numeri casuali del telefono di Kathleen. Il mio telefono – prima
noto come telefono della nonna – è troppo rudimentale per avere
queste funzionalità, ma Kathleen è venuta in mio soccorso e mi ha
prestato il suo smartphone. «Quarantanove!» urlo. «Qua ro-nove!»
«Mi sembrava che avessi già de o quarantanove!» esclama
Roland. «Non aveva già de o quarantanove?»
«Ha de o trentuno!» urla Penelope.
«Trentase e?»
«Trentatré» dice un’altra voce. È Nicola. È dietro Roland, e
cogliendo il suo sguardo malizioso alzo gli occhi al cielo.
“Così non mi aiuti” le dico con il labiale, e lei fa spallucce, senza il
minimo senso di colpa.
«Qualcuno ha de o trentatré?» chiede Roland.
«Trentuno!» risponde Penelope con voce squillante.
«Quaranta…»
«Che diamine, Roland, accendi quel dannatissimo apparecchio
acustico!» ruggisce Basil.
Cala un breve, inorridito silenzio, e poi una cacofonia di
espressioni indignate. Mi sfrego gli occhi; mi fanno male a forza di
piangere. Il campanello suona, facendomi sussultare. Può essere solo
una persona.
Non me la sono sentita di dire a Jackson al telefono che il pulmino
della scuola che mi ha generosamente prestato ha un’ammaccatura
sul cofano e al momento è abbandonato alla periferia di
Tauntingham. Mi è sembrata una discussione da fare a tu per tu.
Mi affre o verso la porta, compito non facile visto che devo
superare un percorso a ostacoli di sedie e bastoni da passeggio.
Jackson indossa un berre o di lana grigio floscio, che gli copre a
metà l’orecchio sinistro, e la camicia che porta so o la giacca è così
sgualcita che le pieghe sembrano fa e apposta con il ferro da stiro.
Quando apro la porta, mi fa un sorriso.
«Tu o bene?» chiede.
«Ehm» dico. «Perché non entri?»
Lui varca obbediente la soglia, poi sente il trambusto che proviene
dal soggiorno e mi lancia un’occhiata incuriosita.
«Cambio di programma» dico, contorcendomi a disagio. «È…
proprio quello di cui devo parlarti. C’è stato un piccolo incidente.
Con il pulmino. Quello che mi hai prestato.»
Jackson assimila l’informazione. «Quanto grave?» chiede.
«Ovviamente pagherò tu o io, se non è coperto
dall’assicurazione. E andrò a piedi dove è parcheggiato e te lo
riporto oppure vado dri o all’officina, insomma, quello che ti viene
più comodo, non appena abbiamo finito qui. E so che sto già
venendo a darti una mano a tinteggiare l’aula questo fine se imana,
ma se c’è qualcos’altro che posso fare per rimediare… perché a
quanto pare ti incasino la vita ogni volta che posso…»
Mi interrompo. Lui ha l’aria divertita.
«Non c’è problema.»
«Davvero?»
Lui si toglie il cappello e si passa una mano tra i capelli. «Be’,
insomma, più o meno, ma sei più severa con te stessa di quanto io
potrei mai essere, e questo mi toglie il piacere di farti sentire in
colpa.»
«Oh, mi dispiace» comincio, poi scoppio a ridere. «No, non mi
dispiace. Però grazie. Per non essere infuriato come dovresti. È stata
una giornata di merda.»
«E adesso hai il bingo nel tuo soggiorno.»
«Sì. Una giornata di merda che ha preso una piega stranissima.
Vuoi unirti?» dico. «C’è del sidro. E degli spuntini in miniatura
avvolti in un impasto che sembra cartone.»
«Sidro» dice Jackson. «Idromele, no?»
«Come?»
Una fosse a gli appare sulla guancia. «Be’, penso che saresti
capace di sfru are l’occasione per dimostrare le gioie di una serata a
tema medievale, tu o qui.»
«Non mi abbasserei mai a questi livelli!» esclamo.
«E allora quello cos’è?» chiede, indicando la pila di campioni di
colore sul tavolino.
Caspita. «Be’…»
Solleva un paio di quadratini di stoffa. Li stavo mostrando a
Penelope mentre gli involtini primavera si riscaldavano. Sono
stupendi: sembrano arrivare dri i da Grande Inverno. Quello che
Jackson ha in mano adesso è di un meraviglioso oro con un motivo
ripetuto di un drago su un blasone.
«Sto pensando di… rinfrescare le pareti» dico, scortandolo verso il
soggiorno.
«Della casa di tua nonna? Con i draghi?»
«Conosci mia nonna!» dico. «Le piace la mitologia!»
Lui sembra divertito, ma mi restituisce i campioni. Andiamo
verso il soggiorno; Jackson si ferma sulla soglia e osserva quel
trambusto con un’espressione indecifrabile.
«Pensi che alla nonna verrebbe un colpo se sapesse che le ho
incasinato così il soggiorno?» chiedo. «È questo che stai pensando?»
«In realtà» dice, con un vago sorriso, «stavo pensando che è
proprio una mossa da Eileen Co on.»

Mi sembra di aver appena scortato il Comitato di vigilanza fuori


dalla casa della nonna quando li rivedo il giorno dopo alla sala
comunale. È il secondo incontro del comitato del calendimaggio. Un
momento cruciale.
Ho preparato degli opuscoli. Ho portato dei campioni di noci
arrostite al miele e fru a candita e arrosti di carne. Ho delineato il
nostro pubblico di riferimento per la festa del calendimaggio e
spiegato quanto sarebbe perfe o per loro il tema medievale.
«Chi è a favore dell’idea di Leena?» chiede Betsy.
Nessuna mano si alza.
«Scusami, tesoro» dice Penelope. «Ma Jackson sa il fa o suo.»
Jackson ha la decenza di fare una faccia un po’ colpevole. Lui non
ha portato opuscoli. Nemmeno degli assaggi di cibo. Si è limitato ad
alzarsi, con il suo solito fascino trasandato, e a dire due scemenze sul
tiro alle noci di cocco, i cappelli da sole e il lancio di anelli sugli
ananas. E poi, il pezzo forte: “Samantha non vede l’ora di venire
vestita da satsuma”.
Ah, aspe a un a imo…
Si alza una mano! Una mano!
Arnold è in piedi sulla soglia con la mano alzata.
«Io voto l’idea di Leena» dice. «Scusa, figliolo, ma nella sua ci
sono i falchi.»
Gli rivolgo un sorriso radioso. Jackson, come di consueto, sembra
divertito da tu o. Che cosa bisogna fare per innervosire quell’uomo?
g p q
«Non sapevo che facessi parte del comitato del calendimaggio,
Arnold» dice Betsy.
«Ora sì» dice lui disinvolto, prendendo una sedia.
«Be’, c’è comunque una vasta maggioranza a favore del tema di
Jackson, come ti sarai di certo accorta, Leena.»
«E va bene» dico io, con tu o il fair-play che riesco a racimolare.
«D’accordo. Vada per il tropicale.»
Ovviamente sono furiosa. Volevo vincere. Ma raccogliere tu e le
informazioni è stata la cosa più divertente che abbia fa o negli
ultimi anni, e perlomeno ho conquistato Arnold, e l’ho spinto a
partecipare a un comitato. Quando la nonna verrà a sapere che
Arnold l’eremita si sta votando al bene colle ivo…
Gli rivolgo un ringraziamento muto mentre l’incontro va avanti, e
lui mi sorride. Quando Basil ricomincia a sproloquiare sugli
scoia oli, cambio sedia per sedermi vicino ad Arnold, ignorando il
visibile disagio di Roland per come sto scombinando la disposizione
dei posti.
«Che cosa ti ha spinto a venire?» gli chiedo in un sussurro.
Lui alza le spalle. «Avevo voglia di provare qualcosa di nuovo»
risponde.
«Stai voltando pagina» mormoro. «Vero?»
Lui fruga nella tasca e tira fuori un libre o: Assassinio sull’Orient
Express. Betsy lo guarda inorridita mentre lui si me e comodo e lo
apre dove aveva il segno, anche se Basil è a metà del suo intervento.
«Non lasciarti trasportare» mi dice Arnold, incurante degli
sguardi del resto del comitato. «Sono venuto più che altro per i
bisco i.»
Va bene lo stesso. Arnold è praticamente Shrek: un orco verde e
scontroso che ha dimenticato come essere gentile con le persone. E io
ho intenzione di essere il suo Ciuchino. L’ho già invitato un’altra
volta a prendere il tè questa se imana, e lui ha de o che verrà,
quindi non c’è dubbio che stiamo facendo progressi.
Se Arnold lo Scorbutico può venire all’incontro del comitato di
paese, tu o è possibile. Mentre la riunione si avvia alla conclusione,
guardo Betsy dirigersi lentamente verso l’appendiabiti, lisciandosi la
sciarpa di seta a orno al collo. Siamo partite con il piede sbagliato. E
p p p g
allora? Non è mai troppo tardi per cambiare le cose, è questo che ho
de o ad Arnold.
Mi affre o a seguirla e la raggiungo mentre sta uscendo dalla sala.
«Come stai, Betsy?» le chiedo. «Dovresti venire qualche volta da
me a prendere un tè. Con tuo marito. Mi piacerebbe conoscerlo.»
Mi guarda sospe osa. «A Cliff non piace uscire» dice, infilandosi
la giacca.
«Oh, mi dispiace… non sta bene?»
«No» dice lei, girandosi dall’altra parte.
Inizio a camminare al suo fianco. «So che sentirai la mancanza
delle chiacchierate con la nonna. Spero che se avessi… bisogno di
aiuto, o di qualcuno con cui parlare, verrai da me.»
Lei mi guarda incredula. «Ti stai offrendo di aiutarmi?»
«Già.»
«E che cosa potresti fare, scusa?» chiede, e mi ci vuole un a imo
per capire che sta scimmio ando quello che le ho de o la prima
volta che è venuta a trovarmi.
«Ti chiedo scusa» dico sinceramente. «Non è stato gentile da parte
mia risponderti così. Solo che non sono abituata alle persone che si
offrono di aiutarmi e vogliono farlo davvero, non quando si tra a
della morte di Carla. Di solito alle persone non piace parlarne in
modo così dire o. Mi avevi colto alla sprovvista.»
Betsy rimane in silenzio per un po’. Percorriamo Lower Lane in
silenzio.
«So che sei stata tu a convincere il Comune a riempire queste
buche» dice alla fine, indicando il marciapiede.
«Oh, be’, non ci è voluto molto. Avrebbero dovuto pensarci secoli
fa. Ho solo fa o un paio di chiamate.»
«Non è passato inosservato» dice lei rigida, quando ci separiamo.
18
Eileen

Mi ci vogliono cinque tentativi per interce are la tizia ben poco


disponibile che abita all’interno 6. Passa così poco tempo in casa che
dio solo sa perché le importi qualcosa di quello che fa la gente
nell’edificio.
Il vantaggio di averci messo così tanto per incontrarla è che
quando ci troviamo faccia a faccia la mia irritazione si è placata, e
fingere di essere cortese non mi costa chissà quale sforzo.
«Buongiorno» dico, quando viene ad aprirmi. «Lei deve essere
Sally.»
«Sì» risponde lei, contrariata. Porta un tailleur ma non ha trucco; i
capelli neri sono raccolti in una coda storta. «E lei chi è?»
«Sono Eileen Co on. Vivo con Fi e Martha, all’interno 3.»
Sally ci me e un po’ a reagire. «Ah, davvero?» chiede, e ho la
ne a impressione che lo trovi poco opportuno.
«Sono qui perché ho sentito che ha delle obiezioni alla nostra idea
di fondare un piccolo circolo ricreativo nella zona inutilizzata al
piano di so o. Posso entrare così ne parliamo?»
«Temo di no. Ho molto da fare» dice lei, facendo per chiudere la
porta.
«Mi scusi» dico io, con voce ferma. «Mi sta davvero chiudendo la
porta in faccia?»
Lei esita, un po’ interde a. Mentre sta lì, con la porta socchiusa,
noto che ci sono non una ma tre serrature.
Mi ammorbidisco. «Capisco la sua preoccupazione alla
prospe iva di far entrare estranei nel condominio. So che può essere
inquietante vivere in questa ci à. Ma il nostro circolo sarà per
vecchie i molto rispe abili, e terremo sempre la porta chiusa
durante l’a ività, quindi nessun giovano o avrà la possibilità di
entrare nell’edificio. Solo gli anziani.»
Sally manda giù la saliva. Penso che potrebbe essere più giovane
di quanto pensassi: trovo difficile indovinare l’età delle persone, di
questi tempi, e la severità e l’abito mi hanno ingannato.
«Senta» dice in un tono sbrigativo «non è che l’idea non mi
piaccia. Ma solo perché una persona è anziana non vuol dire che non
possa essere pericolosa. E se qualcuno entrasse, e non se ne andasse
insieme a tu i e rimanesse acqua ato nell’edificio?»
Annuisco. «D’accordo. Che ne dici allora di prendere tu i i nomi e
poi contare chi entra e chi esce in modo che nessuno si fermi
all’interno?»
Lei ci pensa su. «Questo… Grazie» dice rigida. «Sembra
ragionevole.»
Cala un silenzio un po’ teso.
«Quindi ci darai il permesso di partire?» la incalzo. «Stiamo
aspe ando solo te.»
Strizza gli occhi. «Va bene. Certo. Va bene, a pa o che contiate chi
entra e chi esce.»
«Certo. Come concordato.» Le stringo la mano. «È stato un
piacere conoscerti, Sally.»
Piacere è un po’ esagerato, ma all’occorrenza…
«Anche per me, Eileen.»
Torno verso l’appartamento di Leena.
«Tu o sistemato con Sally dell’interno 6» dico a Fi , andando
verso la stanza di Leena.
Fi mi guarda passare, con la bocca aperta.
«Ma come ha fa o?» chiede.

Qualche sera dopo, io e Tod siamo fianco a fianco nella stanza da


le o della sua villa imponente, appoggiati ai cuscini. Stare
abbracciati diventa un filo meno pratico quando si ha mal di schiena.
Ciò non significa che non ci sia un’intimità deliziosa: il braccio di
Tod è premuto contro il mio, la sua pelle calda dopo aver fa o
l’amore, e ha spostato le coperte sul mio lato perché sa che mi viene
freddo alle dita dei piedi.
p
È un’intimità pericolosa, in realtà. Potrei quasi abituarmici.
Squilla un telefono; non mi muovo, perché è sempre quello di
Tod, e di solito dall’altra parte c’è qualcuno di molto importante: un
produ ore, o un agente. Allunga la mano verso il comodino, ma il
suo display è nero. Do un’occhiata al mio: “Marian sta chiamando”.
Mi allungo a prenderlo.
«Pronto?»
«Mamma?» dice Marian.
Scoppia a piangere.
«Marian, tesoro, che c’è?»
«Mi dispiace» dice. «Mi sono tanto sforzata di lasciarti un po’ di
spazio. Ma… proprio non…»
«Oh, tesoro, mi dispiace così tanto.» Scendo dal le o e cerco di
recuperare i vestiti. «Non hai avuto…»
«No, no, niente del genere, mamma. E mi sono presa cura di me,
te lo giuro… ho mangiato bene, fa o yoga…»
Tiro un sospiro di sollievo. Non fanno per me, tu e quelle
posizioni in equilibrio su una gamba e contorsioni, ma lo yoga ha
aiutato tantissimo Marian. È una delle sue passioncelle che ha
a ecchito, non solo per mesi ma per anni: ha cominciato quando a
Carla è stato diagnosticato il tumore. Quando sme e di fare yoga, so
che le cose vanno male.
«Mi fa piacere, tesoro. È successo qualcosa con Leena, allora?»
«Abbiamo avuto un litigio terribile in mezzo alla strada lunedì
sera, ed è tu a la se imana che non riesco a sme ere di pensare a…
è così arrabbiata, mamma. Mi odia. Non c’ero quando ha avuto
bisogno di me, e adesso… adesso l’ho persa.»
«Lei non ti odia, tesoro, e non l’hai persa. Solo che soffre, ed è
arrabbiata e ancora non lo riconosce, ma ci arriverà. Speravo che
questo periodo insieme vi aiutasse, ma…»
Frugo freneticamente nella pila di vestiti miei e di Tod, frustrata
dalla mia lentezza, cercando di tenere il telefono a accato
all’orecchio con una mano.
«Torno a casa» dico.
«No, no, non devi.» Dalla voce si sente che sta piangendo. «Sto
bene. Non sto… non è, sai, uno dei miei momenti.»
Ma chi può dire che non le succederà, da un momento all’altro? E
se Leena le urla contro per la strada, chi ci sarà a badare che Marian
non vada in pezzi?
«Torno, fine della storia. Ci vediamo presto, tesoro.» Ria acco
prima che possa protestare.
Quando mi giro, Tod mi sta guardando con le sopracciglia
inarcate.
«Non dire niente» lo avviso.
Lui sembra mortificato. «Non volevo immischiarmi» si scusa.
«Non si parla della famiglia» dico. «Lo abbiamo concordato. I
confini.»
«Certo.» Tod mi guarda mentre mi vesto. Vorrei potermi muovere
più in fre a. «Però…»
Prendo la borsa dalla sedia vicino alla porta. «Ti chiamo» dico,
tirandomi dietro la porta.
Una volta fuori dalla casa di Tod, trovo una panchina in un parco
e mi siedo per tirare il fiato. Tod vive in un quartiere elegante
chiamato Bloomsbury: ci sono un sacco di parche i chiusi da recinti
in ferro nero, e auto costose con i vetri fumé.
Non riesco a immaginare una versione della famiglia Co on in
cui si litiga per la strada. Non è così che ci comportiamo. Come
siamo arrivati a questo punto?
Non avrei mai dovuto lasciarle da sole. È stato puro egoismo,
questo viaggio a Londra, e sono felice che Marian mi abbia riportato
alla realtà prima che a Hamleigh le cose precipitino.
I piccioni camminano a orno ai miei piedi mentre frugo nella
borsa per trovare il quaderno. Be’, Rupert ci ha invitato a bere una
cosa nell’appartamento suo e di Aurora stasera, per festeggiare il
fa o che abbiamo o enuto il permesso di lanciare il Silver Social
Club. Non posso tirarmi indietro adesso, Letitia ci andrà solo se
vado io, e ne ha bisogno. Partirò domani. Fine. Chiamerò Leena in
ma inata.
Se la sentissi adesso, non sono certa che saprei controllare la
rabbia.
Quando Letitia apre la porta capisco subito che è nervosa. È
ingobbita e tiene la testa bassa.
«Andiamo» dico, con vigore. Non sono nemmeno io dell’umore
giusto per l’evento, ma ci siamo prese un impegno e poi in effe i
sono fiera di quello che stiamo facendo con lo spazio al piano di
so o, anche se non vedrò nascere il Silver Social Club.
«Dobbiamo proprio?» chiede mestamente.
«Ma certo» dico. «Su. Prima andiamo, prima potremo tornarcene
a casa.»
Vengono anche Martha e Fi , anche se non sono sicura che
Martha riesca a scendere le scale in questi giorni, con quel pancione
enorme. A questo punto non riesce più ad arrivare in ufficio, quindi
di solito sta sul divano con i piedi sul tavolino e il computer
precariamente appoggiato allo stomaco. E ancora Yaz non ha fa o
sapere quando tornerà a casa. Mentre scendiamo all’appartamento di
Rupert e Aurora stringo le labbra: quanto mi piacerebbe far sapere a
questa Yaz come la penso.
«Signora Co on!» dice Aurora spalancando la porta
dell’appartamento. «Le devo delle scuse per il mio comportamento
scontrosso la prima volta che ci siamo incontrate.»
«Oh, buongiorno» dico io, mentre lei mi stringe in un abbraccio.
Ha un forte accento spagnolo; forse scontrosso è una parola spagnola,
anche se non suona così.
«E lei dev’essere Letitia» dice Aurora, prendendole il volto tra le
mani. «Che magnifici orecchini!»
Letitia mi scocca un’occhiata di panico. Mi sa che sentirsi toccare
la faccia possa essere un po’ troppo per lei. Prendo Aurora per il
braccio e la trascino via.
«Non mi fai vedere il tuo splendido appartamento?» le chiedo.
«Ma certo! I suoi coinquilini sono già arrivati» dice, indicando
l’elegante divano grigio, dove Martha è spaparanzata con i piedi
sulle gambe di Fi . Provo un moto di affe o vedendoli bisticciare
amichevolmente. Non li conosco da tempo, non dovrei essere così
affezionata; stasera, dovrò comunicare loro che sto per partire.
«Questa è la mia ultima scultura» mi sta dicendo Aurora, e io ho
un leggero sussulto quando seguo il suo sguardo. È un pene
gg q g g p
gigantesco di marmo, con un pappagallo di marmo in cima. O…
sulla punta, forse dovrei dire.
Non riesco a tra enermi. Lancio un’occhiata a Letitia. «Un segno
dall’aldilà» le mormoro; fa una smorfia e tossisce per nascondere la
risata.
«Meraviglioso» dico ad Aurora. «Così… evocativo.»
«Non è vero?» conferma lei. «Ora, se volete seguirmi in cucina, vi
preparo un cocktail…»

«No» dice Fi , deciso. «Neanche per sogno.»


«In che senso, no?»
«Non se ne può andare!»
Punta verso di me un’oliva infilzata su uno stuzzicadenti. Aurora
e Rupert preparano o imi cocktail, anche se all’inizio ero un po’
diffidente verso le olive. Fi dice che sono “ironiche”. Adesso ho di
nuovo quella sensazione di stare in una pubblicità di profumi, stre a
tra Martha e Fi sul divano, con un Martini in mano.
«Signora Co on… Eileen» dice Fi . «Ha fa o quello che si era
proposta di fare?»
«Ecco…» comincio, ma lui mi zi isce con un gesto.
«No che non l’ha fa o! Il Silver Social Club deve ancora partire!
Non ha incontrato il suo svenevole Old Country Boy! E sicuramente
non ha messo a posto la mia vita» dice.
Mmh. Non pensavo si fosse accorto che avevo quell’intenzione.
«Le Eileen Co on sono delle rinunciatarie? Be’, quelle che ho
incontrato io non mi sembravano rinunciatarie per niente.»
«Di nuovo!» gli dico con un sorriso. «Devo andare, Fi .»
«Ma perché?» Questa è Martha.
Di solito non darei una risposta sincera a una domanda come
questa. Non se me la ponessero Betsy o Penelope. Ma penso a
Martha in lacrime sul divano, e a quando mi ha confidato di quanto
era spaventata dall’arrivo del bambino, e le dico la verità.
«Marian ha bisogno di me. Da sola non ce la fa, e Leena sta solo
peggiorando le cose.» Guardo il mio Martini. Devo essere un po’
alticcia. Questo è davvero molto indiscreto. «Si è messa a urlare
contro sua madre. In mezzo alla strada! Non è così che ci
comportiamo noi.»
«Forse dovreste» suggerisce Martha, agitando il suo cocktail
analcolico.
«Già, proprio così» dice Fi . «Quelle due avevano bisogno di
smuovere le acque. Buona parte del problema è il fa o che
nell’ultimo anno Leena ha represso tu o. L’ha mai vista quando è al
telefono con sua madre? Venti secondi di chiacchiere, dopodiché le
viene un’espressione da coniglio terrorizzato» ne fa un’imitazione
che corrisponde in modo inquietante al vero «e se la dà a gambe
come un marinaio che ha scoperto una falla nello scafo.» Si
interrompe. «Come andava l’imitazione?» chiede a Martha.
Lei arriccia il naso.
«Leena ce l’ha con Carla quanto ce l’ha con Marian» dice Fi , per
concludere. «E più che con loro due ce l’ha con se stessa, perché
quando mai Leena Co on si è imba uta in un problema che non
poteva risolvere con un po’ di sforzo e, come dice lei, un
brainstorming?»
«È un bene che esprimano i loro sentimenti» dice Martha. «A
volte un bel litigio può essere catartico.»
«Solo che Marian è fragile» obie o. «Sta elaborando il lu o. Come
può aiutarla sentirsi urlare contro?»
«Ah, sì? È fragile?» chiede Martha con dolcezza. «Perché a me è
sempre sembrata molto forte.»
Scuoto la testa. «Non conosci tu a la storia. Nel corso dell’ultimo
anno ha avuto questi… momenti. Questi episodi. È orribile. Non mi
apre la porta. Io continuo a bussare e lei finge di non esserci.
L’ultima volta è stata la peggiore: non è uscita per giorni. Alla fine
ho usato la mia chiave per entrare, e lei era seduta sul tappeto e
ascoltava uno di quei nastri raccapriccianti, di quelli con un tizio che
sproloquia sul fa o che il lu o è un prisma e uno deve lasciare che la
luce entri nel proprio essere, o qualche vaneggiamento del genere.
Era come…» Mi interrompo, vedendo l’espressione sofferente di
Martha. «Che c’è? Che cosa ho de o?»
«No, no» dice Martha, una mano sulla pancia. «Assolutamente
no.»
«Assolutamente no, cosa?» chiede Fi .
«Oh, cielo» dice Letitia. Non parlava da tanto tempo che restiamo
tu i un po’ sorpresi; lei stessa sembra colta alla sprovvista. Indica la
pancia di Martha. «Era una contrazione, quella?»
«Non preoccupatevi» dice Martha, respirando dal naso. «Ce le ho
dall’ora di pranzo. Non sono contrazioni vere.»
«Ah, no?» dice Letitia, osservandola. «Come fai a capirlo?»
«Perché Yaz non è ancora tornata» dice Martha «e il termine della
gravidanza è fra tre se imane.»
«Giusto» dice Fi , guardandomi con le sopracciglia sollevate.
«Solo che non sono sicuro che il bambino conosca i tuoi programmi.»
«Sì che li conosce» dice Martha a denti stre i. «È… uuuh, aghhh,
uhhh!»
Afferra la mano di Letitia, che per caso è la più vicina. Letitia
caccia un gridolino.
«Okay» dice Martha, appoggiando di nuovo la testa al divano.
«Okay, benissimo. È finito. Cosa stavamo dicendo? Ah, già, Eileen,
vai avanti… gli episodi di Marian?»
Tu i la guardiamo a oniti.
«Che c’è?» chiede lei. «Sto bene. Cioè, andrò in ospedale solo se le
contrazioni sono… se le contrazioni sono…» Si piega di nuovo in
avanti, il volto contorto in una smorfia. Le sfugge un allarmante
gemito animale. Riconosco quel suono.
«Martha, tesoro… a me queste sembrano proprio contrazioni
vere» le dico.
«È troppo presto.» Martha ansima una volta che la contrazione è
passata. «Non può…»
«Martha» interviene Fi , posandole le mani sulle spalle, «hai
presente quando dici che un cliente si comporta in modo assurdo e
non riesce a vedere quello che ha so o il naso? Tipo quella donna
che pensava che il suo salo o fosse abbastanza grande per me erci
un binario per i quadri?»
«Sì?»
«Adesso quella donna sei tu» finisce Fi .
Dieci minuti dopo, i gemiti assomigliano più a urla.
«Dobbiamo portarla all’ospedale» dice Fi a Rupert e Aurora.
Devo dire la verità, i due non si risparmiano. Aurora corre di qua e
di là portando acqua e digitando domande su Google; Rupert, che
da giovane per un periodo ha lavorato come infermiere, sta
disperatamente recitando i consigli che ricorda sul parto, cosa che
non calma affa o Martha, ma fa sentire un po’ meglio il resto di noi.
«Quali erano i piani di Martha per l’arrivo del bambino?» chiedo a
Fi .
«Yaz» dice lui con una smorfia. «Lei ha una macchina, l’avrebbe
accompagnata all’ospedale.»
«Peccato che non sia qui» dico. «C’era un piano alternativo?»
Tu i mi guardano sba endo gli occhi.
«Io ho una motocicle a» dice Rupert.
«Uno scooter» lo corregge Aurora. Rupert la fulmina con lo
sguardo.
«Non sono sicuro che funzionerà» dice Fi , strofinando la schiena
di Martha mentre lei si aggrappa al bracciolo del divano, gemendo.
«Quanto ci me e un Uber ad arrivare?»
Rupert controlla il telefono e fa un fischio. «Venticinque minuti.»
«Venti-cosa?» strilla Martha, con una voce che non sembra
nemmeno la sua. «È le eralmente impossibile! C’è sempre un Uber
in arrivo entro cinque minuti! È una legge della fisica! Dov’è Yaz?
Doveva essere qui, cazzo!»
«È in America» dice Letitia. «Che c’è?» chiede, notando il mio
sguardo. «Non è in America?»
«Non risponde al telefono» mi dice Fi a voce bassa. «Continuo a
provare a conta arla.»
Martha eme e qualcosa a metà tra un gemito e un grido,
accovacciandosi. Fi trasalisce.
«Io non sono tenuto ad assistere a questo» dice. «Dovrei stare al
piano di so o a camminare avanti e indietro con un sigaro e un
whisky, no? Non è quello che fanno gli uomini in queste situazioni?»
Gli do una pacca sulla spalla. «Ci penso io.» Prendo un cuscino
dal divano per me ermelo so o le ginocchia e mi me o carponi
vicino a Martha. «Fi , vai a bussare alle porte dei vicini. Deve esserci
qualcuno con un’auto. Aurora, vai a prendere degli asciugamani.
q p g g
Non si sa mai» dico a Martha quando si gira verso di me
terrorizzata. «E Rupert… vai a disinfe arti le mani.»

«Salite! Salite!» sta urlando Sally dell’interno 6.


La situazione di emergenza è stata una meravigliosa esperienza di
coesione per il condominio. Finalmente posso dire di aver conosciuto
ogni singolo inquilino. Sono rimasta sconvolta quando Sally è scesa
in campo, anche se è stata un po’ obbligata a farlo: è l’unica del
palazzo con un mezzo di trasporto, e quando siamo arrivati alla sua
porta le urla di Martha riecheggiavano per i corridoi.
«Di Sally so soltanto che gestisce fondi speculativi e vive
all’interno 6, ma non ho problemi a salire sul suo enorme SUV da
serial killer» osserva Fi dubbioso. «È questo lo spirito comunitario,
Eileen? Fidarsi dei propri vicini, e tu o quanto? Oh, madre
misericordiosa…»
Martha gli stritola la mano. Ha la fronte sul poggiatesta del sedile
davanti; quando si scosta, noto che ha lasciato una macchia scura di
sudore. Non se la passa bene. Il bambino non la sta prendendo con
calma.
«Vai! Vai! Vai!» urla Sally, anche se non capisco con chi ce l’abbia:
al volante c’è lei. Esce dal parcheggio scatenando un coro rabbioso di
clacson. «Emergenza! Un bambino sta nascendo sul sedile di dietro!»
urla fuori dal finestrino, facendo un gestaccio a un tassista
inviperito. «Non è il momento di fare i convenevoli!»
La definizione di Sally di convenevoli è abbastanza ampia e
sembra comprendere la maggior parte delle regole del codice della
strada. Brucia ogni semaforo rosso, urta lo specchie o retrovisore di
qualcuno, sale su tre marciapiedi e sbraita contro un pedone per aver
avuto l’impudenza di a raversare le strisce al momento sbagliato.
Trovo affascinante che una donna così preoccupata di sentirsi al
sicuro a casa sua guidi come se fosse su un autoscontro. E tu avia
sono felice che si sia bu ata in questa cosa. Anche se ancora devo
capire perché possieda un’auto così enorme, dato che è una donna
che vive da sola nel centro di Londra. Spero che Fi non ci abbia
azzeccato: mi sentirei malissimo se si rivelasse una serial killer.
Martha mi strappa alle mie fantasticherie con un lungo ululato
agonizzante.
«Siamo quasi arrivati» le dico per calmarla, anche se non ho idea
di dove siamo. «Presto sarai all’ospedale.»
«Yaz» farfuglia Martha. Una vena le pulsa sulla fronte. Mi stringe
il braccio con quella forza animale che viene solo con il dolore.
«Non riesco a conta arla, tesoro» dice Fi . «Mi sa che è in scena.
Ma continuerò a provare.»
«Oddio, non ce la faccio» geme Martha. «Non ce la faccio!»
«Ma certo che ce la fai» le dico. «Solo non farlo finché non
arriviamo in ospedale, se vuoi essere così gentile.»
19
Leena

Sono alla quinta infornata di brownies. Ho scoperto qua ro modi del


tu o diversi di sbagliare questo dolce: bruciarlo, cuocerlo troppo
poco, dimenticare di foderare la teglia e scordarsi la farina
(veramente il colmo).
Ma questi sono perfe i. Basta applicarsi. E fare pratica. Magari con
uno stato mentale leggermente più tranquillo; ho cominciato la
procedura in una nebbia di nostalgia di Carla e rabbia verso mia
madre e dubbi su che diavolo stessi facendo della mia vita, e mi pare
che i brownies siano come i cavalli: percepiscono il tuo livello di
stress.
Adesso, però, sono calma, ho i brownies e finalmente, dopo tanti
weekend mancati, Ethan è qui.
Posa le valigie e mi stringe in un abbraccio non appena apro la
porta.
«Benvenuto nel mio idillio rurale!» gli dico quando mi lascia
andare.
«Sento odore di bruciato» dice Ethan, poi, vedendo la mia
espressione: «Ma delizioso! Bruciato in modo delizioso. Alla brace?
Alla griglia? Quelli sono modi fantastici di bruciare le cose.»
«Ho fa o i brownies. Un po’ di volte. Ma guarda!» Lo porto
fieramente verso il vassoio di perfe i quadrati cioccolatosi sul tavolo
del soggiorno della nonna.
Lui ne prende uno e dà un morso enorme, poi chiude gli occhi e
geme. «Wow» dice, con la bocca piena. «È davvero delizioso.»
«Evviva! Lo sapevo!»
«Sempre umile» dice lui, poi prende lo strofinaccio quasi asciu o
che ho appoggiato alla spalla. «Guarda che bella massaia!»
Io mi riprendo lo strofinaccio e lo uso come arma per colpirlo.
«Chiudi il becco.»
«Perché? Mi piace.» Mi strofina il naso sul collo. «È sexy. Sai
quanto mi piace quando fai quella cosa da casalinga anni
Cinquanta.»
Arrossisco e lo spingo via. «Quello era un costume per una festa e
non stavo facendo proprio niente, e anche se avessi fa o qualcosa
non sarebbe stato per te!»
«Ah, no?» dice Ethan con un sorriso ironico. «Perché ricordo
molto bene che una cosina me l’avevi fa a…»
Scoppio a ridere, respingendo le sue mani maliziose, e mi ritiro in
cucina. «Vuoi un tè?»
Ethan mi segue. «Voglio una cosa» dice. «Ma non è il tè.»
«Caffè?»
«Riprova.» Mi abbraccia da dietro, premendosi contro di me.
Mi giro per guardarlo in faccia. «Scusami… mi sento così poco
sexy in questo momento. Ho passato buona parte della giornata a
piangere, ed è stata una se imana così strana. Tornare qui mi sta
facendo…»
«Diventare tua nonna?» completa Ethan, con uno sguardo
canzonatorio.
Indietreggio. «Cosa?»
«Ma sto scherzando!»
«Come ti è venuto?»
«Passi il giorno ai fornelli, non hai interesse per il sesso, indossi
un vero grembiule…» Si rende conto che non sto ridendo.
«Andiamo, Leena, sto scherzando!» Mi prende la mano e cerca di
farmi fare una piroe a. «Usciamo, dai. Portami in un bar.»
«Questo non è che sia proprio un posto da bar» dico, piroe ando
con una certa goffaggine.
«Ci sarà pure un bar da qualche parte. Com’è che si chiama il paese
vicino? Divedale?»
«Daredale. È a più di un’ora di macchina. E comunque, ho
pensato che stasera potremmo andare a trovare Arnold, il mio
vicino… ha de o che ci avrebbe preparato dell’agnello.» Mi sforzo di
sorridere. «È un po’ scorbutico, ma in fondo è un tenerone.»
p
«Mi sa che stasera dovrei lavorare un po’, angelo» dice Ethan,
lasciando la mia mano e andando verso il frigo. Tira fuori una birra.
«Oh. Ma…»
Mi bacia sulla guancia mentre prende l’apribo iglie dal casse o.
«Se mi dai una mano mi fa piacere. Sto cercando delle opportunità
inesplorate nel proge o di cui ti ho parlato la se imana scorsa… so
quanto ami le sfide…»
«Al momento mi ritrovo con più sfide di quante vorrei, a essere
sincera» dico, poi sba o gli occhi quando Ethan accende la tivù.
«Sta giocando il Millwall» dice. «Magari lo teniamo in
so ofondo.»
Non gli importava niente del proge o o della partita del Millwall
quando ha chiesto di andare al bar. Deglutisco, ricordandomi che ha
fa o tanta strada per vedermi, e poi ha ragione: in questo momento
sono in una situazione difficile, ho avuto una specie di… regressione
nell’elaborazione del lu o. Mi rendo conto che può essere frustrante.
E tu avia, non sta davvero entrando nello spirito del ritiro
bucolico, no?
Mi guarda dal divano, si accorge della mia espressione e si
addolcisce. «Scusami, sono un cretino» dice, allungando le braccia
per prendermi le mani. «Non ho tanto il pallino della campagna,
angelo. Dammi solo un po’ di tempo per ada armi alla tua nuova
identità.»
«Non ho nessuna nuova identità» gli dico scontrosa, andando a
sedermi vicino a lui. «E non sono mia nonna.»
Lui mi a ira a sé, facendomi appoggiare la testa sul suo pe o. È
questo il mio rifugio. Un tempo mi sentivo quasi disperata se la
paura e il dolore arrivavano quando Ethan non c’era: avevo bisogno
di questo, del suo braccio a orno alle spalle, del mio orecchio sul
ba ito del suo cuore. Era l’unico modo in cui mi sentivo al sicuro
stando immobile.
Mi lascio andare contro di lui. Lui mi bacia la testa.
«Dirò ad Arnold che ci andiamo la prossima volta, a mangiare
l’agnello» dico, mentre Ethan mi a ira più vicino, proprio nel posto
giusto.
Il ma ino dopo mi sveglio presto per andare a correre e quando esco
dalla doccia mi infilo nel le o nuda, premendo il corpo ancora
umido contro Ethan. Lui si sveglia lentamente, con un gemito di
piacere, mi sfiora il fianco con la mano, poggia le sue labbra sul mio
collo. È piacevole, proprio come dovrebbe essere, e la tensione
imbarazzata di ieri sera sembra ridicola: ci scherziamo sopra quando
torniamo a le o con il caffè, e lui mi pe ina i capelli con le dita
mentre io sono appoggiata al suo pe o, come facciamo sempre a
casa.
Dopo, Ethan è conciliante e ben disposto; dice che verrà
all’incontro del comitato del calendimaggio, anche se oggi comincia
alle o o del ma ino (perché, Betsy?) e io gli offro una via di fuga
(“se hai bisogno di lavorare…”).
Quando entriamo insieme nella sala comunale tu e le teste si
girano nella nostra direzione. Ethan, un po’ sconcertato, mormora:
«Gesù» prima di incollarsi al viso il sorriso con cui porta fuori i
clienti e presentarsi a tu i.
«Buongiorno. Sono Ethan Coleman» dice a Betsy.
Parla lentamente e ad alta voce, come se Betsy fosse sorda; la sua
espressione interde a mi fa sussultare. Fa lo stesso con tu i gli
anziani nella stanza: Penelope quasi sobbalza, eppure deve essere
abituata alla gente che urla, dato che vive con Roland. Merda. Avrei
dovuto dargli qualche ragguaglio prima di venire qui.
Jackson è l’ultimo ad arrivare, come al solito: non abbastanza tardi
da essere in ritardo, ma sempre l’ultimo, e sempre accolto da un coro
di saluti adoranti da parte dei vecchie i. Lancia un’occhiata a Ethan,
che lo vede e si alza di nuovo, tendendo la mano.
«Ethan Coleman.»
«Jackson.»
«È bello sapere che c’è qualcun altro so o i cent’anni qui» dice
Ethan, abbassando la voce e rivolgendogli un sorriso.
Jackson lo fissa per un a imo. «Queste sono brave persone» dice.
«Oh, ma certo! Certo. Forse non mi aspe avo tanti nonnini.
Immaginavo che qua fossero tu i minatori e contadini, sai, tizi da
“ehi, gente” e “come bu a?”.»
Faccio una smorfia. Ethan fa una faccia strana quando imita
l’accento dello Yorkshire, come se cercasse di apparire stupido… non
so nemmeno se ne sia consapevole, ma Jackson stringe appena
appena gli occhi.
«Scusa» dice Jackson, «tu sei?»
«Ethan Coleman» ripete Ethan, poi, davanti all’espressione
confusa di Jackson, raddrizza le spalle. «Il ragazzo di Leena.»
Gli occhi di Jackson si spostano sul mio viso. «Ah» dice. «Allora
sei venuto a trovarla.»
«Sarei venuto prima, ma per me non è facile allontanarmi da
Londra» dice Ethan. «Gente che conta su di me, milioni in ballo,
questo genere di cose.»
Lo dice senza traccia di ironia. Arrossisco, mi alzo e gli poso una
mano sul braccio.
«Dài, Ethan, sediamoci.»
«Ricordami cosa fai, Jackson» dice Ethan, scostandosi.
«L’insegnante» dice Jackson. «Non ci sono milioni in gioco. Solo
futuri.»
«Non so proprio come fai. Non potrei passare un’intera giornata
con i bambini senza che il cervello mi vada in pappa.»
Siamo al centro della stanza, e i membri del comitato di
programmazione del calendimaggio ci guardano dai loro posti,
affascinati, come se assistessero a una partita di qualche sport. Tiro
Ethan per un braccio; lui si libera di nuovo, lanciandomi
un’occhiataccia.
«Vuoi sederti, per piacere?» dico con voce tagliente.
Ethan aggro a la fronte. «Cosa? Io e Jackson stiamo facendo due
chiacchiere.»
«Hai ragione, dovremmo cominciare» dice Jackson e va verso la
sua sedia.
Solo quando lui si siede Ethan lascia che lo trascini verso il suo
posto. Abbasso gli occhi, con il cuore in tumulto per l’imbarazzo.
«Bene!» esclama Betsy, con evidente piacere. «Che emozione!
Ehm… Parliamo dei falò. Leena, sei pronta?»
Respiro profondo.
«Certo» dico, tirando fuori dalla borsa la penna e un taccuino.
Cerco di ricompormi. Ethan non vuole essere scortese; è solo che
diventa un po’ macho e prote ivo quando pensa che nella stanza ci
sia un altro maschio alfa, tu o qui. Capiranno quando si sarà
calmato. Può ancora affascinarli. Va tu o bene. Non è una catastrofe.
«Stai scrivendo il verbale?» dice Ethan.
Avvampo di nuovo. «Già. È quello che fa mia nonna.»
Ethan a quel punto ride, una risata troppo sonora che a ira tu i
gli sguardi. «Quando è stata l’ultima volta che hai steso un verbale,
Leena Co on?»
«Un po’ di tempo fa» dico, tenendo la voce bassa. Sento addosso
gli occhi di Jackson.
Betsy si schiarisce la voce in modo ostentato.
«Scusatemi!» dico. «Falò. Sono pronta, Betsy.»
Ignoro gli sguardi di Ethan e vado avanti con il mio verbale.
Averlo qui dà all’incontro un’atmosfera diversa: lo sto vedendo dal
suo punto di vista, come quando guardi il tuo programma preferito
e all’improvviso ti rendi conto che è TV spazzatura. Mi accorgo che
anche Jackson sta guardando Ethan, con espressione indecifrabile.
Cerco di concentrarmi sulla riunione. Betsy sta spiegando “per i
nuovi arrivati” (cioè Ethan) che il calendimaggio è una festa gaelica
tradizionale che viene celebrata a Hamleigh da generazioni. Si
inoltra fin troppo nella mitologia per quello che in realtà non è altro
che la solita pi oresca bisboccia gastronomica britannica, solo con
un albero della cuccagna.
All’incontro concludiamo incredibilmente poco, a parte che mi
appioppano il compito di trovare la Regina e il Re del Maggio per la
sfilata, cosa piu osto difficile quando le uniche persone che conosco
a Hamleigh sono presenti, e non mi trovano molto simpatica. Ma
non voglio dire di no a Betsy, quindi dovrò farmi venire in mente
qualcosa.
Appena l’incontro è finito, prendo le mie cose ed esco.
«Leena?» dice Ethan mentre mi avvio verso la porta, schivando
Piotr, che sta cercando di impedire a Penelope di sollevare Roland
dalla sedia con le sue sole forze. «Leena, aspe a!»
«Che cosa pensavi di fare?» sibilo, mentre usciamo. Sta piovendo,
spesse gocce oblique che ti si infilano so o il colle o.
Ethan impreca. Odia bagnarsi i capelli. «Santo cielo, che
postaccio» geme, guardando il cielo.
«Piove anche a Londra.»
«Perché ce l’hai con me?» chiede Ethan, affre andosi per tenere il
passo. «È quello che ho de o sulla gente del Nord? Andiamo, Leena,
pensavo che Jackson fosse il tipo che apprezza una ba uta. E
comunque, che cosa te ne importa? Continui a dire che tu i scelgono
di stare dalla sua parte invece che dalla tua, e quanto ti ha fa o
sentire in colpa per il cane…»
«In realtà, continuo a dire quanto io mi sento in colpa per il cane.
Jackson è un ragazzo molto tranquillo, e non me l’ha mai rinfacciato.
Sei stato tu a fare tu o da solo: a comportarti in modo odioso e
subdolo, mentre io mi sto sforzando di fare una buona impressione a
questa gente, e…»
«Caspita!» Ethan mi prende per un braccio per bloccarmi so o la
pensilina dell’autobus. «Ehi. Io sarei odioso e subdolo?»
«Volevo dire…»
«Tu dovresti stare dalla mia parte, angelo, o no?» Ha
un’espressione ferita. «Perché ti importa così di tanto di quello che
questa gente pensa di te?»
Incurvo le spalle. «A dire il vero, non lo so.»
Che cosa sto facendo? Prima grido contro mia madre, poi contro
Ethan. Devo darmi una calmata.
«Mi dispiace» dico, prendendogli le mani. «Sono stata un po’
fuori di testa in questi ultimi giorni… forse se imane.»
Ethan sospira, poi si avvicina e mi dà un bacio sul naso. «Su.
Andiamo a casa a rilassarci, che dici?»

