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COLLANA UN CUORE PER CAPELLO

Xmas disaster

Di Emma Altieri

Novella di Natale
Pubblicato da Pubme © – Un cuore per capello
Prima edizione 2021

Progetto grafico e impaginazione: Asia


Pichierri Editing: Federica Beato
Correzione di bozze: Asia Pichierri
Questa è unʼopera di fantasia.
Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.
È vietata la riproduzione completa o parziale dellʼopera ai termini e
alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto
esplicitamente pre-visto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).
Prologo

Eccomi qui. Sono di nuovo io, l’aliena! Dove eravamo rimasti?


Giusto, al “Sì, lo voglio!”.

Ho finalmente trovato l’amore della mia vita ma, perché c’è sempre
un ma, non tutto è andato liscio come l’olio.

Sono diciotto anni che siamo sposati. Grande traguardo visti i tanti
casini che abbiamo incontrato sulla nostra strada, ma l’amore ha
continuato a guidarci.
Ho superato i quarant’anni da un po’ ma non lasciatevi ingannare,
combino ancora disastri di proporzioni cosmiche. Alla fine, sono
diventata una donna adulta e responsabile: sono una moglie e una
brava casalinga, quando non lavoro. Abbiamo comprato la nostra
prima casa e stipulato un mutuo che si estinguerà fra un triliardo di
anni.

Diciamo che ci siamo sicuramente presi le nostre soddisfazioni. È


dura, però, ricordare anche quello che abbiamo perso. Dopo pochi
anni dal matrimonio, mio suocero ci ha lasciati per colpa di un brutto
male che lo ha colpito e se l’è portato via in poco tempo. Era un
uomo molto buono e la sua assenza ha sconvolto alcuni equilibri che
hanno portato a deteriorare i rapporti con la famiglia di Riccardo.
Guardando indietro, posso affermare che i momenti belli sono
comunque stati più di quelli bui ma tutto ha lasciato un segno
profondo nella nostra vita.
Tralasciando comunque le cose tristi, posso dirvi anche un’altra cosa
con certezza: sono sempre la solita sbadata, goffa, testarda e
combinaguai che conoscete bene.
Non ci credete? Allora facciamo così, io vi racconto il mio disastroso
viaggio di Natale e voi, alla fine, mi direte se non ho ragione.

Mettetevi comodi, ci sarà da ridere!


Capitolo 1
Dieci giorni a Natale
Quella mattina, in ufficio, tutto sembrava scorrere a rilento. Più
cercavo di portare avanti il lavoro e più succedeva qualche
imprevisto che mi rallentava.
Eravamo sposati da pochi mesi ed era stato difficile abituarsi ai
nuovi ritmi. Non c’era più mia madre, quando tornavo dal lavoro, con
la casa sempre in ordine e la cena pronta in tavola. Io e Riccardo
avevamo dovuto reinventare la nostra quotidianità, e ancora
pagavamo per aver deciso di vivere insieme. I turni diversi e gli orari
impossibili ci mettevano spesso in crisi, ma era bello, comunque, la
sera ritrovarsi nella nostra casetta. Avevamo affittato un
appartamentino che incarnava la classica denominazione “due cuori
e una capanna”. Era una piccola dimora, ma l'avevamo resa la
nostra bomboniera. Alla fine, non avevamo bisogno di grandi spazi
ma di qualcosa solo nostro dove poterci rifugiare al termine delle
estenuanti giornate di lavoro.

Mancavano un paio di settimane alle vacanze di Natale e non


vedevamo l’ora di ritagliarci un po’ di tempo solo per noi. Riccardo
avrebbe comunque lavorato ma almeno io sarei stata a casa ad
aspettarlo con succulenti piatti, degni per celebrare le feste.

Tutto avrei potuto immaginare, tranne quello che mi si parò di fronte


aprendo la porta dello studio.

Il mio capo era davanti a me con il braccio destro ingessato fino alla
spalla. Sorrideva mentre io cambiavo .
«Buongiorno Silvia, tutto bene oggi?»

Lo fissai sbigottita mentre, ancora sghignazzando, mi sorpassava


per entrare nel suo studio come se niente fosse.. Ci misi un po’ a
chiudere la porta, e lo seguii per chiedere spiegazioni.

Presi posto di fronte a lui con i pugni lungo i fianchi e la mia


espressione più truce.

«È solo una mia impressione o lei ha un braccio rotto?»

Mi guardò senza abbandonare l’aria bonaria che iniziava veramente


a irritarmi.

«Frattura scomposta in tre punti, in verità.»

Spalancai gli occhi sperando che fosse un incubo e di svegliarmi


accasciata sulla mia scrivania con la bavetta alla bocca in piena
“pennichella pomeridiana”.

«Io davvero non capisco. Venerdì, quando l’ho chiamata per


avvertirla che stavo uscendo dall’ufficio, era tutto tranquillo. Mi vuole
spiegare quando è successa questa tragedia?»

Scoppiò a ridere facendo segno con la mano buona, come se stessi


esagerando. Lui stava minimizzando mentre io resistevo a stento
alla voglia di rompergli l’altro braccio.

«Sabato siamo andati con degli amici a fare una sciata e mi sono
fermato ai bordi della pista per rispondere al cellulare. Un ragazzo
con lo snowboard non mi ha visto e mi ha travolto, trascinandomi
con sé per un tratto. Ecco spiegato l’arcano.»

Ero davvero senza parole. Non so se mi desse più fastidio il fatto


che lui la riteneva una cosa da niente, oppure che per rispondere al
cellulare finiva sempre per fare danni.

Mi sedetti sulla sedia davanti alla sua scrivania mentre lui prendeva
posto all’altro lato. Decisi di tornare professionale e presi le redini
della situazione.

«Qui ci sono tutte le pratiche lavorate e chiuse in sua assenza, se ha


bisogno di un resoconto. Sono state comunque tutte già approvate e
protocollate dalla banca. La relazione di fine anno è già salvata sul
desktop del suo computer, deve solo rileggerla per dirmi se ci sono
correzioni da apportare. È arrivata la richiesta di conferma da Duff &
Phelps per la partecipazione al briefing di aggiornamento sulle
nuove piattaforme che saranno introdotte con il nuovo anno.»

Mi fermai un attimo realizzando anche il lato comico delle


circostanze.

«Sono proprio curiosa di vedere come farà a prendere appunti e a


seguire tutto il loro programma senza l’uso della mano destra.»

Mi sarei messa a ridere se non mi fossi accorta della sua


espressione compiaciuta. Iniziai a preoccuparmi. Sembrava avere
qualcosa in mente e sospettai che non mi sarebbe piaciuta per
niente.

«Non sarà necessario perché ho già parlato con la sede centrale


facendo cambiare tutte le prenotazioni, volo compreso, a suo
nome.»

«Come scusi?»

Sperai di aver capito male.


«Sarà lei a partire al mio posto per Londra e a seguire tutto il
programma. Comprendo bene che il poco preavviso potrebbe
metterla in difficoltà, ma sono pronto a pagare il volo e il
pernottamento anche per suo marito, in modo che lei non debba
viaggiare da sola.»

Restai stupita dalla nonchalance con cui dava per scontato che sarei
stata ben lieta di sostituirlo, poi, però, mi focalizzai sulle sue ultime
parole.

Con Riccardo avevamo parlato spesso di fare un viaggio a Londra.


Era un sogno che mi portavo dietro da tempo e ora sarebbe potuto
diventare realtà.

Mi alzai di scatto prendendo congedo dal mio capo. Andai di corsa


alla mia postazione a telefonare al Circolo dove lavorava Riccardo
per dargli la stupenda notizia.

Dopo numerosi squilli e la portineria che deviò la chiamata, avvertii


la voce del mio amore.
«Pronto, sono Riccardo.»

Era sempre buffo sentire il tono professionale che utilizzava a lavoro.


Lo prendevo sempre in giro perché sembrava una persona
completamente diversa da quella che conoscevo.

«Ciao tesoro.»

«Amore mio, che bella sorpresa. Non sei a lavoro? È successo


qualcosa?»
Era sempre così premuroso nei miei confronti che mi scioglieva il
cuore tutte le volte.
«In effetti ho una notiziona da darti.»

«Purtroppo anche io, ma non credo che la mia ti piacerà molto.»

Il suo tono di voce faceva già presumere l’evento funesto.


«Ho appena avuto una riunione con il Capo del Personale. Hanno
deciso di fare un torneo di Paddle tennis per Natale, una cosa per
beneficenza e, siccome ci saranno un bel po’ di nomi illustri, si
prevede una numerosa partecipazione quindi toccherà a tutti fare
turni doppi. A malapena per le feste potrò prendermi un giorno di
ferie per stare in famiglia.»

La mia gioia si spense come se qualcuno avesse buttato una


secchiata d’acqua gelata sulla mia schiena.
«Mi dispiace, amore, sai bene che non dipende da me. Tu cosa
volevi dirmi?»

«Il capo è tornato con il braccio destro rotto quindi fra due giorni
devo partire per Londra al suo posto per il meeting di cui ti avevo
parlato tempo fa. Mi aveva proposto il biglietto aereo e albergo
anche per te se volevamo, ma mi pare ormai ovvio che non potrai
accompagnarmi.»

Il suo tono di voce diventò distaccato.

«Quanto tempo devi stare fuori?»


«Ho il volo di ritorno la notte del 23 dicembre.»

Lo sentii tirare un sospiro profondo.

«Mi pare ovvio che non possiamo farci nulla.»


La pensavo perfettamente come lui, ma in quel momento cercai di
sdrammatizzare.

