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Non so più cosa fare.

Scrivo un altro racconto su google documenti, così che si salvi in


automatico. Uso la mail della scuola, e chissà se i prof si fermano mai a leggere i nostri
documenti quando si annoiano. Troverebbero tutti gli argomenti di verifiche future già pronti
ad essere copiati, con titoli dai nomi a dir poco fantasiosi dati dai miei amici, da Lesbicone e
i Nibba per Saffo e Alceo, Galileo Galigay (si spiega da solo), Piocity (pienza) fino a tempi
più moderni con Paro e Alfio, e le immancabili Versionocis. Per non parlare della Sicula
vacanza, che cercavano di organizzare ed è fallita per mancate adesioni. La mia per prima.
Ce n’erano molte altre, ma sospetto che abbiano cambiato i titoli. Forse per decenza, perché
dovevano inviarle a qualche prof. o compagno di classe meno stretto. In ogni caso, è un
peccato: quei titoli sarebbero stati uno dei ricordi più belli del liceo, se mai avessero avuto il
tempo di diventare ricordi. Ho già perso il filo del racconto, o meglio dei miei pensieri,
dunque cerco di recuperarlo. Volevo parlare di solitudine, l’evergreen di ogni scrittore. Come
inizio è un po’ melodrammatico, e già mi vergogno, però non so cosa farci. Cerco di non
pensarci, ma sono alcuni giorni che mi trovo nel mezzo di un periodo di “visione dall’alto”
della mia vita. Di solito, cerco di evitare questi momenti in cui mi fermo a riflettere sulla
direzione che sto prendendo, sui miei comportamenti, ecc. Li trovo pensieri troppo
autocentrati, quasi come fossi la protagonista di un film e mi stessi comportando da main
character della mia stessa vita. Questa è una dei “crimini” di cui negli ultimi anni sento più
spesso essere accusate molte ragazze, che io stessa accuso in realtà. Però la sera al
tramonto, mentre una musica indie malinconica scorre nelle orecchie e stiamo tornando a
casa, passeggiando sul lungofiume e ripensando a un appuntamento, o a una visita andata
male nel mio caso, è impossibile non fermarsi, affacciarsi a guardare l’acqua fumando una
sigaretta e sentirsi al centro del mondo. Per un attimo, la telecamera si sofferma sul mio
viso, mentre la voce narrante riassume la trama degli episodi precedenti, accompagnata da
un fiume di immagini in sottofondo.
Sabato pomeriggio, quattro amiche in un bar sul greto del fiume. Le guardo a distanza,
attraversando il ponte. Sono in ritardo di un’ora, come mi fa notare tra l’ironico e il disperato
la Vale. Mi cede il suo posto e si alza insieme all’amica che si è portata dietro: sono le 8
ormai, deve andare. Sorrido imbarazzata, ricomincia il discorso.