Ethan deve tornare a Londra praticamente subito dopo che


rincasiamo dall’incontro, e forse è un bene: dovrei passare la
giornata ad aiutare Jackson a tinteggiare l’aula del primo anno come
penitenza per aver perso Hank. Speravo che Ethan si sarebbe offerto
di aiutare, ma adesso non ho nessuna voglia di partecipare a un altro
incontro Jackson-Ethan, almeno non finché Ethan non avrà avuto il
tempo di calmarsi e rendersi conto che deve scusarsi.
Il furgone di Jackson entra nel parcheggio mentre sto scendendo
da Agatha, la Ford Ka, un po’ sudata dopo essere stata arrostita dal
condizionatore. Non ho portato abbastanza abiti da lavoro, quindi
indosso un paio di pantaloni neri aderenti e un pile che ho preso in
prestito dalla nonna, che penso vada bene per il fai-da-te visto che ha
già un’enorme macchia di vernice viola su una te a. (Interessante,
perché a casa di nonna niente è dipinto di viola.) Jackson porta dei
jeans sfilacciati e una camicia di flanella. Mi rivolge un rapido sorriso
mentre appoggia le la e di colore e i pennelli per aprire le porte.
«Ciao. Sei più brava con il rullo o con le parti di precisione?» dice.
«Ehm, quelle di precisione» rispondo. Mi aspe avo
un’accoglienza più gelida dopo stama ina; sono presa un po’ alla
sprovvista.
Lo seguo mentre trasporta la vernice fino all’aula. È strano vedere
una scuola senza bambini che corrono da tu e le parti: ti fa capire
quanto il tu o appaia piccolo e inconsistente, dalle seggioline di
plastica alla libreria sgargiante disseminata di libri malconci.
«Jackson» dico. «Mi dispiace che Ethan sia stato…»
Jackson sta facendo i preparativi, disponendo tu o quello che gli
serve; le sue mani si fermano per un a imo. Alla luce della tarda
ma inata che entra dalla finestra dell’aula i suoi occhi sono molto
azzurri e oggi si è fa o la barba, per cui la mascella non è ispida
come al solito.
«Stava cercando di essere spiritoso» dico. «Di solito non è così.»
Jackson usa un cacciavite sporco di pi ura per aprire il coperchio
di una la a.
«Dispiace anche a me» dice. «Avrei potuto essere un po’ più…
non so… accogliente.»
Non ha tu i i torti. Mi rilasso un tantino e prendo un pennello.
Cominciamo dalla parete in fondo, iniziando dai due capi opposti.
L’avambraccio di Jackson è spruzzato di lentiggini, e quando mi
passa accanto per accendere le luci sento l’odore della sua pelle, aria
fresca e un cenno terroso, come il profumo della pioggia.
«Non ti ho ringraziato per avermi aiutato con Samantha quando è
venuta per Pasqua» dice alla fine. «Dopo non sme eva più di parlare
di te.»
Sorrido. «È una bambina adorabile.»
«Sta già diventando troppo furba per me» dice Jackson, con una
smorfia. «Mi fa più domande di tu i i miei scolari messi insieme. E
sta sempre pensando… un po’ come te, in effe i.»
Lo guardo sorpresa.
«Non è una bru a cosa. È solo l’impressione che mi dai.»
«No, è giusto. Solo che io lo chiamerei preoccuparsi più che
pensare, per la maggior parte del tempo, quindi mi auguro che
Samantha non sia come me, per il suo bene. Il mio cervello non sa
quando è ora di fermarsi. Scomme o di riuscire a immaginare venti
scenari catastrofici prima che a te ne venga in mente uno.»
«Non sono mai stato tipo da scenari catastrofici» dice Jackson. Si
accovaccia per immergere il rullo nel secchio; adesso ha i polsi
chiazzati di vernice, nuove lentiggini, più accese. «Quando
succedono, li affronti in qualche modo. E di solito è quello a cui non
avevi pensato che ti capita, quindi perché preoccuparsi?»
Dio, cosa darei per essere come lui. La meravigliosa semplicità di
questo modo di pensare.
«Voglio solo essere sicura che sto facendo la cosa giusta» dico.
«Sono preoccupata di… non so, sai quei libri che leggi da bambino,
che ti fanno scegliere che cosa succede dopo, e poi vai su una pagina
diversa a seconda di quello che hai scelto?»
Jackson annuisce. «Sì, ho presente.»
«Bene, io sto sempre cercando di proie armi in avanti in modo da
scegliere la cosa migliore.»
«Migliore per cosa?»
Esito. «In che senso?»
«Migliore per te?»
«No, no, voglio dire… migliore. La cosa giusta da fare.»
«Mmh» dice Jackson. «Interessante.»
Cerco un altro argomento, meno imbarazzante.
«Posso chiedere chi erano il Re e la Regina di Maggio l’anno
scorso? Devo trovare qualcuno per interpretare questi ruoli, e ho
q p p q
pensato che potrei partire da qui.»
C’è una lunghissima pausa.
«Eravamo io e Marigold» dice Jackson alla fine.
Lascio cadere il pennello.
«Merda!» Prendo lo straccio bagnato e tampono il pavimento di
linoleum: faccio appena in tempo a scongiurare il disastro.
«Tu o bene?» chiede Jackson, che è tornato a guardare la parete.
«Sì, bene. Scusa… ma tu e Marigold? La tua ex?» Mi rendo conto
in ritardo che probabilmente non dovrei sapere chi è Marigold…
non è stato Jackson a dirmelo. Ma lui non sembra sorpreso. In fondo
vive a Hamleigh: dev’essere abituato ai pe egolezzi che circolano.
«Le è sempre piaciuto farlo quando eravamo insieme.» Ha la
mano ferma, ma vedo un muscolo guizzargli sulla mascella. «Era
tornata apposta.»
«Con Samantha?»
Il rullo si ferma un a imo.
«Già.»
«Verranno anche quest’anno?»
«Lo spero. Sono fortunato: Marigold per un po’ girerà a Londra,
quindi passerà qualche se imana nel Regno Unito.»
«Che bella cosa. Sono felice.» Mi mordo l’interno della guancia.
«L’altro giorno, quando parlavo della mia coinquilina Martha» dico,
esitante, «non intendevo… lo so che ci sono tanti modi per essere un
genitore. È ovvio. Mi dispiace se ti ho turbato.»
Lui versa altra vernice nel secchio del rullo, e io aspe o,
guardandolo inclinare con a enzione la la a senza far cadere sul
pavimento una sola goccia di pi ura.
«Marigold continua a dire che torneranno qui e si sistemeranno a
Londra» dice, schiarendosi la gola. «Ma è passato più di un anno. E
le visite diventano sempre meno frequenti.»
«Mi dispiace» ripeto.
«Non occorre. Non volevi dire niente di male. Sei solo un po’…
come dire… dire a.»
«Mmh. Nelle valutazioni al lavoro vengo spesso etiche ata come
“esplicita”.»
«Ah, sì?» Parla in tono più leggero, adesso. «Io come “bravo a
gestire le crisi”. Trado o, significa “troppo flemmatico”.»
«Mentre “esplicita” è quello che dicono adesso che non possono
più dare alle donne delle prepotenti.»
«Dubito che qualcuno oserebbe chiamarti prepotente» dice
Jackson. «A parte Betsy.»
Sbuffo. «Sono certa che Betsy ha de o di peggio.»
«Devi solo lasciare a questa gente il tempo di abituarsi a te.» Mi
lancia un’occhiata ironica. «Che cosa ti aspe avi? Sei piombata a
Hamleigh con le tue scarpe da ci à e le tue grandi idee, come se
questa fosse la provincia americana e tu un pezzo grosso di New
York e facessimo tu i parte di uno di quei film di Natale…»
«Non sono piombata! E da quando sono arrivata uso le scarpe di
mia nonna. Tu, invece, campanilista che non sei altro, con il tuo
dannato cane e il tuo grosso pick-up, hai spaventato il mio
ragazzo…»
«Ho spaventato il tuo ragazzo?»
«No, scherzo.» Non avrei dovuto dirlo: Ethan se la prenderebbe a
morte. «Voglio solo dire che, sai, anche tu a tuo modo intimidisci.
Tu i pendono dalle tue labbra. Sei imba ibile.»
Il sorriso si allarga. «Imba ibile?»
«Volevo dire incredibile. Non imba ibile.»
Il sorriso rimane, ma lascia correre il mio lapsus freudiano. Ci
scambiamo di posto in modo che io possa fare i bordi dalla sua
parte.
«Senti» dice Jackson dopo un a imo, «il tuo tema per il
calendimaggio… Era migliore del mio.»
«Oh, no» comincio, ma mi interrompo. «Sì, a dire il vero sì.»
«Mi sento un po’ in colpa per come sono andate le cose. Ho un po’
giocato la carta di mia figlia, devo amme erlo.»
«Hai anche distribuito quegli assaggi di cocktail tropicali senza
dirmelo. E mi hai costre a a vestirmi da coniglio pasquale e a
saltellare come una deficiente.»
Jackson ride. «Non volevo farti sembrare una deficiente. Ho
pensato che ti avrebbe fa o piacere prendere parte a un’importante
tradizione di Hamleigh.»
g
«E volevi farmela pagare perché mi ero accaparrata il do or Piotr
nella squadra del tema medievale. Non che sia durata molto.»
Il suo sguardo si fa sfuggente.
«Ho ragione! Lo sapevo!» Tento di colpirlo con il pennello; lui lo
schiva con sorprendente agilità, ridacchiando.
«Non ne vado fiero» dice, schivando di nuovo il pennello. «Ahi!»
Lo becco sul braccio, una grossa strisciata di verde chiaro. Lui
brandisce il rullo al mio indirizzo e io alzo un sopracciglio
saltellando.
«Provaci.»
È molto più veloce di quanto mi sarei aspe ata. Mi becca sul naso,
e io strillo indignata.
«Non pensavo che avresti mirato alla faccia!»
Jackson alza le spalle, senza sme ere di ridacchiare. «Un a acco
perfe o, quindi.»
Sollevo l’orlo della maglie a per asciugarmi il naso; quando lo
lascio ricadere, vedo i suoi occhi spostarsi in fre a dalla pelle nuda
del mio stomaco. Mi schiarisco la gola. Sta diventando un po’
demenziale; mi giro verso la parete per ricompormi.
«Comunque» dice Jackson, seguendo il mio esempio, «volevo
chiederti se saresti disposta a mescolare i temi.»
Mi giro verso di lui, esterrefa a. «Medievale tropicale? Ma è
un’assurdità. Che cosa pensavi di fare, i falconieri con i pappagalli? I
giocolieri con le banane?»
Lui sembra pensarci sul serio.
«No!» dico. «È ridicolo!»
«D’accordo» dice. «E allora che ne dici del tema medievale, ma
con i cocktail?»
Rabbrividisco. Santo cielo, è anacronistico! È un casino pazzesco.
Jackson ha l’aria divertita. «È solo una sagra di paese: a chi
importa se non è perfe a? Ed è l’unico modo con cui conquisterai
Basil. A quanto pare quell’uomo adora il mango daiquiri. E poi,
abbiamo già prenotato i barman.»
«O imo. Ma devi presentarti di fronte al comitato e dichiarare che
dai il pieno sostegno al mio tema perché è molto migliore» dico,
agitando un dito.
g
«A parte il fa o che non ha i chioschi per i cocktail.»
Ringhio. Jackson sorride, mostrando le fosse e.
«Affare fa o» dice, tendendo la mano. Io gliela stringo e sento la
vernice umida tra le nostre dita.
«Tanto per chiarire» dico. «Dovrai fare il Re del Maggio, e io mi
assicurerò che il tuo look sia molto ridicolo. Così mi vendico per le
orecchie da coniglio.»
«Oh, andiamo, ti ho fa o un favore dandoti il ruolo del coniglio
pasquale… è praticamente una tradizione della famiglia Co on» mi
dice Jackson mentre iniziamo la parete successiva.
Arriccio il naso. «Non mi dire che mia nonna si me e quel
costume.»
«Non tua nonna. Ma tua mamma l’ha fa o… e anche Carla, una
volta.»
«Carla? Dici sul serio? Non l’ho mai saputo.»
«Quando aveva… diciasse e anni?»
«Raccontami» dico, dimenticando la pi ura, perché di colpo
voglio sapere tu o di questa notizia su mia sorella, come se lei fosse
ancora in vita, pronta a sorprendermi.
«Credo che sia stata tua nonna a incastrarla. Tu forse eri
all’università. Io stavo facendo il tirocinio da insegnante, ero tornato
per le vacanze, e l’ho incontrata mentre stava nascondendo le uova.
Mi ha fulminato con gli occhi. “Di’ una sola parola a qualcuno” mi
ha minacciato “e io spiffero a tu i che fumi dietro gli orti.”»
Rido, deliziata. La sua imitazione di Carla è fantastica. Lui mi
sorride, e i suoi occhi azzurri ca urano la luce del sole.
«E poi è partita con tu a una storia sull’appropriazione cristiana
di un rituale pagano o qualcosa del genere, sai come la pensava
Carla su queste cose, e a quel punto dall’angolo spunta Ursula –
all’epoca doveva avere sei o se e anni – e di colpo Carla prende a
saltellare, agitando la coda da coniglio. Voleva che quella bambina
pensasse che era il coniglio pasquale. Voleva salvaguardare la magia.
Un po’ come hai fa o tu con Samantha.»
Bu o fuori il fiato lentamente, il pennello sospeso a mezz’aria. È
facile dimenticare, quando senti la mancanza di qualcuno, che
questa persona è molto di più di quello che ricordi: ha sfacce ature
che mostrava solo davanti agli altri.
Nelle ultime se imane ho parlato di mia sorella più che in tu o lo
scorso anno messo insieme. A Hamleigh, le persone la nominano
senza ba ere ciglio; a casa i miei amici balbe ano il suo nome,
studiando la mia espressione, timorosi di dire la cosa sbagliata. Ho
sempre apprezzato il modo che ha Ethan di cambiare discorso se
siamo fuori a cena: dice di sapere che parlare di Carla mi fa stare
male.
Ed è vero, mi fa stare male, ma non come pensavo. Più parlo di
lei, più ho voglia di farlo, come se in qualche parte del mio cervello
ci fosse una diga che si sta crepando lasciando filtrare l’acqua, e più
veloce è la corrente, più la diga ha voglia di rompersi.
20
Eileen

È una no e lunga, come qualsiasi no e uno passi nella sala di a esa


di un ospedale. Mi torna in mente la nascita di Marian, di Leena, di
Carla. Ma sopra u o mi torna in mente il giorno in cui Carla fu
ricoverata in ospedale la prima volta. La prudenza con cui il medico
aveva pronunciato il suo avvertimento: “Purtroppo le notizie non
sono buone”. Il panico terribile sul viso di Marian, il modo in cui si
era aggrappata al mio braccio, come se stesse per cadere. E Leena,
che faceva quello che faceva sempre: serrare la mandibola e fare una
raffica di domande. “Che alternative abbiamo? Parliamo di quello
che succede adesso. Con il dovuto rispe o, do ore, mi piacerebbe
sentire una seconda opinione sulla TAC .”
All’una di no e circa, Fi sembra ricordarsi all’improvviso che
sono vecchia e forse ho bisogno di andare a casa a dormire, ma non
ci sembra giusto lasciare Martha. Quindi dormo sul pavimento so o
un mucchio di maglioni e giacche di Rupert e Fi . Era tanto tempo
che non dormivo per terra; mi fa male dappertu o. È come se
qualcuno avesse fa o il mio corpo a pezze ini e li avesse ricomposti.
Mi pulsa la testa.
Fi viene a prendermi verso l’ora di pranzo; sto ancora
sonnecchiando, ma mi sono spostata dal pavimento a una sedia. Ha
un’aria spe rale, ma felice.
«È nata!» dice. «Una bambina!»
Cerco di alzarmi troppo in fre a e mi prendo la testa fra le mani.
«Tu o bene, signora C?» mi chiede Fi aiutandomi a tirarmi su.
«Tu o bene, non far caso a me. Sei riuscito a conta are Yaz?»
Fi sorride. «Ho tenuto il telefono in modo che potesse vedere
Martha e la piccola. Adesso è in volo per tornare a casa.»
«Bene.» Non abbastanza, secondo me, ma cosa fa a capo ha. Ho
l’impressione che Yaz sia una persona i cui azzardi hanno sempre
funzionato: forse le farà bene rendersi conto che non si può sempre
passarla liscia.
Giriamo un angolo e io resto senza fiato, e devo appoggiarmi alla
parete per non perdere l’equilibrio. Su un le o c’è una giovane. Ha i
capelli ricci e il viso scavato dalla sofferenza.
«Signora C?» chiede Fi . «Siamo quasi arrivati.»
Mi giro dall’altra parte, in preda alla nausea. Questo posto non mi
sta facendo bene.
«I suoi sono qui, adesso?» chiedo. Mi trema la voce.
«Sì» dice Fi , esitante. «C’è suo padre con lei.»
«Allora non ha bisogno di me» dico. «Meglio che vada a casa.»
Ha l’aria di pensare se non sia il caso di accompagnarmi, ma per
fortuna non si offre. È impossibile trovare un’uscita in questo edificio
labirintico. Alla fine riesco miracolosamente a guadagnare l’esterno e
inalo una boccata di aria secca e inquinata.
Chiamo Leena. Mi tremano le mani e faccio fatica a trovare il suo
numero su questo malede o telefono, ma è importante. Posso
farcela. Devo solo… dannato aggeggio… eddai… ecco, finalmente
suona.
«Ciao, nonna!»
Sembra più spensierata del solito, quasi allegra. Ieri sera ero
arrabbiata con lei, ma sono sfinita, e sono successe tante cose nel
fra empo: non ho l’energia per litigarci. È la tradizionale soluzione
inglese per un diverbio familiare, comunque: ti comporti come se
non fosse successo niente, e, con il semplice passare del tempo,
fingere di non essertela presa ti porta a non essere davvero più
arrabbiato.
«Ciao, tesoro» dico. «Ti chiamo per dirti che è nata la bambina di
Martha. Una bella femminuccia. Stanno bene entrambe e la famiglia
di lei è qui.»
«Oh, no!» Si interrompe. «Cioè, voglio dire, non oh, no, ma me lo
sono persa! Mancavano ancora se imane! La chiamo subito… dovrei
venire a trovarla. Ora do un’occhiata ai treni.» Sento che sta
digitando sulla tastiera in so ofondo. C’è una pausa. «Tu stai bene,
nonna?»
«Solo un po’ scossa, per il fa o di essere tornata in un ospedale.
Ho pensato alla nostra Carla. È una sciocchezza, davvero.»
«Oh, nonna.» La sua voce si addolcisce; sme e di ba ere sui tasti.
Chiudo gli occhi per un a imo e poi li riapro, perché altrimenti
non riesco a mantenere l’equilibrio.
«Penso che dovrei tornare, Leena. È stata una cretinata venire
qui.»
«No! Non ti stai divertendo?»
Inciampo; mi sono avviata verso i taxi parcheggiati davanti
all’ospedale, ma con il telefono all’orecchio il mio equilibrio è
compromesso. Appoggio la mano libera al muro e sento il cuore in
gola. Odio la sensazione di cadere, anche quando ti salvi all’ultimo
minuto.
«Tu o bene, nonna?» dice Leena.
«Sì, tesoro. Certo. Sto bene.»
«Sembri un po’ sconvolta. Riposati un po’, domani ne parliamo.
Magari anche faccia a faccia, se vengo a Londra a trovare Martha.»
Leena torna a Londra. Bene. Le cose si stanno sistemando, come
dovrebbero essere. Sono contenta. O almeno penso. Sono così stanca
che è difficile capirlo.

Tornata all’appartamento, dormo per qualche ora e al risveglio mi


sento malissimo: indolenzita e nauseata, come se avessi un principio
di influenza. Sul telefono c’è un messaggio di Bee, che mi invita a
prendere un tè. “Temo di non sentirmela” rispondo, poi mi
addormento di nuovo, persino prima di poter spiegare perché.
Un’ore a dopo, sento bussare alla porta. Mi alzo dal le o. La testa
inizia a farmi male non appena mi tiro su; faccio una smorfia e mi
porto la mano alla fronte. Alla fine riesco ad arrivare alla porta,
anche se ci me o così tanto che non mi aspe o che chi ha bussato sia
ancora lì. Mi sento spaventosamente vecchia. Credo di non essermi
ancora scrollata di dosso la sensazione di quando sono inciampata
fuori dall’ospedale.
Alla porta c’è Bee, con una grossa borsa di carta tra le braccia:
dall’odore, mi sembra cibo. La guardo senza capire.
«Eileen, stai bene?» chiede con la fronte aggro ata.
«Ho un aspe o orribile?» chiedo, lisciandomi i capelli per quanto
mi è possibile senza lo specchio.
«Sei solo pallida» dice lei, prendendomi per un braccio. «Quando
è stata l’ultima volta che hai mangiato o bevuto?»
Cerco di ricordare. «Ossignore» dico.
«Siediti» ordina Bee, indicando la sedia che mi ha procurato
Martha quando le ho de o che non ce la facevo a issarmi su quegli
assurdi sgabelli da bar che usano loro. «Ho portato delle cose buone.
Salsicce e purè di patate.»
«Takeaway?» chiedo, guardandola sconcertata mentre inizia a
tirare fuori Tupperware fumanti dalla sporta.
«Le gioie di Deliveroo» risponde, e con un sorriso mi piazza
davanti un bicchierone d’acqua. «Bevilo. Magari non troppo in fre a.
Jaime vomita sempre quando beve troppo in fre a se non sta bene.
Leena mi ha scri o per dirmi che Martha ha partorito: ha
immaginato che dovevi esserti preoccupata più di lei che di te stessa.
E adesso forse ti senti un po’ frastornata, no?»
Annuisco, con una certa vergogna. È stato stupido dormire sul
pavimento e dimenticare di mangiare. Ho se antanove anni, non
ventinove, e farei bene a ricordarmelo.
«Ti rime eremo in sesto in un a imo» dice Bee. «Come sta
Martha? Qualche segnale da Yaz?»
«Martha per il momento è ancora in ospedale, e Yaz sta
arrivando.» Sorseggio l’acqua. Non mi ero accorta di avere tanta sete;
ho la gola così secca che mi fa male. «Sembra aver trovato una casa
che a Martha piace, alla fine: non da comprare, ma da affi are. Oggi
avranno le chiavi.»
Bee alza gli occhi al cielo, e prende qualche pia o dalla credenza.
«Mi sembra davvero assurdo» dice. «Non puoi traslocare lo stesso
giorno che porti a casa un neonato.»
«Lo so» rispondo asciu a «ma è inutile dirlo a Martha. Oh!» dico,
raddrizzandomi. «Com’è andato l’appuntamento con l’uomo della
biblioteca?»
Bee scoppia a ridere. «Mezzo bicchiere d’acqua e riecco la nostra
Eileen Co on.» Spinge verso di me un pia o di salsicce e purè
fumante. «Mangia, e ti racconto tu o.»
Prendo una forche ata di purè, mastico, poi la guardo piena di
aspe ativa. Lei mi guarda con un’aria di affe uosa esasperazione,
l’espressione che di solito assume quando sta parlando di Jaime.
«L’appuntamento è stato molto piacevole» dice, prendendo la
forche a. «Lui è intelligente, spiritoso e… non è per niente il mio
tipo. In senso buono» aggiunge, vedendo che apro la bocca per
parlare. «Solo che non appena ho accennato a Jaime ci ha tenuto a
dirmi che non va d’accordo con i bambini.» Alza le spalle. «Penso
che siamo d’accordo sul fa o che “non avere problemi con i
bambini” sia una parte della lista che non dobbiamo bu are dalla
finestra.»
Che delusione. Va bene, pazienza. Era improbabile riuscirci al
primo colpo. «Dovresti andare a caccia in qualche bella enoteca
costosa. Questo è il mio consiglio.»
Bee mi lancia un’occhiata maliziosa. «La se imana scorsa mi
avevi promesso di portarmici tu. Stai pensando di tornare a casa,
non è vero?»
«Te l’ha de o Leena?»
«Era preoccupata per te.»
«Non ho ancora deciso» dico. Poso un a imo la forche a, facendo
qualche respiro profondo; mangiare peggiora il mio malessere,
anche se sono certa che nel lungo periodo mi farà bene. «E lei non
dovrebbe preoccuparsi per me.»
«Ah, perché tu non ti preoccupi per lei?» chiede Bee, incredula.
«Certo che sì. È mia nipote.»
Bee mastica per un a imo, con aria seria. «Posso dirti una cosa
che mi preoccupa?» chiede. «Riguardo a Leena?»
Mando giù la saliva. «Naturalmente.»
«Penso che Ceci abbia in mente qualcosa.»
«Ceci?» la guardo insospe ita. È quella che ha mandato il
messaggio sul telefono di Leena a proposito del proge o che sta
“andando sempre meglio”.
«L’ho vista bere un caffè con Ethan al Borough Market. Lui è un
consulente, lei un’assistente… probabile che stesse solo creandosi
conta i» dice Bee, versandomi un altro bicchiere d’acqua. «Però…
Mi piacerebbe sapere se Ethan l’ha de o a Leena.»
«Non penserai…»
Bee sorseggia la sua bevanda. «Non so che cosa pensare. Ma,
come dire… Tu ti fidi di Ethan?»
«Neanche un po’» dico, posando il bicchiere con un po’ troppa
forza; l’acqua schizza su tu o il piano. «Perché mai ha tre telefoni?
Che cosa fa davvero in tu e quelle gite per andare a pesca? Perché
ha le scarpe sempre così ben lucidate?»
Bee mi guarda incredula. «Perché paga qualcuno per pulirle,
Eileen» dice. «Ma sugli altri punti concordo. È vero, è stato vicino a
Leena quando Carla è morta. Questo glielo dobbiamo riconoscere.
Ma da allora vive di rendita… per come la vedo io, sembra aver
smesso di provarci. È un momento difficile per lei, e lui è
completamente sparito. Mentre quando lui aveva un problema al
lavoro, chi era lì a raccogliere i cocci e ad aiutarlo con le slide?»
Aggro o la fronte. «Non lei, vero?»
«Sempre. L’altro giorno lui ha proposto una brillante idea per
placare un cliente difficile e a tu i è piaciuta. Solo dopo la riunione
mi è venuto in mente dove l’avevo già sentita: me l’aveva proposto
Leena quando ci occupavamo del proge o della Upgo. Era un’idea
sua, non di Ethan, ma lui non ha de o una parola per
riconoscerglielo.» Sospira. «Questo, però, non significa che la
tradisca. Potrebbe essere il contrario. Insomma, lui la dà per
scontata, ma dovrebbe capire che la sua vita sarebbe molto meno
comoda senza di lei.»
Per la mia esperienza, non è così che pensano gli uomini. «Mmh»
dico, cercando di inghio ire un altro boccone, mentre la nausea
sembra migliorare un po’.
«Non lo so. Solo che… vedere Ethan in quel caffè, che guardava
Ceci negli occhi…»
«La stava guardando negli occhi?»
«Al cento per cento» risponde Bee.
«Che cosa facciamo?» chiedo, massaggiandomi il collo, che inizia
a farmi male. «Potresti cercare di sedurlo per smascherarlo?»
«Mi sa che hai visto troppi gialli con Martha» dice Bee, divertita.
«Io non faccio queste cose, grazie tante.»
«Nemmeno io posso farlo, che dici? Andiamo. Mi devi aiutare.»
Bee ride. «Io a queste cose non mi presto!» dice. «Però… lo terrò
d’occhio.»
Vorrei tanto poter stare qui e fare lo stesso. Se fossi io a
investigare, non lo sospe erebbe mai. Nessuno sospe a mai delle
vecchie e.
«Oh, cielo» dice Bee tu a allegra. «Mi sa che inizi a sentirti
meglio. Hai messo su la tua espressione da cospiratrice.»
21
Leena

Sono pronta per tornare a Londra, ma quando Yaz risponde al


telefono di Martha mi dice – con tu a la gentilezza possibile – che
loro due hanno bisogno di qualche se imana per rime ersi in
carreggiata prima che qualcuno vada a trovarle.
«Lei ha persino vietato al padre di venire a stare da noi» dice Yaz
in tono di scuse. «Mi dispiace, Leena.»
Sento Martha in so ofondo. «Passamela!» dice.
«Ciao!» esclamo. Ho il telefono in viva voce mentre riordino la
cucina della nonna, ma lo riprendo in mano. Ho bisogno che la voce
di Martha sia più vicino alla mia faccia: è la migliore
approssimazione di abbracciarla. «Oh, santo cielo, come stai? Come
sta la piccola Vanessa?»
«È perfe a. So che è un luogo comune, ma lo penso davvero,
Leena» dice Martha con sincerità. «Anche se l’alla amento è un po’
meno Madonna con bambino di quanto mi aspe assi. Fa un male
cane. Lei, come dire… mastica.»
Faccio una smorfia.
«Ma la levatrice dice che verrà a farmi vedere come a accarla e
presto capiremo come si fa, eh, luce dei miei occhi?» Immagino che
stia parlando con Vanessa, non con me. «E Yaz ha trovato uno
splendido appartamento a Clapham! Non è straordinaria?
Comunque non era questo che volevo dirti, tesoro, volevo dirti…
Insomma, mi dispiace non invitarti. Ti voglio un mondo di bene,
ma… Yaz è appena tornata, e…»
«Non preoccuparti. Capisco benissimo. Hai bisogno di un po’ di
tempo con Vanessa.»
«Già, grazie tesoro. Ma non è neanche questo che volevo dirti.
Che cos’è che volevo dirle, Yaz?»
Dio, questa sembra Martha dopo che ha bevuto cinque bicchieri di
vino e non ha dormito. È di questo che parlano quando parlano del
rintontimento delle neomamme? Però sto sorridendo, perché lo
sento dalla voce che è felice, che scoppia di gioia. È così bello sapere
che lei e Yaz sono di nuovo insieme. Yaz mi è sempre piaciuta:
quando c’è lei, Martha si apre, come uno di quei fiori che si vedono
sbocciare con l’avanzamento veloce in TV . Dovrebbe solo essere un
po’ più presente.
«Volevi dirle di impedire a sua nonna di tornare a casa» dice Yaz
in so ofondo.
«Sì! Leena. Tua nonna non può tornare, non ancora. Le fa così
bene stare qui a Londra. In quest’ultimo mese l’ho vista tu i i giorni,
e sinceramente, che trasformazione… sta fiorendo. Sorride dieci
volte di più. La se imana scorsa sono entrata e lei e Fi stavano
ballando Good Vibrations.»
Mi me o la mano sul cuore. L’immagine della nonna che balla
con Fi è tenera quasi come la foto della piccola Vanessa che Yaz mi
ha appena mandato.
«Sai che esce con un a ore? E che ci ha convinto a trasformare
l’area al pianterreno del condominio in un circolo ricreativo?»
continua Martha.
«Sul serio? Quell’angolo con i divani macchiati e scompagnati?» E
poi, rifle endo: «L’a ore si chiama Tod? Lei non mi dice niente di
niente della sua vita amorosa, è una cosa esasperante!».
«Sei sua nipote, Leena. Non è che morirà dalla voglia di parlarti
della sua vita sessuale.»
«Sessuale?» dico, premendomi la mano sul pe o. «Oddio, che cosa
imbarazzante.»
Martha ride. «Si diverte da morire qui, e sta lavorando a questo
nuovo proge o: un circolo per gli anziani di Shoreditch.»
«Perché, ci sono anziani, a Shoreditch?»
«Vero? Chi l’avrebbe mai de o? Comunque non è ancora partito,
ma lei è così ele rizzata. Devi farle finire quello che ha iniziato.»
Penso a Basil, a come ha riso del fa o che i proge i della nonna
non vanno mai da nessuna parte, e di colpo mi sento fieramente
orgogliosa di lei. Questo proge o suona meraviglioso. Sono felice
che non abbia rinunciato alla possibilità di fare la differenza,
nemmeno dopo che, per decenni, uomini come Basil e il nonno Wade
hanno tentato di sminuirla.
«È stato parlare con tua mamma che le ha fa o pensare di dover
tornare a casa» dice Martha. «Avete per caso litigato?»
«Ah.»
«Di’ a Eileen che sistemerai le cose con tua madre e scomme o
che rimarrà qui. E farà bene anche a te, tesoro. Parlare con tua
mamma, intendo.»
Riprendo lo straccio e strofino con furia il piano co ura. «L’ultima
volta che abbiamo parlato è finita in rissa.» Mi mordo il labbro. «Mi
sento davvero in colpa.»
«Allora dillo» mi consiglia Martha con dolcezza. «Dillo a tua
madre.»
«Quando sono con lei, tu e le emozioni, i ricordi di Carla quando
stava morendo… è come finire so o un accidenti di schiacciasassi.»
«Dille anche questo» insiste Martha. «Andiamo. Dovete
ricominciare a parlarvi.»
«Sono mesi che la nonna vorrebbe che parlassi con mamma dei
miei sentimenti» amme o.
«E quando mai ha sbagliato tua nonna? Siamo tu i perdutamente
innamorati di Eileen, sai, Fi compreso» dice Martha. «Stavo
pensando di prendere uno di quei bracciale i che la gente portava
negli anni Novanta, solo che il mio dirà: “Che cosa farebbe Eileen
Co on?”.»