«Dai, il prossimo lo passeremo insieme a Londra. Promesso.»

«Promesso.»
Tornammo entrambi al nostro lavoro mentre comunicavo al capo
l’impossibilità di Riccardo di venire con me e iniziavo a preparare
tutto quello che avrei dovuto portare per le riunioni.

Quella sera, il ritorno a casa fu triste. Cercammo entrambi di fare


finta di nulla ma era, in effetti, la prima volta che ci dividevamo per
giorni da quando ci eravamo sposati e la cosa non ci piaceva per
niente.
Capitolo 2
8 Giorni a Natale – La partenza
Ero ferma di fronte al banco del metal detector mentre la fila
procedeva lentamente. Riccardo, da lontano, mi guardava con gli
occhioni da cucciolo che amavo tanto. Sarebbero stati giorni lunghi
ma volevo solo pensare che, tempo sei giorni, sarei tornata da lui.
Sarebbe stato talmente occupato con il lavoro da non avere molto
tempo per pensare alla tristezza, o almeno quella era la versione
che gli avevo rifilato cercando di convincere entrambi che i giorni
sarebbero volati.
Il volo fu breve, a malapena un’ora e mezza, e l’atterraggio con della
turbolenza dovuta al vento forte, non mi aiutò a farmi stare tranquilla.

Mi ritrovai nell’aeroporto di Heathrow a guardarmi intorno estasiata.


Le luminarie di Natale erano dappertutto e donavano all’aeroporto
un’atmosfera davvero surreale.
Su consiglio del capo, avevo portato solo pochi contanti con me poi
avrei potuto cambiare la valuta prelevando direttamente in aeroporto
con la carta di credito.

Il mio superiore era stato meticoloso a darmi indicazioni per non


trovarmi in difficoltà una volta atterrata. Lui era ormai pratico della
capitale londinese mentre per me era la prima volta e, solo l’idea di
avere a che fare con una valuta diversa dall’euro, mi atterriva. Ero
abituata a viaggiare in Europa quindi avrei dovuto stare attenta e
cercare di concentrami sui calcoli per sapere i prezzi delle cose e
soprattutto distinguere il valore di tutte quelle monetine che gli inglesi
si portavano tutti i giorni nel portafoglio.

Mi recai quindi al banco di cambio, uno dei tanti sulla corsia che
conduceva all’uscita dell’aeroporto e all’accesso alla metropolitana.

Sorrisi amabilmente all’inserviente non facendogli odorare la mia


paura di dire qualche strafalcione nel mio inglese. Carino, ma poco
utilizzato in terra italiana e decisamente fin troppo scolastico. Gli
passai la mia carta di credito chiedendo l’importo da cambiare.
Provò un paio di volte, ma il POS produsse sempre un rumoraccio,
segno di qualcosa di brutto. Scosse la testa.

Mi comunicò che l’operazione non era possibile e la paura ebbe il


sopravvento. Come avrei potuto cavarmela senza nemmeno una
sterlina? Poi, una breve fiammella di speranza si accese nella mia
mente. Mi ricordai di avere pochi contanti, l’equivalente di una
cinquantina di euro, così diedi all’omino i miei pochi averi e lui mi
restituì l’equivalente in valuta britannica.

Quando mi incamminai verso la metropolitana, il mio cervello


viaggiava alla velocità della luce producendo numeri a più non posso
per stimare cosa avrei potuto fare con quei pochi soldi che ero
riuscita a racimolare. Ma, soprattutto, come avrei fatto a cambiarne
altri se la mia carta di credito non voleva collaborare. E pensare che
prima di partire avevo anche controllato che tutto potesse funzionare
all’estero, e mi era stato assicurato di sì.

Mi fermai davanti alla fila delle casse automatiche ricordando che il


capo mi aveva raccomandato di fare la Oyster Card, in modo da
utilizzare i mezzi di trasporto senza dover pagare ogni volta il
biglietto. Al momento del pagamento, vidi i contanti lasciare il mio
esiguo fondo cassa ma cercai di non abbattermi ulteriormente. Ero a
Londra, una delle città che più sognavo di visitare da quando andavo
a scuola e non avrei lasciato che la situazione, per quanto disperata,
mi abbattesse del tutto.
Una volta fatta la card, accedetti alla metropolitana studiando
attentamente il tabellone delle fermate e di tutte le linee che la
componevano. Io avrei dovuto prendere la Piccadilly di colore blu.
Fortunatamente non dovevo nemmeno cambiare. Sarei poi scesa a
Earl’s Court e lì vicino avrei trovato il mio albergo. La cosa che
maggiormente mi rincuorava era che tutte le mie spese di
rappresentanza erano pagate; quindi, dall’indomani i pasti e il
pernottamento non sarebbero stati un problema. Restava il fatto che,
se mai avessi voluto fare qualcosa per conto mio, mi sarebbero
serviti altri soldi.

Cercai di rilassarmi mentre osservavo la campagna londinese


lasciare posto alla zona residenziale a mano a mano che ci
avvicinavamo al centro città. Il mio albergo non era in centro, ma da
lì avrei potuto fare delle belle passeggiate fra i giardini di Kensington
di cui ero rimasta innamorata fin dalla visione del film con Rupert
Everett.

Quando scesi alla fermata, mi resi conto della frenesia che


dominava la città pur essendo domenica. Alla stazione si fermavano
quattro diverse linee metropolitane e la gente andava e veniva di
continuo, senza sosta.

Nel momento in cui uscii su strada, l’atmosfera natalizia che mi


aveva stregata in aeroporto mi catturò completamente. Le strade
erano tutte piene di luminarie di ogni tipo e colore che donavano alle
strade un calore magico. Le vetrine dei negozi erano completamente
seminate di addobbi natalizi, e fuori da tutti i ristoranti e pub c’erano
lavagnette che ricordavano che Natale era ormai vicino.
Un senso di calore mi invase e riuscii a trovare un attimo di
tranquillità per mettermi alla ricerca dell’albergo.

Presi la traversa successiva alla stazione metropolitana e, proprio


come mi aveva descritto il capo, davanti a degli adorabili giardini in
perfetto stile londinese, trovai il mio piccolo albergo ad attendermi. Al
14 di Barkston Gardens, si trovava il Maranton Hotel House, una
costruzione in perfetto stile londinese rivestita in mattoncini rossi, su
quattro piani. Entrai e mi fermai alla reception dove una donna sulla
cinquantina, tutta sorrisi, attendeva che mi presentassi.

Espletammo le formalità del check-in, poi mi indicò dove avrei


trovato la mia camera. Salii la scala fino all’ultimo piano,
guardandomi intorno e meravigliandomi dell’arredamento classico e
dello stile architettonico della costruzione. Ogni piano ospitava
quattro camere. Un delizioso corridoio pavimentato da moquette
collegava le scale al piano successivo. Quando aprii la porta della
mia camera restai stupita di come fosse accogliente seppur senza
grandi fronzoli. Un letto con armadio che lo circondava, un comò con
sopra il televisore e l’immancabile set per fare il tè e un bagno con
tutto l’occorrente. Lascia il trolley e la borsa da lavoro in un angolo e
mi affacciai alla finestra. Il panorama era spettacolare. I giardini che
prima avevo intravisto sulla strada, adesso, mi apparivano in tutto il
loro splendore. La cura con cui erano tenuti e la presenza di
panchine al loro interno, mi riportò alla memoria subito le immagini
del film “Notting Hill” con Julia Roberts e Hugh Grant, tra l’altro
anch’esso uno dei miei preferiti. Avevo sempre amato Londra per
quel poco che avevo ammirato attraverso le pellicole
cinematografiche e ora viverlo in prima persona era
davvero…“Surreale ma bello”.

Dovevo, però, risolvere ancora il problema dei fondi quindi mi


cambiai e uscii di nuovo. Pensai prima di tutto di avvertire a casa per
far sapere che ero arrivata finalmente in albergo, così feci partire la
telefonata e subito la linea si interruppe. Provai nuovamente, ma
senza risultato.

Poteva andare peggio di così? Senza soldi e senza modo di


comunicare?

Mi fermai sulla strada principale e, visto che l’ora di pranzo era ormai
passata da un pezzo, decisi di affogare la mia disperazione in un
panino del Burger King che avevo visto passando per recarmi in
albergo.

Studiai per un attimo il menù, poi mi avvicinai alla cassa. Una


ragazza sorridente attendeva che ordinassi. Il cartellino riportava il
nome “Carmela” e mi sentii rincuorata di aver trovato un’italiana.
«Ciao, oltre all’ordinazione forse mi puoi aiutare.»

La ragazza mi sorrise, forse lesse la rassegnazione nella mia


espressione.
«Sono appena arrivata, ma ho provato a fare il bancomat e non sono
riuscita a cambiare la valuta. Ho provato a telefonare, ma il mio
cellulare purtroppo non funziona.»

Il suo sorriso si fece più comprensivo.


«Non ti preoccupare, purtroppo capita. Posso dirti che qui in città
abbiamo molti punti wi-fi free; quindi, se ti connetti alla rete puoi
effettuare telefonate via WhatsApp senza dover impazzire con la
linea. Per quanto riguarda il bancomat possiamo fare una prova
adesso per pagare e vediamo se funziona.»
Mi sentii più sollevata. Almeno la tragedia iniziale aveva preso tinte
meno disastrose.

Ordinai qualcosa da mangiare, anche se non avevo proprio molta


fame e le diedi il bancomat. Quando vidi che la transazione era
andata a buon fine mi venne quasi da piangere.

