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La diagnosi di autismo m’è arrivata a 47 anni, leggera leggera come una mattonata in

faccia.
Ho sempre avuto, fin da molto piccola, la consapevolezza di essere in qualche modo
diversa dalle bambine e in seguito le adolescenti della mia età, ma mi era impossibile
capire cosa avessero loro che io non avevo. Mi era però chiarissimo cosa avessi io
che loro non avevano.
Se a me piaceva una cosa dovevo sapere tutto sull’argomento. Tutto significa
qualsiasi cosa. Adesso c’è San Google Prega Per Noi, tiri fuori il telefonino e scopri il
mondo, ma io sono nata negli anni ’70 e il massimo che avevo da ragazzina era la
biblioteca locale.
Mia madre aveva un misto di reverenza e terrore per il mio amore per la conoscenza.
Passava dal “che bello, lei è intelligente, capisce tutto, prima che inizi l’anno
scolastico s’è già letta tutti i libri e praticamente vive di rendita” a “perché diavolo sta
ragazzina si chiude in camera a chiave e passa delle ore dentro a studiare scrivendo
riassunti su riassunti anche se gli insegnanti non lo chiedono?”.
Come tutti gli Asperger sono una persona poco socievole. E questo riguarda qualsiasi
persona, pure quelle che mi hanno fatto nascere.
I miei genitori hanno sempre visto come un difetto la mia incapacità di rapportarmi
con le persone e di legare con loro. Al punto che arrivai a sentirmi difettosa perché le
ragazzine e i ragazzini della mia età stabilivano facilmente amicizie e non mancava
l’occasione di farmi notare che io ero impacciata e che gli altri non mi accettavano.
Non che a me importasse granché, ho imparato presto che le persone sono difficili da
capire, che invece di dirti le cose usano la versione verbale dei rebus (ti do degli
indizi vaghi e devi capire cosa voglio da te).
Ma loro avevano deciso, supportati anche dall’opinione di alcune insegnanti che mi
definirono in una pagella “introversa e timida patologica”, che io DOVEVO essere
inserita in un gruppo. Non era accettabile che trascorressi il mio tempo leggendo i
libri cartonati sugli insetti regalo della zia e li ricopiassi ossessivamente a mano o con
la macchina da scrivere.
Io dovevo vedere le persone e frequentarle e avere piacere nel farlo.
Mi iscrissero ad un gruppo giovanile al quale ovviamente il mio autismo mi impedì di
partecipare con piacere: la mia intolleranza a tutto quello che è artificiale ed inventato
mi impediva di apprezzare il lato ludico e quello educativo, che vivevo come
un’imposizione nella mia vita di cose che mi davano fastidio. C’è da dire che
sinceramente i membri di quello specifico gruppo avevano l’antipatica abitudine di
ficcanasare in modo eccessivo su quella che era la tua vita privata.
Quando arrivava il momento del campeggio estivo per me era il peggiore dell’anno,
seguito dal migliore, quello in cui mi sedevo in macchina e tornavo a casa mia.
Immaginate di avere problemi a rapportarvi con le persone e problemi sensoriali e di
dover vivere due settimane circa all’aperto, in mezzo agli insetti, con il caldo,
mangiando cose che non vi piacciono, dovendo capire al volo cose spiegate
approssimativamente, obbedendo a regole arbitrarie che considerate senza senso, con
i vostri orari stravolti, obbligati a un contatto strettissimo e a volte un po’ disgustoso
con un numero eccessivo di sconosciuti che ti dicono quello che devi fare.
Iniziavo a manifestare il mio disagio già settimane prima e per me preparare lo zaino
era un’esperienza entusiasmante al pari di quella che poteva provare la presunta
strega portata davanti al Tribunale dell’Inquisizione.
I miei genitori non hanno mai capito che mandarmi lì per me era un’esperienza
pessima. Non accettavano che potesse esserlo, perché i miei neurotipicissimi fratellini
adoravano lo questa associazione, erano popolari tra i suoi membri, avevano trovato
lì un sacco di amici e quindi per forza di cose il problema ero io che facevo un sacco
di storie per partecipare a una cosa che loro ritenevano utile per me.