Dopo la telefonata con Martha faccio una lunga passeggiata,


seguendo un percorso che di solito riservo alla corsa. A questa
velocità, noto molte più cose: quanti campi ci sono qui, tu i diversi;
con quanta maestria sono costruiti questi mure i a secco, con le
pietre incastrate come in un puzzle. L’espressione un po’ accusatoria
di una pecora.
Alla fine, dopo dieci travagliati chilometri di riflessioni, mi siedo
sul ceppo di un albero vicino a un torrente e chiamo mia madre. È lo
scenario più riposante e idilliaco che si possa immaginare, e mi
p p p g
sembra necessario per quella che si prospe a come una
conversazione molto, molto difficile.
«Leena?»
«Ciao, mamma.»
Chiudo gli occhi per un a imo, sentendomi travolgere dalle
emozioni. Stavolta, però, è un po’ più facile, perché mi sono
preparata: mi sopraffanno un po’ meno.
«La nonna vuole tornare a Hamleigh.»
«Leena, mi dispiace un sacco» dice lei in fre a. «Non gliel’ho
chiesto io, davvero. Ieri sera le ho mandato un messaggio per dirle
che dovrebbe stare a Londra, ti giuro. Ho solo avuto un a imo di
debolezza quando l’ho chiamata, e lei ha deciso…»
«Non ti preoccupare, mamma. Non sono arrabbiata.»
Silenzio.
«Okay. Sono arrabbiata.» Do un calcio a un sasso con la punta
della scarpa da tennis, facendolo ruzzolare nell’acqua. «Immagino
che questo tu lo abbia intuito.»
«Avremmo dovuto parlare di tu o questo prima. Forse pensavo
che, con il passare del tempo, avresti capito, invece… Io ho solo
appoggiato Carla nella sua scelta, Leena. Sai che se avesse voluto
tentare un’altra operazione, un altro ciclo di chemio o qualsiasi altra
cosa, l’avrei appoggiata anche in quello. Ma lei non voleva, amore
mio.»
Sento bruciare gli occhi, segno inconfondibile che stanno per
arrivare le lacrime. In realtà, credo di sapere che quello che dice è
vero. Solo che…
«A volte è più facile essere arrabbiati che tristi» dice mamma, ed è
esa amente il pensiero che stavo cercando di elaborare, ed è così
tipico di mia madre anticiparlo. «Ed è più facile essere arrabbiata con
me che con Carla, immagino.»
«Be’» dico, con voce lacrimosa. «Carla è morta, quindi non posso
prenderla a male parole.»
«Davvero?» dice mamma. «Io a volte lo faccio.»
Le sue parole mi strappano una mezza risata.
«Penso che sarebbe non poco offesa se pensasse che rifiuti di
urlarle contro solo perché è morta» continua mamma dolcemente.
p
«Sai quanto ci teneva a tra are tu i allo stesso modo.»
Rido di nuovo. Guardo un ramoscello incastrato dietro una roccia,
che vibra nel flusso della corrente, e penso a quando, da piccola,
giocavo a lanciare i rame i nel fiume con Carla e la nonna, e a
quanto ci rimanevo male quando il mio restava incastrato.
«Mi dispiace di aver chiamato tua nonna» dice mamma con
calma. «È stata una debolezza. A volte mi sento così… sola.»
Inghio o la saliva. «Ma tu non sei sola, mamma.»
«La richiamo» dice lei dopo un a imo. «Le dico di restare a
Londra. Le dico che voglio che tu rimanga, e che non acce erò un
no.»
«Grazie.»
«Voglio davvero che tu rimanga, sai, più di ogni altra cosa, a dire
la verità. Non era questo. Era solo che avevo bisogno… avevo
bisogno di mia madre.»
Guardo l’acqua vorticare. «Sì» dico. «Sì, lo posso capire.»
22
Eileen

Devo dire che lavorare con Fi al Silver Social Club me lo sta


facendo vedere so o una luce completamente diversa. Al suo nuovo
impiego ha degli orari stranissimi – fa il concierge in un hotel di
lusso –, ma ogni minuto che passa a casa è quaggiù a dipingere
qualcosa o a accato al computer e intento a leggere su Internet come
si crea un’organizzazione non a scopo di lucro. Sta gestendo tu a
l’amministrazione del circolo: ha persino creato qualche locandina,
con un piccolo logo. È magnifico. Erano se imane che lo tartassavo
con il consiglio di essere più intraprendente nelle sue ambizioni
professionali, ma a essere sincera sono un po’ sconvolta da quanto
sia dotato.
«Ecco!» dice, facendo un passo indietro dopo aver a accato un
enorme quadro alla parete.
«Magnifico» dico. «Il tocco finale che ci voleva!»
Il quadro è una fotografia ingrandita in bianco e nero dell’edificio
negli anni Cinquanta, quando era ancora una stamperia. C’è un
gruppo di persone radunate fuori, che parlano e fumano, i colle i
sollevati contro il vento. È un promemoria del fa o che questo luogo
non è solo un insieme di appartamenti individuali, ma è anche un
edificio, con una storia tu a sua.
Sorrido, contemplando lo spazio che abbiamo creato. È bellissimo.
C’è un sontuoso divano rosso di fronte a quelle magnifiche finestre,
un lungo tavolo da pranzo in fondo, e tanti tavolini con sedie
piacevolmente spaiate, che aspe ano di ospitare partite a domino e
ramino.
Sono così felice di essere qui per vederlo. E sono ancora più felice
perché il motivo per cui non sono tornata a casa prima del tempo è
che Marian mi ha chiesto di non farlo. Sentirle dire che aveva bisogno
g
di passare questo periodo con Leena, loro due sole… è stato come se
mi venisse tolto un peso dal pe o.
Il mio telefono squilla. Fi lo trova e lo pesca dal lato del divano.
“Betsy.” Oh, cribbio, avevo intenzione di chiamarla. Finora l’ho
chiamata una volta a se imana… solo che tu i questi lavori di
ristru urazione mi hanno distra o, e mi è sfuggito di mente.
«Betsy, avevo appena preso il telefono per chiamarti, che
coincidenza!» dico quando rispondo, strizzando l’occhio a me stessa.
«Ciao, Eileen, cara» dice Betsy. Molto preoccupante. Conosco
abbastanza i toni di falsa allegria di Betsy per decifrare i segni di una
bru a giornata. Mi sento peggio che mai per aver dimenticato di
sentire come stava.
«Tu o bene?» chiedo con prudenza.
«Si tira avanti» dice lei. «Ti chiamo perché oggi mio nipote è a
Londra!»
«Che bello!»
Il nipote di Betsy è un inventore, e sta sempre a ideare assurdi
a rezzi che non servono a nessuno, ma è uno dei membri della sua
famiglia che tiene conta i regolari con lei, quindi questo lo colloca a
un livello alto nella mia stima. Se lei sa dove si trova, significa che
l’ha chiamata di recente: o imo. Dovrebbe solo convincere sua
madre a fare lo stesso.
«E sarebbe il nipote che ha inventato il… il…» Oh, perché ho
cominciato questa frase?
Betsy mi lascia a macerare per un po’.
«La pale a da hummus» mi suggerisce, con grande dignità. «Già.
È a Londra per una riunione, dice, e ho pensato, santo cielo, che
meravigliosa coincidenza, anche la nostra Eileen è a Londra! Dovete
incontrarvi a pranzo.»
Stringo le labbra. Ho la sensazione che Betsy possa aver
dimenticato che Londra si estende per oltre 1500 chilometri quadrati
e ospita più di o o milioni di persone.
«Gli ho già de o di chiamarti per organizzare. Ho pensato che
forse ti senti sola, e che ti piacerebbe avere qualcuno con cui
parlare.»
Non ho il coraggio di dirle che sono tu o meno che sola. Lo sono
stata, all’inizio, come prevedibile, ma ora non ho quasi più un
momento tu o per me, tra vedere Tod, pianificare il Silver Social
Club, spe egolare con Letitia…
«Anche lui sta facendo il dating, sai?» dice Betsy. «Magari saprà
darti qualche consiglio in merito.»
Non capisco. «Sta facendo il dating?»
«Sì, o comunque lui dice così. Usa quelle robe strane sul suo
telefono, sai… i siti di incontri» dice Betsy. «Magari ti insegnerà a
usarle.»
«Sì» dico io con pazienza. «Certo, sarebbe magnifico. Ricordami
una cosa, Betsy… com’è, questo tuo nipote? Storie d’amore?
Speranze e sogni? Opinioni politiche? È alto?»
«Oh, be’» dice Betsy. Mi sembra un po’ sconcertata, ma poi
subentra la nonna, e non riesce a resistere all’occasione. Parla senza
interruzione per venticinque minuti. È perfe o. Proprio il genere di
intelligenza che sto cercando. E ancora meglio: sembra molto
prome ente.
«Che uomo adorabile! Magnifico, Betsy» dico, quando alla fine
rimane senza fiato. «E mi chiamerà?»
«Certo!» Sento un suono smorzato alle spalle di Betsy. «Devo
andare» dice, e nel suo tono sento una punta di tensione. «Ci
sentiamo prestissimo, Eileen! Prova a chiamarmi presto, vuoi?»
«Lo farò» prome o. «Stammi bene.»
Appena chiusa la chiamata, apro WhatsApp. Adesso sono molto
più brava a usare il telefono, grazie all’assistenza di Fi ; lui mi
sbircia con approvazione da sopra la spalla mentre tocco il display.
C’è un messaggio in a esa da qualcuno che non conosco. Fi mi
mostra come acce arlo tra i miei conta i.

Buongiorno, signora Cotton, sono il nipote di Betsy. Penso che l’abbia


avvisata per il pranzo! Che cosa ne dice di Nopi, domani all’una? Un caro
saluto, Mike.

Prima di rispondere al messaggio, seleziono il nome di Bee.


Ciao Bee, domani a pranzo saresti libera? Nopi, una e un quarto?
Baci, Eileen xx

Mike non è solo molto alto ma anche decisamente bello, benché


abbia il naso di Betsy… però non può farci niente. Ha occhiali dalla
montatura spessa e capelli castani vagamente mossi, e porta una
giacca grigia, come se fosse appena uscito da una riunione
terribilmente importante. Cerco di non mostrarmi troppo entusiasta
mentre ci fanno sedere al tavolo perfe o: abbastanza grande per
ospitare un altro commensale e in piena vista della strada, così posso
vedere Bee quando… Sì! Eccola. Fantastico.
«Eileen?» dice lei confusa, avvicinandosi.
Guarda Mike e capisce l’antifona. È un po’ sconcertata.
«Bee!» dico, prima che inizi a lamentarsi. «Oh, Mike, spero che
non ti dispiaccia: dovevo incontrare la mia amica Bee oggi a pranzo,
quindi l’ho invitata a unirsi a noi.»
Mike la prende con la calma di un uomo abituato alle sorprese.
«Ciao, sono Mike» dice, tendendo la mano.
«Bee» dice lei, nel suo tono più secco e scoraggiante.
«Bene!» dico. «Non è fantastico? Mike, perché, per cominciare,
non racconti a Bee degli studi che hai fa o?»
Mike ha l’aria perplessa. «Mi faccia prima andare a chiedere
un’altra sedia» dice, alzandosi con galanteria e offrendo a Bee la sua.
«Grazie» dice lei e poi, appena seduta, sibila: «Eileen! Non hai il
minimo ritegno! Hai incastrato quel povere o in un appuntamento
al buio!».
«Sciocchezze, a lui non dispiace» dico, osservando il menu.
«Ah, no? E da cosa lo capisci?»
Alzo gli occhi. «Si sta sistemando i capelli nello specchio dietro al
bancone» le dico. «Vuole fare buona impressione.»
Lei si gira, poi inclina la testa di lato. «Devo dire che ha un culo
niente male» dice con rilu anza.
«Bee!»
«Che c’è? Volevi che mi piacesse, no? E poi non è che abbia molto
altro da valutare al momento! Oh, ciao, Mike» dice, quando lui torna
al tavolo con cameriere e sedia al seguito. «Scusami per il disturbo.»
g p
«Figurati» risponde lui disinvolto. «Grazie mille» dice al
cameriere. «Grazie per il tempo che mi ha dedicato.»
«Educato con i camerieri» sussurro a Bee. «O imo segno.»
Mike sembra divertito. «Eileen» dice, «hai un vantaggio su me e
Bee… sei l’unica persona a questo tavolo che ha un’idea di chi sia
l’altro. Dunque, perché non ci dici come mai hai voluto me erci
insieme oggi?»
Mi ha preso alla sprovvista. «Mmh, be’, ecco…»
Colgo l’espressione di maliziosa ironia di Bee. Lancia a Mike
un’occhiata complice. Li guardo entrambi in cagnesco.
«Ho passato buona parte degli ultimi anni a tenere la bocca chiusa
su una cosa o sull’altra» dico. «Ma ultimamente mi sono resa conto
che a volte è meglio immischiarsi. Dunque è inutile che cerchiate di
farmi sentire imbarazzata perché ho cercato di accoppiarvi. Come ha
de o Bee, non ho ritegno.» Alzo una mano mentre Mike apre la
bocca per dire qualcosa. «No, lasciami finire. Bee è una consulente
aziendale di enorme successo e ha in programma di lanciare una sua
società. Mike, di recente hai creato la tua azienda di… pale e per
l’hummus.» Li indico con un cenno. «Su» dico. «Parlatene.»

Tornando a casa, sono al se imo cielo. Ho assistito all’intero


appuntamento di Bee e Mike ed è stato un successo senza
precedenti. O comunque, hanno passato la maggioranza del tempo a
ridere… anche se in certi casi di me, devo amme erlo, ma non
importa. Ho sempre avuto il terrore di essere derisa, ma quando sei
stata tu a fissare le condizioni, e sei la prima a ridere, può essere
anche abbastanza divertente.
Mi siedo al banco della colazione con il computer di Leena. Ci
sono tre nuovi messaggi sul sito di incontri.

Toddietrolequinte dice: Domani sera, casa mia. La biancheria di pizzo


nero. Su questo punto non transigo.

Arrossisco. Cielo. Di solito odio farmi comandare, ma chissà


perché quando lo fa Tod non mi dispiace per niente. Mi schiarisco la
gola e rispondo.
g p
EileenCotton79 dice: Be’, se proprio insisti…

Uff. Be’, questo dovrebbe riportarmi sulla terra: un messaggio di


Arnold. Pensavo di avergli de o di andare a quel paese e piantarla
di ficcare il naso nel mio profilo, no?

Arnold1234 dice: Ho visto questo e ho pensato a te…

Clicco il link so o il messaggio. Parte un video. È un ga o che si


divora un’intera aiuola di viole.
Scoppio a ridere, con mia grande sorpresa.

EileenCotton79 dice: Non prova niente, Arnold Macintyre!


Arnold1234 dice: Ci sono un sacco di questi video di gatti su Internet. Li
sto guardando da ore.
EileenCotton79 dice: Hai visto quello con il pianoforte?
Arnold1234 dice: Fantastico, eh?

Rido.

EileenCotton79 dice: Pensavo che i gatti non ti piacessero.


Arnold1234 dice: Non mi piacciono. Ma comunque la pensi, Eileen, non
sono un mostro, e solo un mostro potrebbe non essere divertito da un
gatto che suona il piano.
EileenCotton79 dice: Non penso che sei un mostro. Solo un vecchio
scorbutico.

I puntini durano un’infinità. Arnold è così lento a scrivere. Mentre


aspe o, torno sulla pagina del suo profilo. I de agli sono ancora
scarsi, ma ha aggiunto una foto, uno sca o di lui che sorride al sole
con un cappello di paglia che gli copre la testa quasi calva. Sorrido.
Ha proprio la faccia da Arnold, e mi sento un po’ in colpa per la mia
foto di decenni fa, sca ata in una luce così lusinghiera.

Arnold1234 dice: Non sono sempre scorbutico, sai.


EileenCotton79 dice: Solo in mia presenza, allora…
Arnold1234 dice: Certo che tu sai essere esasperante.
EileenCotton79 dice: Chi, io?
Arnold1234 dice: E puoi essere anche un tantino meschina.
EileenCotton79 dice: Meschina! Quando??
Arnold1234 dice: Quando abbiamo scoperto che il mio capanno si
estendeva un po’ oltre la linea di confine con il tuo cortile e mi hai fatto
ricostruire tutto quel coso dall’altra parte del giardino.

Faccio una smorfia. L’ho fa o, devo amme erlo. Arnold era fuori
di sé, quante risate.

EileenCotton79 dice: Le leggi sulla proprietà devono essere rispettate,


Arnold. Altrimenti, come dice sempre il mio nuovo amico Fitz… che cosa
ci separa dagli animali?
Arnold1234 dice: Nuovo amico, eh?
EileenCotton79 dice: Sì…
Arnold1234 dice: Nuovo AMICO, eh?

Scoppio a ridere capendo dove vuole arrivare.

EileenCotton79 dice: Fitz? È il coinquilino di Leena! È abbastanza


giovane da essere mio nipote!
Arnold1234 dice: Bene.
Arnold1234 dice: Cioè, è bello che tu abbia fatto amicizia con il suo
coinquilino. Com’è il loro appartamento?

In ritardo, mi accorgo di avere un altro messaggio in a esa.


Stavolta è Howard.

OldCountryBoy dice: Ciao, carissima Eileen! Ho appena finito di leggere


Trappola per topi, perché hai detto che era uno dei tuoi preferiti, e devo
dirti che è piaciuto molto anche a me. Che finale!

Sento un calore al pe o. Comincio a ba ere sui tasti. Howard è


sempre così premuroso. È raro trovare un uomo che sia più
interessato ad ascoltare che a parlare. Su questo sito abbiamo
p q
discusso di ogni genere di argomento: gli ho raccontato della mia
famiglia, dei miei amici, persino di Wade. È stato molto dolce e ha
de o che Wade è stato un pazzo a lasciarmi, cosa che condivido con
tu o il cuore, devo dire.
Spunta il prossimo messaggio di Arnold, ma clicco sulla barre a
per ridurlo a icona.
23
Leena

Quando suona il campanello sono appena uscita dalla doccia; mi


infilo in fre a un paio di jeans e una vecchia camicia azzurra della
nonna. Dev’essere Arnold: adesso ogni tanto viene a prendersi una
tazza di tè, e, dopo tante insistenze frustrate da parte mia, ha
cominciato a presentarsi alla porta d’ingresso e non alla finestra
della cucina. I capelli mi gocciolano sulla schiena mentre mi
precipito verso l’ingresso, ancora abbo onandomi la camicia.
Quando arrivo alla porta, scopro che non è Arnold. È Hank. O
piu osto sono Jackson e Hank, ma è Hank il primo a esigere la mia
a enzione, proteso sulle zampe posteriori fino alla capacità massima
del guinzaglio, mentre cerca disperatamente di raggiungermi.
«Ciao» dico, mentre Jackson tira indietro Hank in posizione
seduta. Finisco di allacciarmi i bo oni. «Che sorpresa!»
«Vuoi venire a fare una passeggiata con me e Hank?» chiede
Jackson. Le sue guance si arrossano un po’. «È un’offerta di pace, in
caso tu non lo capisca. Da Hank, intendo.»
«Io… sì» dico. «Sì, certo. Grazie, Hank.» Faccio una specie di goffo
inchino al cane, poi cerco di fingere che non sia mai successo.
«Fammi solo…» Mi indico la testa, poi, rendendomi conto che non
basta: «Devo darmi una sistemata ai capelli».
Lui li guarda. «Oh, d’accordo. Ti aspe iamo.»
«Entrate pure» gli dico, mentre torno verso l’interno. «Il bollitore
è ancora caldo, se hai voglia di qualcosa da bere. Oh, ne vuole anche
Hank? Ci sono delle ciotole di plastica so o il lavabo.»
«Grazie» urla Jackson.
Di solito ci me o mezz’ora ad asciugarmi i capelli, ma al
momento non è un’opzione. Davanti allo specchio del soggiorno
della nonna, con Ant/Dec che mi sfreccia tra le caviglie, li raccolgo
g g
nella crocchia che uso al lavoro… anche se, porca miseria, è proprio
scomodo. Davvero mi pe ino così ogni giorno? Sembra di avere
sempre qualcuno che ti tira i capelli. Comunque dovrò farmela
andar bene.
«Ho lasciato lì il telefono?» chiedo. Mi sono abituata al notevole
peso del Nokia della nonna nella tasca posteriore dei jeans; mi
chiedo se non mi ci vorrà un po’ a riabituarmi al mio iPhone quando
sarò tornata a Londra.
Abbasso il mento per finire di legare la crocchia, e quando alzo la
testa Jackson è lì, il viso un po’ diverso nello specchio, con il naso
storto piegato dall’altra parte.
Mi giro; lui sorride, porgendomi il telefono della nonna. «Ti stai
abituando a questo vecchio arnese, eh?»
Si sente un rumore che sta tra un miagolio e il suono che potrebbe
fare una mucca che partorisce. Ant/Dec passa di corsa e poi, in una
nuvola di pelliccia nera, Hank balza in mezzo a noi, il muso proteso,
senza perdere d’occhio il ga o, passando proprio davanti alle gambe
di Jackson, che viene le eralmente falciato da un cucciolo lanciato a
tu a velocità. Il telefono che tiene in mano vola via e…
Uff. Cade in avanti tra le mie braccia, o meglio, sarebbe caduto tra
le mie braccia, non fosse che probabilmente pesa il doppio di me. È
più come trovarsi dalla parte sbagliata di un albero che cade. Urto lo
specchio con la nuca, inciampo nel ba iscopa e Jackson mi inchioda
alla parete, con il braccio destro puntellato per proteggermi e la
fibbia della cintura che mi preme dolorosamente contro lo stomaco.
Per un a imo fuggevole siamo corpo a corpo, stre i uno all’altra.
Ho una guancia premuta contro il pe o di Jackson, e sento il ba ito
del suo cuore. Lui mi circonda con le braccia, e quando si scosta mi
sfiora i seni con il torace, facendomi tra enere il respiro. Avvampo;
avrei dovuto me ere un reggiseno so o la camicia.
I nostri occhi si incrociano mentre si stacca dalla parete e si ferma
così, con le braccia puntellate da una parte e dall’altra. Ha le iridi
punteggiate di pagliuzze più scure e delle lentiggini proprio so o i
suoi occhi, troppo chiare per essere distinte da lontano. Mi trovo a
pensare ai muscoli che risaltano sulle braccia, al modo in cui le sue
spalle ampie riempiono la T-shirt, a come sarebbe…
p p p
Hank mi lecca un piede nudo. Strillo, e la pausa sospesa tra me e
Jackson si trasforma in una frenesia di movimenti impacciati: lui si
stacca dalla parete e fa un salto all’indietro, mentre io mi accovaccio
e mi affre o a recuperare il telefono della nonna. Ant/Dec sembra
esserne uscito indenne; Hank mi gironzola intorno, la lingua di
fuori, come se fossi in grado di sfornare un altro ga o da inseguire
se lui porta abbastanza pazienza.
«Stai bene?» chiedo a Jackson, rigirandomi il telefono tra le mani.
Ho aspe ato troppo tempo per incrociare di nuovo il suo sguardo:
mi costringo a guardarlo in faccia e scopro che è impallidito,
immobile, a pochi passi da me.
«Mmh, sì» dice, con voce strozzata. «Mi dispiace.»
«Non preoccuparti! Non preoccuparti proprio!» Troppi punti
esclamativi. Basta con i punti esclamativi. «Vuoi che andiamo?»
«Be’, sì, buona idea.»
Usciamo di casa e imbocchiamo Middling Lane. Ci avviamo di
buon passo. Camminiamo troppo veloci per parlare. Perfe o. Il
silenzio è proprio quello di cui ho bisogno adesso.
La passeggiata sembra alleviare la tensione che si è creata tra di
noi. Hank si diverte un mondo: tro erella al fianco di Jackson,
scodinzolando. Io inalo a fondo l’aria frizzante della primavera,
mentre le colline si aprono di fronte a noi. Sento l’odore dolce di
qualcosa che sboccia tra le siepi, il frusciare degli uccellini che
sfrecciano tra i rami degli alberi sopra le nostre teste. La bellezza
della natura. Già. Concentrati sulla bellezza della natura, Leena, non
sulla sensazione del corpo grande e muscoloso di Jackson che ti
sfiora i capezzoli.
«Sei pronta a portarlo tu?» chiede Jackson, indicando Hank.
Mi schiarisco la gola. «Sì! Come no!»
«Tieni.» Infila la mano in tasca e tira fuori un premie o. Hank ne
sente subito l’odore: alza il muso e guarda verso di noi.
«Prova a dirgli “piede”» mi istruisce Jackson.
«Piede, Hank» dico.
Hank si me e al passo, guardandomi con l’espressione adorante
che pensavo riservasse solo a Jackson. Scopro che il segreto sono i
bocconcini al pollo. La cosa mi entusiasma.
p
«Ehi, guarda!» dico, voltandomi verso Jackson.
Lui mi sorride, rivelando le fosse e, poi distoglie lo sguardo a
disagio.
Continuiamo a camminare; i nostri passi sono l’unico rumore che
sento, a parte il canto degli uccelli. Hank si sta comportando
benissimo, anche se, per sicurezza, stringo bene il guinzaglio.
Jackson ci porta su un percorso che non conosco, che a raversa un
meraviglioso bosco fi o e ombroso a est del paese, finché Hamleigh
non ritorna in vista. Da qui si riesce a vedere la piccola strada senza
uscita dove vive Betsy, cinque o sei case bianche che sembrano
prefabbricate, con la facciata rivolta verso di noi e le finestre che
scintillano nel sole.
«Stai di nuovo pensando, vero?» chiede Jackson, guardandomi di
so ecchi.
«Perché tu davvero non pensi? Cioè, tipo che mentre cammini non
pensi a niente?»
Jackson alza le spalle. «Se non ho bisogno di pensare a niente,
no.»
Incredibile. «In realtà stavo pensando a Betsy» dico. «Mi chiedo…
sono un po’ preoccupata per lei.»
«Mmh. Lo siamo tu i.»
«L’ha de o anche Arnold, ma… allora perché nessuno ha mai fa o
niente?» chiedo. «Secondo te Cliff la tra a male? Dovremmo aiutarla
a lasciarlo? Offrirle una stanza in casa nostra? Fare qualcosa?»
Jackson sta scuotendo la testa. «Il punto è quello che vuole Betsy»
dice. «E lei non vuole nessuna di queste cose.»
«Sono decenni che vive con quell’uomo: se lui la maltra a, come
fai a sapere che lei sa quello che vuole?»
Jackson mi guarda stupito. «Tu cosa proponi?»
«Voglio andare a trovarla.»
«Non ti inviterà mai a casa sua. Nemmeno Eileen riesce a entrare
a casa di Betsy.»
«Stai scherzando!»
Jackson fa segno di no con la testa. «Da quel che ne so, no. Cliff
non ama le visite.»
Digrigno i denti. «Bene, d’accordo. E se ci facessimo aiutare da
Hank?»

«Betsy, sono desolata» dico «ma penso che Hank sia nel tuo
giardino.»
Betsy mi guarda dallo spiraglio della porta. La casa non è affa o
come mi aspe avo. Mi sarei immaginata rose dappertu o e gradini
perfe amente lucidati, invece le grondaie sono incurvate e i
davanzali si stanno scrostando. Sembra un posto triste e trascurato.
«Hank? Il cane di Jackson? Come diavolo ha fa o a entrare nel
nostro giardino?»
Be’, l’ho preso in braccio, Jackson mi ha sollevato e io ho mollato
Hank da un’altezza potenzialmente pericolosa verso l’a erraggio
relativamente morbido di un grosso cespuglio.
«Proprio non lo so» dico, spalancando le braccia. «Quel cane
riesce a infilarsi dappertu o.»
Betsy si guarda alle spalle. Dio solo sa che cosa stia combinando
Hank nel suo giardino.
«Vado a prenderlo» dice, chiudendomi la porta in faccia.
Merda. Mi volto e faccio un fischio; dopo un lungo istante Jackson
appare al termine del viale o che conduce alla porta di Betsy.
«È andata a prenderlo!» sussurro.
Jackson mi liquida con un gesto. «Non ci riuscirà» dice, tranquillo.
«Aspe a e vedrai.»
Mi volto di nuovo verso l’ingresso della casa, ba endo il piede.
Dopo circa cinque minuti la porta si socchiude e Betsy fa capolino.
Sembra un po’ più scarmigliata di prima.
«Mi sa che devi venire a prendertelo» sussurra. Si guarda di
nuovo alle spalle. Sembra più vecchia, più ingobbita, ma forse è lo
scenario di quella casa malconcia. La moque e dell’ingresso è logora
e macchiata; il paralume è storto e ge a strane ombre sbilenche sulle
pareti beige.
«Betsy!» urla una burbera voce maschile da qualche punto della
casa.
Betsy sobbalza. Non un saltello normale, di quelli che fai quando
succede qualcosa che non ti aspe i. È più un trasalimento.
q p p
«Un a imo, caro!» risponde. «Un cane è appena entrato nel
giardino, ma sto risolvendo la cosa. Vieni» mi sussurra, facendomi
passare a sinistra, nel cucino o buio.
C’è una porta che si apre sul giardino; da lì vedo Hank che
scorrazza nelle aiuole. Mi sento un po’ in colpa. Il giardino è l’unica
parte di questo posto che sembra curata: le siepi sono ben potate e ci
sono dei vasi appesi a ogni palo della staccionata, ricolmi di viole e
edera verde chiaro.
«Come stai, Betsy?» chiedo, girandomi per guardarla meglio. Non
mi ero mai accorta di quanto fossero radi i suoi capelli, in mezzo ai
quali si intravede il bianco roseo del cuoio capelluto. Ha uno spesso
strato di fondotinta color pesca so o gli occhi, che si raccoglie nelle
rughe a orno alla bocca.
«Sto bene, grazie» dice Betsy, chiudendosi la porta della cucina
alle spalle. «Ora, se non ti spiace portare via quel cane dal mio
giardino…»
Guardo di nuovo fuori e faccio una smorfia: in questo momento il
cane sta scavando una buca in mezzo al prato di Betsy. Mi sa che
devo porre fine a tu o questo.
«Hank! Hank, qui!» chiamo, e poi – questa è la parte per cui
Jackson mi ha dato istruzioni molto severe – faccio frusciare il
sacche o di plastica di bocconcini che tengo in mano.
Hank alza la testa di sca o e sme e di scavare. Nel giro di mezzo
secondo, sta correndo a grandi balzi verso di me. Betsy caccia un
urlo, ma io sono preparata: lo afferro prima che possa cambiare idea,
e aggancio il guinzaglio al collare. Lui continua a saltare imperterrito
– dopo essersi accaparrato il bocconcino, naturalmente – e io ruoto
su me stessa per evitare di restare aggrovigliata nel guinzaglio.
Ora capisco che cosa intende Jackson, più o meno: Betsy non sta
bene, ma cosa posso fare per spingerla a dirlo? Forse il mio piano non
era così geniale. È molto difficile avere una conversazione intima con
qualcuno mentre stai cercando di impedire che un Labrador gli
lecchi la faccia.
«E sei sicura che vada tu o bene?» azzardo, mentre Hank sposta
l’a enzione da Betsy al bidone dei rifiuti.
«Va tu o a meraviglia, grazie, Leena» dice Betsy.
g g y
«Betsy, che diavolo sta succedendo?» urla una scontrosa voce
maschile.
Betsy si irrigidisce. Incrocia il mio sguardo, poi lo distoglie.
«Niente, caro» dice ad alta voce. «Fra un secondo sono da te.»
«C’è qualcuno là dentro? Hai fa o entrare qualcuno?» Una pausa,
poi, a voce bassa, come una minaccia: «Non hai fa o entrare
qualcuno, vero Betsy?».
«No!» dice Betsy, incrociando di nuovo di sfuggita il mio sguardo.
«Ci sono solo io, Cliff.»
Ho il cuore gola. Sono impietrita.
«Betsy» comincio, in un sussurro. Do uno stra one al guinzaglio
di Hank e gli intimo con la massima severità di me ersi seduto; per
miracolo, stavolta obbedisce. «Betsy, non dovrebbe parlarti con quel
tono. E tu dovresti poter invitare i tuoi amici. È casa tua oltre che
sua.»
Betsy a quel punto esce in giardino, guidandomi verso il
passaggio che va dall’ingresso alla parte sul retro. «Ti saluto, Leena»
dice con calma, aprendo il cancello.
«Betsy, ti prego, se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti…»
«Betsy… sento delle voci, Betsy…» si sente Cliff mugugnare
dall’interno. Stavolta sobbalzo persino io.
Betsy mi guarda negli occhi. «Proprio tu parli di aver bisogno di
aiuto» sibila. «Risolvi i tuoi problemi prima di venire qui e
pretendere di risolvere i miei, signorina Co on.»
Si fa da parte. Hank stra ona il guinzaglio, fissando il cancello
aperto.
«Se cambi idea, chiamami.»
«Proprio non vuoi capire, eh? Fuori di qui.» Indica il cancello
come se stesse parlando con il cane.
«Ti meriti di meglio. E non è mai troppo tardi per avere la vita che
meriti, Betsy.»
Con queste parole, me ne vado. Il cancello si chiude silenzioso
dietro di me.

Detesto non poter fare niente per Betsy. Il giorno dopo, effe uo una
ricerca sui servizi locali che offrono sostegno alle donne coinvolte in
g
relazioni violente: non riesco a trovare niente di specifico per le
persone anziane, ma penso che ci siano alcune risorse che potrebbero
comunque esserle utili, e le stampo, portandomele nello zaino ogni
volta che giro per il paese, non si sa mai. Ma con il passare dei giorni
lei resta più gelida che mai, e ogni volta che cerco di parlarle mi
zi isce.
Non mi resta molto tempo da passare qui. Il prossimo weekend è
il calendimaggio, e dopo tornerò a Londra, e una se imana dopo al
lavoro. Nella mia casella trovo una e-mail di Rebecca che parla del
proge o che mi sarà assegnato quando tornerò in ufficio. Continuo
ad aprire il messaggio e a fissarlo a onita: mi sembra destinato a
qualcun altro.
Per il momento, mi concentro solo sul calendimaggio. I tasselli
finali della festa stanno andando al loro posto. Ho trovato la
porche a, ho capito come montare cinquecento lanterne sugli alberi
a orno al campo dove verrà acceso il falò principale, e ho trasportato
personalmente sei borse di gli er verde biodegradabile alla sala
comunale, in modo che possa essere sparso sul percorso della sfilata.
(Si è poi scoperto che cos’erano i “brillantini” nella lista di cose da
fare che mi aveva consegnato Betsy. La mia obiezione che non fosse
un articolo molto medievale è stata liquidata con un secco: “Da noi si
usa così”.)
Non posso introme ermi e aiutare Betsy senza il suo consenso,
ma posso aiutarla a organizzare un proge o su ampia scala.
E c’è anche un’altra cosa che posso fare.
«Non potresti avere un’aria più fragile?» chiedo a Nicola,
lisciandole il cardigan e spazzandole via qualche pelucco dalle
spalle.
Lei mi lancia uno sguardo che mi riprome o di imitare la
prossima volta che vorrò sbudellare un collega maleducato.
«Più fragile di così non mi viene» dice Nicola. «Pensavo avessi
de o che mi portavi a Leeds a fare shopping. Perché mai dovrei
avere un’aria fragile?»
«Ma certo, andremo a fare shopping» dico. «Solo che prima
dobbiamo passare da qualche studio legale.»
«Cosa?»
«Ci vorrà un a imo! I nostri incontri sono programmati per
durare una ventina di minuti al massimo.»
Lei mi guarda in cagnesco. «Ma io cosa ci vengo a fare?»
«Sto cercando uno sponsor per la festa del calendimaggio. Ma sai,
io faccio tanto londinese rampante» dico, indicandomi. «Mentre tu
sei dolce, anziana e desterai la loro simpatia.»
«Io non sono nemmeno di Hamleigh! E dolce un paio di coglioni»
dice Nicola. «Se pensi che me ne starò seduta lì a lisciare qualche
avvocato senza scrupoli…»
«Puoi anche non dire niente» le spiego, scortandola verso la
macchina. «Forse è più prudente.»
Nicola brontola per tu o il tragi o verso Leeds, ma non appena
entriamo nella prima sala riunioni recita in modo così convincente la
parte dell’adorabile vecchie a barcollante che stento a tra enere le
risate. “Un evento così importante per il nostro umile paesino” dice
Nicola. “Aspe o il calendimaggio per tu o l’anno.” Loro se la
bevono. La Port & Morgan Solicitors acce a subito; gli altri dicono
che ci penseranno.
È bello tornare in una sala riunioni, in realtà. Ed è bello
sopra u o uscirne vi oriosa, piu osto che in preda
all’iperventilazione. Mando un rapido messaggio a Bee mentre ci
avviamo verso la macchina.
Pochi secondi dopo arriva la sua risposta:

Sei ancora in pista. Ora riconosco la mia Leena Cotton.

Mentre torniamo a Knargill, Nicola ridacchia nell’enorme tazza di


caffè che le ho offerto per ringraziarla.
«Non avevo idea che fosse così facile spingere uomini come
quello a me ere mano al portafoglio!» dice. «Che cos’altro potremmo
chiedergli? Di finanziare la biblioteca mobile? Un pulmino?»
Non ha tu i i torti. La mia mente va al documento ancora aperto
sul computer della nonna: “B&L Boutique Consulting. Strategia”. La
responsabilità aziendale è più che mai importante per i millennial: le
società devono costruire a ività benefiche e offrire opportunità nel
cuore dei loro modelli di business, devono…
«Leena? Casa mia è lì» dice Nicola.
Inchiodo.
«Oooh, scusami! Ho davvero la testa tra le nuvole.»
Lei mi guarda diffidente. «Non so perché mi lascio accompagnare
da te» borbo a mentre si slaccia la cintura di sicurezza.