«Il bancomat funziona per il pagamento, quindi non ti preoccupare.


Qui in città sono tutti tenuti ad accettare la carta quindi questo
problema è risolto.»

Ringraziai Carmela che era appena diventata la mia migliore amica


londinese e mi gustai finalmente il panino, godendomi il primo
momento di tranquillità dopo tanto penare.
Quando uscii, il cielo era grigio, come d’abitudine a Londra e, ogni
tanto, un piccolo fiocco di neve scendeva ma senza nemmeno
attecchire a terra. Iniziai a camminare per prendere confidenza con
la zona e mi ricordai di non aver ancora avvertito a casa. Prima di
ritrovarmi tutta Scotland Yard alle costole, sguinzagliata dalla mia
famiglia, dovevo trovare un posto in cui potermi collegare a internet.

La mia passione per il caffè mi tornò utile. “Caffè Nero” ero uno dei
pochi bar in cui si poteva trovare l’espresso in perfetto stile italiano,
quindi, ordinai il mio adorato caffè e mi misi comoda a uno dei
tavolini. L’arredamento era adorabile, con piccoli tavolini adornati da
piantine, librerie un po’ ovunque e poltrone e divani sparsi in giro.
Sembrava di essere a casa, ero già completamente conquistata.

Una volta collegata, chiamai Riccardo in videochiamata. Quando vidi


la sua faccia sorridente, fu come ritornare a respirare. Gli raccontai
tutti i problemi avuti fino a quel momento e gli chiesi di non dire nulla
ai miei per non farli preoccupare inutilmente. La maggior parte dei
problemi era risolta e dal giorno dopo sarei stata in riunione quindi
decidemmo di sentirci la sera.

Una volta finite le chiamate mi rimisi in cammino senza sapere dove


mi stavo dirigendo, guidata dall’istinto. Nel momento in cui il letto del
fiume si palesò davanti ai miei occhi, mi sembrò di essere
catapultata in un’altra realtà. La sera stava calando e il panorama
con tutti i ponti in sequenza era mozzafiato. Mi voltai verso i
negozietti sul ciglio della strada e notai uno stranissimo bancomat.
Mi avvicinai e mi resi conto che c’era scritto che leggeva tutti i tipi di
carte e di tutti gli istituti bancari. Decisi di provare, alla fine non
avevo più nulla da perdere. Con mia grande sorpresa, finalmente,
riuscii a prelevare e presi abbastanza soldi da bastarmi per tutto il
soggiorno senza dovermi dirigere di nuovo in quel posto, anche
perché era abbastanza distante dall’albergo.

Finalmente potevo tirare un sospiro di sollievo e la stanchezza per


tutto quello che era successo, unita allo stress del viaggio, mi fece
sentire d’improvviso fiacca.

Decisi quindi di tornare indietro. Arrivai a London Victoria station e


presi di nuovo la linea blu Piccadilly per ritrovarmi a Earl’s Curt. Presi
qualcosa da mangiare da portare in camera e rientrai in albergo
ormai distrutta.
Mi addormentai quasi subito, sperando che il giorno dopo la sfiga
non tornasse a farmi visita.
Capitolo 3
Sette giorni a Natale - Primo giorno di
meeting
Quella mattina, appena aperti gli occhi, faticai un po’ a mettere a
fuoco dove mi trovassi. Ricordai, poi, tutto l’accaduto del giorno
prima e un profondo sospiro si levò rumoroso dalla mia bocca.

Quel giorno iniziava il meeting quindi sarei stata per gran parte della
giornata chiusa in un’aula a studiare e a cercare di capire tutto quello
che mi veniva spiegato. Sperai solo di aver ormai avuto la mia dose
di sfiga e che tutto sarebbe andato liscio come l’olio.

Mi cadde l’occhio sul cellulare che lampeggiava, così aprii


l’applicazione dei messaggi e il mio capo, con tante faccine
sorridenti, mi dava il buongiorno e si scusava per essersi dimenticato
di dirmi di prendere una scheda telefonica compatibile per far
funzionare il cellulare in Inghilterra.
«Grazie al …»

L’espressione colorita mi uscì spontanea, poi mi caricai di pazienza


e gli risposi. Gli insulti li lasciai liberi di vagare dentro la mia testa
mentre cercavo di scrivere da persona bene educata.
Misi a fuoco l’ora sul quadrante dell’orologio e lanciai un urlo così
potente da essere udito fino al battello del giro turistico sul Tamigi.

Ero in ritardo. Il meeting iniziava alle nove e mezza ed erano già le


nove meno venti. Dovevo ancora lavarmi, vestirmi e fare colazione,
per non parlare del fatto che poi avrei dovuto prendere la
metropolitana linea blu Piccadilly fino a Green Park e poi cambiare
sulla linea grigia Jubilee fino a London Bridge. La sede della Duff &
Phelps si trovava proprio accanto al mio ponte preferito di tutta
Londra, e sospettavo che fosse anche in uno di quei fabbricati tutti
specchi che sfidavano la gravità e si innalzavano oltre le nuvole del
cielo londinese.
Saltai giù dal letto, nel vero senso della parola, andando a sbattere
contro lo spigolo del comodino. Perfetto, avrò anche un bernoccolo
in testa questa mattina, quale modo migliore di presentarsi al primo
giorno di meeting.

Cercai di non pensare a nulla, coprii con il fondotinta, nel modo


migliore, il bozzo che già si stava creando sulla mia fronte. Indossai
uno dei tailleur che mi ero portata per sembrare professionale e in
fretta e furia mi diressi alla metropolitana, sperando di aver messo
tutto ciò che mi serviva nella borsa.
Fortunatamente la metropolitana londinese era di una precisione
spietata e arrivai in breve tempo alla sede, purtroppo, però, l’orologio
segnava le dieci e le porte erano chiuse. Provai a bussare con
delicatezza, poi la rabbia si impossessò di me.

«Ma insomma, è un corso. Vi pare il caso di chiudere la gente fuori


se ritarda? Non fate i bastardi, apritemi!»

Mentre sbraitavo in italiano, dimenticando del fatto che forse chi era
all’interno nemmeno capisse cosa stessi sproloquiando. Battei con
forza ripetutamente finché un colpo di tosse non mi fece bloccare sul
posto.
Mi voltai e mi ritrovai davanti un ragazzo alto, snello, con jeans e
maglioncino a V. Aveva un ciuffo di capelli non indifferente ma
addomesticato con maestria e una buona dose di lacca. Tratteneva
a stento una risata e la cosa mi irritò ancora di più.
«Mi dispiace, bello, anche se hai un bel faccino sei rimasto fuori pure
tu. Potresti provare a fare gli occhi dolci al portiere se lo vedi, magari
fai colpo. Con me non ha funzionato. Non si è vista anima viva, e io
sto quasi per buttare giù la porta. Porca miseria.»

Stavo facendo un monologo con me stessa, tanto non mi capiva.

«Grazie per il bel faccino, ma credo non ci sia nessuno perché


l’edificio apre fra mezz’ora.»

Avvertii il mio volto andare a fuoco fino alle orecchie. La sua era una
pronuncia perfetta, non stentata come uno straniero che sa qualche
parola di italiano. La prima figuraccia della giornata era stata appena
servita su un piatto d’argento.

Cercai di non far trapelare il mio sconcerto e mantenni il punto.

«Ma se il corso iniziava alle nove e mezza.»

Mi mostrò il suo orologio e, mentre rideva, rispose:

«Infatti, ora sono solo le nove.»

Si avvicinò al mio viso abbassando il tono di voce come per non farsi
sentire dalle altre persone, anche se lì c’eravamo solo noi due.

«Credo che tu abbia dimenticato di mettere l’orologio sul fuso orario


del Regno Unito.»
Quando guardai il quadrante del suo, ripercorsi tutte le vicissitudini
del giorno prima e mi resi conto che aveva ragione.
Ero stata così fagocitata dalla mia sfiga da non ricordare di rimettere
gli orologi.

Guardinga, studiai intorno a noi per controllare che nessun poliziotto


fosse accorso ad arrestare la pazza che cercava di buttare giù le
porte del palazzo a spallate.
Quando mi sentii abbastanza tranquilla, tirai un sospiro di sollievo e
mi rivolsi di nuovo al mio interlocutore.

«Mi sento una perfetta idiota. Perdonami per averti trattato in malo
modo, ma da quando sono atterrata ieri non c’è stato un solo
momento in cui sia filata per il verso giusto. Se avessi fatto tardi il
primo giorno di meeting avrei fatto bingo!»
Mi sorrise tranquillo, e io ricambiai. Mi porse la mano.

«Io comunque sono Rosario Paoli. Sono il geometra dello studio


Strategic Design di Firenze. Tu chi sei, terremoto?»

Sentii le guance avvampare per quel nomignolo, ma cercai di non


farlo notare.

«Sono Silvia Micheli, assistente tecnica del Geometra Cavilli di


Roma. Purtroppo, il mio capo ha deciso di rompersi un braccio
nemmeno una settimana fa e così ha obbligato me a prendere il suo
posto.»
Rosario si avvicinò guardandomi dritto negli occhi.

«Meno male, non credo che lui mi sarebbe stato così simpatico.»
Mi sentii a disagio per quella vicinanza così cercai di ritrarmi senza
dare troppo nell’occhio.

Nel frattempo, mi resi conto che il portiere del palazzo stava aprendo
le porte. Entrammo seguendo le indicazioni per la sala meeting e
prendemmo posto l’uno accanto all’altra, non troppo avanti e
nemmeno troppo indietro. Le postazioni avevano una sedia e una
specie di appoggio tipo tavolino. Sembrava un po’ di essere a
lezione in una facoltà universitaria.