Non c’era molta scelta in casa mia. Fondamentalmente loro decidevano e io facevo,
che volessi o meno. Da anni chiamo tra me e me mia madre “il Fuhrer”, non l’ha mai
saputo, penso che si offenderebbe.
Diventata ragazza e mollato per fortuna quell’incubo di associazione il terrore di
Fuhrer & consorte per la mia possibile frequentazione di quelle che loro definivano le
cattive compagnie esplose in tutto il suo delirio quasi mistico, ma ormai io ero
cresciuta, studiavo all’università, ero molto brava anche se indietro con gli esami, e
avevo trovato un lavoretto. Non potevano impedirmi di uscire e avevo capito
guardando un film che il modo migliore di non destare curiosità era dare il minimo
dei dettagli su quello che facevo.
Sono sempre stata una pessima bugiarda, e dopo ripetute volte in cui mi andò male
imparai a scrivermi cos’avevo detto per non perdere i pezzi della mia immaginaria
vita fuori di casa.
Il loro problema è che le esperienze che avrei dovuto fare da ragazzina finii a farle
dieci anni dopo, e se ci penso adesso la curiosità morbosa che mi venne di conoscere
direttamente quello che ai miei dava il sacro terrore avrebbe potuto costarmi non dico
la pelle, ma magari qualche volta antipatici contatti con le forze dell’ordine… ebbi
però la fortuna dalla mia parte e la smisi di frequentare gente improbabile, anche
perché quel che avevo voluto capire l’avevo capito e motivi per andare in giro con
gente più strana di me non ne avevo più.
Ai miei non andò bene mezzo dei ragazzi che frequentai, ci provai un paio di volte a
parlarne, ogni volta finì in una stratosferica rottura di scatole e a quel punto non dissi
più nulla, preferii i commenti “se ti succedesse qualcosa e sparissi non saprei
nemmeno dire alla polizia dove cercarti” ai giudizi non richiesti da gente che vedevo
ma non avevo alcuna intenzione di portare a casa.
Finché succede che ne conosco uno che mi piace più degli altri, e con tutta la
sprovvedutezza che l’Asperger mi porta in dote decido che dopo 15 giorni è il caso di
andare a vivere insieme. Quando tempo pochi mesi comunico a mia mamma che ci
sposiamo – sulla porta di casa, così, con la nonchalance di chi sta dicendo che mi
vado a comprare un libro alla bancarella – ne succedono di tutti i colori. Al punto che
nessuno della mia famiglia viene al mio matrimonio, che peraltro non è finito
benissimo anche se dopo vent’anni ci sentiamo ancora tutti i giorni.
Sono ventun anni che non vivo più insieme ai miei genitori, sono solo cinque mesi
che so di essere autistica, immediatamente lo dissi anche a loro.
Mio padre non ha mai commentato questo fatto.
Mia madre subito si è scusata per cose fatte nell’ignoranza “che tu avessi dei
problemi” (si, è vero, ho dei problemi e uno potreste ad esempio essere voi), per poi
passare a una fase “ti parlo come se fossi una bambina deficiente” con picchi di “però
accidenti riesci a gestire un sacco di cose senza problemi, io non so come fai”.
Se vuoi te lo spiego, è che se anche sono stressata o nervosa o stanca o alterata non
me ne rendo conto perché, se escludiamo la paura o il dolore fisico le volte che lo
sento (ho rischiato di partorire in strada perché non sapevo di avere le doglie, tanto
per capirci) io le mie emozioni non le ho mai capite quindi vivo come se non
esistessero.
Ma vedete, nonostante tutto questo, io penso che abbiano fatto quello che potevano
fare, considerati i mezzi culturali, il fatto che negli anni ’80 in Italia di Sindrome di
Asperger non se ne sapesse nulla, che gli autistici fossero considerati esclusivamente
quelli che adesso definiamo di livello 3… Non penso avrebbero potuto immaginare
che la ragazzina intelligente ma socialmente impedita avesse una neurodiversità,
quindi mi sento di dire che si, alla fine non m’è andata poi così male.

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