Il ma ino dopo vado da Arnold e busso alla porta del giardino


d’inverno. Lui prende il caffè del ma ino lì a orno alle dieci, e ogni
tanto mi unisco a lui. Devo essere onesta, il caffè della caffe iera mi
a ira molto, ma c’è dell’altro. Arnold è simpatico. È come il nonno
che non ho mai avuto. Non che non abbia avuto un nonno, ma
insomma, il nonno Wade non si può tanto contare.
Arnold è già lì, con la caffe iera pronta e in a esa. È posata sul
suo ultimo libro, e sussulto quando entro e vedo il grosso anello
marrone sulla copertina. Sposto la caffe iera e giro il romanzo: è
Peter Wimsey e il cadavere sconosciuto di Dorothy L. Sayers, uno dei
libri preferiti della nonna. Arnold sembra avere una passione per i
gialli, ultimamente. Scoprire il suo amore per la le ura è stata una
delle sorprese migliori del mio soggiorno a Hamleigh.
«Come sta tua madre?» chiede Arnold mentre mi verso il caffè.
Gli faccio un cenno con la testa e lui sospira.
«Puoi piantarla di comportarti come se mi avessi insegnato a fare
conversazione? Non ero così terribile prima che arrivassi. So essere
cortese.»
Come preferisce. Arnold insiste che la sua decisione di “darsi una
ripulita” (comprare qualche camicia nuova, andare dal barbiere) e
“uscire di più” (iniziare un corso di pilates, andare al pub ogni
venerdì) è stata sua e solo sua, ma io conosco la verità. Io sono il suo
Ciuchino e lui è il mio Shrek.
«Mamma sta bene, in effe i» dico, passandogli la sua tazza. «O
almeno molto più vicina al bene di quanto non sia stata da un po’.»
Dalla telefonata che ha seguito il nostro litigio, io e mamma ci
siamo viste tre volte: una per il tè, due per pranzo. Sono stati
momenti strani e pieni di incertezze, come se stessimo ricostruendo
p
qualcosa di precario e traballante. A tra i parliamo di Carla,
entrambe timorose di avvicinarci troppo. Mi rende ansiosa al punto
che mi me o a sudare. Sento di essere in pericolo di aprire qualcosa
che ho tanto lo ato per tenere sigillato. Tu avia voglio farlo, per il
bene di mamma. Forse non sapevo bene che cosa significasse
quando ho promesso alla nonna che sarei stata vicina a mia madre,
ma adesso lo capisco. Mamma non ha bisogno di qualcuno che le
faccia le commissioni, ha solo bisogno di affe o.
Una delle cose che mi hanno fa o tanto arrabbiare con lei è stata
la convinzione che lei dovesse occuparsi di me, e non viceversa. Ma
mamma non poteva essere la mia spalla su cui piangere, non quando
lei per prima era annichilita dal dolore. È questo il casino delle
tragedie familiari, credo. La tua rete di sostegno più affidabile cede
di schianto.
Sto spiegando tu o questo a Arnold quando vedo che storce la
bocca.
«Che c’è?» chiedo.
«Oh, niente» dice lui in tono innocente, prendendo un bisco o.
«Andiamo.» Lo guardo in cagnesco.
«Mi sembra solo che aiutare tua mamma ti abbia finalmente
convinta a parlare di Carla. Ed è proprio questo che lei voleva, no?»
«Cosa?» Scoppio a ridere, sorprendendo me per prima. «Oh, cielo.
Pensi che stia parlando tanto di Carla per me? Non si tra a di aiutare
lei?»
«Sono certa che la stai anche aiutando» dice Arnold, con la bocca
piena. «Ma sarebbe sciocco pensare che quella Marian non stia
o enendo quello che vuole.»
Ed eccoci qui: ho fa o di mamma il mio ultimo proge o, e lei ha
fa o esa amente la stessa cosa con me.
«Forse guarirsi a vicenda è il linguaggio d’amore della famiglia
Co on» dice Arnold.
Lo guardo a bocca aperta. Lui mi sorride.
«Ho chiesto in prestito a Kathleen un libro sulle relazioni» dice.
«Arnold! Stai pensando di cercarti una donna?» chiedo,
sporgendomi sul tavolo.
«Forse lo sto già facendo» dice lui, muovendo le sopracciglia. Ma
la cosa esasperante è che niente – prepotenza, lusinghe o
persuasione – riesce a estorcergli altre informazioni, quindi per il
momento mi tocca arrendermi. Prendo l’ultimo bisco o per punirlo
della sua discrezione, e lui mi urla una tale sfilza di vecchi improperi
dello Yorkshire che per poco non mi strozzo dal ridere.
Più tardi mamma mi manda un messaggio per invitarmi a casa
sua il giorno dopo. È la prima volta che mi propone di vedersi da lei,
e vado all’appuntamento tesa come una corda di violino, con le mani
stre e a pugno.
Non appena apre la porta, mi rendo conto che stavolta ha
esagerato.
«No, no, no, no» dice, bloccandomi mentre cerco di ba ere in
ritirata. «Entra, Leena.»
«Non voglio.»
La porta del soggiorno è aperta. La stanza è esa amente com’era
quando Carla è morta: manca solo il le o. C’è persino la poltrona in
cui mi sedevo sempre, per tenerle la mano, e il le o riesco quasi a
vederlo, ne vedo il fantasma, coperte e lenzuola invisibili…
«Sto provando qualcosa di nuovo» dice mia madre. «Ho ascoltato
questo podcast di quella professoressa… dice che guardare le
fotografie è un modo splendido per aiutarti a elaborare i ricordi, e ho
pensato… volevo guardare qualche foto con te. Qui.»
Mi prende la mano e me la stringe. Noto che nell’altra ha una di
quelle vecchie buste in cui me evano le foto sviluppate, e sussulto
quando mi tira verso la soglia.
«Prova solo a entrare, tesoro.»
«Faccio fatica persino a guardare quella foto» dico, indicando
l’immagine sul tavolo del corridoio. «Una serie intera non penso
proprio di farcela.»
«Andremo piano piano» dice mamma. «Un passe ino alla volta.»
Si gira e inclina la testa, fissando la foto di Carla il giorno del
diploma come se la vedesse per la prima volta. «Quella foto» dice.
Si avvicina al tavolo, prende la cornice, poi mi guarda.
«Vuoi che la bu iamo?»
«Che cosa? Ma no!» dico, sbarrando gli occhi e vado verso di lei
per levargliela di mano.
Mamma non molla. «A Carla farebbe schifo. È qui da tanto tempo
che ho smesso di vederla… non sono nemmeno sicura che mi piaccia
tanto. A te piace?»
Esito, poi lascio andare la foto. «Be’, no, direi che la detesto.»
Mamma mi prende a bracce o e mi trascina lungo il corridoio.
Mentre ci avviciniamo alla soglia del soggiorno i miei occhi guizzano
verso lo spazio dov’era il le o, e sento lo stesso vuoto allo stomaco
che si prova quando si sfreccia sopra un ponte in macchina a tu a
velocità.
«Dovrebbe sparire. È una foto orribile. Non è Carla» dice mamma.
La bu a nel cestino nell’angolo del soggiorno.
«Ecco fa o. Ecco fa o. Oh, che sensazione strana» dice,
premendosi una mano allo stomaco. Mi chiedo se le sue emozioni
tendano ad accumularsi lì, come le mie. «È stato orribile da parte
mia?»
«No» dico, guardando il cestino. «La foto era orribile. Sei stata
solo… impulsiva. Andava bene. È stata una mossa alla Marian.»
«Alla Marian?»
«Già. Alla Marian. Come quando un giorno, all’improvviso, ti sei
arrabbiata furiosamente con la carta da parati verde e tornando da
scuola abbiamo scoperto che l’avevi staccata tu a.»
Mamma ride. «Be’. In caso tu non te ne sia accorta… sei in
soggiorno.» Rafforza la presa sul mio braccio. «No, non scappare.
Vieni a sederti sul divano.»
Stare in quella stanza non è terribile come pensavo. Non è che
abbia dimenticato che aspe o aveva questo posto. È inciso nella mia
memoria, fino alla vecchia macchia nell’angolo vicino alla libreria e
alla chiazza più scura nel punto in cui la nonna si era addormentata
e aveva lasciato la candela bruciare sul tavolino.
«Ti piace com’è?» chiedo a mamma quando ci sediamo. «Questa
casa, intendo. Non hai apportato modifiche da quando…»
Mamma si morde il labbro. «Forse dovrei» dice, guardandosi
a orno. «Sarebbe carino darle una… rinfrescata.» Tira fuori le
fotografie. «Ora… guardare le fotografie dovrebbe spostare i ricordi
g g g p
in un compartimento diverso del mio cervello» dice in tono vago. «O
qualcosa del genere.»
Faccio uno sforzo titanico per non alzare gli occhi al cielo. Dio
solo sa in che libro di pseudo-scienza l’avrà le o, ma ho seri dubbi
che ci siano studi clinici a dimostrare l’efficacia di questa tecnica.
Però… mamma pensa che sarà utile. E forse questo è già
abbastanza.
«Parigi» dico, indicando l’immagine in cima. Fa male guardare il
viso sorridente di Carla, ma sto diventando un po’ più brava: se
acce i il dolore, è un pochino più facile, come quando rilassi i
muscoli invece di rabbrividire quando fa freddo. «Ricordi il ragazzo
che Carla aveva convinto a baciarla in cima alla Torre Eiffel?»
«Mi pare di ricordare che non avesse bisogno di essere convinto»
dice mamma.
«E lei non voleva mai amme ere che il suo francese faceva
schifo.»
«L’hai tormentata sulla pronuncia per tu a la se imana» dice
mamma. «L’hai fa a uscire di testa.»
Andiamo avanti, una foto dopo l’altra. Io piango, con tanto di
singhiozzi e moccio che mi cola dal naso, e anche mamma piange
calde lacrime, ma non è quel pianto isterico che ricordo dopo che era
morta Carla, quando avevo dovuto cavarmela da sola. Stavolta è il
genere di lacrime che si possono asciugare. Mi rendo conto che se la
sta cavando a meraviglia. È arrivata fino a questo punto.
Ci fermiamo per il tè, poi finiamo le foto. Non sono sicura che i
ricordi abbiano cambiato compartimento cerebrale, ma quando mi
alzo per accendere la luce mi accorgo di aver a raversato lo spazio
in cui si trovava il le o, come se fosse un tra o qualunque di
moque e.
Sulle prime, mi sento in colpa. Come se non aggirare quel le o
invisibile fosse un tradimento di quanto è successo in questa stanza.
Ma poi penso a Carla in tu e quelle fotografie – sorridente, ciarliera,
con i piercing che rifle ono il flash – e so che mi avrebbe dato
dell’idiota integrale, quindi torno indietro e mi me o proprio in quel
punto, proprio dov’era il suo capezzale.
Resto immobile, e mi concedo di sentire la sua mancanza. La
accolgo.
E non mi spezzo. Fa un male cane, un dolore sordo, lancinante,
eppure sono qui – senza le braccia di Ethan a orno a me, senza
computer davanti – e non sto correndo, non sto lavorando, non sto
gridando. E qualsiasi cosa possa temere… andare in pezzi, perdere il
controllo… non succede. Il dolore della sua mancanza è straziante,
ma ne uscirò viva.
24
Eileen

Ieri Bee mi ha mandato un messaggio per dirmi che ha visto Ethan e


Ceci filarsela alla chetichella per pranzare insieme. Questo pensiero
mi ha tormentato per tu a la ma inata. Provo a distrarmi
guardando gli annunci che Fi ha creato e che a accheremo nel
quartiere di Shoreditch: “Avete più di se ant’anni e volete incontrare
londinesi come voi? Chiamate questo numero per sapere tu o del
Silver Social Club!”. Ma nemmeno questo funziona.
Penso a Carla. Lei farebbe qualcosa, se fosse qui. Non
perme erebbe a Ethan di ingannare Leena. Lei sarebbe audace,
coraggiosa e piena di risorse, e farebbe qualcosa.
Mi costringo ad alzarmi e vado a bussare alla porta della stanza
da le o di Fi . Carla dovrebbe essere qui per sua sorella. È una
tragedia indicibile che non sia così. Però io ci sono. E posso essere
audace, coraggiosa e piena di risorse anch’io.

«Penso sia la cosa più eccitante che abbia mai fa o, signora C» dice
Fi , e prontamente il furgone che ha chiesto in prestito a Sally
dell’interno 6 si spegne. «Oops. Un a imo. Sì, sì, dai che ripartiamo!
Non dica a nessuno quello che è successo quando racconterà la storia
del nostro piantonamento, okay?»
«Non racconterò proprio niente, Fi » dico, nella mia voce più
severa. «Questa è una missione segreta.»
Lui è deliziato. «Segreta! Missione! Oh, mi scusi, non mi sono reso
conto che era ancora in seconda. Oh, santo cielo.»
Abbiamo imboccato la strada principale ed è intasata. Fissiamo il
traffico che si estende davanti a noi mentre le persone a piedi fanno
lo slalom tra le macchine.
«Mi faccia controllare Google Maps» dice Fi , infilando la mano
nella tasca del bomber per prendere il telefono. «Okay. Dice che con
questo traffico ci me eremo quaranta minuti per raggiungere
l’ufficio della Selmount.»
La notizia mi smonta. Procediamo un centimetro alla volta. Il
traffico ha tolto ogni pathos a tu a la faccenda.
Alla fine raggiungiamo la nostra destinazione e Fi parcheggia –
dove è vietato – in modo che possiamo appostarci in un caffè di
fronte all’edificio della Selmount. Grazie a Bee, so che Ethan è in
riunione lì dentro. È una via sorprendentemente bru a, larga e
costeggiata da edifici anonimi, ognuno dei quali ha alcune finestre
sbarrate con le assi, come denti d’oro ossidato. Il lucente vetro grigio
degli uffici della Selmount sembra un po’ fuori luogo in quello
scenario.
Sorseggio il tè ed esamino le ciambelle che Fi ha insistito per
comprare. A quanto pare sono d’obbligo durante un
“appostamento”. Hanno l’aria molto unta: la mia ha già formato un
anello azzurrino sul tovagliolo.
«Eccolo!» dice Fi entusiasta, indicando in direzione dell’edificio.
Ha ragione: ecco Ethan, ventiqua rore in mano, che esce
dall’ufficio scuotendo i capelli scuri. È un bell’uomo, questo devo
riconoscerglielo.
«E adesso, signora C?»
«Adesso ci giochiamo la carta della povera vecchie a» dico.
«Prendi qualche tovagliolo, non voglio sprecare la ciambella. Sono
sicura che la ga a di Letitia se la mangerà. Quella bestiola mangia
tu o.»
Quando riesco a uscire dalla porta Ethan è quasi scomparso dietro
un angolo. Mi me o a camminare in fre a, quasi a correre; Fi
impiega qualche istante a raggiungermi.
«Santo cielo, è veloce per essere una signora anziana!» dice Fi ,
me endosi al passo. «Un a imo, se tagliamo di qui possiamo
interce arlo.»
Seguo Fi in un vicolo, largo appena per contenere due persone.
Puzza di urina e di qualcos’altro che impiego qualche secondo a
riconoscere: dev’essere marijuana.
j
«Eccolo!» strilla Fi , indicando Ethan dall’altra parte della strada.
«Oops, scusi, voce da missione segreta, me l’ero scordato.»
Ma è troppo tardi: Ethan sta guardando nella nostra direzione.
Dovrò sfru are la cosa a mio vantaggio.
«Ethan! Tesoro!» esclamo, facendomi strada in mezzo al flusso di
pedoni per a raversare la strada. Dietro di me Fi tra iene il respiro
e poi chiede scusa a qualcuno in motocicle a che è stato costre o a
scartare bruscamente. «Che fortuna incontrarti qui!»
«Buongiorno, Eileen» dice lui, dandomi un bacio sulla guancia.
«Sta bene?»
«Benissimo, grazie» rispondo. Sono quasi senza fiato; mi guardo
a orno, cercando un posto dove sedermi un a imo, ma ovviamente
non ci sono panchine in vista. «Anche se, a dire la verità, avrei tanto
bisogno di fare un salto in bagno» dico in tono confidenziale. «Non
sono sicura di poterla tra enere fino a casa! Alla mia età, sai, la
vescica non è più quella di una volta. È debole, sai. Molto, molto
debole.»
Ethan ha un’espressione simile a quella di Fi quando qualcuno
viene mutilato in uno di quei thriller di Martha.
«Il mio appartamento è proprio qui» dice Ethan, indicando
l’edificio in fondo alla strada. «Vuole salire da me e… usare i
servizi?»
«Oh, sei proprio un tesoro» dico. «Fammi strada.»
Nell’appartamento di Ethan trovo qua ro indizi.

1) Una ricevuta sul tavolo dell’ingresso per una cena in due, 248
sterline. Ora, so che Londra è costosa – i prezzi delle cose qui
sono criminali – ma sono comunque un sacco di soldi da
spendere per una semplice amica o collega.
2) Due spazzolini nel bagno, entrambi con le setole umide che
suggeriscono un uso recente. Perché mai Ethan dovrebbe usare
due spazzolini?
3) Insieme a un paio di confezioni di creme per capelli di Leena
che riconosco – tu e che prome ono di “eliminare il crespo” –
c’è un flaconcino di siero per la “protezione del colore”. Leena
non si è mai tinta i capelli. Certo, potrebbe essere di Ethan. Va
molto fiero di quei suoi riccioli scuri.
4) Niente cestino nel bagno. Questo di per sé non suggerisce un
adulterio, ma nella vita ho scoperto che quasi mai mi piace una
persona che non abbia il riguardo di me ere un cestino nel
bagno. Si tra a sempre di uomini, e quasi sempre di uomini di
cui non ci si può fidare.

Dopo essere tornati a casa, io e Fi ci confrontiamo. Lui non ha


trovato nessun indizio, e c’è poco da stupirsi. Gli avevo de o che le
vecchie signore sono le detective migliori.
«Non lo dirai a Leena, vero?» gli chiedo, preoccupata. Ho preso la
bru a abitudine di confidarmi con Fi . Lui adesso sa tantissime cose
di Tod, per esempio. Avevo bevuto due bicchieri di vino e lui mi ha
fa o delle domande così schie e che è stato un po’ disarmante. Di
solito non avrei raccontato a nessuno dei de agli così personali,
nemmeno a Betsy. Forse è stare qui a vivere la vita di qualcun altro
che mi ha spinto a farlo. Qualunque sia il motivo, è stato abbastanza
divertente.
«Ho le labbra sigillate, signora C» dice Fi . Assume
un’espressione solenne. «Se sospe a che ci sia del marcio in Ethan, io
sono dell’idea di approfondire. Leena merita il meglio.»
«Sì» dico io.
«E anche lei, signora C.»
Fi spinge verso di me il computer sui cuscini del divano. La vita
nell’appartamento di Leena sembra girare a orno a questo divano.
Mangiamo qui, beviamo il tè; per un po’ è stato l’ufficio di Martha.
«Ci sono nuovi messaggi?» chiede Fi . «Oh, ha ricevuto un
messaggio di Howard, lo capisco dal sorriso. Siete troppo carini!»
«Oh, ma taci» gli dico. «Renditi utile, piu osto: bisogna lavare i
pia i.»
«Bene, bene. La lascio al sexting.»
Non ho idea di cosa significhi, ma sospe o che sia qualcosa di
osceno, quindi per sicurezza gli lancio un’occhiataccia. Fi sorride e
sparisce in cucina, e io mi spaparanzo sul divano e leggo il
messaggio di Howard.
OldCountryBoy dice: Ciao Eileen! Volevo solo dirti che sono pronto a
creare quel sito per il vostro circolo sociale. Mi ci vorrà un giorno al
massimo quando mi darai il via libera. Xxxxx

Avevo dimenticato l’offerta di Howard di farci il sito. Sono


raggiante.

EileenCotton79 dice: Grazie mille, Howard. Che cosa ti serve per partire?
Xx

Mi mordo il labbro pensierosa mentre aspe o la sua risposta.


Avere un sito sarà emozionante, ma non ci aiuterà a trovare membri
per l’inaugurazione. Questo aspe o comincia a preoccuparmi, anche
se Fi ha a accato i manifesti in tu a la zona. Mi chiedo se le
persone che stiamo cercando guardino gli avvisi sui muri. Ce ne
sono così tanti, e in genere riguardano gruppi musicali, a ivismo e
cose del genere. Sui manifestini abbiamo de o che possiamo
garantire il trasporto fino alla sede del circolo – Tod ha offerto il
pulmino della sua compagnia teatrale, che Dio lo benedica –, ma le
persone che vogliamo raggiungere forse non escono abbastanza per
vedere i manifestini, tanto per cominciare.
Mi viene un’idea. Me o da parte la conversazione con Howard, e
clicco su “Trova profilo compatibile”. Compilo il modulo, ma
stavolta modifico un po’ i parametri. Età: 75 e più. Zona: East
London, Londra centro. Maschio o femmina? Seleziono entrambe le
caselle.
È un po’ sfacciato, ma è per una buona causa. Clicco sulla prima
persona che appare nella lista: Nancy Miller, se anto o anni, poi
sull’icona della busta per mandarle un messaggio.

Cara Nancy,
spero non ti dispiaccia se ti mando questo messaggio, ma sto fondando
un circolo per ultrasettantenni a Shoreditch, e mi chiedevo se potessi
essere interessata a partecipare alla nostra inaugurazione questo
weekend…
Passo ore a mandare messaggi. Su questa lista ci sono più di cento
persone. Sono molto felice che Fi mi abbia mostrato come fare
“copia e incolla”, altrimenti ci avrei messo tu a la giornata; in ogni
caso, mi fanno male gli occhi e ho il collo indolenzito dopo tanto
tempo passato al computer.
Comincio già a ricevere risposte. Alcune sono un po’ scortesi –
“Vai da un’altra parte a fare pubblicità! Non è questa la sede!” – e
alcuni uomini sembrano prendere il mio invito come un’opportunità
per cominciare a flirtare, cosa che non posso fare: al momento ho
cose più importanti di cui occuparmi, e comunque nessuno di loro è
all’altezza di Howard o Tod. Ma ci sono già alcune persone che
sembrano interessate al Silver Social Club. “Verrò molto volentieri”
dice Nancy Miller. “Ci saranno dei giochi da tavolo?” chiede
Margaret di Hoxton.
Letitia arriva proprio quando ho esaurito la pazienza per
rispondere ai messaggi. Dice che ha comprato una nuova tisana che
vuole farmi provare. La invito a berla con me – sospe o che fosse
questo il vero scopo della visita – e la aggiorno sul mio nuovo piano
per pubblicizzare il nostro circolo.
«Vorrei essere brava quanto te con quel coso.» Indica il computer.
«Oh, sono certa che potresti imparare!» dico. «Chiedi a Fi , ti
insegnerà lui.»
«È una brava persona, quel Fi » dice Letitia. «Ha trovato
qualcuno che venga a stare nella stanza di Martha? L’ultima volta
che l’ho sentito era un po’ nervoso al riguardo.»
Sorrido. Letitia si piazza nella zona comune almeno una volta al
giorno, a disporre vasi di fiori, a sprimacciare cuscini. Ormai quando
qualcuno passa si ferma sempre a fare due chiacchiere. Lunedì sera
ho visto Aurora e Sally là so o che giocavano a poker con lei.
«Stiamo testando i tavoli!» mi ha de o Aurora. E poi: «Ecco qua!
Full!» ha esclamato Sally, sba endo le carte sul tavolo e facendo
sobbalzare Letitia.
«Non ancora» le dico, prendendo un bisco o. «Penso che dovrà
me ere un annuncio su Internet.»
«Be’, chiunque sia, sarà fortunato a vivere qui.»
«Letitia… Hai mai pensato di trasferirti in un’altra casa?»
p
Lei sembra inorridita. «Ma quale altra casa?»
«Non lontano. Qui. Nella stanza di Martha.»
Mi sembra un’idea eccellente.
«Oh, no» dice Letitia, nascondendosi dietro la tazza da tè. «Non
potrei lasciare il mio appartamento. Con tu e le mie cose deliziose! E
comunque, nessun giovane vorrebbe vivere con una vecchia ciaba a
come me.»
Spingo l’ultimo bisco o verso di lei. «Sciocchezze» le dico.
«Anche se capisco la preoccupazione per le tue cianfrusaglie. Voglio
dire…» mi affre o a correggermi, notando la sua espressione «… i
tuoi meravigliosi pezzi d’epoca.»
«Non potrei mai lasciare l’appartamento» dice Letitia, stavolta con
più convinzione, quindi non insisto. È un peccato, però: un po’ di
compagnia le farebbe bene, e non so come se la caverà quando non
sarò qui a stimolarla, anche se riusciremo a far funzionare
regolarmente il Silver Social Club.
Dopo che Letitia è uscita, stringo la tazza vuota tanto a lungo che
la porcellana diventa fredda. Non riesco a sme ere di pensare allo
scontrino sul tavolo di Ethan, allo spazzolino umido nel suo bagno.
So che tendo a saltare alla conclusione che un uomo sia infedele: è
piu osto ragionevole, date le circostanze, quindi non me lo
rimprovero. Ma ho bisogno di sapere se questo sta appannando il
mio giudizio.
Prendo il telefono e faccio il numero di Betsy.
«Ciao, cara!» dice lei. «Come sta il tuo affascinante a ore?» Il
modo in cui pronuncia la parola “a ore” lo fa sembrare ancora più
esotico.
Sorrido. «È meraviglioso come sempre. Posso chiederti un
consiglio, Betsy?»
«Certo.»
«Il ragazzo di Leena, Ethan. Devi averlo incontrato quando è stato
lì a trovarla.»
«In quelle rare occasioni, sì» risponde Betsy.
«Non è venuto nei fine se imana?»
«Un paio di volte. Penso che Jackson lo abbia spaventato.»
La cosa mi sorprende. «Jackson? Jackson Greenwood?»
p
«Il tuo Ethan non gli è andato particolarmente a genio.»
«Ho sempre saputo che Jackson è bravo a giudicare le persone»
dico, mestamente.
«Ahh, dunque Ethan non è nelle tue grazie?» chiede Betsy.
Le parlo di quello che ho scoperto visitando il suo appartamento.
Betsy risucchia l’aria tra i denti. È lo stesso rumore che fa quando tira
sul prezzo al mercato di Knargill.
«Potrebbe non significare niente» dice lei. «Non tu i gli uomini
sono come Wade.»
«Tanti sì, però.»
«Mmh, be’» dice Betsy.
Sto per chiederle di Cliff, ma lei ha ricominciato a parlare prima
che ne abbia la possibilità. Va sempre a finire così.
«Devo dire» osserva Betsy «che prima di sapere che la tua Leena
aveva un uomo, avrei de o che avesse un debole per Jackson.»
Questo sì che è interessante. «Che cosa te lo faceva pensare?»
«Ha passato metà del tempo a ba ibeccare con lui, l’altra metà a
tormentarsi i capelli quando lui è in circolazione. All’ultima riunione
per il calendimaggio non gli staccava quasi gli occhi di dosso. Oh, a
proposito del calendimaggio: sai che ha trovato uno sponsor?»
È davvero l’unica cosa al mondo che Betsy avrebbe potuto dire
per distrarmi da questa storia di Leena che fa gli occhi dolci a
Jackson. «Uno sponsor per il calendimaggio?»
«Un grosso studio legale. Molto esclusivo. Pagheranno
praticamente tu o, e lei ha ideato tu e queste a ività di raccolta
fondi, bancarelle per vendere torte, cacce al tesoro, lo erie.»
Sorrido. «È davvero intelligente, no?»
«Be’» dice Betsy, «senza dubbio è una che o iene risultati, devo
amme erlo.»
25
Leena

Per la prima volta, quando vado a prendere Nicola e le chiedo dove


andiamo, lei dice: «Perché non andiamo a casa tua?».
Sono incredibilmente lusingata. Nicola è una di quelle persone
che si conquistano a fatica: mi sento l’Ele a.
Quando arriviamo a Clearwater Co age, Arnold sta strappando
le erbacce nel cortile.
«Ti avevo de o che l’avrei fa o io!» lo apostrofo, mentre aiuto
Nicola a scendere dall’auto.
«Be’, non l’hai fa o» osserva lui, agitando un dente di leone verso
di me. «Buongiorno, Nicola, tu o bene?»
Apro la porta e li faccio entrare entrambi. «Volete un tè?»
Solo mentre sto aspe ando che il tè sia pronto mi viene in mente
quanto sia bizzarro non trovare strana questa situazione. Le persone
mi dicono spesso quanto sono “matura” per i miei ventinove anni
(“Dev’essere stato veder morire mia sorella” mi viene sempre voglia
di riba ere.) Ma in realtà non ho mai fa o amicizia con persone
sopra i trenta. E adesso non ba o nemmeno ciglio quando Arnold si
presenta senza annunciarsi – anzi, non vedo l’ora che succeda – e
sono felice che Nicola abbia deciso che le sto abbastanza simpatica
da passare il pomeriggio con me. È fantastico. Mi piace come
ampliano le mie prospe ive, quanto sono diverse le nostre vite. È
una cosa che mi mancherà: loro mi mancheranno.
Qualcuno bussa alla porta. È Betsy.
Ha un’aria un po’ stropicciata. «Ciao, Leena» dice, rigida.
«Betsy! Ciao! Accomodati! Stavamo bevendo un tè» dico. «Ti
prendo una tazza. Vuoi darmi il cappo o?»
Appendo il suo cappo o, con la mente in fibrillazione. Betsy non
è più venuta a trovarmi dopo quel terribile primo tè in cui avevo
p p q p
de o tu e le cose che non avrei dovuto dire. Che cosa l’avrà spinta?
«Non mi fermo» dice Betsy. «Sono qui per la chiave di riserva.
Eileen la tiene da qualche parte.»
«Oh, certo!» dico, guardandomi a orno, come se la chiave potesse
essere ben esposta sul tavolo del soggiorno. «Ti sei chiusa fuori?»
«Sì» dice lei.
Cerco di sostenere il suo sguardo, ma lei lo distoglie. Sta
mentendo, non ci sono dubbi.
Arnold ci guarda per un a imo, poi si alza in piedi. «Nicola, devo
farti vedere l’ortensia nel giardino di Eileen» dice.
«L’ortensia?» dice Nicola. «Io non…»
Ma lui la sta già aiutando ad alzarsi.
«Oh, d’accordo» borbo a lei.
Lo ringrazio silenziosamente e lui mi fa un sorrise o. Una volta
che siamo rimaste sole, mi giro verso Betsy, che sta aprendo e
chiudendo i casse i della credenza.
«Cliff non può farti entrare?» le chiedo con dolcezza.
Betsy non si gira. C’è un lungo silenzio.
«È stato lui a chiudermi fuori.»
Tra engo il respiro. «Be’, non è carino da parte sua» dico io, con il
tono più neutrale che mi riesce. «Vuoi fermarti qui per stano e?»
A quel punto si volta. «Fermarmi qui?»
«Sì. Puoi stare nella stanza della nonna.»
«Oh, io…» Per un a imo sembra smarrita. «Grazie» dice. «Sei
molto gentile. Ma preferirei trovare la chiave.»
«Va bene» dico, mentre Arnold e Nicola tornano dal giardino.
«Ora la cerchiamo, tu i e qua ro.»
Mentre frugo in cerca della chiave trovo di tu o. La mia vecchia
cartella (come ha fa o a finire qui?); una foto di mia madre quando
era incinta di me, bella come una star del cinema; e una rice a per
una torta nella grafia di Carla, che mi fa quasi venire le lacrime agli
occhi. Qui a Hamleigh Carla salta fuori di continuo. Non sarà vissuta
a lungo nel paese, ma fa parte della materia stessa di questo posto.
Forse è per questo che da quando sono qui sono finalmente riuscita a
fare qualche passo avanti; o meglio, a sme erla di fare passi avanti.
Andare avanti è il mio forte; quello di cui proprio non sono capace è
stare ferma.
Piego con cura la rice a e la rime o dov’era. Forse un giorno,
quando troverò tesori come questo, non mi verrà voglia di piangere,
ma di sorridere.
Alla fine, Nicola riesce a trovare la chiave. È etiche ata nella
grafia so ile della nonna – “chiave Betsy” – e infilata in fondo a un
casse o nel tavolo dell’ingresso, insieme a un’intera collezione di
chiavi che da tempo non servono più: l’appartamento di Carla a
Bethnal Green, la nostra vecchia casa a Leeds, e, con mia grande
irritazione, la chiave di un lucche o della bici che pensavo di aver
perso una decina d’anni fa. C’è anche una chiave di scorta della casa
di mia madre, che userò per il resto del mio soggiorno: finora ho
usato quella della nonna, ma sembra sempre incastrarsi nella toppa.
Accompagno Betsy a casa sua. Non le lascio la possibilità di
obie are, ma sono comunque sorpresa che me lo perme a. Cerco di
pensare a che cosa direbbe la nonna, e decido che non direbbe molto:
lascerebbe a Betsy lo spazio per parlare. Così, mentre imbocchiamo
lentamente Middling Lane so o la pioggia, io mi limito a reggere
l’ombrello e ad aspe are che Betsy sia pronta.
«Immagino che pensi di sapere tu o della mia situazione, adesso»
dice alla fine, guardando fisso davanti a sé.
«No, assolutamente no.»
«Bene. Perché è… complicato.»
«Ne sono certa.»
Mi mordicchio l’interno della guancia. La nonna resterebbe in
silenzio. Si fermerebbe lì. Ma…
«Nessuno dovrebbe avere paura in casa sua. E se tu vuoi lasciarlo,
Betsy, tu i qui in paese ti sosterremo. Ogni singolo abitante.»
Raggiungiamo la casa di Betsy. Lei si ferma davanti al cancello. A
questo punto dovrei andarmene, questo è chiaro, ma preferisco
restare finché non mi assicurerò che sia al sicuro all’interno.
«Ormai si sarà calmato» dice Betsy, armeggiando con la chiave.
«Vai, Leena, non puoi startene qui a ciondolare.»
«Ti meriti di meglio. E non sme erò di ripeterlo, puoi cacciarmi
tu e le volte che vuoi o dirmi di andarmene, non importa» aggiungo
p gg g
con un sorriso. «Io sarò sempre qui.»
«Per pochi giorni ancora» osserva Betsy.
«Ah, già.» Per un a imo avevo dimenticato che dovrò partire.
«Be’, a quel punto ti ritroverai la vera Eileen Co on» dico in tono
gioviale, ma nel mio stomaco si agita qualcosa che assomiglia molto
alla tristezza. «Sarà ancora meglio.»
26
Eileen

Bu-bu-bu-bu-bu-bu-bu fa il telefono di Leena sul tavolino.


«Oh, merda, ogni volta che ricevi un messaggio rischio di avere
un a acco di cuore» dice Bee, portandosi le mani al pe o. «È così
rumoroso.»
Vorrei rimproverarla perché dice sempre le parolacce, ma il
nuovo messaggio mi distrae.
«Chi è stavolta?» chiede Bee. «Old Country Boy o il tuo amante
super sexy?»
«È il mio ex vicino» dico, scuotendo la testa. «Ha scoperto il
mondo dei video di ga i e me li manda da se imane.»
«Ah, gli hai fa o vedere quello dove il ga o spinge il bambino
nella piscina?» chiede Bee, illuminandosi. «Io e Jaime l’abbiamo
guardato tipo seicento volte.»
«Vedo che tua figlia ha preso da te l’umorismo nero» dico,
posando il telefono. Arnold può aspe are. Ho bisogno di
spe egolare con Bee. «Allora? Com’è andato il terzo appuntamento
con Mike?»
Bee scuote la testa incredula. «È andato bene, Eileen. Lui è… be’,
come ballerino è una frana, è decisamente più ricco e più realizzato di
me, e non vive nemmeno a Londra, quindi non rispe a nemmeno
uno dei miei criteri…»
«Che cosa ti ha de o quando gli hai parlato di Jaime?»
La sua espressione si addolcisce. Ooh, conosco quell’espressione.
«Ha de o: “Parlami di lei”. Abbiamo parlato di Jaime per tre
quarti d’ora circa. Non ha fa o una piega, non si è annoiato, non ha
cambiato discorso, ha ascoltato e basta.»
Sorrido. «Dunque, “bravo ad ascoltare” forse non era sulla tua
lista, ma sulla mia sì.»
«Ed è stato anche molto d’aiuto per il nostro proge o. Aveva un
sacco di idee, ma non come quegli uomini che devono spiegarti la
vita, hai presente?»
«Non so se ho presente, ma mi fa piacere» le dico. «Hai parlato
con Leena di queste nuove idee?»
Bee fa una smorfia. «Non voglio farle pressione… l’ultima volta
che abbiamo parlato del piano per la B&L ha de o che la sua fiducia
in sé aveva preso un colpo così duro dopo la morte di Clara che non
riusciva a capacitarsene. La capisco. Per me non è un problema
aspe are finché non sarà pronta.»
«Mmh» dico, mentre il cameriere ci porta il caffè.
Bee alza un sopracciglio. «Eh? Che cosa stai cercando di non
dire?»
«Non mi sembri la tipa che è contenta di aspe are.»
Bee mescola la schiuma sopra il caffè. «Lo sarò, se Leena ne ha
bisogno» dice semplicemente.
«È bello da parte tua» osservo. «Ma anche Leena ha bisogno di
una spintarella, ogni tanto. Anzi, ora più che mai. Non l’ho mai
sentita più entusiasta di quando parlava di questi vostri proge i, ed
è stato triste non sentirli tirare fuori per tanto tempo. Forse è proprio
quello che le serve per ripartire.»
«Forse» dice Bee, riprendendo vigore. «Forse la… pungolerò di
nuovo. Non voglio che perdiamo la spinta. A volte in effe i mi
preoccupo che resteremo per sempre le Selmount girls.»
«Non vi chiamate davvero così, vero? Sembrate le ballerine di uno
spe acolo osé.»
«Oh, cielo, vorrei che non l’avessi de o» risponde Bee. «Adesso ci
penserò ogni volta che l’amministratore delegato ci chiama così. Oh,
Signore, hai proprio ragione…»
Quella sera mi siedo vicino a Fi al banco della colazione e
controllo le risposte che ho ricevuto per il Silver Social Club. Finora
cinque persone hanno chiesto un passaggio per venire
all’inaugurazione, e altre se e hanno de o che confermeranno più
avanti, mentre un altro gruppo sembrava interessato. Sto cercando di
non illudermi, ma devo dire che sono abbastanza o imista.
Ogni tanto controllo se Howard è disponibile sulla pagina della
chat. Le sue idee per il sito sembrano o ime: il suo ambizioso
proge o è usarlo per raccogliere fondi. Per il momento la tengo
come sorpresa, ma non vedo l’ora di poterlo mostrare a Fi . L’unico
problema è che Howard dice di aver bisogno di un po’ di soldi per
partire. Dice che probabilmente raddoppierà la somma con la
raccolta fondi nel giro di una se imana, quindi molto presto riavrò
tu o con gli interessi, e senza dubbio vale la pena di impegnarsi un
po’ per il sito. Sto solo aspe ando di sapere quanti soldi gli servono.
Mentre scorro i messaggi, capito per caso sulla conversazione con
Arnold, una serie di video di ga i intervallata da qualche notizia di
poco conto su Hamleigh e il giardino. Mi soffermo sul suo nome, poi
per capriccio clicco sul suo profilo.
Adesso c’è una didascalia, accanto alla foto. “Mi chiamo Arnold
Macintyre, e sto voltando pagina” dice nella descrizione. “Qualcuno
di voi sta facendo lo stesso? Mi piacerebbe cha are con una persona
che la pensa come me…”
Mi gra o il collo. Chissà se qualcuno ha risposto al suo appello.
Possibile che ci sia una signora che la pensa come lui là fuori, e che
ora stia cha ando con lui su questo fa o del voltare pagina? Non ho
mai pensato che, se Arnold conversa con me su questo sito, è
probabile che lo faccia anche con altre.
Resto sospesa sul pulsante dei messaggi. C’è un puntino verde
vicino al nome di Arnold. È buffo pensare a lui su a Hamleigh,
seduto al computer.

EileenCotton79 dice: Ciao, Arnold. Devo chiedertelo. Che cosa intendi


per voltare pagina?
Arnold1234 dice: Be’, in realtà sei stata tu a ispirarmi.
EileenCotton79 dice: Io???
Arnold1234 dice: Hai ripreso in mano la tua vita. Io ho smesso di farlo
tanto tempo fa. Quindi adesso ho ricominciato.

Guardo incredula lo schermo. Arnold comincia a digitare.

Arnold1234 dice: Adesso faccio pilates, sai.


«Ah!»
Fi distoglie lo sguardo dal suo computer e mi guarda, con aria
interrogativa. Io faccio un sorriso imbarazzato.
«Niente di interessante» mi affre o a dire, girando un po’ dalla
mia parte il computer di Leena.

EileenCotton79 dice: E poi??


Arnold1234 dice: Leena mi ha insegnato a cucinare il Pad Thai per il tè.
EileenCotton79 dice: Ma Leena è una cuoca terribile!
Arnold1234 dice: Be’, adesso lo so.

Rido di nuovo.

EileenCotton79 dice: E Betsy mi ha detto che adesso sei anche nel


comitato del calendimaggio…
Arnold1234 dice: Vero. Anche se tua nipote si rifiuta di fare le mele
candite di Eileen Cotton, quindi dubito che sarà un successo.

Sorrido. Ogni anno per il calendimaggio preparo le mele candite


da vendere sulla bancarella davanti al mio cancello. Arnold ne
compra sempre tre, brontola sul prezzo finché, di malavoglia, non gli
concedo uno sconto, poi se ne compiace per tu a la serata. Di solito
con il caramello sui denti.
Le mie dita restano sospese sui tasti.

EileenCotton79 dice: E se ti promettessi di farti un po’ di mele candite


quando torno?

La sua risposta ci me e molto ad arrivare.

Arnold1234 dice: Con lo sconto speciale?

Rido, esasperata.

EileenCotton79 dice: Gratis, perché hai badato a Leena mentre non


c’ero, e come ringraziamento per i video dei gattini. Mi hanno proprio
tenuto di buonumore.
Arnold1234 dice: Be’, allora come posso rifiutare?

Sorrido.

Arnold1234 dice: E che mi dici del Silver Social Club? Come sta
andando?

Dimenticavo di avergliene accennato: è carino da parte sua


ricordarselo.

EileenCotton79 dice: Questo weekend c’è l’inaugurazione!


Arnold 1234 dice: Quanto vorrei esserci.

E poi, mentre sto assorbendo quella frase abbastanza


sorprendente:

Arnold1234 dice: Se fossi invitato, chiaro.


EileenCotton79 dice: Ma certo che saresti invitato, Arnold, non fare il
cretino.
Arnold1234 dice: Non sono mai stato invitato a casa tua, quindi non
volevo dare niente per scontato…

Aggro o la fronte, e contemporaneamente mi abbasso gli occhiali


sul naso.

EileenCotton79 dice: Non intendi dire… proprio mai?


Arnold1234 dice: Mai. Non mi hai mai invitato a casa tua, neanche una
volta.
EileenCotton79 dice: Be’. Penso che ti renderai conto che almeno una
volta ti ho invitato.
Arnold1234 dice: Ah, già, comunque non dopo quel primo giorno.

Mi mordo il labbro, poi, senza pensarci, lo picchie o con le dita


per sistemare il rosse o.
Mi viene in mente, forse con il favore della lontananza… che non
sono stata molto caritatevole nei confronti di Arnold.
Aspe o un istante, non sapendo bene cosa dire. Dopo un a imo,
Arnold mi manda un video di un ga o che cavalca un aspirapolvere.
Mi viene da ridere.

Arnold1234 dice: Ho voluto alleggerire l’atmosfera.


EileenCotton79 dice: Be’, Arnold, mi dispiace. Quando sarò tornata, sarò
felice di invitarti per un tè e una mela candita.
Arnold1234 dice: Verrò volentieri.
Arnold1234 dice: Buona fortuna per l’inaugurazione, Eileen. Siamo tutti
ansiosi di riaverti a Hamleigh.

E con queste parole, il puntino verde scompare.

Questa è la mia ultima no e con Tod. Partirò solo lunedì, ma voglio


dedicare il fine se imana a salutare i miei nuovi amici.
Non mi rende esa amente triste dirgli addio. Sapevamo sin dal
primo giorno che sarebbe finita, e quando. Per questo sono così
sorpresa quando lui si drizza a sedere di fianco a me nel suo
morbido le o bianco e dice: «Eileen, non sono pronto per dirti
addio».
Mi coglie così alla sprovvista che devo aspe are che mi vengano
le parole giuste, e ci me o tanto tempo che la sua espressione si
incupisce.
«Oh, mi dispiace» dico, prendendogli la mano d’impulso. «È solo
che sono sorpresa. Avevamo sempre de o…»
«Lo so.» Lui si porta la mia mano alle labbra. I suoi capelli
argentei, spe inati dopo un pomeriggio a le o, sono gonfi e
aggrovigliati; li liscio all’indietro come piace a lui, alla Donald
Sutherland. «È stato straordinario, davvero. Non ci sono altre parole
per descriverlo. Sei davvero unica, Eileen Co on.»
Sorrido, guardando le lenzuola spiegazzate nel mio grembo.
«Avevamo de o che oggi ci saremmo de i addio.»
«Be’, potremmo farlo anche domani. O il giorno dopo. O fra molto
tempo.» Mi fa un sorriso impertinente, intrecciando le dita alle mie.
p p
«Dài. Dammi la possibilità di conquistarti. Vieni alla festa della
nostra compagnia domani. Faremo un barbecue su un te o a King’s
Cross. O imo cibo, o ime conversazioni, qualche star del teatro…»
«Salta la festa» dico io d’istinto. «Vieni all’inaugurazione del
Silver Social Club.» Gli stampo un bacio sulla guancia. «Sarebbe
bellissimo averti lì.»
Lui esita. «Be’… in effe i potrei.»
Sorrido. Questo proge o è stata la parte più importante del mio
soggiorno a Londra: mi sembrerebbe logico che Tod fosse presente
all’inaugurazione. E forse quello che dice è vero. Forse non deve
essere questa la fine, soltanto perché tornerò nello Yorkshire. In
fondo, sono solo due ore e qualcosa di treno.
Dopo che sono uscita da casa sua mi viene in mente che anche
Howard ha promesso di partecipare all’inaugurazione. Oh, cielo.
Forse è in questi casi che gli incontri online diventano complicati.
27
Leena

«Neanche per sogno» dico, irremovibile.