Per ammazzare il tempo, estrassi dalla borsa il portatile con il block-


notes e la penna che mi ero portata per prendere appunti. Mi resi
conto che, accanto a ogni postazione, c’erano delle cuffie con
microfono e una serie di bottoni, oltre al vano dove infilare gli
auricolari.

Guardai per un attimo nella direzione di Rosario che stava


organizzando la sua postazione come me.

Anche lui aveva con sé il portatile e un quaderno che sembrava aver


passato giorni migliori, già abbastanza logorato dal tempo.
Notando il mio sconcerto si avvicinò così da non dover urlare per
tutta la sala.

«È la prima volta che partecipi a una cosa del genere?»


«All’estero sì. Di solito mi occupo di questi meeting in prima persona
per lo studio, ma solo quando sono in Italia. Sono io, d’altronde, a
fare poi i corsi di formazione per i nostri collaboratori.»

Notai una certa ammirazione nel suo sguardo e me ne compiacqui.


«Le cuffie vanno infilate lì, così puoi ascoltare la traduzione in
italiano di quello che diranno durante le lezioni. Non avrai pensato
che avremmo dovuto tradurre anche cosa dicevano?»

Mi resi conto che effettivamente avevo creduto proprio quello. Infatti,


ero stata restia fin da subito a partecipare proprio perché solo l’idea
di ascoltare lezioni in inglese per una settimana mi aveva atterrita.

Un rumore poco distante da noi mi fece rendere conto che la sala si


stava riempiendo. Cercai di riconoscere volti a me noti, ma mi resi
conto che dovevano essere tutti rappresentanti stranieri di studi
europei.

Accesi il pc, preparai la penna sul blocco e misi le cuffie, in attesa


che il relatore iniziasse la riunione.

Quando partì la prima frase, mi resi conto subito che c’era qualcosa
che non andava.
«Hej og velkommen til dette møde.»

Sbarrai gli occhi consapevole di non conoscere quella lingua. Provai


a premere i pulsanti di fronte a me, ma il volume si alzò di colpo
facendomi urlare etogliere in fretta le cuffie.

Quando alzai gli occhi, mi resi conto che tutta la sala, compreso il
relatore, mi stava fissando. Mormorai un “sorry” e cercai di sparire
sotto il tavolino di fronte a me.

Quando tutti smisero di guardarmi, una mano afferrò le mie cuffie,


schiacciò un paio di bottoni e poi me le porse di nuovo.

Le infilai piano per paura di perdere di nuovo l’uso del timpano e mi


resi conto che, finalmente, la voce alle mie orecchie parlava in
italiano e a un volume moderato.

Guardai verso Rosaio che mi fece l’occhiolino mentre io mimai con


le labbra un “Grazie”.

Quando, finalmente, alle cinque ci lasciarono andare, avevo così


tante nozioni che mi vorticavano nella testa che per un attimo mi
sembrò di vedere dei numeretti camminare sul palco, anzichè
guardare delle persone.

Fu la voce di Rosario a riportarmi di nuovo al presente.

«Era ora. Si potrebbero denunciare per sequestro di persona. Avessi


almeno capito la metà di quello che hanno detto.»

Il suo sorriso rassicuramente ebbe il potere di calmare un po’ il mio


mal di testa.

Il cellulare nella mia borsa vibrò e guardai subito cosa avevo


ricevuto.

C’erano diversi messaggi: alcuni del capo che mi chiedeva come


stesse andando e uno di Riccardo.

Sorrisi notando tutti i cuoricini ed emoticons che aveva usato per


ricordarmi che gli mancavo e che mi amava da impazzire. Mi dissi
mentalmente che mancavano pochi giorni e poi saremmo stati di
nuovo insieme.
«Andiamo a prenderci un caffè?»

Mi ricordai solo allora di Rosario e annuii mentre finivo di rispondere


al messaggo di Riccardo e inviavo uno sbrigativo “Tutto ok” al capo.
Per avermi messo in quella situazione, non meritava nulla di più.
Prendemmo posto in un pub poco distante dal palazzo del meeting e
si avvicinò un cameriere che sembrava un modello. Sorriso
smagliante, capelli biondi, occhi verdi e un fisico niente male.

Ordinammo due espressi e poi, appena si volse, mi uscì in


autonomatico un apprezzamento.
«Caspita, quello non dovrebbe fare il cameriere ma il modello!»

Non arrivò risposta da Rosario, così lo fissai mentre lui aveva occhi
solo per il lato B del cameriere. Mossi la mano davanti alla sua
faccia e sembrò risvegliarsi.

«Pianeta terra chiama Rosario!»

Lui scoppiò a ridere e poi indicò nella direzione in cui era sparito il
cameriere.
Stava per dire qualcosa quando squillò il mio telefono. Era Riccardo.

«Amore, finalmente. Come è andata la riunione? Io sto lavorando


come un pazzo e ancora ne ho di cose da fare.»

Stavo per rispondere quando Rosario mi bisbigliò che andava alla


toilette.
«Silvia con chi sei? Era un uomo, e per giunta italiano, quello che ho
sentito?»

Adesso sì che ero nei guai. Sebbene non avesse mai avuto ragione
di essere geloso, Riccardo tendeva a prendere subito fuoco quando
sapeva che un rappresentante dell’altro sesso era in mia compagnia.
L’esperienza con Antonio, alla fine, non gli aveva insegnato poi
molto.

Sospirai cercando di raccogliere tutta la pazienza che mi sarebbe


servita, poi provai a spiegare anche se sapevo che sarebbe stato
inutile.

«Ho conosciuto un collega, l’unico italiano di tutto il meeting.


Abbiamo da poco finito la prima lezione e siamo venuti a prenderci
un caffè.»

Silenzio.

Sinceramente non sapevo se preferissi il silenzio oppure una


sfuriata, seppur senza senso.

«Amore, stai tranquillo. Non devi preoccuparti di nulla.»

«Certo, scusa se ti ho disturbato. Ci sentiamo nei prossimi giorni.»

Il suo tono gelido mi fece intuire che non aveva capito proprio nulla.
Non feci in tempo a rispondere che aveva già riattaccato. Sapevo
che dovevo lasciarlo sbollire, così decisi che lo avrei richiamato il
giorno dopo sperando che fosse disposto ad ascoltarmi. Odiavo che
mi tenesse il muso quando non potevamo vederci e, soprattutto, per
una cosa che non esisteva.

Rosario prese di nuovo posto accanto a me e si rese subito conto


della mia espressione pensierosa.
«Problemi?»

Alzai le spalle non sapendo bene cosa raccontare. Non sapevo


ancora abbastanza di quel ragazzo per potermi aprire in confidenze.
Il cameriere figo portò gli espressi al nostro tavolo e mi resi conto
che indugiò con lo sguardo su Rosario per poi andarsene.

«Allora, assitente tecnica del Geometra Cavilli, da quanto tempo fai


questo lavoro?»

Il cambio di argomento mi rasserenò un po’ e iniziai a raccontare la


mia storia lavorativa a Rosario, da quando diversi anni prima, ancora
diciannovenne, ero entrata in quello studio come semplice
segretaria.
«Cavolo, secondo me ne sai molto più di me. Io ho aperto lo studio
cinque anni fa insieme ad altri colleghi, sia archietti che ingegneri. Ci
occupiamo un po’ di tutto, ma alla fine sono io quello che fa perizie di
vario genere. Quindi eccomi qui, a farmi torturare la settimana prima
di Natale. Meno male che ci sei tu, almeno ho una persona amica
con cui parlare.»

In quel momento, il tono gelido di Riccardo nei miei pensieri mi fece


rabbuiare.

«Rosario, tu sei molto simpatico e mi trovo davvero bene in tua


compagnia. Sinceramente, se non ci fossi stato tu credo che adesso
sarei in prigione per la scenetta di stamattina. C’è una cosa che
devo dirti però...»

Non ebbi il tempo di finire il discorso che lui parlò per me,
prendendomi la mano sinistra fra le sue.
«Sei sposata. Pensi che la fede non si noti o credi che io sia
talmente rimbambito da non averla messa a fuoco?»

Mi sentii una stupida. Non ero ancora abituata alla fede e non tenevo
mai in conto che la gente potesse notarla.
«Scusami, è da pochi mesi e non ci sono abituata.»

Mi strinse la mano che teneva ancora fra le sue, con fare


rassicurante.

«Tranquilla, non ti devi fare di questi problemi con me. Lo vedi quel
bel biondino laggiù?»
Indicò nella direzione del cameriere sexy che lo guardò facendogli
l’occhiolino.

«Silvia, sei adorabile e una ragazza davvero favolosa ma il mio tipo,


in verità, è proprio quello.»

Strabuzzai gli occhi mentre lui mi guardava facendomi l’occhiolino.


Scoppiammo a ridere tutti e due mentre il cameriere sexy tornava al
tavolo per lasciare il suo numero a Rosario.

In quel momento sentii di aver trovato un amico.

«Credo sia meglio tornare ai nostri hotel in modo da riposare. Se


tutte le lezioni saranno così, a Natale arriveremo morti.»

«Che linea di metro devi prendere? Io Jubilee e poi Picadilly. Sono a


Earl’s Curt.»
«Meraviglioso. Ho l’albergo a Kengsinton e la metropolitana la
prendo a Gloucester Road, quindi siamo a una fermata di distanza.
Potremmo andare insieme la mattina, così magari eviti di farti
arrestare.»