FOGLI DELL’ASTUCCIO
6/01/2021+15/05/2022
“Voglio gridare. Voglio morire. Voglio farmi male fino ad attirare l’attenzione dei miei genitori,
seduti in salotto a guardare un documentario con mia sorella. Un documentario. Stasera è
questo che mi ha scatenato una crisi. La cena era andata bene, molto. Mia madre mi ha
persino permesso di mangiare un arancio piccolo perché ha detto che ero stata brava. Mi ha
permesso di andare a prendere una coca zero alle macchinette sotto casa, per la seconda
sera di seguito. E mi è anche tornato il ciclo, le cose vanno da dio. Allora perché mi sento
morire dentro?”
Interrompo le mie dita sulla tastiera, il gesto ripetitivo per cui ormai avevo preso gusto si
spezza, e devo ricominciare a pensare a cosa scrivere dopo. Perché i miei pensieri
prendono completamente un’altra direzione rispetto alla pagina di diario che sto ricopiando a
computer dopo più di un anno. Lì proseguivo sfogando la mia ansia di perdere la verginità,
per poi passare ad altri argomenti che non ricordo. Ma è troppo difficile, impossibile quasi,
ripetere un ragionamento seguendo lo stesso filo rosso, soprattutto dopo così tanto tempo.
Eppure, queste prime frasi mi hanno colpito, perché sento ancora tutto quello che ho scritto,
e mi chiedo come sopravvivere. Dopo un anno di alti e bassi mi avvicino ancora a quella
meta un po’ indefinita che è la salute mentale, perlomeno la fine dei miei problemi alimentari,
perlomeno imparare a mangiare da sola. In un anno e mezzo i programmi sono cambiati e
l’obiettivo non è più avere un peso normale ma mantenere il leggero sottopeso che ho ora
imparando a vivere senza bisogno di essere nutrita dai miei genitori. Insomma, le cose
sembrano andare leggermente meglio, faccio qualche pasto fuori e forse vado in gita con la
scuola. Questi piccoli progressi sono tante pugnalate al petto, piccoli mostriciattoli che
saltellano nella mia testa dicendomi che non sono malata abbastanza, che non so nemmeno
non mangiare, che non so essere anoressica, che non ho disturbi e sono una bugiarda
schifosa e i miei genitori e le persone care stanno facendo una gran confusione per nulla. Mi
gridano di smettere di mangiare, riperdere peso, dimostrare a tutti che non sto guarendo ma
sono ancora malata, ancora speciale. Ieri sera mia madre e mia sorella erano fuori a cena, e
quando sono rientrate io sonnecchiavo prima di uscire per andare a ballare. Per più di 10
minuti le ho ascoltate parlare di un’amica di mia sorella che è diventata anoressica da pochi
mesi, e confrontare i nostri comportamenti, ignare della mia presenza. Loro dicevano che
per fortuna io stavo migliorando, mi vergognavo di più e nascondevo il problema, non ero più
messa così male, ma tutto quello che riuscivo a sentire era che non mi impegnavo
abbastanza, l’Emma (l’amica di mia sorella) era più brava e in gamba di me, che sapeva
farsi vedere. A me non notava nessuno, mi nascondevo, non ero abbastanza forte né
speciale. Fingevo, e nemmeno bene. Poi è suonata la sveglia e mi hanno visto andare in
bagno, in silenzio. Con l’acqua che scorreva, le sentivo parlottare preoccupate in sottofondo,
senza riuscire davvero a concentrarmi su altro che non fosse la mia risoluzione di perdere
peso, diventare uno scheletro fin quando sarebbe stato impossibile dire che non ero
anoressica grave, non andare in gita. Dimostrare che ero malata anche io, speciale e
tormentata anche io. Già truccata e munita di lenti a contatto, non potevo piangere, né mi
interessava. Perché quando non mi sento fiera di me, o nel giusto, ma solo fuori posto,
vorrei aprirmi la pelle, far fuoriuscire grasso e sangue dalle mie gambe troppo grosse, dalle
braccia poco muscolose, dalla pancia che non sempre è scolpita. Allora mi taglio, e ogni
passata del coltello freddo sulla pelle porta un po’ di sollievo, mi calma. Il dolore fisico mi
assicura che soffro, e tutti lo possono notare. Con un improvviso lampo di vergogna ricordo
le occhiate perplesse rivolte alle mie gambe, i più coraggiosi che chiedevano come mi fossi
procurata tutte quelle cicatrici. A volte andando in montagna, e ho anche un gatto molto
aggressivo. Ma il pensiero passa, e ogni taglio è un sorso di acqua fresca, mi solleva un
peso dal petto. Non voglio fermarmi, tornare nel mondo reale, rimettermi i pantaloni e andare
a ballare sorridendo. Ridendo e chiacchierando. Vorrei solo sfondarmi di alcol, ma ho anche
mangiato stasera e dunque non riuscirei a compensare le calorie. Per quanto continui, non
vedo sangue e mi sento sempre più un fallimento. So che tra un’ora mi faranno male tutte le
gambe e non aspetto altro. Mi chiamano i miei amici, tra dieci minuti passano a prendermi.
Sollevata di non essere stata io a cedere, mi alzo e vado in bagno. Sanguino sulle cosce, i
polpacci, sotto la pancia. Mi tampono sorridendo ed infilo i jeans e il top estivo. Senza
piangere esco di casa in silenzio e prendo l’ascensore. Il tempo di scendere due piani il mio
sorriso rosso copre tutte le lacrime che mi si agitano dentro.