«Ma Vera ha la cagarella!» strilla Penelope.
Ho tanto da fare che non ho nemmeno il tempo di trovarlo
divertente.
«Penelope, io devo stare là fuori ad assicurarmi che tu o fili liscio!
Senza dubbio in paese ci sarà una ragazza giovane che può essere
costre a o pagata per fare la Regina del calendimaggio.»
«Be’, forse… ci sarebbe Ursula…»
Ursula è la figlia sedicenne dei proprietari del negozio del paese.
Di solito la si vede rannicchiata con un libro nell’angolo vicino alla
fru a. Non l’ho mai vista scambiare una parola con nessuno.
«Perfe o» dico, tornando alle splendide ghirlande con lo stemma
che stiamo appendendo tra i lampioni di Peewit Street. Il ma ino è
gelido; le ghirlande si rifle ono argentee nelle pozzanghere sul
marciapiede, e le bandiere che abbiamo montato sul monumento ai
caduti in fondo alla strada sventolano piacevolmente. «Lascio la
questione nelle tue abili mani, Penelope.»
«Quella ghirlanda è traballante» dice Roland.
Chiudo gli occhi e respiro a fondo. «Grazie, Roland.»
«Di niente» dice lui gioviale, precipitandosi sulla scia di Penelope.
«È vero, sai» arriva la voce di Jackson.
Mi giro. Alla fine sono stata molto delicata con lui quanto al
costume del Re del calendimaggio. Porta dei pantaloni verdi infilati
in alti stivali marroni, e una camicia bianca larga stre a in vita da
una cintura, un po’ come immagino Robin Hood, se fosse un
imponente giocatore di rugby invece di uno sfuggente uomo della
foresta. Porta già al collo la ghirlanda del calendimaggio. È
bellissima: l’ha preparata Kathleen con i fiori selvatici e le foglie che
ha trovato nelle siepi.
Il pezzo forte, però, sono le corna. Grosse e verdi, curve come
quelle di un ariete, alte come le orecchie che ho indossato nella mia
veste di coniglio pasquale.
Ci sono andata piano, sì, ma non avevo intenzione di congedarlo
senza un copricapo ridicolo.
«Ehi» dice, mentre reprimo una risatina. «Io ero serio quando tu
sembravi Roger Rabbit.»
Stringo le labbra e ado o l’espressione più solenne che mi viene.
«Molto regale» osservo. Quando torno alle ghirlande, sento qualcosa
a errarmi a orno al collo. Abbasso gli occhi; la ghirlanda della
Regina del calendimaggio, uguale a quella di Jackson, ma con
qualche fiore rosa intrecciato ai bianchi.
Mi giro di sca o. «Scordatelo» gli dico, cercando di togliermi la
ghirlanda.
La mano di Jackson mi afferra il polso. «Sai che Ursula non lo farà
mai. Andiamo. Un po’ di spirito comunitario…»
«Non posso partecipare alla sfilata, devo organizzare tu o!»
protesto. «Il carro del Re e della Regina del calendimaggio è marcito
al centro… devo trovare un falegname molto dotato o un altro carro,
e poi…»
«Ci penso io» dice Jackson, e sulla guancia gli compare una
fosse a. «Sii la mia regina e ti troverò un modo per viaggiare con
stile, ti va?»
Riduco gli occhi a fessura. «In caso tu non lo capisca, questo è il
mio sguardo diffidente.»
«In realtà, ormai ho una certa dimestichezza con quella faccia»
dice Jackson. Ha la mano ancora sul mio polso; chissà se può sentire
il mio ba ito. «Ci penso io» ripete, e quando mi lascia andare il
braccio sento ancora il ricordo delle sue dita sulla pelle, calde come il
sole.
Ho bisogno che Ethan venga qui. È passato troppo tempo. Sto
diventando sciocca e mi faccio distrarre da questa stupida… questa
cosa, non so cosa, questa co arella per Jackson. Ultimamente mi sono
sorpresa a pensare a lui quando non avrei dovuto, a ripercorrere le
p p q p
nostre conversazioni mentre preparavo la cena, a immaginare i suoi
pensieri. A ricordare le lentiggini so o i suoi limpidi occhi azzurri e
la sensazione del suo corpo premuto contro il mio quando sono
finita contro lo specchio del soggiorno.
Controllo il telefono – sto aspe ando che Ethan mi mandi un
messaggio per farmi sapere quando arriverà – ma come al solito non
c’è campo. Con un grugnito, torno alle ghirlande, e ripasso nel
cervello la lista di cose ancora da sbrigare: controllare che siano
arrivati i bagni chimici, gestire l’allagamento nel campo che al
momento dovrebbe essere destinato al parcheggio, chiamare il tizio
della consegna ghiaccio, controllare con Betsy a che punto siamo con
i chioschi…
Penelope torna. «Ursula ha de o che preferirebbe farsi beccare gli
occhi da uno di quei falchi piu osto che essere la regina del
calendimaggio» annuncia.
«Santo cielo, che… macabro» dico. Mi sa che quella ragazza non
l’ho capita. «Va bene, mi farò venire in mente qualcun altro dopo che
avrò pensato ai chioschi, al ghiaccio e ai gabine i.»
«Respira, tesoro» dice Penelope, posandomi una mano sulla
spalla. «Hai già fa o tanto! Sono certa che a Betsy non dispiacerà se
ti prendi una piccola pausa.»
«Penelope» dico, accarezzandole la mano, «a essere sincera non
mi divertivo tanto da… dio, non saprei, da secoli. Per favore non
chiedermi di prendermi una pausa.»
Lei mi guarda con quei suoi occhi da gufo. «Certo che sei
stravagante, cara» dice.
Le sorrido e controllo di nuovo il telefono: tre barre miracolose di
segnale, ma ancora nessun messaggio da Ethan. Scaccio quel
pensiero e telefono a Betsy con il tasto di chiamata rapida (non sto
scherzando: il cellulare della nonna prevede davvero questa
funzione).
«Scusa se non ho risposto l’ultima volta che hai chiamato!» dico,
indirizzando a sinistra gli uomini che montano le ghirlande (Rob e
Terr? Mi pare che si chiamino così. O sono quelli a cui ho ordinato di
bloccare il traffico verso Lower Lane?).
«Leena. I chioschi del cibo non stanno arrivando.»
«Cosa? Perché no?»
«Non lo so!» Betsy sembra sull’orlo delle lacrime.
«Non preoccuparti, ci penso io.» Chiudo la chiamata e recupero il
numero di uno degli espositori. Ogni chiosco è gestito da una
persona diversa, in genere della zona; il numero del tizio dei toast al
formaggio è il primo che trovo.
«Mi dispiace» dice. «Firs Blandon ci ha offerto il doppio.»
«Firs Blandon?» È il paese di cui il Comitato di vigilanza sta
sempre a sparlare. «Per cosa?»
«Credo che festeggino anche loro il calendimaggio. Hanno messo
un cartello vicino al vostro sulla strada, mandando le persone nella
loro direzione. Devo dire che il cartello è più grosso del vostro»
aggiunge il tizio dei toast, utilmente.
«Non lo faccia» dico. «Sono già partita per Firs Blandon» sto
correndo verso Agatha «e vi riporterò tu i a Hamleigh-in-Harksdale
come da accordi, ma scoppierà un casino e posso garantirvi che
sarebbe molto più gradevole se tornaste da soli a adempiere ai vostri
obblighi contra uali.»
C’è una pausa imbarazzata. «Io non ho firmato niente» osserva il
tizio dei toast.
Merda, merda, merda. Ha ragione. Ci siamo limitati a conta are i
chioschi che vengono ogni anno e a chiedere loro di rispe are il tema
medievale e tu i hanno de o: “Ma certo, ci saremo!”. Forse una
volta esisteva un contra o, la prima volta che è stato organizzato il
calendimaggio, ma dio solo sa dove sia finito.
«Abbiamo comunque dei diri i legali» dico impassibile, anche se
non so proprio se sia vero.
«Be’, ecco… spiacente, Leena. Non è che girino molti soldi nel
se ore dei toast e… mi spiace.» Ria acca.
Apro la macchina. Penelope appare alle mie spalle, gli occhi
sbarrati per l’apprensione.
«Non ci sono i chioschi!» esclama, afferrandomi un braccio.
«È una catastrofe!» strilla Basil, avvicinandosi a passo molto lento
ma determinato. «Malede a Firs Blandon! Avrei dovuto capire che
stavano tramando qualcosa!»
«Tu o bene, Leena?» chiede Arnold dal marciapiede opposto,
dove sta controllando le lampadine nelle lanterne appese.
«Salite, tu i» dico, indicando l’auto.
Lancio le chiavi a Penelope, che le afferra al volo, poi sembra
molto sorpresa che i suoi riflessi siano stati all’altezza.
«Guida tu» le dico.
«Oh, ma cosa direbbe il do or Piotr?» chiede Basil. «Ha de o che
Penelope non dovrebbe…»
A Penelope brillano gli occhi. «Al diavolo il do or Piotr» dice,
aprendo la portiera. «Questo sì che è emozionante.»

Non direi che mi sento proprio sicura vedendo Penelope al volante.


Ma almeno stiamo andando avanti.
«Quel semaforo era rosso» dice Arnold con calma, mentre lo
superiamo senza ba er ciglio.
«Stava per diventare verde» dice Penelope, il piede
sull’acceleratore.
Io, nel fra empo, sono incollata al telefono.
«Chi è responsabile a Firs Blandon?» chiedo. «C’è un sindaco o
qualcosa?»
«Cosa? No» dice Arnold. «Al massimo ci sarà il dire ore del
consiglio parrocchiale.»
«Probabile» dice Penelope con malizia, «ma è difficile che sia lui il
responsabile di qualcosa.»
Alzo gli occhi dal telefono. «In che senso?»
«Eileen è la presidente del Comitato di vigilanza» dice Penelope,
prendendo una svolta brusca a novanta all’ora. «Ma tu i sappiamo
che è Betsy a comandare, no?»
«Ehi, ehi, c’è il limite dei cinquanta!»
«Be’, io non l’ho visto» dice Penelope.
Abbasso il finestrino mentre entriamo a Firs Blandon. Ci sono
delle ghirlande! Lanterne! Bru i bastardi!
«Mi scusi» dico a un uomo che sta appendendo le ghirlande. «Chi
è il responsabile, qui?»
«Mi porti dal suo capo!» latra Basil dal sedile di dietro, e gli
scappa da ridere.
pp
«Responsabile?»
«Già.»
«Be’, il dire ore del consiglio parrocchiale è…»
Lo interrompo. «Parlo del vero responsabile. Tipo quello che
prende in mano la situazione quando qualcuno parcheggia un po’
troppo vicino all’incrocio o il pub aumenta il prezzo del fish and
chips.»
«Ah, vuoi dire Derek» dice l’uomo. «È laggiù, sta disponendo i
chioschi.»
«Grazie» dico, poi lancio un urle o quando Penelope preme
sull’acceleratore.
«Non mi sono mai fidata degli uomini di nome Derek» dice
Penelope un po’ misteriosamente, mentre avvistiamo la strada
principale di Firs Blandon, che adesso è piena dei nostri chioschi.
«Voi parcheggiate» dico, aprendo già la portiera. «Io vado.»
Non è difficile individuare Derek. È un uomo sulla se antina, che
indossa un cappello rigido di un giallo sgargiante del tu o inutile e
brandisce un megafono.
«Un po’ più a destra! Un po’ più a sinistra! No, a sinistra! A
sinistra!» urla nel megafono.
«Derek?» dico io in tono gioviale.
«Sì?» Lui non mi guarda nemmeno.
«Sono Leena Co on» dico, piazzandomi di fronte a lui con la
mano tesa. «Sono qui in rappresentanza di Hamleigh-in-Harksdale.»
Questo a ira la sua a enzione. «Non ci avete messo molto» dice, e
la sua espressione ha qualcosa di beffardo che mi fa davvero ribollire
il sangue.
«Ho un’o ima autista» dico. «Facciamo due chiacchiere?»
«Al momento sono piu osto impegnato» dice Derek. «Ho una
festa del calendimaggio da organizzare, e tu o quanto. Sono certo
che capirai.»
«Ma certo» dico, con un sorriso. «Volevo solo augurarle buona
fortuna.»
Lui sba e gli occhi. «Grazie, tesoro» dice, sempre più beffardo.
«Ma la fortuna non ci serve. Oggi qui sarà servito il cibo migliore
dello Yorkshire.»
«Oh, non volevo dire per oggi» dico, «ma con le licenze edilizie.»
Questo lo gela. «In che senso?»
«Firs Blandon ha piani davvero ambiziosi! Quel centro
comunitario ai margini del paese, sa, quello nel campo visivo di
diverse case su Peewit Street a Hamleigh? Potrebbe essere una
meravigliosa aggiunta al vostro centro abitato, oppure, naturalmente
– a seconda dei punti di vista –, potrebbe essere un pugno
nell’occhio con un impa o visivo nocivo sul cara eristico paesaggio
dello Yorkshire.»
Adesso ho tu a la sua a enzione.
«Ehi, Penelope, Basil, Arnold!» dico, facendo loro cenno di
avvicinarsi. «Venite, vi presento Derek. Lo vedremo molto più
spesso, adesso che tu i ci interesseremo molto più da vicino alla
domanda di costruzione che è stata presentata da Firs Blandon.» Gli
rivolgo un sorriso radioso. «Basil, Penelope e Arnold hanno tu i
delle opinioni molto forti sulle questioni locali. Non è vero?»
«Puoi dirlo forte» esclama Basil, gonfiando il pe o.
«Io sono sempre stato molto coinvolto nelle questioni del paese»
dice Arnold.
«Io dico solo una cosa» aggiunge Penelope, gli occhi fissi su
Derek, «nel nome Derek c’è qualcosa. Non ho mai incontrato un
Derek che mi stesse simpatico. Mai.»
Con un sorriso raggiante, prendo il megafono dalla mano ormai
inerte di Derek.
«Levate le tende, tu i quanti!» strillo nel megafono. «Si torna a
Hamleigh-in-Harksdale.»
I chioschi tornano a Hamleigh con la coda fra le ruote. Penelope
guida nel tragi o di ritorno con l’abbandono disinvolto di un
diciasse enne, e in qualche modo riesce a riportarci al paese in
contemporanea con i chioschi, anche se passa da Knargill per
prendere Nicola. Quando arriviamo al cartello del calendimaggio di
Firs Blandon, Penelope sbanda di lato: io urlo, tenendomi alla
maniglia della portiera mentre lei colpisce il segnale di lato e lo fa
ribaltare nel fosso.
«Oops!» dice Penelope.
«Tira giù anche quello!» esclama un’entusiasta Nicola, indicando
il cartello dello spaccio di una fa oria più avanti.
Mentre ci avviciniamo a Hamleigh, calcolo che ho appena il
tempo di controllare che i bagni chimici siano arrivati prima che si
presenti l’azienda di drenaggio per occuparsi dell’allagamento. Ma
quando accostiamo ai margini del campo destinato ai chioschi, una
piccola folla radunata a orno all’ingresso ci blocca la visuale. Io e
Penelope ci guardiamo preoccupate; lei parcheggia e scendiamo.
Faccio per aiutare Nicola ma Basil è già lì a offrirle il braccio con
inconfondibile cavalleria medievale. Arnold dà una pacca al cofano
di Agatha mentre scende: si è affezionato molto alla macchina da
quando l’ha liberata dalla siepe della nonna.
«Che succede qui?» chiede Arnold, indicando la folla.
«Non ne ho idea.» Controllo il telefono mentre andiamo in quella
direzione. Un messaggio di Bee mi fa balzare il cuore in pe o:

Leena, FACCIAMOLO. La B&L Consulting. Ne ho parlato con tua nonna e


sono ELETTRIZZATA. Se hai bisogno di altro tempo sai che non c’è
problema, ma ti dico solo: non aspettiamo troppo. Se tu non hai la
tranquillità mentale, alla manovalanza penserò io. Ma non perdiamo di
vista il nostro sogno, amica mia! Saremo il capo di noi stesse! xx

E uno di Ethan che sgonfia tu o.

Mi dispiace, angelo mio… qui è un delirio. Devo passare ancora qualche


ora alla scrivania. Non c’è una possibilità che sia tu a venire? Xx

Deglutisco e digito una risposta mentre ci inoltriamo nella radura.

Ethan, sai che non posso lasciare Hamleigh oggi, è il calendimaggio.


Spero che tu riesca a concludere. Vuoi che proviamo almeno a sentirci al
telefono? x

«Ethan non viene?» sussurra Arnold.


Lo guardo sorpresa.
«Al poker saresti una frana» spiega.
p p g
Infilo il telefono nella tasca della felpa. «Non è colpa sua. Il lavoro,
sai com’è.»
Arnold mi lancia una lunga occhiata penetrante. «Leena» dice.
«So che è stato buono con te quando avevi bisogno di lui. Ma non
puoi stare con qualcuno per gratitudine. Non è così che funziona.»
«Ma io non sto con Ethan per gratitudine!» esclamo.
«E va bene.» Arnold mi dà una strizzatina alla spalla. «Penso solo
che meriti un uomo che ti tra a bene, tu o qui.»
«Mi piacevi di più quando facevi l’eremita» rispondo,
guardandolo in cagnesco.
Sorride, poi il sorriso svanisce. Abbiamo sentito tu i e due la
stessa cosa.
«Non ti perme ere, cazzo!»
È Cliff. Mi faccio largo tra la folla, inoltrandomi nel campo, dove
Betsy e Cliff si fronteggiano come due cowboy pronti a sparare.
Anzi, Betsy ha già sfoderato la pistola… solo che non è una pistola,
ma un telecomando.
«Sono stufa, mi senti? Sono stufa!» Porta entrambe le mani al
telecomando come se stesse per spezzarlo in due, e Cliff ruggisce di
rabbia.
Cliff ha lo stesso identico aspe o che mi sarei immaginata. Volto
paonazzo, tarchiato, con calze e calzoncini sportivi e una felpa
sudicia tirata sul pancione da birra: un contrasto perfe o con la
minuta, linda Betsy con il foulard al collo e la giacchina rosa. Solo
che, dei due, penso che in questo momento Betsy sembri
decisamente la più dura.
«Cliff Harris» dice, con voce tranquilla e mortale. «Io. Merito. Di.
Meglio.»
E, con quella che posso solo concludere sia la forza sovrumana di
una donna che ha mangiato palate di merda per un sacco di tempo,
spezza il telecomando in due.
A quel punto Cliff si slancia verso di lei, ma io e Arnold lo
ba iamo sul tempo e lo prendiamo per le braccia prima che possa
raggiungere Betsy.
«Ti voglio fuori da quella casa entro la fine della se imana, mi
senti?» urla lei.
Cliff vomita oscenità, minacce tremende, tanto violente da
togliermi il fiato. Arnold lo tiene indietro, e fa segno a Basil di
andare ad aiutarlo.
«Ci pensiamo noi» mi dice Arnold. Io gli faccio un cenno con il
capo. Di me c’è bisogno altrove.
Betsy mi si accascia tra le braccia non appena la raggiungo.
«Vieni» le dico, portandola via. Lancio un’occhiata alla folla
all’ingresso del campo e i passanti si sparpagliano imbarazzati,
lasciandoci passare. «Sei stata fantastica» dico a Betsy.
Lei cerca di girarsi. «Oh, io… io…»
Le afferro un braccio. «Ora dobbiamo solo trovarti un posto dove
stare. Okay?» Mi mordo l’interno della guancia. Clearwater Co age
è troppo vicino. Ha bisogno di stare lontana per una se imana,
finché non saremo riusciti a mandare via Cliff.
Penelope e Nicola stanno aspe ando vicino alla macchina.
Sbarrano gli occhi quando io e Betsy arriviamo barcollando,
abbracciate. Aiuto Betsy ad accomodarsi sul sedile passeggero, e
quando ho finito di me erle la cintura mi è venuta un’idea.
«Nicola» mormoro, una volta chiusa la portiera. «Betsy ha dato al
marito una se imana per trovare un altro posto in cui stare.»
L’espressione di Nicola si addolcisce. Guarda Betsy, muta sul
sedile davanti. Ha ancora i due pezzi del telecomando in mano: li
stringe forte.
«Ah, sì, eh?»
«Pensi che…»
«Può stare da me per tu o il tempo che le serve» dice Nicola.
«Sei sicura? So che è chiedere tanto.»
«Se una donna ha bisogno di un posto dove stare, e io ho un le o
da offrire, mi sembra che non ci sia niente di cui discutere.»
Nicola sta già aprendo la sua portiera. Io faccio per aiutarla, in
automatico.
«Andiamo a casa mia, cara» dice a Betsy una volta che si è seduta.
«Me o su il bollitore, ci prendiamo una bella tazza di tè, e poi
preparerò una torta.»
Mi devo impegnare al massimo per non piangere quando prendo
le chiavi da una preoccupatissima Penelope e mi siedo al posto del
p p p p
conducente. Queste persone… Hanno un tale orgoglio, una tale
generosità. Quando sono arrivata qui, ho pensato che le loro vite
fossero meschine e stupide, ma mi sbagliavo. Sono tra le persone più
magnifiche che conosco.
28
Eileen

Lo spazio comune è un vortice di a ività. Fi si abbassa fulmineo


per evitare Martha che lancia ad Aurora una pila di tovagliolini.
Rupert afferra il bordo della tovaglia che Letitia sta stendendo
appena in tempo per lisciarla. Yaz firma con una mano la consegna
delle ve ovaglie, con Vanessa stre a nell’altro braccio. È la prima
volta che Yaz e Martha si fanno vedere, dopo qualche se imana di
intimità familiare, e devo dire che sono partite in quarta. D’altra
parte, non mi sarei aspe ata niente di meno.
Avevamo sperato di offrire ai membri del circolo un pasto caldo,
ma è diventato così complicato ormai con la storia delle allergie e
tu o il resto che per il momento ci limiteremo a un buffet. Per
fortuna ho controllato l’ordine al supermercato prima che Fi
concludesse l’ordine online, perché quasi tu o quello che aveva
scelto avrebbe costituito una sfida per la dentatura delle persone
anziane. Ora ci sono quantità molto minori di carotine e patatine, e
grandi vassoi di salsiccia in pasta sfoglia e quadratini di quiche.
Tiro fuori il telefono. Tod dovrebbe arrivare da un momento
all’altro con il pulmino per andare a prendere gli invitati; dovrebbe
chiamarmi quando sarà qui davanti. E Howard ha de o che sarebbe
stato qui per l’inizio, quindi non deve essere lontano. Mi tocco
nervosamente i capelli: Martha me li ha raccolti con le forcine, e
l’acconciatura sembra molto elegante, ma ho paura che sia un po’
esagerata.
Ho due messaggi. Il primo è di Bee:

Sono incastrata con un cliente e dovrò perdermi l’inaugurazione. Mi


dispiace TANTISSIMO. Sono desolata.
Puoi passare a salutarmi prima di partire domattina, se puoi?
Sarò alla Selmount, e non ho riunioni. È sulla tua strada, se vai a King’s
Cross!

Digito la risposta.

Ciao, Bee. Non preoccuparti. Che ne dici di domani alle 9? Magari se hai
tempo ci prendiamo l’ultimo caffè con muffin. Se non puoi, non è un
problema, naturalmente. Con affetto, Eileen xx

La sua risposta è quasi immediata.

Perfetto. Scusa di nuovo Eileen xxx

L’altro messaggio è di Howard.

OldCountryBoy dice: Sono contento che 300 sterline ti vadano bene per
iniziare. Ti prometto che nel giro di una settimana ne avremo il doppio
in donazioni! xxx
EileenCotton79 dice: Ti darò l’assegno quando ci incontriamo. Spero di
vedere presto il nostro sito :)

Compaiono i puntini che significano che sta scrivendo.

OldCountryBoy dice: Mi dispiace tanto, Eileen, ma non penso di farcela a


venire all’inaugurazione. Ho un sacco di lavoro da fare per il sito! Non
potresti farmi un bonifico online?

Che delusione. Avevo pensato… avevo davvero… Be’. Non


importa. Questo evento non ruota a orno a Howard, e se non viene
non sarà la fine del mondo.

EileenCotton79 dice: Purtroppo non gestisco ancora queste cose dal


computer. Ma posso spedirti l’assegno. Basta che mi mandi l’indirizzo.
Con affetto, Eileen xx

«Eileen?» dice una voce familiare.


Alzo gli occhi e vedo Tod… il meraviglioso, affascinante Tod.
Riprendo coraggio. Immagino sia per questo motivo che conviene
avere più uomini intorno.
«Sei qui!» Mi alzo sulle punte dei piedi per dargli un bacio sulla
guancia.
È davvero magnifico con la sua camicia senza crava a e i
pantaloni chino. Si guarda intorno e sembra piu osto stupito
dall’a ività frenetica.
«Sei stata tu a fare tu o questo?» chiede.
«Sì! Be’, noi tu i, a dire il vero» dico, raggiante.
«Oh, buongiorno, ma questo è Tod?» dice Fi , spuntando accanto
a noi. Tende la mano. «Piacere di conoscerla. Sono fermamente
intenzionato a essere come lei da grande.»
«Un a ore?» chiede Tod.
«Un amante esperto anche dopo i se anta» lo corregge Fi . «Ah,
no, quello non è un vaso, è per i bastoni da passeggio.»
L’ultima frase era rivolta a Letitia. Guardo Tod con aria di scuse,
ma lui sembra molto divertito, grazie al cielo.
«Scusami per il caos» dico, nel momento stesso in cui Tod
esclama: «Ho una bru a notizia».
«Quale bru a notizia?»
«Il pulmino. Purtroppo serve alla compagnia.»
Mi porto una mano al pe o. «Cosa? Non l’hai portato? Non
abbiamo nessun mezzo di trasporto?»
Tod sembra preoccupato. «Oh, cielo, era così importante?»
«Ma certo che era importante! Abbiamo promesso di andare a
prendere la gente!» Gesticolo con il telefono.
«Non potremmo prenotare dei taxi?» chiede lui, mortificato.
«Finora le adorabili persone di questo condominio hanno
finanziato il circolo di tasca loro» sbo o. «Non possono sborsare
soldi anche per i taxi.»
«Oh, giusto.» Per un a imo penso che Tod potrebbe offrirsi di
pagare, ma non lo fa, e questo mi spinge a rivolgergli uno sguardo
ancora più severo.
«Scusami» dico, gelida. «Meglio che vada a risolvere il problema.»
Uomini. Ti deludono sempre, no?
p
So che Sally non va pazza per l’idea del Silver Social Club, e
scomme o che ha intenzione di passare il pomeriggio chiusa nel suo
appartamento. Ma non abbiamo nessun altro a cui chiederlo. Aspe o
fuori dalla sua porta, nervosa. Sembra me erci un’infinità a venire
ad aprire, e non ho idea di cosa potremmo fare se fosse uscita.
Alla fine apre i tre lucche i della porta, mi guarda e torna dentro.
«Ehi» dico, stupita.
Lei riapre, stavolta con in mano le chiavi dell’auto. «Qual è
l’emergenza, stavolta?» chiede, chiudendosi la porta alle spalle.
Brontola e sospira per tu o il tragi o fuori dall’edificio, ma non
sono convinta. Secondo me a Sally piace fare la salvatrice.
Una volta che lei e Fi sono partiti, muniti della lista con nomi e
indirizzi, mi me o a sistemare i domino e i mazzi di carte sui tavoli,
guardando nervosamente la porta. Mi tocco i capelli così spesso che
rischio di rovinare la mia stupenda acconciatura. Non riesco a
sme ere di agitarmi.
Nel momento preciso in cui non mi rimane più niente da fare, il
mio telefono vibra con un nuovo messaggio. È di Arnold.

Cara Eileen,
penso ti interessi sapere che oggi Betsy ha dato il benservito a Cliff.
Leena le ha trovato un posto sicuro in cui stare per un po’, da Nicola di
Knargill, e abbiamo fatto un discorsetto pacato a Cliff, il quale ha
promesso di andare a vivere con suo fratello a Sheffield entro il
prossimo fine settimana, in modo che Betsy possa finalmente avere la
casa tutta per sé.
Scusa se interrompo la tua inaugurazione. So che è un giorno
importante. Ma ho pensato che ti avrebbe fatto piacere saperlo.
Arnold.

Stringo il telefono al pe o. Il mio primo istinto è chiamare Betsy,


ma poi ricordo come mi sono sentita subito dopo che Wade se n’era
andato, l’umiliazione, la vergogna. Non avevo voglia di parlare con
nessuno, almeno all’inizio.
Perciò le mando un messaggio.
Ti penso.

E poi, d’impulso:

Sei un’amica coraggiosa e fantastica. Con tanto affetto, Eileen xxx

Riapro il messaggio di Arnold, ma non so bene cosa rispondere. È


stato molto premuroso da parte sua mandarmi la notizia di Betsy. In
qualche strano modo, Arnold è stato una consolazione in queste
ultime se imane, con i suoi stupidi video di ga ini e le sue notizie
da Hamleigh.
«Eileen?» chiama Fi . «Sono arrivati!»
Mi volto verso la porta. Ha ragione: stanno entrando gli invitati,
alcuni con il deambulatore, altri con passo arzillo, ma tu i incuriositi
dalla nuova area comune. A raverso i loro occhi la vedo come se
fosse la prima volta: le pareti verde salvia, lo splendido parquet, e
sono gonfia d’orgoglio.
«Benvenuti!» dico, spalancando le braccia. «Accomodatevi,
prego!»

Quando ho conosciuto Letitia mi ero chiesta quante altre persone


affascinanti fossero rinchiuse in minuscoli appartamenti di Londra,
senza mai scambiare parola con nessuno.
E adesso eccomi qui, con una stanza piena di persone come lei,
tu e così diverse, così meravigliosamente interessanti. C’è Nancy,
che suonava il flauto nell’Orchestra sinfonica di Londra. C’è Clive,
che ha passato la vita a guidare camion di no e, e adesso riesce a
dormire solo se c’è luce. C’è Ivy, che ba e tu i a Scarabeo e mangia
gli involtini di salsiccia in due bocconi, poi amme e imbarazzata
che, tecnicamente parlando, è un genio e forse non dovrebbe avere il
permesso di partecipare ai giochi da tavolo.
Rupert fa una piccola lezione di pi ura di mezz’ora: ha avuto la
lungimiranza di stendere una tela cerata, cosa molto saggia, perché il
colore sembra finire più sul pavimento che sulle tele. Poi c’è il cibo, e
adesso la musica… un’idea di Fi . Ivy e Nancy si alzano addiri ura
per ballare. È fantastico. Vorrei che non finisse mai.
p
«Che cosa stupenda hai fa o qui, Eileen» dice Martha,
baciandomi sulla guancia.
Mi prendo una pausa sul divano, guardando Nancy e Ivy che
provano un lento foxtrot, schivando i tavoli di ramino. Tod si siede
di fianco a me. Sono sorpresa di vederlo: ha passato buona parte del
pomeriggio nell’appartamento di Leena, al telefono. «Mi sa che non è
il suo ambiente» ha de o Martha in tono diplomatico quando mi
sono lamentata del fa o che se ne stava in disparte.
È vero che sembra un pesce fuor d’acqua. Nancy, Ivy, Clive sono
persone normali, come me. Mi rendo conto che tu o il tempo che ho
passato con Tod è stato nel suo mondo: la sua villa enorme, le sue
caffe erie preferite. Questa è la prima volta che visita il mio mondo,
e di colpo è molto evidente che non è un posto in cui ha voglia di
stare.
Poi, però, Tod mi prende la mano e mi passa il pollice sul polso,
come aveva fa o al nostro primo appuntamento, facendomi
accelerare i ba iti.
«Oggi è il giorno dell’addio, vero?» dice. La sua voce è profonda e
limpida; una voce che mi ha fa o correre brividi lungo la schiena più
volte di quante ne possa contare, negli ultimi due mesi.
«Già» dico. «È il giorno dell’addio.» Se prima non lo sapevo,
adesso lo so.
Non voglio passare il resto della mia vita con un uomo come Tod.
Voglio passarlo con qualcuno che comprenda le cose che per me
sono importanti, che abbia avuto una vita con qualche lato oscuro,
come la mia. Non riesco a immaginare Tod che fa giardinaggio con
me o legge vicino alla mia vecchia stufa a Clearwater Co age o mi
aiuta con il Comitato di vigilanza. Lui fa parte della mia avventura
londinese, ed è a Londra che appartiene.
«Devo tornare in teatro» mi dice, a voce così bassa che distinguo
appena le parole. «Ma potrei tornare stasera. Un’ultima no e. In
nome dei vecchi tempi.»
La sensazione di calore aumenta, e il suo pollice che mi accarezza
il polso mi fa girare la testa.
Be’. Puoi considerarla un’avventura se non prendi almeno un’altra
decisione avventata?
29
Leena

Non mi dispiace affa o gestire le crisi, ma mentre torno dalla casa di


Nicola sono un po’ in ansia per le cose di cui nessuno si sarà
occupato in mia assenza. La festa è già ufficialmente iniziata, e non
sono certa che qualcuno abbia controllato se i bagni sono arrivati.
Quando accosto in Peewit Street, però, sento che l’asta di
beneficenza si sta svolgendo, fiuto l’odore del maiale arrosto e vedo
il falconiere che prepara i suoi uccelli. È uno spe acolo incredibile.
Mentre ero via qualcuno ha alzato l’albero della cuccagna: è quasi
dri o! Siamo anche fortunati con il tempo: c’è quel sole pallido color
limone di inizio primavera, e un venticello trasporta il
chiacchiericcio e le risate dei bambini.
Mi dirigo verso la zona dei bagni chimici e con mia grande gioia
scopro che è tu o in ordine. Altrimenti avrei dovuto dire ai residenti
di lasciare aperta la porta di casa e perme ere ai visitatori l’ingresso
se avessero avuto un bisogno urgente, e avevo l’impressione che
convincerli non sarebbe stato facile.
«Oh, bene, i bagni ci sono» dice mamma alle mie spalle.
Mi giro, sorpresa. Ha un bell’aspe o: porta una lunga gonna
flu uante e una camicia con le maniche a sbuffo, e quando mi bacia
sulle guance avverto qualcosa di strano. Mi ci vuole qualche secondo
per me ere a fuoco: non c’è nessuna ondata emotiva, nessun panico,
nessuna reazione di a acco o fuga. Sono contenta di vederla. Tu o
qui.
Tira fuori una lista dalla tasca della gonna… la mia lista. Mi ba o
sulle tasche, come se potessi trovarla lì anche se vedo benissimo che
ce l’ha lei.
«L’ha raccolta Basil dopo la scenata con Cliff» dice mamma. «Ho
fa o del mio meglio per eseguire i vari punti. Scusami, l’albero della
g p g p
cuccagna è un po’ pendente, ma non sono riuscita a convincere
Roland che non era dri o, e poi mi è passata la voglia.»
«Tu… Oh, mamma, grazie» dico.
Mi sorride. Si è raccolta i capelli in uno chignon morbido e i suoi
occhi sembrano più luminosi. Sono così felice di non essere
arrabbiata con lei, così contenta di guardarla e non sentire altro che
affe o, che la stringo in un abbraccio spontaneo. Lei scoppia a ridere.
«Oh, che bello» dice.
La bacio sulla guancia. Dietro di noi, qualcuno bussa alla porta di
uno dei bagni dall’interno, e una voce che sono sicura sia quella di
Basil urla: «Ehi! Sono chiuso dentro!».
Faccio una smorfia. «Torniamo al lavoro, dài» le dico. «Verrai alla
sfilata?»
«Ho sentito che non hanno ancora trovato la Regina del
calendimaggio» dice lei, con aria interrogativa.
«Oh, cielo, dovrò farlo io, eh?» Poi la guardo speranzosa. «O
magari ne hai voglia tu?»
Mamma mi rivolge uno di quegli sguardi da mamma, come per
dire: “Ci hai provato, Leena”. «Dopo che stama ina hai salvato la
giornata… quella corona spe a a te» dice. «Ora. Intendi tirare fuori
Basil dalla toile e, o devo farlo io?»

Ora che ce l’ho addosso, la tenuta della Regina del calendimaggio


ricorda meno la regina Ginevra e più… una sposa.
Mi sistemo il corse o, nervosa, indugiando sulla soglia di
Clearwater Co age. Il vestito ha la vita alta e ricade in un morbido
tulle bianco appena so o il seno, e Penelope mi ha aiutata a
sistemarmi dei fiori tra i capelli, a orno alla corona. Mi sento, come
dire, eterea. È una novità per me. Di solito sono tu o tranne che
eterea.
Prendo il telefono della nonna dalla borsa e mando a Betsy un
breve messaggio per dirle che va tu o a meraviglia. Per il momento,
Arnold ha portato a casa Cliff, con l’ordine tassativo di non
partecipare alla festa, così avevo pensato che saremmo riusciti a
riportare qui Betsy per la parata. Ma quando ha chiamato per dire
che si era sistemata da Nicola, sembrava così scossa che non l’ho
nemmeno proposto. È difficile dimenticare che Betsy non è la nonna:
tanto per cominciare, ha sei anni di più, e anche se ha una
determinazione di ferro, non possiede la sua energia.
Non sono sicura che qualcun altro ce l’abbia, a dire il vero. Gli
ultimi due mesi mi hanno ricordato che persona eccezionale sia mia
nonna.
Mi liscio il vestito con i palmi sudati. In Middling Lane, la parata
mi aspe a. Non c’è stato alcun processo di selezione per unirsi alla
sfilata del calendimaggio: praticamente include chiunque non avesse
altro da fare, più chiunque verrebbe messo al bando se Betsy
scoprisse che non ha partecipato. C’è mia madre, che ride per
qualcosa che ha de o Kathleen, e vedo il Comitato di vigilanza: la
testa pelata del do or Piotr mentre parla con Roland, Penelope che si
drappeggia una ghirlanda di fiori a orno al collo e sulle braccia
come un boa di piume di struzzo.
Poi ci sono i piccoli. Sono venuti tu i i trento o bambini che
frequentano la scuola elementare di Hamleigh-in-Harksdale, e si
sono riuniti in cerchio a orno a Jackson, i visini rivolti verso di lui.
Hanno in mano sacche i di coriandoli, pronti a lanciare petali di
rosa sulla folla, e sono vestiti di bianco, come me, anche se molti dei
loro abiti sono visibilmente ricavati dalle lenzuola.
O meglio, tu i meno una sono vestiti di lenzuola. Una bambina
molto speciale è vestita da satsuma.
«Signora coniglio pasquale!» urla Samantha, staccandosi dal
gruppo per venire a salutarmi. Mi finisce addosso con un uff, e
rimbalza all’indietro; Jackson le impedisce di cadere. Alza lo
sguardo su di me, posa gli occhi sul vestito bianco che mi lascia le
spalle scoperte, e rimane lì a fissarmi a bocca aperta. Mi mordo il
labbro, cercando di non sorridere.
«Sembri una regina!» dice Samantha.
«Oh, grazie!»
«O un fantasma» aggiunge.
Mmh. Già peggio.
Jackson si schiarisce la gola. «Pronta per la parata trionfale?» mi
chiede, indicando qualcosa dietro di me.
Mi giro. Parcheggiato davanti alla casa di Arnold c’è il pick-up di
Jackson, così pieno di nastri e fiori che quasi non si vede Arnold al
posto del conducente. Lui abbassa il finestrino, decapitando un
garofano.
«La carrozza ti aspe a!» esclama.
«Partecipi alla parata del calendimaggio?» rispondo. «Ma Arnold,
che fine ha fa o la tua reputazione da scorbutico eremita del paese?»
«Andiamo, salite sul cassone prima che cambi idea» replica lui.
Jackson bacia Samantha e la manda a raggiungere gli altri
bambini prima di aiutarmi a salire sul retro del pick-up. Ci me iamo
fianco a fianco e ci guardiamo, il vento nei capelli. Provo gioia,
perlopiù… sono felice di essere qui, felice di avere fa o questa scelta
folle e di aver preso parte per un po’ alla vita di mia nonna, felice che
il sorriso di Jackson sia così raggiante che si vedono entrambe le
fosse e. Dietro di noi si sente un chiacchiericcio eccitato mentre tu i
si me ono in posizione, poi Jackson ba e sul te uccio della cabina e
partiamo, solcando il sentiero luccicante a cinque chilometri all’ora,
con una accozzaglia di persone festanti sulla nostra scia.