Gli assestai una gomitata sul fianco ridendo mentre ci avvicinavamo


all’entrata della metro.
Prendemmo posto a sedere e quando arrivammo alla stazione di
Green Park, cambiammo treno.

«Ti lascio il numero del mio cellulare così per qualsiasi cosa puoi
contattarmi.»

Memorizzai il contatto e poi lo salutai preparandomi per scendere


alla fermata successiva.
Quando uscii dalla metro, qualche fiocco di neve si posò a terra e
volsi lo sguardo verso il cielo. Era tutto bianco, compatto come non
lo avevo mai visto. Avrebbe potuto benissimo iniziare una tormenta
di neve, così mi apprestai a prendere qualcosa da asporto per cena
al negozio di alimentari poco distante dall’albergo e me ne tornai in
camera.

Quella giornata era iniziata in modo disastroso, ma fortunatamente


la vicinanza di Rosario aveva reso tutto più sopportabile.

Mandai un messaggio a Riccardo.

Sai bene che ti amo e non hai motivo di essere geloso. Nel mio
mondo ci sei solo tu, dovresti saperlo ormai. Ti amo da impazzire.

Non ricevetti risposta.

Quando mi sdraiai sul letto, finalmente in pigiama, mi resi conto di


essere stanca morta e, di lì a poco, piombai in un sonno profondo.
Capitolo 4
6 giorni a Natale – Secondo giorno di
meeting

La mattina seguente, mi svegliai allegra. Il pensiero di non dover


affrontare tutto da sola aveva reso quei giorni lontano da casa molto
meno pesanti.

Mi recai con calma nella sala ristorante e riuscii a gustarmi una


colazione degna di un re.
Quando uscii dall’albergo, per recarmi in metropolitana, mi resi conto
che la notte prima un po’ di nevischio aveva attecchito a terra.

Dimenticando il mio pessimo senso dell’equilibrio, mi avventurai per


la strada con le mie tacco dodici e, due metri più avanti, il mio
sedere fece la conoscenza dell’asfalto londinese.
Il risultato fu il trench completamente fradicio, così come i guanti e la
gonna. Maledissi la mia mania di sembrare professionale
ripromettendomi, quel pomeriggio, di trovare un negozio che
vendesse galosce. A costo di sembrare un palombaro, la mattina
dopo sarei andata al meeting vestita da Sampei. Tutto pur di non
ritrovarmi di nuovo inzuppata fino alle ginocchia nel nevischio
putrido.

Quando a Gloucester Road, Rosario entrò nella metropolitana,


scoppiò a ridere.
«Taci. Non dire nulla altrimenti ti metto le mani addosso.»
«Mmmh, interessante!»

Cercai di prenderlo a schiaffi, ma lui si scansò e io diedi una testata


alla barra per soreggersi.

«Ahia!»

Mi portai subito le mani alla testa e Rosario mi prese fra le sue


braccia cercando di vedere sefossi ferita.

«È tutta colpa tua!»


Sentii le sue mani ispezionarmi il cuoio capelluto, poi si staccò da
me per guardarmi negli occhi.

«Ehi, Kill Bill, per fortuna hai la testa dura. Sembri tutta intera.»
Lui sorrise mentre io mettevo il broncio.

Scendemmo alla fermata designata, poi ci recammo al solito pub.


Eravamo un po’ in anticipo così prendemmo un espresso e io
approfittai del bagno per mettermi in ordine.

Una volta preso posto a lezione, mi assicurai di aver impostato la


lingua giusta e il volume delle cuffie. Poi, iniziammo.

Alla pausa pranzo, tutti i giorni, veniva messo a nostra disposione un


servizio mensa gratuito dove poter prendere primi, secondi o
insalate. Fortunatamente non erano solo piatti tipici londinesi perché
la loro cucina non era mai stata la mia preferita.

Quando prendemmo posto al tavolo, mi guardai intorno vedendo


tantissimi tecnici stranieri, di età superiore alla nostra, molti
sembravano coetanei del mio capo. Noi eravamo gli unici italiani.
«Ho visto che guardavi le penne al pomodoro intensamente, come
mai hai ripiegato sull’insalata di tonno?»

Guardai il mio piatto che sicuramente era cento volte meno invitante
di una bella pasta.

«Non mi fido molto del metodo di cottura degli inglesi. Non voglio
sembrare altezzosa, ma fuori dall’Italia è raro trovare una pasta cotta
in modo giusto.»

«Non ci avevo pensato, ma devo dire che hai ragione. Qui ho


mangiato solo colla, le poche volte che mi sono azzardato ad
assaggiarla. Comunque, ieri sera ho trovato un localino carino. Ti ci
devo portare.»

«Ieri sera? Ma non eri stanco morto?»

Mi guardò alzando le sopracciglia con fare furbetto.

«Mi ha chiamato Maximilian, hai presente il cameriere sexy, così ci


siamo visti e...»

Misi le mani in avanti cercando di farlo smettere.

«Non voglio sapere nulla di ieri sera. Va bene. Una sera di queste,
se non sono troppo stanca, mi fai vedere questo locale.»

Guardai lo schermo del cellulare e vidi che Riccardo aveva letto da


ore il mio messaggio, ma non aveva risposto. Non potevo nemmeno
chiamarlo, dato che ero presa dal lavoro. Sperai che quella sera
mettesse da parte l’orgoglio e si facesse sentire.

«Problemi con il maritino?»


«Si chiama Riccardo. È un tesoro di uomo, ma geloso da morire. Ieri
ha sentito la tua voce e ha pensato chissà cosa. Non gli ho mai dato
modo di dubitare della nostra storia ma purtroppo quando sa che
sono insieme a un uomo, prende subito fuoco. Adesso devo
aspettare che gli passi, ma non so sinceramente quanto ci vorrà e mi
manca da impazzire.»
Rosario posò una mano sopra la mia.

«Dai, ora torniamo a studiare. Poi, quando abbiamo finito, facciamo


una bella seduta di shopping terapeutico che ne hai davvero
bisogno.»

Mi ricordai degli acquisti che mi ero prefissata di fare quella mattina,


così anuii soddisfatta.

Quando uscimmo da Harrods era praticamente ora di cena.


Avevamo perlustrato ogni piano e ogni scaffale, minuziosamente.
Alla fine, avevo trovato delle galoscette con il pelo all’interno,
davvero adorabili, un poncho color beige da poter utilizzare in caso
di pioggia, una borsa nella quale ci sarebbe stato anche il pc e,
dulcis in fundo, due paia di maglioncini caldi da abbinare ai jeans per
non dover più mettere il tailleur la mattina. Sarei stata professionale,
ma in modo pratico. Su insistenza di Rosario, avevo anche comprato
un paio di occhiali da sole con le lenti rosa, un modello calabrone
che, a detta sua, mi stavano da Dio. Quando mi ero guardata allo
specchio, avevo avuto la sensazione di essere l’ape Maia ma non
avevo avuto cuore di contraddirlo. Pensai che, al massimo, li avrei
sfoggiati per Carnevale.
Quando tornai in albergo con la mia cena da asporto, feci una lunga
doccia calda e rilassante che ebbe il potere di distendere i miei nervi,
ormai, sempre in allerta. Mi resi conto che non ero stanca come la
sera prima, quindi, cercai di controllare i risultati degli appunti presi,
in modo da ordinare i fogli che poi avrei dovuto portare in ufficio una
volta rientrata a casa.
Lo squillo del mio cellulare mi spaventò tanto che i fogli mi caddero a
terra sparpagliandosi, vanificando il lavoro fatto fino ad allora.

Non me la presi, però, appena vidi il nome sullo schermo. Forse le


ostilità erano finalmente terminate.

«Ciao, pulcino.»

Lo sentii ridacchiare dall’altra parte e il mio cuore battè come un


tamburo. Era sempre così. Riusciva ancora a farmi l’effetto del primo
giorno in cui ci eravamo conosciuti. Un suo sorriso, o una sua
parola, portava in cielo il mio cuore e il mio amore per lui cresceva.
«Ciao, amore mio. Allora, come si sta a Londra?»

«Uno schifo senza di te. Pensa che stamattina sono anche volata
per terra in mezzo alla neve.»

Scoppiò a ridere e io con lui.

«Ha nevicato lì? Qui piove da giorni, non se ne può più. Il fiume sta
salendo di livello e hanno già dato l’allerta meteo. Se dovesse
passare gli argini ci toccherà fare gli straoridnari.»
Storsi il naso pensandolo da solo e sempre più stanco.

«Ogni tanto fa del nevischio ma raramente attecchisce a terra. Io,


ovviamente, ho trovato l’unico pezzo gelato di tutto il marciapiede.»
Sentirlo ridere mi rasserenò.

«Comunque, ora che sei più tranquillo, posso dirti di aver conosciuto
l’unico italiano del meeting, oltre a me. Si chiama Rosario, è un
geometra di Firenze, ha più o meno la mia età e la sera esce con
Maximilian.»

Ridacchiai in silenzio aspettando che capisse le mie parole.


«Maximilian? Cioè lui è..?»

«Gay, esatto, e come sempre hai fatto una figuraccia a ingelosirti


senza motivo, ma ti perdono perché siamo distanti. Comunque, sono
contenta di averlo conosciuto almeno ho un amico. Oggi pomeriggio,
finita la lezione, mi ha portato a fare shopping. Praticamente è come
una miglire amica.»
Rise, di nuovo incredulo.