6/01/2021
Voglio gridare. Voglio morire. Voglio farmi male fino ad attirare l’attenzione dei miei genitori,
seduti in salotto a guardare un documentario con mia sorella. Un documentario. Stasera è
questo che mi ha scatenato una crisi. La cena era andata bene, molto. Mia madre mi ha
persino permesso di mangiare un arancio piccolo perché ha detto che ero stata brava. Mi ha
permesso di andare a prendere una coca zero alle macchinette sotto casa, per la seconda
sera di seguito. E mi è anche tornato il ciclo, le cose vanno da dio. Ma io non voglio il cibo,
tra due giorni dovrei scopare per la prima volta e ho il ciclo. Non bestemmio perché non so
se si possa bestemmiare in un libro, e già scrivo veramente male. Ci ho messo 3 mesi,
troppo tempo, a superare l’ansia da prestazione, non sicura di saper ancora fare una sega, e
altri tre mesi per un pompino. Qualche settimana dopo, ubriaca a capodanno, ho mandato a
Pietro degli audio lasciando capire, non proprio sottilmente, che volevo fare sesso. Perché è
così. Lo voglio, lo devo fare. Ho paura che questa relazione finisca prima e non riesco ad
analizzare lucidamente i miei sentimenti prima di essermi tolta questo peso. Ho 16 anni, e
sinceramente ho sempre temuto che avrei scopato più tardi, faticando a trovare qualcuno.
Non è stato così, ma non basta. Lo amo? Non lo so. La verità è che ho sempre avuto paura
dell’intimità di una relazione, rompendole appena sentivo di dovermi aprire più del
necessario e preferendo i flirt senza conseguenze durati una sera. Eppure amo sentirmi al
centro dell’attenzione di qualcuno, come tutti. Amo sentirmi viva, e ci riesco solo così. Con
un’amica, abbiamo stilato un elenco di tutte le volte in cui ci siamo sentite “vive” durante
l’ultimo anno: inutile dire che erano sempre occasioni in cui flirtavamo, o eravamo al centro
dell’attenzione per qualche avvenimento, o semplicemente ubriache e fatte. Insomma, leggo
troppo Bukowski. La mia scrittura varia a seconda dell’autore preferito del momento e in
questo periodo è troppo cruda, rispolvera le parti più comuni di me, quella di molte ragazze
affamate di attenzioni e fama che meritano poco, se con compatimento. Di Bukowski ce n’è
uno solo, non posso sperare di riuscire a dire qualcosa sottolineando la cruda brutalità dei
miei sogni di sedicente successo sociale, mio e di molte altre. Perlomeno, non da sobria o
da viva. Cercando metodi facili e poco dolorosi per suicidarsi, mi sono imbattuta in un
articolo che spiegava come non sia possibile morire “nel sonno”. Quest’espressione è un
eufemismo per il suicidio oppure per una morte causata da un attacco di cuore, che dunque
sveglia il futuro morto. Alla fine, resta forse il modo migliore di morire. O quello, o la
ghigliottina. Penso che l’inesistenza della morte nel sonno sia un chiaro segnale dell’umana
tendenza a concludere ogni esperienza, o narrazione, con un lieto fine. “E’ morto sereno”,
“Era tranquillo, dormiva”. Purtroppo, sono cazzate. Non si muore bene. Si muore, punto.
Magari lo desideriamo da tempo, una scorciatoia fin troppo evidente ad una vita che non
riusciamo o non ci sentiamo più di vivere. Ma non preferiamo la morte, la scegliamo perché
è l’unica possibilità, l’unica via di fuga. Per quanto stanchi della vita, a 100 anni o a 15, per
un momento, appena prima di morire, vorremo disperatamente vivere. Respireremo
affannati, così forte da inghiottire anche i pochi attimi di vita rimasti. Ma è tardi, è già finita.
Sai che il tuo corpo è prossimo ai 21 gradi quando hai così caldo da gettarti nudo nella neve,
e a 21 gradi muori. Sarebbe bello morire d’ipotermia, molto coraggioso. Nessuno lo fa di sua
volontà, anche se forse qualcuno ci ha provato. Ma ci vuole troppo, anche per la volontà più
ferrea. Sarebbe meglio suicidarsi sotto sedativi, ma con metodi creativi. Esperimenti
volontari per vedere fin dove può arrivare la sopportazione umana ad un dolore
ingiustificato. Ma divago, e se prima ero solo superficiale e patetica ora divento inappropriata
e grottesca. Soprattutto patetica. Eppure so di avere qualcosa da dire. Nel frattempo, è finito
l’attacco di panico. In realtà d’ansia, ma mi hanno detto che se è leggero e dura più di
mezz’ora è di panico. Ironico come abbia un problema col cibo da più di 4 anni e ricominci a
stare male come agli inizi ora che dovrei avvicinarmi alla fine (copio questi appunti un anno
e mezzo dopo averli scritti e non è ancora cambiato nulla). “Ho un problema col cibo” non
“Sono anoressica”. Perché non lo so. Mi hanno diagnosticato un disturbo alimentare ma mia
madre ha rifiutato una diagnosi più approfondita, o perlomeno che io ne venissi a
conoscenza, così che adesso non posso nemmeno attribuire una validità clinica ai miei
attacchi e alle mie paure, alle cicatrici sulle gambe che si sbiancano ma non scompariranno.
Ma quando devo combatterli, sono una pazza anoressica. Dunque 23/24 h sono una pazza.
In realtà, penso solo di essere una ragazza problematica, spaventata dalla mia testa ed
ancor di più da come sarei senza queste voci che mi sussurrano continuamente, e alla fine
mi tengono compagnia. Non so chi sarò a 30 anni, neuroni bruciati e un illustre futuro da
giornalista/professoressa universitaria davanti. Mediocre successo e niente che valga la
pena ricordare. Non c’è nulla che odi di più della mediocrità, vivere una vita senza sforare
dai contorni, senza nessuno che conosca il tuo nome, senza memoria. Improvvisamente, da
16enne ambiziosa svegliarmi 50enne e perfettamente dimenticabile. Magari felice, brava nel
mio lavoro o madre soddisfatta di quattro figli. Fossi anche entrambe, non basta. Ciò che
ripeto in ogni tema scolastico sul cyberbullismo e i social network è vero: oggi i ragazzi
temono la mediocrità, il buio dietro le quinte. Non cerchiamo il successo economico e la
scalata sociale che per i nostri genitori erano indice di successo, anzi. E’ nostro il rifiuto della
borghesia: o successo, o lento e doloroso struggimento. Perché non è una scelta tra
struggimento e successo, ma tra questo e il fallimento: lo struggimento arriva e il successo
non esiste, solo il fallire della nostra ambizione, solo la tempistica da scegliere.