Non mi ubriacavo da… non ricordo nemmeno quando sia stata


l’ultima volta. Forse la festa di addio di Mateo quando ci ha lasciato
per andare alla McKinsey? Anche allora, comunque, ero troppo
stanca per ubriacarmi come si deve; mi ero scolata appena due Long
Island prima di addormentarmi sulla metropolitana, e niente ti fa
passare la sbornia come un tragi o lungo e costoso fino a casa da
High Barnet.
Ma adesso sono ubriaca di daiquiri al mango e mi gira la testa per
aver danzato in modo alquanto inesperto a orno all’albero della
cuccagna, e sono felice. Felice felice felice. Abbiamo scoperto di aver
raccolto più di mille sterline in beneficenza, e quei soldi andranno ad
aiutare le persone come Carla, le loro famiglie, le persone che si
prendono cura di loro. In questo momento mi sembra la cosa più
meravigliosa del mondo.
Mi avvio verso il grande falò nel campo dove avevo portato a
passeggio Hank la prima volta. I chioschi sono quasi tu i ancora
aperti, illuminati dalle lanterne e dalla luce suggestiva delle fiamme;
p gg
quelli dei cocktail tropicali sono i più frequentati, e la gente aspe a
in coda di essere servita. Le colline sorgono scure e splendide sullo
sfondo e sentirò la mancanza di questo posto, santo cielo quanto la
sentirò. Vorrei che la serata non finisse mai.
«Qualcuno è allegro» dice Arnold, levando un calice nella mia
direzione mentre mi avvicino al falò.
Il fuoco crepita alle sue spalle; avvicinandomi sento il calore e
tendo d’istinto le braccia. Arriva Jackson e porge ad Arnold un
bicchiere di qualcosa, con una fe a di melone che vi galleggia
dentro. Sono a loro agio insieme, come padre e figlio. È bello che
siano rimasti così anche dopo che la madre di Jackson ha lasciato
Arnold. La famiglia può essere una cosa molto complicata, ma se
trovi un modo di starci che va bene per te puoi approssimarti
comunque molto alla perfezione.
Jackson guarda il cielo con aria saputa: «Domani piove» dice.
«Il mio figliastro» annuncia Arnold «che parla di pioggia alla festa
del calendimaggio. La signora era allegra, Jackson! Non rovinarle il
buonumore.»
Jackson tossisce. «Scusatemi.» Si china a posare il bicchiere vuoto
e quando si rialza barcolla un po’.
«Sei ubriaco?» chiedo. «Oooh, questo sì che è divertente. Com’è
Jackson da ubriaco?»
«In realtà» dice Jackson, giocherellando con i fiori della sua
ghirlanda, «Jackson da ubriaco tende a straparlare.»
Arnold si allontana, indicando vagamente gli alberi sul fondo. Io e
Jackson ci muoviamo verso le panche allestite alla meglio a orno al
falò. È buio; il suo viso è decisamente virile alla luce del fuoco, con le
ombre che si raccolgono so o l’arcata sopraccigliare, so o la
mandibola. Mentre il mio cuore inizia a ba ere all’impazzata, mi
rendo conto che non dovrei sedermi con lui da sola: penso troppo a
quest’uomo, sono troppo sensibile alla sua presenza.
«Samantha ti adora» mi dice, togliendosi la ghirlanda e
appoggiandola accanto a sé. «Anche se pensa ancora che tu sia il
coniglio pasquale. Mi ha spiegato che sarai disoccupata fino al
prossimo anno.»
Mi rilasso un po’: se parliamo della bambina, sembra un terreno
più sicuro. «Quel travestimento… È davvero una bambina
incredibile.»
Lui mi guarda di so ecchi. «Sai che ti ha messo la glassa nei
capelli quando l’hai presa in spalla?»
Mi porto la mano ai capelli con un gemito. «Dio, sarà un incubo
toglierla» dico, toccandola. «Perché nessuno me l’ha de o?»
«Penso che fossero tu i troppo brilli per accorgersene. A parte
me.»
«A parte te?» Lo guardo poco convinta. «Pensavo che fossi a
livelli di ubriachezza da straparlare.»
«Infa i.» Si gira verso di me, gli occhi penetranti e luminosi alla
luce delle fiamme. «È solo che ti guardo di più.»
Mi immobilizzo. Adesso sento il cuore pulsarmi nelle orecchie, in
gola, dappertu o.
«Leena…»
«Dovrei tornare a…»
La sua mano si posa sulla mia, nello spazio che ci separa. Basta
quel semplice tocco a farmi avvampare, come se mi stesse baciando
con passione.
«Penso che tu sia fantastica, Leena Co on. Sei gentile, bellissima e
sei una forza della natura, e Dio, quando ti passi la mano tra i capelli
in quel modo, ecco…» Si strofina la bocca con la mano libera,
stringendo la mascella.
Abbasso il braccio: non mi ero nemmeno resa conto di aver
portato la mano ai capelli.
«Penso che tu debba saperlo» dice. «Mi piaci. Come non dovresti
piacermi. Ecco come mi piaci.»
Il mio respiro è accelerato, tremante. Vorrei toccarlo. Vorrei
intrecciare le dita alle sue, sentire il suo corpo contro il mio e baciarlo
sulla bocca alla luce del falò, e lui è così vicino, più vicino di quanto
dovrebbe essere, tanto vicino che vedo le lentiggini chiare so o i
suoi occhi, la barba che sta ricrescendo sulle guance…
«Non sapevo che cosa fare» dice, la voce così sommessa che è
quasi un sussurro. Le sue labbra sono a pochi centimetri dalle mie.
«Ci penso da se imane. Non voglio introme ermi nella tua
p g
relazione, sarebbe sbagliato. Ma non voglio nemmeno che tu te ne
vada senza saperlo.»
Non appena allude a Ethan ritrovo di colpo la lucidità. Tiro via la
mano e deglutisco con sforzo. Mi muovo al rallentatore, il corpo
illanguidito dal desiderio.
«Non dovevo… scusami, Jackson, avrei dovuto fermarti non
appena hai iniziato a parlare. Per me non è così. Io ho un ragazzo, lo
sai.» La frase mi esce meno convinta di quanto avrei voluto; cerco di
suonare determinata e irremovibile, ma ho la mente annebbiata dai
cocktail tropicali e il cuore continua a ba ermi forte.
«E lui ti rende felice?» chiede Jackson con espressione addolorata.
«Mi dispiace. Te lo chiederò solo una volta.»
Prendo un respiro profondo. È di Ethan che stiamo parlando. È
impossibile che non conosca la risposta a questa domanda.
«Sì, mi rende felice.»
Jackson abbassa gli occhi. «Okay. Bene. Mi fa piacere. Mi fa
piacere che ti renda felice.»
Sembra pensarlo davvero, e questo mi fa male al cuore.
«La prossima se imana me ne vado» dico. «Tu… tu ti
dimenticherai di me. La vita tornerà alla normalità.»
Entrambi guardiamo il fuoco, le fiamme agitate dalla brezza.
«Forse dobbiamo salutarci adesso» dice Jackson.
Domani ci sarà un incontro nella sala comunale con i membri del
Comitato di vigilanza, forse persino con Nicola e Betsy, se ne
avranno voglia. Ma immagino che Jackson non ci sarà.
«Va bene» dico. «Certo. Dovrei…» Mi alzo in piedi. Una parte del
mio corpo è calda per il fuoco, l’altra rinfrescata dalla brezza.
«Mi dispiace» dice Jackson, alzandosi anche lui. «Avrei dovuto…
Ora mi rendo conto che non avrei dovuto dire niente.»
«No» dico io. «Capisco.»
È meglio che l’abbia de o. Adesso la situazione è chiara.
«Bene. Ciao» dice lui.
Io esito, e poi…
«Vieni qui» dico, e lo a iro in un abbraccio. Lui mi circonda con le
braccia e io gli appoggio la testa sul pe o. Odora di fuoco di legna e
fiori selvatici, la stoffa morbida della camicia conserva ancora il
profumo della ghirlanda che portava. Mi ritraggo quando il cuore
inizia di nuovo a galoppare.
«Sii felice, Leena Co on» dice lui, non appena ci separiamo. «E…
assicurati che sia quello giusto.»
30
Eileen

Lascio Tod a le o con le lenzuola sgualcite, il braccio allungato come


se fosse ancora proteso verso di me. Sono felice che questo sia
l’ultimo ricordo di lui, e che l’ultimo ricordo suo di me sia di com’ero
ieri sera: brilla, su di giri e con il trucco perfe o che mi aveva fa o
Martha.
Le mie valigie sono pronte e a endono nel pianero olo di Rupert
e Aurora al piano di so o. Fi le ha portate giù prima di uscire per
andare al lavoro. Ho consegnato ad Aurora e Rupert un cactus come
dono d’addio; Aurora era al se imo cielo. Davvero, quella donna
pensa che qualsiasi cosa ricordi vagamente la forma di un pene sia
un’opera d’arte.
Hanno promesso di tenere in vita il Silver Social Club e di
mandarmi le foto di ogni ritrovo mensile. Quello più ele rizzato,
però, è Fi : ha già proge i ambiziosi per espandere il circolo. È stata
una gioia vederlo me erci il cuore in questa faccenda: mi ricorda un
po’ com’ero io alla sua età. Anche se avevo molto, molto più
buonsenso. Quel ragazzo proprio non sembra imparare come badare
a se stesso: qualsiasi informazione domestica gli entra da un orecchio
e gli esce dall’altro. Io, però, ho fa o quello che potevo finché sono
stata qui, e lui migliora. L’altro giorno l’ho visto accoppiare i calzini
dopo aver svuotato la lavatrice.
Prendo un taxi per gli uffici della Selmount, dove berrò un caffè
con Bee per salutarla. Mentre avanziamo a passo di lumaca, ricordo
quanta paura mi aveva fa o questo posto quando sono arrivata.
Adesso è una seconda casa. Mi mancherà l’uomo del mercato che mi
fa lo sconto sulle crêpe perché viene anche lui dallo Yorkshire, e il
venditore del giornale dei senzate o con il suo pastore tedesco che
porta un papillon rosa.
p p p
Accostiamo davanti all’ufficio della Selmount; mi ci vuole un po’
per uscire dalla macchina e ho appena poggiato un piede per terra
quando alzo gli occhi e resto paralizzata.
«Tu o bene, signora?» dice il tassista.
«Ssh!» rispondo. Torno dentro l’abitacolo. «Chiuda la portiera!
Segua quella macchina!»
«Come, scusi?» chiede lui, sbalordito.
«Quel taxi lì! Il primo della colonna, con la tizia in reggiseno sulla
portiera!»
«Quello su cui stanno salendo il signore e la ragazza bionda?»
chiede, guardandomi un po’ diffidente nello specchie o.
«Quello è il ragazzo di mia nipote, e ci scomme o quello che
vuole che la tizia è la sua amante» dico. «Corrisponde perfe amente
alla descrizione.»
L’autista me e in moto. «D’accordo, signora. Starò incollato a
quella macchina.» Si imme e nel traffico con tale disinvoltura che
nessuno gli suona. «Non sopporto i fedifraghi» dice.
«Nemmeno io» dico infervorata, mentre ci accodiamo all’altra
auto. Con difficoltà – non voglio staccare gli occhi dal taxi – mando
un veloce messaggio a Bee.

Sto seguendo Ethan. Mi dispiace un sacco perdere l’appuntamento. Con


affetto, Eileen xx

Lei risponde subito.

MUOIO DALLA CURIOSITÀ.

Non ho il tempo di aggiornarla. Dovrà aspe are. Il taxi di Ethan


sta accostando; il mio conducente si ferma dietro di loro in divieto,
guardandosi nervosamente alle spalle.
«Salto giù in un a imo» dico, anche se più che saltare arranco. «È
stato meraviglioso. Non appena avrò capito come fare, le darò
cinque stelle.»
Lui mi guarda perplesso, ma mi aiuta a scendere e mi saluta in
modo amichevole mentre parto alle calcagna di Ethan,
p g
trascinandomi dietro il bagaglio.
Sono sicura che quella sia Ceci. Ha i capelli biondi lisci e le gambe
lunghe, due cose che so di quella donna, e poi in lei c’è qualcosa che
urla: “Sono il tipo che potrebbe rubare il fidanzato a tua nipote”.
Ma quando si fermano davanti a un palazzo di uffici perdo un po’
la carica. Mi viene in mente che forse Ethan e Ceci stanno solo
andando a una riunione, in quel caso avrei speso un sacco di soldi
per una corsa di taxi a… dove mi trovo esa amente?
Poi Ethan sfiora il braccio di Ceci con la mano, e capisco di averci
visto giusto. China la testa per parlarle. Poi, veloce come un lampo,
tanto che a sba ere le palpebre me lo sarei persa… le dà un bacio
sulle labbra.
Per un a imo, tentenno. Sto per tirarmi indietro. Ma poi ricordo a
me stessa quello che avevo de o la prima volta che ho sospe ato che
Ethan stesse tradendo Leena: Carla non si sarebbe tirata indietro, e
non dovrei farlo neanch’io. Quindi mi me o la borsa a tracolla e
accelero il passo, tirando il trolley con una mano.
Ethan e Ceci non alzano nemmeno gli occhi mentre mi avvicino.
Ba o sulla spalla di Ethan. Lui si gira verso di me.
«Eileen! Buongiorno» dice, facendo un passo indietro. «Che cosa
ci fai qui?»
«Immagino che lei sia Ceci» dico alla donna.
Lei alza le sopracciglia. «Come, scusi?»
«Sparisci, sciacque a.» Indico l’edificio. «Non è con te che devo
discutere. Anche se dovresti sapere che c’è un posto speciale
all’inferno per le donne che me ono gli occhi sugli uomini delle
altre.»
«Ehi, Eileen, aspe a un a imo» dice Ethan.
«Ti ho visto baciarla.»
«Ma che diavolo…» comincia Ceci.
«Sei ancora qui?» le dico.
Ceci mi guarda disgustata. «Ethan?» dice.
«Ci vediamo alla riunione» dice. «Di’ agli altri che arrivo subito, ti
spiace?»
«Andiamo via e basta, Ethan. Chi è questa donna, poi?»
«Sono la nonna di Leena» dico.
Lei sbarra gli occhi.
«Ah.»
«Già. Ah.»
«Ci… ci vediamo dentro» dice a Ethan, e sga aiola via sui suoi
tacchi a spillo. Mi ricorda una mantide religiosa. Distolgo lo
sguardo. Non merita nemmeno un pensiero.
«Dunque» dico a Ethan, e aspe o.
Lui si strofina la fronte. «Penso che tu abbia frainteso, Eileen.»
«Non sono cretina, Ethan. Non prendermi per tale.»
«Senti. Tu non capisci. Con tu o il ta o che posso usare, Eileen, le
relazioni moderne non sono come…»
«No. Non ci provare.»
Lui si passa le dita tra i capelli. «D’accordo, va bene. Io non ho…
non volevo che succedesse qualcosa con Ceci. L’ultima cosa che
desidero è fare del male a Leena. Ma negli ultimi tempi lei è così
diversa. Non capisco cosa le abbia preso. Non mi sembra nemmeno
di avere una storia con Leena, è come se fosse un’altra persona, e
vuole parlare di, che so… i trasporti nel Nord rurale dell’Inghilterra,
le rice e per lo stufato, programmare feste di paese. È che… è che…»
All’improvviso, mi afferra un braccio. «Ti prego. Non dirglielo.»
«Ah, già. Sospe avo che saremmo arrivati al punto.» So raggo il
braccio alla sua presa, in modo ostentato.
«Ti prego. Succederà un casino. Troncherò questa storia con Ceci,
lo farò subito dopo la riunione.» Inizia ad agitarsi; ha uno sguardo
disperato.
«Non lo dirò a Leena.»
Lui fa un sospiro di sollievo.
«Per due giorni. Di più non ti concedo. Anche se non te lo meriti.»
A quel punto lo pianto lì, perché non riuscirei più a mantenere il
controllo e perché non sopporto di vederlo così piagnucolante e
patetico, che suda nella sua camicia da fighe o. Una sfilza di
sconosciuti gentili mi aiuta con la borsa e il trolley finché non sono
sistemata sul mio treno a King’s Cross, e usciamo dalla stazione
verso l’aria aperta, il cielo libero, con le gru che oscillano regolari,
costruendo una Londra sempre più grande.
Questa ci à mi mancherà. Ma non è casa mia. Mentre il treno
sfreccia verso nord mi chiedo se è così che si sentono i piccioni
viaggiatori, trascinati in avanti, come se qualcuno tirasse i fili che ti
tengono legato al posto a cui appartieni.
31
Leena

Mi sveglio il ma ino dopo il calendimaggio nel solito modo (con il


ga o sulla faccia), però, invece di saltare giù dal le o, mi
riaddormento per almeno altre tre ore. Quando mi sveglio la
seconda volta, scopro che Ant/Dec mi si è piazzato sullo stomaco, e
ronfa così beato che mi sento in colpa a spostarlo. Inoltre, l’idea di
muovermi è terribile. Sono completamente fusa. E ho anche i
postumi di una bella sbronza.
Possibile che mia mamma mi abbia accompagnato a casa ieri sera?
Ricordo vagamente di averle parlato nei de agli del mio proge o
con Bee, e poi di averle de o che non voglio andarmene dallo
Yorkshire, e che lei ha de o: “E se stabilissi la tua a ività qui? Perché
a Londra? Cosa c’è poi di tanto bello in quella Londra del cavolo?”. E
a quel punto devo essermi messa a blaterare della metropolitana, e
poi…
Mi suona il telefono. È Ethan. Mi strofino gli occhi e allungo la
mano sul comodino.
«Ciao.»
«Ciao, Leena» dice. Ha un tono teso, preoccupato. «Come stai?»
«Un po’ di doposbronza. Tu?»
«Stammi a sentire, angelo mio, mi dispiace tantissimo ma devo
parlarti di una cosa. Potrebbe essere un po’ destabilizzante.»
Mi siedo contro i cuscini. «Va bene…»
«Stama ina ho incontrato tua nonna. Ero con Ceci, dell’ufficio…
stavamo andando a una riunione con un cliente. Tua nonna… Mi
spiace, Leena. È andata fuori di testa. Si è messa a urlarci contro,
dicendo cose orribili… che ti tradivo e tu o quanto. È stata una
follia, Leena. Non so cosa le abbia preso.»
«Oh, santo cielo» dico, stringendo il piumone. «Cosa?»
g p
«Pensi che stia bene, Leena? Non è che ti è sembrata un po’…
sfasata, di recente? Alla sua età…»
«Come, scusa? Pensi che stia perdendo colpi?» Sono raggelata. Il
cuore mi martella nelle orecchie.
«No, no» si affre a ad aggiungere Ethan, ma sento che è
preoccupato. «Sono certo che stava solo… avendo una bru a
giornata, o qualcosa del genere, e magari si è sfogata su di me.»
«Ti ha de o che mi stavi tradendo?»
«Già.» Fa una risatina ansante. «Leena, sai bene che non farei
mai…»
«Certo» dico, prima che possa finire, perché non voglio nemmeno
che debba dirlo.
«Penso… puoi tornare a casa, Leena?» Suona così stanco. «Oggi,
voglio dire. Ho bisogno di vederti. È stata… una ma inata assurda.»
«Oggi? Credo che mi fermerò fino a domani a pranzo, per poter
incontrare mia nonna…»
«Sì, certo.»
«Hai bisogno che venga?» Mi asciugo la faccia; ho versato qualche
lacrima. È una cosa orribile. Perché mai dovrebbe… come diavolo…
«Allora torno subito. Se hai bisogno di me. E chiamerò mia nonna
per parlarne.»
«Non arrabbiarti con lei. Forse è per via di tuo nonno… lui se n’è
andato con un’altra donna, no? Magari si è un po’ confusa ed è
venuto tu o fuori. Forse questo soggiorno a Londra è stato un po’
stancante per lei. Magari ha solo bisogno di un po’ di riposo.»
«Devo chiamarla» ripeto. «Ti amo, Ethan.»
«Anch’io, Leena. Richiamami, va bene?»
Armeggio con quello stupido vecchio telefono di mia nonna;
sembra volerci un secolo per riuscire a fare la telefonata.
«Pronto?»
«Nonna, stai bene?»
«Sì che sto bene, tesoro, sono sul treno per venire da te.» C’è una
pausa. «Tu invece stai bene? Suoni un po’…»
«Mi ha appena chiamato Ethan.»
«Ah. Leena, tesoro, mi dispiace tanto.»
«Ma cosa ti ha preso? Stai bene? Tu stai bene, vero?»
p
Sento il treno sullo sfondo, che sferraglia portandola qui. Mi chino
in avanti, avvicinando le ginocchia al pe o, guardando il motivo
pallido di rose sul copripiumino. Il mio cuore ba e troppo in fre a,
lo sento contro le cosce.
«In che senso, che cosa mi ha preso?» chiede lei.
«Perché ti sei messa a urlare contro Ethan? Perché l’hai accusato
di… di… con Ceci, nonna, che cosa ti è venuto in mente?»
«Leena, immagino che Ethan non ti abbia raccontato tu a la
storia.»
«No, non dire questo, non dirlo! Perché stai dicendo queste cose,
nonna?» Mi strofino le guance; adesso sto piangendo sul serio. «Non
so che cosa pensare, non voglio che tu sia pazza e non voglio
nemmeno che tu sia sana di mente.»
«Non sto perdendo la testa, Leena… santo cielo, è questo che ti ha
de o quel viscido?»
«Non parlare così di lui.»
«L’ho visto mentre la baciava, Leena.»
Rimango paralizzata.
«Ha de o che le cose sono cambiate mentre eri via. Ha de o che
sei diventata una persona diversa, e lui…»
«No. Non ti credo.»
«Mi dispiace, Leena.»
«Non voglio che tu dica che ti dispiace perché non ti dispiace per il
motivo giusto.»
«Leena! Non urlare, per favore. Facciamoci una chiacchierata
civile sull’argomento quando…»
«Io torno a Londra adesso. Ethan ha bisogno di me.»
«Leena. Non farlo. Rimani a Hamleigh così possiamo parlare.»
«Devo tornare.» Mi strofino gli occhi tanto forte da farmi male.
«Non voglio… Ho deluso Ethan. Non sono la sua Leena, quassù, a
Hamleigh. Non so più chi sono. Devo tornare alla vecchia me. Al
lavoro, a Ethan, alla mia vita a Londra. Non devo rimanere un
secondo di più.»
«Non riesci a pensare lucidamente, tesoro mio.»
«No» dico, il dito già sospeso sul pulsante rosso del telefono. «No.
Questo, questo stupido scambio…» farfuglio «avrebbe dovuto aiutarci,
q p g
ma adesso ha incasinato l’unica cosa, l’unica cosa buona, e…»
Comincio a singhiozzare. «Ne ho abbastanza, nonna. Ne ho
abbastanza di tu a questa storia.»
32
Eileen

Sono finalmente a casa, dopo quello che mi sembra un secolo. Anche


solo fare una tazza di tè mi sembra al di là delle mie forze. Non avrei
dovuto andare a le o così tardi ieri, avrei dovuto sapere come
sarebbe andata a finire. E adesso, dopo il lungo viaggio, e la
difficoltà degli addii, e quell’orribile telefonata con Leena… Mi sento
pesante e fiacca, come se mi stessi muovendo nella melassa.
C’è una nuova distanza tra me e Leena. Se avessimo parlato di più
delle nostre esperienze degli ultimi due mesi, forse lei mi avrebbe
creduto quando le ho raccontato di Ethan. Pensavo che ci saremmo
avvicinate, vivendo le nostre vite scambiate, e invece è stato il
contrario. La casa odora del suo profumo, mescolato all’odore di
casa, e la sensazione è strana.
Suona il campanello. Mi alzo a fatica dalla poltrona, frustrata per
il dolore intenso alla schiena e quello più sordo agli arti.
Spero che sia Marian, invece è Arnold. Ha un’aria diversa, ma non
saprei dire perché: un nuovo basco? Una nuova camicia?
«Stai bene?» chiede, con la solita franchezza. «Ti ho visto
inciampare, davanti alla casa, e mi sono chiesto…»
Mi innervosisco. «Sto benissimo, grazie tante.»
Si innervosisce anche lui. Stiamo lì a innervosirci a vicenda, ed è
proprio come ai vecchi tempi.
Poi le sue spalle si rilassano. «Mi sei mancata» dice.
«Come, scusa?» dico, sba endo le palpebre e aggrappandomi allo
stipite della porta per non perdere l’equilibrio.
Lui aggro a la fronte. «Non stai bene. Devi sederti. Vieni.
Entriamo, vuoi? Ti faccio una tazza di tè.»
«Be’» dico, ancora un po’ sbigo ita dalla sua ultima dichiarazione.
«In fondo hai bussato alla porta d’ingresso.»
p g
Lui mi tiene il gomito mentre torniamo in soggiorno, più
lentamente di quanto vorrei. È confortante vederlo, o almeno lo è
stato finché non ha de o che gli sono mancata. Quello non era
confortante per niente.
«Quel ga o confuso…» dice Arnold, cacciando Dec dal divano.
«Vieni, siediti.»
Mi tra engo appena in tempo dal ricordargli che questa è casa
mia, e dovrei essere io a invitarlo a sedersi. Si sta comportando da
buon vicino. Anzi, si sta comportando…
«Quel cappello è nuovo?» gli chiedo bruscamente.
«Cosa?» Alza le mani, imbarazzato. «Oh, sì. Ti piace?»
«Mi piace.»
«Non devi essere sorpresa. Ti ho de o che ho deciso di voltare
pagina. Ho tre cappelli nuovi.» È già andato in cucina; sento il
rumore dell’acqua che scorre, il bollitore che viene acceso. «La e,
niente zucchero?»
«Un cucchiaino di zucchero» lo correggo.
«Ti rovinerà i denti!» risponde.
«Come le mele candite?»
«Quella è fru a, no?»
Rido, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa allo schienale
del divano. Mi sento un po’ meglio; ho la sensazione che il mio corpo
stia riprendendo vita, formicolando nelle dita dei piedi e delle mani
come se fossi appena tornata dentro dal gelo.
«Sai, Eileen, la tua credenza è un casino» dice Arnold, tornando
nella stanza con due grosse tazze di tè fumante. «C’è una la ina di
fagioli del 1994.»
«Un’o ima annata, il 1994» dico, prendendo la tazza.
Arnold sorride. «Allora? Com’era la metropoli?» Mi lancia
un’occhiata maliziosa. «Hai trovato il principe azzurro?»
«Ma piantala.»
«Cosa? Quindi non hai portato con te un uomo?» Si guarda
a orno come se cercasse un Romeo nascosto.
«Sai che non l’ho portato» dico, dandogli uno schiaffo sul braccio.
«Anche se in effe i ho avuto una storia abbastanza focosa.»
Lui mi guarda esterrefa o. «Focosa?»
g
«Be’, credo di sì. Anche se non ho mai capito bene che cosa si
intenda.» Alzo le spalle. «Un a ore del West End. Non poteva
durare, ma è stato divertente.»
Arnold di colpo diventa molto serio. Soffoco una risatina. Mi
mancava questa cosa di far agitare Arnold.
«Però è finita?» chiede. «E non c’era nessun altro?»
«Be’» dico io, con falsa modestia. «Un altro uomo c’era. Ma ci ho
solo cha ato.»
Arnold raddrizza un po’ la schiena e si concede un sorriso. «Ah,
sì?»
«È adorabile. Un uomo molto sensibile. Non ha avuto una vita
facile, e ha i suoi problemi, ma è davvero gentile e premuroso.»
«Sensibile, eh?» dice Arnold, alzando le sopracciglia.
«Sta leggendo Agatha Christie perché sa che è la mia scri rice
preferita.» Sorrido, pensando a Howard rintanato nel suo
appartamento, che arriva al finale di L’assassinio di Roger Ackroyd.
«Ah, sì, eh? E come fai a saperlo? Qualcuno ti ha fa o una
soffiata?» chiede Arnold, sempre sorridendo.
Io lo guardo senza capire. «Me l’ha de o lui.»
Il suo sorriso vacilla. «Eh?»
«Dei libri. Ogni volta che ne finisce uno me lo racconta, e mi dice
quali frasi lo fanno pensare a me, e…»
Arnold si alza tanto bruscamente da versarsi il tè sulla camicia.
«Accidenti» dice, tamponandoselo con la manica.
«Non fare così, peggiori solo la situazione!» dico, facendo per
alzarmi. «Ti vado a prendere un…»
«Non preoccuparti» dice lui, scorbutico. «Meglio che me ne
vada.» Posa la tazza mezza piena ed esce dal soggiorno. Un a imo
dopo sento sba ere la porta.
Ma santo cielo. Che cosa gli è preso?

Non appena trovo l’energia, mi alzo, mi infilo le scarpe e vado, più


lenta del solito, a casa di Marian. È questa la parte più bella di essere
tornata, sapere che la rivedrò. Almeno spero che sarà bella. Una
piccola parte di me ha paura che stia peggio, non meglio, e che possa
rendermi conto che in fin dei conti sarebbe stato meglio non lasciare
Hamleigh.
Lei sa che sono tornata oggi, ma quando busso alla porta non
viene ad aprire nessuno. Preoccupata, cerco di chiamarla, ma lei non
risponde. Dev’essere uscita. Andrò a vedere se è al negozio.
Mi allontano dalla porta di Marian, ma poi mi fermo, guardando
il telefono che ho in mano. Non è mio, è di Leena. Avremmo dovuto
scambiarceli una volta che fossi tornata a casa, ma poi lei è partita.
Avevamo de o a tu e le persone con cui parliamo regolarmente
che ci eravamo scambiate i numeri, ma so per certo che a Ceci Leena
non l’ha de o.
Se Leena avesse la prova che Ethan le è infedele… Di sicuro a quel
punto mi crederebbe. E io la prova la potrei trovare. Devo solo
fingere di essere Leena. Solo per un messaggino.
Quello che sto per fare è sbagliato, non c’è dubbio. Significa
immischiarsi nel modo peggiore. Ma se ho imparato qualcosa in
questi ultimi due mesi, è che a volte se ficchi il naso è meglio per
tu i.

Ciao, Ceci. Ethan mi ha raccontato tutto. Come hai potuto farmi questo?
33
Leena

Il viaggio di ritorno a Londra è avvolto nella nebbia, come se avessi


le orecchie tappate e sentissi tu o un po’ a utito. Arrivo al mio
appartamento con il pilota automatico; solo quando me o piede
nell’edificio mi rendo conto davvero di dove sono. È tu o diverso.
L’intera area al pianterreno ha un aspe o meraviglioso: assi del
pavimento a vista, divani, un grande tavolo in fondo. Dev’essere
stata la nonna. Ci sono sgargianti quadri amatoriali appesi alle pareti
e una pila di ciotole in un angolo del tavolo; sembra vissuto, amato.
Una volta arrivata all’appartamento, però, dimentico tu o. Dal
momento in cui apro la porta e respiro l’odore di casa, vengo
riassalita dalla mia vita con Ethan. Noi cuciniamo in quella cucina, ci
raggomitoliamo su quel divano, ci baciamo su questa soglia,
all’infinito, all’inizio e alla fine di ogni serata che passiamo insieme.
Mi sembra quasi di vederlo, come i solchi che lasci su un taccuino
quando premi troppo la penna scrivendo.
Lui non mi ferirebbe mai. Impossibile. Non posso crederci.
Fi torna circa mezz’ora dopo e mi trova sul pavimento,
singhiozzante, la schiena appoggiata al divano. In un a imo è al mio
fianco. Mi a ira contro la sua spalla e io piango sul suo maglione di
cachemire e lui non mi sgrida nemmeno perché sto bagnando il suo
maglione che si può lavare solo a secco.
«È tu o un casino» dico tra i singhiozzi.
Fi mi bacia sulla testa. «Che cos’è successo?»
«Ethan… la nonna… Lui… lei…»
«Temo che mi servano le parole di collegamento, Leena. Sono
sempre stato una frana con gli esercizi di completamento.»
Non riesco a dirglielo. C’è una cosa in particolare, tra quelle che
ha de o la nonna, che ho continuato a sentire a ciclo continuo per
p
tu o il tragi o, tra gli annunci dei treni, il sassofonista della stazione
di King’s Cross, il chiacchiericcio dei passanti. “Ha de o che sei
diventata una persona diversa.”
Io non le credo. Mi fido di Ethan. Lo amo così tanto, lui è il mio
rifugio, la mia coperta di Linus, non mi farebbe mai del male. Lui è
Ethan.
Forse non importa. Forse anche se fosse vero potrei perdonarlo e
potremmo tornare quelli che eravamo prima. Io stessa mi sono presa
una co a per Jackson, no? Non significa niente. Non significa che
devo sme ere di essere la Leena di Ethan.
Ma mentre lo penso, so di sbagliare. Se Ethan… se davvero… con
Ceci…
«Santo cielo, Leena, sme ila, se continui a piangere così finirai
l’acqua» dice Fi , stringendomi più forte. «Parlami. Che cos’è
successo?»
«Non riesco a parlarne» farfuglio. «Non ci riesco. Per favore.
Prova a distrarmi.»
Fi sospira. «No, Leena, non fare così. Andiamo, sputa il rospo.
Ethan ha fa o qualcosa di male?»
«Non ci riesco» gli dico, stavolta con più determinazione, e mi
scosto. Mi asciugo la faccia sulla manica; ho l’affanno anche adesso
che sto sme endo di piangere e cerco di riprendere fiato. «Quello è il
mio computer?» dico, vedendolo sul tavolino so o un mucchio di
vecchie riviste di interni di Martha.
«Già» dice Fi , in un tono che so intende: “Accontento il tuo
bisogno di cambiare argomento, ma non pensare che sia finita qui”.
«Che sensazione dà rivederlo? Io non potrei mai vivere due mesi
senza il mio. O senza lo smartphone.»
Merda, il telefono. Non l’ho più scambiato con la nonna. Scuoto la
testa. Non ho l’energia di preoccuparmene adesso. Mi me o il
computer sulle ginocchia, il suo peso è rassicurante e familiare.
«Se ti facessi uno smoothie?» mi dice Fi , accarezzandomi i
capelli.
Tiro su con il naso, asciugandomi le guance. «Sarà marrone?»
«Certo, è inevitabile. Non sono migliorato in tua assenza.
Continuano a venirmi fuori marroni. Anche quando me o dentro
q
solo roba verde.»
Questo un po’ mi rassicura. Almeno una cosa che non è cambiata.
«Allora no, grazie. Mi basta un tè.»
So che è una ca iva idea, ma ho bisogno di guardare il profilo di
Ethan su Facebook. Lui verrà qui, ma solo fra un’ora, e devo
rassicurarmi sul fa o che… che… Non lo so, che è ancora il mio
Ethan. E magari che non ci siano foto di lui con Ceci.
Apro il computer. La pagina della chat sul sito di incontri online
della nonna è aperta sullo schermo.

OldCountryBoy dice: Ciao, Eileen. Volevo solo chiederti se avevi avuto la


possibilità di spedirmi i soldi! Non vedo l’ora di iniziare con il sito! xxxxx

«Merda» mormoro. La pagina è scaduta; faccio il login dopo


qualche errore, cercando di ricordare l’username e la password che
avevo impostato con la nonna.
«Non è tipo un… furto di identità?» dice Fi , posando la tazza di
tè vicino a me.
«Io sono Eileen Co on, no?» gli dico, scorrendo i messaggi e
leggendoli alla velocità del lampo. Merda. Avrei dovuto parlare alla
nonna del catfishing, non avrei mai dovuto lasciare che usasse
questo sito da sola: che cavolo mi è venuto in mente?
Faccio per prendere il telefono; solo quando mi vibra nella mano
mi rendo conto che sta già squillando. È la nonna.
«Nonna, hai bonificato dei soldi al tizio che hai incontrato su
Internet?» chiedo senza preamboli. Il cuore mi ba e all’impazzata.
«Come? Leena, Leena… devi tornare qui. Devi tornare a
Hamleigh.»
«Che succede? Nonna, calmati.» Mi alzo in piedi, facendo cadere
il computer. Non sentivo questo tono nella voce della nonna da
quando Carla era malata, e mi sento subito malissimo.
«È Marian… Non riesco a trovarla.»
«Cosa?»
«Non risponde alla porta, non è da nessuna parte in paese e
nessuno l’ha vista. È come l’ultima volta, Leena, dev’essere dentro
ma non mi fa entrare, e non riesco a trovare la mia chiave o quella di
q
riserva per entrare e controllare che stia… se si facesse del male
mentre è lì dentro tu a sola?»
Bene, primo passo: calmare la nonna.
«Nonna, rallenta. Mamma non si farà niente.»
Tiro su il computer.
Secondo passo: controllare i treni. Perché mi sono appena
ricordata che ho entrambi i mazzi di chiavi della casa di mamma
nella borsa.
«Okay, sarò lì per le se e, con le chiavi» dico. «Mi dispiace un
sacco per averle portate con me. Sei sicura che mamma non sia
andata a farsi una nuotata a Daredale o qualcosa del genere?»
«Ho chiamato la piscina» dice la nonna. Sembra sull’orlo delle
lacrime. «Hanno de o che non la vedono dalla se imana scorsa.»
Passo tre: stare calma io. Mamma stava benone quando l’ho
lasciata, gli antidepressivi funzionavano, abbiamo parlato tanto di
Carla, in generale sembrava tu o molto più sano. Sono sicura che c’è
una spiegazione ragionevole per questo.
Eppure… il dubbio si insinua. In fin dei conti, anche l’ultima volta
avevo so ovalutato la sua sofferenza, no? Non sapevo nemmeno
degli episodi di depressione finché non me ne ha parlato la nonna.
E se fosse davvero là dentro da sola? Forse le ho de o qualcosa di
orribile al calendimaggio, quando mi ha accompagnata a casa
ubriaca? Avrei dovuto fare di più per starle vicino in questi ultimi
due mesi, come ha de o la nonna fin dall’inizio? Vorrei essere
ancora lì, vorrei aver lasciato almeno un mazzo di chiavi, per la
miseria, se davvero si è chiusa in quella casa in preda a un crollo e io
non posso fare niente, e non c’è abbastanza tempo e…
No, dài. Passo numero qua ro: calcolare quanto tempo hai, e che
cosa puoi fare in quell’intervallo. Ricordo un seminario sulla
gestione del cambiamento, in cui l’oratore ci aveva de o che i medici
che hanno a che fare con le vere emergenze, di quelle in cui ogni
secondo conta, si muovono più lentamente dei medici degli altri
reparti. Conoscono la vera capienza di un minuto, tu e le cose che
puoi infilarci dentro, e quante altre ce ne puoi far stare se mantieni la
calma.
«Va tu o bene, nonna. Ne parliamo quando arrivo. Tu rimani lì e
continua a bussare. E se senti qualcosa che ti fa pensare che sia in
pericolo, vai a chiamare il do or Piotr, d’accordo?»
«Va bene» dice la nonna, con la voce tremante.
Inghio o la saliva. «Bene. Nonna, ora… a quel tizio hai fa o un
bonifico, sì o no?»
«Un assegno. Perché tu e queste domande, Leena? Per caso hai…
che cosa importa adesso, non hai sentito quello che ti ho de o?
Marian sta male di nuovo, è scomparsa, o si sta nascondendo, non
mi fa entrare, non…»
«Ho capito. Ma ho venti minuti in cui non posso farci niente. E
posso sfru arli per evitarti di essere truffata. Tu concentrati su
mamma, e io arrivo appena posso.»
«In che senso “truffata”?»
«Dopo ti spiego» taglio corto, e ria acco. Il numero della banca
della nonna è sullo schermo del computer.
«Buongiorno» dico, quando mi rispondono. «Mi chiamo Eileen
Co on, numero del conto 4599871. Vorrei annullare un assegno.»
«Va bene. Devo solo farle qualche domanda di sicurezza prima di
poter dare l’autorizzazione. Qual è la sua data di nascita?»
«Dicio o o obre 1939» dico, con tu a la sicurezza che riesco a
trovare.
«Questo sì che è furto di identità» dice Fi .

Sono dire a a nord, finalmente. Dall’altra parte del corridoio una


giovane famiglia sta giocando a Scarabeo: provo una fi a amara di
nostalgia per il tempo in cui la mia famiglia era così, felice
nell’ignoranza di quello che sarebbe venuto.
Non riesco a tenere ferme le gambe; ho una gran voglia di correre,
ma sono intrappolata su questo vagone che sfreccia verso lo
Yorkshire cento volte più lentamente di quanto vorrei.
Inspira, piano. Espira, piano. Okay. Sì, sono intrappolata su
questo treno, ma ciò significa che ho due ore per rifle ere.
Cerchiamo di recuperare la calma prima di arrivare a Grantham.
Mamma sta bene. Mamma sta bene. Mamma sta bene.
Nella mia casella di posta compare una nuova e-mail; ho il
computer aperto davanti a me, più per abitudine che per altro.
Rebecca vuole che venerdì vada a prendermi un caffè con lei per
parlare del mio rientro al lavoro. In copia c’è Ceci, e quando vedo il
suo nome sussulto, anche se non credo a quello che dice la nonna,
ovvio che non ci credo.
Merda, un a imo. Ethan. Non gli ho de o che sono partita.
Mi affre o a mandargli un messaggio.

Sono partita – sto tornando a Hamleigh – dopo ti racconto xx

La sua risposta è quasi immediata.

Leena? Che succede? Hai di nuovo questo telefono?

E poi, un a imo dopo:

Non possiamo parlare?

Rispondo subito.

Adesso non posso, sono sul treno, devo tornare a Hamleigh, mi


dispiace. Adesso non posso pensarci… riguarda mamma. xx

Lui risponde.

Perché hai mandato quel messaggio a Ceci? Pensavo che mi credessi.

Mi sento raggelare.

Io non ho mandato…

Cancello quelle parole e rifle o. D’improvviso sento il cuore in


gola e non riesco a respirare.
Apro la serie dei messaggi scambiati con la nonna. Non ci siamo
scri e spesso nelle ultime se imane. Non mi ero resa conto che ci
p
fossimo sentite così poco.

Nonna, hai messaggiato Ceci dal mio telefono?