«Tu sei tutta pazza. Comunque salutamelo. Lo sai come sono fatto,
è più forte di me e non ti nascondo che ora mi sento più tranquillo.»

Scossi la testa sapendo perfettamente che il suo “tranquillo” era


molto relativo.

«Ora ti lascio, vado a fare la doccia e poi a dormire che sono


davvero lesso. Ti chiamo domani appena posso. Ti amo.»
«Buonanotte amore, ti amo anche io.»

Chiusi la comunicazione e mi sdraiai sul letto abbracciando il


cuscino. Non mi resi conto nemmeno quando mi addormentai.
Capitolo 5
5 giorni a natale – Terzo giorno di meeting
Il massimo del divertimento fu quando iniziarono i test per sondare
quanto avessimo capito delle lezioni seguite fino ad allora.

Io e Rosario eravamo troppo distanti per poter sbirciare uno sullo


schermo dell’altro, ma ci scambiavamo occhiate e risate cercando di
non farci vedere dai relatori sul palco.

Mi sembrava di essere tornata ai tempi della scuola e, ora che anche


Riccardo aveva accettato la mia amicizia con Rosario, potevo vivere
i giorni che mi rimanevano in modo più sereno.
Alla pausa pranzo, prendemmo dei toast e li portammo fuori visto il
climamite.

Il panorama sul Tamigi, con il Tower Bridge sullo sfondo, era


qualcosa di meraviglioso. Amavo quella città da sempre e riuscire a
viverla di persona era il sogno di una vita. Mi ripromisi che Riccardo
sarebbe venuto con me la prossima volta e lo avrei portato in giro ad
ammirare le bellezze di quella città senza tempo.

Mi voltai verso Rosario mentre addentava il suo toast.

«Sai cosa mi piacerebbe vedere? Il museo delle cere di Madame


Tussauds.»

Lo vidi riflettere.

«In effetti, non è la prima volta che vengo a Londra ma non ci sono
mai stato. Sono tante le statue che mi piacerebbe ammirare. Pensa
a come sarei bello in foto accanto a David Beckham.»
Scoppia a ridere davanti alla sua espressione estasiata.

«Deduco quindi che mi accompagnerai.»

«Assolutamente sì. Dobbiamo solo prendere la linea Jubilee fino a


Baker Street Station.»

Quando finalmente entrammo nel museo, quel pomeriggio,


sembravamo due bambini la mattina di Natale.
Feci una foto alla statua di Ed Sheeran da mandare a mia nipote che
ebbe quasi un infarto pensando che lo avessi incontrato per le vie di
Londra. Poi, presi posto accanto a Freddy Mercury, mio mito,
inneggiando al cielo nella sua stessa posizione mentre Rosario mi
faceva una foto. Lui, invece, si avvicinò con reverenzaa Madonna
per poi cercare di fare un duetto insieme a Michael Jackson.

A un certo punto, sentii Rosario imprecare e lo vidi mentre malediva


la statua di Victoria Beckham per essere troppo vicina al suo David e
di non poter fare quindi la foto da solo con lui.

Risi mentre immortalavo la scena con un video, che avrei usato per
ricattarlo a tempo debito.

Mi imbambolai davanti alle statue di Brad Pitt e Colin Firth mentre


Rosario si burlava di me. La foto accanto alla famiglia reale fu di rito,
immancabile. Elisabetta era davvero perfetta. D’altronde ormai era
così da secoli, anzi, forse la statua aveva più rughe dell’originale.
Mi dilettai in migliaia di foto con i James Bond schierati, apprezzando
soprattutto Sean Connery e Pierce Brosnan, i miei preferiti. Mi
inchinai davanti a Steven Spielberg mentre Rosario si sedeva a
tavola accanto a Audrey Hepburn, imitando anche la sua celebre
posa in Colazione da Tiffany.

Uscimmo stremati, dopo non so quante ore, ma felici come non mai.

Quella sera, prima di andare a letto, scaricai tutte le foto della


giornata, insieme a quelle che mi aveva mandato Rosario fatte con il
suo cellulare. Mi addormentai, ancora ridendo delle pose strane
prese da entrambi accanto ai nostri beniamini.
Capitolo 6
4 giorni a Natale - Quarto giorno di meeting
I risultati dei test furono positivi, fortunatamente. Mi ero sentita come
in attesa dell’esito all’esame di maturità. Rosario mi prendeva
costantemente in giro perché ero una perfettina che non voleva mai
sbagliare nulla.

Mancavano le ultime due lezioni e si sarebbero svolte solo in


sessioni mattutine, quindi avremmo avuto il pomeriggio libero.

Mi divertii a fare due passi a Trafalgar Square. Avevo proprio


bisogno di andare a salutare l’ammiraglio Nelson e dare un’occhiata
al museo d’arte della National Gallery.
Rosario era impegnato con Maximilian. Le cose sembravano andare
a gonfie vele fra loro, e quella sera mi avrebbero portata nel famoso
localino del loro primo appuntamento.

Finita la mia visita al museo, mi sedetti in uno dei tavolini di “Caffè


Nero” che ormai era diventata la mia seconda casa. Mi collegai al
loro wi-fi e provai a chiamare i miei genitori.

Era strano sentire le loro voci mentre sorseggiavo il mio amato


espresso e contemplavo la piazza. Provai anche a chiamare
Riccardo che mi parlò per poco tempo, sempre troppo preso dal
lavoro.

In preda alla malinconia mi sedetti sui gradini della National Gallery


poi, però, mi resi conto di aver bisogno di camminare. Presi a
passeggiare fino ad arrivare alla riva del Tamigi. Anche quel giorno il
cielo era grigio, ma non minacciava pioggia. Sembrava il cielo di
ordinanza di Londra, per certi versi.

Io, però, sentivo una tristezza profonda dentro. Aver chiacchierato


con i miei genitori mi aveva fatto venire voglia di tornare a casa.
Ormai erano giorni che con Riccardo non riuscivamo a parlare per
più di dieci minuti. Eravamo entrambi stanchi, presi dal lavoro e dalla
nostalgia.

Quando alzai gli occhi dalla riva, mi resi conto che, sulla riva
opposta, c’era il London Eye. Era tutto illuminato anche se ancora
non si vedeva bene perché non era scena al sera.

Percorsi Victoria Embankment fino al Big Ben. In quel momento, il


rintocco delle cinque mi fece sobbalzare. Mi conveniva tornare in
albergo in modo da avere tutto il tempo di prepararmi per la serata. I
ragazzi sarebbero passati a prendermi direttamente all’hotel con la
macchina di Maximilian. Attraversai Westminster Bridge e poi mi
voltai per ammirare il panorama. Era lo scorcio di Londra che
preferivo: il Big Ben accanto all’Abbazia di Westminster con, di fronte
a me, il London Eye.

Alzai lo sguardo fino alla cima dell’imponente ruota panoramica e mi


chiesi come sarebbe stato, di sera, ammirare il panorama da lassù.
Un senso di vertigine fece capolino prepotente al solo pensiero di
salire su quella macchina infernale con quelle gabbiette e le vetrate
trasparenti. Fotografai un po’ in giro insieme a un’dorabile
riproduzione del London Eye fatta con delle giganti palle perl’albero
di Natale.
Il mio cellulare squillò e il numero di Rosario apparve sullo schermo.
«Ciao, straniero. Finito di pomiciare con il cameriere sexy?»

La sua risata mi perforò i timpani.

«Ciao terremoto, tu hai finito di fare la turista in giro per la


metropoli?»

Mi guardai intorno ammirando di nuovo i monumenti.

«Sono al London Eye, sto per prendere la metropolitana per tornare


in albergo.»

«Perfetto. Passiamo a prenderti alle otto. Fatti trovare pronta, mi


raccomando.»

Gli feci una pernacchia e attaccai.

Quando entrai in metropolitana, il pavimento era bagnato ma non me


ne curai fecendo il primo passo falso.

Sul pavimento di gomma, sentii i miei stivaletti slittare. Cercai un


appiglio per non scivolare a terra, ma davanti avevo solo il tornello.
Cercai di passare al volo la tessera per farlo aprire, ma non fui così
fortunata. La mia faccia si scontrò con il vetro del tornello chiuso e
mi spalmai sul pavimento.

Avvertii subito un capannello di gente intorno a me che mi chiedeva


se stessi bene e passai dieci minuti buoni a ripetere “I’m okay”,
mentre cercavo disperatamente di rimettermi in piedi per poter
passare il tornello e sparire dai loro occhi.

Percorsi il corridoio che portava ai treni e iniziai a sentire il rumore


del mezzo che stava arrivando, così mi misi a correre. Entrai nel
vagone al volo e mi sedetti, tirando un sospiro di sollievo. Quando mi
tranquillizzai, mi resi conto che mi trovavo nella corsia sbagliata.
Scoraggiata, scesi alla prima fermata per passare dall’altro lato e
aspettare il treno giusto.
Quando, molto dopo, arrivai in albergo, ero ormai in preda
all’esaurimento.

Mi accorsi solo in quel momento di avere un messaggio di Rosario


sul cellulare.
Quasi dimenticavo. Vestiti pesante, pratica e casual.

La marea di emoticon che ridevano in coda al messaggio mi fece


preoccupare ancora più di quello che c’era scritto.

Fin dall’inizio avevo creduto che saremmo andati a ballare, ora,


invece, non capivo più nulla.