7/01/2021
Sto male, è in arrivo una crisi che non so se riuscirò ad arginare. E’ come se fossi sdoppiata,
la crisi prorompe e d’improvviso prende il sopravvento, spazza via come fossero fuscelli tutte
quelle preoccupazioni che fino ad un minuto prima mi sembravano importanti. E io assisto,
mentre costruisco la mia diga contro il tempo. Vuoto improvviso, e non so più cosa scrivere.
A pensarci bene, non so scrivere. Se cerco di liberarmi di tutti i fronzoli a favore di una
scrittura sincera, si rivela brutalmente un lato di me che di solito ci tengo a trascurare e
sembro competitiva, arrabbiata, superficiale, disperata. Ancor peggio quando sento quello
che scrivo risuonare vuoto e falso. Ed è l’unica cosa che non sono. A volte mi sento così
piena di idee, pensieri, bugie, ambizioni, paure e progetti che temo di esplodere e dover
continuare a vivere così, in pezzi. Perché quando mi sarò ricomposta, tutti si accorgeranno
che senza le mie ansie e paure sono solo una gruccia vuota. Non sarò mai capace di
riuscire senza e non so se ho altro.

8/01/2021
Oggi ho ridotto molto, come ieri. Oddio, non molto. Invece di 1800 ieri ho mangiato 1500, ma
la settimana scorsa mangiando solo 100 Kcal in meno al giorno ho perso un Kg. E’ quasi un
sollievo mettere nero su bianco tutti i numeri, i calcoli che mi ronzano in testa sempre
presenti come le mosche d’estate. A volte li dimentico per 10 minuti e subito li ripeto, come
avessi paura di dimenticare. Alzheimer delle calorie. Allora è vero che i veleni a piccole dosi
sono medicine. Anche oggi avevo…
Poi è finita la pagina, e ho strappato quella seguente, probabilmente per paura che i miei
genitori la trovassero in una delle loro sortite di esplorazione dei miei nascondigli, insieme a
qualche bottiglia di coca-cola zero e avanzi di cibo che ho nascosto per non mangiare.

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