Aspe o. Il treno entra a Wakefield; la famiglia vicino a me scende


ed è sostituita da una coppia anziana che legge il giornale in un
affe uoso silenzio. Tu i si muovono nella più perfe a normalità,
girandosi di lato per passare nel corridoio, alzando le braccia per
prendere le valigie dalla cappelliera, ma a me sembra di essere sul
set di un film. Tu e queste persone sono comparse, e qualcuno sta
per urlare: “Buona!”.
Una risposta dalla nonna.

Mi dispiace, Leena. Volevo che avessi le prove. So che starai male, ma se


non lo scoprissi subito staresti peggio.

Annaspo, un rumore roco che fa voltare tu o il vagone. Mi alzo


incespicando e vado sulla pia aforma, poi guardo di nuovo il
telefono con gli occhi annebbiati, e cerco di scrivere senza sbagliare
tu e le le ere.

Mandami la sua risposta… devo vederla.

La risposta ci me e un secolo ad arrivare. Immagino la nonna che


cerca di capire come inoltrarmi un messaggio dal mio telefono, e ci
manca poco che le mandi le istruzioni quando finalmente risponde
con il messaggio di Ceci riscri o.

Leena, mi dispiace tanto. Non l’avevo programmato. Posso solo dirti che
è stata una specie di follia. Quando si tratta di Ethan, non riesco a
trattenermi.

Un altro ansito roco. Mi ci vuole un a imo per capire che è uscito


dalla mia bocca.
So che devi avere il cuore spezzato. Dopo la prima volta gli ho detto mai
più, ma… insomma, inutile trovare giustificazioni. Cx

Ovviamente è proprio quello che sta facendo. Santo cielo, quel


“Cx” alla fine del messaggio, come se stessimo parlando dei
programmi per il weekend… Dio, la odio, la odio la odio la odio,
sento il gusto dell’odio sulla lingua, lo sento che mi strizza le viscere.
Di colpo capisco perché gli uomini nei film tirano pugni contro il
muro quando sono arrabbiati. A frenarmi è solo la vigliaccheria e la
paura di rompermi qualcosa. Invece, stringo quella specie di vecchio
ma one di telefono nella mano sinistra finché non mi fa male: non
tanto quanto una nocca ro a, ma abbastanza. Il mio respiro
finalmente rallenta.
Quando rigiro il telefono, ho il palmo violaceo, e c’è un nuovo
messaggio di Ethan.

Leena? Dimmi qualcosa.

Mi lascio cadere sul pavimento, e la moque e mi gra a le


caviglie. Aspe o che l’emozione mi travolga di nuovo, in una nuova
ondata, ma non arriva. Invece c’è una strana specie di calma, un
distacco, come se stessi guardando un’altra donna scoprire che
l’uomo che ama l’ha tradita nel peggiore dei modi.
Gli ho dato così tanto. Ho mostrato a quell’uomo la parte di me
più scoperta, più vulnerabile. Mi sono fidata di lui come non mi ero
mai fidata di nessuno a parte i miei familiari.
Proprio non riesco a credere… a pensare che Ethan… Inspiro a
grandi boccate, e mani e piedi cominciano a formicolare. Mi sentivo
così sicura di lui. Mi sentivo così sicura.
Non odio Ceci… quello non era odio. Questo è odio.
34
Eileen

Appena la vedo, capisco che Leena conosce la verità su Ethan. Ha


un’aria sfinita, come se fosse piegata so o il peso di questa cosa.
Non posso evitare di pensare al giorno in cui Wade mi ha lasciata.
Era un buono a nulla, un essere inutile, e lo avrei cacciato anni prima
se avessi avuto un po’ di sale in zucca, ma quando se n’è andato,
almeno all’inizio, l’umiliazione è stata terribile. Era proprio questo
che provavo: non rabbia, ma vergogna.
«Leena, mi dispiace tantissimo.»
Mi bacia sulla guancia, ma i suoi occhi restano fissi sulla porta di
sua madre, e tiene in mano la chiave. Esitiamo un a imo,
preparandoci al peggio. Il mio cuore galoppa, come ha fa o per tu o
il pomeriggio: continuo a premermi la mano sul pe o come se
volessi rallentarlo. Ho una sensazione di nausea e la bile mi risale in
gola.
Leena apre la porta. La casa è buia e silenziosa, e capisco subito
che Marian non c’è.
Rimango lì impalata cercando di assimilare questa informazione
mentre Leena si sposta da una stanza all’altra accendendo le luci, il
volto serio e tirato.
“Marian non c’è” penso, con uno strano distacco. Ero così sicura
che fosse qui, che non avevo nemmeno pensato alle possibili
alternative. Eppure non c’è. Non…
«Non è qui.» Leena si ferma in mezzo al corridoio. «È una cosa
bella o bru a? Forse tu e e due? Dov’è, allora?»
Mi appoggio alla parete, poi faccio un balzo quando sia il mio
telefono che quello di Leena emanano una serie di bip. Lei è più
svelta a tirarlo fuori.
Carissima mamma e mia adorata Leena,
scusate se ci ho messo un po’ di tempo a comporre questo messaggio.
Adesso sono all’aeroporto di Heathrow, con tre ore di attesa del mio
volo e un sacco di tempo per pensare.
Quando mi sono svegliata stamattina mi è tornata in mente una cosa
che Leena mi ha detto ieri sera. Leena, hai detto: “Non sarei riuscita a
capire me stessa se non fossi stata un’altra”.
Queste ultime settimane sono state tra le più felici da un pezzo. Sono
stata contenta di riaverti in paese, Leena, più di quanto saprei esprimere:
per me è stato meraviglioso potermi prendere di nuovo cura di mia
figlia. E mamma… mi sei mancata, ma forse avevo bisogno che mi
lasciassi per un po’, così mi sono resa conto che posso stare in piedi da
sola, senza che tu mi tenga per mano. La tua assenza mi ha fatto
apprezzare ancora di più quello che sei. Sono grata per tutto quello che
avete fatto per me.
Adesso, però, sono pronta per qualcosa di nuovo. Non so più chi sono
quando non sono in lutto per Carla. Non posso essere la donna che ero
prima che mia figlia morisse. Non potrei, e non vorrei nemmeno. Quindi
devo trovare la nuova me stessa.
Io e il mio materassino yoga stiamo andando a Bali. Voglio un po’ di
pace, e sabbia tra le dita dei piedi. Voglio un’avventura, come quella che
avete avuto voi, ma che mi appartenga.
Per favore, tenetevi d’occhio a vicenda mentre sono via, e ricordatevi
che vi voglio molto bene xxx

«Bali» dico, dopo un lungo silenzio scioccato.


Leena fissa il quadro sulla parete senza vederlo e non mi
risponde.
«Non capisco» dico, scorrendo di nuovo il messaggio. «È troppo
fragile per andare in un paese straniero, e…»
«Non lo è, nonna» dice Leena, girandosi finalmente a guardarmi.
Esala lentamente. «Avrei dovuto tenerti più aggiornata, così l’avresti
capito. Non è fragile. Se l’è cavata alla grande, in quest’ultimo mese.»
Fatico a crederci, ma voglio farlo.
«Davvero, nonna. So che pensi che non mi sono resa conto di
quanto stesse male mamma e che…» Inghio e la saliva. «Hai
q g
ragione: per un pezzo è stato così, perché non sono più venuta, ed è
colpa mia. Avrei dovuto ascoltarti quando dicevi che aveva delle
difficoltà invece di limitarmi a pensare che la sapevo più lunga. Ma
posso dirti che da quando sono qui l’ho vista fare dei grandi passi
avanti. È stata bravissima.»
«Io non… ma… Bali?» dico con un filo di voce. «Da sola?»
Leena sorride e inclina la testa verso il quadro sulla parete. «Sta
andando nel suo posto felice» dice.
Guardo l’immagine. È la foto di una signora che fa yoga davanti a
una specie di tempio. Non l’avevo mai notata prima, anche se
ricordo vagamente che era appesa anche nella sua vecchia casa di
Leeds.
«Pensi davvero che sia una buona idea andare via da sola?»
«Penso che avremmo dovuto dirle di farlo molto tempo fa.» Leena
fa un passo avanti e mi accarezza le braccia. «È una bella cosa,
nonna, proprio come il periodo che tu hai passato a Londra e io a
Hamleigh. Ha bisogno di un cambiamento.»
Rileggo il messaggio. “Non sarei riuscita a capire me stessa se non
fossi stata un’altra.”
Leena ha un’aria imbarazzata. «Non ricordo nemmeno di averlo
de o. A essere sincera, ero un po’ alticcia.»
«Però hai de o qualcosa del genere, quando pensavi che ti avessi
mentito su Ethan.» Alzo la mano per impedirle di protestare. «No,
va tu o bene, tesoro. È stato uno shock… avevi bisogno di tempo.
Ma hai de o che non eri più la sua Leena.»
«Davvero?» Ha abbassato gli occhi.
«Io voglio che tu sia la tua Leena, tesoro.» Le prendo le mani.
«Meriti di stare con una persona che ti faccia sentire più te stessa,
non meno.»
Lei scoppia a piangere, e a me si stringe il cuore. Avrei voluto
proteggerla da questo, che ci fosse stato un altro modo.
«Pensavo che quella persona fosse Ethan» dice, appoggiandomi la
fronte sulla spalla. «Però in questi due mesi ho sentito… che era
diverso.» È scossa dai singhiozzi.
«Lo so, tesoro mio.» Le accarezzo i capelli. «Penso che ci siamo
tu e un po’ perse nell’ultimo anno, no?… senza Carla… e avevamo
p p
bisogno di un cambiamento per rendercene conto.»
“Bali” penso, ancora frastornata, mentre Leena mi piange tra le
braccia. Non so nemmeno dove si trovi di preciso, ma so che è
lontanissima. Marian non è mai andata più in là del Nord della
Francia. È così…
È così coraggioso da parte sua.
Si sente bussare alla porta. Sia io che Leena esitiamo. Siamo
sedute nella casa di Marian con tu e le luci accese, entrambe in
lacrime, con il trucco che ci cola sul viso. Dio solo sa che cosa
potrebbe pensare la persona alla porta, chiunque essa sia.
«Vado io» dico, asciugandomi le guance.
È Betsy.
«Sia ringraziato il cielo» dice, prendendomi le mani. «Sono venuta
appena ho saputo che Marian era nei guai.»
«Betsy?» arriva la voce di Leena. «Un a imo, ma come… in che
senso hai saputo?»
Io mi limito a stringere le mani della mia più cara amica. Ha un
aspe o fantastico. Il suo solito foulard è sparito, e indossa una
camice a a pois che la fa sembrare la Betsy Harris che conoscevo
vent’anni fa. Ci sono troppe cose da dire e per un a imo balbe o,
incerta, finché lei mi stringe la mano dicendo: «Oh, quanto mi sei
mancata, Eileen Co on».
È così con le vecchie amiche. Ci si capisce, anche quando non ci
sono abbastanza parole per tu o quello che dovrebbe essere de o.
«Mi dispiace tanto di essere stata via proprio quando avevi più
bisogno di me.» La tocco sulle guance. «Marian sta bene, alla fine.
Accomodati!»
«Comitato di vigilanza» dice una voce alle spalle di Betsy. Basil e
Penelope appaiono sulla soglia e seguono Betsy all’interno. Arriva
anche il do or Piotr, che mi dà un’affe uosa pacca sul braccio prima
di entrare.
«Tu o bene?» Ecco che spunta Kathleen. Ma santo cielo, sono tu i
qui? Ah, sì, lì c’è anche Roland che parcheggia il suo scooter. «Sono
venuta appena ho saputo.»
«Ma come avete fa o a saperlo?» chiede Leena di nuovo,
assolutamente sconcertata.
Li guardo passare davanti a lei e reprimo un sorriso. È il Comitato
di vigilanza. Sanno fare il loro lavoro.
«Tu o bene, Eileen?» mi chiede una voce familiare. Arnold varca
la soglia con insolita insicurezza. L’ultima volta che ci siamo parlati
si è offeso per chissà cosa, ma non ho l’energia per avercela con lui.
«Arnold! Entra pure» dice Leena.
Gli occhi di Arnold guizzano verso di me, come per chiedere il
permesso.
«Ma certo, entra» dico, facendomi da parte.
Lo guardo sorpresa dare un bacio sulla guancia a Leena prima di
andare in cucina. Mi ha de o che ogni tanto prendevano un caffè
insieme, in effe i, ma è comunque strano vederli comportarsi come
vecchi amici.
«Ma come hanno fa o ad arrivare, poi?» mi chiede Leena mentre
chiudo la porta d’ingresso. «Betsy abita a Knargill!»
«Quella sarebbe capace di fare l’autostop, per una vera
emergenza» dico, sorridendo dell’espressione di Leena. «Per te non
c’è problema, tesoro? Se sono qua tu i?» Le accarezzo un braccio.
«Posso dirgli di andarsene se vuoi che restiamo sole un po’.»
«Non c’è problema, credo.» Fa un respiro profondo, tremante.
«Tu, invece? Ti sei presa un bello spavento, con mamma, e poi…
quando quell’Howard si è rivelato un…»
Rabbrividisco. Ho cercato di non pensarci.
«Dunque non era… reale?» chiedo, abbassando la voce perché il
Comitato di vigilanza non mi senta. Stanno armeggiando nella
cucina di Marian; qualcuno ha messo su il bollitore. Probabilmente
hanno capito che Marian non è qui e non è in crisi, ma non danno
segno di volersene andare. «Tu o quello che ha de o sui suoi
sentimenti…»
«Questi truffatori lo fanno di continuo, nonna» dice lei con
dolcezza. «Sono simpatici e amabili e le cose procedono molto in
fre a: sembra che si stiano innamorando di te… poi a un certo punto
ti chiedono soldi. E continuano a chiederteli. È stata una fortuna che
ce ne siamo accorte prima che la cosa andasse avanti.»
Rabbrividisco di nuovo, e Leena mi stringe la mano.
«All’inizio mi aveva stupito quella sua affabilità esagerata» le
dico. «Ma poi mi ci sono abituata, ed era… gradevole.» Sospiro.
«Sono una vecchia cretina.»
«Ma non è vero! Mi dispiace un sacco, nonna, è colpa mia. Avrei
dovuto prepararti prima di sguinzagliarti nel cyberspazio. Ma
truffatori come quelli imbroglierebbero chiunque.»
«A me lui piaceva» sussurro. «Ma esisteva davvero? Si chiamava
davvero Howard?»
«Non lo so, nonna. Mi dispiace. So che è orribile essere ingannati
così. Vuoi che dica agli altri di andarsene così possiamo farci una
bella chiacchierata su tu a questa storia?» chiede Leena, lanciando
un’occhiata alla cucina.
Scuoto la testa. «No, li voglio qui» dico, raddrizzando le spalle.
«Dai, dovrei essere io a occuparmi di te, dopo la giornata che hai
avuto. Ti preparo una cioccolata calda, così puoi farti un bel pianto
sulla mia spalla.»
«Anche tu puoi piangere sulla mia, nonna, se ne hai bisogno»
dice. «In questi ultimi due mesi l’ho capito.» Mi stringe in un
abbraccio, e poi mi dice all’orecchio: «Se stai abbastanza vicino a
qualcuno puoi essere sia la spalla sia quello che piange. Capisci?».
Sento l’ironia nella sua voce; ride delle sue parole, eppure le dice
lo stesso. La Leena di due mesi fa non avrebbe mai de o una cosa
del genere.
«Dio, ecco cosa succede quando passo troppo tempo con mia
madre» dice Leena, un po’ ridendo, un po’ piangendo. «Prima che
me ne accorga inizierò a collezionare quei cavolo di cristalli.»
«Leena!» la rimprovero, ma la stringo più forte mentre lo dico, e la
strana distanza che si era creata tra noi mentre eravamo lontane
scompare e lei mi preme la guancia sulla spalla.
Si sente di nuovo bussare alla porta.
«Vado io» dice Leena, schiarendosi la gola. «Tu me i su la
cioccolata.»
Mentre vado verso la cucina, mi giro indietro.
«Leena» dice una voce profonda e ferma. «Stai bene?»
35
Leena

È Jackson. Si ferma sulla soglia; si è tolto il berre o, e lo tiene in


mano. Guardo il suo viso largo, sincero, quegli occhi azzurri gentili,
la maglia sfilacciata troppo stre a sulle spalle. Vorrei ge armi tra le
sue braccia e singhiozzargli sul pe o, ma temo che non sarebbe
saggio.
«Entra» dico invece, facendomi da parte. «C’è praticamente tu o il
paese.»
Lo accompagno in soggiorno, dove si sono riuniti i membri del
Comitato di vigilanza, appollaiati su divani e poltrone.
Jackson rimane un a imo in piedi, osservando la stanza.
«Perché le sedie sono tu e rivolte in quella direzione?» chiede.
Seguo il suo sguardo verso lo spazio vuoto in cui una volta stava
il le o di Carla. Si gira anche la nonna, e la vedo chiudere gli occhi, il
viso a raversato dalle emozioni. Poi lancio un’occhiata al cestino
nell’angolo della stanza, ed è ancora lì, quell’orrenda vecchia foto di
Carla. Avrei dovuto capire in quel momento che voglia disperata
aveva mia madre di cambiare, quanto bisogno ne aveva.
Sono presa da quell’ansia familiare di fare qualcosa, la stessa
sensazione che all’inizio mi ha spinto a scambiare la mia vita con
quella della nonna.
Forse qualcosa di meno drastico stavolta. Ma qualcosa per mia
madre.
«Ristru uriamo la casa» dico. La voce esce un po’ troppo
squillante; mi schiarisco la gola. «Mentre mamma non c’è. Un po’ di
tempo fa ha de o che le sarebbe piaciuto. Potremmo farlo noi per lei,
un restauro da cima a fondo… non… non per eliminare dalla casa
quel che resta di Carla, ma solo per… fare spazio per la nuova
persona che sarà mamma.»
p
Eileen mi sorride. «È un’idea meravigliosa. Io ho allenato un po’
le mie capacità di arredatrice. Martha mi ha insegnato un sacco di
cose.»
«Che cos’hai combinato, Eileen?» chiede Penelope, in un sussurro.
«È stato davvero così eccitante?»
La nonna incrocia le braccia. «Be’» dice. «Non so nemmeno da
dove iniziare…»

Passo un’altra no e a Hamleigh, pianificando la ristru urazione


della casa di mamma, ascoltando le novità della nonna, aiutandola a
disfare le valigie… tu o a parte pensare a Ethan. Il ma ino dopo mi
sveglio presto, così ho tempo per farmi una corsa sulle colline:
prendo in prestito un paio di vecchie scarpe da ginnastica di
Kathleen. Non c’è niente come correre in questo paesaggio. È
mozzafiato, e quando svolto sul mio sentiero preferito, quello che mi
offre una vista a 360 gradi su Harksdale, mi fa male il cuore. Vengo
a raversata da un pensiero che mi fa un po’ paura, perché dice: “Qui
mi sento a casa”.
Ma non è casa mia. Io a Londra ho una vita, a parte Ethan: ho una
carriera da salvare, un appartamento, degli amici.
“Anche qui hai degli amici” mi dice la vocina. In ogni caso, vado
alla stazione di Daredale e prendo il treno per Londra, e torno verso
il mio appartamento vuoto, dove sta la mia vita vera, perché è la
cosa più ragionevole da fare.
L’infelicità mi travolge non appena me o piede in casa. È peggio
della prima volta, perché adesso ne sono certa: la vita che avevo qui
con Ethan non esiste più. C’è il cuscino che ho comprato con lui un
sabato al Camden Market, e c’è il posto dove si siede sempre al
banco della colazione, e c’è il graffio sul parquet lasciato quando
avevamo ballato come pazzi il jazz dopo una giornata interminabile
al lavoro, e tu o questo non significa più niente. Mi accascio sul
pavimento e mi concedo di piangere.
È lì che sono quando arriva Bee.
«Ehi!» chiama dall’altra parte della porta. «Leena, fammi entrare!»
Una pausa. «So che ci sei, ti sento piangere. Fammi entrare, dai.»
Picchia sulla porta.
p
«Fammi entrare, Leena, ti sento!»
È una specie di Arnold londinese. Mi sposto di lato e allungo la
mano per aprire la porta senza alzarmi in piedi. Lei entra, mi lancia
un’occhiata e poi tira fuori una bo iglia di vino da una sporta del
supermercato.
«Andiamo, su» dice, prendendomi per un braccio. «Dobbiamo
cominciare a parlare, il che significa che dobbiamo cominciare a
bere.»

È circa l’una del ma ino seguente quando io e Bee apportiamo gli


ultimi ritocchi al nostro business plan. Questa conversazione epocale
si svolge più o meno così.
«È proprio come dice mia madre: perché deve sempre succedere
tu o a Londra, santo cielo? Neanche mi piace questa cazzo di ci à, a
te piace, Bee?»
«Qua non ci sono uomini.» Le parole le escono un po’ strozzate,
perché al momento Bee è a testa in giù, le gambe sullo schienale del
divano, i capelli sparsi sul pavimento. «Tu i gli uomini decenti sono
a Leeds. Tu i gli uomini decenti. Oh, mio Dio, ce l’ho una
babysi er?» Bee si tira su di sca o e si prende la testa tra le mani.
«Jaime è con tua madre» le ricordo, per la quinta o sesta volta da
quando è stata aperta la seconda bo iglia di vino.
Lei si lascia ricadere all’indietro. «Mmh… bene.»
Bevo un altro sorso di vino. Sono sul tappeto, con le gambe
divaricate e i pensieri che si accavallano nella nebbia dell’ebbrezza.
«Perché non ce ne andiamo, Bee? Perché non ce ne andiamo e lo
facciamo davvero? Che cazzo ci facciamo qui?»
«Intendi… filosoficamemente?» Socchiude gli occhi e ci riprova.
«Filofosicamente?» Poi, con grande divertimento:
«Filofo icamente?».
«Intendo, che ci stiamo fare a Londra, in fin dei conti? Chi dice
che dobbiamo gestire la nostra a ività da qui?» Mi strofino forte la
faccia nel tentativo di recuperare un minimo di lucidità. Ho la vaga
sensazione che quello che sto dicendo sia della massima importanza,
forse la cosa più intelligente che qualcuno abbia mai de o. «Tanto
dovremo viaggiare comunque. E ci sono un sacco di aziende a orno
gg q
a Leeds, Hull, Sheffield… io voglio stare nello Yorkshire con la mia
famiglia. Voglio stare con Hank il cane e tu a la banda, e quelle
colline, Dio, mi fanno cantare il cuore, Bee. Potremmo me ere su un
ufficio a Daredale. Bee, ti piacerà un mondo, Bee. Bee. Bee. Bee.»
Le tiro una gomitata. È completamente immobile.
«Oh, mio dio» dice Bee di colpo, abbassando le gambe e ruotando
su se stessa e finendo raggomitolata sul pavimento. «Oh, mio dio, è
un’idea così buona che mi viene da vomitare.»

Nei due giorni successivi discutiamo dei de agli un po’ più in


profondità: ci sono alcuni problemi da risolvere, non da ultimo il
grosso cambiamento che si prospe a per Jaime. Ma poco per volta
pianifichiamo tu o, così, quando torno per la prima volta negli uffici
della Selmount dopo quel terribile a acco di panico, ci vado con la
le era di dimissioni in mano.
Quando entro nel suo ufficio Rebecca mi lancia un’occhiata e
sospira. «Merda» dice. «Vuoi licenziarti, vero?»
«Mi dispiace.»
«Era un rischio, mandarti a zonzo per due mesi.» Strizza gli occhi.
Rebecca avrebbe bisogno degli occhiali, ma non è disposta a
riconoscere in sé questo segno di umana debolezza: preferisce
strizzare gli occhi. «Anche se devo dire che hai un aspe o molto
migliore. Niente che possa dire ti farà cambiare idea?»
Sorrido. «Mi sa di no.»
«Dove sei andata, allora, per i tuoi due mesi di realizzazione
personale? A Bali? Sembra essere molto in voga in questo periodo.»
Mi sforzo di non ridere. «In realtà sono stata nello Yorkshire.
Dove vive la mia famiglia. È lì che andrò, quando finisco qui: andrò
a vivere con mia nonna, se tu o va bene, e B…» Mi interrompo
appena prima di accennare ai piani di Bee di comprare una casa a
Daredale per lei e Jaime. Bee deve ancora consegnare il suo
preavviso. Anzi, sospe o che stia aspe ando come un avvoltoio
dietro la porta, pronta a entrare subito dopo che sarò uscita io.
«Ah.» Rebecca socchiude gli occhi. «Molto chic.»
Arrossisco, e lei mi lancia un’occhiata consapevole.
«Grazie» dico. «Davvero. Grazie di tu o.»
Lei mi liquida con un cenno. «Dai il meglio di te per i prossimi
due mesi, se vuoi davvero ringraziarmi» dice. «Ah… e di’ al tuo ex
di piantarla di ciondolare qui intorno quando dovrebbe vedere dei
clienti.»
«Ethan?»
«È dalle se e di stama ina che orbita a orno alla tua scrivania.»
Faccio una smorfia, e lei ridacchia.
«Gli ho de o che ti ho assegnato a un proge o con la Milton
Keynes. Immagino che stia cercando di trovare l’indirizzo giusto a
cui mandare una scatola di cioccolatini mentre parliamo.»
«Grazie» dico, un po’ diffidente. «Penso che stia cercando di farsi
perdonare. Solo che… non è una cosa che si risolva con una scatola
di cioccolatini.»
Si sente un colpo sommesso alla porta, e Ceci fa capolino. Mi
irrigidisco. Ci guardiamo, e vedo il rossore salirle dal collo alle
guance.
«Che bello che sei tornata, Leena» dice, nervosa. «Non voglio
disturbarvi. Io… torno dopo.»
La guardo sga aiolare via. Il mio cuore ba e forte, un po’ per il
disprezzo, un po’ per l’adrenalina. Una parte molto istintiva di me
vorrebbe graffiarle la faccia, ma adesso che si sta ritirando sono felice
di non averle lasciato vedere fino a che punto la odio. Basta che stia
alla larga da me per i prossimi due mesi con quelle sue gambe
interminabili. Non merita un a imo di considerazione.
«Qualsiasi cosa tu abbia fa o per guadagnarti finalmente il suo
rispe o, senza dubbio ha funzionato» commenta Rebecca, sfogliando
un mucchio di carte sulla sua scrivania.
«Credo che abbia incontrato mia nonna» dico. «Dev’essere stato
quello.»
36
Eileen

Per la prima volta da più di un decennio, vado a casa di Betsy.


All’inizio affrontiamo il fa o che ha lasciato Cliff come abbiamo
sempre affrontato questo genere di cose.
«Tè?» mi chiede, e poi dice che ha preso degli scones per coccolarci
un po’, e parliamo dei progressi che stiamo facendo con la
ristru urazione della casa di Marian.
Ma poi penso a Martha che piangeva sul divano, dicendomi
quanto si sentisse impreparata a essere madre. A Bee che mi
confessava quanto fosse difficile trovare un uomo. A Fi che mi
perme eva di scrivere liste di cose da fare e di insegnargli a
cucinare. A quanto erano dire i e aperti i miei giovani amici di
Londra.
«Come stai, Betsy?» le chiedo. «Ora che Cliff se n’è andato, non
riesco nemmeno a immaginare come devi sentirti.»
Lei sembra un po’ sorpresa, e mi guarda in modo strano mentre
mescola il la e nei tè. Poi, con una certa prudenza, risponde: «Tengo
duro».
Aspe o, prendendo il vassoio dalle sue mani e incamminandomi
verso il soggiorno. Sarà da… cosa… la fine degli anni Novanta che
non me evo piede qui dentro. C’è sempre la solita moque e con i
disegni, ma le poltrone sono nuove, due dello stesso rosa pallido che
non riesco a immaginare incontrassero l’approvazione di Cliff.
«La parte più difficile è il senso di colpa» dice alla fine, sedendosi
su una poltrona. «Non riesco a scuotermi di dosso la sensazione che
dovrei occuparmi di lui.» Mi fa un sorrisino, prendendo la
marmellata da me ere sullo scone. «E continuo a pensare a quanto
sarebbero inorriditi i miei genitori, se mi avessero vista urlare contro
mio marito là fuori, so o gli occhi di tu i.»
g
«Per quanto mi riguarda, avrei voluto esserci. Avrei fa o il tifo
per te» dico con convinzione.
Lei sorride. «Be’. La nostra Leena ti ha sostituito molto bene.»
Mangiamo i nostri scones e beviamo il nostro tè.
«Avremmo potuto e dovuto fare di più» dico. «L’una per l’altra,
intendo. Avrei dovuto fare molto, molto di più per aiutarti a lasciare
Cliff, e mi dispiace tantissimo non averlo fa o.»
Betsy sba e gli occhi per un a imo, poi me e giù il dolce o. «E io
avrei dovuto dirti di mandare Wade a quel paese trent’anni fa.»
Mi soffermo a pensarci. Probabilmente avrebbe fa o la differenza.
Avevo sempre pensato che Betsy mi avrebbe de o che avrei dovuto
stare a fianco di mio marito nella buona e nella ca iva sorte, come ci
viene insegnato.
«Ci resta ancora qualche anno» dice Betsy dopo un a imo.
«Prome iamo di immischiarci negli affari l’una dell’altra ogni volta
che lo consideriamo opportuno d’ora in poi. Che ne dici, tesoro?»
«Facciamo così» dico, mentre lei riprende in mano lo scone. «Altro
tè?»

La se imana dopo, incontro Arnold mentre sto tornando dalla casa


di Marian, che stiamo tinteggiando; Leena è qui per il fine se imana
e abbiamo finito quasi tu e le stanze del piano di so o, quindi oggi
stavo solo dando qualche ritocco agli angoli. Indosso i miei abiti più
consumati, vecchi pantaloni sfilacciati e una maglie a che me e in
mostra le braccia più di quanto vorrei.
Arnold mi rivolge un saluto rigido. «Ciao» dice. «Come stai,
Eileen?»
«Oh, bene, grazie» dico. Le cose sono un po’ strane da quando
sono tornata. Anzi, a parte il giorno che Marian è partita, non l’ho
visto quasi mai. Dopo anni che si presentava alla finestra della mia
cucina e mi chiamava da sopra la siepe, non riesco a evitare di
chiedermi se questa assenza improvvisa abbia un qualche
significato.
«Bene, bene. Okay, vado.»
«Arnold» dico, prendendolo per un braccio. «Volevo ringraziarti.
Leena mi ha de o quanto le sei stato d’aiuto, mentre io ero a
q
Londra.»
«Ti ha de o della macchina, eh?» dice Arnold, guardando la mia
mano sul suo braccio. Porta una camicia a maniche corte e la sua
pelle è calda so o il mio palmo.
«Quale macchina?»
«Ah.» I suoi occhi guizzano verso l’ammaccatura nella siepe su cui
mi sono interrogata per se imane. «Niente. Nessun problema. È una
brava ragazza, quella tua Leena.»
«È vero» dico, sorridendo. «Comunque, grazie.»
Lui si allontana in direzione del cancello. «Ci si vede» dice, e io
aggro o la fronte, perché a quanto pare questo non succede mai
negli ultimi tempi.
«Ti va di entrare?» chiedo. «Per una tazza di tè?»
«Non oggi.» Non si gira nemmeno; ha varcato il cancello e
sparisce prima ancora che possa rendermi conto che mi ha dato il
benservito.
È irritante. Per quanto io e Arnold ci siamo sempre saltati alla
gola, ho sempre pensato… ho sempre avuto l’impressione… Be’, io
non lo invitavo mai per un tè, ma sapevo che se lo avessi fa o
sarebbe venuto. Me iamola così.
Solo che ora sembra essere cambiato qualcosa.
Guardo circospe a la sua casa. È chiaro che, qualunque sia il
problema, Arnold non ha intenzione di parlarmene.
A volte, con le persone testarde come lui, non c’è altra scelta che
forzare la mano.

«Che cosa hai fa o?» ruggisce Arnold dalla finestra della cucina.
Poso il libro, a enta a infilare il segnalibro nel punto giusto.
«Eileen Co on! Vieni subito qui!»
Ha le guance paonazze per la rabbia e gli occhiali un po’ storti; mi
viene lo strano desiderio di aprire la finestra e raddrizzarglieli.
«La siepe. Non c’è più.»
«Ah, la siepe tra il mio giardino e il tuo?» dico con nonchalance,
prendendo lo straccio vicino al lavabo e dando una strofinata al
ripiano della cucina. «Già. Ho chiesto al nipote di Basil di tagliarla.»
«Quando?» chiede Arnold. «Ieri c’era!»
«Stano e» dico. «Dice che lavora meglio alla luce della torcia.»
«Non dice niente del genere» riba e Arnold, con il naso
praticamente schiacciato contro il vetro. «Sei stata tu a dirgli di farlo
di no e così non me ne sarei accorto! Che cosa ti è venuto in mente,
Eileen? Non c’è più confine! Ora c’è solo… un unico grande
giardino!»
«E non è bello?» chiedo. Faccio l’indifferente e continuo a
strofinare tu e le superfici, ma non posso evitare di guardare di
so ecchi il suo viso paonazzo. «C’è molta più luce.»
«Perché l’hai fa o, di grazia?» chiede Arnold, esasperato. «Hai
lo ato con le unghie e con i denti per tenere quella siepe quando io
volevo sostituirla con una staccionata.»
«Sì, be’, le cose cambiano» dico, sciacquando lo straccio e
sorridendogli. «Ho deciso che visto che eri così rilu ante a venire a
trovarmi te l’avrei reso più facile.»
Arnold mi guarda in cagnesco a raverso il vetro. Siamo a non più
di mezzo metro di distanza; vedo quanto sono dilatate le pupille dei
suoi occhi nocciola.
«Santo cielo» dice, facendo un passo indietro. «L’hai fa o solo per
innervosirmi, vero?» Scoppia a ridere. «Sai, Eileen Co on, non sei
meglio di un ragazzino adolescente con una co arella. E quale sarà
la tua prossima mossa? Tirarmi i capelli?»
Ho un sussulto. «Prego?» Poi, visto che non riesco a resistere: «E
poi non vorrei certo rischiare di strapparti quel poco che ne resta».
«Sei fuori di testa!»
«Fuori di testa sarai tu. Vieni qui, mi dici che ti sono mancata, poi
te ne vai e non mi parli per giorni di fila? Che problema hai?»
«Che problema ho io?» Il suo fiato appanna il vetro. «Non sono io
che ho abba uto una siepe del tu o funzionale nel cuore della
no e!»
«Vuoi davvero sapere perché l’ho fa o, Arnold?»
«Sì. Davvero.»
Poso lo straccio umido. «Ho pensato che sarebbe stato
divertente.»
Lui socchiude gli occhi. «Divertente?»
«Sì. Io e te abbiamo passato decenni a litigare su cosa era di chi, di
chi fossero gli alberi che riparavano le aiuole di chissà chi, chi avesse
la responsabilità di potare quale cespuglio. Tu sei diventato sempre
più scorbutico e io sempre più irriverente. E sai di che cos’è che
abbiamo sempre parlato in realtà, Arnold? Abbiamo parlato di quello
che è successo la primissima volta che ci siamo incontrati.»
Arnold apre la bocca e poi la chiude.
«Non dirmi che te lo sei dimenticato. So che non è possibile.»
A eggia la bocca a un’espressione severa. «Non me lo sono
dimenticato.»
Arnold era sposato con Regina, la madre di Jackson. Una donna
strana, con le spalle grandi come se il suo decennio ideale fossero gli
anni O anta, i capelli ricci e i pugni quasi sempre stre i. E io ero
sposata con Wade.
«Non è successo niente» mi ricorda Arnold.
Ho le mani appoggiate sul piano di lavoro, ai due lati del lavello.
Arnold è incorniciato da un pannello di vetro, tagliato dalle spalle in
giù come un ritra o.
«No» dico. «È quello che mi sono sempre de a anch’io. Inutile
rimuginare. Certo non serve parlarne. Visto che non è successo
niente.»
«Giusto» dice Arnold.
«Solo che è successo, non è vero, Arnold?» Il mio cuore sta
ba endo un po’ troppo forte.
Arnold alza la mano per aggiustarsi il berre o, le mani avvizzite e
callose, gli occhiali ancora storti. “Di’ qualcosa” penso. “Dillo.”
Perché io, è vero, sono un ragazzino adolescente: in questo momento
mi vergogno da morire, ho il terrore che mi dica che ho visto
qualcosa che non c’era.
«Quasi» dice lui alla fine.
Chiudo gli occhi ed espiro.
Eravamo in questa cucina, non lontano dal punto in cui mi trovo
adesso. Lui aveva portato una torta di mele che aveva preparato
Regina, con la crema pasticcera in un piccolo bricco da tè; avevamo
parlato così a lungo nel corridoio che le braccia avevano iniziato a
farmi male a forza di reggere il pia o. Lui era stato così simpatico,
un uomo così premuroso, così interessante.
Io e Wade avevamo appena comprato Clearwater Co age. La casa
era arredata appena, e cadeva a pezzi. Io e Arnold eravamo entrati in
cucina – ricordo che mi ero spanciata dal ridere, tanto che quasi mi
girava la testa – e io avevo aperto il nuovo frigo per me erci la
crema, e quando lo avevo richiuso lui era molto vicino, a pochi passi
da dove sono io ora. Eravamo rimasti così. Il cuore mi ba eva forte
anche allora. Era da così tanto che non mi sentivo così che pensavo
che la cosa fosse uscita per sempre dal mio repertorio, come riuscire
a toccarmi le dita dei piedi quando mi piego.
Non era successo niente.
Ma era quasi successo. E a me era bastato per cercare di tenere
Arnold il più lontano possibile dalla casa. Perché avevo fa o un
giuramento. A quanto pare, per Wade non significava nulla, ma per
me sì.
«Ci abbiamo preso il vizio, eh?» dice Arnold, quando riapro gli
occhi. Ha un vago sorriso. «Siamo diventati proprio bravi a odiarci a
vicenda.»
Faccio un respiro profondo. «Arnold» dico, «non ti va di entrare?»

Alla fine, non è un bacio rubato tra nuovi vicini. È un bacio lento,
prolungato tra due vecchi amici che, a quanto pare, si sono resi conto
solo adesso che è quello che sono sempre stati.
È una sensazione straordinaria, circondare con le braccia le spalle
di Arnold, premere la guancia contro la pelle calda del suo collo.
Inalare l’odore di erba tagliata e sapone dei suoi capelli e del suo
colle o. È strano e meraviglioso. Familiare e nuovo.
Dopo, quando mi formicolano le labbra, ci sediamo fianco a fianco
sul divano e guardiamo la siepe, o quel che ne resta. Arnold sta
sorridendo. Sembra rigenerato, quasi tornato in vita: tiene la schiena
molto dri a, e la mano che non stringe la mia giocherella irrequieta
in grembo.
«Porca miseria» dice, «pensa solo a cosa diranno Betsy e gli altri.»
Si gira verso di me e sorride, un ghigno sfacciato, malizioso, che lo fa
assomigliare a un bambino.
g
«Non dirai una parola» gli intimo con severità, alzando un dito
ammonitore. «Nemmeno una parola, Arnold.»
Afferra il dito tanto in fre a da farmi sobbalzare.
«Questo tono di voce con me non funzionerà più» dice,
portandosi la mia mano alle labbra per un bacio che non gli
impedisce di continuare a sorridere. «Ora so che cosa mi stai dicendo
in realtà quando mi sgridi.»
«Non sempre» protesto. «A volte te lo meriti proprio. Tipo con il
coniglio.»
«Per l’ultima volta!» ride Arnold. «Non ho avvelenato il tuo
dannato coniglio.»
«E allora com’è morto?» chiedo, confusa.
«Eileen, è stato se e anni fa. Immagino che sia troppo tardi per
un’inchiesta.»
«Maledizione. Odio i misteri irrisolti.»
«Pensavi davvero che fossi stato io?»
«A essere sincera, non ho mai pensato che potesse essere andata
in nessun altro modo.»
Lui aggro a la fronte. «Mi giudichi così male?»
Gli accarezzo il dorso della mano con il pollice, tracciando delle
linee tra i segni che l’età gli ha lasciato sulla pelle.
«Forse lo volevo» dico. «Era più facile se eri un mostro.» Alzo gli
occhi. «E tu sei stato molto bravo a fare quella parte.»
«Be’, anche tu eri da Oscar nei panni della vecchia arpia» dice.
Mi chino in avanti per baciarlo. È dolce e caldo e le sue labbra
sanno di tè senza zucchero. Non sapevo nemmeno che lo prendesse
così, fino a oggi.
37
Leena

«E ne sei sicura?» chiedo, affannata.