Feci comunque come diceva senza fare domande e, quando i


ragazzi arrivarono all’albergo, io ero già pronta nella hall.
Nel tragitto, per la prima volta, ebbi la possibilità di ammirare Londra
di notte illuminata ovunque con le luminarie natalizie. Era davvero
magica e rimpiansi che Riccardo non fosse accanto a me. Scattai
tante foto per potergliele far vedere quando sarei tornata a casa.

Nel momento in cui Maximilian parcheggiò accanto all’ingresso di


Tower of London, ebbi difficoltà a capire cosa facevamo lì.
Sorpassati i giardini, una meravigliosa pista di pattinaggio apparì
davanti ai nostri occhi illuminata da mille luci di tutti i colori.

«Oh mio dio!»

Il panico si impossessò di me.


«Yes, darling. It’s wonderful!»
Maximilian aveva completamente frainteso la mia espressione. Non
ero estasiata, ma atterrita. Possibile che Rosario non aveva tenuto
conto del fatto che riuscissi a malapena a restare in piedi su delle
scarpe normalissime? Mettere dei pattini ai piedi, soprattutto con
delle lame taglienti, non era proprio consigliato per chi aveva grossi
problemi di coordinazione come me.
Rosario si avvicinò cercando di tranquillizzarmi.

«Tranquilla terremoto, ci saremo noi con te in pista. I tuoi angeli


custodi.»

Non aspettarono nemmeno che rispondessi e si incamminarono


verso il punto dove si noleggiavano i pattini.

Mi guardai intorno deliziandomi dell’atmosfera meravigliosa e


suggestiva che la serata, le luci, il castello e il Tamigi sullo sfondo
rendevano davvero magica.
Mi rassegnai all’idea che quei due non si sarebbero arresi, e presi i
pattini per sedermi su una panca e indossarli.

Nel momento in cui mi misi eretta, e lasciai il bordo della pista,


avvertii i piedi andare in avanti da soli così decisi di spostare il
baricentro per non cadere, ma il risultato fu che tornarono indietro e
rischiai di sbattere di faccia sul ghiaccio. In quel momento, le mie
braccia furono afferrate e mi trovai finalmente dritta. Rosario e
Maximilian mi avevano afferrato un braccio ciascuno e prendemmo
un ritmo costante. Mi lasciai trasportare mentre mi godevo la
splendida sensazione del vento gelido che mi sferzava il viso.
Guardai il panorama che vorticava intorno a me e le luci farsi un
fascio multicolore.
Quando la serata finì, mi sentivo come una bambina che aveva
esaudito un grande desiderio. Il problema era sempre lo stesso. Mi
stavo godendo tutto questo senza Riccardo.

Gli scrissi che lo amavo da morire e mi mancava immensamente, e


mi addormentai abbracciando il cuscino, sperando che gli ultimi
giorni volassero.

Capitolo 7
3 giorni a Natale - Quinto giorno di meeting
L’ultimo giorno di meeting lo passammo a ritirare tutte le dispense
che erano state spiegate nel corso dei giorni precedenti. Ci fornirono
molto materiale informatico, e misi tutto insieme al portatile. Al
ritorno in ufficio mi sarei preoccupata di predisporre i corsi di
aggiornamento per i nostri tecnici.
«Stavo pensando a una cosa.»

Rosario, accanto a me, faceva ordine nelle sue dispense.


«Potrei passare a trovarti, magari con l’anno nuovo.»

Non avevo pensato al dopo. Non avevo preso minimamente in


considerazione che il giorno dopo lui sarebbe tornato a Firenze e io
a Roma, le nostre strade si sarebbero divise. Non avrei avuto più la
sua presenza costante nelle mie giornate. Il lavoro ci avrebbe
assorbito di nuovo fino a farci dimenticare l’uno dell’altra.

«Sinceramente, non ci avevo proprio pensato.»


Rosario mi guardò sorridendo, poi mi diede un biglietto da visita.
«Qui ci sono i miei numeri. A me piacerebbe continuare a sentirci e a
frequentarci. Non dirmi che Riccardo ancora non si fida.»

Guardai il bigliettino con le lacrime agli occhi.

«Non è quello il problema...»


Mi mancò il fiato e mi sedetti mentre lui si avvicinava preoccupato.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?»

Scossi la testa cercando di spiegarmi.

«No, sei perfetto e mi mancherai davvero un casino. Se non ci fossi


stato tu credo che sarebbe stato tutto un vero inferno. Il problema
non è questo né Riccardo. Mi rattrista pensare che non ci vedremo
più e presto tu ti dimenticherai di me.»

Mi prese il viso fra le mani e mi asciugò le lacrime con i pollici.

«Io non mi dimenticherò di te, terremoto!»

Il nomignolo con cui ormai mi chiamava mi strappò un sorriso.

«Perché sei convinta che non ci vedremo più?»

Scossi la testa sentendomi una cretina.

«Io sono un’assistente, tu sei il titolare di uno studio. Non ci sarà mai
modo di frequentarci, nemmeno per lavoro. Non sono io che
comando in studio.»

Mi guardò capendo finalmente quale fosse la mia preoccupazione.


«Ehi, troveremo il modo tranquilla. Non ti libererai facilmente di me.»

Lo abbracciai, poi mi scansai per asciugarmi le lacrime e riprendere


il lavoro.
All’ora di pranzo, eravamo finalmente liberi.
«Hai preso i regali per i tuoi cari?»

«Sì, devo solo infilare tutto in valigia e sperare di non superare il


peso massimo per l’imbarco. A che ora hai il volo domani?»
«Alle quatttro e mezza ma non vado a Firenze. Per quella data non
c’erano voli diretti così arrivo a Pisa, poi prenderò il treno. Tu a che
ora hai il volo?»

Feci mente locale.

«Alle nove e mezza, e spero proprio che sia puntuale perché non ho
nessuna voglia di far aspettare Riccardo che sicuramente sarà
all’aeroporto a prendermi.»

Uscimmo dalla sede finalmente liberi. Decidemmo di portare tutto in


albergo perché ci avevano rilasciato anche la documentazione che
attestava la partecipazione al meeting. Ci saremmo rivisti un’ora
dopo per le ultime spese prima di salutarci, per poi partire il giorno
successivo.

La giornata passò così in fretta che la sera non avevamo il coraggio


di dividerci.

Rosario mi accompagnò fino all’albergo e mi abbracciò forte con la


promessa di sentirci l’indomani per un ultimo saluto.
Quando fui di nuovo in camera, piansi come una fontana.

Quando Riccardo mi chiamò, mi trovò in uno stato pietoso.

Gli raccontai tutto e lui aspettò che mi fossi calmata prima di darmi la
buonanotte.
Presi sonno molto tardi e restai in un dormiveglia agitato per il resto
della nottata.
Capitolo 8
2 giorni a Natale – Ritorno a casa
Finalmente il giorno della partenza era arrivato. Quella sera, sarei
stata di nuovo fra le braccia di Riccardo. Eravamo rimasti d’accordo
che ci saremmo sentiti più tardi in modo da potergli confermare
l’orario del volo.

Con calma, raccolsi gli ultimi oggetti in giro per la stanza e controllai
ovunque per non dimenticare nulla. Chiusi la valigia, poi scesi a fare
colazione. Passai per la hall a ritirare le ricevute ed effettuare il
check-out. Una volta per strada, mi concessi di prendermela con
calma. Pranzai da McDonald e poi presi la metropolitana per
Heatrow. Sarei rimasta in aeroporto, in fondo era pieno di negozi
quindi il tempo sarebbe passato comunque velocemente.

Nel momento in cui dalle scale mobili arrivai alla zona dedicata al
duty free, e tutti gli altri negozi, restai imbambolata. Dovevo rendere
atto ai londinesi che avevano uno spiccato senso natalizio. Le
luminarie erano gigantesche e illuminate, coprivano gran parte della
superficie dei soffitti, delle pareti dei negozi e degli spazi comuni
dell’aeroporto.
Prima di tutto, mi recai da Starbucks a prendere un espresso anche
se non era quello di “Caffè Nero”. Mi divertii a guardare i tizi strani
che entravano nel ristorante di Gordon Ramsay e poi iniziai a girare
per le vetrine. C’erano davvero tutte le marche e articoli di vario
genere. Quando arrivai al finestrone che dava sulle piste, mi resi
conto che stava nevicando. Sperai che non fosse un problema per il
volo e controllai gli schermi giganti poco distanti dalla mia testa.
Erano le otto. Mancava un’ora e mezza al mio volo e, al momento,
sembrava che tutte le partenze fossero confermate.

Trovai la postazione dotata di porta usb e misi in carica il cellulare


mentre collegavo il portatile per guardare un po’ di notizie.

Quando aprii la pagina del meteo, a grandi lettere sulla prima


pagina, c’era scritto: “Anticiclone diretto verso la Gran Bretagna”. Un
brivido mi percorse la schiena mentre cercavo di scorgere fuori dai
finestroni.

La neve sembrava aver iniziato a scendere copiosamente e, a terra,


si era già creato un discreto cumulo. Chiusi gli occhi sconfortata, non
avendo il coraggio di guardare gli schermi.

Aprii un solo occhio, come se quello potesse cambiare la situazione,


e tutte le scritte lampeggiarono. Per assurdo, sembrava un albero di
Natale. Su tutti i voli c’era scritto: “DELAYED”. In teoria, voleva dire
che al momento erano solo ritardati e non cancellati ma non nutrivo
grandi speranze che avrebbe immediatamente smesso di nevicare e
i cumuli a terra si sarebbero sciolti in men che non si dica.
Sospirai pesantemente e poi avviai la telefonata con Riccardo.

«Amore mio, tutto ok? Io sono già arrivato in aeroporto.»