Io e Bee siamo sulle cycle e: mi sono resa conto nelle ultime sei
se imane che il modo migliore per sopravvivere allo stress della
Selmount è sfinirsi tu i i giorni. Andare in una palestra con l’aria
condizionata è una schifezza dopo aver corso sulle colline dello
Yorkshire: un po’ come prendere compresse di vitamine invece
che… mangiare. Ma per il momento me lo farò bastare.
«E sme ila di chiedermi se sono sicura» dice Bee, guardando nella
mia direzione. «Mai stata più sicura, amica mia.»
Sorrido e rallento, asciugandomi la faccia con la maglie a. Ci
dirigiamo barcollando negli spogliatoi, con l’affanno.
«Cosa pensa Jaime del trasloco?» chiedo, andando verso il mio
armadie o.
«È felicissima. A quanto pare nello Yorkshire ci sono un sacco di
fossili di dinosauro o qualcosa del genere.» Bee alza gli occhi al cielo,
ma non mi inganna.
«Mike lo ha già conosciuto?» chiedo.
«No, no» dice Bee, con espressione seria. «Non sa nemmeno che
esiste una cosa chiamata Mike.»
«L’uomo per cui ti trasferisci al Nord? Non sa che esiste?»
Lei mi colpisce con l’asciugamano. Caccio un urlo.
«Sono contenta che tu ti sia trascinata fuori dal pozzo della
disperazione legata a Ethan abbastanza da ricominciare a rompermi
le palle, ma non potresti piantarla con questa storia? Non mi sto
trasferendo al Nord per Mike. Anzi, in sostanza mi sto trasferendo al
Nord per te.»
Faccio un’espressione mortificata. «Hai ragione. Scusa.»
Andiamo verso le docce.
«Solo che per una fortunata coincidenza ci sarà anche Mike» dico
velocissima prima di chiudermi nel cubicolo della doccia.
«Sei perfida come tua nonna!» mi urla dietro Bee.
«Grazie!» strillo a mia volta, sorridendo mentre giro il rubine o
aprendo l’acqua al massimo.

Quella sera, quando torno all’appartamento, lo trovo pieno di


scatoloni, e la ga ara semicalva della porta accanto è seduta davanti
al televisore a guardare una macabra serie di Netflix sui serial killer.
Mi fermo sulla soglia, perplessa. Mi giro verso Fi , che è in piedi
in cucina, e si sporge su una pila di scatole per raggiungere
l’apribo iglie.
«Letitia?» dice, in risposta alla mia espressione. «Già, ormai siamo
migliori amici.»
«Tu…» Mi giro di nuovo per guardare Letitia. «Mi scusi, salve…»
dico, ricordandomi le buone maniere.
Lei stacca gli occhi dal televisore, mi rivolge un sorriso educato e
poi torna alla storia dello smembramento di una giovane donna.
Guardo di nuovo Fi .
«E gli scatoloni?» gli chiedo, visto che non mi fornisce altre
informazioni. «Pensavo che non avessi ancora trovato un posto dove
andare…»
Nelle ultime se imane questa per me è stata una notevole fonte di
stress. Fi non ha dato segni di preoccuparsi, di voler trovare nuovi
coinquilini o un altro posto in cui vivere; ora che Martha se n’è
andata e io mi sto trasferendo al Nord non può assolutamente
perme ersi l’affi o.
«Ah, già, in realtà ne ho parlato con Eileen» dice Fi , aprendosi la
birra.
«Mia nonna Eileen?»
«Sì.» Fi mi guarda come se fossi un po’ o usa. «Certo. Mi ha
suggerito di trasferirmi da Letitia. Il suo appartamento è incredibile,
pieno di pezzi di antiquariato e roba vintage. Tu i i mobili del Silver
Social Club vengono da lì.»
Ho avuto il primo assaggio del circolo un paio di se imane fa. È
stata senza dubbio la cosa più carina che abbia mai visto, dopo
p p
Samantha Greenwood vestita da satsuma. Gli artisti lunatici
dell’interno 11 insegnavano pi ura, la donna scontrosa dell’interno 6
dava passaggi, e Fi coordinava il tu o con sorprendente efficienza.
A essere sincera non mi ero resa conto di quanto potesse essere
brillante quando lavora a qualcosa che ritiene davvero importante.
La se imana scorsa si è candidato a un posto come organizzatore di
eventi per un’importante associazione benefica. Quando l’ho de o
alla nonna lei ha cacciato un urlo molto poco da nonna e ha fa o
persino un balle o.
«Quindi ti trasferisci… nell’appartamento di fianco? Con…
Letitia?» dico, cercando di capacitarmi.
«Ho deciso che le vecchie e sono le coinquiline migliori» dice
Fi . «Di solito sanno cucinare, perché negli anni Cinquanta le donne
dovevano sorbirsi quel compito e continuano a farlo. Sono sempre
brutali e mi dicono se il mio look non funziona, o almeno quelle che
ho incontrato sono così. E stanno in casa tu o il giorno, cosa perfe a
se devi farti recapitare dei pacchi!» Alza la bo iglia di birra nella mia
direzione. «Grazie per avermi illuminato, signorina Co on junior.»
«Non c’è di che» dico, ancora sconcertata.
«Stasera che cosa ti me i?» chiede lui.
Faccio una smorfia. «Di solito farei scegliere qualcosa da Martha,
peccato che al momento sia, come dire, un tantino impegnata.»
È la festa di fidanzamento di Martha e Yaz. Vanessa sembra avere
trasformato Yaz da spirito libero in compagna a tempo pieno nel giro
di poche se imane. Yaz ha chiesto a Martha di sposarla con Vanessa
in braccio, e hanno già deciso l’irresistibile completino a fiori della
piccola.
«Sai che ci sarà anche Ethan?» dice Fi .
Sento un vuoto allo stomaco. «Merda. Giura!»
Fi mi offre una birra di consolazione. «Mi dispiace. Tipico di
Yaz. Lo aveva sulla lista degli invitati prima che vi lasciaste e così ha
premuto INVIO sull’e-mail, e quello non si perde certo un’occasione
per vederti.»
Mi strofino la faccia. «Posso non venire?»
Fi lascia andare un sospiro decisamente teatrale. «Alla festa di
fidanzamento di Martha e Yaz? Leena Co on! Viene persino tua
nonna! Arriva dal remoto Yorkshire!»
«Lo so, lo so…» gemo. «Va bene, dai. Dobbiamo trovare un look
mozzafiato, come minimo. Ciao, Letitia!» dico, passandole davanti.
«Piacere di averti conosciuta.»
«Shh» dice lei, indicando la tivù.
«Te l’ho de o» dice Fi mentre andiamo verso il mio guardaroba.
«Che sono brutali.»
38
Eileen

Sto andando alla festa. Ma prima devo fare una piccola deviazione
per andare a prendere qualcuno.
Negli ultimi due mesi ho scoperto molte cose sorprendenti su
Arnold. Dorme con un pigiama di seta viola che sembra appartenere
a un conte vi oriano. Diventa intra abile se passa troppo tempo
senza mangiare, e poi mi dà un bacio ogni volta che glielo ricordo. E
gli piace leggere Charles Dickens e Wilkie Collins, ma non aveva mai
le o Agatha Christie finché non ha iniziato a dedicarsi alla mia lista
di libri preferiti sul sito di incontri online. Quando me lo ha
confessato, è stato così adorabile che l’ho portato subito a le o.
Ma il fa o più interessante di tu i è che Arnold Macintyre è una
miniera di pe egolezzi su Hamleigh. Come risultato di una delle sue
soffiate più intriganti, adesso sono sulla soglia di Jackson
Greenwood, vestita nella mia tenuta da londinese: stivali di pelle,
gonna pantalone verde bo iglia e un morbido maglione color crema
che Tod mi aveva comprato come regalo di addio.
«Ciao, Eileen» dice Jackson venendo ad aprire. Non sembra
particolarmente sorpreso di vedermi alla sua porta così in ghingheri,
ma in fondo, ora che ci penso, non sono certa di aver mai visto
Jackson sorpreso per niente.
«Posso entrare?» dico. È un po’ sfrontato, ma non ho molto
tempo.
Lui si fa da parte. «Ma certo. Gradisci un tè?»
«Sì, grazie.» Vado verso il suo soggiorno, che a sorpresa è molto
ordinato e ben arredato. Il tavolino di legno è una nuova aggiunta
dall’ultima volta che sono stata qui; c’è sopra un libro aperto,
intitolato Pensieri lenti e veloci. Dietro un cancelle o, Hank scodinzola
entusiasta nel giardino d’inverno. Gli do una gra ata alle orecchie,
a enta a non lasciarlo avvicinare al mio bel maglione.
«La e, uno zucchero» dice Jackson, posando la tazza su un
so obicchiere mentre vado verso il divano. Non avrei mai pensato
che Jackson fosse il tipo da so obicchieri, devo dire. Sfioro il legno
del tavolino e rifle o su quanto poco sappiamo dei nostri vicini,
anche quando siamo delle ficcanaso in piena regola.
«Ethan è fuori gioco» dico, una volta seduta.
Jackson, che si sta dirigendo verso la poltrona, si blocca a metà
strada. Solo un’esitazione momentanea, ma abbastanza da far
scivolare un goccio di tè lungo il fianco della tazza, sul tappeto so o
il tavolino.
Si siede. «Ah» dice.
«Aveva una storia con l’assistente del capo di Leena.»
Le sue mani si contraggono nervosamente. Stavolta il tè gli si
versa sulle ginocchia: impreca tra sé, alzandosi per andare a
prendere uno straccio in cucina. Aspe o, guardandogli la schiena,
assorta.
«Leena lo ha scoperto?» chiede infine dalla cucina, sempre senza
guardarmi.
«L’ho scoperto io. L’ho informata. Lei lo ha mollato subito.»
Guardo il tè. «L’adulterio è una delle cose che non è disposta a
tollerare.»
A quel punto lui mi guarda, un’occhiata comprensiva. Io faccio
finta di niente. Non sono qui per parlare di me e Wade.
«Sto andando a Londra, a una festa, e ci sarà anche lei. Ho
pensato che forse avresti voglia di venire.»
«Io?»
«Già.»
Poi Jackson sospira. «Arnold te l’ha de o» dice.
«Già. Ho dovuto estorcerglielo con la forza, quindi non
prendertela con lui.»
«Figurati. Tanto metà del paese sa cosa provo per lei. Ma…
andare a Londra?» chiede Jackson, gra andosi la testa. «Non sarà
eccessivo?»
«Dipende. Ci sono cose che non le hai de o?»
p
«In realtà…» Si siede di nuovo, con quelle manone giganti avvolte
a orno alla tazza finché non vedo solo il ricciolo del vapore che sale
dal tè. «Gliel’ho de o alla festa del calendimaggio. Quello che
provavo.»
«Ah, sì?» Questo Arnold non me l’aveva de o. «E lei che cos’ha
de o?»
«Ha de o che non mi vede in quel modo.»
Mmh. Non è questo che mi ha raccontato Betsy, e dell’occhio di
Betsy mi fido quando si tra a di a razioni sul nascere. Le voci
diffuse da lei non sono quasi mai sbagliate.
«Dopo mi sono vergognato» dice Jackson. «Lei ha… aveva un
ragazzo.»
«Sì, okay» dico sbrigativamente. «Di questo non dobbiamo più
preoccuparci, ce ne siamo liberati.» Gli do una pacca sul braccio. «Se
lei non ti vede in quel modo, allora devi cambiare il modo in cui ti
vede. Vieni a Londra. Vestiti elegante. Hai presente quando, nei film,
la ragazza si me e in gran tiro per una festa e scende le scale al
rallentatore senza gli occhiali e con i capelli raccolti e un pezzo di
gamba scoperta e l’uomo è ai piedi delle scale, a bocca aperta, come
se non riuscisse a credere di non averla mai vista così?»
«Ovvio. Quindi?» chiede Jackson.
«Tu devi essere quella ragazza. Su. Ce l’hai un completo?»
«Un completo? Io… C’è quello che ho indossato al funerale di
Davey.»
«Non hai qualcosa di meno… funereo?»
«No. Ho dei bei pantaloni e una camicia.»
«Andranno bene. E lavati i capelli, c’è mezzo albero lì in mezzo.»
Porta una mano alla testa, tirando fuori il ramoscello di un
qualche sempreverde. «Oh» dice.
«Fai la doccia, vestiti e partiamo. Possiamo andare alla stazione di
Daredale con la tua auto?»
«Sì, certo, ma…» Deglutisce. «È una buona idea?»
«È un’o ima idea» gli dico convinta. «Adesso da i una mossa.»

Quando arrivo Fi mi bacia sulla guancia, poi rimane di sasso


vedendo Jackson.
«Ma lui è Arnold?» chiede, portandosi una mano al pe o.
Scoppio a ridere. «È Jackson» dico. «Il figliastro di Arnold.
Innamorato di Leena» aggiungo in un sussurro, anche se forse non è
stato discreto come pensavo perché, dietro Fi , Martha fa ooooh e
prima che me ne accorga ha preso Jackson per un braccio e ha
avviato quella che sembra una conversazione molto privata.
La festa è una ressa formicolante di corpi; sussulto mio malgrado
al muro di musica martellante quando entriamo. Ci troviamo in un
bar so o le arcate della stazione di Waterloo, e il rumore riecheggia
dall’alto, cavernoso soffi o mentre giovani stilosi gironzolano con le
bo iglie di birra.
«Oh, porca miseria» borbo a Jackson dietro di me, sfuggito alle
grinfie benevole di Martha. «Ma questo è…»
«Non preoccuparti» gli dico, accarezzandogli un braccio. «Se ti
senti fuori posto, immagina solo come mi sento io.»
Mi guarda. «Non so perché ma tu sembri quasi nel tuo elemento.»
«Lo so» dico, disinvolta. «Stavo solo cercando di farti sentire
meglio. Vieni, andiamo a cercare Leena.»
Siamo una coppia insolita mentre ci facciamo strada tra la folla,
una vecchie a e un giovane gigantesco che camminano a bracce o.
Sono lieta di constatare che Jackson si è messo in ghingheri. Ha la
camicia aperta sul collo, perfe a sulle spalle, e anche se indossa un
paio di scarpe di cuoio molto consumate, l’effe o complessivo è
davvero notevole. Combinato con i capelli puliti e i pantaloni
eleganti, non potrà che a irare l’a enzione di Leena.
«Eileen?»
Mi giro, sorpresa, e mi trovo davanti l’espressione a dir poco
tormentata di Ethan Coleman.
«Che diavolo ci fai qui?» gli sibilo.
Accanto a me sento Jackson raddrizzare le spalle, diventando
ancora più alto, addiri ura più largo. È una cosa molto virile. Mi
guardo intorno in fre a, sperando che Leena sia in vista, ma non ho
fortuna.
«Sono qui per Leena» dice Ethan. «Eileen, ti prego, devi capire…»
«Non devo fare proprio niente del genere» dico, trascinando
Jackson per un braccio. È come cercare di spostare un blocco di
p p
cemento. «Vieni.»
«Sei qui a dare la caccia a Leena, eh?» chiede Ethan a Jackson,
arricciando le labbra. «Lo avevo capito la prima volta che ti ho visto.
Ma lei non è il tuo tipo, bello. O meglio, tu non sei il suo.»
Jackson resta immobile. Lo tiro per un braccio, ma, di nuovo, non
succede niente: è ben piantato per terra.
«E questo cosa vorrebbe dire?» chiede Jackson a Ethan.
«Non preoccuparti» dice Ethan, facendo per andarsene. «Ci
vediamo.»
Il braccio di Jackson sca a in avanti. Ethan va a sba erci contro e
rimane senza fiato.
«Se hai qualcosa da dire, dillo» dice Jackson. Suona calmissimo.
Però… è tu o piu osto emozionante. Dove si è ficcata Leena
quando uno ha bisogno di lei?
«Io non ho niente da dirti» risponde Ethan, scosso. «Togliti di
mezzo. Vado a cercare Leena.»
«Che cosa vuoi da Leena?»
«Secondo te?» sbo a Ethan.
«Fammi indovinare» dice Jackson. «Pensi ancora di avere una
possibilità con lei. Pensi che Leena tornerà sui suoi passi e ti
perdonerà… sei il suo punto debole, vero? E te le ha sempre fa e
passare tu e. Non capisci perché stavolta dovrebbe essere diverso.»
«Non sai di cosa stai parlando.»
Jackson fa spallucce. «Spero che tu abbia ragione. Buona fortuna,
bello, ma spero che lei ti dica dove devi ficcartela.» Si gira verso di
me. «Andiamo, Eileen?»
«Andiamo» dico, e ci facciamo strada tra la folla, lasciando Ethan
alle nostre spalle.
«Allora» mi chiede, «chi troverà Leena per primo secondo te?»
Sbuffo. «Io sono Eileen Co on e lei è Eileen Co on. Ho vissuto la
sua vita e lei ha vissuto la mia.» Mi ba o le dita sulla tempia. «È un
sesto senso, Jackson. Non capiresti.»
«No?»
«No. È un legame complesso, come quello tra…»
«A quanto pare, siamo dire i al bar» osserva Jackson.
«Tu dove andresti se avessi appena scoperto che il tuo ex è alla
festa di fidanzamento della tua amica? O qui o davanti allo specchio
del bagno, a sistemarsi i capelli… ooh, ma non è bellissima?» esclamo,
individuandola al bancone.
Indossa un lungo vestito nero che le la lascia le braccia scoperte; al
polso porta uno splendido bracciale d’argento, ma non le serve altro.
Ha dei capelli magnifici, portati come dovrebbe fare sempre, sciolti,
sparsi, pieni di vita.
Sbircio Jackson. La sta guardando a bocca aperta. Il suo pomo
d’Adamo va su e giù. Bisognerebbe essere pazzi per non capire cosa
sta pensando quest’uomo.
«Leena» chiama Ethan dalla nostra sinistra, sgomitando tra la
folla.
Impreco so ovoce. «Quel piccolo mascalzone!» sibilo, cercando di
spingere Jackson in avanti. «Presto, prima che…»
Jackson rimane dov’è e scuote la testa. «Non così» dice.
Sbuffo, ma rimango dove sono. Al bar, Leena sta cercando di
liquidare Ethan. Ha le guance rosse – adesso si alza, cerca di
allontanarsi –, viene verso di noi…
«Senti, Ethan» dice, girando sui tacchi. «Ti avevo dato un
lasciapassare, no? Non sapevo nemmeno di averlo fa o, ma tu sì.
Avevo deciso che eri l’uomo per me, fine della storia. Be’, a quanto
pare quel lasciapassare scade, Ethan: c’è un confine e tu l’hai
superato, cazzo.»
«Leena, stammi a sentire…»
«Non so che cosa sia peggio! Andare a le o con la mia arcinemica
o dirmi che mia nonna stava andando fuori di testa! Hai un’idea di
quanto mi hai incasinato?»
«Ero in preda al panico» piagnucola Ethan. «Non volevo…»
«La sai una cosa? La sai? Sono quasi felice che tu sia andato a le o
con Ceci. Ecco. L’ho de o. Sono contenta che tu mi abbia tradito
perché grazie a dio sono rientrata in possesso delle mie facoltà e mi
sono resa conto che non eri affa o la persona giusta per me. Non per
questa me, la me che sono adesso, non più. È finita.»
E con queste parole parte a passo di carica e va praticamente a
sba ere contro Jackson.
Lui la afferra per un braccio mentre inciampa all’indietro. I loro
occhi si incontrano. Lei ha le guance rosse, le labbra socchiuse.
A orno a noi la folla si muove, nascondendo Ethan alla vista,
lasciando una piccola isola di tranquillità proprio qui. Solo per loro
due.
E me, in effe i…
«Jackson?» dice Leena, sconcertata. Lo squadra da capo a piedi.
«Oh, wow, sei…»
Tra engo il respiro, una mano sul cuore. Ecco che arriva.
«Strano» finisce Leena.
«Strano?» sbo o. «Oh porca miseria, bimba!»
Entrambi a quel punto si girano verso di me.
«Nonna?» Leena sposta lo sguardo da me a Jackson, poi si volta
all’indietro, come ricordandosi di Ethan. Socchiude gli occhi. «Che
sta succedendo?»
«Niente» mi affre o a dire. «Jackson aveva voglia di fare un
gire o a Londra, e così ho pensato, stasera c’è una festa e…»
I suoi occhi si riducono a due fessure.
«Oh, guarda» dico con fare baldanzoso mentre un membro dello
staff esce dal magazzino a fianco del bar. «Venite di qua un a imo.»
Prendo Leena e Jackson per mano e li trascino. Per fortuna mi
seguono. Li porto nel magazzino.
«Ma che… nonna, dove…»
Io sga aiolo fuori e chiudo la porta.
«Ecco fa o» dico, strofinandomi le mani sulla gonna pantalone.
«Non molte se antanovenni sarebbero così sca anti, se posso farmi i
complimenti da sola.» Tocco la spalla di un signore nelle vicinanze.
«Mi scusi» dico. «Le spiacerebbe appoggiarsi su questa porta?»
«Nonna?» chiama Leena da dentro. «Nonna, che stai facendo?»
«Mi sto immischiando!» esclamo giuliva. «È il mio nuovo
“hobby”!»
39
Leena

Questo bugiga olo è davvero minuscolo. È anche circondato di


scaffali, quindi non c’è niente a cui appoggiarsi; io e Jackson siamo
molto vicini, ma senza toccarci, come se fossimo su un vagone della
metropolitana.
Che gioco sta facendo mia nonna? Abbasso gli occhi, cercando di
arretrare, e i miei capelli sfiorano la camicia di Jackson. Lui tra iene
il fiato, si porta una mano alla testa e mi dà una gomitata alla spalla.
«Scusa» diciamo in coro.
Rido. Il suono esce troppo stridulo.
«È colpa mia» dice Jackson alla fine. Mi azzardo a guardarlo;
siamo così vicini che devo piegare il collo per guardarlo in faccia.
«Non avrei dovuto lasciarmi convincere a venire.»
«Ma tu sei… venuto per vedere me?»
A quel punto, lui mi guarda. Siamo così vicini che i nostri nasi
quasi si toccano. Non so se ho mai sentito così forte la presenza di
qualcuno, fisicamente, voglio dire… sento ogni fruscio mentre si
muove, avverto il calore del suo corpo a pochi centimetri dal mio.
«Certo» dice, e di nuovo il cuore inizia a ba ermi all’impazzata.
C’è qualcosa in lui. Anche con i capelli tu i scarmigliati e la
schiuma da barba secca dietro l’orecchio è così sexy. Sarà
l’involontaria sicurezza che irradia, come se fosse se stesso in tu o e
per tu o e non potesse riuscire a essere qualcun altro nemmeno
volendo.
«Però» continua «non è così che immaginavo di rivederti. È stato
un cambio di programma dell’ultimo minuto. Mi sa che mi sono
fa o incantare da Eileen.»
La sua mano sfiora la mia. Sussulto, e i suoi occhi scrutano il mio
viso, ma non è un’obiezione, è una reazione alla scossa che mi
a raversa quando la sua pelle viene a conta o con la mia. Lascio che
le mie dita si intreccino alle sue, e mi sento una scolare a che passa i
suoi se e minuti in paradiso con il ragazzino per cui ha una co a da
tu o l’anno.
«Che cosa avevi programmato? Prima?» chiedo. L’altra mia mano
trova la sua.
«Be’, non sapevo quanto avrei dovuto aspe are prima che tu
scaricassi quel tuo ex. Ma pensavo che alla fine avresti avuto
buonsenso, e quando così fosse stato, avrei aspe ato una quantità di
tempo appropriata…»
Le sue labbra sfiorano le mie, con la massima delicatezza, non è
ancora un vero bacio. Tu o il mio corpo reagisce; sento la pelle d’oca
sulle braccia.
«Tipo sei se imane?» dico.
«Avevo immaginato sei mesi. Ma a quanto pare sono impaziente»
sussurra Jackson.
«Quindi avresti aspe ato sei mesi, e poi…»
Le nostre labbra si toccano di nuovo, un altro quasi-bacio, un po’
più profondo stavolta, ma le sue labbra si sono allontanate prima che
possa restituirlo. Muovo le dita fra le sue, stringendolo più forte,
sentendo i calli sui suoi palmi.
«Senza vergogna… avrei fa o uso di tu i gli strumenti a mia
disposizione» dice, la voce roca. «Avrei convinto i ragazzi della
scuola a cantarti quella canzone di Ed Sheeran, Thinking Out Loud,
avrei mandato Hank in giro con un mazzo di fiori in bocca, ti avrei
cucinato un brownie a forma di cuore. Lo avrei bruciato, nel dubbio
che lo facessi così perché ti piace.»
Rido. A quel punto lui mi bacia, un bacio vero, con le labbra
schiuse, la lingua che assapora la mia. Mi abbandono contro di lui, le
nostre mani ancora intrecciate lungo i fianchi, e mi me o in punta di
piedi per baciarlo meglio, e a quel punto, quando non riesco più a
resistere oltre, gli lascio andare le mani e gli circondo con le braccia
le spalle larghe, premendo il corpo contro il suo.
Jackson sospira. «Non sai quante volte ho immaginato come
sarebbe stato, stringerti così» dice, premendomi le labbra sul collo.
Sospiro quando bacia la pelle sensibile dietro l’orecchio. «Forse ci
ho pensato anch’io» confesso.
«Ah, sì?» Lo sento sorridere. «Allora ti piacevo davvero. Avresti
potuto darmi un segnale. Ho avuto una strizza pazzesca tu a la
sera.»
Scoppio a ridere. «Mi hai a izzato per mesi. Mi sorprende che
non ti sia reso conto che mi ero presa una co a per te.»
«Ah… è per questo che hai perso il mio cane e hai sfondato il
pulmino della scuola?»
Gli stampo un bacio sulla mandibola, sentendo il ruvido della
barba non fa a so o le labbra. «No» dico. «Quello è perché sono un
disastro.»
Fa un passo indietro e appoggia la fronte alla mia. «Non sei un
disastro, Leena Co on. Non ho mai incontrato un essere umano che
sia così poco un disastro.»
Mi scosto un po’ per guardarlo bene in faccia.
«Che cosa pensi che facciano le persone quando perdono
qualcuno? Che… vadano avanti come se niente fosse?» Mi scosta i
capelli dal viso. «Stavi guarendo. Stai ancora guarendo. Forse sarai
sempre intenta a guarire. E va bene così. Sarà parte di quello che ti
rende la persona che sei.»
Poso la guancia sul suo pe o. Lui mi bacia sulla testa.
«Ehi» dice. «Dimmi ancora quella cosa che ti ho a izzato.»
Sorrido. Non so come spiegare il modo in cui mi fa sentire
Jackson, quanto sia liberatorio stare con una persona che è così fino
in fondo se stessa, così priva di maschere.
«Quando sei qui, anch’io sono qui» dico, guardandolo da so o in
su. «E questo è straordinario, perché per la maggior parte del tempo
io sono altrove. A guardarmi indietro o a guardare avanti,
preoccupandomi, facendo piani o…»
Lui mi bacia sulle labbra finché tu o il mio corpo formicola.
Vorrei strappargli di dosso la camicia e toccare i peli sul suo pe o e i
muscoli sodi delle sue spalle e contare le lentiggini sulle sue braccia.
Invece lo bacio di nuovo, voracemente, senza fiato, e lui mi fa fare un
passo indietro tanto che mi trovo contro la porta, il suo corpo contro
il mio. Ci baciamo come adolescenti, le sue mani tra i capelli, le mie
che stringono la stoffa della sua camicia.
Poi – uuufff – la porta si apre, e ci troviamo catapultati all’indietro.
L’unica cosa che ci impedisce di cadere è il braccio di Jackson che
sca a ad agguantare lo stipite: io mi aggrappo a lui, con i capelli
sugli occhi, mentre la musica della festa ci investe. Sento risate e
acclamazioni, e anche una volta che ho ritrovato l’equilibrio tengo il
viso nascosto contro il suo collo.
«Leena Co on!» esclama Fi . «Sei sfacciata quanto tua nonna!»
Io rido, staccandomi da lui e girandomi verso la folla intorno a
noi. Vedo l’espressione di mia nonna: mi guarda raggiante, con in
mano un enorme gin tonic.
«Mi sgriderai per essermi immischiata?» urla.
Mi appoggio a Jackson, le mani a orno alla sua vita. «Sai una
cosa? Stavolta non posso biasimarti, nonna. A parti invertite, avrei
fa o esa amente la stessa cosa.»
Epilogo
Eileen

Sono passati quasi sei mesi da quando Leena si è trasferita a


Hamleigh; o o da quando Marian se n’è andata. E due anni dal
giorno che Carla è morta.
Siamo all’aeroporto di Leeds, per aspe are l’arrivo dell’ultimo
membro del gruppo. Leena ha organizzato tu o: la sala comunale è
addobbata di margherite e gigli, i fiori preferiti di Carla, e
mangeremo pasticcio di carne e poi brownies per dessert. Abbiamo
invitato persino Wade, anche se per fortuna lui ha preso l’invito per
quello che era – una pura formalità – e ha declinato.
Qui all’aeroporto di Leeds, Samantha gira l’angolo di corsa,
scrutando la folla che aspe a intorno a noi. Vede prima Jackson, ed è
fa a… si me e a correre verso di lui, la chioma bionda che rimbalza
mentre sfreccia tra la folla e si ge a tra le sue braccia aperte.
«Papà! Papà!» urla.
Marigold segue la figlia a passo più lento. A sua difesa, nessuno
potrebbe muoversi velocemente con quei tacchi assurdi.
«Ciao, Leena» dice, allungandosi a baciare mia nipote sulla
guancia. Marigold sembra rilassata, e il sorriso che rivolge a Leena
sembra sincero.
È tu a opera di Leena. Samantha passerà qui le prossime qua ro
se imane, poi tornerà in America con sua madre dopo Natale. Leena
si è lavorata Marigold per se imane: ventilando la proposta piano
piano, con grande calma, eliminando gli ostacoli uno per uno. C’ero
anch’io quando, un mese fa, ha de o a Jackson che Marigold aveva
acce ato di fermarsi più tempo a Natale. Se è possibile che un uomo
appaia distru o e guarito allo stesso momento, è questa l’aria che
aveva Jackson. Ha abbracciato Leena così forte che ho temuto che
soffocasse, invece lei ne è uscita rossa e radiosa, il viso proteso in alto
per baciarlo. Non mi sono mai sentita così orgogliosa.
Torniamo a Hamleigh-in-Harksdale in convoglio, il pick-up di
Jackson in testa, e io su Agatha, la Ford Ka, che adesso, grazie ad
Arnold, ha l’aria condizionata funzionante. La neve copre le cime
delle colline e costella i vecchi mure i di pietra che a raversano i
campi. Provo un amore ardente, intenso per questo luogo che è
sempre stato casa mia, e vedo Leena sorridere allo Yorkshire quando
passiamo davanti al cartello “Benvenuti a Hamleigh-in-Harksdale”.
Adesso anche per lei questa è casa.
Il Comitato di vigilanza sta preparando la sala quando arriviamo.
Salutano Marigold e Samantha come due eroi di guerra, il che
mostra quanto l’assenza non faccia che aumentare l’affe o, perché
Basil e Betsy sparlavano di Marigold come se fosse Maria Maddalena
prima che lei si trasferisse in America.
«Ehi, ragazzi! Avete fa o un lavoro incredibile» dice Leena,
saltellando.
Betsy, Nicola, Penelope, Roland, Piotr, Basil e Kathleen le stanno
tu i sorridendo, e dietro di loro Martha, Yaz, Bee, la piccola Jaime,
Mike e Fi stanno facendo lo stesso. Ci sono tu i: la figlia di Betsy,
l’ex moglie del do or Piotr, persino il signor Rogers, il padre del
parroco.
Arnold entra dietro di noi, le braccia piene di tovaglioli che
a endono di essere distribuiti sul lungo tavolo che troneggia al
centro della sala. «Stai facendo gli occhi dolci al signor Rogers, eh?»
chiede, seguendo il mio sguardo. «Ricorda che dev’essere una barba
a le o.»
Gli do una gomitata. «Oh, ma taci! Non posso credere che tu mi
abbia convinto a mostrarti quella lista!»
Arnold ridacchia e torna ai tovagliolini. Lo guardo allontanarsi,
con un sorriso. “Mi odia quanto lo odio io” avevo scri o di Arnold
sulla lista. Be’. Alla fine era quasi la verità.
«Nonna? Volevi dire due parole prima che mangiamo?» chiede
Leena, mentre tu i si siedono.
Guardo verso la porta. Quando mi rigiro, l’espressione di Leena
rispecchia la mia, immagino: entrambe ci speravamo. Ma non
p g p
possiamo aspe are ancora.
Mi schiarisco la gola e vado a capotavola. Io e Leena siamo al
centro, con una sedia vuota tra noi.
«Grazie a tu i per essere venuti qui oggi a festeggiare la nostra
Carla.» Mi schiarisco di nuovo la gola. Potrebbe essere più difficile di
quanto pensassi. Adesso che sono qui a parlare di Carla, capisco
quanto sarà dura non me ermi a piangere. «Non tu i la
conoscevate» dico. «Ma quelli che la conoscevano ricorderanno che
persona allegra, trascinante fosse, quanto amasse essere sorpresa, e
quanto amasse sorprenderci. Penso che sarebbe sorpresa di vederci
tu i qui, adesso. Io ne sono felice.»
Tiro su con il naso sba endo rapidamente gli occhi.
«Carla ha lasciato un… Non conosco nemmeno le parole per
descrivere il vuoto che ha lasciato nelle nostre vite. Una ferita, un
cratere, non so. Sembrava… sembrava così impossibile che potessimo
continuare a vivere senza di lei.» Adesso sto piangendo, e Arnold mi
passa uno dei tovagliolini. Mi ci vuole qualche istante per
riprendermi. «Molti di voi sanno che qualche mese fa io e Leena ci
siamo presi un piccolo sabbatico dalle nostre vite, e che per un po’
abbiamo vissuto l’una al posto dell’altra. Questo periodo ci ha fa o
capire che entrambe ci stavamo perdendo una parte di noi stesse.
Forse questa parte ci aveva lasciato insieme a Carla, o forse molto
prima, non saprei dirlo. Ma dovevamo tornare insieme… non solo
l’una con l’altra, ma tornare alle persone che eravamo.»
Si sente un rumore provenire dalla soglia. Tra engo il fiato. Le
teste si girano. Non riesco a guardare, ci spero tanto che mi fa male,
ma quando sento Leena eme ere un verso a metà tra un sospiro e
una risata capisco tu o.
Marian sembra così diversa. Ha i capelli tagliati corti e tinti di
biondo platino, che spiccano sull’abbronzatura; indossa pantaloni
stampati con lo sbuffo alla caviglia, e anche se i suoi occhi sono pieni
di lacrime, sorride. Non vedevo quel sorriso – quel sorriso, quello
vero – da tanto tempo che per un a imo ho l’impressione di vedere
un fantasma. Lei è in piedi sulla porta, una mano sullo stipite, in
a esa.
«Vieni, mamma» dice Leena. «Ti abbiamo tenuto un posto.»
p
Senza guardare cerco la mano di Arnold mentre le lacrime
iniziano a scorrere, scivolandomi sulle guance e appannando gli
occhiali mentre mia figlia si siede sulla sedia vuota vicino a me.
Avevo un po’ paura che non sarebbe mai tornata, e invece eccola
qua, radiosa.
Faccio un respiro spezzato e proseguo. «Quando le persone
parlano del lu o, dicono sempre che non tornerai mai quello di
prima, che ti cambierà, che lascerà un vuoto nella tua vita.» Adesso
la mia voce è strozzata dal pianto. «E queste cose sono vere, senza
dubbio. Ma quando perdi qualcuno che ami, non perdi tu o quello
che ti ha dato. Lui lascia qualcosa in te.
«Mi piace pensare che, morendo, Carla abbia lasciato a ogni
membro della sua famiglia un briciolo del suo fuoco, del suo
coraggio. Altrimenti come saremmo riuscite a fare tu o quello che
abbiamo fa o quest’anno?» Guardo Leena e Marian, deglutendo a
fatica. «Mentre noi arrancavamo, cercando di imparare a vivere
senza di lei, ho sentito la presenza di Carla qui.» Mi ba o sul cuore.
«Mi ha dato una spinta quando ho rischiato di perdermi d’animo. Mi
ha de o che potevo farcela. Mi ha portata a ritrovare me stessa. Oggi
posso dire con certezza che sono la Eileen Co on migliore che sia
mai stata. E spero… spero…»
A questo punto Leena si alza, mentre mi sporgo sul tavolo, le
lacrime che mi colano sulle guance. Solleva il calice.
«Al diventare le donne migliori che possiamo essere» dice. «E a
Carla. Sempre a Carla.»
A orno a noi, tu i ripetono in coro il suo nome. Io mi siedo, le
gambe che tremano, e mi volto verso Marian e Leena. Quegli scuri
occhioni dei Co on mi guardano, e io mi vedo rispecchiata in essi, in
miniatura, mentre Marian tende le mani e ci lega tu e di nuovo.
Ringraziamenti

È il momento dei ringraziamenti, e questo è emozionante, perché significa che


sono davvero riuscita a scrivere un secondo libro! Fiuuuu. Non ditelo alla Quercus
ma non è che fossi proprio sicura di farcela.
Tanto per cominciare, non avrei potuto scrivere O o se imane per cambiare vita
senza il sostegno di Tanera Simons, la mia agente, che ha la misteriosa capacità di
rendere tu o migliore con una sola telefonata. Non avrei potuto scriverlo senza
Emily Yau, Christine Kopprasch, Cassie Browne ed Emma Capron, che sono state
tu e mie editor durante il percorso di questo romanzo, e lo hanno reso più efficace
in innumerevoli modi. Un ringraziamento speciale a Cassie, che ha scelto questo
libro quando era ancora un abbozzo e se l’è preso a cuore: mi hai dato davvero la
spinta, Cassie.
Per pubblicare un libro ci vuole un paese intero, e la Quercus è un paese così
pi oresco da rivaleggiare con Hamleigh-in-Harksdale. Il loro impegno e la loro
creatività mi stupiscono sempre. Vorrei rivolgere un ringraziamento speciale a
Hannah Robinson, per essere sempre stata corre a con me e avermi coperto le
spalle, e a Bethan Ferguson, che ha puntato tanto in alto con i miei libri. E quanto
alle meravigliose Hannah Winter ed Ella Patel… che cosa posso dire? Senza di voi,
ragazze, sarei perduta. Le eralmente, mi sa. Siete due stelle.
Ai Taverner: vi ringrazio così tanto per avermi accolto, per aver reso la mia
scri ura più forte e per avermi appoggiato. Peter, grazie per aver risposto a infinite
domande di lavoro con tanta pazienza; Amanda il drago, e tu e le altre mie
adorabili amiche consulenti, perdonatemi se ho preso dei pezzi del vostro lavoro e
poi li ho capovolti perché stavano meglio nella trama. Sono i pericoli dell’essere
amici di una scri rice…
Ai volontari e ai commensali del Well-Being Lunch Club: è una gioia assoluta
incontrarvi ogni lunedì. Mi avete ispirato, sia per questo libro, sia per la mia vita in
generale… mi sento così fortunata di conoscervi.
Grazie alle mie nonne, Helena e Jeannine, per avermi mostrato che le donne
possono essere molto coraggiose e forti a qualsiasi età. E grazie a Pat Hodgson, per
aver lasciato da parte il giardinaggio per leggere una stampata piena di refusi
della prima stesura, e per l’entusiasmo nell’incontrare un personaggio “della tua
annata”, come ha brillantemente de o. Sei un modello per me.
Mamma e papà, grazie per avermi ricordato di fidarmi del mio talento. E Sam,
grazie per avermi fa o continuare a sorridere. È una fortuna incredibile essere
sposata con un uomo che può ridere di una scena divertente anche quando l’ha
le a per la quinta volta… e aiutare con i de agli medici.
Vorrei anche ringraziare le blogger, le giornaliste e le libraie che si fanno in
qua ro per diffondere la voce sulle storie che amano. Gli autori sarebbero perduti
senza di voi, e vi sono così grata del vostro appoggio.
Infine, grazie a te, caro le ore, per aver dato una possibilità a questo libro. Spero
che anche tu sia rimasto assolutamente incantato da Eileen Co on…
Questo ebook contiene materiale prote o da copyright e non può essere copiato,
riprodo o, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico,
o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente
autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o
da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi
distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione
delle informazioni ele roniche sul regime dei diri i costituisce una violazione
dei diri i dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente
secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
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prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo
consenso scri o dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere
alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni
incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni
dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi
analogia con fa i, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

www.librimondadori.it

O o se imane per cambiare vita


di Beth O’Leary
Copyright © 2020 Beth O’Leary Ltd
© 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: The Switch
Ebook ISBN 9788835702450

COPERTINA || GRAPHIC DESIGN: CHIARA BRAMBILLA |


ILLUSTRAZIONI © STUDIOHELEN.CO.UK
Sommario

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
O o se imane per cambiare vita
1. Leena
2. Eileen
3. Leena
4. Eileen
5. Leena
6. Eileen
7. Leena
8. Eileen
9. Leena
10. Eileen
11. Leena
12. Eileen
13. Leena
14. Eileen
15. Leena
16. Eileen
17. Leena
18. Eileen
19. Leena
20. Eileen
21. Leena
22. Eileen
23. Leena
24. Eileen
25. Leena
26. Eileen
27. Leena
28. Eileen
29. Leena
30. Eileen
31. Leena
32. Eileen
33. Leena
34. Eileen
35. Leena
36. Eileen
37. Leena
38. Eileen
39. Leena
Epilogo. Eileen
Ringraziamenti
Copyright

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