Sentii la sua gioia trapelare dalle sue parole e mi sentii davvero male
a doverlo deludere.

«Ciao amore, purtroppo ha iniziato a nevicare tanto e al momento


tutti i voli sono ritardati. Non ti so dire altro, anche se non credo di
partire per come vedo ridotte le piste.»
«Cavolo, non ci voleva proprio. Allora aggiornami quando ti dicono
qualcosa.»

Restai un po’ stranita quando sentii che il suo tono di voce non
sembrava poi così deluso, ma cercai di non farci molto caso.

«Va bene. Ti chiamo appena so qualcosa.»

«Certamente. Se vedi che il mio cellulare non prende è probabile


che sia colpa del brutto tempo. Qui sta piovendo moltissimo.»

Ci salutammo e mi rimisi comoda, in attesa di qualche


aggiornamento.

All’orario concordato per la partenza, mi recai comunque al banco


informazioni della compagnia aerea per sapere qualche novità. Mi
dissero che ancora non c’erano novità e mi rimisi seduta.

Il cellulare squillò. Era Rosario.

«Ciao terremoto, ti manco già? Ti sei già imbarcata? Tutto ok?»

«Ma quando mai! Sta nevicando come un disperato e non c’è modo
di partire al momento.»

«Porca miseria. Ad averlo saputo prima sarei rimasto a farti


compagnia, almeno non passavi tutte queste ore da sola.»

«Tranquillo, ormai sono rassegnata. Farò un altro giro di shopping e


poi vedremo.»

«Aggiornami quando sai qualcosa.»

«Ok. Baci.»

Entrai nel settore profumeria del duty free cercando di ammazzare il


tempo. Ero così concentrata su delle matite per le labbra che non mi
resi conto di urtare una montagna di scatole, fortunatamente vuote.
Cercai di riprenderle al volo col risultato di sparpagliarle per tutto il
corridoio in cui mi trovavo.
La commessa apparve e mi guardò malissimo mentre cercavo di
sorriderle e scusarmi. Mi dileguai il più in fretta possibile senza poter
fare a meno di sbattere contro altre scatole strada facendo. Ero certa
che il giorno dopo avrebbero appeso la mia foto all’ingresso con
scritto sotto: “Io non posso entrare”.

Mi guardai intorno cercando un negozio dove non ci fossero oggetti


fragili o pericolosi, così mi diressi verso Flying Tiger. Era il mio
negozio preferito, e mi persi completamente in mezzo agli oggetti più
adorabili e inutili sulla faccia della terra.

Quando tornai nella sala centrale, mi diressi di nuovo al banco


informazioni. Mi dissero che purtroppo il volo era stato cancellato e
avrebbero provato a spostarlo al giorno successivo, quindi mi
offrirono una camera nell’albergo a pochi metri dall’aeroporto
oppure la sala vip della compagnia dove avrei potuto rimanere in
tranquillità.

Optai per la sala vip perché non avevo voglia di lasciare l’aeroporto
e poi, una volta sistemata al caldo, in una poltrona abbastanza
comoda, cercai di parlare con Riccardo. Il suo cellulare risultava non
raggiungibile così decisi di lasciargli un messaggio vocale.

Ciao amore. Purtroppo hanno confermato di aver cancellato il volo.


Se ne riparla domani mattina se la situazione metereologica lo
permette. Io resto qui in aeroporto, mi hanno dato un bel posticino
caldo e comodo nella saletta vip. Tu torna a casa, è inutile che resti lì
ad aspettarmi. Ti amo tanto e non vedo l’ora di tornare a casa.
Pensai che la mia sfiga non aveva davvero confini.

Mi misi comoda e iniziai a leggere dal mio ebook senza rendermi


conto di satr scivolando in un sonno profondo.
Capitolo 9
1 giorno a Natale – Secondo tentativo di
ritorno a casa
La vigilia di Natale più triste della mia vita. Mi sveglia con i rumori
dell’aeroporto che pian, piano riprendeva vita. Mi diressi ai bagni e
mi diedi una rinfrescata, poi mi cambiai e tornai al banco
informazioni della compagnia. Mi dissero che ancora non avevano
novità e cercai di sbirciare fuori dalle finestre. Il panorama era
completamente bianco. Il cielo e il terreno sembravano un tutt’uno.
Aveva smesso di nevicare ma la quantità di neve a terra era
sufficiente a non riuscire a far decollare e atterrare gli aerei.
Appoggiai la fronte sul vetro gelato cercando di far passare lo
sconforto, ma non sapevo più dove prendere la pazienza che mi
serviva per non scoppiare a piangere.

Provai a chiamare Riccardo, ma risultava ancora non raggiungibile.


Era strano che non avesse nemmeno sentito il mio precedente
messaggio. Gliene lasciai comunque un altro.
Ciao amore, ancora non ci sono aggiornamenti. Ti avverto appena
so qualcosa. Ti amo.

Mandai poi un messaggio ai miei e a Rosario in modo che nessuno


pensasse che fossi sparita.
All’ora di pranzo, mi dissero che le operazioni di pulizia delle piste si
stavano protraendo più del dovuto ma c’erano buone possibilità che
entro sera si potesse partire. Almeno il giorno di Natale sarei stata a
casa.
Mi ero messa l’anima in pace, sapevo che fino a sera non ci
sarebbero state comunicazioni, così presi posto davanti ai finestroni
e mi persi ammirando il panorama.
I miei pensieri vorticavano veloci e la cosa che più mi dava fastidio
era non riuscire a contattare Riccardo. Riprovai per l’ennesima volta,
ma senza risultato. Stavo iniziando a preoccuparmi, ma non potevo
nemmeno sentire qualcun’altro altrimenti avrei allarmato tutti, magari
senza motivo.

Verso le sei di sera, il buio calò di nuovo fuori dai finestroni e le


luminarie iniziarono a lampeggiare riflettendosi sui vetri.

Stavo per alzarmi dalla poltroncina quando un moto di stizza ebbe la


meglio. Estrassi il cellulare dalla tasca con foga e provai a chiamare
Riccardo. Il cellulare finalmente squillò e come sentii la sua voce,
urlai per il nervoso accumulato in attesa di notizie.

«Ma che cavolo di fine hai fatto? È da ieri sera che ti cerco! Si può
sapere dove sei?»

In quel momento, una rosa rossa apparve davanti ai miei occhi e


una voce dolce mi disse semplicemente: “Qui”.

Mi voltai di scatto trovando Riccardo di fronte a me. Era spettinato


con l’aria di chi non dormiva da un po’. Portava la barba lunga, i
vestiti tutti arruffati e un adorabile sorriso sul volto.

Le lacrime fecero subito capolino.

«Dimmi che non sto sognando!»

Si avvicinò e mi strinse a sé mentre io scoppiavo a piangere.


«Ho passato la settimana peggiore della mia vita senza di te e non
volevo che trascorresse un altro minuto senza averti accanto.»

Si scostò da me e mi guardò negli occhi mentre mi asciugava le


lacrime.

«Tu sei tutta la mia vita e io non posso stare senza di te. Mi manca
l’aria quando non ci sei.»
Continuavo a piangere mentre lui cercava di calmarmi. Erano
finalmente lacrime di gioia. Mi ero sentita così sola senza poterlo
sentire che ora il mio cuore stava scoppiando di gioia.

Lo strinsi nuovamente a me e in quel momento annunciarono che i


voli sarebbero ripresi, quindi di recarsi ai banchi informazione. Lo
guardai perplessa.

«Come hai fatto ad arrivare se i voli erano sospesi?»

Mi sorrise con aria furba.

«Quando mi hai detto che aveva iniziato a nevicare mi sono


mosso subito: treno Roma-Londra. Qualche ora di viaggio, due
cambi, ma ti giuro che lo rifarei ogni giorno se la ricompensa fossi tu
accanto a me.»

Lo abbracciai di slancio e lo strinsi forte a me.

«Grazie per essere qui. Grazie per essere l’uomo meraviglioso che
sei e per aver scelto me.»

Si avvicinò al mio viso e mi sussurrò un dolce “Ti amo” mentre mi


baciava lentamente.
Mi sentii di nuovo completa. Adesso sì che la mia orbita era tornata
a girare sull’asse giusta. Era lui il mio tutto e nulla aveva senso se
non era con me.
Imprigionai quel ricordo nei tanti che componevano la nostra vita
insieme sperando un giorno di poterlo raccontare ai posteri, magari
dopo cinquant’anni di matrimonio.

Sapevo bene di essere un disastro, di avere mille difetti, un carattere


davvero spigoloso, di non essere semplice da gestire, ma sapevo
anche di essere una donna fortunata che aveva accanto a sé un
uomo che l’amava per quello che era. Senza fronzoli e senza
trucchi,semplicemente me. L’Aliena.
Ringraziamenti
Questa è una piccola chicca che non sapevo nemmeno di poter
realizzare. Ringrazio Asia per avermi spronato a scriverla perché, in
effetti, ne avevo bisogno. Sono stati due anni e mezzo davvero brutti
e la scrittura mi è mancata molto. Spero che la semplicità e la
simpatia di Silvia vi abbia conquistato come ha fatto con me, fin dal
primo momento.

Spero sempre che questa piccola guerriera possa essere da monito


a chi pensa che la perfezione sia il canone di rigore per vivere in
questo mondo.
Sbagliate, arrabbiatevi, fatevi sentire, ma non accontentatevi mai.
Siate sempre voi stessi, perché qualcuno ama proprio la vostra
semplicità.

A presto,

Emma

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